Pane e lavoro! Memorie dell'outsider
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«Il vissuto sociale» Collana diretta da Maria Immacolata Macioti

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1. Lavinia Oddi Baglioni, Rita C. Foti, Ritratti di signore. Autorappresentazioni di donne romane di ceto alto tra continuità e mutamento 2. Franco Ferrarotti, Pane e lavoro! Memorie dell’outsider

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IL VISSUTO SOCIALE

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© 2004 Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA viale Filippetti, 28 – 20122 Milano http://www.guerini.it e-mail: [email protected] Prima edizione: maggio 2004 Ristampa:

V IV III II I

2004 2005 2006 2007 2008

Printed in Italy ISBN 88-8335-531-8 Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe 2, 20121 Milano, tel. e fax 02 809506, e-mail: [email protected].

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Franco Ferrarotti

PANE E LAVORO!

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Memorie dell’outsider

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INDICE

Premessa

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CAPITOLO PRIMO

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Nel mondo della penuria

13

CAPITOLO SECONDO

Un’alba incerta, con nebbia, nella Bassa vercellese

15

CAPITOLO TERZO

Elogio della fame

19

CAPITOLO QUARTO

Fame, parola oscena

25

CAPITOLO QUINTO

Il sangue degli innocenti

29

CAPITOLO SESTO

Tecniche di sopravvivenza

33

CAPITOLO SETTIMO

Ritratto del traduttore da giovane

35

CAPITOLO OTTAVO

Un amico speciale

39

CAPITOLO NONO

La velocità di taglio dell’utensile

43

CAPITOLO DECIMO

La riscoperta della sociologia

51

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8 CAPITOLO UNDICESIMO

L’università del nonno

55

CAPITOLO DODICESIMO

La polemica con Carlo Antoni

63

CAPITOLO TREDICESIMO

Le sfortune dell’outsider

65

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

L’umanità di Nicola Abbagnano

69

CAPITOLO QUINDICESIMO

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Gli anni ruggenti del «prof»

73

CAPITOLO SEDICESIMO

L’autunno dell’università

85

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

La rivoluzione dei figli di papà

89

CAPITOLO DICIOTTESIMO

L’angoscia del testimone empatico

95

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

Il tradizionale ruolo ancillare delle donne

101

CAPITOLO VENTESIMO

L’ambiguità della sociologia

105

CAPITOLO VENTUNESIMO

Esperienze elettorali dopo la caduta del fascismo

109

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Suonare i campanelli alle porte nel South Side di Chicago 113 CAPITOLO VENTITREESIMO

Lo splendore del fallimento

115

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Un’eccessiva anticipazione sul sentire medio crea incomprensione

121

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9 CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Le campagne elettorali sono umanamente e finanziariamente costose ma istruttive

125

CAPITOLO VENTISEIESIMO

L’importanza del radicamento nel territorio

129

CAPITOLO VENTISETTESIMO

La metamorfosi dell’uomo politico: linguaggio del corpo e nuovi stili comunicativi

133

CAPITOLO VENTOTTESIMO

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Il paradosso della nuova comunicazione politica

137

CAPITOLO VENTINOVESIMO

Il vecchio ronzino di Dickens

139

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Franco Ferrarotti visto da Alberto Sughi

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PREMESSA

Dovessi trovare il coraggio di aggiungere al titolo di questo libretto una nota esplicativa forse sarei obbligato a proferire un Ecce Homo. E la nota suonerebbe: «Eccomi a voi. Sfioro gli ottant’anni e adesso vi narro, in poche pagine e prima che cali la tela, come sono riuscito a farla franca». Ci rinuncio. Prediligo i titoli brevi, classicamente concisi: Iliade, Odissea, gli Idilli di Teocrito, le Metamorfosi e i Tristia di Ovidio. Fra i moderni, come potrei sfuggire – anche in vista dei contenuti – al gustoso Roughing it di Mark Twain? Ma il Po non è il Mississipi. In un momento di indolente rilassatezza, senza più freni inibitori, potrei anche rievocare i Souvenirs d’égotisme dell’amato Stendhal. Ma Adriano Olivetti – con cui ho pur valorosamente combattuto – non era certo Napoleone. Meglio allora lasciar perdere. Mi basta Pane e lavoro, l’antica invocazione della gente che quotidianamente fatica per procacciarsi i magri mezzi della sussistenza. Richiesta al cui cospetto la letteratura diventa proprio altra cosa. Roma 11 febbraio 2004 Franco Ferrarotti

P.S. Brani di questo libro sono apparsi in testi a cura di Saverio Tutino, Renato Mannheimer, Renate Siebert, che qui ringrazio. Un ringraziamento particolare a Maria Immacolata Macioti e a Antonio Castronuovo per i loro reiterati consigli e incoraggiamenti.

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CAPITOLO PRIMO

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NEL

MONDO DELLA PENURIA

Negli anni del primissimo dopoguerra, quando l’Italia era ancora un paese rurale, immerso nel grigio mondo dei vinti e della penuria, «pane e lavoro» era il motto delle grandi manifestazioni popolari e dei cortei proletari, tenuti debitamente a freno da forze di polizia appositamente addestrate sotto il famoso Ministro dell’Interno, on.le Mario Scelba, dotate di rapide camionette e forse per questo chiamate «La Celere». «Pane e lavoro» era la parola d’ordine che si trasmetteva con entusiasmo contagioso di bocca in bocca. Non c’erano ancora gli striscioni o i cartelli come avviene oggi. Carta e soprattutto tela erano materie prime troppo scarse e preziose per farne scialo. Per dirla in breve, c’era poco pane e niente lavoro. La disoccupazione, specialmente nel Sud e nelle fasce giovanili, toccava il trenta per cento della popolazione attiva. Oggi quella parola d’ordine non basta più. Gli immigrati extra-comunitari vogliono «pane e rose», vale a dire pane e companatico, qualche cosa che si accompagna al pane e lo rende, si suppone, più appetitoso. All’epoca, invece, nell’autunno del 1948, nel congresso a Genova della CGIL, ancora unitaria, non ancora ferita dalla scissione della Libera CGIL, divenuta poi CISL, né da quella della Unione Italiana del Lavoro, o UIL, un sindacalista non intellettuale né aspirante a esserlo, il grande Giuseppe Di Vittorio, lanciava il «piano del lavoro», teso a eliminare o quanto meno a ridurre la percentuale dei disoccupati. Se proprio non si riusciva a far nulla in tempi brevi per i disoccupati, specialmente del Sud, Di Vittorio chiedeva che gli si regalasse almeno una bicicletta, anche usata, tanto da consentire loro di andare per le campagne a racimolare radici, cipolline selvatiche, erbe da mettere in pentola e procurare qualche cosa per sfamare la famiglia. Qui evidentemente non parlava il grande dirigente sindacale, l’uomo di potere, difeso

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dallo scudo burocratico dell’ufficialità. Parlava l’ex-bracciante di Cerignola, e parlava di esperienze esistenziali mai dimenticate. Era l’epoca di Ladri di biciclette. «Pane e lavoro» era ancora il grande, irraggiunto sogno degli italiani. Penso a quegli anni mentre mi raccolgo e cerco di mettere ordine nei caotici cassetti dei ricordi.

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CAPITOLO SECONDO

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UN’ALBA

INCERTA, CON NEBBIA, NELLA

BASSA

VERCELLESE

Biografia, autobiografia; vale a dire, in parole povere: narrarsi la propria storia, utilizzarla come materia prima, a portata di mano. E perché mai? È un atto di deplorevole narcisismo oppure un patetico tentativo di autocoscienza o anche solo l’inconfessato desiderio di rendersi, ai propri occhi, interessante? Filosofi seri assicurano che, arrivati a quarant’anni, uno ha il diritto di darsi un’occhiata alle spalle. Ma perché non prima? Perché aspettare che le tenebre calino «nel mezzo del cammin di nostra vita»? Ai bambini si diceva una volta, per placarne la curiosità spesso imbarazzante, che si nasce sotto i cavoli. O forse questa piccola bugia riusciva a evitare gli inconvenienti di un’educazione sessuale eccessivamente precoce. Ma si nasce anche in paesi dove non fioriscono i limoni e non crescono i cavoli né spira il mite zefiro dal cielo azzurro né il profumo dei roseti a maggio batte quello dei letamai fumanti. Da dove vengo, dunque? A quale famiglia appartengo e da quale mi sento, nello stesso tempo, protetto e legato, rassicurato ma anche imprigionato, a partire dal nome imposto e dal cognome ricevuto? L’ideale sarebbe essere messi al mondo e subito abbandonati, se non proprio scagliati dal monte Taigeto come capitava a Sparta ai neonati men che perfetti. Sarebbe, tra le altre cose, il rimedio più efficace contro la «bomba demografica». In ogni caso, abbandonati, non importa dove: alla porta di una villa o di un convento, in un cassonetto della spazzatura, sulla panchina dei giardini pubblici, o all’angolo di un marciapiede come un fagotto smarrito in un momento di distrazione. Tutto sarebbe preferibile alla perdita della propria originalità selvaggia, imprevedibile, bisbetica, unica, irriducibile: il marchio dei sopravvissuti, il loro titolo di gloria. In realtà, siamo tutti presi, fin dall’origine, e in qualche modo invischiati nel mito della madre. La stessa figura paterna, il terribile mostro del maschilismo, mascherato, ma non

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sempre, da sollecitudini paterne-patriarcali, il cieco autoritarismo dei padri-padroni: tutto questo è opera delle madri. Sono le madri che allevano i loro nati maschi nell’idea del loro primato assoluto. Non avevo ancora superato il primo anno di vita, squassato dalla tosse e con gli intestini in perenne rivoluzione, che fui provvidenzialmente staccato da mia madre. Dovetti lasciarla senza la gioia del succhiare i suoi capezzoli rossi, perduto nella campagna selvosa, dietro i pioppi svettanti e le acacie calve a segnare i confini dei campi brinati d’inverno. Mi è toccata un’alba uggiosa e incerta. Benedico tutte le mattine di fredda nebbia piemontese. Hanno fasciato le mie prime giornate. Mi hanno dato il senso del mistero: ascoltare le parole smozzicate, incomprensibili di un compagno di viaggio o di un passante che non si vede. Benedico la primissima infanzia senza madre e senza padre, nelle mani discrete e nodose di bisnonni taciturni. Ho sempre saputo che solo la primissima infanzia è un vero dono, l’unico dono concesso agli umani, non richiesto, sempre troppo tardi per rifiutarlo. Tutto il resto è dono del caso, capriccio delle circostanze, ma da cogliersi al volo, con le unghie e coi denti. Nulla di regalato. Una vita strappata a morsi, goduta nell’immediato, rivissuta nel ricordo. Da piccolo o piccolissimo, fra la nascita e i due anni, colpito da polmonite doppia, in casa si aspettava con trepidazione la «settima», vale a dire il settimo giorno dall’inizio della febbre alta. Non c’era penicillina. Non c’erano antibiotici. Se al settimo giorno interveniva almeno un colpo di tosse – secco, deciso, di quelli che squassano la povera cassa toracica dell’infante mingherlino, ridotto a un mucchietto d’ossa, che, se esposto alla luce accesa, si fa trasparente – c’è speranza. Il catarro può smagliarsi. Si apre uno spiraglio. Altrimenti è la fine, per asfissia, soffocamento, blocco della respirazione. Rifletto che la «settima» è decisiva. È uno spartiacque fra la vita e la morte. Sempre il sette, il numero sacro e maledetto. Il settimo sigillo; i sette veli; i sette peccati capitali… Settanta volte sette. Intanto, il bambino-bambolotto aspetta. Ottant’anni fa, dopo la prima guerra mondiale e fino agli anni Cinquanta, terminata la seconda, nel mondo subalterno i bambini venivano fasciati, almeno fin verso i due anni. Questa fasciatura, che al buio li faceva a volte somigliare a mummie premature, era utile per le madri, spesso prese dai lavori non solo domestici, e lo stesso bambino fasciato, non potendosi muovere, non rischia-

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va brutte, rovinose, qualche volta mortali cadute. L’operazione veniva fatta più volte al giorno fra un cambio igienico e l’altro, con delle pezze di tela bianca, ma accadeva, specialmente per le madri molto occupate in casa e fuori, che il cambio si facesse solo due volte al giorno, la mattina e la sera, e allora erano pruriti e rossori piuttosto dolorosi nelle parti basse, genitali e natiche, che non sempre il borotalco e neppure la polvere di Fissan ad alta protezione riuscivano a mitigare. Era l’epoca del bambino-bambolotto. Ma la socializzazione primaria, tutto sommato, ai miei tempi durava poco. Terminate le scuole elementari, cinque anni in tutto, ci si decideva, non c’era tempo da perdere. Come aveva ragione – ma l’ho compreso più tardi – Blaise Pascal quando annotava che la scelta della professione è la decisione più importante della vita ma ne decide quasi sempre il caso. Qui però non era neppure il caso, le hazard, a far bruciare le tappe, ma la pura e semplice necessità. Bisognava guadagnarsi da vivere. Si entrava nella società extra-familiare come in una terra straniera, se non proprio ostile, certamente non facile, e non si entrava con un duello, come a suo tempo suggeriva Stendhal, ma col capo chino, secondo l’antica massima dell’initium sapientiae timor domini, ossia che il timore reverenziale verso il signore costituisce l’inizio della saggezza. Non esisteva ancora l’adolescenza protratta, tipica invenzione sociale della borghesia urbana. La rete protettiva della famiglia originaria era limitata o inesistente. Di fronte al ragazzo medio, a parte i pochi ardimentosi giovani in cerca di fortuna, si profilava, alle soglie della pubertà e anche prima, il mondo del lavoro subalterno per procacciarsi i mezzi materiali di vita. Per le ragazze vigeva la Weltanschauung, o concezione della vita, pan-matrimonialista, troneggiava la meta ambita del matrimonio, il regno domestico. Le donne «single» o donne in carriera non esistevano ancora. «Zitella» era un insulto, condito da un certo grado di compassione.

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CAPITOLO TERZO

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ELOGIO

DELLA FAME

Non intendo intrattenere qui il lettore sugli anni della fame e della guerra. Riassumendo e tirando via alla brava, posso solo dire che, al di fuori del lavoro subalterno, non c’era molto da scegliere. L’alternativa era il vagabondaggio, non privo di attrattive, ma purtroppo sempre accompagnato, in maniera peraltro imprevedibile, da periodi più o meno lunghi di fame. Si fa presto a dire fame. Il fatto è che si mangia di regola almeno tre volte al giorno, che sono molte. Per la prima colazione non mancano le risorse, i sotterfugi, gli stratagemmi, i piccoli furti con destrezza. Per esempio, di buon mattino si può andare con fare distratto, ma non troppo, dalle parti di Porta Palazzo, se uno per caso si trova a Torino, o al mercato di Via Alessandria a Roma, e passare da una bancarella all’altra dove viene bellamente esposta la frutta fresca di stagione e, con l’aria intenta dell’intenditore piuttosto schizzinoso, guardar con attenzione, ma anche palpare, mele, pere, susine e saggiarne la relativa durezza e grado di maturazione, e poi anche, ma rapidamente, assaggiarne qualche specimen, così, con la sovrana noncuranza di un cliente svogliato, non con la voracità dell’affamato cronico. Restano i due pasti principali, a mezzogiorno e a sera, e qui è il difficile. Recano i giornali (febbraio 2004) che un ragazzo quindicenne, scappato di casa, vive con un panino al giorno. L’adolescente non tarda ad apprendere le sobrie, dure lezioni della fame: «Quando mi sono accorto di avere così poco denaro, ho deciso di risparmiare, era l’unico modo per far durare la mia fuga […]. Mi concedevo un panino di prosciutto crudo al giorno […] lo spezzavo a metà, una parte per la mattina e una parte la sera. Il resto, acqua». È chiaro che con una dieta del genere non è possibile durare per più d’una settimana. Altra tecnica di sopravvivenza è quella dell’imbucato. Disponendo di una giacca festiva seminuova, camicia pulita accettabilmente stirata, cravatta intonata, si può sempre tentare di en-

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trare di straforo in una cerimonia di nozze, meglio in un wedding party, perché è più facile negli Stati Uniti, ma qui c’è un doppio ostacolo da superare. In primo luogo, la guardia attenta che viene fatta, anche con poliziotti privati, alla stanza dei regali, da mostrare agli ospiti ma a debita distanza (vedere ma non toccare!), e poi, per quanto mi riguarda, il punto debole erano le scarpe, che andrebbero lucide e in forma per l’occasione mentre le mie erano invariabilmente sfondate e scalcagnate. Certo, la fame mette l’uomo in rapporto diretto con la natura e in questo senso è apprezzabile. I crampi allo stomaco, il gorgogliare sordo degli intestini disoccupati fanno cadere sogni e illusioni. Feuerbach è forse grossolano, ma la sua affermazione perentoria che l’uomo è ciò che mangia (Mensch ist was er isst) non è facilmente smontabile. Si può dire che in una discussione sarebbe quindi sufficiente sapere che cosa l’interlocutore abbia mangiato per aver sempre pronta una risposta adeguata. Ma se l’uomo è ciò che mangia, se non mangia, l’uomo non c’è e viene meno ogni raffinata discussione. La fame è una lezione di sobrietà, riporta alle origini, quando si nasce fra sangue e feci. Nessuna meraviglia che sulla fame in senso proprio si sia scritto poco. Quasi nulla. Il contadino Knut Hamsun – norvegese, come Thorstein Veblen che avrei incontrato, da traduttore, anni dopo – ne parla, ovviamente, in Fame, il libro che gli aveva dato celebrità, ma è lesto a prendere le distanze e a esaltare invece il sogno, il mistero, i vagabondaggi non più famelici ma poetici. Il realismo di Fame, in alcune pagine, resta tuttavia indimenticabile come lo possono essere solo i resoconti semplici, scarni, le vere storie di vita. Si pone domande che solo con la Shoah degli Ebrei nei campi nazisti, ossia con Dio al tempo di Auschwitz, emergono con la forza di interrogativi esistenziali profondi: «Com’ero caduto in basso. Con moto preciso e uniforme finché un giorno, una strana cosa, mi trovai senza nulla, senza nemmeno un pettine o un libro da leggere, e fui molto triste…». L’affamato «è quasi nudo. Indossa solo i pochi abiti che ancora non ha dovuto impegnare. Non mangia da giorni. Forse domani riuscirà a racimolare qualche corona vendendo un articolo al giornale. Ma mancano ancora parecchie ore a domani. Sente che sta morendo. E Dio dov’è in tutto questo? Probabilmente sta ridendo di lui». Molti conoscono, specialmente nell’America latina, Josué de Castro, e la sua Geografia della fame. Trovo il libretto negli

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anni Sessanta in una piccola, polverosa libreria di Manhattan. Lo scorro rapidamente. Mi fa l’onore di citare la mia Sociologia come partecipazione, ma il discorso di de Castro si fa subito politico-ideologico, quindi impersonale e astratto, mentre io sono soprattutto interessato alla fame come fenomeno e sensazione e autopercezione e dannazione individuale, attacco alla persona, ai suoi succhi vitali. Josué de Castro ha ragione quando chiarisce nei paesi tecnicamente sottosviluppati la contraddizione fra i due sviluppi, industriale e agricolo, il contrasto fra la necessità sociale d’assorbire manodopera e necessità tecnico-economica di produrre a prezzi di concorrenza oggetti paragonabili a quelli che vendono i paesi industriali. Non si capisce nulla delle difficoltà dell’industrializzazione nei paesi sottosviluppati, se non si comprende che questa «manodopera da assorbire», questo 60% che vive in condizioni disumane, non è il prodotto di un mercato interno in formazione, non è il prodotto della scissione di piccoli produttori di merci in capitalisti da una parte e salariati dall’altra: non si tratta qui del processo descritto da Marx nella Sezione Settima del Primo Libro del Capitale per l’Inghilterra, o da Lenin nello Sviluppo del capitalismo in Russia. Quest’enorme massa espropriata è il prodotto dell’erosione prodotta dall’imperialismo in decenni di asservimento e di rapina; questa erosione ha creato gli espropriati, ma non il mercato, né le fabbriche, né i capitalisti; ha reso enormi masse umane «libere» di morir di fame. La manodopera a buon prezzo, espressione di una mancata rivoluzione agraria anziché di una rivoluzione agraria già avvenuta, impedisce dunque la produzione di oggetti industriali a prezzi di concorrenza – non la favorisce, come crede il signor Popovic. Inoltre, il vero problema dell’industrializzazione non consiste nell’esportare prodotti industriali, e tanto meno materie prime, a prezzi vantaggiosi, ma nel creare il mercato interno, cioè nell’avviare lo scambio fra industria e agricoltura. Di fronte a tutte queste difficoltà, Josué de Castro è costretto a porre il problema della violenza e a riconoscere che: «Non si conoscono esempi di trasferimento pacifico del potere nel mondo moderno […]. Gli esempi più drammatici si incontrano nella storia degli Stati Uniti […]. È possibile che il Brasile sia un’eccezione storica […]. È possibile, ma non è certo». In ogni caso, l’affamato è troppo debole per essere violento. Si rassegna. Accetta le sue condizioni sociali come un fatto naturale, come la pioggia o il sereno. Il mondo della miseria è

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il mondo della rassegnazione evangelica. Come potrei dimenticare le lunghe file di braccianti della canna da zucchero, di Recife, nel Nordeste brasiliano, con i loro camicioni bianchi, la sera in attesa, in silenzio nell’avanzare delle ombre, della sgangherata corriera con coroncine e santini penduli sul parabrezza, che li riporti a dormire nei capannoni cadenti accanto alla mensala o casa dei padroni? Il tenore di vita dei contadini russi sotto il dominio staliniano non è certo migliore, come si può desumere dall’impressionante ricerca di Lev Timofeev1. Anche il Papa si cruccia per i milioni di bambini che in Africa languono nella denutrizione e nell’inedia. Molti muoiono semplicemente di fame. Ma non è forse la stessa presenza dei missionari europei a rendere appetibili prodotti alimentari che non si hanno le divise forti per comprare mentre spariscono le tradizionali coltivazioni di tapioca e manioca, un tempo sufficienti a sfamare il continente e oggi disprezzate perché non «moderne»? Si fa presto, dunque, a dire fame. Discetta, parla e scrive intorno alla fame chi non l’ha mai sperimentata in proprio. La fame fa vergogna. «Morto di fame» è un insulto grave. Non ispira pietà, ma disprezzo, un vago ma realissimo terrore della contaminazione da contatto. Aver fame è un’esperienza umana complessa. Occorre procedere a distinzioni alquanto sottili. C’è la denutrizione, che è una fame non prontamente visibile né individuabile dall’esterno. Provoca momenti di stanchezza, indolenza, stati sognanti di leggero torpore. Le funzioni corporali si alterano. I medici, con la massima serietà, cominciano a parlare di «distonia neurovegetativa». A un gradino più basso, o più alto, si incontra la vera e propria inedia, quella che gli anglofoni chiamano starvation. Qui la situazione si fa seria. Per placare i morsi dello stomaco vuoto, noti anche come crampi, è consigliabile ingerire pane raffermo, preferibilmente pane di riso o baguette o michette del giorno prima, ormai marmorizzate a dovere, da irrorarsi con abbondanti bevute d’acqua fresca non appena ingoiate, tanto da impregnarle bene e causarne un aumento congruo di volume, che conferisce allo stomaco un confortevole senso di pienezza.

1 Soviet Peasants or the Peasants’ Art of Starving, a cura di A. Pitassio, V. Zaslavskji, Telos Press, New York 1985.

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L’inedia prolungata – sei settimane segnano probabilmente il punto critico – espone però al rischio di improvvisi mancamenti, o svenimenti, specialmente durante la marcia a piedi. Se non si viene soccorsi, e i gentili caritatevoli soccorritori non si rendono subito conto che non si tratta di romantici turbamenti psichici, ma semplicemente della volgare, plebea, vergognosa mancanza di cibo, ossia di fame, si ha la sorpresa di una morte piuttosto piacevole, simile a quella per assideramento o per dissanguamento, senza strappi agonici drammatici – si è in genere troppo deboli per questo – e si arriva all’esito fatale dolcemente, sensim sine sensu, in pace con se stessi e con il mondo. L’individuo si dissolve. È ridotto in briciole. Si comprendono le ragioni che hanno spinto i regimi dittatoriali di massa del secolo ventesimo a sigillare le loro popolazioni nei ghetti dell’autarchia, a promulgare leggi contro l’urbanesimo, a rinnovare i lugubri fasti del lavoro schiavile precristiano. È stato praticato sul piano della quotidianità l’uso scientifico della penuria a favore del potere dominante. La fame come deterrente. La precarietà come destino.

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CAPITOLO QUARTO

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FAME,

PAROLA OSCENA

Vi sono paesi e culture in cui le parole «fame» e «povero» non si possono pronunciare. Sono parole oscene. Il povero è considerato un «percosso da Dio», una sorta di appestato. Si parla dei poveri, la cui realtà è innegabile, con imbarazzo, facendo ricorso a un eufemismo tartufesco. Nell’Ottocento facevano paura, erano considerati socialmente pericolosi. Se ne occupava il ministro di polizia. Ora vengono chiamati underprivileged, vale a dire «sottoprivilegiati»: sono pur sempre dei privilegiati, ma un po’ meno della media, privilegiati di seconda mano, cittadini di serie B. Come mai? Nelle società tecnicamente progredite, la povertà non è accettabile. È uno scandalo e una vergogna. Indica, per l’opinione comune e spesso per gli stessi poveri, un fallimento personale, non chiama in causa la società, rimanda a una responsabilità puramente individuale. Queste società, tecnicamente progredite ma spesso umanamente imbarbarite, non riescono a comprendere che i problemi dell’individuo non si esauriscono nei termini di una questione individuale. Da circa mezzo secolo, a poco a poco, con l’avvento dei grandi consumi e del potere ipnotizzante massmediatico, l’Italia è diventata parte di queste società industrializzate in cui la solidarietà sociale si è appannata e che vivono all’insegna del cinico principio «ciascuno per sé e Dio per tutti». Naturalmente, l’Italia resta Italia, una nazione appartenente alla grande cultura mediterranea. Non si è trasformata in un feudo calvinista né ha sofferto di una totale «omologazione» come poteva temere l’antropologo a orecchio Pier Paolo Pasolini, che era un rapidissimo scippatore di idee e di termini, di cui non sempre capiva a fondo il senso. Sta però di fatto che, pur continuando a vivere sotto il patrocinio di San Francesco d’Assisi, nell’Italia di oggi la povertà non riscuote un notevole apprezzamento e il bacio al lebbroso

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sarebbe considerato solo una pratica anti-igienica. Anche in Italia, entrata nel ristretto club dei paesi ricchi (e le stesse macroscopiche operazioni di frode e corruzione su scala internazionale ne sono la paradossale conferma), la ricchezza, quella grande, quasi non più calcolabile, che addirittura può far sorgere il dubbio su quale villa, fra le molte, scegliere per le vacanze o anche solo per un fine-settimana, sta esercitando un fascino crescente, tanto da far ritenere non solo accettabile, ma del tutto naturale che un magnate dell’universo audio-visivo sia nello stesso tempo primo ministro, unendo così, in una sola persona, potere economico e potere politico, decoro sociale e influenza carismatica. La ricchezza indubbiamente prodotta dal sistema capitalistico odierno non si diffonde a macchia d’olio, bensì a pelle di leopardo. Non solo: le stesse esigenze funzionali del sistema capitalistico hanno bisogno di un lavoro dipendente duttile, in grado di adattarsi a una tecnologia produttiva in rapida evoluzione, quindi flessibile, aperto al cambiamento, in una parola, precario. La scomparsa della stabilità del lavoro, delle carriere sicure d’una volta, non la scomparsa dell’Italia industriale, è la grande novità dei nostri giorni. I sociologi, nelle loro laboriose ricerche, spesso ingannevoli perché appoggiate a dati statistici non sufficientemente disaggregati e quindi incapaci di dirci cosa ci sia dietro al dato, quale sia la «polpa umana» delle persone, il loro destino dentro le grandi strutture impersonali, hanno distinto tre livelli di povertà: a) la linea di povertà, quando la famiglia ce la fa a malapena ad arrivare alla fine del mese, ma se si cambia la macchina, non si mangia carne o si sacrifica il cinema o si rinuncia al concerto magari per un anno; b) la situazione di indigenza, allorché i soldi bastano solo per il vitto, ossia per le cibarie fondamentali, ma restano scoperte le bollette (gas, elettricità, acqua, telefono, televisione) e le méte vitali si restringono in misura drammatica, specialmente per i ragazzi della famiglia ancora in età scolare; c) il livello della miseria, quando l’impossibilità di pagare l’affitto, la luce, l’acqua ecc. spingono le persone a dover scegliere l’espediente come mezzo di sussistenza, il marciapiede come casa, la strada come domicilio.

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Ma la «nuova povertà» ha questo di drammatico: che non è visibile a prima vista, che chi ne è colpito si vergogna, tace, non parla, si nasconde, sceglie il silenzio. La vera povertà, quella inedita, è quella che non si vede, che non parla. Bisogna andare a esplorarla con la ricerca sociologica. Tre anni fa ho diretto, per conto del CRIPES (Centro per le ricerche politiche, economiche e sociali), un’indagine sulla povertà a Roma e nel Lazio. Il nuovo povero che ne è uscito è un dignitoso professionista di mezza età, magari un professore di scuola media, con moglie, la quale per ragioni di decoro sociale non può andare a servizio nel quartiere, due figli adolescenti. Siamo al livello della miseria dignitosa. I figli, talvolta, riescono a farsi prestare il motorino da qualche amico compiacente: «Sai, mio padre non può, non ce la fa…». Vi sono ferite nascoste nella nuova povertà che nessuna macrostatistica potrà mai mettere in evidenza o almeno far sospettare. Si calcola che in Italia, oggi, sei milioni di lavoratori siano ormai vicini alla soglia della denutrizione e della povertà.

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CAPITOLO QUINTO

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IL

SANGUE DEGLI INNOCENTI

In questa situazione le fasce più deboli della popolazione sono a rischio. Si pensava che le società tecnicamente progredite, se non opulente, fossero anche società puero-centriche, vale a dire traboccanti di attenzione per i bambini. L’attenzione c’è ma è negativa, in qualche caso è criminale. «La mamma mi vende agli orchi», lamenta la bambina precocemente avviata verso lo squallido mondo della prostituzione e della pedofilia. Non c’è da guardare lontano. Gli orchi siamo noi. Anche solo per distrazione o per leggerezza, rischiamo di farci complici di un vero e proprio massacro dell’infanzia. Non è più il caso, tipico della società ottocentesca, della «piccola fiammiferaia» di Andersen. Una società economicamente evoluta, una società fondata sul mercato e quindi sui rapporti utilitari, è capace di crudeltà inaudite. Direttamente o indirettamente, intervenendo in prima persona nel crimine, oppure lasciandolo passare o condonandolo come pratica puramente occasionale, la società prospera permette di fatto lo sfruttamento dei bambini, il suo anello più debole. Altro che la Befana! Le cifre fornite dalla Pontificia missione pro-infanzia, attinte per lo più dall’UNICEF e da altre istituzioni internazionali, gettano un’ombra pesante sui paesi sviluppati del pianeta: undici milioni di bambini non arrivano ai cinque anni; centocinquanta milioni sono sotto peso; centoventi milioni non frequentano la scuola, sono dei dropout, evasori scolastici a tutti gli effetti. Il fenomeno sembra riguardare tutto il pianeta. Come mai, tuttavia, in Paesi sviluppati come gli stessi Stati Uniti, unica superpotenza rimasta sulla scena, dove non mancano certamente i poveri e addirittura i «senza tetto» che battono i marciapiedi delle strade più frequentate fanno parte del paesaggio urbano (a parte New York in cui l’ex-sindaco Rudolph Giuliani ha cacciato il problema con la scopa di ferro sotto il tappe-

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to), non si vedono bambini o minori che vivono di espedienti per la strada salvo essere sequestrati e uccisi dopo essere stati stuprati? Vien da pensare, in primo luogo, alla mano pesante delle leggi americane. Negli Stati Uniti non ha corso la lacrimosa retorica a difesa dell’infanzia, ma si può finire in carcere anche solo per uno schiaffo al proprio figlio. La legge è severissima e viene duramente applicata. Per lo stupro di un minore è sempre prevista la pena capitale. In secondo luogo, non esiste l’economia sommersa o «invisibile», campo ideale di sfruttamento dell’infanzia, sottratto alle leggi, come invece esiste nel resto del mondo, Europa compresa. Nessuno può sottovalutare l’opera benemerita, su scala mondiale, dell’UNICEF. Se ci si dovesse arrestare ai programmi e ai proclami, alle enunciazioni di principio, ma anche ai regali, ai doni che, per esempio in occasione della Befana, non vengono certamente risparmiati, nonostante l’odiosa distinzione fra bambini buoni, cui andranno, nella famosa calza, i dolci, e bambini cattivi, cui toccherà invece il carbone, ci si potrebbe mettere la coscienza in pace a buon mercato. Ma le parole non possono coprire una realtà che appare sempre più allarmante. Non si tratta solo di lavoro minorile, meritoriamente denunciato, per l’Italia, tempo fa dalla CGIL, con una documentazione da far rabbrividire, tanto da dover prendere atto che nella prospera Italia, industriale e addirittura, secondo alcuni analisti corrivi, post-industriale, tecnicamente progredita, il lavoro minorile riguardava almeno quattrocentomila ragazzi e ragazze al di sotto dei quattordici anni. Evidentemente il progresso tecnico non esclude la barbarie civile. La questione è tuttavia più ampia. Non riguarda soltanto l’evasione delle leggi sul lavoro. Le statistiche dell’ONU, per quanto concerne l’infanzia, non lasciano dubbi. Con l’industrializzazione selvaggia sono caduti antichi argini, tradizioni millenarie che proteggevano il nucleo familiare originario e vedevano nei bambini la perpetuazione del gruppo e la speranza dell’avvenire. Oggi invece si profila un fenomeno grave: i bambini sono visti solo come l’anello più debole, quello che più facilmente può essere impunemente sfruttato secondo una serie di pratiche e di veri e propri crimini che vanno dalla pura e semplice vendita del bambino allo sfruttamento del bambino musicista nelle metropolitane, ladro sugli autobus, questuante nei centri metropolitani. L’impresa criminale a carico dei bambini, per lo più indifesi e abbandonati dalle loro

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famiglie, giunge all’apice nel caso, che grida vendetta, del commercio dei minori come cavie umane, se non come fornitori di organi per l’«industria» degli impianti, degli espianti e dei trapianti. Si notano differenze fra i vari Paesi, legate alla storia e all’antropologia, ma la ragione fondamentale per questo scempio è una sola, ed è sempre la stessa: la povertà endemica, la povertà come modo di vita che si riproduce e che non scorge nel bambino nient’altro che un mezzo di sussistenza, un’occasione di compravendita. Per gli abitanti delle società prospere, di fronte a questa infamia perdurante, sarà sempre più difficile guardarsi nello specchio, la mattina, senza almeno arrossire. A questi bambini non è stata neppure concessa la possibilità di crescere, di svilupparsi e raggiungere l’età adulta. Sono stati sbriciolati nella fase di massima debolezza. Le loro vite saranno ricordate solo come briciole di vita, organi slabbrati, frammenti.

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CAPITOLO SESTO

TECNICHE

DI SOPRAVVIVENZA

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Quando sento parlare di briciole di vita, mi viene naturale pensare alle braciole di maiale. Nel mondo odierno, confesso che stento a vederne la differenza. Dopo la picaresca stagione dell’espediente come mezzo di sussistenza, più o meno piacevolmente vissuta fra Piemonte e Liguria, con qualche godibile interludio nella Francia meridionale, durante gli anni di guerra (l’indimenticabile oasi della «nonò o France non occupée), mi interrogo sulle attività lavorative intraprese per far fronte, in maniera passabilmente regolare, alle necessità della vita. Mi fermo un istante a riflettere sulle esperienze trascorse e guardo alla mia vita passata, già forse troppo lunga per essere fedelmente ricordata nei particolari, compresi quelli significativi, mi rendo conto di non avere sottomano una professione specifica, un lavoro, cui fare riferimento. Non è forse un caso che non abbia mai pensato di farmi stampare un biglietto da visita con l’indicazione della mia vita professionale socialmente accreditata. Se però limito l’analisi alle varie attività – non così varie tuttavia da farmi paragonare al polytropos Odisseo – posso dire di avere esercitato, per tirare a campare o, come anche si dice, sbarcare il lunario, tre professioni: 1) traduttore, all’incirca dal 1942 al 1948; 2) tornitore nel reparto attrezzaggio di un’industria metalmeccanica di precisione, ottobre 1948-maggio 1949; 3) professore o docente o consulente a vario titolo. 1951: Chicago; 1953: Parigi, «directeur d’études» alla «Maison des Sciences de l’Homme»; Roma e dintorni dal 1953 fino al 2003, pur continuando a dare, occasionalmente, qualche contributo didattico all’estero, dal Nord America al Giappone, in Spagna, nell’ex Unione Sovietica, nella Hebrew University of Jerusalem e in programmi Master e simili, l’ultimo corso formale essendo stato offerto, stranamente, alla LUISS, Roma, per studenti americani di passaggio.

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Di altre due attività, a vario titolo, lavorative – quella di diplomatico internazionale (carte verte) e capodivisione «Facteurs sociaux» a Parigi, all’OECE, ora OCSE, Château de la Muette (1958-1961) e quella di Deputato al Parlamento, III Legislatura (1958-1963), per la I Circoscrizione (Torino, Novara, Vercelli) – darò conto, a parte, più avanti, oppure più estesamente in altra sede, trattandosi di attività a latere, ossia di mere esperienze esistenziali, che si potrebbero anche definire, a voler essere puntigliosi, «vite laterali». Mi si dice che ho lavorato molto. In realtà, detesto il lavoro e per questa ragione è probabile che lavori in fretta, per liberarmene e andare in giro, vagare per la campagna, ascoltare uccelli che non vedo e descrivere cortecce di alberi che somigliano sempre più da vicino alla pelle che mi trovo quando mi sbarbo, borbottando, la mattina. È il tipo di lavoro come poena o pònos che ho sempre detestato. Ciò che detesto più del lavoro è solo il gruppo di lavoro. La memoria mi dice che in qualche modo, traverso e anche obliquo e sempre controverso, sono riuscito a coniugare o a far convivere gioia e lavoro (incredibile come possa buttar giù, senza avvedermene, questo che era il titolo di un mediocre psicotecnico belga, Henri de Man, La joie au travail! Scherzi, immagino, del subconscio), senso di autosviluppo e fatica per guadagnare a sufficienza per mangiare, decentemente, almeno una volta al giorno. In questo senso, il libro – liber – mi ha reso libero. Ho vissuto e goduto, fin da giovanissimo, e poi ho lavorato e guadagnato da vivere con i libri. Il libro mi ha dato la libertà dal bisogno e insieme mi ha consentito il lavoro che non è solo pena, rinuncia, ma auto-arricchimento, creatività personale (ma la parola «creatività» non mi piace; è presuntuosa; semmai, «ri-creatività», poiché nihil de nihilo). Dopo gli anni allegri e disperati, quando sono passato tutto sommato indenne attraverso la grande esperienza quotidiana della fame (gli ultimi anni di guerra e poi nell’immediato dopoguerra – grosso modo 1942-1948), ho fatto il traduttore, un tanto al mese: le sospirate «rate» della traduzione. Ho tradotto per un editore torinese, Giulio Einaudi, famoso per non pagare gli autori e pagare pochissimo, e sempre in ritardo, i traduttori. Per fortuna avevo in casa Einaudi un santo protettore che rispondeva al nome di Cesare Pavese. Lui assente, subentrava come santo d’emergenza, comunque sempre in subordine, il filosofo Felice Balbo.

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CAPITOLO SETTIMO

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RITRATTO

DEL TRADUTTORE DA GIOVANE

Non esito a consigliare il mestiere del traduttore ai giovani di belle speranze ma privi di mezzi, ai giovani ardimentosi in cerca di fortuna ma gelosi della loro autonomia. È un mestiere pagato poco, quindi non si rischia la corruzione, si è messi al riparo dalla tentazione di vendere se stessi. Non solo: il lavoro del traduttore consente il dono dell’ubiquità nel senso che può essere decentemente svolto e portato felicemente a compimento ovunque, in qualsiasi sede, a casa o passeggiando o seduto su una panchina dei giardini pubblici, di fronte alla stazione ferroviaria di Porta Nuova a Torino oppure nella calma ariosa dei Jardins du Luxembourg a Parigi o ancora in un angolo ombroso delle colline del Monferrato o del Sussex. Basta questa idea a darmi un senso di ebbrezza. Come l’antico filosofo, omnia mea mecum porto («porto con me tutte le mie cose»). Nella mia vita ho preso decisioni drastiche in base al principio della libera mobilità. Ho smesso di suonare il pianoforte a favore del flauto. Più semplice portarsi dietro un flauto. Lo si mette in una scatola per scarpe. Più semplice e comodo che portarsi dietro un piano. Così come mi sono dato alle traduzioni. È un mestiere, quello del traduttore, che permette, o, anzi, richiede il lusso della solitudine e lo si può fare ovunque. Silenzio, solitudine e concentrazione sono però, nelle odierne società tecnicamente progredite e assordate dai clangori metallici delle macchine, ciò che costa di più, che è più difficile trovare. Ma al di là e al di sopra di ogni cosa, il giovane traduttore deve amare le parole – un amore sconfinato e totale e privo di ragioni come tutti i grandi amori, in ogni frase, in tutte le lingue. Resta il mistero di dove nasca l’amore per le parole. Difficile dire. Forse dalla solitudine e da un lungo, protratto silenzio. Di colpo, si sbotta. Dopo il lungo silenzio, fiorisce, sgorga a fiotti, la parola. Cesare Zavattini mi diceva: «Stricarmi ‘n’ na parola», costringermi e dirmi tutto

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in una sola parola. Amare la parola vuole dire, per il giovane traduttore, scavarne le radici, descriverne la storia. Ricercarne l’evoluzione del senso nel tempo. Il giovane traduttore spesso non lo sa, non se ne rende conto, ma con la parola sconfigge o quanto meno blocca lo scorrere del tempo, la sua tragica irreversibilità. Amare, dunque, le parole. Amarle, centellinarle, tradurle anche a costo di tradirle. Traghettarle a costo di affogarle. Trattare, macerare, macinare, masticare le parole, adagio, come un cibo delizioso e misterioso, dalle mille forme e dai mille sapori. Bisogna aver fame di parole per tradurle bene. Qualche volta ho preferito le parole giuste al pane appena sfornato, ancora caldo, fragrante. Devo molto al mestiere di traduttore. Ho sempre scritto, fin da piccolo, storie, saggi e poesie – un’infanzia solitaria in cui la scrittura mi teneva compagnia – ma devo al tormento della traduzione giusta il gusto dello scrivere pulito, netto, che non abbia la presunzione di dire tutto e subito, in una sorta di intellettuale ejaculatio praecox. Sono portato alla facilità d’eloquio e all’iperbole, tipiche dei figli dell’oralità contadina. La traduzione mi ha insegnato a pazientare, a tornare sul testo, a evitare di tradurre solo la parola, a tentare di ricreare il clima intellettuale, il senso del paragrafo. Ho imparato che tradurre non vuol dire solo «traghettare» le parole da una lingua all’altra. Bisogna andare oltre la scorza del testo. Altrimenti, non si ha una vera traduzione, ma solo un calco. Ho già detto che il tradurre ha bisogno di tre situazioni che nelle società tecnicamente progredite e opulente sono divenute privilegi o lussi inarrivabili: silenzio, solitudine, concentrazione. A parte certi momenti di grazia, tradurre non è dunque un’attività ludica. Mi ha insegnato una disciplina mentis forse non indegna del grande Ignazio da Loyola. Ho capito che una cultura altro non è, a ben guardare, che incessante traduzione di se stessa, traduzione che diviene tradizione, sedimentazione, coscienza di sé (ma di questo ho parlato a sufficienza, credo, in Leggere, leggersi e in Il silenzio della parola). Quello che non ho detto forse è il tormento delizioso di andare alla ricerca della traduzione perfetta, della parola che trasmetta, in un’altra lingua, significato e clima, senso e musica (in quegli anni mi resi conto che solo il tedesco manteneva, fra le lingue odierne, il nesso fra «voce» e «significato», quindi fra vocalità-oralità e parola scritta, ossia fra Stimme e Stimmung).

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Ho avuto la fortuna di dovermi misurare, fin dalle prime armi, con testi difficili, scritti – come quelli di Thorstein Veblen – in lingue straniere anche per lo stesso autore (era norvegese e aveva imparato l’inglese, sembra, a quindici anni), e quindi trovarmi con un compagno di viaggio nell’immenso pelago delle lingue dell’esilio. Per esempio, conspicuous waste, per lo più tradotto come «grande scialo» e simili, senza rendersi conto che lo «spreco» deve essere visto, per riuscire «consumo onorifico», e quindi occorreva ricondurre il «conspicuous» alla sua radice latina, conspicere, e non tradurlo con il banale «cospicuo», ma con «vistoso», da vedersi da tutti, in vetrina, come un pennacchio ecc. Traducevo, soggiornando in una piccola pensione senza pretese, nella parte vecchia di Nizza, quella che si incontra arrivando da Mentone, Beaulieu-surMer, e così via. Prima di giungere alla grande Promenade des Anglais, con i lussuosi alberghi a cinque stelle, in cima a una salitella che costeggia il porto, a quei tempi frequentato solo da qualche barchetta a remi e da un paio di pescherecci in disarmo. Era l’oasi della «nonò», ossia della France non occupée, la meravigliosa, riposante stasi della guerra combattuta altrove. Essendo perpetuamente alle prese con i bisogni materiali di vita, mi toccava la grande, immeritata fortuna dei testi più ostici che nessuno voleva tradurre e che io, per le ragioni di cui sopra, non potevo rifiutare. Ma questo, a pensarci bene, era meraviglioso. In un’epoca in cui tutti cercavano il facilismo, mi faceva capire che solo la difficoltà apre la strada, ma non sempre, verso l’eccellenza. Bisogna vivere con il testo, sognarlo di notte. Ero in paradiso. Non così, come si vedrà più avanti, con il mio ingresso in fabbrica.

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CAPITOLO OTTAVO

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UN

AMICO SPECIALE

Si hanno, nella vita, molti amici o, forse, conoscenti. Fra i molti amici che una vita abbastanza lunga, se non proprio longeva, può offrire, c’è un amico speciale, una persona che sembra nata apposta per incontrarci, una presenza fondamentale. Non ha bisogno di molte parole. Non compie gesti particolarmente affettuosi. Ma si sa che è là: punto di riferimento, interlocutore anche nel silenzio, custode del senso della sua e della nostra vita. Pavese è stato per me questo amico speciale. Non abbiamo mai avuto bisogno di controllare né di confrontare le nostre posizioni politiche, ideologiche, ideali. In un’epoca di aspre divisioni ideologiche non parlavamo mai in termini politici immediati né secondo partizioni dottrinarie. Pavese sapeva del mio precoce interesse per la sociologia. Non ne parlavamo mai. Ma questo letterato marcio, che faceva tradurre alla Fernanda Pivano l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, scopriva e traduceva lui stesso Big Money («Un mucchio di quattrini») di John Dos Passos, con il Moby Dick di Herman Melville, e insieme con Elio Vittorini pubblicava Americana, indicando nella letteratura degli Stati Uniti un modo di vivere libero, al di fuori degli schemi, dai paisanos di Tortilla Flat di John Steinbeck a Winesburg Ohio di Sherwood Anderson, aveva un occhio altrettanto sicuro, un intuito acutissimo per le scienze sociali. Basti pensare a Thorstein Veblen, alla sua Teoria della classe agiata, e al Rito religioso – studi psicoanalitici di Theodor Reik, che mi aveva per tempo dato da tradurre, pur essendo io alle prime armi e pur trattandosi di testi irti di difficoltà, terminologiche e sostanziali. La sua spregiudicata libertà intellettuale, nemica di ogni conformismo, compreso il bigottismo di sinistra, non ha cessato di stupire e scandalizzare. Essa doveva farsi evidente soprattutto nell’aspro scambio polemico, in cui gli fui accanto, con il crociano-marxista Ernesto De Martino. Questi non poteva

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comprendere, dato il suo orientamento storicistico di maniera, il momento strutturale, e quindi interculturalmente comparativo, di cui ci occupavamo. Sarebbe sufficiente per questo ricordare, di Pavese, i Dialoghi con Leucò, il libro che lo accompagnò la sera del suicidio all’Hotel Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, l’ultima domenica dell’agosto 1950. Il mio rapporto con Pavese fu subito, fin dal primo sguardo, un rapporto speciale. La sigaretta pendula all’angolo della bocca, in un sorriso appena accennato che poteva somigliare ed essere scambiato per una smorfia o un timido ritrarsi. Il capo chino sotto un ciuffo arruffato di capelli neri. Il lungo naso affilato a fiutare i manoscritti. Il nostro era un rapporto fatto di silenzi. Ma quando mi capitava di trovare quella che ritenevo la traduzione giusta di una frase difficile, da non rendere in italiano con un equivalente banale, per esempio, conspicuous waste non come «spreco cospicuo», bensì come «sciupìo vistoso», oppure invidious comparison non come «paragone invidioso» ma come «confronto antagonistico», allora ci si sentiva, ci si buttava giù dal letto e si facevano, in qualche piòla della Torino periferica, le ore piccole nella trepida alba lattiginosa. Pavese aspetta ancora di essere interpretato in profondità, al di là dei colori e dei miti pittoreschi delle Langhe o delle meschine coordinate della lealtà partitica. Il Vizio assurdo del conterraneo Davide Lajolo è sentimentale e fuorviante. In Lessico famigliare Natalia Ginzburg traccia, di Pavese, un rapido ritratto che riesce, certamente contro la volontà dell’autrice, a dir poco, diffamante. Pavese non era un eterno adolescente, bloccato dalla timidezza, mai completamente cresciuto. L’illustre signora, appartenente a pieno titolo alla raffinata juiverie torinese, capiva tutto, ma non poteva capire il contadino langarolo. Pavese non soffriva di un complesso adolescenziale irrisolto. Semplicemente, non apparteneva e non intendeva appartenere all’establishment della sinistra salottiera. Avvertiva un sottile, ma reale, disagio nei confronti della città e degli urbanizzati da tempo immemorabile. Noi ci comprendevamo a fiuto, estranei e, anzi, nemici mortali dell’ufficialità. Nel luglio del 1948, l’indomani dell’attentato a Palmiro Togliatti, quando sembrò che scoppiasse non la rivoluzione, ma una pura e semplice rivolta o sommossa, di quelle che offrono il destro al potere di aprire il fuoco sulla folla, mi scriveva lodando l’azione pacificatrice da me svolta in quei giorni difficili e concludendo, in una vena ben

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lontana da ogni conformismo di partito: «Queste masse sono proprio impazzite. Ma non solo le masse, anche i capi». Non cessava di scrivermi: «Fatti vivo». Io mi facevo vivo, con l’improntitudine del giovanotto arrogante, anche dall’Inghilterra, da Hastings, nel dolce Sussex, dove mi ero rifugiato a curarmi una bronchite buscata nella Londra del dopoguerra e le solite complicazioni delle vie respiratorie. Non esitavo a lamentarmi anche delle ragazze inglesi e delle loro caviglie e dei loro piedi più piedi del mondo. Fraternamente, Pavese rispondeva:

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Godo che sei quasi a posto. E per giunta a Hastings, come Guglielmo il Conquistatore. Calvino aspetta i tuoi pezzi, e che siano pepati. Ammiro il tuo coraggio, ma evidentemente sono troppo vecchio per fare altrettanto. L’Inghilterra preferisco conoscerla dai libri. Credo che ci guadagni. Una brutta notizia. Né Einaudi né Balbo vogliono saperne di premettere la tua prefazione a Veblen. Pazienza. Useremo la nota biografica. E il Reik come va? Te lo sei portato dietro o aspetti che si faccia per partenogenesi a T…? Qui fin che sono durate le ferie ha fatto fresco. Adesso ricomincia il caldo bestiale. Accontèntati delle caviglie grosse. Una ragazza è il miglior modo d’imparare una lingua. Ciao

Caro, carissimo amico, forse paterno ancor più che fraterno. Lui si preoccupava dei miei gusti. Sapeva che avevo un debole per le mele asciutte e le caviglie secche da cerbiatta. Si preoccupava del Reik, ma lui, che qualche problema con le donne ce l’aveva, si preoccupava anche di me, della mia tranquillità sentimentale. Questa era necessaria per il lavoro del tradurre, che è già di per sé un’avventura, un inseguire le parole, rincorrerle da una lingua all’altra, ricrearle, alla ricerca della Ur-lingua, della lingua originaria, della lingua madre di tutte le lingue.

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CAPITOLO NONO

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LA

VELOCITÀ DI TAGLIO DELL’UTENSILE

Si avvicinava la fine dell’estate del 1948. Il 18 aprile dello stesso anno la Democrazia Cristiana aveva stravinto le elezioni politiche. Dal 1947, dopo un anno a Parigi, trascorso in una mansarda della stradina chiamata, se ben ricordo, Ville d’Alvret (una traversa sghemba della grande rue Lafayette, che terminava alla Madeleine con i Magazins che portavano lo stesso nome, a ridosso della chiesa, appunto, della Madeleine) fino all’estate del 1948 avevo vissuto in Inghilterra, dapprima a Londra, dove avevo lavorato alla Bush House per la BBC sotto il maggiore Cadogan e una simpatica Miss Cockle, buscandomi fra l’altro, insieme con scarso pane, un brutto raffreddore che mi portò a Hastings per ragioni mediche. Qui, in Vicarage Road, non tardai a rimettermi in sesto, comunque non prima di circa dodici mesi. Tornato a Torino senza fissa dimora, incontro piuttosto casualmente Adriano Olivetti, con cui ho lì per lì un aspro diverbio a proposito dello spirito rivoluzionario o meno del governo laburista. Il diverbio era aspro, ma evidentemente non tanto da impedire all’illuminato industriale di farmi una proposta di lavoro di quelle che non si possono rifiutare: libertà assoluta di girovagare per l’azienda, partire e tornare, viaggiare fra Ivrea e il resto del mondo, piccolo ufficio accanto a quello del presidente, cioè il suo, con la scritta, alquanto anodina, «addetto ai problemi sociali». Accetto e parto il giorno dopo per la Svizzera. Ma intanto sono preso dal mio stesso «gioco rivoluzionario» e chiedo di lasciare la scrivania e passare all’officina. Vengo accontentato con una premura, quasi una fretta, che mi risulta sospetta. Niente da fare: scendo in officina sotto la ferula del signor Carena, che era a un tempo redattore del foglio-notizie di fabbrica, responsabile della tipografia aziendale e capo della scuola degli apprendisti. Mi trovo gomito a gomito con giovanottoni canavesani, di quelli che il vecchio Camillo Olivetti usava scegliere in parrocchia. Mi tro-

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vo bene, torno alla campagna, alla sottile puzza di sudore mista all’acre odore di naftalina, che nei campagnoli annuncia il cambio di stagione e denuncia certe carenze degli impianti igienici, soprattutto l’inverno, quando l’acqua delle rogge, ottima l’estate, si presenta piuttosto algida e inospitale. Il signor Carena non perde tempo. Era lui il capo, ma non poteva certamente perdere tempo con delle reclute. E io, benché sceso dall’alto, dal mitico terzo piano dove troneggiava il potere, ero pur sempre una recluta, un nuovo venuto, tecnicamente parlando un analfabeta. Il signor Carena mi mette in mano a un suo tirapiedi, non previsto naturalmente dall’organigramma ufficiale, ma ben reale nella vita quotidiana dell’officina. Questi era il «capetto», non un caposquadra, ma neppure un caporale. Un che di mezzo fra il sergente e la truppa, di nome Cesidio o Edilio o Efidio, che il diavolo se l’abbia in gloria. Comincia subito, prima ancora che mi sia data una guardata intorno, fra ruote e pulegge in movimento e gente china sugli ingranaggi come chirurghi presi da un’operazione difficile. Mi mette in mano un manico di scopa. «Prendi», mi dice. Trasecolo. Non capisco. Credo che il Carena abbia detto qualche cosa al capetto circa la mia provenienza e il mio ruolo di consulente speciale al presidente. Ma comprendo subito che il sussurro preliminare che mi ha, per così dire, introdotto ai misteri dell’officina deve avermi nuociuto: l’Efisio o Cesidio o Efidio aggrava la situazione, fa il sovrappeso. È iniziata la pratica, molto diffusa ma io non lo sapevo, farcito com’ero di nozioni libresche e di manuali di sociologia del lavoro, della degradazione iniziatica. Intanto, mi dà, brutalmente, del «tu». Non sa chi sia, non sa neppure pronunciare correttamente il mio cognome, ma è chiaro che non gliene frega niente. «Ecco. Prenditi questo manico di scopa». Io: «Un manico di scopa?». Lui: «Già. Che ti aspettavi? Che ti dessi del materiale vero, un bel pezzo di metallo che costa un occhio? Ma da dove vieni?». Lui lo sa benissimo da dove vengo, vengo dal terzo piano, ma non gliene frega niente. Anzi, proprio perché vengo dal terzo piano, vuol farmi capire che qui non si scherza, non ci sono belle segretarie dal culetto che scodinzola, non ci sono scrivanie lucide. Qui c’è solo un bel tornio flessibile, macchina universale, su cui devo incidere un disegno che lui mi ha preparato, un albero a gomito, naturalmente su un manico di scopa, perché è sicuro che, con questo intellettuale che viene dal terzo piano, si rischia di sprecare del ma-

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teriale buono e di farne uscire, invece che un albero a gomito, uno sgorbio privo di senso. Chiedo spiegazioni. Cesidio, alto, asciutto, baffetti, non è canavesano. Forse, come qui si dice, viene «dalla Bassa», è un «terrone», cioè un meridionale. Anche per questo non guarda in faccia a nessuno. Non ha né famiglia né parenti. È sprezzante, duro, irremovibile. Segue gli ordini. E li fa eseguire. Spiegazioni? Me le dà in pochi secondi. Si tratta di prendere il manico di scopa, stringerlo per bene fra la morsa e il mandrino, farci calare sopra l’utensile secondo il grado di incisione richiesto dal disegno, e quindi mettere in moto la macchina, lanciarla alla velocità giusta, ossia calcolando esattamente la durezza del materiale da incidere rispetto al grado di incisione e alla durezza di taglio dell’utensile. Per questo, penso io, non mi danno del materiale buono. Nelle prime prove il manico di scopa è tutto sprecato, ridotto a un cumulo di trucioli. Bene. Ma la vera difficoltà del tornio, come della fresa o dei trapani, ma soprattutto del tornio, consiste nel non «bruciare» l’utensile. Per questo il tornio è considerato la macchina universale per eccellenza – si possono realizzare con esso tutti i disegni che si vogliono – e nello stesso tempo è la macchina intelligente: dipende infatti dal singolo operaio decidere la velocità del taglio. Se brucia l’utensile, ossia lo spunta, deve chiederne un altro al magazzino e pagare una multa, a volte abbastanza salata. Ad evitare la bruciatura dell’utensile, gli si fa colare sopra – e la cosa mi meraviglia e commuove – del latte, del vero latte di mucca che finisce per dare ai riccioli del materiale lavorato uno strano colore grigiastro, simile a quello dei radi capelli del signor Carena. Il lavoro al tornio parallelo o flessibile, come è anche chiamato in officina, è un lavoro solitario. Ognuno per sé e Dio, se c’é, per tutti. Ogni tornitore ha la sua macchina, che tiene bene, lubrifica ogni sera prima di lasciare l’officina, ne conosce i piccoli difetti, li anticipa. Solo i sociologi del lavoro possono parlare di macchine in generale. Ma anche nel settore delle macchine flessibili si registrano differenze fondamentali. La fresa minaccia gli occhi. Le sue schegge, minutissime, invisibili possono accecare in un attimo. Non tutti gli operai usano gli occhiali appositi. Sono ingombranti. Io stesso, dopo il primo mese, non sopporto più il salva-falangette. Fare a meno di guanti e occhiali è forse un modo, pericolosissimo, di mostrare a tutti la familiarità acquisita con la macchina, il suo grado

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di addomesticamento. Ma l’altro giorno l’addetto ai trapani l’hanno portato via con gli occhi sanguinanti. Queste sono ferite corporali, reali, sotto gli occhi di tutti. Ma ognuno lavora qui, all’attrezzaggio, da solo. Non mancano tuttavia le conversazioni, anche se spezzate. Non si tratta delle vere e proprie chiacchierate possibili nel lavoro a catena, dove la stessa monotonia ripetitiva del lavoro consente un grado di automatismo che libera un modicum di attenzione per interagire con i vicini di bancone. Niente di speciale: sono dialoghi che per lo più riguardano lo sport, le donne, le funzioni corporali, il fatto che qualcuno «faccia aria» più del necessario o della decenza. Nasce qualche amorazzo. Si pettegola. Si racconta di qualcuno che è un «pigliainculo». Ma l’assenza di manodopera femminile riduce l’area degli scambi. Ciò che però si coglie nell’aria è il senso di appartenenza a un reparto, come l’attrezzaggio, che è una sorta di aristocrazia operaia, dove il lavoro non è programmato né ripetitivo e continua la logica e la pratica del grande artigianato che fa appello alla genialità e all’inventiva individuale. L’attrezzaggio è il «pronto soccorso» della fabbrica e anche nelle fabbriche più avanzate ed elettronicamente progredite, più robotificate, conserva quelle qualità del lavoro personale che non è possibile standardizzare. Di questo sono consapevoli quelli che si potrebbero chiamare, e che del resto si considerano, gli «assi del tornio, dei trapani e della fresa». Il loro tirocinio è durissimo. Quando si avvicina la data del «capolavoro», ossia il giorno in cui, entro un determinato numero di ore, devono realizzare sul metallo grezzo un certo disegno, diverso per ognuno di loro, e inviato la mattina in busta chiusa dalla direzione tecnica, si comincia a «pisciare sangue». L’aristocrazia operaia ha un prezzo di ingresso piuttosto alto, sia in termini cognitivi che emotivi. A me la prova è stata risparmiata perché, a un certo punto, tutti sapevano che ero lì solo per motivi di studio quasi come l’allievo perito settore che viene mandato all’obitorio a studiare i cadaveri solo per farsi la mano. Quando il «capetto» ha riferito, parlottando con gli operai sottovoce ma non abbastanza per non essere udito anche da me, che non ero, e che non volevo essere, un vero operaio, che ero un «ciapulùn», che in piemontese vuol dire un fannullone perditempo, ho compreso che era venuta l’ora, per me, di far fagotto e di togliere il disturbo. Più tardi mi sono reso conto che ero stato in officina, con saltuarie assenze, per circa otto mesi, più o meno

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quanto c’era stata Simone Weil alla Renault d’una volta, nel quartiere Boulogne-Billancourt di Parigi. Ma le ferite della vita d’officina non sono solo psicologiche o morali e neppure fisiche in senso traumatico. C’è la pura e semplice stanchezza che ti prende verso le tre-quattro del pomeriggio e che ti costringe a stare attento a non farti lasciare una mano o un braccio nell’ingranaggio quando ti viene naturale di appoggiarti sulla macchina come su una balaustra. Basterà la visione d’una mano spappolata per convincerti che non è il caso. Mi sono spesso domandato, durante quei mesi, pochi in fondo rispetto all’esperienza di tutta una vita operaia: e dov’è la tua famosa energia? Quell’energia che, negli italiani, il mio amato Stendhal esaltava come un dono unico e divino? Alle quattro del pomeriggio le gambe cominciavano a farmi giacomo giacomo. Alle cinque, un’ora dopo, si aspettava il suono insistito della sirena come un annuncio di liberazione, come il finis della lezione nei collegi di una volta. Gli operai uscivano dall’officina come un torrente straripante. Il lavoro in officina è stato per me una salutare lezione di modestia. La vita di fabbrica è certamente piena di umiliazioni, da caserma di terz’ordine, di noia e di offese, in certe situazioni, quotidiane alla dignità personale. Ma è anche una trafila di pericoli per l’incolumità fisica, di cui non tengono sufficiente conto, forse solo per ignoranza, i testi di sociologia industriale. Viene da pensare che i professori di sociologia del lavoro siano vittime di un lamentevole equivoco. Invece di occuparsi della vita di fabbrica e della quotidianità operaia, anche, se non soprattutto, nei suoi aspetti più drammatici, organizzano con rara perizia seminari e convegni per managers ad alto livello, per lo più in luoghi incantevoli cui evidentemente, a titolo esornativo, se non sempre estetico, sono invitate le consorti e le conviventi, tanto da coniugare felicemente discussioni e libagioni. Forse anche per questo il mio libretto del 1972, Una sociologia alternativa (De Donato, Bari) si apriva polemicamente con le tabelle statistiche relative agli incidenti sul lavoro e agli «omicidi bianchi». Trascorsi i circa otto mesi come apprendista metalmeccanico specializzato, era piuttosto naturale per me salutare il signor Carena e, per quanto riguarda il «capetto» Cesidio o Efisio o Efidio, lasciare l’officina degli attrezzisti insalutato magistro. Ne avevo veramente le tasche piene. Rovinato un certo

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numero di manici di scopa e di tubi di metallo, mi sentivo pronto per assumere l’arrogante ruolo dell’insegnante, ossia di colui che, non riuscendo a fare cose egregie sul piano della prassi, si butta su quello della teoria. Non era più la Theory of the Leisure Class ma, semmai, la Leisure of the Theory Class. Sono uscito dall’esperienza del lavoro in fabbrica con la convinzione che bisognava far esplodere e risolvere positivamente il suo paradosso: una struttura di duro dominio che però non poteva funzionare senza collaborazione. Di qui, il nesso fra fabbrica e comunità e la concezione plurima della proprietà, né privata né statale, cioè burocratizzata, bensì plurima: la quadruplice radice della funzione proprietaria, vale a dire composta di quattro dimensioni – tecnologica, comunitaria, operaia, più vecchi azionisti cui dare una sorta di «premio di consolazione». Adriano Olivetti aveva incautamente accettato questa mia idea, mortale agli occhi della sua famiglia, per cui io ero semplicemente la sua anima nera e un persuasore di morte. Ricordo che la stessa mansione avevo anni dopo assolto nei riguardi dell’on. Fiorentino Sullo, di Avellino. Ero stato presidente del giurì di onore parlamentare per risolvere la vertenza fra lui e il deputato monarchico Alberto Covelli. Ero andato anche alle sue nozze con la nipote del produttore cinematografico Dino De Laurentis celebrate al Santuario della Madonna di Pompei. Sullo era un pingue dinamico e un computer ambulante, dotato d’una memoria favolosa e d’una intelligenza rapidissima, cui avevo un poco distrattamente suggerito, quand’era ministro dei Lavori Pubblici nel primo embrionale governo di centro-sinistra, quello di Amintore Fanfani, detto anche, con inconsapevole ironia, delle «convergenze parallele», di dichiarare come proprietà pubblica tutte le aree su cui avevano costruito e avrebbero in avvenire costruito i privati ai fini di battere la selvaggia speculazione edilizia. L’on. Sullo accettò l’idea ed era come se avesse imprudentemente toccato un cavo dell’alta tensione: ne rimase fulminato, la sua carriera spezzata, la sua vita perduta. Non posso ripensare a Fiorentino Sullo senza sentirmi, in gola, un nodo di commozione. Sulla porta del Santuario della Madonna di Pompei, dove sostavo al tempo delle sue nozze con la nipote del produttore cinematografico Dino De Laurentis, si discuteva, tra il produttore e me, di temi e soggetti nuovi per film che egli si proponeva di allestire negli Stati

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Uniti, dove di lì a poco avrebbe traslocato con famiglia e impianti. Gli dicevo che occorreva ascoltare le domande della società. La gente voleva sicurezza, garanzie di tranquillità di fronte a una violenza urbana imperversante, incomprensibile, apparentemente gratuita. Io parlavo da sociologo. L’uomo già pensava, con quella tipica assenza di remore riflessive fra pensiero e azione che distingue i veri impresari, al «giustiziere della notte» oppure a «Serpico», il poliziotto newyorkese ardimentoso, spericolato, sospeso fra caccia ai banditi e disastri sentimentali. Io continuavo a riflettere mentre l’ometto parlava sottovoce, entrambi in attesa che la funzione matrimoniale finalmente finisse. Riflettevo su quanto avevo suggerito a Sullo, al novello sposo. Dopo tutto l’idea non era poi così peregrina come poteva sulle prime sembrare. In Inghilterra era praticata da tempo immemorabile. Certe proprietà, soprattutto ecclesiastiche, si affittavano per novantanove anni. Del resto, tutta la proprietà del suolo era del governo di Sua Maestà britannica. In Italia, però, dire che il privato costruiva la sua casa su un terreno non suo equivaleva a scatenare una sommossa. Sta di fatto che Sullo fu smentito, ampiamente sconfessato e abbandonato dal suo partito, la Democrazia Cristiana, anche tramite i «buoni uffici» del suo pupillo avellinese, Ciriaco De Mita, classica «serpe in seno». Passò poco tempo dopo ai socialdemocratici per finire quindi nell’irrilevanza culturale e politica, sconsideratamente e comunque invano curata con la bottiglia.

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CAPITOLO DECIMO

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LA

RISCOPERTA DELLA SOCIOLOGIA

Oscillavo fra la filosofia (troppo astratta sia come neo-idealismo del balletto io-non io, sia come marxismo pietrificato, ossia dedialettizzato) e l’economia politica (matematizzata e incapace di incidere e valorizzare la «polpa umana» delle strutture socioeconomiche). Scoprivo, per conto mio, la disciplina che il fascismo in Italia come il nazismo in Germania avevano per sempre abolito: la sociologia come impulso filosofico personale originario, che intende farsi patrimonio collettivo attraverso la validazione empirica delle ipotesi di lavoro collegate con l’apparato teorico-concettuale. Mentre uscivano a Torino nel 1951 i primi numeri dei Quaderni di Sociologia, ero a Chicago. Studiosi straordinari come Edward Shils, Harold Wilenski, Fred Harbison, Leo Strauss, C. Hermann Pritchett leggevano un mio modesto paper sul ruolo dell’ideologia nella storia del movimento operaio e dei sindacati europei e stupivano, sorpresi di dover fare i conti con qualche cosa che il fenomeno dello Unionism, specialmente del maggioritario Business Unionism, aveva semplicemente ignorato. Era infatti un sindacalismo a-ideologico e spregiudicatamente pragmatico. L’uscita del mio paper a Chicago coincideva con il primo numero dei Quaderni di Sociologia, pubblicato a Torino con il «Piano di Lavoro», che ne indicava l’orientamento critico sia verso la sociologia italiana prefascista sia nei confronti della sociologia americana, frammentaria e spesso gratuita. Guai ai precoci. Di regola hanno amici già anziani, che li sopravanzano di una generazione, e anche più. Il problema non è il famoso «salto generazionale» di cui si parla nei giornali. La cosa è più semplice. E meno evitabile. Gli amici avanti negli anni vengono a morte presto. Il precoce si trova solo. Ricorda. Parla anche con le amate ombre di un passato ancora caldo. Ma ormai, per sempre, passato. Mi reputo fortunato. Il mio colloquio con Nicola Abbagnano continua. Me lo sento vicino. È una presenza rasserenante.

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L’ho incontrato un giorno di primo novembre al Palazzo Campana, in Via Carlo Alberto a Torino, dove la Facoltà di lettere e filosofia si era rifugiata dopo le bombe cadute sulla sede di Via Po nel 1942. L’ho incontrato per caso. Ma forse il caso è solo l’atto pietoso, e discreto, di un dio che si vergogna della sua bontà. Non era il mio professore più importante. Ero interessato a filosofia teoretica più che alla storia della filosofia. Abbagnano insegnava, appunto, storia della filosofia. Il professore cui dovevo fare riferimento era Augusto Guzzo, basso, piuttosto pingue, occhiali pince-nez, con occhi in cui brillava la rapida intelligenza napoletana, condita da intermittente bonomia ironica e aiutata da una voce che poteva arrivare facilmente allo strillo. Teneva il seminario di teoretica in Via Po 18, su L’Io e la Ragione. Era un crocianesimo ben temperato, con qualche strizzatina d’occhio alla filosofia neo-scolastica, se non proprio all’ortodossia cattolica. Bene. Abbagnano, tranquillo, con la sua voce chiara ma tutt’altro che stentorea, un atteggiamento che segnalava il pieno possesso delle circostanze e della materia, era un didatta formidabile. Il tono di voce che sulle prime poteva apparire monotono era invece suasivo e finiva per risultare affascinante. La chiarezza dell’esposizione era proverbiale. Ci si sentiva condotti per mano. A ogni buon conto la mia tesi era di filosofia teoretica e avrei dovuto a tempo debito discuterla con Augusto Guzzo, ordinario della materia. Non ero né mai mi sono considerato uno studente ligio ai regolamenti. Anni dopo, ero quello che sarebbe stato chiamato uno «studente-lavoratore», ma allora la categoria non era ancora stata coniata, anche se il fatto già esisteva. Ero però anche un viaggiatore instancabile. Aspettavo con ansia la fine della guerra solo per poter varcare le frontiere. Soffrivo di claustrofobia. Alla fine del conflitto, nessun certificato di benemerenza, nessun patentino di «resistente». Solo un passaporto. A metà del 1945 ero a Roma, arrivandoci con mezzi di fortuna, treni che si bloccavano dopo pochi chilometri e passeggeri che trasbordavano su vecchie e sgangherate corriere. A Roma, del resto, trovai che i soli mezzi di trasporto pubblico erano certe camionette dove ci si pigiava e assiepava, aiutati anche da provvidenziali scossoni. Guzzo mi chiamava, nei momenti di bonomia, che non avrebbero mai dovuto far dimenticare la sottostante rigorosità, il suo clericus vagans. Nessun dubbio che fossi afflitto da nomadismo cronico, insofferente. Abbagnano lo vedevo solo da lontano in quei

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tempi, ma sembrava capire tutto. I suoi occhi chiari bucavano quietamente la facciata delle cose e delle persone. Vedevano la realtà nascosta, quella che premeva dietro le apparenze. Vedeva e valutava senza scomporsi. Io intanto viaggiavo. Prima a Parigi, nel 1946; poi, a Londra e nell’Inghilterra meridionale, a Hastings, nel Sussex, a curarmi di una noiosa, tenace bronchite. Tornato una prima volta a Torino, incontro nel 1948 Adriano Olivetti e mi rifaccio vivo all’università. Avevo già con me la traduzione di La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, cui avevo atteso durante la mia trasferta inglese, pronta per Einaudi, ma da consegnare in prima visione a Cesare Pavese. Nei primi mesi del 1949, tornato definitivamente da Londra, mi aspettava una sorpresa non proprio gradita. Presentatomi al professore Guzzo con la tesi sulla «sociologia di Thorstein Veblen», trovo che il professore, mio naturale relatore, mi oppone un netto rifiuto. Qualche buona ragione, a distanza di anni, devo riconoscergliela. Avevo lavorato da solo. Non avevo mai chiesto consigli né a lui né ad altri. Ma questa era, se posso dire, la mia personale deformazione professionale. Era la deformazione tipica di un autodidatta fin dalle prime origini, il difetto di un Ulisse in erba sempre a caccia, con una buona dose di curiosità mista però a inconfessati moti di orgoglio, di nuove, inedite scienze, terre vergini, pianeti sconosciuti. Ero, a dir poco, uno studente scomodo, probabilmente indisciplinato, poco curante dei piani di studio, che all’epoca, manco a dirlo, erano burocraticamente rigidi e prefissati. Ma c’erano anche, a parte la mia paranoide insofferenza della burocrazia, ragioni di sostanza. La mia tesi riguardava un sociologo, e per di più americano. Fosse stato un don Luigi Sturzo o almeno Vilfredo Pareto, se non Gaetano Mosca, la cosa sarebbe forse passata indenne sotto le forche caudine di Guzzo. La questione poteva andare relativamente liscia. Ma Guzzo era un crociano, un crociano cattolico, anche se la formula sembra, ed è, una contradictio in adjecto. Non poteva accettare e firmare una tesi su un sociologo, che era poi un sociologo particolare, un sociologo ma anche un economista e insieme uno storico delle istituzioni, un filosofo oscillante fra Charles Darwin e John Dewey, con un notevole grasp di Marx e un generale orientamento critico verso il mondo del business, che spesso gli appariva come un mondo di malfattori in guanti gialli.

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Il professor Guzzo era irremovibile nel suo rifiuto. La mia tesi non poteva firmarla. Non credeva alla sociologia, non era a suo giudizio una scienza né accettabile né rispettabile. Anzi, non esisteva neppure come scienza. Era una scienza abusiva. Le mie rimostranze non erano esattamente espresse sottovoce. Bisogna ricostruire il clima intellettuale e i modi, la qualità dei comportamenti accademici dell’epoca. Il rapporto professorestudenti era di un autoritarismo oggi, forse, neppure immaginabile. I vecchi professori ordinari non erano solo, come poi si disse, dei «baroni». Erano dei «prìncipi». Intoccabili, indiscutibili, incarnazioni venerande del dogma scientifico e del potere discrezionale dei patriarchi. Il mio comportamento era, in parole povere, scandaloso. Ancor oggi stupisco che Abbagnano, presente alla scena del mio, come dire?, alterco con Guzzo, abbia potuto prendere, con la tranquilla serenità di sempre, le mie parti. C’era fra noi una sorta di misteriosa, silenziosa ma sicura intesa: una consonanza interiore che non aveva bisogno di molte parole. Bastava un colpo d’occhio, un gesto. È sempre stato così, fra Abbagnano e me, fin dai primissimi incontri, che poi erano solo esami universitari, i pochi minuti durante i quali gli stavo seduto davanti e al suo fianco c’era per lo più Giovanni Cairola, suo assistente ordinario, divenuto in seguito un amico attento, che avrebbe ascoltato e seguito trepidando il mio esame di laurea, morto prematuramente avendo da poco pubblicato un pregevole studio, se ben ricordo, su Occam.

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CAPITOLO UNDICESIMO

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L’UNIVERSITÀ

DEL NONNO

La vita universitaria di allora non sembrava afflitta dalle meschine rivalità che, una generazione più tardi, ne avrebbero gravemente macchiato l’immagine. Lo stesso professor Guzzo, membro anziano del collegio giudicante, malgrado il nostro scontro, non nascondeva la sua soddisfazione. Non vorrei che le osservazioni su Augusto Guzzo inducessero a dimenticare gli aspetti profondamente umani del mio professore di filosofia teoretica. Anni dopo, dovevo trovare nella rivista Filosofia, da lui diretta, un riconoscimento occasionale, ma anche per questo più notevole, a proposito del carattere di Nicola Abbagnano. Stendendo il necrologio in memoria di Rodolfo Mondolfo, Enzo Paci e Susanna Dal Boca Drago, Guzzo scriveva: «…io ricordo quando Paci mi disse di aver fatto sentire molto Bach al suo e mio amico Abbagnano: finché Abbagnano gli chiese di smettere, tanto la commozione lo sopraffaceva (e Abbagnano, chi non lo conosce, lo crede un uomo freddo e staccato)» (Filosofia, ottobre 1976, p. 604). L’inverno 1949-1950 Abbagnano abitava con la moglie Marian a Torino in Via Talucchi. Fu qui che mi invitò per parlare dei miei progetti per una rivista di sociologia. Abbagnano si rendeva conto delle difficoltà e non escludeva un mio ingresso nella vita accademica per la porta, rispettabile, dignitosa e ben collaudata, della filosofia. Ma io resistevo. Ero pronto a tutto, ma solo per la sociologia. Mi si diceva: ma non ci sarà mai; è una materia a suo tempo bocciata dai neo-idealisti, osteggiata da Gentile, eliminata, scomparsa dall’ordinamento universitario. La mia risposta era sempre, testardamente, la stessa: «E va bene. Non farò l’accademico. Farò altre cose – il consulente industriale, il giornalista, lo scrittore indipendente». Mi veniva allora incontro il buonsenso: d’accordo, ma bisogna pur mangiare. Sì, è vero, ma intanto occorre montare e lanciare una campagna per la sociologia. Poi, si vedrà. Ma le

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riviste costano, non nascono sotto i cavoli. Ne parlai dapprima con Cesare Pavese. Dopotutto, lo ritenevo un poco responsabile della mia «sbornia» sociologica. Non era stato lui a darmi da tradurre Thorstein Veblen? Non era con lui che tante volte avevo fatto le ore piccole a discutere di sociologia, antropologia, etnologia, psicologia sociale? Non mi ero forse schierato con lui nell’aspro dibattito con il crociano-marxista Ernesto De Martino? Pavese, però, non si voleva impegnare. Perché, mi diceva, non ti metti con la «cocca» (questo il termine usato) di Cultura e realtà, che sta per partire a Roma con Mario Motta, Giorgio Ceriani Sebregondi, Felice Balbo, Claudio Napoleoni, Natalia Ginzburg? Sì, tutte persone degnissime, molto intelligenti, ottimi studiosi e scrittori. Ma non mi ci trovavo nella loro compagnia. Sentivo che non avrebbero mai fatto ricerche sul campo. Erano degne persone che non si sarebbero mai sporcate le mani con la ricerca empirica. Del resto, presentivo anche la fragilità della loro impresa. La direzione era quella giusta, ma c’erano troppi direttori. Cultura e realtà non andò oltre il terzo numero, e di questi tre numeri uno, se ben ricordo, era doppio. Lasciato perdere il consiglio di Pavese, c’era sempre Adriano Olivetti. L’avevo incontrato nei primi giorni d’autunno del 1948 e proprio allora, per qualche tempo, con le Edizioni di Comunità, pubblicava la Rivista di filosofia. Ma Abbagnano scuoteva la testa, preoccupato. Olivetti era uomo di idee, non incostante, ma portato a cambiare, a lavorare in molte direzioni. Abbagnano sapeva che avevo in mente un’impresa duratura, almeno dieci anni, uno strumento di battaglia culturale, gelosamente indipendente, ma affilato, tenace, capace di insistere, di continuare nel tempo un impegno culturale che s’annunciava magro di risultati a breve scadenza. Le difficoltà, di cui ero ben consapevole, non mi bloccavano. Mi davano, anzi, una supplementare quota di entusiasmo, per gran parte fondato sull’inconsapevolezza. Il fatto è che avevo sempre avuto, fin da giovanissimo, l’idea fissa di una rivista, dal piccolo foglio Progredi, durante la guerra, a La rivoluzione umana – quindicinale della generazione nuova, progettata nel 1945 e con i primi numeri usciti, a Casale Monferrato, nel 1946. Qui, sotto i portici di Piazza Cavour, faceva discreti affari un negozio di ferramenta, proprietà della famiglia Pansa, da cui sarebbe uscito e avrebbe spiccato il volo verso la capitale il noto giornalista Giampaolo. Esperienza fallimentare, quella di

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Rivoluzione umana, ma piena di insegnamenti. La rivista fu bruciata in piazza da fascisti e comunisti, ma poté dire alcune cose a mio parere valide a proposito dei rischi della partitocrazia per la democrazia italiana e del «fascismo perenne», che si annidava nel trasformismo del costume politico. Era ancora traboccante dello spirito partigiano della Resistenza, un poco retorica, se non stentorea, ma già cercava di imboccare la strada dell’analisi sociale unita e guidata dall’impegno, non disdegnava le questioni dell’attualità, ma senza mettersi a rimorchio delle mode. Non era un esperimento originale, specialmente in Piemonte, dove il giovanissimo Piero Gobetti, prima di La Rivoluzione liberale, aveva dato vita a Energie nove. In effetti, in Rivoluzione umana, non era difficile riconoscere certe risonanze gobettiane. Basta riandare al n. 2, lo stesso in cui si dava notizia dell’abbonamento sostenitore inaspettatamente inviato dall’on. Umberto Terracini, forse non immemore delle sue giovanili simpatie anarchiche, all’epoca presidente dell’Assemblea costituente. Un lungo editoriale si interrogava: «Rivoluzione umana – perché?». La nostra civiltà-narcotico, con la sua meccanica, la sua cattiveria sistematica, la sua economia liberista unilaterale ed esclusiva, i suoi cartelli monopolistici, sottopone l’uomo ad un evidente processo di disumanizzazione. Dimentica l’uomo. Ha sepolto l’uomo. Ha rovinato l’uomo, ha lasciato un animale bipede. La nostra civiltà. Ma noi siamo parte integrante di questo secolo, di questa civiltà finanziaria, imperialista, assassina dell’uomo, siamo questo secolo, questa civiltà. Non possiamo rinnegare il nostro secolo senza rinnegare noi stessi. Noi, naturalmente, partecipiamo, per una terribile legge di riflessi, di nausee, di flussi e riflussi, alla decadenza che ci circonda come società, come morale, come religione, come tutto. Ma, come noi portiamo germi di tutte le malattie e non abbiamo tutte le malattie, così pur avendo la decadenza in noi, appiccicata alle ossa, possiamo anche non essere dei decadenti. Possiamo anzi essere quei portatori di bacilli che avranno la funzione di reagire alla malattia che invade l’organismo sociale, e all’invadente decadimento, un controveleno, germi di un nuovo parto, che rechi la vita e l’ossigeno a una società più pulita, meno cisposa, che abbia, se non la pelle, cambiato almeno la biancheria. Lo stesso uomo che si vergogna della sua decadenza e della decadenza in mezzo alla quale vegeta, e la spiffera e la denuncia come tale è già un rivoluzionario, un seme, almeno la radice che fruttificherà. Voi dite: questi sì. Ma

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58 non l’uomo di Lenin, non l’uomo di Cristo. Forse l’uomo di Smith, di Beveridge, di Saragat. Ma quest’uomo non risolve la questione. Egli si dibatte fra le due forze senza essere una forza. Domani gli avvenimenti lo rimorchieranno e sarà travolto. Il nostro mondo va così. La vita delle masse non è un cadavere esposto in un anfiteatro. È fatta di necessità dure, quotidiane, improrogabili come il freddo e la fame. La massa odia l’astrazione. C’è chi vede in questi umanisti della politica, allo stato puro, un progresso e un affrancamento. Ma l’uomo del ventesimo secolo, l’operaio, i contadino, il libero professionista, esprime il suo attaccamento alle cose immediate. È stufo d’avere occhi e non poter vedere, pancia e non mangiare. Saragat obbedisce a un ritmo di bellezza, noi obbediamo a un ritmo d’emozione, che ha la sua bellezza. Vogliamo abbandonare la parte di arbitri, di filosofi? Prendiamo parte ai fatti, al pasto, al digiuno, alla rabbia delle masse. Comunichiamo con le masse, come i medium. Vogliamo animarle, farle parlare? Cartesio dice: Ciò che è passione nell’anima deve diventare azione nel corpo. L’uomo libero, il partigiano permanente, che ha pagato così duramente la propria libertà, la propria tolleranza, il proprio diritto alla discussione non può accontentarsi di astrazioni politiche, annientarsi nei bei programmi. Naturalmente approva questi autentici militanti dello spirito, ma non può fare a meno di registrare la loro impotenza. Quest’uomo ha sofferto e soffre crudamente. Vuole demolire la miseria, emanciparsi in rapporto al passato, al padrone, all’ignoranza, e crede al carattere efficiente delle proprie azioni. È stufo, pertanto, di discussioni oziose sulla legittimità o meno della lotta di classe, su minimi e massimi. Ha fame. Fame di pane, di carne, di libri, di libertà vera, di giustizia. Ora egli sa che può superare certi limiti, trascinare con sé masse disancorate, folle disoccupate, alla deriva, gobbe. Si sente trapassato dal ruolo di spettatore a quello di attore. Si irrigidisce contro le astrazioni, lo spleen, contro la nevrosi politica. Ricusa di accettare i dati di una pura accademia culturale e politica. Ha coscienza del dramma che si vive intorno a lui e al quale partecipa in modo diretto. Sa che lui stesso non è al riparo da certi pericoli e deve compiere uno sforzo incessante per difendere la propria casa, la propria libertà, costruire un avvenire più decente. I limiti che ha davanti a sé possono essere superati. Certo, il lavoro necessario per modificare le strutture sociali, gli uomini, le istituzioni richiede lavoro di secoli forse, di milioni di forze umane. Ma l’uomo è un microcosmo. Può darsi che questo traguardo sia preda di altri uomini nostri figli lontani, ma qui in questo uomo che sale, in piedi sulla scena, in embrione

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59 già esiste l’inizio di una rinascita, la denuncia di una crisi, la speranza di una resurrezione, di nuove condizioni umane. Per preparare questo avvenire, noi non possiamo più permettere che l’umiliazione degli altri sia la condizione della nostra vita. Pierre Desgraupes in una critica su Malraux cita un passo di questi. Dice: ‘I comunisti vogliono fare qualche cosa, voi e gli anarchici volete essere qualcosa’. Noi diciamo: Nessuno di noi è. Ci sono uomini che vogliono diventare, ESSERE. Per questo è necessario FARE. Colui che sa fare senza che la sua azione sia finalità a se stessa SARÀ. Noi vogliamo aiutare gli uomini a farsi, ad essere. Il perché della nostra rivoluzione. Noi vogliamo che esistano e si formino dei liberatori, ma vogliamo soprattutto educare degli uomini che sappiano liberarsi da se stessi, da soli.

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A dare conferma del carattere non conformista, certamente non legato a dottrine di partito, accanto all’editoriale si pubblicavano due brani, di due autori appartenenti a mondi di pensiero lontani, se non contrapposti: Nicolaj Berdjaev e Antonio Gramsci.

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Il mondo è in preda al pericolo della disumanizzazione della vita, dell’uomo stesso, che sente la sua esistenza minacciata da tutte le parti per ciò che accade nell’universo. Domani una nuova motivazione del lavoro può venire creata più conforme alla dignità umana. Non si tratta qui solamente di una organizzazione nuova della società. Si tratta d’una nuova struttura d’essere, del problema d’un uomo nuovo. Per creare il quale ci vorrà altro che la civiltà meccanica. Ci vorrà una rieducazione spirituale, un rinnovamento dello spirito1. Com’è possibile studiare la produzione e non considerare l’uomo, il massimo produttore? Natura, materie prime, e strumento tecnico hanno un valore economico solo se considerati in rapporto all’uomo (con la considerazione di tutto l’uomo, con le sue passioni, con le sue tendenze, con i suoi pregiudizi) che è centro dell’economia, dal quale tutto parte, a cui tutto ritorna. Cosicché il vero oggetto della scienza economica è l’uomo, perché tutti gli altri elementi della produzione contano in quanto sono in rapporto con l’uomo, ponendogli dei limiti e costringendolo a superarli2. 1 2

Nicolaj Berdjaev, Le fonti e lo spirito del Comunismo russo, Milano 1976. Antonio Gramsci, «Socialismo ed economia», Ordine Nuovo, 17 gennaio

1920.

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Abbagnano conosceva bene i miei trascorsi adolescenziali. Gliene avevo parlato a lungo. Tacitamente, approvava. Prima ancora che con Abbagnano, mi ero confidato con Magda Talamo e Anna Anfossi, sue studentesse, più tardi professoresse di sociologia. Con esse, anzi, progettavo la costituzione di un Centro italiano per le ricerche sociali (CRIS) che poi, partito io per gli Stati Uniti, loro misero in piedi. Una testimonianza, alquanto pittoresca, a proposito dei Quaderni di Sociologia, mi è giunta da Magda Talamo il 9 marzo 2002. La trascrivo: Caro Franco, le cose che ricordo intorno alla tua idea di dare vita ad una rivista di Sociologia (che avrebbe poi dovuto essere i Quaderni) sono poche, discontinue e forse te le ho già dette a Torino al Congresso per Abbagnano. Io ti ho conosciuto nel bar di fronte a Palazzo Campana. Mi pare tu rientrassi dall’Inghilterra e mi pare fossi già in rapporto con Adriano Olivetti (infatti, non molto tempo dopo sei partito per gli Stati). Abbiamo discusso di varia umanità, studi, sociologia. Le chiacchierate sono continuate a casa mia per vario tempo (in Via Massena, alla Crocetta, nella mia casa paterna). Ti sedevi alla mia scrivania, nella mia stanza e parlavamo. Volevi assolutamente mettere Abbagnano al corrente della tua idea circa la rivista. Io ascoltavo soprattutto, ma ne discutevamo anche… Una mattina, verso le 7 a.m.!, mentre mio padre preparava il caffè, in cucina, per mia madre e per me, sente qualcuno che nel cortile, lo sguardo fisso al quarto piano, urla (letteralmente) il mio nome. Mio padre mi chiama, io mi affaccio: eri tu che dicevi di dovere salire subito e parlarmi. Così fu. Allora mi hai detto che aveva preso forma la tua idea di fare la rivista di sociologia e che andavi (forse il giorno stesso) a parlarne con Abbagnano. Così nacquero i Quaderni. Poi non ricordo altro, se non me appesa al telefono a muro nell’entrata della mia casa paterna e tu dall’altra parte del filo che mi dicevi che partivi per gli Stati. Fine. Ciao, Magda.

Scartata la soluzione consigliata da Pavese, scartato Olivetti, non mi restava in mano granché. Fu allora che, con una generosità inattesa e disarmante, Abbagnano mi disse, sottovoce, quando si era già sul pianerottolo e aveva chiamato l’ascensore: «Ma Franco, perché non la facciamo noi questa rivista cui tieni tanto? Mia moglie ha una piccola casa editrice, la Taylor. Facciamola noi». Non potevo aver niente in contrario, anzi. Avevo conosciuto Marian poco tempo prima. Saremmo divenuti buoni amici al mio ritorno dagli Stati Uniti. Del resto, l’amicizia

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con mia moglie, Louise, anch’essa americana, non era stata difficile. Non c’era visita a Roma, per gli Abbagnano, senza che ci si vedesse. A New York avevo incontrato la sorella di Marian, che dirigeva una rivista di fotografia intitolata Focus e il fratello, dirigente della IBM, nella sua bella casa in un suburbio di New York, White Plains. Marian mi aveva anche affidato i testi di certe sue commedie, che avrebbe visto con piacere pubblicate in America e magari rappresentate alla 42ma strada. Si trattava di drawing room comedies, piacevoli. Ma i dialoghi riuscivano in taluni passi pesanti. Aspiravano ovviamente a essere brillanti, ma l’orizzonte non andava molto al di là di una modesta mentalità piccolo-borghese, che sarebbe stata anche accettabile e godibile, ma che richiedeva più sale ironico e autodeprecatorio di quanto forse Marian fosse capace. L’accordo con Nicola, a proposito dei Quaderni di Sociologia, era completo, senza riserve, privo di ombre. Nei miei propositi, i Quaderni di Sociologia erano innanzitutto uno strumento di battaglia culturale, nascevano in funzione extra-accademica e anche, occasionalmente, aspramente anti-accademica. A ripensarci, è straordinario come Abbagnano, già da anni professore ordinario nell’Università di Torino, mi assecondasse in questo senso. Forse, per capire a fondo questa situazione, bisogna ricordare che Abbagnano si era formato alla scuola di Alliotta, al di fuori dell’influenza crociana e gentiliana. Franco Lombardi, anni dopo, mi diceva che ero stato io, con la sociologia, a offrire ad Abbagnano una via d’uscita, attraverso la ricerca sociologica, capace di chiarire le condizioni effettive dell’«uomo in situazione» dell’esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano.

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CAPITOLO DODICESIMO

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LA

POLEMICA CON

CARLO ANTONI

Sta di fatto che, fin dai primi numeri dei Quaderni di Sociologia, Abbagnano incrociò il ferro con grande decisione con i rappresentanti del neo-idealismo. Era appena uscito il primo numero dei Quaderni di Sociologia che apparve, estate del 1951, un articolo duramente polemico di Carlo Antoni, crociano di stretta osservanza, nel settimanale diretto da Mario Pannunzio, Il Mondo, che raccoglieva soprattutto gli intellettuali di orientamento liberal-crociano, da Enzo Forcella al giovane Eugenio Scalfari, e i liberali detti «radicali». L’articolo di Antoni si intitolava «La scienza dei manichini» e ripeteva le solite obiezioni alla sociologia, considerata come la disciplina che mirava a studiare il comportamento umano, riducendo però le condotte degli individui a rigide tipizzazioni e con ciò negando l’imprevedibile «spiritualità» delle persone. Era il vecchio argomento già usato da Croce nella polemica con Vilfredo Pareto agli inizi del Novecento. Abbagnano rispose punto per punto con un articolo intitolato «I manichini della scienza», in cui ritorceva contro i neoidealisti la loro inadeguata concezione della ricerca scientifica e difendeva la possibilità e, anzi, la necessità di analizzare gli individui e il mondo umano, le condizioni delle persone e la struttura delle istituzioni con gli strumenti delle scienze sociali. Anni dopo, in occasione di un convegno tenutosi a Roma sul tema Abolire la miseria al teatro Vittoria di Via Vittoria, nei pressi di Piazza di Spagna, in cui avevo tenuto una relazione su «Sociologia e realtà sociale», insieme con Guido Calogero, Riccardo Lombardi, Ernesto Rossi (gli atti furono pubblicati sulla rivista fiorentina Criterio, diretta da Carlo Ludovico Ragghianti), Carlo Antoni riconobbe esplicitamente l’utilità della sociologia non solo come funzione classificatoria, secondo il pensiero di Croce, ma anche come disciplina capace di offrire risultati conoscitivi in senso pieno.

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Lo stesso anno in cui uscì il primo numero dei Quaderni di Sociologia, estate 1951, a giugno partivo per gli Stati Uniti. L’anno prima, 1950, Adriano Olivetti era stato colpito dal suo primo infarto. Le iniziative di cui ero responsabile erano praticamente ferme, specialmente per l’opposizione della famiglia. Io decisi allora, contro la volontà dello stesso Adriano Olivetti, di andarmene in America. Anche Geno Pampaloni mi sconsigliava di lasciare la Olivetti in quel momento. C’era un gran movimento di posizioni all’interno della ditta: Tullio Fazi, direttore della pubblicità, sarebbe andato a Napoli a dirigere la nuova fabbrica di Pozzuoli; Ignazio Weiss, segretario personale di Olivetti, sarebbe andato alla pubblicità; lui, Pampaloni, stava bene dove stava, a dirigere la biblioteca; sarebbe toccato certamente a me fare il salto e diventare, giovanissimo, segretario personale del Presidente Olivetti ecc. Ma nessuno poteva rendersi conto del fascino che l’avventura, la scoperta dell’America potevano esercitare su un giovane come me. Il viaggio in America, che allora si poteva fare solo per nave (gli aerei a elica e poi a reazione sarebbero venuti anni dopo), era ancora concepito come una impresa pericolosa, ai limiti dell’irresponsabilità. La traversata dell’Oceano Atlantico, che viene oggi familiarmente chiamato l’Atlantic river, se non l’Atlantic lake, all’epoca si presentava piena di incognite. Era di dominio pubblico che molti emigranti non erano mai più tornati. Gli anni Cinquanta sapevano ancora di guerra. Dalla fondazione nel 1951 a tutto il 1967, durante il periodo in cui diressi i Quaderni di Sociologia, ebbi grandi soddisfazioni. Forse fu un errore, una volta ottenuta la cattedra all’Università di Roma – era la prima cattedra a livello pieno di sociologia nell’università italiana – chiamare alla redazione dei Quaderni di Sociologia degnissime persone, che erano però estranee allo spirito originario dell’impresa che, nei suoi indubbi limiti, mi aveva dato notevoli risultati. Basti ricordare che al terzo numero, mentre mi trovavo negli Stati Uniti, fui raggiunto da una lettera del presidente della Repubblica in carica, Luigi Einaudi, il quale mi mandava, tramite il segretario avv. Fernando Carbone, alcune carte topografiche e ottime considerazioni sulla divisione della proprietà agricola in quel di Castellamonte, un comune canavesano cui avevo dedicato un rapporto di ricerca in due puntate.

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CAPITOLO TREDICESIMO

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LE

SFORTUNE DELL’OUTSIDER

Personalmente, non avendo alcuna esperienza del mondo accademico, essendo a tutti gli effetti un outsider, credo di aver sottovalutato le grandi pressioni che si sarebbero scatenate per nuovi concorsi e nuove cattedre, tanto più che a sociologia, nuova disciplina priva di controlli interni molto rigidi e collaudati (come, per esempio, medicina e giurisprudenza), avrebbero aspirato tutti coloro che si sentivano esclusi dalle più antiche materie, dai filosofi agli storici e agli italianisti. Ricordo in proposito, poiché la riunione prevedeva anche una discussione sui Quaderni di Sociologia, un incontro a Roma nel 1962, nell’ufficio di Sergio Cotta, titolare di filosofia del diritto, alla «Sapienza», con Norberto Bobbio. Questi mi disse (cito a memoria e riassumo): «Caro Franco, hai una grande responsabilità. Resisti alle pressioni. Ti voglio ricordare un colloquio fra Cesare Musatti, psicologia alla Statale di Milano, e Agostino Gemelli, della Cattolica: una cattedra a te, una cattedra a me, poi ancora una a me e una a te, e poi basta. Si chiude». Questa impostazione, come dire? malthusiana, mi era, ovviamente, profondamente estranea. Debbo però oggi ammettere, a distanza di tanti anni, nel momento in cui la sociologia è tanto diffusa quanto mal compresa e grossolanamente strumentalizzata, che forse l’aneddoto ricordatomi da Bobbio aveva molto più senso di quanto io non fossi disposto a riconoscergli. Mi comportai esattamente al contrario di Musatti e Gemelli. Inconsapevolmente, cercavo una rivincita. La crociana «inferma scienza» si apriva a tutti i cultori di problemi sociali. Fu un’avventatezza irresponsabile. O, forse, una felix culpa. Tornando ai Quaderni di Sociologia, sarebbe tuttavia riduttivo, a mio giudizio, pensare alla loro fondazione e all’impegno profuso da Abbagnano nella loro direzione solo in termini di favore personale a un giovane amico. Credo che non sia stata ancora appieno valutata, in tutta la sua portata anche filosofi-

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ca, la decisione di Abbagnano di unirsi a me nel fondare la prima rivista italiana di sociologia del dopoguerra. I colleghi filosofi di Abbagnano, compresi forse i suoi più stretti collaboratori, mancano semplicemente degli strumenti essenziali per comprendere quella svolta verso la ricerca sociale. Non si è a sufficienza riflettuto intorno alla sua adesione senza riserve al «piano di lavoro» con cui la rivista iniziava le pubblicazioni: un piano di lavoro in base al quale si prendevano nettamente le distanze sia dal carattere frammentario e concettualmente non orientato della sociologia americana sia dalla sociologia sistematica europea, così aliena e in un certo senso refrattaria al field work, o «ricerca sul campo», da ridursi a generica filosofia sociale. L’interesse per la sociologia, al di là della filosofia e della pedagogia, non aveva per Abbagnano nulla di estemporaneo e poté cogliere di sorpresa solo coloro che non avevano compreso la sua vera e propria rottura con il mondo filosofico ufficiale italiano. Era uno sbocco necessario, che si collegava, per un verso, ai concetti fondamentali di «possibilità», «scelta», «progetto» e, per un altro verso, a un concetto straordinariamente complesso, e di regola trascurato dai commentatori, di «esperienza», da intendersi come «incontro umano» aperto, tale da porsi al di là di uno schema di razionalismo assoluto e neo-illuministico e da richiamare, piuttosto, il concetto di fahrende Erfahrung, o «esperienza di viaggio», in movimento, tale da rispettare e, anzi, promuovere l’involontarietà del pensiero, l’apparente casualità degli incontri. Quello che in Abbagnano viene spesso presentato come una sorta di «sbandamento» corrispondeva in realtà alla ricerca di una corposità sociale con tutta l’opacità che questo comporta, al di fuori e contro le linde costruzioni teoretiche iperintellettualizzate dell’idealismo e in generale dello spiritualismo. Secondo quanto mi confidava a Milano, quando si era già felicemente risposato con Gigliola, in occasione di un Colloquio su «Giovani e droga», organizzato dalla Sandoz, l’approdo sociologico gli dava gli strumenti concettuali e operativi per una fondata presa di distanza dall’esistenzialismo nichilista di Martin Heidegger. In questo senso, riportare la stessa Struttura dell’esistenza a Essere e tempo, quasi che si trattasse di una falsariga, più che erroneo mi sembra diffamante. Di questi argomenti abbiamo spesso parlato, specialmente durante le sue visite a Roma, quando veniva per qualche concorso universitario oppure per

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le riunioni dell’Accademia dei Lincei in Via della Lungara. Soprattutto nel periodo in cui viveva da solo, dopo la precoce scomparsa di Marian, veniva spesso a Roma e scendeva all’Hotel Hassler, alla Trinità dei Monti, sovrastante Piazza di Spagna. L’Hotel Hassler era di proprietà di due sorelle svizzere, una delle quali, Carmen, simile a Marian per l’incedere deciso e la figura slanciata, mostrava per Nicola un penchant che sembrava andare al di là della semplice simpatia. Furono forse quelli i momenti più belli della nostra lunga amicizia, durata fino alla fine della sua vita e fondata, come tutte le vere amicizie, apparentemente sul nulla, tanto diversi eravamo come età, formazione, cultura, provenienza, eppure legati da una forte tensione interiore. In quei tempi passavo a prenderlo in albergo con la mia vecchia, ma spaziosa e comoda automobile di quando ero diplomatico all’OECE, che ora si chiama OCSE, a Parigi, e si partiva bel bello, come a lui piaceva, alla volta di Ostia antica, per approdare poi, dopo una breve passeggiata fra i ruderi, per i quali Abbagnano non mostrò mai un interesse particolare, alla «Vecchia Pineta» di Ostia lido, sempre allo stesso tavolo, prospiciente una spiaggia dalla sabbia nerastra, deserta e bellissima, come possono esserlo le spiagge durante la stagione invernale.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

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L’UMANITÀ

DI

NICOLA ABBAGNANO

Camminavamo in silenzio. Abbagnano fumava mezza sigaretta per volta e mangiava con appetito, ma lentamente. La scarna, monosillabica conversazione toccava sulle prime temi di economia. Non decideva mai un investimento senza un mio consiglio preventivo. Si diceva convinto che avevo un vero e proprio istinto nel campo economico e finanziario. Come, del resto, mi considerava, politicamente, in anticipo sulla situazione italiana. Quando decisi di abbandonare la vita politica attiva – all’epoca ero deputato indipendente al Parlamento – mi disse che ero fortunato perché potevo esercitare in relativa libertà quella prerogativa tipicamente umana che è la scelta. Si evocò in quell’occasione il «demone socratico», i suoi consigli negativi, la fedeltà al proprio io profondo, cui ogni uomo è tenuto. Ero perplesso, per qualche tempo, circa la via da scegliere, se quella politica, oppure la vita accademica. A un certo punto, Abbagnano mi sussurrò, con affettuosa complicità: «Franco, fai quello che ti piace». E io: «Ma mi piacciono molte cose». E lui, olimpico: «Fai quella che ti piace di più […] e, come sai fare tu, fai quello che ti piace con tenacia, con passione, fino in fondo». Di colpo, Abbagnano diveniva loquace, si scaldava, mi guardava dritto negli occhi. Vedevo la mia immagine riflessa nella sua pupilla chiara. Era il grande privilegio dell’amicizia. Si parlava anche dell’università, di cronaca del quotidiano, di cose minime. Posso dire che la serenità di Abbagnano non aveva molto da spartire con l’atarassia stoica e neppure cedeva, d’altro canto, all’idea illuministica d’una sovrana autosufficienza dell’individuo. La sua serenità era una dura conquista. Più volte mi aveva parlato a lungo del suo primo, tragico matrimonio, da cui trovava rifugio riparando nella biblioteca di Palazzo Carignano. Quando ero deputato per la III Legislatura era stata mia segretaria la seconda figlia di Abbagnano, Lilia: intelligente, estrosa, imprevedibile. Ritirata più tardi in una casa

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di cura di Varazze, il padre mi pregava di non inviare aiuti finanziari. Potevano riuscirle pericolosi, renderla incontrollabile. Era in lui vivissima la consapevolezza del peso delle circostanze «oggettive». La sua serenità si fondava sui concetti correlativi di possibilità e di scelta per concludersi, problematicamente, nell’idea di progetto. Ma non si dava progetto che non fosse duramente condizionato dalle circostanze di fatto, che andavano appunto esplorate attraverso la ricerca sul campo, a diretto contatto con le asprezze della vita. Trovava un ovvio sollievo nell’amore che portava per i film western. Si andava a vederli nei cinematografi di periferia, da Monte Sacro alla Tuscolana. Nulla di «sofisticato». Non gli piacevano i film western «psicologici» e neppure quelli carichi di suggestioni e di calcolata violenza alla Sergio Leone, quelli che diventarono famosi come «spaghetti-western». Amava i western semplici, con i buoni, da una parte, e i cattivi, dall’altra, quelli in cui si sa sempre, sin dall’inizio, chi è il buono e chi è il cattivo, destinato naturalmente a soccombere per mandare a letto gli spettatori felici e contenti. Solo una volta, su un film avemmo una lunga, non facile discussione. Eravamo a Firenze per un convegno. La sera, si andò a vedere Il processo di Verona, di Carlo Lizzani. Abbagnano ne fu profondamente turbato. Mi disse che le coerenze superficiali, ideologiche erano pericolose. Inducevano a dimenticare l’umanità dell’uomo. Esisteva una sorta di fascismo anche nella mentalità antifascista, quando questa diventava bigotta. Mi ricordava la questione del «giuramento» degli accademici imposto dal fascismo. Piero Martinetti, di Torino, non aveva giurato, ma poi tempestava i grossi papaveri del regime per timore della sua pensione. Molti giovani erano stati fascisti per ingenuità, per eccessivo entusiasmo… Ricordo alcune sue piccole manie. Amava atteggiarsi, in occasione di riunioni familiari e di amici, a esperto barman, una specie di asso dello shaker. Sapeva preparare dei martini dry che neppure negli Stati Uniti, dove erano stati per generazioni famosi tanto da rivaleggiare con qualche rito religioso, si potevano più ottenere. Veniva accusato, specialmente dagli studenti della contestazione del Sessantotto, di non curarsi dei problemi sociali, di tenersi lontano, appartato, come se temesse la contaminazione da contatto. È vero che più di una volta ebbe a dirmi: «Figuriamoci. Non andavo al bordello neppure da giovane. Non posso certo continuare a frequentare l’uni-

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versità come l’hanno ridotta, oggi…». In realtà, nulla era più lontano da lui, pur così elegante e naturaliter portato alla dimensione estetica della vita, della figura del filosofo distratto e astratto. Era invece un uomo che apprezzava la vita nei suoi aspetti in apparenza più umili, quotidiani. Si fermava a parlare volentieri con i portieri dell’albergo. Si informava di ciò che accadeva nella città: dal traffico alle condizioni meteorologiche. Mi confidava che a nessun spettacolo sarebbe mai andato senza prima avere il parere della donna delle pulizie. Non nutriva alcun malcelato disprezzo per il «mondo del si dice». Ciò che per Heidegger sarebbe stato da considerare «inautentico», da Abbagnano era apprezzato come lo scampolo di una sorta di antiquissima Italorum sapientia. Non fosse stato docente di filosofia, gli sarebbe piaciuto, mi aveva confessato più volte, fare lo spedizioniere, magari presso una casa editrice, nel senso più elementare del termine, ossia preparare i pacchi da spedire, con carta e spago. Certi lavori manuali lo attiravano; si sentiva, attraverso di essi, messo in contatto diretto con la materialità della vita, con i suoi aspetti pratici, direttamente utili, in cui il rapporto fra lo sforzo dell’individuo e il risultato ottenuto è visibile, immediato, e nei quali la servizievolezza non si confonde con il servilismo. La sua stessa filosofia, d’altronde, non era in alcun senso una fuga dalla realtà in nome di una qualche auto-fondazione dell’io, secondo l’impostazione neo-idealistica, oppure di un concetto spiritualistico di persona. L’individuo che lo interessava era quello datato e vissuto, l’individuo né assolutamente libero né causalmente determinato, bensì l’individuo condizionato, alle prese con specifiche circostanze, fronteggiato dal bisogno di scegliere fra diverse alternative. Di qui, per Abbagnano, l’importanza della ricerca sociologica, tesa a descrivere e a interpretare i termini di fatto, storici dell’azione umana, per rilevarne e comprenderne l’intenzionalità, il senso razionale. In questa prospettiva, e solo in questo senso, Abbagnano recuperava nella sua analisi filosofica e sociologica la dimensione di quella che fu, storicamente, la razionalità illuministica.

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CAPITOLO QUINDICESIMO

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GLI

ANNI RUGGENTI DEL

«PROF»

Dopo aver parlato del mestiere del traduttore e del breve (ma psicologicamente lunghissimo) apprendistato come operaio metalmeccanico specializzato, pensavo di essere giunto ormai alla fine del mio resoconto circa le tecniche di sopravvivenza, ossia le attività lavorative svolte per chiudere, se non in positivo, almeno in pareggio, la fine di ogni mese. Ed ecco che scopro un buco. Dopo il traduttore e l’apprendista operaio metalmeccanico, mi avvedo di non aver parlato, se non per rapidi, quasi furtivi cenni, della professione che ha assorbito il meglio, e forse anche il peggio, della mia vita: quella del professore universitario. Come mai? Per quali ragioni ho cancellato oppure oscurato la professione cui ho sacrificato tutto il resto? Cerco ora di rimediare e mi abbia il lettore per iscusato se noterà qualche ripetizione e una certa dose di confusione cronologica, come in chi, postosi in viaggio, ricorda a un tratto che non ha spento la luce della cucina o il gas e torna a rotta di collo e col fiato corto sui suoi passi. Negli ultimi mesi del 1959 ero, professionalmente parlando, tre cose: diplomatico a Parigi, deputato al parlamento italiano, professore universitario. Le prime due erano, per così dire, regali della vita e ne parlerò altra volta. Quest’ultima, per un autodidatta arrabbiato come me, era la più incongrua ed è invece risultata la scelta fondamentale della mia vita. Perché? Perché ho alla fine scelto di fare il professore rinunciando a tutto il resto? Che cosa ci ho trovato dentro? Il fatto di professare, non di insegnare. Non solo: il fatto di professare una materia, la sociologia, scomparsa da almeno due generazioni. Il concorso a cattedra del 1960 era il primo concorso a cattedra ordinaria bandito in Italia per la sociologia. Prima del fascismo, che l’avrebbe abolita come aveva, del resto, fatto il nazismo in Germania, era per lo più insegnata sotto le mentite spoglie di criminologia, specialmente nelle antiche e prestigiose facoltà di giurisprudenza e di medicina. Io avevo comin-

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ciato a insegnare sociologia nel vecchio Magistero di Roma a Piazza Esedra, su richiesta della Facoltà e specialmente del filosofo Franco Lombardi. Era un incarico non retribuito, di quelli che andavano rinnovati di anno in anno. A ripensarci, fu una gran fortuna ottenere un incarico di insegnamento non retribuito. Mi obbligava a insegnare per puro amore. Di più: di fronte a me stesso, non rischiavo di dovermi considerare un funzionario dello Stato. Sta però di fatto che il primo stipendio regolare l’ho ricevuto dall’Università di Roma «La Sapienza». Era ancora l’università dei grandi «baroni» accademici, come venivano chiamati più con insofferenza che con rispetto. Ma la vetusta struttura cominciava a scricchiolare e le venerande cattedre traballavano. Ho avuto, a ogni buon conto, l’immeritata fortuna di essere nominato professore ordinario anni prima che l’università italiana entrasse nella situazione di crisi che continua, con alterne vicende, ancora oggi. Un bel giorno, tutti cominciarono a chiamarmi «prof». Ero stato il più giovane diplomatico dell’OECE a Parigi, il più giovane deputato della III Legislatura. Ero il più giovane «prof» dell’Università «La Sapienza». Ero anche l’unico, in quei primi anni Sessanta, ad arrivare davanti alla scalinata di Lettere e Filosofia a bordo di una rombante moto Morini da corsa. Essendo il solo sociologo accreditato, dovevo tenere i corsi della materia sociologica anche presso la Facoltà di Scienze politiche, sotto il preside Raffaele D’Addario, tipico burbero benefico, a Lettere e Filosofia, dove imperavano Guido Calogero e Ugo Spirito, con accanto Gennaro Sasso, che aveva sposato la figlia di Calogero, e Lucio Colletti, all’epoca comunista ortodosso da far impallidire lo stesso Zdanov del comitato centrale di Mosca e che nessuno avrebbe mai potuto immaginare, anni dopo, nell’entourage del fortunato imprenditore e politico Silvio Berlusconi. Ma anche a Firenze, all’Istituto Cesare Alfieri di Via Laura 48 e a Trento, dove avevo collaborato alla formazione dell’Istituto Superiore di Scienze Sociali. Non mi ci volle molto per rendermi conto che nell’organizzazione e nella tradizione degli studi umanistici italiani l’insegnamento della sociologia si presentava difficile se non impossibile. Si poteva, naturalmente, parlare dalla cattedra, ma mancavano gli strumenti, i mezzi essenziali, per fare ricerca «sul campo». Non parlo di lavagne luminose, diapositive, documentari, videotapes, e tutto l’armamentario della comunica-

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zione detta «elettronicamente assistita» e oggi universalmente diffuso e dato per scontato. Ho sempre pensato che la parola di un vero docente è in grado di offrire agli studenti tutto ciò che risulti necessario. Parlo del lavoro di ricerca sul terreno, dell’incontro con la gente, della pratica di osservare, registrare, interpretare il comportamento quotidiano là dove si viene svolgendo. Malgrado tutto, tiravo avanti. Dalle finestre dell’aula in cui parlavo a un numero crescente di studenti, forse attratti più dalla novità della cosa che convinti dai miei argomenti, potevo vedere i sampietrini lucidi di Piazza Esedra e le Najadi sotto gli zampilli della fontana del Rutelli. Bisognava far capire agli studenti che la sociologia era una disciplina con caratteristiche particolari, che studiarla sui miei testi non bastava, che doveva essere un’occasione per l’incontro dell’umano con l’umano, forse il primo passo per la costruzione di un’identità dialogica. Parole. Non erano gli studenti di oggi. Gli studenti che si iscrivevano all’università a quei tempi venivano dalla maturità classica, sapevano di greco e di latino, avevano buone cognizioni di storia, potevano stendere le loro tesine in un italiano passabile, non ancora uniformizzato o svuotato dall’orrendo gergo televisivo. Erano studenti che davano a me, spesso inconsapevole, trasognato, prono a lasciarmi andare sull’onda di un successo che non accennava a diminuire, la coscienza piena della novità di ciò che venivo dicendo. Era, quella sociologica, un’ottica intellettualmente nuova, un modo nuovo di guardare la realtà che uno si sentiva sotto i piedi: non filosofico o astratto, non freddamente economico-matematico, non formalistico al modo dei giuristi. Si parlava della società così come uno l’incontrava sotto i portici della stazione, nelle piazze e nei vicoli di Roma. C’era un nesso diretto fra ciò che si diceva e ciò che si viveva. Da paese rurale a società industriale: l’Italia stava compiendo i primi faticosi passi della grande transizione. Il discorso sociologico rendeva conto, spiegava o, anzi, anticipava gli sviluppi del cambiamento sociale, parlava di una graduale razionalizzazione della vita sociale che gli studenti stavano vivendo, dagli orari delle corriere per i fuori sede alla modernizzazione d’una città fino a tempi recenti ferma nella sua eterna storicità e sonnacchiosa come Roma. Negli anni Cinquanta, struttura di classe e composizione professionale in Italia erano ancora quelle del 1900, dell’Italia giolittiana prima della guerra di Libia. L’autarchia fascista do-

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veva congelare in seguito il paese in un suo umbratile, periferico isolamento. Al mio ritorno dagli Stati Uniti nel 1953, a Roma non c’erano semafori. Circolavano pochissime automobili. Le frontiere erano bloccate da dazi fortissimi. Per una 1100 FIAT si doveva attendere un anno e mezzo e versare un acconto sul prezzo di almeno un terzo. Nel linguaggio FIAT dell’epoca, questo si chiamava «autofinanziamento». Una domestica a pieno tempo costava a una famiglia borghese il prezzo di un articolo di giornale. C’era ancora un’imposta tipicamente indiziaria, ossia basata sulle apparenze della ricchezza o dell’agio, che era l’imposta di famiglia. Era appena entrata in vigore la riforma Vanoni, dal nome del ministro democristiano Ezio Vanoni che l’aveva voluta. Era l’IRPEF di oggi, ossia l’imposta sul reddito annuale dichiarato da tutti i cittadini. Grandi manifesti murali, con un dito puntato minacciosamente verso l’eventuale lettore, intimavano: «Quest’anno, fa il tuo dovere. Dì la verità». Nella cultura mediterranea questo cipiglioso invito era tanto patetico quanto inefficace. Negli Stati Uniti l’imposta sul reddito, la famosa income tax, che aveva mandato in galera legioni di malavitosi, vigeva dal 1911. Dal CEPAS (Centro per l’educazione professionale degli assistenti sociali) a Scienze politiche, a Lettere e Filosofia e a Magistero gli studenti crescevano di numero. Gli esami ponevano un problema serio, che forse uno spirito più responsabile del mio avrebbe trovato insolubile. Le richieste di tesi di laurea aumentavano a un tasso esponenziale. Niente. Al Magistero io continuavo a non avere uno studio in senso proprio. E neppure un tavolo, tanto meno una scrivania, e non si parli neppure di un telefono, che del resto a quell’epoca funzionava in modo capriccioso, imprevedibile. Disponevo di una sedia, non proprio comoda ma non traballante, davanti alla vetrata della biblioteca al secondo piano, quasi di fronte ai gabinetti della facoltà, di cui ricordo, con una punta di divertimento, le scritte in lettere nere su smalto bianco: «uomini», «donne», «professori». Chissà come la facevano i professori? Erano tempi di penuria e di entusiasmo. Il nuovo premeva contro le pareti fatiscenti delle antiche istituzioni. Ma come fare ricerca «sul campo», il famoso field work, senza il quale non si dà insegnamento di sociologia degno del nome e che del resto, di per sé, interrompe la tradizione classica dell’insegnamento cattedratico, privo di dialogo, talvolta inconcludente e dogmatico?

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Intendiamoci: è facile, è stato poi anche troppo facile, più tardi, per il Sessantotto, criticare il carattere dogmatico delle lezioni tradizionali. Oggi, ripensare alle tre lezioni settimanali, cui erano tenuti gli ordinari di allora, tre lezioni da tenersi in giorni non consecutivi, può indurre al sorriso gli inconsapevoli. Bisogna pensare alla sostanza di quelle lezioni. Ciò che mi piaceva immensamente nella mia professione accademica era dato dal fatto che il professore non insegnava, non ripeteva nozioni risapute o ricevute in eredità dalla tradizione, non ripeteva a se stesso né si limitava a leggere un manuale, bensì professava le sue opinioni, magari originali ma non ancora verificate, distinguendole da quelle che riteneva ormai scientificamente assodate, stabilite, intersoggettivamente vincolanti. Tre lezioni la settimana di quel tipo erano sufficienti a riempire la vita. Esigevano ore di studio in biblioteca, la conoscenza delle lingue classiche e di quelle contemporanee, la carburazione interiore che nelle ore notturne tien desto lo studioso d’una volta, ne accende l’intelligenza e la comprensione profonda. Non erano solo lezioni ciceroniane, da pronunciarsi ore rotundo, quasi fossero esercizi puramente formali di retorica. Erano messaggi dall’interno. Nel caso della sociologia, erano illustrazioni di interi spaccati storici e sociali, la descrizione e il senso dell’esperienza interumana, la ricreazione della quotidianità del passato. Ma non c’erano mezzi. Sociologia non disponeva di strumenti che non fossero le mie povere corde vocali. I miei primi assistenti, Corrado Antiochia, impiegato la mattina all’IMI, e Martino Ancona, distaccato non so più da quale ministero, erano volontari, assolutamente privi di retribuzione. In compenso il loro lavoro, specialmente durante gli esami, era a dir poco massacrante. È incredibile – e quasi masochistico a dirsi – ma la mancanza di fondi per la ricerca si traduceva paradossalmente in un grande vantaggio, euristico e sostanziale. Non avevamo i soldi per andare a esplorare, docenti e studenti insieme, villaggi che intorno a Roma, nel Lazio, per esempio nel Reatino, si andavano spopolando. Li chiamavo, con bonaria ironia, i nostri vanishing villages. E allora si decise di prendere semplicemente l’autobus dell’ATAC, il cui biglietto era più che ragionevole, e andare fino al capolinea; scendere e guardarci intorno. Grazie alla mancanza di fondi, scoprivamo così le borgate di Roma, la dolente frangia periferica della città eterna, di cui nessuno parlava, le borgate, i borghetti e le baracche.

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La prima fase era la «ricerca di sfondo», nel linguaggio del mio Trattato di sociologia, il primo approccio con il terreno. Non dimenticherò facilmente, fin che campo, lo stupore, la meraviglia, e poi l’entusiasmo di molti studenti, specialmente di quelli di origine borghese, quasi tutti provenienti da Lettere e Filosofia e Scienze politiche, nel prendere contatto diretto con la realtà umana d’una povertà come modo di vita che da sempre avevano ignorato. Erano impazienti di tuffarsi nel «mare dell’oggettività». Si appuntavano ogni cosa, ogni frase colta al volo dai «borgatari», interrogavano febbrilmente i «ragazzi di vita» che incontravano. Adoperando su mio suggerimento le macchine fotografiche, ignorate dai sociologi anche americani, imparavano a «leggere» una fotografia, a farne l’uso che, prima di noi, ne avevano fatto gli antropologi fra le tribù cosiddette «primitive». Era quello il nostro mondo primitivo. Non era il caso di prendere navi o aerei per andarlo a cercare lontano, in altri paesi, in altri continenti. Avevamo la Cina sotto i piedi. Avevamo il terzo mondo sotto casa. A sera, poi, tutti a cena insieme, docenti e studenti, allo stesso tavolo, gomito a gomito, dai Trenini, all’inizio della Via Appia Antica, prima del bivio per l’Appia Pignatelli. Si sviluppava una bella comunanza non solo scientifica, anche esistenziale: consonanza psicologica, Gemüflichkeis. La ricerca non era dunque solo l’esplorazione degli altri. Si faceva autoesplorazione. Il ricercatore capiva, a poco a poco, che non poteva fare ricerche sugli altri senza essere anche lui, pur salvando la distanza critica, coinvolto. Il ricercatore è sempre anche un ricercato. L’alternativa è l’oggettualizzazione dell’altro, il tradimento della ricerca sociologica, la sua riduzione a miserabile resoconto poliziesco. Il successo è pericoloso. Il successo dà alla testa. Il successo, in realtà, mi è indifferente. Anni dopo, mi sarei dimesso da tutte le cariche accademiche così come avevo abbandonato la diplomazia e avevo rifiutato di continuare, nonostante le pressioni di Nenni, Saragat, Giancarlo Pajetta, la carriera politica, il cursus honorum cui parevo destinato. Ho sempre pensato che esistono al mondo due logiche fondamentali: la logica del comprendere e la logica del comandare. Mi interessa solo la prima. I pastori di popoli, i creatori di chiese e di discepoli li ho sempre visti essenzialmente come pastori di bestiame. La logica del comandare è la logica dell’armento. Preferisco comprendere, capire, interpretare.

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Le mie lezioni a Lettere e Filosofia avevano luogo a mezzogiorno il lunedì, mercoledì e venerdì durante i nove mesi dell’anno accademico di allora. La grande aula del pianterreno, l’unica a forma di anfiteatro come quelle della Sorbona, già alle undici e trenta era gremita. Studenti venivano anche da Giurisprudenza e da Medicina. Mi si dice che non mancavano studenti di ingegneria che venivano da San Pietro in Vincoli, ma arrivavano anche signori e signore di mezz’età colpiti dal fascino della nuova scienza, alla ricerca forse di un’autoconsapevolezza fondata su dati di fatto e non solo su vaporose intuizioni, desiderosi di un brivido supplementare. Voglio dire che il successo della prima cattedra di sociologia a livello pieno, da me ricoperta, andava al di là dell’ambiente universitario; diveniva – scandalo o sorpresa – un’occasione per ampliare i consueti orizzonti culturali e politici. Vi era in ciò qualche cosa di inatteso, inedito e persino inebriante. L’estroso Mino Maccari scriveva a Ennio Flaiano1: «come reagire a tanta decadenza? Che fare? Sottoporre il problema ai sociologhi? All’on. Ferrarotti?» (p. 121); e ancora: «… m’è apparso in sogno Goffredo Bellonci che come nel primo atto dell’Amleto mi ha rivelato di essere stato ucciso da Libero Bigiaretti con la complicità di Libero de Libero e Leonardo Sinisgalli con la consulenza dell’on. Franco Ferrarotti» (p. 152); e più avanti: «Mòstrati affabile, comprensivo, aperto ai problemi del momento. Telefona spesso a Zavattini e a Ferrarotti» (p. 199). A lezione, parlavo a braccio, senza l’ausilio di una scaletta, spesso senza microfono, da una piccola cattedra di legno abbondantemente sfregiato, con studenti seduti sui gradini o appoggiati al muro dietro di me. Il silenzio era enorme, quasi irreale. Le mie parole cadevano su una folla immobile, come impietrita, intensa e attenta al di là dell’immaginabile. Ne sentivo battere l’ansia di conoscere, la febbrile volontà di impadronirsi di nuove, inedite categorie, comprendere il moto evolutivo della propria quotidianità, la logica apparentemente gratuita delle istituzioni. Non sono mai stato molto interessato a coltivare piccoli gruppi di devoti, una piccola Schule di discepoli da mandare a portare il verbo nel mondo. La mia socializzazione primaria deve aver avuto in proposito qualche se1 Si veda M.M., Lettere a Flaiano 1947-1972, Edizioni Pananti, Firenze 1991, a cura di Daniele Bacci e Diana Rüesch, con prefazione di Nello Ajello.

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ria carenza. Ho sempre preferito parlare al mondo direttamente, senza intermediari, in prima persona. Il clima mentale, la temperatura spirituale di un vasto assembramento li colgo subito, li percepisco per vie misteriose, ne avverto il vibrare. Forse per questo ho preferito e ho scelto la sociologia e non ho mai veramente capito la psicologia o la pedagogia o la politologia. Si nasce quel che si diventa. Ho sempre amato far lezione. Ma ho in mente la lezione del professore universitario che, come ho già detto, non insegna dogmaticamente alcunché, ma professa. Professa, ossia enuncia le sue idee, opinioni, punti di vista, talvolta anche solo prime intuizioni aurorali che attendono conferma. Il professore fedele ai suoi principi non confonde le sue idee, quelle professate davanti ai suoi studenti, con le professioni di fede. Non usa la cattedra, come temeva Max Weber, per spacciare come verità scientifiche, e quindi intersoggettivamente vincolanti, quelle che sono solo le sue opinioni private, i suoi principî di preferenza. Il primo dovere del professore universitario, a mio giudizio, consiste nel sollevare problemi, suscitare dubbi, coltivare interrogativi. A questo canone, nemico dei canoni non importa quanto canonizzati, mi sono sempre attenuto. Ma gli esami? E gli studenti? È vero: gli studenti frequentano i corsi pensando agli esami. Hanno bisogno di una guida, di un discorso filato che parta da premesse chiare e giunga a conclusioni certe. Non ho mai dimenticato questa esigenza primaria. Ma ho sempre cercato di coniugarla con la mia costante preoccupazione di annoiare e di annoiarmi con la stanca, liturgica ripetitività. Per questo ho scritto dei manuali. Il primo, pubblicato fin dal 1961, si intitolava Sociologia: storia, concetti, metodi. Pubblicato dalla ERI, doveva toccargli un grande successo. Poi, venne il Trattato di sociologia, della UTET, e poi il Manuale di sociologia della Laterza, e poi ancora uno stuolo di studi monografici. Ma il metodo seguito per ovviare all’effetto conturbante di lezioni troppo problematiche e irte di difficili interrogativi l’avevo per tempo trovato nella preparazione di corposi, dettagliati schemi di tutto il corso per un dato anno accademico, tale da fungere da guida per lo studente e per dare a me la libertà di approfondimenti critici particolari. Riuscivo in questo modo a collegare e a fare interagire un’impostazione generale e nello stesso tempo un metodo essenzialmente monografico. Venivo incontro al bisogno degli studenti di una guida complessiva sicura e mi garantivo contro

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la noia riservandomi la possibilità di speciali colpi di sonda per rispondere alla mia vecchia esigenza o, forse meglio, al mio complesso di ulisside sempre alla ricerca di nuovi lidi. Nessuna meraviglia quindi che adorassi far lezione almeno quanto detestavo amministrare gli esami. Ma qui il ricco stuolo di assistenti mi era di grande aiuto. Una nuova disciplina non può disporre di sicuri controlli interni per selezionare i nuovi arrivati o le presunte vocazioni come fanno invece le vecchie collaudate e ben consolidate materie. Ho avuto molti, forse troppi assistenti. Li ringrazio a uno a uno, ne ricordo i nomi, ma devo ammettere che non li ho mai seguiti, non ho mai conosciuto i loro indirizzi privati né il numero dei loro telefoni, fissi o cellulari. Io stesso, privo di tradizioni accademiche familiari, li ho lasciati liberi, non ho richiesto loro alcun pactum subiectionis, come usavano i vecchi baroni. Lasciandoli assolutamente liberi, forse si sono sentiti abbandonati. Il potere in Italia, anche quello accademico, è concepito come una prerogativa personale, un appannaggio. A non esercitarlo ci si espone a equivoci grossolani. Si passa per distratti o assenteisti. Non si ha idea in Italia di un potere concepito come funzione razionale collettiva. Credo che nel campo degli studi scientifici valga solo il principio della totale autonomia. L’organizzazione burocratica, che pure oggi è il perno della big science, la quale, avendo bisogno di big money, deve vendersi ai governi e agli interessi economici, è in realtà la morte dell’inventiva personale, l’inaridimento del pensiero creativo originale. D’altro canto, se uno non sperimenta per conto suo la gioia dello studio come avventura, esplorazione, scoperta, nessuno può dargliela dall’esterno. Quando alla sociologia toccava ormai un impensabile successo, e io stesso venivo chiamato dalla RAI come presidente del famoso, un tempo, «Convegno dei cinque», e partecipavo alle prime trasmissioni televisive di «Vivere insieme» e simili, e il discorso sociologico rischiava di farsi moda, filosofia media, tracimando dall’università ai giornali e riviste, ai talk show televisivi, ho sentito che era giunta per me l’ora del ritiro. Era il mio richiamo della foresta. Studio, solitudine, letture dei classici, passeggiate igieniche: il dotto privato che vince sul barone, sull’uomo di potere. La cattedra aveva generato l’istituto, dapprima mono-cattedra, quindi poli-cattedra, e su di esso era germogliato il dipartimento mentre in lontananza, ma non troppo, albeggiava la

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facoltà. Per me era tempo di andarmene. Ma a chi lasciavo l’eredità? A chi passavo la mano? Avevo da ultimo «messo in cattedra», come si dice con un improprio gergo mercantile, due colleghi, Alberto Izzo, che tutti o quasi accettavano, e Gianni Statera, che nessuno voleva e a cui la communis opinio era estranea. Non mi ero dato per vinto. Avevo pazientemente chiarito agli anziani della disciplina che, se il primo era un ottimo storico e teorico, il secondo aveva buoni meriti nel campo metodologico, e ricordavo il volume che gli avevo fatto pubblicare da Abbagnano su Otto Neurath e il circolo di Vienna. Avevo bisogno di tutti e due, anche per rispondere alla mia esigenza di far interagire teoria e ricerca. Bene. Furono accettati. Ma a chi dei due doveva andare la direzione del dipartimento da me costituito? Li invitai entrambi per discuterne, in clima d’amicizia, inter pocula, in una trattoria romana ben nota, a Trastevere, a metà della salita di Via Garibaldi, L’antica pesa. Non me ne ero lì per lì reso conto, ma il nome della trattoria corrispondeva letteralmente al cognome di uno dei due candidati, quello che poi scelsi (Statera, bilancia, pesa). Con l’università di massa ai primi passi, con gli investimenti governativi nelle tradizionali scienze naturali ma anche in quelle umanistiche, con le cattedre e le borse di studio, emergeva e andava tessendo le sue trame un nuovo, inedito tipo sociale: il gangster accademico. La cattedra cessava di essere un progetto di vita culturale. Diveniva solo una piattaforma per fare affari. Victor Hugo riteneva che il 1870 fosse stato per la Francia l’année terrible. Non senza qualche buona ragione: era l’anno della sconfitta francese a Sedan. La regina Elisabetta II d’Inghilterra ha confessato di aver avuto il suo annus horribilis l’anno della morte di Lady Diana in un incidente d’auto a Parigi. Ma anche le donne e gli uomini comuni hanno i loro anni memorabili, segnati da disastri, tracolli e incertezze angoscianti. Il mio anno terribile fu il 1962, in apparenza traboccante di successi, nella realtà pervaso da contraddizioni laceranti. Invitato da Robert K. Merton e Daniel Bell, tenevo un corso di sociologia industriale alla Columbia University, nell’aula grande del Fayerweather Building. Abitavo nella 110ma strada all’angolo con Broadway, rumorosa, anche di notte, ma viva, vibrante come sa solo chi abbia vissuto a Manhattan. Con Merton e Bell, lavoravano al dipartimento di sociologia della Columbia Juan Linz, uno studioso spagnolo all’epoca interessato alla «legge delle tendenze oligarchiche» di Roberto Michels, e lo

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svizzero Roger Girod, dell’Università di Ginevra, cui doveva legarmi una buona amicizia. Avevo da tempo lasciato la diplomazia parigina, ma ero ancora deputato al Parlamento. Si avvicinava la scadenza della Legislatura, maggio 1963. Mi si facevano pressioni da molte parti perché mi ripresentassi. Le più sentite, per me, erano quelle dei sindaci canavesani con cui avevo un rapporto umano, e non solo politico, quale può essere un rapporto non mediato da strutture organizzative. Da Ivrea Giancarlo Lunati mi scriveva una bella lettera di incoraggiamento. Non avevo bisogno, in verità, di incoraggiamento. L’attività politica mi è sempre piaciuta, forse troppo, per non darmi qualche sospetto. La gioia che provavo nel persuadere ascoltatori tanto attenti quanto ignari, il gusto per i bagni di folla in cui il manipolatore psicologico viene a sua volta manipolato, mi lasciavano poi, quando la festa era finita e il raduno si era sciolto e la folla sciamava verso le proprie case, la bocca amara, il senso remotamente religioso di una profanazione. D’altro canto, il tempo speso nella Camera dei deputati o nei conciliaboli ristretti dove si prendono le decisioni da far approvare in fretta, la mattina presto, dalle commissioni in sede non referente, ma legislativa (le famose «leggine») era un tempo che sentivo indebitamente sottratto allo studio, allo scrivere. Mi trovavo in una tipica situazione nevrotica. Due tendenze potenti, simultanee e contrarie, si affrontavano dentro di me e si annullavano l’un l’altra, mi riducevano e costringevano in una situazione di paralisi, quella che gli analisti chiamano la «diastesi», ossia la lacerazione interiore, l’impossibilità di decidere in un senso o nell’altro, e quindi il blocco, la stasi totale. Nello stesso torno di tempo stavo scrivendo le ultime pagine del mio studio su Max Weber e il destino della ragione, che nel 1964 avrebbe visto la luce presso Laterza. Sentivo Weber molto vicino, quasi un compagno di crisi. Non potevo interpretarlo semplicemente come un primo gradino verso la costruzione del «sistema sociale», für ewig, come lo vedevano negli Stati Uniti studiosi eminenti come Talcott Parsons e Edward Shils, e in Italia Luciano Gallino e Gianfranco Poggi. La mia lettura di Weber, che doveva poi essere riconosciuta anche in Germania, da Wilhelm Hennis per esempio, come pionieristica e fuori dal coro dei neo-sistematici, non era il frutto di una mia personale acribia, particolarmente acuta, ma piuttosto di una consonanza interiore. Comprendevo la riluttanza di Max Weber a

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sacrificare la sua intransigente indipendenza intellettuale sull’altare della lealtà di partito, la sua incapacità a convincersi ad apporre la firma di accettazione della candidatura per le elezioni politiche, il suo ridursi a essere un uomo politico manqué. Non era, il mio, un merito filologico. Era il risultato di una comune esperienza esistenziale. Sapevo che la politica italiana, all’indomani del primo centro-sinistra, aveva bisogno della ricerca sociologica. La spinta ideologica si appannava, rivelava la sua natura di megafono dell’ufficialità e di falsa coscienza. Le riforme non bastava proclamarle, cioè sognarle. Occorreva mettere a punto la tecnica delle riforme. Per questo la ricerca sociologica era essenziale. Me ne dava atto Ugo La Malfa, uno degli artefici del primo centro-sinistra, in lunghe discussioni nell’accogliente dimora di Elena Croce in Via delle Tre Madonne a Roma. Curioso che una delle figlie di Benedetto Croce si trovasse a ospitare colloqui sociologici, ma da questi doveva probabilmente sortire la prima «nota aggiuntiva» che lo stesso La Malfa faceva seguire alla «Legge finanziaria» di quel tempo in funzione di commento socio-politico al di là del formalismo giuridico e delle statistiche ufficiali. Ma avvertivo già tutte le debolezze e le doppiezze del costume politico italiano, la corruzione fin da allora manifesta, per chi volesse vederla, dei partiti politici, gli equivoci di un riformismo che denunciava il passato ma non riusciva a fare le riforme aperte sull’avvenire, in un paese che andava industrializzandosi a tappe forzate senza disporre di un’autentica cultura industriale. Avevo iniziato la mia esperienza politica con un duello, attaccando da indipendente il governo Tambroni per vederlo cadere, alle due dopo mezzanotte, lo stesso giorno della mia dura, violenta dichiarazione di voto. Terminavo la mia attività politica diretta, in parlamento, anticipando la crisi della prima Repubblica, l’avvento di «Mani pulite» e nello stesso tempo il «cadavere riluttante» di un costume politico demagogico e trasformistico che avrebbe ammorbato l’atmosfera in cui si voleva far nascere la seconda Repubblica. Lasciavo, dunque, la politica partitica. Ero un militante, ma non un partitante. Sceglievo la ricerca e lo studio a tempo pieno. All’incirca vent’anni dopo, avrei deciso una scelta nella scelta: la sociologia qualitativa, minoritaria ma impegnata, contro la sociologia quantitativa, maggioritaria, ma asservita alle strutture di dominio.

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CAPITOLO SEDICESIMO

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L’AUTUNNO

DELL’UNIVERSITÀ

Un dio pietoso guida i passi dell’inconsapevole. Una serie di fortunate circostanze mi prepara allo scossone del Sessantotto. Al «Center for the Advanced Study in the Behavioral Sciences», Palo Alto, California, si vive in apnea, pagati per non far niente, ma solo nel pomeriggio. È il 1965 e giungono, da lontano, tuoni di guerra, ma si pensa a un temporale estivo. Visitatori domenicali additano un ometto sui sessanta, ancora arzillo, carnagione rubizza e baffetti da ufficiale inglese della riserva. Si dicono, ammiccando: «Sostiene di essere Talcott Parsons, il poveretto. C’è da morire dal ridere». Ma è Talcott Parsons, e si allontana a passetti rapidi come un monsignore della curia che ha fatto tardi all’udienza del mercoledì. A meno di cento miglia a Nord, passato il ponte della «porta d’oro», c’è Berkeley, università sovraffollata, per i criteri nordamericani, campus nervoso, crogiuolo «rivoluzionario», dove Mario Savio, leader studentesco, arringa gli studenti fingendo una lieve balbuzie per dare maggiore autenticità al discorso. Si tratta della lotta contro la guerra in Vietnam e a favore del free speech. Siamo ancora nell’ambito della Costituzione da realizzare: Our more perfect Union. Ma è a Sud che le cose si complicano. In un sobborgo di Los Angeles, che è com’è noto centoventitre sobborghi in cerca di una città, a Watts, per la precisione, l’estate del 1965 è più calda del solito. Sono di scena i riots: sommosse e saccheggi, incendi, auto rovesciate, furgoni dati alle fiamme e poliziotti circondati, ridotti all’impotenza. I disordini del 1962 a Torino, Piazza Statuto, nei pressi di Porta Susa, sono solo, al confronto, prove tecniche. È vero: a Piazza Statuto per la prima volta volano bulloni ad altezza d’uomo, fanno la loro comparsa le «armi improprie», bombe molotov, la mitica spranga. Niente al confronto con la violenza «nera» di Los Angeles – violenza pura, a-programmatica, post-ideologica. La serie delle circostanze fortunate continua.

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Ai primi di maggio del 1968, a Parigi, nella sede dell’UNESCO per le celebrazioni del 150° anniversario della nascita di Marx, mi trovo con studiosi da tutto il mondo; per l’Italia, con me, c’è Cesare Leporini; tutti nel grande salone sotto la colomba della pace appena disegnata con un occhio strabico da Pablo Picasso. Fine dicitore come sempre, calva testa d’uovo, autentica egg-head, come dicono gli americani riferendosi, con una buona dose di disprezzo o di compatimento, agli intellettuali, profilo aguzzo e pallido fra il gesuitico e il volterriano, Raymond Aron apre i lavori e anticipa le conclusioni, naturalmente non conclusive. «Marx – dichiara con l’aria seria di un notaio che apra un testamento destinato a far litigare – era ambiguo ed inesauribile (ambigu et inépuisable)». Atmosfera generale più annoiata che intensa. Ma: sorpresa! Appena usciti i delegati dell’UNESCO, comincia lo spettacolo. Al Boulevard Saint-Germain la folla tumultua, ribolle, preme contro le facciate dei palazzi sempre più simili a quinte di teatro. C’è nell’aria il fumo azzurrino che si nota la sera sulle brughiere della Scozia. Cortei di studenti vocianti e allegri si spingono, come una risacca, fino a lambire i cordoni della polizia in assetto di guerra per poi ritirarsi, con piccoli scoppi come stridori di ghiaia, sempre cantando. Noi non lo sappiamo ancora, ma è scoppiato il maggio del Sessantotto, la contestazione globale, la «breccia», secondo il mercuriale Edgar Morin. No. È un «inizio» – ce n’est qu’un début, assicura Alain Touraine. Nessuno sembra accorgersi che è in realtà l’inizio della fine. Troppa baldoria e poca analisi. Nessun assalto alla Bastiglia. Non c’è l’attacco al Palazzo d’Inverno. C’è l’occupazione dei locali universitari da parte di studenti di ceto medio basso, spesso provenienti dalla provincia da famiglie tradizionali, arcaiche, che trovano nell’occupazione l’occasione per una socializzazione extra-familiare rapida, la palestra per un’educazione sentimentale fatta in proprio, da autodidatti. Alla Sorbona allestiscono una mensa per gli studenti occupanti. Recipienti fumanti mandano un odore casalingo di soupe à l’oignon. Fanno la loro comparsa montgomery e sacchi a pelo per la notte. L’indomani si trovano fra i banchi degli «amphithéâtres» pacchetti vuoti di gauloises, cartacce e preservativi. Si fa strada l’idea che politico e privato procedono mano nella mano, che il corpo è mio e lo gestisco io, che un atto d’amore o un trasporto erotico è un gesto creativo

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inaudito, un atto rivoluzionario. Si tarda a comprendere che è solo la rivoluzione dei genitali; nulla di speciale; solo la perpetuazione della specie. Accade lo stesso a Berlino, a Roma, a Milano. Almeno a Berkeley c’è la grande scusa, anzi, la «causa» della guerra nel Vietnam. In Europa c’è l’autoritarismo. Dire che les familles font les enfants; l’école fait les élèves, non basta più. Gli élèves si ribellano; le donne vogliono partecipare. E gli infanti? Nel cortiletto della Sorbona funziona anche un asilo nido. La prima fase del Sessantotto è come una sfilata di moda, haute couture o forse, meglio, prêt-à-porter. Si vuol cambiare il costume. Una volta si parlava di rivoluzione. Ora la si vuol vivere, in prima persona. C’è in tutto questo un elemento di teatralizzazione della realtà innegabile. Forse Nietzsche ha ragione quando trova che la rivoluzione è la più grande emozione che un popolo possa dare a se stesso. Nessun dubbio: c’è in giro emozione da vendere. Nella sua prima fase (ne distinguo tre: a) scoperta dell’autodeterminazione; b) burocratizzazione dell’ispirazione; c) la deriva della violenza) il Sessantotto è allegro come una scampagnata fuori porta, specialmente quando l’impresa si verifica grazie alla scuola marinata. Faire l’école buissonière: nella prima fase del Sessantotto c’è lo spirito della monelleria, del farla franca, del vedere fino a che punto ci si può spingere senza venir puniti, mandati nell’angolo dei mariuoli. Gli studenti sfidano l’autorità, fra il serio e il faceto. Non si bruciano i ponti alle spalle. Se andrà male, si ritireranno in buon ordine. Ma l’autorità che intendono sfidare, da quella accademica a quella politica, è per lo più un’autorità di cartapesta. I professori della vecchia generazione tremano. Borbottano: come osano, questi giovinastri ignoranti, interrompere, spesso con domande impertinenti, una lezione impartita ore rotundo? Lucus a non lucendo. Per me, già da anni ordinario, ma vaccinato dall’esperienza didattica con studenti scamiciati e in blue jeans nei campus della Columbia University, della New School, della New York University, di Chicago e Stanford, nulla di nuovo, niente di scandaloso. Trovo che l’interazione libera, spregiudicata fra studenti e professore sia salutare. Ma non ho alle spalle un’esperienza scolastica regolare. Sono sempre stato un tipico «privatista». Con l’idea della sociologia in testa, e solo quella, anche quando questa materia nell’ordinamento accademico italiano non c’era, o non c’era più, eliminata dal fascismo e dal crocismo.

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Nell’università non si insegna nulla. Si sollevano interrogativi. Si dibattono problemi. Ma in Italia, come in Francia e in Germania, il professore ordinario che viene interrotto in malo modo, polemicamente, si sente minacciato nell’intimo. Si è costruita una sua fisionomia professionale su una base, indiscussa, di cognizioni scientifiche che si possono arricchire ma non tollerano il dubbio, tanto meno il lazzo, l’irriverenza. La lezione cattedratica è sacra. Impensabile, più che sacrilego, interromperla. È come interrompere un rito, la Messa di Natale. È tutta la struttura della personalità del professore che viene percepita in pericolo. La vita non ha più senso. È tutto un cadere di ordini e di idee. L’italianista Giovanni Getto dell’Università di Torino si butta dalla finestra. Professori francesi, dell’università ma anche delle scuole medie superiori, fanno altrettanto. Molti colleghi ordinari disertano. I graffiti sulle pareti dei locali dell’università non sono invitanti né edificanti. Scurrilità abbondano. Abbagnano mi confida: «Non andavo al bordello da giovane. Figurati se ci vado adesso». Smette di frequentare l’università. Ignora i consigli di facoltà. Gli studenti si vendicano scrivendo sui muri che la sua drammatica scelta esistenziale riguarda il colore dei suoi calzini. Io cerco di capire. Dal 1951 dirigo i Quaderni di Sociologia che ho fondato con Nicola Abbagnano. Prevedo lo scossone. Nel 1967 li regalo a Renato Treves, Pietro Rossi, Luciano Gallino, Alessandro Pizzorno e altri specialisti, direbbe Roland Barthes, della «toeletta del morto» e fondo La critica sociologica, che seguirà passo passo la contestazione giovanile e studentesca con lo scopo di unire analisi scientifica rigorosa e questioni di attualità. Ho al mio attivo un’esperienza politica (III Legislatura per la I Circoscrizione Torino-Novara-Vercelli da deputato indipendente di sinistra) e un’esperienza da diplomatico (capo divisione all’OECE, ora OCSE, Château de la Muette, Parigi) dal 1958 al 1960. Ma non conosco bene il costume accademico italiano e, per quello che ne so, non ne sono entusiasta. Mi trovo in una posizione ambigua, che va dall’imbarazzo alla contraddizione. Sono un barone, ma anomalo: un barone che flirta con la contestazione più spinta. Sono un professore per caso, salvo che ho lasciato tutto, ho rinunciato alla carriera diplomatica e al cursus honorum politico, per studiare e fare ricerca in piena autonomia.

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CAPITOLO DICIASSETTESIMO

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LA

RIVOLUZIONE DEI FIGLI DI PAPÀ

Nascono preoccupazioni per quanto mi concerne. Anime buone mi vedono in pericolo. Sono l’unico professore cattedratico di sociologia e quindi insegno in più sedi: al Magistero, a Lettere e Filosofia e a Scienze Politiche nell’Università di Roma «La Sapienza». Ma insegno anche a Firenze nell’Istituto Cesare Alfieri, di Via Laura 48, chiamato lì dal dinamico e imprevedibile Giuseppe Maranini. C’è di più: fin dal 1962, viene a trovarmi a Torino, all’Hotel Ligure, davanti alla stazione di Porta Nuova dove ho il mio quartier generale di deputato, l’on. Bruno Kessler, moroteo, presidente della Regione Trentino-Alto Adige. Mi vuole nel «comitato tecnico» del costituendo «Istituto Superiore di Scienze Sociali» di Trento, Via Verdi 23. Esito, ma insiste, mentre ci arrivano sotto il naso carrelli riboccanti di bolliti fumanti, lingua, testina, salsicce galleggianti in ordine sparso come scialuppe di salvataggio dopo il naufragio del Titanic. L’uomo ha spalle poderose, carnagione scura e olivastra da medio-orientale, un appetito pantagruelico. Non è un uomo. È un bulldozer. Gli dà anche manforte, da Milano, lo statistico Marcello Boldrini; sono suo ospite in Piazza della Repubblica. Come se non bastasse, sono chiamati in aiuto i gesuiti di Piazza San Fedele, Milano, specialmente Padre Rosa, attento, sottile, ottimo ascoltatore, persuasore irresistibile. A Trento ho tra i miei studenti Giuliana Sellan (che andrà a studiare a Parigi con Claude Lévi-Strauss), Riccardo Scartezzini, Marco Boato, Paola Besuschio, Renato Curcio e altri. Fra tutti, forse il migliore: Mauro Rostagno. Sono giovani di famiglie cattoliche conservatrici, che quando scoprono i meccanismi del funzionamento sociale pensano che il male possa essere lavato solo col sangue. La rivoluzione catartica. La violenza santa. Non esitano a interrompere in Duomo l’oratore durante le prediche della Quaresima. Lascio Trento quando si dimette il matematico Mario Volpato, arriva la demagogia e scatta il ricatto a Kessler da parte

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del «doroteo» Flaminio Piccoli, disposto a far riconoscere dal Ministero della Pubblica Istruzione l’Istituto solo a condizione di «castrare» la sociologia: dalla sociologia critica alla sociologia come tecnica del conformismo. La contestazione sta per toccare il punto di rottura. Le istituzioni, nel momento in cui avrebbero dovuto aprirsi e ascoltare le domande della società, si avvitano su se stesse, si arroccano, si chiudono in un folle disegno di conservazione assoluta. Io cerco di capire. Sine ira ac studio. I colleghi ordinari mi rimproverano un eccesso di solidarietà con gli studenti. Rispondo che bisogna capire. No – replicano – bisogna cacciarli, ridurli al silenzio, buttarli fuori. Io credo che bisogna in primo luogo capire. La contestazione non è un capriccio. Sia pure con motivi diversi è un movimento mondiale. Qualcuno osserva: gli ci vorrebbe una guerra. Non mi sembra un buon argomento. E poi: lo si è già udito – la guerra come «igiene del mondo». È vero che la virtù non ha il monopolio della verità, ma una società, qualsiasi società, non può a cuor leggero buttare via i suoi giovani, relegarli nelle catacombe. Equivale a mettere a repentaglio il proprio avvenire. Si comincia a guardarmi di traverso. Lungi dallo spaventarmi, la cosa mi fa quasi piacere. Tanto più che anche «Autonomia Operaia», «Potere Operaio» ecc. mi guardano con sospetto. Vuol dire che probabilmente sono nel giusto. Il professor Raffaele D’Addario, preside della Facoltà di Scienze Politiche, statistico paretiano, ha verso di me una di quelle benevolenze prive di ragioni specifiche ma proprio per questo tenaci, fortissime, impervie. «Attento – mi dice paternamente – attento, Franco, che finirai per riuscire a Dio spiacente – e a li nimici sui». Alle mie orecchie un discorso del genere è musica. Lui mi guarda, in silenzio, senza capire. Altri colleghi sono più diretti, al limite della rudezza. Per Francesco Barone, epistemologo, metodologo, storico del positivismo logico a Pisa, io sono il «bonzo recidivo della contestazione». L’insulto vuol essere sanguinoso. Per me è un complimento. Prendo l’aggettivo «recidivo» nel senso di «coerente». Quanto al «bonzo», se dobbiamo credere a Alvin W. Gouldner1, gran parte dei sociologi

1

In The coming Crisis of western Sociology, Basic Books, New York 1980.

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hanno pensato, da giovani, alla carriera sacerdotale. In tempi di «ecumenismo» come i nostri, il «bonzo» mi sta bene. Capire, dunque: perché gli studenti contro le istituzioni. Negli articoli della Critica sociologica e in qualche mio scritto come Studenti, scuola, sistema2 le spiegazioni si sprecano, ma non spiegano molto. Certo: gli studenti fanno notizia. Si chiarisce che uno dei meriti del movimento studentesco consiste nell’averli resi visibili. Una classe politica chiusa nel suo gergo esoterico, sempre più casta che classe, è stata costretta a interrompere i suoi giochi, almeno per un attimo, a guardarsi attorno, a riflettere su problemi che non siano il finanziamento dei partiti e la rielezione. Ma, in generale, non si può dire che la comprensione dei problemi della scuola all’interno della società globale abbia progredito granché. Sociologi di fama pubblicano libri su La reproduction3; dimostrano come l’università resti il feudo dei figli della borghesia, ma con ciò non riescono a spiegare da dove venga la contestazione. Chi sono in effetti i contestatori? I leader sono quelli che stanno meglio. Ricevono alla fine del mese l’assegno di papà. Sembra una caratteristica costante: torna dieci anni dopo; vent’anni dopo; trent’anni dopo, con «la pantera» e la «contestazione ragionevole», quella che non vuole più fare la rivoluzione, ma si contenta dell’inserimento nel mercato del lavoro, dell’uscita dal precariato. I leader del movimento sono quelli che hanno tempo da buttare nelle interminabili riunioni dei comitati esecutivi, delle direzioni strategiche, consigli rivoluzionari, assemblee e gruppi di discussione ad hoc. La rivoluzione invecchia, si imborghesisce. C’è qualche segno di stanchezza. Soprattutto in Italia, dove il legame giovani-famiglie resta fortissimo; per l’occupazione ci si dà il turno; è bello tornare a dormire nel proprio letto, con il caffellatte fumante la mattina. Se uno telefona a un membro del comitato rivoluzionario prima delle nove, si sente dire dalla voce compunta di una donna d’una certa età, che si indovina essere la «tata» di famiglia: «Il signorino c’è, ma dorme ancora. Ha fatto tardi ieri notte; c’è stata la riunione del comitato rivoluzionario; ritelefoni tra un paio d’ore». Sono dei rivoluzionari morti di son-

2 3

Liguori, Napoli 1973. Pierre Bourdieu e Jacques Passeron, La reproduction, Seuil, Paris 1970.

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no. L’idea della contestazione globale non ha cambiato la vita, non ha interrotto le buone abitudini. Si è fermata sui muri, nelle scritte dissacranti, e nei «tazebao». In Francia, vale a dire a Parigi4, le cose sono diverse. Si direbbe che il cordone ombelicale fra gli studenti e le loro famiglie si sia attenuato, se non tranciato di netto. Anche la borghesia è più reattiva. Charles de Gaulle, che è tornato al potere nel 1958 per risolvere l’Algeria (ad Algeri, dal balcone, afferma: «Vi capisco», ma nessuno riesce a capire ciò che ha capito o, meglio, ciascuno capisce ciò che gli va meglio; il potere vero vive sull’ambiguità), confida a Michel Droit che il ventinove maggio del 1968 aveva pensato seriamente di dimettersi: «Sapete, dopo circa trent’anni che ho a che fare con la Storia (sic), mi è capitato qualche volta di domandarmi se per caso non dovevo lasciarla». Le ragioni delle mancate dimissioni sono più prosaiche; non hanno molto di storico o di epoch making: de Gaulle, da quel tattico finissimo che è come, del resto, gran parte dei «profeti», si accorge che gli studenti non hanno dalla loro gli operai; la classe operaia li vede ancora, senza sbagliare di molto, come dei «signorini», dei privilegiati schifati dei loro privilegi, cui però, parole a parte, non rinunciano; gli operai francesi lavorano duro, invece; hanno l’impressione che gli studenti giochino alla rivoluzione come da ragazzini giocavano a rimpiattino o a guardie e ladri; ricordano, nel loro inconscio, le parole sprezzanti di Maria Antonietta, la vigilia della vera rivoluzione: «Non hanno pane? Si lamentano? Mangino brioches». Il Generale è salvo; l’esercito, che ha in tutta fretta visitato, compresa l’armata ancora sul Reno, è dalla sua parte, ça va sans dire; i generali Massu e Beauvallet gli assicurano la loro lealtà. Gli operai non si uniranno agli studenti. Il movimento della contestazione giovanile e studentesca, che ormai parla in nome della società globale, è in realtà isolato. Le parole d’ordine del movimento sembrano degne di spot pubblicitari a effetto: «Siate realisti. Chiedete l’impossibile»: «L’immaginazione al potere». In Italia c’è una quota maggiore di realismo, ma è apparente. Gli studenti di Torino, a due passi da Mirafiori e dal Lingotto, chiedono «un modo nuovo di fare l’automobi-

4 Perché è più che mai vero il titolo del geografo sociale Jacques Xavier, Paris et le désert francais.

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le»; ma intanto gli operai della FIAT continuano a lavorare, come sempre, alla catena di montaggio; sanno che l’automobile, se sarà fatta, continuerà a essere fatta come per il passato. Le parole non fanno figli. Le parole d’ordine, per quanto rivoluzionarie e persino «incendiarie», favoriscono l’ordine. Quando de Gaulle torna a Parigi non fa nessuna meraviglia la sua dichiarazione: «Signori, la ricreazione è finita». Ma era dunque solo una ricreazione? Ogni paese europeo ha avuto la sua contestazione: in Germania la Grosse Koalition congela il dibattito politico e il movimento si fa voce d’una possibile opposizione; in Italia, il bersaglio è l’autoritarismo gerontocratico, ormai decrepito. I giovani sembrano sentire i cadaveri all’odore. Ed il cadavere è un bel pensiero per il verme. La conservazione è alla riscossa. La prima fase del movimento sta per chiudersi. L’immaginazione non è giunta al potere, ma non vive più neppure dentro il movimento. Si apre la seconda fase: la ritualizzazione dei gesti e delle formule della contestazione. Comincia la ripetizione delle giaculatorie e le citazioni che sono in realtà pure recitazioni. Marcuse e Marx sono ovunque, ma mancano le analisi puntuali, circoscritte, empiricamente verificate. La vita quotidiana sembra sfuggire e nascondersi dietro un velo opaco di retorica. Bisognerebbe esaminare dal di dentro le condizioni di fatto in cui versano gli studenti, analizzarne i rapporti materiali di vita, soprattutto gli studenti lavoratori e gli studenti fuori sede. È finita l’epoca dello studente-signorino. Le cose sono cambiate, anche grazie al movimento. Si è liberalizzato l’accesso all’università; si possono iscrivere anche i geometri, i ragionieri, tutti i diplomati degli Istituti tecnici. Addio alla Riforma Gentile! Nasce l’università di massa. Il movimento studentesco cade qui in un equivoco grossolano. Non si capisce che un’università di massa, senza servizi scientifici e sociali di massa, non può riuscire che più oligarchica, restrittiva, «aristocratica» della vecchia università di élite che si credeva, ingenuamente, di essersi lasciata alle spalle. Si fa strada, penosamente, una sensazione inquietante: volere l’università per tutti vuol forse solo dire non averla più per nessuno. Gli studenti contestatori hanno avuto fretta di collegarsi con la società globale. A Roma andavano a protestare e a dimostrare ai cancelli della FATME, succursale della multinazionale svedese Ericsson. Adesso, nella fase della massificazione dell’università, gli studenti non è più necessario che vadano a

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«trovare» gli operai fuori dell’università. Gli operai, i proletari e i sottoproletari sono dentro l’università, «parcheggiati» alla meglio. Un’università, come quella di Roma «La Sapienza», costruita negli anni Trenta dal fascismo per ospitare quindicimila studenti, ne ha oggi centocinquantamila. Definirla una casbah significa offendere la stupenda architettura inintenzionale del suk e della medina. Il governo assembleare, in nome della democrazia diretta, si è rivelato un modesto trampolino di lancio per nuovi leader smaniosi di popolarità e alla ricerca di un posto, magari da eurodeputato, possibilmente esentasse. Riemerge l’antico opportunismo degli «eterni spaghettanti dello spirito» come Thomas Mann, nelle Considerazioni di un impolitico, aveva definito gli intellettuali italiani. Troppo ingeneroso? Esagerato? Forse, ma sta di fatto che, per la contestazione, bisogna prendere buona nota che «Oreste Scalzone non è Diderot», tanto meno Carlo Pisacane5.

5 Si veda in proposito il mio Come muore una classe dirigente, Janua, Roma 1980, pp. 141-193; già pubblicato in Paese Sera, 17 aprile 1978.

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CAPITOLO DICIOTTESIMO

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L’ANGOSCIA

DEL TESTIMONE EMPATICO

E tuttavia, chi abbia in prima persona vissuto le vicende del movimento studentesco italiano non può sottacere una genuina, profonda carica di rinnovamento. A Roma, fin dalla morte dello studente Paolo Rossi, la ricerca documenta fra gli studenti un bisogno acuto di vita comunitaria, di scambi e di comunicazione significativi, l’esigenza di sfuggire allo stato di sistemazione provvisoria, di insicurezza, di precariato permanente, di non dover quotidianamente ricorrere all’espediente come mezzo di sussistenza e di sopravvivenza. Si sa che analizzare la situazione di fatto della miseria studentesca nell’università di massa è necessario, ma non sufficiente. A fermarsi a questo livello di analisi, si rischia un risultato paradossale: gli studenti sono contro le istituzioni solo per restaurarle. Di fronte ai politici corrotti o distratti, o entrambe le cose, agli amministratori formalistici e ai professori che lasciano correre, gli studenti sarebbero i paladini del regolamento, i custodi dell’efficienza istituzionale. In realtà, il movimento del Sessantotto ha correttamente collegato la disfunzione delle istituzioni scolastiche alle contraddizioni della più grande società. Ha chiamato in causa la società globale. Fra incertezze e involuzioni, da esperienza esistenziale («Perché debbo imparare a pensare come studente e poi disimparare come professionista, ridurmi a idiota specializzato?»), la crisi si tramuta in consapevolezza politica. Processo difficile, anche per la mancanza d’aiuto da parte degli organismi politici di sinistra, sindacati, progressisti, chiaramente incapaci di tenere il passo, e per la latitanza dei professori. Nessun dubbio: l’insistenza da parte degli studenti e dei loro leader sul «sistema» ancora antropomorficamente concepito è un modo inadeguato, se non infantilmente regressivo, di porre il problema della razionalità sostanziale, e quindi della legittimità reale, d’una società tecnicamente progredita. Ma è ingeneroso capitalizzare su questi limiti per ignorare gli

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obiettivi dichiarati del movimento, per dargli addosso su tutta la linea. È ciò che molti miei oppositori fra i colleghi professori ordinari non arriveranno mai a capire. Non arriveranno mai a capire, dall’alto della loro burbanzosa self-righteousness, il genuino sentimento d’angoscia di chi possa essere d’accordo con un movimento, anche quando si avveda che, come un grande fiume, questo movimento porta alla superficie fango, immondizia e persino qualche carogna. Esiste l’opportunismo rivoluzionario. In un paese affetto da «reducismo» come l’Italia, la cosa non può sorprendere. Sorprende lo scandalo gratuito, la doppiezza di chi approfitta, l’esibita pudicizia farisaica che non tarderà a isolare gli studenti, a bloccarne le iniziative, anche quelle utili, a provocarne la frustrazione da cui scoccherà la scintilla della violenza irrazionale e del «terrore pedagogico» («Ammazzarne uno per educarne cento»). Ammetto che è una posizione scomoda. La posizione del testimone empatico e critico nello stesso tempo si attira inevitabilmente colpi da entrambe le parti. La scarsa resistenza della borghesia italiana, a differenza di quella francese e tedesca, ha sul movimento un effetto deleterio. In Francia vengono costruite dieci università nell’area parigina: si scompone la massa degli studenti per diluirne la virulenza, ma intanto si pongono in essere condizioni migliori per lo studio e la vita quotidiana. In Italia, tutto è fermo. La borghesia ha paura. C’è da non crederci. Ma c’è chi ricorda che la borghesia italiana ha vacillato «alla vista dei propri rampolli che dichiaravano improvvisamente di non credere più al patrimonio ideologico dei padri (di destra, di centro o di sinistra) fin lì trasmesso, di non fidarsi più dei cattedratici preposti all’indottrinamento delle nuove classi dirigenti»1. Un documento degli occupanti dell’Università di Torino è in proposito esplicito: «Questi professori [si tratta dei «docenti democratici», quali Bobbio, Viano, Quazza, d’Entrèves, Grassi e così via] ‘aperti’ sono sì pieni di ottime intenzioni, ma sono legati mani e piedi alla struttura di potere dell’università. Ciò li rende impotenti a svolgere qualsiasi azione di rinnovamento radicale». Come ci si avvicina alla fase della violenza e del terrorismo, i docenti «progressisti» e «aperti» diventano il bersaglio preferito e vittime designate. Si direbbe

1

Cfr. Roberto Massari, Il ’68,

RM

editore, Roma 1998, p. 152.

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che i contestatori doc ne temano il «contagio» o l’effetto di persuasione sulle masse dei seguaci. Meglio, molto meglio avere a che fare con i professori reazionari. Sono ligi al modello. Sono fotogenici e capiscono la logica del potere. Con loro si può discutere. Ma con i «docenti democratici» le cose si complicano perché sono nello stesso tempo amici e avversari. Sembra che vogliano le stesse cose, i metodi divergono. Non hanno immaginazione. Insistono sull’analisi delle situazioni invece di abbracciarle sinteticamente e capirle a volo. Sono troppo razionali per poter alimentare il fuoco della rivoluzione. E poi, sono ironici. Faccio in prima persona l’esperienza dell’insofferenza che i contestatori hanno a proposito dell’ironia. Un giorno si presentano, una trentina, al mio ufficio, che all’epoca era in Piazza della Repubblica, e chiedono perentoriamente l’esame di gruppo, vale a dire un unico voto per tutti. Rispondo brevemente che non ho nulla in contrario, a condizione che il gruppo si presenti con una testa sola. C’è un attimo di incertezza, subito risolta con un’altra richiesta: il voto politico. Rispondo che conosco almeno altri mille modi di perdere tempo, ma molto più divertenti. Mi si stringono intorno, torvi. Qualcuno alza le mani. Vengo sollevato, spintonato. È un’aggressione fisica. Mi sento riportato all’infanzia. Ho la sensazione sgradevole di subire l’invasione d’un mio personale territorio. Non ricordo più da quando qualcuno mi abbia messo le mani addosso. Mi ritrovo al piano terra senza aver sfiorato un gradino. Il mio ufficio è al terzo piano. Ho raccontato l’episodio nell’Ipnosi della violenza e nel Corriere della Sera2. Era un gruppo appartenente ad «Autonomia Operaia»; c’era forse anche qualcuno di «Potere Operaio». Un poco di gioia ne viene al vecchio latinista Ettore Paratore («Glielo avevo detto io. Ben gli sta. Ha avuto quel che si merita»). Ne scriveva in quel tempo – scandalizzatissimo – il poeta veneto Biagio Marin al giurista moderato, cattolico ma rispettoso delle prerogative dello Stato laico, Arturo Carlo Jemolo. Ma a mitigare gli effetti deprimenti della situazione mi arrivavano da amici di New York voluminose statistiche degli «infortuni sul lavoro», fra i quali il mio, tutto sommato, non sfigurava, pur non sfiorando il melodramma. 2 Rizzoli, Milano 1979; per una versione particolareggiata, si veda F. Ferrarotti, «Diario di un docente contestato», Corriere della Sera, 25 febbraio 1977.

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Poco tempo prima uno dei fondatori di «Potere Operaio», Franco Piperno, mi aveva invitato alle sue nozze, nella sontuosa Villa Miani a Roma, con la giovane figlia della famiglia Ardizzone, proprietaria del Giornale di Sicilia. Nulla di più alto borghese, tavolate luculliane; musica e danze in giardino. Piperno e Toni Negri mi avvicinano con discrezione; mi sussurrano qualche cosa all’orecchio. A sera, in una trattoria popolare, incontreranno i compagni, quelli «veri». Sono cordialmente invitato. Non ci andrò. Non mi piace e non approvo il doppio standard. A pranzo con i grandi borghesi e a cena con i proletari rivoluzionari. Rifletto: è ancora la doppia verità che emerge, il tenere il piede in due staffe, l’antico vizio italico della «dissimulazione onesta», il principio della pars sanior nel conclave quando si tratta di eleggere il nuovo papa. Forse una cultura cattolica mediterranea, programmi a parte, non può produrre altro. Gioacchino Belli lavora durante il giorno negli uffici della censura vaticana; di notte scrive sonetti all’acido prussico contro papa e cardinali. È mai possibile che da questi atteggiamenti prenda inizio e si allarghi a tutta la società un autentico processo di trasformazione in grado non solo di ritoccare la facciata, secondo operazioni cosmetiche più o meno riuscite, ma di penetrare e rivoluzionare il costume, la pratica quotidiana, la sostanza dei rapporti fra potere e cittadini, fra uomini e donne, fra padri, madri e figli? Ho cercato in più di un’occasione di conoscere di prima mano la quotidianità del Sessantotto, di là dalle formule e dalle parole d’ordine, la tranquilla pratica di vita dietro gli atteggiamenti più o meno ritualizzati. Non posso dire di avere avuto un grande successo, ma alcune cose ho potuto vederle, altre le ho intuite. In primo luogo, malgrado tutte le generose dichiarazioni programmatiche con riguardo alla liberazione sessuale e in particolare all’emancipazione della donna, non ho mai notato l’assunzione, da parte delle donne, di un ruolo che non rientrasse in quelli che nelle pagelle delle scuole elementari di una volta venivano indicati come «lavori donneschi e manuali». Ho cercato nei diari e nelle testimonianze sia dei protagonisti che dei semplici troupiers del movimento studentesco, dalla prima alla terza fase, qualche traccia di effettiva liberazione della donna. La ricerca è stata per lo più vana, qualche volta frustrante. Ci sono da registrare belle eccezioni, ma si contano sulla punta delle dita d’una mano. Viene alla mente la compagna di Renato Curcio, Mara Cagol, uccisa in uno

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scontro a fuoco con i carabinieri. Posso ricordare una mia studentessa, poi assistente volontaria a Trento, Paola Besuschio, di Rovereto, se non vado errato, attenta nel lavoro, scrupolosa, condannata in seguito a parecchi anni di carcere e ora, finalmente, in libertà e poi Giuliana Sellan, segnalata da me all’antropologo «strutturale» Claude Lévi-Strauss a Parigi, presso il quale lavorò per qualche tempo. Ma, soprattutto nella prima fase della contestazione, quella che si esprimeva con le occupazioni delle facoltà e di certe sedi istituzionali, la donna sembra confinata a ruoli secondari.

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CAPITOLO DICIANNOVESIMO

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IL

TRADIZIONALE RUOLO ANCILLARE DELLE DONNE

Non che le donne manchino. Si danno manifestazioni in cui le voci femminili dominano. Ma raramente la donna appare in posizione di potere. Non decide. Accompagna. Consola, all’occorrenza. Accudisce eventualmente gli stanchi e i feriti. Prepara i pasti. Li porta da una stanza all’altra, da un piano all’altro. È una vivandiera indispensabile, una presenza preziosa. Ma non esce quasi mai da una sua zona umbratile di attività sussidiarie. Questo è vero sia in Francia che in Germania. È ancora più vero in Italia. Qui la donna, specialmente la giovane donna, con minigonna, seni al vento, capelli corti e cosce sode, si vede incaricata di missioni persuasive presso gli «anelli deboli» del fronte accademico istituzionale. Un mio vecchio collaboratore e collega – vecchio o invecchiato? – viene allegramente scarrozzato fra Roma e Milano come rappresentante dei «docenti democratici» che «hanno capito». È promosso a compagno di strada della rivoluzione imminente, accarezzato e abbondantemente fornito di libagioni dalle intraprendenti adepte del movimento. Non voglio dire che le donne del Sessantotto, una volta immesse e, anzi, ammesse alla vita politica piena, siano state ridotte a una sorta di anomalo gineceo o a un gruppetto di filles de joie in tutto simile a quello che da sempre, a guisa di bordello itinerante, segue gli eserciti regolari. Ciò che mi colpisce è la loro perdurante, persistente destinazione a funzioni latamente ancillari. Non che siano tutte e solo gli «angeli del ciclostile», ma ai viveri viene spontaneo che debbano pensarci loro; così alla tenuta delle condizioni igieniche minime nei locali, al lavaggio degli indumenti. La contestazione riproduce le condizioni della vita quotidiana della famiglia, specialmente per la donna. Del resto, a differenza dei documenti del movimento studentesco in Francia e in Germania, in nessun documento italiano si legge un atto d’accusa contro la famiglia op-

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pure l’indicazione perentoria a lasciare la famiglia d’origine, a dichiararne finita per sempre la funzione di «agenzia privilegiata per la socializzazione primaria». Lo stesso «libero amore», se mette in crisi le tecniche e i modi tradizionali del corteggiamento e dei fidanzamenti, appare molto più libero per i maschi che per le donne; presenta comportamenti asimmetrici, essenzialmente a favore dell’uomo e contro la libertà di movimento sentimentale e di scelta erotica delle ragazze. Sarebbe, a ogni buon conto, impossibile negare il ruolo propulsivo giocato dalle ragazze e dalle donne del Sessantotto rispetto al movimento femminista in tutta la sua portata. Si dimentica forse troppo facilmente che le donne hanno costituito e tuttora costituiscono l’ala marciante dei movimenti libertari sia in Europa che nel Nord e nel Sud America. Un capitolo a sé meriterebbero le donne in America Latina e in Asia, anche in quei Paesi come la Cina e il Giappone in cui più grevi appaiono le eredità del passato e il peso del costume. Ciò non toglie che si debba registrare, soprattutto in Europa, il fatto che sono stati i maschi a monopolizzare le discussioni nelle «assemblee aperte», a influire in maniera determinante e spesso unilaterale sulle decisioni e a dar corpo a quel fenomeno deteriore o, anzi, a quella vera e propria deviazione di percorso che va oggi sotto il nome di «leaderismo», una sorta di «cacicchismo» all’europea. Sarebbe utile che la genesi di queste deviazioni fosse rintracciabile sulla base di ricordi e degli scritti autobiografici di coloro che hanno vissuto fin dagli inizi la contestazione giovanile e studentesca. Nell’America Latina, in Brasile, per esempio, si sa che il «leaderismo» ha dato luogo a figure anomale, se non incongrue, come quella dello «studente onorario», un capo del movimento come studente fuori corso a vita, specialista dell’agitazione e della propaganda, che in fondo vive della rivoluzione più che per la rivoluzione. Figure del genere, essenzialmente parassitarie per quanto non aliene dal confrontarsi con Lenin quale prototipo del rivoluzionario di professione, non sono mancate nell’esperienza europea. Ciò che manca, per il momento, è una produzione diaristica e memorialistica così ricca, ma anche così sobria e attenta agli aspetti apparentemente secondari della vita d’ogni giorno, da consentirci una visione dall’interno del movimento, un’idea più precisa di come era vissuta l’ideologia, di come si formavano i gruppi e si svolgevano le discussioni in vista della formulazio-

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ne dei programmi, di come si organizzavano manifestazioni e cortei, testi di propaganda e volantinaggio. Di recente, un leader riconosciuto del movimento studentesco presso l’Università Statale di Milano, Mario Capanna, ha avuto la brillante idea di parlare del movimento del Sessantotto in forma epistolare, immaginando di scrivere una specie di lettera aperta al figlio1. Ne ho scritto in altra sede2. Capanna non fa certo il verso a Madame de Sévigné o a Benjamin Franklin quando dispensa consigli di vita ai giovanotti del tempo. Nonostante la forma colloquiale e il tono sommesso che sembrano particolarmente adatti alla comunicazione per via epistolare, prevale qui il tono stentoreo, forse un eccesso di sicurezza esibita a coprir dubbi non riconosciuti, che può anche indisporre il lettore e persino irritare. Più che una lettera, sembra un comizio al figlio. Un certo grado di delusione, pur riconoscendo il carattere positivo dell’iniziativa di Capanna, è forse inevitabilmente ingenerato nel lettore di oggi che sia interessato a un esame critico retrospettivo. L’autore aveva già tentato una ricostruzione autobiografica del Sessantotto3, non del tutto priva di quel tanto di iperbolico, se non di magniloquente, che normalmente si accompagna e tende a rendere più struggente la nostalgia. Qui il lettore esigente si aspetterebbe toni e contenuti diversi, un’attenzione più sobria agli aspetti della quotidianità della contestazione, forse uno stile meno predicatorio e più legato a quei problemi del giorno per giorno con cui i contestatori del Sessantotto dovevano misurarsi quando occupavano le sedi universitarie e dei centri di ricerca: chi fa la guardia stanotte; a chi tocca «spazzare»; dove sono i vivandieri per i panini e i supplì di riso; chi deve occuparsi dei «tazebao», della preparazione e della distribuzione dei volantini. Ho già detto che, da questo punto di vista, la lettera è una buona occasione perduta. Sarebbe stata più utile e «umana», se avesse fatto sorgere il dubbio, nel padre e nel figlio, ma anche nel lettore e nei giovani d’oggi, che qualche cosa, in tanta generosità di intenti, in quell’ormai lontano Sessantotto era andata storta. La risposta datami da Capanna4 non

1 2 3 4

Cfr. M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano 1998. Vedi il supplemento culturale di Il Sole 24 Ore, 12 aprile 1998, p. 20. Si veda M. Capanna, Formidabili quegli anni, Rizzoli, Milano 1988. Cfr. M. Capanna, «Il ’68 non è un’idea», Il Sole 24 Ore, 26 aprile 1998, p. 24.

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tocca questi temi. È evidente che l’autoanalisi è difficile. In certi casi, può anche riuscire dolorosa. Del resto, neppure i valenti giornalisti di Le Monde ci riescono, pure intitolando, in maniera a mio giudizio eccessivamente impegnativa, il loro supplemento del 2 maggio 1998, Mai ’68 au quotidien. C’è di tutto in queste quarantaquattro pagine, fuorché il quotidiano. Il supplemento di Le Monde riporta parole d’ordine spiritose, talvolta addirittura geniali, di grande interesse, che in parte almeno ricreano lo «spirito del tempo». Gli articoli di trent’anni or sono, ora ripubblicati, fanno impressione per quella mescolanza così accattivante di illusioni, speranze, attese e visioni escatologiche. Gli scrittori si interrogano sui rapporti tra scrittura e contestazione. Il Festival di Cannes viene duramente contestato. C’è chi giura che, dopo il maggio 1968, non si potrà più né girare né parlare di cinema. Sorgono a Parigi «comitati d’azione» spontanei nell’università e nei quartieri. Daniel Cohn-Bendit, espulso dalla Francia, afferma, protervo: «Tornerò quando vorrò». I vescovi francesi, prudentemente, ritengono poco utile o, anzi, inopportuna, una presa di posizione sull’evento. Cerca di affermarsi il «potere studentesco». Compare una grande fotografia di de Gaulle, con il solito képi, il naso più dritto e gallico che mai, con una scritta in caratteri cubitali: «Grazie a me, il caos». Ma del sentire quotidiano del movimento c’è poco. Solo una breve nota, firmata da Kosta Christitch, Bertrand Girod de l’Ain e JeanPierre Quélin, registra «una specie di esaltazione laboriosa, un entusiasmo comunicativo, quasi una gioia». Poi, le grandi dichiarazioni che, lette adesso quasi quarant’anni dopo, fanno uno strano effetto. Jean-Paul Sartre alla Sorbona dichiara che «socialismo e libertà sono inseparabili». Sarebbe stato bene sospendere almeno un dubbio sul «socialismo reale». Ovunque si parla di «partecipazione», che è ormai una panacea, una formula sacramentale. Ma a nessuno viene in mente di interrogarsi sulle condizioni di fatto che rendono la partecipazione possibile, utile, desiderabile. E poi: partecipazione di chi? contro chi? per che cosa? contro che cosa? Domande disattese, che nessuno sembra avere tempo o voglia di porsi. L’emozione batte il ragionamento. Homo sentiens contro Homo sapiens. Il sogno di una società alternativa si trasforma nell’incubo di un presente eternizzato.

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CAPITOLO VENTESIMO

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L’AMBIGUITÀ

DELLA SOCIOLOGIA

Bastano forse queste scarne enunciazioni per far comprendere o quanto meno intuire l’importante interconnessione significativa che corre fra il Sessantotto e la sociologia, intesa come sociologia «critica» ossia come analisi «corrosiva» delle convenzioni e dei tabù sociali. Non manca, anzi, chi scorge nella sociologia il detonatore o addirittura il fattore scatenante della contestazione giovanile e studentesca. Un’interpretazione, in verità, che attribuisce un peso eccessivo a una disciplina che, nel migliore dei casi, può solo legittimamente concepirsi come uno degli strumenti analitici a disposizione dei contestatori. Nessun dubbio che la «vil razza dannata» dei sociologi, com’ebbe un giorno a definirla forse il miglior giornalista italiano, Indro Montanelli, abbia avuto a che fare con il Sessantotto in prima persona. A mio parere, è un merito, ma si sa che i vizi sono solo virtù impazzite o non abbastanza frenate e, inoltre, che di equilibrio e di ragionevolezza il Sessantotto non poteva vantare grandi provviste. Un merito, dunque, dubbio, e comunque specialmente riscontrabile nella pars destruens della contestazione. Qui la sociologia ha speso le sue risorse più efficaci, specialmente facendo ricorso, talvolta, a concetti spuri, come quello di «generazione», mutuato forse più da José Ortega y Gasset che da Shmuel S. Eisenstadt e dal suo saggio From generation to generation, come sarebbe stato più utile e certamente meno fuorviante. Assumere il concetto di generazione quale archetipo fondamentalmente astorico ha condotto a spiegazioni universali e nello stesso tempo generiche. La ricerca ha rischiato di trovarsi impigliata nelle confusioni di un socio-biologismo a orecchio che non ha cessato di fare le sue vittime, se appena si scorrano i lavori di studiosi che oggi sembrano del tutto immemori del loro recente passato storicista. Il legame biologicofamiliare diviene essenziale. Essere un figlio unico oppure un

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primogenito crea particolari disposizioni. Si è facilmente arrivati a teorizzare la stessa nascita e il trionfo del nazismo in base ai metodi autoritari vigenti nella famiglia tedesca. Un ricercatore americano, Franck J. Suloway1 ha costruito una serie di tipologie basandosi su oltre seimila biografie di personaggi illustri. Alcune scoperte sono a suo dire interessanti: i primogeniti scelgono il potere, soprattutto se cadono nella categoria dei «primogeniti determinati», fra i quali si annoverano Mao, Lutero, Robespierre, Einstein, Freud. Fra i «primogeniti conservatori» si contano invece Mussolini, Churchill e Stalin. Resta aperto il problema delle «conversioni»: come spiegare, in base al biologismo familistico, il passaggio, per esempio, di Mussolini dall’anarcosindacalismo della gioventù al fascismo reazionario della fase più tarda? Evidentemente, nulla può surrogare l’esperienza storica. Il contesto specifico, nel suo significato più ampio, offre i termini dell’imputazione causale e della matrice condizionale che presiedono all’insorgere e all’affermarsi dei fenomeni storici, anche in base al vecchio assioma che lo storico delle religioni Raffaele Pettazzoni non si stancava di ripetere: «Ogni fenomeno è un ghenomeno». Da questo punto di vista, la sociologia ha chiarito ai contestatori il senso delle loro iniziative al di là dei motivi contingenti che potevano eventualmente originarle. In particolare, definiva i limiti di una «società totalmente amministrata», per usare la frase di Max Horkheimer, sottolineando che a uomini «fungibili» corrisponde necessariamente una «società defunta». Con riguardo al Sessantotto in Italia, un’antica «piaga» italiana veniva interpretata al di fuori del consueto «dolorismo italico»: il distacco fra cittadini e istituzioni veniva collegato con certe carenze dello stesso processo di unificazione politica della Penisola – processo tipicamente di vertice, élitario, tanto da essere definito da storici alquanto obiettivi, come Luigi Salvatorelli, il felice risultato delle iniziative di «una dinastia franco-borgognona» assai più che un processo realizzato da una precisa volontà del tessuto sociale di base. Ciò ha comportato alcune conseguenze di rilievo che i contestatori sociologicamente provveduti hanno spesso esplicitamente dichiarato, riprendendo le note tesi gobettiane: non

1

Fratelli maggiori, fratelli minori, Mondadori, Milano 1998.

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abbiamo avuto né una riforma religiosa né una riforma politica; abbiamo però avuto la Resistenza. La verità è che la Resistenza antifascista non ha coinvolto tutto il paese, non è stata un’esperienza collettiva diretta e profonda, capace di rovesciare un regime e rifondare la convivenza su basi nuove. Anzi, i sociologi più raffinati non hanno tardato a mettere in luce un paradosso inquietante: un regime politico comincia a vivere solo quando è crollato; durante il fascismo, nei gradi medio-alti della burocrazia erano ancora al lavoro i funzionari di formazione liberal-giolittiana; caduto il fascismo e riconquistata la democrazia, allora si sono messi al lavoro i burocrati cresciuti e formati all’ombra del littorio, cui riuscì facilissimo e naturale scambiare, avrebbe detto Ernesto Rossi, il «manganello con l’aspersorio» e dar corso ai quarant’anni di regime democristiano. L’analisi sociologica è stata però particolarmente efficace nel mettere in luce le contraddizioni della «società civile», secondo modi che ho illustrato in un volumetto dell’epoca2 notando che la «sociologia alternativa» non era comunque da intendersi come una «alternativa alla sociologia». L’analisi sociologica, per un verso, affermava e dimostrava, anzi, conclusivamente la «funzione conservatrice» del movimento studentesco nella misura in cui si faceva strumento di una più efficiente prestazione delle istituzioni esistenti, configurando in proposito una funzione analoga al «pool» milanese di «Mani pulite» (Borrelli, Davigo, Colombo, Boccassini, D’Ambrosio), vale a dire la funzione di tecnici della regola che fanno paradossalmente la rivoluzione semplicemente esigendo l’applicazione di leggi già vigenti. D’altro canto, la ricerca sociologica svela piuttosto crudamente che la «società civile» è in realtà una «società incivile». Ciò non spinge solo i giovani a occupare le sedi universitarie o a interrompere i sermoni in chiesa. Li induce a concepire e a vivere l’esperienza politica, più che sotto il segno d’una ideologia, alla luce di un imperativo etico che investe tutto il regime, uomini e strutture, per cui la società appare «sporca» («In questo mondo orrendamente sporco», aveva detto Pier Paolo Pasolini) e solo la violenza catartica, il fuoco e il sangue purificatore potranno lavarla. Da questo punto di vista, la conce-

2

Una sociologia alternativa, De Donato, Bari 1972.

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zione sociologica, e non moralistica, della violenza non ne fa solo un mezzo per «diventare visibili» o la «rivolta dei dannati della terra», alla Fanon, ma anche il segno invalicabile e, in date circostanze, necessario del rifiuto di qualsiasi mediazione culturale allorquando le contraddizioni oggettive non appaiano più componibili. È a questo punto che si innesta nel processo della contestazione il contributo decisivo della sociologia. I politologi formalisti e i giuristi, da Hans Kelsen a Norberto Bobbio, avevano sempre insegnato che «volere la democrazia voleva dire accontentarsene», che la democrazia si riduceva alle regole procedurali del suo funzionamento. Ora si chiamavano in causa non più e non solo le «regole», ma i contenuti. Non era criticata la rappresentanza, come tale, ossia come risultato numerico del comportamento elettorale, bensì la rappresentatività della rappresentanza. Si invocava il ritiro della delega. Si voleva passare dalla democrazia di facciata alla democrazia sostanziale. La ricerca sociologica ha avuto e ha tuttora la responsabilità di non aver approfondito il tema e di non aver chiarito le condizioni per una partecipazione dal basso alla formazione della volontà politica che non risultasse solo una partecipazione di comodo, facilmente cooptabile nello schema del formalismo democratico a favore e per garantire la tranquillità dei poteri dominanti.

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CAPITOLO VENTUNESIMO

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ESPERIENZE

ELETTORALI DOPO LA CADUTA DEL FASCISMO

Non intendo intrattenere qui il volenteroso lettore, con l’ampiezza e la profondità che forse meriterebbero, sulla mia esperienza politica come deputato indipendente della III Legislatura (1958-1963), sulle proposte di legge, sui discorsi in aula, sulle mozioni e sulle interrogazioni al governo dell’epoca. Mi limito invece a parlare delle campagne elettorali, che sempre mi sono state, in contesti diversi, occasione privilegiata di grande godimento. Della mia esperienza parlamentare parlerò un’altra volta, in un’altra sede, se gli dei me lo consentiranno. Lo stesso vale per l’esperienza di diplomatico internazionale presso l’OECE, ora OCSE, a Parigi, Château de la Muette, con uomini e donne di notevole statura, quali Roger Grégoire, Alexander King, Raymond Barre, Vera Clarcke, Valéry Giscard d’Estaing, mentre rappresentante dell’Italia, in Rue de Varenne, era l’ambasciatore Cosmelli. Anche di questo si potrà parlare, come conviene, un’altra volta. Quod differtur non aufertur. Posso dire d’aver partecipato a tre stili, profondamente diversi, di campagne elettorali. La mia prima, impegnativa esperienza ha avuto luogo, naturalmente, alla caduta del fascismo e l’indomani della Liberazione, nell’aprile del 1945. Ricordo che proprio la mattina del 25 aprile, verso mezzogiorno, quando scendevano dalle colline del Monferrato le squadre partigiane – Brigate Garibaldi, Brigate Matteotti, gruppi di «Giustizia e Libertà», qualche gruppetto di partigiani monarchici, raccolti specialmente nel Biellese e guidati dal «carismatico» Edgardo Sogno – io tenni nel Vercellese una sorta di discorso politico, ma non partitico, che potrei anche definire come meta-politico nel senso che andava al di là dei partiti del «Comitato Liberazione Alta Italia» e delle loro logiche particolari per indicare i principali nodi problematici con cui avrebbe dovuto fare i conti la ripresa della vita democratica.

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Questo discorso, improvvisato sull’onda emotiva degli eventi, fu prontamente pubblicato in base agli appunti presi da alcuni ascoltatori sotto il titolo «L’appello». Voleva infatti essere un appello agli italiani perché non cadessero nella trappola, così comune nella storia del nostro paese, di schierarsi per le potenze straniere, russo-sovietiche o americane, ma tentassero invece di «fare il gioco» dell’Italia, ossia tenessero presente l’interesse nazionale, il bene comune, l’avvenire della comunità. Stilisticamente, era un discorso che toccava più piani. Dal punto di vista politico immediato, era certamente quello che allora si chiamava un «comizio», nel senso che intendeva preparare i cittadini ai classici «comizi elettorali». Non approfondiva questioni particolari, ma sfruttava piuttosto l’emotività e il carattere straordinario del momento per lanciare parole d’ordine generali. La fortuna del comizio nell’immediato dopoguerra la si comprende, infatti, tenendo presente che per gli italiani si trattava, dopo vent’anni di dittatura, di un’espressione esplosiva di libertà. Non era, come più tardi si è detto e creduto, forse in buona fede, solo demagogia irresponsabile o manipolativo imbonimento di folle ignare. Era anche la gioia di potersi riunire in piazza senza il permesso del podestà o l’autorizzazione del questore o del prefetto, di fare a meno dell’imprimatur, di poter manifestare le proprie idee, di discutere e di confrontarsi con gli avversari, anche con durezza, ma apertamente, senza doversi nascondere. È necessario ricreare il clima di quel contesto. La riscoperta della libertà, nella sua più vasta accezione, da quella di parola a quella di associazione, di partecipazione, di letture e visioni cinematografiche al di là della claustrofobica autarchia fascista, che era non solo economica e politica, ma in primo luogo culturale, e che per un ventennio aveva tagliato fuori l’Italia dalle correnti e dalle esperienze più vive della cultura mondiale – con una fronda politica interna che si esauriva nei film dei «telefoni bianchi» e nelle barzellette di costume, se non nel «corporativismo rivoluzionario» di Ugo Spirito, Camillo Pellizzi e altri fascisti a mezza cottura, portati a mettere in piedi la «fronda» del regime all’ombra e sotto la relativa protezione del ministro Giuseppe Bottai e della sua rivista Primato. Tutto questo dava all’immediato dopoguerra un fremito e una sorta di ansia di ricostruire sul pulito, una sensazione inebriante che oggi è difficile rievocare e comprendere nei suoi giusti termini. È vero, però, che, passati i primi mesi di

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entusiasmo collettivo, a causa della sua stessa natura di partecipazione di massa essenzialmente generica, lo stile della campagna elettorale imperniata sul comizio e sulla folla in piazza non poteva durare. Era destinata a declinare con l’emergere di problemi specifici e sotto i colpi dell’assuefazione. Vi era in essa un elemento di ritualità ripetitiva che ne minava l’originalità e l’interesse. Per esempio, soprattutto a sinistra, si parlava con insistenza di «forze oscure della reazione in atto» – la famosa FODRIA – ma senza dati, senza fare nomi, con allusioni non sufficientemente circostanziate, con scarsa o nessuna documentazione. Il momento più alto dei comizi coincise con la campagna del referendum istituzionale (monarchia o repubblica) del 1946 e, due anni dopo, con le elezioni politiche generali che vedevano in lizza due schieramenti, il Fronte democratico popolare, che comprendeva, sotto l’effigie di Garibaldi, il partito Comunista di Palmiro Togliatti e il Partito socialista di unità proletaria, guidato da Pietro Nenni, da cui si erano distaccati, a opera di Giuseppe Saragat, i socialisti moderati del Partito socialista dei lavoratori italiani, o PSLI, detti con poco rispetto «piselli», e la Democrazia Cristiana fortemente appoggiata dal Vaticano e dalle organizzazioni cattoliche laterali. All’epoca non c’era la televisione, ma funzionava la radio, erede dell’EIAR fascista, e aveva un’indubbia efficacia propagandistica a favore della Democrazia Cristiana, sotto la direzione, faziosa e attenta, di Antonio Piccone Stella. Nelle piazze era per lo più utilizzato il microfono, non sempre tecnicamente perfetto. Specialmente noto divenne, per la sua oratoria altamente emotiva in chiave anti-comunista, Padre Lombardi, detto «il microfono di Dio». Una certa notorietà toccò anche al socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo e alla sua frase propagandistica, riferita agli aiuti americani del Piano Marshall: «Chi vota comunista dà un calcio sotto la pentola di ogni italiano».

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CAPITOLO VENTIDUESIMO

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SUONARE

I CAMPANELLI ALLE PORTE NEL

SOUTH SIDE

DI

CHICAGO

La seconda esperienza elettorale ho potuto viverla personalmente a Chicago, Illinois, nel 1952, quando ebbi modo di partecipare alla campagna per l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Adlai Stevenson, governatore dello Stato dell’Illinois, candidato del Partito democratico, contro il candidato del Partito repubblicano, il generale Dwight Eisenhower. Stevenson era tanto intellettuale e naturalmente aristocratico quanto Eisenhower era populistico. La frase preferita di Eisenhower era: «In simple, American talk…» («In parole semplici, all’americana…»). Al confronto, Stevenson era intellettualmente raffinato e parlava un inglese perfetto, elegante, intriso di ironia e anche di auto-ironia. Era un candidato controvoglia e si dovette, per così dire «arruolarlo», non senza sforzo da parte dello storico dell’Università di Chicago professor Davis e dei suoi giovani attivisti. In quella occasione sperimentai un nuovo stile e, per me, un metodo originale di propaganda elettorale. Né comizi di massa, né radio, né microfono. Sperimentai, per la prima volta, l’approccio personale, il contatto diretto con l’elettore. Nel South Side di Chicago, dove era situata l’Università, alla 59ma strada, una zona di ceto medio-basso che comprendeva le strade dalla 40ma alla 63ma. Fra la 59ma strada e la 63ma si trovava il campus dell’Università di Chicago, con un ampio prato, cosparso di avvallamenti, chiamato Midway. Più a sud cominciava la vera e propria black belt, la zona dei neri, più o meno ghettizzati e certamente, in ogni caso, discriminati. Si partiva la mattina presto dall’Università. Io me la svignavo dal Social Science Building e, insieme con studenti e colleghi, in particolare l’animatore professor Davis, si cominciava a battere il quartiere, strada per strada, casa per casa. Era il door bell ringing: letteralmente, si suonava il campanello di ogni abitazione, si consegnavano depliant, materiale propagandistico, leaflets, ma soprattutto si badava e si cercava, non sempre con successo, di parlare direttamente con l’elettore o l’elettrice.

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Sapevamo che i materiali a stampa sarebbero finiti per lo più nella pattumiera (come junk mail), ma la conversazione, quando aveva luogo, era sempre illuminante. Se poi si veniva invitati a entrare nella living room o anche solo nella entrance, era, per noi, propagandisti elettorali ma anche sociologi urbani, una festa. Si dava un’occhiata in giro per valutare il mobilio, eventuali tappeti, quadri, magari un piccolo scaffale con libri, radio, televisione, telefono ecc. Non voglio dire che fosse una visita fiscale, ma si riusciva, talvolta, a ricavare elementi interessanti per determinare il livello del reddito, lo stile di vita, l’orientamento politico, il consumo culturale. Sempre a Chicago, verso la fine del 1951, quando già ci si preparava ad «arruolare» Stevenson, notoriamente riluttante a «correre» contro Eisenhower – una «corsa» destinata a sconfitta certa, e per ben due volte, nel 1952 e nel 1956 – avevo incontrato il suo labor director, una specie di ministro del lavoro dello Stato dell’Illinois, stretto collaboratore di Stevenson, Frank Annunzio, evidentemente, come si desume dal cognome, un italo-americano. Un uomo piuttosto basso e tondo, ma non corpulento, forzuto, muscoloso, con una bella faccia spesso aperta in un sorriso che poteva far pensare a un ridanciano commesso viaggiatore con del tempo da perdere. Lo ricordo con mixed feelings. Intanto, gli ero grato perché doveva essere stato lui a insistere con Davis perché facessi parte della squadra elettorale. Ma poi, e qui c’entrava il suo interesse personale, per avermi procurato l’invito a tenere una serie di conferenze – sul Risorgimento, Garibaldi, l’Italia dopo il fascismo, e così via – al Como Inn, nel Near North Side. Tempo dopo, mi si disse che quelle conferenze molto intellettuali avevano un secondo scopo, una specie di «funzione latente», quella di dare una vernice di rispettabilità a un locale che per anni era stato famoso come la sede preferita di gruppi malavitosi e, se non proprio mafiosi, piuttosto chiacchierati. Credo che per anni Frank Annunzio fu a Washington il congressman democratico di Chicago. Ad Adlai Stevenson toccò invece una morte bellissima. Stava passeggiando per le vie di Londra con l’amica poetessa Marietta Tree in una di quelle mattinate luminose, chiarissime che sono capaci di regalare le città del Nord, quando si sentì male. Le sue ultime parole all’amica: «Hold your head up high. I think I am going to faint» («Tieni alta la testa. Credo che sto per svenire»). Marietta Tree si chinò su di lui, steso immobile sul marciapiede. Stevenson era morto.

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CAPITOLO VENTITREESIMO

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LO

SPLENDORE DEL FALLIMENTO

La mia terza esperienza elettorale fu quella delle elezioni politiche generali per la III Legislatura del 25 maggio 1958, in cui fui candidato per il Movimento Comunità, che era stato fondato da Adriano Olivetti nel 1947. La legge all’epoca consentiva di presentarsi in tre diverse circoscrizioni. Io mi presentai nella I Circoscrizione, che comprendeva Torino, Novara, Vercelli. Ma fui anche capolista nella III Circoscrizione (Genova, Imperia, La Spezia, Savona) ed ero poi presente nella lista per la IV Circoscrizione (Milano, Pavia). Presentandosi anche nelle circoscrizioni, in cui non disponeva né di centri comunitari né di approfonditi radicamenti o insediamenti territoriali, il Movimento Comunità contava di superare lo sbarramento dei 300.000 voti e poter così usufruire dei resti su collegio nazionale. La méta non fu raggiunta. Il Movimento Comunità su scala nazionale non andò oltre, credo, i 176.000 voti. Il Movimento ebbe un solo rappresentante nella I Circoscrizione. Il candidato eletto fu il capolista Adriano Olivetti, che si dimise il 5 novembre 1959 e fu sostituito da me, che avevo ottenuto 4.027 voti di preferenze nella I Circoscrizione (Torino, Novara, Vercelli) (tabella 1). I risultati furono considerati una vera e propria débacle. Ma la percezione soggettiva che ne ebbero i comunitari fu anche più disastrosa e provò ad abundantiam la scarsa consistenza della loro vocazione politica. Come Max Weber ha conclusivamente dimostrato in La politica come professione1, fin che è vivo, l’autentico uomo politico non si dà mai per vinto. Contro le interessate interpretazioni diffamatorie dei familiari, ma anche della maggioranza dei collaboratori, questo è stato vero per l’ingegnere di Ivrea. Giancarlo Lunati ha descritto in ma-

1 La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, Torino 2001.

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116 Tabella 1 – I Circoscrizione – Torino-Novara-Vercelli Voti alle liste

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Liste secondo l’ordine di presentazione 1

Comunità della cultura, degli operai e dei contadini d’Italia – Federazione dei gruppi autonomisti

2

Cifra elettorale

Seggi assegnati

71.762

1

Partito comunista italiano

355.126

6

3

Partito socialista democratico italiano

119.779

2

4

Partito liberale italiano

85.588

1

5

Partito socialista italiano

253.608

4

6

Partito repubblicano italiano – Partito radicale

14.962

0

7

Movimento autonomia regionale –

36.277

0

8

Partito monarchico popolare

15.127

0

9

Partito nazionale monarchico

43.724

0

10

Movimento pro pensionati

4977

0

11

Movimento indipendente divorzisti

3955

0

12

Movimento sociale italiano

39.975

0

13

Autonomia piemontese (Mov. Villarboito)

6949

0

635.155

11

1.686.964

25

MARP

SCOPA

14

Democrazia cristiana TOTALE

niera efficace la ripresa di Olivetti, non molti mesi dopo la batosta elettorale. Ad Adriano che gli offre di riprendere la collaborazione con lui al di fuori dell’azienda, superato un lungo, impacciato momento di esitazione, risponde di sì. «All’ingegnere Adriano – scrive – era impossibile dire di no; perciò gli dissi che accettavo. Telefonò subito a un paio di persone: a Caglieris che lo serviva fedelmente come amministratore di

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tutte le attività fuori azienda e a Ferrarotti. A quest’ultimo ripeté contento: ‘Ricominciamo da capo tutto’»2. Costretto a mordere la polvere, Olivetti stava preparando la ripresa. Le settimane che seguirono la sconfitta elettorale furono tuttavia piuttosto dure. Olivetti fu obbligato dagli azionisti di maggioranza a rinunciare all’amministrazione delegata della ditta. Dal piano attico della sede di Piazza di Spagna dovette scendere, secondo le regole di un vero e proprio rito di degradazione, al secondo piano, con piccole finestre che davano sul cortiletto interno. Tutti coloro, dentro e fuori del Movimento, che avevano osteggiato e cercato di impedire l’entrata di Olivetti nell’arena politica diretta ebbero la rivincita e vennero fuori allo scoperto. L’opposizione della famiglia Olivetti era scontata. Ma fu motivo di una certa sorpresa constatare che gli stessi collaboratori più stretti di Olivetti sul piano politico, a eccezione di chi scrive, erano tutti contrari all’avventura politico-elettorale e, se non proprio contrari, erano quanto meno tiepidi. La scelta della grande maggioranza dei comunitari più influenti, da Geno Pampaloni a Renzo Zorzi, Massimo Fichera, Giuseppe Motta, Riccardo Musatti, Umberto Serafini, restava quella che, nel linguaggio del Movimento, si definiva «metapolitica». Fin da quando avevo incontrato Olivetti nel 1948, io ero invece convinto che non si può sperare di ottenere e gestire anche solo una piccola fetta di autentico potere politico senza conquistarla a viso aperto nella gara elettorale. Non senza qualche buona ragione, la famiglia Olivetti mi riteneva l’«anima nera» di Adriano e uno scrittore comunista, Fabrizio Onofri, che fu poi radiato dal partito per iniziativa di Palmiro Togliatti, mi definiva, nel settimanale del Partito comunista italiano Il Contemporaneo, il «Maometto di Olivetti». In realtà, quando Olivetti decise di scendere nell’arena elettorale, io mi trovavo in India, a Bombay. La telefonata arrivò verso le cinque del mattino nella mia bella stanza al TajMahal, con bow window che dava sulla gate of India. Ero ancora fra le braccia di Morfeo. Dormivo, se non proprio il sonno dei giusti, il sonno di chi aveva battuto, come ogni giorno del resto, dall’alba al tramonto le strade polverose di Bombay, dalla Porta dell’India alla Collina di Malabar. Dormivo, dunque,

2 Si veda G. Lunati, Con Adriano Olivetti alle elezioni del 1958, All’insegna del pesce d’oro, Scheiwiller, Milano 1985, p. 42.

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quando il telefono gracchiò accanto allo stazzonato capezzale. Era Adriano Olivetti che mi chiamava dall’Italia, da Ivrea o da Roma. Mi chiedeva di accettare un posto in lista con lui per le elezioni politiche di maggio. Era un giorno di febbraio e la sua voce sembrava più lontana del normale, come se venisse da un altro mondo, un segnale dall’oltretomba. Era la voce un poco ansante di chi abbia appena terminato una lunga corsa o sia semplicemente incerto sul da farsi o ancora sia intimidito dalla qualità della richiesta. Accettai subito, riattaccai la cornetta e tornai a dormire. Olivetti mi disse poi, mesi dopo, che quella telefonata l’aveva lasciato interdetto. La campagna elettorale del Movimento Comunità per la III Legislatura (1958-1963) fu una campagna generosa, ma breve. La sua intensità non riuscì a compensare la sorpresa relativa della sua presenza su scala regionale, in Piemonte. La sorpresa sfiorò lo sbalordimento su scala nazionale. Non solo: le ideologie cominciavano a franare, a rivelarsi gusci vuoti, ma nella percezione comune erano ancora segnali forti, davano indicazioni certe. L’elettore italiano medio distingueva ancora molto nettamente fra destra e sinistra. Era abituato a schierarsi dietro bandiere e parole d’ordine semplici, univoche. Già nel presentarsi, la formula di Comunità era macchinosa, non prontamente comprensibile. Recitava: «Comunità della Cultura, degli Operai e dei Contadini d’Italia – Federazione dei gruppi autonomisti». C’era in questa dicitura un ovvio sforzo di completezza. In particolare, era presente un’attenzione all’autonomismo, a una certa insoddisfazione per i grossi partiti di massa, militarmente organizzati, che dava un appuntamento all’evoluzione futura della politica italiana – un appuntamento che riguardava le «insorgenze locali» e che sarebbe, quarant’anni dopo, puntualmente scattato. Si potrebbe dire, sinteticamente, che il problema della campagna elettorale di Comunità consisteva nella difficoltà di trovare e applicare tecniche propagandistiche realistiche per un programma essenzialmente avveniristico. Il merito di Comunità diventava il suo insuperabile handicap. Era già evidente, all’epoca, che il comizio tradizionale non mordeva più, che bisognava radicarsi, ossia conoscere il territorio, parlare di questioni specifiche, toccare interessi economici concreti, spesso contrastanti, e quindi scegliere, più o meno drasticamente, oppure laboriosamente mediare. Cominciava a emergere la politica non più guidata dai grandi, ma necessariamente generici, ideali, ma

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issue oriented, ossia legata a problemi specifici. Come si poteva, secondo la stessa dizione di presentazione di Comunità, mettere insieme operai e contadini? E aggiungervi, in più, quella casta schizzinosa che in Italia sono sempre stati, con rare eccezioni, gli intellettuali? Forse non è il caso di soffermarsi in maniera particolareggiata sulla piattaforma elettorale di Comunità. Rifletteva, ovviamente, i punti programmatici del Movimento: 1) denuncia della crisi dei partiti politici di massa, corrotti e corruttori; 2) necessità di riportare il discorso politico alla sua base territoriale, data dalle «comunità naturali»; 3) riscoprire i legami vitali fra fabbrica e comunità circostante; 4) ridare dignità al lavoro, rivalutandone la funzione non solo economica, ma anche psicologica e morale in quanto fattore fondamentale della formazione della personalità individuale e garanzia del benessere collettivo; 5) affermare l’apporto della cultura contro le involuzioni burocratiche delle istituzioni; 6) affrontare la crisi, incipiente ma non avvertita né dalla grande maggioranza né dai politici né dagli intellettuali, dei sistemi urbani attraverso un rinnovamento del pensiero e della prassi urbanistica e delle «politiche dell’abitare»; 7) tornare alla comunità di base, autentica fonte della sovranità popolare, usurpata dai partiti politici accentratori.

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CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

UN’ECCESSIVA

ANTICIPAZIONE SUL SENTIRE MEDIO

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CREA INCOMPRENSIONE

A ben guardare, erano temi e obiettivi analoghi, almeno in parte, a quelli odierni della Lega Nord, in Italia, degli autonomisti della Catalogna, in Spagna, e degli Scozzesi in Gran Bretagna. Avevano il solo inconveniente di arrivare con quarant’anni d’anticipo. Soprattutto considerando la Lega Nord, come mai Comunità fallisce, allora, mentre la Lega Nord, oggi, con una piattaforma per certi versi analoga, trionfa? Naturalmente sono cambiate le circostanze. L’insorgenza locale del Nord-Est è oggi certamente legata a una prosperità recente che si sente insidiata e teme di dover pagare un prezzo eccessivo al centro, a «Roma ladrona». La polemica, scritta e vissuta, contro i partiti, condotta da Comunità con grande coerenza, era un’anticipazione straordinaria. Comunità era destinata a pagare un prezzo molto alto per i suoi meriti. Anticipava di quarant’anni la crisi dei sistemi urbani, i guasti dell’industrializzazione selvaggia, la corruzione endemica di una vita politica che si riduceva spesso alla paralisi dei veti incrociati, la privatizzazione del pubblico che metteva a repentaglio la democrazia italiana. Per la Lega Nord il terreno si trovava invece sgombro e «preparato» dalla gran ventata di «Mani pulite». Ciò che può legittimamente colpire è che la «ripulitura» operata da «Mani pulite» abbia giovato a due forze, contrarie e simmetriche, che hanno saputo sfruttare il vuoto determinatosi con il tramonto della DC come partito-Stato in senso puramente negativo: il municipalismo, gretto e miope, della Lega e l’affarismo del partito-azienda. Limitando l’analisi alla campagna elettorale, occorre prendere buona nota che, al di fuori del Canavese, il Movimento Comunità non poteva contare su mezzi, scritti od orali, collaudati. Nel Canavese il Movimento era sorto e godeva di legami territoriali profondi. I centri comunitari nei comuni canavesa-

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ni non erano sezioni di partito. Esprimevano al contrario una serie di esigenze, da quelle culturali a quelle previdenziali e sociali, che interessavano tutta la popolazione. Per le sue caratteristiche geografiche e socio-culturali il Canavese era veramente una «comunità naturale». Ciò che si rivelò difficile, quasi impossibile, fu il trasferimento dell’esperimento canavesano all’insieme della Regione Piemonte. Su scala nazionale, il progetto comunitario apparve subito temerario in quanto non poteva né competere con i partiti tradizionali, né «inventare», in brevissimo lasso di tempo, un nuovo tipo positivo di propaganda elettorale. Si fece qualche tentativo: per esempio, in Piazza Colonna, nel centro di Roma, si collocò un grande pannello, illuminato la notte, con l’invito a votare per Comunità. Ma in una situazione politica ancora profondamente ideologizzata, non si riusciva a capire se l’invito era per la destra o la sinistra e se lo stesso termine di «comunità» fosse cosa diversa dal «comunismo». Equivoci semantici, che Comunità per tutta la campagna non riuscì a dissipare. Del resto, sembra plausibile l’ipotesi che il fallimento della campagna elettorale di Comunità fosse da attribuirsi alla difficoltà e complessità del linguaggio, specialmente in quelle circoscrizioni, come Genova e Milano, in cui Comunità era praticamente sconosciuta. Il Movimento, mentre disponeva nel Canavese dei mezzi essenziali per un radicamento nel territorio, si trovava privo di mezzi e quindi di visibilità nelle altre circoscrizioni. Qui il Movimento doveva rifarsi al vecchio strumento del comizio, non potendo contare né sull’appoggio di giornali autorevoli né su una efficace presenza radiofonica e, meno ancora, televisiva. Soprattutto la DC su scala piemontese, nelle persone degli on.li Giulio Pastore e Carlo Donat-Cattin, era fortemente polemica nei confronti di Comunità, vista come una temibile concorrente, non per caso definita come un insieme di «topi roditori della democrazia». Su scala nazionale, il rivale più temibile era Amintore Fanfani, che, come presidente dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) aveva preferito l’on.le Togni, del tutto digiuno della materia, ad Adriano Olivetti, che fin dal 1936 aveva promosso gli studi per un «piano regolatore della Valle d’Aosta». Una ulteriore debolezza del Movimento era data dalla scarsità dei propagandisti. Costretti a valersi del vecchio strumento del comizio, Comunità scontava la carenza di scuole di agitprop. La propaganda elettorale con il comizio o discorso «aper-

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to» cadeva tutta sulle spalle di Adriano Olivetti e di chi scrive. Nessuna meraviglia che, costretti a una «propaganda elettorale a pioggia», si finisse per non bagnare nessuno. Si ebbe allora un colpo d’ala, dovuto ad Adriano Olivetti, che non era portato all’oratoria politica, ma che aveva una fede quasi illimitata nella parola giusta. Furono stampati due milioni di cartoline, nelle quali venivano illustrate le linee programmatiche del Movimento. Queste cartoline andavano distribuite casa per casa agli elettori e alle elettrici, in ogni caso cercando di intrattenere i destinatari direttamente in un dialogo che servisse a personalizzare il messaggio elettorale e a far risaltare la novità del Movimento, rispetto ai partiti attivi nella situazione politica italiana. Si cercava di ovviare per questa via non solo alla difficoltà del linguaggio comunitario, ma anche di far fronte al pericolo di fraintendimento dovuto all’anticipo del programma comunitario sul sentimento medio. Comunità anticipava temi e problemi che sarebbero entrati nella coscienza popolare media solo trent’anni più tardi, dalla scuola all’urbanistica, al decentramento e al federalismo, all’industrializzazione equilibrata, ecologicamente consapevole, e così via. La scarsità di propagandisti, anche del tipo tradizionale, si tradusse per Comunità in un fattore gravemente negativo. Veniva infatti consolidata la priorità della lettura. La propaganda di Comunità veniva confermata come essenzialmente legata alla lettura, e per ciò stesso, contro le intenzioni dei suoi promotori, elitaria. La sola alternativa era data dall’oralità «elementare» del comizio tradizionale. Ma qui, come si è già visto, mancavano gli attori fondamentali, cioè gli oratori. A parte chi scrive, solo Adriano Olivetti affrontava la piazza, e ancora commuove il ricordo di quest’uomo, di questo ingegnere, che fra i molti doni non aveva certamente quello dell’oratoria. Aveva il culto della parola precisa e lo scrupolo della frase perfetta. A meno di due anni dalla morte, era straziante assistere al suo prodigarsi, fra caffè, whisky e camomilla, in una attività cui non era naturalmente portato, prendere la parola in pubblico, davanti a una folla, con l’ovvia difficoltà, palese nel sudore che gli imperlava la fronte e nel passaggio da improvvisi rossori al pallore, di chi era abituato a parlare e a riflettere, se non da solo, in un piccolo gruppo, capace di un feedback quasi immediato, tanto da dare corso a un dialogo e a una partecipazione umana effettiva. Comunità era dunque rimasta legata all’ora-

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lità elementare. Non era neppure riuscita a valersi della neooralità, legata all’audiovisivo, e alla sua logica. Era quindi una propaganda ragionata, analitica, cartesiana, molto intellettuale anche quando cercava un contatto diretto con gli ascoltatori. La priorità era sempre riconosciuta al ragionamento – attraverso il discorso del candidato, la sua biografia stampata su una scheda, con fotografia, i punti programmatici. Mancava, vistosamente, l’emotività. In altre parole, mancava l’apporto dell’audiovisivo, fondato sull’empatia emotiva e non sulle tesi razionalmente argomentate

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CAPITOLO VENTICINQUESIMO

LE

CAMPAGNE ELETTORALI SONO UMANAMENTE

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E FINANZIARIAMENTE COSTOSE MA ISTRUTTIVE

Inoltre, anche dal punto di vista della propaganda della carta stampata, occorre tener conto che Comunità non disponeva di quotidiani. Poteva contare su due settimanali e su una rivista di alto livello culturale. Il primo settimanale, La sentinella del Canavese, era l’antica voce della zona, molto conosciuta. Con buone cronache locali e altre notizie utili. Questo settimanale costituiva certamente un mezzo di comunicazione efficace e tempestivo fra i vari centri comunitari. La dottrina di Comunità non era dominante o ingombrante. Veniva espressa solo in brevi editoriali, di regola anch’essi in vario modo collegati con i problemi specifici della zona. Il secondo settimanale, La via del Piemonte, era stato messo in piedi per le elezioni e intendeva porsi come l’espressione della regione, ma ovviamente risentiva del mancato, o non così vivo, nesso con la vita e i problemi locali, anche se, per molti anni, era stato attivo il «Centro Comunitario» di Borgo San Paolo, retto dal dr. Renzo Zorzi, e fin dai primi anni Cinquanta, proprio a Torino, usciva il settimanale Comunità, stampato tutto su carta rosa e diretto da Giuseppe Rovero e Giovanni Cairola. Forse per questa ragione il settimanale La via del Piemonte aveva un carattere più dottrinario e astratto. L’intento propagandistico era scoperto e pertanto meno efficace. Un discorso più complesso meriterebbe la rivista Comunità, caratterizzata da un contenuto altamente culturale. Solo nella parte finale di ogni numero, e di regola su carta color rosa, si recavano notizie e dati sulle attività del Movimento, riunioni organizzative, conferenze nei Centri culturali di Comunità e incontri dei sindaci dei vari paesi canavesani. La rivista aveva cominciato le pubblicazioni verso la fine degli anni Quaranta e veniva spedita in omaggio a tutti i sindaci piemontesi. È difficile valutarne il peso elettorale, data la sua natura di organo essenzialmente culturale a respiro internazionale.

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Potrebbe essere ragione di meraviglia che la propaganda elettorale di Comunità non abbia saputo – o potuto – giovarsi di documentari e di filmati in maniera sistematica (ci fu un filmato a cura del regista Moser, non del tutto soddisfacente). L’esigenza era stata certamente avvertita, ma forse era mancato il tempo necessario per realizzazioni non superficiali, senza notare che Adriano Olivetti richiedeva in proposito un rigore tale, nella presentazione delle esperienze comunitarie, da scoraggiare qualsiasi regista. In sintesi, è possibile affermare che il più grave errore della campagna elettorale di Comunità fu un errore che si potrebbe definire «culturologico», nel senso che era stata data una fiducia eccessiva al potere della parola scritta. Ricordo nettamente una notte, la vigilia del comizio di chiusura della campagna a Napoli. Olivetti e io alloggiavamo all’Hotel Vesuvius, a Santa Lucia, davanti al Castel dell’Ovo. Fu una specie di veglia d’armi. Stanze contigue, intercomunicanti. Olivetti si tormentava per tutta la notte alla ricerca di una citazione adatta dal Vecchio Testamento o dai Vangeli. Come se bastasse una frase o, anzi, la frase giusta a trasformare la situazione di fatto o a toccare il cuore e la mente degli elettori napoletani. Un secondo errore, inoltre, cui ho già accennato, era da vedersi nella complessità del linguaggio – un linguaggio certamente diverso dal politichese allora, come oggi, in gran voga, e tuttavia non sufficientemente chiaro con riguardo agli obiettivi proposti e ai metodi indicati per raggiungerli. Sul piano personale, tuttavia, anche quest’ultima esperienza di campagna elettorale, fortunosamente approdata al fallimento, è risultata un’esperienza positiva, per quanto in tre scenari differenti, e non solo per una ragione di indole generale. Devo infatti ammettere che mi sono fatto avanti nella vita, almeno ai primi passi, sempre a spese delle corde vocali. Non è un caso che abbia in gioventù, per almeno due volte, sofferto di cordite acuta. Friedrich Nietzsche scrive, credo in Così parlò Zarathustra, che non bisognerebbe mai leggere libri che non siano stati scritti col sangue. Più d’una volta i miei discorsi, ridotti a lamentevoli rantoli, finivano per essere macchiati di sangue. Posso dire di avere più volte – condannato all’afasia per periodi di tempo più o meno lunghi – sputato sangue sui marciapiedi del mondo. Ma della vita politica in generale, proprio la campagna elettorale, come si faceva una volta, mezzo secolo fa, diretta, a tu per tu con l’elettore, al mercato, in piazza, nelle osterie di paese, senza spot televisivi, senza vo-

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lantini e senza giornali, è stata per me il momento di massimo piacere e di più squisita, irresistibile attrazione. Dal punto di vista della elaborazione teorica, nascevano allora in me i primi semi della «sociologia come partecipazione»1 e della «identità dialogica».

1

F. Ferrarotti, La sociologia come partecipazione e altri saggi, Taylor, Torino 1961.

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CAPITOLO VENTISEIESIMO

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L’IMPORTANZA

DEL RADICAMENTO NEL TERRITORIO

Nel Canavese, beninteso – primo scenario – si giocava in casa. Anzi, non solo si giocava, ma con altrettanta vigoria si mangiava, si cantava e si beveva: esperienze di convivialità, di sintonia interiore e di fondamentale, entusiastica consonanza in tutto degne del Simposio platonico. Non c’era comizio o riunione o conferenza che non finisse in straordinarie, pantagrueliche abbuffate a base di tartufi, funghi, tabasco e peperoncini, da Chiaverano, famoso per i suoi tomini al pepe verde, a Vidracco, Loranzé, Vico, e così via – il tutto generosamente annaffiato dal prezioso vino di Carema. Si diffondeva nel gruppo dei sostenitori un sentimento che andava ben al di là della solidarietà elettorale di tipo ideologico astratto, tutto sommato esterna. Si creava l’atmosfera, in fraterna complicità, di una sorta di ultima cena; salvo che non era mai veramente l’ultima, ma, semmai, solo la penultima. La comune fede ideologica, che all’epoca era la caratteristica dei partiti di massa che noi di Comunità detestavamo (e con buone ragioni, perché intollerante e dogmatica), era cosa ben diversa. Organizzava masse imponenti, ma non coinvolgeva esistenzialmente le persone. Ne catturava soltanto la lealtà politica esibita, esterna, tanto da rendere possibili le scissioni e controscissioni che hanno costellato la storia dei movimenti e dei partiti della sinistra più o meno radicale. Il «cemento» ideologico, per così dire, non coinvolgeva tutta la persona. Si fermava alla soglia delle emozioni profonde, si arrestava o al più sfiorava la fraternità. Non era un brodo egualitario in cui cadeva la cesura fra centro e periferia, fra il vertice dei dirigenti e la massa dei militanti di base. Venendo meno l’uguaglianza, prevalevano necessariamente la logica burocratica e la gestione commissariale. Il dibattito politico interno vero, ossia non votato alla ripetizione meccanica di principi scaduti a giaculatorie ritualizzate, vi era praticamente sconosciuto.

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Fuori dal Canavese, in Liguria – è il secondo scenario – la musica era tutt’altra. Qui, il Movimento Comunità si trovava, si potrebbe dire, in terra di missione. E proprio qui, da Genova a Savona, per la Riviera di Ponente, e da Genova a La Spezia, per quella di Levante, Comunità si impegnava in una vera e propria «campagna elettorale corsara». Come capolista, ero in effetti l’unico propagandista a tempo pieno. Giravo giorno e notte su una grossa automobile, guidata in maniera alquanto spericolata da un autista robusto, un vero armadio, che fungeva anche da guardia del corpo. Guidava per ore, anche nel retroterra della provincia di Genova, per le stradine tutte curve e saliscendi, molto pittoresche ma non proprio agevoli. Mi ricordava l’autista Sikh che mi aveva accompagnato da New Delhi a Chandigar nel Punjab. Non una parola. Sospetto una certa parentela fra Sikh e piemontesi. In entrambi i casi silenzio assoluto per chilometri e chilometri, con una resistenza alla fatica eccezionale, mentre io, stravaccato sul grande sedile posteriore divoravo panini raffermi e tracannavo barbera e barolo fra un comizio e l’altro. Il punto debole della «campagna corsara» era il pubblico. Non avendo una struttura organizzativa alle spalle, il pubblico bisognava trovarselo e, talvolta, inventarselo, se non «rubarlo». Ricordo che a Savona, l’ultima settimana prima del voto, aveva appena terminato il suo discorso Sandro Pertini. Per l’irruente retorica che lo distingueva, veniva chiamato dai socialisti locali «la fiamma che brucia». Non erano ancora terminati gli applausi che io saltavo sul palco e cominciavo il comizio per Comunità. A Pertini la cosa non andò giù. Mi interruppe subito: «Ma tu, tu mi rubi il comizio». E io: «Io non rubo un bel niente». Lui: «E sì. Mi rubi il pubblico». E io, con la sfrontatezza del giovanotto che deve farcela a tutti i costi: «Ma se il pubblico è pubblico, non è né tuo né mio… Il pubblico è pubblico, cioè di tutti». A Piazza Brignole, alla Stazione di Porta Brignole, sempre a Genova, una piazza enorme, Pertini non c’era e non c’era neppure il pubblico. Cominciai a parlare a un gruppetto di sfaccendati che mi guardavano come credo che si guardi un marziano. In quel frangente, per catturare insieme con l’attenzione anche la simpatia, suonai la corda dell’autodeprecazione: «Non ci conoscete. Parlo a nome di un piccolo movimento, che però dice le parole di domani, anticipa i problemi di questo paese. I partiti di massa sono forti, numerosi, poten-

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ti… grosse macchine burocratiche che sanno solo schiacciare invece di risolvere le questioni del giorno per giorno, le vostre questioni. Aiutateci a mettere una buccia di banana sotto il piede di questi pachidermi. Liberiamo la strada verso il domani». La buccia di banana aveva fatto evidentemente impressione. Alla fine del comizio si calcolò che vi erano, ad ascoltare, più di duemila persone. A Milano, invece – terzo scenario – anche se non giocavamo in casa, Comunità e quindi Adriano Olivetti non erano nomi del tutto sconosciuti. Intanto, le Edizioni di Comunità, già accasate a Via dei Giardini, avevano più tardi trovato una bella sede in Via Manzoni, a due passi da Piazza della Scala, e poi la Olivetti, in quegli anni, era la Olivetti, una delle non molte società italiane che crescevano non solo in Italia, ma anche sul piano mondiale. Sotto la guida geniale di Adriano Olivetti, spesso malcompresa dai suoi stessi azionisti, era una dinamica, promettente multinazionale. Il capolista a Milano era Alberto Mondadori, figlio del famoso editore Arnoldo. Un uomo generoso, affabile, intelligente, Alberto, con un lieve difetto nell’eloquio. Come si dice popolarmente, «tratteneva» la parola, soprattutto all’inizio del discorso. Così in Piazza del Duomo, al tramonto di una bella giornata del maggio 1958, ecco che Alberto doveva tenere il discorso più importante, ma sorgeva la difficoltà ben nota ai suoi amici, soprattutto a proposito della parola Comunità con cui si apriva il comizio: «Il Movimento Co… Co… Co…». Si inceppava. Fui d’urgenza chiamato a dare man forte in veste di buttafuori. Le cose si risolsero abbastanza in fretta. Superato l’ostacolo iniziale, Alberto Mondadori arrivò tranquillamente in porto, senza brusche interruzioni, fino alla fine. I magri risultati, però, anche in quella occasione fornirono la riprova che, malgrado i nomi noti e il prestigio aziendale, le vittorie elettorali sono in diretto rapporto con l’insediamento territoriale, con una fiducia, più che con un consenso puramente intellettuale, che nasce e si sviluppa nel fronteggiare quotidianamente le questioni dei cittadini comuni. Un altro fattore è da prendere in considerazione. Va ricordata la riluttanza estrema, da parte di Adriano Olivetti, di far pesare il potere dell’azienda, come luogo dei posti di lavoro e della creazione di ricchezza, sul comportamento elettorale degli operai e della comunità in generale. Olivetti, che pure è stato da più parti accusato con grossolana superficialità di paternalismo,

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temeva anche solo il sospetto di manipolazione socio-psicologica. Contrariamente a imprenditori venuti più tardi e dotati di pochi scrupoli, Olivetti aborriva l’idea del partito-azienda e la stessa polemica contro i partiti, che precorreva i tempi e denunciava la corruzione molto prima di «Mani pulite», non cedeva mai alla tentazione dell’insulto e conservava, in ogni occasione, una sostanza e uno stile di estremo rigore.

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CAPITOLO VENTISETTESIMO

LA

METAMORFOSI DELL’UOMO POLITICO:

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LINGUAGGIO DEL CORPO E NUOVI STILI COMUNICATIVI

Intanto, la comunicazione politica ha cambiato pelle. Contano meno i ragionamenti e molto di più le emozioni. L’uomo e la donna che abbiano deciso di dedicarsi all’attività politica come progetto di vita devono curare il loro aspetto, mettere a punto il fisico. L’onestà delle intenzioni, la chiarezza delle idee, il carattere forbito dell’esposizione non sono più sufficienti. In una società di massa fondata sull’immagine si ha da essere fotogenici. Sono crollate le ideologie. Resiste la pappagorgia. Nel vuoto delle idee, trionfa il corpo. Non è forse una novità, dal punto di vista storico, sconvolgente. Nessuno ha dimenticato Alcibiade. Ma non bisognerebbe neppur dimenticare che il brutto Socrate, che richiama esteriormente lo sgradevole Sileno, è bello, dentro, come un dio. Il vecchio Arthur Schopenhauer sosteneva che essere belli è come andare in giro con una lettera di raccomandazione stampata in fronte. I moderni soffrono però a questo proposito di amnesia. Non è più sufficiente avere qualche cosa da dire e saperla dire bene, in modo persuasivo. Liquefatti gli ideali, si afferma il bisturi del chirurgo estetico. Viene richiesta la scioltezza delle giunture, quello che si dice un fisico scattante, un piglio giovanile, l’occhio vigile, le palpebre non cadenti e la pelle senza grinze e senza borse sotto gli occhi, la mandibola glabra e volitiva. L’uomo politico è sempre più attore e sempre meno ragionatore. Stranezze della contingenza. Eterogenesi storica dei fini. Si arriva, faticosamente, a traguardi di raffinatezza tecnica e si viene, piuttosto rudemente, risospinti alla primitività inarticolata di gesti elementari. È il ritorno del corpo, la vendetta del primato dermatologico. Anche la politica torna a essere una questione di pelle. L’uomo politico deve pur avere qualche cosa da dire. Ma non basta più. Con il prevalere dei mezzi di co-

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municazione audiovisivi elettronicamente assistiti, sono chiamati in causa i tratti del viso, l’eleganza della figura, la secchezza asciutta delle palpebre e del collo. Non è più sufficiente fare la guerra agli avversari, ai rivali, ai concorrenti. Bisogna fare la guerra anche al doppio mento. L’occhio della televisione è spietato. I suoi primi piani crudeli. Le argomentazioni, più o meno logiche, contano. Conta di più il sorriso suadente e seducente, la pelle tirata, senza rughe troppo visibili, quella lieve abbronzatura che denuncia massaggi energici, creme e luci artificiali ben dosate. C’è un paradosso inquietante. L’uomo politico è diventato anche un intrattenitore, ha riscoperto il dono istrionico e l’eloquio forbito che distinguevano Isocrate dal ragionatore Tucidide. La cosmesi facciale e la chirurgia plastica ben temperate sono ormai semplici necessità, cui neppure i primi ministri possono sottrarsi. Ma attenzione: il culto dell’effigie, questa lotta impari contro l’avanzare della morte, nel momento stesso in cui ringiovanisce l’aspetto, tira la pelle e fa emergere, sempre più nettamente, la scatola cranica e la sua struttura ossea. La bellezza giovanile artificialmente riguadagnata finisce per coincidere con il teschio cadaverico in impudica mostra precoce. La comunicazione politica torna al primitivo linguaggio del corpo. Cadute le ideologie, liquefatti gli ideali, resta il linguaggio del corpo, l’amabilità dei gesti, la strizzatina d’occhio accompagnata dal sorriso dolciastro. Alla luce di queste considerazioni, mi sembra di capire che tutta l’enfasi posta sui processi di spettacolarizzazione – e, in parte, di personalizzazione – della politica rinvia a un deficit di democrazia. Spettacolarizzazione e personalizzazione sono, insomma, una risposta semplificata alla crisi di rappresentanza che «la comunicazione politica distorta» – per parafrasare il pontificante Jürgen Habermas – riflette e amplifica insieme. Sullo sfondo, evidentemente, opera una ricettività sociale legata al diffondersi di nuovi modelli di consumo culturale, egemonizzati dal medium televisivo e quindi da un diverso equilibrio fra parola e immagine. È dunque comprensibile come la parola del politichese contemporaneo tenda a essere meno ridondante, ma non per questo più esplicita, di quella caratteristica delle vecchie élite liberali o populiste. L’effetto retorico si trasferisce ormai all’uso dell’immagine, si esalta nel look, si adatta a volte all’understatement, ricorre in casi estremi alla cosmesi facciale e alla chirurgia plastica.

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È certamente più facile produrre spettacolo che non seria comunicazione politica. Qui interessa poco distinguere fra categoria della propaganda e categoria della comunicazione, essendo l’una e l’altra ormai egualmente sottoposte alla dittatura del marketing pubblicitario. Questione aperta, di sapore prettamente politologico è, semmai, quella di definire la relazione fra trasformazioni operanti nel sistema della comunicazione politica e trasformazioni operanti nel sistema dei partiti in quanto tale. In particolare, mi riferisco alla crisi del partito di massa, che con l’efficacia delle sue reti «effettive» o «sostitutive» ha costituito per decenni un autentico sistema/controsistema di comunicazione sociale. Oggi la secolarizzazione e la crisi delle vecchie subculture d’identità costringono anche il partito di massa (o quel che ne rimane) a misurarsi con il duplice problema di rendere identificabile e distinguibile il proprio messaggio, non più affidato alla forza persuasiva del contatto diretto e alla comunicazione face to face che questo consente. Messaggio che deve essere perciò identificabile nei suoi contenuti, ma anche distinguibile rispetto a quello delle altre forze politiche, e abbastanza forte e nitido da «bucare lo schermo». Contemporaneamente, declina la funzione pedagogica esercitata dal vecchio, dissolto partito di massa sulla sua area sub-culturale. Sempre più spesso, chi costruisce l’informazione e l’immagine del partito si colloca all’esterno dell’organizzazione politicamente intesa. Spettacolarizzazione e personalizzazione divengono un autentico prodotto di marketing, che incide soprattutto dove le tradizionali reti di consenso sociale del partito di organizzazione risultano erose. Questo contribuisce a rafforzare gli impulsi in direzione del cosiddetto «partito pigliatutto», interclassista, trasversale e perciò obbligato a un dialogo con l’insieme della società e delle sue culture. Di qui, inevitabilmente, il prevalere di un lessico dell’apparenza e la ricerca – peraltro raramente coronata da successo – di un registro comunicativo fondato su segnali impliciti, allusivi, multiuso. Un modello destinato, per inciso, a produrre leadership inedite in una realtà come quella italiana e in contesti subculturali di tipo prevalentemente mediterraneo. È in questo snodo sociale – prima ancora che politico – che la trasformazione del partito di massa (forse è troppo presto per parlare di una sua vera e propria dissoluzione) si connette al mutato consumo culturale, al prevalere dei codici del

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marketing, al primato dell’immagine. Si alimenta così la tentazione a individuare scorciatoie nella conquista del consenso, basate su suggestioni prevalentemente non verbali, come la politica spettacolo, o su strategie di marcata personalizzazione della leadership. Questa volta, però, non si traduce in una reale democratizzazione e in una crescita di comprensibilità del messaggio politico. Si sta forse producendo, al contrario, un nuovo élitismo della comunicazione. All’interno di un pubblico indifferenziato, in presenza di intere generazioni socializzate dai media, si producono nuove e fortemente gerarchizzate classi di competenza linguistica. Banalizzazione della politica per molti e perfezionamento scientifico della comunicazione interna per gli addetti ai lavori sono fra gli effetti del partito pigliatutto. La divisione passa fra chi è interessato o motivato a capire, prima ancora che fra chi capisce (e quanto?) e chi non capisce.

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CAPITOLO VENTOTTESIMO

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IL

PARADOSSO DELLA NUOVA COMUNICAZIONE POLITICA

La comunicazione politica, inserendosi di forza nell’universo simbolico e tecnologico della TV planetaria, si fa al tempo stesso estremamente personalizzata e totalmente impersonale. Studi condotti in Francia sugli effetti sociali dei minitel segnalano questo dato con clamorosa evidenza. Nella stagione del «declino del pubblico» si producono nuove centralità e diverse gerarchie: fra chi ha o non ha accesso alla possibilità di emettere informazione telematica derivata (reti minitel e simili, formalmente non verbali e apparentemente neutre sul piano politico); fra chi possiede e chi non possiede gli strumenti della decodifica (l’apparecchio, per cominciare, ma anche le chiavi culturali di accesso). A ben vedere, l’incipiente società mediatica contribuisce non poco a rendere occulte e incomunicabili quelle che un tempo avremmo chiamato a cuor leggero società civile e società politica. Chi si accanisce contro le oscurità gergali e la povertà semantica della comunicazione politica ufficiale ripropone così la vecchia polemica manzoniana contro il «latinorum» avvocatesco, ma perde di vista la qualità nuova della questione. Se il «latinorum» enfatizzava le distanze sociali, la neolingua della comunicazione politica è funzionale a un processo di emarginazione formalmente «non classista», ma interamente politico. Voglio dire che l’accesso al sistema mediatico e l’uso delle tecnologie dell’opinione tenderanno a concentrarsi nelle mani di un nuovo gruppo politico o forse di un’inedita «coalizione personale», ossia di un solo uomo, annullando le opposizioni, le minoranze morali, il dissenso non declinabile in rappresentazione scenografica. Il problema, dunque, è ancora quello della parola significativa, e del suo uso. Ma, soprattutto, è quello classico e ineludibile del sistema della rappresentanza. Fra politichese di retroguardia e nuovi circuiti telematici, fra tecnologie dell’opinione e personalizzazione del potere emer-

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ge il bisogno di una sintassi democratica. Forse, di un recupero della logica della lettura – analitica e cartesiana – contro l’onniavvolgente logica dell’audiovisivo, le sue immagini sintetiche, la seduzione dei suoi incantesimi emotivi. Per molti aspetti potrà sembrare un progresso. Lasciar cadere il peso del passato storico, prossimo e remoto, potrà essere anche ritenuto ed esperito come una liberazione. Però: latet anguis in herba. Che la comunicazione politica si riduca a un’operazione di cosmesi per cui le questioni etiche si pongano sullo stesso piano delle apparenze estetiche, la morale si scambi con il morale, la coerenza con la prepotente testardaggine non dovrebbe granché meravigliare. Si dice che i bambini e gli adolescenti di oggi, perdutamente innamorati dello schermo e abilissimi nel cliccare Internet, siano più intelligenti, più informati di quelli di ieri. Può essere vero. Ma di quale intelligenza, di quali informazioni si tratta? Se non già oggi, quasi certamente domani, saremo probabilmente messi di fronte a un popolo di informatissimi idioti, se è vera la definizione dell’idiota come di colui qui sait tout et ne comprend rien e che, come tale, incarna il tipo dell’idiot savant.

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CAPITOLO VENTINOVESIMO

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IL

VECCHIO RONZINO DI

DICKENS

Sono nato, intellettualmente, autodidatta. In vista ormai del capolinea, posso dire di essere rimasto fedele alle origini. Non avrei mai potuto aspirare all’insegnamento universitario di una materia che già esistesse. L’invito di Nicola Abbagnano, che aveva firmato la mia tesi di laurea su Thorstein Veblen dopo il rifiuto di Augusto Guzzo, a fargli da assistente insieme con l’amico Giovanni Cairola, l’ho sempre accolto con gratitudine, ma rifiutato con fermezza. Ero disponibile solo per sociologia. «Ma non c’è», mi si diceva. «Non ci sarà mai. Il veto della cultura dominante, dai cattolici ai liberali ai marxisti, è forte e destinato a durare». «Niente», rispondevo. «Non importa. Farò altre cose». In realtà, prima del fascismo, la sociologia in Italia lussureggiava, talvolta sotto mentite spoglie, per lo più come criminologia, nelle facoltà di medicina e di giurisprudenza. Caduto il fascismo, ci fu il fortunoso riciclaggio dell’insegnamento di mistica fascista in sociologia all’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. Il concorso a cattedra in senso pieno per la sociologia sarebbe stato quello che dovevo vincere io nel 1960, mentre il Ministero della Pubblica Istruzione era nelle mani del fanfaniano Giacinto Bosco. Gaetano Floridi, vice-direttore generale sotto il «mitico» Di Domizio, aveva davanti a sé, nello spazioso ufficio al II piano, un gran tabellone con tutte le università, le cattedre richieste e i concorsi, come diceva, «da espletare». Per circa tre mesi, scendendo dal Gianicolo, dove allora abitavo, al Palazzo degli esami di Viale Trastevere, erudivo il rapido, intelligente dottor Floridi, in un primo tempo incline ad assegnare la cattedra a Demografia e statistica, intorno alla natura e alla storia della sociologia. Numeri, sì; ma, in primo luogo, persone. È probabile però che solo una facoltà «minore», come a torto si riteneva che fosse il vecchio Magistero, dove avevano peraltro insegnato Guido De Ruggiero, Antonio La-

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briola e Luigi Pirandello, dovesse trovare l’ardire innovativo di chiedere il primo concorso a cattedra per sociologia, pur trattandosi di una materia estranea a docenti come il preside Francesco Piccolo, il pedagogista Luigi Volpicelli, l’italianista Umberto Bosco, il latinista Marmorale e il geografo Carracci. Tornato in Italia dagli USA nel 1953, avevo tenuto la prolusione al CEPAS (Centro per l’educazione professionale degli assistenti sociali) di Roma su «Servizio sociale e sociologia», presenti Guido e Maria Calogero, Angela Zucconi e, fra gli altri, il sociologo bolognese Achille Ardigò. Più tardi (1960-1961), come primo cattedratico e quindi anche l’unico, mi spendevo al Magistero di Roma, Piazza Esedra, a Scienze Politiche e a Lettere e Filosofia della «Sapienza», al Cesare Alfieri di Firenze con i «baroni» Giuseppe Maranini, Carlo Curcio, Pompeo Biondi e i giovani incaricati Alberto Predieri, Silvano Tosi, Alberto Spreafico, Giovanni Sartori, Antonio Zanfarino; dal 1962, poi, all’Istituto di Scienze sociali di Trento, che avevo contribuito a fondare con Marcello Boldrini, Mario Volpato, Feliciano Benvenuti, Padre Rosa dei gesuiti di Piazza San Fedele di Milano, l’on. Bruno Kessler, moroteo, presidente della provincia di Trento, che faceva a tutti gli effetti gli onori di casa. Anni bellissimi! In America il professore era considerato dagli studenti come un investimento economico da sfruttare e spremere a dovere, fino all’ultima stilla. In Italia, già ordinario da anni prima della contestazione del Sessantotto, notavo che il professore, chiamato per dileggio «barone», era più che altro sfuggito o subìto come un male non strettamente necessario. Con la contestazione, per me, abituato al rapporto diretto professorestudenti molto comune in America, non cambiava niente. Ero d’accordo con l’anti-autoritarismo dei contestatori, ma non ne accettavo gli atteggiamenti anti-intellettuali. Mi sembravano esempi deprimenti di «spaccio del bestione trionfante». Ero così odiato sia dai colleghi, che vedevano in me il traditore, sia dagli studenti, cui rifiutavo il voto politico e quello di gruppo. Ho sempre adorato sentirmi sul collo il fiato caldo dell’odio imbecille. M’è sempre parsa la prova certa che andavo nella direzione giusta. Burbanzosi colleghi come Francesco Barone di Pisa e il suo inconsapevole assistente dell’epoca, non a caso politico di successo e attuale seconda carica dello Stato, non riuscivano a comprendere, o quanto meno a immaginare, come si possa essere d’accordo con gli scopi di un movimento

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senza per questo chiudere gli occhi sulle carogne, sul fango e sul marcio che la corrente del fiume, nel suo impetuoso procedere, porta inevitabilmente con sé. Mi è sempre piaciuta l’idea di insegnare pur sapendo, socraticamente, di non sapere, ossia di non avere nulla da insegnare. C’è un momento istrionico nella pratica dell’insegnamento che mi ha sempre attirato. In ogni buon professore c’è sempre qualche cosa dell’attore mancato. Ma mi interessa, oggi come agli inizi, assai più che propagandare una dottrina quale che sia, sollevare problemi, suscitare interrogativi, coltivare dubbi, in me e nei rari astanti. Socrate per me è più importante di Buddha o di Gesù Cristo. I professori ordinari in Italia vanno fuori ruolo a settant’anni e a riposo a settantacinque. Da qualche tempo, specialmente da quando sono a riposo, non passa notte che non sogni di far lezione. Tengo seminari, polemizzo con Karl Popper, David Easton, Leo Strauss, August Friedrich von Hayek, Norberto Bobbio. Spesso evoco colleghi, italiani e stranieri, morti da un pezzo. Mi sento come quel cavallo di cui scriveva Charles Dickens, un vecchio ronzino di quarantadue anni, che era sempre attaccato alle stanghe come se stesse per partire, perché, se lo avessero staccato, sarebbe piombato a terra e non sarebbe più stato in grado di rialzarsi.

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Corriere della Sera, venerdì 25 febbraio 1977

Diario di un docente contestato nei giorni caldi dell’università

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Roma 9 febbraio Per tutto il giorno penso che sia il giovedì dieci, il giorno dopo. Ansia di vita. O di morte? Ma non è la stessa cosa? Desiderio, passione di vita, comporta il bruciarla, e quindi accelerare il momento dell’estinzione finale, la morte. Arrivo ansante in via del Babuino per la presentazione del libro di Cl.V. Naturalmente, trovo ovunque, come avrebbe detto mia madre, l’«uscio di legno», sbarrato. Approfitto della pausa imprevista per comprare due libri da Feltrinelli. Passeggio per il Corso, cercando di non farmi travolgere dagli autobus ruggenti e dai pedoni imbestialiti. Anche belle donne, però; specie una giovane francese rossa, con stivali neri e femorali bianchi aderenti, alla Trotski, ma non troppo attillati, tanto da farle dei buffi e da arricciarsi proprio alla regione inguinale come per fare intuire che lì c’è il «nido»… Mi giungono notizie dall’università. Una strana tensione e vuoto. Ma so che i problemi ci sono. Qualcuno mi parla dei cosiddetti »autonomi». Respingono una riforma, quella del Ministro Malfatti, che però non conoscono. Lo ammet-

tono con spavalderia. Non l’hanno neppure letta. Del resto, non ci sembra che sia disponibile un testo definitivo. Gli autonomi annunciano però trionfanti: «occupazione ad oltranza». Perché? Non è necessario rispondere. Anzi, porre la domanda è ritenuto offensivo. Siamo al «fare per fare». Forti del recente proscioglimento della magistratura, sono andati stamane nell’ufficio del preside Petr., gli hanno messo in mano cappello e cappotto e l’hanno «invitato» ad andarsene: «Vattene. O ti rompiamo il culo». Con lui, hanno messo alla porta la segretaria, quel capolavoro che è la signora C. Hanno poi preteso l’«agibilità» di tutti gli istituti. Al rifiuto del preside di consegnare le chiavi, gli hanno preannunciato di considerarlo responsabile a tutti gli effetti in casi di sfondamenti, danneggiamenti, furti. Sono contro tutte le leggi, ma hanno una indubbia mentalità legalistica (Terracini starà già preparando le difese future?). È l’altra faccia del fascismo. (L’altra? Veramente l’altra? O non è invece la stessa? Chi ha dimenticato che il fascismo comincia e finisce, radicale, repubblicano, rivoluzionario?).

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Giovedì 10 febbraio Neppure stamane compare la mia intervista a G.G. nel Paese Sera. Mi sembrava importante perché denunciavo l’esistenza di problemi seri e ormai incandescenti e mettevo in guardia contro lo sfruttamento della situazione con manovre di bassa demagogia populistica. Che c’è dietro? Se ne occuperà M.M., ma credo che sarà anche un bene se non uscirà. Si è facilmente fraintesi; la mia posizione, favorevole agli studenti ma non allo sfruttamento strumentale dei loro problemi, è troppo «sottile» per essere capita, oggi. Parlo con il Corriere. Sabato 12 febbraio Mattina di splendida aria. Due anni di tempo come questo sveltirebbero il ritmo biologico dei romani. La vita è fatta di mattini. Stendhal ha ragione. Sono usciti entrambi i miei pezzi. L’intervista a G.G. nel Paese Sera e l’articolo nel Corriere. Integrale, l’articolo; censurata ed espurgata, certo per «motivi di spazio», l’intervista. Meglio così. Sono evitate ripetizioni. Utilità della censura. Bene. Non pensiamoci più. E tuttavia: senso ossessionante della contaminazione. Non posso avvicinare o lasciarmi avvicinare da certe persone. La lebbra interiore. Ci deve essere, credo, una «diossina psichica» che attacca la cloracne alle anime. Lo sento a tasto, a fiuto. Ma è solo una impressio-

ne, mi dicono. Voltaire: «Méfiezvous toujours de la première impression. C’est la bonne». Più tardi, leggo un libro di G.A. su Bari vecchia. M’imbatto in un capoverso: «La ricerca cerca di…». Mi blocco su questa allitterazione e non riesco a leggere oltre. Ci riprovo. Niente. Continuerò domani. Dopo un lunghissimo silenzio, mi telefonano dall’Espresso per un’inter vista. Un balzo dalla sedia. Veramente? Su che cosa? Sociologia? Ideologia? L’Università? No. Niente di tutto questo. Vogliono interrogarmi sui «giochi di società», il ritorno alle «serate in famiglia», a causa dell’austerità. Incredibile. Ma la signora dell’Espresso suona gentile, in buona fede. Ringrazio e rifiuto. La prego anzi di ringraziare Zanetti. Sono commosso: comincia a pensare che la sociologia ser va a qualche cosa, a far luce sulle serate in famiglia. Forse sa anche che la NBC mi ha inter vistato sulla «revisione» del marxismo e sull’euro-comunismo. Ma era molto tempo fa; e poi, all’estero. Domenica 13 febbraio Prima, sereno: poi, all’improvviso, pioggia e freddo. Gocce gelate mi colpiscono il cranio caldo; nell’avvallamento fra fronte e nuca si raccolgono come in una coppa, e mi sciacquano allegre. Vivo di immaginazione. Per questo mi occupo di scienza: per disciplinarla. Scopro ogni giorno le risorse della fantasia. Sono

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147 i doni magici degli uomini di mezza età che abbiano vissuto intensamente. Ricreano a proprio uso e «godimento operaio», le esperienze passate. Solo i bambini e le donne sono capaci di sobrio realismo. Non sono capaci di immaginazione: per mancanza di esperienza o per insicurezza.

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Lunedì 14 febbraio Sono all’Istituto dalle 9. Un cartellone sulla porta di Magistero annuncia: «Fuori i compagni – dentro Ferr. e Petr.». Ricordo i ragazzetti che anni fa canticchiavano: «Ferr. , ce li hai rotti». Erano meno grevi. A Roma si facevano ancora le scampagnate a piedi fuori porta. Tempi degni di Gregorovius. Tutto finito. Decido di rinviare gli esami al primo marzo perché non capisco che cosa siano gli esami «sotto controllo politico» e anche perché CISL, UIL, CGIL, si sono riunite per decidere il da farsi sui «precari» e sulla loro partecipazione alle attività delle commissioni di esame. Si riuniscono sempre e non decidono mai. Ironia dei nomi: sono così poco «precari» i precari che se si fermano loro si blocca gran parte dell’università (a parte il fatto che siamo tutti mortali, cioè «precari»). Speriamo che la classe politica si decida a scoprirli. Forse dovrei approfittare di questa pausa forzata per meditare, scrivere (preparare le relazioni per Chicago e Washington). Ma intanto non posso negare a me

stesso che un certo nervosismo mi ha assalito. È quasi inevitabile. Che sia il contagio della «coscienza collettiva» di Durkheim? È su questo che contano i «criminali» dell’università? Alcuni striscioni a Magistero dicono senza mezzi termini: «F. sei il primo della lista». Ma perché? Forse perché dico sempre con chiarezza quello che penso? O forse perché non sono sufficientemente chiaro? O semplicemente perché penso? Cl. viene a dirmi che i vetri del rettorato sono andati in frantumi. Al prof. M.S. Giannini, giorni fa, che stava conversando con il fratello di Cl., anche lui bidello, a Giurisprudenza, alcuni studenti non identificati hanno lanciato una bottiglia molotov fra le gambe. Stavano parlando tranquillamente sulla scalinata dell’edificio di legge. Pettegolezzi invece di discussioni serie. Attività politica regredita a camarilla personalizzante, infantilismo. A proposito della tendenza di C.A. a «pettegolare», Frascati adjuvante, scoperta da me solo da ultimo, mi tornano alla mente due episodi: a) quando mi diceva che solo a guardarlo, era sicuro che il prof. On. L. D’A. fosse un degenerato sessuale, un deviato; b) che il prof. G.C. era stato scorto di sera, in auto, baciarsi furiosamente con una giovane studentessa o assistente davanti al ministero della Marina. Che precisione! Magari avesse messo in luce tale dote quando si occupava dell’Istituto. Aveva invece ragione il preside Petr. ad affermare

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148 ch’io sono peggiore di Caligola: questi aveva fatto senatore il proprio cavallo; io mi sono spinto più in là: ho fatto professore C.A. Per me è una lezione: diffidare dai moralisti. Parlano bene per coprire il marcio. Ma il tanfo, chi potrà mai coprirlo?

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Lunedì pomeriggio Oggi nel pomeriggio, verso le ore 16.10, nell’Istituto di sociologia, nel corridoio fuori della mia stanza, ho visto in faccia il neo-fascismo: quello che si presenta come movimento di ultrasinistra; ho visto l’occhio torvo del risentimento lungamente covato, il rancore del piccolo borghese frustrato e impotente, in attesa di sfogo. I fatti sono iniziati con la Y.E., che viene a chiedermi di valersi del locale della biblioteca per una riunione di studio. Si bussa violentemente alla mia porta. Ci sono i soliti quattro di V. Dei Volsci che già l’anno scorso avevano violentemente disturbato le mie lezioni. Una studentessa lamenta che non vi siano esami. I quattro gridano a gran voce che devo partecipare ad una riunione. In realtà, so bene di che si tratta. Vogliono farmi un «processo politico». Rifiuto seccamente di starli a sentire. Dicono che li ho «sfidati». Sono abilissimi a passare dall’insulto più grave al vittimismo, alle maniere più suadenti. Cerco di uscire. Vengo bloccato e preso a spintoni. Il corridoio è interno, stretto e male illuminato. Non ho scelta.

Procedo. Mi arriva un pugno o qualche cosa del genere al basso ventre. Forse un colpo con un bastone corto. Soffoco. Il colpo basso è molto doloroso, sulle prime quasi lancinante. La bocca mi si asciuga di colpo; mi lascia le labbra aride. Avverto quasi contemporaneamente due calci in rapida successione vibrati negli stinchi, da specialisti, di quelli che fanno inginocchiare. Mi reggo in parte al muro. A.d.B. si scosta lievemente, con la faccia triste e più scura del consueto. Mi accascerei se non fossero loro, i miei aggressori, a tenermi in piedi. Riesco a raggiungere la porta; esco sempre premuto da vicino, spinto e scalciato, sul pianerottolo. Evito l’ascensore, nonostante il riflesso condizionato dell’annosa abitudine. Mi rendo infatti conto, d’istinto, che potrebbe funzionare da trappola. Scelgo le scale che cerco di scendere senza correre; ma la pressione di dietro è fortissima. Il vocio cresce. Mi sento sollevare lievemente da terra. Ecco che alle mie molte riconosciute virtù s’aggiunge quella del lievitare. Mi viene da ridere, per una frazione di secondo. Sono certo di aver percorso almeno tre scalini in discesa senza toccarli. Sento alle mie spalle, vagamente, frasi come: «Buttiamolo giù». Capisco fulmineamente che è la vecchia ben collaudata tecnica degli squadristi e dei nazisti. Buttarmi per le scale, farmi fuori, ferirmi seriamente, spezzarmi magari le gambe, e poi gridare, naturalmente, all’inci-

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149 dente. Vedo tutto di colpo, con la chiarezza di un flash, come accade a chi è vittima di una «morte per acqua». E persino la poesia di T.S. Eliot riemerge per un attimo velocissimo dagli ipogei della memoria. Riesco a raggiungere il mancorrente alla prima curva delle scale, fra il terzo e il secondo piano, con la mano sinistra, e mi tengo ben saldo; il ferro battuto mi si stampa nella mano, entra nella carne del palmo. Non sento niente lì per lì. Poi di scatto, come intravedo un varco nella ressa urlante intorno, mi butto nell’ufficio della «Breda», che per fortuna ha le vetrate aperte. La signorina, una «receptionist», fugge spaventata. Cerco di uscire nuovamente sul pianerottolo. L’idea di entrare nella «Breda» è stata del tutto provvidenziale perché ha interrotto la corsa a testa in giù; ha spezzato e quindi addolcito la pressione. Gioco, come posso, d’astuzia. Faccio capire che andrò con loro, all’assemblea; ma la mancanza totale di saliva non mi consente di articolare bene. Credo però che ormai ritengano di avermi in mano; sono la loro «preda». Vengo sempre spinto dappresso, ancora spintonato; sempre tenuto sotto controllo, ma con calci e gomitate riesco a conquistar mi un piccolo Lebensraum che allontana la possibilità d’un tuffo. Sono come un nuotatore principiante invischiato in un grippo di piante acquatiche. Non appena in galleria al pianterreno, cioè sulla terra ferma, svolto l’angolo e

invece di dirigermi al Magistero, entro nella profumeria. Il coro degli insulti sale, anche perché la folla si auto-eccita, si sente al centro dell’attenzione; il Grand Hotel è poco lontano, e io sono in fondo prigioniero, in trappola. Basterà aspettare. Il coro scandisce: «scemo, ladro, vigliacco». I due ultimi aggettivi mi sembrano un poco incongrui, visto che ho accettato presto nella mia vita di fare il professore a tempo pieno e che mi trovo solo contro una folla. Uno dei primi assalitori, piccolo, magro, con baffi e barbetta a punta è il più accanito, livido, furente, con voglia di sangue negli occhi. Quando il profumiere si rende conto che sono completamente disidratato e apre la porticina in fondo al negozio che porta al bagno, costui si fa avanti di forza e pretende di accompagnarmi perché «non scappi da un’uscita segreta». Rinuncio al bagno; mi raccolgo come posso sotto il tuono degli insulti: ho con me delle bozze fresche di stampa; comincio a leggerle, ma con difficoltà. È anche vero che non sono mai stato un bravo correttore di bozze. Arriva la polizia, che deve aver visto dal Grand Hotel e che inutilmente del resto il profumiere aveva chiamato facendo il «113». I poliziotti sono brava gente. Impediscono alla folla di mettere a soqquadro il negozio, ma i miei assalitori originali, bravissimi, cambiano improvvisamente registro e parlano ragionevoli, suadenti ai poliziotti: «Ma è il

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150 nostro professore. Vogliamo solo che venga con noi, subito, adesso, a discutere». E un giovane poliziotto serafico, a me: «Professore è in grado di camminare? Può fisicamente andarci?» Il mio aspetto non deve essere troppo rassicurante. È in queste occasioni che i cinquant’anni d’un uomo non sono solo un dato anagrafico. Non me la sento di erudire il poliziotto, così, su due piedi, intorno al «processo politico» e alla caricatura della rivoluzione culturale maoista cui intendono sottopormi una volta al chiuso con loro, avrei dovuto firmare i documenti che colleghi hanno firmato pro bono pacis a scatola chiusa. Aspetto almeno venti minuti. È passata già mezz’ora. L.C. va a prendermi un bicchier d’acqua. Un brigadiere in borghese e altri quattro in divisa mi accompagnano fin dalle parti di via Veneto, B. mi offre la sua macchina ma sorgono preoccupazioni quanto alla carrozzeria. Si urla dietro di me. Uno scodazzo mi segue per un tratto, fino all’altezza della Libreria Feltrinelli. Poi si assottiglia. I «rivoluzionari» hanno compiuto la loro missione. All’altezza dell’ambasciata USA mi caccio in un taxi. In fondo non sono poi più spaventato del necessario. Ricordo con vividezza straordinaria. Mentre vengo spintonato per le scale sento qualcuno mormorare alle mie spalle: «Adesso sta a vedere che gli prende un infarto». Appunto: stiamo a vedere. Chi sa? C’è sempre un uomo di buon cuore, con

uno sviluppato senso del teatro, magari un padre di famiglia, fra gli scherani di qualsiasi calvario. Poi non mancano le pie donne, che possono essere anche uomini. Cl., L.C., A.d.B. mi sono rimasti vicini, ma nessuno ha avuto il coraggio fisico di contrapporsi ai miei aggressori quando questi mi tenevano in mezzo. Sono tuttavia grato per il conforto indiretto derivato dalla loro presenza e dalla disapprovazione muta e dal dolore che si leggeva nei loro occhi. L.C. è andato a prendermi un bicchier d’acqua quando ero bloccato nel negozio. Tecnica nazista: la defenestrazione; la più pulita, può sempre essere montata come défaillance fisica (vertigini) o suicidio. Oppure: buttare qualcuno nella tromba delle scale. Telefona a sera il preside. Esprime solidarietà. Telefona anche S. Coglie l’occasione per dirmi che C. e M. si sono defilati, se la sono battuta all’inglese. È probabilmente vero. E chi altri? Dicono che C. stesse godendosi la scena al Bar delle Terme dall’altro lato della strada, a sicura distanza. La prudenza non è mai troppa. Con certa gente sono stato troppo generoso. Hanno un solo modo per sdebitarsi: uccidermi. Il colpo proibito: i coglioni illividiti. Non ci tengo tanto quanto Hemingway, però… è pur sempre qualcosa. Stasera non potrei telefonare a nessuno: «Genitals OK». Franco Ferrarotti

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