Gadda
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Biblioteca Universale 486

SCRITTORI ITALIANI Serie diretta da Francesco Bruni

e Marco Santagata

VOLUMI

PUBBLICATI

Petrarca

di Vinicio Pacca Gadda di Aldo Pecoraro VOLUMI

DI PROSSIMA

Calvino di Silvio Perrella Tasso di Guido Baldassarri

Ariosto di Riccardo Bruscagli

Pirandello di Romano Luperini

PUBBLICAZIONE

Aldo Pecoraro ra

Gadda

€ EditoriLaterza

© 1998, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1998

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel giugno 1998 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-5558-9 ISBN 88-420-5558-1

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata,

compresa la fotocopia, anche

ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

Gadda letterato, Gadda ingegnere, Gadda filosofo: è difficile inseguire uno scrittore così poliedrico, appassionato esploratore

dei più vari campi dello scibile, dalla chimica alla biologia, dalla psicologia alla storia, sperimentatore tanto incontentabile nell’universo della scrittura da lasciare per decenni nei cassetti pagine di altissimo valore o addirittura capolavori della letteratura (non solo italiana) del Novecento. Scrittore presto conosciuto dai letterati e dai critici — è amico sin dagli anni Trenta di Eugenio Montale e di Gianfranco Contini —, conosce la fama con l’edizione in volume del Pasticciaccio

del 1957, ma la complessità della scrittura tende più a renderlo celebre che a farlo leggere. Dopo le prime pubblicazioni (fra cui, nel 1927, l’Apologia manzoniana) sulla rivista «Solaria», i primi libri sono La Madonna dei filosofi (1931) e Il castello di Udine

(1934). Fra il 1938 e il 1941 compare a puntate sulla rivista «Letteratura» La cognizione del dolore, ma la pubblicazione resta so-

spesa. Del 1939 sono, oltre che numerose favole su riviste diverse, le prose giornalistiche delle Meraviglie d’Italia, a cui seguiranno nel 1943 quelle raccolte sotto il titolo Gl anni. Nel 1944 compaiono i racconti milanesi dell’ Ada/gisa. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è pubblicato incompiuto in cinque puntate sulla rivista «Letteratura» nel 1946. Del 1953 è la raccolta di racconti, risalenti in parte agli anni Trenta e VII

alla fine degli anni Venti, dal titolo Novelle dal Ducato in fiamme; una nuova edizione, pubblicata nel 1963 con il titolo I racconti. Gli accoppiamenti giudiziosi, aggiunge cinque nuovi testi, tra cui due

frammenti della Cognizione, ai quattordici precedenti. Nel 1958 esce una raccolta di saggi intitolata I viaggi la morte. Il 1963 è l’anno della pubblicazione in volume dei sette tratti della Cognizione comparsi su rivista più di vent'anni prima: altri due #r4/27 inediti compariranno nel 1969 in traduzione inglese e l’anno dopo nel testo originario. La pubblicazione in volume di Eros e Priapo è del 1967, ma diverse parti erano già comparse a puntate sulla rivista «Officina» tra il 1955 e il 1956 in una redazione anteriore col tito-

lo I/ libro delle furie.

La storia editoriale di Gadda continua largamente dopo la morte. Nel 1974 è pubblicata, a cura di Gian Carlo Roscioni, la

Meditazione milanese, opera filosofica incompiuta risalente al 1928. Nel 1983 è pubblicato, a cura di Dante Isella, l’incompiu-

to Racconto italiano di ignoto del Novecento. Negli anni Ottanta escono diversi volumi di lettere: a Ugo Betti, a Bonaventura Tecchi, a Gianfranco Contini, agli amici milanesi, alla sorella, a una

Gentile Signora. Dei primi anni Novanta è la pubblicazione del nucleo più segreto degli scritti militari. L'edizione di Tutte le opere (cinque volumi più un volumetto con la bibliografia delle pubblicazioni dello scrittore e gli indici) nella collezione garzantiana «I libri della Spiga» riporta inediti, scritti difficilmente reperibili, l'edizione filologicamente attendibile del romanzo incompiuto La meccanica e di altri testi oltre che ricchi apparati critici. I saggi critici di Gianfranco Contini, ora raccolti in Contini 1989, segnano momenti fondamentali per l’inquadramento critico dell’opera di Gadda: il saggio Carlo Emilio Gadda, 0 del ‘pastiche’ del 1934; l’introduzione (1963) alla Cognizione; altri in-

terventi sull’Ada/gisa, sugli Accoppiamenti giudiziosi, su Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista, sull’espressionismo gaddiano, su Gadda manzonista, su Gadda milanese. I contributi di

Contini si sono rivelati illuminanti per la conoscenza della lingua e dello stile. Un capitolo fondamentale della bibliografia critica è costituito da La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda di Gian

Carlo Roscioni del 1969, dove emerge, in una sintesi tuttora insuperata, l’interrelazione tra visione del mondo, teoria della co-

noscenza, concezione della scrittura e prassi della letteratura in Gadda. Il centenario della nascita vede la moltiplicazione degli studi gaddiani: un intero numero (ottobre 1993) è dedicato a Gadda dalla prestigiosa rivista tedesca «Akzente». Mancano però ancora, eccetto che per la Cognizione e Il primo libro delle favole, i commenti: un discorso critico che non parta dalla comprensione letterale, in particolar modo per uno scrittore come Gadda, rischia di girare intorno ai testi senza raggiungerli mai. L'attività letteraria di Gadda si concentra nel periodo tra le due guerre e anche per gli svolgimenti successivi al 1945 è possibile individuare le radici precedenti. L’ideazione e buona parte della composizione del Pasticciaccio risalgono al tempo immediatamente successivo alla conclusione della seconda guerra mondiale. Le coordinate storiche permettono di inquadrare lo scrittore con maggiore congruenza rispetto a quelle letterarie e il contributo di uno storico può gettare luce sui testi gaddiani dove non arrivano gli studiosi di letteratura: esemplare il caso di Luzzatto 1998. Le letture del periodo di formazione sono rivolte tanto ai contemporanei (Carducci, d’Annunzio) quanto ai classici (Dante,

Shakespeare). Manzoni occupa un posto privilegiato. L'assimilazione dei modelli è però così profonda da creare a volte distanze pressoché illimitate in termini di rielaborazione originale o di stravolgimento. Difficile è il rapporto con il lettore. Gadda è uno scrittore tutt'altro che affabile. La concentrazione dei significati tende a dilatare le strutture compositive e a fare quasi esplodere la trama. Manca, o è ridotta all’osso o in frammenti, una narrazione di tipo tradizionale, non tanto a causa di una scrittura volutamente digressiva o umoristica quanto per il sovraccarico di si-

gnificato che schiaccia ogni segmento narrativo. La trama dei fatti è subordinata alla sequenza dei significati. La buccia delle situazioni e degli eventi protegge il frutto dei pensieri e delle riflessioni. Riassunti senza interpretazioni allontanerebbero dalla comprensione dei libri gaddiani. C'è il Gadda dal messaggio chiaro e trasparente, come nel caso delle descrizioni di scenari naturali o di ambienti cittadini, do-

ve la difficoltà è al massimo nella ricchezza lessicale e può essere risolta facilmente col vocabolario, e il Gadda dalla scrittura tragi-

ca e ai limiti dell’impossibilità di espressione, che scava nei labirinti della sofferenza umana o ricerca le radici dell’irrazionalità della storia e del male del mondo. Soltanto la comprensione dei nodi problematici del messaggio permette di sciogliere i gialli della Cognizione e del Pasticciaccio, le due uniche opere gaddiane in cui la compiutezza prevalga sull’incompiutezza. I modelli letterari e in genere culturali sono innumerevoli, ma decisivi per l’interpretazione sono quelli più radicati nel tempo e legati alle prime letture meditate come si verifica nel caso della narrativa manzoniana. Conle affinità si moltiplicano anche le distanze e la lingua dei Promessi sposi diventa, ad esempio, sempre più un antimodello per la scrittura gaddiana: è sugli oggetti di memoria permanente che la creatività agisce in modo più libero e costruttivo. Tra il Gadda delle trame e delle descrizioni e il Gadda dei labirinti espressivi e dei giudizi allusivi, chi desidera interpretare e comprendere i testi privilegia il primo, sulla base delle seguenti considerazioni: 1) ciò che davvero conta per lo scrittore, il cuore del messaggio, emerge attraverso lo svelamento dei procedimenti allusivi, mentre le pagine referenziali, iscritte spesso nell’ottica dell’ingiustizia del mondo, assolvono per lo più la funzione di depistare il lettore; 2) la novità e l’eccezionalità di Gadda nel panorama letterario non consistono tanto nella costruzione delle trame, nella de-

scrizione dei luoghi e dei tempi, nella trasmissione di informazioni, quanto nelle invenzioni espressive, mai fini a se stesse, che,

attraverso la distruzione di luoghi comuni e miti collettivi, portano alla luce segreti dell'animo o verità scomode a livello politico o sociale;

3) glossare ciò che è chiaro, col rischio di rendere complicato ciò che è semplice e di inventare profondità nella superficie, non è compatibile con un esercizio critico che vorrebbe essere, prima di tutto e nei limiti delle possibilità, risoluzione di problemi interpretativi, trasformazione dei testi in problemi e, in ulti-

ma analisi, problematizzazione della realtà. La difficoltà del linguaggio gaddiano non è imputabile a capricciose acrobazie dell’autore, ma risponde a sofferte strategie conoscitive e si rivela ricca di senso. La scelta di un linguaggio

trasparente e referenziale presupporrebbe una fiducia illimitata tanto nella neutralità delle forme di comunicazione linguistica quanto nella possibilità, in termini di accettazione politica o sociale, di esprimere contenuti di fondamentale importanza. Lo scavo linguistico di Gadda riflette, come ha mostrato esemplarmente Gian Carlo Roscioni, una tensione conoscitiva basata su

una riflessione filosofica ad alto livello e, per certi aspetti, in anticipo su elaborazioni teoriche centrali nel Novecento, mentre l’adozione di uno stile allusivo, soprattutto nelle scritture pubbliche, è strettamente conseguente a una visione del mondo in cui

imperano i veti politici e sociali. Considerando che il tempo della scrittura e della pubblicazione delle opere gaddiane, almeno nelle sue fasi più vitali, è quello del fascismo, le ragioni storiche hanno il loro peso, ma sarebbe riduttivo non inserirle in un qua-

dro di più ampia portata gnoseologica ed etica. Come mi suggerisce Maria Giovanna Missaggia, la consapevolezza che l’espres-

sione diretta tolga profondità al messaggio e una sperimentazione stilistica ai limiti dell’oscurità caratterizzano Thomas Carlyle, pensatore e scrittore che Gadda conosceva bene. La scrittura allusiva si spiega sia nei termini della sofferta sensibilità gaddiana, per la quale lo spazio del dolore è sempre ai limiti dell’indicibilità e l’opera tende all’incompiutezza, sia per motivi storicamente giustificabili in tempo di dittatura ma anche di democrazia. Se il fascismo aveva costruito la sua impalcatura ideologica nazionalistica sul mito della grande guerra, un mito intoccabile e protetto dalla censura, Gadda può distruggerlo soltanto in forme allusive nella Cognizione del dolore. Anche in tempi democratici è necessario il coraggio della verità, perché la denuncia dei veri mali della società si scontrerebbe contro gli interessi individuali o di gruppi più o meno estesi forniti di adeguata copertura demagogica. L'attualità di Gadda consiste anche nella consapevolezza che l’opinione pubblica è espressione degli interessi tanto di singoli detentori di potere economico quanto di gruppi abbastanza estesi di individui. La verità e la giustizia sono possibili soltanto all'interno del tribunale della scrittura come oggetti di resistenza individuale. Seguire la lezione gaddiana oggi significherebbe trascrivere in forme allusive le denunce non accettabili in termini di

opinione pubblica per estendere la resistenza al di là dei singoli individui. L’ipotesi di lettura attorno alla quale si muove la presente indagine è quella di una scrittura giudiziaria. Gadda non come giocoliere di parole, ruolo assegnatogli puntualmente da studiosi di Pirandello e di Svevo, ma come testimone, accusatore e giudice

del suo tempo. La moltiplicazione delle strategie allusive si impone come unica forma possibile di libertà espressiva e insieme come nucleo protettivo di contenuti troppo compromessi con le ragioni di una sofferenza individuale e storica. Da testimonianze e atti d’accusa più o meno velati si arriva per gradi ai due processi globali al mondo rappresentati da La cognizione del dolore e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Per La cognizione la scelta del genere ‘giallo’ costituisce già di per sé una forma di ribellione nei confronti del regime fascista, che nel suo ultimo periodo aveva cercato di impedire in tutti i modi la pubblicazione di racconti o di romanzi ‘gialli’. Per il Pasticciaccio il valore della scelta non muta, anche se il fascismo è

ormai caduto, dato che il processo riguarda in primo luogo il passato e il genere ‘giallo’, specialmente per effetto della forma realizzata dalla Cognizione, ha assunto nella coscienza stilistica gaddiana una carica virtualmente antifascista. La dimensione processuale degli scritti gaddiani non si affida soltanto alle strategie dell’allusione, ma coinvolge anche le strutture narrative. E poi la rabbia e la polemica, e così anche, ma in misura tanto minore, l'ammirazione e la celebrazione, diventano forme del giudizio.

Le opere letterarie sono lette da Gadda con una doppia angolatura giudicante: una interna all’opera (ogni scrittore è giudice giusto o ingiusto del proprio tempo) e una esterna, coincidente con il giudizio gaddiano sullo scrittore, Come ha scritto Piero Gibellini, «nel Gadda lettore, come nel Gadda scrittore, [...] l’odio

verso ciò che contrasta ogni “pensata e libera parola” risponde a un'istanza insieme etica e conoscitiva: il dovere della cognizione, la verità del dolore» (Gibellini 1982: 63). La specificità dell’opera gaddiana nella letteratura italiana novecentesca consiste nella totale mancanza di illusioni sulla trasparenza del mezzo linguistico e sulla libertà di comunicare ciò che veramente conta per uno scrittore senza incorrere in veti poXII

litici o sociali. L'inserimento di Gadda in presunte linee storiografiche sulla base di superficiali consonanze stilistiche o, peggio ancora, in grazia di una categoria passe-partout come l’opacità linguistica rappresenta un clamoroso fraintendimento o, in termini gaddiani, un vero e proprio tradimento. L'universo linguistico e stilistico gaddiano non è formato da torri di Babele ma da complesse architetture razionali. Le motivazioni dell’eccezionalità linguistica sono di volta in volta mimetiche (ricreazione di una fetta di società o recupero di una dimensione storica) o variamente espressive. La ricchezza degli in-

gredienti che entrano in ebollizione nel calderone linguistico, come le tessere dialettali lombarde o le forme ispaneggianti della Cognizione del dolore, il fiorentino trecentesco, cinquecentesco o contemporaneo del Prizzo libro delle favole o le inserzioni romanesche o molisane di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, si associa alla straordinaria varietà di registri espressivi (dalle forme popolari e dai luoghi comuni giornalistici agli stereotipi letterari e ai linguaggi settoriali delle varie scienze e del diritto). La scrittura, nel suo registro sublime, acquisisce memorabi-

lità, invadendo lo spazio della poesia attraverso un’«operazione paradigmaticamente contaminante dei due sistemi, in cui avviene, in contesti fondamentalmente prosastici, un’immissione di

“fattori depistanti” di tensione lirica e si compie zione della prosa verso un tipo di ‘concertazione mentin 1987: 227): le figure ritmico-sintattiche funzione strutturante, portando in dote la carica

una polarizzapoetica» (Forassolvono una polisemica del-

la poesia. Lo scavo stilistico distrugge spesso l’inerzia semantica

del linguaggio per attingere a livelli conoscitivi non usuali. Consapevole che le formule linguistiche stereotipate alimentano modi di pensare che si protraggono e si diffondono in maniera irriflessa, Gadda fa di tutto per distruggerle. Il linguaggio si riappropria così del suo valore conoscitivo ed etico. Ringrazio il professor Francesco Bruni per le generose indicazioni sia a livello strutturale che puntuale. Al professor Marco Santagata va la mia riconoscenza per la scelta di affidarmi la scrittura del libro e per gli interventi cortesi ed essenziali nelle diverse fasi dell’elaborazione. Resta ovviamente a me la responsabilità per eventuali mancanze o errori. XII

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valeria, Pea epitafio > esaltazione (postuma di solito)» (I segreti del latino, Mondadori, Milano 1991, p. 111). La carica

giudiziaria della scrittura gaddiana si riversa in un tipo di prosa in cui lo scrittore si presenta come giudice sin dal titolo, sia pure nella forma dissimulata di un latinismo semantico inconsueto. Il processo ai generali è attuato con una precisa strategia allusi-

va. La decifrazione del titolo permette una lettura più puntuale dell’intero capitolo nei termini di un giudizio universale della scrittura. Esemplare il contrasto tra il comportamento dei due consoli durante la battaglia di Canne: Paolo Emilio, che per prudenza non vorrebbe attaccare battaglia, ma poi combatte coraggiosamente e muore; Varrone, che impone avventatamente la bat-

taglia e poi si salva vilmente con la fuga. Varrone è designato antonomasticamente, sulla base della fonte liviana, come «il figlio

del macellaio». Il giro della sintassi evita accuratamente di riportare il nome del console vigliacco, mentre una ripresa circolare suggella il nome e l’eroismo del console Emilio Paolo. Il contesto parla dei condottieri che dovettero combattere sia contro i nemici sia contro i compagni vili. Nella sintassi lapidaria della clausola rifulge per contrasto il nome di Paolo Emilio: CU 128-9 Cosa che capitò a molti: a Paolo Emilio fra i molti. Davanti, il magma delle permiste genti annibaliche: in sul fianco, il figlio del macellaio. «Figliuol fui io d’un beccaio...»... della Suburra. «Patrem lanium fuisse ferunt.» Ma il figlio s'era spulizzito e faceva dei discorsi magnifici: avvocato, questore, edile curùle, poi pretore, poi

console: (vittoria garantita in ventidue giorni): poi finalmente reduce trionfato di Canne. A Canne Paolo Emilio seppe restarci in eterno. Con quarantacinquemila compagni. 59

L’accusa più grave, cioè quella di avere causato per ambizione il sacrificio vano di quarantacinquemila combattenti, è adombrata nel ricordo delle origini macellaresche. Il console irresponsabile e vigliacco viene condannato, con la sanzione più grave che possa infliggere il tribunale della scrittura, alla damzzatio memoriae: il suo nome viene cancellato. Allo stesso modo Gadda aborrirà sempre dalla pronuncia dei nomi di Napoleone e di Mussolini, deformati o sostituiti da epiteti o metafore dietro cui traspare l’accanimento dello scrittore. Agli abissi del male risponde il silenzio, più duro d’ogni macigno. È una forma di condanna presente anche nella Commedia dantesca: «la sconoscente vita che i fé sozzi, / ad ogne conoscenza or li fa bruni» (Inf

VII, 53-4). La prima delle tre parti, quella eponima, del Castello di Udine compone attraverso una serie di prose un diario di guerra 4 posteriori. In Imposstbilità di un diario di guerra la storia del console Paolo Emilio viene rapportata all’esperienza personale: CU 141 Altri, ribelli od ignavi, non esitai giudicarli: se anche ragioni di opportunità ed estrema contingenza imponessero tirar avanti come uno poteva. Accadde a molti di dover combattere due guerre in un tempo: l’ho già stampato dicendo d’antiche legioni. Accadde a me quel che mi accadde; ma, essendo io un rètore, amo le scritture com-

piute e non amo gli edificanti stralci. Il mio diario di guerra contiene dei giudizi, esso è dunque impossibile.

L'incompiutezza del diario di guerra 4 posterzori, che è in linea con la mancata pubblicazione degli effettivi diari di guerra per decenni, è ricondotta alla sua struttura giudiziaria. La condanna più grave, quella del silenzio, non può essere rappresentata, se non in parte, dalla scrittura. Il limite tragico dello stile gaddiano è alla base tanto delle pubblicazioni postume o quasi postume quanto dell’incompiutezza delle opere maggiori. Il limite, di natura giudiziaria, consiste tanto nell’indicibilità delle

colpe quanto nell’impossibilità di condannare in modo adeguato i colpevoli all’interno del tribunale della scrittura. Si potrebbe procedere oltre nella lettura giudiziaria del Castello di Udine. Basti l'affermazione in nota che «tutto l'episodio è verissimo, come ogni referto del Ns.» (CU 21442) a garantire la

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qualità testimoniale della scrittura. Persino il piroscafo «esala dolorosi giudizi di condanna» (CU 2187). Nelle sezioni non militari campeggiano Giordano Bruno e Arnaldo da Brescia con l’ingiustizia suprema della condanna a morte destinata agli innocenti. Una prosa dall’apparenza neutra e descrittiva come La festa dell'uva a Marino permette di completare l'argomento relativo ai consoli di Canne e ai moduli dell’esaltazione e della condanna. La trama di simboli e di metafore militari (vendemmia come strage etc.) si adempie nel finale, quando, con uno scarto inatteso, il ricordo dei giovani sacrificati si sovrappone a quello dei sopravvissuti. Se il nome del console Varrone è cancellato con disprezzo dalla pagina, i nomi degli eroi si inseguono sino al cecidere manus, sino al limite della sofferenza, che coincide con il termine

della prosa: CU 241.

Quanta gioventù nella folla, a Marino. [...] Molti giovani

sono partiti da Marino senza ritorno, non da tutti l’Ardeatina e l'Appia e l’Anziate si percorrono più che una volta. Alla cantina De Simoni oggi essi non bevono, né alle cannelle della loro fontana: la loro immagine si è cancellata nel tempo, come il volto dei mori. Mi pare di vederne alcuno, cadendo, che ha nella destra l’arma e regge alto,

con la sinistra, il piccolo globo, il simulacro alato. Nessuno più porge il bicchiere alla ragazza: «Alberti Pericle, Amadei Augusto, Andreuzzi Lelio, Angelotti Guido, Amati Duilio, Amati Renato...».

Sono stanco, non posso ricordare centoventidue nomi. L’elettrico parte, dopo l’arrembaggio, poi fischia e ballonzola. Non posso più ricordare, dopo anni ed anni: ma quell’assalto, quella vendemmia, sono stati un’altra cosa.

La scrittura tende a farsi memoria dei sacrificati. Nel Castello di Udine comincia a cristallizzarsi un nesso essenziale del vocabolario allusivo gaddiano, quello tra infanzia e sacrificio. Ai militi caduti è stata rubata la vita: per loro il tempo si è fermato ed è come se fossero rimasti fanciulli. Il rapporto fra i tre tempi dell’infanzia, del Natale e del sacrificio, istituito nel finale di Impossibilità di un diario di guerra, sarà sviluppato in direzione criptica dalle successive scritture gaddiane. La conclusione di Da! castello di Udine verso i monti ribadisce, in simmetria con Impossibilità di un diario di guerra, la 61

condensazione del rimpianto per chi muore in guerra in sequenze di visioni infantili, rappresentate nell’ordine da «quasi un fanciullo», «nuova come un regalo che gli avessero fatto per i vent'anni», «come un fanciullo al liceo» e «quasi l'angoscia d’un bimbo, muta davanti la solitudine»: CU 153-4

Ricordo un altro, quasi un fanciullo, che sedette sul sedi-

le scheggiato della roccia, un attimo, una preghiera, prima d’imboccare il camminamento del suo destino. A quota 309 del Faiti. Era venuto su dal Cavallo Morto, con tutto il battaglione, in rincalzo. Nella destra aveva la pistola pronta, nuova come un regalo che gli avessero fatto per i vent'anni, aveva una bella cintura di cuoio. [...]

Chinò il viso, come per pensare o pregare un momento, come lord Byron, come un fanciullo al liceo. La nebbia nitrica velava ogni cosa, il fragore voleva svellere fuor della conoscenza, ogni cosa. L'ultimo stelo dispariva, bruciato dal fulmine. Ma il suo pensiero, lo sentii, andava disperatamente profondo, e

più disperatamente lontano; quasi l’angoscia d’un bimbo, muta davanti la solitudine. [...] Oh! non posso dir come né dove, dopo alcuni minuti, rividi il suo

volto: dico soltanto il suo volto! Le leggi stesse della fraternità dovetti ignorare che fossero legge. Continuai la mia guerra.

La prima parte del Castello di Udine, che è quella che dà il titolo al volume, evidenzia la funzione privilegiata assegnata da Gadda alle clausole delle singole prose. Anche Imagine di Calvi si conclude con la rappresentazione di una morte in guerra, quella del tenente Attilio Calvi, per la quale persino una parola di conforto sarebbe suonata falsa, al culmine di una requisitoria, tanto più incisiva quanto più tramata sui motivi del silenzio e dello strazio, contro la retorica del «carme pieno di lampade votive, in endecasillabi da circolo filologico» (CU 175). Per completare la rassegna degli scritti inclusi nella sezione I/ castello di Udine, Compagni di prigionia rievoca, nel corso di un agitato finale, la sofferenza provoca*a nel prigioniero dall’inazione e dall’immobilità, trasfigurandola in visioni deliranti di marce e di assalti, men-

tre Elogio di alcuni valentuomini termina sull'immagine del sangue versato al Metauro, declinando in chiave storica il «segno inscritto col sangue» (CU 122), attorno a cui ruota la clausola della prosa introduttiva all’intero libro intitolata Tendo al mio fine. La 62

potente metafora di una scrittura impressa nel sangue segnala la compromissione dello scrittore con un’indelebile realtà storica e personale. La terza e conclusiva parte di Compagni di prigionia, secondo la divisione autorizzata da due spazi bianchi, fonde il rimpianto per i caduti con la vergogna causata dalla prigionia. Lo scatto lirico è lanciato dalla sovrapposizione di una sagoma infantile alla figura di Ugo Betti, intento in apparenza a scrivere lettere — «Era troppa fatica per una lettera, neanche bambino a Natale avrebbe sostato così» (CU 162) — in realtà a comporre versi. La recita dei versi con «voce spiccata e un poco tremante, come d’un

fanciullo che dica con inadeguata voce il suo straziato rimpiangere» (CU 163), oltre a coinvolgere il tempo dell’infanzia nel tempo della lettura attraverso la similitudine del fanciullo, scatena la rievocazione diretta del mondo della fanciullezza come schermo lirico di fronte alla morte. La lettura dei versi di Betti in termini di autobiografia tragica mette in luce i procedimenti attraverso i quali la memoria permanente riconduce ossessivamente al proprio centro contenuti e forme assimilabili. Il tempo della vita si ferma definitivamente ai confini dell’infanzia per i caduti e il saluto di Gadda al fratello morto in guerra si fissa nell’immagine idillica dell’addio al fanciullo con il quale aveva giocato in Brianza: CU 163

Altra volta però potei ottenere che Ugo mi leggesse «Il Ca-

stello Nero» e «La Casa Morta». E fu, allora, per me, lo strazio del-

la rievocazione: una musicalità perduta e nostalgica mi richiamò la mia casa di Brianza, i lunghi pomeriggi e le sere del luglio trascorsi correndo, giocando, amici delle saettanti rondini, gli anni che i miei fratelli avevano piccole mani, grandi, purissimi occhi: gemme che coprivo di baci. Ed è nella sera come un gridìo Di bambini Che dicono: addio! addio!

Non so perché questi versi li associavo dolorosamente, forse una tragica e oscura prescienza, all'immagine d’un fanciullo, ch’era oggi soldato d’Italia, che non dovevo più rivedere sulla terra! 63

L'ultima proposizione, carica della potenza espressiva di una clausola, ribadisce sul piano stilistico, attraverso un’eco appena variata, l’identità della «persona che dovevo non più rivedere sulla terra!» (CU 150), passata come un’ombra tra le righe di Da/ castello di Udine verso i monti. Le rondini e l’addio disegnano nella memoria letteraria anche un’eco pascoliana. Secondo ripetute testimonianze del Giornale di guerra e di prigionia, la nostalgia provocata dalla lontananza dei familiari si traduce, durante i giorni della prima guerra mondiale, in visioni del tempo felice che assalgono il combattente con i volti delle persone care (G 471). Il periodo natalizio, come simbolo per eccellenza della famiglia riunita, diventa il luogo esemplare della nostalgia (G 513). L'oggetto del presente paragrafo viene analizzato come un vero e proprio «tema tragico» — che viene a coincidere con lo strazio di chi torna e non trova più le persone care, rapite prima del tempo alla vita — nella recensione (1923) a I re pensieroso di Ugo Betti: SVP 675 Poi l'impostazione repentina del tema tragico: il fanciullo, fatto già uomo, già terribilmente provato da una terribile vita, si affaccia alla porte della vecchia casa. Tutto vi tace: E nessuno dirà ben tornato AI fanciullo che viene da lontano.

Nell’ombra, soltanto, gli occhi dei ritratti, che fanno paura: nei

vecchi quadri le mani gialle dei morti, che sembrano chiamare dal fondo tenebroso delle tele. E furono anch'esse tepide manine, Baciate per delizia, odorose di latte.

2.10. Processi milanesi: «L’Adalgisa»

Il decennio 1930-40 vede diminuire progressivamente gli impegni ingegneristici e aumentare in corrispondenza l’attività letteraria. La raccolta intitolata L'Adalgisa esce alla fine del 1943 e include racconti elaborati per lo più nel decennio precedente. Il sottotitolo «disegni milanesi», sulla filigrana dei «bozzetti siciliani» di Verga, segnala l'esigenza di verità che sostanzia la rappre-

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sentazione della borghesia milanese. In una lettera ad Ambrogio Gobbi del 7 aprile 1934 si legge: «Vorrei essere il Robespierre della borghesia milanese: ma non ne vale la pena» (Lettere agli amici milanesi, p. 46). Il progetto si realizza nel 1943. I racconti decapitano metaforicamente colpe e colpevoli, all'insegna di un comune disegno giudiziario. La scrittura giudicante dell’ Ada/gisa non si sottrae però al processo centrale intentato alla storia, che è per Gadda soprattutto la storia della prima guerra mondiale. Dell’Ada/gisa fanno parte due racconti, Strane dicerie contristano i Bertoloni e Navi approdano al Parapagàl, che erano già stati pubblicati come sezioni non autonome della Cognizione del dolore: la loro selezione, nella dinamica menzogna-svelamento,

offre soprattutto una chiave interpretativa per la Cognizione. Il primo racconto, Notte di luna, ha le sue lontane radici nel Racconto italiano del 1924. Il tema della notte lunare, trattato li-

ricamente, assume valenze gnoseologiche ed etiche attraverso successive gradazioni simboliche. Gli spunti lirici tendono in Gadda a colorarsi eticamente per assumere fattezze tragiche sino a fare baluginare il volto dei sacrificati della guerra e di tutte le guerre. La lirica si trasforma in tragedia, la natura in guerra, il sogno in realtà. Il «giardino dell’oriente sognato» e le «dolci, vane stelle» si cancellano per l'irruzione del «male violento, selvaggio». L’antitesi tra «male» e «stelle» e la loro coda di aggettivi è esaltata dal chiasmo. Il suono della tromba lacera simbolicamente il buio, trasmette il comando dei superiori e impone il sacrificio. Lo spazio del dovere e del sacrificio è messo in rilievo dalle parentesi, che tradiscono, come molte altre volte in Gadda,

l'urgenza espressiva: A 292 Altre persone vegliavano, dacché non sempre si può posare nella notte. (Per anni si erano uditi fragori dalle montagne, come tuoni lunghi, implacati. Sul nero bastione de’ pianalti la cimasa delle abe-

taie si accendeva di faville”. Della città erano a dolorare le torti, illi-

gi vidite nella tènebra.) e chiabianchi o parevan ville delle e case delle cubi I più. Ora non serena. ri, per una gran dolcezza che fosse, come verità, nella terra

L’affioramento memoriale del tempo della guerra è ricondotto in nota al «sanguinante altipiano» (A 297°) dei Sette Comuni 65

del maggio-giugno 1916. La sofferenza senza limiti è dilatata però nel tempo dalla memoria e lo stile ne registra la dilatazione. L'indicazione mensile è moltiplicata nel tempo continuato degli anni. I «tuoni lunghi, implacati», registrando la violenza delle bombe che non sembra avere fine («implacati», cioè ‘implacabili’, è

la ripercussione psicologica di «lunghi»), concorrono alla dilatazione temporale. La violenza si riverbera cromaticamente con il rosso e il nero, i colori dell’inferno, sulla natura, che a sua volta

si fa specchio delle fiamme, eco delle esplosioni, mentre nelle torri, osservatrici dello strazio dall’alto, la stessa pietra si trasforma in dolore. La ripresa antitetica — «Ora non più» — segna la fine della guerra con uno stilema funebre. La «terra serena» è il mondo in pace, ma nello spazio affettivo ci sono solo i morti, quelli che si sono annullati al richiamo del dovere: gli altri, i sopravvissuti, i vili, è come se non fossero mai vissuti. La terra è sere-

na, perché finalmente i morti, dopo tanto soffrire, riposano in pace. Nella chiarità surreale della nuova luce, «Ora non più» cade anche in opposizione ad «Altre persone vegliavano», rafforzando ancora di più l’idea della pace possibile soltanto con la morte, se la notte riflette simbolicamente la violenza del mondo, il

mondo in guerra. La notte, la guerra, la morte. La violenza della guerra come male voluto dall'uomo contrapposta alla serenità della natura avrà forse il suggello più alto nei film di Akira Kurosawa, e in particolare in Sogni (1990), dove le rappresentazioni infernali della guerra si alterneranno alle visioni della natura come paradiso terrestre e perduto. A differenza che in Gadda, il mondo senza guerre è in Kurosawa utopia della speranza, voce della natura da riascoltare, paradiso da riconquistare. In Notte di luna la scrittura gaddiana propone indirettamente una giustizia alternativa rispetto alle leggi imposte, quando non addirittura formulate, da «padri, pedagoghi, poliziotti, pompieri, bambinaie, maestri, sacerdoti, filosofi, suocere, ufficiali di pic-

chetto, guardie daziarie, ronde e pattuglioni 44 hoc, moralisti vari, ecc. ecc., 0 addirittura il governatore di Maracaibo» (A 296?). La somma di elementi così disparati e incongrui fra loro non può che essere l’insensatezza, l’insensatezza di un mondo governato da vessazioni ingiustificate e divieti assurdi. Sullo sfondo della 66

guerra e della pace, la stessa rappresentazione delle attività lavorative del presente assume la cadenza di vane parvenze, percepite da un occhio distratto, registrate da un orecchio lontano. Se in Notte di luna l’attacco lirico si volge in tragedia, in Quardo il Girolamo ha smesso... la lirica si presta alla satira quando un «A rivederci» (A 306) scatena un saluto-parodia alla terra lom-

barda, che si avvale della caricatura di moduli e stilemi dell’ad-

dio ai monti manzoniano non tanto per parodiare i Prozzessi sposi, quanto per svelare un altro volto del paesaggio, una ben diversa società, tutt'altra umanità; proprio per colpire i luoghi comuni che di manzoniano non conservano altro che il guscio, e anzi tradiscono il Manzoni della responsabilità della parola, come nel caso, più avanti, del «bel cielo di Lombardia» (A 319); come a smascherare ogni presunto lirismo e qualsiasi celebrazione della vitalità lombarda, condensabile in «una bischeraggine generosa e totale, una vena romantica e brodolona, una antica luce dalle torri e dai tamburi delle cupole sui poveri morti» (A 307). Il giudizio sulla borghesia milanese si rovescia in una sentenza ulteriore contro tutte le celebrazioni. Dopo la prima guerra mondiale non è possibile cancellare l'orrore, la storia si è fermata, ogni celebrazione è un’offesa. Le campane insultano i morti come tamburi di guerra, si fanno metafora delle glorie italiane costruite sul sangue dei sacrificati. Nemmeno il paesaggio rimane illeso dalle guerre, se dietro «i pascoli rintronati di Marignano» si cela, in condensata epigrafe, la memoria delle vittime, come rivela la nota, che priva della sua statura epica la «cosiddetta “battaglia dei giganti”» — quanto sarcasmo in quel «cosiddetta»! — e ricorda come «ventimila morti, di cui quattordicimila svizzeri, seimila fran-

cesi e alleati» non apparissero troppi «all’oculatezza degli storiografi», aggiungendo che «certo la strage fu insigne: e il tuono proporzionato alla strage» (A 338-9!4) (il tuono delle celebrazioni che accompagna i lampi delle guerre). L’antifrasi concentra tutta l'amarezza sull’aggettivo «insigne». Il racconto di un episodio di truffa prende la lingua e lo stile dell’epica, mentre il truffatore veste i panni del poeta epico, del poeta-vate, del poeta che celebra la nazione e la guerra. Ancora

sare la una volta, il tribunale della scrittura, incaricato di proces 67

borghesia milanese, emette la sua sentenza su ben altri crimini. Il ladro emerge da una marea di volumi: A311 L’epopea, questo è vero, era stata composta in carcere: perché l'Omero della terza Italia, o quarta che fosse, non era cieco, ci vedeva

anzi magnificamente: ma era un pregiudicato ed ex-carcerato, recidivo specifico in linea di truffe. Ciò non pregiudicava per altro le sorti della «cospicua attività» che veniva rischiarando di bagliori epico-rapsodici (per quanto un po’ sinistri) il vasto panorama fallimentare.

L’Omero foscoliano, poeta-vate per antonomasia e figura dello stesso Foscolo come degli altri poeti-vati a venire, fornisce la base metaforica per smascherare l’imbroglio della poesia epica. La cecità negata corrisponde all’eliminazione di tutti i veli lirici e sublimi che avvolgono una figura di sfruttamento e di morte. Non poeta cieco di fronte alla realtà materiale perché in volo fra le nuvole degli ideali, ma truffatore materialone e ladro tutt’occhi. Il processo ai trionfi della borghesia milanese condanna, in Claudio disimpara a vivere, l'ingegneria sbagliata. Gli studenti che precipitano nel vuoto per il crollo di un ponte e muoiono durante una lezione di ingegneria dedicata alla costruzione dei ponti sentenziano con la voce della realtà che l'ingegnere incompetente è un assassino. Nel verdetto è presa di mira tutta la faciloneria italiana. L'architettura milanese e l'educazione milanese sono invece processate insieme in Quattro figlie ebbe e ciascuna

regina. Il continuo travaso metaforico dell’educazione dei figli in allevamento dei polli capovolgono in senso antifrastico il verso del VI canto del Paradiso: sembra di potere leggere nella filigrana parodica Quattro figlie ebbe e ciascuna gallina. Dall’educazione alla casa, che è il teatro dell’educazione, il passo è breve. La

vecchietta che cade ogni volta sui pavimenti asimmetrici a capitombolo offende in progressione l’architetto Basletta e tutta l’architettura milanese: alla condanna si giunge stavolta attraverso procedure ironiche. Le istituzioni culturali milanesi sono condannate assieme all’ingegneria e all’architettura nei Ritagli di tempo. E giustiziata, fra l’altro, con procedure parodiche, «certa conversazione colta o medio-colta dell'ambiente e dell’epoca» (A 419). Verrebbe da richiamare alla mente, in un’interpretazione metaletteraria del titolo, la lettera ad Ambrogio Gobbi e l’affer68

mazione che è tempo sprecato condannare la borghesia milanese in quanto si condanna da sola. I processi intermittenti alla borghesia portati avanti fra i disegni milanesi dell’Ada/gisa rappresentano quasi una pausa rispetto ai nuclei tragici della scrittura. A sorpresa, quasi in modo coatto, dietro l'apparente tribunale comico affiora il tribunale tragico e torna la memoria della prima guerra mondiale. La borghesia milanese è condannata come tutte le borghesie, in quanto la ricchezza, nella visione della storia che emerge dai testi gaddiani, si fonda sul sangue di coloro che sono morti in guerra. Le maggiori incomprensioni interpretative su Gadda nascono

dalla sovrapposizione di discutibili e incerti indizi biografici alla voce chiara, gridata, sofferta dei testi: il messaggio gaddiano è troppo lontano dal nazionalismo e dal fascismo. La biografia di uno scrittore può e deve essere richiamata agli effetti interpretativi nella misura in cui è avvalorata dalle opere. Gli oggetti della memoria permanente o, che è lo stesso, della tragica autobiografia irrompono, in modo tanto più irrelato quanto più significativo, all’interno di uno dei testi meno tragici, Ur «concerto» di cen-

toventi professori: A 463 Il loro stupendo volto diceva la sicurezza e la validità d’un amore quotidiano, legittimo, esente da tempeste e da imposte, presenti se non future: perché potessero esercitarlo senza minaccia, nella terra serena, dopo dono di rubini, per questo erano subitamente impalliditi gli eroi. D’ogni eletto, dentro il caglio del suo sangue, si smarriva sul pietrame la castità lacerata, mosche verdi tenevano, eb-

bre, la putredine della dolina. Ed élleno nei candidi lini.

Se la «terra serena» è la patria in pace, senza fulmini e senza tempeste, libera cioè da generali e da guerre — liberazione possibile solo nella pace della morte — il «dono di rubini», effettuato da chi si era arricchito grazie alla guerra, costituisce l’oltraggio più grave che si possa recare agli «eletti», cioè ai sacrificati, fermati non a caso «dentro il caglio del loro sangue». Lo scarto determinato, in senso sproporzionatamente

aulico e solenne, dal

e il pronome «élleno», la frattura cromatica dal rosso al bianco

salto dalla sfera semantica della putrefazione a quella del candore concorrono a esasperare in direzione sarcastica il contrasto tra 69

gioielli e sacrifici (sacrifici non metaforici). Il testo della nota relativa al segmento compreso tra «La castità lacerata» e «la putredine della dolina» rilancia i ruoli di testimone e di giudice assunti dallo scrittore: A 47846 Decedettero anche in età di anni venti, o diciannove. Riaffiorarono in chi li vide morire, nell’attimo della lor morte, parole del

carmen saeculare di Orazio: «puerosque castos». Non fu morte da cartolina, né da «disegno di A. Beltrame». «Allora, nel rovinìo tragico della pietraia, distesi un telo sui sacrificati: il sasso non dava tomba, o corona.»

L'immagine di chi muore in guerra è fermata — come sarà nel passo del Pasticciaccio in cui è racchiusa la rivelazione del contrappasso di cui è vittima la protagonista — al tempo della fanciullezza: «puerosque castos» agisce da illuminazione memoriale verso il centro della sofferenza, la morte ante dierz. Non ci potrebbe essere glossa migliore del finale di strofa manzoniano «Madri, che i nati videro / Trafitti impallidir» per la sequenza «in chi li vide morire, nell’attimo della lor morte» e conseguentemente per «subitamente impalliditi» (A 463). La pertinenza dei passi prelevati da Un «concerto» di centoventi professori nel sistema della memoria permanente gaddiana è suggellata dal rispecchiamento integrale, senza virgolette o altri segnali di citazione, del periodo finale della conclusione, a sua volta altamente memorabile, di Impossibilità di un diario di guerra. La memoria del resoconto di guerra fra i disegni milanesi dell’Adalgisa rilancia la funzione testimoniale della letteratura nei confronti dei contenuti essenziali della biografia: CU 144. Alcuni avevano una catenella d’oro al polso e morirono come fanciulli, sognando il Natale: avevano nel viso una luce, un sorriso: e l'angoscia mi riconduce pei vani sentieri della memoria, ma tutto tace, intorno, e iutto si oscura.

Ripenso altri volti, straziati o dissanguati in una lassitudine senza

conforto: altri, di colpiti di cuore, che parvero continuare nella mor-

te la serena dignità della vita. Inutilmente ripenso! Allora, nel rovinìo tragico della pietraia, distesi un telo sui sacri-

ficati: il sasso non dava tomba, o corona.

70

Dove la memoria si fa ossessiva, i termini non possono avere che un significato fisso e il mondo dello scrittore non ammette quasi altre presenze che la guerra, la morte e lo strazio dei sopravvissuti, esasperato dall’oltraggio di ogni genere di profittatori di guerra nelle parole (vati, celebratori) e nelle azioni (imboscati, fornitori, speculatori). La memorabilità dell'ultimo periodo fa leva anche sulla carica espressiva di «rovinìo»: i frequentativi in -î0 godono, qui come in altri passi, dell’autorizzazione linguistica manzoniana e della suggestione stilistica pascoliana. Il concetto di memoria permanente riflette la fondamentale staticità dei nuclei tragici della scrittura gaddiana attraverso il tempo. Il processo ai profittatori di guerra si riveste di procedure allegoriche nella favola tragica dei gioielli e dei sacrificati che traluce, nella forma sintetica di un paragone, dalle righe del racconto che dà il titolo ai disegni rzilanesi dell'Adalgisa e ne rappresenta anche la parte finale: A 548. Vedova! Nel 1921. Aveva allora, al collo, una collana di palle nere di diametro modulatamente crescente verso il profondo, le tre centrali e più grosse parevano addirittura delle albicocche, colte nei regni di morte. Un velo nero fino ai calcagni. Ingrassava. Di tanto in tanto aveva gli occhi rossi. Qualche volta riusciva anche a piangere: non che il suo dolore fosse men vero, 0 la sua reumiliata solitudine: ma sentiva come il pudore di quella «debolezza»; non voleva «dar soddisfazione alle vipere». Adalgisa Borelli vedova Biandronni.

Il paragone delle pietre preziose con le «albicocche, colte nei regni di morte» introduce la voce giudicante del narratore e si spiega senza residui con l’interpretazione, centrale nel libro della memoria permanente di Gadda, dei gioielli come simbolo dei profitti illeciti di guerra. Le preziose «albicocche», che rappree ai sentano l’equivalente metaforico delle «catene d’oro» sottratt permorte» di regni nei «morti... bambini» (P 104), sono «colte profittaché guadagnate sul sangue dei sacrificati. Il processo ai e non gaddian tori di guerra assume cadenze ossessive: nelle opere da colpe conc'è quasi ricchezza i cui possessori siano immuni

nella renesse con la prima guerra mondiale. Una nota presente gal

dazione del Pasticciaccio in «Letteratura» illumina le implicazioni storiche della favola tragica: L 373!

Una di esse fu talmente protetta, che arrivò in tempo (1942)

a «fare olocausto alla Patria del proptio consotte Emilio Rognoni», deceduto nel deserto libico (malgré lui) dopo aver ingollato più d’un sorso della propria orina. Lei, dalli giornali, fu subito inzignita der titolo di «donna spartana»: e se mise ar collo na collana de palle nere.

Secondo una corrispondenza tra storia e letteratura tipicamente gaddiana, l’anno 1921 si riferisce allusivamente al 1942, anno dell’episodio registrato nella nota del Pasticciaccio, tramite il dimezzamento delle ultime due cifre. I legami del personaggio defunto con la guerra nel deserto attraversano, del resto, l’inte-

ro racconto dell’Ada/gisa. L'Adalgisa funge da schermo comico, travolta com’è da un patetico sentimentalismo, a una condanna che è viceversa altamen-

te tragica. Non a caso la prospettiva giudicante del narratore invade lo spazio dedicato all’ottica dell’Adalgisa anche nelle righe immediatamente precedenti rispetto a quelle citate, introducendo una diversione tragica incompatibile con le valenze comiche del personaggio: «La sua povera memoria andava andava: verso il tempo, e le immagini che non ritornano. Vi ritrovava, disperatamente, la ragione e il senso del suo sopravvivere. Ogni anima tende a motivare il suo essere: quando il motivo è nell’irrepetibile tempo, ogni anima vive nella memoria» (A 548). La forma mentis della protagonista dell’Ada/gisa discende da un corollario del teorema principe che si manifesta nella Cogrizione e nel Pasticciaccio, dove la vita nella memoria equivale a una morte nella memoria e la progressione narrativa si configura come itinerarium mentis ad mortem. Se si ribalta l’affermazione che «ogni anima vive nella memoria» nella formula complementare che ‘ogni anima muore nella memoria”, si prospetta i nuce tanto lo svolgimento narrativo della Cognizione, attraverso il quale Elisabetta Francois si approssima alla morte con le stesse ferite fisiche del figlio precipitato con l’aeroplano militare, quanto la dinamica giudiziaria del Pasticciaccio, dove la protagonista è condannata in memoria delle vittime di una guerra sfruttata dal padre a fini di lucro. Anche la scrittura gaddiana «vive nella memoria». Ta

2.11. I modi dell’allegoria: «Il primo libro delle favole» Il primo libro delle favole, pubblicato dall’editore Neri Pozza a Venezia nel 1952, comprende 186 favole, composte per la mag-

gior parte nel 1938 e apparse su riviste milanesi e fiorentine nel 1939, più una Nota bibliografica finale. Lo schermo allegorico della favola e la pubblicazione in ordine sparso valgono come antidoti alla censura o alla condanna. L’urgenza comunicativa è rivelata dalla pubblicazione di molte favole nel 1939. Parallelamente tra il 1938 e il 1941 compare a puntate sulla rivista «Letteratura» la Cognizione del dolore, che condanna senza appello,

entro una visione tragica della vita e della storia, il fascismo e le guerre, La seconda favola del volume del 1952, già presente sulla rivista fiorentina «Campo di Marte» nel 1939, riscrive la favola del lupo e dell’agnello di Fedro. La riscrittura della favola rivela una visione irriducibilmente pessimistica non solo della storia ma anche della memoria storica: «Il lupo, accompagnatosi con l’arcicorvo, lo scongiurava di erudirlo nella lingua latina. L'arcicorvo si ricusò: e il lupo, da allora, usa della fauce in modo improbo» (F 2).

Bocciata la riduzione del male nel mondo all'assenza di cultura perché troppo ingenua e rimandata la spiegazione, orientata contro tutti i latizorur, del lupo violento nelle azioni perché impossibilitato a esercitare violenza con le parole, sia perché manca l’autorizzazione del livello espressivo, che fa leva sui latinismi sintattici (xaccompagnatosi con», «usa della») e lessicali («erudirlo», «ricusò», «fauce», «improba») più che sulla memo-

ria manzoniana, sia perché la «fauce», latinismo fortissimo per il più comune ‘fauci’, non è la bocca che parla ma la bocca che sbrana, non resta che evidenziare il rimando al mondo latino e

riconoscere nella portata semantica l’allusione della proposizione finale al testo di Fedro, dove con «fauce improba» si condannano la malvagità e la cupidigia del lupo, mentre il verdetto

è espresso da «iniusta nece» (‘con un'ingiusta uccisione’). Se il lupo avesse conosciuto il latino, avrebbe usato le fauci in modo probo: l’unico modo di sbranare in modo onesto è quello di uc-

cidere e poi scrivere che l'uccisione è stata dettata dalla giustizia. Ecco il senso della favola gaddiana (per un'analisi più articolata e un’interpretazione più approfondita si rimanda alla sche73

da Gadda e la creatività in Corsi - Pecoraro - Virgili 1998): il lupo, se avesse saputo il latino, si sarebbe scritto da solo la favola giustificandosi e anzi lodandosi con il sintagma «fauce proba», proprio come si comporta, secondo Gadda, la storiografia umana, che aggiunge le ingiustizie verbali a quelle reali con ulteriore dileggio delle vittime. E nessun cielo, al di fuori della propria scrittura, può restituire per Gadda la memoria alla giustizia. Il detto boro hborini lupus, adatto alla favola di Fedro, non basta

più a quella di Gadda, per la quale andrebbe trasformato in homo peior lupo, in quanto il lupo, dopo avere sbranato l’agnello, non lo uccide anche in memoria. I lupi sono migliori degli uomini: se i lupi sapessero scrivere, sarebbero come gli uomini. Per Gadda la scrittura non vale soltanto come testimonianza ma anche come giudizio. I/ primo libro delle favole offre diversi esempi di come l’interpretazione giudiziaria possa contribuire in modo determinante sia alla spiegazione letterale sia all’individuazione di referenti storici. Nella memoria gaddiana sono catalogati con cura i casi di ingiustizia esemplare tanto nella storia quanto nella letteratura. La breve favola n. 19 dice che «Quando i Salinatori furono coscritti a’ padri e fatti consoli, Quirino trovò che ne avevano tutti i requisiti» (F 14). Vela 1990 spiega così la favola: «Il valore dell’oscura favola non può che essere politico: anche se il riferimento resta ermetico (non si registrano “Salinatori” di qualche emblematicità). “Quirino” era il nome di Romolo divinizzato; “coscritti a’ padri”, cioè fatti senatori. Forse vuole colpire gli indegni che raggiungono posizioni di potere con illuminanti beneplaciti?». Roscioni 19953: 216, prendendo per buona l'affermazione di Vela che nella storia romana «non si registrano “Salinatori” di qualche emblematicità», pensa che «sotto la parola “Salinatori” si debba leggere “Salivatori” (traduzione italiana del milanese baziscia = sbavatori, spacconi)». Marco Livio Salinatore è invece una figura emblematica nella storia romana, perché, dopo avere subìto una grave e ingiusta condanna da parte del popolo romano, accetta per senso del dovere la carica di console con il compito di guidare l’esercito contro Annibale, ripagando l’ingiustizia subita con la splendida vittoria del Metauro (si vedano le storie di Livio, che non erra). Invertendo la formula, pro malo bonum, Marco Livio Salinatore

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rappresenta tutti coloro che hanno ripagato il male con il bene: nessuna meraviglia che il riferimento avvenga al plurale («i Salinatori»). Il plurale afferma l’esemplarità. Oggetto di condanna è nella favola il popolo romano (e il favore popolare in genere), simboleggiato dal nome divino del fondatore di Roma (Quirino), che al momento del bisogno accetta la designazione, per la più alta carica dello Stato, di chi aveva macchiato ingiustamente di infamia in un processo. La designazione operata dai senatori viene accettata dal popolo romano: «coscritti a’ padri» vale quindi ‘designati, quasi obbligati dai senatori’. «Coscritti» è più che opportuno, trattandosi di adempiere i propri doveri militari contro Annibale, che sembrava allora invincibile. Marco Livio Salinato-

re come milite del dovere. Di una brevissima favola esclusa dalla raccolta (F 211: «Il cucùlo: nella solitudine della campagna remoto singhiozzo»), Claudio Vela scrive che «doveva suggellare, in una sorta di accorato finale, le favole per “Tesoretto”. Non si conoscono le ragioni dell'esclusione» (F 217). Il singhiozzo del cucùlo della favola assolve una funzione parallela a quella svolta dal richiamo dell’assiuolo nella notte, come si intravede sceverando i fili sim-

bolici del racconto I/ club delle ombre (AG), dove il chiù, già in Pascoli legato alla presenza misteriosa delle persone care e perdute, rappresenta la voce dolorosa dei sacrificati. Spiegherei l’assenza dell’«accorato finale» come cecidere manus. L'ultima favola (n. 186) del Prizzo libro delle favole assolve una funzione analoga a quella che sarebbe stata assolta dal singhiozzo del cucùlo nel silenzio: F 81 Zorzi pittor veneto fece San Liberale in figura d'uno giovane bellissimo non più rivenuto da le guerre, che pare con San Francesco povero da’ duo lati una basi ov’è nostra Donna, e reina, 7l suo gentil parto reggendo, seduta: e légasi lo scalzo, già ignudato e de la povertà del suo saio rivestito, d’uno capestro a la cintola, sì come allora che

de le cinque piaghe di crucifissione e passione, sul crudo sasso infra Tevero e Arno s’aderge, da Cristo prese l’ultimo sigillo: quando che

l cavalieri è da ritto, e, tutto chiuso dentro l’arme co l’una mano in

nella guardia de la poggiata sua spada, la celata dell’antro braccio sustenta, quale dal biondo capo s'è distolta, e dal sereno suo viso: et ene detto bacinello con piumicini buonissimi e’ quali d'uno tenero co75

lor verde in uno àzulo disvariano, ch’e’ paian li steli de la primavera al tallire. Et è per il detto Zorzi fatto a dimostrar quello ne la pace a color tutti che il piangano e a l’offerente genitore, e per reverenzia di nostra Donna la qual siede con el putto ’n piè sul ginocchio di essa, in una basi o plinto frammezzo i predetti intercedenti santi assai alto, e d’onice e di lapislazulo fabricata e d’aspide e giada verde, o ver pietra malva, con ornatissimi e folti drappi da piè di Quella, che di Damasco e Lissandria tuttodì recano a le lor terre quelli vinigiani per nave. Meravigliosa favola è questa, per Zorzi detta, e ne dice: ch’a rimembrare i non venuti a sua casa, a la misericorde Madre accoman-

dando essi, da sé, Zorzi di Castelfranco, imparando pingere te tu argomenti: «a suo merto steasi! che le ranocchie son qua: l'elmo li distolgo, e ’l capo e ’1 volto gli faccio ne la luce».

Il volto di chi non ritorna dalla guerra è dipinto nella luce. Con l’investitura paradisiaca del giovane sacrificato — viene tolto l'elmo per fare spazio alla luce in uno stretto rapporto di causa ed effetto — la memoria del Paradiso dantesco delle righe precedenti confluisce nella visione di un paradiso dell’arte e della scrittura. Tornano alla mente tutti i volti luminosi del Paradiso di Dante. Il Prizzo libro delle favole termina sulla luce dei sacrificati. L'ultima favola controbilancia strutturalmente le numerose precedenti favole con Mussolini all’inferno (a «Pocolume»), per il quale non a caso è recuperato, in termini di memoria letteraria,

l'Inferno dantesco. La tenebra eterna per il carnefice, la luce eterna per gli eroi del dovere. Il nucleo nevralgico del Prizo libro delle favole si orienta con citazioni e riprese indirette verso il modello giudicante dantesco nella Nota bibliografica gaddiana: F 96-7. da poi che non abbiendo elle [=favole] grazia a’ tiranni, e né a’ famigli loro malignissimi, o neri o verdi, d’anno di nostra perdizione diecessette [= anno dell’era fascista, cioè 1939] non l’arei potute dare nelle stampe: et ancora quelle parti, dell’altre che vho inframesso a quest'anno, quali sopr’al mortorio del Somaro [=Mussolini], a guisa d'una cantata, che si fa sui morti e prencipia: “de profundis”. Se non ch’eo non chiamo ivi a meo domino, el Signor Nostro, che ’l mi tragga su, sì ch’ei pinga colui colà giù dentro il pozzo, e quel da basso lo tiri dove le sue dimonia stannosi, ch’hanno € cor76

ni e i raffi e cagnazzi ceffi da parer paventosi a qualunche, e ciò a quel modo che per esso diavolo è detto: venir sen deve giù tra’ miei meschini.

Lo scrittore è giudice e le favole non hanno «grazia» per i tiranni (per Mussolini). Mussolini diventa i «tiranni» come Marco Livio Salinatore viene trasformato in «i Salinatori». I toscanismi e gli arcaismi che formano il tessuto linguistico delle favole disegnano altri veli protettivi, provocando l'illusione di un allontanamento del mondo rappresentato nel passato e imprigionando il lettore non simpatetico nei labirinti semantici e sintattici dell’espressione. La composizione delle favole attraversa e in parte supera la seconda guerra mondiale. La scrittura continua a essere allegorica e allusiva anche dopo la caduta del fascismo. Il tempo si ferma per Gadda alla fine delle due guerre mondiali. Si formano due nuclei tragici attorno ai quali la scrittura continua a gi-

rare per inerzia, moltiplicando le procedure allusive e gli schermi protettivi.

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Capitolo terzo

Il tribunale tragico: «La cognizione del dolore»

3.1. AUTOBIOGRAFIA TRAGICA

3.1.1. Autobiografia e letteratura

La cognizione del dolore si configura come un’autobiografia tragica. La pubblicazione di sette tratti, corrispondenti ad altrettante puntate del romanzo, sulla rivista «Letteratura» fra il 1938 e il 1941, l'interruzione della pubblicazione durante le guerra, il

libro del 1963 che comprende le parti già pubblicate su «Letteratura», la comparsa nel 1969 di altri due tratti inediti in traduzione inglese, il libro del 1970 con i due tratti nuovi in italiano, le anticipazioni di un decimo tratto incompiuto in Roscioni 19752, la comparsa integrale dei frammenti in Manzotti 1987 disegnano mezzo secolo di storia editoriale intermittente, a specchio di un rapporto quanto mai travagliato del testo con le ragioni della comunicazione e del silenzio. Autobiografia tragica, proprio perché compromessa con le forme della sofferenza sino ai confini del dicibile. L’età del protagonista, Gonzalo, indicata nel primo tratto, pubblicato nel luglio del 1938, è di quarantacinque anni (C 31), proprio l’età di Gadda, nato il 14 novembre 1893. A marcare di più il significato della coincidenza, nel tratto

successivo pubblicato nell'ottobre del 1938, si dice di Gonzalo che ha già passato i quarantaquattro anni (C 125), che deve cioè

compierne quarantacinque, proprio come Gadda. Due indica79

zioni con progressiva precisione nelle prime due puntate come sigillo autobiografico. Nelle lettere a Gianfranco Contini è annunciata più volte la scrittura di un’opera come vendetta contro questa o quella persona, contro questa 0 quella categoria di persone. Il mondo rappresentato poi nella Cognizione è preannunciato come oggetto di

vendetta in una lettera del 26 maggio 1936: «Fra l’altro la mia casa di campagna (bella grana anche questa!) mi procura più grattacapi che una suocera isterica. Sono le fisime casalinghe, brianzuole e villerecce di un mondo che è tramontato per sempre lasciandoci solo stucchevoli tasse da pagare. - Mi vendicherò» (LC 19).

Contini annota a piè di pagina che «“Mi vendicherò”» «è il primo germe della Cognizione». L'edizione del 1963 è accompagnata da una memorabile Introduzione di Gianfranco Contini, che offre al lettore le coordi-

nate linguistiche, stilistiche e letterarie della scrittura gaddiana. Lo scritto continiano, ora leggibile in Contini 1989: 15-35, è tanto denso quanto illuminante sul piano formale, ma lascia programmaticamente fuori campo la decifrazione del messaggio. 3.1.2. Un giallo linguistico

La cognizione del dolore colpisce il lettore sin dalle prime pagine per l’alta escursione linguistica e stilistica. Lo spessore semantico del linguaggio, tutt'altro che trasparente rispetto alla trama, libera complesse dimensioni narrative; in alcune parole si intravedono vertigini di significato; inomi spesso interpretano e a volte giudicano le cose. Le prime pagine del giallo, anziché collocare la storia nello spazio e nel tempo secondo la tradizione del romanzo realistico, lanciano segnali linguistici dissonanti. Il giallo riguarda in prima istanza il linguaggio. La lingua italiana si somma o si mescola con forme spagnole («noche» per ‘notte’) o, in diverso grado, ispaneggianti («Nistittos» per ‘istituti’), lombarde o lombardeggianti («granone» per «granòn» ‘granoturco’), toscane («du soldi di cacio») o toscaneggianti, persino venetismi («ciaccolosi» — Manzotti 1987: 11, 53). Le forme dialettali si al-

ternano con le voci dei linguaggi settoriali (diritto, medicina, chi80

mica, biologia, filosofia etc.), mentre il registro aulico, per lo più

ad alta densità di latinismi, si scontra con quello popolaresco. Ancora più alta è l’escursione stilistica dal tragico al comico, dall’elegiaco al grottesco. Data la ricchezza degli ingredienti espressivi e la varietà degli spunti tematici, l'operazione del riassunto comporta per La cognizione del dolore una selezione che è già di per sé un’interpretazione; anzi, se non si distinguono i significa-

ti tragici da quelli ironici o sarcastici, si rischia di capovolgere il messaggio e, se non si decifrano le allusioni, l’inquisizione più rigorosa può assumere ingannevolmente i volti del caos linguistico o del delirio tematico. Geografia lombarda e geografia sudamericana si mescolano. L’Ottocento napoleonico e il primo dopoguerra mondiale del Novecento si intersecano senza risparmiare aperture, nella parte

finale, sulle guerre fasciste: dalle guerre delle patrie a quelle delle nazioni sino alle guerre delle dittature di massa si forma una climax tragica che, al punto di rottura della seconda guerra mondiale, interrompe prima la pubblicazione e poi la stesura del giallo. Le coordinate spazio-linguistico-temporali sudamericane si rivelano sempre di più nel corso della narrazione specchio allegorico della situazione italiana. In primo piano all’inizio sono i danni economici e lo sfacelo sociale del dopoguerra in un paese che esce dalla guerra nel 1924. L’ottica giudicante del narratore condanna sia il Maradagàl che il Parapagàl, che giocano a scaricarsi la responsabilità della guerra l’uno sull’altro. Protagonisti negativi del dopoguerra sono i profittatori di guerra, rappresentati dalla categoria dei falsi reduci: il sarcasmo del narratore insieme li smaschera e li condanna. In un’ulteriore restrizione dal generale al particolare, il sarcasmo colpisce il falso reduce Pedro Manganones o Mahagones, che si rivela in realtà Gaetano Palumbo, a ricordare che l’allegoria è puntata contro la situazione italiana. Parallelamente il Serruchén prende l’aspetto del manzoniano Resegone, per indicare la chiave del romanzo storico e un modello di scrittura impegnato in un tenace confronto con il reale. Il falso reduce ottiene una pensione di guerra; poi, smascherato, la perde, ma si ritrova, con ironia narrativa, vigile notturno, difensore della legge. 81

Uno spazio bianco porta il lettore su un paesaggio fin troppo simile alla Brianza, con le ville in cui si mescolano i più eteroge-

nei stili architettonici: unico assente, in tale abbuffata architetto-

nica, il buon gusto. Dalle ville, con procedimento metonimico dal generale al particolare, si passa al gruppo costituito da Villa Antonietta, Villa Maria Giuseppina e Villa Enrichetta. L'ampio rilievo dedicato al fulmine che si accanisce sulle tre ville e la coerente ricchezza di allusioni che tramano l’episodio mal si spiegherebbe senza pensare a un’allegoria napoleonica (cfr. 3.2.1). Il fulmine, dopo un itinerario-pandemonio, finisce annientato in

una latrina: il verdetto di condanna è stilato nel linguaggio della parodia. Legato al fulmine è il fantasma in cui si è trasformato dopo la morte il vate, il poeta epico, l’esaltatore delle guerre, quasi a pagare le celebrazioni dei fantasmi della cupidigia e dell’irrazionalità umana che prendono corpo nei cadaveri delle battaglie. Il colonnello medico Di Pascuale affitta Villa Maria Giuseppina, viene a conoscere il dottor Higuerda e, sentendolo chiacchierare sul falso reduce, si ricorda di avere avuto a che fare con

Gaetano Palumbo all'Ospedale Militare Centrale di Pastrufazio (Milano). La narrazione si avvicina al protagonista: il dottor Hi-

guer6a è chiamato, attraverso José il peone, dal figlio. della Signora di Villa Pirobutirro per una visita medica. L’'immaginazione del medico si scatena, durante il percorso in bicicletta, in

un'inchiesta metaforica sul protagonista: le chiacchiere della gente diventano testimonianze d’accusa; gli si attribuiscono tutti e sette i peccati capitali; si crea il mito negativo di un personaggio ingordo e goloso quasi sino alla morte. L'invasione delle dicerie è però contrastata da alcune luci positive, impercettibili per il medico, rintracciabili attraverso una lettura in profondità; bastano

poche righe: lo hidalgo legge Kant nella sua villa senza parafulmini (nell’episodio precedente sono i parafulmini ad attirare i fulmini). La genealogia del protagonista, sempre ricordata dal medico, annovera come illustre antenato un don Gonzalo del Seicento esemplato, con chiare allusioni concomitanti (Lorenzo Tramaglino che diventa Filarenzo Calzamaglia etc.), sul governatore spagnolo di manzoniana memoria. Il finale del tratto (così Gadda 82

chiama i capitoli, coincidenti con le puntate) trova un personaggio tormentato dai clamori del mondo, desideroso soltanto di «scrivere una postilla al Tizzeo, nel silenzio, per gli stipendi di nessuno» e concentrato sul problema del male invisibile. Sembra che il protagonista, che ancora non è stato presentato per nome, risponda con il silenzio alle accuse ingiuste delle chiacchiere del mondo. Il silenzio sul nome rispecchia la falsa conoscenza dei pettegoli e dei calunniatori. Il silenzio del personaggio parla più forte di qualsiasi condanna, cancella dallo sguardo dell’anima, è

la più radicale delle darznationes memoriae (condanne della memoria). Don Gonzalo Pirobutirro porta a lettere indelebili nel cognome il trauma rappresentato dalle pere butirro, dure come sassi, per l'infanzia di Carlo Emilio Gadda: altro sigillo autobiografico. Il secondo tratto, molto più breve del primo, narra soprattutto l’incontro e il dialogo del medico, che si avvicina alla Villa Pirobutirro, con la domestica Battistina, personaggio disegnato con

forme e voci grottesche. La donna presenta al medico una villa sconvolta dalle ire del figlio e dai terrori della madre. L’accanimento verbale del primo contro i brillanti, che nel discorso della Battistina si colora di follia, nasconde l’atto d’accusa del re-

duce autentico contro i profittatori di guerra. Il riferimento ai morti che hanno riempito i cimiteri a causa dei brillanti svela lo statuto allegorico dei gioielli nella prosa gaddiana. La lamentela della Battistina si conclude con la guerra che ha cambiato tutto in peggio: il livello superficiale della narrazione riguarda il commercio spicciolo; un significato più profondo mette in relazione con la guerra il male invisibile del figlio. Dopo l’incontro con la domestica di Villa Pirobutirro, il dottore passa in rassegna mentalmente altri racconti-testimonianza,

tutti contro il figlio, come è chiamato per antonomasia il protagonista. Il figlio va incontro al medico con una cortesia estrema velata di stanchezza che è del tutto in contrasto con l’immagine

che il lettore si è creato attraverso le voci su di lui. Umiltà, timi-

dezza, correttezza, sincerità completano la presentazione e for-

mano con il silenzio, agli occhi di un lettore non prevenuto, una

diga insuperabile per le maldicenze. 83

Nel terzo tratto, dopo la visita medica che non accerta nessu-

na malattia fisica ma si svolge non a caso sotto lo sguardo del generale Pastrufacio dal ritratto, il medico propone a Gonzalo, che

è presentato ora come malato ora come ingegnere, l’iniezione di

vitalità di una gita in automobile con la Giuseppina, indiavolata figlia del proponente (proposta di gita con speranza di colloca-

mento matrimoniale). Gonzalo, immerso in lontani dolori, decli-

na gentilmente l’invito, respingendo così indirettamente la diagnosi superficiale del medico. I veri mali di Gonzalo si manifestano, sotto il velo di scatti irrazionali, durante la conversazione successiva alla visita, ma il medico non riesce nemmeno lontana-

mente a comprenderne la portata. L'ira di Gonzalo si rivolge a più riprese contro le campane, che sono metonimia dei traumi infantili (dato biografico di un’offerta troppo generosa dei genitori per l'acquisto di campane) e metafora delle celebrazioni poetiche e musicali delle guerre e impediscono persino la lettura dei Vangeli; contro il nipotino del colonnello medico, che riceve, immeritevole, lezioni e affetto dal-

la madre del protagonista; contro il poeta epico Carlos Cagoncellos; contro i pronomi di persona, pidocchi del pensiero che impediscono un'analisi razionale del mondo; contro il peone (più oltre si dirà che era imboscato durante la guerra) che profana lo spazio affettivo della casa in cui si attende, a specchio di un dolore vivo e non superato, il ritorno di chi è morto in guerra. Le ire si alternano ai momenti di angoscia per la madre che non vuol farsi curare dai medici (anche il suo male non è fisico) e non torna ancora dal cimitero. La premonizione figurale si adempie nel racconto di un sogno terribile che non lascia, tra la morte e il rimorso, alcuna speranza di ricomposizione affettiva possibile con la madre, alcuna possibilità di riscatto al di là delle apparenze ingiuste del mondo. La tragedia dell’incomprensione, ben al di là delle menzogne della gente che lo sfiorano appena, coinvolge per Gonzalo soprattut*o la madre. Nel quarto tratto prosegue la conversazione tra Gonzalo e il medico. I ricordi di guerra e l’ansia per la madre che non torna dal cimitero (vi è il figlio morto in guerra) creano uno sfondo tragico agli scatti d’ira contro la moltitudine di servi di cui si circonda la madre; di nuovo contro il nipotino del colonnello, tut84

to vitalità e niente intelligenza, di cui sogna il funerale; ancora, e con variazioni, contro il vate e il fantasma del vate; contro le leg-

gi che tutelano i ladri; contro il linguaggio convenzionale e falso degli annunci funebri, oggetto di una feroce parodia; contro il peone-ladro; contro il Nistitto e il suo vigile-ciclista Gaetano Palumbo, che, in quanto mutilato di guerra, non dovrebbe essere

in grado di sorvegliare niente. Il medico, che rappresenta la nota comica della mediocrità e della superficialità di fronte all’inquisizione tragica del protagonista, trova spazio quando può rovesciare sull’interlocutore le informazioni che possiede sul falso reduce. Il discorso è interrotto dall’irruzione dell'ufficiale del Nistitào che vorrebbe imporre ai Pirobutirro l'abbonamento all’organizzazione di protezione (mafiosa) a suon di articoli di legge (cfr. don Abbondio e il /atix0ruz2) ma viene spedito via da Gonzalo. Il resoconto sul Palumbo continua con l’accompagnamento sonoro dei coccodè, che trasforma il medico, sul piano del giudi-

zio, in un pettegolo giulivo. Il finto sordo di guerra, al termine di una finzione riuscita quasi perfettamente, è smascherato casualmente da uno scritturale alla presenza del colonnello Di Pascuale, che si esprime in napoletano arricchendo la polifonia del romanzo-giallo e traduce la gioia del successo in piacere della narrazione, suggerendo una storia a lieto fine con miracolo della Madonna di Pompei. Anche qui il dottor Higuer6a e Gonzalo viaggiano su binari completamente diversi, perché il colonnello medico è motivo di ricordi di guerra e di morte per il reduce autentico. Il quinto tratto, che è anche il primo della seconda parte, è dedicato alla madre sopravvissuta al figlio morto in guerra: l’uragano che la minaccia, l’assale e la conduce al limite della morte è la raffigurazione allegorica delle violenze della guerra e delle celebrazioni del dopoguerra. Si tratta di un tratto decisivo per l’interpretazione globale, vergato in stile alto e tragico dall'inizio alla fine, che sarà analizzato con precisione più avanti. Nel sesto tratto il male oscuro di Gonzalo che torna stanco la sera a casa è rivissuto dalla consapevolezza angosciosa della madre. In antitesi rivelatrice rispetto ai pettegolezzi della prima parte dell’opera che lo vogliono ingordo e ubriacone, Gonzalo non 85

mangia e non beve di fronte alla più povera delle tavole apparecchiate perché troppo stanco di una vita e di un mondo che giudica attraverso un delirio furibondo che è specchio emotivo di un’inquisizione razionale. Il silenzio sulla guerra, in antitesi con le menzogne senza fine del falso reduce, denuncia l’indicibilità del dolore. Fra i tanti nemici, lo spettro del vate che terrorizza i polli: la poesia celebrativa come coccodè di morte tragico e grottesco. A completare la negazione delle dicerie su Gonzalo compaiono, sempre negli spazi giudicanti del delirio, i veri frequentatori di ristoranti, personaggi del tutto opposti rispetto al protagonista. Il ristorante è rappresentato come il luogo, anche linguistico, dell’ipocrisia tra le vacue cerimonie sociali degli avventori e il doppio linguaggio dei camerieri (fra loro e con i clienti). Il delirio si conclude, come si era aperto, con Gonzalo al-

l’impiedi con gli occhi sbarrati in presenza del piatto semivuoto. Il settimo zratto, piuttosto breve, è centrato sul protagonista. Gonzalo, inseguendo nell’anima il sogno del mondo come dovrebbe essere, non si piega alla realtà com'è, alle brutture e ai compromessi, e la rifiuta in blocco. Madre e figlio si incontrano per un attimo affettivamente ma l’irruzione sgradevole del peone spezza l'incanto. Il peone parla senza sosta e viene licenziato dallo hidalgo. Uno spazio bianco conclude il segmento narrativo che si era aperto con il ritorno di Gonzalo raccontato all’inizio del tratto precedente. Nella seconda parte del settimo tratto è analizzato il rapporto tra madre e figlio. La tragicità dei due destini si incontra nella perdita del figlio e fratello morto in guerra. La stanchezza dei due personaggi prelude alla loro fine e la giornata d'autunno che si conclude con l’eco delle martellate del fabbro misura il tempo sui ritmi della fatica e della sofferenza e cala come un sipario di morte sulla tristezza funebre dei protagonisti. Con il settimo tratto finisce la parte del libro pubblicata a puntate su «Letteratura» fra il 1938 e il 1941. L'ottavo tratto comincia con il racconto del furto alla villa del Trabatta effettuato con un linguaggio semiferino dalla lavandaia Peppa. Dietro il furto si intravede una vendetta dell’istituto di vigilanza su un non abbonato. Qualche giorno dopo il furto, c'è una nuova visita della Peppa, introdotta da José il peone, alla madre di Gonzalo. La Peppa è seguita dal falegname Poronga, dal86

la pescivendola Beppina, dai polli del peone, dalla Pina del Goepp o donnetta del cimitero e dall’anziana madre del peone. La folla invade la casa, intesa come spazio fisico e luogo affettivo, con la più sporca esteriorità, mentre Gonzalo non riesce a salvaguardare la propria interiorità, dedita alla lettura di Platone. Non mancano due gatti, un cagnolino e un pesce in decomposizione. La folla bestiale funge da controcanto grottesco ai ricordi tragici dell’infanzia da parte di Gonzalo e ai ricordi del figlio e fratello morto in guerra da parte della Signora e di Gonzalo. Le allusioni alla prima guerra mondiale e alla guerra d'Etiopia, mimetizzate fra i ricordi d’infanzia, sono per lo più velate dal linguaggio onirico. Lo hidalgo sogna di riprendere la mitragliatrice della prima guerra mondiale e di liberare la casa dalla folla. La scenata alla madre per l’eccessiva indulgenza verso i compaesani e la partenza repentina dalla villa — quasi un addio alla madre e agli affetti — concludono il tratto. Il nono tratto ha una struttura narrativa progressiva culmi-

nante sulla scoperta della Signora moribonda per effetto di una misteriosa aggressione. Il furto nella villa del Trabatta si configura come una vendetta anticipata. Anche Villa Pirobutirro non ha l’abbonamento-protezione del Nistitto, organizzazione statale mafiosa assimilabile al regime fascista, che nasce dalla prima guerra mondiale (è, quindi, profittatore di guerra) e promuove, fra l’altro, altre guerre. Le ferite della madre sono le stesse che compaiono sul volto del figlio morto in guerra nel tratto precedente. Dai frammenti di un decimo e ultimo tratto emerge l’idea della madre che muore credendo che sia stato il figlio a ucciderla e del figlio che, con un destino ancora più tragico, se ne accorge e non può fare nulla per smentire. Il giallo è, in prima istanza, linguistico, perché si risolve sia leggendo l’opera attraverso gli stili in cui si esprime il messaggio, sia decifrando lo spessore semantico del titolo. La cognizione del dolore consiste nell’infelicità senza fine degli innocenti assassinati nelle persone care e poi condannati, a supremo spregio, dai colpevoli.

87

3.1.3. Maschere di storia

La moltiplicazione delle maschere spaziali e temporali, geografiche e storiche è funzionale alla rappresentazione dell’Italia del primo dopoguerra. Il travestimento sudamericano della geografia richiama l’adibizione manzoniana del Seicento spagnolo in funzione dell'Ottocento austriaco. La protesta contro il potere austriaco è visibile nei Promessi sposi sotto lo schermo della critica al dominio spagnolo in Lombardia. Manzoni si serve in chiave allusiva dell'asse del tempo, mentre Gadda fa slittare sull’asse dello spazio i suoi attacchi contro il fascismo, trasformando in un immaginario Sud America la Lombardia del periodo successivo alla prima guerra mondiale. La scrittura dei Promessi sposi è definita «indagine atroce» nell’Apologia manzoniana: la formula risulta parallela rispetto a «cognizione del dolore». La voce del narratore della Cognizione reca anche un sigillo manzoniano tenacemente mimetizzato. La «stagione d’autunno dove occorsero i fatti che abbiamo impreso a ricordare» (C 447) ricalca i «tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare» (PS I 10). Più volte (PS V 87; XXV 482) Manzoni ricorre nel romanzo al-

l’assunto iniziale dell’anonimo, secondo il quale «pure per degni rispetti, si tacetà li loro nomi, cioè la parentela, et il medemo si

farà de’ luochi, solo indicando li Territorij gereraliter» (I 6). L’espediente letterario di tradurre il mondo rappresentato in termini allusivi più o meno chiari funge da schermo per le accuse gaddiane, specie se rivolte al regime fascista. La vera protagonista del primo tratto della Cognizione del dolore è la guerra, che per Gadda è sempre la prima guerra mon-

diale. Il Maradagàl, che è lo Stato immaginario in cui si svolgono le vicende del romanzo, è appena uscito da un’«aspra guerra» (C 9) col Parapagàl. La forte somiglianza dei nomi sta a indicare la qualità fratricida di ogni guerra. Maradagàl, Parapagàl, nomi intercambiabili: ogni guerra è perduta, perché si combatte contro se stessi e si soccombe di fronte ai fantasmi evocati dalla cupidigia e dalla follia. Non a caso «ognuno dei due paesi sostiene di aver vinto la guerra e ne addossa all’altro la terribile responsabilità» (C 11). L'aggettivo «terribile» è nell’ottica giudicante del narratore: la guerra per chi governa è come un gioco, tant'è vero che la superficialità con cui i plenipotenziari del 88

Maradagàl e quelli del Parapagàl entrano in guerra e tornano in pace diventa secondo termine di paragone per la facilità con cui le ragazze perdonano i corteggiatori un po’ molesti. La confu-

sione e l’irrazionalità si riflettono nelle operazioni militari e nella battaglia campale di Santa Rosa, evocata più avanti, dove «Nepomuceno Pastrufazio batté gli “antichi” conquistadores e subito prima le torme degli Indios in piena rivolta, non si sa bene se contro lui o contro quegli altri» (C 58). L’interrogativa indiretta finale fotografa l’oscuramento totale della ragione, il buco nero della ragion militare. Nel nono capitolo dei Malavoglia, a proposito della battaglia navale di Lissa del 1866, si registra il «combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei nemici, che nessu-

no sapeva nemmeno chi fossero». Nepomuceno richiama Giovanni Nepomuceno, santo controriformistico, già oggetto delle

beffarde attenzioni di Vittorio Imbriani. La prima conseguenza della guerra è rappresentata dai falsi reduci — «Negli anni seguenti al 1924 vi erano perciò, tanto nel Maradagàl quanto nel Parapagàl, dei reduci di guerra» (C 10-1) — come evidenzia con forza il connettivo «perciò». La citazione di entrambe le nazioni è in funzione dell’estensione della piaga dei falsi reduci a tutti i dopoguerra possibili. Il sarcasmo colpisce i reduci: sono stati feriti, ma le ferite restano invisibili; le ci-

catrici sono «defraudate della quota d’ammirazione» (C 11) che spetta loro: la metafora economica riduce il falso valore militare alla sua realtà di calcolo meschino. I falsi reduci sono definiti, con antifrasi sarcastica, «i gloriosi feriti» (C 12) e finiscono arruolati nei Nistittos provinciales de vigilancia para la noche, organizzazioni paramilitari sulle quali si apre il romanzo. Dopo la prima sequenza incentrata sulla guerra e sul dopoguerra dei falsi reduci, si apre la seconda sequenza, dedicata a un falso reduce in particolare, attraverso il quale si ritorna alle sanguinose quanto inutili strategie di generali che ricordano fin trop-

po da vicino Cadorna e i generali italiani della prima guerra mondiale. Il reduce di guerra si manifesta un concentrato di malafede e di ipocrisia a partire dal nome e dal cognome: la falsa identità di Pedro Manganones o Mahagones, con slittamento fonetico che intorbida le acque, copre Gaetano Palumbo (C 20-1). Il falso reduce è latore di una falsa testimonianza sulla guerra: sarebbe ri89

masto sordo per lo scoppio di una granata nell’azione di quota 131. Alla voce del Palumbo-Mahagones, che, inventando i propri ricordi di guerra attorno all’«azione di quota 131», conferisce una dimensione epica alle strategie delle quote e uno statuto eroico a se stesso, si contrappongono gli interventi diretti del narratore; non affidati stavolta, per interposto personaggio, a Gonzalo, perché l'urgenza espressiva travolge ogni finzione narrativa.

Manzotti 1987 ricorda come, in una redazione precedente, si

parlasse addirittura di quota 31, con un’altimetria ancora più inverosimile. L’inverosimiglianza dell’altimetria misura il grado dell'inerzia mentale umana: a tal punto la menzogna verbale, che forma poi il sostrato tanto dei pettegolezzi popolari quanto delle opere storiche, può cancellare l'evidenza — e con l'evidenza la realtà dei fatti - con parole evanescenti come bolle di sapone che portano il pensiero a spasso per l’aria. La prosa autocritica L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l'Autore, aggiunta alla Cognizione nella prima edizione in volume (1963), collima perfettamente con l’interpretazione delle chiacchiere popolari come velo allegorico (allegoria attraverso metonimia: concausa per effetto), quando dichiara che «la carica idolatrante de’ vari ambienti del mondo, delle varie culture, de’ varî ammassamenti di perso-

ne o di genti», oltre che «condizionare il giudizio umano», «viene a conferire un supervoltaggio ausiliare alla bugia e alla reticenza storiografica» (C 485). La «granata speciale, di alta classe: e proveniente da un cannone qualificato», che nelle menzogne del falso sordo di guerra, amplificate dalle chiacchiere della gente, avrebbe provocato la sordità, si distingue rispetto alle «granate comuni, ordinarie», e il narratore non può fare a meno di notare in contiguità, attraverso lo stilema della parentesi giudicante (cfr. 1.4): «(di cui giusto eran morti i loro fratelli, o figli)» (C 24). La ferrea consecuzione argomentativa mette in luce una contraddizione in termini: le granate comuni massacrano; la granata speciale, devastante a parole, provoca disturbi uditivi. La voce tra parentesi si delinea come diametralmente opposta a quella del falso reduce. Il riferimento ai fratelli, ai figli anticipa il nucleo tragico della Cognizione: lo strazio di Gonzalo e della madre, che hanno perduto in guerra colui che era per lui il fratello, per lei il figlio. 90

L'amarezza si concentra in ironia e l'ironia prende la forma dell’antifrasi, cioè del giudizio capovolto, assumendo la partecipazione emotiva del sarcasmo, quando Pedro, come «un semplice, un puro di cuore» dalla «parola nuda, efficace» è contrapposto ai signori in villa (dietro il plurale allusivo si legge Gonzalo) e agli scrittori arzigogolati e barocchi «come Jean Paul, o Carlo Gozzi, o Carlo Dossi, o un qualche altro Carlo anche peggio di questi due, già così grami loro soli; buono magari di adoperar la guerra, e i dolori della guerra, per cincischiarne e sottilizzarne fuori i suoi ribòboli sterili, in punta di penna» (C 26-7). Lo scrittore affiora in prima persona anche per avvertire il lettore della fondamentale differenza rispetto agli autori citati (soprattutto Carlo Dossi e con lui gli scapigliati): le contorsioni espressive mai fini a se stesse, ma di volta in volta specchio del dolore, itinerario della conoscenza, maschera della verità. Al gio-

co scapigliato dell'espressione si oppongono la conoscenza del dolore, il dolore della conoscenza, il dolore della guerra, la guerra del dolore. I nomi disegnano l’opposizione attraverso larghe volute paronomastiche: il doppio nome Jean Paul, che copre il vero nome Johannes Paul Friedrich Richter, in convergenza di significante e divergenza di significato con Carlo Emilio; Carlo Gozzi e Carlo Dossi con cognomi simmetrici a Gadda per misura fonetica e sequenza di vocali e di consonanti, asimmetrici per la terribile serietà del messaggio dello scrittore milanese (Dossi nasce nella provincia pavese, Gozzi è veneziano). La continuità delle smentite di Gadda su una conoscenza approfondita degli scapigliati trova una corrispondenza all’interno della Cognizione e rivela la consapevolezza da parte dello scrittore di quanto l’insistenza su coordinate scapigliate, trasformando la superficie linguistica in uno schermo abbagliante, oscurasse la sostanza tragica del messaggio. Le chiavi di lettura che Gadda mimetizza nelle proprie opere sono tali da smascherare, anche attraverso profetiche parodie, qualsiasi interpretazione per luoghi comuni. La differenza specifica rispetto agli scapigliati, evocati attraverso l’antonomastico Dossi, qualifica la pagina gaddiana come una scrittura di guerra, un’alternativa cioè ai diari di guerra tenuti a lungo segreti. 91

Tre bersagli: i lettori superficiali, i profittatori del dopoguerra, i carnefici della guerra. La sproporzione tra il numero di vittime della strategia delle quote e del cocuzzolo e l’inconsistenza del vantaggio militare è messa in rilievo dal valore effimero della quota in questione. Il narratore, a cui non bastano le rivela-

zioni sarcastiche, lascia intendere con un intervento diretto che

dietro la guerra Maradagàl-Parapagàl della finzione c’è un’altra guerra reale e storica (la prima guerra mondiale con le battaglie dell’Isonzo): C 27-8.

In realtà, nella guerra Maradagàl-Parapagàl, di quote 131 —

o 151 0 171 — ce n'erano state a bizzeffe, date le contrastanti delibe-

re degli opposti strateghi, che ci strofinarono sopra, alle quote, come fossero zolfanelli, i battaglioni massacrati: e un reduce qualsiasi per poco fantasioso che fosse, e magari anche un disertore indio, aveva

largamente da scegliere.

«In realtà», posto in apertura di sentenza, spezza la finzione narrativa, offre la chiave allegorica al lettore-interprete, radica-

lizza l'opposizione tra il narratore-verità e il falso reduce-menzogna, proietta l’ombra del narratore sulla figura dell'autore, reduce autentico come del resto il protagonista Gonzalo. La metafora degli zolfanelli condanna come un gioco assassino la tattica dei generali.

Le parole-chiave per il falso reduce e per le sue pseudo-gesta sono «eroismo» (C 30) ed «epos» (C 31), primo grado di ben altri pseudo-eroismi e di ben altre celebrazioni epiche. Poeti-vati come Foscolo e d'Annunzio e innumerevoli altri hanno celebrato la guerra. La metafora tradizionale del condottiero è quella del fulmine di guerra (già nell’Ezezde di Virgilio: «duo fulmina belli», due fulmini di guerra). Lo sguardo fulmineo del PalumboMahagones, i cui occhi sono «affossati, piccoli, lucidi, assai mo-

bili e con faville acutissime e d’una luce di lama nello sguardo» (C 22), rappresenta ia versione misera («piccoli») e infida («affossati») degli occhi fulminanti di Napoleone. Se «tutti ripetevano “l’azione di quota 131, l’azione di quota 131”, come si trattasse d’un fatto universalmente noto, Waterloo, Aboukir, Porta Tosa» (C 24-5), occorre vedere nell’azione di quota 131, al di là della

lettura superficiale, la prima cellula di ogni celebrazione epica. 92

Le parole sublimi del poeta-vate possono abbagliare gli occhi dei lettori al punto da trasformare in trionfi le più solenni batoste. Waterloo e Aboukir evocano il nome e la storia di Napoleone, portano il condottiero ai fasti del trionfo verbale, sembrano evocarne le gesta, ma non si tratta in realtà di gesta, sono se mai anti-gesta, sconfitte disastrose. E tutt'altro che casuale che, tra le tante vittorie, siano scelte le disfatte, quasi a rivelare il risvolto

negativo di ogni battaglia. La luce della storia capovolge i trionfi verbali in tonfi che sarebbero spettacolari se non fossero tragici per le vittime che sempre accompagnano le parole assassine. L’avversione della cultura milanese per Napoleone (cfr. il paragrafo Milano contro Napoleone in Pecoraro 1996: 45-9) colora in senso antitetico il ricordo delle vittoriose cinque giornate di Milano, rese antonomasticamente da Porta Tosa. A distanza, anche

se sono cambiati i nemici che ora assumono i volti degli austriaci, la contiguità del tricolon «Waterloo, Aboukir, Porta Tosa»

contrappone la vittoria milanese alle sconfitte napoleoniche. Le eroiche cinque giornate rappresentano però soltanto un’affermazione provvisoria. La storia, prima o poi, capovolge ogni vittoria

in sconfitta. Gadda si contrappone come testimone della storia alle menzogne dei poeti-vati. Un’altra controfigura del poeta-vate è il commerciante di stoffe, amico (cioè complice) del PalumboMahagones, che concorre in misura decisiva all’invenzione epica. La presentazione metonimica del commerciante attraverso la sua «anima-lingua» cade sulla pagina come una ghigliottina figurale, perché chi ha venduto l’anima a una realtà soltanto di parole viene privato dell’interiorità e fermato come lingua nello spazio giudicante della scrittura. 3.2. ALLEGORIA E PARODIA

3.2.1. Un fulmine di guerra

Il paesaggio della Cognizione si svolge sotto lo stesso cielo dei Promessi sposi. Al Serruchén modellato sulle misure fonetiche del «manzoniano Resegone» (C 20) risponde a chiare lettere nella seconda parte la citazione dall’«immortale preludio de’ Promessi 93

sposi» (C 399-400 e 429). La memoria letteraria crea un legame quasi personale, quando Manzoni risponde all’appello, sia pure sottovoce, proprio dalle pagine della Cognizione. La sorprendente epifania avviene nelle vesti dell’anonimo diffusore della robinia: C 112-4 radice utilitaria e propagativa dedotta in quella campagna dell’Australasia e subito fronzuta e pungente a tutela dei broli, al sostegno delle ripe. Fu per le cure d’un agrònomo che speculava il Progresso e ne diede sicuro il presagio, vaticinando la fine alle querci, agli olmi, o, dentro i forni della calcina, all’antico sognare dei faggi. L’agronomo coincide storicamente con Manzoni. I personag-

gi della Cognizione ripetono spesso tratti, movimenti, azioni, comportamenti dei personaggi dei Prozzessi sposi. Le voci dei pri-

mi si incontrano spesso con quelle dei secondi. Ecco alcuni esempi di dialoghi intertestuali staccati per brevità dai contesti: «“....Via, via!”, protestò di nuovo il dottore, “quante fandonie!....”» (C 124); «“Eh via!”, interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, “eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie?”» (PS III 57); «“....Oggi, oggi”, la riprese il dottore, e alzò le spalle: “voi, donne, cosa ne sapete?....”» (C 119); «‘Oh! vole-

te che ve lo dica? Voi altre donne, queste cose non le potete sapere”» (PS XXXI 700); «“Ah!”, ridacchiò il fuochista. “Non sarà

forse una cosa da deciderla così.... sui due piedi....”» (C 174); «“Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi”» (PS II 35); «Niente di male: siamo qui apposta per aiutarci: se non c'è uno, c’è l’altro....» (C 370); «“Di che cosa?”, ri-

spose quello: “siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro”» (PS IX 165).

Un'analisi globale delle presenze manzoniane in Gadda si può leggere in Pecoraro 1996: 111-63. Il paesaggio manzoniano e l’odore persistente della robinia concorrono a evocare la villa manzoniana di Brusuglio. Nella prima parte della Cognizione la violenza si concentra nella figura di un misterioso fulmine che aggredisce un sistema di ville chiamate con nomi legati non casualmente alla letteratura e alla storia. L'odissea del fulmine rappresenta in chiave parodica l’avventurosa vita militare di Napoleone attraverso la rifrazione di imma-

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gini e sequenze del Cinque maggio manzoniano. Il fulmine è figura di Napoleone e della violenza della guerra. Gadda condanna i personaggi più negativi della storia con la procedura della damznatio memoriae, ne cancella cioè i nomi e, nel caso di affioramenti inevitabili, ricorre a deformazioni verbali

(Nabulione, Napoleone) condottiero storia è così

Napo), maschere parodiche (fulmine che rinvia a o soluzioni metonimiche (Aboukir e Waterloo per il sconfitto). La legge del silenzio per i malvagi della registrata nel più alto processo al mondo intentato

dalla letteratura, la Comzzzedia dantesca: «La sconoscente vita che

i fé sozzi / ad ogne conoscenza or li fa bruni» (Inf VII, 53-4). Conoscere, per Gadda come per Dante, è individuare la verità,

seguire la giustizia. L'inferno della conoscenza come forma di condanna consiste nell’azzeramento anche del nome, ultimo re-

litto della memoria. Il tessuto dimostrativo della Cognizione è ricco di exempla. I generali-carnefici sono degnamente rappresentati da Napoleone. L'episodio del fulmine e del fantasma o, se si preferisce, del generale e del vate non è per nulla digressivo rispetto al primo blocco narrativo della Cognizione, centrato sulla violenza della guerra e sulla violenza delle parole false che della guerra sono tanto la conseguenza quanto la causa. Le corrispondenze attivate dalla contiguità tra i due blocchi narrativi sono significative. Gli occhi fulminanti del falso reduce ne fanno una creatura di guerra, lo rendono anticipata figura-caricatura di Napoleone. La sequenza dei bombardamenti e dei controbombardamenti, nel racconto del Palumbo, si conclude su un temporale liberatore, co-

me quello che libera dalla peste il territorio milanese nei Promessi sposi. Il temporale-nubifragio, che confonde la violenza della natura con quella della storia, è la più trasparente metafora naturale per i bombardamenti. Il temporale sulle tre ville è preceduto da una serie di indizi allegorici che convergono sulla storia francese che precede l’ingresso di Napoleone: C 48-50 Conle vetrate a ghigliottina uno e sessanta larghe nel telaio dei cementi, da chiamar dentro la montagna ed il lago, ossia nella hall, alla quale inoltre conferiscono una temperatura deliziosa: da ova sode. Ma basti, con l’elenco delle escogitazioni funzionali. 95

Fra le ville della costa di San Juan, lungo lo stradone del Prado (saettavano i rimandi rossi dei loro vetri avverso il taciturno crepuscolo), c'era anche, piuttosto sciatta, e ad un tempo stranamente allampanata, Villa Maria Giuseppina; di proprietà Bertoloni. Il crepuscolo, e il suo fronte malinconioso e lontano, appariva striato, ad ora ad ora, da lunghe rughe orizzontali, di cenere e di sanguigno. La villa aveva due torri, e due parafulmini, alle due estremità d’un corpo centrale basso e lungo; tanto da far pensare a due giraffe sorelle-siamesi, o incorporàtesi l’una nell’altra dopo un incontro a culo indietro seguito da unificazione dei deretani. Dei due parafulmini, l’uno pareva stesse meditando un suo speciale malestro verso nord-ovest, oh! una trovata: ma diabolicamente funzionale: e l’altro la stessa precisa cosa a sud-est; e cioè d’infilare il fulmine, non appena gli venisse a tiro, sul «confinante» di destra: e l’altro invece su quello di sinistra: rispettivamente Villa Enrichetta e Villa Antonietta.

Il fulmine, prima di divenire oggetto di rappresentazione, striscia come un serpente figurale tra i significanti linguistici: «saettavano» (metaforica freccia di luce); «allampanata» (lampo paraetimologico). Il cielo, striandosi «di cenere e di sanguigno», evoca uno scenario di morte. Se la gloria passata è nel Cinque maggio «silenzio e cenere», il sangue e la cenere scrivono la tra-

gica metonimia della guerra fra i colori del cielo. Le ville si disegnano quasi come fortezze per via delle torri, e le fortezze ricordano le guerre, mentre i parafulmini stanno ai fulmini («non appena gli venisse a tiro») come l'artiglieria contraerea sta ai bombardamenti aerei. L'allegoria storica si svolge in quattro tempi. Nel primo tempo le vetrate a ghigliottina evocano la rivoluzione francese. Nel secondo tempo Villa Antonietta ricorda Maria Antonietta, la regina ghigliottinata, e con lei l’abbattimento del potere regio. Nel terzo tempo Villa Giuseppina, chiamata anche Villa Maria Giuseppina (C 49), richiama la vedova Beauharnais, motore primo della fulminea carriera di Napoleone, come si registra nella nota di argomento napoleonico di Quando il Girolamo ha smesso...,

dove «Joséphine (Giuseppina), in privato Maria Giuseppa Rosa

Tascher de la Pagerie» (A 33219) è posta alla base della «fulgurativa missione» (A 33419) di Napoleone. Per il quarto tempo si attende l’arrivo di Napoleone, che sarà definito negli anni del secondo dopoguerra da Gadda in Eros e Priapo «nano demonio 96

straniero scaturito dalla rivoluzione blasfema» (EP 311). Una presenza demoniaca sembra, fra l’altro, anticipata dall’avverbio «diabolicamente». Resta Villa Enrichetta. Nella villa di Brusuglio proprio in Brianza Manzoni compone il Cinque maggio nel tempo-lampo di tre giorni. Proprio un’ispirazione fulminea. La memoria gaddiana è tanto legata alla biografia manzoniana, che basta il nome di Brusuglio, nel racconto Quattro figlie ebbe e ciascuna regina dell’Adalgisa, perché vengano convocate in nota la villa manzoniana e la composizione di getto del Cinque maggio «con la diletta Enrichetta al pianoforte»: la musica della Blondel si fonde con l'itinerario creativo dell’ode. Villa Enrichetta implica allegoricamente i trionfi poetici dei condottieri, le falsità dell’epica, attra-

verso una coloritura celebrativa del Cingue maggio, definito nel saggio La battaglia dei topi e delle rane (1959) «una scarica di esagitati settenari per l’epicedio di un nano» (SGF I, 1164). Come si legge nella Meditazione breve circa il dire e ilfare, «né il vate marmoreo né l’economista usano roboare per nulla. E chi paga, paga» (VM 449). L'errore o la colpa di pensiero, implicati nella parola falsa e celebrativa dell’epica, causano le guerre vere: «Questo sospetto della nostra immaginosa tensione era divenuto scarica della realtà il 21 luglio 1931, durante l’imperversare d’una grandinata senza precedenti nel secolo, che locupletò di pesos papel tutti i negozianti di vetro dell’arrondimiento» (C 50). La scansione allegorica lega in successione causale e temporale il tempo della guerra cantata dai vati, il tempo dei sacrificati e il tempo degli arricchiti, dei profittatori di guerra. 3.2.2. Fulmini e pianoforti

L’allegoria storica è completata dall’allegoria letteraria. La strofa più celebre del Cinque maggio presenta Napoleone in figura di fulmine che investe il mondo con inarrestabile rapidità e l’intera ode rievoca l'epopea napoleonica in sequenze fulminee. Nella Cognizione il tono alto, perfettamente funzionale alla parodia,

comprova che non si tratta di un fulmine qualsiasi. Il viaggio as-

sume connotazioni epiche attraverso espressioni come «non pa-

rendogli, quella verga, abbastanza insigne per lui» (C 51), o «non 97

poté usufruire del passaggio necessario a un tanto fulmine» (C 54), che rimanda a «tanto raggio» (v. 22), metafora antonomastica per Napoleone nell’ode: C 50-4 Descrivere lo spavento e i cocci di quella fulgurazione così inopinata non è nemmeno pensabile. Ma il diportamento scaricabarilistico dei due parafulmini ebbe strascichi giudiziari, — subito istradati verso l’eternità — tanto in sede civile, con rivendica di danni-interessi, perizie tecniche, contro-perizie di parte, e perizie arbitrali,

mai però accettate contemporaneamente dalle due parti; — quanto in sede penale, per incuria colposa e danneggiamento a proprietà di terzi. E ciò perché la causa apparì, fin dal suo principio, delle più controverse. «Che ce ne impodo io», protestava il vecchio Bertoloni, un immigrato lombardo, «se quel ludro non sapeva neanche lui dove andare?». Il fulmine infatti, quando capì di non poter più resistere al suo bisogno si precipitò sul parafulmine piccolo; ma non parendogli, quella verga, abbastanza insigne per lui, rimbalzò subito indietro come una palla demoniaca e schiantò su quell’altro, un po’ più lungo, della torre alta, e cioè in definitiva allontanandosi da terra, cosa da nemmen crederci. Lì, sul riccio platinato e dorato, aveva accecato un attimo il terrore dei castani, sotto la nuova veste d’una

palla ovale, — fuoco pazzo a bilicare sulla punta, — come fosse preso da un bieco furore, nell’impotenza: ma in realtà sdipanando e addipanando un gomitolo e controgomitolo di orbite ellittiche in senso alternativo un paio di milioni di volte al secondo: tutt’attorno l’oro falso del riccio, che difatti avea fuso, insieme col platino, e anche col

ferro: e smoccolàtili anche, giù per la stanga, quasi ch'e’ fussero di cera di candela. Poi sparnazzò un po’ dappertutto sul tetto, sto farfallone della malora, e aveva poi fatto l’acròbato e la sonnambula lungo il colmigno e la grondaia, da cui traboccò in cantina, per i buoni uffici d’un tubo di scarico della grondaia medesima, resuscitandone indi come un

serpente, intrefolàtosi alla corda di rame del parafulmine piccolo, che aveva viceversa l’incarico di liquidarlo in profondo, sta stupida. E in quel nuovo farnetico della resurrezione si diede tutto alla rete metallica del pollaio retrostante il casamento della Maria Giuseppina (figurarsi i polli!), alla quale metallica non gli era parso vero di istradarlo issofatto sulla cancellata a punte, divisoria delle due proprietà confinanti, cioè Giuseppina e Antonietta: che lo introdusse a sua volta senza por tempo in mezzo nella latrina in riparazione, perché intasata, del garage dell’Antonietta, donde, non si capì bene come, tra-

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slocò immantinente addosso alla Enrichetta, saltata a piè pari la Giuseppina, che sta in mezzo. Ivi, con uno sparo formidabile, e previo annientamento d’un pianoforte a coda, si tuffò nella bagnarola asciutta della donna di servizio. Stavolta s'era appiattito per sempre nella misteriosa nullità del potenziale di terra.

La sproporzione tra i danni causati dal fulmine e le conseguenze giudiziarie proietta la tormentata inconcludenza della giustizia come istituzione sulle discussioni senza fine a proposi-

to delle responsabilità e del pagamento dei danni di guerra (basti pensare al primo dopoguerra e alla Germania). La risposta è data dalla saggezza popolare del vecchio Bertoloni, che riconduce le guerre alle loro radici insensate. Come i combattenti non riescono a volte nemmeno a riconoscere i nemici, così 1 coman-

danti non sanno dove andare, perché l’unica conclusione possibile per una guerra è la distruzione totale. L'intervento in un italiano impastato di lombardismi è significativo, anche perché riporta un insulto, «ludro» (Manzotti 1987: 51: «Dial. luder ‘birbante, manigoldo’»), inscritto nel cerchio napoleonico della memoria gaddiana in quanto già riferito a Napoleone nel Racconto italiano (RI 565). L’insulto lombardo si somma alla caratterizzazione gaddiana di Napoleone come demonio per antonomasia, quando la metamorfosi progressiva — forma di condanna che, eliminando la figura, si colloca sullo stesso piano dell’azzeramento del nome — fa assumere al fulmine l’aspetto di un «farfallone della malora», quasi un diabolico pipistrello volante complementare alla successiva figura del serpente. Il fulmine epico della Cognizione replica il movimento indiavolato del fulmine manzoniano: non fa altro che cadere e risorgere («sparnazzò un po’ dappertutto»; «resuscitandone»;

«in

quel nuovo farnetico della resurrezione») sino a giacere per sempre, a immagine del tricolon dell’ode «cadde, risorse e giacque». Lo scoppio avviene tra la latrina e la bagnarola, degradata parodia dell’uno e l’altro mare tra cui scoppia il fulmine nei versi manzoniani: «Scoppiò da Scilla al Tanai, / dall'uno all’altro mar». La parodia è attivata sia dalla sproporzione quantitativa sia dalla lontananza totale degli oggetti rispetto ai termini ripresi. Nel panorama brianzolo di manzoniana memoria, il pianoforte incenerito a Villa Enrichetta fa scattare la memoria del 99

pianoforte suonato da Enrichetta Blondel in accompagnamento alla composizione del Cinque maggio. Il pianoforte diventa allegoria dell’ispirazione manzoniana. L'incenerimento indica una

forma di condanna celeste destinata tanto a Napoleone quanto alle celebrazioni napoleoniche. Napoleone come falso mito da abbattere, da incenerire, in quanto carnefice dei suoi soldati. Il cielo della condanna è disegnato dall’orizzonte giudiziario della scrittura.

La musica del pianoforte di Enrichetta Blondel è legata emblematicamente alle celebrazioni di Napoleone. Fra le celebrazioni musicali per Napoleone risalta per risonanza storica la terza sinfonia di Beethoven, detta l’Erozca, dedicata in un primo tempo al condottiero, anche se in un secondo tempo il musicista, indignato per l’incoronazione imperiale, aveva lacerato la dedica. Simbolo per eccellenza dell'attività musicale, il pianoforte incenerito a Villa Enrichetta rappresenta tanto la musica ispiratrice del Cinque maggio quanto l’Eroica. Le biografie di Beethoven registrano un evento al limite del soprannaturale: un fulmine durante una nevicata in coincidenza con la sua morte. Alla memoria storica si aggiunge la memoria letteraria, quando nel Natale del 1833 di Manzoni, sullo sfondo tragico di un cielo attraversato dai fulmini, Enrichetta Blondel è rapita alla vita da un fulmine, metafora di ascendenza biblica. Una complessa corrispondenza fra destini diversi è alla base dell’episodio gaddiano del fulmine. La vendetta celeste, annientando il pianoforte a Villa Enrichetta, punisce con esemplare contrappasso i celebratori del fulmine di guerra. La motivazione della condanna, una condanna a morte ese-

guita con procedure figurali, è registrata all’interno dell’episodio del fulmine attraverso la rilevanza testuale di cui si carica il pia-

noforte: «Parallelamente a ciò, nel mito e nel folklore del Serru-

chén si fece strada l’idea che losissimo, da carrucolar fuori te, non appena si vede venire L'esaltazione della guerra

il pianoforte sia strumento pericoin giardino senza perdere un istanil temporale» (C 26). provoca la guerra, come ricorda

Gadda nella Meditazione breve circa il dire e il fare (1936). L’e-

quazione fulmine=guerra, presente nelle precedenti opere gaddiane, carica di risonanze l’equazione fulmine=Napoleone. Na100

poleone rappresenta per antonomasia la figura del condottierocarnefice, come traspare dalle righe di Impossibilità di un diario di guerra, quando Gadda giudica che nella prima guerra mondiale molte sofferenze si sarebbero potute evitare con «meno Napoleoni sopra le spalle» (CU 39), cioè senza i sacrifici inutili ordinati dai generali. 3.23. Napoleone e le bagnarole La nota napoleonica di Quando il Girolamo ha smesso... illumina la tappa conclusiva dell'itinerario allegorico, spiega cioè il fatto che il percorso di «un tanto fulmine» (C 54) finisca ingloriosamente in una bagnarola. La «bagnarola» è ricordata come uno degli oggetti prediletti dal condottiero (Napoleone «era amante di bagni, anche in una reminiscenza neoclassica dei bagni e delle vasche da bagno (bagnarole) imperiali romane, di granito e di porfido»: A 33119). Davvero «il premio / ch'era follia sperar» del Cinque maggio, l’adorata bagnarola! La rilevanza della bagnarola, meta ultima del viaggio del fulmine, è sancita dall’antonomasia, figura retorica consueta in Gadda, visto che nel te-

sto si parla antonomasticamente di «scarica della bagnarola» (C 54). La latrina e la bagnarola non segnano da sole la conversione parodica dell’allegoria. Il pollaio, che rappresenta una tappa intermedia dell’itinerario, contribuisce al capovolgimento delle celebrazioni attraverso i coccodè e i chicchirichì scatenati dal fulmine. Napoleone risulta, del resto, metaforicamente imparenta-

to con i polli, nella nota già citata dell’Ada/gisa che racconta l'incoronazione milanese. Il «nano» — così è chiamato sistematicamente, con qualche concessione agli appellativi alternativi di «piccinella» e «piccoletto» — è in compagnia della «chioccia madre Letizia: (Ramolino vedova Buonaparte, detta dal Carducci bel nome italico: buona a raspare, però, tutto quello che c’era da farà raspare)» (A 33519). La voce sguaiata e schiamazzante che

da accompagnamento critico al verso del fulmine in I/ guerriero, l'amazzone lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (1967) opererà una riduzione in beffe delle celebrazioni parallela alla traduzione gallinacea: 101

SGF II, 399 in definitiva...

BODONI TACCHI [...] Il fulmine del suo genio puntava,

DE’ LINGUAGI (cor voce sguatata e schiamazzante) Di quel secùro

il fulmine voleva andare a sbattere a Vienna. Ma il fulmine gli toccò rinfoderarselo. E così... retrocesse. E si aggirava disperato sulle strade della Bassa veronese. Pareva un topo in un pitale.

Grazie alla potenza figurale dell’antonomasia, il verso manzoniano «di quel secùro il fulmine» disegna Napoleone nella memoria gaddiana con tanta efficacia da sostituirne persino il nome. La similitudine del topo in un pitale aggredisce Napoleone con la stessa carica denigratoria insita nella rappresentazione del fulmine che intasa la latrina e si spegne nella bagnarola. Per la decifrazione del significato della parodia, strutturale nell’episodio del fulmine, un prezioso sussidio è offerto dalla prosa L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore. Nella parte iniziale del testo autocritico, all’interno di un percorso che riflette l'ordine narrativo della Cognizione, la rappresentazione gaddiana della società e del mondo è divisa dicotomicamente tra «parvenze e simboli spettacolari, muffe della storia biologica e della relativa componente estetica» e «moventi e sentimenti profondi, veridici, della realtà spirituale» (C 480).

Il simbolo spettacolare del fulmine riflette a livello storico i generali e le guerre, a livello estetico le celebrazioni poetiche dei fulmini di guerra. Il «referto» della scrittura gaddiana è mosso dai simboli spettacolari a una «programmata derisione, che in certe pagine raggiunge tonalità parossistica e aspetto deforme», alla «polemica», alla «beffa» e al «grottesco» (480), proprio come si verifica nell’episodio del fulmine e in quello successivo e concatenato del vate. Gadda si difende dalle accuse di coloro che lo considerano uno scrittore indulgente al grottesco e al barocco, replicando che il barocco e il grottesco sono nella natura e nella storia. La sensibilità gaddiana è ferita da etichette che implicano letture e interpretazioni giocose e superficiali in cui la forma fa da specchio a se stessa e in definitiva non dà senso. L’invito è a decifrare il messaggio superando i «simboli spettacolari» in un itinerario speculare rispetto alla conoscenza autentica che procede attraverso la distruzione dei luoghi comuni e l’abbattimento dei falsi miti. 102

L'esempio di decifrazione di un simbolo spettacolare legato alla natura e alla storia riguarda direttamente l’episodio del fulmine: C 481-2 la grinta dello smargiasso, ancorché trombato, o il verso «che più superba altezza» non ponno addebitarsi a volontà prava e «baroccheggiante» dell’autore, sì a reale storica bambolaggine di secondi o di terzi, del loro contegno, o dei loro settenarî: talché il grido-parola d’ordine «barocco è il G.!» potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto «barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine». Riferito all’omiciàttolo Nabulione [sic nell’atto di battesimo] il settenario del grande Manzoni riesce al grottesco, in quanto lEi fu, cioè il Più superba altezza, fu no-

toriamente una superbiciàttola piccolezza: a misurarne il fisico, (fisi-

cuzzo), un riformabile se non riformato alla leva. Che fosse italiano e sveglio, non era una buona ragione per chiamarlo una altezza. Il verso, in realtà grottesco, non deve ascriversi a fissazione vale a dire manìa baroccòfila di chi eventualmente lo citi o lo riscriva, da riderne un attimo, sì bene a realtà barocca nella storia del lirismo italiano

dell'Ottocento.

Nell’ultimo periodo correggo «sì bene e realtà barocca» in «sì bene a realtà barocca» eliminando un errore che si è protratto per anni approdando anche alle ultime edizioni. Il mantenimento di una lezione che non dà senso rivela un atteggiamento diffuso nei confronti della scrittura gaddiana, traguardata spesso come teratologia espressiva. Dimostrazione 4 posteriori da parte

della realtà che non c’è peggior cieco di chi non vuol leggere o premeditata beffa di uno scrittore che si serve di una deformazione grottesca della sintassi generata da un minimo spostamento fonetico contro gli interpreti che lo vogliono intento a una deformazione casuale della realtà, un modo cioè per riconoscere i lettori non accecati dalla superficie abbagliante della scrittura? PecoL’ipotesi del trascorso grafico o dell’errore di stampa (cfr. corredi nto raro 1988: 486-77) resta la più economica. L'interve

oltre che zione è necessario per restituire perspicuità semantica

fluidità sintattica e linearità argomentativa. la diLo smascheramento delle false conoscenze attraverso dere con struzione dei simboli spettacolari, che vengono a coinci una conoi miti dell’epica retorica, costituisce la premessa di comuni luoghi nterno dall’i svuota scenza autentica. La parodia 103

quanto mai perniciosi come quelli relativi alla tanto celebrata grandezza di Napoleone. L’antitesi capovolge «superba altezza» in «superbiciàttola piccolezza», corrode «fisico» in «fisicuzzo», deforma «Napoleone» in «Nabulione» chiamando alla testimonianza l’atto di battesimo e orientando la deformazione in senso denigratorio attraverso «omiciàttolo». L'aggressione verbale è perfettamente parallela all’accanimento figurale presente nell’episodio del fulmine. I versi del Cingue maggio sono tanto radicati nella memoria gaddiana da potere indicare Napoleone per antonomasia: «l’Ei fu»; «il Più superba altezza». Già nella nota napoleonica di Quando il Girolamo ha smesso... il verso manzoniano del fulmine raggiunge il grado espressivo dell’antonomasia (A 33610: «il fulmine di quel secùro»). Sulle persistenze mnemoniche si dilatano spesso gli scatti fantastici. La potenza figurativa dell’antonomasia prelude alla drammatizzazione della metafora cardinale dell’ode. Essenziale, nella prosa autocritica gaddiana, è il riferimento alla citazione e alla riscrittura del verso del Cinque maggio. Napoleone-fulmine è un idolo da distruggere, in quanto la «carica idolatrante di molti autori (in senso latissimo e nel confronto de’ pochi o molti lor idoli)», assieme alla carica idolatrante delle culture e delle masse, «viene a conferire un supervoltaggio ausiliare alla bugia e alla reticenza storiografica» (C 485). Agli storiografi non resta che «riformare il passato a cose fatte (après coup) raccontando giusto giusto il contrario di quel che accadde, perché a riferire l'accaduto vero si perde il posto di storiografo: o si lascia la capa nel cestello: dans le panier» (C 485-6). I rischi connessi alla rivelazione della verità spiegano il ricorso alle misure protettive dell’allusione o dell’allegoria. La Cognizione del dolore ha come obiettivo principale la distruzione del rapporto celebrativo tra la letteratura e la storia che ha il suo cardine nella figura del poeta-vate (o comunque dell’intellettuale al servizio del potere) e si propone, in particolare, di riscrivere in modo completamente diverso i tempi di morte delle guerre napoleoniche e della prima guerra mondiale. Le parole non potrebbero essere più chiare, dato l’invito a «leggervi [nella Cognizione] una lettura consapevole (da parte sua [di Gonzalo]) della scemenza del mondo e della bamboccesca inanità della cosid104

detta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa da commedianti nati cretini e diplomati somari» (C 484-5). Negli episodi concatenati del fulmine e del fantasma, le imprese militari dei generali e quelle verbali dei vati vengono polverizzate in farsa con tutte le armi della parodia e del sarcasmo. La parodia del Cinque maggio inscenata con l’episodio del fulmine è funzionale alla distruzione non solo della presunta grandezza di Napoleone ma anche di qualsiasi altro falso mito. 3.2.4. Vati e fantasmi

Gli episodi del fulmine e del vate formano un blocco coerente all’interno della Cognizione. Da una parte l'attore della guerra, dall’altra parte il celebratore. La morte del poeta epico ostacola misteriosamente le perizie sulla villa colpita dal fulmine. La proporzione è perfetta. Come i funerali del vate impediscono uno studio scientifico del fulmine, così i vati, incombendo negativi oltre la morte con il polverone e il fragore sollevati in vita dalle celebrazioni, sottraggono i celebrati allo spazio della conoscenza vera, che sola permette di smascherarli. La scrittura allegorica di Gadda si avvale spesso di coincidenze temporali da interpretare oltre la lettera. Il legame tra il generale-fulmine ela parallela metamorfosi del poeta in fantasma prende evidenza quando il terzo fulmine, abbattendosi sulle ville, viene ad evocare il fantasma,

come indica l’emblematica contemporaneità (C 61). Il movimento è parodicamente inverso alla successione reale che vede i fulmini, cioè i condottieri, evocati nelle celebrazioni dei vati (al-

legoria delle guerre scatenate dalle parole). Il fulmine e il fantasma sono legati fra loro. Se il fulmine si avventa contro il pollaio, il fantasma torna a maledire i polli (C 62), dopo che in vita, in qualità di vate, si era rifiutato di dedi-

care le sue cure al pollaio perché i «coccodè» gli avrebbero impedito di perfezionare (si potrebbe dire: covare) in tutta pace i dodecasillabi eroici (C 55-6). La scelta dei dodecasillabi è funzionale ai coccodè e alla parodia, in quanto le sequenze consonantiche complementari d-d-c e c-c-d alludono a problemi di interferenza sonora. Se il fulmine si spegne tra latrina e bagnarola, fra i cimeli del vate si vengono a trovare una pera di gomma e 105

uno spazzolino da denti (C 59), mentre il fantasma, dopo la maledizione lanciata ai polli «che però non c'erano, non si vedeva assolutamente dove fossero» (C 62), si sofferma per ore a contemplare «le saponiere, le saponiere!» (C 62). La ricerca dell’itinerario del fulmine è infine parallela all'indagine sul percorso del fantasma. Se le responsabilità dei condottieri ambiziosi e assassini alla Napoleone sono illimitate, altrettanto consistenti si rivelano le colpe dei loro celebratori poetici. La gravità del giudizio di condanna è fermata dalla trasformazione del vate, che, adempiutosi nel vero se stesso, prende la forma della più orrenda maschera di morte: C 61-2

Il cavo orribile delle gote testimoniava d’una dimora sepol-

crale, come pure le due corone di denti, che, disseccati i labbri, ta-

lora si palesavano, chiuse, a negare ogni assenso, e l’effuso nitore della barba, e la bianca clamide senza forma, come un sudario; e il capo e il capello alonati d’un incorporale orrore: tutto gli era cagione a illividire, con una presenza inespiabile, l'abbandono tenebroso del luogo.

La punizione è perfettamente adeguata a chi in vita era stato

l’autore dei «cadaverosi poemi» (C 140), di cui si parla in uno dei passi più tragici della seconda parte della Cognizione. In Imagine di Calvi il cadavere del tenente Attilio Calvi giace sotto «una coperta grigia, come un sudario» (CU 176), mentre un manto

bianco ricopre il fantasma «come un sudario». Nella figura del fantasma ricevono apparenza fisica i resti scarnificati delle vittime del vate. La presenza del primo è «inespiabile» come senza remissione sono le colpe del secondo. La condanna, per la quale l’assassino con le parole, il poeta epico, assume una maschera di morte, ricalca le procedure figurali della Comzzedia dantesca (cfr. 3.3.4). Per comprendere la tragica serietà della metamorfosi del poeta epico in fantasma di morte risulta preziosa l'osservazione, in Elogio di alcuni valentuomini, che «di fronte a certe pagine del Principe non si riesce quasi a capire se sono verità o ferocia o spasimante ironia», con la conclusione che «forse i tre termini sono uno solo, fuori dal minestrone dei miti» (CU 130). 106

3.2.5. Figure polivalenti Il condottiero celebrato dal vate è il libertador Nepomuceno (o Juan Muceno) Pastrufacio. Libertador come Simon Bolìvar, liberatore come Napoleone. Napoleone e Bolìvar sono storicamente delle figure parallele. A Gadda importa colpire Napoleone come condottiero-carnefice per antonomasia: il nesso è già affiorato in Impossibilità di un diario di guerra con il giudizio che molte stragi si sarebbero potute evitare con «meno Napoleoni sopra le spalle» (CU 142). Il tempo di morte delle guerre napoleoniche si fonde con il tempo di morte della prima guerra mondiale. Anche se «Nepo» è un’ulteriore deformazione del nomignolo di «Napo» (SGF I, 1167-8) affibbiato da Gadda a Napoleone, dietro il libertador Nepomuceno Pastrufacio, generale dai molti volti, «il Belgrano e insieme il Moreno del Maradagàl», «paragonato a Giorgio Washington, Tamerlano, Garibaldi e Mazeppa» (C 57), ci sono non soltanto Napoleone e Bolìvar, ma i condottieri sanguinari d’ogni tempo e d’ogni paese. Il libertador è una figura polivalente, metastorica. Parallelamente il vate Carlos Cagoncellos, condannato già nel nome agli inferi del sarcasmo, rappresenta tutti i celebratori di guerre della storia. In lui si mescolano tratti foscoliani e dannunziani assieme a tracce più peregrine, ma certificate dalla me-

moria letteraria, risalenti ad Anatole France (Manzotti 1987: 5557), a Cam6es (Pecoraro 1996: 64-71) e ad altri ancora, proprio per costruire, attraverso la dilatazione dei riferimenti, la figura di

un poeta-vate declinabile per tutti i tempi di morte. L’aggressione parodica al generale, al vate, al fulmine e al fantasma non appare minimamente decantata dalle misure lunghe dei tempi storici; sembra infiammata dalla più rovente attualità. Il confronto con gli Scritti e discorsi di Mussolini, pubblicati, fra l’altro, proprio nel quadriennio 1934-38 (Hoepli, Milano), dà la misura dell’orientamento antifascista di Gadda, spiegando l’accanimento contro Napoleone e contro figure apparentemente innocue come Garibaldi, Bolìvar, Belgrano. Napoleone, Garibaldi

e Bolìvar erano degli idoli fascisti a pieno titolo. Napoleone vie-

ne esaltato nell’italianità e nella fulmineità (cfr. V 161; VII 122 e

148). Nella parodia del Napoleone manzoniano Gadda colpisce soprattutto il fulmine di guerra arruolato dal fascismo fra i miti 107

di regime. Garibaldi con le sue camicie rosse appare nel mito fascista come il profeta i factis di Mussolini con le sue camicie nere (III 155-6 e VIII 63). Bolìvar è «l’eroe sudamericano che dalla gloria di Roma trasse ispirazione per le sua opera redentrice» (IX 47). Anche Manuel (italianizzato in Manuele) Belgrano rientra nelle memorie e nei progetti di italianità vittoriosa (VI 92 e VIII 165) e tanto a lui quanto a Bolìvar sono innalzati monumenti nelle pubbliche piazze. 3.2.6. Processo ai brillanti

Le strutture narrative della Cognizione oppongono Gonzalo, personaggio grottescamente negativo nelle apparenze e tragicamente positivo nella realtà, a una folla di personaggi con un diverso grado di inimicizia — dall’odio all’incomprensione — per il protagonista, tanto rispettabili agli occhi del mondo e inappuntabili per le bilance della giustizia umana quanto malvagi e ingiusti alla luce della verità. La prima parte della Cogrizione vede, in un percorso a svelamento che oppone la parte iniziale del primo tratto a quella finale del quarto, lo smascheramento del falso reduce e, in un itinerario complementare che coinvolge l’ampia sezione centrale, la dimostrazione progressiva dell’inconsistenza delle dicerie che macchiano la figura di Gonzalo. Per conoscere Gonzalo, il lettore deve superare le chiacchiere della gente che, nella memoria del dottore che si avvicina a Villa Pirobutirro, gli attribuiscono tutti i peccati capitali conditi con i racconti più grotteschi; la testimonianza semiingenua e semivelenosa della serva Battistina, incontrata dal dottore, che ve-

de in Gonzalo addirittura un pericolo per la madre; l’ottusità del medico che, durante il colloquio con il protagonista, resta sempre al di sotto della soglia della sensibilità e della comprensione. Gonzalo, processato metaforicamente da tutti, processa a sua vol-

ta il mondo attraverso strategie allegoriche e allusive che si rivolgono a un lettore ideale. Il presunto colpevole si disegna come vittima attraverso l’intensità di scatti tragici e lirici che sono tanto più decifrabili quanto più il lettore conosce gli scritti precedenti rispetto alla Cognizione. Il finale di Impossibilità di un diario di guerra rappresenta 108

una delle chiavi di volta della scrittura gaddiana, in quanto non solo si proietta mnemonicamente su Ur «concerto» di centoventi professori (cfr. 2.10) e sul Pasticciaccio con il sistema fanciulli-Natalecatenelle d’oro (cfr. 4.2.6), ma si riverbera anche sulla Cognizione,

dove il ricordo del fratello di Gonzalo si concentra, attraverso una

collocazione esaltata da una doppia struttura anulare, in un’eco interna al libro unico gaddiano: C 193-4 «.... Già.... tornando al muro. Ma che posso farci, dottore? Sono stanco.... sono malato...» Il dottore non ci credeva. «.... Pochi e stenti risparmi d’un tenente all’adiaccio.... sotto fredde stelle.... Chi si amava è nella terra.... Era nel suo viso una luce.... un sorriso... Sotto fredde stelle.... nell’arsura dei fumi e tra le schegge dei monti infernali.... Il misero stipendiucolo dell’ingegnere stanco, vessato.... Ed ecco qua i muri: ho dovuto buttare il mio sangue nelle rovine, qua dentro.... al rinzaffo dei muri.... alle tasse.... a tamponare la falla della ipoteca... Ora sono stanco, sono malato.»

L’anello estremo, delimitato da «Sono stanco.... sono malato...» e da «Ora sono stanco, sono malato», raccoglie la soffe-

renza autobiografica nel segno delle «tempeste» e delle «impo-

ste» (A 462), cioè della guerra e delle tasse, mentre l’anello interno, incorniciato da «sotto fredde stelle...» e da «Sotto fredde

stelle....», colloca il nucleo più profondo del dolore nella morte del fratello e ne proietta il significato in chiave universale con l’eco quasi isometrica (per la sottrazione di una sillaba), in «Era nel suo viso una luce.... un sorriso....», dei due settenari a rima baciata — «avevano nel viso una luce, un sorriso» — dissimulati nel-

la prosa di Impossibilità di un diario di guerra a evocare la sorte di tutti i caduti nella sofferenza dei loro cari. La memorabilità della sequenza di due settenari come contrassegno lirico dei sacrificati lascia la sua traccia anche nel finale del racconto I/ club delle ombre, quando «le ombre, fuori, vagavano liberate sul poggio, come a cercare la loro notte. Loro pure, un giorno, avevano

nel viso una luce, un sorriso!» (AG 848). Ma la memoria più alta del segmento ritmico è nella Cognizione, quando il dittico appositivo-esclamativo condensa in straziante metonimia il ricordo del «fratello, sorriso lontano!» (C 291). 109

Nel quinto volume (1993) dell’edizione garzantiana delle opere di Gadda, Dante Isella pubblica in apparato una poesia inedita di Gadda (SVP 1263). La lirica si legge nell'edizione delle Poesie curata da Maria Antonietta Terzoli: «E nel viso aveva una luce, / Un sorriso! / Una vana angoscia mi riconduce / Per vani

sentieri. / Ma i pensieri del passato già sono persi / Ed altri mondi mi vogliono / Deserti, neri. // Sono stanco! / Intanto è venu-

ta la notte, / Antro dei mondi. / Immobile notte: / I tuoi punti di zaffiro e d’oro / Sono, forse, lontani dolori» (37). La Terzoli

colloca cronologicamente la ca evidenzia il vuoto e il buio po la perdita di una persona ma in stella nella notte della

poesia tra il 1919 e il 1924. La liridell’esistenza del soggetto lirico docara che nel giro poetico si trasforvita. Il dolore, punteggiando di lu-

ci il cielo lontano, si dilata in un orizzonte cosmico e le stelle,

nell’alfabeto del pessimismo universale, sono ferite di luce. La comparsa di una poesia così legata alla conoscenza del dolore vent'anni dopo la morte dello scrittore evidenzia ancora una volta la resistenza gaddiana a pubblicare direttamente i testi più tragici. L'attacco della seconda strofa «Sono stanco!» chiude come un anello l’affioramento tragico della Cognizione. Il processo ai brillanti lanciato dalle accuse di Gonzalo nel secondo tratto della Cognizione non coinvolge la struttura narrativa, come si verificherà nel Pasticciaccio (cfr. 4.2.6), ma gode di

uno spazio autonomo e ben delimitato: «e dice che le donne son bestie con addosso cinquemila pezzi di brillanti, e nient'altro che bestie, dice, porche bestie... e che intanto i morti hanno riempito i cimiteri, sicché non c’è più nessuno che si decide a morire, neanche le bestie....» (C 122). L'amplificazione appositiva «porche bestie», svolgendo la funzione di stilema giudicante, evidenzia la partecipazione emotiva alla condanna da parte tanto del protagonista quanto del narratore. Le catenelle d’oro sui polsi dei caduti nel finale di Impossibilità di un diario di guerra vengono quasi sottratte dalle mani sacrileghe degli sciacalli di guerra per farne dono alle mogli, alle figlie. Il corpo di reato si trasforma attraverso la struttura giudiziaria del Pasticciaccio in strumento del giudizio e della vendetta. Ed ecco le «catene d’oro dei morti... bambini» (P 120) rievoca110

re la «catenella d’oro» di coloro che erano morti «come fanciulli sognando il Natale» (CU 144). Lo sciacallaggio metaforico degli imboscati e degli speculatori si converte, nel verdetto di condanna, in sciacallaggio materiale, perpetrato anche in termini di memoria letteraria dal Castello di Udine al Pasticciaccio, con l’ol-

traggio ai cadaveri derubati dei loro gioielli. 3.2.7. Doppia lettura

Alla doppia lettura Gadda affida a volte la parte tragica, essenziale, protetta del messaggio, come si è visto (cfr. 2.6 e 2.8). Una doppia lettura in chiave grottesca, che frappone una distanza incolmabile fra gli scatti tragici dello hidalgo e l’ottuso buon senso del medico ed evidenzia l'assoluta incomunicabilità fra i due personaggi, è presente alla fine del terzo tratto della Cognizione in un passo centrale per lo stile della memoria: C 185-6

«.... Il muro è gobbo, lo vedo, e anche le anime dei morti

lo scavalcherebbero.... dei poveri morti! per tornare a dormire nel loro letto... che è lì, bianco... come lo hanno lasciato al partire... e par che li aspetti.... dopo tanta guerra!.... È storto, tutto gobbe: lo so: ma santo privato privatissimo mio, mio!.... mio proprio e particolare pos-

sesso... che è possesso delle mie unghie, dieci unghie, delle mie giuste e vere dieci unghie!....» levò le mani dalle tasche e le mise

che, come fossero artigli d’un avvoltoio. «.... E quelle dei piedi dove le lascia?....» «.... Dentro, io, nella mia casa, con mia madre: e tutti i Giuseppi e le Battistine e le Pi.... le Beppe, tutti i nipoti ciuchi e trombati in francese o in matematica di tutti i colonnelli del Maradagàl.... Via,

via! fuori!.... fuori tutti! Questa è, e deve essere, la mia casa.... nel mio

silenzio.... la mia povera casa...»

Gonzalo non spreca una sola parola per rispondere alla domanda del tutto insulsa del dottor Higuer6a ma adibisce il primo avverbio del suo discorso alla funzione suppletiva di risposta

fulminante. «Dentro», oltre a valere accessoriamente come ri-

sposta alla domanda del medico, si giustifica in pieno all’interno 111

della sintassi del discorso dello hidalgo che prosegue senza interferenze per le sue linee. È evidenziabile nel quarto tratto la doppia lettura che assolve nella Cognizione una funzione simmetrica rispetto a quella rivestita dai «morti... bambini» nel Pasticciaccio (cfr. 4.2.6), inchioda

il peone alle proprie responsabilità di imboscato durante la guerra e prefigura, in coerenza con l’allusione evangelica, lo svolgimento della narrazione: C 202-3

«E che diavolo?.... Vorrebbe anche l’esonero dalle tasse,

ora?.... Ma se legge davvero i Vangeli, come sosteneva poco fa, vedrà bene anche lei, nei Vangeli, cosa ci sta scritto.... Cè scritto.... che le tas-

se bisogna pagarle....» «Senz'altro. Lo riconosco. Sacrosante le dècime. Cesare sacrosanto.... cioè il nostro bene amato Congreso.... Ma perché il peone, pagare, il custode? dal momento che non custodisce un fico secco.... né la

frontiera della Gallia, visto che s'era imboscato a Imatapulqui, né l’orto di casa, dove non ci matura altro che il fieno.... o la semenza delle ci-

polle? Il peone non è Cesare. E un porco. Mi deruba dei pantaloni, del pozzonero.... E l'assassino che scavalcherà il muro, o il cancello, non è

Cesare.... E un ladro. Perché anche il ladro, pagare, che viene a rubare?; e per venire a rubare si infila il testimonio sulle punte?....»

La doppia lettura investe stavolta sia la sintassi che la morfologia. La congiunzione «E» presente nella frase «E l’assassino che scavalcherà il muro, o il cancello» si trova al centro di una se-

quenza incalzante di quattro è accentate, in quanto voci del verbo ‘essere’, e tende a essere assorbita nella lettura come quinto elemento della serie. La lettura della vocale come voce verbale configura il segmento «non è Cesare... È un ladro» come una ripresa simmetrica del precedente «Il peone non è Cesare, è un porco». Il peone è del resto accusato esplicitamente di essere un ladro appena prima con «Mi deruba dei pantaloni, del pozzonero». Un'altra configurazione simmetrica instaurata dalla lettura sovrapposta è quella tra «Ma perché il peone, pagare, il custode?» e «Perché anche il ladro, pagare, che viene a rubare?». L’accusa di premeditare un assassinio rivolta al peone è in linea con la più grave delle colpe, quella di essersi «imboscato a Imatapulqui». La requisitoria contro il peone imboscato si traduce in 112

sarcasmo nell’ottavo tratto della Cognizione (pubblicato solo tra il 1969 e 1970 benché scritto nel 1941): C 409.

Il peone non aveva presenziato alla guerra se non in spirito,

essendo stato esentato in ragione della sua attività di «agricoltore» dall'obbligo che incombe al soldato maradagalese di ricevere nel ventre scariche di mitragliatrici parapagalesi. Molti altri agricoltori pari suoi avevano dovuto andarci e anche rimanerci, alla guerra, ma lui no, per fortuna.

Sotto il velo della partecipazione in ispirito del peone alla guerra si annida forse un bersaglio permanente delle future invettive gaddiane: il Lestz0tiv mussoliniano e fascista «lo spirito vince la materia». Il sarcasmo sarebbe doppio e la sua risonanza aumenterebbe indefinitamente. L’allusione all'episodio evangelico di Cesare e delle tasse e la contrapposizione tra Cesare e il porco riguardo al peone si integrano con lo stesso piano di riferimenti, come è prevedibile in un discorso così serrato, in quanto il porco è quello cui si affidano le perle, come a un custode, nel Vangelo di Matteo: «Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante por-

cos, ne forte conculcent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos» (Mt. 7,6). Il passo evangelico delle perle gettate ai porci affiora, e non a caso, poche pagine prima con «Oh! nolite margaritas. Del La Fontaine a uno scemo simile» (C 198) a proposito delle lezioni di francese generosamente elargite dalla madre al nipotino del colonnello medico. E il fatto che al peone, nonostante i suoi precedenti di imboscato, si affidi la protezione della madre di una vittima di guerra, non può che orientare l’allusione evangelica nella stessa direzione profetica della doppia lettura. Il peone, in quanto porco, calpesterà le perle, cioè le cose più care e preziose, con i propri piedi e si rivolterà contro i donatori, dilaniandoli. Il finale della Cognizione viene così prefigurato parallelamente con un indizio stilistico e con un’allusione letteraria. Contro il peone si leva come testimone d’accusa la voce stessa del Vangelo. Ed è voce di verità. Ma il peone, in quanto imboscato, non è che uno dei colpevoli.

113

3.3. PROCEDURE FIGURALI

3.3.1. La morte in memoria

Se il primo tratto della prima parte della Cognizione registra la comparsa dei generali assassini nella figura del fulmine-Napoleone, il primo tratto della seconda parte è occupato simmetricamente dalla tempesta di folgori, figura della guerra, che assale Villa Pirobutirro e minaccia la Signora, madre di Gonzalo e di un altro figlio morto in guerra. Letteratura e biografia vengono ancora una volta a sovrapporsi. L'equivalenza tra tempesta e

guerra si manifesta attraverso la rivelazione che «il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi, ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa» (C 262). A breve distanza i termini dell’equivalenza si precisano ulteriormente. Il vento che ha rapito il figlio e minaccia la madre assume la forma dei generali della prima guerra mondiale. La Signora precipita, con simmetria rispetto al passo precedente, verso gli stessi cipressi dove il vento ha depositato la sua creatura: C 282. Forse, dopo tanto valore e studio, dopo d’aver faticato e patito, e aver dato senza lacrime la sua genitura, perché ne disponessero, gli strateghi della Repubblica, del suo sangue più bello!, secondo ragione loro comandava; forse dopo l’infuocato precipitare d’ogni giorno, e degli anni, stanche ellissi, forse aveva ragione il tempo: lieve suasore d’ogni rinuncia: oh! l'avrebbe condotta dove si dimentica e si è dimenticati, oltre le case ed i muri, lungo il sentiero aspettato dai cipressi.

Quando il tratto viene ripubblicato autonomamente col titolo La mamma nella raccolta I racconti. Gli accoppiamenti giudiziosi, una nota rimanda allusivamente alla prima guerra mondiale con «Repubblica sudamericana 1916» (AG 7541).

Se l’uragano del primo tratto della seconda parte si ricollegasse soltanto ai generali e ai fulmini, si creerebbe uno scompenso rispetto al ruolo complementare del vate-fantasma nel primo tratto della prima parte, con conseguente violazione della legge di simmetria che regola i due tratti. Il coinvolgimento delle 114

celebrazioni fasciste della prima guerra mondiale come offesa estrema per le madri delle vittime restaura la simmetria: C 265

E la inseguivano fin là, dov'era discesa, discesa, nel fondo

buio d’ogni memoria, l’accaneggiàvano gli scoppi, ferocemente, e la gloria vandalica dell’uragano. C 266-7 Invano aveva partorito le creature, aveva dato loro il suo latte: nessuno lo riconoscerebbe dentro la gloria sulfurea delle tempeste, e del caos, nessuno più ci pensava: sugli anni lontani delle viscere, sullo strazio e sulla dolcezza cancellata, erano discesi altri fat-

ti: e poi il clangore della vittoria, e le orazioni e le pompe della vittoria: e, per lei, la vecchiezza: questa solitudine postrema a chiudere gli ultimi cieli dello spirito.

La «gloria vandalica dell'uragano», la «gloria sulfurea della tempesta» scendono come il «clangore della vittoria, e le orazioni e le pompe della vittoria» sopra il destino dei figli sacrificati. Nel temporale che investe Villa Pirobutirro la serie metaforica inerente alla violenza della guerra e delle celebrazioni del dopoguerra più che dominante è sistematica. La madre rivive la guerra e la morte del figlio nella tempesta. Per lei il tempo si è fermato con la guerra. Per lei esiste soltanto la guerra. Per lei, accecata dalla sofferenza, tutto è filtrato attra-

verso la lente della guerra. Il sottufficiale che porta la notizia della morte viene quasi scambiato per il figlio morto in guerra. La tempesta, metafora della guerra, la proietta in mezzo ai bombardamenti. Tutte le immagini sono calamitate al centro del dolore. I cannoni dei generali e i tromboni dei vati la bombardano senza tregua. Il figlio muore per lei tante volte quante volte torna alla memoria. La cognizione del dolore della Signora consiste nel rivivere nella memoria la prima guerra mondiale. La cognizione del dolore di Gadda squarcia ogni finzione letteraria. Un parallelo tanto indipendente quanto significativo può essere trovato nel film Rapsodia in agosto (1991) di Kurosawa, dove un'anziana insegnante, sconvolta dal dolore per la morte del fratello lontano, scam-

bia il cielo in tempesta per quello del giorno della bomba ato-

mica e, rivivendo ciò che aveva fatto allora, si lancia di nuovo a 115

precipizio verso Nagasaki nel disperato tentativo di salvare il marito con un ombrello che la ostacola più che proteggerla, mentre il corpo si piega come il più fragile dei fuscelli ma non si spezza e prosegue irraggiungibile per i nipoti e per i figli. La corsa della morte diventa però un volo d’amore, complice l’ombrello che si apre come un fiore e il rumore del vento che si trasforma improvvisamente in musica.

La letteratura e il cinema del Novecento hanno dovuto fare i conti con le guerre mondiali. Se Kurosawa saprà realizzare, a quasi mezzo secolo dall’atomica, un film che è insieme una testimo-

nianza di altissimo valore etico e, grazie alla combinazione di parole, immagini e suoni in un vero e proprio miracolo stilistico, una lezione d'amore, Gadda non supererà mai il trauma della pri-

ma guerra mondiale e non vedrà che il deserto affettivo attorno ai sopravvissuti. Sopravvivere alla guerra mondiale è per Gonzalo come per la madre morire nella memoria sino a quando le immagini della sofferenza, proiettandosi dal piano mentale sulla realtà fisica, completeranno la conoscenza del dolore nella forma della morte definitiva. La sofferenza della madre di Gonzalo non si limita alla morte del figlio ma abbraccia la sorte di tutti i caduti. Su di loro si sovrappone l’immagine del figlio. Se la tempesta è metafora delle celebrazioni dei vati e delle guerre dei generali, una metafora complementare a quella che traveste allegoricamente i datori di morte si ritrova per le vittime della violenza. L'impazzare delle bombe contro i figli in guerra è tradotto nell’accanirsi delle intemperie sopra le piante che vengono chiamate affettivamente «incurve geniture della campagna», alla stessa maniera in cui più avanti le formiche, deputate a figurare i soldati in marcia per il deserto, procederanno in «carovane eroiche» (cfr. 3.3.2). Sotto le parole traspaiono i soldati curvati dallo sforzo: C 272-3. Il suo figlio primo. Oh! soltanto il nembo — fersa di cieli sibilanti sopra incurve geniture della campagna — soltanto il terrore aveva potuto disgiungerla per tal modo dalla verità, dalla sicurezza fondata della memoria. Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inotridiva

al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie. 116

La tensione affettiva sarebbe incomprensibile se si trattasse soltanto di piante e non ci fossero dietro, in tragica allegoria, le vittime di guerra. Il termine «genitura» compare non a caso poche pagine dopo per il figlio nell'ottica della madre (C 282). La madre, sconvolta dalla tempesta, cioè dallo strazio del ricordo, crede che anche il figlio maggiore, Gonzalo, sia morto, completando la trasformazione in visione bellica del nembo, che si abbatte «fersa di

cieli sibilanti» (C 272) sopra le vittime della guerra. Illuminante per l’interpretazione risulta il teorema per il quale «nell’animo della mamma e direi anzi ne’ suoi visceri, il rapporto madre-figlio si era talmente identificato col rapporto guerra-morte del figlio, ch’ella non poteva più pensare a una madre se non come a un groppo di disumano dolore superstite ai sacrificati» (C 409). L'equivalenza, marcata con la certezza di un'operazione matematica, sarà adempiuta in termini figurali quando sul corpo della madre aggredita misteriosamente si vedranno le ferite del figlio morto in guerra. 3.3.2. Formiche in marcia

La scrittura della Cogrizione è concomitante con quella delle favole. Il romanzo come genere misto si apre strutturalmente ad altri generi, fra cui alla favola, oltre che, essenzialmente, alla tra-

gedia. La favola delle formiche nella Cognizione è dissimulata dalla superficie della scrittura, perché niente informa che si tratti di una favola e che debbano scattare i meccanismi interpretativi dell’allegoria, ma è rivelata dalla dissonanza stilistica, dall’invadenza metaforica, dalla tensione interpuntiva e dalla geografia parlante. È una favola da leggere in chiave storica, come nel caso della riscrittura gaddiana della favola del lupo e dell’agnello (cfr. 2.11). Jean de La Fontaine, favolista in disgrazia con il potere, rappresentato ai suoi tempi dall’onnipotente Luigi XIV, il Re Sole, è evocato più volte all’interno della Cognizione: la sua è voce di verità. Scrive La Fontaine: «Tout parle en mon Ouvrage, et méme les Poissons: / Ce qu’ils disent s'adresse à tous tant que nous sommes. / Je me sers d’Animaux pour instruire les Hommes» [Tutto parla nella mia opera e anche i pesci: ciò che dicono si rivolge a tutti quanti siamo. Io mi servo degli animali pet FRA

istruire gli uomini]. Alle formiche della Cognizione spetta la voce del silenzio e il silenzio è il grido del sacrificio, la protesta di coloro a cui è stata rubata la vita. Nel quarto tratto della seconda parte, i ricordi di Gonzalo bambino tormentato dalla folla carnevalesca sono interrotti bruscamente dall’irruzione dell’attualità storica: C 433 E d’altronde, ai lumi di psichiatria queste fobie del fanciullo rimpetto alla pluralità dei corpi e degli impeti, sono, oggi, interamente dichiarate. Ma, poi, altre folle da ogni via sopravvennero: sfociarono al clamore, alla selvaggia rissa; urgevano da ogni lato, urlavano: lo circondarono. Non era un bimbo, non era neppure un sordo di guerra. Sognò allora, nell’inutilità di quel sole, mentre le formiche traversa-

vano pazienti l’Ogaden, carovane eroiche.... Sognò all’impiedi, nel sole. Altro non poteva fare.

Una concentrazione eccezionale di procedimenti stilistici particolarmente significativi in Gadda illumina il movimento delle formiche: la figura circolare delimitata da «Sognò»; la partitura onirica che costituisce il tema della costruzione anulare e soprattutto la tessera «all’impiedi». Quando Gonzalo è «all’impiedi», il pensiero si ferma sulle ferite non rimarginabili della vita e lo stile si colora tragicamente. All’impiedi le vittime di guerra, condannate a morte dalle strategie dei generali e dalle parole dei vati, accettano con disperata dignità la loro sorte. All’impiedi, sull’attenti, si onorano i caduti, i sacrificati. Quando Gonzalo è

all’impiedi, il narratore ordina metaforicamente al lettore di stare sull’attenti e di sgranare gli occhi della comprensione. La rivelazione è lanciata dall’asse metaforico, dalla sosta stili-

stica, dalla flagranza geografica. Il riferimento all’Ogaden evoca con forza la visione dei soldati in marcia per l’altipiano etiopico, sotto il sole. L’allusione alla guerra d’Etiopia (1935-36), troppo vicina anche emotivamente al tempo della scrittura della Cogrizione, fa emergere il terzo tempo di morte, quello delle guerre fasciste, dopo i due tempi di morte delle campagne napoleoniche e della prima guerra mondiale. Le folle sovrapposte a quelle che erano state l’orrore dell’infanzia sono le folle delle adunate oceaniche: il «poi» rivela che Gonzalo, cioè, sotto il velo, l’autore, durante il

ventennio non era più bambino, come il testo suggella in seguito, 118

testimoniando, nello spazio evidenziato dalla negazione, che aveva patito una guerra vera: «Non era un bimbo, non era neppure un

sordo di guerra». Il fragore è espressione dell’irrazionalità delle moltitudini; Gonzalo, amico del silenzio e della ragione sotto la

buccia protettiva dell’angoscia e del furore, traduce la sua totale opposizione con l’immagine dell’assedio. L'adesione cieca al fascismo porta alle guerre, la folla esalta i pazzi progetti del duce: «sfociarono al clamore, alla selvaggia rissa». Con l’«inutilità di quel sole» si allude al tempo della vita perduta senza ragione. Il moto delle «formiche» che «traversavano pazienti l’Ogaden, carovane eroiche...» evoca le marce dei soldati, numerosi e tenaci come formiche, per l’altipiano etiopico. L'aggettivo «pazienti» non è neutro, ma racchiude la silenziosa sofferenza dei sacrificati. L’inciso in funzione appositiva «carovane eroiche...», che mette in luce una tessera esclamativa, da discorso diretto, tra

le maglie dell’indiretto, generando il discorso indiretto libero, denuncia la partecipazione dello scrittore, troppo intensa per limitarsi al movimento delle formiche. La pausa esclamativa aggettivo-sostantivo col referente diretto o indiretto delle creature care è una figura stilistica ricorrente in Gadda. I sacrificati della guerra tendono a occupare la sede limitata dall’interpunzione affettiva come prediletti dello scrittore. Preghiera (cfr. 2.5), il secondo degli Studi imperfetti, si apre con l’allocuzione ai compagni morti — «Ho pensato molte volte di voi, poveri morti» (MF 44) — per chiudersi circolarmente con «penso di voi, compagni morti» (MF 45). Il rimpianto per gli alpini di Lecco e di Bergamo, durante la prigionia rievocata nel Castel lo di Udine, è prolungato dalla sosta sintattica: «(cari, eroici compagni!)» (CU 60). Uno stilema familiare si converte, attraverso il filtro di una scrittura che lo dilata semanticamente, in tessera preziosa. La presenza più alta dello stilema si registra proprio nella Cognizione, quando la luce degli occhi e del viso condensa in straziante metonimia il ricordo del fratello perduto: «I compagni morti, mai, mai, Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così glo-

riosamente poetare, il fratello, sorriso lontano! Chiusone in sé il

nome, la disperata memoria» (C 291). L’apposizione «carovane eroiche», destinata alle formiche soltanto in superficie, converge nella medesima direzione stilistica 119

e tematica del «sorriso lontano!». Lo stile della memoria ferma la sintassi di fronte alle vittime di guerra. La sintassi è sull’attenti durante pause appositive o esclamative così forti sul piano del messaggio. Il coinvolgimento appassionato dell’occhio del narratore nella rappresentazione delle formiche in marcia ora non appare più sproporzionato ed enigmatico.

La marcia dei soldati attira le immagini degli animali più avvezzi alla fatica e ubbidienti. Un parallelo significativo è offerto dal testo di dedica a Raffaele Mattioli che precede Verso /a Certosa (1961). Il somarello paziente che fa compagnia, nello spazio della similitudine, ai compagni di marcia passa sulla pagina con la stessa intensità che si concentra sulle pazienti formiche: SGF I, 278.

Cari esseri, i cui atti erano liberamente, operosamente

voluti nel sano volere e nella ragione di natura: ponevano la pietra e la malta: o andavano, andavano come il somarello paziente o il mulo stesso mio compagno di fatica e di volere: o ascesero taciti verso la disciplina e la pena dell'Adamello e dell’Altipiano, o verso il Golgota nella cenere delle battaglie oltre dolina o vallone.

Tornano gli elementi-chiave del passo della Cognizione, privati ormai dello spessore criptico, dato che il primo termine di paragone non è scritto su una riga fantasma ma esplicito. L’ag-

gettivo «paziente», carico etimologicamente di sofferenza, dà il senso di un’obbedienza eroica e silenziosa. La ripetizione del verbo «andare» traduce iconicamente, assieme all’imperfetto di durata, la fatica del cammino. Proprio come nella Cognizione — «traversavano», seguito da «carovane» a ribadire il concetto di marcia — l'imperfetto moltiplica l’azione sul piano della durata. Il sintagma marcato affettivamente, parentetico su posizioni-chiave

in entrambi i passi — «carovane eroiche...» e «Cari esseri» — ri-

spettivamente a fine e a inizio di periodo, disegna la stessa figura stilistica. La favola delie formiche della Cognizione trova il suo para-

digma nella favola polimetaforica della marcia, comparsa, senza

tappe intermedie di pubblicazione in rivista, direttamente nel Pri. mo libro delle favole (1952). La forma dell’apologo cristallizza la

partecipazione appassionata che trova voce nel sogno tragico di

Gonzalo e la favola (n. 172) può essere considerata la traduzi o120

ne in termini chiari dell’allusione etiopica: «Andava, la paziente carovana, lungo l’infinito sentiere. Questa favola è detta de’ cammelli, de li arabi, de’ muli, delli alpini, delle inestinte formicole»

(Ei 72 Le «carovane eroiche» di formiche che traversavano «pazienti» l’Ogaden tornano condensate in «paziente carovana», mentre la favola offre il paradigma delle possibili marce, sovrapponendo il cammino degli alpini a quello delle formiche e dei muli. Selezionando il segmento «le formiche traversavano pazienti» e inclinando l’asse metaforico sul piano più corrente della similitudine, è possibile trovare un precedente illuminante in Elogio di alcuni valentuomini, dove la marcia di avanzamento dei tede-

schi contro i francesi è paragonata al movimento delle formiche. I soldati procedono, con convergenza più che significativa, «come pazienti formiche». Il nesso tra il cammino instancabile delle formiche e il passo ubbidiente degli uomini in marcia è formato anche qui dall’aggettivo «pazienti»: CU 127 Lo Zola descrive nella «Débacle» il lento, implacabile disten-

dersi delle formiche tedesche torno torno tutto il margine della buca, a Sedan. L'esercito francese giù nella buca. Descrive la battaglia: l’avan-

zare dei tedeschi era un método: non un uomo veniva sacrificato, che

non fosse necessario sacrificare. «Come pazienti formiche».

Risalendo alla fonte zoliana, La débécle ([La disfatta], GarnierFlammarion, Paris 1975) presenta figurativamente, con una cer-

ta sistematicità, le colonne di soldati come file di formiche: 192 — Vous ne voyez pas, là-bas, le long des sommets, ces lignes noires en marche, ces fourmis noires qui défilent! [...] Mais, regardez-

les donc! la terre en est couverte, elles viennent, elles viennent, les

fourmis noires! [- Non vedete laggiù lungo i rilievi queste linee nere in marcia, queste formiche nere che sfilano! [...] Ma guardatele, dunque! la terra ne è coperta, vengono, vengono, le formiche nere!]

Sul grado zero iconico di «des files de fourmis noires [file di

formiche nere]» (88-9) o di «les fourmis noires défilant sans cesse [le formiche nere che sfilano senza sostal» (195) s’innestano 121

variazioni come «ces coulées intarissables de fourmilière géante [queste colate inesauribili di formicaio gigante]» (100-1), «la noi-

re fourmilière humaine [il nero formicaio umano]» (201), o in

variazione chiastica «un si noir fourmillement [una così nera invasione di formiche]» (208) e «le fourmillement noir [l’invasione nera di formiche]» (209). Gadda somma Zola a Zola in Elogio di alcuni valentuomini, sovrapponendo l’icona entomologica alla marcia di accerchiamento a Sedan —- «Au milieu, comme au fond d’une basse fosse, la ville de Sedan était là [Al centro, co-

me nel fondo di una prigione, la città di Sedan era là]» (210) — replicata, in tutto il lento, paziente, metodico avvolgersi: «la lenteur de leurs mouvements, la patience avec laquelle ils gagnaient du terrain, en s'exposant le moins possible [la lentezza dei loro spostamenti, la pazienza con cui guadagnavano terreno esponendosi il meno possibile» (211) 0, in una formula gelidamente scientifica, «la marche mathématique, inexorable [la marcia matematica, inesorabile]» (259). Gadda cristallizza le tracce im-

pressionistiche del descrittivismo zoliano nel suo lessico contratto, criptico, espressionistico, per il quale il lemma ‘formica’ assume la carta d’identità allegorica, per la memoria letteraria indotta dalla lettura della Débdele, del ‘soldato in marcia’. La

distanza stilistica della Cognizione dalla Débdcle si rende incolmabile.

3.3.3. Ferite di guerra Se nella nota introduttiva del Racconto italiano, stesa il 24 mar-

zo 1924, lo spartiacque tra «gli anni luminosi dell’infanzia» e i «neri dolori, invincibili mali» che «hanno selvaggiamente ferito» l’autore è molto netto, all’interno della Cognizione gli spazi del ricordo non proteggono più dalla morte il mondo infantile. La morte giunge a corrodere le visioni della fanciullezza, lacerando il volto del fratello di Gonzalo con le stesse ferite registrate sui corpi dei compagni morti negli scritti di argomento militare di Gadda: C 414

Edera nella sua casa ora, il consorzio, come lo aveva sognato,

pre sagito, il Marchese: «Per i miei figli, la villa, le pere, per i miei figli». k22

Peccato che uno si fosse buttato in aria, l’aria bonna, a quel modo: ma la gravitazione aveva funzionato, il 9,81: con due fili rossi sui labbri dalle narici, e gli occhi aperti, aperti, dentro cui si spegneva il tramonto...

Coi labbri pareva voler ribere il suo stesso sangue.... perché non sta bene.... dal naso.... il sangue.... due fili rossi... dal naso.

La cognizione del dolore non potrebbe trovare metafora più suggestiva dello sguardo del morente che si apre sino ad abolire ogni limite che non sia la sfericità della Terra per osservare la propria fine nella figura di un tramonto. Il tramonto è rosso come il sangue che invade il viso e l’occhio della sofferenza si dilata sino ai confini dell’orizzonte per spegnersi in una notte senza cielo. E non è immaginabile racchiudere il senso di dignità disperata, di decoro oltre la morte, in un atto più espressivo del tentativo di «voler ribere il suo stesso sangue». Per il cielo che si trasforma metaforicamente in un occhio cfr. 4.3.6. A breve distanza, il libro della memoria permanente gaddiana viene a coincidere con il libro del bimbo dalla conoscenza lucidissima, dall’osservazione implacabile. Nella figura del bimbo si sovrappongono in modo inestricabile l’ottica di Gonzalo e quella del fratello. La «verità» è «impronunciabile» tanto perché racchiusa in un pensiero e in un linguaggio infantili quanto perché fermata per sempre dalla morte, come se la conoscenza autentica fosse raggiungibile soltanto, attraverso il grado più alto del dolore, da chi muore durante l’infanzia: C 415 Dentro casa, ora. Popolo e pulci, di cui si commoveva la mamma, dopo che il suo figlio minore, nei lontani anni, aveva guardato gli accorsi. Con occhi lucidissimi, aperti. Aperti, fermi. Nello stupore del sogno senza più risposte. La favola. Era chiara, ora, splendida, interminata, come nel libro del bimbo. Due fili di sangue gli discendevano dalle narici sui labbri, semiaperti: dischiusi alla verità impronunciabile.

La fusione tra il tempo della guerra e il tempo della fanciullezza trova così l’applicazione più alta, e tanto più significativa, quando sul volto di Elisabetta Frangois, ridotta in fin di vita per effetto di una misteriosa aggressione, si scoprono le stesse ferite del figlio precipitato con l’aeroplano (C 467). La soluzione del 123

giallo della Cognizione conduce all’identificazione inequivocabile del colpevole in una figura polivalente che compendia, come il bianco del disco di Newton, i connotati di generali, vati, im-

boscati e profittatori di guerra in genere. L’oltraggio convergente recato alla Signora da tutte le persone storiche rappresentate nella Cognizione dal generale Nepomuceno Pastrufacio e dal vate Carlos Cagoncellos, in versione figurale rispettivamente fulmine e fantasma, determina il delitto metafisico. 3.3.4. Il modello dantesco

La Commedia dantesca è il più esemplare processo al mondo sub specie letteraria. Il protagonista e il narratore della Cognizione del dolore assumono, di volta in volta parzialmente o integralmente,

la funzione di giudici del mondo rappresentato. Fra le «Battute da interpolare» pubblicate da Emilio Manzotti in appendice alla sua edizione critica e commentata della Cognizione ve ne sono

alcune particolarmente illuminanti. Un paragrafo su Gonzalo è intitolato «Giudizio prassi»: C 567

Il giudizio era inalazione, in lui, più che sternuto: torpida tar-

da sintesi; e più che inalazione era una tenaglia onde la realtà valutata gli diventava preda sotto alle unghie. Il giudizio era in lui prassi: e cioè giudicando agiva, sentiva di agire, agiva moralmente, prendeva, attanagliava la realtà giudicata, e la stritolava in polvere di quello ch’ell’è veramente, cioè un bischero, pulverulento nulla.

Come un serpe semi-dormente ma orribile e maculato d’orrore, egli lambiva il ciuco, e stringeva, a cui le ossa cominciavano a crocchiare come noce sotto l’acciaccanoci: poi cilindratolo e riduttolo a nero maccherone (idea pura del maccherone o cilindro), tutto lo insalivava, il quadrupede maccheronato, poi lo deglutiva, poi lo digeriva, se pure in dodici mesi e passa, poi, fattone fedissimo sterco, lo defecava dal primo buco che gli paresse. Ed ecco il pachiderma era divenuto il suo giudizio. Là.

La memoria del verso dantesco «ciascuna cosa qual ell’è diventa» (Par. XX, 78), estrapolato dalla celebre similitudine dell’«allodetta che ’n aere si spazia», si presta a concentrare nel modo più efficace la ripresa della procedura figurale di ascendenza 124

dantesca in «di quello ch’ell’è veramente» con relativo contesto. Nel sistema allegorico della scrittura gaddiana il somaro, il ciuco per antonomasia è Mussolini, e non a caso capita per primo

tra le tenaglie giudicanti di Gonzalo, venendo ridotto, dopo l’azione del giudizio, nell'immagine fisica della sua essenza escrementizia. Più avanti un saluto qualsiasi scatena il ricordo del saluto fascista e nazista. Mussolini e Hitler vengono precipitati in un inferno di marca dantesca. Se il ciuco per antonomasia è Mussolini, la belva oscena per antonomasia è Hitler. Si tratta di identificazioni che si ripetono ossessivamente nella scrittura gaddiana. Le metafore sessuali (il «principio» e la «scatola del principio») fanno velo all’inquisizione politica e rendono in pieno la volgarità del nazismo e del fascismo attraverso l’accentuazione mimica dei rispettivi saluti: C 571 Sì, sì: te li saluto io. Tutt’e due te li saluto. Il principio e la scatola del principio. Con quello con cui si salutano i ciuchi e le belve, le oscene belve. E poi sternutano. E allora si soffiano. E mangiano una pasticca. Te li saluto io, te li saluto io, lascia fare. Tutt’e due. Egli sperava molto in Calcabrina, in Ciriatto. Se fosse stato Dante, a quelli che forconava giù Ciriatto, gli avrebbe buttato caritatevolmente una pera. «Hai sete, caro? nella merda bollente. Povero tesoro. Eccoti la butirro.» Te le manda il San Carlo, il Carlone d’Arona, il Casuista, col naso insubrico di bronzo, che fa maturare le

butirro. Le pere butirro, dure come sassi, sono un concentrato meto-

nimico di tutte le torture inflitte all’infanzia di Gonzalo e si caricano per contrappasso di un feroce significato punitivo. Fra le battute da interpolare è illustrato anche il codice a cui fa riferimento il tribunale della scrittura gaddiana. Un codice illuminante anche per il Pasticciaccio: C 570

Forse a lato della realtà fisica, meccanica, bassamente stereo-

metrica, bassamente storica = corre una trama spaventosa e vera, uno spaventoso pensiero. E la cosa o l’atto pensato è più vero dell’accaduta o dell’eseguito. E Dio vede il pensiero, l’immaginato. E, anche

non vedesse, si rifiutasse di vedere, (ché tutto può, Dio), l’immagina-

zione, il delirio rimarrebbero e l’anima si perde nell’imaginare, non 123

nel compiere. Egli si sentiva perduto, vedeva che l’esser venuto tra le imagini era solo un antefatto della propria rovina.

Il crimine del pensiero corrisponde per lo scrittore al crimine della parola. Come legifera Platone, l'ingiustizia più grave consiste nel dire di essere giusti e in realtà non esserlo. Per l’immaginazione che si traduce in realtà si può ricordare Montaigne che, nel capitolo XXI dei Saggi citato da Manzotti 1996, tratta della forza dell’immaginazione alla luce del teorema «Fortis imaginatio generat casum» (l’immaginazione intensa genera l’even-

to) o d'Annunzio che scrive nella Laus vitae: «e tanto era l’ardore / che il sogno eguagliò l'atto» (Maia, vv. 110-1). Rispetto a d'Annunzio, i parametri gaddiani entro cui l'immaginazione interviene nella realtà non sono però la volontà e la potenza ma la conoscenza e la sofferenza. Con le immagini del fulmine e del fantasma è eseguita nella Cognizione la condanna figurale del generale (in particolare di Napoleone, carnefice per antonomasia) e del vate (cfr. da 3.2.1 a 3.2.4). I generali e i vati, cioè gli attori e i celebratori delle inutili guerre, sono i veri colpevoli della Cognizione. Le ferite della madre di Gonzalo sono le stesse ferite del figlio morto in guerra, inferte, le une e le altre, dai pensieri, dalle parole, dalle azio-

ni dei generali e dei vati. Il volto della madre più che ferito è «ingiuriato» (C 471). Il teorema dell’oltraggio determina lo svolgimento narrativo della Cognizione. La dimostrazione è presentata fin dal primo tratto con l'esperimento del gatto, tradotto dal teorema fisico dell’impulso a quello morale della conoscenza. Il teorema è adempiuto nella realtà narrativa con la morte della creatura offesa dall’esperimento. Gonzalo e la madre sono le vittime parallele della guerra dei generali e del dopoguerra dei vati, dei falsi reduci e dei profittatori di guerra. La forma più alta della conoscenza del dolore consiste nel vivere nella memoria. Il grado più alto, nella morte in memoria. 3.3.5. Platone e il dovere

La scrittura di Gonzalo si oppone in modo inconciliabile alle scritture dell’epica retorica. Gonzalo è l’innocente contro cui si 126

scatenano le apparenze crudeli e ingiuste della realtà, secondo un teorema verificabile spesso nelle opere gaddiane, a partire dalla prima prova narrativa, La passeggiata autunnale. La rivelazione

dei veri colpevoli è affidata nella Cognizione alla convergenza di diverse strategie allusive. La ricostruzione della memoria letteraria legata ai nuclei nevralgici del dolore è conseguentemente preziosa. Una sosta altrimenti inspiegabile ferma i soccorritori proprio prima della scoperta della moribonda: C463 Illetto intatto. Il grande tavolo liscio. Sul tavolo un libro aperto, una fotografia del fratello di lui, ragazzo dal volto sorridente, dopo tant’anni!: con una mano sul manubrio della mitragliatrice: era visibile, in parte, la struttura del velivolo. Uno degli intrusi indugiò a guardare la fotografia, e lesse poi alcune righe nel libro aperto. «.... Ma le leggi della perfetta città devono...»

Le leggi devono essere rispettate anche se comandano il sacrificio in guerra. La voce delle leggi non si è mai levata con un’intensità maggiore a quella che presenta nel Critone platonico. Il passaggio più alto della prosopopea delle leggi non sarebbe potuto restare inattivo nella memoria gaddiana (la traduzione è tratta da Platone, Sizposio-Apologia di Socrate-Critone-Fedone, a cura di E. Savino, Mondadori, Milano 1987): 51 a-c

Oseitanto colto da scordarti che di tua madre, di tuo padre,

delle tue ultime radici più preziosa cosa è la tua patria, più solenne, più sacra, su un piedistallo più elevato, agli occhi di dio e degli uo-

mini dotati di cervello? Si deve culto, alla patria. E disciplina, e dol-

cezza, con lei, se s’inquieta, più che con un padre. O calmarla, o fare i suoi comandi: e pazientare con serenità, ti imponga pure sofferenze, schiaffi e la prigione. Magari ti chiama alla battaglia, futuro

mutilato, o morto ucciso: devi andare, perché è giusto, non imboscarti, non defilarti, non disertare. In guerra, in aula di giustizia, ovun-

que tu sia, devi eseguire gli ordini del paese nativo. O convincerlo che la radice di giustizia è lì, dalla tua parte. Essere brutali con padre e madre è sacrilegio: ma peggio ancora con la patria.

Nelle righe precedenti le leggi sono riconosciute perfette in ogni loro parte, giustificando la formula gaddiana delle «leggi della perfetta città». In pochi, tragici ed essenziali passaggi è concen127

trata la religione del dovere di Gadda. Sono le leggi, attraverso la voce di Platone, a celebrare l’eroismo del fratello di Gonzalo mor-

to in guerra. Sono le stesse leggi ad accusare, con flagrante concomitanza, gli imboscati, i disertori e i traditori, addossando loro la

responsabilità anche della morte dei combattenti. E la prosopopea delle leggi racchiude in sé il verdetto centrale della Cognizione. 3.3.6. Il tribunale della scrittura

Gonzalo è l’imputato, la vittima, l’accusatore, il giudice della Cognizione del dolore. Tutto tranne che il colpevole. La serva Battistina lo accusa, il medico lo difende e lo giudica (C 118-28). L'imputato non risparmia i processi a se stesso: «una figurazione di

colpa, di inadempienza nel suo contegno» (C 150). Si moltiplicano i giudici intorno a lui: «Come ogni giudice taceva, prese a giustificarsi» (C 173). La vittima non ha tregua: «Patì anche, in blocco, di tutte le altre insolenze, d’altri, di lontani, di ricchi» (C

207). Il male oscuro dello hidalgo è legato a doppio filo con le ingiustizie patite (C 312). Il verdetto sul comportamento di Gonzalo, pronunciato in spagnolo, concede però largo spazio alle attenuanti (C 376-7): «il mappale della tristezza» «è stato allegato agli atti» (C 378). Ma Gonzalo è anche l’accusatore principe della Cognizione e, contro il generale Pastrufacio, trascende «ad ac-

cuse troppo vere, forse, per essere udibili» (C 301). Il «rigore della inquisizione» (C 145) è un punto fermo del suo carattere. Il suo sarcasmo investe il Nistitto e la giustizia del mondo in genere (C 396-7). Gonzalo ha «in orrore il cavillo e tutte le procedure della inanità» (C 360). L’accusatore è un giudice implacabile, che rivendica «la facoltà santa del giudizio» (C 355). Le forme di condanna variano dall’«escludere dallo sguardo, e forse dallo sguardo dell’anima» (C 74) all’«attuffare nella rancura e

nello spregio come in una pozza di scrementi, negare, negare» (C

354). Le condanne a morte affollano l’immaginazione del protagonista: dall’impiccagione immaginaria del vigile del Nistitàio alla maledizione funebre sul capo del nipotino del colonnello medico (C 200: «Crepasse almeno davvero!», e il funerale è accarezzato nell’immaginazione).

I progetti di esecuzione

sono

declinati in varie forme per i profanatori della casa, attesi oltre la 128

morte dall’inferno dantesco: «I profanatori dovevano perire, infilati sugli schidioni, arrostiti, come polli. O allesso. Incappiati, al collo, dallo straforzino del Borgia. Il forcone e il ghigno di Ciriatto dovevano ricacciarli giù, giù, nel bollore della pégola, della merda a 105 gradi» (C 519). Nella fantasia di Gonzalo i salumai disonesti, «insaccatori di

topi», diventano per contrappasso «salumai grassi, come baffuti topi» (C 322). Il delirio di Gonzalo assume la cadenza giudiziaria dei Suezios del giudizio finale e dell’inferno di Quevedo, senza dimenticare il giudizio manzoniano, lasciato ai fatti, sopra co-

loro che banchettano a spese e a spregio della carestia (banchetto di don Rodrigo). Il verdetto manzoniano è potenziato in Gadda dal sarcasmo. Il contrasto fra le parole «ambrosia» e «impiccateli» che sintetizzano il banchetto di Rodrigo è dilatato in scene di morte: «Dimenticati tutti gli scioperi, di colpo; le urla di morte, le barricate, le comuni, le minacce d’impiccagione ai

lampioni, la porpora al Père Lachaise; e il caglio nero e aggrumato sul goyesco abbandono dei distesi, dei rifiniti; e le cagnare e i blocchi d’ogni qualità e d’ogni terra; per un attimo! per quell’attimo di delizia» (C 338). Non c’è spazio per la giustizia nel mondo. Premio della bontà è la morte (C 165). Sulla vita incombe come «decreto inappellabile» (C 162) la morte. Oltre la morte la prigione eterna: «come dietro sbarre del tempo finito» (C 370). Il ricordo del figlio caduto in guerra rappresenta una condanna a morte per la madre. Le parole del militare che comunica ufficialmente la morte del figlio sono rivissute come un verdetto inequivocabile. Sembra che la madre risponda di sì al boia: C 257 Prima le aveva chiesto: «è lei la signora Elisabetta Frangois?». Impallidendo all’udir pronunziare il suo nome, che era il nome dello

strazio, aveva risposto: «sì, sono io». Tremando, come al feroce rin-

erudire d’una condanna. A cui, dopo il primo grido orribile, la buia voce dell’eternità la seguitava a chiamare.

L’appello dello hidalgo a una giustizia perfetta e invisibile cade nel vuoto delle domande senza risposta: «Dove andava la sua

conoscenza umiliata, coi lembi laceri della memoria nel vento 129

senza più causa né fine? Dove agivano le menti operose circa la verità, con la loro sicurezza giusta, illuminata da Dio?» (C 337).

Il protagonista della Cognizione assume su di sé non solo la responsabilità del giudizio, ma anche quella della vendetta. Una «feroce risata» accompagna la vendetta immaginaria postuma (C 418).

L’investitura ufficiale di Gonzalo come giudice avviene nella prosa L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore. Gonzalo è la vittima di tutti i processi ingiusti del mondo e insieme l’accusatore e il giudice della giustizia umana. Il suo delirio «procede dagli altrui errori di giudizio» (C 490). La sua sensibilità «aborre dai crimini del mondo» (C 491). In una redazione, poi non a caso relegata nel limbo del non pubblicato da Gadda, l’inquisizione si fa particolarmente violenta e l’immagine della vittima straziata è opposta con sarcasmo alla «santità della legge, che il gran Diavolo se la porti ne l'Inferno suo» (C 490). Non c’è spazio per la verità: a pronunciarla, a scriverla «si lascia la capa nel cestello: dans le panier» (C 486). Ecco formulata in una legge di validità storica la radice delle strategie allusive gaddiane: è possibile solo fare balenare la verità, è troppo rischioso esprimerla in pieno. La cognizione del dolore è un processo ai processi. L'anima di Gonzalo è «troppo più ricca e giusta» (C 557), come si legge in una redazione non assunta a testo perché troppo chiara ed esplicita, delle anime di coloro che lo condannano. Il movimento lirico di difesa segnala una partecipazione totale da parte dello scrittore. Il titolo stesso, La cognizione del dolore, è

carico di armoniche semantiche giudiziarie. Il processo cognizionale si distingue per il ricorso all’inguisitio da parte degli organi di polizia rispetto al processo ordinario che parte dall’accusatio intentata dai cittadini. Il procedimento di cognizione ha rappresentato poi una delle forme più complesse e importanti di processo. La mente di Gonzalo diventa tribunale del mondo. Il dolore è per antonomasia quello per i morti in guerra. Si tratta di rintracciare i colpevoli: imboscati, vati e generali. In un’altra variante sepolta nel silenzio della scrittura, si afferma che «era in lui [=in Gonzalo] una ben più alta ed esatta ricognizione di meriti e di colpe» (C 557; il corsivo è mio). Il termine «ricognizione» mantiene la valenza giuridica di «cognizione». Cogritio co130

me elogium: un altro titolo gaddiano che si avvale della semantica latina per riflettere un progetto giudiziario. 3.3.7. La seconda guerra mondiale

Gli anni Trenta vedono progressivamente diminuire il lavoro di ingegnere e aumentare lo spazio per la letteratura. Dopo aver lasciato l’«Ammonia Casale» nel 1931, Gadda lavora nei primi anni del decennio per i Servizi tecnici del Vaticano. Il 1936 è l’anno della morte della madre, figura che conterà molto per il personaggio di Elisabetta Frangois della Cognizione: i lunghi anni di incomprensioni si trasformeranno in rimorso. Dopo un decennio di spostamenti soprattutto tra Milano, Roma e Firenze, lasciata l'ingegneria, Gadda si trasferisce a Firenze nel 1940, dove risiederà sino al 1950, anno del trasferimento a Roma. A Firenze si

consolidano i rapporti con molti intellettuali, fra cui il poeta Eugenio Montale e il filologo e critico Gianfranco Contini, già conosciuti da diversi anni. La seconda guerra mondiale, con periodi di fuga dai bombardamenti presso amici nelle campagne toscane, rinnoverà per Gadda i traumi della prima guerra mondiale. L'interruzione della pubblicazione della Cogrizione sulla rivista «Letteratura» si spiega anche con i traumi della guerra largamente testimoniati dalle lettere del periodo e dai ricordi degli amici. Se si dovesse tracciare il diagramma, con la frequenza e l'intensità come variabili, degli affioramenti tragici all’interno dell’opera, il grafico, do-

po un percorso più o meno regolare per la prima parte, registrerebbe una brusca impennata in corrispondenza del primo tratto della seconda parte, per impazzire sulla fascia degli ultimi due, scritti non oltre il 1941 ma assenti persino nell’edizione del 1963 e pubblicati per la prima volta nel 1969 in traduzione inglese e l’anno successivo nella redazione italiana. Nell’ottavo (C 385438) e nel nono tratto (C 439-72) vi sono, fra l’altro, l’allusione

etiopica e le ferite speculari della madre e del figlio (C 198 e C 228). Solo all'autore settantasettenne e ormai vicino alla morte si riuscì a strappare l’assenso per la divulgazione degli ultimi due tratti, troppo legati alla tragedia individuale e collettiva, con riferimenti brucianti, per quanto protetti dall’allegoria, al terzo 131

tempo di morte delle guerre fasciste. Il capovolgimento del più vantato trionfo fascista — la guerra d’Etiopia — in sacrificio sul deserto esprime nel modo più evidente quali fossero le idee e i sentimenti dell’autore sul regime fascista. Anche con la pubblicazione degli ultimi due tratti, l’opera resta in sospeso: esistono dei frammenti di un decimo e definitivo #r4tt0. L'incompiutezza ha qui, più che mai, il valore di un cecidere manus.

Capitolo quarto

Lo stile della memoria:

«Quer pasticciaccio brutto de via Merulana»

4.1. UN'IPOTESI DI INDAGINE

4.1.1. Un giallo a quattro dimensioni Quer pasticciaccio brutto de via Merulana compare sulla rivista «Letteratura» nel 1946. Dopo cinque puntate, a opera largamente incompiuta, la pubblicazione si interrompe. Il Pasticciaccio in volume sarà stampato, con una discussa completezza, soltanto nel 1957. Lo scioglimento problematico del giallo, con le voci su un secondo volume, possono far pensare a un’opera incompleta, mentre la strutturazione in dieci capitoli e la complessità ideologica ed espressiva di Gadda depongono per il libro concluso. La soluzione dell’opera programmaticamente non finita appare la più equilibrata e in linea con le soluzioni compositive dell’autore. Il romanzo è ambientato nella Roma fascista del 1927. La scelta del genere giallo, dato il divieto, negli ultimi anni del regime, di pubblicare gialli, è la prima tessera di un orientamento globalmente antifascista. Non più un giallo in contumacia, come succedeva per la Cognizione pubblicata tra il 1938 e il 1941, ma un giallo poliziesco esplicito. Anche l’invasione delle forme dialettali, data l’avversione del fascismo per i dialetti in generale e per il romanesco in particolare, rafforza una strategia antifascista. Voci romanesche, napoletane (il commissario capo dot333

tor Fumi) e molisane (don Ciccio Ingravallo) si alternano con la lingua italiana, presente dal registro più informale a quello più elevato, mentre l’italiano letterario fa registrare forme di secoli diversi. Riassumere il Pasticciaccio equivale a interpretarlo, perché la narrazione tende a sfuggire secondo la forza centrifuga dell’analogia non casuale ma motivata allusivamente. Il commissario In-

gravallo, protagonista del libro, ha trentacinque anni, proprio come Gadda nel 1927: il sigillo autobiografico è apposto con la stessa modalità della Cognizione. Commissario come metafora dell’intellettuale: caso da risolvere come mondo da conoscere. E un commissario-filosofo, alieno dal semplicismo interpretativo, dalle banalità linguistiche e dal decisionismo fascista. La sua teoria delle indagini, centrata sul groviglio o garbuglio o gomitolo di moventi piuttosto che sul movente semplice, è assimilabile a un sistema di pensiero. Il groviglio è metafora di una visione irrazionale del mondo, in cui giocano soprattutto spinte erotiche o affettive e dove l’immagine della ragione, già nel primo capitolo, è quella di un pollo debilitato a cui viene tirato il collo. Il piano razionale crea uno spazio complesso con la terza dimen-

sione del livello irrazionale e rende necessari strumenti interpretativi dalla prospettiva poliedrica. Il commissario conosce la famiglia Balducci: marito e moglie, quasi incompatibili per carattere (ipersensibile lei, grossolano lui), senza figli con un andirivieni di domestiche e figlie adottive. Il commissario intuisce dietro quella che potrebbe essere una comune storia familiare una situazione quanto mai complessa e comincia a indagare con il cuore prima che l’indagine abbia motivo di cominciare. Nell’appartamento di fronte a quello dei Balducci viene derubata la vedova Menegazzi (lunedì 14 marzo). Ingravallo si sdoppia in commissario ufficiale e commissario del cuore. Il primo cerca di mettere ordine alle confuse testimonianze dei vicini, modello di falsa conoscenza dovuta a insuffi-

cienza linguistica (il ladro è chiamato «assassino» nonostante ripetute correzioni e la parola falsa è sempre sul punto di innescare una falsa conoscenza); il secondo si accorge che l’incontro con il ladro è in qualche modo anticipato dal campo delle tensioni psichiche della derubata, che sogna confusamente l’aggressione fi134

sica, aggiungendo una quarta dimensione metafisica a una realtà già ingarbugliata. Il palazzo dei pescicani o profittatori di guerra, in cui abitano fra gli altri i Balducci e la Menegazzi, è presentato come un colpevole. Fra le testimonianze che ingarbugliano il caso più che contribuire a risolverlo finisce sospettato il commendator Angeloni, sul volto del quale il commissario del cuore (Gadda parla di conoscenza del cuore non in senso romantico ma in direzione di una complessità anche irrazionale e metafisica che si integra con la ragione) legge «una muta disperata protesta contro la disumanità, la crudeltà d’ogni inquisizione organizzata» (P 44): è lo stile del silenzio, la voce dell'innocenza. Il primo capitolo si conclude con il fermo casuale di qualche poveraccio. Nel secondo capitolo, dopo un’ampia presentazione del contesto ambientale fascista e del Testa di Morto (Mussolini), In-

gravallo riceve sconvolto (giovedì 17 marzo) la notizia dell’assassinio di Liliana Balducci. La visione del cadavere dell’assassinata si trasforma in conoscenza della morte. L'interrogativo principale del commissario riguarda il collegamento o no del furto e dell'assassinio a breve distanza di luogo e di tempo. Con il terzo capitolo cominciano due inchieste parallele, una effettiva, l’altra metaforica: la prima si concentra sui sospettati (il cugino Giuliano Valdarena, il marito Remo Balducci etc.), la seconda, condotta

soprattutto che si rivela le per forza geloni. Il quarto

da Ingravallo nell’ottica del narratore, sulla vittima, la figlia di un profittatore di guerra. Il fascismo vuoun colpevole e viene arrestato il commendator An-

capitolo vede il ritorno del marito della vittima, lon-

tano da casa per motivi di lavoro (commercio). La conoscenza

del cuore del commissario lo scagiona nonostante le apparenze siano contro di lui. Un largo excursus sui metodi d’indagine in

epoca fascista si incentra su un caso storicamente avvenuto di in-

giustizia (la vittima si chiama Girolimoni nella storia e Pirroficoni nel romanzo) e getta una luce di innocenza sugli interrogati Balducci e Valdarena. Tra un’interrogazione e l’altra c’è la lettura del testamento dell’assassinata, che si rivela ferita nell'anima

dall’impossibilità di avere figli e avviata mentalmente alla morte: come la Menegazzi desidera l’aggressione fisica e viene deruba135

ta, così la Balducci è in intensa attesa della morte e viene uccisa.

La voce dell’assassinata viene a interpretare, nella pagina più alta, forse, del Pasticciaccio, una morte che la libera insieme dalle

ferite dell'anima e dalle ricchezze turpi; turpi, proprio perché ereditate dal padre, profittatore di guerra. La «formula enigmatica» per gli altri del testamento da nascondere e dimenticare è chiara a don Ciccio Ingravallo, che vi legge, con una profondità che pertiene all’orizzonte epistemico del narratore, la brama di «vedere sepolto al più presto quel turpe elenco di averi» (P 105). Nel sintagma «formula enigmatica» ‘enigma’ equivale a ‘giallo’: il commissario-narratore ha già trovato la soluzione. L'assassinio è una condanna a morte: «Il bilancio della morte era chiuso al centesimo» (P 106). L'apertura del quinto capitolo scagiona anche il Valdarena a livello ufficiale. Le impressioni e i ricordi del marito e del cugino della vittima confermano le intuizioni di Ingravallo sul delirio di solitudine e sul desiderio di morte dell’ultimo periodo di vita. Dopo i funerali viene interrogato il sacerdote, don Lorenzo Corpi. Il ritratto del Predappiofezzo (Mussolini, nato a Predappio, fesso col fez) presiede all’interrogatorio, riverberando un velo di falsità sulle dichiarazioni del prete, che introduce, fra le nipoti adottive, una nuova sospettata, Virginia, procace, violenta,

vendicativa, diabolica, dalla sfrenata sensualità (P 137: «baciava»

la Signora «come po bacià una pantera»), con i «denti bianchi a triangolo come d’uno squalo, come dovesse laniare er core a quarcuno» (P 136).

La testimonianza dell’incarcerato commendator Angeloni cade come un invito alla correttezza procedurale — «“m’aricordo che l’avrò intruppata pe le scale un par de vorte, ma nun la conosco pe gnente: nun posso dì gnente”, sentenziò, “d’una persona che non conosco» (P 136) — e, in definitiva, come una sen-

tenza assolutoria per mancanza di indizi: voce di vittima vola al cielo della giustizia. Con il sesto capitolo le indagini sul furto Menegazzi portano la Tenenza dei Carabinieri di Marino (maresciallo Santarella e vicebrigadiere Pestalozzi) sulle tracce di Enea Retalli, mentre vie-

ne scarcerato il commendator Angeloni. Nel giro investigativo cade pure Ines Cionini, rea del furto di un pollo spennacchiato e 136

di un paio di scarpe scompagnate in pieno «regime stivalista» o fascista (P 144). L'innocenza, la sincerità e la vitalità di Ines con-

trastano con il ritratto del Merda (Mussolini) sulla parete. Il romanesco dell’interrogata si alterna in funzione difensiva con il registro alto e lirico della lingua italiana ascrivibile all’orizzonte epistemico del narratore: «me pozzino cecà si nun è vero» (P 145); «L'amore, dopo averla insudiciata, l'aveva regalata alla ventura della fame» (P 147). Dalla testimonianza comincia a emergere la figura equivoca di Zamira Pàcori e il suo giro di riciclaggio e di prostituzione. Nel settimo capitolo i fili dell'indagine e insieme il groviglio della narrazione cominciano a legare in qualche modo il furto e l'omicidio. Ines Cionini conosce Camilla Mattonari, che a sua

volta ha un’amica dai connotati quasi demoniaci che fa la domestica a Roma (più avanti si preciserà in Assunta Crocchiapani, serva dei Balducci). L'opposizione tra Ingravallo e i politici del regime si approfondisce sempre di più. L’interrogatorio di Ines Cionini è condotto dal commissario capo dottor Fumi, mentre Ingravallo, in secondo piano, è lacerato dai dubbi. L’ottica del narratore condanna allusivamente gli inquisitori — «I segugi parevano affondare nel braco» (P 163) — trasformandoli nei porci di memoria dantesca (Inf VIII, 49-51: «Quanti si tegnon or là sù gran regi / che qui staranno come porci in brago, / di sé lasciando orribili dispregi!»), mentre converte la vittima in una starna (P 178), oggetto innocente di una caccia spietata. La direzione delle indagini orientata su Assunta Crocchiapani è sminuita di validità, dato il valore pieno dei procedimenti stilistici in Gadda. Ines, la cui vita è sintetizzata in forma di favola tragica, è tra «i figli e le figlie senza ricovero nell’arena bestiale della terra» (P 169). Nonostante le forti differenze nella visione del mondo e della conoscenza, la profondità della rappresentazione gaddiana degli umili, quanto alla sfera etica, è assimilabile al coraggio di verità verghiano. Ines, ex amante di Diomede Lanciani, complice di Zamira Pàcori, rivela l’esistenza di un fratello minore di Diomede, Ascanio, che è stato «ner palazzo dove sta di casa la con-

tessa veneziana» (P 184), la Menegazzi, e che somiglia fin troppo al garzone ricordato dai testimoni del furto. Il capitolo si conclude con la consegna al brigadiere Pestalozzi della lista di gioielli 194

rubati alla Menegazzi, perché indaghi nella campagna romana e soprattutto nel laboratorio della Pàcori. Le forze dell’analogia calamitano arbitrariamente nel finale il cognome «Gadda» (P 185) come sigillo autobiografico e firma d’autore. L’ottavo capitolo racconta il percorso in motocicletta del brigadiere Pestalozzi per la campagna romana e la visita alla maglieria di Zamira Pàcori. La narrazione del viaggio contiene un racconto interno: il brigadiere rivive mentalmente il sogno della notte precedente, in cui un topazio si trasformava in topo e, tra

i più abbaglianti fuochi d’artificio dell’espressione, si dava a fulminee corse e a pazze avventure. Alla maglieria (in realtà ambiente di prostituzione) il brigadiere trova Zamira Pàcori in figura quasi di strega, le ingiunge di presentargli Clelia Farcioni e Camilla Mattonari e nell’attesa la interroga. Zamira devia sistematicamente le domande del brigadiere dalla loro direzione, mentre una gallina grottesca con tratti da poeta-vate commenta indirettamente l’indagine con bombardamenti solenni di coccodè e di escrementi. Uscita di scena la gallina, compare casualmente una giovane con un anello con topazio al dito e viene prontamente intercettata dal brigadiere. Il sogno del topazio prende posto così nella quarta dimensione del giallo, cioè nel mondo invisibile e misterioso che rende ancora più complessa una realtà complicata dall’interferenza delle dinamiche razionali e irrazionali. La giovane si rivela Lavinia Mattonari, cugina di Camilla, assente quel giorno alla maglieria. Costretta dalla situazione, Zamira collabora e indirizza il brigadiere al passaggio a livello, dato che Camilla è nipote del casellante. Il capitolo si conclude con l’ironia del narratore sulla storia intesa come «maestra del vivere» (P 215).

Il nono capitolo è quello della scoperta della refurtiva in un pitale colmo di noci chiuso a chiave dentro un comodino da notte nell’abitazione del casellante. La scoperta è preceduta dal passaggio del treno accompagnato dall’abbaiare di un cane che sembra declamare versi del Foscolo. L'atteso risultato delle indagini trionfa in coccodè. Nel decimo capitolo, introvabile Enea Retalli, è rintracciato Ascanio Lanciani, fratello di Diomede, e porta-

to in questura: il malinconico addio al mercato del garzone recupera tratti espressivi manzoniani in una parodia neutra fine a 138

se stessa, che però rivela ancora una volta la profonda sedimen-

tazione dei Promessi sposi nella memoria gaddiana. L'indagine torna nel finale al commissario Ingravallo, che va a interrogare, nella campagna romana dove abita, Assunta Crocchiapani, domestica dei Balducci che non è andata neanche ai funerali della Signora, per farle confessare l’omicidio, ma resta bloccato,

nel contesto di un inimmaginabile spettacolo di miseria e di morte, dall’urlo di innocenza della sospettata su cui si conclude il giallo. Dal Pasticciaccio lo stesso Gadda ha ricavato un trattamento cinematografico, funzionale a un film mai realizzato, dal titolo I/

palazzo degli ori, Pietro Germi ha tratto liberamente nel 1959 il film poliziesco Un maledetto imbroglio (su cui si può leggere utilmente Sesti 1997: 82-97 e 220-8), mentre Luca Ronconi ha ela-

borato nel 1995 uno spettacolo teatrale (di cui la Rai ha offerto un’originale riduzione televisiva). 4.1.2. La scuola infernale La pubblicazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana nel 1946 su «Letteratura» in cinque puntate corrispondenti sostan-

zialmente ai primi sei capitoli dei dieci che costituiscono l’edizione in volume del 1957 impone un problema di metodo. Ai fini dell’inchiesta sull’assassinio della protagonista del Pasticciaccio, la puntata assente nell’edizione definitiva contiene una serie di indizi contro la nipote adottiva Virginia Troddu tanto forti da risultare, secondo un’interpretazione diffusa, deleteri agli effetti della suspence. L'eliminazione dell’ipotetico capitolo del Pasticciaccio viene conseguentemente collegata alla salvaguardia dell’orizzonte d’attesa del lettore. Agli effetti interpretativi si instaura tra la redazione in volume e quella in rivista uno spazio allusivo attraverso il quale la presunta colpevole, fatta uscire dalla porta per intervento dell’autore, rientra dalla finestra a opera del critico.

Il rapporto tra le varie redazioni di un testo si colloca tra il limite della perfetta coincidenza e il limite della completa differenza, cioè del testo altro. Se l'assunto è chiaro in termini teorici, non lo è spesso a livello di inferenze interpretative, dove ri139

veste un ruolo maggiore forse del dovuto quella che chiamerei l’inerzia semantica della variante. Una prova lampante è offerta da uno dei testi più commentati della letteratura italiana, i Promessi Sposi. Nel XX capitolo Gertrude, in combutta con Egidio, chiede a

Lucia di uscire dal convento per portare un messaggio segreto al padre guardiano dei cappuccini: PS XX 341 Lucia fu atterrita d’una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito,

per disimpegnarsene, le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una stra-

da solitaria, in un paese sconosciuto... Ma Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva poter far più con-

to, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e che, quand’anche non l'avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva sbagliare!... Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si lasciò sfuggir di bocca: «e bene; cosa devo fare?».

Nella «scola infernale» è sintetizzata splendidamente l’astuzia psicologica del principe padre che Gertrude aveva imparato a conoscere su se stessa. Anche l’assenso di Gertrude alla monacazione è ottenuto dal principe con le stesse arti e quasi nello stesso modo: PSX 168 «Ah sì!» esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea. [...] A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata, che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente.

L'assenso, sfuggito di bocca in entrambi i casi per effetto della commozione, si correla a un sentimento di «tenerezza» ed è

anticipato da due similitudini parallele dell’innocenza tradita: 140

PS XX 344 Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell'ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima.

PS X 167. Vi son de’ momenti in cui l'animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s'abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.

La spiegazione unanime, da parte dei commentatori, della «scola infernale» come «scuola di Egidio» apparirà tanto più arbitraria e dissonante quanto più il testo manzoniano è entrato nel giro della memoria, perché non vi sono elementi, nell'edizione definitiva dei Promessi sposi, che giustifichino un’interpretazione che ha invece la sua unica ragion d’essere nella redazione del Fermo e Lucia. L'assenza quasi sistematica di rinvii, da parte dei commenti, allo scartafaccio non può che sconcertare un lettore, ad esempio, che abbia fatto del romanzo manzoniano la lettura pre-

diletta dei primi anni di scuola senza conoscere neppure l’esistenza del Fermo e Lucia, dove si parla delle istruzioni impartite da Egidio a Geltrude come della «lezione del suo infernale maestro» (II, IX, 283) e dove Geltrude appare «memore [...] della scuola di Egidio» (II, x, 284). In quest’ultimo passo, che è quello che incide sui commenti manzoniani, «scuola» equivale però a ‘istruzioni’, in un’accezione molto più ristretta rispetto a quella che il termine «scola» assume nei Prorzessi sposi. La dilatazione semantica è determinata dalla variazione dell’intero contesto: cambia persino il nome della monaca di Monza (da Geltrude a Gertrude). I suggerimenti di Egidio relativi a una storia misteriosa con cui confondere e persuadere Lucia vengono completamente obliterati per lasciare spazio alle gradazioni e alle modalità psicologiche della persuasione. La «scola infernale» mette in 141

circolo la perfida astuzia del cuore del principe che il Manzoni priva della dimensione paterna in una parentesi giudicante (X 167: «non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo di padre»). Con lo spostamento contestuale si perde una Lucia caricata dell’abilità dialettica di Agnese e della curiosità di Perpetua. L’ostracismo agli elementi romanzeschi e al personaggio di Egidio, relegato a una parte secondaria nei Promessi sposi, fanno risaltare tragicamente la figura del principe, sul quale cade una condanna che non ammette liberazione ironica. Un’interferenza sintomatica tra i due testi, ben più rivelatrice di una microvariante avulsa dalla macrovariante contestuale che la determina, può essere rintracciata nella coincidenza formale, ora non più sorprendente, tra la reazione di Gertrude alle parole del principe e quella di Lucia al discorso di Geltrude: PS X 168

«Ah, sì! esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata

dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea». FL II x 284 Lucia commossa in un punto di vergogna e di timore, stava per piangere; e la signora vedendola arrivata a quel punto, ripigliò il suo discorso, la sgridò più amorevolmente, la rimproverò di poco coraggio; le promise che non le sarebbe mai mancata se ella aves-

se avuta fede in lei; e infervorata com'era nell'impresa di tradire la poveretta per servire lo scellerato Egidio, con ipocrisia sfrontata le disse che pensasse ai rimproveri che ella farebbe un giorno a se stessa di avere per irresolutezza, per infingardaggine rifiutato il mezzo della salute, e rovinata se stessa, la madre, e l’uomo a cui ella s'era

promessa. Lucia non seppe più resistere, si accusò di aver resistito, le parve che avrebbe rifiutato il soccorso del cielo, rifiutando quello che

le era offerto, piena di una novella fiducia disse: «vado tosto». Geltrude l’accomiatò, lodandola, facendole animo, e ripetendo le più lie-

te promesse e indicandole la via per andare al convento.

A una memoria che tenga saldamente i Promessi sposi è impossibile non intravedere in dissolvenza la scuola del principe dietro le parole della figlia. L’accenno finale al convento sembra una trappola ironica, certo preterintenzionale, per i cacciatori di varianti in contumacia, perché una lettura assimilabile a quelle di tipo freudiano potrebbe addirittura scorgervi un indizio, tanto più significativo quanto più involontario, di come Geltrude si sia 142

calata profondamente nella parte del suo vero maestro. Una Geltrude, quasi, che spinga Lucia a farsi monaca. La variazione del maestro infernale da Egidio al principe padre sarebbe già in incubazione nel Ferzzo e Lucia. Occorre attendere i commenti di Raimondi-Bottoni e di Pampaloni per vedere ammessa, sia pure di sbieco e in subordine, l’interpretazione legittima. Il primo commento registra con finezza e precisione che «la scuola è quella di Egidio (lo specifica il Fermo), che è il genio del male, il maestro diabolico della mo-

naca; ma gli argomenti del ricatto affettivo sono gli stessi del principe padre, alla cui volontà di padrone s’era arresa, per sempre, Gertrude», mentre nel secondo si ammette, quasi con un atto di coraggio e di ribellione, che la scuola è «quella di Egidio; ma anche, e secondo me soprattutto, quella del principe padre». L'ipoteca metodologica è tanto accecante da onnubilare, a mio parere, la sensibilità critica e non consentire che si parli senza nebbia di «scuola del principe padre». L'errore di metodo forza gli interpreti a un abbaglio stilistico. Il pregiudizio metodologico è stato spazzato via dalla lezione di Contini — forse non abbastanza meditata — per la quale non è legittimo astrarre una variante dal sistema. L’incomprensione stilistica induce a postulare l’immagine aberrante di un Manzoni che ammicca alle proprie varianti (o a parti di esse) e ad ammettere

una punta allusiva del tutto estranea allo stile manzoniano. Con la cancellazione di ogni riferimento alla lezione particolare di Egidio e il conseguente riconoscimento che Gertrude è cresciuta alla scuola del principe padre, la condanna del pessimo maestro assume una luce più piena. Tornando al Pasticciaccio, dopo aver sgomberato il passo dall’ipoteca metodologica che vuole un personaggio indiziato per

presunti reati rilevabili a livello di varianti, come se in un universo regolato dalla metempsicosi ognuno dovesse rispondere di quanto commesso nelle precedenti vite oltre la cortina della memoria, si può procedere a vagliare la posizione degli indiziati sulla base di quanto è legittimamente accertabile. La cancellazione di indizi a carico della nipote adottiva Virginia Troddu può semmai orientare l’indagine verso altri possibili colpevoli, ma ogni valutazione va affidata senza pregiudizi variantistici al testo in volume.

143

4.1.3. Memoria permanente e personaggi recidivi

Gadda può essere considerato autore di un unico libro nel senso che i suoi scritti sono diversamente ma costantemente illuminati da un'ottica autobiografica. L’insieme delle forme e dei significati fondamentali si configura come una memoria permanente, attiva nelle diverse opere in modi che variano dalla presenza all’allusione. La Cognizione convoca insieme all’appello i personaggi incriminati in ordine sparso nelle opere prece-

denti e li condanna con una serie di procedimenti stilistici e di modalità di volta in volta allegoriche o figurali all’interno di un edificio processuale compatto e coerente. Alcuni tipi di personaggi, come i profittatori di guerra, nelle parole o nei fatti, dai vati agli imboscati, si ripresentano puntuali a ogni appuntamento di Gadda con la scrittura e possono considerarsi come attori di un’unica opera. L'assunzione della recidività dei personaggi della Cognizione come ipotesi di lavoro per lo scioglimento del giallo del Pasticciaccio comporta una presunzione di colpevolezza, da verificare attentamente sul testo, per il generale e per il vate (in versione figurale rispettivamente fulmine e fantasma), e in senso lato per tutti i procuratori di morte e i profittatori di guerra declinati attraverso i tre tempi storici di morte dell’epopea napoleonica, del primo conflitto mondiale e dell’era fascista. Nella Cognizione sono colpevoli tutti gli individui storici impersonati dal libertador e dal poeta epico. Non uno solo ma tanti condannati. Le pagine d’apertura del Pasticciaccio insistono sul privilegio accordato alla ricostruzione di una molteplicità di cause, rispetto alla ricerca della causa singola, dall’ottica del commissario Ingravallo, coincidente in questo caso con quella dell’autore come documentano le interferenze con la Meditazione milanese. La definizione di «ermeneutica a soluzioni multiple» (MM 748) si attaglia perfettamente al metodo investigativo del commissario Ingravallo nella misura in cui riflette la tensione conoscitiva gaddiana. La tesi di un colpevole unico per il delitto di via Merulana verrebbe a essere altrettanto semplicistica della prospettiva della causa al singolare e comprometterebbe in eguale misura la complessità del quadro d’indagine.

144

L'analisi dello stile gaddiano evidenzia alcuni procedimenti espressivi, cristallizzatisi già all’altezza della Cognizione, che gettano lampi di innocenza o di colpevolezza sui singoli personaggi. Si tratta di vagliare la posizione degli indiziati alla luce delle procedure stilistico-giudiziarie e di altri elementi che possano risultare utili all’inchiesta. Il primo giudizio stilistico cade sulle accuse rivolte al commissario Ingravallo: P 17

Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qual-

che prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le filosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei taliani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza si-

gheretta, regolarmente spenta.

Il primo periodo introduce il punto di vista degli avversari di Ingravallo con uno scarto segnalato linguisticamente dal passaggio da uno stile aperto ai registri dialettali, dominante nelle righe precedenti il passo citato, a uno più letterario: «edotto» per ‘esperto’, «secolo» per ‘mondo’ e soprattutto «accileccare», neoforma-

zione preziosa dal toscano «cilecca» ‘beffa’, per ‘prendere in giro”. L’accusa di oscurità rivolta al commissario si incrina internamente e si ritorce contro i suoi promotori, perché si oppone con un

registro tendenzialmente letterario a una voce carica di effusioni dialettali, com'è quella di Ingravallo, che viene conseguentemente elevata a voce della verità. La frase esclamativa «Per la pratica ci vuol altro!» modula il passaggio dall’espressione in negativo a quella in positivo degli obiettori. AI metodo della riflessione e del dubbio si contrappone il criterio, adottato e prescritto durante

il ventennio fascista, del decisionismo e della certezza a tutti i co145

sti. La valutazione ironica delle «obiezioni così giuste», posta prima dello spazio bianco che delimita le pagine d’apertura del Pasticciaccio, segnala la coincidenza dell’ottica dello scrittore con quella del protagonista del suo romanzo. Il commissario Ingravallo vive in un altro mondo rispetto ai suoi avversari. L'opposizione

è totale. Un’obiezione simmetrica è rivolta al protagonista della Cognizione, analogamente isolato di fronte a un coro di nemici e immaginato a «lambiccare rabbioso dalla memoria una qualcheduna di quelle sue parole difficili, che nessuno capisce, di cui gli piace ingioiellare una sua prosa dura, incollata, che nessuno legge» (130). Per via della medesima riflessività esasperata e divi-

natoria, mascherata di silenzio e di sonno, il commissario Ingra-

vallo viene investito di una missione giudiziaria parallela a quella svolta da Gonzalo nella Cognizione.

4.2. LO STILE DELLA COLPA

4.2.1. Le orecchie di Mussolini

Gli avversari di Ingravallo si sono rivelati portatori di un’ottica fascista. Chi lancia accuse ingiuste deve essere sottoposto a sua volta a giudizio. All’interno dello stesso primo capitolo del Pasticciaccio appare un misterioso personaggio che rappresenta una

minaccia per la protagonista: P 26 All’imbrunire, in quel primo abbandono della notte romana ch’è così gremito di sogni, rincasando... ecco dai cantoni de’ palazzi e dai marciapiedi le fiorivano incontro omaggi, o singoli o collettivi, di sguardi: lampi e lucide occhiate giovanili: un sussurro, talora, la sfiorava: come un’appassionata mormorazione della sera. A volte, ad ottobre, da quel trascolorare delle cose e dal tepore dei muri emanava un inseguitore improvvisato, Ermes con brevi ali di mistero: 0, for-

se, da strani erebi cemeteriali risalito a popolo e ad urbe. Uno più pomicione dei tanti. E più scemo... Roma è Roma. E lei pareva compatire al somaro, così gloriosamente sospinto dietro a fortuna da quelle gran vele delle orecchie: d’una occhiata fra sdegnosa e misericorde, fra gratitudine e sdegno pareva chiedergli: «Mbè?». 146

L'inseguitore, lanciato in una sfera eccezionale dall’aggettivo «improvvisato», si materializza come una presenza di morte. Er-

mes con brevi ali di mistero ricorda l'angelo della morte atteso da madre e figlio nella Cogrizione: «O forse aspettavano soltanto il volo del gentile angelo modellato dalla notte, dalle palpebre mute, dalle ali d’ombra....» (C 416). La figura di morte assume

però, in una prospettiva ambivalente sul piano etico, fattezze mussoliniane, illuminando il riferimento al mese di ottobre (fu-

nestato dalla marcia su Roma). Si configurano come connotati mussoliniani la provenienza metaforica dagli inferi e dalle dimore dei morti («erebi cemeteriali» in un registro afferente allo stile lirico e pertinente alla mitologia greca); il binomio di «popolo» e «urbe», quest’ultima appena mascherata dall’iniziale minuscola (l'equazione «Roma è Roma» traduce tutto il fastidio gaddiano per la denominazione fascista di Urbe); l'appellativo di somaro, che sostituirà frequentemente nel Pasticciaccio il nome del duce, l’avverbio «gloriosamente» e soprattutto la presenza incombente delle orecchie, che poche pagine prima designavano metonimicamente Mussolini, il somaro

per antonomasia.

La scrittura indugia sull’immagine,

moltiplicandola in una girandola di metafore. Le orecchie dell’asino diventano le ampie vele dell’imbarcazione fascista, trascinata «gloriosamente» (quanto sarcasmo nell’avverbio!) nella tem-

pesta. «Fortuna», secondo il registro letterario prevalente nel brano significa ‘tempesta’, ma il termine sembra suggerire anche l’idea di una navigazione apparentemente fortunata, in realtà disastrosa. Il fascismo per Gadda è sinonimo di guerra e di morte. Mussolini diviene così lo psicopompo per antonomasia nell’immagi-

nazione gaddiana. Le qualità mortifere del duce sono trasposte lucidamente nel saggio Psicanalisi e letteratura (1946), dove Mussolini compare non a caso in veste di psicopompo:

VM 457 Per tal modo «l’itala gente da le molte vite», guidata dal suo psicopompo, fu condotta psicopompieristicamente all'inferno: sì: in tanta malòrsega. Il flauto dello psicagogo, o per meglio dire il piffero, spifferava le ragioni della incolumità della patria, della stirpe, della famiglia, dei balilla, delle giovani italiane: e chi più ne sa, più ne dica. 147

L’inserto lirico del Pasticciaccio evoca globalmente una minaccia fascista contro Liliana Balducci, personaggio così affine al commissario Ingravallo per temperamento e sensibilità. L'indizio decisivo per il riconoscimento di Mussolini nel misterioso personaggio funebre compare poche pagine prima: P 17-8 Era, disse la signora, «il genetliaco di Remo»: e infatti Remo, all'anagrafe, era stato inscritto come Remo Eleuterio, e poi battezza-

to per tale a San Martino ai Monti, così da rammentare il natalizio. «Due nomi poco graditi a chelli ’rrecchie,» pensò don Ciccio, «sia l’u-

no che l’altro». Per un menefreghista di quel calibro erano addirittura sprecati.

Le orecchie sono quelle di Mussolini che non gradivano certo nomi come Eleuterio (etimologicamente ‘libero’) e Remo (contrapposto al tanto celebrato Romolo, fondatore dell’Urbe). Gadda evita costantemente nelle sue opere di nominare direttamente Napoleone e ancor più Mussolini, oggetti del massimo odio. Gli innominati della scrittura gaddiana vengono convocati per lo più in vesti metaforiche o metonimiche e Mussolini compare spesso nel Pasticciaccio sotto la maschera degli insulti. «Menefreghista» è, a mio parere, Mussolini, con appellativo coniato sulla base del «me ne frego» fascista. «Sprecati», perché il duce è tanto concentrato sugli interessi del regime, da asservi-

re persino i nomi propri agli usi della propaganda fascista. A rigore «menefreghista» potrebbe riferirsi anche a Remo Balducci e si intonerebbe bene al carattere del personaggio. L’identificazione con il duce è preferibile per una serie convergente di motivi. Un motivo linguistico coincide con la progressione argomentativa che lega «poco graditi» ad «addirittura sprecati». Un motivo stilistico è rappresentato dalla figura tipicamente gaddiana dell’intervento asseverativo del narratore a eco di affermazioni particolarmente rilevanti del personaggio. Un esempio analogo di evidenziazione della voce di un personaggio si presenta durante l’interrogatorio di Giuliano Valdarena, quando la testimonianza post mortem dell’assassinata, affiorante dai ricordi del cugino, è elevata alla dignità di un teorema narrativo dal commento, in figura di clizax argomentativa, del narratore: «“La Provvidenza, a noi due, de crature ce n’avrebbe date quante ce 148

pareva. Perché il Signore è fatto a sta maniera, diceva: a chi tutto, a chi gnente!” Ed è in ciò, appunto, che si manifesta la sua misteriosa perfezione» (P 114). Come motivo di economia narrativa a favore della decifrazione del «menefreghista» come Mussolini, il commento sarcastico del narratore, pienamente giustificabile per Mussolini, sarebbe

forse sprecato per Remo Balducci. Mussolini e il fascismo rappresentano, in modo piuttosto misterioso, una minaccia per la protagonista, ma il fatto di incombere come una presenza inquietante non equivale a un indizio chiaro di colpevolezza, a meno che non sia suffragato da prove ben più decisive, assenti all’interno del primo capitolo. 4.2.2. Il palazzo maledetto AI centro del primo capitolo, coincidente con la prima puntata in «Letteratura», l’epifania del «sigillo di famiglia», una pietra preziosa, è preparata con la lentezza che precede le catastrofi: «All’anulare destro, sulla mano bianca dalle lunghe dita di si-

gnore, che gli servivano da scotere la sigaretta, er signorino ci aveva un anello: d’oro vecchio, assai giallo: magnifico: un diaspro sanguigno nel castone; un diaspro ovale con una cifra a matrice» (P 26). Il risalto epifanico conferito all’anello col diaspro per il momento non si spiega e rimane come un indizio sospeso per aria.

La pagina successiva, dopo uno spazio bianco, si apre con la notizia di una non meglio precisata sparatoria a via Merulana «ner palazzo de li pescicani» (P 27). Il palazzo dei pescicani o dei profittatori di guerra, agli effetti delle procedure stilistiche, è il primo indiziato in ordine di apparizione ed è scrutato proprio come se fosse un malvivente, con un’attenzione che rasenta i me-

todi fisiognomici: P 27-8 Il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fusse, era là: cinque piani, più il mezzanino. Intignazzato e grigio. A giudicare da quel tetro alloggio, e dalla coorte delle finestre, gli squali dovevano essere una miriade: pescecanucoli di stomaco ardente, quest’è certo, ma di facile contentatura estetica. Vivendo sott'acqua d’appetito e di sensazioni fagiche in genere, il grigiore o certa opalescenza superna del 149

giorno era luce, per loro: quel po’ di luce di cui avevano necessità. Quanto all’oro, be’, sì, poteva darsi benissimo ciavesse l’oro e l’argento. Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma. Ingravallo, si può dire, la conosceva col cuore: e difatti un lieve batticuore lo prese, ad avvicinare coi due agenti la ben nota architettura, investito di tanta e tanto risolutiva autorità.

L’inquisizione sul palazzo, definito in immediata successione «casermone color pidocchio» (P 27), è affidata alla conoscenza del cuore del commissario, tramata su una rete di materia affet-

tiva e di fili allegorici. I profittatori di guerra sono fra i colpevoli permanenti delle precedenti opere gaddiane e la loro entrata in scena con un simile rilievo non può rivelarsi casuale. Il giallo che avvolge il fabbricato in una sorte di «canarinizzata contrizione» è il colore dei fulmini, della guerra e della morte e presenta già all'altezza della Cognizione un’ineludibile risonanza allegorica. Come l’edificio assume quasi un’identità personale, così i pescicani metaforici, o catacretici, realizzano la propria essenza con una metamorfosi che li rende alla loro natura di squali feroci. L'equazione tra «palazzo dell'Oro» e «palazzo dei pescicani» risulta ammissibile solo equiparando l’«Oro» al ‘profitto di guerra’. I due nomi sono intrecciati anche a livello di significante, se i pescicani, nella forma del pronome personale «loro», si rifrangono in un gioco di specchi con il sostantivo «oro» preceduto dall'articolo, rendendo possibile più di una doppia lettura: «era luce, per loro» e «era luce, per l’oro»; «Quanto all’oro» e «Quan-

to a loro». Al procedimento della doppia lettura Gadda affida (cfr. 2.6 e 2.8) le rivelazioni cruciali della propria pagina. In una prospettiva più periferica, il binomio di oro e argento potrebbe inglobare nel secondo termine il significato del francese «argent», denaro. Alla luce dell'ipotesi d’indagine centrata sulla recidività dei colpevoli nel libro unico gaddiano, il palazzo dei pescicani è il responsabile, per delega allegorica, delle colpe dei profittatori di guerra d’ogni tempo. Resta da vedere se e come lo svolgimento del Pasticciaccio configuri una strategia indiziaria così orientata. Nella parte finale del primo capitolo, in una posizione rilevata 150

dal fatto di convergere su uno spazio bianco, l’edificio appare registrato nel libro del destino con una specie di maledizione biblica: P 48 Era scritto che il ducentodiciannove de via Merulana, il palazzo dell’Oro, o dei pescicani che fosse, era scritto: che doveva fiorire anche lui un bel fiore, come tant’altri fabbricati ’e sto munno, del resto. Il garofolone scarlatto del «guarda un po’ che roba!». Con gran sussurro dei casigliani e dei colleghi dell'Economia, della sora Manuela poi non parliamone, il commendator Angeloni fu trattenuto fino alle nove di sera.

La maledizione assume un rilievo pragmatico quando, poco più avanti, le responsabilità dei pescicani comuni sono connesse con quelle del principe dei profittatori di guerra, Mussolini, attraverso il procedimento stilistico, ancora una volta rivelatore,

della doppia lettura: «Per dire che la fama de quell’oro era granne. “Fama volat”, sospirò il dottor Fumi co le mano a una pila de cartelle rosse: “Fama volat”. Doveva esser volata a vela fino agli orecchi ’e chillo carugnone» (P 52). Il «carugnone» è in prima istanza il colpevole del furto nell'appartamento della contessa Menegazzi, mentre la presenza incombente delle orecchie (cfr. 4.2.1) riconduce inequivocabilmente alla figura di Mussolini. Nel primo capitolo cadono così sotto inchiesta, sul piano allusivo, i profittatori di guerra del terzo tempo di morte, cioè dell’era fascista. Gli indizi a carico del duce aumentano nel secondo capitolo, coincidente con la prima parte della seconda puntata di «Letteratura», quando l’assenza della fede nuziale sul cadavere dell’assassinata assume il valore di un’imputazione ipotecata dal futuro: «Il viso e il naso apparivano sgraffiati, qua e là, nella stanchezza e nel pallore della morte, come se l’odio avesse oltrepassato la morte. Le dita erano prive di anelli, la fede era sparita. Né veniva in mente, allora, di imputarne la sparizione alla patria. Il coltello aveva lavorato da par suo» (P 68). Il coltello, arma «d’ogni maramalduccio e d’ogni guappo ‘e malu culori» (P 72), secondo l’apertura del terzo capitolo, e la fede nuziale trafugata cospirano a convogliare i sospetti su Mussolini e sul fascismo. Con significativa convergenza, il duce è in151

criminato nel sesto capitolo come «ladro di pentole e di casseruole a tutte genti» (P 151). 42,3. Morte e memoria

I profittatori di guerra del secondo tempo di morte, cioè della prima guerra mondiale, vengono messi in stato d’accusa, con pro-

cedure stilistiche, nel finale del secondo capitolo:

P 71

Il modo del delitto, quel povero ingombro, là, quegli occhi, la

orrenda ferita: un movente, forse, più torbido. Quella gonna... così!...

buttata addietro, come da un colpo di vento: una vampa calda, vorace vampa avventatasi fuori dall'inferno. Chiamata da una rabbia, da uno spregio simile, erano le porte d’Inferno che le avevano dovuto dar passo. L’eccidio «aveva tutto l’aspetto d’un delitto passionale». Oltraggio? Brama? Vendetta? La ragione gli diceva di studiare separatamente i due casi, di «palparli» a fondo, ma ognuno per sé. L’ambo non esce poi così di rado alla ruota di Napoli, o di Bari, o di Roma pure, che anche lì a via de’ Merli, a quel migragnoso falanstero del ducentodiciannove imbottito d’oro non potesse uscirgli fora il suo bravo ambo anche a lui. L’ambo non auspicato del delitto. Tac, tac. Senz’altra connessione che la topica, cioè la causale esterna ’e chella gran fama dei pescicani pesci: e del loro oro del diavolo. Fama ubiqua, oramai.

Il modo del delitto ricalca con sorprendenti coincidenze le descrizioni gaddiane dei bombardamenti, dove «vampa», «rabbia» e «inferno» ricorrono come termini dominanti. I profitti dei pescicani si concretizzano come «oro del diavolo» perché costruiti sul sangue dei sacrificati. Il riferimento all’oro assume una cadenza ossessiva anche grazie a una potenziale doppia lettura, già sfruttata in precedenza, che incrementa la suggestione fonica di «oro»: «e del loro oro del diavolo»; «e dell'oro oro del diavolo».

Tanto più che l’espressione «pescicani pesci», altrimenti ridondante, diventa perspicua in funzione della lettura alternativa, in

quanto «pescicani» sta a «pesci» come «oro del diavolo» sta a «oro». Il chiasmo immette in un ordine speculare i due rispecchiamenti simmetrici. La specularità risulta significativa perché il palazzo dell'Oro coincide esplicitamente con il palazzo dei pe152

scicani in un passaggio già analizzato del primo capitolo in cui «oro» è oggetto di una doppia lettura (cfr. 4.2.1). Che il delitto si configuri come «oltraggio» contribuisce ad allineare lo svolgimento del Pasticciaccio a quello della Cognizione, corroborando l’ipotesi di fondo della recidività dei colpevoli. Il quesito sulla vendetta resta al momento inspiegabile, perché non si capisce quale movente avrebbe potuto spingere i profittatori di guerra a vendicarsi di Liliana Balducci. Connotazioni infernali accompagnano, come già per Mussolini (cfr. 4.2.1), gli indiziati. Conferme ulteriori sui presunti colpevoli del secondo tempo

di morte (prima guerra mondiale) sopraggiungono attraverso

l’interpretazione a ritroso di certi indizi lasciati cadere in forma di lampi allusivi durante la descrizione del cadavere dell’assassinata: P 59 Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!... Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!... Oh, quel viso! Com’e-

ra stanco, stanco, povera Liliana! quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affinato nel pallore il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte.

I tratti distintivi dei corpi delle vittime di guerra, ormai ctistallizzati nello stile gaddiano all’altezza della Cognizione, dove le ferite della madre ricalcano con impressionante coincidenza quelle del figlio morto in guerra, si ripropongono con evidenza palmare per la protagonista del Pasticciaccio. Stanchezza ritmata ossessivamente, sguardo fisso e assente, ferita sotto l'occhio con-

corrono a rievocare nell’assassinata la morte in guerra con la pattecipazione stilistica dettata dal binomio esclamativo-appositivo «povera Liliana», che lascia affiorare una tessera da discorso diretto tra le maglie dell’indiretto, determinando l’indiretto libero. Poche righe più avanti, mentre la prima guerra mondiale irrompe con la sua geografia, la commozione stilistica del narratore, filtrata attraverso il ricordo del protagonista, dilaga in una parentesi: «Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemotò subito, con un lontano pianto nell'anima, povera mamma!)»

ESD: 153

La parentesi assolve una funzione evidenziatrice ripetutamen-

te osservabile nello stile gaddiano e potenzia le risonanze affettive dello stilema giudicante «povera mamma!». La luce gettata sulla sofferenza della vittima rappresenta sempre e comunque l’atto d’accusa più eloquente contro il colpevole. L'inserto bellico appare spiegabile solo se inserito nella dimensione autobiografica che attraversa le varie opere gaddiane e le rende sezioni di un unico libro. A distanza di poche righe, una doppia lettura, raggiungibile sul piano del significato con la sospensione del livello metaforico, conferma il decesso in guerra, in termini figurali, della pro-

tagonista: «Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po’ rigirata da una parte, come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte, apparivano offesi da sgraffiature, da unghiate» (P 60). La lettura potenziale ribalta in senso proprio il valore metaforico dell’infinito «combatte» all’interno di uno dei due rami secondari e paralleli del periodo, centrati sulla «faccia». La moltiplicazione delle ferite di guerra come in un giro di specchi rende trasparente, e a sua volta illuminante, la precedente reazione del commissario: «Ingravallo, pallido, emise un mugolo strano,

un sospiro o un lamento da ferito. Come se sentisse male puro lui. Un cinghiale co una palla in corpo» (P 57). 4.2.4. La giuria allusiva L’aporia rappresentata da una presunta vendetta dei profittatori di guerra sulla protagonista del Pasticciaccio viene eliminata dallo svolgimento del terzo capitolo, coincidente con la seconda e ultima parte della seconda puntata di «Letteratura», attraverso alcuni passaggi rivelatori: P 75-6

Liliana Balducci era molto ricca, Liliana Valdarena in Bal-

ducci. Aveva del suo e, in certa misura, disponeva del suo. Figlia unica. E il padre li aveva saputi fa, li quatrini. Pure il dottor Fumi, nella vasta caciara del sinfoniale, aveva percepito il tema: «'o motivo conduttore».

«O patepate ’ ’e sapeva l’aff: eng l’affare suoie.

6 a guerra, dopp’ ala’ guerra.

Chillu era nu pescecane sul serio. Ll’era muorto pur’isso, duje anne 154

primma, doppo diverso tempo ch’issa s'era maritata. L’appartamento di via Merulana era proprietà di lui. Affari, interessenze in affari, compartecipazioni de ccà e de là. Proprietario de ccà, mezzo proprietario de là. Prestare per ipotecare, ipotecare p’agguantare. Chillu aveva a esse no futtut’in gulo.» Accompagnò il predicato con alcune volute della mano destra. Liliana aveva avuto un accenno alle fortuÈ del padre, il giorno di San Francesco, durante quel desinare così ieto.

Il «motivo conduttore» è, con proiezione autocritica, quello del Pasticciaccio, ben rappresentato nel suo svolgimento dalla «vasta caciara del sinfoniale». L'idea del romanzo come sinfonia è del resto già alla base del Racconto italiano di ignoto del Novecento. Il dialetto appare come la voce della verità sia perché linguaggio diretto, non mediato e non falsificato, sia perché espressione straniata con gli effetti complementari dello schermo protettivo e del pennello evidenziatore. Nella figura del padre della protagonista sono compendiate le responsabilità dei profittatori di guerra del secondo («c’ ’a guerra») e del terzo tempo di morte («dopp’ ’a guerra»). La sua morte durante il 1925, anno santo, cade come una condanna sacro-

santa, perché Gadda è attento, a volte ai limiti dell’ossessione, ai

significati delle date. Le colpe dell’ex proprietario dell’appartamento di via Merulana spiegano la maledizione ricaduta sulla casa. Il contrasto instaurato tanto dal ricordo del profittatore di guerra nel giorno dedicato a un santo come Francesco, dalla vita specularmente opposta, quanto dall’intrusione sia pure indiretta dei sacrificati di guerra — l’altra faccia della medaglia — durante un «desinare così lieto» accende un intenso sarcasmo narrativo che non risparmierebbe neppure la protagonista se non fosse protetta dal velo dell’incoscienza. Le illimitate responsabilità paterne investono di una luce nuova la posizione della protagonista. Le colpe dei padri, secondo una procedura tipica della tragedia greca, ricadono sui figli anche innocenti. Il modello manzoniano di Ermengarda può aver funzionato da ponte tra Gadda e la tragedia greca. La vendetta parte dai sacrificati di guerra. Il modello giudiziario dantesco del contrappasso, già presente con una certa sistematicità all’interno

della Cognizione, illumina le ferite di guerra della figlia di chi si 155

era arricchito sul sangue delle vittime della prima guerra mondiale. Eschilo, Dante

e Manzoni formano la giuria allusiva di

Gadda. La responsabilità genealogica è ribadita più volte, in modo tanto più rilevato quanto più indiretto, all’interno del terzo capitolo: «Liliana Balducci, dunque, era molto ricca. Figlia d’un pescecane. E va buò. [...] Oppure un colpo sugli ori? sulle gioie? quella cosa orribile... per una manciata di carta unta? E i gioielli?» (P 78).

Il fatto che i gioielli, frutto delle ignobili speculazioni paterne, fungano da esca per l’assassino della figlia contribuisce a creare uno sfondo realistico all’argomentazione figurale. 4.2.5. Il modello tragico

Il presidente della giuria allusiva incaricata di risolvere il giallo è senza dubbio Eschilo. L'individuazione di una costellazione di motivi delle Coefore in generale e dell’Agamzennone in particolare tra le righe del Pasticciaccio conduce a una soluzione chiara e coerente. La struttura dell’Agazzenzone si presta a essere facilmente assimilata da Gadda, perché «la vicenda di Agamennone appare inserita in una realtà dotata di una dimensione temporale più profonda: la vicenda di Agamennone ha dietro di sé, come dato fortemente e implacabilmente condizionante, i fatti luttuosi della generazione precedente. Passato e presente, e futuro, si interconnettono indissolubilmente, proprio perché nel gheros ciò che hanno fatto i padri continua a pesare, come realtà attuale, sui figli. E quello che nella parte precedente della tragedia appariva come un dato essenziale, l’uccisione di Ifigenia, ora invece tende

a porsi fuori campo: l’atto di Agamennone tende ad apparire come secondario di fronte alle vicende di Atreo e di Tieste» (Di Benedetto 19832: 9). I tre tempi di morte dell’ Agamennone — con al centro rispettivamente Atreo e Tieste, Ifigenia, Agamennone — concordano sorprendentemente con il trattamento polivalente del tempo nelle opere gaddiane e in particolare con i tre tempi di morte delle guerre napoleoniche, della prima guerra mondiale e dell’era fascista. 156

Il motivo della vendetta che cade misteriosamente dall’alto sui figli per le colpe dei padri costituisce una delle leggi fondamentali del mondo rappresentato nelle tragedie greche. Alla voce divina di Pallade Atena le Eumenidi affidano il messaggio chiarificatore sul compito di giustizia che compete alle Erinni. Il testo greco è accompagnato, qui come più avanti, dalla celebre traduzione di Manara Valgimigli del 1948: «Chi non sperimentò le loro collere ignora donde provengono certe ferite che affliggono la vita. Sono anche le colpe dei padri che traggono i figli davanti al loro giudizio. Vanta taluno a gran voce se stesso, e una silenziosa morte ferocemente lo annienta» (vv. 932-7). La punizione inflitta alla protagonista del Pasticciaccio è già în nuce nell’Agazzennone: «Io penso diverso dagli altri. E dico che solo la colpa produce altre colpe a lei simili, e solo nei focolari governati da giustizia bella prole di figli genera sempre il destino» (vv. 757-62).

La responsabilità morale del profittatore di guerra è tanto grave, secondo l’ideologia gaddiana, da coinvolgere nella morte anche la figlia. La punizione consistente nella sterilità costituisce un’efferata applicazione del principio dantesco del contrappasso: sull’altro piatto della bilancia tutte le vittime della guerra, in quanto figli nell’ottica della sofferenza dei genitori. Una linea consequenziale congiunge i concetti di colpa, maledizione e sterilità all'interno delle Eurzenidi. La giurisdizione delle Erinni include in una catena circolare i fatti di sangue, di morte e di sterilità, men-

tre la vendetta agisce in primo luogo sulla mancata procreazione: vv. 185-90 A voi non è lecito avvicinare questa dimora. Là dove tagliano teste, dove strappano occhi, dove sgozzano; là dove seme di fecondità distruggono e fiore di giovinezza avvizzisce; là dove si vedono mutilazioni e lapidazioni, dove si odono mugghi e gemiti di gente trafitta per la schiena e confitta in terra da pali, là è vostra sede.

La maledizione sulla casa, simbolo materiale della stirpe, è presente più volte in Eschilo. Il palazzo maledetto di via Merulana guarda allusivamente alla reggia degli Atridi incriminata dalla voce profetica di Cassandra: «Ahi ahi! Dunque a una casa che è in odio agli dèi, che stragi innumerevoli seppe di consanguinei, 157

che vide teste mozzate; a una casa macello di uomini, a un suo-

lo impregnato di sangue» (vv. 1089-92). La legge dell’oltraggio pagato con l’oltraggio attraverso la maledizione divina è formulata con chiarezza dal Coro:

vv. 1560-6 Oltraggio risponde ad oltraggio. Difficile è giudicare. Chi preda è predato, chi uccide è ucciso. Finché rimane saldo Zeus sopra il suo soglio, anche rimane saldo che chi ha fatto patire patisca. Questa è la legge. Chi potrà mai dalle nostre case scacciare il seme della maledizione? Incatenata a sventura è la stirpe degli uomini.

Il primo stasimo dell’Agazzenzone, dando voce alle accuse per le vittime di guerra, possiede i requisiti per occupare la sfera privilegiata della memoria gaddiana. Un evento funesto incombe su Agamennone, seminatore di morte in quanto distruttore di città: vv. 420-74 «[...] E anche immagini di sogno e parvenze di gioia gli recano soltanto vanità e dolore. Ché in vano, se in sogno taluno crede vedere una cara sembianza, sùbito gli sfugge dalle braccia e già la visione è lontana sulle ali che seguono il cammino del sonno». Tale mestizia è nella casa, sul focolare della casa del re. Ma c’è una mesti-

zia ancora più grande, di tutte le case, per tutti coloro che partirono in guerra dalla terra di Grecia, un dolore di cuori pazienti, che punge e ferisce il cuore di ognuno. Nella partenza li accompagnarono i familiari, ne ricordano il volto, e ora alle case, invece di uomini vivi, ritornano ceneri e urne.

E Ares che i vivi scambia coi morti, che nella battaglia regge la bilancia, che da Ilio rimanda ai famigliari, tolta dal rogo, con una polvere di amari compianti, che di una cenere di uomini riempie i lebèti, peso leggero. Loda ciascuno i suoi morti, e quello che di guerra era esperto, e quello che in guerra cadde da prode; ma anche lamenta che per donna altrui tutti morirono. Così mormorano in silenzio e un iroso dolore serpeggia contro gli Atridi, giustizieri di una loro propria vendetta. Altri là stesso, sotto le mura di Ilio, coi loro corpi intatti ebbero sepoltura; e la terra nemica ricopre i suoi vincitori.

Gravi sono le voci dei cittadini se le muove rancura; e alle male-

dizioni dei cittadini paga chi deve suo debito. C'è nella mia angoscia l’attesa di non so che tenebroso. Su chi fu causa di tante uccisioni hanno aperto lo sguardo gli dèi. E chi godé buona fortuna offendendo giustizia, o prima o poi, nella vicenda mutevole degli anni, le ne158

re Erinni lo estinguono; e fra gli estinti ve cosa aver gloria oltre misura. Cade Zeus. Felicità non invidiata io lodo. Non né mai io stesso, prigioniero di guerra,

non c’è forza che valga. Grasu gli alti vertici il fulmine di mai io sia distruttore di città; mi veda soggetto ad altrui.

A potenziare le risonanze del brano entro la memoria di Gadda concorre anche la materia biografica di Eschilo, in quanto il fratello Cinegiro morì durante la battaglia di Salamina, come ricorda Erodoto nelle Storie (VI, 114). Il nucleo biografico autentica il significato della pagina con i valori della verità e della sofferenza, riparandolo, in un’ottica gaddiana, da qualsiasi interferenza retorica. L’interpretazione che vede Agamennone punito

per i caduti durante l’assedio e la presa di Troia, oltre a essere in sintonia con la linea principale dei processi gaddiani, è autorizzata esplicitamente dall’accusa di Clitennestra: «Quando tu armasti per Elena la spedizione di guerra, allora, non te lo voglio celare, una immagine non bella io ebbi di te, e tu non bene reg-

gesti il governo dei tuoi pensieri sacrificando a morte uomini valorosi per riportare qui un’impudica che di qui aveva lei stessa voluto partire» (vv. 799-804). Le Erinni, che rappresentano nell’Orestea «l’espressione più evidente della carica di emotività e di paura di cui era dotato il ghenos, in quanto nesso di consanguinei» (Di Benedetto 19832: 11), invadono larghi spazi del Pasticciaccio, venendo così a pottare un inconfondibile sigillo eschileo. Le zie della protagonista, che si presentano vestite di nero a chiedere giustizia, assolvono la funzione delle Erinni, mentre il nome del figlio di una delle due zie, Orestino (P 86), appare tutt’altro che casuale: P90

Un'idea così, povere zie! stava pe diventà un tormento, un ma-

le ar core. Un ammazzamento così. Rancura, orrore, terrore, un grido nella tenebra! Le cognazioni umane, le gentes, al dirompere d’una tensione demoniaca di che vadano lacerati in modo così drastico i certificati in-folio dello stato civile, demo o parrocchia, e le lunghe, le occhiute cautele del vivere, le genti, in quel punto, tendono a ripetere in diritto, se pur non ci arrivano in fatto, la cosa prestata. Commodatam repetunt rem. La richiamano dal buio e dalla notte. Rivogliono, rivogliono il fiore! col suo scerpato stelo! il quanto perduto di lor vita. Come limatura sul magnete, le minime fibrille dei loro vi159

sceri si polarizzano alla tensione del rientro. Sentono di dover risucchiare indietro la unità gamica estromessa, la unità biologica, la per-

sona già vivente, eternamente vivente, e per sacramento alienata a nozze a un Sempronio.

P 91 Esiste una drammatica regione d’ogni rancura, dalla milza e dal cistifele drento il rodimento del fegato, insino a le penombre dietro li mobili de casa indove officiano i Lari: quelli che vedeno e stanno zitti, in der respirà l'odore de naftalina morta de li credenzoni, ma che ar primo comparì la lama avevano tremato di non poter gridare: e negli opachi volumi della stanza, ora, allibivano e piangevano, co li nervi dei martiri. Be’, là, tra le gambe der brigadiere e der chiavaro, scartato er mappamonno de la Manuela, vagolavano tutte quelle attossicate fantasime. Ritte e dure, le zie attendevano giustizia: l’Oreste non sapeva manco lui come contenesse.

Con Oreste e le Erinni si ricompone il quadro allusivo. Le Erinni sono in connessione indissolubile con la giustizia nella trilogia eschilea e in particolare «è esplicito nelle Euzzenidi, e non solo nel secondo stasimo, il nesso Erinni / giustizia» (Di Benedetto 19832: 15). Basti la formulazione che della legge offre il Coro delle Coefore: «Ma è legge che stille di sangue a terra versate nuovo sangue domandano ancora. E strage invoca l’Erinni, vendetta dai morti già morti, che vendetta su vendetta conduce» (vv. 400-4).

L'apparizione di Ermes a lato della protagonista del Pasticciaccio rientra senza scorie nel giro allusivo eschileo. L'«inseguitore improvvisato», apparso nel primo capitolo (cfr. 4.2.1), è «Ermes con brevi ali di mistero». Il significato della figura di Ermes, per certi versi già chiarito dall’inchiesta mentale del commissario, risulta specificato da un ulteriore approfondimento analitico: P 105 Formula enigmatica: già chiara a don Ciccio, però: dimenticarlo quanto la durata di sua vita, come bramasse di vedere sepolto al più presto quel turpe elenco di averi: quelli che soltanto nell’ultimo smarrimento ai sé le era conceduto di disperdere: quelli che la riconducevano a ogni nuovo giorno verso gli obblighi e verso le ragioni inani del vivere, mentre già l’anima tendeva a una sorta di espatrio (la cara anima!) dal paese inutile verso materni silenzi. La città e le genti avrebbero conosciuto il futuro. Lei, Liliana... Oblioso dei 160

banchi e dei gridi, con brevi ali di opale, nell’ora dolce, quando ogni commiato è necessario e ogni già tepido muro trascolora nella notte,

Ermes apparitole nella sua vera essenza avrebbe alfine risguardato alle porte, con tacito imperio: quelle da cui ci si parte, alfine, fabulando popolo ad urbe, a discendere, discendere in una più perdonabile vanità.

L'«elenco di averi» è «turpe» in quanto frutto di sciacallaggio di guerra. Ermes compie un atto di giustizia tragica per conto delle vittime, perché, come recitano i Cori delle Coefore e delle

Eumenidi: «Figlio, l’anima del morto non doma di fuoco vorace mascella; anche se tardi, disvela un dì la sua collera. Si fa su l’uc-

ciso il compianto, e il vendicatore si leva» (vv. 324-8). «Grande giustiziere degli uomini è laggiù sotto terra il dio Ade, che nel libro della memoria tutto ha scritto e tutto sorveglia» (vv. 273-5). Le Coefore si aprono con l’invocazione di Oreste a Ermes perché gli sia alleato nella vendetta, mentre l’appello del Coro fa eco a distanza alla richiesta di Oreste: «Erme ctonio, tu che su la potenza vegli di mio padre, sii il mio salvatore, t'imploro, il mio alleato nella battaglia» (vv. 1-2); «L'ora è questa che Peito ingannevole discenda con noi al cimento, e che il dio ravvolto di tenebra, Ermes il dio di sottetra, sia vigile scorta in questa contesa

di spade omicide» (vv. 726-9). L'espiazione delle colpe in linea genealogica colora di pessimismo tragico la visione gaddiana della giustizia del mondo. Il Coro dell’Agazzennone è oltremodo esplicito: «Ma se ora dovrà espiare il sangue dei padri, se deve a quei morti, morendo egli stesso, di altre morti pagare la pena, ebbene, chi mai dei mortali, che questo oda, potrà vantarsi di avere sortito nascendo una

stella benigna?» (vv. 1338-42). La presenza della trilogia eschilea assume forme e funzioni diverse nella Cognizione e nel Pasticciaccio, perché nella prima affiora in tessere ben caratterizzate ma limitate a segmenti precisi, mentre contribuisce a fare del secondo il tribunale tragico del libro unico gaddiano, incidendo in chiave allusiva sulle strutture portanti del testo. Per quanto riguarda la Cognizione, già il titolo non appare esente da interferenze con il mh0er ud00g (alla saggezza attraverso la sofferenza o, in termini gaddiani, alla cognizione attra161

verso il dolore) che informa con particolare intensità lAgarzennone (v. 187) e costituisce il fulcro ideologico dell’Orestea. Una simile corrispondenza funge da nettare per le api della memoria. Il finale della prosa di autocommento alla Cognizione si avvale, in sede di clausola, di una sentenza che prescrive il silenzio come unico farmaco per il dolore ed è tratta dall’Agazzenzone: «La sua propria dissocialità si limita a chiedere e insieme a prescrivere a se medesimo i due farmachi restauratori della affranta sua lena, dello spento desiderio di vivere: questi farmachi hanno un nome nella farmacologia della realtà, della verità: si chiamano silenzio e solitudine» (C 491); «Da tempo medicina al dolore non ho che il silenzio» (v. 548). La convergenza di due reminiscenze eschilee colora ulteriormente in senso giudiziario l'apertura del settimo tratto, orchestrata attorno alla «legge di tenebra»: «Le figurazioni non valide erano da negare e da respingere come specie falsa di denaro. Così l'agricoltore, il giardiniere sagace m6ndano la bella pianta dalle sue foglie intristite, o ne spiccano acerbamente il frutto, quello che sia venuto mencio o vizzo al dispregio della circostante natura» (C 353-4); «Non resta celata la colpa, che anzi risplende di paurosa luce agli occhi di tutti. È come moneta falsa il colpevole, che, sfregata per prova e battuta, appare qual è, un pezzo di nero ferro» (vv. 387-93); «Che sempre sia sana e feconda la procreazione di esseri umani. Ma le erbe degli empi sii tu sollecita a sradicarle dal suolo; la pianta del giusto non deve aver danno dalla sterpaglia; così adopera il buon giardiniere» (vv. 909-13). Gonzalo viene a essere investito di una funzione giudicante anche in termini di memoria letteraria, dato il valore chiaramen-

te processuale dei due passaggi eschilei. La concezione della prole come effetto della benedizione della giustizia, che precede la similitudine del giardiniere come giudice, connette in chiave allusiva lo stile giudiziario della Cognizione, di cui l'apertura del settimo fratto rappresenta uno dei nodi cruciali, al tribunale tragico del Pasticciaccio, che condanna la figlia del peggiore dei colpevoli alla maledizione della sterilità e conseguentemente alla morte. Il riferimento della Meditazione milanese alle «segnalazioni a base di fuochi di pino, con cui nell’“Agamennone” eschileo è an162

nunciata alla donna dagli occhi di cagna la presa di Troia» (MM 789), proprio perché l’esempio non è vincolato dal contesto di discussione ma è trascelto tra infiniti altri possibili, mostra, se mai ce ne fosse stato bisogno, come l’Agazzenzone appartenesse da

tempo alla memoria permanente di Gadda. Per quanto riguarda l’Orestea, le Erinni hanno cittadinanza metaforica nel racconto

che dà il titolo all’Ada/gisa (A 542), mentre, in una lettera a Piero Gadda Conti del 28 aprile 1932, i «metafisici aeropagiti della critica» appaiono «costretti a latrare in sordina» (Gadda Conti 19/4:,23));

4.2.6. I gioielli maledetti La conclusione del quarto capitolo del Pasticciaccio rappresenta uno dei momenti di più intensa riflessione del commissario Ingravallo e ammette un passaggio che mal si accorda a una lettura superficiale per lo scarto emotivo determinato dalla speciale orchestrazione stilistica. La rivelazione è affidata, secondo una

procedura gaddiana assai frequente, a un secondo livello di lettura, la cui esplicazione contribuisce a illuminare tanto il passaggio particolare quanto il significato globale del libro. Il duplice livello di significato fa leva su un'articolazione sintattica alternativa ed è determinato da una lettura sospesa: P 120 A Ingravallo gli balenò, tra il dolore e lo sdegno, ch’era molto più naturale e molto più semplice, una cosa molto più logica, postoché Liliana ci teneva tanto, a un bambino, che invece di regalargli lei, a quel bel guappo lì (che gli stava avanti), le catene d’oro dei morti... bambini, dalle catene d’oro, non ne vien fuori di sicuro... era mol-

to più presto fatto se si faceva regalare lei, da lui, invece, un qualche altro ninnolo un po’ più adatto allo scopo.

AI di là della lettura superficiale dei «morti» come parenti della protagonista e del gioco di parole banalizzante su «ninnolo» che fungono da schermo alla rivelazione, la lettura sospesa di

«morti... bambini», rafforzata dalla virgola dopo «bambini», si integra perfettamente nei termini dell’interpretazione proposta

nei paragrafi precedenti, perché il tempo delle vittime di guerra è fermato dall’immaginazione gaddiana, mediante specifici pro163

cedimenti stilistici, entro i confini della fanciullezza. È come se i

sacrificati rivendicassero la proprietà dei gioielli, simbolo dei guadagni costruiti sul loro sangue, e insieme si vendicassero sulla figlia del profittatore di guerra con il contrappasso doppiamente perfetto della sterilità (niente figli per chi è, sia pure in linea genealogica, responsabile del dolore di tanti genitori) e della morte (occhio per occhio...). Come si è visto sin dalle prime opere gaddiane, e in particolare nella Meccanica e in San Giorgio in casa Brocchi, pet poi continuare con la Cognizione, il procedimento della doppia lettura che permette di estrapolare dalla sintassi del finale del quarto capitolo del Pasticciaccio il sintagma franto «motti... bambini» (P 104) e conseguentemente di proiettare su di essi l’immagine dei caduti ante diem: non rappresenta un fenomeno isolato ma costituisce una delle risorse dello stile gaddiano per piegare la pagina a una forma ironica, sarcastica, o addirittura a un vero e pro-

prio verdetto ellittico. Nel caso dei «morti... bambini», la lettura sospesa permette di ottenere una sintesi folgorante di punizione e di colpa per l’innocente protagonista del Pasticciaccio.

Il testamento dell’assassinata, redatto «in preda a una specie di follia, di allucinazione divinatoria, già presagisse imminente la propria fine» (P 104), lascia intravedere nei profitti di guerra il centro di ogni colpa e di ogni rimorso: P 104-5 aveva affidato il testamento a don Corpi, raccomandandogli di «nasconderlo e dimenticarlo». Formula enigmatica: già chiara a don Ciccio, però: dimenticarlo quanto la durata di sua vita, come bramasse di vedere sepolto al più presto quel turpe elenco di averi: quelli che soltanto nell’ultimo smarrimento di sé le era conceduto di disperdere: quelli che la riconducevano a ogni nuovo giorno verso gli obblighi e verso le ragioni inani del vivere, mentre già l’anima tendeva a una sorta di espatrio (la cara anima!) dal paese inutile verso materni silenzi.

Nessun «elenco di averi» è più «turpe» di quello che deriva dallo sciacallaggio di guerra e la carica metaforica del verbo «seppellire», in sinergia con l’aggettivo «turpe», aggredisce imboscati e speculatori. L'affermazione che «il bilancio della morte era 164

chiuso al centesimo» (P 106) cade come una sentenza irrevocabile, suggellando il contrappasso. Il diaspro regalato dalla protagonista al cugino è oggetto di un’incriminazione effettuata con procedure stilistiche e più specificamente metaforiche già nel primo capitolo del Pasticciaccio: «All’anulare destro, sulla mano bianca dalle lunghe dita di signore, che gli servivano da scotere la sigaretta, er signorino ci aveva un anello: d’oro vecchio, assai giallo: magnifico: un diaspro sanguigno nel castone; un diaspro ovale con una cifra a matrice. Forse il sigillo di famiglia» (P 26). Il «diaspro sanguigno» si presta perfettamente come sigillo di una famiglia di profittatori di guerra, quasi a riverberare in sé il sangue dei sacrificati. Il diaspro si rivela a distanza ancora più compromesso all’interno del quarto capitolo: P 108 Un diaspro sanguigno: pietra verdecupa in un tono lucido quasi di foglia palustre che tirava a certi nobili tagli, o canti, o spicchi d’arco, da signoria secreta in palagio nelle architetture del forlivese o del Mantegna, o ne’ riquadri marmo dell’Andrea d’i Castagno a parete: con esigue venuzze d’un cinabro vermiglione come striature de corallo: quasi cagliato sangue, dentro la verde carne del sogno.

La gemma diventa il simbolo di un’avventura militare cominciata da Gadda all’insegna del sogno e conclusa, in una tempesta di folgori e di bombe, nel tempo della prigionia (per sé e per altri) e della morte (per il fratello e per tutti i caduti). Il segmento «quasi cagliato sangue dentro la verde carne del sogno» non potrebbe essere più chiaro, anche per un lettore non abituale di Gadda. I gioielli, in quanto massimo valore possibile, sarebbero spettati di diritto ai morti e ai prigionieri della guerra. Non a caso il diaspro sembra rivoltarsi, nella dinamica narrativa, al suo

immeritato destino di premio per i mercanti di morte. La maledizione lanciata dalle vittime e dagli sfruttati della guerra si concentra simbolicamente sul ciondolo e agisce secondo modalità già illustrate nei passi paralleli dell’Agazzenzone eschileo (cfr. 4.2.5). La memoria di guerra affiora nel diaspro attraverso il ricordo di una canzone degli alpini, I/ testamento del capitano, con il cuore lasciato in eredità, pezzo per pezzo, alla patria, al battaglione, alla madre, all’innamorata, alle montagne: «Un diaspro sangui165

gno verde lustro, scuro scuro come la pimpinella, con du vene

de corallo... rosse! che pareno du vene der core, una pe me, una pe te» (P 115).

I puntini di sospensione e il punto esclamativo evidenziano l’allusione tragica contenuta nell’aggettivo «rosse» e nella similitudine successiva. Il testo si carica di ironia tragica alla luce del valore ostetrico attribuito alla gemma sin dall’antichità, perché i termini del contrappasso vengono compiutamente bilanciati dalla circostanza che i profitti di guerra si concentrino in un dono, quale il diaspro, la gemma che favorirebbe il parto felice. Il diaspro del Pasticciaccio, come la barca chiamata Provvidenza che porta morte e povertà nei Malavoglia, risponde alla visione di un mondo tutt'altro che provvidenziale. La madre della protagonista con la sua morte di parto carica di implicazioni genealogiche la maledizione incombente sulla figlia: «Liliana aveva perduto la madre, quand’era ancora bambina. Complicazioni sopravvenute al parto, il secondo. E la cratura pure» (P 75).

Il diaspro sanguigno aveva sostituito invano un opale nobile proprio per annullare la maledizione funebre: P 108-9 Tutte ste novità in luogo dell’opale azzurro cenere che il Balducci vi aveva veduto l’altre volte: pietra a due facce, recto e verso, e pure dimolto bella, spiegò all’Ingravallo: ma... Pietra sublunare, pietra elegiaca, dalle dolci e soffuse lattescenze come di cielo nordico (nuits de Saint Petersbourg) o forse di colla di silice, posata e raggelata adagio a luce fredda, nel crepuscolo-alba del 60° parallelo. In una faccia era inciso il monogramma RV, Rutilio Valdarena: liscia l’altra. Il nome der nonno, dell’archetipo di tutti iValdarena: che da pupetto era bionno de capelli: biondo rosso, dicevano. Morto il nonno,

la catena (col ciondolo) era andata allo zio Peppe, sul cui gilè di velluto nero a puntolini gialli aveva gravitato quarche mese, la domenica e l’altre feste de precetto. A Liliana l’aveva destinata il nonno, certo: a Liliana: nonno Rutilio: che però l’aveva provvisoriamente legata allo zio Peppe, in una sorte di fidecommesso equitativo. Nei confronti dello zio Peppe il ciondolo di opale aveva agito senza por tempo in mezzo: non però come ciondolo, con il tepore benigno e

benefavente di tutti i ciondoli e di tutti li corni e cornetti, ma con le

sinistre attitudini cancheromotrici di che andò perfusa ab aeterno la nobile e malinconica frigidità della gemma. Dopo sette mesi e mezzo 166

dalla morte del nonno, lo zio non aveva potuto sottrarsi all'obbligo,

prettamente opalino, di trasferire a Liliana la proprietà della catena d’oro, a norma del testamento paterno: con attaccato quel balocco. Poiché fu allora, dichiarò cupo il Balducci, che lo zio si era reso in-

dimenticabile.

Il sintagma «pietra sublunare» non cade a caso ma allude all’opera con la quale comincia la storia del genere ‘giallo’ e che fra l’altro è presente nella biblioteca gaddiana, The moonstone (La pietra lunare), dove i fatti di sangue si configurano, in una prospettiva fantastica parallela a quella dell’esecuzione materiale, come effetto della maledizione conseguente al furto di un diamante sacro. L'intreccio del celebre giallo di Wilkie Collins, definito il più bel romanzo poliziesco moderno da Thomas Stearns Eliot, entra in risonanza con la chiave di lettura tracciata per il Pasticciaccio.

Maledizione e cancro scatenano la condanna a morte immaginaria all’interno di una lettera a Gianfranco Contini del 28 febbraio 1946. Il contatto con la trama del Pasticciaccio mostra uno degli innumerevoli esempi di contiguità in Gadda tra scrittura personale e scrittura letteraria: «Col 31 ottobre lascio la bella camera di piazza d’Azeglio e torno a rintanarmi in Repetti 11 piano 3°, con piastrelle che ballano e osceni coinquilini: la Madonna non si presta, ma se si volesse gentilmente prestare, le direi 25 avemmarie al giorno per un cancro ai suddetti» (LC 47). 4.2.7. Diagramma processuale

Con una tecnica di rivelazione progressiva, poche righe più avan-

ti, gli indizi si moltiplicano in modo sempre più chiaro. Illuminanti risultano le figure del paladino perito a Roncisvalle e del visconte morto in prigionia, perché declinano nella loro esemplarità storica la sorte di tutti i caduti e di tutti i prigionieri della prima guerra mondiale e in generale di tutte le guerre. I due nobili personaggi adempiono in modo figurale la sorte di Carlo Emilio Gadda e del fratello Enrico, perché il primo è rappresentato sempre, dopo l’esperienza della prigionia, come un sopravvissuto e come irrimediabilmente morto alla vita. E la ma167

ledizione delle vittime ad accanirsi contro i colpevoli di sciacallaggio: P109-10 Titillata dai magri, cerei diti del fidecommissario, la gemma li soprastava entrambi, tanto il duodeno che il fegato: un po’ per uno, magari: come una ragazza che tenga a bada du innamorati a la volta. Fu precisamente di un cancro al fegato, concomitato da un confratello al duodeno, che il portatore di opale si trovò ridotto a soccombere. Potente emanazione dello scarognato biossido! a carico del pacco addominale, madonnabona, e di metà le trippe del Peppe! Presenza testimoniale d’una luce invisibile, era figlio, quel talismano all’incontrario, della non imitata elegia; alfiere dell’alba lontana di settembre,

paggio dell’azzurrolattea reticenza del semestre polare. Degno, per la sua nobiltà, di aver ingemmato il dito a un conte de palazzo addormitosi a Roncisvalle con sette finestre nel cuore: o ad un visconte, im-

pallidito a un tratto nelle prigioni di settembre. Portatore della jella doppia, congetturava Ingravallo, data la doppia faccia. La biscarogna doveva uscire dal biossido. Il cancro abbinato duodeno-fegato è degli ambi che più raramente si estraggono in cancherologia, dalla moderna cabala cancherologica: tanto in Europa che fuori.

Con l’inciso «per la sua nobiltà» si allude al tipo di gemma chiamata opale nobile e si introduce la fantasia a base storico-etimologica. Il paladino e il visconte non sono presentati in modo neutro, perché il primo, etimologicamente «conte de palazzo», ha per ferite «sette finestre nel cuore» e la sua morte è alleggerita con la metafora tradizionale del sonno («addormitosi»), mentre il secondo, «impallidito a un tratto», recupera nell’attimo fi-

nale un tratto stilistico manzoniano, in modo significativo forse anche in termini di memoria letteraria. Le rappresentazioni della morte metaforicamente come sonno e metonimicamente come pallore improvviso concomitano nella strofa del Coro del quarto Atto dell’Ade/chi che concentra espressivamente le colpe più gravi espiate dall’innocente Ermengarda, la cui sorte si rivela sempre più simile a quella della protagonista del Pasticciaccio: vv. 91-6

Altre infelici dormono, Che il duol consunse; orbate

Spose dal brando, e vergini 168

Indarno fidanzate; Madri, che i nati videro

Trafitti impallidir.

I «nati» sono i bambini trucidati in fasce, ma si prestano anche, a una lettura gaddiana, a rappresentare i giovani morti in guerra. L’ottica materna raggiunge la massima intensità all’interno del Pasticciaccio, quando «alla spaventevole colatura d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio» dal corpo dell’assassinata subentra in immediata contiguità il raccapriccio della memoria: «(don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell'anima, po-

vera mamma!)», mentre il sangue «s’era accagliato sul pavimento» (P 59).

Per comprendere il contrappasso metonimico dei profitti di guerra che nella forma allegorica dei gioielli si ritorcono contro i pescicani e i loro parenti, è necessario tornare al Castello di Udine e all’Adalgisa (ctr. 2.9 e 2.10). La memoria della strofa manzoniana dei sacrificati era già presente negli «eroi» di Ur «concerto» di centoventi professori, «subitamente impalliditi» e fermati nel «caglio» del loro «sangue» (A 463) perché le donne degli arricchiti potessero andar cariche di rubini. I rubini suggellano cromaticamente la colpa e colorano sarcasticamente il riferimento a ogni sacrificato come a «eletto»: sì, scelto per essere scannato e schernito. Il finale di Impossibilità di un diario di guerra rappresenta una delle chiavi di volta della scrittura gaddiana, in quanto non solo si proietta mnemonicamente su Un «concerto»

di centoventi professori (cfr. 2.10) e sul Pasticciaccio con il sistema fanciulli-Natale-catenelle d’oro, ma si riverbera anche sulla

Cognizione (cfr. 3.2.6), dove il ricordo del fratello scatena in Gonzalo l’invettiva contro le «bestie con addosso cinquemila pezzi di brillanti», a causa delle quali i «morti hanno riempito i cimiteri» (UG 122).

Le catenelle d’oro sui polsi dei caduti nel finale di Irpossibilità di un diario di guerra vengono quasi sottratte dalle mani sacrileghe degli sciacalli di guerra per farne dono alle mogli, alle figlie. Il corpo di reato si trasforma attraverso la struttura giudiziaria del Pasticciaccio in strumento del giudizio e della vendetta. Ed ecco le «catene d’oro dei morti... bambini» (P 120) rievocare la «catenella d’oro» di coloro che erano morti «come fanciul169

li sognando il Natale» (CU 144). Lo sciacallaggio metaforico degli imboscati e degli speculatori si converte, nel verdetto di condanna, in sciacallaggio materiale, perpetrato anche in termini di memoria letteraria dal Castello di Udine al Pasticciaccio, con l’ol-

traggio ai cadaveri derubati dei loro gioielli. Il finale del quarto capitolo del Pasticciaccio adempie il movimento iniziato nello stesso capitolo con la lettura del testamento di Liliana Balducci. L'immagine dei bambini a Natale, ormai chiara dopo la lettura del Castello di Udine, guida il personaggio alla morte attraverso una specie di «allucinazione divinatoria». Il ricordo del solenne esordio del secondo canto dell’Exeide («Conticuere omnes...»), dedicato alle sventure di Troia e ai lutti di

Enea, e già attivo nella memoria letteraria della Cognizione quanto a «meminisse horret luctuque refugit» ([l’animo] inorridisce al ricordo e rifugge dal pianto, [è terrorizzato cioè dalla memo-

ria della sofferenza]), affida alla lettura del testamento dell’as-

sassinata la rivelazione dell'origine di tutti i mali: P 104 Tutti tacquero. AI leggere, o all’udir leggere con tanta partecipazione quel testo, un po’ fuori dell’ordinario per vero, si sarebbe creduto che nell’atto del redigere l’olografo la povera Liliana, in preda a una specie di follia, di allucinazione divinatoria, già presagisse come imminente la propria fine: se non anche, addirittura, che avesse premeditato il suicidio. Il testamento recava la data del 12 gennaio, due mesi prima: il suo genetliaco, osservò il marito: poco dopo la Befana. Era «lo sfogo di un’esaltata», opinò tacitamente qualcuno. Anche la scrittura, al Balducci, a don Ciccio, a don Lorenzo, rivelava certa sconnessione, certa agitazione: un grafologo vi avrebbe lucrato la perizia. Una strana ebrezza al distacco dalle cose, e dai loro nomi e dai simboli: quella voluttà del commiato che subito distingue le coscienze eroiche oltrecché le menti a insaputa loro suicide: quando uno, non anco messosi al viaggio, di già si ritrova con un piede su la battima, alla riviera di tenebra. Ingravallo pensava: pensò perfino che il Natale, che il Presepe, che la Befana... coi loro bimbi, con le loro strenne, coi magi... con quella raggera di fili d’oro sotto al Bambino... paglia al presepe, luce della divina scaturigine... potessero aver addensato, come in un nembo mentale, certe fissazioni malinconiche della signora: 12 gennaio. 170

La ricerca disperata del «distacco dalle cose, e dai loro nomi e dai simboli» si aggiunge come ulteriore tassello di prova all’interpretazione dei beni lasciati in eredità alla protagonista dal padre e profittatore di guerra come allegoria di tutti i profitti di guerra e non a caso «turpe elenco di averi» (P 105) da seppellire al più presto. Le procedure allegoriche investono anche le date. Per il valore rivestito da queste ultime nella biografia e nella scrittura di Gadda, l’insistenza sulla data del 12 gennaio potrebbe non essere casuale. Il 12 gennaio 1919 è il giorno di partenza da Lione per l’Italia, il giorno in cui si concentra, come illusione destinata alla più tragica delle delusioni, l’attesa espressa dalla citazione del verso virgiliano «Prospexi Italiam summa sublimis ab unda» [mentre ero in alto sull’onda ho visto l’Italia] (Ae. VI,

357) all’inizio e alla fine del Diario di prigionia quasi a salvare in un anello di speranza l’esperienza assolutamente negativa del prigioniero e dell’esule. Anello di speranza tragicamente profetico, se si leggono in Virgilio i versi seguenti con Palinuro che trova insieme l’Italia e la morte. Il sogno di rivedere l’Italia e di iniziare una nuova vita si converte in morte alla notizia, tristemente

presagita, della scomparsa del fratello: G 356-7

Noto soltanto alcune date, nell’orrore.

Partenza improvvisa da Lione la sera del 12. Camionnati alla stazione di Bottreaux, ci fanno lasciare a Oullins tutto il bagaglio; ritro-

verò le mie note e i libri comperati per la povera Clara? Grenoble; salgono gli altri. Giorno 13 gennaio: rivedo Terzi nelle stazioni; la sua medaglia d’argento. Tempo sereno, ma grande tristezza in me e scarsa emotività anche nel rivedere le Alpi. Moncenisio: Italia! E la sera del 13: stellato freddo e grande tristezza. Scendiamo a Bardonecchia alle ore 17,40 del 13 gennaio 1919. Torino: ore 21,30 dello stesso 13

gennaio: i Gallone e i Simonetta mi dicono che i miei stanno tutti bene, anche Enrico. In me tristezza. Mi fanno mangiare al «Lagrange»: Champagne agli «eroici reduci». Tristezza. Lettera di Clara consegnatami da Frattini: vogliono ch'io vada a Milano. Clara e mamma

erano state a incontrarmi a Domodossola, due volte! Freddo, disturbo, pena, immenso amore. Parto a mezzanotte per Milano, con la tra-

dotta; sto male di nervi, sono stanchissimo e triste. Lugubre viaggio. Direi che presentissi! La patria vuota. [...] Non voglio più scrivere; ricordo troppo. Automatismo esteriore e senso della mia stessa morte: speriamo passi presto tutta la vita. Condizioni mentali e morali diDid

sastrose: Caporetto, gli aeroplani, Enrico, immaginazioni demenziali. È troppo, è troppo.

Sulla data del 12 gennaio 1919 si concentra il presagio di morte più tragico della scrittura gaddiana e il testamento, redatto nella medesima data dalla figlia del profittatore di guerra nel Pasticciaccio, sembra riverberarne per contrappasso la carica di «allucinazione divinatoria» (P 104). 4.2.8. Infanzia e sacrificio

Il rapporto tra i tre tempi dell'infanzia, del Natale e del sacrificio, istituito nel finale di Impossibilità di un diario di guerra è ormai cristallizzato all’altezza del Pasticciaccio. La memoria delle ferite della madre e del figlio della Cognizione lascia tracce sul corpo dell’assassinata del Pasticciaccio (cfr. 4.2.3), depositando anche la carica indiziaria contro tutti i colpevoli di guerra. I «morti... bambini» (P 120) del quarto capitolo del Pasticciaccio sono troppo vicini al bimbo morto della Cognizione (cfr. 3.3.3) per sfuggire all’identificazione con i caduti arte diem. Il destino di Liliana Balducci si rivela speculare, per l'appartenenza del personaggio, sia pure alla maniera dell’Ermengarda manzoniana, alla schiera degli oppressori, rispetto alla sorte di Elisabetta Francois. Come l’oltraggio risale in linea genealogica nella Cogrizione, così la punizione ridiscende per la stessa via nel Pasticciaccio. Nel libro unico gaddiano si crea un contrappasso a distanza.

La memoria infantile corona le figure dei sacrificati in tutte le opere gaddiane e appartiene così di diritto al registro della memoria permanente. La protagonista del racconto che dà il titolo alla Madonna dei filosofi rivede nel ricordo «un ragazzo biondo,

assorto, la cui giovenile mano aveva scritto per lei ogni parola d’amore e poi comandato li assalti nella cenere delle battaglie, davanti a’ baleni del Gòlgota buio» (MF 102), mentre Dejanira Classis, nel racconto incompiuto Novella seconda, appare immersa nel «lontano rimpianto di loro, che forse erano perduti, per sempre, per sempre — con cui aveva giocato bambina - e ora non se ne sapeva più nulla ed erano i suoi fratelli!» (NS 1044), L'alterazione affettiva della sintassi nel movimento finale fa leva 172

su una sequenza polisindetica con anacoluto doppio, o preferibilmente su una doppia paraipotassi. Le ferite morali sono determinanti per lo svolgimento narrativo della Cognizione e poi, in modo diverso, del Pasticciaccio. La soluzione dei due gialli è possibile solo alla luce delle ferite di guerra. La Signora compare moribonda nelle ultime pagine della Cognizione, con le stesse ferite del figlio precipitato con l’aeroplano, per effetto di una misteriosa aggressione che concreta sul piano fisico e materiale gli oltraggi recati sul piano morale e affettivo da generali, vati, imboscati e profittatori di guerra d’o-

gni genere. L’oltraggio risale in linea genealogica dal figlio morto in guerra alla madre, mentre ridiscende per la stessa via nel Pasticciaccio, dove le colpe del padre in quanto profittatore di guerra si riversano sulla figlia innocente. Vale il teorema narrativo per cui, in un mondo in cui l'immaginazione delle anime sensibili è tanto forte da invadere la realtà, ogni anima muore nella memoria. Un teorema di cui è lucido corollario l’assunto dell’Adalgisa per il quale «ogni anima muore nella memoria» (cfr. 2.10). 4.2.9. Anagramma militare

L'apertura del sesto capitolo introduce una tormentata conversazione telefonica, da cui emerge, prima dell’interruzione definitiva, la figura enigmatica di Zamira Pàcori. Il «naufragio del testo» si verifica perché «il crepitio del microfono e l’induttanza della linea sonorizzavano il testo: interferenze varie, da contatto urbano, intercicalavano, straziavano la ricezione» (P 139). L'evo-

cazione del misterioso personaggio è avvolta in allusioni insistite e ammiccanti:

P 140. Ciò che fu possibile estrarre da un tal guazzabuglio fu, insomma, che il Retalli aveva portato a tingere la sciarpa a una donna dei Due Santi, sulla via Appia, certa Pàcori, Pàcori Zamira. Zamira!

Zeta come Zara, a come Ancona! Zamìra... sì, sì, Za-mìra! nota a molti, se non a tutti, in quel di Marino e di Albano, per i molti suoi me-

riti: se non per tutti i suoi meriti. Poi la comunicazione s’interruppe a beneficio e in onore delle superne gerarchie: o così parve.

Il testo della conversazione telefonica è talmente alterato da

sospensioni, ripetizioni e incomprensioni, da indurre in errore 173

anche l’edizione critica, che livella «sì, sì, Za-mìra» in «sì, sì, Zamìra» [poi errata corrige in altro volume].

Il girotondo allusivo che sembra velare di un sortilegio il nome della maga trova più distesa conferma nel sistema conoscitivo del Di Pietrantonio: «la Zamira! del di cui nome e di cui por-

tamenti, palesi o velati, a non dir secreti o splendidi, il mito s’e-

ra fatto scopritore o troviere e poi divulgatore e trombettiere da

Marino ad Albano, da Castel Gandolfo ad Ariccia» (P 142).

La coppia aggettivale «palesi o velati» vale tanto per il «nome» quanto per i «portamenti». Ricordando che la telefonata su cui si apre il capitolo è interrotta dalle «superne gerarchie» LR 140) e scavando nel passato di Zamira Pàcori si incontra un tempo di morte della memoria permanente gaddiana: la guerra della Libia. L’anamnesi storica è guidata dalla conversazione ma-

gnetica della maga: «Occhi! Furtivi dardi! Sfrecciate da sentisse morì er core in der petto, a li carabinieri in piedi: nel tempo che la sarta parlava loro della Libia: della quarta sponda: dei datteri che vi maturano, squisiti, e degli ufficiali che vi aveva conosciuto e che l'avevano “corteggiata” con successo» (P 152-3). La campagna d'Africa della «sarta-sibilla» è al centro dell’accusa, rivoltale nel settimo capitolo da Ines Cionini, che «perfino

in Africa è annata a fa la vita! Quinnicianni fa» (P 183). Il personaggio risulta implicato anche nel tempo di morte fascista, se «la palizzata degli incisivi» le è «marcita via» suggestivamente «fin dai tempi della marcia». Due bersagli in un solo colpo: la marcia su Roma entra in risonanza con il campo semantico del marciume. La rivelazione del segreto del nome di Zamira Pàcori si annida nell’ottavo capitolo: P 203-4

«Be, sor maresciallo, ce penzi un po’, cor su’ bon core!

Nun vorrà dì che nun è vero. Povere le pupe mia, poverette!» Indi, implorante: «Che, nun cià moje, lei?» la sguaiata! «Un par de sorelle? Manco quelle?... che ce l’hanno tutti, oggi, se po dì. Chi è, ar giorno d’oggi, co tutti sti maschioni che va in giro, che nun cià du sorelle da marità? Ce l’aveva perfino quer gran poeta patriottico, che cià fatto tanto piagne, de Natale, in Libia ad Ain-Zara, col sesto berzaglieri... che se chiamava, perché adesso è morto, poveretto! come se chiamava? Giovanni... sapete, quei posti dove ce cresce l’erba,» e con la mano cavava il nome dalla fronte, «Giovanni, Giovanni Prati! ma no, Gio174

vanni Prati, aspetta,» e seguitava con la mano, «possibile che nun me l’aricordo? So’ li dispiaceri che m'è toccato da passà... che m’hanno fatto perde la memoria. Giovanni Pascoli! Ecco, ora me lo so’ aricordato: ce lo sapevo che ereno posti da facce er fieno.» «Piantatela con l’erba e col fieno, e coi prati e coi pascoli: e rispondetemi a me, piuttosto.»

Zamira Pàcori, maga e sibilla, rievoca una profezia pascoliana avveratasi secondo la storia o l’aneddoto. L’episodio storico soggiacente riguarda il discorso La grande proletaria si è mossa... con l'esaltazione del maggiore Toselli «così degno di guidare un'avanzata audace su Ain-Zara» (569). L’avanzata vittoriosa su Ain-Zara è registrata nelle biografie pascoliane come contemporanea alle parole augurali del poeta. Agli occhi di Gadda, l'evento è valutabile come una conferma, almeno sul piano simbolico, del teorema degli effetti reali dell’epica retorica, contenuto nella Meditazione breve circa il dire e il fare (1936). L'episodio o aneddoto che sia delle lacrime, a cui allude Zamira con il riferimento al

«poeta che cià fatto tanto piagne, de Natale, in Libia ad Ain-Zara, col sesto berzaglieri...», è così riportato da Biagini 1963: 791. E proprio nel giorno stesso, 26 novembre 1911, e nell’ora stessa in cui il Pascoli pronunciava il discorso di Barga, avveniva l’avanzata vittoriosa su Ain-Zara, come, il 5 dicembre, gli telegrafò da Bologna l’editore Zanichelli, forse per stimolare ancora la sua vena oratoria e poetica: «Ain-Zara conquistata dopo lungo combattimento. Ottocento turchi sconfitti. Divisione Pecori brigata Rinaldi bivaccano accampamento nemico».

Più tardi quegli stessi soldati, letto il discorso, raccoglieranno presso le trincee fulminate di Ain-Zara fiori selvatici per inviarli, con l’augurio cordiale della guarigione, a colui che aveva fatto versare loro lacrime di commozione e di orgoglio.

L’intimazione del brigadiere Pestalozzi, «Lasciate in pace i morti», assume una risonanza che travalica i limiti del contesto.

È il giudizio del narratore che si avventa sul finale della prosa pascoliana, incriminabile, alla luce dell'ideologia gaddiana, perché soffoca le vittime di guerra nella seconda morte della retorica. La figura del «poeta che cià fatto tanto piagne» si ritorce in un’ac-

cusa funesta contro Pascoli, datore di morte e concausa delle la175

crime per i morti, in quanto corresponsabile della propaganda per la guerra di Libia. La prosa pascoliana rientra fra i «cadaverosi poemi» (C 291), tanto aborriti nella Cognizione. La presenza di Zamira Pàcori ad Ain-Zara è sigillata da un’allusione onomastica che illumina a distanza la strategia della telefonata ammiccante su cui si apre il sesto capitolo. Il nome più vicino all’anagramma di Ain-Zara è proprio «Zamira» e la maga

è presentata al telefono come una «certa Pàcori, Pàcori Zamira.

Zamira! Zeta come Zara, a come Ancona! Zamira!... sì, sì, Za-mì-

ra» (P 140). Anche «Zara» e la semisillabazione in «Za-mìra» ammiccano ad «Ain-Zara». Gli effetti della creatività gaddiana in materia di nomi parlanti non si fermano al nome, perché il cognome

«Pàcori» è modellato, con impercettibile slittamento apofonico,

sul nome della divisione «Pecori». L’allusione libica del Pasticciaccio riflette l’allusione etiopica della Cognizione, creando una simmetria a distanza nel libro uni-

co gaddiano: C 433.

Sognò allora, nell’inutilità di quel sole, mentre le formiche

traversavano pazienti l’Ogaden, carovane eroiche.... Sognò all’impiedi, nel sole. Altro non poteva fare. P 152 Il raduno elisio delle dolci ombre, la chiamata, la evocazione dei compossibili! Povera e cara Zamira! Soleva mescere ai carrettieri

dell'Appia: ai carabinieri in perlustrazione. All’impiedi, loro, venuti dall’estate, moschetto a spalla: impolverati, accaldati, accecati dalla immensità: storditi da infinite cicale: con il capo e il berretto tra la nuvolaglia delle mosche, su su, che davano un ronzio, a tratti, come

di non veduta guitarra pizzicata dalla falange di uno spetro. P 153 Sì, sì: disponeva, la Zamira, di buon organico di nipotine apprendiste: e riserve, poi, dislocate lungo l’Appia, lungo l’Ardeatina o l’Anziate, al tale, o tal altro chilometro, di rimagliatrici aggiunte: che in una contingenza straordinaria, trìc e tràc, arebbero potuto dare una mano: e la davano: come ad esempio durante i tiri estivi, del quarto bersaglieri. Ai perlustratori, ai pazienti militi dell’estate infinita, non occorreva poi tanto: bastava l'organico delle immediate dipendenti, e nepoti. Tutte tali, o giuppersù, le nipotine, da rendere quelle avvinellate soste a dolcezza, e della più allettante, della più conturbante, 176

a riparo di solleone dopo chilometri, chilometri bianchi, per gli impolverati e sudati portatori di moschetto.

L'immagine dei militi della campagna africana, postulata dai trascorsi storici della maga, si sovrappone alle figure dei carabinieri storditi dal caldo e a quelle dei bersaglieri in esercitazione. Anche le lavoranti della Zamira, per effetto di una dilagante vischiosità metaforica, si dispongono come un esercito: «organico»,

«riserve», sorveglianza delle principali vie di comunicazione e pronto intervento. Lampanti interferenze con il sistema dell’allusione etiopica della Cognizione creano un’allusione libica parallela nel Pasticciaccio. Dalla figura stilistica appositivo-esclamativa, per di più con entrambi gli aggettivi-base «povera» e «cara», che coinvolge per delega affettiva l’ambigua megera fra i sacrificati di Libia, alla tessera «all’impiedi», carica di un’espressività altrimen-

ti immotivata, all’apposizione «pazienti militi dell’estate infinita», che recupera fra l’altro anche l'aggettivo «pazienti», al caldo, alla polvere, al sole accecante, tutto concorre a evocare il quadro dell’allusione etiopica. Le «carovane bianche di nuvole», trasmutanti in un’irraggiungibile alternazione di presagi» (P 159) nella clausola lirica del sesto capitolo del Pasticciaccio, recuperano la memoria delle «carovane pazienti» (C 420) di nubi che nella Cognizione (cfr. 3.3.2) prefigurano le «carovane eroiche» di formiche che «traversavano pazienti l’Ogaden» (C 433). Una similitudine capovolta dell’ottavo capitolo del Pasticciaccio svela i referenti avvolti dalle nuvole in perfetta coerenza con il vocabolario allusivo della Cognizione, dove nubi e formiche sono simboli dei militi in marcia:

P 190-1 Spentasi la tramontana il giorno innanzi, ecco, ad alternare gli auspici, la bava calda, sulla pelle e sul viso, l’alito gratuito e ormai cadente d’una strapazzata di scirocco. Di là, da dietro a Tivoli e a Càr-

soli, flottiglie di nubi orizzontali tutte arricciolate di cirri, con falsi-

fiocchi di zafferano, s'avventavano l’una dopo l’altra a battaglia, filavano gioiosamente a sfrangiarsi: indove? dove? chissà! ma di certo indo’ l'ammiraglio loro le comandava a farsi fottere, come noi il nostro, con tutti i velaccini in tiro nel vento. Labili, cangevoli fuste, bordeg-

giavano a quota alta e irreale, in quella specie di sogno capovolto che è il nostro percepire, dopo il risveglio ad alba, bordeggiavano la scoD77

gliera cinerina delle montagne degli Equi, la nudità dealbata del Velino, antemurale della Marsica.

La prospettiva del «sogno capovolto» appartiene ancora al presagio, perché la mente, «dopo il risveglio ad alba», dantescamente «a le sue vision quasi è divina» (Purg. IX, 18). L'anima profetica abbandona Zamira, indovina terrestre, per gli spazi del cielo, dominio della memoria permanente del narratore. I «carabinieri in perlustrazione» avanzano «tra la nuvolaglia delle mosche, su su, che davano un ronzio, a tratti, come di non

veduta guitarra pizzicata dalla falange di uno spetro» (P 152). In coerenza con il significato funebre che l’apparizione delle mosche ha in Gadda e che è stato esemplarmente illustrato da Gian Carlo Roscioni (19953, 48-99), le mosche rappresentano il destino che attende i soldati alla fine delle marce estenuanti. Il valore

delle mosche come simbolo della morte è reso ancora più esplicito dal loro materializzarsi, secondo il suggerimento della similitudine, in strumento musicale dello spettro, figura essenzial-

mente funebre. Il fantasma che nella Cogrizione equivale al retore della morte, al vate, viene ad acquisire nel Pasticciaccio un’ulteriore valenza mortifera. La musica della retorica, che esal-

ta le guerre e provoca conseguentemente la morte, secondo il teorema della Meditazione breve circa il dire e il fare (1936), si con-

creta nel ronzio delle mosche attorno ai cadaveri. L'assenza di qualsiasi parola di commento lascia intero ai fatti e al loro suono più macabro lo spazio della condanna per l’epica retorica e per qualunque forma di propaganda orientata nella stessa direzione funebre. L'essenzialità di un'immagine fonde assieme causa ed effetto, secondo un procedimento presente anche in Eros e Priapo, quando la martellante propaganda per la prole del regime fascista frana stilisticamente nell’interminabile lamento delle madri per i figli morti in guerra, reso dalla frequenza di /i/ protratte fino all’esasperazione: «buttarvi a morire i figli di quelle... a cui si è largito il premio nuziale perché facessono figli: figli, figli, figli, tanti figli, infiniti figli, da mandarli a morire nella guerra, guerra, guerra, guerra, contro i “delitti delitti delitti della In-

ghilterra Inghilterra Inghilterra”» (EP 45). 178

Il discorso della maga, centrato sui ricordi di Libia, è indifferentemente «evocativo o responsale» a seconda che la campagna d'Africa presa in considerazione sia la guerra di Libia del biennio 1911-12 o la riconquista della Libia, iniziata nel 1922 ma completata solo nel 1932, e insieme la guerra d’Etiopia. Con le sue profezie la maga fa velo all’ottica onnisciente del narratore. 4.2.10. Sanzioni metamorfiche

La scrittura gaddiana, incidendo sulla realtà rappresentata come «strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta» (VM 503),

accanendosi cioè con le parole sugli oggetti della condanna, libera una serie di indizi. Il generale Ottorino Barbezzi-Gallo, rappresentante di una categoria, come quella dei generali, oggetto dell’odio permanente gaddiano dopo le sciagurate strategie della prima guerra mondiale, subisce l’ingloriosa metamorfosi di vermiciattolo sul letame tra le righe giudicanti della similitudine allineata al buffo cognome: P 79 Di sopra ancora della Cucco, al piano attico, ce steva ’o generale Barbezzo. Ingravallo, subbito, lo beccò subito fuori pure lui da tutte quelle paperazze, come na chioccia nera nera, cocò-cococò, il

vermiciattolo: con un cérpo de becco che nun se sbaja s’una montagna de letame. Recitò un’altra volta: «generale Grand’Ufficiale nobbile Ottorino Barbezzi-Gallo, designato per comando d’armata a riposo: d’anni? bah! da Casalpusterlengo. Tanto piacere!». Pure nobbile, era. Da quel che lo Sgranfia gli aveva canticchiato in un orecchio, un signore distintissimo, vedovo, co la barba spartita

in due che pareva una spazzola de lusso: ma doveva soffrì de podagra (a sentì la portiera), che doveva patì le pene de l’inferno.

I generali, colpevoli di avere insanguinato irrazionalmente le montagne durante la guerra mondiale, sono trasformati dall’azione giudicante della scrittura nella figura che più adeguatamente li rispecchia: il vermiciattolo sopra la montagna di letame. Oltre alla sostanza ripugnante della metamorfosi punitiva (finire sul letame, e per di più da vermi), vige il ricordo della colpa con le montagne che erano il campo d’azione dei generali. E per la 179

frase «che doveva patì le pene de l'inferno» è ammissibile una doppia lettura. Non solo la presupposizione di indicibili sofferenze fisiche ma anche il presagio della dannazione infernale, a seconda che si inquadri l’ausiliare «dovere» in una prospettiva ipotetica o futura e che si conceda o meno valore metaforico all’espressione ‘patire le pene dell’inferno’. A infliggere la punizione interviene direttamente, a specchio dell’urgenza giudicante del narratore, il commissario Ingravallo, metamorfosato in una

«chioccia nera nera». La forma di condanna espressa dall’impiccagione immaginaria investe la figura dell’indiziato principe del Pasticciaccio con contrappasso sia letterario che reale. L'accanimento sulla rappresentazione di Cola di Rienzo, impiccato già cadavere secondo la Cronica, e orientamento del contesto lasciano scorgere i connotati di Mussolini dietro le fattezze del tribuno romano: «Pe dì che l’Urbe incarnava omai senza er minimo dubbio la città de li sette candelabri de le sette virtù: quella che avevano auspicato lungo folti millenni tutti i suoi poeti e tutti gli inquisitori, i moralisti e gli utopici, Cola appeso. (Grascio era.)» (P 73). Sulla sorte di Cola di Rienzo, che prefigura anche la fine di Mussolini, impiccato già morto in piazzale Loreto a Milano, si scarica la vendetta di Gadda, che giustizia con Cola di Rienzo e Mussolini i «poeti», gli «inquisitori», i «moralisti» e gli «utopici». Le attitudini speculative e profetiche di «utopisti e lanternisti» sono impersonate, con dilaganti effetti grotteschi, da una figura quasi equina: P 238-9 Il padrone del cavallo sedeva, di là dalla cunetta, sul margine alquanto alto del prato in cui la strada ancora oggi si affossa, guardando a terra pensoso: bocca aperta: nella zanella asciutta le scarpe. Pareva speculare dei destini umani e dei presagi: lasciava pascolare il cervello negli interminati campi del nulla come sogliono utopisti e lanternisti, operatovi il vuoto: quel dolce vacuo torricelliano che i vapori sommossi e le nebule del mattino equinoziale avvalorano, se mai, a condizione inderogabile della vita psichica. Curiosità lo

aveva subito purto all’avvistar Lavinia coi militi, s'era poi chetata e spuntata al tutto quando, rimasto solo con lei e col cavallo (ma il cavallo non comprendeva bene i discorsi di più voci), l’ebbe richiesta del caso. Lavinia, aspra, l’aveva ridotto al nulla in due battute, nel che fare eccelleva, e s'era accoccolata come detto. Lui ora, sicché, sme180

morava nella pace, affisando a bocca aperta qualche fil d’erba: un filo di saliva era per uscirgli da un angolo di quel poco ritentivo meato, filtratogli, di sotto la lingua inerte, a gocciolare sulle selci.

La definizione di «padrone del cavallo» è indice di una certa affinità con la bestia, che si svolge quasi in metamorfosi quando l’inebetito personaggio, nelle righe comprese tra «Lui ora» e «sulle selci», sembra proprio un cavallo. Il verbo «pascolare» contiene già un giudizio per metafora sugli utopisti, mentre i campi del nulla rappresentano i giri a vuoto dei loro pensieri. L’apparizione di un cavallo alla fine di Tendo al mio fine, prosa introduttiva al Castello di Udine, è glossata in nota con «qui il cavallo è la saluberrima stupidità, superstite e pascolante sopra la vana fatica del pensiero» (CU 12311).

La fine di Mussolini è auspicata e insieme evocata con la sentenza che «chi si riconosce genio e faro alle genti, non sospetta d’essere moccolo malo moribondo e quadrupede ciuco», nella quale pare di intravedere il dantesco «error de’ ciechi che si fanno duci» declinato per l'occasione. Una glossa efficace, anzi, potrebbe essere: «l’error de’ ciuchi che si fanno duci». Nel saggio Un testimone entrano in campo, con perfetta risonanza, «i bei gi-

ri d’orizzonte degli improvvisati fari e lampioni: di quello che leggeva tutto, capiva tutto, sapeva tutto e, col solo aprir bocca, ci ha illuminati tutti, e accomodati tanto benino. E poi però, se Dio volle, l'hanno appeso lui a un più degno lampione. E ora dissemina pollici marci per tutta terra» (SGF I, 945-6). La storia si incarica di giustiziare Mussolini con l’adeguato contrappasso di un’impiccagione oltre la morte, come se a pagare le colpe fosse largamente insufficiente la vita. Chi vuole rivivere, per quanto è possibile, il contesto storico dell’avversione irriducibile di Gadda (e non solo) per il duce può ricorrere allo studio, tanto rigoroso quanto illuminante, di Sergio Luzzatto, I/ corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria. Luzzatto scioglie lo spessore dell’allusività gaddiana al fuoco delle agnizioni storiche: la conoscenza dei particolari sul trafugamento della salma di Mussolini dal cimitero di Musocco con il distacco di qualche falange dallo scheletro lo porta a spiegare, ad esempio, come Mussolini, nel passo citato per ultimo, «dissemini pollici marci per tutta terra». 181

4.3. LO STILE DELL'INNOCENZA

4.3.1. Procedure grottesche A uno stile della colpa, che illumina negativamente determinati

personaggi e li inchioda alle proprie responsabilità, corrisponde, allo stesso livello formale, uno stile dell'innocenza, che svolge la funzione complementare di scagionare altri personaggi dalle accuse loro rivolte. Lo stile dell'innocenza può investire direttamente gli incriminati, insignendoli di una particolare forza di sincerità o comunque dotandoli di un’efficace carica difensiva, oppure destituire di validità la controparte inquirente, svuotandola dall’interno con dimostrazioni che portano ai limiti del grottesco o dell'assurdo i modi o la sostanza delle sue procedure. Lo stile dell'innocenza coincide con la regia giudicante del narratore che informa lo svolgimento narrativo del Pasticciaccio al teorema dell’ingiustizia del mondo attraverso la sequenza quasi ininterrotta di innocenti ingiustamente accusati che si danno il turno nei vari capitoli sino alla fine del romanzo. Perché sia verificata l’ipotesi di fondo della presente indagine circa la recidività dei personaggi nel libro unico che comprende tutte le opere gaddiane, è necessario provare l’innocenza dei personaggi non inclusi nella lista degli ipotetici colpevoli. I procedimenti inerenti allo stile dell'innocenza, se adeguatamente illuminati,

contribuiscono in misura determinante alla dimostrazione necessaria.

L'ottica giudicante del narratore ribalta la debole difesa del commendator Angeloni, vittima delle storture dell’apparato giudiziario e delle false apparenze del mondo, in una strategia difensiva imperniata sul ridicolo e sul grottesco. Basta «un non so che... una tristezza, una insicurezza e insieme anche una tal qua-

le reticenza negli occhi» (P 40) per scatenare i sospetti. Il processo sui generis al commendator Angeloni è portato avanti soprattutto dalla folla: P 42 Tutti gli sguardi si puntarono sul commendator Angeloni. Il nominato si confuse: «Io? Garzoni?... Che presciutto?» 182

«Sor commendatore mio,» implorò la sora Manuela, «nun me vorrete fa sta partaccia de dimme che nun è vero in faccia ar commissario... Voi siete solo...» «Solo?» ribatté il sor Filippo, come se il viver solo fosse una colpa. «E che ce sta forse quarcuno co voi? Manco er gatto...» «E che volete dì, che so’ solo?»

La polemica, oltre che contro la falsa conoscenza della folla, a cui si contrappone la conoscenza del cuore del commissario Ingravallo, è contro quello che nel saggio autoesegetico I/ Pasticciaccio (1957) è definito il «clima eroico dell’epoca sitibonda di prole: epoca ove il celibe era schedato a spregio, fosse pure Gesù Cristo, Michelangelo, Beethoven o Mazzini Giuseppe: e pagava una speciale tassa, quasi una multa infamante, come se la condizione di celibato costituisse — dopo che frode continuata nei riguardi del santo numero (quarantaquattro milioni, allora) — anche una fonte di reddito» (VM 507). Tristezza e inquietudine accompagnano il personaggio sino al-

l'interrogatorio, durante il quale «una incredibile angoscia pareva essersi impadronita del commendatore» (P 44). La difesa più valida è affidata direttamente al commissario Ingravallo, che si sdoppia in inquisitore secondo i meccanismi dell’apparato giudiziario e in giudice secondo l’ottica del narratore, giungendo a processare in un certo senso se stesso: P 44. Solo, seduto sur una scranna della questura, con addosso tutte le sofisticherie della squadra mobile (così pensava), gli si velarono gli occhi. La sua povera faccia, di poveruomo che desidera che non lo guardino, con quel nasazzo al mezzo che non dava licenza un minuto alle inespresse opinioni dell’interlocutore, la sua faccia parve, a Ingravallo, una muta disperata protesta contro la disumanità, la crudeltà d’ogni inquisizione organizzata.

La protesta del silenzio mette fuori campo tutte le procedure dell’«inquisizione», destituendole di validità. Il termine «inquisizione» non è neutro ma indica il volto negativo della giustizia come istituzione. L'aggettivo «solo» a inizio di periodo accentua espressivamente la crudeltà della controparte. L'’estraneità del commendatore all’apparato giudiziario è dilatata dall’incompati183

bilità linguistica con il commissario interrogante. Commendatore e commissario parlano due linguaggi completamente diversi: P 44 Insisteva penosamente, contro ogni prelazione d’uso, a forbirsi i labbri con quella parola fattorino. Più Ingravallo si buttava al folklore, tra Tevere e Biferno, più lo pizzicava dicendo pizzicarolo e guaglione, più lui si ritraeva come una lumaca in guscio nel sussiego

della terminologia ufficiale: che non c'entrava nulla, però, in quel clima di generica diffidenza questurinesca, di brisàvola e di carciofini all’olio.

L’interrogatorio sfocia irresistibilmente nel grottesco, quando il capo d’accusa, con passaggi sapientemente graduati e dissimu-

lati, si riduce alla compera di un prosciutto. L'unica colpa della quale il commendatore può essere accusato è quella della gola, ammesso che non si consideri che il prosciutto, proprio perché magro, sembra stia lì a rivendicare l'innocenza alimentare del commendatore, un’innocenza che è persino nelle cose: P 45 «Alla portiera avete detto, una volta» (don Ciccio sbadigliò), «che compravate il prosciutto magro a via Panisperna...» «Ah, già, ora che me ce fa pensà, me n’aricordo puro io, che una vorta... me so comprato un presciuttino sano: un presciuttino de mon-

tagna de pochi chili.» Pareva che nel poco peso di quel prosciutto egli intravedesse una singolare attenuante.

L'abilità dialettica dell’inquisito, che contrasta con la sua ingenuità esistenziale, appare come un dono gratuito e improvviso

dello sguardo giudicante del narratore e come tale si afferma sul piano stilistico, schivando le inopportune tonalità burocratiche delle precedenti sortite linguistiche. Nella sua funzione di inquisitore, delegatagli dalle istituzioni fasciste, Ingravallo si presenta «come uno scuro laniero ad ali mezzo aperte, non anco attigliata la preda» (P 47), mentre la difesa, da parte del commendator Angeloni, insiste nel tentativo, perfettamente riuscito almeno sul piano dialettico, di piegare al ridicolo le argomentazioni dell’inquisitore attraverso immagini grottesche: 184

P 48.

«Nella mia condizione, signor commissario, che? Potevo annà

in giro pe Roma co un presciutto in collo? Me pare una cattiveria bella e bona de volé sofisticà si quello ch’ha sparato è un garzone o nun è un garzone, o j'ha fatto er palo a quell’artro o nun je l’ha fatto. Io che ne so? Che je pare? Se metta un po’ ne li panni mia. Pe sentì dì da la gente: avemo visto er commendator Angeloni a via Panisperna che arrancava co un caciocavallo ar collo? co du fiaschi uno de qua uno de là? che pareveno du gemelli, in collo a la balia...?»

Le cause del fermo sono individuate in «tutto il contegno del-

l’Angeloni, la sua reticenza di testardo malinconico, con quei ri-

giri di frasi che non concludevano a nulla e davano soltanto nel vago e nel dilatorio, la sua timidezza più o meno giocata e valorizzata, quei repentini rossori del naso goccioloso, quegli occhi imploranti e sfuggenti, da prima, poi que’ due poveri occhierugioli smarriti dentro due caverne di paura, una confusione a volte reale a volte stranamente ambigua» (P 49). L’insicurezza si manifesta a livello linguistico, psicologico e fisiognomico, con un senso di smarrimento e di paura di cui gli occhi sono l’indice più evidente. La rete di sospetti che avviluppa il commendatore si allarga in tutte le sue maglie, quando la faccenda viene ricostruita, con un minimo di ordine e di razionalità, per origine, svolgimento, conclusione: P 48-9 Da qualche pallida indiscrezione cioè mezza parola de’ due agenti, specie er Biondo, via Manuela - Menegazzi - Bottafavi - Pernetti Alda e fratello (scala A) oppure via Manuela - Orestino Bozzi sora Elodia - Enea Cucco (scala B), parve, cioè s’intravvide, che la po-

lizia sospettasse nel fatto una indiretta oltreché beninteso involontaria (e per di più poco dimostrabile) responsabilità del commendator Angeloni: motore primo di quell’andirivieni, di portatori di salumi a domicilio.

Il dubbio di «qualche pallida indiscrezione» si insinua in contorti itinerari di pettegolezzi da scala per entrare nel regno dell’apparenza con il binomio di verbi «parve, cioè s’intravvide» che avvolge i sospetti della polizia sulla responsabilità «indiretta», «involontaria» e «poco dimostrabile» di un’azione così insignificante come il farsi recapitare salumi a domicilio. 185

Il primo capitolo termina, su «due o tre fermi a casaccio, “nei soliti ambienti”: che furono, per quella volta, una bigia latteria, un casino di quint’ordine a via Frangipane, e una panchina a Santa Croce. Tre tipi col berretto in capo: a chi tocca tocca. Il terzo, oltre al berretto, aveva anche la tigna» (53). L’inciso «per quella volta» amplifica a consuetudine la procedura di infliggere fermi a casaccio nei serbatoi di vittime predestinate, quasi a sovrapporre la persecuzione giudiziaria all’oltraggio del destino. Il commento «a chi tocca tocca» recupera, a livello di memoria letteraria, le parole che segnano la riapparizione di Tonio dopo la peste nell’orizzonte di Renzo: PS XXXIII 575-6

«Oh Tonio!» gli disse Renzo, fermandosegli da-

vanti: «sel tu?».

Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa. «Tonio! non mi riconosci?» «A chi la tocca, la tocca», rispose Tonio, rimanendo poi con la

bocca aperta. «L’hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più?» «A chi la tocca, la tocca», replicò quello, con un certo sorriso sciocco. Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua

strada, più contristato.

Il reimpiego di segmenti dialogici manzoniani si verifica con frequenza più che significativa nella Cognizione. Il meccanismo della condanna attraverso l’addizione di connotazioni pestifere per via metaforica o per mezzo di una memoria letteraria preferibilmente manzoniana è già operante nel quinto tratto della Cognizione, quando i generali della prima guerra mondiale, responsabili con i loro errori di ininterrotti quanto inutili massacri, vengono investiti del ricordo dei monatti dei Prorzessi sposi. Analogamente, nel finale del primo capitolo del Pasticciaccio, l’apparato giudiziario che si accanisce sui poveracci viene pareggiato,

in termini di memoria letteraria, alla peste. La sorte dei poveracci entra in risonanza con le vicissitudini dello smarrito commendatore, innocente di turno nel primo capitolo. La correttezza esemplare con cui il commendator Angeloni risponde nel quinto capitolo alle domande postegli dagli inquirenti intorno a un altro personaggio indiziato si contrappone a di186

stanza alle facilonerie procedurali della pseudo-giustizia e illustra per contrasto lo stile della vera giustizia: P 136 Il commendator Angeloni, estratto da Regina Coeli per un’ora, tanto sì da faje pijà una boccata d’aria puro a lui, pover'omo, e titillato a Santo Stefano der Cacchio, subbito ritirò la testa in de le spalle come intimidita lumaca: «Mbò», si limitò a mugliare, mettendo un par d’occhi malinconichi, da paré un bove de malumore: gialli, je s°ereno fatti, in pochi giorni, a la Lungara: «m’aricordo che l’avrò intruppata pe le scale un par de vorte, ma nun la conosco pe gnente: nun posso dì gnente», sentenziò, «d’una persona che non conosco. Era la nipote dei Balducci, m’hanno detto».

La scelta del verbo «sentenziare» conferisce non casualmente alle parole della vittima la forma di una sentenza ammonitrice contro l’eccessiva sicurezza di giudizio. È l'elogio del dubbio, dei dati di fatto e delle verifiche. La dissoluzione delle accuse ingiuste trova il suo coronamento nel quinto capitolo, quando l’innocenza ormai riconosciuta del goloso personaggio è sigillata da una metafora culinaria: «e il fermo del commendatore Angeloni... manco quello nun approdava a nulla, dato ch’er commendatore, pover’omo, c'entrava come li

cavoli a merenna» (P 128). L'uscita di scena del commendatore, una volta scagionato dalle accuse, si svolge nel sesto capitolo in un’atmosfera densa di comicità. Le uniche colpe che possono essergli addebitate sono quelle di mangiare e di dormire. E allora viene immaginato «a letto, e col naso più goccioloso che mai, berretto a calza tirato giù fin sul collo e sugli occhi: impolpato dentro il letto de la nonna sotto pingue strapunto e su polputa ma deserta coltrice, la più adatta, e la più ambita da un polpettone di quel calibro» (P 140). Il poliptoto di polpette e il declassamento della «deserta coltrice» di memoria napoleonico-manzoniana a tessera di goffa quotidianità provocano effetti di impagabile comicità. E l’addio del romanzo al suo tragicomico personaggio.

4.3.2. Colpevoli su misura

L’inquisizione che colpisce il commendatore e lo spedisce «più morto che vivo» «a soffiarsi il naso a la Lungara» (P 82) assume 187

connotati inequivocabilmente fascisti. La «tripotente camorra», l'associazione cioè dei poteri legislativo, esecutivo, giudiziario sotto il controllo unico del regime fascista, impone «quel carattere duramente ingiuntivo o addirittura imperatorio che solo si addiceva agli “homines consulares”, agli “homines praetorii” del neo-impero in cottura» (P 81) e determina di conseguenza l’arresto dell’innocente per ovviare all’«ingiustificata lentezza delle indagini» (P 82).

L’affinità fonica tra i cognomi Angeloni e Girolimoni si svela non casuale nel quarto capitolo, quando si dà spazio al caso Girolimoni, grave episodio di ingiustizia realmente accaduto in epoca fascista e proprio nel 1927. La redazione del Pasticciaccio pubblicata in «Letteratura» nel 1946 lasciava immutato rispetto alla realtà storica il cognome Girolimoni. Il cognome Angeloni, presente nell’edizione in volume, risulta dalla fusione del nome del-

l’allora questore di Roma, Ermanno Angelucci, responsabile dell’arresto dell’innocente, e di quello dell’incriminato Gino Girolimoni: il cognome del responsabile fatto rimare con il cognome della vittima: Angelucci+Girolimoni=Angeloni. Con la stessa procedura onomastica il nome di Zamira Pàcori ricorda la presenza della divisione Pecori ad Ain-Zara (cfr. 4.2.9). Tanto la vicenda Angeloni quanto l'episodio Valdarena sono legati a doppio filo con il caso Girolimoni. Se il cognome Angeloni sintetizza i cognomi Angelucci e Girolimoni, rispettivamente inquisitore e vittima nello stesso contesto giudiziario reale, i sospetti che sembrano, almeno per un momento, compromettere il secondo sorgono in perfetta analogia con il caso Girolimoni: P92

«Dimme, dimme: su, su, cocca mia, ch’er dottor Ingarballo te

regala una pupazza, de quelle che movono l’occhi, cor zinale rosa co li fiorellini celesti. Mo vedrai. Dillo a mamma tua in un’orecchia.» Lei allora chinò il capo e fece: «Sì». Giuliano impallidì. «E che faceva er signorino? E che t'ha detto?» Lei ruppe in pianto, strillava disperatamente fra le lacrime: « nnamo ‘ia, nnamo ’ia»: dopo di che la mamma le soffiò il naso: addio! non si poté cavarne più nulla. Mammuccia, «ve dico!», sosteneva che fosse una bambina straordinariamente

sveglia, per l’anni sua: «se sa... che co li pupi bisogna sapecce fa». A Ingravallo sembrò invece un’idiota, in tutto degna di sua madre. 188

L'analogia è scatenata dal fatto che Gino Girolimoni deve tutte le sue sofferenze, in una prospettiva eziologica che si limiti al piano esterno dei fatti, alla testimonianza di una servetta tredicenne. L'opposizione inconciliabile tra il modo di procedere del commissario Ingravallo, che liquida la faccenda con un doppio giudizio di idiozia, e quello imposto nel 1927 dal «Testa di Morto» salva però il Valdarena. La rilevanza di cui gode il caso Pirroficoni, in rima con Angeloni nella letteratura e con Girolimoni nella storia, all’interno del quarto capitolo del Pasticciaccio e l'incidenza di teoremi dell'ingiustizia diversi ma correlati sulle strutture narrative delle opere gaddiane dalla Passeggiata autunnale in poi costituiscono già delle ragioni sufficienti per la scelta del 1927 come anno di ambientazione del romanzo. L'impronta decisamente antifascista che lo stile dell’innocenza assume nel corso della narrazione viene a formare il versante complementare delle procedure che sanciscono la colpevolezza del fascismo a tutti i livelli in forme metaforiche, allegoriche o comunque allusive (cfr. in particolare 4.2.1 e 4.2.10).

Il comportamento del commissario interferisce sia con l’ottica dell’inquisitore, che deriva dal suo ruolo di funzionario del regime fascista, sia con l’ottica del narratore-giudice, di cui è investito per

rifrazione autobiografica. Come rappresentante dell’«autorità inquirente, perseguente, ammanettante» (P 157), Ingravallo inter-

roga direttamente l’indiziato nel quarto capitolo. Lo sguardo dell’inquisitore scarica pregiudizi negativi sul cugino della vittima attraverso una triplice simmetria: «Don Ciccio lo affisò duramente» (P 62); «Don Ciccio lo scrutava, duro» (P 62); «Don Ciccio lo

affisò, caninamente» (P 63). La difesa è però convincente sul piano stilistico, perché raccoglie a più riprese l'adesione emotiva del narratore: P 60

«Be, com’ che vi trovate qui?»

«Dottore», fece il Valdarena con voce seria, pacata, e tuttavia im-

plorante, dando per ovvia l’interrogazione, guardandolo negli occhi. «Ero venuto a salutare mia cugina: la povera Liliana... voleva assolutamente vedermi, prima che partissi. Parto dopodomani per Genova. Mi sembrava d’averlo pure accennato, che mi stabilisco a Genova; quan-

do c'era lei, quella domenica, a pranzo. Ho già disdetto la camera.» 189

P 62 «Stu sangue?» fece Ingravallo storcendo la bocca nel ribrezzo, senza tuttavia lasciare quella mano, che stringeva per le punte de le dita. Giuliano Valdarena impallidì: «Signor commissario, me creda! glie lo confesso: ho toccato il viso alla povera Liliana. Mi sono chinato su di lei: poi ho messo un ginocchio a terra. Ho voluto farle come una carezza, era fredda!... sì, dirle addio! Non ho potuto tratte-

nermi. Volevo scenderle giù quella gonna, povera cugina mia! in che stato! Ma non ho più avuto il coraggio... de toccalla una seconda volta. Era fredda. No, no. E poi...». P 62-3. «Mi pareva di abbandonare i miei, er sangue mio. Volevo congedarmi, volevo salutalla povera, povera Liliana! Povera... Disperata e splendida, era!» Gli altri tacevano. Don Ciccio lo scrutava, duro. «Una carezza, Gesù mio! Un bacio nun me sentivo la forza: era

fredda! Poi sono andato via: sono scappato, quasi. Ho avuto paura de la morte, creda. Ho chiamato gente. L’uscio era aperto, come ne fossero vaporati fora degli spettri. Liliana! Lilianuccia!»

Il saluto alla cugina si trasforma in una carezza d’addio, bloccata dalla commozione, all’assassinata. Le risposte dell’indiziato sono tutte allineate sul registro stilistico dell'innocenza e contemplano una limpida catena di gesti e di fatti senza tradire la minima incertezza. Non la sicurezza del ragionatore freddo, che potrebbe prefigurare l'identikit dell’assassino classico, ma il binomio, tanto più difficile da dissimulare, di spontaneità e com-

mozione. Il giudizio mentale del commissario inclina però verso la colpevolezza, perché «no, non ci vedeva chiaro» e «la storia di quella carezza gli sapeva d’invenzione» (P 75). Il commissario persevera nella sua parte di inquisitore e giunge, nell’interrogatorio del quarto capitolo, sino a contestare duramente le affermazioni dell’interrogato e ad accusarlo direttamente di omicidio, senza prove ma soprattutto senza alcun legame con l’oggetto di discussione: P 117 «Ah, in sela da pranzo? Vicino a ’o buffè? Propio dove le avete tagliato la gola?» La faccia d’Ingravallo, ormai, era bianca: furente. I due occhi erano quelli d’un nemico. «Tagliato la gola? Ma si sta parlando di due mesi fa, signor commissario: ancora a gennaio, il venticinque di gennaio, comele ho detto [...]». 190

L'interrogato riconduce il discorso sui binari regolari dell’esposizione e dell’argomentazione, risultando convincente a livello logico. Gli stilemi affettivi, fra cui il binomio aggettivo-sostantivo in funzione vocativo-appositiva, che avvolgono l’assassinata nelle parole del cugino e lo stilema del rifiuto, consistente in una catena di negazioni scandita emotivamente e sintomo inequivocabile nel Pasticciaccio di un’eccezionale buona fede almeno sul piano della convinzione personale, completano il quadro dell’innocenza: P 111 la “sua” creatura, il pupo... atteso poi invano per tanto tempo, nel pianto. Piangeva, pregava. Quando cominciò a capire che gli anni non li teneva più nessuno, addio! Povera Liliana! P 112

«Lo amava tuttora, lo stimava, povera Lilianuccia!»: la voce

esitò, poi si disincagliò: «Per nulla al mondo, religione a parte, avrebbe potuto pensare di tradirlo. Ma il vedersi passare gli anni a quel modo, gli anni belli, senza nemmeno la speranza... d’un frutto dell’a-

more... era, pe lei, era come una delusione torturante. [...] La più amara di tutte le delusioni della vita. Così, per lei, il mondo non fu altro che noia: non fu altro che un gran piangere. Un pianto che non le dava nessun conforto. Noia, noia, noia. Un pantano de noia. Da diventà matti [...]».

P 113-4 Era impazzita, povera Liliana, una donna così a posto come lei! povera Lilianuccia nostra! P 115

Poi me diceva, Lilianuccia, povera Liliana!... me diceva: m'hai

detto che devi annà a Genova. Prima di sposare hai da mette casa: al lido d’Albaro? Co li genovesi poco ce se scherza, ce lo so. P 116 «C'era perfino da ridere, povera Liliana! [...]» [...]. «Dottore, mi dia retta,» implorò Giuliano: «forse era pazza. Non per volere offendere una morta, una povera morta. Morta a quel modo! Mi ascolti, dottore. Io, pe lei, io... l’avevo capito. Io...».

P 119

«No, no!» fece l’incriminato, con voce d’implorazione.

«Fu lei, poverina, lei: io non ci pensavo davvero, a nascondere: fu lei che mi disse: bada, Giuliano, deve rimaner tra noi: un nostro in-

nocente segreto: er segreto de li cugini... come nei romanzi! Il segre191

to della bellezza, non siamo belli, noi due? della felicità sperata e non avuta [...]».

La voce dell’assassinata, irrompendo sulla pagina in proporzioni uniche rispetto al resto del romanzo, assolve la funzione di difendere il cugino dall’accusa di omicidio. Non ci potrebbe essere migliore avvocato difensore. E il Valdarena, a sua volta, svol-

ge una funzione testimoniale, delegatagli dal narratore, nei confronti della vittima, contribuendo a illuminarne la situazione psicologica. Liliana Balducci, poi, è a tal punto in sintonia con la prospettiva giudiziaria che tiene i fili del romanzo, da legiferare in tema di giustizia nel mondo. Quando afferma, attraverso la testimonianza del cugino, che «il Signore è fatto a sta maniera [...]: a chi tutto, a chi gnente!», il narratore le fa immediatamente eco con «Ed è in ciò, appunto, che si manifesta la sua misteriosa perfezione» (P 114). L'intervento di conferma cade dall’alto in modo del tutto eccezionale, non è filtrato dal discorso indiretto li-

bero del commissario Ingravallo, perché lo scatto sarcastico verte sul problema della giustizia che è al centro della riflessione intellettuale e della partecipazione emotiva dello scrittore. Un intervento per direttissima dettato dall’urgenza espressiva del tema etico.

L’indiziato gode quindi di una fiducia, da parte del narratore-giudice, inammissibile in caso di colpevolezza. Ma resta da convincere la voce di dissenso del narratore, la voce della soffe-

renza, il commissario Ingravallo, il cui «testone di pece» «pareva irradiare tenebrosi preconcetti: e che il chiarore procedurale della stanza, appena spuntati i preconcetti, li sforzasse ad arricciolarsi a quel modo, a permanere, come un lucido e carbonioso vello, sul cranio» (P 113). Conta anche il suo parere. Il dolore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce. Ed ecco allora, per vincere l’estrema resistenza, comparire un testimone inaspettato, insospettabile. La voce di dolore più alta e disperata della letteratura italiana soccorre Valdarena. Giacomo Leopardi gli è accanto per dare espressione alla sofferenza dell’assassinata, assassinata dal dolore. Per la testimonianza del-

la sofferenza non si sarebbe potuto immaginare testimone più credibile. A se stesso, epitaffio leopardiano per tutte le speranze, 192

canto di assoluta rinuncia all’amore con l’eco del carme VIII di Catullo («Et quod vides perisse perditum ducas»: e quello che vedi perduto consideralo veramente perduto) diventa la dichiarazione di rinuncia alla vita per Liliana Balducci. Nel mondo gaddiano, dove la forza dell’immaginazione, in sinergia con la sensibilità, è in grado di lacerare il tessuto della realtà, l’abdicazione alle speranze si traduce in abbandono effettivo della vita, la morte potenziale si fa morte reale. Se Leopardi, con una sintassi nominale che sta a metà tra il verdetto senza appello e l’epigrafe senza speranza, scrive «Amaro e noia / la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo» (vv. 9-10),

in Gadda tornano amplificati tutti i termini leopardiani con il tema della delusione d’amore (per la protagonista del Pasticciaccio il bambino mancato): l'amarezza della delusione (riaffiora l’aggettivo «amara» che in A se stesso era sostantivato come «amaro»), l'insistenza ossessiva sulla «noia» e il ribadimento dell’e-

sclusione di altre possibilità («non fu altro che noia: non fu altro che un gran piangere» moltiplica «altro mai nulla») sfociano in un «pantano di noia», che sintetizza la noia della vita e il fango del mondo di A se stesso con energia leopardiana, del Leopardi eroico (si pensi all’ozio che circonda i monumenti 0, con ben più calzante corrispondenza, alla «nebbia di tedio»). Complice anche l'impatto della testimonianza leopardiana, l’ottica del commissario tende progressivamente a coincidere con l’ottica globale del narratore-giudice, confermando l’innocenza dell’indiziato pur tra drammatiche oscillazioni. Ingravallo «capiva, poco a poco, d’essere strascinato a credere quello che avrebbe creduto incredibile» (P 116) e «le affermazioni del Valdarena avevano il timbro e il calore inoppugnabile della verità» (P 117). La parte finale del quarto capitolo contiene il processo mentale istruito per l’incriminato da parte del commissario Ingravallo in veste di giudice: le oscillazioni fra innocenza e colpevolezza si ripetono con cadenza sofferta e ossessiva. In un primo tempo tutto lascia pensare che prevalga un verdetto di innocenza: P 1119-20 Don Ciccio sudò freddo. Tutta la storia, teoricamente, gli puzzava di favola. Ma la voce del giovane, quegli accenti, quel gesto,

erano la voce della verità. Il mondo delle cosiddette verità, filosotò, non è che un contesto di favole: di brutti sogni. Talché soltanto la fu-

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mea dei sogni e delle favole può aver nome verità. Ed è, su delle povere foglie, la carezza di luce.

Col suo sdentato ghigno, e con quel fiato da pozzo nero che lo distingue, il senso comune si sbeffava già del racconto, voleva ridergli una maialata sulla faccia, a don Ciccio, scaracchiargli il no rotondo dei furbi sul suo parruccone di questurino non ancora cavaliere. Ma non si può impedire il pensiero: arriva prima lui.

La conclusione del capitolo è sfavorevole al Valdarena, perché torna a prevalere la tesi della colpevolezza e il racconto dell’indiziato è qualificato come finzione in un giro lessicale che include «fandonia», «stupidaggini» e «commedia» (P 120). E l’apertura del capitolo successivo che s’incarica di scagionare l’incriminato sulla base delle deposizioni di vari testimoni. Come le vicende giudiziarie dell’Angeloni e del Valdarena sono legate, per contiguità di spazi narrativi, analogia di situazioni, allusioni varie, al caso reale dell’innocente Girolimoni, così i due personaggi escono contemporaneamente dalla scena giudiziaria

del romanzo: «E poi e poi: er fermo del Valdarena, a giudicà da come se presentaveno le cose, nun reggeva pe gnente: e il fermo del commendatore Angeloni... manco quello nun approdava a nulla, dato ch’er commendatore, pover’omo, c'entrava come li cavoli a merenna» (P 128). Il marito della vittima, Remo Balducci, entrato nel numero dei

sospettati, viene scagionato sulla base di una sincerità che raccoglie l’adesione del narratore-giudice e che viene evidenziata attraverso lo stile. La sua apparizione nel romanzo, nella parte iniziale del quarto capitolo, parla chiaro: P 87 Quando poco a poco je lo fecero capì, a zi’ Remo, quello ch’era successo, lui poveromo pe prima cosa posò a terra la valigia: quell’artre più pesanti l’aveva prese er facchino. La notizia non parve scoterlo più che tanto. Forse il sonno, la stanchezza di quelle notti di treno. Pareva proprio che stasse co la capoccia per aria, da nun sentì

nemmanco quello che je diceveno.

Un processo immaginario è intentato al Balducci dai parenti della moglie con l'accusa di avere trascurato il matrimonio per il lavoro e per la caccia. L'incompatibilità affettiva che Ingravallo 194

aveva intuito fra marito e moglie nel primo capitolo, ascrivendola a carico dell’insensibilità e della grossolanità del primo, trova così degli accusatori delegati, sia pure in un orizzonte ben più materiale e limitato: P 90

Renda, sicché, renda il mal tolto, sto babbione de cacciatore,

de viaggiatore in tessuti. Quale uso ha fatto de la bellezza? O quale spreco? di tanto gentile bellezza? e de li paoli? de li paoletti, belli pure loro? Indove l’ha mannati a sbatte, li paoli? E queli marenghi cor galantomo brutto? Queli marenghini gialli gialli tonni tonni de quanno nun c’era ancora sto Pupazzo a Palazzo Chiggi, a strillà dar balcone come uno stracciarolo? Ce n’aveva quarantaquattro, Lilianuccia,

quarantaquattro contati: che faceveno cin cin dentro a un sacchetto de seta rosa, de li confetti der matrimonio de nonna. Che pesaveno più loro che du rognoni a Natale. «E mo indove so’ annati?» pensaveno. «Che ce lo sa, er cacciatore?» Manet sub Jove frigido.

La frase latina «Manet sub Jove frigido» (rimane sotto un cielo freddo) si stacca dal registro linguistico piegato verso il romanesco dei parenti della vittima per riflettere in pieno il giudiziolampo del narratore. La citazione oraziana è tratta dal v. 25 della prima ode del primo libro e porta con sé, come retaggio allusivo, la memoria del contesto da cui è prelevata. Sono anzi più rilevanti, agli effetti dell’interpretazione del passo del Pasticciaccio, i versi contigui rispetto a quello parzialmente citato: I, 1, 23-8

Multos castra iuvant et lituo tubae Permixtus sonitus bellaque matribus Detestata. Manet sub Jove frigido Venator tenerae coniugis immemor

[A molti piacciono la vita militare, il suono delle trombe e le guerre maledette dalle madri. Il cacciatore se ne sta sotto un cielo freddo e si dimentica della sposa affettuosa]

Le odi oraziane fanno parte della memoria permanente di Gadda, come conferma, fra l’altro, il gustoso episodio di uno

scontro con il latinista Ugo Enrico Paoli riportato da Giulio Cattaneo in I/ gran lombardo (Einaudi, Torino 1991?), vivace bio-

grafia degli anni romani dello scrittore: 195

71 aveva scritto per il «Radiocorriere» un articolo di presentazione del ciclo provocando la reazione indispettita di un traduttore di poeti latini: «Gadda che scrive su Orazio! È grave, sai. È un segno dei tempi». Aggiungeva che lui aveva tutto Orazio in un cassetto, in una versione poetica. A Gadda furono riportate queste parole: contrariamente al previsto, si arrabbiò moltissimo e subito corse alla ricerca del traduttore per corridoi e stanze, poi si piazzò sulle scale e appena lo vide lo investì: «Io sarei un segno dei tempi? Per sua regola, io Orazio lo so a mente». L’altro era un po’ interdetto ma cercava di difendersi e di sostenere la legittimità della sua opinione di traduttore che aveva Orazio nel cassetto. Ma Gadda non demordeva: «Potremmo cimentarci in una gara, io e Lei, per vedere chi sa più versi di Orazio a memoria».

Di duelli con le armi della memoria letteraria sono ricche le opere di Gadda. E nel caso della citazione oraziana del Pasticciaccio sono i segmenti immediatamente contigui rispetto a quello citato a tradursi, nell'ottica giudicante del narratore, in due

gravi accuse per il personaggio indiziato, quella di avere colpevolmente evitato «“le guerre maledette dalle madri”, che vi perdono i loro figli» (La Penna 1969: 120) e quella di essere stato «tenerae coniugis immemor», di non essersi ricordato della moglie con le cure e con l’affetto. Il rapido accenno all’imboscamento del marito della vittima durante la prima guerra mondiale, che affiora durante uno degli interrogatorî, conferma la prima accusa: «La guerra! Tutte le preoccupazioni pe l’esonero! Tutte le carte! Un affare! Pure, ce l’aveva spuntata. Esonero no,

ma insomma. Un cinturone de cuoio, un pistolone: “da fa paura a guardamme”: scosse il capo» (P 97). Le due accuse sono correlate, perché il cacciatore, come non

ha difeso la patria quando occorreva, così si è imboscato anche durante l’assassinio della moglie. Contro il responsabile agisce una forma di contrappasso analogico, dettata dal destino, che moltiplica indefinitamente la colpa. La voce di Remo Balducci resta però la voce della verità e il narratore ne evidenzia il rimorso attraverso un’al'usione indiretta di pretto stile gaddiano: P 95 Il vedovo abbozzò una nota dei titoli di credito, così un po’ a memoria: tanto i suoi che quelli de Liliana: per facilitare la dimostrazione, disse, che lui doveveno mettelo fora d’ogni dubbio, fosse pu196

re un'ombra d’un minuto. «Io? Lilianuccia mia? Ma che? Stamo a fa li scherzi?» Le labbra gli presero a tremolare, scoppiò in singhiozzi, di cui sussultò la cravatta. Rasciugato quel pianto, si rimise a recuperare di memoria: s’aiutò con un taccuino de pelle, pelle de coccodrillo: de quelli propio da signori: che aveva portato con sé.

E tutt'altro che casuale la vicinanza del «pianto» al «taccuino de pelle, pelle de coccodrillo», proprio il taccuino che serve al cacciatore, colpevole di essere stato «coniugis immemor», per recuperare la memoria. Le sue sono lacrime di coccodrillo, anche se il pentimento appare sincero. Non per nulla, in un successivo

interrogatorio, il Balducci è annoverato fra «certe anime in pena, o un po’ ripentite magari de’ trascorsi loro» (P 124). Nella quarta puntata della redazione in rivista, coincidente con il capitolo escluso dal Pasticciaccio in volume, la viltà dell’imboscato affiorava con forte evidenza attraverso un paragone manzoniano, visto che «il Balducci, al pari di don Abbondio, non

vide strada di salvezza: né di qua, né di là» (L 420), mentre i rimorsi emergevano più concreti ed espliciti in relazione all’indiavolata nipote adottiva: «No, non comprendeva, il Balducci: e tuttavia... uno sgomento crescente. Operosa legione, i rimorsi in

blocco gli pullulavan fuori da ogni borro dell’anima, gli rotolavano sull’anima i loro ciottolacci. Tetri, neri cùmuli, dal fosco orizzonte, in tutto il cielo del Cacco» (L 421-2).

Nella redazione in rivista del Pasticciaccio il personaggio si salvava dalle accuse, nell’ottica del narratore-giudice, con l'attacco al ritratto di Mussolini: «“Fateme vede’ st’articolo!... In dov'è che sta scritto?... È na legge nova de quello lì?...”, e arzò il dito al Merda. “Io, pe’ mme, nun l’ho letta ancora in nissuna parte...”» (L 434).

Tornando al Pasticciaccio in volume, la prova risolutiva dell'innocenza, tanto del cugino quanto del marito della vittima, consiste nella coincidenza delle loro testimonianze con i risultati della conoscenza del cuore del commissario Ingravallo, definito nel romanzo «misero e pertinace indagatore dei fatti o delle anime, secondo la legge» (P 65-6) e autore di un’indagine squisitamente conoscitiva sulla futura vittima nel primo capitolo: P 21

La signora Liliana, di quando in quando, si sarebbe creduto

sospirasse. Ingravallo notò che due o tre volte, a mezza voce, aveva

197

detto mah! Chi dice ma, cuore contento non ha. Una strana mestizia

pareva soffonderle il viso, nei momenti in cui non parlava o non guardava ai commensali. Una idea, una preoccupazione la teneva? celandosi dietro alla cortina dei sorrisi, o delle attenzioni gentili? e dei discorsi non già voluti o studiati, ma pur sempre molto garbati, di cui amava inghirlandare il suo ospite? Il dottor Ingravallo, a quei sospiri, a quel modo di porgere, a quegli sguardi che talora divagavano tristi, e parevano tentare uno spazio o un tempo irreali da lei sola presagiti, si sarebbe detto, a poco a poco aveva preso a farci caso: ne aveva dedotto altrettanti indizi, non forse di una disposizione originaria ma di una condizione attuale dell'animo, di uno scoramento crescente.

Durante l’interrogatorio al Balducci registrato nel quinto capitolo, il commissario assolve mentalmente i due indiziati, certi-

ficandone le testimonianze e considerandole per di più illuminanti: P 126 Don Ciccio, tutta quela storia, gli pareva d’avella saputa già da un pezzo. Le impressioni e i ricordi che il marito e il cugino di Liliana andavano estraendo, in una specie di tormentoso recupero, dal di lei tempo così atrocemente dissolto, gli confermavano ciò ch’egli aveva intuito per proprio conto, sebbene in modo vago, incerto. 4.3.3. Inquisizione e fascismo

Con lo scagionamento degli indiziati che si danno il turno di vittime dell’apparato giudiziario sino al quinto capitolo, si crea lo spazio sufficiente per l'ingresso, nel sesto capitolo, di un nuovo personaggio accusato ingiustamente. E Ines Cionini e il suo no-

me, comparso per la prima volta in significativa contiguità con il fermo dei tre poveracci alla fine del primo capitolo (P 53), è straziato in «Ines... Ciampini» dall’inquisitore: P 144

Fumi ricordò allora che una ragazza, chella Ines, Ines... — e

andava cercando con la mano int’ ’a pratica de le belle donne, che teneva sul tavolo quasi memorante olezzo di bei fiori in un vaso — Ines... Ciampini, sì, da Torraccio, o Torracchio, sull’Appia, la fermata dopo

le Frattocchie, era stata fermata alcune sere innanzi da un pattuglione del commissariato San Giovanni: la sera primma d’ ’o delitto: fermata per vagabondaggio, mancanza di documenti; e su fondato so198

spetto di esercitare attività meretricia in luogo pubblico (Santo Stefano Rotondo!), attività cui non era abilitata da patente: (semplice dilettante, dunque). Aveva oltraggiato gli agenti d’ ’a forza pubblica titolando l’un di loro «sor cafone mio». Era incorsa, «ammettiamo

pure con prestazioni sporadiche e in forma, quella sera, del tutto occasionale», era stata sorpresa in contravvenzione flagrante del dispositivo Federzoni circa il risanamento dei marciapiedi in regime stiva-

lista, «a’ sensi ’e chella circolare speci-ale d’ ’o ministero de l’interni, d’ ’o quattordici febbraio, vuje ’o sapite, Ingravallo, numero setteciento diciotto, aiutateme nu poco, Ingravallo, c’ ’a memoria vuosta! — relativa a la moralizzazione dell’urbe». Ingravallo non aprì bocca.

Il silenzio del commissario Ingravallo, che si contrappone, carico com'è di rabbia e di condanna per il «regime stivalista», all’eloquenza fluviale del dottor Fumi, riconosce all’inquisita lo statuto di vittima dell'apparato repressivo fascista. L’oltraggio inferto agli agenti di polizia si riduce a un comicissimo «sor cafone mio». Il crimine commesso dalla giovane è quello di un «furto d’un par de scarpe scompagnate [...] e d’un pollo pure» (P 144). A rincarare la dose di sarcasmo contro la magistratura fascista, accuse così insignificanti si dissolvono in sospetti ancora più labili, perché «la moje der pollarolo, ch'era quella che strillava più de tutti, “in un primo tempo” aveva creduto ravvisare nella Ines, Cionini Ines da Torraccio, propio la regazza bionna ch’ella pensava le avesse fregato il pennuto, o pe mejo dì lo spennato. “In un siconno tempo” sembrò però titubare» (P 145). L’ottica giudicante del narratore delega la funzione di commentare in modo dissacrante l’esito dell’inquisizione proprio al pollo morto, che fra l’altro non spreca nemmeno un eccessivo commento: «Il pollo puzzava maledettamente: tradotto in questura pure lui, con le due scarpe tutt’e due sinistre, una vorta a Santo Stefano del Cacco se vede che j’aveva preso paura, forse, e aveva fatto la cacca, benché morto, sur tavoluccio de Paolillo:

poca roba, in verità» (P 145). Sul tavolo degli inquisitori, dopo essere stato «tradotto in questura» con ufficialità se non altro linguistica, finisce persino il pollo in decomposizione che sarebbe stato rubato. L'omaggio postumo della povera bestia al clima escrementizio di Santo Stefano del Cacco rischia di tradursi in capo d’imputazione, come 199

indica l’attenuante «poca roba, in verità» (e sembra voce di testimonianza). Lo stile dell’innocenza si riversa pienamente sull’inquisita in chiara polemica con l’inquisizione e l’accusata si rivela doppiamente vittima. Vittima del mondo ingiusto e dell’ingiusta giustizia del mondo. Un’ingiustizia al quadrato, insomma. Ines Cionini cade come una figura di luce e di sofferenza sopra lo squallore dell’inquisizione: P 147 I suoi occhi-gemme, di pupa, enunciarono a tutti quei maschi di poca cena il nome d’una felicità tuttavia possibile; d’una gioia, d’una speranza, d’una verità superordinata alle cartoffie, ai muri squallidi, alle mosche secche del soffitto, al ritratto del Merda. Dello Smar-

giasso impestato. Forse, povera creatura, l’aggettivo che tanto si convenne al defecato maltonico doveva declinarsi per lei? No, non pareva malata: se non di fame, di bellezza, di pubertà, di sporcizia, di sfron-

tataggine, di abbandono. Forse di sonno, di stanchezza. Il suo paino l’aveva indotta al furto, dopoché a compiacersi di lui: perché i leni susurri al cader della notte s'erano conchiusi in un «arrangiati». La sua maestra le aveva schiarito le idee, o le aveva porto l’occasione di schiarirsele. L'amore, dopo averla insudiciata, l’aveva regalata alla ventura della fame. Tutti, ora, speravano di trovare in lei la desideratissima spia di cui avevano bisogno. Lei lo capiva, lo sapeva: del resto, bah, chi se ne frega? il male che i giorni azzurri le avevano rovesciato addosso era tanto, che bisognava ricambiarglielo, ai protettori.

L'innocenza viene coronata dalla contrapposizione della positività del personaggio a una gradazione ascendente di entità negative culminante sul «ritratto del Merda». L'aggettivo attorno al quale si snoda l’opposizione fra Ines Cionini e il duce, l’«aggettivo che tanto si convenne al defecato maltonico», è proprio «impestato». Maltonico, in quanto Mussolini è figlio di Rosa Maltoni. L'aggettivo «impestato» è oggetto di variante tra la redazione in rivista e l'edizione in volume in un passaggio del secondo capitolo, quando «Le opinioni del mascelluto impestato valicavano l'oceano» (L 325) si trasforma in «Le opinioni del mascelluto valicavano l'oceano» (P 56), quasi a eliminare una ridondanza, un carattere immanente sempre e comunque al personaggio. Il fascismo è del resto condannato come peste già nel Prizzo li200

bro delle favole, e la stessa condanna, attraverso un messaggio al-

lusivo alla rappresentazione della peste dei Prozzessi sposi, tocca nel quinto zratto della Cognizione ai generali della prima guerra mondiale, equiparati ai monatti in termini di memoria letteraria. I tormenti dell’inquisizione traducono quasi l’azione di strumenti di tortura. Nell’ottica dell’interrogata, dietro gli inquisitori «c’era la giustizzia! No strazzio, la giustizzia. Mejo piuttosto la fame; e annà pe strada, e sentisse pioviccicà ne li capelli; mejo addormisse a na panchina de lungotevere, a Prati» (P 170). Allo sguardo quasi ricattante degli inquirenti (P 170), Ines Cionini può opporre soltanto «la difesa del braccio e del gomito» (P 171), che è quasi la difesa da un’aggressione fisica. E la figura del commissario capo dottor Fumi, nel dare gli ordini ai suoi sottoposti, si manifesta come l’inquisizione fatta persona in un elenco di atti e di gesti che comprende «sopraccigli e cigli revulsi inesorabilmente a le stelle: tonalità inappellabile: palmo in avanti a respingente, a respingere ogni obiezione lecita o illecita: diti irrag-

giati ad ostensorio» (P 172). La meditazione del commissario Ingravallo evidenzia per Ines Cionini lo statuto di doppia vittima. La «starna» è oggetto di una caccia implacabile nel mondo e il cacciatore si moltiplica in «suasore», «iniziatore», «battitore», per scendere addirittura nel mon-

do animale, entro un sistema metaforico complementare a quello della preda, come «pointer» e «spinone». Il ritmo asfissiante del periodo rende l’incalzare della caccia: P 177-8. «Ah», rimuginò, «Diomede doveva dunque agire da suasore, da iniziatore: per i sacri riti dell’émpete pémpete: da battitore: da pointer, a puntar le quaglie e le starne, sul colle: da spinone giovane, a snidare le gallinelle del padule.» Così almeno la intesero quanti eran là, nel camerone dove si vedeva il fiato sotto le pere della luce, stretti a cerchio attorno al batticuore d’una starna, tra birri grossi e famigli: il dottor Fumi, l’Ingravallo, il maresciallo Di Pietrantonio, Pompeo, e Paolillo, detto anche Paolino..., il brigadiere Pestalozzi, «o mo-

tociclista».

L'immagine dell’assedio suggella l’innocenza della giovane con la memoria tragica dell’assedio della Signora nella Cognizione, all’interno del primo dei due tratti pubblicati solo nel 1970 201

ma scritti trent'anni prima, quando Elisabetta Frangois è circondata, come per una congiura, da polli e famigli: C 411 Vi vide la mamma, con gli occhi arrossati dalle lacrime, tener crocchio: all’impiedi: e intorno, come una congiura che tenga finalmente la sua vittima, Peppa, Beppina, Poronga, polli, peone, la vecchia emiplegica del venerdì, la moglie nana e ingobbita dell’affossa-

morti, nera come una blatta, e il gatto, e la gatta tirati dal fiuto del

pesce.

La parola «famigli» si giustifica anzi solo nella sfera memoriale della Cognizione, dove ha cittadinanza lessicale e pertinenza semantica (ad esempio, per il peone: «E il famiglio, ecco, davanti ai gatti, le andava per casa», C 275). Quand’anche si trattasse di un «oggetto di memoria involontaria», secondo la definizione continiana, resterebbe comunque riverberata un’ineludibile luce di innocenza e di sofferenza. Il cerchio della congiura che si stringe attorno all’interrogata è una figura di ingiustizia e di tradimento, visto che l’apparato giudiziario dovrebbe difendere, non torturare le vittime dell’ingiustizia del mondo. L'elenco di «birri grossi e famigli» evoca in tutta la sua violenza l’assedio della magistratura che moltiplica l’ingiustizia del mondo con le torture dell'apparato giudiziario, mentre l’immagine della congiura, «stretti a cerchio attorno al batticuore d’una starna», concomita con la riduzione dell’innocenza a pura angoscia, percepita nell’essenzialità di un «batticuore». Già prima gli inquisitori, «dopo averla azzannata in quattro, come quattro cani una cerva, stirandola e sospingendola di qua e di là nel tormento delle facili e nondimeno rinnovate obiezioni, pervennero da ultimo a cavarle dai labbri la bugia racchetante, la bugia plausibile: quella che, contrastando o risolvendo tutte le precedenti,

sembrò alfine la verità» (P 163). L'ottica giudicante del narratore, resa trasparente dalla similitudine, trasforma gli interroganti in cani e l’interrogata in cerva. E sugli inquisitori, che in figura di «segugi» «parevano affondare nel braco», cade poco dopo la memoria dei porci danteschi (If VIII, 50: «che qui staranno come porci in brago») e conseguentemente la condanna.

202

4.3.4. La sospensione del giudizio La quarta puntata del Pasticciaccio comparsa in «Letteratura» non è cancellata dall’edizione in volume solo per evitare lo scioglimento anticipato della suspence, ma soprattutto per l’incompatibilità con lo svolgimento narrativo che sarebbe stato impresso al Pasticciaccio. Il motivo della sospensione della pubblicazione in rivista coincide in fondo con quello dell’esclusione della parte corrispondente alla quarta puntata nell’edizione definitiva.

Il cambiamento di rotta narrativa, abbastanza vistoso nell’edizione in volume, induce a individuare nei contenuti e nelle im-

plicazioni della quarta puntata le maggiori responsabilità dell’interruzione. La mossa narrativa di incriminare senza via d’uscita

Virginia Troddu risulta troppo sbagliata, alla luce degli sviluppi successivi, per non compromettere l’intera partita romanzesca. Non a caso le varianti relative alle altre puntate testimoniano, co-

me si vedrà nel corso del paragrafo, la costruzione di un personaggio molto diverso sotto il nome di Virginia Troddu. Tanto vale abbandonare e ricominciare un’altra partita. In «Letteratura» gli indizi si moltiplicano illimitatamente intorno a una nipote adottiva che si presenta infernale sotto ogni aspetto. Nella sua fisionomia «un lampo nero senza misericordia

che ciaveva negli occhî, de sardignola vindicativa...» (L 404) incide più che un’accusa esplicita di colpevolezza, se si tiene conto della carica negativa delle metafore e delle similitudini inerenti alla sfera semantica della fulmineità in Gadda. Le minacce col coltello (L 404-5) da parte di un personaggio ricco di valenze demoniache (L 405) e l’odio scaricato in forma di coltellate sull’arrosto (L 425) prefigurano l'omicidio. Il dialogo tra il commissario Ingravallo e il dottor Fumi alla fine della puntata non lascia dubbi sulla colpevolezza: L 439 «..La Virginia», fece Ingràvola col testone sul foglio, co la penna in mano, «quegli occhi!...», e ripensò alla cena di San Francesco, alle perdute gentilezze. «...L’ho vveduti una volta sola, quegli occhi!... Ma, se ce penze, ereno d’una sardegnola di sicuro... Non è che in Sardegna ch’hanno quella luce!... Un lampo, ogni sguardo!...» «...Come se specchiassero na lama de cortello...» 203

«...Un lampo cupo...» «...Come si te promettessero ’n quarche cosa de poco buono,... si nun fai come dicheno loro,... che sso pratici...» «..Mo’ cchiamammo ’o maresciallo...», e il dottor Fumi si storse indietro, a cercare il bottone bianco sul muro.

«...Nun potrò mai scordamme finché campo... l’occhiata che mi diede...», soggiunse il Balducci, «...né quell’artra che je furminò a Liliana in dell’uscì... Era pallida: bianca de rabbia che pareva ce volesse ammazzà tutt'e due...»

La colpevole fulmineità del personaggio imprime un segno indelebile e inequivocabile sulla memoria del commissario giudicante. A Ingravallo fa eco Fumi, che legge nei lampi dello sguardo il riflesso di una lama di coltello, integrando le precedenti prefigurazioni dell’omicidio. Nella redazione in volume lo spazio dedicato a Virginia Troddu è ridotto drasticamente alle ultime pagine del quinto capitolo. La patina metaforica fulminea del personaggio è depurata, rispetto alla redazione in rivista, dalle implicazioni con le armi da taglio, mentre la vendicatività è mutata in un’apparente crudeltà, anche se la ferocia continua a trasparire dalla similitudine dello sguardo: P 136 con quel dar di spalle a ogni tratto, superba, e quelo spregio der labbro, come a dì: merda a voi! Sissignori. Dopo mute ore la bizzarra protervia, la crudele risata: con quei denti bianchi a triangolo come d’uno squalo, come dovesse laniare er core a quarcuno. Quegli occhi! da sotto le frange nere delli cigli: che sfiammavano a un tratto in una lucidità nera, sottile, apparentemente crudele: un lampo stretto, che sfuggiva a punta, de traverso, come una bugia delatrice della verità, che non anco proferita vorrebbe già smorire sul labbro.

Dal fosco personaggio da tragedia che era in «Letteratura», Virginia Troddu diventa quasi un personaggio da commedia. Le varianti in questo caso parlano chiaramente, perché sulla redazione in rivista, al posto dell’innocua similitudine «come una bugia delatrice della verità, che non anco proferita vorrebbe già smorire sul labbro», c’era una similitudine perfettamente allineata, nel senso della prefigurazione del delitto, con quelle poi eliminate insieme alla quarta puntata: 204

L 402 con quel dar di spalle a ogni tratto, superba, e quello spregio der labbro, come a dì: merda a voi! Zissignori. Dopo mute ore (d’una belva in agguato), la bizzarra protervia, la crudele risata: con quei denti bianchi a triangolo come d’uno squalo, come dovesse laniare er core a quarcuno. Quegli occhî! da sotto le frange nere delli cigli: che sfiammavano a un tratto in una lucidità nera: sottile, crudele: un lam-

po stretto, che sfuggiva a punta, de traverso, come una repentina lama dalla guaina.

La trasformazione della similitudine «come una repentina lama dalla guaina», troppo compromessa con l’omicidio, concomita con l’eliminazione della parentesi «(d’una belva in agguato)», che evidenziava la colpevolezza con potente effetto amplificante. A fare le veci, in un certo senso, del personaggio di Virginia, in veste però di innocente anziché di colpevole, interviene nel Pasticciaccio un altro personaggio dalla natura fulminea, «l’ Assunta Crocchiapaìni (in realtà Crocchiapani: fu errore di lettura dovuto all’olografo, o forse a una svista del dottor Fumi), vergine albana senza parletico redimita di un alto silenzio, con occhi fulminatori» (P 103), come viene definita durante la lettura del te-

stamento dell’assassinata. Nel settimo capitolo, mentre si svolge l'interrogatorio di Ines Cionini, Assunta Crocchiapani sembra prendere il posto dell’essere infernale e vendicativo che è Virginia Troddu in «Letteratura»: P 162 La Camilla Mattonari, ammise la Ines, le aveva parlato d’un’amica, ch’era stata a Roma a servizio, ma non proprio a servì tutto er giorno. «A mezzo servizzio, vòi dì.»

«Embè, nun lo so si era mezzo: stava da certi signori che j'aveveno fatto la dote, e ora, sicché, doveva sposare.» «Sposare chi?»

«Sposare un signore, un industriale de commercio: de quelli che stanno a Torino a fabbricà le macchine: che j'aveva rigalato du perle. E il giorno de le candele, difatti, le portava a l’orecchia, quele perle. L’aveveno viste tutti.» E l’aveva incontrata lei pure, una sera... du occhi! «Che occhi!»: e Fumi si seccò, fece spallucce. «Mbò, sì, du occhi», ribatté la Ines: «ma diversi. Diversi da come

ce l’avemo tutte. Come fussi una strega, una zingara. Du stelle nere 205

de l'inferno. All’Ave Maria, quanno che annotta, pareva ch’er diavolo se fussi vestito da donna. Quell’occhi te metteveno paura. Ciaveveno come un’idea, dentro, de volesse vendicà de quarcuno.»

L’ipotesi di una sostituzione di personaggi è confermata dal reimpiego per Assunta Crocchiapani di parte del materiale narrativo inerente a Virginia Troddu nella puntata poi esclusa di «Letteratura»: L 431-2

«Ebbene,... che l’avite dato, ancora?...»

«...Dopo l’oricchini?... Subbito dopo zàc zàc zàc... trentamila de spiccioli... Trenta fogli da mille contati sur tavolo... Uno dopo l’altro... P’impidì che se mettesse l’oricchini a l’orecchie:... ma intanto s°era fatta fà li buchi, pe’ nun perde tempo, d’aa smania che ciaveva...» «...Che smania?...» «... Ciaveva quaa fantasia de mettese le perle addosso... che glie l’aveva rigalate un signore! un industriale!... Deve avello ariccontato a la portiera... E jje fece pure vedé: pe’ ffa’ vedé ch'era vero...» «...Difatti», e Ingràvola parve rammentare a Fumi la cosa: «...La Pettacchioni ce l’ha detto, un’ora fa... L'ho messo pure a verbale...»: scartoffiò, ritrovò il foglio: «...Una sera la Troddu, che ppareva in stato d’esaltazione, mi confidò che ur ricco industriale di Ttorino, col

quale aveva stretto rapporti al cinema-teatro Umberto, le aveva donato degli orecchini d’oro con perle... L'indomani, giorno festivo, me le MOStrò...».

In «Letteratura» è Remo Balducci che risponde con i regali ai ricatti di Virginia Troddu, mentre nel Pasticciaccio in volume

la donatrice, con significativo spostamento agli effetti dell’indagine, è proprio la futura vittima. La sostituzione di personaggio è quasi autorizzata dalla redazione in rivista, dato che Assunta Crocchiapani e Virginia Troddu vi compaiono come cugine per parte di madre (L 439). Il processo definitivo ad Assunta Crocchiapani è intentato dal narratore nelle ultime pagine del romanzo, quando gli inquisitori, assimilati con procedura prefigurativa a «un collegio di necrofori, così neri neri nel chiarore aperto del giorno, che andassero a prendere il morto» (P 269), istituiscono un vero e proprio processo a domicilio all'ex domestica in presenza del padre moribondo e ormai in stato di incoscienza, come se l'apparato giu206

diziario svolgesse la funzione di becchino nei confronti delle vittime dell’ingiustizia del mondo. Lo schieramento delle forze di polizia attorno alla casa della miseria e della morte avvolge l’episodio in un’atmosfera grottesca: P 269 Quando Ingravallo sollevò la faccia e Runzato fischiò e poi gridò: «polizzia! dovemo entrà. Venite a uprò», la casa, la prima e più piccola, aveva un agente pe cantone. Ragazzi, polli, du donne, du cagnoletti bastardi cor codino arrotolato in alto, a pastorale, che je scopriva tutta la bellezza: non finivano più di guardare, d’abbaiare. Occhi lucidi, neri: stupiti su la meraviglia dei volti, e la povertà pressoché cenciosa delle vesti. «Chi ce sta?» chiese prudentemente Di Pietrantonio: «quanti so’? Ce so” ommini?» «Ce sta una donna, cor padre», fece la più prossima delle contadine, che s’erano accostate quasi a recuperare i figlioli, o una gallina più pericolante.

Il ricordo del pranzo, narrato nel primo capitolo, in cui Assunta Crocchiapani e il commissario Ingravallo avevano fatto conoscenza, chiude ad anello lo svolgimento narrativo, prospettando una possibile soluzione. Il pallore severo dell’ex domestica di casa Balducci non si scontra, come si sarebbe potuto attendere, con la crudeltà dell’inquisizione, ma con la voce di dolore, tanto

più incisiva dal punto di vista del tribunale stilistico, del commissario Ingravallo: P 271 La Tina, col suo volto come altra volta severo, un po’ pallido, ma con un’inflessione di smarrimento negli occhi, lo guardò tut-

tavia fieramente, gli parve si riprendesse: due scuri lampi le pupille, di nuovo, lucide nell’ombra, nell’odore di casa chiusa nell’andito. «Signor dottò», fece, con uno sforzo: e stava per aggiungere dell’altro. Ma Di Pietrantonio la sgomentò, se pur lo avesse già notato di finestra, dopo l’agente che figurava condurre tutta la fila dei cappotti. Alto, e senza parole, questurinesco nei baffi, non era dunque la punizione paventata? comminata dalla legge? Ma di qual reato o di qual colpa, argomentò tra sé, ufficialmente, la potevano punire? D’aver sollecitato troppi doni, e d’averli avuti, dalla signora Liliana?

«Signor commissario Incravalli, che è?» «Chi ce sta in casa vostra?» le domandò Ingravallo, duro: duro quanto gli richiedeva d'essere, in quel momento, l’«altro» suo animo: a cui Liliana sembrò rivolgersi disperatamente chiamandolo, dal suo 207

mare d'ombra: con lo stanco volto sbiancato, l'occhio dilatato nel terrore, fermo, per sempre, sui baleni atroci del coltello. «Fate passare, ho da vedé chi ce sta.» «Ce sta mi’ padre, sor dott6, che sta male: sta tanto male, pove-

retto!» e ansimava leggermente nello sdegno, bellissima, pallida. «A momenti me more.»

La voce della coscienza di Assunta Crocchiapani è chiamata direttamente in causa dal narratore-giudice per testimoniare sull’innocenza dell’inquisita. L’argomentazione interiore esclude nel modo più limpido colpe o reati ufficiali, lasciando spazio solo per un esame di coscienza sui doni ricevuti. L'esclusione di metafore o di riferimenti coinvolti negativamente nella sfera semantica della fulmineità libera l’ex domestica da ogni sospetto. I «lampi neri sotto le ciglia nerissime dove la luce albana s’impigliava, si diffrangeva iridandosi» (P 270) piegano a significazioni di bellezza e di fierezza i tratti fisici che nel corso del romanzo erano apparsi come indizi di una personalità demoniaca. Allo stile dell'innocenza che scagiona inequivocabilmente l’indiziata si contrappone però lo stile della sofferenza che informa, con non minore efficacia persuasiva, gli atti e le parole del commissario. Il segmento che va da «duro quanto gli richiedeva d’essere» ai «baleni atroci del coltello» spiega la ricchezza di significato compresa nell’aggettivo «duro», volgendo in chiarezza ciò che tante volte è lasciato a livello di sottintesi dallo stile gaddiano. Uno stile in cui le frequenti apposizioni, introdotte indifferentemente da virgola, punto e virgola, due punti, punto fermo,

bilanciano con il loro carico esplicativo il nucleo spesso ermetico a protezione del dolore, della scrittura. I nuclei ermetici, dettati dallo stile della sofferenza, tendono poi, attraverso le fasi del

libro unico gaddiano costituite dalle varie opere, a cristallizzarsi in forme permanenti, tanto che una prospettiva sinottica fornisce spesso la chiave più opportuna per l’interpretazione. Il commissario Ingravallo è trasfigurato dal dolore in giudice spietato e sicuro: «“Fate passare, in ogni modo. Andiamo. Su. Devo far perquisire la casa”. E la scrutò nel volto, con l'occhio fermo e crudele di colui che vuole smascherare l’inganno. “Perquisire?”: la Tina corrugò la fronte: l’ira le sbiancò l'occhio, il volto, quasi ad un oltraggio imprevisto» (P 272). 208

L'oltraggio trasfigura a sua volta l’ex domestica in una figura rabbiosa, non priva forse della carica di indignazione che le concede un’interferenza mnemonica con l’Ugolino dantesco. Il «diretro guasto» (P 275), evocato più avanti in tutt'altra accezione

semantica, sarebbe qui in accordo con la violenza riverberata dal verso «il capo ch’elli avea di retro guasto» (Inf XXXIII, 3). Lo sguardo è tanto affilato metaforicamente da incidere quasi alla maniera dei denti. Sia «trafiggere» che «puntare» hanno una valenza metaforica che oltrepassa la sfera visiva: «Quei due occhi neri e furiosi della Tina, Ingravallo se li sentiva puntati sulla cuticagna: se ne sentiva trafiggere il collo» (P 272). Anche «cuticagna» si integra in un orizzonte espressivo dantesco: «Allor lo presi per la cuticagna» (Inf XXXII, 97). Il processo mentale del commissario si conclude provvisoriamente, con una sospensione sulla proposizione concessiva, su un

elemento attenuante che assume il rilievo di un fattore scagionante: P 272 Cercava, cercava di tirar le somme a ragione: di tirare i fili, si sarebbe detto, all’inerte burattino del probabile. «Come non era volata a Roma, la ragazza? Non aveva sentito il dovere?»: questa era un’idea coatta, ormai, nel suo spirito atrocemente ferito: «almeno al funerale?... Non c'era né cuore né anima, dunque, in lei, dopo tanto bene ricevuto?». Era la contabilità dolorosa dell’umile, dell’ingenuo,

forse. La notizia orribile, forse, non era pervenuta a Tor di Gheppio se non troppo tardi, e in quella solitudine... il terrore aveva paralizzato una donnàcola. Ma no, una donna! E le notizie volano anche nella giungla, nelle steppe dell’Africa. Per un cuore cristiano l’ispirazione sarebbe stata un’altra. Sebbene, il padre moribondo...

L’oscillazione del giudizio non potrebbe essere più sofferta: lo spazio del tribunale coincide con lo «spirito atrocemente ferito» del giudice. L’incontro di un’altra forma di dolore, di fronte alla quale la morte è soltanto una liberazione, «(mejo cusì che durà un antro mese a patire)» (P 274), scombussola le analisi dell’inquirente. Come l’inquisizione, nel caso di Ines Cionini, termina

su un pollo in decomposizione, così l’indagine del commissario finisce su una «padella di maiolica» che «nemmeno era sprovvi-

colosta d’un qualche indecifrato contenuto, sulla consistenza, 209

razione, odore, viscosità e peso specifico del quale tanto lo sguardo di lince come il fiuto di segugio d’Ingravallo non ritennero essere il caso di dover indugiare ad analisi» (P 275). L’«analisi» dell’indagine si riduce, con suprema sproporzione ironica, all’«analisi» chimica di un liquido maleodorante. Lo «sguardo di lince» e «il fiuto di segugio» dilatano con effetto sarcastico il dislivello fra i mezzi impiegati e i risultati raggiunti. Di fronte a un’vzpasse simile, il commissario, come per uno scatto di pentimento, re-

trocede dai modi inquisitori e si toglie addirittura il cappello: P 275 «È vostro padre?» fece don Ciccio a la Tina, guardandola, guardandosi all’intorno, e poi togliendosi il cappello. «Sor commissario, mo ’o vedete com'è ridotto. Nun ce volevio crede: ciavete da crede, finarmente!» esclamò in tono risentito, e con

occhi che parevano aver pianto, la bella. «Oramai nun ce spero più. È mejo pe lui e puro pe me, si me more. Patì a quer modo, e senza mezzi de denaro. Er sedere, parlanno co rispetto, è ridotto a na piaga sola, è ridotto: un macello, povero padre mio!» Cercava, pensò du-

ramente Ingravallo, nel suo dolore cercava di valorizzare il papà, nonché il diretro guasto del papà. «E cià pure la ciambella de gomma», sospirò, «che senza quella j'avrebbe fatto infezzione er decùbbito. Ancora stamane a le otto je faceva male, tanto male, diceva. Nun poteva stà dieci minuti, se po dì. Adesso nun se move da tre ore: nun dice na parola: me sa che nun patisce più, de gnente po più patire»: si rasciugò gli occhi, si soffiò il nasetto: «perché nun sente più gnente, oramai, né bene né male po sentì, povero padre... Er prete nun po esse qua prima dell’una, m'ha fatto dì. Ah, poveretti noi!» guardò Ingravallo, «si nun era la signora!». Quella battuta risonò vuota, lontana. Liliana: era un nome. Sembrò, a don Ciccio, che la ragazza si peritasse d’evocarlo. Liliana Balducci non è ormai che un nome, /latus vocis, in cui

si concentra l'affetto di Francesco Ingravallo. Il commissario si aggrappa a un indizio di colpevolezza fuggente come la mancata pronuncia del nome, sospettando che la ragazza «si periti d’evocarlo». Come la testimonianza pur postuma dell’assassinata riveste un ruolo determinante per la difesa del cugino Giuliano Valdarena (cfr. 4.3.2), così in modo speculare l'assenza del nome

rischia di trasformarsi in un indizio di colpevolezza per Assunta Crocchiapani. La replica del commissario recupera dalla memo210

ria narrativa una sentenza di Zamira Pàcori e l’indagine si snoda attraverso il filo di saggezza dell’indovina: P 275

«Sicuro!» fece stancamente, «’a ciambella!» e si rammentò

degli sfoghi del Balducci. «O saccio, ‘o saccio, chi ve l’ha data: e pure chillo vaso», e vi accennò col capo, col mento, «e la coperta pure», guardò sul letto la coperta, «vell’ha dati... una ch’à avuto subbito ’o compenso, pa bontà sua. Nun far del bene, si nun è che vuoi avé mmale, dice ’o proverbio. Cussì è. Nun parlate? Nun ricordate?».

Oltre che con l’affermazione presente nel discorso indiretto libero della maga «Non far del bene se non vuoi aver male» (P

150), si registra l’interferenza, in termini di pensiero, con uno degli oggetti attraversati dall’ira raziocinante di Gonzalo nella Cognizione. La morte come premio per la bontà: «“Perché si diventa buoni, buoni!” Gridava. Pareva ammattire. “Buoni, buo-

ni!.... si diventa.... Fino a che i gerani, le màmmole, ci premiano della nostra buona condotta... della nostra bontà definitiva...» (C 164-5). La replica dell’ex domestica, con la ripetizione dell’errore precedente di non pronunciare il nome «Liliana», scatena l’infuriata reazione del commissario, che individua una grave forma di irriconoscenza e, dietro la colpa di lesa memoria, imperdonabile nel sistema etico gaddiano, intravede la responsabilità dell’omicidio di Liliana Balducci: P 276 «Sor dottò, che m'ho da ricordà?» «Ricordatevi di chi v’ha tanto aiutato, mentre lo meritavate così

poco.» «Sì, li signori dov’ero a servizzio: e perché nun me lo meritavo?» «I signori! La signora Liliana, potete dire! ché è stata sgozzata da un assassino!»: du occhi, fece, che la Tina impaurì, questa volta: «da un assassino», ripeté, del «qua-le», favellò curule, «aggio saputo il nome, il cognome!... e dove sta: e cosa fa...». La ragazza sbiancò, non

disse a. «Fuori il nome!» urlò don Ciccio. «La polizzia lo conosce già sto nome. Se lo dite subbito», la voce divenne grave, suasiva: «è to di guadagnato anche pe vvoi.» «Sor dottò», ripeté la Tina a prender tempo, esitante, «come posso dì, che nun so gnente?» 2h

chetanp» JO

«Anche troppo lo sai, bugiarda», urlò Ingravallo di nuovo, grugno a grugno. Di Pietrantonio allibì. «Sputa ’o nome, chillo ca tieni cà: 0 t’ ’o farà sputare ’o brigadiere, in caserma, a Marino: ’o brigadiere Pestalozzi.» «No, sor dottò, no, no, nun so’ stata i0!» implorò allora la ragazza, simulando, forse, e in parte godendo, una paura di dovere: quella che nu poco sbianca il visetto, e tuttavia resiste a minacce. Una vitalità splendida, in lei, a lato il moribondo autore de’ suoi giorni, che avrebbero ad essere splendidi: una fede imperterrita negli enunciati di sue carni, ch’ella pareva scagliare audacemente all’offesa, in un su-

bito corruccio, in un cipiglio: «No, nun so’ stata io!». Il grido incredibile bloccò il furore dell’ossesso. Egli non intese, là pe Ilà, ciò che la sua anima era in procinto d’intendere. Quella piega nera verticale tra i due sopraccigli dell’ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi. Lo stilema del rifiuto «“No, sor dottò, no, no, nun so’ stata

io”», segnale di un’eccezionale sincerità all’interno del Pasticciaccio, si contrappone ai due urli di accusa e si ripercuote a eco nella mente giudicante, nel foro interiore del commissario: «“No, nun

so’ stata io». Il grido dell’inquisita entra in risonanza con l’urlo simmetricamente implorante dell’innocente Pirroficoni: «Paracadde giù da’ nuvoli e implorava che no, che non è vero un corno: ma ne buscò da stiantare. Oh mani generosi del Beccaria!» (P 94). Il grido è glossato all’interno del Pasticciaccio come espressione autentica dell’anima straziata, quando si afferma che «l’impeto, il dolore di un’anima si raggela in un grido, coagula nella notazione, secondanti le direttrici formali del pensiero: in un diacciato grido! che è il suo, e non il bercio di un’altra, o del mercato delle anime e dei berci» (P 232). Le ultime righe del romanzo, con l’intervento

paralizzante della coscienza, metafora dell’occhio giudicante del narratore, e con l’accenno ellittico a una forma di pentimento, ri-

mandano a un’altra soluzione. L’inquisizione, già annullata da uno scenario di miseria e di morte, finisce per processare se stessa.

4.3.5. L'ingiustizia permanente

Un finale anticipato può essere intravisto nella parte conclusiva del nono e penultimo capitolo, quando tutta la complessa rico212

struzione dei fatti elaborata dal brigadiere Pestalozzi crolla alla sola obiezione della povertà: P 248 Masela Camilla piagnucolava d’esser povera? Il cervello del brigadiere si smarrì. Ogni ipotesi, ogni deduzione, per ben congegnata che fosse, risultava offrire un punto debole, come una rete che si smaglia. E il pesciolino... addio! Il pesciolino della «ricostruzione» impeccabile. Per una forma di ironia narrativa, che riflette lo scetticismo giudiziario del narratore-giudice, «il caso (non datur casus, non

datur saltus) be’ viceversa pareva proprio lui quella notte a sovvenire i perplessi, a raddrizzare le indagini, mutato spiro il vento: il caso, la fortuna, la rete, un tantinello smagliata, un tantino

sfilacciatella del pattuglione, più che ogni sagacia d’arte o capillotomica dialessi» (P 185). La coincidenza tra l’ottica del commissario Ingravallo e quella del narratore si realizza perfettamente solo alla fine del Pasticciaccio. Nel corso del romanzo l’interferenza fra le due prospettive provoca, secondo le situazioni, effetti di assenso, dissenso o par-

ziale consenso. Un caso di dissociazione ironica si verifica nel settimo capitolo, quando Ingravallo «tirò, a denti stretti, la conclusione: una conclusione probabilmente ingiusta: la quale, comun-

que, non interessa in alcun modo il presente referto» (P 175). Nel-

lo stesso capitolo il commissario sembra raggiungere con lo sguardo interiore un superiore orizzonte epistemico, coincidente in linea teorica con le potenzialità conoscitive del narratore: P 164 Ingravallo pareva stanco, turbato, seccato: poi assorto dietro una catena di pensieri. Analogie strane, dubitò lo Sgranfia, occulte agli altri, erano a lavorare in quel cervello. Non c’era nesso apparente, ma chissà poi non ci fosse, chissà Ingravallo non lo divinasse, muto e nero sul suo riflettere, non c’era alcun séguito dal garzone in grembiule, dal rapinatore in tuta, dall’assassino ignoto, agli occhioni della zingara.

La conclusione del terzo capitolo con «don Ciccio, nella solitudine del proprio foro interiore», proprio nelle ultime due righe, indica sotto la metafora che il giudice incaricato di vagliare i fatti che si svolgono nel romanzo è proprio il commissario In213

gravallo: il tribunale tragico del Pasticciaccio coincide con lo spazio della sua mente. Il narratore interviene direttamente in veste di giudice durante il resoconto del caso Pirroficoni, che sotto il velo letterario

registra la disavventura giudiziaria realmente avvenuta di Gino Girolimoni nello spazio compreso tra «Il caso Pirroficoni non aveva ancora afflitto le cronache dell’Urbe» (P 92) e «L'intervento dubitativo di un qualche onesto funzionario salvò le ossa al Ficoni, dimolto peste però» (P 94). Sono messe in discussione, con un serrato controprocesso, le procedure della magistratura fascista, che promuove a «corso legale, per tal modo, una pseudo-giustizia, una pseudo-severità, o la pseudo-abilitazione a° dittaggi: della quale appaiono essere contrassegni manifesti e l’arroganza della sconsiderata istruttoria, e l’orgasmo cinobalànico dell’antecipato giudizio» (P 93). Attraverso la chiamata in causa di Guerra e pace, che fa entrare la letteratura in risonanza con la storia e autorizza a interpretare in chiave storica i casi di ingiustizia del Pasticciaccio, le accuse investono direttamente Mussoli-

ni: «Ben più vile e teatrale, chez nous, quel Facciaferoce col pennacchio: né gli concediamo, siccome a Rostòpcin, le attenuanti immediate della tema (di venir linciato lui) e dell’angoscia e dell’ira e del pandemonio (psicosi totale della folla) e del nemico in arrivo dopo le cannonate secche e la strage (di Borodino)» (P 93). Il sintagma di ascendenza giuridica «le attenuanti immediate» è direttamente correlato con la prospettiva del narratore-giudice. L'apparato giudiziario fascista cade sotto i colpi della sentenza, discesa direttamente dalla voce del narratore, che «chi è certo

d’aver ragione a forza, nemmeno dubita di poter aver torto in diritto» (P 81). Il tribunale narrativo del Pasticciaccio intenta un processo ai processi fascisti attraverso la sua struttura globale e in diversi passaggi particolari. La narrazione si presenta chiaramente in forma di controprocesso, quando la detenzione nelle prigioni, di fronte a «tutta la migragna dell’impero immanente», si prospetta ai delinquenti con colori paradisiaci: P 156 Le ragazze, certe notti di luna piena, sognavano ’o maresciallo. Certi scarcagnati con addosso tutta la migragna dell’impero im214

minente, certi morti de fame de ladruncoli de biciclette, strulloni in

ozio a giro per le strade e per le bettole il giorno, e la notte a travaglio, non gli pareva poi vero, a colpo fatto, di lasciarsi ammanettare

da lui, di venir «messi dentro» da lui. Quando arrivava lui, puttana il

diavolo, tiravano un respiro: finita l’ansia, il pericolo: finito di sudare, di scalzare, di aggeggiare, di trasalire a uno scricchiolio, a un dubbio di cigolio lontano d’un cancello: di scassinare usci col cuore in gola: ecco, finita ogni pena: gli riprendeva la gioia, dentro, poveri ragazzi! la fiducia nel domani, gli riprendeva. Erano così contenti solo a vederlo, che dimenticavano il loro triste obbligo, mannaggia er prefetto: l'obbligo di scappare con la refurtiva, e quel ch’era peggio coi ferri, anche, e stracarichi: dopo tanto affanno dover anche darsela a

gambe!

Il giudizio del narratore si insinua tra le righe come un verdetto di condanna per il fascismo, di fronte ai cui crimini ogni furto si riduce a un gioco innocente. Con il fascismo, organizzazione malavitosa, al potere, la rassegna della ben più innocua malavita comune non può che manifestarsi come un’epopea romantica avvolta quasi dal rimpianto. Lo stile del dubbio che invade larghi spazi del Pasticciaccio e incide sulla sua struttura globale è orientato, da una parte, contro il fascismo, come si è potuto appurare più volte nel corso dell’analisi, e contro Mussolini, definito sarcasticamente «depositario» e «commissario» «della rinnovata verità» (P 81), ma non ri-

conosce, d’altra parte, a un livello più generale, alcuna forma di giustizia nel mondo. L’ingiustizia storica si trasfigura in ingiustizia cosmica, quan-

do la rappresentazione delle onde sulla riva si piega allo stile dell’oltraggio, che informa di sé gran parte del romanzo, attraverso la similitudine «come gli schiaffi del mare sulla innocenza della rena» (P 217). Una particolare attenzione è dedicata anche al lessico dell’oltraggio: ad esempio, in «Letteratura» il termine «spregiare» è glossato in una nota con «vilipendere con malvagità, seviziare: uso toscano e romano)» (L 329!). Lo stile della colpa e lo stile dell’innocenza pervadono tanto il tessuto narrativo da traboccare contemporaneamente sui gioielli ritrovati, che «ristettero, come bestioline impaurate, coccinelle che raccolgon l’ali a

non parere, nel grembo misero della indigenza: e parvero, inve215

ce: parvero tante bugiole sbugiardate, riconosciute dal gioielliere di naso adunco, sul banco, dopo furto e recupero» (P 230).

Se si dovesse gettare lo sguardo sui processi indiretti del Pasticciaccio, quelli cioè non collegati direttamente al tema della giustizia ma inseribili nella sfera della satira sociale o più genericamente ideologica, il campo dell’analisi diventerebbe illimitato in quanto i processi indiretti si affollano a tal punto da sovrapporsi a volte, come nel caso della puntata satirica contro la burocrazia che ingloba frecciate di argomento politico, letterario e rei ligioso: P 191-2

Là c'era il comando dell'Arma: là, là, da più lune, la sua

pratica risognata attendeva, attendeva. Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d’una pratica s’insignisce di quella capacità di perfettibile macerazione che la capitale dell'ex regno conferisce alla carta, si commisura ad un tempo non revolutorio, ma interno alla carta e ai relativi bolli, d’incubazione e d’ammollimento romano. S’ad-

dobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de’ decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l’ovo della sospirata promulga le erompe al fine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale: e il relativo re-

scritto, quello che abilita il macilento petente a frullar quel cocco, vita natural durante a frullarlo, vien fulgurato a destino. In più d’un caso ci arriva insieme l’Olio Santo. Abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, a esercitar quell’arte assonnata, quel me-

stieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all’Olio: e che d’allora in poi, de jure decreto, si studierà esercitare un po” per volta all’inferno con tutto l’agio partecipatogli dall’eternità.

Roma è la «capitale dell'ex regno», in quanto capitale dell’impero, non senza risonanze polemiche contro il fascismo, il cui sogno imperiale, sintetizzato in «Roma doma», viene rovesciato sulle sabbie mobili dell’immobilismo burocratico con «Roma cova». «Cocco», equivalente onomatopeico di uovo, conserva la co-

micità insita nell’ubriacatura allitterativa pascoliana «e le galline

cantavano, Ur cocco! / ecco ecco un cocco un cocco per te!» (Valentino, vv. 15-6), già parodiata nella Cognizione, dove «il caldo,

barocco gèmito» della gallina è «scandito in ebbrezza e proter-

via: ecco un cocco, ecco un cocco, — ecco un cocco — che è» (C

216

226). E la contiguità di olio santo e inferno sovverte ironicamente la tradizionale fiducia religiosa sull’efficacia ultraterrena dei sacramenti.

4.3.6. Paradosso tragico

Sotto il volto giudicante del narratore appare a volte, come in dissolvenza, l’immagine del commissario Ingravallo. Altre volte la voce del giudizio cade dall’alto sulla narrazione, senza che sia possibile identificare il giudice. Il processo più alto del Pasticciaccio, che coincide con il nucleo nevralgico dell’ideologia gaddiana, coinvolge la giustizia divina. Le parole pronunciate in vita da Liliana Balducci oltrepassano la soglia della morte grazie alla testimonianza del cugino: P 113-4 «[...] Era impazzita, povera Liliana, una donna così a posto come lei! Povera Lilianuccia nostra! Lo avrebbe adottato lei, quello: perché io e Renata, seconno lei, ne facevamo subito un altro, un terzo, un quarto: e quelli, allora, erano per noi. Ma lei, diceva, aveva diritto sur primo. La Provvidenza, a noi due, a Renata e a me, de crature ce n’avrebbe date quante ce pareva. Perché il Signore è fatto a sta maniera, diceva: a chi tutto, a chi gnente!» Ed è in ciò, appunto,

che si manifesta la sua misteriosa perfezione.

La voce sarcastica del giudice-narratore fa eco alla sentenza dell’assassinata, rivelando una perfetta coincidenza di vedute con la protagonista dell’opera. Dietro la maschera del giudice narrante si scorgono le fattezze di Liliana Balducci. Un'operazione così audace è autorizzata dalla sterminata competenza di Gadda in materia di gialli, di cui era lettore appassionato fin dall’adolescenza. Il tribunale della memoria che agisce all’interno delle struttu-

re narrative del Pasticciaccio conosce così un giudice inatteso. E,

considerando che nel Pasticciaccio, come in tutte le opere gaddiane, il giudice è anche narratore, subentra una narratrice inaspettata. È Liliana Balducci che dall’alto di una coscienza sensibilissima si condanna a morte in memoria di tutte le vittime di guerra offese dalle speculazioni paterne. È lei la colpevole, la vittima, il giudice del Pasticciaccio. La sua morte riscatta le ferite di 247

guerra, che non a caso si intravedono sul suo corpo, e le riflesse ferite morali, non meno gravi, di Francesco Ingravallo. Ecco spiegato il legame esclusivo fra i due personaggi, ecco chiarita la memoria che si fa inchiostro rosso di sangue: P 233 Battuta al nastro rosso, quasi che il nastro fosse stato intinto nel sangue, la nota della «refurtiva Balducci» gli pareva essersi materiata da un incubo: fogliata e verbalizzata in pagine da un orrore segreto che non era, in quella mattina matta dell’equinozio così pieno di pronostici, no, non era di competenza dei carabinieri. No, la cam-

pagna solitaria, fuori, inumidita dai piovaschi, no, non voleva ricreato l'orrore: quello di cui si veste dopo le luci repentine del coltello, negato al vivere ogni condono dalla belva, l’immobilità di un funerando relitto.

Le funzioni di narratore e di giudice spettano in modo intermittente al commissario e alla protagonista assassinata. En-

trambi i personaggi giudicano a pieno titolo, con la pienezza della coscienza, nel libro invisibile, che coincide con la memoria

permanente di Gadda e ne attraversa tutte le opere. Il «libro invisibile» affiora in forma evidente nella redazione in rivista del Pasticciaccio: L416 «...La Virginia!...»; e il dottor Fumi a sua volta chinò la faccia, pensoso: «...La Virginia!...». Sembrò impallidire, accasciarsi: poi, adagio, trascorse con una mano sulla fronte: parve, affisando il foglio, leggesse: non leggeva affatto. Quel che gli venne fuori non era nel verbale: «...Virginia!... a te la molle — guancia molcea con le celesti dita — beltade onnipossente: e degli alteri — disdegni tuoi si sconsolava il folle — signor di Roma. Eri pur vaga, ed eri — nella stagion che ai dolci sogni invita...». Sgorgate da una laringe calda, commossa, da un animo che repentina angoscia abbuiava,... il Fumi licenziò con un corto volo della mano quelle mirabili sonorità, quasi accennando loro le vie del soffitto. Gli occhi, di già malinconici, bellissimi, gli smoriro-

no a un tratto, spenti come da un disperato incanto... Parvero andare altre piagge, e gli anni, fino alla memoria di un volto... forse di una figliuola, già viva e splendida!... Tacquero. Gli si velarono di una ri-

mota tristezza. Chinò il capo anche più: sembrò leggere: sì, sì: nel libro invisibile... 218

La citazione dei versi della canzone leopardiana Nelle nozze della sorella Paolina con la lieve variazione di «gota» in «guancia», in relazione con la trascrizione a memoria da parte dell’autore o dettata da un intento realistico (il commissario capo sta citando a memoria), importa forse più per quanto segue e quanto precede che per i versi in sé. È in atto il procedimento della memoria trasversale, come nel caso già analizzato (cfr. 4.3.2) dell'inserto oraziano «Manet sub Jove frigido». La canzone leopardiana è estremamente significativa, in una prospettiva gaddiana, perché leggibile in modo attualizzante contro gli imboscati. La quarta strofa entra a pieno titolo nella memoria permanente di Gadda, specialmente con i versi «quando a tenzone / Scendono i venti, e quando i nembi aduna / L’olimpo, e fiede le montagne il rombo / Della procella» (vv. 50-4) che ricordano la guerra degli elementi nel contesto degli eroi fedeli alla patria e concordano singolarmente con le metafore dei fulmini e della tempesta inerenti alla rappresentazione gaddiana della guerra sulle montagne. La citazione del dottor Fumi si interrompe, con puntini di sospensione, proprio al limite della rievocazione della morte. L'interruzione non è casuale: vv. 82-5

Quando il rozzo paterno acciar ti ruppe Il bianchissimo petto, E all’Erebo scendesti Volonterosa.

Nella memoria liviana di Gadda, tante volte presente nelle sue opere, il coltello da macellaio a cui fa riferimento, per lo stesso episodio, lo storico latino. Un coltello da macellaio come quello usato per l'uccisione di Liliana Balducci. Virginia rappresenta la sorte degli eroi caduti ante diem, anche perché in Leopardi l’eroina è contrapposta chiaramente ai vili. E la morte della figlia del profittatore di guerra ne riverbera, come per contrappasso, il modo dell’uccisione. La «rimota tristezza» che vela gli occhi del commissario capo rimanda, attraverso l’arcaismo «rimota», alla memoria interna

gaddiana, rappresentata in questo caso dal verso iniziale «Tàcite imagini della tristezza» (C 499) e dal distico finale «Tacite imagini PA)

e rimota dolcezza / In ogni novo cuore, per chiari mattini» (C 504) della poesia giovanile Autunno, poi allegata alla Cognizione. Anche il commissario Ingravallo legge, sempre in «Letteratura», nel libro invisibile, durante uno sfogo di amarezza scatenato dalle immagini del fascismo: «In lui don Ciccio, forse, una lon-

tana angoscia, un dolore senza cielo... o troppo guardato dal cielo...: dai poveri anni... dallo scarno monte... Come per Liliana, il vuoto, la solitudine... i genitori partiti...» (L 343). Da una parte il processo a una divinità assente («un dolore senza cielo...») o malvagia («o troppo guardato dal cielo...»), dall’altra la morte del fratello tra cielo e terra con l’aeroplano. Sulla linea dell'espressione, tanto più ellittica, «un’ala alta che trasvolasse, una luce» (C 271), che sarebbe quasi indecifrabile senza l'appunto manoscritto registrato nell’edizione a cura di Emilio Manzotti: «Un aeroplano sulla villa (morte del figlio, ecc.)... come un saluto ultraterreno, che le fosse mandato da chi percorre le vie del dovere» (C 271). Il libro invisibile coincide nella Cognizione con il «libro del bimbo» (C 415), il libro della memoria permanente di Gadda dove è scritto della morte del bimbo, del sacrificio del fratello (cfr. 3.3.3). La metafora visiva del dolore troppo guardato dal cielo trova un parallelo tanto suggestivo quanto indipendente nel film Rapsodia in agosto (1991) di Kurosawa, dove il cielo che assiste all’esplosione atomica si trasforma, con la perfezione offerta dall’alta definizione, in un occhio gigantesco e malvagio.

Il colore della scrittura del «libro invisibile» è rosso come il sangue dei sacrificati. Ora è chiaro l’itinerario delle gocce di sangue dell’assassinata al «gelo che d’ogni memoria ci assolve» (P 68), dove «assolvere» ha il doppio significato di ‘sciogliere, liberare’ e di ‘concedere l’assoluzione’. La memoria permanente è una memoria allusiva, nascosta come la parte più segreta del diario di guerra e di prigionia, sepolta tra le pieghe della scrittura. Lo scrittore delle allusioni tragiche è lo stesso Gadda che nasconde alla perfezione materiale segreto nella copertina del diario. È lo stesso Gadda che affida la parte più dolorosa del diario a persona che non l’avrebbe pubblicata in vita. L'autoprocesso, come insegna Manzoni (fra Cristoforo, il cardinale, lo stesso Innominato e, nella forma di un disegno prov220

videnziale, Ermengarda, uccisa dalla propria sensibilità), è una

prerogativa delle anime elette. Il teorema dell’ingiustizia che informa tutte le precedenti opere si applica nel Pasticciaccio all'ingiustizia suprema. Il massimo di colpevolezza coincide nella realtà narrativa con il massimo di innocenza, perché il personaggio più colpevole è anche il più innocente. Tanto innocente da condannarsi a morte in memoria nello spazio di un tribunale mentale che trasfigura sub specie aeternitatis la sua coscienza eti-

ca e la sua raffinata sensibilità. La positività della protagonista del romanzo dilaga sin dalle prime pagine con uno «sguardo» che sembra «licenziare misteriosamente ogni fantasma improprio, instituendo per le anime una disciplina armoniosa: quasi una musica: cioè un contesto di sognate architetture sopra le derogazioni ambigue del senso». Un personaggio così luminoso non avrebbe potuto non lavare in sé le responsabilità paterne verso i sacrificati. E con la sua morte «a don Ciccio pareva che ogni forma del mondo si ottenebrasse, ogni gentilezza del mondo» (P 68). L’interpretazione dell’Arz/eto shakespeariano, presente nel saggio «Arzleto» al Teatro Valle, è oltremodo significativa per il Pasticciaccio. Vige per la protagonista del

Pasticciaccio, come per Amleto, «il senso [...] dell’incarico e del

conseguente adempimento cui siamo astretti dalle ragioni profonde del “cuore”, cioè dell’imperio etico d’una ragione sopraindividuale: la coscienza etica dell’eternità» (VM 540), perché «il ron essere è adattarsi alla vita e alla turpe contingenza del mondo, l’essereè agire, adempiere al proprio incarico (alla propria missione) andando, sia pure, incontro alla morte» (VM 542).

Il paradosso tragico dell’ingiustizia permanente consiste nell'impossibilità di condannare, se non a parole o nella letteratura, i veri colpevoli, cioè gli imboscati, i profittatori di guerra, i fascisti, mentre l’unica condanna che resiste all'aggressione della sensirealtà è quella che gli innocenti, trascinati da una dolente

infligbilità, coincidente al limite con la cognizione del dolore,

a. La gono a se stessi per l'ombra di un pensiero o di una memori gada scrittur della primo e condanna a parole, che è il movent Platone di a sentenz dalla diana, risponde all'esigenza dettata (l’ingiusti«goybn yo ddizia doxeiv dixauov elvor uù Svta» tizia di l’ingius zia più grave è sembrare giusti e non esserlo, cioè 221

parole o di pensiero: cfr. 2.6). Se a parole è possibile ristabilire la giustizia a cui allude Platone, nei fatti vale la sentenza dettata da Adelchi morente: «non resta / Che far torto, o patirlo» (V, 8,

353-4). La protagonista del Pasticciaccio si rivela sempre più affine, nel corso dello svolgimento narrativo, al personaggio di Ermengarda. Anche Ermengarda muore in memoria. E due volte: personalmente per l’oltraggio ricevuto e provvidenzialmente per pagare le colpe degli avi. 4.3.7. Lo stile della memoria

La protagonista del Pasticciaccio si serve del radar di una sensibilità finissima, fatta di desideri, affetti, sogni, speranze, illusioni, de-

lusioni, per istituire un processo della memoria contro se stessa, memore e beneficiaria dei crimini di guerra paterni. L’ipersensibilità che guida il tribunale della memoria, coincidente con la mente di Liliana Balducci, conduce il personaggio a sentirsi in qualche modo responsabile delle colpe del padre. Il percorso tragico del Pasticciaccio si configura come un’anamnesi platonica guidata dall’ottica del narratore-giudice. È come se Liliana Balducci scontasse, con le colpe paterne, la memoria delle sue precedenti vite. Vita e memoria si dissolvono per lei nello stesso giro, perché «lo spasimo le toglieva il senso, annichilava la memoria, la vita» (P 68). Anche Ermengarda muore in memoria, dopo essere vissuta in memoria, come Elisabetta Francois, e in modo simmetrico a Liliana Balducci che muore in modo diretto per l’oltraggio del destino e in modo indiretto per controbilanciare gli oltraggi paterni. La prima scena dell’Ade/chi presenta Ermengarda come vittima dell’oltraggio del ripudio. Il padre Desiderio usa il verbo «oltraggiare» e «oltraggio» è una parola-chiave del sistema etico gaddiano: Telsvw 35-42

Dirgli senza timor: tu fosti un vile, Quando oltraggiasti una innocente. ADELCHI

O padre, Ch’io corra ad incontrarla, e ch’io la guidi AI tuo cospetto. Oh lassa lei, che invano Quel della madre cercherà! Dolore 222

Sopra dolor! Su queste soglie, ahi! troppe Memorie acerbe affolleransi intorno A quell’anima offesa.

Adelchi teme che le memorie possano compromettere ulteriormente l’anima già lesa di Ermengarda. Nella terza scena del primo atto si susseguono, logicamente concatenati, termini di

ampia risonanza nel libro invisibile di Gadda come «dolor», «oltraggio», «vendetta», «obblio»: I, 3, vv. 213-20 ADELCHI

1 Ah! nostro È il tuo dolor, nostro l’oltraggio. DESIDERIO

E nostro

Sarà il pensier della vendetta. ERMENGARDA

O padre, Tanto non chiede il mio dolor; l’obblio Sol bramo; e il mondo volentier l’accorda

Agl’infelici: oh! basta; in me finisca La mia sventura.

Unico rimedio allo strazio della memoria, come per Gonzalo nella Cognizione, è l'oblio. Lo stile della memoria orchestra la prima scena del quarto atto dell’Ade/chi e il celebre Coro. La morte equivale alla liberazione dalla sofferenza e il testamento, sia esso spirituale come per Ermengarda o ufficiale come per Liliana Balducci, rientra in modo canonico nello stile della memoria.

Chissà che stanchezza e lotta contro la morte espressa dal verbo «combattere» nel senso di ‘lottare con la morte’ non entrino in ce risonanza con la descrizione della morte di Liliana «che non d’oche gelo la fa più a combatte» nel Pasticciaccio; chissà che «il delgni memoria ci assolve» (P 68) non riverberi il movimento l’anima che «si solve» «dal laccio»: IV; 1, vv. 15-24 Sento una pace stanca Stanca, foriera della tomba: incontro 223

L’ora di Dio più non combatte questa Mia giovinezza doma; e dolcemente,

Più che sperato io non avrei, dal laccio L’anima, antica nel dolor, si solve.

L’ultima grazia ora ti chiedo: accogli Le solenni parole, i voti ascolta Della morente, in cor li serba, e puri Rendili un giorno a quei ch'io lascio in terra. La vita è memoria di paure e di amore, la morte è oblio, men-

tre solo gli atti velati dalla riconoscenza godono della memoria nel punto di passaggio dalla vita alla morte: IV, 1, vv. 42-56 ERMENGARDA

Io nol vedrò: disciolta Già d’ogni tema e d’ogni amor terreno, Dal rio sperar, lunge io sarò; pel padre Io pregherò, per quell’amato Adelchi, Per te, per quei che soffrono, per quelli Che fan soffrir, per tutti. — Or tu raccogli La mia mente suprema. Al padre, Ansberga, Ed al fratel, quando li veda — oh questa Gioia negata non vi sia! — dirai Che, all'orlo estremo della vita, al punto In cui tutto s’obblia, grata e soave Serbai memoria di quel dì, dell’atto Cortese, allor che a me tremante, incerta

Steser le braccia risolute e pie, Né una reietta vergognàr.

La richiesta delle insegne regali come ornamento di morte non è dettata dal desiderio di pompa esteriore, ma risponde all’esigenza di fermare per sempre la vita sugli oggetti che traducono in forma tangibile le memorie dell’amore vissuto. Ermengarda è regina in quanto moglie di Carlo. E sono sempre le memorie che impediscono a Ermengarda di diventare suora. Il pensiero di Ermengarda accarezza nella memoria, con movimento petrarchesco, l’idea di un pentimento di Carlo alla notizia della morte: 224

IV, 1, vv. 106-12 E, se all’annunzio di mia morte, un novo

Pensier di pentimento e di pietade Assalisse quel cor? Se, per ammenda,

Tarda, ma dolce ancor, la fredda spoglia Ei richiedesse come sua, dovuta

Alla tomba real? — Gli estinti, Ansberga, Talor de’ vivi son più forti assai.

I ripetuti inviti all’oblio da parte di Ansberga provocano, attraverso l’immagine della rivale in amore Ildegarde, lo svenimento e il delirio di Ermengarda. Escono allora in folla tutti i fantasmi della memoria. Anche il saluto alla vita di Ermengarda, ripresasi dal delirio, si inscrive entro la memoria infallibile di Dio,

che tutto vede e giudica: IV, 1, vv. 207-10

l'estrema Fatica è questa che vi do; ma tutte Son contate lassù. - Moriamo in pace. Parlatemi di Dio: sento ch’Ei giunge.

La quarta strofa del Coro racchiude la vita di Ermengarda in un destino di memoria e di oblio che la morte suggella: vv. 19-24

Tal della mesta, immobile Era quaggiuso il fato: Sempre un obblio di chiedere Che le saria negato; E al Dio de’ santi ascendere,

Santa del suo patir.

La strofa è attiva, assieme al sintagma «tenue / Obblio» (vv. 79-80), anche nella Cognizione, dove Gonzalo «chiedeva un oblìo efimero al calice e un tenue stimolo per il gastrico... ancora... da dover eludere il giorno, il giorno pastrufaziano! e raggiungere, come potesse, la stella vesperale dell'Oceano» (C 82). «Chiede-

sinteva un oblio» ricorda «un obblio di chiedere», «efimero»

con tizza «Che le saria negato», mentre l'aspirazione di morte 225

movimento ascendente verso la «stella vesperale dell'Oceano», figura della sera finale, riflette il segmento rappresentato da «al Dio de’ santi ascendere». A completare il quadro, il «tenue / Obblio», già spezzato da un forte enjambement sintagmatico, si diffrange in «oblìo efimero» e «tenue stimolo». Dopo lo spazio dedicato agli «irrevocati dì» (v. 30), sempre ritornanti alla memoria, il Coro indica la ragione della morte di Ermengarda in termini provvidenziali di imperscrutabile giustizia divina: vv. 85-108

Sgombra, o gentil, dall’ansia Mente i terrestri ardori;

Leva all’Eterno un candido Pensier d’offerta, e muori:

Nel suol che dee la tenera Tua spoglia ricoprir, Altre infelici dormono, Che il duol consunse; orbate

Spose dal brando, e vergini Indarno fidanzate;

Madri che i nati videro Trafitti impallidir. Te dalla rea progenie Degli oppressor discesa, Cui fu prodezza il numero, Cui fu ragion l’offesa, E dritto il sangue, e gloria Il non aver pietà, Te collocò la provida Sventura in fra gli oppressi: Muori compianta e placida; Scendi a dormir con essi: Alle incolpate ceneri Nessuno insulterà.

Ermengarda, la più innocente delle creature, sconta con la sua

morte le colpe dei padri. In una prospettiva terrena, se ad esse-

re sacrificata è la meno colpevole, la giustizia del mondo coinci-

de con la peggiore delle ingiustizie. È la dimostrazione che nel 226

mondo «non resta / Che far torto, o patirlo», secondo il testa-

mento spirituale di Adelchi: Ve 8,1V35.1:9

Godi che re non sei, godi che chiusa All’oprar t'è ogni via: loco a gentile, Ad innocente opra non v'è: non resta Che far torto, o patirlo. Una feroce Forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto; la man degli avi insanguinata Seminò l’ingiustizia; i padri l'hanno Coltivata col sangue; e omai la terra Altra messe non dà.

Il pessimismo tragico dell’ Adelchi coincide, per quanto riguarda l'impossibilità di una giustizia terrena, con il teorema dell’ingiustizia permanente sviluppato dalla narrazione del Pasticciaccio. La parola definitiva di Gadda sul problema centrale della scrittura, quello della giustizia, entra in risonanza con la soluzione manzoniana dell’ Adelchi. La selezione gaddiana privilegia il Manzoni tragico sino ai limiti della lettura, illustrata dall’ Apologia manzoniana, dei Promessi sposi come tragedia (cfr. 2.2). Le implicazioni tragiche manzoniane non si limitano all’Ade/chi, ma coinvolgono anche il testo più drammatico che Manzoni abbia scritto. I/ Natale del 1833, lacerato internamente dall’incompiutezza e rimasto in sospeso, si ferma al limite dell’indicibile e del silenzio, formando

un testo parallelo, anche per la concezione tragica della giustizia,

allibro invisibile di Gadda. Coincide cioè, nell’intento, al libro che

Gadda avrebbe voluto scrivere ma non scrisse mai per il fratello morto in guerra. La visione terribile della giustizia divina che agita le poche strofe del Natale del 1833 possiede i requisiti per colpire la memoria e la fantasia di un ipersensibile annotatore del dolore come Gadda e si accorda con la drammatica concezione della giustizia che informa il Pasticciaccio. Il Natale del 1833 è pubblicato per la prima volta all’interno di un volume di Antonio Stoppani intitolato I Primi Anni di Alessandro Manzoni. Spigolature (Tipografia Bernardoni, Milano 1874) in unalezione a tratti diversa da quella presente nel testo critico delle Poesie e tragedie curato da Fausto Ghisalberti (Monda227

dori, Milano 1957). Per la seconda strofa Stoppani, che fa l’ipotesi di un nuovo Nazale a più di vent'anni di distanza dal primo inno, sceglie la variante «fulmine», mentre Chiari e Ghisalberti restituiscono «folgore», relegando «fulmine» in apparato: vv. 9-16

Vedi le Intendi Il voler E a tuo

nostre làgrime, i nostri gridi, nostro intèrroghi, volér decidi.

Mentre, a stornare il fùlmine, Trèpido il prego ascende;

Sordo il tuo fulmin scende Dove tu vuoi ferìr.

vv. 9-16 Vedi le nostre lagrime, Intendi i nostri gridi;

Il voler nostro interroghi, E a tuo voler decidi. Mentre a stornar la folgore Trepido il prego ascende Sorda la folgor scende Dove tu vuoi ferir.

La memoria gaddiana è certamente legata al testo di Stoppani, presente anche in successive edizioni e a p. 440 del Manzoni di Luigi Tonelli (Corbaccio, Milano 1928), libro recensito da

Gadda e tuttora presente con interessanti postille nella biblioteca gaddiana conservata presso la Biblioteca e Raccolta teatrale del Burcardo a Roma. La seconda strofa è centrale nell’inno perché amplifica in un orizzonte cosmico la citazione dal Vangelo di

Luca posta in epigrafe al testo: «Tuam ipsius animam pertransi-

vit gladius». Una ripresa che riporta il futuro «pertransiverit» del testo evangelico a un più drammatico e attuale «pertransivit», con variazione attribuibile alla volontà manzoniana, non a un er-

rore di memoria. Alla citazione Stoppani fa seguire la traduzione: «Anche l’ànima tua stessa sarà trapassata dal coltello». La descrizione della morte di Liliana Balducci contiene una

rappresentazione in movimento, quasi una traduzione teatrale, 228

della seconda strofa manzoniana incentrata sulla morte di Enrichetta Blondel:

P 67-8. La inopinata lucentezza, il tagliente e la breve acuità d’una lama. In lei uno sgomento. Lui, di certo, aveva colpito all’improvviso: e insistito poi nella gola, nella trachea, con efferata sicurezza. La

«colluttazione» se pure era da credervi, doveva essere stata nient’altro che un misero conato, da parte della vittima, uno sguardo atter-

rito e subitamente implorante, l’abbozzo di un gesto: una mano levata appena, bianca, a stornare l’orrore, a tentar di stringere il polso villoso, la mano implacabile e nera dell’omicida, la sinistra, che già le adunghiava il volto e le arrovesciava il capo a ottener la gola più libera, interamente nuda e indifesa contro il balenare d’una lama: che

la destra aveva già estratto a voler ferire, ad uccidere.

Una serie di coincidenze lega la rievocazione dell’assassinio del Pasticciaccio al Natale del 1833: il movimento ascendente dell’implorazione, teso in Gadda a «stornare l’orrore» e in Manzoni a «stornare il fulmine»; «il balenare d’una lama: che la destra

aveva già estratto a voler ferire, ad uccidere» dell’omicida del Pasticciaccio che recupera la metafora fulminante («fulmine») della spada divina che «scende / Dove tu vuoi ferir»; «A voler ferire, ad uccidere», che, oltre a ripetere il verbo ausiliare manzoniano,

del tutto ridondante nel Pasticciaccio dove la volontarietà è fuori questione, glossa il significato di «ferir» con «uccidere». A formare una vera e propria sorpresa, tutti gli elementi di coincidenza con il Natale del 1833 sono tanto più rilevati nel Pasticciaccio, in quanto rappresentano le varianti dell’edizione in volume del 1957 rispetto al testo apparso su «Letteratura» nel 1946, come se Gadil da avesse voluto conferire dignità formale all’interferenza con vale Natale del 1833. Si registra una singolare convergenza tra permettono che verbali tessere le e rianti dell'edizione definitiva come si di individuare la memoria manzoniana nel Pasticciaccio,

può vedere leggendo il testo pubblicato in rivista:

breve acuità d’una L 336-7 La inopinata lucentezza, il tagliente e la o a un tratto: colpit aveva certo, di Lui, lama. In lei uno sgomento... ... La colperizia ta effera con de caroti nella e gola e insistito poi nella nient'altro stata luttazione, se pure si potesse credervi, doveva essere implorante... 0 do sguar che un tentativo, da parte della vittima, uno 229

come un gesto simbolico, una mano levata appena, tenuemente, a distornare l’orrore... Colpiti a quel modo, non si vorrebbe nemmeno conoscere l’odio, la disumanità di un oltraggio... «Distornare l’orrore» è mutato in «stornare l'orrore», isome-

trico e semanticamente omologo rispetto a «stornare il fulmine», oltre che per la potente negatività degli oggetti inclusi nella sfera fulminea in Gadda, anche per l’inserzione concomitante del

«balenare d’una lama», mentre viene aggiunto ex zovo «a voler ferire», in accordo con il manzoniano «Dove tu vuoi ferir».

La pertinenza narrativa della memoria del Natale del 1833 nel Pasticciaccio è multipla. Il Natale rappresenta il tempo di morte per Liliana Balducci: P 104

Ingravallo pensava: pensò perfino che il Natale, che il Prese-

pe, che la Befana... coi loro bimbi, con le loro strenne, coi magi... con

quella raggera di fili d’oro sotto al Bambino... paglia al presepe, luce della divina scaturigine... potessero aver addensato, come in un nembo mentale, certe fissazioni malinconiche della signora: 12 gennaio.

Il Natale è anche il tempo per eccellenza dei «morti... bambini» (P 104), quello in cui si raggruma la costellazione gaddia-

na dell'infanzia e del sacrificio, dei caduti ante diem, mentre la

data del 12 gennaio è una delle date più tragiche del Giornale di guerra e di prigionia (cfr. 4.2.7). A fare giustizia dei «morti... bambini», nessuno sarebbe stato più idoneo del «Fanciul severo» che «regna sopra i turbini» ed è insieme il bambino della festa cristiana e la divinità giustiziera di ascendenza biblica. Il concetto terribile della giustizia divina che anima l’inno e che colpisce l’innocente Enrichetta Blondel, «questa tua fra gli uomini / Unica-

mente amata», si accorda perfettamente con la visione tragica

della giustizia inerente alla narrazione del Pasticciaccio. Il «nembo mentale» prefigura la tempesta di morte anche nelle modalità ‘fulminee’ che accompagnano l’uccisione. Il «nembo» è figura della guerra nel quinto tratto della Cognizione, quando l’accanimento delle intemperie sopra le piante traduce l’impazzare delle bombe sui sacrificati (cfr. 33.1). L'ammonizione del saggio autoesegetico I/ Pasticciaccio non ca-

de invano: «Tenete presente l’anno, 1946, in cui il Pasticciaccio è 230

nato, e la sopradescritta urgenza esplosiva. Vale per me, come per altri più generosi di me, la battuta di Tacito: “per silentium ad senectutem pervenere”. E dei sacrificati si deve scrivere ad mortem»

(VM 508). Nello stile gaddiano della memoria, la seconda guerra mondiale rinnova le ferite della prima guerra mondiale. Il Pasticciaccio rappresenta la vendetta tragica dei «sacrificati», delle vittime cioè di tutti personaggi incriminati dalla scrittura gaddiana. Un’interpretazione che privilegi la «dimensione noumenica» del Pasticciaccio si accorda con l’idea di letteratura che emerge in opposizione al neorealismo nel saggio Ur.'opinione sul neorealismo (1950), ed è preziosa anche per segnare, una volta per sempre, l’inconciliabilità irreversibile del Pasticciaccio con la letteratura neorealistica, lucidamente incriminata di bar-

barie gnoseologica: VM 630 Un lettore di Kant non può credere in una realtà obbiettivata, isolata, sospesa nel vuoto; ma della realtà, o piuttosto del fenomeno,

ha il senso come di una parvenza caleidoscopica dietro cui si nasconda un «quid» più vero, più sottilmente operante, come dietro il quadrante dell'orologio si nasconde il suo segreto meccanismo. Il dirmi che una

scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che

dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto... Il fatto in sé, l'oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia... Scusa tanto. Vorrei, dunque, che la poetica dei neorealisti si integrasse di una dimensione noumenica, che in alcuni in me considerati sembra alquanto difettarle.

Il tempo dell'orologio del Pasticciaccio è dettato dal meccani-

trasmo di una giustizia tragica, o, che è lo stesso, di un’ingiustizia

gica, organizzata in termini di pensiero. È lecito intravedere nella costruzione narrativa del Pasticciaccio una traccia polemica globalmente operante contro la visione neorealistica e semplicistica comundella realtà. L’avvertimento lanciato da Gadda dovrebbe del stica neoreali lettura una di que allontanare anche la possibilità che stica, neoreali ione Pasticciaccio. Solo attraverso un’interpretaz si può è quanto di più lontano dall’ideologia e dallo stile di Gadda, i. incriminare di assassinio la domestica di casa Balducc 251

Se si guarda alla rappresentazione superficiale degli eventi e delle situazioni, lo stile del Pasticciaccio, per l’affollamento degli oggetti, risulta comico. La struttura fondamentale dell’opera, sulla quale incide la memoria permanente di Gadda, è invece esclusivamente tragica e poggia su poche e scelte immagini drammaticamente evidenziate. Al di là della presente ipotesi di indagine, che ha cercato di rendere conto del maggior numero di fatti narrativi e di modi stilistici nel modo più elementare, si impone l’e-

videnza incontrovertibile che la scrittura gaddiana non gioca con le parole ma è compromessa irrimediabilmente con una memoria tragica affiorante con la discrezione profusa come velo protettivo dalle allusioni.

Capitolo quinto

La scrittura e il silenzio

5.1. Addizioni e variazioni

La seconda guerra mondiale segna un discrimine fra il Gadda progettista e inventore e il Gadda variantista e riscrittore. Lo stacco è segnato anche dal trasferimento da Firenze a Roma nel 1945. A parte il Pasticciaccio, ideato sul finire della guerra, l’ultimo progetto di una certa consistenza è del 1944, I y22t1 del somaro (pubblicato nel 1988 a cura di Alba Andreini), primo nucleo di Eros

‘e Priapo, saggio parapsicoanalitico sul fascismo comparso par-

zialmente a puntate sulla rivista «Officina» tra il 1955 e il 1956 e poi completo in volume nel 1967. Per il resto, vengono pub-

blicati inediti, con o senza varianti; sono completate opere già

iniziate e per lo più in parte pubblicate (cfr. soprattutto i capitoli e i paragrafi relativi ai diari di guerra, al Primo libro delle fanuovole, alla Cognizione, al Pasticciaccio); sono aggiunti racconti

vi ad altri già composti verso la fine degli anni Venti o durante in gli anni Trenta, sino a formare la raccolta Novelle dal Ducato 0 guerra in duce del fiamme (allusivamente: notizie dallo Stato il con premiata annientato dalla guerra), pubblicata nel 1953, nuova nella Premio Viareggio e poi ampliata con altri racconti o saggi, raccolta Gli accoppiamenti giudiziosi del 1963. Racconti collazionapiù cronache storiche come I Luigi di Francia, per lo degli storipagine sulle 1993) Casini (cfr. te con metodo musivo respiro. Molti ci francesi, ma non più progetti letterari di ampio 233

testi, come le cronache appena ricordate, nascono dal lavoro di Gadda presso il terzo canale radiofonico tra il 1950 e il 1955. 5.2. Approssimazione alla morte

Il successo arriva con la comparsa nel 1957 del Pasticciaccio in volume. Il termine «pasticciaccio» entra nella lingua italiana ed è tuttora vitale. Pubblicata in volume la Cogrizione nel 1963, Gadda riceve il Premio internazionale di letteratura. Man mano che aumenta la fama, lo scrittore si chiude sempre più, a volte anche con rabbia, nel silenzio. Il silenzio è l’altra faccia dell’in-

compiutezza e della renitenza alla pubblicazione che hanno contraddistinto l’attività letteraria gaddiana; è forse l’unico modo per sanare la contraddizione in termini tra senso tragico ed esclusivo della scrittura da una parte e l’espansione della fama di grande scrittore dall’altra. Gadda muore a Roma il 21 maggio 1973, dopo che negli ultimi giorni si era fatto rileggere dagli amici pagine e pagine del

libro, forse, che più aveva contato per lui, i Promzessi sposi, che

conosceva fra l’altro in larga parte a memoria. Un altro giorno e sarebbe scomparso a cento anni esatti dalla morte di Manzoni a Milano: anche la vita riflette simbolicamente nella conclusione l’incompiutezza dell’opera. L’epitaffio che Gadda ha dettato per se stesso — «Condidit pietas» (La pietà lo ha seppellito) — include due significati altrettanto tragici: la pietà di sconosciuti concittadini ha permesso la sepoltura di chi non aveva più sulla terra persone care; la morte è arrivata pietosa ad annullare la sofferenza. Solitudine estrema o sofferenza illimitata: morte come liberazione dal dolore. Chi ha amato la giustizia non può non amare la morte.

Cronologia della vita e delle opere

1893 1912 1915

1916 1917

1918

1919 1920

1922

1924

Il 14 novembre nasce a Milano. Si iscrive al Politecnico per intraprendere gli studi di ingegneria. Parte volontario in guerra; il 18 agosto prende servizio a Edo-

lo presso il 5° Alpini; il 24 agosto comincia a scrivere i suoi diari di guerra (1915-1919), in parte perduti, in parte pubblicati a distanza di decenni, in parte usciti postumi. Partecipa alla battaglia dell'Adamello. È decorato della medaglia di bronzo al valore per l’azione sul Dosso Faiti (18-23 agosto) ed è promosso tenente; il 25 ottobre è fatto prigioniero durante la battaglia di Caporetto; il 5 novembre giunge alla fortezza di Rastatt (Baden-Wiirttemberg). Il 28 marzo è trasferito nel campo di prigionia di Celle (Hannover); scrive il racconto La passeggiata autunnale (sarà pubblicato soltanto nel 1963 sulla rivista «Letteratura»). Il 14 gennaio è a Milano e viene a conoscenza della morte in guerra del fratello; riprende gli studi di ingegneria. Il 14 luglio discute la tesi (Turbine ad azione Pelton con due introduttori); lavora per quattro mesi in Sardegna per la Società Elettrica Sarda; torna a Milano: nel biennio successivo accetterà incarichi dalla De Kiimmerlin e dalla Vizzola. ia; A marzo-aprile e a settembre come ingegnere è in German

si iscrive all'Accademia scientifico-letteraria per conseguire la laurea in filosofia: a dicembre è in Argentina, dove lavora per la Compafifa General de Fésforos. RacTorna a febbraio dall'Argentina e comincia la stesura del 235

1925

conto italiano di ignoto del Novecento; insegna per un anno matematica e fisica al liceo «Parini». Interrompe la stesura del Racconto italiano di ignoto del Novecento (sarà pubblicato incompiuto nel 1983 a cura di Dante Isella); è assunto alla società «Ammonia Casale», dove lavo-

1927 1928

1931 1932

1934 1938 13, 1940 1941

1943 1944 1946 1950 1952 1953 1955 1957

rerà, con qualche interruzione, sino al 1931 prima a Roma ai progetti di impianti per l’ammoniaca sintetica e poi, in Lorena e nella Ruhr, alla supervisione dei montaggi degli impianti. Pubblica su «Solaria» lApologia manzoniana e I viaggi la morte. Comincia ma non conclude la Meditazione milanese (sarà pubblicata postuma nel 1974 a cura di Gian Carlo Roscioni); completa gli esami per la laurea in filosofia ma non presenta la tesi. Pubblica La Madonna dei filosofi. Recensisce (Poesia di Montale) su «L'Ambrosiano» gli Ossi di seppia e La casa dei doganieri e altri versi. Pubblica I/ castello di Udine. Comincia la pubblicazione a puntate della Cognizione del dolore su «Letteratura». Pubblica le prose intitolate Le meraviglie d’Italia e, in sedi sparse, varie favole. Si trasferisce a Firenze. Interrompe la pubblicazione a puntate della Cognizione del dolore; pubblica le traduzioni di La peregrinacion sabia di Alonso Jeronimo de Salas Barbadillo e di E/ Mundo por de dentro di Francisco de Quevedo. Pubblica le prose intitolate Gli Anzi. Pubblica L’Adalgisa. Disegni milanesi. Pubblica su «Letteratura» Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ma interrompe la pubblicazione con la quinta puntata. Si trasferisce a Roma; comincia a lavorare presso il terzo canale radiofonico della Rai; pubblica il saggio Come lavoro. Pubblica I/ primo libro delle favole. Pubblica la raccolta di racconti Novelle dal Ducato in fiamme e Gonnella buffone, riduzione teatrale dalle novelle di Matteo

Bandello. Termina di lavorare per la Rai; pubblica il Giornale di guerra e di prigionia; raccoglie in un unico volume, intitolato I sogni e la folgore, la Madonna dei filosofi, il Castello di Udine e lAdalgisa. Pubblica Quer pasticciaccio brutto de via Merulana e La verità sospetta, traduzione di La verdad sospechosa di J. Ruiz de Alarcén. 236

1958

Pubblica I viaggi la morte, raccolta di saggi usciti a partire dal

1961 1963

Pubblica le prose intitolate Verso la Certosa. Pubblica la Cognizione del dolore e Gli accoppiamenti giudiziosi. I racconti (1924-1958), edizione ampliata delle Novelle dal Ducato in fiamme. Pubblica I Luigi di Francia (conversazioni radiofoniche). Pubblica una seconda edizione accresciuta del Giornale di guerra e di prigionia. Pubblica Eros e Priapo, parzialmente comparso a puntate su

10205

1964 1965 1967

«Officina» tra il 1955 e il 1956, e I/ guerriero, l’amazzone, lo

1970 1971

1973

spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo. Autorizza la pubblicazione del romanzo incompiuto La meccanica (scritto tra il 1928 e il 1929). Autorizza la pubblicazione del racconto incompiuto Novella seconda (risalente al 1928). Il 21 maggio muore a Roma.

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Bibliografia

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240

Roscioni, Gian Carlo 1995? La disarmonia prestabilita. Studio su Gadda, Einaudi, Torino.

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Il duca di Sant'Aquila. Infanzia e giovinezza di Gadda, Mondadori, Milano.

Sesti, Mario 1997 Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini & Castoldi, Milano.

Vela, Claudio 1990 Carlo Emilio Gadda, I/ primo libro delle favole, a cura di C. Vela, Mondadori, Milano.

Testi di approfondimento Per la biografia il riferimento principale è a G.C. Roscioni, I/ duca di Sant Aquila, Infanzia e giovinezza di Gadda, Mondadori, Milano 1997; si possono vedere utilmente, inoltre, G. Cattaneo, I/ gran lombardo, Einaudi, Torino 1991; Gadda al microfono. L'ingegnere e la RAI 19501955, a cura di G. Ungarelli, Nuova ERI, Torino 1993; Le carte militari di Gadda, a cura di G. Ungarelli, Libri Scheiwiller, Milano 1994; «Per favore, mi lasci nell'ombra». Interviste 1950-1972, a cura di G. Vela, Adelphi, Milano 1993; Carlo Emilio Gadda, Biografia per immagini, con testimonianze di P. Bigongiari e P. Citati, Paravia, Torino 1995; Lettere a «Solaria», a cura di G. Manacorda, Editori Riuniti, Roma 1979; Carteggio dell'ing. Carlo Emilio Gadda con l’«Ammonia Casale S.A.», a cura di D. Isella, edizione non venale promossa dalla Ammonia Casale S.A., Verona 1982; Lettere agli amici milanesi, a cura di E. Sassi, il Saggiatore, Milano 1983; Lettere a una Gentile Signora, a cura di G. Marcenaro, con un saggio di G. Pontiggia, Adelphi, Milano 1983; A un amico fraterno. Lettere a Bonaventura Tecchi, a cura di M. Carlino, Garzanti, Milano 1984; L’ingegner fantasia. Lettere a Ugo Betti 1919-1930, a cura di G. Ungarelli, Rizzoli, Milano 1984; Lettere alla sorella 1920-1924, a cura di G. Colombo,

con una Nota biografica di C. Viganò, Archinto, Milano 1987. Per la bibliografia critica i due riferimenti fondamentali sono Con-

tini 1988 e Roscioni 19953. Una sintesi vivace e rigorosa è offerta da G.C. Ferretti, Ritratto di Gadda, Laterza, Roma-Bari 1987. Di R.S.

Dombroski è ricca di spunti l’Introduzione allo studio di Carlo Emilio Gadda, Vallecchi, Firenze 1974. Utili sono la monografia di G. Baldi, Carlo Emilio Gadda, Mursia, Milano 1972-1988 e i volumi collet-

tanei Gadda, progettualità e scrittura, premessa di G. Manacorda, a

cura di M. Carlino, A. Mastropasqua, F. Muzzioli, Editori Riuniti, Ro-

241

ma 1987 (si veda in particolare R. Luperini, Crisi del simbolismo e oltrepassamento dei generi nella «Cognizione del dolore», pp. 101-20), e

La coscienza infelice, a cura di A. Andreini e M. Guglielminetti, Guerini Studio, Milano 1996. Sul Pasticciaccio si incentrano P. Gibellini, Romanesco e ottica narrativa del «Pasticciaccio» di Gadda, in «Paragone», XXVI, 1975, 308, pp. 75-92; C. Benedetti, Una trappola di parole. Lettura del Pasticciaccio, Edizioni ETS, Pisa 1980; F. Amigoni, La più semplice macchina. Lettura freudiana del «Pasticciaccio», il Mu-

lino, Bologna 1995. Per la storia interna del Pasticciaccio si può fare riferimento ad A. Andreini, Studi e testi gaddiani, Sellerio, Palermo

1988. Un’interpretazione originale della scrittura gaddiana è in R. Donnarumma, Gadda e il sublime. Sul quinto tratto della «Cognizione del dolore», in «Italianistica», XXIII, 1994, 1, pp. 35-66.

Molti gli scritti in occasione del centenario fra cui si segnala il numero interamente dedicato a Gadda (1993, 5) dalla rivista «Akzente» (brillante, fra l’altro, il contributo di Gustav Seibt). Il quadro storico entro cui si collocano, fra l’altro, la Cognizione e il Pasticciaccio è illuminato da Luzzatto 1998. Sulla lingua dello scrittore è utile E. Flo-

res, Risonanze classiche ovvero il latino come componente linguistica della «Cognizione del dolore» di C.E. Gadda, in «Filologia e letteratura», X, 1964, pp. 381-98. Esemplare per rigore filologico e acume critico è Formentin 1987. Per lo stile gaddiano, in chiave anche didattica, si vedano gli intelligenti paragrafi di Elena Virgili (2.3; 7.6; 9.1.1; 9.2.1; 10.5.3) in Corsi - Pecoraro - Virgili 1998. Un commento

approfondito al Pasticciaccio sta per uscire, assieme a una nuova traduzione inglese, a opera di Robert de Lucca.

Indice

Introduzione

VII

Avvertenza

Milano, la guerra, i diari 1.1. Carlo Emilio Gadda milanese, p. 3 - 1.2.1 diari di guerra e di prigionia, p. 5 - 1.3. Un metodo manzoniano,

p. 7 - 1.4. Iltribunale del silenzio, p. 8 - 1.5. Il diario segreto, p. 12 - 1.6. «La passeggiata autunnale», p. 16

II

Ingegneria e letteratura: la sperimentazione globale 2.1. Esperimenti narrativi: il «Racconto italiano di igno-

23

to del Novecento», p. 23 - 2.2. Il manifesto letterario:

l’«Apologia manzoniana», p. 28 - 2.3. Esperimenti narrativi: «Novella seconda», p. 30 - 2.4. Coordinate filosofiche: la «Meditazione milanese», p. 34 - 2.5. Il primo libro: «La Madonna dei filosofi», p. 39 - 2.6. Esperimenti narrativi: «La meccanica», p. 46 - 2.7. Il giudizio universale: «L'incendio di via Keplero», p. 53 - 2.8. Educazio-

ne alternativa: «San Giorgio in casa Brocchi», p. 54 - 2.9.

Il diario impossibile: «Il castello di Udine», p. 59 - 2.10. Processi milanesi: «L’Adalgisa», p. 64 - 2.11. I modi dell’allegoria: «Il primo libro delle favole», p. 73

II. Il tribunale tragico: «La cognizione del dolore» 3.1. Autobiografia tragica, p. 79

3.1.1. Autobiografia e letteratura, p. 79 - 3.1.2. Un giallo linguistico, p. 80 - 3.1.3. Maschere di storia, p. 88

243

79

3.2. Allegoria e parodia, p. 93 3.2.1. Un fulmine di guerra, p. 93 - 3.2.2. Fulmini e pianoforti, p. 97 - 3.2.3. Napoleone e le bagnarole, p. 101 3.2.4. Vati e fantasmi, p. 105 - 3.2.5. Figure polivalenti, p. 107 - 3.2.6. Processo ai brillanti, p. 108 - 3.2.7. Doppia lettura, p. 111

3.3. Procedure figurali, p. 114 3.3.1. La morte in memoria, p. 114 - 3.3.2. Formiche in marcia, p. 117 - 3.3.3. Ferite di guerra, p. 122 - 3.3.4. Il modello dantesco, p. 124 - 3.3.5. Platone e il dovere,

p. 126 - 3.3.6. Il TARE le della scrittura, p. 128 - 3.3.7. La seconda guerra mondiale, p. 131

Lo stile della memoria: «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana»

133

4.1. Un'ipotesi di indagine, p. 133 4.1.1. Un giallo a quattro dimensioni, p. 133 - 4.1.2. La scuola infernale, p. 139 - 4.1.3. Memoria permanente e personaggi recidivi, p. 144

4.2. Lo stile della colpa, p. 146 4.2.1. Le orecchie di Mussolini, p. 146 - 4.2.2. Il palazzo maledetto, p. 149 - 4.2.3. Morte e memoria, p. 152 - 4.2.4.

La giuria allusiva, p. 154 - 4.2.5. p. 156 - 4.2.6. I gioielli maledetti, gramma processuale, p. 167 - 4.2.8. p. 172 - 4.2.9. Anagramma militare, zioni metamorfiche, p. 179

Il modello tragico, p. 163 - 4.2.7. DiaInfanzia e sacrificio, p. 173 - 4.2.10. San-

4.3. Lo stile dell'innocenza, p. 182 4.3.1. Procedure grottesche, p. 182 - 4.3.2. Colpevoli su misura, p. 187 - 4.3.3. Inquisizione e fascismo, p. 198 -

4.3.4. La sospensione del giudizio, p. 203 - 4.3.5. L’ingiustizia permanente, p. 212 - 4.3.6. Paradosso tragico, p. 217 - 4.3.7. Lo stile della memoria, p. 222

La scrittura e il silenzio

233

5.1. Addizioni e variazioni, p. 233 - 5.2. Approssimazione alla morte, p. 234

Cronologia della vita e delle opere

235

Bibliografia

239

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monarchia. 1787-1792 M. Bouloiseau La Francia rivoluzionaria. La repubblica

giacobina. 1792-1794 202. A.J.P. Taylor Le origini della seconda guerra mondiale Storia e cultura del Medioevo dal secolo IX al 203. 5:O A. Tartaro Leopardi, canti Il Risorgimento italiano. Storia e testi D. Mack Smith L’Europa della preistoria C. Renfrew L’Indoeuropeo. Lingue, popoli e culture A. Martinet Dottrina della scienza J.G. Fichte Lineamenti di filosofia del diritto G.W.F. Hegel L’Europa dal 1500 al 1700 H. Kamen Dopo l’architettura moderna P. Portoghesi L.A. Seneca | dialoghi La morale dei Greci da Omero ad Aristotele A. Adkins La favola delle api lle Mandevi B. La natura del mondo fisico A.S. Eddington Storia dell’arte italiana A. Chastel cura di) Tecnologia domani (a A. Ruberti Il movimento cattolico in Italia. Dalla ReA. De Rosa staurazione all’età giolittiana 219/231. H.-Ch. Puech (a cura di) Storia delle religioni

204. 205. 206. 207. 208. 209. 210. 2. 242. 213. 214. 215. 216. CATA 218.

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E. Forssman Dorico, ionico, corinzio nell’architettura del Rinascimento > vi -R C. Ghisalberti Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia | O. Capitani Storia dell’Italia medievale G. De Rosa. Il Partito popolare italiano L'Italia dal liberalismo al fasci-

A. Gambino Storia del dopoguerra. Dalla Liberazione al potere Dc L. Russo Machiavelli B. Geremek La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa Ch. R. Beye (a cura di) La tragedia greca. Guida storica e critica L. Allegri Teatro e spettacolo nel Medioevo F. Angelini Teatro e spettacolo nel primo Novecento A. Guidi Storia della paletnologia G. Attolini Teatro e spettacolo nel Rinascimento J. Le Goff Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale C. Calame (a cura di) L'amore in Grecia G.L. Mosse L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste R. Alonge Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento G. Cavallo (a cura di) Le biblioteche nel mondo antico e medievale E.J. Hobsbawm L’età delle rivoluzioni borghesi Sesto Empirico Schizzi pirroniani A. Martinet. Sintassi generale G. Mammarella Storia d'Europa dal 1945 a oggi G.W. Leibniz Nuovi saggi sull’intelletto umano S. Givone Storia dell’estetica G. Grazzini Gli anni Sessanta in cento film G. Grazzini Gli anni Settanta in cento film J. Locke Saggio sull’intelligenza umana, 2 voll.

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A. Leone De Castris Il decadentismo italiano G. Pagano (a cura di) Architettura e città durante il fascismo D. Musti (a cura di) Le origini dei Greci G. Grazzini Cinema ’85 Sesto Empirico Contro i fisici. Contro i moralisti D. Carpanetto e G. Ricuperati L’Italia del Settecento I. Peri La Sicilia dopo il Vespro G. Grazzini Cinema ’89 S. Carandini Teatro e spettacolo nel Seicento N. Kogan Storia politica dell’Italia repubblicana E. Garin Rinascite e rivoluzioni I. Peri Uomini città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo G. Volpe Il Medio Evo E. Ennen Le donne nel Medioevo P.M. Hohenberg e L. Hollen Lees La città europea dal Medioevo a oggi E.J. Hobsbawm Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale J. Latacz Omero A. Baddeley La memoria P. Rossi (a cura di) La memoria del sapere d Chabod Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 P. Puppa Teatro e spettacolo nel secondo Novecento audi Schelling Sistema dell’idealismo trascendentae R. Romeo. Vita di Cavour G. Grazzini Cinema ’83 J. Habermas Conoscenza e interesse G. Duby Guglielmo il maresciallo. L'avventura del cavaliere M. Bloch Lavoro e tecnica nel Medioevo G. Cavallo (a cura di) Libri e lettori nel mondo bizantino. Guida storica e critica F. Prontera (a cura di) Geografia e geografi nel mondo antico. Guida storica e critica B. Spinoza. Principi della filosofia di Cartesio. Pensieri metafisici

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328. F. SaxI La storia delle immagini 329. G. Grazzini Cinema ’84 Breve storia 330. M.I. Finley, D. Mack Smith, C. Duggan della Sicilia Il Novecento. Secolo delle ideologie 331. K.D. Bracher La civiltà dei Maya 332. H. Wilhelmy Le origini del feudalesimo 333. A.J. Gureviè 334. B. Spinoza Trattato politico Napoleone 335. G. Lefebvre 336. W. Burkert Antichi culti misterici L’Età degli imperi. 1875-1914 337. E.J. Hobsbawm 338. M. Mancini (a cura di) Il punto su: | Trovatori Il fondamento della morale 339. A. Schopenhauer 340. G. Grazzini Cinema ’90 341. W.H. Stahl La scienza dei Romani 342. P. Sica L'immagine della città. Da Sparta a Las Vegas La religione dell’umanità 343. G.E. Lessing La diversità delle lingue 344. W. von Humboldt alla scoperta dell'Europa ani musulm | 345. B. Lewis 346. C. Meldolesi, F. Taviani Teatro e spettacolo nel Primo Ottocento 347. N. Borsellino Ritratto e immagini di Pirandello 348. W. Burkert Mito e rituale in Grecia Ghed349. A. Del Boca Gli italiani in Libia. Dal fascismo a dafi 350. I. Kant Scritti sul criticismo Famiglia e matrimonio in Europa 351. J. Goody 352. G. Grazzini Cinema ’86 1 Platone e le tecniche 353. G. Cambiano e ardagin Un'in o. Olimp dell' Fra gli dei 354. J. Ferguson cheologica 355. G. Volpe L’Italia in cammino 356. G. Grazzini Cinema ‘74 cento 357. L. Villari Il capitalismo italiano del Nove i num Orga m Novu 358. F. Bacone La geografia degli antichi 359. F. Cordano 360. N. Borsellino Storia di Verga Storia del pragmatismo 361. A Santucci a dell’antico Egitto Stori al Grim 362. N. 363. J.O. de La Mettrie Opere filosofiche

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N. Savarese Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente i 365. P. Rossi (a cura di) Hegel. Guida storica e critica 366. L.S. Vygotskij Pensiero e linguaggio 367. . Schiavone Giuristi e nobili nella Roma repubblicana 368. Lo spazio del teatro . Cruciani 369. Grazzini Cinema ’91 370. Dotti Vita di Petrarca STR Volpe Medio Evo italiano 372. . Molinari L’attore e la recitazione 373. . Cassirer Da Talete a Platone 374. . Luperini Storia di Montale 375. TIMOOCOTNI . Fuhrmann. Storia dei papi. Da Pietro a Giovanni Paolo Il 376. E.A. Havelock - J.P. Hershbell Arte e comunicazione nel mondo antico. Guida storica e critica 377. Ch.S. Peirce Categorie 378. N. Sapegno Ritratto di Manzoni 379. J.G. Herder Idee per la filosofia della storia dell’umanità 380 M. Ciliberto Giordano Bruno 381 A. Leone de Castris Storia di Pirandello 382/383. G.W. Leibniz Scritti di logica, 2 voll. 384. G. Maddoli (a cura di) La civiltà micenea. Guida storica

385 386. 387.

e critica E. Garin L’Umanesimo italiano P.T. d’Holbach Elementi di morale universale o catechismo della natura

E. Ghidetti (a cura di)

critica

Il caso Svevo. Guida storica e

388. C. Grottanelli - N.F. Parise (a cura di)

Sacrificio e so-

cietà nel mondo antico E. Garin Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano

389. 390. R. Tessari 391. M. Vovelle 392. R. Banham derna F. Quadri

La drammaturgia. Da Eschilo a Goldoni La morte e l'Occidente Ambiente e tecnica nell’architettura

393. Teatro ’92 394 L. Allegri La drammaturgia da Diderot a Becke tt 395 A. Riccardi Il Vaticano e Mosca. 1940-1990

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396. 397. 398. 399. 400. 401. 402. 403. 404. 405. 406. 407. 408. 409. 410. 411. 412.

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M.N. Eagle La psicoanalisi contemporanea J. Bruner La mente a più dimensioni G. Grazzini Cinema ’92 A. Schopenhauer Metafisica della natura M.I. Finley La politica nel mondo antico P. Burke La storiografia contemporanea Il lavoro dell’attore sul personaggio K.S. Stanislavskij Nietzsche allo specchio G. Penzo Il colonialismo italiano da Adua L. Goglia - F. Grassi all'Impero J.-J. Rousseau Scritti politici, vol. | E. Gentile Il culto del littorio Protestantesimo e trasformazione H.R. Trevor - Roper sociale Scritti politici, vol. Il J.-J. Rousseau A. Cassese | diritti umani nel mondo contemporaneo Scritti politici, vol. III J.-J. Rousseau R. Villari La rivolta antispagnola a Napoli La codificazione del diritto in Italia, C. Ghisalberti 42 1865-19 G. Grazzini Cinema ’93 F. Nietzsche | filosofi preplatonici Uomo e natura. Scritti filosofici F. Bacone Fondamento del diritto naturale secondo i J.G. Fichte princìpi della scienza La coscienza infelice nella filosofia di Hegel J. Wahl Il potere dell’Ancien Régime fino alla prima A.J. Mayer guerra mondiale La classe politica G. Mosca Sistema di etica J.G. Fichte Storia della Cina M. Sabattini - P. Santangelo a a scrivere impar Musa La ock E.A. Havel Il pensiero politico di Hobbes H. Warrender Teatro e spettacolo nel Settecento R. Tessari Il Dio nascosto no N. Cusa La filosofia politica di Locke W. Euchner pat L'uomo qualunque. 1944-1948 S. Setta ialicolon del omia Politica ed econ D.K. Fieldhouse smo. 1870-1945 Pensieri sulla cometa P. Bayle

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T. Kezich Cento film 1994 J. Chasseguet-Smirgel La sessualità femminile G. Bruno Eroici furori L. Caretti Manzoni e gli scrittori. Da Goethe a Calvino M. Rosa (a cura di) Clero e società nell’Italia moderna R. Luperini Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere H. Bergson Le due fonti della morale e della religione G.W. Leibniz L’armonia delle lingue C. Donati L’idea di nobiltà in Italia M. Vetta (a cura di) Poesia e simposio nella Grecia antica Ch. Klapisch-Zuber La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze I. Kant

Scritti di storia, politica e diritto

L. Canfora Ellenismo F.A. Yates Giordano Bruno e la cultura europea del Rinascimento G. Mammarella Europa-Stati Uniti. Un’alleanza difficile. 1945-1985 C. Molinari Storia del teatro G. Simmel | problemi fondamentali della filosofia L'anima Alessandro di Afrodisia C. Molinari Bertolt Brecht G. Attolini Gordon Craig F.W.J. Schelling Criticismo e idealismo T. Kezich Cento film 1995 H. Bergson Materia e memoria F. Volpi Il Nichilismo F.W.J. Schelling Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna G. Cherubini L’Italia rurale del basso Medioevo Ro L'Italia laica prima e dopo l’Unità. 1848-

457. K. Lòwith Nietzsche e l’eterno ritorno 458. M. Pera _ Apologia del metodo 459. G. Pescosolido Agricoltura e industria nell’Italia unita 460. M.S. Piretti Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi 461 M. Detienne (a cura di) Sapere e scrittura in Grecia

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J. Piaget Le scienze dell’uomo G. Rosa La narrativa degli Scapigliati Bi FIEDano La psicologia dal punto di vista empirico 1: F; DIALIne La psicologia dal punto di vista empiricol: La psicologia dal punto di vista empiriE Reno co 3. T. Kezich Cento film 1996 D. Musti Demokratia L’essenza del cristianesimo L. Feuerbach La filologia di Giacomo Leopardi S. Timpanaro M.I. Aliverti Jacques Copeau G.W.F. Hegel Scritti storici e politici Il discorso filosofico della modernità J. Habermas. Luigi Pirandello R. Alonge F. Tateo Boccaccio N. Frei Lo Stato nazista S. Rodotà (a cura di) Questioni di bioetica G.G. Ortu Villaggio e poteri signorili in Sardegna J.G. Fichte Saggio di una critica di ogni rivelazione G. Cavallo - R. Chartier (a cura di) Storia della lettura nel mondo occidentale Cento film 1997 T. Kezich L’Europa del Novecento eim G. Lichth

481. 482. La civiltà bizantina 483. C. Mango Ultimi scritti 1948-1951. 484. L. Wittgenstein della psicologia

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Biblioteca Universale CL 20-5558-9

I maggiori scrittori

della letteratura italiana in trattazioni nuove e originali, sistematicamente articolate

per una esauriente

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conoscenza dell’autore

e delle opere. Ml

SU ED

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Aldo Pecoraro (Milano, 1962) ha studiato alla Scuola

Normale Superiore

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di Pisa e attualmente insegna Latino e Greco al Liceo classico di Pontedera (Pisa).

Tra le sue pubblicazioni, oltre a

contributi pubblicati su riviste specializzate (tra le quali il «Giornale storico della letteratura italiana» e la «Rivista di letteratura italiana»), ricordiamo Gadda e Manzoni. Il giallo della «Cognizione del dolore» (Pisa 1996) e Grammatica creativa (con L. Corsi ed E. Virgili, Milano 1998). ISBN 88-420-5558-1 | |

In copertina: Carlo Emilio Gadda nel 1960 (Farabolafoto).

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