Ovidio: Epistulae ex Ponto, Libro III. 8862279450, 9788862279451

Sia nei Tristia che nelle Ex Ponto, come emerge particolarmente dal III libro dell'ultima raccolta, Ovidio più volt

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Ovidio: Epistulae ex Ponto, Libro III.
 8862279450, 9788862279451

Table of contents :
Sommario
Premessa
Introduzione, Il canto del cigno caìstrio
Destini di uccelli. Lamenti e canti primi e ultimi: tra prequel e sequel
Nuova poesia nuova e personalizzazione del mito archetipale
I destinatari di P. iii
L’apparato critico
Epistola iii 1: Vxori - All’onestà, moglie, aggiungi il coraggio di chiedere
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 2: Cottae Maximo - Cotta, anche i barbari sanno apprezzare l’amicizia. Prudente, non cattivo, chi abbandona!
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 3: Fabio Maximo - Fabio, ho ‘visto’ Cupìdo; al suo aiuto s’aggiunga il tuo
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 4: Rufino - Canti di trionfo ed ispirazione poetica. C’è un ‘dio’ nel cuore e nella voce dell’esule
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 5: Cottae Maximo - Elogio dell’eloquenza
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 6: Ad amicum celato nomine - Maledetto anonimato! Non giova, soprattutto al Cesare
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 7: Ad amicos - Sperare è vano; morire nelle acque eusine: questo il destino finale
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 8: Maximo - Bigliettino per un dono modesto
Testo - Traduzione
Commento
Epistola iii 9: Bruto - Epilogo. Autodifesa dell’Autore. Il manifesto della poesia esilica
Testo - Traduzione
Commento
Bibliografia
Indice dei luoghi citati
Indice degli autori moderni

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EPI STV LAE EX P O NT O LIBRO III

BIBLIOTECA DI «VICHIANA» 1. * Direttore Crescenzo Formicola Comitato scientifico Lucio Ceccarelli ([email protected]) Andrea Cucchiarelli ([email protected]) Crescenzo Formicola ([email protected]) Giuseppe Germano ([email protected]) Mario Lentano ([email protected]) Michele Napolitano ([email protected]) Antonio V. Nazzaro ([email protected]) Roberto Nicolai ([email protected]) Bernd Roling ([email protected]) Stefania Santelia ([email protected]) Livio Sbardella ([email protected]) Alfonso Traina ([email protected]) Katharina Volk ([email protected]) Redazione Sergio Audano ([email protected]) Olga Cirillo ([email protected]) Donato De Gianni ([email protected]) Rita Gianfelice ([email protected]) Antonietta Iacono ([email protected]) Mariantonietta Paladini ([email protected])

EPISTV LAE EX PON T O LI BRO III P . O V I DI O NASONE introduzione, testo, traduzione e commento a cura di crescenzo formicola

PI S A · R O M A F AB RIZIO SERR A E D ITORE M M X VI I

Volume pubblicato col contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Napoli “Federico II”. * A norma del codice civile italiano, è vietata la riproduzione, totale o parziale (compresi estratti, ecc.), di questa pubblicazione in qualsiasi forma e versione (comprese bozze, ecc.), originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa o internet (compresi siti web personali e istituzionali, academia.edu, ecc.), elettronico, digitale, meccanico, per mezzo di fotocopie, pdf, microfilm, film, scanner o altro, senza il permesso scritto della casa editrice. Under Italian civil law this publication cannot be reproduced, wholly or in part (included prints, etc.), in any form (included proofs, etc.), original or derived, or by any means: print, internet (included personal and institutional web sites, academia.edu, etc.), electronic, digital, mechanical, including photocopy, pdf, microfilm, film, scanner or any other medium, without permission in writing from the publisher. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2017 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. Fabrizio Serra editore incorporates the Imprints Accademia editoriale, Edizioni dell’Ateneo, Fabrizio Serra editore, Giardini editori e stampatori in Pisa, Gruppo editoriale internazionale and Istituti editoriali e poligrafici internazionali. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050542332, fax +39 050574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 0670493456, fax +39 0670476605, [email protected] * i s bn 9 7 8 - 8 8 -6227-9 4 5 -1 e- i s bn 9 7 8 - 8 8 -6227-9 4 6-8

a federica, giovanni e thomas

Sommario

SOMMARIO Premessa 11 Introduzione 15 Il canto del cigno caìstrio 15 Destini di uccelli. Lamenti e canti primi e ultimi: tra prequel e sequel 15 Nuova poesia nuova e personalizzazione del mito archetipale 19 I destinatari di P. iii 28 L’apparato critico 34 Epistola iii 1: Vxori - All’onestà, moglie, aggiungi il coraggio di chiedere 37 Testo - Traduzione 38 Commento 48 Epistola iii 2: Cottae Maximo - Cotta, anche i barbari sanno apprezzare l’amicizia. Prudente, non cattivo, chi abbandona! 79 Testo - Traduzione 80 Commento 86 Epistola iii 3: Fabio Maximo - Fabio, ho ‘visto’ Cupìdo; al suo aiuto s’aggiunga il tuo 101 Testo - Traduzione 102 Commento 108 Epistola iii 4: Rufino - Canti di trionfo ed ispirazione poetica. C’è un ‘dio’ nel cuore e nella voce dell’esule 129 Testo - Traduzione 130 Commento 136 Epistola iii 5: Cottae Maximo - Elogio dell’eloquenza 155 Testo - Traduzione 156 Commento 160 Epistola iii 6: Ad amicum celato nomine - Maledetto anonimato! Non giova, soprattutto al Cesare 171 Testo - Traduzione 172 Commento 176 Epistola iii 7: Ad amicos - Sperare è vano; morire nelle acque eusine: questo il destino finale 189 Testo - Traduzione 190 Commento 194 Epistola iii 8: Maximo - Bigliettino per un dono modesto 203 Testo - Traduzione 204 Commento 206 Epistola iii 9: Bruto - Epilogo. Autodifesa dell’Autore. Il manifesto della poesia esilica 215 Testo - Traduzione 216 Commento 220 Bibliografia 241 Indice dei luoghi citati 261 Indice degli autori moderni 271

Som Som Pre Int Des Nu I de L’a Epi Tes Com Epi non Tes Com Epi 101 Tes Com Epi voc Tes Com Epi Tes Com Epi Ces Tes Com Epi 189 Tes Com Epi Tes Com Epi 215 Tes Com Bib Ind Ind

Premessa

PREMESSA

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l Convegno internazionale che si svolse a Sulmona nel maggio del 1958, Presidente del Comitato organizzatore Ettore Paratore, fu la più importante manifestazione commemorativa italiana del bimillenario della nascita di Ovidio; gli Atti, che hanno costituito un sicuro punto di riferimento nella bibliografia ovidiana, videro la luce l’anno successivo (Ist. di Studi Romani ed., 2 voll.). Non meno ampia l’eco lasciata dal volume parigino curato da Nicolae I. Herescu, Ovidiana. Recherches sur Ovide, publiées à l’occasion du bimillenaire de la naissance du poète (Les Belles Lettres, 1958). In questo 2017, bimillenario della morte del poeta in terra pontica, ancora una volta a Sulmona è a√dato il doveroso compito di intraprendere iniziative italiane e di farsi carico di pianificare la solenne celebrazione. Il Comitato storico-scientifico degli anniversari della Presidenza del Consiglio, riconosciuto l’interesse nazionale della ricorrenza, ha promosso l’organizzazione di una serie di manifestazioni che hanno coinvolto l’impegno delle Amministrazioni e degli Enti culturali dei ‘luoghi ovidiani’: Sulmona, Roma, Costanza. La profonda sensibilità della nostra cultura verso l’autore delle Metamorfosi e dei Fasti, ma anche dei Tristia e delle Epistulae ex Ponto, ebbe attenzione, poco meno di un decennio fa, anche per il bimillenario del suo esilio, l’evento devastante che segnò gli ultimi dieci anni della vita dell’uomo e del poeta. Alla fine dell’aprile del 2016 il Dip. di Scienze Umane dell’Università dell’Aquila organizzava, con largo anticipo, un Convegno sulla poesia esilica di Ovidio, cui partecipai con una relazione intorno alla quinta epistola del iii libro delle Ex Ponto (Elogio dell’eloquenza e virtuosismo poetico. Una Kreuzung generum in Ov. ex Ponto iii 5), che sintetizzava i risultati esegetici esposti qui nel Commento; Giuseppe Gilberto Biondi ha allestito nelle ultime annate di «Paideia» la sezione Ovidiana, dove nel n. 70 del 2016 appare il mio Un dono per Massimo: dardi in scitica faretra (Ov. ex Ponto iii 8), pp. 365-379; una serie di papers sono apparsi in varie Riviste scientifiche, come il mio Further voices di Ovidio relegato: per una lectura di ex Ponto iii 6 uscito in «Vichiana», li 2014 (pubbl. nell’aprile 2016), pp. 77-92: questi eventi culturali e queste iniziative editoriali sono la spia dell’immenso interesse riservato anche alla poesia post-romana del cantore di Sulmona, ancora una volta inverando la sua stessa ‘profezia’ di met. xv 878-879, ore legar populi, perque omnia saecula fama / (si quid habent ueri uatum praesagia) uiuam. Questo Commento delle Epistole del iii libro dal Ponto vuol essere il personale tributo oπerto dall’esegeta appassionato al cantore che ha aperto nuovi orizzonti alla poesia europea. Negli ultimi giorni dell’ottobre dell’8 d.C. il poeta Ovidio era in compagnia di Cotta Massimo all’Elba (P. ii 3, 84), Aethalis Ilua (cong. di Rutgers su aeithali silua di A; cfr. ed. André 53, nota 2), situata in un agglomerato di isole che formavano quello che oggi si chiama Arcipelago Toscano, non distante da Planasia (Pianosa); già, Planasia: vi era relegato Agrippa Postumo, unico nipote di Augusto, come si legge in Tac. ann. i 3, 4, nepotem unicum, fratello di Giulia Minore. Il giovane era stato adottato insieme con Tiberio nel 4 d.C., e per lui, entrato di diritto nell’asse successorio, si prospettava la possibilità, dopo la morte di Gaio nel 2 e di Lucio nel 4, di prendere il posto di Augusto nel di√cile governo dell’impero. Ma una probabile manovra di Livia, fortemente sospettata da Tac. ann. i 6, Suet. Tib. 22, Dio lvii 3, 5-6 (cfr. anche Barrett sp. 100-101), che mirava all’ascesa al potere di suo figlio Tiberio, lo aveva escluso dalla corsa al potere: il giovane, del quale, peraltro, Velleio (a ii 112, 7 parla di prauitas animi et ingenii), Tacito (in ann. i 3, 4 lo definisce rudis bonarum artium), Dione (a lv 32, 1 dice tra l’altro che il giovane thÊ` te ojrghÊ` propetei` ejcrh`to, «si abbandonava a violenti sfoghi di collera») ricordano le accertate incapacità ed instabilità caratteriali, viene relegato prima a Sorrento (Suet. Aug. 65) poi, appunto, a Planasia (Tac. ann. i 3, 4; Dio lv 32, 2), e quindi privato dell’indispensabile

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titolo di adoptatus. Il provvedimento complicava i progetti che Giulia Minore ed il suo entourage della plebs urbana stavano disegnando intorno alla sua persona per conservare la continuità del ramo giulio nella conduzione dell’impero. Il piano organizzato per la liberazione di Agrippa sarebbe fallito, il giovane sarebbe stato fatto uccidere nell’estate del 14 da un centurione per ordine di Tiberio (Tac. ann. i 6, 1) o di Augusto: il racconto dioneo (lvii 3, 5-6) lascia il dubbio. Ma per un Ouidius relegatus, con tutta evidenza tanto filogermaniciano quanto antitiberiano, questa storia era vincolata ad interessi ormai tramontati, scomparsi dai suoi orizzonti, bloccati dall’ ‘inverno’ scitico. Il percorso che non si sarebbe interrotto era quello della poesia, nemmeno nelle fasi assai convulse del viaggio da Roma a Tomi (della Corte-Fasce 21-23; Radulescu 5370; Luisi 2008, 91 sgg.), organizzato in tutta fretta per scongiurare il previsto inasprimento della pena. È questa la nuova materia della poesia ovidiana. È appunto nella terza epistola del ii libro delle Ex Ponto (vv. 83-84) che il poeta rievoca i terribili momenti condivisi con un incredulo Cotta che si interrogava sulla veridicità della notizia di una culpa e sulle ragioni dell’annuncio della condanna che li coglieva quando si trovavano sull’isola; né potremmo mai ricostruire con certezza assoluta il motivo della loro permanenza in quel luogo. Le ipotesi congetturali che vedono nella presenza di Ovidio sull’isola dove era relegato Agrippa Postumo un’occasione, e non fortuita, di incontro tra i due, comportano uno scoperto coinvolgimento di Cotta, anch’egli sul posto, in compagnia del poeta ostile a Livia. Si può ammettere che la cancellazione di certa censura attuata dall’esule nelle ex Ponto andasse oltre la citazione apertis uerbis del destinatario, e lasciasse trapelare una così grave connivenza? Sia nei Tristia che nelle Ex Ponto Ovidio più volte cerca di dimostrare l’infondatezza delle ragioni che hanno decretato la sua relegatio, ma, nello stesso tempo, ammette l’atto di giustizia compiuto dal princeps: la ristretta destinazione del carmen e la sostanza dell’error provocano la dicotomia e gli fanno vivere un evidente conflitto; il poeta avverte di essere vittima di giochi di potere mai contrastabili, e si rende sempre meglio conto del vuoto aperto intorno a lui. Destino degli esuli! L’atmosfera torbida che si è creata intorno alla sua figura gli ha ispirato la scrittura di testi denuncianti l’eccessiva rigidità da parte di chi ha sottratto un diritto di libertà non più restituendolo. La nostra attualità vive un momento storico-culturale che, nei vari livelli, fa registrare la costante del sopruso, col pullulare di meschine manovre ispirate da furbizia, disonestà intellettuale, sì, emergenti alle coscienze, eppure quasi neutralizzate da pressoché generale acquiescenza, da apparire, con disarmante simplification, «fenomeno dei tempi», definizione che, però, già ne segnala l’eccezionalità, almeno per le dimensioni assunte e la diπusione gloriosamente guadagnata. Ebbene, proprio queste caratteristiche ‘ambientali’ possono consentire una più lucida presa di coscienza e disvelare significati sfuggiti in altre epoche, pronte a focalizzare l’attenzione su altri interessi di lettura, perché di altra natura erano allora le interrogazioni rivolte al Testo o le sollecitazioni da esso destate. Il rilievo di questi significati altri ed ulteriori, non già, quindi, esclusivi ma coesistenti con quelli espressi in momenti diversi, non è viziato da tendenziosi pregiudizi; anzi il rilievo di quei significati è meglio esaltato da consentanea ricettività, che, a sua volta, abilita ad un’esegesi che arricchisce la comprensione del messaggio antico. Ovidio, prima e più di Seneca, e ben più di Cicerone (al poeta del carmen e dell’error non toccò un periodo breve, o comunque definito, di relegatio, anzi toccò di non più rientrare in patria), ha cantato la speranza e la disillusione, ha confidato in un aiuto e ha condannato l’amicitia mortificata da comportamenti proditorii, ha manifestato di confidare in un amore coniugale e, con molta probabilità, ha confessato addirittura l’opportunismo di una moglie, che ha finito col condividere quella ‘politica’ dell’esclusione. Da una tale condizione psicologica, aggravata dalla restrizione ambientale davvero oppressiva, scatta la molla dell’ironia che, associata al rammarico e al dolore, al cruccio e alla rassegnazione, verga, in un evidente crescendo, tutta la produzione ultima di Ovidio. Nella sfragiv~ dei Tristia, la sua prima Gedichtsammlung esilica (anche il l. iv presenta, come si sa, nella 10a ed ultima elegia il sigillo personale dell’autore, a chiusura dei

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primi quattro libri), qui monet ut facias, quod iam facis, ille monendo / laudat, et hortatu comprobat acta suo (v 14, 45-46), evidenti sono i segnali di un’arguzia mai spenta. Nella sfragiv~ dei Pontica, Quid iuuat extinctos ferrum demittere in artus? / non habet in nobis iam noua plaga locum (iv 16, 51-52), ugualmente ad ironia, che può sembrare stanchezza (o è anche stanchezza, intesa nel senso di coscienza dell’inutilità), va ascritta una fredda considerazione, deludente per i ‘nemici’: non c’è più spazio, volontà cioè, nel poeta per colpire ancora; piuttosto «his poetry lives on» (Martin Helzle 1989, 197).

Introduzione, Il canto del cigno caìstrio

Destini di uccelli. Lamenti e canti primi e ultimi: tra prequel e sequel

INTRODUZIONE Non liber hic ullus, non qui mihi commodet aurem uerbaque significent quid mea norit adest. (Ou. tr. v 12, 53-54) Nothing is only one thing. Jane Austen

Il canto del cigno caìstrio Destini di uccelli. Lamenti e canti primi e ultimi: tra prequel e sequel

A

l coro che le chiede perché si strugga in un aπanno inconsolabile, ajmhvcanon a[lgo~, Elettra, l’Elettra sofoclea, definendo stolto chi non conserva memoria dei genitori morti miseramente, riconosce una perfetta consonanza della sua condizione di spirito con il dolore del querulo uccello, messaggero di Zeus, che col suo canto piange per l’eternità la morte di Iti: ajll’ ejmev g’ aJ stonovess’ a[raren frevna~, / a} “Itun, aije;n “Itun ojlofuvretai, / o[rni~ ajtuzomevna, Dio;~ a[ggelo~. 1 Orazio nell’ultima ode del l. ii dichiara la sua immortalità (topos di prologhi ed epiloghi) ottenuta grazie al privilegio di vivere un’altra vita, quella del cigno, albus ales. 2 La metamorfosi, per metempsicosi, nell’uccello sacro ad Apollo, il dio dei poeti, sembra simile a quella di Orfeo 3 di cui si legge in Platone resp. x 620a: Er dice di aver assistito ad uno spettacolo degno di esser visto, uno spettacolo ridicolo e meraviglioso, [ijdei`n] geloivan kai; qaumasivan (scil. qevan), dove le anime sceglievano per sé le vite che corrispondevano a quelle già vissute. Osservò Er, ad es., il comportamento dell’anima di Orfeo, yuch;n thvn pote ∆Orfevw~ genomevnhn kuvknou bivon aiJroumevnhn: essa optò per la vita del cigno, per non nascere dal grembo di una donna, al pensiero che delle donne era rimasto vittima. La novità nell’uso del mito consiste nel fatto che il Venosino in questo componimento di commiato cancella la prospettiva della propria morte con l’idea di continuare la vita nella vita del cigno, che gli garantirà di non varcare la soglia del mondo degli Inferi. Destini di uccelli, che sovente hanno animato la narrazione mitologica trasmessa anche e soprattutto attraverso la poesia, classica e non classica, destini altrettanto spesso intrecciati con l’idea della morte, nelle forme variate da diπerenziazioni o addirittura contrapposizioni, che i poeti hanno liricizzato nei modi e con l’intensità che l’esperienza personale esigeva e dettava.  





utque iacens ripa deflere Caystrius ales dicitur ore suam deficiente necem, sic ego Sarmaticas longe proiectus in oras e√cio tacitum ne mihi funus eat.

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1  Soph. Elettra 147 sg.: «Il mio animo si accorda / con il lamentoso, spaurito uccello, / messaggero di Zeus, / che “Iti, Iti” / ripete sempre invocando» (trad. Angelo Tonelli, Eschilo, Sofocle, Euripide. Tutte le tragedie, Milano, Bompiani, Il Pensiero occidentale, 20132). 2   Iam iam residunt cruribus asperae / pelles et album mutor in alitem / superne, nascunturque leues / per digitos umerosque plumae (carm. ii 20, 9-12): la tecnica descrittiva della metamorfosi sorprendentemente appare anticipativa dello stile ovidiano. Luciano Nicastri, Ovidio e i posteri, in Aetates Ovidianae. Lettori di Ovidio dall’Antichità al Rinascimento, a cura di Italo Gallo e Luciano Nicastri, Napoli, esi, 1995, pp. 7-25: 25, parla di Ovidio a Tomi, ‘uccello del Caystro’, come «poeta di verità, lui stesso materia dolorante della sua poesia», che invia messaggi alle nostre generazioni, esposte alla desolazione e al deperimento dell’io, sfigurato da «una metamorfosi subìta». 3   Su questo orientamento esegetico cfr. Antonio La Penna, Orazio. Le Opere. Antologia, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 339; Elisa Romano, Q. Orazio Flacco. Le Opere, i, Le Odi, Il Carme Secolare, Gli Epodi, tomo secondo, Commento, Roma, Ist. Poligr. e Zecca dello Stato, 1991, p. 718.

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introduzione 11

«e come in riva giacente piange l’uccello caìstrio 1 – dicono – la sua morte con voce smorzata, così io sbattuto lontano, sui sarmatici lidi, non lascio la fine mia andar silenziosa».  

Anche il poeta che sconta la sua relegatio tra la gente getica ricorre al mythos del cigno, e non è casuale che la citazione dell’uccello canoro sacro ad Apollo sia in un’elegia proemiale, quella dell’ultimo libro dei Tristia (tr. v 1, 11-14). Ovidio, tuttavia, impiega il mito in un modo ancora una volta nuovo: il cigno rimane il simbolo del tramonto, ma si carica di una valenza nuova e assolutamente significativa di tutta la produzione post-romana, che si sorregge su una tenacia, questa sì intramontabile, con la quale il cantore si sottrae al silenzio. Publio Ovidio Nasone sigla, all’interno del disegno progettuale complessivo delle elegie dell’esilio, il suo perseverante proposito di persistere nella poesia. Far poesia è, per la coscienza di chi, come lui, ha trascorso la vita a far poesia, erotica epico-mitologica civile, ma è poi piombato nella condizione di relegato, l’unico profilo garante di una esistenza possibile, o, meglio, l’unico rito di una verosimile sopravvivenza; evidentemente mutano le spinte dell’ispirazione e la materia del poetare, in maniera decisiva influenzate dalla novità della situazione. I canti da Ovidio inviati dalla terra tomitana sono l’ultima voce di un uomo libero, la risposta psicologica, e perciò profondamente umana nella sua personalizzazione, ad un provvedimento drastico, violento, forse inatteso, nella convinzione, priva di fondamento in verità, che le sue sfide, ancorché provocatorie ed irritanti, potessero essere immuni dalle ‘divine’ aggressioni del detentore di un riconosciuto potere assoluto, di una misura fin allora ignota alla mentalità romana. Nella pratica poetica il lamento si nutre di un impasto di sentimenti, stupore, paura, angoscia, indignazione, ma anche disapprovazione, contestazione, ironia, con le quali sono evidenziate e condannate mancanze ed ambiguità della politica augustea; a fronte di essa il ‘grande poeta’ del momento, il più grande, aveva insistentemente espresso dissenso, osando finanche, in modo implicito, alluso, tentarne la correzione attraverso il suggerimento di un percorso alternativo, senz’altro più aderente alla realtà, e, soprattutto, almeno a suo modo di vedere, intellettualmente più onesto. Questo poeta sottopone il linguaggio, a servizio di questa funzione enunciativa e, per certi versi, ideologica, a manovre di una tecnicalità già largamente sperimentata, e perciò comuni, eppure geniali per una metodica intra- ed intertestuale che dà l’impressione di essere addirittura sperimentale; prelievi frequenti da realtà testuali, proprie e/o altrui, 2 che hanno segnato stili e configurato gevnh, ne consacrano una sorta di re-investitura in quanto ne rinnovellano la memoria poetica, ma, nel contempo, ne dimostrano la duttilità e la potenziale plurisemanticità. 3  



1   La tradizione dei cigni «lungo collo» che in innumerevoli schiere volteggiano «sulle correnti del Caìstro» risale, come è noto, ad Hom. Il. ii 459-461. Ovidio a met. v 386-387 cita il Caistro, non illo plura Caystros / carmina cycnorum labentibus audit in undis («nemmeno il Caistro ode così tanti / cigni cantare sopra le onde della sua corrente», trad. Chiarini). Gianpiero Rosati, Ovidio. Metamorfosi, libri v-vi, vol. iii, comm. di G. R., trad. di Gioachino Chiarini, Fond. Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 2009, p. 203, osserva che «Può avere […] valore ominoso anche il fatto che il canto del cigno è particolarmente melodioso in prossimità della morte». Il cigno è simbolo di poesia: lo stesso Ovidio a met. ii 252-253, et quae Maeonias celebrabant carmine ripas / flumineae uolucres medio caluere Caystro, «bruciarono in mezzo al Caistro gli uccelli fluviali / che un tempo aπollavano di canti le sponde di Meonia», trad. Koch; cfr. anche la nota di commento di Alessandro Barchiesi, Ovidio. Metamorfosi, libri i-ii, vol. i, comm. di A. B., trad. di Ludovica Koch, Fond. Lorenzo Valla, Milano, Mondadori, 2005, pp. 256-257. Sulla frequenza della figura del cigno nella poesia latina interessante il pur datato Ernest Whitney Martin, The birds of the Latin Poets, Stanford, Stanford University Press, 1914 (e successive ristampe), pp. 82-94. 2   Si vedano le lucide pagine di Rita Degl’Innocenti Pierini, Ovidio e l’ombra di Virgilio. Riscritture virgiliane di Ovidio esule, in Ead., Il parto dell’orsa. Studi su Virgilio, Ovidio, Seneca, Bologna, Pàtron, 2008, pp. 41-77. 3   Riporto due esempi tratti proprio da questo terzo libro delle ex Ponto, riproducendone in buona parte il commento.

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introduzione

L’incipit della prima epistola di questo terzo libro ex Ponto (è quanto si osserva nel comm. ad l.), ad es., Aequor Iasonio pulsatum remige primum, per alcuni aspetti richiama alla memoria poetica l’esametro di attacco dell’epillio catulliano, Peliaco quondam prognatae uertice pinus: in entrambi i versi si rievocano i primordi (primum / quondam), remoti, della navigazione. Si avverte tra i due testi specularità nell’uso di determinati stilemi: il ricorso alla sineddoche: remige (il sing. è un poetismo), il remo che nella visione catulliana spazza l’azzurra distesa del mare, v. 7, è uariatio di pinus, il legno destinato a galleggiare sulle onde limpide; l’uso dell’aggettivo derivato dal nome proprio, Peliaco … uertice ~ Iasonio 1 … remige, iuncturae isoprosodiche, con evidente eπetto sonoro prodotto dall’identità vocalica dei sostantivi. La combinazione sintagmatica intenzionalmente favorisce l’emersione alla memoria dell’ipotesto, agevolata, infatti, dallo stesso eπetto oltre che di sonorità anche di ritmo (parola coriambica + parola dattilica). Nell’immagine catulliana si percepisce il senso di rammarico per questa ‘prima volta’ nella storia dell’uomo; Ovidio ha ‘riscritto’ l’incipit del modello proprio perché sente come proprio quel rincrescimento, ed il riuso, per quanto parziale ma in ogni caso rimarchevole, è giustificato da quella profonda condivisione spirituale; una sorta di condanna nei confronti di chi in epoca primordiale aprì all’uomo, con un atto di audacia, la possibilità di solcare i mari, e di chi, avvalendosi di quella invenzione, avrebbe solcato acque sconosciute, come quelle pontiche, e pertanto investendosi, inconsapevolmente, del ruolo di prw`to~ eujrethv~ di una rotta marina che si sarebbe un giorno rivelata tragica per un poeta sulla via dell’esilio. Non possiamo dire, inoltre, se l’intertestualità sia stata dettata da un ulteriore e più profondo coinvolgimento empatetico, e in caso positivo in quale misura, con quali intenzioni, dunque, autobiografiche il Sulmonese, in questa epistola inviata alla moglie, utilizzasse il mito, portatore di una storia di tradimento ed infedeltà nell’eros, di vendetta per l’eros, con un epilogo di esemplare tragicità. Forse quelle intenzioni sono debolissime, o forse anche solo debolmente immaginarie, ma significativa è l’attribuzione della responsabilità di un accidente che riguarda la vicenda personale del poeta ad eventi che risalgono a fasi originarie dello sviluppo tecnologico della vita umana, che, in fondo, sottolineano l’impossibilità che quella ‘disgrazia’ non accadesse. A P. iii 3, 75, per portare solo un altro esempio, Ovidio preleva una iunctura, crimen obumbres (tu licet erroris sub imagine crimen obumbres), nell’ambito della rJh`si~ di Cupìdo in risposta a quella del poeta nel corso di un incontro, per così dire surreale, avvenuto in una cupa penombra notturna: il dio lo ammonisce sul fatto che egli spacci per error quello che è un crimen. Del nesso conosciamo due precedenti occorrenze, l’una ovidiana, her. 17, 49-50, 2 nec ullus / error, qui facti crimen obumbret, erit, «non ci sarà errore che mascheri il mio colpevole comportamento», dice Elena a Paride, l’altra virgiliana, Aen. xi 223, magnum reginae nomen obumbrat, «lo protegge il gran nome della regina», parole pronunciate da Drance che recrimina sul fatto che Turno insista a nascondersi e che lo faccia impunemente. Il verbo, nel valore con cui giustamente lo classifica l’old in 2b, «to screen, cloak», è usato dal poeta esilico con la stessa sfumatura semantica delle due occorrenze precedenti, alle quali egli ha guardato come modelli cui attingere pienamente per contiguità non solo lessicale ma anche e soprattutto tematica (la somiglianza tematica di principio prevale di gran lunga sulla opposizione o estraneità tematica di merito). Ovidio elegiaco nel passo delle Heroides aveva preso spunto dal passo eneadico, per esprimere un continuato proposito di mancata assunzione di responsabilità, consumato con la tecnica della dissimulatio;  



1   L’aggettivo aveva acquisito un prestigio poetico con Prop. ii 24, 45, iam tibi Iasonia nota est Medea carina, da cui il poeta esule trae anche la figura della sineddoche; l’esegesi del verso properziano ha molto impegnato i filologi: cfr. Paolo Fedeli, Properzio. Elegie. Libro ii, introduzione, testo e commento, arca, Liverpool, Francis Cairns ed., 2005, pp. 700-701. 2   Secondo la numerazione fissata nell’edizione curata da Heinrich Dörrie, P. Ovidii Nasonis “Epistulae Heroidum” quas Henricus Dörrie Hannoveranus ad fidem codicum edidit, Berolini et Novi Eboraci, Teubner, 1971; la stessa numerazione nell’edizione di Arthur Palmer, P. Ovidii Nasonis Heroides, Oxford, Clarendon, 1898.

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nel passo dell’epistola a Fabio Massimo, a sua volta, palesemente rievoca il passo delle Heroides, riletto nel suo senso autentico, connesso cioè alla sfera amorosa, a cui, forse nemmeno con rarefatta intenzione, si allude con la ripresa dei due termini, error e crimen, che, come un’icona, notoriamente semantizzano la colpa, e, quindi, le ragioni del provvedimento relegativo, sia pur lasciandole nell’alone del mistero. Il dio dell’amore usa il linguaggio che è istituzionale del suo ruolo, quello erotico, per esprimere, ora, una situazione che erotica in sé non è ma che ha qualche analogia psicologica con la situazione erotica, o, forse, deriva da una vicenda che implicazioni erotiche aveva avuto. Opzioni espressive, lessicali sintattiche stilistiche, che avevano fatto certa poesia dell’antico tenerorum lusor amorum, ma anche di Catullo, di Virgilio, di Orazio, degli elegiaci, per rimanere in àmbito latino, approdano a risultati testuali nuovi, per soddisfare la finalità di esprimere un quadro esistenziale contiguo o distante nelle esteriorità, ma, nella Stimmung, generata dalla lontananza per esilio, solo parallelo e mai convergente, che mai con i suoi mezzi la poesia latina aveva gestito, eppure da subito era divenuto un modello in grado di dettare un’impostazione semiotica rivelatasi fortunata. A partire da Seneca a Rodi (autore degli Epigrammi, sempreché non siano spurii – il ‘clima’ è senecano, come è stato osservato 1 – ma per il nostro discorso nulla cambierebbe) ed arrivare sino a noi, il linguaggio del lamento e della soπerenza dell’esule sarebbe diventato, come i frequenti riecheggiamenti dimostrano, paradigma delle modalità espressive della soπerenza di uomini confinati dal potere politico lontano dalla patria e dagli aπetti quotidiani. La vicenda biografica di Severino Boezio, condannato alla restrizione della libertà da Teodorico, assimilabile a quella di Ovidio relegato nel Ponto, avrebbe orientato il filosofo verso un’identica scelta letteraria: l’autore della Consolatio Philosophiae, infatti, apre il suo trattato con un componimento in undici distici elegiaci che riprende evidentemente la ratio metrica dell’autore dei Tristia, l’unica titolata dalla tradizione per il canto delle querimoniae, 2 la ‘forma’ poetica che «gli riga il volto di lacrime», v. 4, fletibus ora rigant, eco dell’ovidiano lacrimas … quibus ora rigabas (P. ii 11, 9), ma che anche, a lui maestus senex, «allevia le disgrazie», [Musae] solantur mea fata, v. 8, che richiama con qualche variante P. iii 6, 14, aspera fata leues (come Ovidio dice all’amico che nega la pubblicizzazione della sua identità). Ovidio incontra molta solidarietà nella sensibilità moderna che trova nella voce del suo lamento la chiave di lettura per confessare la fragilità e la forza insieme che derivano dall’esperienza penosa dell’esilio, o dalla penosa esperienza di vita tout court, segnata da quegli ostacoli che non crollano mai nella esistenza di un uomo che a maggior ragione, nonostante tutto, si sente un uomo libero. Sembra che il poeta latino, deportato, strappato agli aπetti ed alle abitudini, vanamente escluso dal ‘vizio’ del poetare, abbia scritto per i posteri, che si avvedono di quel tacito ammiccamento e si nutrono della sua parola garante della possibile sopravvivenza dello spirito artistico alla mortificazione imposta dal punitore di turno. Alexander Puškin visse l’esperienza del confino nella Russia meridionale e nutrì per la poesia del Sulmonese un interesse molto forte, dimostrato in varie occasioni, soprattutto nell’epistola  



1  Cfr. Luca Canali, L’enigma degli “Epigrammi”, in Lucio Anneo Seneca. Epigrammi, introd. e trad. di L. C., note di Luigi Galasso, Milano, bur 1994, p. 8; Annamaria Ruta, Lucio Anneo Seneca. Epigrammi, Palermo, Novecento, 1996; Jo-Marie Claassen, Exile, death and immortality: voices from the grave, «Latomus», 55, Bruxelles, 1996, pp. 571-590 (analizza gli epigrr. 232, 236, 237, 409, 410, 416, 417, 418 R. in relazione al motivo ovidiano dell’immortalità che la poesia sa garantire). Cfr. ancora Juan A. González Iglesias, ¿También poeta menor? Los epigramas atribuidos a Séneca, in Séneca, dos mil años después. Actas del Congreso Internacional conmemorativo del Bimilenario de su nascimiento, Córdoba, 24 a 27 de Septembre de 1996, Miguel Rodriguez-Pantoja editor, Universidad de Córdoba y Obra Social y Cultural Cajasur, Córdoba 1997, pp. 405-412 (sulla base di elementi biografici e testuali si dichiara a favore dell’autenticità senecana). 2  Cfr. Paola Pinotti, Gli elegiaci. L’epica ovidiana, in Senectus. La vecchiaia nel mondo classico, ed. Umberto Mattioli, vol. ii, Bologna, Pàtron, 1995, pp. 137-182: 170-171.

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A Ovidio, K Ovidiju («Qui ravvivando i sogni della mia fantasia, / ho ripetuto, Ovidio, della tua poesia / i quadri, ricercandone il riflesso penoso, / ma lo sguardo tradiva il ricordo insidioso»), composta nel dicembre del 1821 e pubblicata due anni dopo. Una solidale rievocazione di Ovidio è, inoltre, nel poema Gli zingari, Cygany, del 1824, dove un vecchio, parlando ad Aleko, dice: «Vive tra noi un’antica tradizione / che da uno zar un tempo fu mandato / qui da noi per non so che punizione / un uomo del sud […]. Aveva il dono prezioso / del canto […]. Viveva sulla riva dell’Istro […], solea dire / che per qualche delitto un nume irato / lo castigava […]». Puškin riteneva, erroneamente, di distinguersi dal poeta latino, perché questi avrebbe miseramente dedicato la sua poesia al suo signore, Augusto, mentre lui non vendeva la sua coscienza e la sua coscienza poetica ad Alessandro I. 1 Rilevante anche quanto si legge nell’viii strofe del primo capitolo del «romanzo in versi» Evgenij Onegin, dove la scienza in cui Eugenio era maggiormente versato, era «[…] la scienza del tenero amore, celebrata una volta dal Nasone, / onde dannato – ahi, dura espiazione! – / delle steppe moldave allo squallore, / il poeta brillante e turbolento / lungi dalla sua Italia s’era spento». Iosif Alexsandrovič Brodskij, uno dei maggior poeti russi del ’900, raggiunto dal provvedimento di emigrazione immediata, che preferì all’alternativa del carcere o dell’ospedale psichiatrico, nella Lettera a Orazio, elucubrando sulla condizione dell’esule, 2 ricorda in On Grief and Reason, tra l’altro, l’esperienza esilica di Ovidio e dice che il poeta latino si pone tra James Mason e lo «sguardo grigio, invernale di Paul Newman». Egli crea una sorta di lusus immaginando che il poeta di Sulmona venga espulso dalla Scizia e dirottato nello splendore della Roma marmorea. Sembra una divagazione, ma in realtà è in gioco la definizione di ‘luogo della libertà’ e di ‘luogo della non-libertà’. I marmi di Roma appaiono più spettrali, opprimenti dei ghiacci del Ponto. Il confino tomitano di Ovidio diventa poi materia di ispirazione per una assai fantasiosa trasfigurazione del mito in realtà. È il ‘caso letterario’ creato da Christoph Ransmayr (Wels, Austria, 1954), che pubblica nel 1988 Die Letzte Welt, edito in Italia col titolo Il mondo estremo per i tipi della Feltrinelli. 3 Nel romanzo l’etnologo e filosofo austriaco organizza l’incontro ideale dell’esperienza esilica di Ovidio con la profetizzata, da Ovidio, eternizzazione delle Metamorfosi e di se stesso. 4 Il ritrovamento della casa di Ovidio, il rinvenimento di pietre con versi incisi del Poeta, la fantastica recitazione all’alba di versi tratti dal poema dei miti epici sono il segnale trionfale non solo della sopravvivenza di una voce vanamente sommersa dalla censura, bensì della sua prestigiosa asseverazione. «[…] these poems [Ovid’s exilic poetry] would provide a starting point and even an inspiration for writers in various forms of internal and external exile for the next two thousand years»: le poche, tra le tante, esperienze letterarie cui si è or ora accennato oπrono solide premesse che l’aπermazione di Patricia J. Johnson 5 non sarà smentita dalla realtà.  









Nuova poesia nuova e personalizzazione del mito archetipale Poco più di cinquant’anni fa Edward John Kenney 6 pubblicava un articolo, breve ma densissimo, col quale indicava alla letteratura critica la necessità di rivolgere la dovuta attenzione alla poesia esilica di Ovidio, riconoscendone qualità e valore. L’autorevolezza dello studioso e la  

1   Le traduzioni (rispettivamente pp. 138, 214, 722) e le riflessioni (pp. 579-580) riportate sono di Ettore Lo Gatto, Puškin. Lirica. Liriche, Poemi, Fiabe, Eugenio Oneghin, Firenze, Sansoni, 1968; sulla presenza ovidiana nell’opera di Puškin si veda inoltre David Houston, Another Look at the Poetics of Exile: Pushkin’s Reception of Ovid, 1821-24, «Pushkin Review», 10, 2007, pp. 129-150. 2   Si deve la citazione ad Alessandro Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Bari, Laterza, 1994, p. iv sgg. 3   «Le Comete», Milano, 2003 (trad. di Claudio Groff); «Universale Economica», ibid., 2009. 4   Si veda, evidentemente, il celeberrimo finale, xv 871-879: […] perque omnia saecula fama / (si quid habent ueri uatum praesagia) uiuam. 5  Cfr. Ovid’s Livia in Exile, «cw», 90, Bethlehem, 1997, pp. 403-420: 420. 6  Cfr. The Poetry of Ovid’s Exile, «Proceed. of the Cambridge Philosophical Society», 11, 1965, pp. 37-49.

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validità delle sue argomentazioni avrebbero aperto le porte ad una alacre attività esegetica, che forse, proprio in questi ultimi anni, ha dato i risultati più significativi. Gli studi monografici successivi, di Benedum, 1 Froesch, 2 Nagle, 3 Evans, 4 e gli autorevoli Commenti ai Tristia e a buona parte delle Epistole dal Ponto che hanno visto la luce dagli anni Ottanta in poi, hanno impresso una notevole accelerazione verso una più lucida comprensione ed una conseguente più consistente riabilitazione di una poesia un tempo liquidata con giudizi frettolosi e sommari, responsabili di una relegazione, è il caso di dire, ad un livello di modestia rapportabile alla commiserevole condizione di un poeta cui una relegatio improvvisa ed inattesa cambiava la vita. L’impegno poetico e l’autoconsacrazione alla composizione poetica, la personale Dichterweihe, evidentemente non sono aπatto vincolati alla eventuale condizione di miseria di un poeta, sia anche egli povero, a qualsiasi titolo colpito dalle sciagure dell’esistenza, lutti, abbandoni, confische, misure restrittive della libertà, pene espropriative, condanne all’esilio o alla relegatio. Anzi! Ovidio ora è autore di poesie per le quali invoca il perdóno per averle composte con uno specifico intento di umana opportunità: non gloria nobis / causa sed utilitas o√ciumque fuit (P. iii 9, 55-56), ma non si deve commettere l’errore di interpretare quelle parole come l’ammissione di una deminutio della propria capacità artistica. Il Sulmonese si inventa ancora una volta poeta d’avanguardia, capace di creare ex nouo soluzioni poetiche che si sorreggono però su bagagli tecnici già largamente collaudati. Questo era il tempo in cui i carmina, che publica sono di norma, diventassero u√cialmente publica carmina pur simulando di non esserlo, pur dando, cioè, l’impressione di essere delle comunicazioni private, dove l’io parlante, impegnato nella Ich-Erzählung, coinvolge nel discorso una persona terza cui si rivolge col du-Stil. Le richieste rivolte in privato ai destinatari, presumibilmente spogliate della letterarietà presente nelle epistole poetiche, dovevano nella sostanza del lamento e della richiesta corrispondervi. L’epistola letteraria, piuttosto, è uno strumento nelle mani del poeta per rendere pubblica la domanda fatta pervenire, anche allo stesso destinatario, ma in forma privata. In questo senso essa si rivela uno strumento di propaganda più o meno velatamente, più o meno ironicamente critica verso il regime, da un certo momento in poi verso gli ‘amici’, più o meno autorevoli, fors’anche verso la moglie. Eterna trasgressione, che a tratti assume i contorni dell’arguto decostruzionismo di una u√cialità monumentale eppure percepita come falsa e codina, manifesto di una insoπerenza che sfocia anche in una serpeggiante contestazione: queste classificazioni potrebbero dare un titolo coordinante alla complessiva produzione poetica ovidiana, che appare sempre più come un cimento perenne, e perennemente malizioso, contro le ipocrisie di un regime che in cambio di una ritrovata pace, agognatissima, ubriaca le coscienze ed incassa consensi, da un certo momento in poi soprattutto clientelari. L’occasione ispirativa di Tristia ed Epistulae ex Ponto, una vicenda, politica e personale insieme, di una tipologia mai prima liricizzata, sol che ne avesse avuta l’intenzione l’autore poteva aprire la strada ad un genere intentato, con canoni che stravolgessero completamente le dinamiche compositive precedenti; ma sotto la spinta di quale finalità? Un poeta elegiaco prima, epico sui generis poi, glorificatore dei fasti di Roma ancora dopo, a quale format poetico poteva aderire intenzionato com’era a non abbandonare la poesia? Continuamente impegnato a servire il suo inesauribile studium famae, come scriveva in rem. 393, Ovidio aveva da sempre curato il ‘culto della fama’, vissuto il brivido del successo, il suo cavallo principio cliui […] anhelat, scriveva a v. 396 nell’ambito dell’enunciazione programmatica, centrale nel poemetto eroto-didascalico. Poteva un uomo dell’arguzia e degli ideali libertarî che  

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 Cfr. Jost Benedum, Studien zur Dichtkunst des späten Ovid, Diss. Gießen, Chemoprint, 1967.  Cfr. Hermann Hartmut Froesch, Ovids Epistulae ex Ponto i-iii als Gedichtsammlung, Diss. Bonn 1968; Id., Ovid als Dichter des Exils, Bonn, Rhein. Friedrich-Wilhelms-Universität, 1976. 3  Cfr. Betty Rose Nagle, The Poetics of Exile: Program and Polemic in the “Tristia” and “Epistulae ex Ponto” of Ovid, «Collection Latomus», 170, Bruxelles, 1980. 4  Cfr. Harry B. Evans, Publica carmina: Ovid’s Books from Exile, Lincoln, Univ. of Nebraska Press, 1983. 2

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attraversano un’opera come i Remedia amoris, nonostante tutto, cedere ad una poesia cortigiana resistendo alle istanze di ironia caratterizzante della sua personalità e deputata a configurare il suo pensiero? Già Hermann Hartmut Froesch 1 mezzo secolo fa sottolineava che pure il solo ricorso alla convenzione dell’apologia letteraria è dettato da spinte di ironia. Ebbene, l’autore delle Heroides ma anche e soprattutto dell’Ars amandi sceglie di dare una continuità, sia pur nella forzata discontinuità della Stimmung e della Weltanschauung, proprio a quella poesia condannata; il genere elegiaco torna al centro dell’ispirazione ovidiana in una sorta di Ringkomposition. È evidente che i contenuti che il poeta sa di voler esprimere appartengono alla sua sfera personale, e che quindi a dominare dev’essere l’‘io’, l’‘io’ che trasmetta le sue lagnanze e formuli le sue richieste di aiuto ad un destinatario, e questo piano di comunicazione non può realizzarsi che in forma epistolografica. Per queste finalità, per la nascita di una rinnovata poesia nuova, dopo l’esperienza neoterica, egli non ha bisogno di creare un genere letterario nuovo; basta riprendere quella forma poetica che lo ha impegnato nella cosiddetta fase giovanile, già deputata ad innalzare una Klage, di un’herois o di un exclusus amator, e riadattarla per le nuove condizioni di vita e le corrispondenti nuove istanze, nelle quali rientra anche una serie, variamente dettagliata, di vademecum finalizzata all’acquisizione di un fauor. Una ‘poesia nuova’ che non poteva incontrare, evidentemente, l’unanime consenso della critica, che, peraltro, Ovidio aveva abituato a ben altri contenuti. Accade sempre così; così era stato anche per i neóteroi. Tutt’altro eπetto aveva prodotto sull’audience la produzione epistolografica in versi di Orazio (l’inuentor del format poetico del ‘libro di lettere’), 2 che nelle Epistulae conservava il discorso nell’ambito di contenuti già trattati nei Sermones. Si ripete in un certo senso quanto era avvenuto con le Heroides, dove la parola era chiamata a manifestare il desiderium, che è la soπerenza per una assenza, secondo la modularità elegiaca con la sua specifica Stimmung. Ora la parola è impegnata a rappresentare il tentativo di colmare un altro vuoto con lo strumento dialogico poco più che virtuale della epistolarità. Lo sfogo del sentimento ironico autoriale, che va, in ogni caso, oltre il rapporto tra mittente e destinatario, è la componente più spiccatamente nuova del progetto letterario nel suo insieme, che non è, anche per questo, un esercizio di meccanico recupero. Non ci sono sostanziali diπerenze di linguaggio rispetto alle opere giovanili, o, meglio, è evidente la volontà, si direbbe ostentata, di impiegare antichi stilemi, che, gestiti con la tecnica del riuso, son esposti ad un matching che può solo esibire l’eccezionale perizia compositiva. L’Ovidio che ha fatto parlare personaggi della leggenda, ora, per rappresentare una realtà che lo riguarda in modo diretto, cerca, a tratti, gli stessi accenti di allora, che diventano espressione di drammmatica verità: le scritture si riconoscono nella loro identità ma le divaricazioni dei referenti provvedono a segnarne le dovute distanze. Come dice Enk, «Tantopere diπerunt hae elegiae a Tibulli Propertii ipsiusque Ovidii elegiis amatoriis, ut Ovidium in Tristibus et Epistulis ex Ponto novi generis carminum creatorem nominare audeamus». 3 Ovidio ha potuto attingere al patrimonio linguistico e poetico con cui aveva dato vita ad una prima stagione artistica perché della soπerenza delle eroine, un tempo cantata per mostrare i mille volti del dolore e dell’amore, ora avverte gli stessi morsi, perché  





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 Cfr. Epistulae ex Ponto i-iii …, cit., pp. 157-162.   Per i caratteri generali della questione cfr. Karl Franz Otto Dziatzko, «re», s.u. Brief, iii 1, Stuttgart, 1897, pp. 836-843: 842; Johannes Sykutris, «re», s.u. Epistolographie, Suppl. v, Stuttgart, 1931, pp. 185-220; per il caso specifico del Venosino vd. Oswald A. W. Dilke, Horace and the verse letter, in Horace, ed. Charles Desmond Nuttall Costa, London-Boston, Routledge and Kegan Paul, 1973, pp. 94-112. Evidentemente Cicerone, in ambito prosastico, aveva avviato al rango letterario il genere epistolografico. In poesia alcuni frammenti luciliani (181-183 M.; merita attenzione anche il fr. 341 M., epistula item quaeuis non magna poema est, dal l. ix, in merito alla distinzione che il poeta arcaico fa tra ‘poesia’ e ‘poema’) sono le prime testimonianze in nostro possesso di questo limitato genere letterario: cfr. Roland Mayer, Horace, Epistles, Book i, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, p. 2; Andrea Cucchiarelli, Orazio. L’esperienza delle cose (Epistole, Libro i), Venezia, Marsilio, 2015, pp. 30-31. 3  Cfr. Johannes Petrus Enk, Disputatio de Ovidii “Epistulis ex Ponto” Sulmone habita mense maio anni mcmlviii, vol. i, Roma, Ist. Studi Romani Ed., 1958, p. 210. 2

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uguale è il dolore del distacco, il tormento della lontananza. Il contesto, che è, come è ovvio, diverso, non conta: è una specificità che non implica diπerenze: si può subire la ‘lontananza’ in infiniti modi, in un sol senso se ne patisce l’aπanno. Il poeta si appresta ad organizzare una nuova (l’ultima) metamorfosi, quella della parola che, pur nella sua fissità, sa però decomporsi per nuovi contenuti poetici, per dare senso a nuovi messaggi. La ‘forma’ della parola antica, che oπriva significato ai messaggi lanciati da eroine strappate al viver quotidiano per una solitudine sconsolata, rivive mutata nella forma della parola nuova di un uomo sradicato da terra famiglia amici abitudini, tutti beni che erano stati ‘suoi’. A sopravvivere è la poesia, che anche nel solo lamento sa, talvolta, ritagliarsi uno spazio confinante con le vagheggianti illusioni del sogno. Ovidio non ha mai smesso, neanche nella composizione della poesia epica delle Metamorfosi, di mantenere i contatti con la lingua che aveva dato voce tanto alle lacrime delle heroides quanto alle preces e alle Klagen dei poeti elegiaci, e non ha mai rinunciato ad utilizzare spunti di altri auctores che potessero oπrire una contiguità e potessero, allora, diventare un modello. Il patrimonio lessicale e stilistico di una tradizione anche recentissima, all’interno della quale si inserisce la stessa produzione ovidiana, con il proprio lascito, gestito per più fasi e finalità di riuso, garantisce una ripresa confermativa di opzioni espressive passate ma non desuete, segnale di una vitalità artistica, nonostante tutto, di chi si mostra in grado di esercitare su se stesso, oltre che sugli altri, una sofisticata ‘arte’ del vertere. Lo sforzo di memoria e di ingenium compiuto per continuare a dare vita poetica alla lingua originaria, ed assicurare recupero di forme nel nuovo contesto ambientale ed esistenziale ormai definibili antiche, sottrae Ovidio all’isolamento linguistico, che pur è in agguato, al depauperamento, o, addirittura, all’abbandono della lingua madre (dedidici … loqui, tr. iii 14, 46). La perpetuazione della produzione poetica in terra sarmatica getica scitica pontica testimonia la capacità del parlante latino di sopravvivere alla lontananza dalla patria e al coatto soggiorno in terra che è straniera soprattutto perché è alloglotta ed inabilitata a comprendere il sermo di Roma. La sensazione di inquinare il proprio linguaggio con barbarismi e solecismi è superata dalle performances poetiche, nelle quali l’impegno letterario è altrimenti direzionato e muta nello sforzo di conservare lo strumento comunicativo pur nella mutazione del soggetto narrativo, o, se si vuole, contemplativo: dice altro, dice il nuovo con parole antiche. E comunque dice, e dice esplicitamente, non usa un linguaggio indecifrabile, allusivo invece sì, intellegibilmente subliminale invece sì, e per fare ciò c’è bisogno di una assai sorvegliata padronanza della lingua. Tristia ed ex Ponto sono la risposta poetica all’esperienza dell’esilio inflitta ad un uomo che aveva fatto della vita cittadina una delle ragioni della propria esistenza umana ed artistica. Bisogna chiedersi quali siano le finalità che il poeta si prefigge di realizzare scrivendo la «poesia triste», spinto dall’esigenza di mettere le sue capacità artistiche al servizio dello status di relegato. Sulla base delle inclinazioni che avevano prodotto prove giovanili di grande successo Ovidio si reimmette nella scia propriamente elegiaca, cui imprime un nuovo sigillo. È un codice poetico sollecitato dalle circostanze contingenti, legate alla sua vicenda biografica, ma anche suggerito, nelle modalità esteriori, da performances di poeti che vi avevano operato prima di lui, dall’epistola epigrammatica di Catullo, alle epistole poetiche di Orazio, alla lettera di Aretusa a Licota di Properzio, che con la terza elegia del iv libro, appunto, fornisce l’archetipo delle Heroides. L’impronta artistica ovidiana originaria è sempre, naturalmente, riconoscibile: struttura, veste metrica, linguaggio sono pezzi di una medaglia double face. L’individuazione della Doppelfassung, peraltro, non genera straniamenti nel testo secondo, dove il cambiamento, l’evoluzione si svolgono con assoluta naturalità. L’uso della tecnica del riadattamento dei modi dell’elegia lieta e del loro rimodellamento in elegia triste non è solo continuazione di un modulo poetico che identifica il poeta latino e che a lui ha portato fortuna; esso anche risponde ad una strategia mirante a dimostrare la possibile interscambiabilità di un lessico, che addirittura può diventare

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mezzo espressivo abilitato per soddisfare le istanze di un genere poetico del tutto nuovo, imposto dalla del tutto nuova situazione della relegatio. 2 In P. i 3, 61-84 l’esule non può trovare exempla di esilio, e comunque ben più sopportabile, se non nella biografia di personaggi storici o mitologici, estranei al catalogo dei poeti: P. Rutilio Rufo, discepolo di Panezio, deportato a Smirne («non Pontus», v. 65); Diogene, il fondatore del Cinismo, esiliato da Sinope (sul Mar Nero!) ad Atene; Temistocle, il figlio di Neocle, inviato ad Argo; il suo avversario, Aristide, esiliato ad Atene; Patroclo, che da giovane lasciò Opunte per la Tessaglia; Giasone costretto ad emigrare dalla Tessaglia a Corinto; Cadmo che lasciò le mura sidonie, poneret ut muros in meliore loco (v. 78); Tideo che espulso da Calidone andò da Adrasto; Teucro che allontanato da Salamina ed esule a Cipro vi avrebbe fondato un’altra Salamina. Per gli stessi ueteres Romanae gentis, conclude il poeta, ultima tellus d’esilio poteva essere tutt’al più Tivoli. Ovidio avverte l’adiacenza della nuova situazione nella quale viene a trovarsi alle esperienze che egli stesso aveva cantato di donne lontane dai loro uomini, mariti o amanti, le quali inviano epistole ai loro destinatari per confessare, con la loro sensibilità, a∫izioni derivate da sensi forti di nostalgia, per innalzare canti di dolore, elegie e nello stesso tempo epistole, linguaggio elegiaco e funzioni epistolari del linguaggio allo stesso tempo, riscritture, poesia augustea, quindi anche poesia fortemente ellenizzata. Anzi: la poesia delle ex Ponto è anche una rivisitazione in chiave autobiografica, di testi già scritti, che ora sembrano esporsi ad una rilettura che ancor più immalinconisce 3 l’ipotesto mitologico (mi riferisco alle vicende delle eroine), caricato di un messaggio di verità concreta. La poesia del pianto del poeta è il sequel della poesia del lamento di Penelope, Fillide, Briseide, Fedra, Medea, … . La rete intertestuale che Ovidio tesse intorno all’orditura esilica è veramente assai ricca, e fa pensare che il poeta potesse contare su una biblioteca molto voluminosa, comprendente testi da Omero ai tragici greci e latini, a Catullo, Lucrezio, Virgilio, 4 Orazio, alle sue stesse composizioni precedenti, nonostante l’aπermazione di tr. iii 14, 37-38, non hic librorum per quos inviter alarque / copia. Su questa vasta produzione egli opera quel processo di rielaborazione tipico della sua Arbeitweise. La poesia delle ex Ponto è, anzi, poesia molto complessa, e non segna aπatto un declino dal punto di vista letterario. Come scriveva già Hermann Fraenkel, in un capitolo, Ovide in exile, mirabile per sintesi che nulla nega alla completezza, del suo citato libro su Ovidio 5 poeta tra due mondi, «Any closer analysis of single elegies […] reveals surprising poetic qualities». In questo senso si può ben dire che il livello artistico della poesia di Ovidio non va in esilio come 1











1  Cfr. Hermann Fraenkel, Ovid. A Poet between two Worlds, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1956, p. 140 e nota 36 di p. 237: «Alcaeus, it is true, had also complained of the «ills of exile» (cf. Horace, Carm. ii, 13, 28), but his poems were of a diπerent genre […]». Il lirico greco, come si sa, scrisse un’ode sul proprio esilio (fr. 130 LP) quando, in seguito al fallimento della prima congiura contro Mìrsilo, fu costretto alla fuga, prima a Mirra, poi a Mitilene ed oltre, insieme con altri aristocratici, con i quali aveva collaborato nell’organizzazione del complotto. Il dolore espresso da Alceo nel canto lirico sarebbe stato ricordato da Orazio (loc. cit., v. 26 sgg.): […] te sonantem plenius aurea, / Alcaeae, plectro dura nauis, / dura fuge [calco del gr. fuvgh, “esilio”] mala, dura belli!: come si vede, il contesto, lo stato d’animo, la posizione sociale e politica del poeta greco sono realtà assai diverse da quelle di Ovidio, anche se l’aspettativa augurale è la stessa: povta dh; qevoi / rJusasqaiv m’ ejparevs]sk[oisi]n ∆Oluvmpioi, «saran disposti poi gli dèi d’Olimpo a salvarmi?» (frg. 130 L.P., vv. 21-22). 2   Nella prima fase imperiale, si sa, la relegatio sarebbe stata riservata ai ciues, mentre in epoca repubblicana aveva colpito gli stranieri: cfr. Gordon P. Kelly, A History of Exile in the Roman Republic, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, pp. 65-67; Sabine Grebe, Why did Ovid Associate his Exile with a Living Death?, «cq», 103, Oxford, 2010, p. 505. 3  Cfr. Alessandro Barchiesi, Problemi d’interpretazione in Ovidio: continuità delle storie, continuazione dei testi, «md», 16, Pisa-Roma, 1986, p. 107; cfr. anche Id., Il poeta e il principe …, cit., p. 107: «Ora [con l’esilio] si apre per lui il più malinconico dei viaggi intertestuali, il cammino retrogrado di chi ripercorre i suoi scritti alla luce dell’infelicità presente, e vede la tristezza degli esiti come l’ultima metamorfosi da raccontare». La soπerenza esce dalla oggettività, per identificarsi con quella dell’autore che l’aveva raccontata ab externo. 4   Segnalo di Rita Degl’Innocenti Pierini, oltre al già citato Ovidio e l’ombra di Virgilio, pp. 41-77, Le tentazioni giambiche di un poeta elegiaco: Ovidio esule e i suoi nemici, ibid., pp. 79-101. 5  Cfr. Ovid …, cit., pp. 117-142.

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il suo cantore; le recriminazioni sollevate dal pubblico e le riserve espresse dalla critica, anche ammesse come vere, riguardano i contenuti (ed in questi termini si svolge l’autodifesa del poeta accusato di monotonia), né è detto che i contenuti necessariamente, sul piano estetico, dirigano la forma, e/o viceversa. Anzi, Ovidio dichiara esplicitamente che certi contenuti per manifestare genuinità devono risentire della soπerenza che comporta anche il rifiuto della politezza formale: saepe aliquod uerbum cupiens mutare reliqui, / iudicium uires destituuntque meum; / saepe piget (quid enim dubitem tibi uera fateri?) / corrigere et longi ferre laboris onus (P. iii 9, 17-20). Vero invece continua ad essere il gioco metamorfico, cui Ovidio ha piegato storie di uomini, di personaggi del mito: il paesaggio getico-sarmatico si trasforma, nelle esagerazioni del poeta, acquisendo fisionomie peggiorative proprio perché confrontato con quello romano ed italico; la nostalgica rievocazione del paesaggio romano diventa ancor più degna di laudes rispetto al paesaggio pontico. Tomi, vecchia colonia di Mileto, enclave romana, dove però si parla un greco impastato di idiomi locali, 1 avamposto dell’impero sulla costa rumena a sud del delta del Danubio, ultima Thule, 2 certamente non è Roma. 3 Nella sua opera non possono mancare squarci paesaggistici che senza dubbio nascono dalla commistione della visione diretta di luoghi e dal confronto di questi con la visione rievocata dei luoghi di origine, del paesaggio romano, contesto climatico compreso. Il paesaggio romano vive in questo continuo confronto, cantato o anche solo ‘covato’, con il paesaggio locale, che assume contorni narrabili proprio grazie a quel confronto: Tomi 4 è tanto gelida quanto è calda Roma, è tanto inospitale quanto è ospitale Roma, è tanto scarna quanto è ricca Roma: in questo modo Ovidio non dà consistenza di verità né all’uno né all’altro paesaggio, perché entrambi sono filtrati da un groviglio di sentimenti, conflittuale e commisto di nostalgia e di malinconia. Da una parte la memoria ferita è appannata dal rimpianto, dall’altra la visione diretta, la cui obiettività, inutilmente messa in dubbio o addirittura condannata da certa vocazione positivista con ricadute, assurde, sulla veridicità storica del soggiorno tomitano, 5 è, nella sostanza, incu 









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 Cfr. tr. v 2, 68; v 7, 51-52; v 10, 35-38.   Non è nemmeno l’Elba. Il poeta si trovava nell’isola in compagnia di Cotta Massimo (P. ii 3, 83-86, ultima me tecum uidit maestisque cadentis / excepit lacrimas Aetalis Ilua genis, / […]) quando fu raggiunto dall’ordine di rientrare immediatamente a Roma, non per essere sottoposto ad un processo pubblico, ma per abbandonare rapidamente l’Urbe per ordine diretto del principe (tr. ii 131-34). 3  Cfr. Francesca Ghedini, La Roma di Ovidio negli scritti della giovinezza e in quelli dell’esilio, «Paideia», 70, Cesena, 2015, pp. 65-83. Cicerone in fam. ii 11, 1, mirum me desiderium tenet urbis, confessa a Marco Celio la sua enorme nostalgia di Roma, e la mancanza dei suoi e dello stesso edile curule. Sul motivo del desiderium lo stesso Cicerone in Tusc. iv 7, 16 pone il desiderium dopo l’indigentia nella scala dei pavqh secondo la dottrina stoica. Cfr. Silvana Fasce, Nostalgia e rimpianto nel lessico psicologico latino, «Sandalion», 10-11, Sassari, 1987-1988, pp. 67-81. 4   Sugli aspetti geografici, climatici, naturalistici e storico-politici dell’antica Tomi cfr. Felix Jan Gaertner, Ovid. Epistulae ex Ponto, Book i, edited with Introduction, Translation, and Commentary, Oxford, Oxford University Press, 2005, pp. 20-24. 5   Il problema della veridicità o della finzione della relegatio fu sollevato inizialmente da Antony D. Fitton Brown, The unreality of Ovid’s Tomitan exile, «Liverpool Class. Monthly», 10, Liverpool, 1985, pp. 18-22: 22. Lo studioso parla di «fantasy of exile», di elucubrazioni su quale avrebbe potuto essere la punizione per i suoi scritti; avrebbe trovato un proselito in H. Hofmann, The unreality of Ovid’s Tomitan exile once again, «Liverpool Class. Monthly», 12, Liverpool, 1987, p. 23; Id., Ovide in Exile?, «Latein und Griechisch», in Baden Württemberg, Freie Universität Berlin, 2001, pp. 8-19; Id., Ovids Exildichtung und die Frage nach der Historizität der Verbannung, in Owidiusz […], Barbara Milewska-Waźbińska, Juliusz Domański, Warszawa, 2006, pp. 93-106. Una posizione equidistante, possibilista, dunque, sia nel senso della fictionality (Ovidio avrebbe ben potuto creare un genere letterario nuovo, quello della fiction) sia in quello della reality, è assunta da Antonio Alvar Ezquerra, Ovid in Exile: Fact or Fiction?, https://litere.univ.Ovidius.ro/Anale/10/voluml XXI_2010/13, pp. 107-126. Molto e√caci, invece, le riserve sugli orientamenti di Fitton Brown espresse da D. Little, Ovid’s last Poems: Cry of Pain from Exile or literary Frolic in Rome?, «Prudentia», 22, Univ. of Otago, 1990, pp. 23-39. Lo studioso, p. 31, in risposta alle eccezioni sollevate da Fitton Brown, opportunamente sviluppa quattro punti: 1) in tr. iv 10 Ovidio fissa nell’esilio un evente saliente della sua vita; in P. l’esule si rivolge ad u√ciali romani che conoscevano le condizioni ambientali di Tomi; 3) negli appelli ad Augusto e membri della famiglia imperiale il poeta riconosce di aver oπeso l’imperatore e di essere stato per questo punito; 4) l’intera opera ovidiana, che si snoda lungo un arco 2

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pita dalla soπerenza di un esilio, che piuttosto di√cilmente potrebbe essere etichettato come frutto di fantasia. Certamente chi abbia vissuto o viva esperienze similari, quelle di un esilio propriamente inteso, come il forzato allontanamento dalla patria, dalla famiglia, dagli aπetti, o a qualsiasi dimensione subìto, l’esclusione ingiusta ad opera di attori disonesti e talvolta corrotti, può, impressionato o finanche scosso nei suoi interessi vitali, penetrare il significato profondo e quindi autentico del testo, latente e rimasto nascosto a chi non arrivi, perché privo di empatheia, a compenetrarsi nell’esperienza del poeta soπerente. Puškin appunto, per il quale la sede dell’esilio di Ovidio non era così lontana dalla invece amata patria, comprendeva la distorsione del poeta latino ed in apertura dell’ode a lui intitolata scriveva «Ovidio, presso il lido sereno ove portasti / con te gli dèi penati […] Nella mia fantasia io porto impressi, come / tu li vedesti, il cupo deserto, […] la stesa dei nevosi / campi». Quando il ricordo del passato cittadino di Roma è sopraπatto dalla realtà tomitana, il poeta si rifugia in un variegato contesto mitologico, non per nascondervisi ma per rinascere ad una nuova vita ritagliata sulle esemplarità della fabula smontata del suo apparato iconico al fine di adattarvi una singola, privata individualità, un mondo, cioè, che da archetipale (quindi isolatamente incipitario) e simbolico diventa quotidiano in una sua reale ordinarietà. Eppure Ovidio con la fantasia dà corpo alla ‘sua’ città immaginando di trasferirvisi per un po’ o che essa stessa si trasferisca con i suoi personaggi, amici, moglie, principe, personalità politiche, in qualche modo il suo pubblico, che egli può vedere giubilare per il trionfo di Tiberio solo con gli occhi della mente, haec ego submotus, qua possum, mente uidebo: / erepti nobis ius habet illa loci (tr. iv 2, 57-58); menti quolibet ire licet. / hac ubi perueni nulli cernendus in Vrbem […] (P. iii 5, 48-49). Il cittadino Ovidio, punito con la relegatio, ha conservato l’unica forma inalienabile di libertà, quella del pensiero, che consente alla sua immaginazione, alla figura di Ouidius poeta, di vedere Roma a Tomi, di raggiungere Roma senza lasciare, fisicamente, Tomi, di vedere, ma con gli occhi dello stesso Cesare (i suoi sono interdetti dalla lontananza che ne paralizza la funzionalità), i cavalli della quadriga del vincitore imbizzarrirsi, cernes [i. e., tu, Caesar] saepe resistere equos (tr. iv 2, 54), uno ‘spettacolo’ al quale Properzio aveva chiesto al padre Marte di poter in propria persona, direttamente assistere, uideam […] saepe resistere equos, ma in[…] sinu carae nixus […] puellae (iii 4, 13-15). L’allusione, anzi la citazione segna il divario definitivo tra le due condizioni di vita ed i due esiti poetici: il cantore di Cinzia si augura di assistere allo spettacolo in braccio alla sua puella, e di fare, pertanto, dell’evento un’occasione di approccio erotico e, conseguentemente, uno spunto lirico di canto erotico. Materia di elegia lieta; che l’esule tomitano possa vedere solo con la mente le scene cittadine del trionfo è materia di elegia triste. Trasfigurazione letteraria e supporto mitologico fungono da surroga sia del contesto familiare e sociale della vita romana lontana ed irripetibile altrove perché crudelmente violata ed irrimediabilmente perduta, sia del nuovo contesto cui quella violazione condanna: essi suggeriscono nella loro forma di esemplarità, che fonde i personaggi presentati nel poeta o in chi per lui, il senso e il modo di poetare dell’‘io’ parlante, che è l’‘io’ del poeta. Il mito è il mondo all’interno del quale egli trova una collocazione, dove vive le vicende ed avverte le sensazioni dell’‘eroe’ o dell’‘eroina’ celebrato o celebrata nella fabula. Il mito, che nelle Metamorfosi dava forma al mondo esterno ad Ovidio ed era da Ovidio indagato, ora è il mondo di Ovidio, che vi si identifica con i personaggi di volta in volta proposti, perché egli stesso è divenuto materia ed esito di metamorfosi. Quei personaggi, che ora, inverati nella coscienza dell’esule, esistono perché esiste la sua dolorosa realtà, si rivelano nella loro arcaicità un’anticipazione del vivere quotidiano temporale ampio, dall’8 al 16-17 d.C., lascia intendere che è stata scritta in esilio (cfr., al riguardo, anche già W.W. Ehlers, Poet und Exil: zum Verständnis der Exildichtung Ovids, «Antike und Abendland», 34, Berlin, 1988, 144-157). Alexander V. Podossinov, Has Ovid been in Exile?, «aphcteh¨», 9, 2014, pp. 263-268 (in russo; abstract in inglese), infine, critica l’esegesi degli scettici, ribadendo la storicità del soggiorno tomitano di Ovidio e la validità della testimonianza del poeta come fonte storica.

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del relegatus, ormai fissato in una forma definitiva. Ma sempre più l’assimilabilità dell’esule alla galleria di personaggi con cui ha còlto consentaneità sino a identificarvisi si assottiglia, riducendo ad una sola tipologia il suo standard di esistenza e di esistenzialità, quello dell’uomo che nella sua solitudine sente la fine. Ovidio è Ulisse lontano da Itaca finché Ulisse non è tornato ad Itaca, è Filottete a Lemno finché Filottete non è prelevato dall’isola e condotto a Troia da Ulisse e Diomede. Il povero esule vive una realtà più cruda dei ‘suoi’ personaggi in di√coltà: ille [Vlixes] breui spatio multis errauit in annis / inter Dulichias Iliacasque domos, / nos freta sideribus totis distantia mensos / detulit in Geticos Caesaris ira sinus (tr. i 5, 59-62); nec, quia Neptunus nauem lacerarat Vlixis, / Leucothea nanti ferre negauit opem (P. iii 6, 19-20). 1 Il suo malanno non troverà più il conforto e le cure, che pur aveva ricevuto – dice all’amico Rufino – come l’eroe Peanzio [Philoctetes] grazie all’arte di Macaone (P. i 3, 5-6); ormai i travagli hanno infiacchito il suo ingegno: uiribus infirmi uestro candore ualemus / quod mihi si demas, omnia rapta putem (P. iii 4, 13-14), scrive allo stesso Rufino a distanza di un anno. 2 Ulisse fuoriesce dalla torre omerica, e quindi dal paese dei lestrigoni o dei mangiatori di loto, o della maga Circe per scendere nelle strade di Tomi, presso le rive dell’Istro, nelle sterminate lande che sono terra e sono mare insieme, il mare un tempo solcato dal remo iasonio. Questo, dell’esilio e della mitologia, è tutto un mondo col quale Ovidio si confronta in un processo di costante intersecazione; sembra che la realtà pontica e la storicità della persona del poeta stesso sopravvivano, e siano intelliggibili ai vari destinatari, solo attraverso la ricollocazione mitologica in cui sono coinvolti tutti gli attori della vicenda, da Ovidio/Ulisse ad Augusto/Giove, a Livia/Venere-Giunone, a Fabia/Andromaca-Evadne-Penelope, … . Quando si confronta con eroi mitici Ovidio esagera, scivola nell’iperbole, e spinge l’elegia verso tonalità estranee, come può essere, ad es., la movenza epica, e√cace strumento per la rappresentazione dell’abnormità della sua personale vicenda. Soprattutto, quando ripercorre, sagomandola su se stesso, la storia di alcuni personaggi, della quale sappiamo per averla già letta, il poeta richiama l’attenzione sulla ‘nuova’ identità di cui ha dotato il personaggio, con lo scopo, con quello scarto, di dare al lettore la misura del mutamento che egli stesso ha subìto sul piano esistenziale, biografico, letterario. Gli stessi significanti mitici sono evocati per celebrare la manipolazione che l’esule, ormai fuori dai canoni istituzionalizzati dalla tradizione poetica, ha operato per alterarne, a sua immagine, il simulacro che lo stesso lettore si era abituato, anche dalle sue stesse opere precedenti, a riconoscere. Il confronto col personaggio mitologico ed il supplemento di drammatizzazione che il poeta fa ricadere sulla storia di questo mirano a catalizzare l’attenzione sull’aberrante condizione di chi è stato relegato. Paragonarsi ad Ulisse può essere iperbolico ma è ‘credibile’, iperbolica e ‘incredibile’ è la pena dell’esiliato che non rivedrà mai più la ‘sua Itaca’. Iperbolico, allora, è anche paragonare Augusto a Giove e ai suoi fulmini, ma l’assimilazione è perfettamente funzionale alla definizione di inarrivabilità del potere del princeps. Lo stesso avviene nella iperbolica rappresentazione ambientale e climatica del territorio che ospita l’esule, talvolta smentita dall’ammissione: dum tamen aura tepet, medio defendimur Histro (tr. iii 10, 7): lo stesso Istro (il corso inferiore del Danubio) ivi definito baluardo di difesa contro le aggressioni del clima, a P. iii 3, 26 è barbarus e coit adstrictis … aquis. La relatività delle impressioni avvertite dall’esule non potrà esser dimostrata ove si confrontino i tanti luoghi in cui si dipinge, in termini anche parossisticamente tragici, la negatività climatica e territoriale della regione tomitana con quello che scrive Seneca in de prou. 4, 14-16  



1  Cfr. Silvia Montiglio, Perfer et obdura: multo graviora tulisti (Tr. 5.11.7): Ovid’s Rejection of Ulysses’ Endurance, «cq», 58, Oxford, 2008, p. 196 sgg. 2   Mi attengo alla cronologia ricostruita da Jo-Marie Claassen, The Vocabulary of Exile in Ovid’s Tristia and Epistolae ex Ponto, «Glotta», 75, Göttingen, 1999, pp. 134-171: 137. La studiosa fissa tra l’ottobre del 12 ed il dicembre del 13 l’arco temporale nel quale si può datare la composizione di P. i-iii.

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descrivendo il contesto ambientale delle terre «in quibus Romana pax desinit», e la facies antropologica della gens che le abita, Germani e uagae gentes che circa Histrum occursant: 14. perpetua illos hiemps, triste caelum premit, maligne solum sterile sustentat, […] in alimentum feras captant […] 15. horrenda iniquitas caeli […] 16. quid miraris bonos uiros, ut confirmentur, concuti? non est arbor solida nec fortis, nisi in quam frequens uentus incursat. […] pro ipsis ergo bonis uiris est, ut esse interriti possint, multum inter formidulosa uersari et aequo animo ferre, quae non sunt mala nisi male sustinenti. 1  

Non è improbabile, d’altra parte, che la pagina di Seneca, anch’egli esule, dal 41 al 49 in Corsica, scritta a fini pedagogici per opportunamente rappresentare precetti stoici, si ispirasse alla produzione esilica del Sulmonese – l’intertestualità lessicale e contenutistica, intensa, peraltro, negli epigrammi, soprattutto exilioris materiae (ad es., 416, 427 e 428 R), 2 lo lascia pensare –, ma questa del de prouidentia, e non solo, è una severa lezione di art du vivre o di survivre alle di√coltà estreme o come tali percepite, capaci di rinvigorire l’animo umano. Esagerazioni di poeti esuli, esagerazioni di filosofi stoici. L’esilio che per Ovidio non è mai scattato è quello artistico. Possiamo presumere che mai abbia pensato di abbandonare l’impegno letterario, e che anzi abbia determinato di rimodularsi sulla Subjectivität della poesia, in cui inserisse la propria esperienza con la primaria aspirazione del rientro in patria o, almeno, di una sistemazione in un locus commodior. Scrive per consolarsi, per stabilire un rapporto comunicazionale, un’occasione per dire «ego … tibi», talora ridotto a forma di monologo interiore, spesso formulare nel genere erotico-elegiaco, un modo di sottrarsi all’isolamento, per mantenere un rapporto col pubblico dei lettori (unicizzato nella figura del destinatario di turno), per inviare notizie della sua vita, delle sue meditazioni e delle sue impressioni sul comportamento della casa imperiale. Forse in nessun autore dell’età augustea si avverte il peso negativo di un potere politico sempre meno liberale come nell’Ovidio dell’esilio. Le poesie inviate a Roma, lette dal pubblico romano regalano all’esule la finzione della libertà, regalano la traslocazione psicologica, la magia della ubiquità; in tr. i 1 127-128 egli grida che continuerà la poesia, pur abitando nella parte estrema del mondo. Frequentemente Ovidio riconosce il carattere monotonale della sua poesia, ma le aπermazioni al riguardo che leggiamo nelle sue elegie devono essere adeguatamente interpretate. La assai estesa ‘orazione giudiziaria’ indirizzata ad Augusto (tr. ii 2), con la sua solida struttura retorica, come si sa, è una specie di Indice di tutti i ‘capitoli’ che formeranno l’intero corpus della produzione esilica, con l’aggiunta delle modalità con cui quei temi annunciati sarebbero stati trattati. Parla di declino della sua poesia il cantore rinnovato, eppure Tristia ed ex Ponto ospitano discussioni di critica letteraria, di retorica, riferimenti di dottrina letteraria di elevato livello – con riprese intertestuali, evidentemente di proposito allusive – alla lezione dell’Ars poetica oraziana; la sostanza culturale, l’ascendenza dei modelli, l’epica omerica, la lirica greca, la commedia nuova, la tragedia greca, annunciata in tr. ii 381-408, 3 e largamente presente anche in alcune epistole in questo terzo libro ex Ponto, 4 la poesia ellenistica (‘arma peregrina’ di difesa), la poesia  





1   «14. pesa su essi un inverno continuo, un cielo grigio, una terra sterile gli dà un nutrimento avaro; […] cacciano bestie selvagge per cibo […]. 15. Orribile clima […]. E ti meravigli che gli uomini buoni siano tribolati perché si fortifichino? Saldo e forte è l’albero che subisce il frequente assalto del vento […]. È dunque a vantaggio degli uomini buoni, perché siano senza paura, trovarsi spesso in situazioni paurose e tollerare pazientemente quelli che non sono mali se non per chi mal li sopporta» (trad. di Alfonso Traina, Milano, bur, 1997, pp. 111-113). 2  Cfr. Lucio Anneo Seneca. Epigrammi, introd. e trad. di Luca Canali, note di Luigi Galasso, Milano, bur, 1994 (i citati epigrammi sono contrassegnati, rispettivamente, con i nrr. 25 (pp. 40-41), 35 e 36 R. (pp. 100-101). Sull’argomento cfr., naturalmente, Rita Degl’Innocenti Pierini, Tra Ovidio e Seneca, Bologna, Pàtron, 1990, pp. 129, 160-166. 3   Questi versi fanno parte della refutatio (vv. 207-572) secondo lo schema globale di questa lunghissima epistola ad Augusto ricostruito da Gabriella Focardi, Difesa, preghiera, ironia nel ii libro dei Tristia di Ovidio, «sifc», 47, Firenze, 1975, pp. 86-129. 4   Tempore deficiar, tragicos si persequar ignes, / uixque meus capiet nomina nuda liber (tr. ii 407-408).

I destinatari di P. iii 28

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latina, la sua poesia giovanile, e non, sono segnali di una accorta letterarietà che contrasta con la lagnanza del declino poetico. Ovidio, tuttavia, non mente, quando parla di declino; il problema è di intendere diversamente il ‘declino’, che è tale in quanto tale riconosciuto da chi era abituato a vedere in lui l’autore di tutt’altra poesia: il suo liber subisce critiche negative e giudizi che tengono questa nuova poesia molto al di sotto della laus ingenii. In tr. i 1, 39 sgg. aπerma che la poesia nasce in una situazione di serenità, di quiete: 1 lo fa soprattutto per sottolineare che egli si trova nelle condizioni opposte, opposte a quelle che gli hanno consentito certa poesia, e questi assai diversi tempora rerum, «circostanze in cui si sono svolti i fatti» (ibid., v. 37), comportano una ‘diversa’ poesia, un rovesciamento del paradigma. Con l’energia che gli proviene da quel derivato della Pathetisierung che è l’ironia, significata in messaggio poetico, egli, però, ora per ragioni nuove, continua a manifestare il vecchio corrosivo giudizio nei confronti del potere politico, quello che si è sempre riusciti a cogliere, anche tra le pieghe di laudationes, ora sincere, nella misura in cui erano dettate dalla disciplina dell’allineamento, ora meno sincere, nella misura in cui erano disciplinate dall’inarrestabile volontà di disimpegno, e cioè di libertà.  

I destinatari di P. iii La lettura dell’ultima parte della Gedichtsammlung, soprattutto del iii libro, fa emergere l’ulteriore grado di maturazione della vicenda esilica di Ovidio. Il poeta vive ormai il disincanto che avvolge nell’ironia, tra le disposizioni d’animo quella a lui più congeniale, speranze ed aspettative di vita migliore. Non c’è elegia del III libro nella quale non si avvertano questa vena polemica e questo tono gra√ante, ora espressi con la pacatezza della rassegnazione, ora con il cruccio che chi poteva non avesse fatto di più. La lunga epistola di apertura, indirizzata alla moglie, lascia nel lettore la sensazione di trovarsi di fronte ad uno scritto per vasti tratti satirico piuttosto che ad una eroide al maschile. Non è forse mordace l’elogio dell’amicizia coltivata dai ‘barbari’ sarmatici nel racconto di un senex della regione pontica che rievoca la storia, paradigmatica dell’amicitia, apprezzatissima sulle rive del Mar Nero, di Oreste e Pilade? E non è forse sprezzante il tacito confronto con l’amicitia di cui gode l’esule che tutti abbandonano? Come non sorridere rileggendo il racconto del ‘sogno’ e del dialogo avuto con Cupìdo, e come non avvertire l’amarezza beπarda del povero esule che finge di aggrapparsi a speranze futili, legate a contingenze capricciose e perciò precarie! Che sardonico spirito nell’annuncio della stesura del Trionfo (di Germanico), composto per diuinatio, sotto l’ispirazione celeste, inviato all’amico Rufino perché piuttosto Livia, sì, la princess, lo legga! Certamente amaro è quel tripudio della fantasia (quasi un’allucinazione) che trasferisce Ovidio da Tomi a Roma prima che un caustico risveglio lo riporti dalla sedi celesti all’inferno. L’‘amico’ che teme di essere espressamente citato, e che il rispetto dell’esule lascia nell’anonimato, è un pessimo spot pubblicitario per la figura del princeps: l’anonimo destinatario di iii 6 è privo dell’usus rationis: sono questi i sostenitori di Augusto? Un gruppo di amici che avrebbero potuto compiere, Augusto sinente, la ‘magna res’ di intercedere a favore del relegato, e non l’han fatto per paura, stavolta, non sono citati per nome, e non per condannare il timore, che talvolta il poeta ha pur voluto comprendere, ma per denunciarne l’imperdonabile demerito. Anche le frecce avvolte nella faretra scitica che Ovidio manda in dono a Fabio Massimo sono icona di sarcasmo, portatrici di veleni; che altro avrebbe potuto inviargli che provenisse da una terra maledetta come il Ponto, che sembra aver esteso a lui l’asprezza dei luoghi? L’ultima epistola, a Bruto, una difesa della sua musa, index, nimium quoque uera, malorum, contro le critiche stroncatorie di un insensibile recensore, scarica su questo singolo anonimo la stolta incapacità di capire, che il poeta sente svilupparsi su una vasta audience. 1   Il concetto è in certo senso ripetuto a tr. i 7, 3-4, ista decent laetos felicia signa poetas: / temporibus non est apta corona meis.

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La varia caratterizzazione del destinatario dà forma e senso alla lettera: intorno alla sua figura, al suo vissuto, al tipo di rapporto che il mittente intrattiene con lui si tesse l’ostinato refrain del lamento e si costruisce lo sfaccettato assetto della lettera. Ogni epistola prende spunto dalla figura della persona cui è inviata, dalla sua storia, elementi questi che direzionano le elegie rendendo ciascuna di esse un unicum, ed evitando l’impressione che prevalesse, o addirittura dominasse, il motivo della querimonia con la quale si accompagna la richiesta di aiuto, o, ormai, l’espressione della rinuncia alla stessa speranza. Il destinatario, insomma, ‘fa’ la lettera, è l’elemento di distinzione e di svolgimento di una materia che si presenta compatta e sempre uguale; dalla sua personalità e dal suo vissuto l’esule distilla, come sotto dettatura, la forma del contenuto del suo scritto, cioè l’organizzazione dell’argumentum. Qualcosa del genere avveniva, mutatis mutandis, col i libro delle Epistole di Orazio che dal suo ‘buen retiro’ scriveva agli amici a Roma lettere i cui contenuti sono vincolati all’identità del destinatario, riconoscibile da quel che sostiene, suscettibile di determinate risposte, di determinate reazioni, capace di orientare la materia del ‘canto’ epistolare in base alle sue competenze. Questo personaggio, insomma, rimane fondamentalmente solo uno strumento: attraverso la sua figura passa il messaggio trasversale del poeta che può proporre allusioni ad altri personaggi di ben altro peso nell’ambito della società e della politica, ma citabili solo con queste manovre di mascheramento. Ovidio, ormai, nel l. iii delle ex Ponto non cerca solo il colloquio, sia pur virtuale; egli lancia accuse, denuncia, si sfoga, ancora una volta fa sentire il suo canto libero, ma anche deprivato della speranza. Alle persone alle quali invia le epistole, che, raccolte in libro, formano il ‘capitolo’ finale della seconda Gedichtsammlung dal Ponto, l’ultima silloge poetica organizzata sotto il regno di Augusto (il iv libro sarebbe stato composto quando era ormai salito al potere Tiberio, e non Germanico), Ovidio si era già rivolto precedentemente. I destinatari delle epistole di questo l. iii non riceveranno altre missive né compariranno nel l. iv, fatta eccezione per Bruto, a cui l’esule invierà la sesta, dove celebra il uerus amor dell’amico, in un momento davvero drammatico per la recente morte, violenta, di Fabio Massimo (vv. 9-12). 1 Ma in questo iii libro nemmeno compaiono figure nuove. Questo fa almeno supporre che si tratti di scritti che l’esule conta di utilizzare per sottolineare, dietro la maschera del garbo e con il velo dell’ironia, la presa d’atto che tutte le persone cui ha rivolto preghiere ed ha chiesto aiuto non si sono aπatto spese o non lo hanno fatto con la dovuta e√cacia, e, quindi, che non è più il caso di continuare a scrivere perseguendo le medesime finalità, di continuare a chiedere, cioè, e a sperare. Un’ulteriore acquisizione consiste nel considerare che, trattandosi di personaggi cui ha già inviato delle epistole, il poeta proceda a ‘revisionismi’; non ripeta, tout court, la richiesta, ma piuttosto reagisca al mancato riscontro delle sue vecchie petizioni, a volte vere e proprie suppliche, con un ovvio, giustificato risentimento. Si evidenziano, d’altra parte, atteggiamenti diversi, si avvertono diverse tonalità tra le prime epistole inviate loro e queste successive. La collazione consente di dire che Ovidio ha maturato un’evoluzione della riflessione, ha verificato un mutamento della dimensione di sé, dell’esilio, della portata valoriale dell’amicitia. Questa progressione di pensiero ha prodotto un aggiornamento anche dello stesso reale desiderio di abbandonare Tomi, ha convertito la nostalgia della Città 2 che un tempo lo avvolgeva, incrinando definitivamente la convinzione o le già pur deboli speranze di poter ottenere ciò che aveva troppe volte chiesto invano. Ovidio non sembra più nella condizione psicologica, più volte cantata, di manifestare soπerenza per la mancanza delle persone a lui care, ed insoπerenza per il soggiorno in terra selvaggia. Sentimenti  



1  Cfr. Martin Helzle, Publii Ovidii Nasonis Epistularum ex Ponto liber iv. A Commentary on Poems 1 to 7 and 16, Hildesheim-Zürich-New York, Olms, 1989, pp. 138-139; 144-146. 2   Giuste al riguardo le osservazioni di Garth Tissol, Ovid. Epistulae ex Ponto, Book i, ed. by G. T., Cambrid­ ge, Cambridge University Press, 2014, pp. 3-4, specialmente in riferimento a P. i 8, dove lo studioso coglie un confronto a distanza tra l’aspirazione di Ovidio, a cui è stata strappata la Vrbis uoluptas, la gioia di rientrare nella Città, e il dibattito oraziano sulla priorità qualitativa della vita urbana e quella rurale.

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comuni alla condizione di chi è lontano dalla patria e dalla famiglia: Cicerone in fam. ii 11, 1, mirum me desiderium tenet urbis, […] satietas autem prouinciae, avverte l’assenza dei familiari e non ne può più della provincia. L’aspirazione dell’esule tomitano ormai è quella di morire con coraggio nelle acque eusine: dummodo non nobis hoca Caesaris ira negarit, / fortiter Euxinis inmoriemur aquis (P. iii 7, 39-40). Eppure, quante volte aveva sperato ed aveva cantato, difendendo questo tipo di poesia, di poter morire in un luogo meno disagiato!: quid […] / utque loco moriar commodiore precer? ancora rievoca a P. iii 9, 38. Ovidio non ha scelta: per comunicare con i referenti che contano, dai quali si aspetterebbe di ricevere risposte incoraggianti, anche se non immediate, alle sue suppliche, deve ricorrere allo strumento epistolare, ma si propone anche di raggiungere il pubblico dei suoi lettori, e per questo l’unica via è quella della lettera-poesia, che, assemblata con le altre, darà forma al liber. Nelle epistole poetiche egli scrive e parla a svariati personaggi, alla uxor, a Paolo Fabio Massimo, a Cotta Massimo, ad altri, perché il pubblico legga o ascolti. L’elegia di apertura del iii libro, per impostazione e struttura, rientra in un gruppo di elegie, i 2 a Paolo Fabio Massimo e ii 2 a Messalino, che formano una sorta di microgenere che potremmo chiamare didascalico: 1 il poeta, sollecitando i destinatari perché intervengano a suo favore presso il princeps o la empress, suggerisce una serie di accorgimenti che facilitino l’impresa e ne aumentino le possibilità di successo. La uxor destinataria di questa lettera è la terza moglie di Ovidio. Il poeta era reduce da due esperienze matrimoniali negative: la prima moglie, che sposò «paene puer», è definita nec digna nec utilis, la seconda tempus per breue nupta (tr. iv 10, 69-70). Questa terza moglie, presumibilmente di un’età tra i 35 e i 40 anni quando al marito arrivava l’ordine di lasciare Roma per la città tomitana, era, dunque, più giovane di lui ormai cinquantenne: te quoque quam iuuenem discedens Vrbe reliqui (P. i 4, 47), anche se il poeta, nel pentametro successivo, credibile est nostris insenuisse malis, riadattando il punto di vista di Penelope in her. 1, 115-116, certe ego, quae fueram te discedente puella, / protinus ut redeas, facta uidebor anus, la immagina, a distanza di qualche anno dall’inizio della relegatio, probabilmente invecchiata a causa dei guai del marito. È molto probabile che il mancato trasferimento di lei da Roma a Tomi fosse stato pianificato da Ovidio stesso, che vedeva nella permanenza della donna nell’Urbe una garanzia per il controllo del patrimonio familiare ed una possibilità di mediazione per un alleggerimento della pena. Non escluderei che le insistenti richieste del relegato abbiano prodotto, ad un certo punto, addirittura un qualche fastidio alla donna e che essa lo palesasse a terzi: in P. iii 7, 11, nec grauis uxori dicar, il poeta, cui è giunta voce di una insoπerenza manifestata dalla donna, lamenta di essere stato definito un peso per lei. 2 La presenza di Fabia, come per comodità la chiamiamo, 3 nella seconda raccolta poetica dall’esilio si assottiglia notevolmente rispetto ai Tristia dove le è dedicato un consistente numero di elegie, i 6; iii 3; iv 3; v 2a; 4 v 11; v 14, cui va aggiunta la celebrazione dell’annuus natalis in tr. v 5: sono solo due, i 4 e iii 1, le epistole della raccolta ex Ponto inviate alla moglie, che, dunque, è totalmente assente dalla pur massiccia produzione poetica del iv libro, composto a partire dagli ultimissimi mesi del 14 d.C. 5 Il graduale declino dell’entusiasmo è evidente anche nel tono delle Anreden vocative, presenti nelle varie missive, sempre meno aπettuose, sempre  









1   Sulle corrispondenze iii 1, i 2 e ii 2 cfr. Nagle, The Poetics of Exile …, cit., p. 45; Marianthe Colakis, Ovid as Praeceptor Amoris in Epistulae ex Ponto 3. 1, «cj», 82, Athens (Univ. of Georgia), 1987, pp. 210-215: 211-212. 2 3   Si veda qui il commento ad loc., iii 7, 9-14.   Cfr. qui le osservazioni a iii 1, 1-6. 4   Questa elegia è stata oggetto di ampie discussioni tra i critici e gli editori, sia per quanto riguarda la sua unità, disconosciuta dai cwrivzonte~ che considerano una v 2a (vv. 1-44) ed una v 2b (vv. 45-78 = 1-34), sia per l’identificazione del destinatario, che Georg Luck, P. Ovidius Naso. Tristia, hrsg. von G. L., Band ii, Kommentar, Heidelberg, Carl Winter, 1968, p. 284, in forza tra l’altro dell’espressione proxima quaeque, ha voluto riconoscere nella moglie del poeta, ipotesi non unanimemente condivisa. 5   La cronologia è ancora una volta quella stabilita dalla Claassen, The Vocabulary of Exile …, cit., p. 137.

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più formali nel senso del diritto matrimoniale. Questo indebolimento, che diventa ad un certo punto vistoso e si trasforma in una sorta di ironico astio, è associato alla graduale perdita della speranza che l’intercessione di lei presso i potenti potesse dare un apprezzabile risultato, o è, addirittura, forse più credibilmente, motivato dalla assai dubbia convinzione che eπettivamente la donna si attivasse per quel fine. A Rufino Ovidio invia due epistole ex Ponto: dalla terza del i libro si ricava che questi ha inviato all’esule dei solacia (v. 3), dei fomenta (v. 44) per allontanare dal suo animo i morsus exilii, per aprirgli il cuore alla speranza e permettergli di riaversi, per quanto la soπerenza persista in modo insanabile e sia egli costretto a definirsi un perditus aeger. Il riferimento a Macaone in questa epistola, v. 92, come nella quarta del iii libro, v. 7 sgg., ha fatto pensare che Rufino fosse un medico. D’altra parte, la richiesta, in questa seconda delle due epistole, di benevolenza nel giudizio del suo Trionfo, orienterebbe l’ipotesi identificativa nella figura di un poeta, o, almeno di un letterato intenditore di poesia, o ancora di un oratore: non è forse casuale il riferimento alla facundia di Rufino in i 3, 11-12, non tamen exhibuit tantas facundia uires, / ut mea sint dictis pectora sana tuis, inabilitata a guarire con la forza della parola il male dell’esule non per incapacità professionale ma per la immedicabilità del male. Non v’è dubbio: è ben più che probabile che un’epistola totalmente costruita su un telaio di profilo metaletterario, e portatrice di uno specimen – sui generis – di Triumphus, sia inviata ad un intenditore del genere poetico. I molto frequenti riferimenti mitologici, oltretutto, presenti nella i 3, non lasciano riserve sul fatto che potessero essere meglio apprezzati da un uomo doctus. Rimanendo nel campo delle ipotesi, non si può escludere che questo Rufino si intendesse di medicina e di scienze: in questo caso prende consistenza l’ipotesi che si tratti di C. Vibio Rufino (figlio di C. Vibio Rufo), autore di opere de arboribus, de herbis e de floribus a cui attinse Plinio il Vecchio nella composizione dei libri relativi a quella materia botanica. L’autore della Naturalis Historia lo inserisce nell’elenco degli auctores nei libri i, xiv, xv, xix, xxi, xxii. Hoc tibi, Rufe, breui properatum tempore mittit / Naso, parum faustae conditor Artis, opus. Sull’interpretazione del distico iniziale dell’epistola ii 11, ed in particolare sul termine opus, si è soπer­ mata certa critica, a partire da Froesch, 1 per sostenere che questo componimento sarebbe stato trasposto dalla originaria presunta collocazione, tra iii 4 e iii 5, e sistemato a chiusura del ii libro. Questi studiosi hanno ritenuto, infatti, che l’epistola sia stata spostata da chi abbia malamente interpretato opus, non cioè nel senso, suggerito dall’ambito in cui si trova, di ‘lettera’ 2 ma nel senso di libro, il ii appunto. Innanzitutto: perché opus, secondo questa assai dubbia interpretazione, dovrebbe significare il ii libro e non il i e il ii insieme, sì da costituirne un epilogo? Il primo libro non ha una sfragiv~ parallela, presente invece nel terzo, iii 9, appunto, che rap 



1  Cfr. Froesch, Ovids Epistulae ex Ponto …, cit., pp. 133-134 e 140-141. John Richmond, P. Ovidii Nasonis Ex Ponto libri quattuor, recensuit J. A. R., Leipzig, Teubner, 1990, p. 72, dopo iii 4 stampa lib. ii eleg. xi (recte lib. iii eleg. v), e in app. annota: «11 ( = iii 5) hanc elegiam huc transferendam indicauit Froesch». Si veda, qui di seguito, il § L’apparato critico. 2   Cfr. Ou. her. 15, 4, hoc breue nescires unde mouetur opus? (così Saπo definisce lo scritto che invia a Faone): l’occorrenza, suggerita da Jacques André, Ovide. Pontiques, texte établi et traduit par J. A., Paris, Belles Lettres, 1977, p. 75, n. 2, sarebbe stata ribadita da Luigi Galasso, Publii Ovidii Nasonis Epistularum ex Ponto liber ii, a cura di L. G., Firenze, Le Monnier, 1995, p. 441. Il Galasso opportunamente segnalava anche tr. i 9, 2, qui legis hoc nobis non imicus opus, che, anzi, ci sembra di poter osservare, dimostra come Ovidio decisamente attribuisse, e sin da subito, carattere letterario alle sue opere esiliche. Più problematico appare, infine, il caso di P. iv 2, 50, huc aliquod curae mitte recentis opus, dove forse il termine può eπettivamente non essere inteso nel senso di singolo componimento, e, dato il contesto, quindi, di ‘lettera’, ma essere suscettibile di avere una più ampia accezione, come quella riconosciuta al sostantivo a P. iii 9, 54 (hoc opus [P. i-iii] electum ne mihi forte putes), o a rem. 811, hoc opus exegi: fessae date serta carinae, classica sfragiv~; o, ancora, un valore semantico più generico, come, ad es., quello di ‘impegno’, ‘fatica’, letteraria, s’intende (penso all’extremus labor di Verg. buc. 10, 1, e, in ogni caso, con quel termine si definisce la singola ecloga breve), come in ars iii 206, paruus, sed cura grande, libellus, opus, dove il poeta allude all’impegno profuso nella composizione del libretto intitolato Medicamina faciei femineae.

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presenta la chiusa dell’intera Gedichtsammlung, rispettandone tutte le istituzionali caratteristiche. L’interpretazione fornita da Froesch è ispirata dall’avvertita necessità di distribuire equamente nei tre libri le trenta epistole che vi sono contenute, in modo da ottenere, con aritmetica precisione, la presenza di dieci epistole per libro. Piuttosto, come osserva Galasso, ii 11, 1 con la raccomandazione a Rufo, zio di Fabia, ad operarsi perché la donna diventi melior (v. 14), e, seguendone l’esempio, si assimili a lui in probitas, in qualche modo prepara la successiva, iii 1, come è noto interamente indirizzata alla moglie. È questa, oltretutto, a mio avviso, un’ulteriore prova dell’ironia che domina nell’elegia di esordio del iii libro. Che Fabia si avvalga dell’esempio dello zio per accrescere la propria probitas, e per fare plenius, ‘mieux’, ciò che avrebbe fatto sine ullis stimulis, non è un’attestazione della rettitudine della donna delle più esaltanti. L’espressione, in ogni caso, non è immediatamente perspicua ed apre degli interrogativi, oπrendosi ad almeno due interpretazioni: 1) Fabia coltiva la sua rettitudine, intesa in senso generale e generico, grazie alla vicinanza e alla esemplarità dello zio, che opportunamente la stimola verso un operato che altrimenti avrebbe osservato senza entusiasmo; 2) Fabia, seguendo i suggerimenti dello zio, si adopera per intercedere con lo scopo di far ottenere al marito relegato una sede meno disagiata di quella tomitana. La probitas di Fabia, secondo Ovidio, consiste nella capacità di spendersi per ottenere ciò che egli desidera. Se questo è il senso, non v’è dubbio che il contenuto di ii 11 è perfettamente propedeutico alla lunga epistola di apertura del l. iii, un corposo e dettagliato vademecum per il comportamento che la moglie deve tenere presso la casa imperiale al fine di strappare la promessa di un avvicinamento, epistola nella quale l’esule fa insistente riferimento alla probitas della moglie, ai vv. 76, 93, 94, benché il poeta, ormai, confidi assai poco in un reale, ed e√cace, intervento della donna. Vien fatto di pensare che, se la trad. ms. avesse fatto pervenire P. ii 11 tra P. iii 4 e P. iii 5, molta parte della critica si sarebbe posto il problema della necessità di una sua transpositio, semmai proprio dopo P. ii 10. A Cotta Massimo Ovidio manda un massiccio numero di lettere delle ex Ponto, i 5, i 9, ii 3, ii 8, iii 2, iii 5; qualche studioso ritiene che egli sia il destinatario anche di tr. iv 5 e v 9. Fu adottato dallo zio materno e così entrò a far parte della gens Aurelia e prese il nome di M. Aurelius Cotta Maximus Messalinus. 2 Cotta, iuuenis patrii non degener oris (P. iii 5, 7), eredita dal facundus parens (P. ii 2, 51) il dono dell’eloquenza; è anche autore di poesie (P. i 5, 57; iii 5, 37 sgg.). Questo personaggio, come destinatario, è invece assente nel iv libro, ma nell’ultima epistola, rivolta ad un inuidus, ai vv. 41-44, se ne legge una laudatio con la quale si chiude un catalogo di poeti dotati di particolare talento: te tamen in turba non ausim, Cotta, silere, / Pieridum lumen praesidiumque fori, / maternos Cottas cui Messallasque paternos, / Maxime, nobilitas ingeminata dedit. A Bruto 3 Ovidio scrive due epistole dal Ponto, i 1 e iii 9, che rappresentano prologo ed epilogo della raccolta con un profilo, pertanto, squisitamente metaletterario; a iv 6, 17-18, infine, il poeta a√da a lui un carme per il caeles recens Augusto. Queste tematiche, oggetto della comunicazione col destinatario, rendono almeno probabile che questi abbia curato gli aspetti editoriali dell’opera ovidiana. P. i 1 e iii 9 contengono gli elementi tipici del componimento di apertura e del componimento di chiusura di una raccolta. 4 Esistono tratti di similarità tra le due epistole. Forse si deve riconoscere in lui anche il destinatario di alcune elegie dei Tristia, come i 7, iii 14, 5 ma si tratta solo di una ipotesi per quanto fondata su elementi di un certo  









1

  Ibid., p. 36.  Cfr. André, ed. cit., p. 167, ma cfr. anche Ronald Syme, L’aristocrazia augustea, tr. it., Milano, Rizzoli, 1993 (The Augustan Aristocracy, Oxford, Clarendon, 1986), pp. 264, 342: per la nobilitas del carattere cfr. P. iii 2, 105. 3  Cfr. Ronald Syme, History in Ovid, Oxford, Oxford University Press, 1978, p. 80. 4   Cfr. le mie osservazioni, qui, nel comm. ai vv. 51-56. 5  Cfr. Froesch, Ovids Epistulae ex Ponto i-iii …, cit., p. 218, n. 398; Georg Luck, Briefe aus der Verbannung, übertragen von Wihlelm Willige, Stuttgart, Artemis, 1963, p. 292; Helzle, P. Ovidii Nasonis … ex Ponto liber iv…, cit., p. 136. 2

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spessore. In quest’ultima elegia ai vv. 25-26 si legge hoc quoque nescio quid nostris adpone libellis, / diuerso 1 missum quod tibi ab orbe uenit, dal tono assai vicino a quello di P. i 1, 21-22. 2 Si tratta di un personaggio non ben identificato, 3 e i componimenti di cui è destinatario non contengono elementi che ne aiutino con certezza l’identificazione. A lui, uomo di legge ma anche esperto di letteratura, è inviata la raccolta di epistole che formano i primi tre libri, come si legge nei due distici incipitarî della epistola di apertura. È, come si diceva, il destinatario del componimento proemiale al primo libro e all’intera Gedichtsammlung, proprio, pertanto, come aveva fatto Orazio con Mecenate, dedicatario di carm. i 1 e iii 29, epist. i 1 e i 19; al grande amico e protettore Orazio dedica anche serm. i 1. Paolo Fabio Massimo 4 è il destinatario di tre epistole, i 2, iii 3 e iii 8, per quanto sulla identità del destinatario di quest’ultima si discuta. 5 Personaggio di spicco, sulla sua auctoritas maggiormente pensa di poter far a√damento Ovidio data la forte influenza nella casa del principe con il quale si era imparentato avendone sposata la cugina Marcia. Ben noto il giudizio espresso da Orazio che lodava in lui il difensore solliciti rei. Morì poco prima di Augusto, in circostanze rimaste oscure. Certamente le già residue, assai assottigliate speranze di rientro per Ovidio si estinsero con la morte di Fabio, e, poco dopo, di Augusto che, proprio negli ultimissimi tempi, sembrava aver mostrato qualche benevolo orientamento circa la sorte del poeta relegato: coeperat Augustus deceptae ignoscere culpae: / spem nostram terras deseruitque simul, come si legge in P. iv 6, 15-16. Nella seconda epistola del i libro, uno dei componimenti più lunghi delle ex Ponto, l’esule lamenta la pericolosità dei luoghi in cui è costretto a vivere ormai da quattro anni, le avversità climatiche, l’aspetto naturalistico del luogo. 6 Confessa di vivere allucinanti visioni, in cui immagina di stare a Roma, in compagnia degli amici e della moglie. Finalmente l’esule chiede a Fabio un benevolo patrocinio presso il principe perché gli conceda un sospirato lenimento della pena col trasferimento in un luogo che garantisca l’incolumità fisica contro le possibili aggressioni di popolazioni barbare. Addirittura suggerisce le argomentazioni: il Cesare non conosce la pericolosità di quelle popolazioni che non temono l’esercito ausonio, e rendono evidente che pensare che la pax Augusta si sia attestata anche lì è solo una discutibile supposizione di chi, forse, sottovaluta una situazione suscettibile di conseguenze anche gravissime. Enumera le sue benemerenze, il rapporto di parentela, la composizione di un epitalamio in occasione delle nozze di Fabio, l’ammirazione di Fabio per la sua poesia. Nella terza epistola del iii libro il poeta racconta a Fabio la visione di Cupìdo che lo ha tenuto desto nella notte, il colloquio intrattenuto col dio, vecchio discepolo, la rosea prospettiva che questi gli oπre di un ammorbidimento della famiglia imperiale allietata dalla notizia della vittoria di Tiberio in Germania. Il poeta conclude con un invito, in verità tutt’altro che convinto, acché Fabio ascolti le parole del supplice e si attivi per esaudire la sua richiesta, che è quella di sempre: andar via da Tomi. La distanza tonale tra le due epistole è evidente; evidente è la scarsa fiducia che il poeta nutre sull’eπettiva volontà di Fabio di intercedere presso la casa imperiale. Caustica, infine, definirei la iii 8, ultimo gradino di una kli`max discendente per l’intensità della speranza, ascendente per la progressiva disillusione. Il poeta annuncia di accompagnare lo scritto che invia a Fabio Massimo, una sorta di ‘bigliettino’, con un dono dal gusto almeno  











1   Per l’agg. cfr. le osservazioni di Rita Degl’Innocenti Pierini, Ovidio e l’ombra di Virgilio. Riscritture virgiliane di Ovidio esule, in Ead., Il parto dell’orsa. Studi su Virgilio, Ovido e Seneca, Bologna, Pàtron, 2008, p. 56 sgg. 2 3  Cfr. Helzle, ibid.   Cfr. qui comm. a iii 9, 1-6. 4   Si vedano le pp. 46 sgg., 133 sgg. in Alessandro Barchiesi, Il poeta e il principe …, cit.; cfr., inoltre, naturalmente Ronald Syme, opp. citt., 1978 e 1993, alle pagine indicate qui nelle note iniziali di comm. a iii 3 5   Si vedano le osservazioni nel commento a iii 8, 1-4. e iii 8. 6   La ripetizione di uno o tutti e tre i motivi: assenza di alberi e di agricoltura, freddo estremo, pericolo derivato dalle frecce scagliate dai barbari, nelle sole ex Ponto acquisisce il carattere della formularità: i 2, 13-23; i 3, 51-55; i 3, 57-60; i 6, 9-12; i 8, 5; ii 1, 65; ii 2, 94; ii 3, 2; ii 5, 19; ii 7, 68; ii 10, 44-48; iii 1, 1-28; iii 7, 33-34; iii 8, 5-18; iv 2, 2; iv 3, 51-52; iv 7, 7-12; iv 8, 83-84; iv 9, 81-86; iv 12, 33-36; iv 14, 27-28.

L’apparato critico 34

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discutibile: frecce raccolte in una faretra scitica. Il dono in realtà è lo stesso epistolium, una sorta di epigramma, nel quale spicca la totale assenza delle solite preces, così insistenti nella i 2, così velate in iii 3. Nel veleno delle frecce scitiche si cela l’aggiornato stato d’animo del poeta. In tr. i 5, 7 l’esule avverte che ha agito indicando dei segni in luogo del nome. Come osserva Syme, 1 è di√cile per noi moderni la decifrazione di questi signa. Ovidio trova il modo di spezzare la monotonia inversa rispetto a quella dei Tristia inserendo due epistole, la 6a e la 7a, che indirizza rispettivamente ad un anonimo sodalis e ai sodales nel loro complesso. Con queste elegie il poeta sperimenta una epistolarità 2 per certi versi nuova, poiché, come accennavo, non nomina espressamente il destinatario, come avveniva nei Tristia, oppure lo identifica, ma pur sempre lasciandolo nell’anomimato, in un soggetto collettivo. Nella Sesta ci sembra di cogliere la pointe nel distico 25-26: nuper eam [Iustitiam] Caesar facto de marmore templo, / iam pridem posuit mentis in aede suae: il cruccio potente che è nel risvolto sarcastico di questi versi spinge a sorvolare sulle ragioni che spingono il poeta a rivolgersi ad un anonimo, o, forse, meglio, indirizzano l’esegeta a concludere che quello è un false problem. Alla Settima, infine, Ovidio a√da l’espressione della resa estrema: […] bene desperare salutem / seque semel uera scire perisse fide (vv. 24-25).  



L’apparato critico Il testo del iii libro delle ex Ponto (questo il titulus che si legge secondo la lez. del testimone più vetusto, il cod. A) qui stampato è quello stabilito da John Richmond; me ne discosto nei seguenti casi, discussi nel commento (in parentesi l’opzione editoriale della Teubneriana, 1990): iii 1, 46, opus (onus); iii 1, 49, memet (mea me); iii 1, 60, paucis (paruis); iii 1, 153, totum uersum orationem rectam accepi; iii 2, 1, salutem dictum augurale ad uerbum accepi; iii 2, 63, aethera (aera); iii 3, 38 et 70, Artibus (Artibus); iii 3, 91, templum (tempus); iii 4, 22, uenit! (uenit.); iii 4, 46, uersa lyra est (†uersa lyra est †); iii 4, 62, paene (†paene†); iii 4, 84, Aeneidos (†Aeneidos†); ii 11 post ii 10 (ii 11 post iii 4); iii 6, 1 paene! (paene); iii 9, 47, materiam (materiae). L’intervento traspositivo del Richmond, che accoglie la proposta lanciata da Froesch, 3 comporta lo slittamento di un’unità nella numerazione delle epistole da iii 5 a iii 9; la finalità è soprattutto di ordine, per così dire, geometrico: distribuire in pari quantità le 30 epistole nei tre libri, «Poetis Romanis, qui breuia poematia in unum opus componerent, mos erat in singulos libros aut dena, aut quindena aut uicena opuscula conferre. Id quod et in Ouidii libris saepe accidit. praeterea intra unum quemque librum singula poematia summetrikw`~ disponere solebant». 4 Il saepe accidit dello stesso Richmond ed il caso, ad es., già delle sole Epistole oraziane revocano quanto meno in dubbio la perentorietà della decisione editoriale assunta dall’editore della Teubner. Per la storia della trasmissione del testo dell’intera raccolta delle Epistulae ex Ponto rimando alle pagine di Richard Tarrant, 5 oltre che, evidentemente, alle Praefationes nelle edizioni di André (pp. xxxix-xlv), di Richmond (pp. v-xxx) e di Pérez Vega (pp. xxxvi-xliii). A Richmond, ibid., rimando anche per la descrizione dei codici, e l’informazione sulla quantità di testo che ciascuno di essi ha tramandato, infine per i criteri ortografici (pp. xv-xvii).  





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 Cfr. Ronald Syme, History in Ovid …, cit., p. 76.   I modelli di questa epistolarità, che si perfeziona, intanto, dal passaggio dai Tristia alle ex Ponto, sono rappresentati dall’esperienza giovanile delle Heroides (per i rapporti dei Tristia con Heroides cfr. Patricia A. Rosenmeyer, Ovid’s Heroides and Tristia, «Ramus», 26, Victoria (Australia), 1997, 29-56: passim) e dalla raccolta oraziana, come si diceva supra, oltre alle esemplarità già proposte da Catullo con i cc. 65 e 68 (cfr. Mariella Bonvicini, Le forme del pianto. Catullo nei Tristia di Ovidio, Bologna, Pàtron, 2000, passim), ma si vedano anche i carmi 13 e 35 (cfr. Mayer, Horace, Epistles …, cit., p. 2), lo stesso Properzio, in alcune elegie in cui il du-Stil è introdotto non in merito a Cinzia, ma a Tullo o a Pontico, ecc. 3   Cfr. pp. 127-144; si veda, inoltre, quanto ho osservato supra ed il mio app. a iii 5. 4  Cfr. Praefatio, p. xviii. 5  Cfr. Texts and Transmission. A Survey of the Latin Classics, edd. Richard John Tarrant, Leighton D. Reynolds et alii, Oxford, Clarendon, 1983, pp. 262-265. 2

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Nell’approntare l’apparato critico, che vuole essere senz’altro selettivo, mi sono servito della siglatura dei codd. adottata da Richmond (e già da Heinsius e da Lenz), diversa da quella cui si sono attenuti André e Pérez Vega. La Tabula codicum superstitum, la Tabula codicum deperditorum (uel latentium) con i codices Heinsiani riprodotte alle pp. xxiv-xxx dell’edizione teubneriana del 1990 costituiscono il più esaustivo repertorio codicologico di quest’opera ovidiana. Richmond, inoltre, per la prima volta collazionò due codici germanici, il Berolinensis Hamilton 371 del sec. xiii (bl, nell’app. di Pérez Vega B1), ed il Lentiensis Bibl. Stud. 79 (nunc 329) del sec. xii (le, nell’app. di Pérez Vega Le). Nell’apparato di Pérez Vega si riserva più ampio spazio e credibilità all’informazione sulla tradizione recenziore: «Debe darse quiza más importancia y lo hemos intentado en este texto, a los mauscritos recentiores, cuyas lecturas había seleccionado Heinsius con gran frecuencia […]» (p. xxxvii). Propongo qui di seguito il conspectus siglorum dei codici dei quali sono citate le lectiones in app.: A = Hamburgensis Bibl. Univ. scrin. 52 F (usque ad iii 2,67; saec. ix) B = Monacensis c.l.m. 384 (saec. xii) C = Monacensis c.l.m. 19476, olim Tergernseensis (saec. xii) bl = Berolinensis Hamilton 371 (saec. xiii) le = Lentiensis Bibl. Stud. 79 (noua sign. 329) (saec. xii) e = Etonensis 91 (saec. xiii) s = Argentoratensis (saec. xii-xiii, cod. Heins., igne deletus) t = Turonensis 879 (saec. xii-xiii) d = Gothanus ii 121 (saec. xii) a = Mediolanensis Ambosianus G 37 sup. (saec. xiv) ba = Basileensis F.iv.6 (saec. xiv) be = Ferrariensis, codex Bersmanni, nunc deperditus (saec. inc.) bh = Berolinensis Ms Diez. B Sant. 26 (saec. xiii) er = Erfurtensis (codex deperditus (saec. inc.) ka = Hafniensis Gl. Kgl. (saec. xii) kb = Hafniensis deperditus primus l = Lipsiensis Bibl. Munic. (saec. xiii) md = plut. 38, 39 (saec. xv) v = Vaticanus Barb. Lat. 26 (saec. xiii) va = Vaticanus Lat. 1595 (saec. xv) vb = Vaticanus Latinus 1600 (saec. xiv) ve = Vaticanus Lt. 3149 (saec. xiv ex.) lo = Louaniense fragmentum (saec. inc.) lc = BPL 180 F (saec. xiv) n = Antuerpensis Mus. Plant. D 68 (saec. xii-xiii) o = Oxoniensis Bodl. Canon. Class. Lat. 1 (sec. xiii) of = Douce 146 (saec. xv) oc = Auct. F.1.18 (saec. xv) oi = Rawl. G 105 (saec. xiii) p = Parisinus Bibl. Nat. Lat. 7993 (saec. xii-xiii) pi = Parisinus lat. 82-56 (saec. xiii-xiv) sc = Scaligeri excerpta (cfr. Praef. edit. Richmond, p. xi) f = Florilegium Ouidianum (cfr. Praef. edit. Richmond, p. xiii) xa = Vicentinus Bibl. Bert. (saec. xv) xf = Vossianus alter (saec. inc.) mc = Florentinus (saec. xiii?, deperditus) md = plut. 38.39 (saec. xv, 98v-150) pp, xa, mb, g = alii codd. Heinsiani (deperditi). P. S. Il Commento è stato condotto nel rispetto dei criteri già da me utilizzati per il iv libro degli Annales di Tacito (Napoli, Loπredo, 2013). «La progressiva consequenzialità tra le parti e la compiutezza del

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testo che riceviamo dalla tradizione, senza frazionamenti, senza lacune, se si escludono quelle provocate, eventualmente, da una più o meno infelice trasmissione, non devono essere mortificate nelle loro componenti da traumatici sradicamenti dal contesto, che isolano una parola, un sintagma, una frase. Gli espianti disorientano il lettore che vorrebbe, nel commento, assecondata quella compattezza dei contenuti che formano il testo, non sempre perspicuo nella lettura diretta dell’originale e talvolta nemmeno attraverso la mediazione della traduzione […]» (ivi, p. 92).

Epistola iii 1: Vxori - All’onestà, moglie, aggiungi il coraggio di chiedere III 1 All’onestà, moglie, aggiungi il coraggio di chiedere «Terra del Ponto, terra di Tomi, terra d’acqua ghiacciata, terra di rari alberi, rari uccelli, terra di nemici armati di frecce letali: tutto esaspera quest’esilio. Non c’è da stupirsi che io chieda un’altra sede. C’è da meravigliarsi che tu, moglie mia, non riesca nell’intento d’aiutarmi, che tu non pianga. Devi impegnarti più degli amici. La mia poesia ti ha donato la fama. La Fama conserva per sempre il ricordo di Capaneo, Anfiarao, Ulisse, Filottete; a loro mi a√anco io. A Bittide di Coo associo te, moglie mia. Ma, meriti tanti elogi? Amore coniugale e patto nuziale pretendono che tu aiuti il marito in di√coltà; a lui devi gratitudine. Adòperati perché mi possa essere concessa una terra meno ostile.» «Alla spiccata onestà aggiungi il coraggio di agire: non ti costa niente compiere un atto di adorazione nei confronti della divinità. Piangi per commuovere gli dèi e spingerli ad attenuare la loro ira nei miei riguardi. Non devi compiere il sacrificio di Alcesti, non devi ripetere l’impresa di Penelope, non devi imitare Laodamia; devi solo pregare la moglie di Cesare, icona della pudicizia, bella come Venere, retta come Giunone. Non temere di avvicinarla, è la femina princeps; nulla v’è sulla terra di più luminoso di lei, tranne Cesare stesso.» «Scegli il momento migliore per parlarle, quando a Roma il popolo non soπra nessun dolore, quando gioia e pace domineranno nella casa di Augusto. Quando avrai trovato il momento più opportuno, non ricordarle il mio crimine cercando di difenderlo. Prega, prega soltanto e chiedi per me una terra meno disagiata. Che gli dèi vedano le tue lacrime e cancellino la durezza dal loro volto.»

Testo - Traduzione p. iii 1

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Aequor Iasonio pulsatum remige primum, quaeque nec hoste fero nec niue terra cares, ecquod erit tempus, quo uos ego Naso relinquam in minus hostili iussus abesse loco? an mihi barbaria uiuendum semper in ista, inque Tomitana condar oportet humo? pace tua (si pax ulla est tua, Pontica tellus, finitimus rapido quam terit hostis equo), pace tua dixisse uelim: “tu pessima duro pars es in exilio, tu mala nostra grauas”. tu neque uer sentis cinctum florente corona, tu neque messorum corpora nuda uides, nec tibi pampineas autumnus porrigit uuas, cuncta sed inmodicum tempora frigus habent. tu glacie freta uincta tenes, et in aequore piscis inclusus tecta saepe natauit aqua. nec tibi sunt fontes, laticis nisi paene marini, qui potus dubium sistat alatne sitim; rara, neque haec felix, in apertis eminet aruis arbor, et in terra est altera forma maris; non auis obloquitur, nisi siluis siqua remota aequoreas rauco gutture potat aquas; tristia per uacuos horrent absinthia campos, conueniensque suo messis amara loco. adde metus, et quod murus pulsatur ab hoste tinctaque mortifera tabe sagitta madet, quod procul haec regio est et ab omni deuia cursu, nec pede quo quisquam nec rate tutus eat. non igitur mirum, finem quaerentibus horum altera si nobis usque rogatur humus. te magis est mirum non hoc euincere, coniunx, inque meis lacrimas posse tenere malis. quid facias quaeris: quaeras hoc scilicet ipsum, inuenies, uere si reperire uoles. uelle parum est: cupias, ut re potiaris, oportet, et faciat somnos haec tibi cura breues.

4 abesse A B C e, edd. plerique (‘relegati dicuntur proprie quibus ignominiae aut poenae causa necesse est ab urbe Roma […] abesse’, Fest. s.u. relegati): adesse le bl : abire n p t 9 duro A le e bl : nostro B C 14 habent A B le e : habes C : habet bl uaria lectio sensum non mutat, ut notat Larosa 2012 43 21 siluis codd. (nisi siluis A B C le e bl s: siluis nisi ea va): in uluis coni. Némethy : fluviis reponendum putauit Damsté; P.H.D., qui huius coniecturam ignorat, fluuiis remotis legit • remota d, Ehwald, André, Richmond: remotis A B C le e bl d2 : relictis Burmannus, «ad seruandam sententiam» explanat Pérez Vega 22 gutture A B C le e : gurgite bl, recipiendum putat White, p. 342 31 «hic nouam eleg. inc. B cum tit. ad coniugem» legitur in app. uiri docti André; cf. etiam Pérez Vega; tacet Richmond qui autem spatium relinquit in textu inter 30 et 31, sic ut inter 94 et 95, 128 et 129 32 malis A B le e bl : tuas C 33 ipsum A B C le e bl : ipsa Riese 35 re A B le e bl : spe Heinsius, cf. Ehwald 1896, 28, 1

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1. ALLA MOGLIE Mare per prima battuto dal remo di Giasone, terra non priva di feroce nemico e di neve, quando sarà che io Nasone vi lasci con l’ordine di un esilio meno ostile? O devo vivere sempre in questa barbarie, devo esser sepolto in terra tomitana? Per tua pace (se ce n’è una per te, pontica terra, calpestata da limitrofo nemico, dal suo destriero divorata), per tua pace vorrei dire: “Tu sei la parte peggiore nel duro esilio, tu dei mali nostri accresci il peso”. Tu non hai sentor di primavera avvolta di fiorenti corone, tu corpi nudi di mietitori non vedi, a te l’autunno non oπre le pampinee uve, tutte le stagioni, invece, portano freddo immoderato. Tu stringi l’acque nella morsa del ghiaccio, e in mare il pesce spesso incarcerato nuota nell’acqua coperta. Non hai sorgenti tu, se non quasi d’umore marino, a bere non sai se arresti la sete o l’aumenti; raro, e sterile esso, torreggia in aperti campi un albero, e in terra ancora sembianza di mare; non canta uccello, o uno, lontano dalle selve, soπoca la gola bevendo equoree acque, per i campi vuoti spunta spinosa tristezza d’assenzio, messe amara: il luogo le s’addice. In più il terrore, il muro è colpito dal nemico e la saetta intinta gocciola di peste letale, in più lontana è questa regione e remota da ogni via: nessuno vi s’arrischierebbe, a piedi o con nave. Nessuna meraviglia, allora, se cercando fine di questi mali un’altra terra io chieda e richieda. Di più mi meraviglia, moglie, che tu non risolva e con me nei guai possa trattener il pianto. Che fare chiedi a me: ecco, proprio quello, sì, chiedilo a te: lo scoverai, se veramente vorrai trovarlo. Volere è poco: bisogna che lo brami per venirne a capo, e faccia che questo pensiero t’abbrevi il sonno.

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uelle reor multos: quis enim mihi tam sit iniquus, optet ut exilium pace carere meum? pectore te toto cunctisque incumbere neruis et niti pro me nocte dieque decet. utque iuuent alii tu debes uincere amicos uxor et ad partis prima uenire tuas. magna tibi imposita est nostris persona libellis: coniugis exemplum diceris esse bonae. hanc caue degeneres; ut sint praeconia nostra uera, uide Famae quod tuearis opus. ut nihil ipse querar, tacito me Fama queretur quae debet fuerit ni tibi cura mei. exposuit memet populo Fortuna uidendum, et plus notitiae, quam fuit ante, dedit. notior est factus Capaneus a fulminis ictu, notus humo mersis Amphiaraus equis; si minus errasset, notus minus esset Vlixes, magna Philoctetae uulnere fama suo est. si locus est aliquis tanta inter nomina paruis, nos quoque conspicuos nostra ruina facit. nec te nesciri patitur mea pagina, qua non inferius Coa Bittide nomen habes. quidquid ages igitur, scaena spectabere magna, et pia non paucis testibus uxor eris. crede mihi, quotiens laudaris carmine nostro, qui legit has laudes an mereare rogat. utque fauere reor plures uirtutibus istis sic tua non paucae carpere facta uolent. quarum tu praesta ne liuor dicere possit “haec est pro miseri lenta salute uiri”, cumque ego deficiam nec possim ducere currum, fac tu sustineas debile sola iugum. ad medicum specto uenis fugientibus aeger: ultima pars animae dum mihi restat, ades, quodque ego praestarem, si te magis ipse ualerem, id mihi, cum ualeas fortius, ipsa refer. exigit hoc socialis amor foedusque maritum: moribus hoc, coniunx, exigis ipsa tuis.

46 opus A B C le e bl, probauu. André (cf. P. iii 4,5-6, est opus exiguum,… / … ut tueare rogo, et P. iv 1, 28, quod fecit, quisque tuetur opus) et Pérez Vega: onus Heinsius, coll. tr. iii 4,62, probauu. Némethy («i.e. uide, quantum gloriae onus portare debeas»), Shackleton Bailey 1982, tr. iii 4b, 16 laudans, Richmond 49 memet B C le e bl, seruauu. Owen, André, Pérez Vega : mea me coni. Heinsius, recep. Richmond : meme A : mala s 55 paruis B C le e bl : paruus A 56 nostra codd. : nota Hall, coll. uu. 51-53, sed cf. Larosa 2012, 74 et Comm. ad l. 58 Coa Bittide Merkel, coll. tr. i 6, 2, Ehwald 1896 42 : coabit tibi de A: choab* tibi de B (p.c.) (batide corr. in bytide (?) B2 i.m.) : coa pytide C : coa batide le : choa bachide e bl : coa battide S 60 paucis BC le bl, André, Pérez Vega, coll. u. 64, sed cf. etiam u. 93: paruis A e, recep. Richmond, coll. fast. iv 203, ‘lectio di√cilior’ scribit Larosa 2012 77 : parcis Damsté 69 fugientibus A B C le e bl (cf. redire i 3, 10) : fugentibus S : frigentibus Owen, ‘sed cf. i 6, 36 et Luck 1986 128’ monet Pérez Vega

p. iii 1 Molti lo vogliono, penso: chi, infatti, sarebbe sì ingiusto da desiderare per me un esilio senza pace? Buttarti con tutto il cuore e tutte le forze devi e notte e giorno aπannarti per me. Se m’aiutano altri tu moglie devi sopraπar gli amici, tu moglie, ed entrar nella tua parte primaria. Con i nostri libelli gran personaggio ti s’è imposto: vi passi per modello di buona moglie. Vedi di non rovinarlo; perché i nostri proclami siano veritieri, provvedi a tutelare l’opera della Fama. A non lamentarmi io, zitto io si lamenterà la Fama se non ti curerai di me come devi. Fortuna m’ha esposto alla vista del popolo, e mi si conosce più di quanto accadesse prima. Più noto è divenuto Capaneo dal colpo del fulmine, noto Anfiarao pei cavalli sommersi dalla terra; se meno avesse peregrinato, meno noto sarebbe Ulisse, la grande fama di Filottete è nella sua ferita. Se c’è spazio tra sì gran nomi per i piccoli, la nostra rovina concede visibilità anche a noi. Non ti lascia ignota la mia pagina; ne guadagni un nome all’altezza di Bittide di Coo. Perciò, comunque farai, grande scena ed occhi su te, e moglie pia sarai per non pochi garanti. Credi a me, quante volte sei lodata dalla nostra poesia, il lettore si chiede se queste lodi meriti. E penso che come parecchi apprezzino codeste virtù così non poche vorranno denigrar la tua condotta. Adòperati perché la loro invidia non possa dire: “a salvare il povero marito questa è pigra!”, la mia debolezza non mi fa guidare il carro: fa’ di regger tu da sola il fiacco giogo. Ammalato, polso esitante, parlo agli occhi del medico: finché mi resta l’ultimo alito, aiutami, e l’aiuto che darei io, se fossi io a star meglio, ricambialo tu a me, se stai meglio tu. Questo pretendono amor coniugale e patto maritale: lo pretendi tu stessa, moglie, morigerata come sei.

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hoc domui debes, de qua censeris, ut illam non magis o√ciis quam probitate colas. cuncta licet facias, nisi eris laudabilis uxor, non poterit credi Marcia culta tibi. nec sumus indigni, nec (si uis uera fateri) debetur meritis gratia nulla meis. redditur illa quidem grandi cum fenore nobis, nec te, si cupiat, laedere rumor habet. sed tamen hoc factis adiunge prioribus unum, pro nostris ut sis ambitiosa malis. ut minus infesta iaceam regione, labora, clauda nec o√cii pars erit ulla tui. magna peto, sed non tamen inuidiosa roganti, utque ea non teneas tuta repulsa tua est. nec mihi suscense, totiens si carmine nostro, quod facis, ut facias teque imitere, rogo. fortibus adsueuit tubicen prodesse, suoque dux bene pugnantis incitat ore uiros. nota tua est probitas testataque tempus in omne: sit uirtus etiam non probitate minor. nec tibi Amazonia est pro me sumenda securis aut excisa leui pelta gerenda manu. numen adorandum est, non ut mihi fiat amicum, sed sit ut iratum, quam fuit ante, minus. gratia si nulla est, lacrimae tibi gratia fient: hac potes aut nulla parte mouere deos. quae tibi ne desint, bene per mala nostra cauetur, meque uiro flendi copia diues adest, utque meae res sunt omni, puto, tempore flebis: has fortuna tibi nostra ministrat opes. si mea mors redimenda tua (quod abominor) esset, Admeti coniunx, quam sequereris, erat; aemula Penelopes fieres, si fraude pudica instantis uelles fallere nupta procos; si comes exstincti manes sequerere mariti, esset dux facti Laodamia tui; Iphias ante oculos tibi erat ponenda uolenti corpus in accensos mittere forte rogos. morte nihil opus est, nihil Icariotide tela: Caesaris est coniunx ore precanda tuo, quae praestat uirtute sua, ne prisca uetustas laude pudicitiae saecula nostra premat, quae Veneris formam mores Iunonis habendo

76 magis A B C le e bl : minus Micyllus 85 ut A B C le e bl (cf. tr. iii 3, 5), edd., dubitanter Richmond : in coniecerit Richmond in app. coll. i 3, 49 et alibi 86 erit A B C le e bl : eat Castiglioni, «Boll. Fil. Class.», 30, 1924 136 89 suscense A (cf. P. iv 14, 15, suscensent C), defendd. Axelson 68 sq., qui inter alia adnotat: «[…] dreimal in den Doppelbriefen Sammlung Heroides (16, 35: 129, 20, 185)», Luck : succense B C le e bl 96 gerenda codd. : terenda malebat Heinsius 102 uiro A B C le e bl : uirum l 111 erat B C bl : erit A le e

p. iii 1 Questo devi alla famiglia, in cui ti riconosci, perché l’onorino non più i tuoi doveri che la probità. Tutto puoi fare, ma se non sarai moglie degna di lode, non si potrà credere al tuo rispetto per Marcia. Non ne siamo indegni, e (se vuoi dire il vero) gratitudine devi ai meriti miei. Essa, sì, a noi è resa con grande interesse, né, se pur volesse, calunnia avrebbe di che danneggiarti. Ma tuttavia aggiungi questo solo a quanto già prima fatto, briga di dar conforto ai nostri mali. Che languisca io, sì, ma in una regione meno infesta, intriga, e il tuo dovere non avrai aπatto trascurato. Reclamo un dono grande, che non rende inviso il supplice, e anche se non l’avessi, innocuo ti sarebbe il diniego. Non avercela con me, se tante volte nella mia poesia chiedo di far quel che fai e d’essere uguale a te stessa. Il trombettiere di solito aiuta i valorosi, e con la sua voce il capo incita i guerrieri pugnaci. Nota è la tua probità, testimoniata in ogni occasione: anche l’audacia non sia minore alla probità. Non devi brandir per me la scure amazzonia o con agile mano portare la concava pelta. Si tratta d’adorar il nume, non che mi diventi amico, ma che riduca la collera di prima. Se non godi del suo favore, le lacrime saranno il tuo favore: questa la parte, o niente per commuovere gli dèi. I guai nostri badano bene che esse non ti manchino, con un marito come me c’è di che piangere, e con questa condizione, penso, piangerai in ogni momento: queste ricchezze ti porge la nostra sorte. A riscattar la mia morte con la tua (non voglia iddio), l’esempio da seguire sarebbe la moglie di Admeto; diverresti emula di Penelope se con frode pudica sposa volessi ingannare la minaccia dei proci; se seguissi compagna i mani di tuo marito estinto, ti sarebbe guida d’azione Laodamia; dovresti por dinanzi agli occhi l’Ifiade a voler per caso gettare il corpo nel rogo acceso. La morte non serve aπatto, non serve la tela dell’Icariotide: con le tue parole devi pregar la moglie di Cesare: la sua virtù è garanzia che la prisca vetustà non soπochi il secol nostro nell’elogio della purezza. Con la bellezza di Venere, i costumi di Giunone

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sola est caelesti digna reperta toro. quid trepidas et adire times? Non impia Procne filiaue Aeetae uoce mouenda tua est, nec nurus Aegypti, nec saeua Agamemnonis uxor, Scyllaque, quae Siculas inguine terret aquas, Telegoniue parens uertendis nata figuris, nexaque nodosas angue Medusa comas, femina sed princeps, in qua Fortuna uidere se probat et caecae crimina falsa tulit, qua nihil in terris ad finem solis ab ortu clarius excepto Caesare mundus habet. eligito tempus captatum saepe rogandi, exeat aduersa ne tua nauis aqua. non semper sacras reddunt oracula sortis, ipsaque non omni tempore fana patent. cum status Vrbis erit, qualem nunc auguror esse, et nullus populi contrahet ora dolor, cum domus Augusti, Capitoli more colenda, laeta (quod est et sit) plenaque pacis erit, tum tibi di faciant adeundi copia fiat, profectura aliquid tum tua uerba putes. si quid aget maius, diπer tua coepta caueque spem festinando praecipitare meam. nec rursus iubeo, dum sit uacuissima, quaeras: corporis ad curam uix uacat illa sui. omnia … per rerum turbam tu quoque oportet eas. cum tibi contigerit uultum Iunonis adire, fac sis personae, quam tueare, memor, nec factum defende meum: mala causa silenda est, nil nisi sollicitae sint tua uerba preces. tum lacrimis demenda mora est, summissaque terra ad non mortalis bracchia tende pedes. tum pete nil aliud, saeuo nisi ab hoste recedam: hostem Fortunam sit satis esse mihi. “plura quidem subeunt, sed sunt turbata timore”; haec quoque uix poteris uoce tremente loqui. suspicor hoc damno fore non tibi: sentiet illa

119 trepidas A B C : dubitas P 123 nata A B C e bl : nota le 126 tulit A B C le e bl : luit Merkel 138 putes A (p.c.) B C le : puta e bl : putem g 142 curam A B C : cultum le e bl, probau. Burmannus 143-144 omnia per reum turbam tu quoque oportet eas A (uno uersu) 143 omnia per rerum turbam fastidia perfer B C : curia (lacuna) p** fuerit stipata uerendis B2 (i.m.) : curia cum fuerit patribus stipata uerendis le e bl 144 quolibet ille meat tu quoque oportet eas B C : per patrum turbam (turbas le e) tu (tunc e) quoque oportet (ne pudor obstet blv) eas B2 (i.m., turbam a B3 sscr.) le e bl s 143 et 144 Richmond cum editoribus plerisque seruauit, Ehwald 1896, 12 sq,. et Korn ad l. contempserunt; de iis Némethy «uersus inepti: spurii esse uidentur» scripsit 149 terra A B C D, deπ. Owen, coll. am. iii 2, 25, Lenz : terr(a)e le e bl et alii, Heinsius, Burmannus 153 sunt A B C le e bl s : con- lc : iam va : si Madvig hunc uersum aliter ac editores orationem rectam accepi 154 uoce A B C : ore Burmannus, Bentleius

p. iii 1 lei sola s’è rivelata degna del talamo celeste. Perché trepidi e temi di andar da lei? Non l’empia Procne o la figlia di Eeta devi commuovere con la tua voce, né le nuore d’Egitto e la spietata moglie d’Agamennone né Scilla che con l’inguine spaventa le acque sicule, né la madre di Telegono nata per cangiar le forme, né Medusa intrecciata le chiome di serpente nodose, ma la prima donna: con lei Fortuna di vedere dà prova, e del marchio mendace di cecità; niente in terra dal sorger al tramonto del sole ha il mondo di più splendente di lei tranne Cesare. Scegli il momento spesso cercato di chiedere, perché la tua nave non esca con acque avverse. Non sempre gli oracoli rendono le sacre sorti ed anche i templi non in ogni tempo son aperti. Quando lo status dell’Urbe sarà quale ora auspico sia, e non ci sarà dolore che contragga il volto dei cittadini, quando la casa d’Augusto, venerabile come il Campidoglio, sarà lieta (così è e così sia) e pienamente in pace, allora gli dèi ti diano la possibilità di andar da lei, allora considera che le tue parole avranno un successo. In caso di suoi impegni più seri, rinvia il piano, ed attenta a non far precipitare per la fretta la speranza mia. E ancora, non te la faccio cercar quando sia del tutto libera: a stento ha tempo per la cura del suo corpo. Tutto … nel turbinìo dei suoi impegni devi inserirti anche tu. Quando ti toccherà avvicinarti al volto di Giunone, non dimenticare la parte che devi sostenere; non difendere quel ch’ho fatto: su cause sbagliate silenzio, non altro che ansiose preghiere sian le parole tue. Allora via remora alle lacrime, e prostrata a terra tendi le braccia a piedi non mortali. Allora non chiedere altro se non ch’io sfugga al nemico spietato: mi sia su√ciente l’ostilità di Fortuna. “Svariati pensieri, ecco, sovvengono, ma li sconvolge il timore”; con tremula voce e a fatica anche questo potrai dire. Questo non ti danneggerà, immagino: lei avvertirà

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te maiestatem pertimuisse suam. nec, tua si fletu scindentur uerba, nocebit: interdum lacrimae pondera uocis habent. lux etiam coeptis facito bona talibus adsit horaque conueniens auspiciumque fauens. sed prius imposito sanctis altaribus igni tura fer ad magnos uinaque pura deos, e quibus ante omnis Augustum numen adora progeniemque piam participemque tori. sint utinam mites solito tibi more, tuasque non duris lacrimas uultibus aspiciant.

163 augustum A B C le e : augusti bl d ad her. 20, 144 conferre iuuat

165 tibi A B C le e bl : mihi oiv piv : sibi Heinsius, cuius notam

p. iii 1 il tuo timore della sua maestà. Né, se la parola sarà rotta dal pianto, nuocerà: talvolta le lacrime pesano come la voce. Fa’ che sia anche una bella giornata per tal impresa e un’ora giusta ed un propizio auspicio. Ma prima poni sui sacri altari il fuoco e porta incenso e vino puro ai grandi dèi; di loro adora innanzi tutti il nume d’Augusto e la pia progenie e la compagna del talamo. Oh, siano clementi come sempre verso te, e senza broncio in volto guardino le lacrime tue.

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1-6. All’evocazione mitologica di Giasone, il cui remo per primo batteva le acque dell’aequor (un poetismo) pontico (cfr. già P. i 4, 35-36), secondo la tradizione mitografica greca che considerava il figlio di Esone il primo navigatore della stirpe ellenica, Ovidio, alla maniera euripidea impiegata nell’Helena («Ecco il Nilo e le sue acque correnti / … il fiume / che … / inonda i piani e ne feconda il suolo» [tr. C. Diano]) e nell’Andromaca («O città di Tebe, vanto della terra asiatica» [tr. A. Tonelli]), «like an actor [the protagonist, direi] in a tragic prologue» (Davisson 1984, 326 e nota 10), a√da l’ouverture del iii libro ex Ponto. L’immagine ravvicinata del remo che batte le onde, isolata, condensata dal procedimento retorico-stilistico della sineddoche, in un fotogramma che mira all’annullamento dei contorni dello scenario, risente dell’ispirazione callimachea. È questa la più lunga epistola in assoluto, l’ultima indirizzata alla moglie, mai apostrofata col nome gentilizio: ultima, quae mecum seros permansit in annos / sustinuit coniunx exulis esse uiri, si legge in tr. iv 10, 73-74. Accedendo alla communis opinio, chiameremo ‘Fabia’ Mrs Ovid, per usare un’indicazione onomastica convenzionale sì, ma soprattutto per mancanza di testimonianze dirette, e non, invece, solo perché non venga mai dal poeta citata col nomen in Anrede data la natura prosodica del nomen al nom./voc., un tribraco, incompatibile con lo schema dattilico, mai, comunque, soggetto a sinalefe dell’ultima sillaba, o mutato in anapesto con la productio dell’ultima, evoluzione prosodico-metrica, peraltro, sconveniente per il vocativo appellativo del tipo Lesbia, Delia, Cynthia: le occorrenze ovidiane sono limitate, appunto, ai due anapesti, Fabiā di fast. ii 240, agg. qualificante gente, parola trocaica che avvia il 2° emistichio; Fabios di fast. ii 377, sempre con riferimento alla gens. A Fabia, dunque, destinataria anche della quarta del i libro dell’ultima raccolta, il poeta ne aveva già scritte sette incluse nei libri dei Tristia, i 6, iii 3, iv 3, v 2, 5, 11, 14. Nemmeno mai nominata, d’altra parte, è la figlia, indicata con filia a fast. vi 220 e 233; tr. iv 10, 75; con nata a tr. i 3, 19, e tanto meno la figliastra citata a P. iv 8, 11, forse Perilla, ma l’identità della Perilla di tr. iii 7, 1 è per molti critici dubbia, anche se recentemente accolta da Tissol 90. Diversamente da Gaertner 2005, 216 e Tissol 90, che a proposito di P. i 2, 136, ille ego de uestra cui data nupta domo est, intendono estensivamente la cerchia della domus in cui includono i clientes, continua a prevalere tra gli esegeti la tesi che la consorte appartenesse alla gens Fabia, congiunta di Fabio Massimo, che gode dello spazio più ampio nei Fasti, marito di Marcia, cugina di Augusto; e particolarmente puntuali sono in proposito le considerazioni di Froesch 100-101, seguìto da Helzle 1989a, 184 sg., sulla base del testo citato. Meno probabile è apparso l’imparentamento con Macro sulla base di P. ii 10, 10, mea … coniunx non aliena tibi («mi mujer no te sea una estraña» trad. F. Socas Gavilán 99), espressione che appare assai più generica della precedente. Helzle 1989a, 190-192 avanza l’ipotesi che dopo il 14, con la morte di Augusto e l’avvento al trono di Tiberio cui era inviso Fabio Massimo, un tempo ascoltato consigliere di Augusto (Tac. ann. i 5, 1; Syme 1978, 146), Fabia avesse raggiunto il marito a Tomi, per quanto rari fossero casi del genere (Tac. Agr. 45, 1; hist. i 3, 2; Plin. n.h. vii 19, 4); il trasferimento spiegherebbe, secondo lo studioso, le ragioni dell’inesistenza di ulteriori missive uxori, e soprattutto la totale assenza di Fabia nel iv libro ex Ponto, se si eccettua l’accenno di iv 8, 12, … quae te generum, me uocat illa uirum, che tradisce una certa distanza; un’ipotesi confutata da Fedeli 2003, 33 con obiettive argomentazioni. A mio avviso P. iii 1 non contiene un’ennesima richiesta di aiuto, ma è piuttosto una sorta di addio alle speranze dell’esule che la moglie possa riscuotere un successo in un intervento di mediazione presso la famiglia di Augusto, perché non la considera capace, o, forse, addirittura, non la sente favorevolmente disposta. Tra la qualificazione di L. P. Wilkinson 343 del tono di

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questa elegia, ‘petulant’, quella di Nagle 53, ‘impatient’, e quella di Evans 1983, 129, ‘cold or even brutal’, le ultime due appaiono meglio rispondenti all’escalation dell’irritazione di Ovidio per il comportamento della moglie che, ex silentio, ci si rivela abulico se non addirittura contrario alla volontà del marito. L’incipit dell’epistola per alcuni aspetti richiama alla memoria poetica l’esametro di attacco del c. 64 di Catullo (Peliaco quondam prognatae uertice pinus), nel motivo del pionierismo marino, nell’immagine del remo, appunto (il sing. remige è un altro poetismo), che nella visione catulliana spazza la cerulea distesa del mare, v. 7, come ancora nella ripresa dell’uso dell’aggettivo derivato dal nome proprio, Peliaco … uErtIcE ~ Iasonio (< Prop. ii 24, 45, Iasonia … carina) … rEmIgE, iuncturae isoprosodiche, ma emerge evidente anche l’identità vocalica dei sostantivi. La combinazione sintagmatica intenzionalmente favorisce l’emersione alla memoria dell’ipotesto, agevolata, infatti, dallo stesso eπetto oltre che di sonorità anche di ritmo (parola coriambica + parola dattilica). Della citazione catulliana Ovidio sembra conservare il senso di rammarico per questa ‘prima volta’ nella storia dell’uomo, e sembra questo il motivo che ne giustifica il riuso; una sorta di maledizione nei confronti di chi in tempi primordiali indicò all’uomo, con un atto di audacia, la possibilità della navigazione diventandone l’inuentor, e di chi, forte di quelle indicazioni, avrebbe continuato scoprendo le acque pontiche, e pertanto investendosi inconsapevolmente del ruolo di prw`to~ eujrethv~ di una rotta marina che si sarebbe rivelata tragica per un esule come lui. Non possiamo dire, inoltre, in quale misura empatetica e con quali intenzioni autobiografiche il Sulmonese utilizzasse il mito, portatore di una storia di tradimento ed infedeltà nell’eros, di vendetta per l’eros, con un epilogo di esemplare tragicità; forse quelle intenzioni sono debolissime, ma significativa è l’attribuzione della responsabilità di un accidente che riguarda la vicenda umana del poeta ad eventi primordiali, che, in fondo, sottolineano l’impossibilità che quella disgrazia non accadesse. Al mare eusino Ovidio si rivolge direttamente, in Anrede, come alla terra scitica, martoriata da frequenti incursioni di popolazioni nemiche (ne aveva già parlato in P. i 8 a Severo) e coperta dalla neve, due negatività interagenti nella visione drammatica del luogo che lo ospita. Terra è lo «spazio della barbarie» come, ad es., in tr. iii 1, 18; iii 3, 46; eccezionalmente in tr. i 1, 128 essa indica Roma e l’Italia (Dan 223). Piuttosto diversa è l’utilizzazione del mito argonautico nella parallela epistola a Fabia del i libro delle ex P., la quarta, dove esso trova ampio spazio (vv. 23-46) ed è giocato su un serrato confronto per antitesi tra la sorte propizia di Giasone, personaggio dell’epica ‘storica’, celebrato in una tradizione che va da Apollonio Rodio a Varrone Atacino, e la sventurata esperienza del poeta. In questa diversità sono forse racchiuse le ragioni della ripresa proprio di quella fabula, ora variata. Graf 114 sg., anzi, richiama l’attenzione sul riconoscimento da parte del poeta della inadeguatezza del mito a riprodurre la sua esperienza, tanto più che la finzione del dato mitologico contrasta decisamente con la cruda verità biografica che il testo esilico contiene. La considerazione ovidiana della diversità coinvolge anche la sua valutazione attuale della poesia erotica, in cui talvolta riconosce il carattere fittizio degli exempla mitologici, che, anziché oπrire equivalenze, o, comunque, termini di e√cace confronto con l’esperienza amorosa, si rivelano nella loro vacuità rispetto alla concretezza del reale: prodigiosa loquor, ueterum mendacia uatum (am. iii 6, 17). Graf 115 scrive che l’esule Ovidio «signals the end of mythology’s usefulness». Questo, evidentemente, nell’ambito complessivo della produzione esilica ovidiana, può risultar vero in alcuni casi, smentito in altri, e questa discontinuità è riconoscibile già in molte elegie dei Tristia. Il mito è da lui impiegato per esprimere ora speranzose assimilabilità, come appare chiaro nelle composizioni dei primissimi anni d’esilio, ora contrastività, come prevalentemente avviene soprattutto in questo terzo libro delle Ex Ponto. I primi due distici, costruiti sul gioco antitetico tra chi ha con successo raggiunto quella terra e chi non riesce a ricevere l’ordine, frequentemente invocato nei Tristia, di lasciarla, pongono in diretta antitesi il figlio di Esone e Nasone: relinquam (in clausola come altrove in Ovidio) /abesse,

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non adesse o abire di altri codd.; abesse, che Cicerone usa per indicare la condizione dell’esiliato (dom. 84; Sest. 73), rende opportunamente il desiderio dell’esser lontano dalle ostilità che quel luogo riserva. Quel locus è una terra straniera ma anche la patria di una popolazione primitiva, con quella doppia accezione che il termine barbaria prevede; il poeta ne prende le distanze (ista, v. 5), pur pensando ormai alla prossimità della morte: condar oportet è eredità properziana (iii 7, 72 con i commenti di Fedeli 1985, 279 e di Heyworth-Morwood 173): il significato è diverso, ma il contesto, la morte prematura del giovane Peto, appare ispirativo. 7-10. Il tono eccessivamente dispregiativo usato nei confronti della terra pontica spinge il poeta ad attenuare la sua acredine per la sede assegnatagli: il v. 7 ed il v. 9 si aprono entrambi col sintagma coriambico pace tua, meglio interpuntivamente separati da un segno incidentale forte come parentesi o trattino (così Richmond) anziché da virgole come fa la maggior parte degli editori compresa la Pérez Vega; l’accorgimento favorisce la realizzazione di un gioco di parole che serve soprattutto ad evocare la condizione di perenne conflitto vissuta dal Ponto con le popolazioni limitrofe. Ovidio rappresenta con lente direi ellenistica la condizione di pericolo per le temute incursioni belliche, puntando sulla descrizione del particolare: un rapidus equus, un cavallo che, calpestando con velocità il suolo pontico, divora il terreno: la Partia degli arcieri a cavallo non era lontana, ed il sintagma a fast. v 592, quid rapidi profuit usus equi …?, al Parto si riferisce. Quanta rassegnata incredulità in quel si pax ulla est tua, v. 7! Forse un monito per chi al ristabilimento di quella pax avrebbe dovuto o dovrebbe guardare con attenzione, ed apprensione! Proprio da questa considerazione scaturisce un ulteriore giudizio negativo: il Ponto rappresenta la ragione di maggior soπerenza, appesantisce le sventure. L’esule lo rinfaccia direttamente alla terra che lo ospita, in una rhesis amara dominata dalla martellante anafora del tu, collocato nell’esametro a ridosso della eftemimere, tu pessima, nel pentametro ad apertura del ii emistichio, tu mala. La parola del poeta rivolta alla Pontica tellus, destinataria di uno sfogo tanto angoscioso quanto sommesso, è limitata alla denuncia delle conseguenze che il soggiorno tomitano scarica su di lui: l’uso dell’inf. perf. per il pres., dixisse velim, calco dell’inf. aor. greco, ampiamente diπuso in età augustea anche grazie alla metrische Bequemlichkeit, è tipicamente elegiaco: si pensi, e.g., a Tib. i 1, 45-46, quam iuuat … / … dominam tenero continuisse sinu; Ou. ars iii 525-526, quis uetat … / sumere nec … pertimuisse (cfr. Bonvicini 2000, 36, n. 21; il caso, infra, di v. 156, sentiet … pertimuisse appare diverso: contra Staπhorst 64). Il du-Stil successivo, che persiste sino al nec tibi sunt fontes di v. 17, è concepito come una sorta di monologo interiore (ci si rivolge a se stessi), in cui il poeta rievoca caratteristiche già ben note, che non possono rappresentare un’inedita o ignota informativa sulla terra pontica stessa. 11-16. La parte iniziale della lettera mira a catturare l’emotività del pubblico dei lettori per acquisirne buona disposizione d’animo e ricettività, secondo le indicazioni fornite in rhet. ad Her. i 15, 20 (Davisson 1981, 17). Lo squarcio paesaggistico tomitano è ripreso con uno psicologismo che dà la percezione di un realismo drammatico ed accorato. Per ribadire la (debolmente) discussa veridicità storica dell’esilio Claassen 1987 40-41 punta soprattutto sull’intensità emotiva, evidentissima in tr. iv 10. Questo landscape, che Evans 1976, 106 volle definire «a poem within a poem», è introdotto, come s’è detto, dai vv. 9b-10 in discorso diretto, tu pessima /…, rivolto alla terra pontica; ad esso segue immediatamente, al di fuori della rhesis ma con la conservazione del du-Stil, la presentazione dei caratteri tipici di locus inamabilis dominato da una serie di mancate attribuzioni nel campo delle fenomenologie atmosferiche e meteorologiche che, per converso, risultano allora de-naturate, deprivate del loro avvicendarsi, ed anzi assorbite in un’unica sinistra stagione. Non c’è primavera di fiori (per la personificazione met. ii 27, uerque nouum stabat cinctum florente corona, Staπhorst 13), ispiratrice in tr. iii 12 di versi velati di tenera nostalgia (istic, v. 17), in cui filtra la rievocazione della stagione romana, quella che nell’im-

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maginario poetico si colorava (e si colora), e, sì, proverbialmente, dell’avvio catulliano: iam uer egelidos (ma dalla Bitinia a Roma si torna); non c’è estate che veda denudati per il caldo intenso i corpi dei messores impegnati nella loro fatica agricola, non ci sono i pampini che annunciano la vendemmia d’inizio autunno, un’immagine ripresa, sì, da tr. iii 10, 71, non hic pampinea dulcis latet uua sub umbra, ma ora svestita di quella nostalgia (dulcis) lì ancóra aleggiante. Solo inverno, che tutto domina col suo freddo smisurato: in due distici Ovidio, alla maniera oraziana (carm. iv 7, 9-12), riassume l’alternarsi di stagioni che non esistono, citandone espressamente due, e indirettamente alludendo alle altre due; sovvengono anche i vv. 187-188 dei Remedia: poma dat autumnus; formosa est messibus aestas; / uer praebet flores; igne leuatur hiems. Cita uer e autumnus ai vv. 11 e 13, mentre profila la reazione dei corpi dei mietitori al caldo intenso dell’estate, la condizione generalizzata di congelamento per il rigido clima invernale. Il gelo, infatti, caratterizza questo paesaggio surreale dove l’acqua sembra incatenata nel ghiaccio: in glacie freta uincta del v. 15, che nel ritmo olodattilico realizza il senso della fluida ed uniforme compattezza della glacies, esprime un’immagine bellissima che Martin 1969, 380 ipotizza abbia ispirato descrizioni paesaggistiche invernali nell’antica poesia inglese. Qui il risvolto di autobiografismo è più drammatico del terraque pacis inops undaque uincta (la lez. iuncta di A B è smentita da questo luogo di iii 1 e da tr. iii 10, 25: Goold 1990, in app.) gelu di P. ii 2, 94; ora, piuttosto, il poeta vede i pesci imprigionati nell’acqua coperta da uno strato di neve che li rende inclusi, v. 16, li nasconde, li limita: un altro segnale di autoreferenzialità. Ma ci sovviene anche l’immagine, a√ne, di P. iv 7, 7-10, in cui l’ospite tomitano avverte Vestale, centurione inviato sul Ponto Eusino, che il mare si ghiaccia, che rigido stantia uina gelu (v. 8), che il bifolco transdanubiano conduce i carri sull’Istro: il vino, protagonista dei gioiosi incontri conviviali d’un tempo, ma anche supporto e√cace della seduzione erotica, purché usato moderatamente (am. i 6, 59, e.g.), un simbolo iniziatico, si snatura nella rigidità senza vita, … senza entusiasmo, del ghiaccio; ora Dioniso, a cui è dedicata l’aretologia di tr. v 3, 35 sgg., sia solo il bonus Liber al quale chiedere che gli porti aiuto. È un paesaggio letterario nella misura in cui risente in parte della descrizione virgiliana dell’inverno scitico: penso, e.g., a geo. iii 367 sgg., in cui il Mantovano propone al lettore la scena penosa dei cervi che impotenti, tra acuti bramiti, si lasciano trafiggere e massacrare dal ferro dei cacciatori compiaciuti. Ma è anche un paesaggio personalizzato e adattato alla interiorità di chi lo dipinge, oltre che alla condizione umorale sempre transitoria, se, ad es., a tr. iii 10, 7 Ovidio aveva scritto dum tamen aura tepet. È ben noto lo scetticismo di Fitton Brown impressionato da certa unreality delle descrizioni del paesaggio, e ben note sono le argomentazioni contrarie alla presa di posizione di questo studioso espresse, ad es., da Little 27 sgg., 32 sg.; Alvar Ezquerra 119 sg., 125 sg. richiama l’attenzione sulla potenziale validità di entrambe le impostazioni esegetiche (una aggiornata rassegna bibliografica sul tema si legge nello stesso Alvar Ezquerra 108, note 3-4). Non c’è dubbio che bisogna mantenersi equidistanti dalle posizioni di estremo scetticismo come da quelle di estremo positivismo, non per negare l’eπettiva coatta permanenza di Ovidio a Tomi, ma solo per far rientrare nella veste poetica qualche esagerazione descrittiva, finalizzata ad altri esiti di significato. Basterebbe pensare allo squarcio descrittivo del profilo ambientale tracciato da Seneca della Corsica, sua terra d’esilio, in epigr. 2 R., che risentono vistosamente della memoria poetica ovidiana: Corsica terribilis, cum primum incanduit aestas, / saeuior, ostendit cum ferus ora Canis (2, 5-6); o dell’epigr. 3 R., in cui la barbara Corsica appare soπocata da rocce scoscese, orrida, in ogni dove desolata. L’e√cace anafora del non e del nullus, che Ovidio esalta con una insistenza mirante a convincere con una climactic measure, non sfugge alle scelte dell’epigrammista lontano dalla patria. Non poma autumnus, segetes non educat aestas / […] / imbriferum nullo uer est laetabile fetu / nullaque in infausto nascitur herba solo. / Non panis, non haustus aquae, non ultimus ignis (epigr. 3, 2-7). 17-24. Dal clima al contesto ambientale la rappresentazione del paesaggio dell’assurdo e dell’iperbolico si allarga; opportunamente Richmond 1995, 98, tracciando un quadro complessivo

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del Ponto, località, clima, popolazione, ricorda che la latitudine di Tomi, corrisponde a quella di Firenze: il poeta avverte e confessa un’intolleranza che ripete un’incapacità all’abitudine espressa anche in tr. iii 3, 7, nec caelum patior nec aquis adsueuimus istis. Non ci sono sorgenti d’acqua fresca, solo acqua di mare, che accresce la sete anziché fermarla. Non ci sono alberi (ecco la forzatura iperbolica!), o forse se ne intravede solitario nell’immensità dei campi qualcuno, evidentemente non felix, in un paesaggio in cui terra e mare, alterati nella verace normalità naturale, si confondono, perdono le loro peculiarità; quegli arua, propriamente ‘terreni coltivati’, che hanno perduto la loro essenza, son citati nella loro paradossalità, ed il richiamo a distanza con l’agg. rara (‘vuoti’), collocato nell’enfasi dell’incipit di verso, ne determina quasi una figura ossimorica, spia di un’ironia debordante nell’amara considerazione che tra terra e mare non sembra esserci diπerenza. Rari gli alberi, sparuti (siqua) gli uccelli: auis anch’essa non felix, come l’arbor, mal adattata ad un habitat innaturale che le nega il canto: per bere le «acque di mare» (anche gli uomini mescolano, son costretti a mescolare acqua marina ad acqua di palude, P. ii 7, 74), l’uccello si allontana, remota, dalle siluae; beve quelle aequoreae aquae che non troverebbe nelle selve: siluis remotis è menda dei codd. poziori (cfr. app. cr.), imputabile all’insistente assonanza, auis … nisi siluis siqua; per il valore avverbiale di nisi … si, ‘außer’, Staπhorst cita Cic. fam. xiv 2, 1, nisi si quis, e Kühner-Stegman ii 417, 6. La auis arrochisce la gola (v. 22), rauco gutture (A B C le e), quasi soπoca, si snatura e si trasforma, come Callisto, ‘la bellissima’, che, in met. ii 484, emette rauco de gutture una uox plena terroris, assumendo le fattezze mostruose di un’orsa. La ripresa del sintagma suggerisce al lettore di applicare a questo contesto il registro metamorfico dell’epos ovidiano, così rappresentando l’alterazione aberrante che gli esseri della natura subiscono (e che l’esule stesso e la sua poesia in qualche modo patiscono) in una terra artificiosa, adulterata: una strategia compositiva che si disperderebbe nell’adozione della variante gurgite di bl, nel senso di ‘gorgo’ marino, respinta dagli edd. ma riproposta da White 342, che però non tien conto che, oltretutto, i due termini possono essere sinonimici (ThlL vi 2 2361, 10 sqq., s.u. gurges), e che, quindi, l’adozione della variante non comporta di necessità, come ella vorrebbe, il significato sopra riportato; inoltre guttur è ‘pars corporis quarundam avium’, come avverte l’articolista del ThlL, ibid., 2377, 28 sgg. L’assenzio, l’Artemisia absinthium (non a caso assente nella pur foltissima nomenclatura della flora di Virgilio), non potrebbe spuntare più convenientemente altrove. Il suo sapore amaro sembra, d’altra parte, riflettere in modo più convincente la tristitia del locus, tristia … absinthia, come il poeta ripete, quasi in segno di resa (Stevens 175 parla di «linguistic infertility or impotence»), a P. iii 8, 15 nella stessa posizione metrica. La pianta erbacea subisce qui una degradatio umorale se a tr. v 13, 21 era stata definita solo cana, protagonista del paesaggio pontico, tanto caratterizzante da entrare a far parte del polo dell’assurdità di una costruzione per adynaton, figura retorica mai così presente nella poesia latina come nella produzione esilica ovidiana (Canter 40): dovrebbe sparire il bianco dell’assenzio, prima che si dimostri al poeta di essere stato dimenticato dall’amico, anonimo destinatario; non altrove nel mondo essa potrebbe fiorire, il commento autoriale. Qui l’immagine indica come altrettanto impossibile sia dimostrare che l’amico destinatario della lettera si sia dimenticato del poeta, ma l’immagine è avvolta da un velo di amara ironia. Il parossismo poetico condanna alla totale negatività una pianta che, come scrive Plinio in n.h. xxvii 28, 45, parlando tra i vari del genus Ponticum, ha la medulla dulcis, mentre della stessa medulla è il genus Italicum ad essere multo amarius; è noto, peraltro, oggi, che l’Artemisia Pontica, o assenzio gentile, è addirittura sfruttata in liquoreria. 25-30. Alle di√coltà climatiche ed ambientali, drammatizzate dall’attribuzione alla Scythia minor (l’od. Romania), dove il poeta eπettivamente si trovava, delle caratteristiche della Scythia maior (l’od. Ucraina), descritte da Virgilio in geo. iii 349-383, si aggiungono problemi di scarsa sicurezza del territorio minato dalla presenza costante di un nemico spietato e dall’isolamento

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che ne accresce la vulnerabilità. Balzano in primo piano le mura della città sconvolte (mVRVs pVlsatVR: i suoni cupi della recriminazione) dai colpi di forze ostili, le saette avvelenate gocciolanti di peste mortifera, il tinctile uirus di tr. iii 10, 64, un’immagine espressa con chiasmo sintattico che, a v. 26, se vede la coppia aggettivale seguìta dalla coppia sostantivale, col vb. in clausola, rappresenta anche e soprattutto la tabes letale all’interno della sagitta tincta, ne costituisce l’intima essenza, la custodisce: si avverte l’empatheia autoriale, comprensibile considerando che anche lo stesso poeta sarebbe stato bersaglio dell’hostis. Infine, un’ulteriore denuncia di una situazione spettrale: l’impossibilità di ricevere aiuti data l’enorme di√coltà di accesso, sia per terra che per mare, ed, implicitamente, l’impossibilità di allontanarsi da questo luogo in caso di pericolo di vita non previsto dalla pena: la mancanza di un sistema viario e l’insicurezza del mare espongono quel territorio a mille rischi: nec pede … nec rate, isoprosodici ed isometrici, che aprono i due emistichi 28, sottolineano la totale impraticabilità di quel territorio. Sul piano linguistico e stilistico si distingue la voce verbale che chiude il verso, eat, nelle opere esiliche sempre in clausola se si esclude Ibis 575. È un modo vigoroso di rappresentare il paesaggio per denunciare la propria relegatio come una sorta di condanna a morte, ‘a living death’, come scrive Kenney 1992, xiv (Nagle 22-32; Helzle 1989, 13 [e n. 41]-14; Williams 1994, 12-13; Claassen 1999, 239-240; Hardie 2002, 287 [e nota 9]; Grebe 2010, 491, con ampia bibliografia a nota 3). Se non alla forzata lontananza da Roma almeno alla morte l’esule vorrebbe sfuggire: di qui richieste continue, monotone, come monotona appare a lui stesso la sua poesia. A chiusura dell’ampio preambolo geografico, etnografico ed antropologico Ovidio osserva che, poste le obiettive condizioni di pericolo in cui versa, non può destare nessuna meraviglia, non igitur mirum, che egli chieda insistentemente un trasferimento di sede, usque rogatur. Come ripercorrendo le varie fasi attraversate nella sua attività epistolografica e valutandole conclusivamente, il poeta risale all’inizio quando avanzava analoga richiesta nell’epilogo della lettera a Bruto incipitaria della raccolta (P. i 1, 79-80, inque locum Scythico uacuum mutabor ab arcu; / plus isto, duri, si precer, oris ero). 31-36. L’Anrede al destinatario, la coniunx, è rimandata dall’esordio sino a questo punto della lettera; è, dunque, piuttosto tardiva. Il mittente osserva un procedimento epistolografico atipico nei suoi elementi convenzionali. Non è casuale che i primi quindici distici siano spesi per lamentare ancora una volta le condizioni di estrema di√coltà ambientale nelle quali il poeta si trova a dover vivere, e nemmeno casuale è che in un’epistola indirizzata alla coniunx, citata appunto solo ora, col sostantivo indicante il vincolo parentale, come sempre, ma ora con implicito riferimento agli obblighi coniugali cui la consorte sarebbe tenuta, le Anreden iniziali siano all’aequor eusino e alla terra pontica. La topotesia di apertura e l’illustrazione dei fattori ambientali che per chi vi sia relegato rendono invivibile il Ponto servono a sensibilizzare ancor più la donna, sollecitandole la memoria, non per conoscere ma per comprendere la drammatica serietà delle ragioni del disagio, ed invitandola, quindi, a svolgere, con una mediazione presso la consorte del principe, il suo ruolo di moglie, atto doveroso che, nelle circostanze drammatiche in cui si trova il coniuge, non può esimirsi dal compiere. È come la continuazione di un discorso già avviato, poi ripetuto, poi interrotto ed ora, forse stancamente, ripreso. Una tecnica da suasoria ed una strategia compositiva non compresa dal copista del Monacensis Latinus 384 (B), del sec. xii, che faceva precedere la vergatura di v. 31 con la segnalazione dell’inizio di una nuova elegia, evidentemente conseguenza di un’impressione personale, ed isolata; «hic nouam eleg. inc. B cum tit. ‘ad coniugem’», come segnala André, seguìto da Pérez Vega. Nessun dubbio potrebbe mai intaccare l’unità dell’epistola, che a questo punto fa registrare semplicemente una seconda sezione del suo esteso sviluppo. Richmond, e con lui svariati edd., nemmeno riportano in app. il comportamento del copista di B; l’editore della Teubneriana, però, raddoppiando la spaziatura tra il v. 30 ed il v. 31, ha ritenuto, comunque, di evidenziare che con il v. 31 sgg. inizia una nuova parte

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dell’elegia, la seconda delle quattro che individua, fissando la terza dopo il v. 94 e la quarta dopo il v. 128, una prassi, ordinaria direi, che egli adotta per tutte le altre epistole. L’inversione delle Anreden, che relega in un punto già avviato della lettera l’apostrofe al destinatario, così staccato dal nome del mittente, Naso, di solito contestuale, per lasciare l’incipit all’invocazione a mare eusino e terra tomitana, ha una sua funzione e custodisce un suo significato se si consideri questa lettera, come si diceva, il prosieguo di un dialogo a distanza, in cui cómpito del poeta è sempre quello di parlare e chiedere, cómpito della consorte avrebbe già dovuto essere e continuerebbe a dover essere, nelle speranze del marito, quello di ascoltare agire ottenere. Non è un inizio ex abrupto quello dell’elegia, non è, in fondo, una Anrede tecnicamente tardiva quella del v. 31. La distanza testuale delle due Anreden, al mare e alla terra pontica da un lato, alla moglie dall’altro, misura la distanza che ormai separa il poeta dalla coniunx, l’aspettativa dell’esule dalla speranza di realizzarla. Ben diversamente si deve commentare la non meno tardiva Anrede di P. i 4, fidissima coniunx, a v. 45, poiché in questa epistola il tono, per quanto già meno aπettuoso di quello usato nelle lettere dei Tristia, è in ogni caso diverso, quando si pensi che Ovidio, marito lontano e strappato al ménage familiare, ricorre da subito al du-Stil: nec, si me subito uideas, agnoscere possis, v. 5, crede mihi, v. 10, cernis, v. 11, aspice, v. 23. Non c’è nulla in questa epistola che indulga a leggervi presupposti e/o risvolti di natura sentimentale; Betty Rose Nagle 53 parla, a mio avviso giustamente, di «very impatient tone»; richiesta del relegato ed intercessione del beneficiante sono ideologicamente concepiti e lessicalmente gestiti nell’ottica del corrispondente diritto e del corrispondente obbligo giuridico (oportet a vv. 35 e 144), e quindi del dovere (debes a vv. 41 e 75; debetur a v. 80), del decoro (decet a v. 40). Non è prevista, e nemmeno sentita, una tensione amorosa, e quindi l’intervento richiesto non rientra in quell’etica non u√ciale confluente nell’intimismo di un dono che sia oπerto con segreto trasporto. L’assenza nel contesto di un a∫ato di natura aπettiva esclude che l’atteggiamento dello scrivente sia assimilabile a quello del poeta/amans dimidiato tra spes e metus. La Nagle rinviene, comunque, nell’Ovidio di P. iii 1 qua e là le coordinate configuranti il ruolo giocato dall’amante nel rapporto erotico di marchio elegiaco. Anche alla luce della diversità tonale che s’avverte in questa ‘epistola’ rispetto alle altre inviate alla moglie, si può, probabilmente piuttosto pensare che Fabia ora abbia smesso di essere nella fantasia poetica dell’autore l’ipostasi dell’eroina epistolografa della raccolta giovanile (ampia carrellata delle corrispondenze tra il personaggio di Fabia e le eroine del mito da ultimo in Baeza Angulo 2008, 138 sgg.), e quale è riconoscibile nella terza epistola del i libro dei Tristia, dove i vv. 81-86 sono un frammento di eroide. Che questo basti a trasformare la figura di Fabia da personaggio dell’autobiografia ovidiana, storicamente definito dunque, a figura letteraria, culturalmente delimitato allora, non penso risponda al vero. La poesia classica è poesia dotta, e la poesia di Ovidio non lo è di meno. Il poeta cerca di volta in volta il modello della sua personale vicenda nel mito, nella cultura e nella tradizione letteraria, ed a questo è ampiamente abituato; si può dire che egli abbia operato quasi sempre per procedimenti paralleli, stabilendo però anche distanze, diπerenze, rovesciamenti. Ora, però, lo status dell’esule, stanco di chiedere e di attendere, è cambiato: l’esule chiede fingendo di chiedere, si riposiziona sui percorsi elegiaci, propri e di altri, per ricordarli a se stesso come inutili, agli altri come segnale della ine√cacia delle sue richieste. Ovidio celebra in questa ‘epistola’ una sorta di discidium dalla werbende Dichtung: Fabia è forse la prima eroina antiovidiana, ella appartiene ad un’altra dimensione, è un rovesciamento della Cinzia dell’ottava elegia del iv libro di Properzio: questa si lamentava dell’indiπerenza del vecchio amante: in te iam uires somnus habere potest? (v. 13), chiede l’ombra della puella tra sdegno e meraviglia; Ovidio ammonisce Fabia di non lasciarsi prendere dal sonno e di perorare la sua causa, … faciat somnos haec tibi cura breues (v. 36). È ben nota l’ipotesi, viscerale e non intellettuale, scartata perché priva di fondamento testuale, avanzata da Buescu 243, che ci fosse stato un divorzio, ma si può ammettere come almeno plausibile un serio deterioramento dei rapporti tra i coniugi.

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Valore e ragione dell’espressione non igitur mirum di v. 29, occorrente anche a P. i 1, 67 (Axelson 93), si determinano con maggiore chiarezza nella loro contrastività, amaramente ironica, rispetto al magis est mirum successivo (v. 31), che introduce la delusione per l’insuccesso finora raccolto da Fabia, te … non hoc euincere. La donna non riesce ad euincere, ‘abbattere gli ostacoli’, ma il verbo, che nell’accezione tecnica giuridica vale ‘recuperare un possedimento’, maschera un più intenso sarcasmo contro una moglie che non sente ‘suo’ il marito esule, e quindi – come sospetta il poeta – appare priva di interesse aπettivo, e nemmeno piange per la sua sorte. Ancora stridente è la contrastività con la figura di moglie ricordata in tr. i 3, 17-18, flens acrius … / imbre per indignas usque cadente genas: qui la profondità del sentimento sconfina rispetto all’u√cialità di una artificiosa aπectio maritalis (Baeza Angulo 2008, 140). Il contesto logico respinge l’ipotesi, scartata ma ammissibile per Staπhorst 21-22, che hoc sia sogg. e non ogg. di euincere; la respinge anche il contesto sintattico dove il sogg. del coordinato tenere non può evidentemente che essere te; Davisson 1984, 327 n. 11, intende: «It is surprising that you do not prevail in this [because you are not weeping enough]». Il motivo delle lacrime, che in questo contesto si aπaccia all’attenzione del lettore, attraversa l’intera epistola ricorrendo ancora ai vv. 99 sgg., 149 sgg., 166. L’amarezza del poeta per la pigra reazione di Fabia a questo punto trova espressione, all’interno di un solo distico, nel ricorso all’analogia semantica inuenies/reperire, una figura già usata in met. i 654, non inuenta reperta (Inaco ad Io), e soprattutto nella concentrazione di suoni che, nell’eco prodotta dal diptoto a contatto, quaeris: quaeras, nelle assonanze o negli eπetti allitteranti, sembrano riprodurre la vanità di un’avvilente cantilena. Tutto evidenzia la sfiducia di un uomo che si sente abbandonato, come un’eroina delle epistole erotiche giovanili, dal faciás quaerís: quaerás (v. 33) scanditi dalle incisioni in T, in P ed in H, all’alternanza vocalica serrata i/e, alla paronomasia in inuenies uere si reperire uoles. La domanda che la moglie rivolge al marito Iscomaco, tiv d’a]n ejgwv soi [...] dunaivmhn sumpra`xai…, «in cosa potrei aiutarti?», che si legge in Xenoph. oec. 7, 14, è forse troppo generica ed istituzionale in situazioni familiari per pensare ad una intenzionale ripresa. Il linguaggio e l’organizzazione del pensiero senz’altro richiamano alla mente rem. 487, quaeris ubi inuenias? Artes tu perlege nostras (sul reperimento delle puellae). Ed il poeta incalza: ammesso anche che la moglie voglia (si uoles) trovare il modo di un intervento e√cace, volere non basta: uelle parum est esclama il poeta ripetendo la battuta di Scilla in met. viii 69, quando valuta che l’accesso è custodito, e la chiave della porta (claustra portarum, sintagma plurisemantico e plurifunzionale) è nelle mani del padre Niso. Il lessico è rintracciato in una situazione ambientale e in una condizione psicologica avvertite come a√ni. Velle parum est: bisogna che il desiderio sia intenso (cupias oportet); a questo proposito i confronti trovati da Citroni Marchetti ibid., 16 sgg. con Sen. de ben. i 7, 1 e vi 11, 3 sono molto pertinenti ed interessanti. Egli rimprovera lo scarso impegno emotivo della moglie, le rinfaccia la mancata cupido (de re amatoria Pichon 119), condizione ineludibile per la sua credibilità e la buona riuscita della missione presso Livia, ut re potiaris, quasi si trattasse del conseguimento di un successo in amore, come l’Ovidio di un tempo, quello che ha preceduto la relegazione, usava dire, secondo il codice distintivo dell’Ars e spesso delle Metamorfosi, ancora non definitive queste ultime, come confessa l’autore in tr. i 7, 27 sgg.; ii 63 sgg.; 555 sg. Il coinvolgimento psicologico ed emozionale deve essere tanto intenso da procurare insonnia da ansia alla donna; i motivi di questa condizione interiore, che siano simili (insonnia per amore) o che siano esattamente opposti (sonno profondo per riscatto dai lacci d’amore), pur così diversi da quelli della fenomenologia amorosa, son gestiti col ricorso allo stesso patrimonio linguistico e la stessa stilizzazione utilizzati nelle opere erotiche, dalla cura (Pichon 120 sg.) che attanaglia la persona innamorata di ars i 733 sg., dall’insonnia insistente, come indica il plur. somnos … breues (per il plur. Leumann-Hofmann-Szantyr ii 18, «in somnis [aber per somnum]»), che colpisce l’innamorato di am. i 2, 1-4 (McKeown 34-36), alla ritrovata serenità e al recuperato sonno di chi si è liberato in rem. 205-206 (Pinotti 155-156).

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37-48. Ma il poeta insiste; è desiderio di molti, pensa, uelle reor multos, che migliori la sua condizione, ribadendo in altro senso e degradando il valore del precedente uelle parum est: Fabia deve distinguersi dai multi, che pure, evidentemente, non potrebbero mai essere così ingiusti (ma Augusto lo è stato e lo è! Davisson 1984, 328) da desiderare per l’esule una condizione di vita priva di pax, poste le condizioni di assoluta insicurezza dell’area in cui è stato relegato: con l’anastrofe optet ut, dovuta a ragioni innanzitutto metriche, è automaticamente attivato nel contempo il suono [opt]etut che sembra consegnare al lettore con quella insistita dentale l’idea del risentimento di un uomo contrariato, scaricata su combinazioni consonantiche onomatopeiche. La collocazione avvolgente nel verso, incipitaria di pectore, in clausola di neruis, il suono insistente della dentale e l’assonanza -cto-/toto/-cti- nel pattern dell’esametro 39, in cui emerge il chiasmo, la riconversione del sintagma nocte dieque da ars ii 348, che in quell’ambito testuale, di altri tempi, alludeva alla permanente presenza del pensiero della donna amata nella mente del iuuenis amans, la gradatio ascendente da incumbere dell’esametro a niti del pentametro: a queste movenze espressive e stilistiche è a√dato un chiaro messaggio: la faccenda va gestita – avverte il poeta – con un totale trasporto aπettivo di tipo coniugale, secondo le norme del prépon, come il decet che chiude il distico segnala. Quindi, il ruolo di Fabia è unico ed insostituibile; quand’anche (ut concess., a partire da Terenzio, Leumann-Hofmann-Szantyr ii 647 § 351) il poeta riceva aiuto dagli altri, gli amici, il cómpito della moglie dev’essere di una portata superiore, deve ella vestire panni di protagonista, ad partis prima uenire. Il linguaggio è quello teatrale di ars i 278, partes rogantis, ii 198, quas partis ille iubebit agas, ii 294, partis … potentis (Solodow 119; Larosa 2013, 64-65; Ead. 2013a, 184). Il protagonismo di Fabia sulla scena dell’auspicato incontro regale con Livia dev’essere parallelo a quello di cui la donna ha goduto nei libelli del poeta, dove il suo personaggio ha raggiunto livelli molto elevati grazie al suo cantore; e a lui deve l’immortalità, come le puellae elegiache, eroine dei loro poeti, avevano ben imparato, e come ben sapeva il pubblico cólto che ora registrava lo scarto tra i due tipi di elegi, non più il blandum carmen di Properzio e dello stesso Ovidio degli Amores, ma la Stimmung dell’elegia triste (Nagle 71 sgg.; Davisson 1984, passim), l’«elegia dell’amicizia» (Labate 1987, 119): la teatralità nell’uno e nell’altro ambito comportamentale, in ogni caso, di√cilmente ammette come necessaria l’associazione permanente del dato elegiaco con un dato tragico, come vuole Vial 258. La caratterizzazione di Fabia è assai diversificata rispetto alla puella elegiaca; la presenza pur massiccia di pertinenti reminiscenze properziane e tibulliane anche altrove (Helzle 1989a, 192, nota 18), ad es. tr. iii 3 e iv 3, non può prescindere dalla natura profondamente diversa del ruolo sociale antropologico poetico della coniunx, che appartiene ad altro codice, ad altre opzioni esistenziali. Helzle ibid., 188 pensa che Ovidio gestisca il ‘personaggio’ di Fabia come gestisce i ‘personaggi’ degli amici e dei patroni; Fedeli 2003, 11 vede nella caratterizzazione di Fabia tratti non dissimili da quelli della domina elegiaca, come già Davisson 1984, 324 sgg., che anzi, estende, per la iii 1, la tipizzazione elegiaca a Livia. Citroni Marchetti 2004, 13 sgg. ricorda la valenza ‘sociologica’ del termine, col quale si indica rispettosamente la ‘moglie’, la ‘signora’. Se si ammette un progressivo aggiornamento, nelle ex Ponto e soprattutto in questo terzo libro, della lettura della personale condizione da parte del poeta, è possibile cogliere nelle epistole un mesto disincanto che ispira una velata ironia, evidentemente non sempre così palpabile nelle poesie dei Tristia, specialmente quelle scritte a breve distanza di tempo dalla partenza da Roma e quindi durante il viaggio e nelle prime fasi del soggiorno tomitano. La vena ironica può comportare, come scrive Claassen 1991, 27, una non-identità tra creazione poetica e soπerenza dell’autore che subisce la relegatio, insomma tra poesia e vita, ma non è men vero che nel caso del poeta esule anzi è proprio il dolore della lontananza e della delusione a dettare i modi della poesia, ad ispirarne talvolta il risvolto ironico e ad imprimerne una cifra stilistica. La poesia dell’esilio incrocia l’autentica quotidianità della vita e del pensiero autoriali con la resa testuale, a√dataria di quella realtà

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psicologica. In questa lettera ex Ponto alla moglie Ovidio ricorre ad una terminologia già nota: fides/foedus, o√cium, debere, tutela (tueri), meritum, gratia, memor (-ia), che Helzle 1989a, 188-189 legge nella loro letteralità, scevra delle implicazioni amatorie; sono termini già presenti nelle epistole uxori dei Tristia; il poeta, sì, li ri-usa in questa epistola elegiaca di apertura del iii libro dal Ponto, ma li impoverisce di a∫ato privandoli di quel tono speranzoso, surrogato, a mio avviso, da una disillusione riducibile ad amarezza e quasi beπardo sarcasmo. Ouidius relegatus non veste i panni del poeta amans elegiaco, ancora una volta ferito dalla perfidia della puella: un atteggiamento mordace non sarebbe appartenuto a quel registro, né sarebbe tornato conveniente a quella realtà. Ovidio recupera l’esteriorità di una forma mentis elegiaca, ed il ‘significante’ di un linguaggio riconoscibile come elegiaco, ma solo, alzando il sipario, per esibire, inaugurandola, una poesia accusatoria realizzata con una lessicalizzazione che, nel ri-uso, si trasforma in mezzo di astiosa derisione. Fabia occupa una posizione privilegiata perché appartiene ad una famiglia in grado di influenzare assai da vicino per quanto non direttamente le decisioni del principe: il suo silenzio, la sua passività sono significativi, e lo sono in maggior misura per la sensibilità del relegatus, più coinvolta e più scossa. La percezione della componente sarcastica in questo contesto ovidiano, come in tante altre realtà testuali, con evidenza suπragata in ogni caso da opportuni riscontri, a meno che non sia palesemente conclamata, rimane il risultato dell’applicazione al testo della soggettività del lettore, della sua sensibilità talvolta. E. Fraenkel (Horace, Oxford, 1957, 350 sgg.), come ricorda Labate 1987, 126 sgg., richiamava Cic. ad fam. xi 16, 1 (a Decimo Bruto) ed Hor. epist. i 13, 1 sgg. (a Vinnio Asina) sulle cautele da usare nei rapporti con gli uomini del potere; Ovidio aveva riconvertito quella summa di praecepta in sede di didassi erotica, e poi, con le opere esiliche, almeno sino ad un certo tempo, torna a sfruttarle per le esigenze connesse a circostanze di drammatica seriosità, ma finché ha creduto in una loro valida e√cacia. Il disincanto e la disillusione, ora, però, hanno preso il sopravvento, ed hanno operato un’altra riconversione, sostituendo la speranza d’un tempo con l’arguta mordacità. È lecito pensare, d’altra parte, e questa liceità va estesa soprattutto al poeta, per il quale anzi essa diventa lucida considerazione, che Fabia, per dare sicurezze alla famiglia, per difendere il patrimonio familiare, non soggetto a confisca (la publicatio honorum non colpiva i relegati, come invece colpiva i deportati) si guardasse bene dall’urtare la suscettibilità del giudice sanzionatore, e di chi deteneva il potere di orientarne le decisioni. In questo senso Fabia ad un certo punto è oltre i parametri della figura della novella eroina, della puella elegiaca, della discipula che svolge funzione mediatrice; Fabia è matrona a tutti gli eπetti, e questo status le suggerisce l’utilitas da perseguire, che comporta atteggiamenti engagés. Il distico 43-44 è portatore di una duplice autoallusione: l’esametro, magna tibi imposita est nostris persona libellis, dove ricorre un altro termine tecnico dell’ambiente teatrale, richiama allusivamente tr. v 14, 1, quanta tibi dederim nostris monumenta libellis (Davisson 1984, 336 sg.), ma il divario tonale è evidente nell’assai diverso ingaggio sulla scena di Fabia, prima solo destinataria di un’immortalità garantita dalla poesia, ora ‘personaggio’ vincolato al ruolo/dovere di coniuge. Nel pentametro, coniugis exemplum diceris esse bonae, si può leggere il dubbio che pervade il poeta sulla validità della fama della donna come bona coniunx; il verso rivela una strategia allusiva a precedenti lettere dei Tristia inviate dal Ponto alla moglie: in tr. I 6, 25-26 Ovidio aveva ricordato che una donna di primissimo piano, femina princeps (come al v. 125 della nostra epistola), probabilmente Livia, la first lady, o Marcia cugina di Augusto, in quanto figlia di Azia minore zia del principe, insegnava a Fabia exemplum coniugis esse bonae; in tr. iv 3, 72, exemplumque mihi coniugis esto bonae, echeggiamento evidente, il poeta esortava la moglie a mettere in pratica quei precetti. La garanzia dell’insegnamento di Marcia (o di Livia stessa), la fiduciosa esortazione rivolta dal poeta stesso assicuravano che Fabia avrebbe felicemente ricoperto il ruolo di bona coniunx, con consapevolezza e trasporto; l’imposizione, ora, di quel ruolo, imposita … persona, quasi indossando una maschera teatrale, interpretando un tipo, un carattere (Plaut. Pers. 783,

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personas, in simpatica paronomasia con Persa; Ter. Eun. 26, 32, 35), e sulla scorta di un semplice «si dice», da cui si dà l’impressione di prendere le distanze, sconfessa questa opinione. Gli esempi di puntuale intratestualità che ho riportato hanno un valore semantico aggiunto: la ri-scrittura, con poche varianti, di versi da Ovidio stesso composti attesta che tra quei testi e questo di ex P. è intercorsa una poesia di laudationes per Fabia, che ne ha fatto, come, appunto, gli altri riconoscono (diceris), una esemplarità della bona coniunx. Il coniuge/poeta, dal suo punto di vista che si è progressivamente attualizzato, sta impegnando Fabia dinanzi al pubblico dei lettori e dinanzi all’Augusta o a Marcia, del cui magistero ha potuto godere, non per carpire dal suo eventuale scrupolo l’agognato intervento, ma piuttosto per smentire quella fama. La certezza del ruolo di bona coniunx della moglie vacilla nella mente del poeta che, temendo comportamenti contrari a quella fama in cui egli stesso ha creduto, e che egli stesso ha contribuito a costruire con i versi a lei dedicati, dispera, in realtà, di poter ancora ammonirla a non rovinare quella nobilissima reputazione, che i suoi proclami sembrano aver amplificato. Il poeta evita di esprimere in forma più esplicita perplessità se non disapprovazione per il comportamento di Fabia (reale o presunto dalla sua condizione anche psicologicamente precaria), e gioca sulla doppia valenza del sintagma opus famae, cui attribuisce soprattutto valore metaletterario: la fama della sua poesia che aveva celebrato la uirtus della donna, contribuendo a creare intorno alla sua figura una notorietà di bona coniunx, non sia sostituita da una fama, altrettanto poetica, che condanni quella stessa donna. Il pentimento manifestato da Properzio nella poesia del discidium, uersibus insignem te pudet esse meis (iii 24, 4), nel testo esilico ovidiano non esplode in maniera esplicita, per fermarsi allo stadio del risentimento. Evidentemente questo senso si disperderebbe ove si accogliesse la congettura di Heinsius, onus, condivisa da Némethy, Shackleton Bailey 1982, 397-398 e da Richmond, sulla scorta di tr. iii 4, 62 = (iii 4b, 16), impositum … sibi firma tuetur onus: l’esule allude alla moglie che allevia la sua soπerenza perché, salda nel suo ruolo di coniunx, si è fatta carico di un peso immane. Ovidio ha gestito l’intratestualità col passo dei Tristia ricorrendo alla tecnica dell’imitatio cum uariatione (le voci verbali tuetur/tueare sono il segnale più emergente dell’imitatio); una uariatio imposta da una situazione che non ha fatto registrare miglioramenti. Se, infatti, nell’epistola dei Tristia aveva puntato sull’immagine dell’onus per realizzare il gioco contrappositivo tra leuat … amorem dell’esametro e, appunto, impositum … tuetur onus del pentametro, ora lo stato d’animo è mutato perché invece immutata è rimasta la situazione per l’inabilità di Fabia. Se pur (ut concessivo a v. 47, come a vv. 38, 41, 88) il poeta si esime dal criticare apertamente un mancato eπettivo interessamento della moglie per ottenere un miglioramento della sua condizione di relegatus, e tutto lascia pensare che sia proprio così, ad esternare la lagnanza, in sostituzione del poeta (il sintagma tacito me è hapax assoluto nella poesia latina), sarebbe la Fama (Claassen 1990, 109 sgg.; Citroni Marchetti 2004, 17 sgg.) a sconfessare quella rinomanza di bona coniunx che le ripetute laudationes poetiche hanno costruito intorno all’immagine di lei. Il diptoto querar / queretur, con la particolare posizione delle due voci verbali, in P ed in clausola (Howe 85 e nota 10), contribuisce a sottolineare questa immagine della Fama che nel lamento supplisce il poeta. 49-56. In quattro distici, vv. 49-56, secondo una tecnica largamente collaudata nella poesia ‘lieta’, Ovidio canta la sympatheia nel mythos. Ai vv. 51-54 una serie di quattro esempi mitologici, a ciascuno dei quali è riservato un verso in cui il nome del personaggio mitico occupa una posizione metrica sempre privilegiata (Capaneus dopo P, Amphiaraus incipit del ii emistichio pentametrico, Vlixes in clausola, Philoctetae [-es] in dieresi pentametrica), è preceduta e seguìta da un distico a tema autobiografico. La personificazione di Fortuna, la dea (cfr. v. 152), quindi, suggerirebbe un’interpretazione oggettiva della figura divina; l’attribuzione del possessivo, mea, previsto dalla congettura di Heinsius, accolta da Richmond, soggettivizza l’immagine sottraendole in qualche modo quella passività patita da Ovidio. Questa forma dei contenuti stabilisce un

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rapporto strettissimo tra la doctrina mitologica e l’esperienza personale del poeta che si misura con la persona mithologica e misura il suo bebiwmevnon con quello dell’eroe di turno, consegnando al lettore qualche forse valido indizio, sia pur ancora molto vago, per avanzare una congettura sulle ragioni politiche della relegatio. La sequenza nella citazione dei quattro personaggi è regolata da un criterio ‘climactic’, che privilegia l’ultimo evocato, Filottete, non a caso l’unico caratterizzato da innocenza, come lamenta, con accenti così sorprendentemente ‘ovidiani’, il coro ai vv. 681 sgg. della tragedia di Sofocle: a[llon […] / ouvd’ eja/sivdwn moivra/ / tou`d’ ejcqivoni suntucovnta qnatw`n, / o}~ ou[t’ e[rxa~ tin’, ou[te nosfivsa~ / […] / w[lluqe w|d’ ajnaxivw~, «un altro […] non vidi fra i mortali, che s’imbattesse in una sorte più maligna di quella di costui: il quale senza aver fatto niente né tolto nulla a nessuno, […], periva in modo così indegno» (tr. N. Festa, Roma, 1918; cfr. anche i vv. 1333-1334). Morso da un serpente era stato abbandonato dai Greci nell’isola di Lemno con la sua ferita purulenta; dopo un lungo esilio fu salvato e curato da Macaone (egf 52, 6-10). Un implicito accenno a questo personaggio, così simpatetico, è anche in P. i 3, 5, ma è in tr. v 1, 61-62 e v 2, 13-14 che l’esule stabilisce una assoluta identità tra sé ed il personaggio sofocleo; colpisce in quest’ultimo luogo l’espressione aluit Poeantius […] / pestiferum tumido uulnus ab angue datum. Capaneo è il primo personaggio citato: uno dei Sette contro Tebe, fu punito per aver sfidato Zeus, come si legge in Aeschyl. Sept. 422 sgg. e in Eur. Phoen. 1172 sgg.; Ovidio lo cita, frettolosamente, a met. ix 404-405, Capaneus [...] nisi ab Ioue uinci / haud poterit (cfr. anche Ibis 470, satus Hipponoo). Il fulmine dal quale fu colpito (h{xein keraunovn, Aeschyl. Sept. 445; Suppl. 934, to;n me;n Dio;~ plhgevnta Kapaneva puriv) ricorda il fulmen dal quale l’esule più volte ha lamentato di essere stato còlto per castigo ‘divino’. Anfiarao, il sesto dei Sette (Aeschyl. Sept. 568 sgg.), figlio di Oicle (Ou. ars iii 13, col comm. di Cristante, pp. 350-351) fu ingannato dalla moglie che lo spinse ad andare a Tebe (Apoll. iii 6, 2, ∆Erifuvlh […] e[peisen aujto;n su;n ∆Adravstw/ strateuvein); l’autore dell’Ibis la cita con pungente sarcasmo come esempio di fedeltà coniugale; di Ulisse, cui l’esule spesso si assimila, si ricorda il faticoso peregrinare (e.g., Od. i 1 sg., mavla polla; / plavgcqh), o più particolarmente la ardita curiositas (Davisson 1984, 328, nota 16 segnala per il foolhardy Ulysses Od. ix 475 sgg.). La figura del re itacese non ha specifiche qualificazioni in questo luogo, come anche in tr. iii 11, 61; P. iii 6, 19; iv 16, 13, dove è il breve contesto a caratterizzare l’eroe greco. Diversi i casi di tr. i 2, 9, cautum … Vlixem, tr. v 5, 51, durus … Vlixes, P. iv 14, 35, sollerte Vlixe, e soprattutto di P. iv 10, 9, dove a definire Ulisse è la frase che riempie l’intero esametro, exemplum est animi nimium patientis Vlixes (che riflette il poluvtla~ omerico). La sorte di Ovidio è nota a tutti, non solo alle persone dotte che leggevano le sue opere, ma anche a quelle individualità semplici che formavano l’opinione pubblica, che, a modo di pensare del poeta, probabilmente condannava il suo status di esule, e, conseguentemente, chi l’aveva imposto. L’insistenza sulla diπusione della notizia e sulla presa di essa sul populus – notitiae, v. 50, notior, v. 51, notus, v. 52, una sequenza regolata da un’e√cace commistione di diptoto e di figura etimologica – (Bernhardt 56 sg.; Citroni 1995, 441), ma soprattutto sull’amplificatio del personaggio perdente e soπerente, la cui fama supera, appunto, analoghe esperienze mitologiche, e, quindi, anche quella già precedentemente conquistata dal poeta, tradisce, a mio avviso, un nemmeno tanto velato messaggio al principe dal novello Capaneo colpito dal fulmen. Con un segnale di semplicità e di modestia, che ricorda il Virgilio della prima bucolica, sic paruis componere magna solebam, v. 23, o della quarta georgica, si parua licet componere magnis, v. 176, il poeta chiude la coppia di distici ‘mitologici’ con l’augurio di trovare visibilità proprio nella disgrazia che l’ha personalmente colpito, pur essendo egli così piccolo tra nomi così grandi: se è vero che il possessivo nel sintagma nostra ruina, a v. 56, intensifica, insieme con nos che apre il pentametro, il senso del confronto che il poeta ha stabilito con le fabulae appena proposte, la congettura di Hall 1993, 293 (da Pérez Vega nemmeno registrata né nella Bibliografía, dove dello stesso autore appare il contributo dell’88, né in app.), nota, in una raccolta poetica in cui non si

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parla d’altro se non della soπertissima relegazione dell’autore, appare di una disarmante banalità, che la massiccia presenza nel contesto prima evidenziata, e da Hall richiamata, non rimuove. A respingere la congettura di Hall concorre anche la presenza di conspicuos (con facio in poesia solo qui in Ovidio, in prosa in Liu. i 34, 11; Sen. epist. 66, 8; Suet. Aug. 8: ThlL iv 498, 86 sgg.), riferito a nos, che non giustifica nota a quel punto direi sinonimico: la ruina dà ulteriore visibilità al poeta, ma, nell’ambito del microcontesto, se fosse già nota, il poeta non ricorrerebbe all’amplificatio che il riferimento mitologico assicura. 57-62. Alla propria fama accresciuta a séguito della relegatio (v. 56) il poeta accosta la fama di cui può godere Fabia, associata, come era già avvenuto nella sesta elegia del i libro dei Tristia, a Bittide, la donna amata da Fileta di Coo (probabilmente la moglie), destinataria di componimenti poetici cui allude Ermesianatte in fr. 7, 77 Pow. (= 2, 77 D.). La pagina, metonimia sotto forma di sineddoche per indicare una porzione di produzione poetica in generale, come, ad es., poi in Mart. i 4, 8, lasciua est nobis pagina, uita proba (ThlL x 88, 29 sgg.), garantisce immortalità al nome di Fabia: il parallelismo fissato tra Fabia e Bittide e tra sé e Fileta non è suggerito da motivazioni di carattere metaletterario. La rinomanza della laudatio di Bittide nelle poesie filetee rappresentava un exemplum di celebrazione molto noto e ben si prestava ad una citazione che rispondeva alle attese. Il poeta sottolinea la notorietà che la sua poesia sa garantire; molti i suoi lettori, molti i garanti della pietas di Fabia, che può aπacciarsi su una platea di ampia vastità, uno scenario in grado di concederle larga visibilità, scaena spectabere magna, un sintagma in cui si segnala l’allitterazione dei due primi lessemi. Il ionico a maiore spectabere, che rimane, in questa forma del verbo specto, un appannaggio espressivo di esclusivo uso ovidiano, è ripreso da contesti in qualche modo anche tematicamente collegati a questo dell’epistola a Fabia: ars i 557 (un caso di catasterismo); met. iii 98 (metamorfosi in serpe di chi un serpente aveva ucciso); v 228 (possibile eterna ammirazione per Fineo irrigidito in una statua). I lettori potrebbero interrogarsi sulla credibilità delle lodi tessute dal poeta stesso, ed allora il pubblico dotto si dividerà tra ammiratori e denigratori, interpretando la pericope, che riceve valore semantico dalla voce verbale, come allusione ironica al passo dell’Ars, come rinvio minaccioso ai due passi delle Metamorfosi. La rievocata celebrazione poetica di Bittide serve ad Ovidio per rinfacciare alla moglie una buona fama forse immeritata; netto è il contrasto con la parallela citazione di Bittide in tr. i 6, 2, dove la donna di Fileta viene ricordata solo per supportare il concetto, iperbolico, della superiorità di Fabia quanto ad intensità d’amore ricevuto: nec tantum Coo Bittis amata suo est. Il giudizio sul conto della donna cantata dal poeta greco, ora espresso in termini di assoluta positività, va confrontato col precedente utilizzato per far emergere piuttosto la superiorità di Fabia; esso maschera l’oscillazione nella quale naufraga la malferma certezza di Ovidio riguardo alla fides della moglie, il cui operato considera non su√cientemente e√cace per ottenere un cambio di sede per la sua relegazione. Del resto, il poeta dubita che i suoi lettori, e non son pochi (accolgo a v. 60 la lez. paucis di B C, preferendola a paruis di A: cfr. app. cr.), condividano i tanti elogi della donna disseminati nelle sue epistole. La fides di Fabia reclamata da Ovidio in quest’ultima fase della relegatio va intesa in questa epistola soprattutto nel senso di «conjugal duty and social responsability», come giustamente scrive Larosa 2014, 380 sgg., anche se certi toni sarcastici tradiscono forse un’acrimonia su base sentimentale, oltre la maritalis aπectio d’u√cio. Ancora una volta il poeta torna su particolari tematici già trattati nei Tristia, non con lo scopo di ribadirli, quanto piuttosto di richiamarli per smentirli, rivedendo giudizi e valutazioni alla luce di una accertata inadeguatezza del personaggio a svolgere azioni miranti ad ottenere concreti risultati circa la realizzazione delle sue richieste. Ma bisogna forse guardarsi dal prendere il poeta troppo sul serio; quando Evans 1983, 127-28 e Larosa 2014, 380 scrivono, rispettivamente che per Ovidio «it is time for his wife to do something», e che «the more insistent tones reveal the extreme attempt to persuade her in order to intercede quickly

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and concretely for him», ritengo che queste aπermazioni possano essere accettate sol se si consideri che il poeta simuli quella richiesta: dopo cinque anni di relegatio (in perpetuum!) chi poteva, allora, ancora credere che Ovidio lasciasse Tomi? Chi potrebbe, ora, credere che veramente vi confidasse Ovidio? 63-68. L’esclamazione messa in bocca alle non paucae, mosse da un improbabile liuor in realtà solo inventato dal poeta che quasi vuole imporne la veridicità a se stesso, accusa la donna di contrastare pigramente, lenta, l’esilio del miser uir: la contiguità degli aggettivi a v. 66, in coincidenza con la dieresi pentametrica, è molto significativa nel contrapporre la condotta opportunistica dell’una alla condizione di indigenza dell’altro (per il valore semantico in re amatoria dell’agg. lentus Pichon 186, Larosa 2013, 78 sg.). La debolezza, fisica e mentale, rende il poeta inabile alla guida del carro familiare, e scarica su Fabia il gravoso cómpito che ora esige un impegno forte per ottenere il trasferimento. L’immagine di questo currus, che egli, debilitato, sa di non poter guidare, sembra una proiezione psicologica nella quale prende forma il mezzo in grado di trasportare il condannato finalmente sulla terraferma. Ovidio è consapevole che la situazione di distacco dalla moglie illanguidisce l’unità coniugale, iugum (‘de coniugio’ Baer in ThlL vii 2 641, 26 sgg. e 642, 8 sgg.): la circostanza è assolutamente eccezionale, ed altrettanto eccezionale è il sintagma che la esprime, debile iugum, che, non a caso forse, è hapax assoluto. La donna è sola, unica (in senso numerico), a sostenere il giogo, ma lo sostiene per davvero? Sola come l’anonimo destinatario di tr. v 9, 3-4 che l’esule, mancato naufrago, canterebbe isolatamente, memore dei grandi meriti acquisiti per averlo strappato all’onda stigia, mentre la maggior parte degli ‘amici’ non tese la mano a lui che si dibatteva tra i flutti, vv. 15 sgg.; ancora sola fu per l’esule l’amico Cotta Massimo in P. iii 2, 5-6, mentre alcuni si perdevano in timorose esitazioni (Larosa 2013, 81). Ad unus et alter (amici) si allude in tr. i 3, 16; in tr. i 5, 33; iii 5, 10; v 4, 36; P. ii 3, 30 si parla di duo tresue, una formula che riassume la pochezza (Hor. ars 358 docet). In genere vale, ribadita, l’amara constatazione di Teognide i 209-210 (ed. West, Oxonii, 1971), oujdeiv~ toi feuvgonti fivlo~ kai; pisto;~ eJtai`ro~: / th`~ de; fugh`~ ejstin tou`t’ ajnihrovteron («l’esule non ha amici e compagni fidàti; questo è più penoso dell’esilio»), ripresa da Euripide in Phoen. 403, ta; fivlwn d’ oujdevn, h[n ti dustuchÊ`~ («amici, niente, quando sei nella sventura»), condivisa da Ovidio già a tr. i 9, 5-6, donec eris sospes, multos numerabis amicos: / tempora si fuerint nubila, solus eris. Il debile iugum appare sempre più il simbolo della fragilità della tenuta della dualità familiare dinanzi alle di√coltà: è una conferma di quanto Ovidio ha già riconosciuto in tr. v 2, 40, subtrahis eπracto tu quoque colla iugo. La ripresa a P. iii 1 del motivo del iugum potrebbe essere, tra gli altri esibiti (per es. Luck 1977, ii 284; contra, per es., Syme 1978, 77: «this friend […]»), un ulteriore elemento a favore dell’individuazione in Fabia del destinatario dell’epistola dei Tris­ tia. Non si tratta solo di rilevare una debolezza che si esaurisce in ragioni oggettive, e cioè nel forzato allontanamento, ma, come è nei sospetti e nei timori del poeta, probabilmente si tratta di prendere atto di una non ferrea volontà della moglie di impegnarsi concretamente per ottenere che a lui sia assegnata una sede meno disagiata per l’espiazione della pena, un cambiamento che provoca un ulteriore scoraggiamento; si è verificata una «rupture grave» (Puccini-Delbey 343). Evidente, anche in questo caso, lo slittamento ideologico dal iugum che emblematizza la sintonia erotica al iugum che configura l’unità matrimoniale. 69-74. L’idea così marcata della debolezza fa da traino all’immagine del poeta malato. Il contenuto della rhesis alla moglie si carica, infatti, di un elemento retorico mirante alla commozione del destinatario: il poeta si dichiara malato (Bernhardt 71, nota 1), aeger (sostantivo), v. 69, come l’esule Melibeo virgiliano di buc. 1, 13, come egli stesso già a tr. iii 3, 2-3, in anadiplosi (con la pessimistica aggiunta: incertusque meae paene salutis eram, v. 4); a P. i 3, 90; ii 2, 45; e poi a iii 4, 8. Ovidio, già medico delle soπerenze d’amore, ora nel ruolo del paziente (Fish 872 e passim),

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e comunque in condizioni assolutamente diverse da quelle dell’exclusus amator, sembra smentire i praecepta forniti all’aeger nei Remedia (Davisson 1983, passim) ove si prescrivono tecniche terapeutiche che evidentemente non valgono per curare i mali dell’esperienza esilica. (Segnalo, riguardo alla tematica della malattia come metafora, per usare la formula di Susan Sontag [tr. it. di E. Capriolo, C. Novella, Milano, Mondadori, 2002], il volume miscellaneo curato da Stefano Manferlotti, La malattia come metafora nelle letterature dell’Occidente, Napoli, Liguori, 2014; cfr. anche Ruth Rothaus Caston, Love as illness: Poets and Philosophers on Romantic Love, «cj», 101, Athens, Univ. of Georgia, 2006, pp. 271-298.) La stessa poesia – ecco l’implicita piega metapoetica del discorso ovidiano – forse fallisce in un’eventuale funzione curativa, perché non produce consolazione; Cicerone nella lettera ad Attico (xii 14, 3), scritta ad Astura l’8 marzo del 45, invece, confessava che non esiste forma di conforto più valida che comporre un testo letterario. Il poeta contatta il medico, cerca di scrutarne l’espressione degli occhi per leggervi temute diagnosi catastrofiche; cerca, a momenti, la cura al di fuori di sé, tenta il recupero di modalità comportamentali appartenute ad una stagione esistenziale e poetica passata, come l’appello al medicus, un ruolo una volta ricoperto proprio da lui, anziché cancellarle, ma forse col solo scopo di dimostrarne la inutilità; chiede che la moglie lo aiuti come farebbe lui (praestarem: quante occorrenze di questo verbo nella poesia esilica ovidiana!) a ruoli invertiti, nel rispetto del socialis amor (ripreso da met. vii 800, coordinato a mutua cura, in chiasmo come qui, e tr. v 14, 28) e del foedus maritum. Il socialis amor è un vincolo che il linguaggio ovidiano, in questo caso, col profilo espressivo che il sintagma oπre, nuovo e sperimentale anche se ispirato dall’eco catulliana di 76, 3, ricordata da Claassen 1999, 147, interpreta nel duplice risvolto, sentimentale e contrattuale (per Staπhorst 37 socialis «hier = coniugialis»), ma, soprattutto, nel rispetto che Fabia porta alla sua stessa disciplina, ai suoi mores: l’interscambiabilità dei membri sintagmatici – maritus amor / foedus sociale (così a met. xiv 380; her. 4, 17; [her. 5, 101-102]) – asseconda una klimax intensa ed e√cace, esaltata dalla stessa costruzione chiastica. 75-88. Sembra più un appello al risveglio di quei mores, che la doverosa attestazione di una eπettiva osservanza di mores, se è vero che subito dopo il poeta le ricorda che quel rispetto è per lei un atto dovuto nei confronti della familia (hoc domui debes), alla quale appartiene (de qua censeris: diverso il senso di de quo censeris di P. ii 5, 73: Galasso 1995, 285), e che ella onorerà più con la probità (Lechi 1978, 17 sgg.) che con una fredda ottemperanza di o√cia. A questo punto la prospettiva muta ed il giudizio sul rapporto tra i due coniugi travalica i confini della vicenda erotica tradizionale alla quale Ovidio aveva applicato il suo magistero con i suggerimenti dell’Ars e dei Remedia, perché il viscerale sentimento è sostituito dall’ordinario adempimento dell’o√cium. Il poeta va ancora oltre, vincolando l’onorabilità del comportamento della moglie al rispetto da lei portato a Marcia, personaggio u√ciale, figlia di L. Marcio Filippo e di Azia minor (cfr., qui, supra), nipote di Giulio Cesare, moglie di P. Fabio Massimo (Syme 1993, sp. 599 e 610), ed appartenente alla famiglia imperiale in quanto cugina di Augusto e così, quindi, in qualche modo coinvolgendola in un giudizio espresso dai livelli u√ciali, un giudizio al quale ella poteva particolarmente tenere anche per motivi strettamente personali. In fast. vi 803-10 viene celebrata la discendenza della sacra femina digna domo da Anco Marzio, e, ancora risalendo, da Numa, figura particolarmente privilegiata nei Fasti. Siamo oltre il discorso del sentimento, Ovidio entra, ora in modo plateale, nel campo degli interessi, anche materiali, a cui Fabia senz’altro guardava; anzi, forse proprio nel rispetto di questi la donna nascondeva la sua ‘pigrizia’ (a questa interpretazione sembra che il testo porti), nel timore che una perorazione eccessiva, insistente della causa del marito potesse nuocerle. Il poeta sospetta che la moglie fosse assalita da questi timori, e manifesta apertamente le sue perplessità quando (v. 87) le ricorda che egli chiede molto, magna peto, ma che quelle richieste mai attirerebbero odio, discredito su di lei, inuidiosa, come inuidiosa, invece, a P. iii 6, 16, l’amico destinatario dell’epistola fa diventare con la sua richiesta di anoni-

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mato la reuerentia verso gli dèi augusti. Il poeta, piuttosto, sta prospettando un giudizio negativo per la moglie se mostrasse poco rispetto verso la familia, e questo certamente non gioverebbe alla sua immagine che ella sembrerebbe impegnata a difendere imboccando strade diverse. Il rispetto dell’onorabilità di Marcia è motivo ricorrente: lo stesso participio culta, che qui definisce la deferenza di Fabia verso la nobile donna, riferito ad una non citata matrona si legge in tr. i 6, 25-27, femina seu princeps, omnes tibi culta per annos, / te docet exemplum coniugis esse bonae, / adsimilemque sui longa adsuetudine fecit. Potrebbe trattarsi della stessa Marcia (Luck nel comm. ad l. pensa ad Atia minor), ma si ha motivo di dubitarne quando si pensi che l’appellativo femina princeps al v. 125 di questa epistola è attribuito senz’altro a Livia; in epic. Drusi 303-304 nell’epiteto si riconosce senz’altro Livia. Non escluderei che con questi appellativi il poeta miri a richiamare l’attenzione della moglie, e del lettore, non su di un unico personaggio femminile della famiglia imperiale, ma su più esemplarità di matronae appartenenti a quel casato, col doppio fine di indicare alla consorte adeguati modelli e di rendere un doveroso omaggio alla sacralità immacolata di una famiglia probabilmente in altre circostanze proprio su quel terreno oπesa in forme a noi comunque sconosciute: un’ennesima, mascherata captatio beneuolentiae? Il poeta rivendica il diritto a ricevere aiuto dalla moglie: la litote, nec sumus indigni, ed il passaggio da questa forma plurale, nos, al sing. ego nel sintagma meritis meis, ai quali ultimi si deve nec nulla gratia, ancora una litote, contribuiscono a conferire espressività alla graduale accoratezza con la quale egli accompagna la richiesta, nella fiacca convinzione che la moglie voglia nutrire gratitudine verso il marito cui deve la fama. Ora prevale il lessico burocratico, in una studiata strategia che abbassa il livello del messaggio ad un grado di materialità in cui l’incupita visione dell’esule inventa l’idea del tributo, grandi cum fenore, v. 81 (sintagma variato di multo f. di P. i 5, 26), dovuto a lui dalla moglie in cambio della fama imperitura dalla sua poesia assicurata. La franchezza del discorso è supportata da un’adeguata sintassi: non c’è calunnia che tenga, nulla potrebbe danneggiare Fabia, nec te … laedere rumor habet, dove rivela un intento quasi avvocatesco la costruzione di habeo con l’inf. = possum, un grecismo, e[cw + inf., registrata in ThlL vi 3 2454, 12 sgg. (Staπhorst 39-40, Malaspina 76-77, Larosa 2013, 92), una costruzione da contionale dicendi genus, già usata in poesia da Lucrezio in vi 711 e da un sarcastico Orazio in epod. 16, 23, e presente nell’oratoria ciceroniana (S. Rosc. 100). E a franchezza s’aggiunge fermezza, severità del comando e richiamo al dovere. Un imperativo come labora, l’ammonimento, secco, a non lasciar insoddisfatta nec o√cii pars … ulla (vv. 8586), l’invito a mirare al raggiungimento dello scopo aggirando (ambitiosa) gli eventuali ostacoli; la retractatio, con la quale si minimizza un’eventuale failure, utque ea non teneas, tuta repulsa tua est, che ricorda ars i 346, ut iam fallaris, tuta repulsa tua est, «una vera e propria citazione» (Labate 1987, 125): son tutti strumenti aπerenti ad un rapporto comunicativo improntato a sbrigativa rudezza e a rimbrotto, sempre, però, dimidiati con espressioni attenuative; si tenga conto che a v. 47 e a v. 65 il poeta aveva rispettivamente parlato di fama e di liuor, pronti ad intervenire a condanna dell’operato della moglie. C’è un continuo altalenante tono, di rimprovero e di laudatio, che sa molto di amara ironia più che di timorosa prudenza, ben oltre il tono corrucciato di tr. v 2, 33 sgg., hinc ego traicerer … / esset quae debet si tibi cura mei, dove il poeta vincola la certezza di un trasferimento alla cura della moglie. Il ri-uso di espressioni nate per la poesia erotico-elegiaca giovanile (prezioso al riguardo il lungo elenco di termini stilato dalla Nagle 64-69, nota 112, con gli opportuni riferimenti alle corrispondenze registrate nell’Index del Pichon) – casi di intratestualità particolarmente marcati –, istituzionale nelle opere dell’esilio, ora, con questa elegia proemiale del iii libro, soddisfa un lusus del poeta che sembra voler presentare quasi con esibizione un’automemoria poetica, sorprendentemente sfuggita del tutto a Staπhorst, che si rivela davvero acuta; soprattutto l’Ars, l’incriminata Ars, è con frequenza rievocata sul piano espressivo, e ribattezzata su quello ideologico della strategia del corteggiamento e della conquista; il fenomeno, lungi dall’essere il

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segnale di un calo della carica creativa ovidiana (prospettiva critica respinta da Kenney 1965, 37 sgg.; contra D’Elia 406; Frécaut 325, nota 87), nasconde, e nemmeno con ricercata abilità, una volontà riaπermativa di un modo di far poesia che era stato condannato e che aveva, almeno parzialmente, provocato lo status nel quale il poeta versa e per il quale avanza richiesta di alleggerimento della pena: è un’ulteriore prova della sottilissima trama compositiva tessuta da un Ovidio ormai senza speranza; non dico tutto l’Ovidio esilico, ma l’autore di non poche delle epistole inviate dal Mar Nero. Le stesse espressioni che un tempo venivano ricercate per chiedere ed ottenere, ora servono ad esprimere l’inutilità della richiesta, e, perciò, sono il manifesto di una Stimmung beπarda anche se non aggressiva. Lo stesso iaceam, che ricorda a Némethy 47, ma anche 41, iacere di P. ii 9, 4, in cui il poeta dice, col du-Stil, al re Coti di ‘trovarsi’ in un territorio che confina col suo, tradisce un senso di rammarico lì ignoto. Il poeta libera la propria amarezza e la propria indignazione, ma, quando il gioco si fa più scoperto, allora cambia registro, e torna a sfumare il tono lasciando il lettore nel dubbio interpretativo. Questo doppio registro, che ha diviso la critica, e a suo tempo, probabilmente, divideva il pubblico dei lettori, e proprio questo era nelle intenzioni del poeta (concordo con Johnson 405), riguarda tutta la sua scrittura, anche di stretta pertinenza personale, familiare, come può essere quella impegnata a delineare lo status attuale dei forse solo immaginarî ancora esistenti rapporti con la moglie. Dopo la drasticità di certe espressioni, improvvisamente il tono cambia; nella consapevolezza di essersi spinto in modo eccessivo nella richiesta il poeta attenua i toni, dicendo che un eventuale rifiuto (ut … ea non teneas; la cong. introduce la concessiva come, giova ripeterlo, ai vv. 38, 41, 47) di fronte alle richieste della moglie non comporterebbe conseguenze per lei. 89-98. Continui Fabia ad essere la moglie di sempre, a tenere e a conservare il comportamento di sempre: un’esortazione proposta con la persuasiva espressività della sintesi, introdotta dalla confidenzialità dell’ ‘unpoetisches Wort’ suscense (Axelson 68 sg.; 142, nota 15), che ruota attorno al diptoto facis … facias (rispettivamente in dieresi 1a ed in P) raπorzato dal ricorso al sintagma te imitere (dip. da rogo) che assai e√cacemente rende l’idea di una Fabia che rimanga uguale a se stessa, come il poeta aveva già scritto in tr. v 14, 45 sg., qui monet ut facias, quod iam facis, ille monendo / laudat, et hortatu comprobat acta suo. Ma dimentica Ovidio di aver manifestato, ai vv. 31-34, meraviglia sulla mancata commozione della moglie, sulla sua incapacità di avere la meglio? Dimentica di avere presentato una Fabia incerta sul da farsi? Dimentica di averle detto che troverà da sola il modo di agire presso i potenti, sempreché veramente lo voglia, uere si reperire uoles? Certamente no, ma l’attribuzione alla spontaneità e all’iniziativa della donna di un comportamento consono al suo ruolo di moglie intensifica il tono sarcastico. Come se il regista non avesse bisogno di spiegare all’attrice i modi di stare sulla scena, salvo che l’attrice, pur eπettivamente conoscendoli, non li osserva. Fabia viene addirittura coinvolta in una breve ed atipica Priamel: l’utilità del trombettiere per ridestare il valore dei combattenti, l’e√cacia della voce del capo per esortare i soldati ad un coraggioso scontro armato sono confrontate, quasi al ribasso, con la uirtus, l’audacia (auspicata) della donna che non può essere inferiore alla sua probitas (Lechi 1978, 17 sgg.), nei versi precedenti (75-76) commisurata all’osservanza degli o√cia. Ma Ovidio con grande genialità innesca una lettura doppia del distico, così facendo in modo che nelle figure del tubicen e del dux, dei vv. 91-92, oltre a vedersi la figura energica della moglie, possa essere riconosciuto anche lui stesso impegnato ad esortare la donna (titubante) ad essere fortis e pugnans; a P. iii 4, 32, d’altra parte, è appunto il poeta a riconoscere in sé, incentivato dagli applausi del popolo, lo stesso vigore del soldato sollecitato dal suono della tromba. Il poeta ricorre ad un termine, uirtus, come si sa, tecnico del sermo militaris ma non meno appropriatamente correlato alla sfera etica: mira ad essere ambiguo giocando proprio sulla duplice valenza semantica di uirtus, ispirata dalla velata allusione del messaggio che diventa ad un tempo poetico e politico. Il doppiosenso è sciolto nel

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distico 95-96 in cui si presentano exempla di azioni che prevedano uso della uirtus militare, come il maneggiar la scure delle Amazzoni o la concava pelta, Amazonia securis che ricorda l’oraziano excisa pelta, un hapax assoluto di carm. iv 4, 20 (un piccolo scudo ‘in modum lunae iam mediae’, spiega Servio ad Aen. i 490): due sintagmi l’uno rarissimo, l’altro del tutto inusitato, coniato per l’occasione, a sottolineare l’eccezionalità di azioni cui Fabia però non è chiamata: nec tibi …. sumenda … / aut … gerenda. Citroni Marchetti 2004, 16 ricorda un ulteriore elemento di confronto con Sen. de ben. ii 35, 5, non arma sumenda sunt, nell’ambito della teoria dei beneficia, per la quale la studiosa risale a radici ben anteriori ad Ovidio stesso (Ps.Arist. oecon. 3, 1 [141, 29 - 142, 18 Rose]). È di√cile non leggere un tono pungente nella presentazione iperbolica di mansioni che prevedono qualità non richieste alla donna e di cui la donna non avrebbe potuto essere dotata. Lo scopo è quello di ottenere che il divino principe riduca la sua collera per Ovidio, il mezzo è l’adoratio del ‘nume’ (v. 97, ma anche 163), come quegli viene qualificato, istituzionalmente direi, nella poesia esilica, col ricorso alle lacrime (Citroni Marchetti 1999, 13036 individua e discute con acutezza puntuali confronti con le Supplici di Euripide), svolgendo come un ruolo sulla scena. 99-104. Il pianto, uno strumento raccomandato in strategie di tipo elegiaco dal praeceptor amoris (per es. ars i 659-662), le attirerà la gratia non altrimenti ottenuta. Il poeta forse punta sulla duplicità del termine gratia, alludendo ironicamente all’impossibile, si nulla est, eventualità di una gratia criminis; il ricorso al tecnicismo verbale della sfera giuridica accresce il risentimento del condannato. Dunque, la gratia: non è ottenuta, ad es., con l’arte della parola, Romanae facundia linguae, da Messallino (riconosciuto destinatario di tr. iv 4; vd. v. 5) e non lo sarà da Cotta Massimo (P. iii 5, 7): l’eloquenza, l’arte della parola, non piega le divinità, ed il personaggio di Livia, al centro di una vera e propria tessitura panegirica, è gestito come una divinità (Rosati 2003, 51 sgg.) alla maniera ellenistica (Pomeroy 183 sgg.); in P. iv 13, 29, [docui] esse pudicarum te Vestam, Liuia, matrum, ella è mediatrice della purezza dei valori femminili monopolizzati dalla figura della dea Vesta. Il rapporto con lei, però, si regge su una artificialità che fa velo alla sincerità; son necessari mezzi di comunicazione alternativi, l’eloquence-tear (Nagle 46), senz’altro più e√cace quando una donna è impegnata ad ottenere qualcosa dall’uomo (Colakis 212). La lacrima vale a volte almeno quanto la parola, come recita lo gnomico pentametro 158: interdum lacrimae pondera uocis habent; in essa si rivela la forza di una kolakeía molto esclusiva. E a Fabia non sarà di√cile ricoprire quel ruolo perché la situazione del marito è obiettivamente da compiangere. La contiguità bene per mala nostra cauetur, «il disastro ben provvede a garantire le lacrime», con quel gioco come ossimorico realizzato con la contrapposizione dei due pirrichi, bĕnĕ … mălă, segnala il tono beπardo col quale il poeta compiange la propria condizione. Con non meno amara ironia Ovidio associa la propria sorte a quella della moglie, ma solo presuntamente: con puto, v. 103, dopo H, e con correptio della vocale finale che della voce giambica fa un pirrichio (cfr., qui, cănŏ a P. iii 9, 35 ed il relativo commento; Platnauer 52; altri casi in Staπhorst 46) isolato nel suo valore incidentale, il poeta, con mesta astrattezza, e congetturando un pianto costante di Fabia per lui, cui nemmeno veramente crede, dissimula il sospetto che la donna non sia solidale. La sorte riserva questo tipo di ricchezze, nostra … fortuna ministrat: un altro hapax assoluto il sintagma, che esprime qui una condizione presentata come straordinariamente esclusiva del Sig. Ovidio e Signora, là dove la fortuna manifestamente amministra la vita di tutti gli uomini; ora al poeta sembra di essere il solo a rimanere investito dalla sventura. 105-112. L’esule cerca nel mito, nel quale si era rispecchiato egli stesso allineandosi a Capaneo, Anfiarao, Ulisse, Filottete (v. 51 sgg.), modelli altissimi di eros femminile ma non per indicarli a Fabia perché vi si uniformi; ben quattro exempla distribuiti in altrettanti distici oπrono mitologemi che propongono prove, sempre diverse, di dedizione assoluta, ma tutte escluse da un

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confronto con Fabia (quod abominor). Egli le esibisce, ci sembra di capire, piuttosto per fissare lo scarto tra quelle eroine, immortalate dal gesto estremo dettato dalla potenza dell’amore, e la reale condizione psicologica e sentimentale della moglie, chiamata a pegni assai meno gravi, e comunque, invece, attestata su posizioni di cauta prudenza e di celato egoismo. Fabia non deve rinnovare il sacrificio di Alcesti, che aveva oπerto la sua vita in cambio di quella dello sposo Admeto. Non deve ripetere l’azione paziente di Penelope che fraude pudica (un sintagma ossimorico creato per la circostanza e mai imitato) inganna l’insistente minaccia dei pretendenti. Non deve seguir l’esempio di Laodamia (Brescia 1996, 31-33) che muore per il dolore della fine del marito Protesilao (la materia di her. 13), morto per la seconda volta, dopo essere stato resuscitato per sole tre ore, accompagnandolo nel viaggio estremo: comes, lo stesso epiteto con il quale Virgilio indica la presenza dell’umbra del giovane guerriero nel mondo ultraterreno insieme con le altre eroine dell’eros (Aen. vi 448), epiteto ripreso da Ovidio in am. ii 18, 38 (= tr. i 6, 20), comes extincto Laodamia uiro; ars iii 17, quae comes isse marito / fertur. Non deve prendere a modello Evadne, figlia di Ifi e moglie di Capaneo, che si getta sul rogo del marito ucciso da un fulmine (ars iii 21-22; tr. v 14, 37). Dei quattro exempla (già evocati in ars iii 15-22 e, con l’aggiunta di Andromaca, in tr. v 14, 35 sgg.; cfr. Staπhorst 47), i primi tre sono sintatticamente espressi con un periodo ipotetico esplicito (il poeta «non chiede alla moglie un’azione sovrumana»: De Caro 228), si redimenda esset … quam sequereris, erat (misto); fieres … si uelles, si sequerere … esset, mentre all’ultimo è riservata una formula diversa con l’indic. erat ponenda e la protasi sintetizzata nella forma participiale tibi … uolenti, in cui la forte assonanza ponenda uolenti esalta un tono sarcastico che denota la piena coscienza del poeta di aver proposto alla moglie degli impossibilia, non solo nel senso che ella non avrebbe dovuto imitare quei personaggi, ma che mai ella avrebbe comunque potuto. 113-118. Il messaggio, dunque, è: «Non dovrai mica perder la vita per me, come Alcesti, Laodamia, Evadne! Non sia mai detto!». E nemmeno c’è tela che Fabia debba tessere come faceva Penelope, meritevole di una doppia citazione, la figlia di Icario – il patronimico sa di epicità, come il personaggio stesso, ed il ricorso all’epicità, in un tal contesto, sa di ironia. Anzi, la morte non porterebbe nessun giovamento, morte nihil opus est: la stessa esclamazione nell’ultima elegia dei Tristia, v 14, v. 41, già qui a conclusione di un catalogo di eroine del mito di celeberrima fede coniugale, le stesse: Penelope, Alcesti, Evadne, Laodamia, cui Ovidio, come si diceva, aveva aggiunto Andromaca. Nell’elegia dei Tristia traspare l’uomo d’esperienza che si rende conto che la fedeltà della moglie potrebbe vacillare, una perplessità che in questa P. iii 1 è già svuotata di intensità dal sopraggiunto disincanto e dalla scarna disillusione: si è ben lontani dai toni sinceramente celebrativi, e forse anche fiduciosamente persuasivi, di tr. i 6, 19 sgg., dove le varie Andromaca e Laodamia e Penelope, icone della fedeltà coniugale, consacrate dalla solida tradizione letteraria, sono addirittura seconde al confronto con l’«immensa» Fabia. Fabia, dopo la evidentemente fallimentare missione presso Augusto commissionatale dal marito esule in tr. v 2, 35 sgg., deve semplicemente limitarsi ad usare la sua parola, ōs (v. 114), ed anche, forse, insieme, l’espressività del suo volto, ōs, rivolgendo preghiere alla moglie di Cesare. Alla first lady son riservati due distici di laudationes con successive sovrapposizioni mitologiche: appare evidente il forte scarto, se non una vera e propria inversione, con i modi usati piuttosto per diπerenziare l’impegno di Fabia da quello, ben altrimenti nobile, assunto dalle eroine del mito. Di Livia, qui evocata con una presentazione superba non ravvisabile in nessun’altra epistola esilica, infatti, Ovidio, in questa circostanza, evoca la uirtus pudicitiae, una dote morale che la contraddistingue per la sua superlatività e non consente che il mos maiorum dell’antica tradizione romana oπuschi la scostumatezza che domina l’attualità. Grazie a Livia, alla purezza sessuale della sola Livia l’età di Augusto è salva al confronto della morigeratezza del temps jadis, quella morigeratezza invocata da Augusto e biasimevolmente contraddetta dall’opera libertina di Ovi-

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dio, ma anche dalla censurabile condotta di molte ragazze e donna sposate, alcune anche della casa giulia. Livia deve essere gestita (da Fabia, che funge da intermediaria tra il poeta ed il potere politico) alla stregua di una puella elegiaca, ma la sua imagery è costruita su basi assolutamente antielegiache, e, per giunta, il corteggiamento è condotto da un’altra donna. Referenti olimpici d’eccezione sono scelti per analogizzare il prestigio della moglie di Augusto/Giove: Giunone per i mores (cfr. anche v. 145), Venere per la forma. Kuttner 31 associa la Livia di Bonn alla dea, equiparando i tratti fisionomici della matrona a quelli della divinità; Velleio in ii 75, 3 scrive di lei: genere, probitate, forma Romanarum eminentissima, e se lo storico è il principale supporter di Tiberio, figlio di Livia, Tacito, certamente caustico verso di lei per svariate altre ragioni, in ann. v 1, 2, sanctitate domus priscum ad morem, comis ultra quam antiquis feminis probatum, le riconosce innegabili uirtutes morali e comportamentali, e ne conferma, pertanto, l’immagine di mulier castissima, da lei coltivata ed in letteratura largamente consolidata. Questi mores sembrerebbero essere i paladini di una forma riservata, oπerta al solo Augusto, a quanto si legge nel pentametro successivo, sola est caelesti digna reperta toro, un riconoscimento di dignitas già presente a fast. i 650, sola toro magni digna reperta Iouis, un pentametro, come si vede, citato quasi uerbum de uerbo, composto in riferimento a Livia come genetrix di Tiberio, figlio di primo letto, che di Augusto è figlio adottivo dal 4 d.C.: l’allusione, se allusione ci fosse, sarebbe irriverente, finanche spudorata, e suonerebbe come un segno di sfida. A tr. ii 161-164 la rappresentazione è più articolata: Liuia sic tecum sociales compleat annos / quae, nisi te, nullo coniuge digna fuit, / quae si non esset, caelebs (ma quel matrimonio non produsse prole!) te uita deceret, / nullaque cui posses esse maritus, erat: l’ambiguità dell’espressione è geniale (convengo con Barchiesi 1994 24-25). La ricorrenza di P. i 4, 55 sg., turaque Caesaribus cum coniuge Caesare digna, / dis ueris, memori debita ferre manu, risente di una cerimoniosa formularità, echeggiante, nel lessico, la tonalità solennemente sostenuta che si avverte in met. xiv 833 sg. (Bömer ad l., 248; Hardie 2015, 474-475) a proposito di Ersilia, dignissima tanti / … uiri; ed era a tutti noto che, nel 38 a.C., il 17 gennaio (Ehrenberg-Jones 46), la moglie di Tiberio Claudio Nerone era passata nel «talamo celeste» (Scott 43 sgg. sulla divinizzazione di Livia). Secondo Svetonio, Aug. 62, 1, e Dione, xlviii 44, 1, ella andò sposa ad Ottaviano quand’era forse ancora in stato di gravidanza di sei mesi di Tiberio Nerone. È verosimile pensare che la campagna denigratoria portata avanti contro Ottaviano da Antonio, che anche così tentava di coprire la non meno denigrata scelta di sposare Cleopatra, ispirasse il piccante commento del biografo latino a Claud. 1, 1: statim certe uulgatus est uersus: toi`~ eujtucou`si kai; trivmhna paidiva, «immediatamente, certo, si diπuse quel verso: ‘i fortunati!: figli anche in tre mesi’», e dello storico greco, xlviii 44, 3, che tra le molte chiacchiere messe in giro dal popolo ne riferisce una che corrisponde a quella riportata da Svetonio: [oJ o{milo~ e[legen] toi`~ eujtucou`si trivmhna paidiva genna`sqai. La data di nascita di Druso, il bimbo portato in grembo da Livia nel periodo in cui maturava anche il divorzio da Tiberio Nerone, è fissata dai Fasti Verulani al 14 gennaio, tre giorni prima del matrimonio della puerpera con Ottaviano. Barrett 417, in disputa con G. V. Sumner, Germanicus and Drusus Caesar, «Latomus», 26, Bruxelles, 1967, 413-435, considera di√cile […] ma non impossibile l’evento. L’oscillazione cronologica, in ogni caso, non incide in maniera significativa sullo svolgimento dei fatti, che fatalmente alimentava il gossip. Orazio in carm. iii 14, a proposito del trionfo del principe di ritorno dalla campagna di Spagna, nel 24 a.C., si osserva, non è caustico per queste seconde nozze come alcuni studiosi vorrebbero, invece, sia Ovidio. Non si può – si fa notare – trovare allusiva e quindi oπensiva l’espressione unico … marito di v. 5 del Venosino (Romano 784-785, ad l.), vicino alla casa imperiale; Thakur 192 è dello stesso avviso per la ripresa ovidiana; ma non è detto, data anche la notevole diversità di rapporti. Se alcuni esegeti hanno interpretato unicus nel senso di ‘straordinario, incomparabile’, e se hanno ammesso, nel testo del Venosino – è bene ricordarlo – l’attribuzione dello status di uniuira a Livia perché «il discorso cortigiano fa passare tutto»

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(Barchiesi 1994, 25), ecco, il discorso ovidiano non trova nessun motivo per essere cortigiano. Peraltro anche Barrett 188 ammette che la frase è «argutamente ambigua». Anche se si tratta di eventi verificatisi molto indietro nel tempo, sono comunque eventi di grande portata destinati a lasciare una scia nell’immaginario collettivo e nella memoria storica: è evidente che una loro rievocazione più sensibilmente sollecita chi avverte, dal suo punto di vista, qualche serio motivo di recriminare. La Johnson 417-418, ispirata anche dall’analisi fatta da Carole E. Newlands 45 che ha còlto la doppiezza del messaggio ovidiano dei Fasti, si soπerma sulla bifocalità del valore dell’agg. digna a v. 118: Livia soltanto è degna del talamo regale, o lei è la sola, e la sola possibile, cui sia stato riservato quel destino? Visti i suoi precedenti, la seconda interpretazione rivelerebbe nell’espressione un molto irriverente attacco ad Augusto, paragonato a Iuppiter, sì, ma Iuppiter moechus: Livia è la sola degna del talamo celeste, come, a met. i 589-590, «o uirgo Ioue digna […]», digna Ioue, era Io a detta di suo padre; come a ii 3, 30, digna Ioue era per Properzio Cinzia, Romana prima puella accumbens Ioui, seconda solo ad Elena; come Ioue digna uiro poteva considerare Paride la ‘sua’ Elena, se di Giove la giovane non fosse stata la figlia (her. 16, 274, O Ioue digna uiro, ni Ioue nata fores). Livia, a sua volta: altro che uniuira!, anche se così suole essere definita per il lungo matrimonio con Augusto, come scrive Barchiesi 1994, 25. Forse esagera la Colakis 213, quando scrive che «Ovid casts Livia in the role of elegiac mistress». Il poeta, già praeceptor puellarum e condannato praeceptor puellarum, l’aveva proposta come modello comportamentale della donna sposata, exemplum bonae coniugis (tr. i 6, 26), se si ammette che si tratti di Livia e non di Marcia. Livia diventa una sorta di ossessione per il poeta che la cita molto spesso e molto spesso (fast. i 536; 649-650; tr. i 6, 25-28 [identificazione discussa, come ho ricordato]; ii 161; iv 2, 11-14; P. i 4, 55-56; ii 2, 69; ii 8, 4, 29-30; iii 1 114-118; iii 3, 87; iii 4, 96; iv 9, 107; iv 13, 29) ricordandola «degna/degnissima» di quel coniuge; ma, in che senso? Ovvero, sempre nello stesso senso? Quel riconoscimento di nobile onorabilità mantiene costantemente il suo tenore e la sua autenticità (anche cortigiana, se si vuole), nel corso degli anni dell’esilio, o scivola progressivamente verso una mordacità, peraltro anche comprensibile? Come comprensibile può essere questa analisi per così dire estrema, che vuole almeno porre degli interrogativi sulla autenticità di una devozione che lascia perplesso il lettore di un poeta arguto come Ovidio. 119-128. Dov’è il motivo che possa alimentare la trepidazione, il timore di avvicinare Livia? Quid trepidas et adire times? di v. 119 echeggia tr. v 2, 37, quid dubitas et tuta times?, e sarà echeggiato in P. iii 6, 15, dum tuta times […]: sono in tanti a temere ciò che, allora, tutum proprio non è! Ed ecco un altro catalogo mitologico, una galleria di sei exempla di donne terribili, in qualche modo parallelo a quello del v. 106 sgg. Come, infatti, lì erano presentate esemplarità nobili di donne del mito che si erano distinte per coraggio e dedizione coniugale, che Fabia comunque non doveva emulare, così ora, specularmente, vengono elencate esemplarità negative in nessuna delle quali è, comunque, riconoscibile la moglie del principe. Il poeta funzionalizza la citazione dei due gruppi di exempla all’aπermazione che la missione di Fabia, per quanto di√cile, non è poi impossibile. Non so se sia il caso di sospettare anche che nella negazione di una assimilabilità di Livia a Procne, a Medea, alle nuore d’Egitto, le cinquanta Danaidi obbligate dal padre ad uccidere il proprio marito (si rifiutò la sola Ipermestra: her. 14), a Clitemnestra, a Scilla (mostro marino: Od. xii 85-100; Ou. met. xiii 730 e 732 sgg.; xiv 59-67; tr. iv 7, 13; P. iv 10, 25), a Circe (Od. x 135 sgg.), a Medusa (la Gorgone: Od. xi 634; Ou. met. iv 699) si possa celare un fine sottilmente ironico, e critico, nei confronti della moglie del principe (Davisson 1984, 331 sgg., Bernhardt 117 sgg.; Davisson 1993, 231), o se invece si debba pensare ad una forma di incoraggiamento per i destinatari degli appelli dell’esule ad agire a suo favore (Labate 1987, 125, nota 65). La comparatio ad excludendum lascia aperta la questione: «Livia non è niente di tutto questo» oppure «Livia è un po’ tutto questo»? Forse le intenzioni di Ovidio miravano

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a provocare in chi leggeva la stessa insorgenza del dubbio provocata nel lettore di oggi, un’arte di dire e non dire, la già citata arte dell’insinuazione, la capacità di mantenersi sul filo di una sottilissima calcolata ambiguità, che gli consentisse di chiedere, apparentemente, aiuto e nello stesso tempo di consumare dall’interno, non dichiaratamente, una rancorosa vendetta. Il poeta dice che Fabia non deve elevarsi al livello di certe eroine del mito (e questa è già una deminutio), e la copiosità delle citazioni in un certo senso sottrae eccezionalità al loro comportamento, a tutto discapito della donna che è la pars illustranda dell’analogia; così come, nel contempo, dice che Livia non è degradabile al livello di esemplarità stregoniche, ed il nutrito gruppo di citazioni, stavolta, configura un mosaico completo di horrida femina, le cui tessere sembrano riflettere singoli risvolti del carattere della femina princeps. Ancora recentemente Luisi 2014, 95 sgg. ha insistito sulla decostruzione della dimensione mitica del personaggio di Livia. Avrebbe potuto Ovidio impiantare il confronto con personaggi mitologici di specchiata aπabilità, sostituendo alla formula delle insistite negazioni (non … -ue …. nec … nec … -que …. -ue … -que) una movenza espressiva di tipo aπermativo con un significativo polisindeto, ad esempio. Appaiono quei confronti il commento ora espresso ad alta voce, sia pur opportunamente mistificato dalla ambiguitas, ed in altri tempi condiviso nel segreto di una confidenza manifestata in un ristretto contesto familiare: una sorta di allusione ad una Parola che finalmente diventa Testo. Certamente appare iperbolica la rappresentazione di una femina princeps per la quale addirittura la Fortuna smentisce la sua prerogativa di cecità, mostrando di aver rivolto lo sguardo verso una persona molto meritevole: una versione, originale, ‘contro corrente’, per così dire, della ‘dea bendata’, di cui abbiamo testimonianza in Cic. Phil. 13, 5, 10, deinde uos obsecro, patres conscripti, quis hoc uestrum non uidet quod Fortuna ipsa quae dicitur caeca uidit? Si veda poi anche Dist. Cat. 4,3, cum sis incautus nec rem ratione gubernes, / noli Fortunam quae non est dicere caecam; in Lael. 15, 54 invece lo scrittore ripeteva ipsa Fortuna caeca est, a proposito della benevolenza manifestata dal senato richiamando in patria Sesto Pompeo e facendo intervenire l’erario per il riscatto dei beni paterni. L’analogia situazionale con il poeta esule rende credibile l’ipotesi di una fruizione del contesto ciceroniano da parte di Ovidio e chiarisce la funzione dell’allusione nel messaggio poetico al testo oratorio, molto presente, peraltro, a chi in giovane età aveva studiato l’arte delle declamationes, ed anche per questo apprezzava quello scrittore di grande autorevolezza. Sugli aspetti declamatorii dell’epistola a Fabia si è soπermata Larosa 2015, 178 sgg. Intorno all’influenza delle Filippiche di Cicerone su Ovidio esule, di cui si è poc’anzi proposta una testimonianza, non gravano i dubbi sollevati da Kenney 1992, xvii, n. 5, che non crede con certezza che Ovidio leggesse le lettere dell’Arpinate esule negli anni 58-57 a.C. (così già Shackleton Bailey 1965, 59 sg. che spostava la data di pubblicazione delle Lettere ad Attico al periodo neroniano); di avviso contrario sono Nagle 33-35, che esibisce esempi di intertestualità (in verità, non stringenti) tra Cic. ad Att., ad Q. fr., ad fam. da un lato, e Ou. tr. e P. dall’altro; Claassen 1996, 577 e n. 27; 583 n. 45. Dubbiosa, con qualche tendenza, in ogni caso cauta, al riconoscimento della dipendenza di Ovidio da Cicerone sulla base di una memoria di letture risalente ai tempi in cui il poeta frequentava le scuole di retorica, si mostra Degl’Innocenti Pierini 1998, spec. 102-103. L’associazione del motivo della piena luce che guida il giorno dal suo sorgere al suo tramonto – che guida cioè l’impero che spazia dall’Occidente all’Oriente – con il fulgore della prima ‘signora’ di Roma, seconda solo alla brillantezza del principe, per quanta smaccata piaggeria la ispira appare discutibilmente sincera, anche perché la contiguità con il motivo della cecità (o non cecità) della dea Fortuna proposto subito dopo, come in un gioco maliziosamente antifrastico, suona in definitiva un po’ irrisorio. In P. i 2, 119-120 e ii 2, 113-114 Ovidio era ricorso per la rappresentazione della figura di Augusto a questo stesso procedimento di confronto a contrasto. Fabio Massimo e Messalino, i rispettivi destinatari delle due lettere, avrebbero dovuto aπrontare il principe sì con di√coltà, ma anche con fiducia, rassicura il poeta, perché le loro supplichevoli

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parole non avrebbero dovuto essere accolte da Teromedonte, dal crudele Atreo e da Diomede, o dall’etneo Polifemo nel suo vasto antro, e da Antifate, il re dei Lestrigoni: tutti personaggi proverbiali segnati dal sinistro marchio dell’antropofagia, o spinti dalla violenta inclinazione ad aizzare animali a sbranare gli uomini, di antica tradizione omerica, già presenti in precedenti opere ovidiane. Insomma, questa tecnica analogica gestita con la strategia del contrasto costituisce una sorta di cliché, che se da un lato mira ad esorcizzare quella timorosa ritrosìa ad avvicinarsi al principe, o alla sua augusta consorte, dall’altro nella sua insistente ripetitività sembra svelare l’autenticità della lettura che del personaggio fa il poeta, e, con lui, certamente fanno gli amici ai quali chiede aiuto e dai quali dispera di riceverne proprio a causa di quella per loro assai motivata resistenza ad intervenire. L’accostamento, sia pur e contrario, di entrambi i membri della coppia imperiale ad illustrantes mitologici così proverbialmente malefici non contribuisce ad avallarne una ricusazione convinta del poeta, quanto piuttosto a sottolineare una diπusa di√denza che quel paragone fosse eπettivamente assurdo. Ma si può dire di più. Tutti i personaggi femminili menzionati, nei quali non si potrebbe mai riconoscere Livia, hanno commesso colpe assai gravi, dall’infanticidio all’uxoricidio, all’uccisione per mezzo di cani mostruosi, alla trasformazione di uomini in animali, alla pietrificazione della vittima. Livia non è evidentemente niente di tutto questo, ma se la sua laudatio consiste semplicemente nel non essere ella identificabile con nessuno di quegli orridi personaggi, è il caso di cogliere una certa vena ironica nel successivo encomio dello splendore della empress, con l’aggravante della connessa citazione comparativa di Augusto, nihil clarius excepto Caesare: una … bella coppia! Non diversamente si può dire a proposito delle citate epistole ex Ponto, la seconda del i e del ii libro. Principe e consorte non sono identificabili con i mostri citati; Fabio Massimo, Messalino, Fabia, è vero, non aπronteranno (o aπronterebbero) il ‘demonio’, ma per essere immitis verso il poeta non c’è bisogno di essere un demonio. 129-144. Ecco finalmente la pars construens: il poeta, che aveva lasciato alla moglie il cómpito di cercare e trovare i modi per aiutarlo (vv. 33-34), deve prendere atto della inutilità di quell’a√damento, e pertanto le fornisce ora suggerimenti (un «breviario di cerimoniale cortigiano», Labate 1989, 83) sulla scelta, che deve essere assai ben studiata, del momento propizio, tempus captatum, v. 129 (Citroni Marchetti 1999, 126 ricorda opportunamente la ripresa da Aeschyl. Prom. 377 sgg. [ejn kairw/]` ), per avvicinare la femina princeps: l’agg. connota il genere del sost.; il sintagma dilata il senso sul ruolo eπettivamente coperto in sede politica. In tr. i 1, 93 sgg. Ovidio aveva rivolto raccomandazioni in tal senso al suo liber, chiedendogli di presentarsi al suo cospetto quando il principe non avrà impegni, avrà placato la sua collera, semmai facendosi precedere dalla parola benevola di persona influente. L’allegoria della nave (Tola 45-55; Baeza Angulo-Buono 2008, 134-135, n. 31; buone riflessio­ ni sulla matrice alcaica del motivo piuttosto diπuso nella poesia esilica ovidiana in Cucchiarelli 2012, 219 sgg.; sui risvolti metaletterari della metafora in P. iv 8, 27-28 Audano passim) che deve uscire dal porto quando le condizioni atmosferiche lo consentano, o, almeno, non lo impediscano, rientra nella tecnica della rappresentazione iperbolica che permea l’intera epistola, e non è che un primo stadio di una escalation che culmina nella doppia immagine tratta dal mondo della sacralità. Il parossismo raggiunge livelli elevati: il poeta ci introduce nella sfera solenne, esoterica, degli oracoli, che non sempre, egli dice, non semper, annunciano a chi le chiede le sortes; Livia è ora … una sacerdotessa; lo sarà anche a P. iv 9, 107, coniunx … sacerdos. Non sempre (non omni tempore) l’accesso ai templi di maestosa imponenza (il termine fana, v. 132, esalta la sacralità del luogo) è disponibile al fedele – la domus di Livia è … un fanum. Colakis 211 collega il non semper, ribadito successivamente con la variante, all’anaforico nec semper … / nec semper di ars i 401-402, e all’anaforico … non semper … / nec semper di ars ii 513-514 in analogo contesto precettistico, evidentemente di altra natura (in Larosa 2013, 117-119 ampia

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rassegna di riferimenti intra- ed intertestuali relativamente a questa terza ed ultima macrosezione dell’epistola che raccoglie i vv. 129-166). Ovidio ricorre all’iperbole, che, come scrive Hardie 1986, 256, è il dispositivo più naturale per confezionare un panegirico; il nodo esegetico si scioglie nella spiegazione della pointe panegiristica, l’amplificazione degli attributi complimentosi, con un sicuro eπetto di grandissement stilistico, che può leggersi come sincera stima, accorata captatio o anche, paradossalmente, indiretta deminutio. A proposito dell’ira del princeps Oliensis 2004, 296 osserva: «Augustan ira (sometimes also known as clementia») (Gaertner 2005, 9 sgg.; Tissol 17, n. 64). L’inviduazione del tempo opportuno per Fabia di chiedere udienza a Livia, di ottenere cioè di essere ricevuta per parlarle di una questione assolutamente privata e personale, rientra in un’iperbolica amplificatio che occupa addirittura due distici (vv. 133-136), ma, soprattutto, è un pretesto per svelare al vasto pubblico, con note di sottile ironia, la giornata-tipo della first lady, di cui Fabia era assolutamente al corrente; e, anzi, la coniunx ne poteva essere anche più informata del marito ormai da tempo assente, e comunque inibito a cognizioni riguardanti la privacy della consorte del princeps. Insomma, il pezzo in cui Ovidio impartisce praecepta alla moglie appare artificioso, la resa poetica risente di una sorta di amaro lusus, con cui lo scrivente bersaglia moglie e principessa insieme; a rendere perspicuo il gioco sottile il poeta contribuisce sostanziandone il contenuto con un supporto espressivo che rievoca nella mente del lettore cólto un patrimonio lessicale ed un apparato semantico ed ideologico già noti, che, trasferiti dalla sede dei praecepta amoris dell’Ars a questa sede dei praecepta suae salutis dell’epistola dal Ponto, custodiscono tutto il loro peso semantico nello straniamento che lascia senza parole chi legge quando ricorda che una volta il suggerimento della giusta scelta del tempo per agire era rivolto al giovane che volesse conquistare le disponibili fanciulle: nec teneras semper tutum captare puellas (ars i 351); ma si pensa anche ad am. i 11, 15-18, dum loquor, hora fugit; uacuae bene redde tabellas, / uerum continuo fac tamen illa legat. / aspicias oculos mando frontemque legentis: / et tacito uultu scire futura licet (col comm. di McKeown 316 sg.), e alla ripresa marzialiana a v 6, 9-11, nosti tempora tu Iouis sereni, / cum fulget placido suoque uultu, / quo nil supplicibus solet negare (segnalata da Rosati 2003, 60). Sarà necessario verificare che le condizioni della Città siano ottimali, come il poeta si augura che siano nell’attualità (un incidens che sottolinea la sua condizione di relegatus, e ne sollecita la memoria della destinataria), quando i cittadini romani non saranno attanagliati da nessuna soπerenza che contragga il loro volto (contrahet ora, una creazione ovidiana, ripresa solo da Mart. Cap. de nupt. 9, 888, 6, et noster pallens contrahit ora puer), quando la famiglia imperiale, venerabile come la casa di Giove Ottimo Massimo, il Campidoglio, celebrata location delle cerimonie u√ciali, mostrerà gioia e godrà di una pace sicura (plena … pacis, v. 136, un sintagma che in met. xv 103 qualifica la mitica aurea aetas: un miraggio!); potrebbe rientrare in quest’atmosfera, comunque rappresentata in termini iperbolici, il trionfo di Tiberio sulla Pannonia, celebrato il 23 ottobre del 12. Allora gli dèi potranno concederle di avvicinare la principessa per parlarle e per ottenere che le sue richieste siano esaudite. Bisogna anche avere l’intelligenza e la sensibilità di capire se sia il caso di rinviare l’iniziativa, diπer tua coepta, v. 139, che, come ricorda Labate 1987, 124, nota 58, richiama diπer opus di ars i 409. Il momento opportuno va individuato nella coincidenza di una serie di condizioni, legate allo status della città, dei cittadini e della famiglia imperiale: un kairov~ davvero magico, direi, e comunque evocato in circostanze non propriamente adeguate, nel corso di una ipotetica, surreale visione avvenuta mentre il poeta è seduto sul letto sorreggendo il peso del corpo su un gomito! Così egli in P. iii 3, 7 sgg. racconterà a Fabio Massimo di uno strano sogno in cui, ad un certo punto, Eros gli annuncia l’imminente trionfo: «dum domus et nati, dum mater Liuia gaudet, / dum gaudes, patriae magne ducisque pater, / dum sibi gratatur populus totamque per Vrbem / omnis odoratis ignibus ara calet / dum faciles aditus praebet uenerabile templum / sperandum est nostras posse ualere preces» (vv. 87-92). Si direbbe che una congiuntura di tal genere sia praticamente

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ivverificabile, e che la perspicuità del messaggio, dato il massiccio riuso del linguaggio e del timbro didascalico dell’Ars, risieda nella considerazione che la ‘conquista’ della femina princeps sia molto più ardua della conquista della dura puella elegiaca, e che il poeta denunci il suo fallimento come novello praeceptor di suasoriae diplomatiche e politiche. Ovidio disegna una congiuntura politica e familiare ideale, e, come tale, impossibile. Se queste indicazioni, dunque, sono parallele a quelle contenute in quella miniera di praecepta che è l’Ars, non c’è dubbio che chiunque avesse letto questi versi avrebbe potuto, attivando la memoria poetica, proiettarsi sui praecepta impartiti al giovane amante per conquistare la puella. La letterarietà del testo ultimo, con i suoi scoperti rimandi intratestuali ad opere incriminate, segnatamente l’Ars amandi, diventa uno strumento apologetico della produzione poetica che ha contribuito a determinare la condanna, perché l’esule, coinvolgendo nel gioco della Werbung, non della werbende Dichtung, per quanto di altra natura possa essere, la stessa Livia, per certi versi assimilata alla dura puella della realtà erotico-elegiaca, ne cerca, ne provoca in qualche modo la complicità. Ad attivare però la Werbung non è più la vecchia poesia elegiaca, alla quale è demandato, tutt’al più, il cómpito di indicare ad una figura terza il ruolo di mediatore al fine di ottenere il risultato sperato; il poeta a√da all’azione di altra persona, sì, da lui precettata ed istruita, ma agente con la propria sensibilità e le proprie virtù, e con tutta probabilità le proprie studiate convenienze, di osservare un comportamento che si spera possa risultare felicemente terapeutico (indicazioni sul comportamento anche in i 2 e ii 2). Ma chiediamoci: queste persone così illustri avevano bisogno dei consigli del poeta per scegliere una strategia comportamentale o un’altra? La stessa Fabia, se avesse eπettivamente bisogno delle indicazioni che le fornisce il marito relegato, si rivelerebbe personaggio di scarsissime capacità umane; quei suggerimenti, in realtà, sono uno schermo per rappresentare piuttosto Livia, con i suoi capricci, le sue fisime. E questo a prescindere dalla considerazione implicita che è più facile conquistare una puella che la empress, e che come ‘conqueror’ della empress Ovidio dichiara la sua failure. Ora, guardando a-posteriori (a lettura di Tristia ed Epistulae ex Ponto ultimata) ai risultati negativi che la strategia ovidiana per conquistare la benevolenza ed il perdóno della famiglia imperiale conseguiva, si direbbe che, se la scelta del genere poetico è caduta sullo strumento elegiaco, ciò comporti un messaggio assai significativo. Ovidio non ricorre ad un genere letterario che si fondi sulla persuasività del messaggio poetico; egli focalizza la sua poesia sul lamento, il Klagelied (il «vocabulary of defiance and endurance» redatto da Claassen 1999, 157-163 mostra con molta evidenza che le lettere delle eroine hanno fatto scuola) destinato a non essere rimosso data la sperimentata persistenza – direi costante permanenza – dei motivi che lo provocano, identificabili nella inamovibilità delle posizioni censorie del principe e forse non solo sue. Ovidio avrebbe potuto ricorrere ad una epistolografia in prosa (e si sa che lettere private ne scrisse), e invece ripropone il canto delle soπerenze di una donna lontana dal suo uomo, e si tratta di una donna che non avrebbe più rivisto il suo uomo, come lui, del resto, non avrebbe più rivisto patria e famiglia. Oltretutto, riproponendosi poeta elegiaco, egli dimostra anche come i praecepta della poesia di allora fossero solo un lusus, senza propositi di rivoluzionare la morale collettiva, senza reali risultati che ne dimostrassero una concreta e√cacia, tant’è che, riconvertiti, puntualmente ine√caci purtroppo si rivelano anche ora. Anche la poesia delle Heroides era poesia triste (oggettivamente triste, sì, senz’altro), per cui, confrontando le due performances elegiache, del giovane Ovidio e dell’esule Ovidio, si può parlare di approssimativa equivalenza emozionale, che non significa, beninteso, equivalente complicità autoriale; la poesia rimane identica nella sua funzione comunicativa e persuasiva; tutt’al più si riadattano situazioni; il significato di un segno è subordinato al rapporto con altri segni, ed è destinato a sempre rinnovarsi; la grande novità della poesia esilica è nell’identità della figura del poeta che canta l’esilio con l’uomo che patisce quell’esilio. La più marcata e vistosa riconversione è attivata quando ipotesto e testo sono sul piano ideologico ed emotivo distanti,

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quando il modello rilascia una traccia solo puramente fàtica (Barchiesi 1986, 100), evidenziando quel conflitto di generi al quale il poeta ha la netta intenzione di pervenire. Ovidio riprende i variegati temi della stagione erotico-elegiaca, che pur non erano stati tutti catalogabili come motivi di un’«elegia lieta», nei contenuti almeno, ma tutti escludevano il diretto coinvolgimento autoriale ed autobiografico, per farli rivivere in un genere che si propone rinnovato proprio grazie al soggettivismo, alla presenza partecipativa del pathos personale, privato, dell’autore, che vive patimenti in propria persona. Il Leitmotiv della soπerenza si coniuga inizialmente con quello della speranza. Poi a venir meno, però, in maniera progressiva e inesorabile, è proprio il realismo della speranza; è una prospettiva, quella di un ritorno in patria o di un lenimento della pena da scontare in una sede meno disagiata, che diventa sempre più flebile, e questa evaporazione della speranza ricade con ulteriori eπetti sulle istanze poetiche. Ovidio non chiede più, ad un certo punto, alla sua poesia di trionfare dove finse di trionfare il praeceptor amoris (e Amoris); le sue caratteristiche, autentiche e profonde, non sono più utilitas ed o√cium, anche se dichiara che siano proprio queste (P. iii 9, 56); l’antica forma poetica assume un aspetto ancora nuovo e diverso da quello di una vittoriosa Werbung (Stroh 250-253): diventa strumento per esprimere amarezza, e poi disillusione, e poi finanche acredine. A questo punto l’utile o√cium è ben altra cosa, e ne è destinataria la dignitas dell’uomo; Ovidio scavalca ogni schema prefigurato, e va oltre, oltre la stessa palinodia quale avevano teorizzata Froesch 40 e Lechi 1978 1 sgg.; il destinatario dell’epistola, sia un personaggio con una sua realtà storica, sia l’orgoglio stesso del relegato, detta la forma ed indirizza il fare poetico, addita séguiti, fornisce aggiornamenti e soprattutto determina inveramenti di antiche fantasie. Dunque, Fabia e Livia. Sembra che nemmeno la fortunatissima e perciò molto improbabile coincidenza di circostanze favorevoli ipotizzata dal poeta sia su√ciente a creare le condizioni perché Fabia sia ricevuta da Livia e questa sia disposta ad ascoltarla. Altri ostacoli impediscono l’incontro: la moglie del principe potrebbe essere assorbita da impegni di una certa serietà, e questi devono scoraggiare ogni iniziativa della moglie premurosa dell’esule, che a causa della fretta (festinando: un hapax poetico) vedrebbe svanita ogni speranza: come se questa concreta speranza risiedesse tutta nella scelta del tempo giusto per intervenire presso Livia, e del tutto essa crollasse se quella richiesta d’incontro fosse intempestiva. Livia non deve essere avvicinata, ammonisce Ovidio, nemmeno quando sia uacuissima, del tutto libera, circostanza quasi impossibile se la regina a stento trova il tempo da dedicare alla cura del proprio corpo: un motivo, questo, puntualizza Labate 1987, 128 (cfr. anche 1989, 88), su√ciente a distinguere Livia dal modello della domina elegiaca e ad escluderne una totale riducibilità. Il punto è che Ovidio, intenzionalmente (come credo) o non intenzionalmente, propone quella analogia, e, peggio, denuncia un comportamento esteriormente esemplare, ma nella sostanza più condannabile di quello della domina, che, oltretutto, non pretende velleitari riconoscimenti di morigeratezza, né esibisce di sé un’immagine che miri ad essere indicata come esemplare. Il ‘praeceptor’ insiste sulla inarrivabilità di Livia, che è, sì, la moglie del princeps, personaggio pubblico, politicamente impegnata, ma che ha anche un privato. L’ostentata estrema di√coltà di trovare il momento opportuno sono caricate dalla vena polemica di un Ovidio stanco di chiedere, piegato a riciclare le sincere istanze di un tempo in un commento amareggiato sulla vanità di esse, che vengono così come risemantizzate in chiave critica e ironica. L’intra- e l’intertestualità, nonostante il poeta a tr. iii 14, 37-38 dichiari di non disporre di libri (come Catullo a 68, 33-35; Luck 1977, 230; Syndikus 247-248; Bonvicini 2000, 44 sg.) che lo stimolino e lo ispirino, sono il sottile gioco con il quale manifesta la sua identità letteraria della fase esilica. Le cautele – vi fa riferimento Labate 1987, 127 (cfr. anche 1989, 89) – usate da Orazio, che riesce a coniugare l’ossequiosità verso il principe con il rispetto della propria dignità, non possono diventare esemplari per un poeta che ha subìto l’onta della relegatio: il Venosino, va detto, scriveva dalla sua villa. Ovidio aveva tratto senz’altro profitto dalle esperienze di seriosità oraziana

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di art du vivre nell’Ars in chiave giocosa (Labate 1989, 90 sg.), le ripropone, sic et simpliciter, con lo stesso spirito, nelle opere esiliche (tr. i 1 87 sgg.), ma solo temporaneamente. All’interno dei nove anni di relegazione bisogna distinguere, infatti, fasi diverse determinate e delineate da stati d’animo diversi. In P. iii un Ovidio assolutamente disilluso e disincantato non crede più che la propria moglie abbia parole da spendere per lui nelle alte sfere e che le alte sfere abbiano orecchie per ascoltare parole che inducano a ridurre il disagio logistico del relegatus. Le epistole dal Ponto del iii libro vanno rilette alla luce di questo revisionismo; bollarle di una monotona ripetizione di motivi già espressi, come fa ancora E. Norden, Rom. Lit., Leipzig, 19616, 75, che le trova «svuotate di contenuti», non aiuta ad una loro piena comprensione; le ripetizioni vanno lette nel senso opposto a quello tradizionale, a quello che esse avevano avuto precedentemente. Sempreché, peraltro, si tratti di eπettive ripetizioni; giova ripetere quanto ebbe a scrivere Enk 209 molti decenni orsono: «[…] non obliviscendum has epistulas [i.e. Epistulas ex Ponto] non scriptas esse ut uno tenore perlegerentur»: esse, tra l’altro, infatti, tracciano aspetti molteplici della natura del vincolo che inevitabilmente si va sviluppando tra i coniugi; non diversamente, è evidente, avviene per lo spirito dell’amicizia che si diπerenzia a seconda dei destinatari, delle loro storia, del loro ruolo nella struttura imperiale, della tipologia di rapporto che potevano intrattenere col mittente. Dunque, la scelta del momento (quaeras: non c’è sostanziale diπerenza tra «rendre visite» e «rechercher l’occasion», segnalata invece da André 1977, 166 su indicazione di Berg e Wheeler; André propende per la seconda ipotesi) è impresa estremamente impegnativa: Livia non deve essere disturbata né quando è troppo indaπarata, per motivi u√ciali o personali, né quando, ma accade con assoluta rarità, è troppo libera, e a malapena riesce a pensare alla cura personale (corporis ad curam): un tocco di ironia di grande e√cacia da parte dell’autore del de medicamine faciei femineae! E ad Ovidio certamente non sfuggiva che una schiera di unctrices, come risulta da cil vi 4045, provvedeva al fitness di Livia (Barrett 162-163; 473). Non si può escludere che Ovidio volesse invece proprio fare un’insinuazione, fors’anche un po’ caricata, sulla eccessiva cura del corpo che Livia osservava. Purtroppo una lacuna non consente la lettura integrale del v. 143, riassuntivo, da quel che si legge nel pentametro, dell’ultimo scenario presentato. (Richmond, praefatio xiv, esibisce, un conspectus lacunarum interpolationumque, riproducendo, con qualche aggiunta, quello proposto da André xliii per dimostrare l’apparentamento di B [Monac. 384] e C [Monac. 19476] da una parte, di d [Gothan. ii 121] e t [Turon. 879] dall’altra.) Il codice più autorevole, A (l’Hamburgensis del ix sec.), esibisce la parola omnia, che dovrebbe essere il primo dattilo dell’esametro, ma a quella parola fa seguire per rerum turbam tu quoque oportet eas, una sequenza perfettamente pentametrica, che, infatti, Richmond assume, e giustamente, come pentametro 144. Negli altri mss., o, meglio, gruppi di mss., si leggono interventi congetturali, che oπrono soluzioni variate, nei modi riportati nell’app. critico, per colmare la lacuna dell’esametro, molto probabilmente risalente all’archetipo; alcuni codd. addirittura esibiscono lezioni alternative anche del secondo emistichio 144. Non saprei se con l’esametro il poeta ritenesse di sottolineare, e più marcatamente, come vuole Larosa 2013, 125, la raccomandazione a Fabia di essere molto cauta nell’avvicinare Livia, immagine che sembrerebbe esaurirsi col v. 142, o se, piuttosto, non prepari, alludendo genericamente ai mille adempimenti della principessa, il suggerimento di cogliere l’opportunità inserendosi tra quelli, come in modo finalmente esplicito e compiuto si dice nel pentametro, il cui contenuto, in genere, esaurisce il pensiero avviato nell’esametro, secondo la consueta tecnica di distribuzione della materia nel distico. Pertanto omnia potrebbe far riferimento alla totalità delle occupazioni cui attende la moglie del principe, probabilmente citata sotto forma pronominale, illa ad es., o diretta, Liuia, o con un epiteto, ed il tu quoque del pentametro potrebbe esserne un controbilanciamento. Il ruolo molto attivo di Livia (per le occorrenze Johnson 410, nota 34) tra le matronae e gli equites ne fa un modello per le donne di Roma (va ricordato però che non

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appare mai nelle Res gestae; una citazione non era obbligata, ma sarebbe stata significativa se ci fosse stata): Ovidio sta confrontando Fabia con un modello di donna quale lui vorrebbe che la moglie fosse, sia pur limitatamente ad un auspicato attivismo, ma probabilmente inesistente, per il suo ritorno. C’è un’evidente contrapposizione tra l’attivismo di Livia, quasi frenetico, e l’urtante immobilismo contestato a Fabia. 145-154. Infine, si ammette che arrivi il momento che la donna vada al cospetto della regina; di lei, identificata in Giunone, viene ritratto il uultus al quale Fabia deve guardare per scrutarne l’umore, la disponibilità d’animo prima di indossare la maschera della teatrante, fac sis personae, quam tueare (la voce verbale nella stessa posizione metrica ma in altro senso a P. iii 4, 6) memor, v. 146: persona, un termine che compare solo in questa epistola (cfr. anche v. 43), dove il termine scaena (vd. anche tr. i 9, 48), a v. 59, rientra in questo linguaggio apertamente para-teatrale (Larosa 2013a 184). Finalmente il poeta impartisce le sue disposizioni: è tassativo nel disporre silenzio sul crimen commesso, il factum, come frequentemente lo definisce, perché una qualsiasi forma di difesa sarebbe inutile a fronte di una mala causa, che silenda est (cfr. P. ii 2, 59, lingua, sile; e già tr. ii 208, alterius facti [erroris] culpa silenda mihi). In P. i 2, 68-69, la causa è definita di√cilis, poi mala, a ii 2, 44 nessuna causa a nome del poeta bona est; a tr. i 1, 21 sgg. era già stato espresso il motivo della sconvenienza di tentar di difendere il male compiuto (a v. 26 si legge causa … non bona), un accorgimento che – lo ricorda opportunamente Larosa 2013a 182 – rientra nelle raccomandazioni al cliente da parte del patronus (puntuale il rimando a Quint. i.o. vi 1, 37-45; ThlL 700, 37-38). Siano pronunciate parole di preghiera accompagnate dal pianto, da gesti di prostrazione a terra, dall’abbraccio dei piedi (Staπhorst 62 segnala met. ii 477, tendebat bracchia supplex, e già her. 4, 153-154, tendo / bracchia). È il rituale di devozione compiuto davanti al simulacro di una divinità presso gli altari: i pedes di Livia sono non mortales. Thakur 176 sg., 200 sgg. dimostra che Ovidio, conformemente alla iconografia imperiale, tratta Livia come una divinità verso la fine della vita di Augusto. L’unica richiesta ammessa è la recessio del condannato dal saeuus hostis; al poeta basti l’avversità di Fortuna, hostem Fortunam sit satis esse mihi, con la significativa anafora. A v. 37 il responsabile della scelta della sede, priva di pace, della relegatio è definito iniquus; ora, a v. 152, è Fortuna la responsabile ed è definita hostis: c’è una klimax, ed il travestimento sotto le spoglie di Fortuna, invisibile e non individuabile, di colui che di sua iniziativa e personalmente dispose il provvedimento punitivo, a malapena opacizza l’addebito della soπerenza ad Augusto. La lunga sequenza di suggerimenti a Fabia è espressa con una serie, insistente, di imperativi, positivi o negativi (fac, nec defende, tende, pete), che conferisce a questa parte della lettera il tono del praeceptum. Al v. 153, plura quidem subeunt, sed sunt turbata timore, «svariati pensieri, ecco, sovvengono, ma li sconvolge il timore», Staπhorst 63 (condivide Davisson 1984, 333, nota 31; così gli esegeti in genere) ritiene che il timor sia del poeta, e cita a confronto plurima cum subeant […] di met. xv 307, confronto con il quale non si va oltre il rilievo di una mera ripresa lessicale. Potrebbero, invece, le parole che formano questo verso essere una vera e propria battuta che il magister suggerisce alla sua discepola; non appare verosimile che il poeta, che sta inculcando coraggio alla moglie che svolge un ruolo intermediario presso la regina, come i due incalzanti tum, di v. 149 e di v. 151, in anafora mostrano, confessi un turbamento personale provocato dal timor. Sono parole, suggerite da Ovidio, forse quelle di esordio, che Fabia dovrà pronunciare uix e tremente uoce al cospetto di Livia, espressioni che agevoleranno l’udienza. Relativamente al motivo del pianto come strumento di conquista del supplicante, un motivo che attraversa tutta l’epistola, Citroni Marchetti 1999, 133 sg. (per cui cfr. qui anche le osservazioni relative ai vv. 89-98) rileva nel testo ovidiano oppositio in imitando rispetto ad Eur. Suppl. 111 sg., levg’ ejkkaluvya~ kra`ta kai; pavre~ govon: / pevra~ ga;r oujde;n mh; dia; glwvssh~ ijovn: Teseo spinge Adrasto ad usar piuttosto parole e non lacrime. Il poeta latino privilegia l’e√cacia del pianto: il magister ha già

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ricordato a Fabia, a v. 149, tum lacrimis demenda mora est, di rompere gli indugi e di abbandonarsi al pianto; poco dopo, a v. 157, nec, tua si fletu scindentur uerba, nocebit, osserverà che dalle lacrime viene giovamento; che le lacrime hanno un peso pari a quello della parola, a v. 158, interdum lacrimae pondera uocis habent, dove Ovidio ripete quel che Briseide scrive ad Achille in her. 3, 4, sed tamen et lacrimae pondera uocis habent (già precedentemente citato): son lacrime altre, ma le due elegie vivono la stessa tristezza. Quello di Fabia dev’esser un parlar tra le lacrime. È pur vero, come la stessa Citroni Marchetti osserva, che l’oppositio è almeno parzialmente attenuata perché nelle Supplici anche le lacrime contribuiscono a dare esito positivo alla intermediazione familiare: ai vv. 287-288 Teseo chiede alla madre che piange: a\ra dusthvnou~ govou~ / kluvousa tw`nde… kajme; ga;r dih`lqev ti («sentendo i lamenti infelici? Anch’io ne sono colpito» (trad. Guido Paduano, in Diano 1970). È appena il caso di osservare, inoltre, che a v. 116 (ed. Mazon 19312) dell’omonima tragedia eschilea il coro delle Danaidi, che apre la tragedia, ad un certo punto esclama: «zw`sa govoi~ me timw`», «vivo, sì, ma a me l’onore delle lacrime (della morte)». 155-164. Ma per il poeta lo scopo del suggerimento, che finisce con il risultare fittizio, è quello di oπrire, nel gran finale, un ulteriore tocco al ritratto di Livia, una donna potente ma che prova godimento constatando che un’altra donna, in lacrime (fletu scindentur uerba, un hapax assoluto), mostri di essere timorata della sua maiestas: pertimuisse, v. 156 (per l’inf. perf. cfr. supra, a v. 9), che richiama timore di v. 153 (cfr. P. i 1, 53-56), è il verbo che si addice alla moglie dell’esule, anzi al ruolo ‘teatrale’, partes supplicis, che il regista le sta assegnando: Vial e Larosa 2013a, con dovizia di argomentazioni e puntualità di rilievi, separatamente richiamano l’attenzione sulla matrice teatrale della nostra epistola. La riflessione sul peso notevole che hanno le lacrime, non inferiore a quello delle parole, interdum lacrimae pondera uocis habent (v. 158), risveglia nella memoria del poeta il ricordo della battuta che Briseide scrive ad Achille in her. 3, 4, sed tamen et lacrimae pondera uocis habent: il processo di trasformazione del testo1 nel testo2 dimostra che l’uno può presupporre l’altro, che nel primo è in qualche modo anticipato quanto è presente nel secondo (o in infiniti altri), e come nel secondo (o in infiniti altri) fosse vivente ed agente una potenzialità intrinseca di accogliere quel che è nel primo. Ovidio spesso gestisce intra- ed intertestualità usando la stessa tecnica cui aveva fatto ricorso nei numerosissimi casi di ‘cambiamenti’ proposti nel suo poema ‘epico’: le stesse parole, talvolta formanti addirittura quasi un intero esametro, diventano strumento espressivo collocabile in contesti tra loro molto estranei, per dire con le stesse parole non la stessa cosa. Tornando all’aspetto della rappresentabilità scenica del contenuto della missiva si può osservare che anche il regista sta svolgendo una parte in questa sorta di metateatro, fingendosi tale, fingendo di dare consigli, suggerimenti, precetti, fingendo che l’attrice lo segua e fingendo di confidare che ella li rispetterà. Il tratteggio successivo, che rasenta il comico, sembrerebbe far raggiungere alla lectio lo sviluppo ultimo: Fabia deve scegliere una giornata buona, un’ora adatta, un auspicio propizio: la leonina di v. 160, horaque conueniens auspiciumque fauens, un pentametro di 14 sillabe (dattilico in entrambi i kola) asseconda il tono direi canzonatorio con cui il poeta propone le coordinate temporali ed astrali, si potrebbe dire, in cui inscrivere lo scenario per talia coepta, «imprese di tal fatta»: aggettivo e sostantivo caricano un evento privato di un’enfasi quasi epica: coepta godrà di gran fortuna nell’epica flavia; un esempio per tutti: Sil. It. Pun. xvi 631, angustae prohibent nunc talia coepta / res Italae. E invece esso è propedeutico al vero finale, esplosivo: tutta la terminologia presente nel distico 159-160 ha un timbro di sacralità e di liturgia, adsit, conueniens, auspicium, fauens: il linguaggio sta annunciando la mossa conclusiva, un rito propiziatorio con tanto di fuoco, incenso e vino puro per adorare sui sacri altari – sanctis altaribus, un altro hapax assoluto; in genere l’agg. qualifica il sost. [flamma, igne, donis, fibris, sertis, etc.] retto dal vb. [fumare, lucere, urere, etc.] di cui è sogg. altaria – la divinità di Augusto, della sua progenie e della stessa Livia, e tutto ciò dopo aver provveduto ad assicurare all’evento una bona lux, ‘una bella giornata’. Come argutamente osserva Davis-

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son 1984, 333, Fabia «must propitiate Livia before she propitiates Livia». Ma Ovidio aggiunge un’altra importante congiuntura: la Livia che Fabia deve propiziarsi, propiziandole a sua volta una felice congiuntura, è citata ora con l’appellativo di particeps tori di Augusto, come a dire che bisogna augurarsi che, oltre a tutte le circostanze favorevoli auspicate, l’umore della domina … possa essere dei migliori, forse una circostanza ‘unica’, come il sintagma che la esprime, participem tori: la connotazione erotica del torus è ben nota, e fa riflettere, nel contesto, l’età non proprio più giovanile della first lady (Luisi-Berrino 2010, 75). Ebbene, nel nesso participem tori si coglie una sorta di tensione operativa assente, ad es., nello statico epiteto ‘istituzionale’, socia tori, che si legge a P. ii 8, 29 (su cui si veda Galasso 1995 360-61); gli altri casi di Ausdrücken citati da Staπhorst 66 (met. i 319; i 620; fast. iii 511), alla luce della nostra interpretazione, non appaiono esattamente parallelen. 165-166. Queste divinità, conclude il poeta, siano clementi verso la moglie, solito more, «come sempre»: è la stoccata finale. L’espressione è enigmatica, e si presta ad un duplice senso, in ogni caso permeato di ironica arguzia. Il senso più immediato del messaggio induce alla considerazione che, se veramente le divinità fossero state sempre clementi con Fabia, non sarebbero veramente necessarie tutte quelle schizzinose concomitanze situazionali previste dal ‘regista’, perciò presentate solo a scopo derisorio. Il poeta le propone quasi fossero adynata. Il sovrasenso è: come sempre le richieste di Fabia sono esaudite dalle ‘divinità’ imperiali, ma quando e purché esse pertengano a vicende di suo stretto, personale interesse; non così quando riguardano un miglioramento della sorte del marito esule. Ovidio con lucidità distingue la propria condizione da quella della moglie, ne sente il netto divario; non si legge nelle sue parole quella solidarietà che emerge dalla traduzione che dell’ultimo distico fornisce, ad es., David R. Slavitt 224: «May they [all the gods] hear / the words you speak; may they see your tears; and may they feel / what you and I feel – and answer our prayer» (il corsivo è mio). Le epistole inviate ai vari destinatari dal Ponto erano nelle intenzioni dell’autore publica carmina (come recita il titolo della monografia di Harry B. Evans); le richieste di aiuto, per un trasferimento di sede, ai vari amici e alla moglie hanno un pubblico di lettori tra i quali certamente figurava, forse non foss’altro che per soddisfare una curiositas, la coppia imperiale così insistentemente chiamata in causa. Il carattere epistolare, di per sé fondato sulla privacy, è assolutamente fittizio. Questo deve aiutare nell’esegesi di queste epistole, dove il grado di lettura è molteplice, nel senso che il poeta si rivolge all’amico di turno o a Fabia perché ciascuno di essi legga così sentendosi destinatario diretto ma anche consapevole che quelle sono «lettere aperte», e che quindi il contenuto nelle intenzioni del mittente non intende rimanere confinato nella confidenza amicale o familiare ma estendersi come messaggio che raggiunga il suo pubblico (Evans 1976, 105), quello che lo conosceva come autore delle Heroides e dell’Ars, e che in quelle lettere come tale lo avrebbe anche ri-conosciuto. Ma questo non significa che perciò Ovidio rinunci ad esprimere con schiettezza i suoi sentimenti; il poeta in questa epistola uxori parla soprattutto a lei, scrive, e sa che tutti leggono, ma scrive perché soprattutto lei legga (quae legat ipsa Fabia, suggerirebbe di dire il secondo emistichio 4 della 10a bucolica di Virgilio), e tutti sappiano del grave ma anche disarmato rammarico dell’esule per un comportamento nel quale ha ravvisato gli estremi della mancanza della fides coniugale. Le critiche a Livia, e ad Augusto ora meno direttamente, pur da vari studiosi rilevate ed enfatizzate, sono senz’altro presenti, ma non rappresentano il motivo conduttore dell’elegia: quell’augurio finale che i reali guardino non duris uultibus le lacrime di Fabia rivela il disincanto dell’uomo che si sente abbandonato a se stesso, sopraπatto da forze troppo a lui superiori: l’immagine dello sguardo, che si spera benevolo, è tutto concentrato nell’intero secondo emistichio: il non frequente abbinamento di parola dattilica e parola coriambica sembra riflettere il contributo assicurato dai significanti per esprimere l’eccezionalità della sospirata corrispondenza (sull’assenza, poi, di finale trisillabica nel

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pentametro in Ovidio vd. G. A. Wilkinson 68; segnalo, en passant, la singolarità del pentasillabo pudicitiae a chiusura di her. 16, 290). Il profugus scrive un’epistola che forse vuole essere innanzitutto un addio alla moglie, senz’altro un addio alla speranza, per quanto considerata assurda, che quella potesse mai aiutarlo. «[…] l’inno alla Pontica tellus [che apre questa epistola] è negazione dell’epifania divina, annullamento di ogni speranza di incessus della divinità»: il giudizio di La Bua 98 deve far riflettere, e, forse, spingere l’esegeta ad estendere l’incessus della divinità all’incessus della coniunx.

Epistola iii 2: Cottae Maximo - Cotta, anche i barbari sanno apprezzare l’amicizia. Prudente, non cattivo, chi abbandona!

III 2 Cotta, anche i barbari sanno apprezzare l’amicizia. Prudente, non cattivo, chi abbandona! «Salute a te, Cotta; se stai bene tu, posso forse confidare nella mia salvezza. Mi è caro il tuo aπetto, ma perdóno chi mi ha voltato le spalle. È fatale che si prendano le distanze dal malato per timore del contagio. Non l’odio, non la mancanza di lealtà hanno impedito agli amici di aiutarmi, ma la paura dell’avversità dei numi. O forse sono troppo buono a giustificarli? Certo, i migliori siete voi che avete ritenuto doveroso concedermi qualche aiuto nella di√coltà estrema. Ve ne sarò grato sino alla morte, ed anche oltre. La fama vi renderà eterni, come Teseo, come Oreste. Siete noti anche qui, in terra sarmatica, alla gente del luogo ho parlato di voi, del vostro aπettuoso comportamento. Barbari, sì sono barbari, ma conoscono il sentimento dell’amicizia. Un vecchio una volta mi raccontò una antica storia popolare, molto commovente, che rievocava fatti avvenuti nella Tauride sotto il regno di Toante. Lo scenario è il tempio di Trivia, sorella di Febo, venerata dal popolo; lì una donna, Ifigenia, celebrava i riti in onore di quella dea. Due giovani, Oreste e Pilade, raccontava il vecchio, giunsero in questa terra, e, secondo il rito, uno dei due avrebbe dovuto essere sacrificato alla divinità. L’amicizia che legava i due era tanto intensa che facevano a gara ad oπrire la propria vita a Trivia. Meditate, amici, e medita tu, Cotta, e voi tutti che vivete nella città ausonia: quanta nobiltà d’animo ispirava la sensibilità di quei giovani, e quanta nobiltà d’animo posseggono i duri Geti che tramandano quella storia ora rievocata dall’anziano narratore, che la ha dissepolta dal patrimonio dei mores locali!»

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2. COTTAE MAXIMO 5 10 15 20 25 30 35

Quam legis a nobis missam tibi, Cotta, “Salutem!” missa sit ut uere perueniatque precor. namque meis sospes multum cruciatibus aufers, utque sit in nobis pars bona salua facis, cumque labent aliqui iactataque uela relinquant, tu lacerae remanes ancora sola rati. grata tua est igitur pietas; ignoscimus illis, qui cum Fortuna terga dedere fugae. cum feriant unum, non unum fulmina terrent, iunctaque percusso turba pauere solet, cumque dedit paries uenturae signa ruinae, sollicito uacuus fit locus ille metu. quis non e timidis aegri contagia uitat uicinum metuens ne trahat inde malum? me quoque amicorum nimio terrore metuque non odio quidam destituere mei. non illis pietas, non o√ciosa uoluntas defuit: aduersos extimuere deos, utque magis cauti possunt timidique uideri, sic appellari non meruere mali. aut meus excusat caros ita candor amicos, utque habeant de me crimina nulla fauet. sint hi contenti uenia signentque licebit purgari factum me quoque teste suum. pars estis pauci melior, qui rebus in artis ferre mihi nullam turpe putastis opem. tunc igitur meriti morietur gratia uestri, cum cinis absumpto corpore factus ero. fallor, et illa meae superabit tempora uitae, si tamen a memori posteritate legar. corpora debentur maestis exsanguia bustis: eπugiunt structos nomen honorque rogos. occidit et Theseus et qui comitauit Oresten, sed tamen in laudes uiuit uterque suas. uos etiam seri laudabunt saepe nepotes, claraque erit scriptis gloria uestra meis.

1 salutem dictum augurale ad uerbum accepi 5 labent B C2 D T : labant v 8 fug(a)e A B C le e bl (cf. e.g., tr. I 9, 20) : mea Heinsius 16 destituere A B C t : deser- D 18 extimuere B2 C le e bl : extimuisse A : pertimuisse B 19 magis A B C le e bl : nimis uel satis Heinsius; prius accep. Bentleius; alterum probau. Luck 1986 129 21 aut A C s : at B le bl : et e : ut o : an Luck : quod Kenney («qui leuius distinxit post fauet et sint licebitque coniunxit» scripsit Richmond) 23 signentque C p, defend. André in Commentario, pp. 87 et 178, cum P. iv 15, 11 conferens, recepp. Richmond, Pérez Vega: sientque A : fugiantque B2 (in ras.) le e bl et alii : iurentque Bentleius : fingantque Burmannus : sperentque uel scierintque Merkel : iactentque Korn : perstentque Ellis : cieantque Damsté : fidantque Castiglioni 29 et A B C le e bl : an Bentleius, coll. P. ii 8, 21, fallor, an, tr. i 2, 107, fallor an, damanauu. Korn et Owen, qui her. 7, 35 (edd. Palmer et Bornecque), fallor et ista, laudau. 36 gloria A C le e bl : gratia B

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2. A COTTA MASSIMO Il “Salute!” che leggi e che t’ho mandato, o Cotta, spero, dopo l’invio, che t’arrivi per davvero. Ché se stai bene molto porti via dei miei tormenti, e fai che buona parte di noi stia bene, e se alcuni tentennano ed abbandonano le travagliate vele, tu rimani la sola àncora per la mia lacera nave. M’è cara perciò la tua devozione; perdóno per chi come Fortuna ha dato le spalle al mio bando. Quando colpiscono uno i fulmini non atterriscono quello solo, e per lo più si spaventa la folla vicina al colpito, e quando la parete dà segni di prossimo cedimento per ansia e paura quel luogo si svuota. Chi tra i timorosi non evita contatti col malato per paura di contrarne il male dalla vicinanza? Anche me per troppa paura, terrore, alcuni amici miei han messo da parte, non per odio. Non l’aπetto, non la disponibilità a render servigi li abbandonò: temettero le avversità divine, possono risultare più attenti e timorosi, è vero, ma non han meritato d’esser chiamati cattivi. O il mio candore trova scusanti per i cari amici, e ne appoggia l’innocenza riguardo a me. Siano questi contenti del perdóno, e potranno certificare che io stesso come testimone scagiono il loro agire. In pochi siete una parte migliore: nella sciagura per voi è una vergogna non portarmi aiuto. Allora, dunque, morrà la riconoscenza pei vostri meriti, quando consunto il corpo diverrò cenere. Sbaglio, anzi, essa andrà oltre il tempo della mia vita, se tuttavia sarò letto dai memori posteri. I corpi esangui son dovuti alla mestizia del tumulo: nome e stima sfuggono all’eretta pira. Morì Teseo ed il compagno d’Oreste, ma tuttavia entrambi vivono nella loro fama. Anche voi i nipoti poi spesso loderanno, e chiara sarà la rinomanza vostra pei miei scritti.

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hic quoque Sauromatae iam uos nouere Getaeque, et tales animos barbara turba probat, cumque ego de uestra nuper probitate referrem (nam didici Getice Sarmaticeque loqui), forte senex quidam coetu cum staret in illo reddidit ad nostros talia uerba sonos: “nos quoque amicitiae nomen bene nouimus, hospes, quos procul a uobis ……….. habet. est locus in Scythia (Tauros dixere priores), qui Getica longe non ita distat humo. hac ego sum terra (patriae nec paenitet) ortus: consortem Phoebi gens colit illa deam. templa manent hodie uastis innixa columnis, perque quater denos itur in illa gradus. fama refert illic signum caeleste fuisse, quoque minus dubites stat basis orba dea, araque, quae fuerat natura candida saxi, decolor adfuso tincta cruore rubet. femina sacra facit taedae non nota iugali, quae superat Scythicas nobilitate nurus. sacrifici genus est (sic instituere parentes), aduena uirgineo caesus ut ense cadat. regna Thoas habuit Maeotide clarus in ora, nec fuit Euxinis notior alter aquis. sceptra tenente illo liquidas fecisse per auras nescioquam dicunt Iphigenian iter, quam leuibus uentis sub nube per aethera uectam creditur his Phoebe deposuisse locis. praefuerat templo multos ea rite per annos, inuita peragens tristia sacra manu, cum duo uelifera iuuenes uenere carina presseruntque suo litora nostra pede. par fuit his aetas et amor, quorum alter Orestes, alter erat Pylades: nomina fama tenet. protinus inmitem Triuiae ducuntur ad aram, euincti geminas ad sua terga manus. spargit aqua captos lustrali Graia sacerdos,

43 bene B C le e bl (cf. comm ad loc.), Richmond : bone A s, accepp. Owen, André, Pérez Vega 44 habet A : pontus et hi/yster habet B C a m (cf. P. iv 2, 38; cf. infra codicis o lectionem), ‘fort. recte’ scripsit Richmond : frigidus axis (ister kn [ex corr.] mc pp, orbis v) habet le er k l mc n (ex corr.) of pp v : alter et orbis habet e : ultimus orbis habet blv f h n s vv : altera (barbara blv lc p, frigida blv) terra (turba blv) tenet bl be lc p : barbara tellus habet xf : geticus orbis habet sc : (nobis) terra remota tenet B2 (i.m.) diuidit (h) ister aquis ba d g mb n (ex corr.) t xa : barbarus yster habet o (cf. P. iv 2, 38; cf. supra codicum B C a m lectionem), fortasse non improbandum: Ponticus Ister Heinsius ex Laurentiano 36, 32 saeculi xiii 59 thoas (cf. Qova~, Euripidis I.T. 32 etc.) B le e bl, André, Richmond, Perez Vega : thans A : thais C : Thoans Ehwald, Owen, Lenz 63 aethera vb («notandum per auras 61, per annos 65» scripsit Richmond), defendd. Owen coll. Eurip. I.T. 29, Luck secutus quod Housman adnotat ad Manil. iv 743 : (a)equora A B C le e s, defendd. André, Pérez Vega : aera bl b be fr h n o, Richmond, seruau. iam Burmannus

p. iii 2 Anche qui siete noti a Sarmati e a Geti, e la pur barbara turba esalta tali sentimenti, e quand’io, or non è molto, riferivo della vostra probità (ché ho imparato a parlar getico e sarmatico), un vecchio per caso trovandosi in quella brigata tali parole rispose al suono delle mie: “A noi anche è ben noto, ospite, il nome dell’amicizia, che lontano da voi ………………… ha. V’è un luogo nella Scizia (Tauride per gli antichi), non tanto lontano dal suolo getico. In questa terra son nato io (son pago della mia patria): quel popolo venera la dea sorella di Febo. Oggi sopravvive il tempio retto da immense colonne, e vi s’arriva per quattro volte dieci gradini. Secondo la leggenda lì c’era la statua d’un celeste; hai dubbi?: è ancora lì la base, senza la dea, e un altare, un tempo bianco di pietra naturale, scolorito rosseggia tinto del sangue versato. Una femmina celebra i riti, mai nota alla teda nuziale; supera in nobiltà le nuore scitiche. Il tipo di sacrificio (così stabilirono i padri) prevede che uno straniero cada ucciso da spada di vergine. Vi regnò Toante illustre sulla riva meotide, né altri fu più noto sulle acque eussine. Quand’era re fin lì compì per l’aure limpide il cammino, dicono, tal Ifigenia; venti lievi la trasportavano per l’etere in una nube e Febe, si crede, la depose in questi luoghi. Per molti anni solennemente aveva presieduto al tempio, compiendo di sua mano a malincuore i mesti sacrifici, quando giunsero due giovani su velifera nave e calpestarono di lor piede i nostri lidi. Uguali in età e in aπetto, l’uno era Oreste, l’altro Pilade: la fama tien desti i nomi. Tosto all’ara spietata di Trivia son condotti, mani legate sulla schiena. La sacerdotessa graia cosparge i prigionieri d’acqua lustrale,

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ambiat ut fuluas infula longa comas. dumque parat sacrum, dum uelat tempora uittis, dum tardae causas inuenit ipsa morae, “non ego crudelis, iuuenes; ignoscite”, dixit, “sacra suo facio barbariora loco. ritus is est gentis; qua uos tamen urbe uenitis, quodue parum fausta puppe petistis iter?” dixit, et audito patriae pia nomine uirgo consortes urbis comperit esse suae. “alter ut e uobis” inquit “cadat hostia sacris, ad patrias sedes nuntius alter eat”. ire iubet Pylades carum periturus Oresten; hic negat, inque uices pugnat uterque mori. extitit hoc unum, quo non conuenerit illis: cetera par concors et sine lite fuit. dum peragunt iuuenes pulchri certamen amoris, ad fratrem scriptas exarat illa notas. ad fratrem mandata dabat, cuique illa dabantur, (humanos casus aspice), frater erat. nec mora, de templo rapiunt simulacra Dianae, clamque per inmensas puppe feruntur aquas. mirus amor iuuenum; quamuis abiere tot anni, in Scythia magnum nunc quoque nomen habent”. fabula narrata est postquam uulgaris ab illo, laudarunt omnes facta piamque fidem. scilicet hac etiam, qua nulla ferocior ora est, nomen amicitiae barbara corda mouet. quid facere Ausonia geniti debetis in Vrbe, cum tangunt duros talia facta Getas? adde, quod est animus semper tibi mitis, et altae indicium mores nobilitatis habent, quos Volesus patrii cognoscat nominis auctor, quos Numa materni non neget esse suos, adiectique probent genetiua ad nomina Cottae, si tu non esses, interitura domus. digne uir hac serie, lasso succurrere amico conueniens istis moribus esse puta.

74 ambiat ut A B C le e bl (comas sc. hostiarum) : ambiit et f : ambit et hinc Heinsius : ambiit ut Riese 80 quodue B C e bl et alii : quaeue le a : qua d l n (cf. Verg. Aen. i 370) : quoque g v 83 ut e uobis A B C le e bl s : uter uobis Heinsius : alter at e uobis, inquit, cadat hostia sacri Burmannus : alter uotis Hensius, a- nostris Merkel 88 par Naugerius, edd. plerique : pars B C le e bl 102 duros C le bl : diros B e bl (p.c.) 105 cognoscat B e bl : agnoscat C : cognoscit le 106 materni Naugerius, recep. Richmond : maternus A B C le e bl (maternos C), defendd. André, Pérez Vega, coll. Prop. iv 11, 31 (maternos Libones) : maternis Bentleius 107 genetiua Ehwald-Levy : grenitiua codd. • ad nomina C le e bl : agnomina B, Bentleius 110 lasso B C le e bl : lapso a d o t

p. iii 2 sì che la lunga benda s’aggrappi intorno alle fulve chiome. Mentre preparava il sacrificio, mentre velava di bende le tempie, 75 mentre lei stessa inventava ragioni di lento indugio, “Crudele non io, o giovani; perdóno”, disse, “compio sacrifici più barbari del loro luogo. È rito di questa gente: ma voi, da quale città venite, e dove vi dirigeste con l’infausta nave?” 80 Disse, e udito il nome della patria la pia vergine acclarò che eran giovani della sua città. “Uno di voi”, disse, “cada vittima pel sacrificio, l’altro vada nunzio nelle patrie sedi”. Pilade votato alla morte ordina al caro Oreste d’andare; 85 questi dice di no e l’un combatte l’altro per morire. Fu questa la sola occasione di disaccordo per loro: sul resto compagni concordi e senza liti. Mentre i giovani conducono la gara di bell’aπetto, lei solca segni di scrittura per il fratello. 90 Per il fratello a√dava il messaggio; a chi l’a√dava? (guarda i casi umani), ma al fratello! Niente indugi, portan via dal tempio la statua di Diana, che di nascosto per l’acque senza fine la nave mena via. Meraviglioso aπetto di giovani; son passati tanti anni, 95 e in Scizia anche ora godono di gran fama”. Dopo la narrazione di questa vecchia storia popolare, tutti lodarono il fatto e la pia devozione. Anche su questi lidi, si sa, e non ce ne son di più feroci, l’amicizia è un titolo che smuove cuori pur barbari. 100 Che dovreste fare voi nati nella città ausonia, quando tali azioni toccano i duri Geti? Aggiungi l’eterna dolcezza del tuo animo, e l’alta nobiltà attestata dai tuoi costumi; Voleso, iniziator del casato paterno, li riconoscerebbe, 105 e Numa di parte materna non li negherebbe di sé, con l’approvazione dei Cotta acquisiti ai nomi di nascita, un casato destinato all’estinzione se non ci fossi tu. Uomo degno di questa prosapia, soccorrere l’amico stremato significa coerenza con quella probità: pensaci. 110

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Commento 86

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1-4. Il distico di apertura di questa epistola indirizzata a Cotta Massimo (Syme 1978, 125 sgg.; 127: «probably quaestor in 12»), destinatario del maggior numero di lettere dal Ponto, i 5, i 9, ii 3, ii 8; iii 5 e, secondo il Syme, anche 8, riflette il primo distico dell’epistola inviata da Ero a Leandro (her. 19), quam mihi misisti uerbis, Leandre, salutem / ut possim missam rebus habere, ueni: Ero invoca l’arrivo dell’amato Leandro per poter dare una palpabilità a quel saluto che si perde nella labilità delle parole. L’intratestualità è scontata e sembrerebbe quasi incolore: l’attacco col relativo (lo stesso) riferito con prolessi a salutem (così anche in her. 4), in entrambi i testi preceduto dall’Anrede (Leandre / Cotta) a chiusura dell’esametro, il diptoto missam / missa sit che echeggia misisti / missam. La variante mihi / nobis è il decisivo segnale della discontinuità, che svincola la ripresa dalla banalità, le conferisce l’auctoritas della energia allusiva e sviluppa la divergenza tra i due testi che si estrinseca nell’amplificazione del pathos all’interno del testo secondo, per l’assoluta impossibilità di opporre res a uerba, di sostituire uerba con res. Questo gioco contrastivo, infatti, divarica l’auspicio di Ero di una concretizzazione della speranza, deputata ad introdurre l’esplicito invito, ‘ueni’, evidentemente invece impronunciabile dall’esule, costretto a convertire l’augurio del desiderato ma impossibile, e nemmeno pensato, arrivo dell’amico in augurio dell’arrivo di un comunque non meno desiderato buono stato di salute di lui. Merita attenzione il fatto che in questa epistola del iii libro a Cotta, e nella quinta (pure nell’ottava, se mai anche di quest’ultima egli fosse il destinatario, ma è ipotesi almeno dubbia, per cui si vedano qui, a iii 8, 1-4, le considerazioni sulla questione), non si trova mai formulata la solita richiesta di intercessione presso Augusto, sostituita, proprio nel commiato, vv. 109-110, piuttosto dall’invocazione di aiuto espressa in una forma estremamente sottile e, forse, maliziosa. Il poeta gioca sul doppio valore semantico di salus, ‘saluto’ e ‘buona salute’, una paronomasia già impiegata in her. 4, 1-2; 11, a-b; 13, 1-2; 19, 1-2. Nel caso di P. iii 2, 1 la bivalenza è anche di tipo sintattico: salutem è ogg. di legis, ma anche acc. esclamativo, espressione isolata, ‘letteralmente’ riportata, con la quale si esprime un augurio di buona salute che il poeta desidera far pervenire a Cotta. Il nesso salutem mittere, presente in her. 4, 13, 16, 18, 19, era stato da Ovidio esule utilizzato in P. i 8, 1-2, in cui l’iniziale saluto a Severo è rivolto con anonima formalità: at tibi dilecto missam Nasone salutem / accipe, pars animae magna, Seuere, meae, il rituale dato paratestuale, che fornisce al lettore l’identità del mittente e del destinatario e lo orienta sul rapporto di reciproca aπettuosa amicizia. A quella iunctura Ovidio ricorre anche a P. i 3; i 7; i 10; ii 2; ii 5; iii 4; iii 5; iv 9, con le relative varianti, che, secondo Davisson 1988, 18, indicano la ‘variety’ e la ‘ingenuity’ del poeta, perciò tutt’altro che monotono ed ‘uninventive’. Che si parli dello stato di salute di Cotta, come a tr. v 13, 1-2 nella formula augurale per l’anonimo destinatario (Davisson 1985 240), e a P. i 10 per Flacco, appare ben evidente nel secondo distico, in cui l’epistolografo pone come condizione per allontanare da sé il tormento la consapevolezza del soddisfacente stato di salute dell’amico, impegnato, forse, in una campagna militare o in un viaggio: ancora uno scarto dallo scenario dell’eroide citata (19ª), in cui Ero, a v. 206, dice che la sua salus è vincolata a quella del giovane: quae numquam nisi te sospite sospes ero. La ripresa del testo protoelegiaco è, in questo come in moltissimi altri casi, rettificata da una concreta oppositio, mirante ad inquadrare la propria vicenda autobiografica in un’atmosfera più cupa di quella in cui sono collocati i personaggi mitologici la cui vicenda ha oπerto l’ispirazione nel gioco agonistico utilizzato dal poeta per dialogare col lettore abituale (e tradizionale) della sua produzione letteraria. Il confronto aiuta a strappare il racconto mitologico alla incredibilità mimetizzandone l’intrinseca dimensione di fabula, che, quasi materiandosi in una realtà almeno possibile, accentua, proprio attraverso quel processo analogico, il dramma della condizione autoriale.

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5-8. Il terzo distico introduce una lunga sezione (che si estende sino al v. 24) dedicata ai tentennamenti dell’amicizia dinanzi a terror e metus, con la metafora della tempesta marina che investe la nave, e della salvezza finalmente raggiunta grazie ad un provvidenziale intervento, sul quale si misura il livello di amicizia tra mittente e destinatario. L’esule conta sull’aπettuosità che lo lega a Cotta e in grande considerazione ne tiene l’appoggio morale. È ancora il riconoscimento della strategia della intratestualità a fornire suggerimenti; è possibile ravvisare, infatti, una sorta di oppositio in imitando rispetto ad her. 7, 9-10: Didone accusa Enea di abbandonarla mentre i venti porteranno via le vele, certus es […] relinquere Didon / atque […] uenti uela ferent. Il confronto, in questo caso, mira a dimostrare come il poeta, grazie a Cotta, sfugga ad un dolore interiore quale quello vissuto dall’abbandonata regina di Tiro, simpateticamente avvertito. Ma la metafora della tempesta marina, che richiama l’immagine già presente in tr. v 2, 42, ancora iam nostram non tenet ulla ratem – confronto non sfuggito a Staπhorst 75 – , e poi in P. ii 3, 25-30, ha, qui, anche un’altra fonte di ispirazione, e proprio nel mito che sarà centrale dell’epistola: ai vv. 599-600 dell’Ifigenia in Tauride Oreste, che parla con Ifigenia, aπerma di non poter lasciare che l’amico muoia per lui, quando proprio lui è stato il nocchiero che lo ha trascinato nel mezzo delle disgrazie: sembra una risposta a quanti, come Ovidio dice, ‘abbandonano le travagliate vele’. Il sintagma lacerae rati è stato prelevato da un passo del i libro dell’Ars, uix tenuit lacerae naufraga membra ratis (v. 412), in cui il praeceptor amoris usa la metafora per prospettare una situazione eroticamente sconveniente perché provocherebbe un ‘naufragio’ finanziario (< Cic. de orat. iii 163); il gioco analogico con il paesaggio marino si giova, inoltre, del prelievo dell’agg. sospes, qui, a v. 3, riferito a Cotta, in Hor. carm. i 37, 13, uix una (> sola) sospes nauis (> rati) ab ignibus, qualificante, in un contesto ugualmente marino ma di tutt’altro tenore, la nave di Cleopatra a stento salvata dal fuoco. Ovidio manipola la sua stessa poesia con una tecnica consumata: riscrive a v. 7 il primo emistichio 11 di tr. i 7, grata tua est pietas, inserendo nella pericope l’anapesto ĭgĭtūr (pietas), che conclusivamente spiega il motivo della gradita pietas di Cotta, un termine abusato nella poesia dell’esilio (tra pius e pietas Claassen 1990, 168 conta 59 occorrenze), e contestualizza il concetto nell’ambito di una giustificazione per chi non ha avvertito verso l’esule la stessa solidarietà, amici che hanno abbandonato le vele in di√coltà, ma che il poeta sente di voler perdonare; non sono i soli ad avere voltato le spalle, lo han fatto in compagnia di Fortuna, cum Fortuna, come a P. ii 3, 10; iv 9, 90. È ripresa l’immagine già usata a tr. i 9, 20, omnes timuere ruinam, / cautaque communi terga dedere fugae, in un non diverso contesto; e ancora iii 5, 5 sgg., dove il poeta lamenta la fuga generale degli ‘amici’ che impauriti voltarono le spalle all’amicizia; diverso invece il contesto di fast. vi 522, turpia femineae terga dedere fugae (cfr. anche, e.g., met. xii 313; xiii 879) dove emerge evidente il senso del disprezzo verso le Tyades (le Baccanti) che all’arrivo di Ercole placarono subito la loro aggressività volgendo le spalle alla fuga. Ed è proprio quest’ultimo il subarchetipo ovidiano, che integra il sintagma originariamente virgiliano in clausola terga dedere di Aen. ix 686, nesso destinato ad una certa fortuna nella poesia imperiale, tardo-imperiale e medievale. Il procedimento argomentativo fondato sulle basi di una lineare razionalità è scandito dalla iterazione del cum, sintatticamente gestito in modo variato: cum labent … -que … relinquant (v. 5; avrebbe ingannato il copista del Vat. Barberin. Lat. 26 [sec. xiii] che trascriveva labant), cum feriant (v. 9), cum … dedit (v. 11); ai pentametri sono a√date le principali: tu … remanes (v. 6), turba pauere solet (v. 10), uacuus fit locus (v. 12). Il discorso è condotto serratamente, lo spirito allusivo è tutt’altro che ombreggiato, come la inequivocabile citazione dei fulmina mostra, un’immagine molto presente nella poesia dell’esilio; ma non si può escludere una velata critica verso chi non ha nutrito lo stesso sentimento di Cotta Massimo, che, con l’esemplarità del suo comportamento solidale e con il suo conforto, diventa, indirettamente, il principale accusatore di chi non ha avuto il coraggio di onorare un’amicizia, voltando le spalle a chi pativa la fuga,

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l’‘esilio’ cioè, secondo una terminologia nella poesia esilica di Ovidio abituale, fors’anche perché ricordava al poeta le assai sbrigative modalità con cui avvenne l’allontanamento dall’Italia: tr. i 3, 36; P. i 2, 128; i 3, 70; i 4, 34. 9-14. Ovidio relega nel ruolo di una deludente, squallida ordinarietà quanti han temuto i fulmini isolando l’‘amico’ colpito (è il caso di ricordare i già citati vv. 5 sgg. di tr. iii 5), evocazione del Prometeo eschileo, vittima di Zeus (Citroni Marchetti 1999, 128 sgg.), ma si veda anche P. i 7, 49-50, siquis / a Ioue percussus non leue uulnus habet, dove il verbo riferito all’azione punitiva di Giove diventa formulare per esprimere punizioni in generale (Gaertner 2005, 416). La costruzione chiastica del v. 9 e l’anadiplosi a contrasto, feriant unum, non unum … terrent, centralizzano questa figura doppiamente isolata, nel subire gli eπetti diretti dei fulmina, e quelli indiretti che provocano la fuga di quanti erano intorno alla vittima designata. Un luogo interessato da una crepa che produrrà la ruina si spopola; tutti i presenti sono assaliti dalla paura che genera ansia, sollicito … metu, memoria di tr. iii 11, 10, omnia solliciti sunt loca plena metus, sintagma mai, peraltro, prima attestato, dove la percezione negativa appartiene al poeta stesso costretto a vivere in luoghi che sente ostili. Forse, consapevole di aver colpito con eccessiva durezza la fragilità di questi falsi amici, il poeta sembra attenuare i toni osservando che essi, e li chiama amici mei, non hanno agito in preda all’odio ma a terror metusque. Non solo: non li considera privi di pietas e di o√ciosa uoluntas, un nesso che si legge già in P. ii 5, 31; semplicemente han temuto l’avversità degli dèi. Del resto, chi, ma e timidis, non temerebbe il contagio del malato vicino? Anche questa espressione, che ha precedenti, ad es., in tr. iii 8, 25, aegrae contagia mentis, v 4, 33, cum … alii fugerent subitae contagia cladis, v 5, 25-26, ne contagia fati / corrumpant timeo … mei, v 13, 3, aeger … traxi contagia corpore mentis, e che assume un senso metaforico in ambito poetico attestato dall’impiego oraziano in epist. i 12, 14, inter scabiem … et contagia lucri, ha una sua ambiguità, forse gradualmente acquisita nel suo utilizzo diacronico: in questa fase cronologicamente avanzata della relegatio vi si potrebbe celare il sospetto che un’eventuale vicinanza ad Ovidio potrebbe ingenerare un uguale sentimento di contrarietà nei confronti del princeps: il malum sarebbe proprio questo Antiaugustanism. In tr. iii 14, 17, tres mihi sunt nati contagia nostra secuti, il contagio è quello patito dai tre libri dell’Ars condannati insieme con chi li ha composti. 15-24. Non v’è dubbio che il contesto è dominato dall’idea della paura: terga dedere fugae (in cui il concetto è implicito), terrent, pauere, sollicito … metu, e timidis, metuens, terrore metuque, extimuere, cauti … timidique: è evidente la volontà di bollare queste persone sulle quali il poeta scarica un lessico che ne determina in misura massiccia la falsità. Non sono malvagi, mali, non meritano la negativa etichetta di mali (Vell. i 5, 1, solus [Homerus] appellari poeta meruit), conclude, sono semplicemente cauti, e potrebbe esser questa addirittura una uirtus se la cautela non fosse vincolata al timor (vv. 19-20). Si sarebbe portati a pensare che, in questo caso, per Ovidio i mali sarebbero più degni dei timidi, perché ciò che temono i timidi è l’avversione degli dèi, quella che in her. 7, 6, aduerso mouimus ista deo, tormenta Didone, quella che avverte su di sé Oreste, come dice a Pilade, qeoi`~ stugouvmenon (I.T. 948): la sostanziale identità del princeps con Giove nelle allusioni esiliche di Ovidio è vecchia acquisizione (Scott 43 sgg.). Alternativamente (aut) alla tesi finora sostenuta, giustificativa del comportamento di chi lo ha abbandonato, Ovidio attribuisce al proprio candore l’incapacità di accusare quelle persone (caros amicos a v. 21 è smaccatamente beπardo), e spiega le ragioni per le quali le ha scagionate da ogni colpa; l’uso traslato di candor è inaugurato da Ovidio in her. 4, 32 e poi adottato con una certa frequenza nelle opere dell’esilio, come risulta in ThlL iii 248, 45 sgg.; ma giustamente l’articolista, Hey, richiama l’attenzione su candor animi mei et honesta simplicitas con cui Porfirione commenta Hor. epod. 11, 11-12, candidum / pauperis ingenium, «il sentimento sincero dell’amante povero» (sorprende la mancata registrazione del termine nell’Addendum stilato da Claassen 1999,

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168-71): l’agg. candidus appartiene al linguaggio veemente della tradizione poetica giambica (Degl’Innocenti Pierini 2003, 132 [= 2008, 89-90]). L’espressione di v. 21 nell’insieme è costruita sulla falsariga di tr. iii 6, 7-8, quique est in caris animi tibi candor amicis, / cognitus est ipsi …, dove il contesto esattamente opposto, dato che si celebra lo specchiato foedus amicitiae dimostrato dal destinatario, fa pensare ad un’influenza di tipo allusivo. La dimostrazione, anche grazie ad un appropriato sermo, risente di un rigore scientifico di stampo forense: termini come excusat, crimina, fauet, lo stesso signent (il vb. indica, in certo senso, l’atto della ‘verbalizzazione’), purgari, teste son prelevati dal lessico giuridico/politico nel quale può essere inquadrabile lo stesso ‘istituto’ dell’amicitia, come, del resto, fa Hellegouarc’h passim, secondo le indicazioni che provengono dal Laelius di Cicerone (Rauh 3 sgg.); l’amicitia coltivata da Ovidio in questa fase della sua vicenda biografica comporta inevitabili implicazioni politiche, se non nell’approccio, senz’altro però nella domanda e nell’aspettativa. La stoccata finale è nel distico 23-24, dove i termini uenia, purgari, teste rivelano la ‘sentenza’ assolutoria con cui l’esule liquida, su di un piano di u√cialità quasi tribunalizia ma non su quello dei rapporti umani ed interpersonali, uomini verso i quali non può nutrire alcuna stima personale. 25-32. Queste persone non rappresentano certamente la pars melior, invece ristretta a pochi (il caso che sembrava isolato di Cotta si allarga ad una schiera, per quanto limitata, di persone solidali col poeta punito), che considerano vergognoso non soccorrere il condannato. Turpe putastis: è qui la disapprovazione più esplicita che il poeta a√da al giudizio della pars melior, non di se stesso, e l’ammissione di una pars melior presuppone l’esistenza di una pars peior. Ovidio fa in modo che chi non lo ha aiutato subisca la censura di chi s’è mostrato degno, mentre lui, indulgendo ad un comprensivo perdóno, si sfila dall’impegno di una diretta scomunica. Quasi automaticamente, direi, ne consegue la dichiarazione di eterna riconoscenza, che potrà esaurirsi solo con la morte del beneficato, anzi essa si protrarrà oltre la sua morte: l’immagine della consunzione fisica e della riduzione del corpo a cenere, come ricorda Staπhorst 81, è in cle 1005, 4, Bücheler, hic cinis et caro corpore factus erit. È l’ennesima dichiarazione di immortalità del destinatario sancita dalla memoria poetica, un’immagine che, però, è diπusa nell’opera di Ovidio, qualunque ne sia il codice (e.g., her. 16, 376, nomen ab aeterna … posteritate feres, ma anche fast. vi 78, posteritas … memor); quella memoria inciderà nelle menti dei posteri i versi del cantore immortale. La ricerca del rapporto diretto col pubblico è, come si sa, un’esigenza primaria di Ovidio: in tr. iv 10, 1 sg. (ille ego qui fuerim, tenerorum lusor amorum, / quem legis, ut noris, accipe, posteritas), egli evoca in modo diretto il pubblico cui, come lettori, noi stessi ci sentiamo di appartenere (Nicastri passim). Ugualmente tradizionale il motivo della sopravvivenza al corpo, imprigionato e zittito dalla mestizia del tumulo, del nome e dell’onore che sconfiggono il rogo. In questo caso il fare poetico si svolge per contaminationem: con l’assemblaggio di due luoghi dei Tristia, i 3, 98, structos corpus habere rogos, e iv 10, 86, et gracilis structos eπugit umbra rogos, e con il ri-uso pur parziale dell’archetipo, che è Prop. iv 7, 2, euictos eπugit umbra rogos, Ovidio ha confezionato un verso scolasticamente ‘dotto’. Se è plausibile pensare che egli, ricorrendo alla coppia sintagmatica nomen honorque avesse in mente Hor. ars 400-401, sic honor et nomen divinis vatibus atque / carminibus uenit, sarà il caso di concludere che pensasse alla sua fama imperitura, capace di travalicare i confini della sua esistenza (tempora uitae, un nesso a lui particolarmente caro nella condizione di relegato) che i suoi versi avrebbero esteso agli amici citati per i benef ìci apportatigli. Il concetto della intramontabilità di ‘nome e stima’, e della loro sopravvivenza al rogo, che riprende tr. v 14, 5-6, dumque legar, pariter mecum tua fama legetur, / nec potes in maestos omnis abire rogos (il modello è evidentemente il celeberrimo non omnis moriar di Hor. carm. iii 30, 6), ha la funzione di anticipare, con un accenno secco e quasi espresso sotto voce, il contenuto mitologico che sarà, di qui a poco, centrale della rJh`si~ del vecchio sarmatico, costituendo la parte più

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importante ed incisiva dell’epistola, con la citazione di Oreste. L’annesso esempio di Teseo, uno specimen mitologico frequente in tutta la produzione ovidiana (Claassen 2001, 51), qui è evocato con la sola citazione del nome dell’eroe (cfr. anche tr. i 3, 66; i 9, 31; ii 403; Claassen, ibid.), per la sua amicizia con il taciuto re dei Lapiti, Piritoo, che ora è pertanto implicita, mentre in tr. i 5, 19-20 spicca la contiguità nella citazione dei nomi di entrambi. 33-38. L’exemplum mitologico, testimonianza della perennità del ricordo di personaggi cui la fama garantisce immortalità attraverso la poesia, supporta, per analogia, la dichiarazione successiva nella quale Ovidio rassicura i pochi che non lo hanno abbandonato: questi non saranno dimenticati dai loro discendenti grazie alla rinomanza che si guadagneranno dalla citazione che egli ne fa nella sua produzione poetica, una rinomanza capace da subito di destare l’attenzione dei Sarmati e dei Geti, ai quali, evidentemente, ha parlato della loro probitas, riconoscendo anche all’interno di una pur barbara turba solidarietà e condivisione di sentimenti. La proposizione che contiene i nomi di due esemplarità primarie, quella di Teseo, mitico fondatore di Atene, e quella dell’amico di Oreste (della ben famosa coppia basta citarne uno per evocare ex silentio il nome dell’altro), assume una posizione centrale: attorno al distico, vv. 33-34, che presenta i due personaggi ed allude alla fama conseguita a séguito delle vicende da loro vissute, nemmeno accennate data la loro celebrità e simbolicità, si agglomerano, in senso centripeto, quattro coppie distiche, due precedenti, due seguenti. Ovidio, infatti, ai vv. 29-32, come si è detto, preannuncia la fama grazie a lui acquisita dai suoi benefattori, e, in termini generali, sottolinea che la potenza del ricordo proietta il nome e la stima oltre i limiti della vita terrena. Questa immagine è ribadita, con qualche variazione, ai vv. 35-38, la seconda coppia distica, dove il riferimento ai suoi benefattori è più ravvicinato, ma soprattutto si dota di una glossa particolarmente maliziosa: Sarmati e Geti, popolazioni pur definite ancora ora barbare (barbara turba, una iunctura che si può considerare formulare nell’opera di Ovidio: her. 8, 12; rem. 594; fast. vi 374; tr. v 10, 28), altrove oggetto di forti riserve da parte del poeta, costituiscono in positivo l’elemento di tacito confronto con quei timidi che, spaventati dai fulmini, hanno abbandonato l’amico colpito dagli strali del terribile censore, viziati, evidentemente, da una barbaries superiore a quella dei ‘barbari’ Geti. 39-40. Il racconto getico (39-96) può essere suddiviso in varie parti: due distici introduttivi rievocano tempi recenti in cui il relegato rammentava ai suoi ospiti la probitas degli amici; in questo modo si favorisce un altrimenti impossibile accostamento tra gli amici romani e gli ospiti getici, necessario per esprimere il sopraggiunto cambiamento di vedute. I Geti che nella poesia esilica sono lontani da ogni comunicabilità e «sono oggetto di una poesia che li rifiuta» (Barchiesi 1994, 26), nell’epistola a Cotta Massimo assumono addirittura il ruolo di destinatari delle intime confessioni dell’esule, che confida loro i sentimenti che lo legano agli amici di Roma, forse immeritevoli di tanta attenzione. Incidentalmente, per dar conto di questa possibilità comunicazionale, Ovidio avverte il lettore di aver appreso il getico ed il sarmatico, un motivo già espresso altrove (ad es. tr. iii 1, 17-18; v 10, 37), e lo fa ripetendo un pentametro scritto in una delle ultime epistole dei Tristia, la v 12, in cui ad un amico che lo esorta a scriver poesia a scopo consolatorio obietta la mancanza di un pubblico culturalmente abilitato ad ascoltarlo, compiacente, una condizione che lo ha portato a disimparare il latino; iam didici Getice Sarmaticeque loqui (v. 58; cfr. anche tr. v 7, 56, Sarmatico cogor plurima more loqui; P. iv 13, 19, Getico scripsi sermone libellum; Barchiesi 1994, 27; Gehman 53). L’insistente omeoteleuto, evidenziato dai puntuali tempi forti, le assonanze, la ripetitività delle gutturali sembrano scimmiottare la parlata locale per provocare su quelli che leggeranno l’eπetto negativo dei suoni, da lui riprodotto con qualche tono caricaturale ispirato dall’ascolto quotidiano. Ma ora, in P. iii 2, lo spirito è diverso, diversa la funzione del messaggio assicurata dalla diversa contestualizzazione: Ovidio ripete quel

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susseguirsi di suoni per oπrire un’idea a Cotta, e al pubblico, della sonorità di una lingua a lui non estranea, anzi divenuta mezzo di comunicazione con una popolazione, allora, finalmente non più inavvicinabile come un tempo. L’acquisita possibilità di interloquire con i Geti nella loro lingua, in ogni caso, è una ‘notizia’ che il poeta fornisce in modo cursorio, destinata a non avere, come non ne avrà, se si esclude il rapido passaggio di P. iv 13, 19-22, alcun séguito nella sua esperienza a Tomi e nella poesia lì prodotta. È segnale, comunque, di una almeno latente crisi di identità, peraltro tipica della condizione psicologica dell’esule (Degl’Innocenti Pierini 1992; 1998, 101-102 e n. 41). 41-42. Ecco che un senex che era nel gruppo col quale Ovidio s’intratteneva, detentore della cultura di miti arcaici e conservatore della memoria antica, faceva eco alle parole del poeta accingendosi a raccontare una fabula di tradizione locale, come egli dice: un procedimento che ricorda la tecnica introduttiva della narratio callimachea, ma anche alcuni racconti nei Fasti (Staπhorst 87 cita v 499; vi 339). La figura del senex è stata variamente interpretata: la Ingleheart (2010, 231) rileva l’innovazione ovidiana di proporre in un senex il narrator di questo mito, ma ricorderei l’emblematicità della figura, celeberrima, del senex Corycius, pur non narrator nel registro descrittivo del poema didascalico (l’epillio di Aristeo/Orfeo è altra cosa), nella quarta georgica di Virgilio, un uomo attempato ma ricco di vigore e di iniziative che incarna l’ideale dell’autárkeia fondato sul labor improbus capace di assicurare il benessere e di imporsi come guida verso l’acquisizione della pienezza della sophía. L’accostamento delle due figure di senes agevola l’interpretazione del senex ovidiano come voce parlante del chorus col quale si potrebbe identificare il coetus di v. 41, poiché egli in qualche modo integra il racconto con la partecipazione ed il commento di quanto di tragico avviene sulla scena. Meno convincenti, ove si esclude da subito la possibilità di scorgere nel senex Ovidio stesso, le ipotesi che identificano nella figura del vecchio il poeta Euripide o addirittura la sua fonte, Erodoto, che, come si sa, cita il mito del sacrificio taurico ad Artemide a iv 103, dove però appare un elemento narrativo rispetto al quale la versione euripidea oπre una variante di non poco conto: th;n de; daivmona tauvthn thÊ` quvousi levgousi aujtoi; Tau`roi ∆Ifigevneian th;n ∆Agamevmnono~ ei\nai (§ 2; «questa divinità cui rendono sacrifici i Tauri stessi dicono essere Ifigenia»). Il vecchio è prezioso depositario e portatore di un’antica tradizione orale, che alla senectus riconosce la prudentia. Publilio Siro (Q 54) scriveva: quod senior loquitur omnes consilium putant, che riprende una tradizione risalente ad Omero (Il. ii 53), e lo stesso Ovidio in Ars i 766 sosteneva che longius insidias cerua uidebit anus. 43-44. Il punto di vista è il getico-sarmatico che Ovidio cerca di interpretare con lo scopo precipuo di contrapporlo alla filosofia che ha guidato gli ‘amici’ che lo hanno abbandonato. Si apprezza una certa riabilitazione di quella barbara gente; il contenuto del v. 43, caratterizzato dalla insistita assonanza della vocale o che forma la sillaba iniziale di tutte le parole, tranne bene ed amicitiae, dalla triplice allitterazione nos … nomen … nouimus, attribuisce, per bocca del senex, a questo popolo la conoscenza del bonum nomen amicitiae; il senex apostrofa il poeta con hospes, cui alcuni edd., come Owen, André, Pérez Vega, ma non Richmond, collegano l’agg. bone («cher étranger» traduce André, «buen extranjero» Pérez Vega), accoglienda la lez. dei soli A e s contro bene del resto della tradizione; bone risponderebbe al gioco fonico come s’è visto senz’altro esaltato dal poeta, ma proprio l’eπetto assonantico potrebbe avere indotto l’errore; am. i 2, 43, si te bene nouimus, nella stessa sede metrica, privilegia la lez. di B C le e bl, che si lascia preferire anche perché la forma vocativa dell’agg., come ricorda Staπhorst 88, è solo in tr. v 3, 35, dove, peraltro, è riferito a divinità, bone Liber. Non si è in grado di ricostruire con un margine di credibilità più o meno ampio, nemmeno congetturalmente, le probabili due parole che mancano nel pentametro 44 (vd. app. cr.), senz’altro una sequenza dattilico-trocaica, data la posizione nel verso, ma si potrebbe avanzare

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l’ipotesi che il vecchio, esibendo esplicitamente la capacità del pur barbaro popolo getico di nutrire profondo il senso dell’amicitia, in misura non inferiore a quella del ‘civile’ popolo romano (bene nouimus), voglia accreditare alla sua gens una referenza aggiuntiva ricordando che la sua terra è, in ogni caso, terra barbara: «noi abbiamo limpida la cognizione dell’amicitia, noi che, pur lontano da voi … (in grado di civiltà, di cultura), quindi, ugualmente ‘avvertiamo’ quel sentimento pur vivendo in una terra, che ci ‘ha’, ci ‘tiene’, ben meno emancipata della vostra, ed apparteniamo ad un contesto naturale e sociale senz’altro inferiore, una terra, una popolazione definite ‘barbare’». Molti tentativi congetturali presenti nei recentiores sembrano andare in questa direzione (cfr. app. cr.); degna di particolare menzione è la congettura di o, l’Oxoniensis Bodl. Canon. Class. Lat. 1 del sec. xiii, che legge barbarus yster habet, riproponendo il secondo emistichio 38 di P. iv 2. Anche il concetto di barbaries subisce oscillazioni valutative da parte dell’esule, conformi alla funzionalità del contesto in cui vi si fa riferimento. Ovidio ribadisce, ora con le parole del vecchio getico, quanto ha già detto egli stesso, rivolgendosi ai cari amici, a v. 38, […] tales animos barbara turba probat. 45-54. Alla drammatica esperienza vissuta in Tauride da due amici irriducibili come Oreste e Pilade Ovidio aveva già accennato in tr. i 5, 21-22; i 9, 27-28; ma la aveva anche con una certa estensione illustrata in tr. iv 4, ai vv. 63-82, ricostruendola sulla base del testo euripideo dell’Ifigenia in Tauride, di cui riproduce taluni tratti narrativi gestiti secondo l’ars uertendi; ma non va sottaciuta un’altra possibile fonte, la tragedia pacuviana di cui si ha notizia nel Laelius di Cicerone al cap. 24. Il vecchio avvia il racconto presentando il teatro della vicenda; l’attacco è tipico della tecnica narrativa con topotesia iniziale di ascendenza virgiliana (Aen. vii 563, est locus Italiae [la valle d’Ansanto] ~ est locus in Scythia), e, comunque, di stile tradizionalmente epico, da Hom. Il. vi 152, e[sti povli~ […], ad Enn. ann. 22 Flores (= 20 Skutsch = 23 Vahl.2), est locus Hesperiam quam mortales perhibebant. Si tratta della Scizia, l’antica Tauride (od. Crimea), non lontano dal territorio getico; di essa il narrante si dichiara nativo, hac ego sum terra (patriae non paenitet), dove terra torna ad essere patria, e diventerà la nuova Roma del relegato (Dan 224). L’organizzazione del pensiero che espone il dato biografico del vecchio è tutt’altro che ordinaria; essa risente del coinvolgimento emotivo di Ovidio, che a√da ad un incidens la notizia della orgogliosa appartenenza alla terra di Scizia, esaltandola nel suo isolamento sintattico, patriae non paenitet. Il poeta esule non sa, anzi non vuole evitare di contaminare il commento del narrante sul luogo natìo con un’impronta che ne dimostra una personale partecipazione. L’orgoglio del senex di sentirsi nativo della Scizia è ridotto, per litote, a «non pentimento» perché, in realtà, l’orgogliosa coscienza della ‘Romanitas’ del poeta, così gravemente ferita dall’onta dell’espulsione, lo induce quasi al ‘pentimento’ di essere ‘Romano’. Il senex ricorda, anticipando il contenuto del mito che si appresta ad esporre, la particolare sensibilità di quella popolazione per il culto della consors Phoebi, la sorella di Febo (ThlL iv 486, 42-49), Artemide, secondo la parentela ricostruita da Esiodo in Theog. 918-920: Lhtw; d’ ∆Apovllwna kai; “Artemin ijocevairan / … / geivnat’[o] («Leto generò Apollo e Artemide arciera», trad. Arrighetti). È conservata la nomenclatura greca, cui, ovviamente, il vecchio scitico ricorre per identità culturale. Ovidio con la sua parola prestata all’autoctono senex rivaluta sul piano morale questa popolazione, come si diceva, quasi sempre proposta sotto una luce negativa, in questa circostanza invece esibita in termini positivi, soprattutto perché al confronto emergesse come la condanna di una coscienza deprecabile, ora materiata nel tradimento dell’amicizia, potesse toccare anche la ‘civilissima’ Roma, spiritualmente dotata e rispettosa dei valori tradizionali che regolano i rapporti tra gli uomini, anzi tra ciues Romani. Il primo dato informativo nella narratio del vecchio, cui Ovidio cede estesamente l’autocoscienza poetica, come avverrà nell’epistola successiva con il lungo discorso di Amor, avverte, dunque, che la popolazione di quel luogo venera Artemide (Diana), sorella di Febo (Apollo).

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Tracce antiche sopravvissute al tempo testimoniano gli eventi del passato, e consentono di conservare nell’attualità il senso di valori arcaici (manent hodie, v. 49), non dissipati dallo scorrere dei secoli: colonne imponenti (Staπhorst 90 opportunamente richiama I.T. 128 sg.) sorreggono il tempio, cui s’accede per quaranta gradini: Strabone a vii 4, 7 informa sull’esistenza di un tempio della vergine ad Eraclea del Chersoneso, antica colonia dorica, vicino a Sebastopoli. Dalla pagina del geografo apprendiamo che quel tempio ospitava una statua della dea Artemide. I rapporti commerciali intercorrenti tra Tomi greco-getica ed il Chersoneso greco-scitico mettevano l’ospite romano nelle condizioni di acquisire conoscenze relative ad importanti architetture locali (André 1977, 167). Per dar credito alla notizia di una scomparsa statua di divinità (signum caeleste Mineruae a fast. vi 42; a[galma qea`~, I.T. 87) collocata su un basamento non si può che attivare la sola immaginazione alimentata dalla tradizione orale ed aurale, anzi dalla tradizione consolidata, fama refert, protetta da argomentazioni quasi avvocatesche. Le prove superstiti, sulle quali il narrator insiste per acquisire credibilità (quo … minus dubites, v. 52), sono nella presenza della basis, pur priva della dea, krhpi`da~ … laivna~ ajgavlmato~, I.T. 997 («[come sfuggirò agli occhi della dea … quando] vuoto [troverà] il basamento della statua […?]», trad. di Ferrari, qui et alibi; qui ed infra l’ed. di riferimento, con relativa numerazione, è quella di Diggle oct 19842), ed in un altare cui il rosso del sangue versato ha alterato l’originario colore bianco della pietra naturale (Bechet 14 [cfr. anche 19] osserva che qui e a tr. v 3, 24 «the dark shade implied by decolor is given by the blood»): il vecchio prende in prestito le parole della fonte diretta, I.T. 74-75, parole di Oreste a Pilade, […] bwmov~, “Ellhn ou| katastavzei fovno~ («[…] l’altare. Guarda! È macchiato di sangue ellenico») e di Pilade ad Oreste, ejx aiJmavtwn gou`n xavnq’ e[cei qrigkwvmata («Sì, le sue cornici biondeggiano di sanguigne gocce»), aggiungendovi quel tocco virgiliano (ma di ascendenza omerica [Il. iv 141-145]), celeberrimo, della commistione cromatica di rosso e bianco di Aen. xii 67-69, con esemplificazioni che fungessero da illustrantia del rossore divampato sul volto bianco di Lavinia. Alla automemoria poetica sarà venuto in aiuto, forse, anche tr. iv 2, 42, decolor ipse suo sanguine Rhenus erat, un’immagine pittorica vivente, secondo la consuetudine celebrativa del trionfo, nella quale un uomo vestito di rosso si prestava come simbolo del personificato Reno sconfitto. L’aggettivo al v. 54 oπre il senso della contaminazione del luogo, che appare, nell’elegia dei Tristia e qui nell’epistola dal Ponto, come snaturato nei suoi tratti cromatici dal sangue versato dalla vittima, adfuso … cruore, con la rarità del vb., di uso prevalentemente poetico sino a Seneca (ThlL i 1248, 9-11), cui il Sulmonese è già ricorso in her. 13, 114, adfuso … mero, e in ars i 650, adfuso sanguine, tematicamente quest’ultimo assai vicino al nostro contesto, perché anche nel passo del poemetto erotico-didascalico si tratta di un rito sacrificale in onore di Giove oπerto da uno straniero per propiziare la pioggia e sconfiggere la siccità. 55-58. La celebrazione del rito è a√data ad una donna: il racconto continua con l’introduzione della figura femminile co-protagonista della vicenda, una femina illibata il cui grado di nobiltà eccede quello di tutte le donne scitiche; anche in P. iii 8, 10 Ovidio assegna un posto subalterno alle nurus Tomitanae che non hanno imparato la tessitura, l’arte di Pallade. Taeda … iugali, sintagma metonimico per ‘matrimonio’, è variante di lecto … iugali di tr. iv 5, 33; lo stesso nesso, invece, in her. 4, 121, ma l’archetipo sembra Catull. 64, 302, nec Thetidis taedas colui celebrare iugalis. Il sacrificio, per antica deliberazione dei padri, prevedeva l’uccisione dello straniero per mano di vergine armata di spada, ensis, termine con le sue 93 occorrenze largamente preferito da Ovidio a gladius, 32 occorrenze, come si può leggere nella Tabula stilata da Hörmann in ThlL v 2 608, 40 sgg.; e in Axelson 51: «Weniger hervortretend ist die Vorliebe [rispetto a gladius] für ensis bei Ovid (met. 40: 13; eleg. 53: 19)». Il sintagma uirgineo ense trae probabilmente ispirazione da Hor. carm. iii 4, 72, in cui si presenta Orione uirginea domitus sagitta, contaminato con her. 12, 132 (ed. Dörrie 1971), caesa … uirginea membra paterna manu? (Scilla provoca la morte del

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padre Niso). Il poeta aveva mostrato grande sensibilità verso queste eroine che si macchiano di delitti orrendi, non a caso delitti consumati nello stretto àmbito parentale: si pensa, ad es., alla stessa Medea che compie fratricidio in tr. iii 9 (cfr. vv. 25-26, protinus ignari [fratris] nec quicquam tale timentis / innocuum rigido perforat ense latus), con probabile connessione allusiva tra l’eπeratezza del gesto compiuto su Absirto e l’obbrobrio dei massacri delle guerre civili (Degl’Innocenti Pierini 2014). 59-64. Di questo territorio è re Toante, già menzionato a tr. i 9, 28, in un contesto in cui ugualmente, parlandosi di amicizia, si cita il caso di Oreste e Pilade, si ricorda l’approvazione da parte di questo re del gesto di Pilade, si riconosce con evidenza nel suo comportamento l’assimilazione dell’esercizio della moderatio di Augusto. Ora, ai vv. 59-60, la presentazione di Toante, che occupa l’intero distico, è accompagnata, rispettosa del punto di vista del suddito memore del mitico re locale, da espressioni di sincero encomio: il clarus Toante, Maeotide clarus in ora, solenne toponimo ispirato da ellenistica esibizione di doctrina, acquisito da uar. 21 di Ennio e da iii 11, 14 di Properzio, dove funge da epiteto geografico di Pentesilea nel solenne contesto del bellum Actiacum. Nessuno più del re Toante fu rinomato nei territori bagnati dalle acque pontiche, Euxinis … aquis, nesso formulare nei Pontica: ii 6, 2; iii 6, 2; iii 7, 40, sempre nella stessa sede metrica. La rievocazione di Toante è un elemento aiutante nella trama narratologica: serve ad inquadrare la periodizzazione dell’arrivo di Ifigenia, che, presentata ora, a confronto con la figura del re, in forma estremamente dimessa, e per quanto generica, nel rispetto del punto di vista getico, finalmente però non anonima, nescioquam Iphigenian (v. 62), diventerà, in un’appariscente kli`max narrativa, personaggio centrale della fabula, come, del resto, l’epiteto precedente (superat nobilitate …, che riflette, peraltro, la consapevolezza getica della propria inferiorità) lasciava prevedere. Dunque, nel tempo in cui Toante reggeva lo scettro della Tauride (sceptra tenente, sintagma presente in fast. ii 432 [Romolo] e iv 594 [il ‘Tonante’], alternativo a regna … habuit di v. 59, che avrebbe meritato, accanto al ben discusso imperium una citazione in Claassen 1999, 143), Ifigenia viene trasportata attraverso l’etere, per aethera uectam (la morfologia dell’acc. è ricalcata sul gr. aijqevra). Ovidio insiste sull’immagine del viaggio attraverso lo spazio con la doppia combinazione sintagmatica, liquidas … per auras (di v. 61) e per aethera (di v. 63), per rendere l’espressione del tragico greco, dia; .... lampro;n aijqevra di v. 29. Questa corrispondenza, peraltro, potrebbe orientare sull’oscillazione aer/aether (aera/aethera), oltretutto frequente nelle tradd. mss. di molte opere; in Virgilio è attestato sempre aether. Dunque, Ifigenia in una nube (sub nube, di ascendenza virgiliana: ad es., geo. iii 547 ed Aen. v 516) col favore dei venti leggeri (leuibus uentis, sintagma virgiliano, Aen. ii 794; vi 702) viene da Febe collocata in quei luoghi: il vb. deposuisse in questa forma è conio poetico ovidiano, a partire da am. iii 5, 20, e corrisponde all’euripideo w/[kisen, v. 30. Il narrator sottolinea, con una breve, repentina interruzione del racconto, che l’episodio è frutto di tradizione orale: dicunt, v. 62, creditur, v. 64. Viene rievocata la versione ‘ottimistica’ del mito di Ifigenia, secondo la quale la figlia di Agamennone, destinata dal padre al sacrificio per il buon esito della navigazione della flotta argiva verso Troia, sarebbe stata, all’insaputa dell’Atride, sostituita nel sacrificium con una cerva e così strappata alla morte da Artemide, che poi avrebbe provveduto, come s’è detto, diuinis instrumentis, a sistemarla nel tempio a lei dedicato in Tauride. 65-66. Erano già molti anni che Ifigenia svolgeva il ruolo di sacerdotessa del tempio (naoi`si d’ ejn toi`sd’ iJerevan tivqhsiv me, v. 34, «Egli [Toante] mi ha insediato qui, come sacerdotessa di questo tempio»), che le imponeva il compimento del sacrificio di vite umane: inuita indica la mal disposizione della sacerdotessa verso quella forma di rituali definiti tristia proprio nel rispetto del punto di vista dell’o√ciante, e, nel contempo, in un certo senso preannuncia la decisione finale di contravvenire ai suoi obblighi sacerdotali. Il testo greco torna più volte sulla

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eπeratezza del rito e sull’eπettivo ruolo assunto da Ifigenia nello svolgimento di esso: ai vv. 40 nel monologo iniziale, 618 rispondendo ad Oreste, la donna dice che il suo ministero è quello di eseguire il sacrificio ma che il cómpito di sgozzare le vittime tocca ad altri, che sono all’interno del tempio; ai vv. 726-727 ordina ai servi di approntare tutto quanto occorre a chi, «all’interno del tempio», ha il cómpito di sgozzare le vittime; a v. 776, rivelando finalmente ad Oreste di essere sua sorella, gli chiede, pervasa da rincrescimento e sconforto, di portarla ad Argo, prima che sia morta, e di strapparla dalla terra barbara e dall’esecuzione di sacrifici di sangue sgozzando vittime straniere per una dea; e ancora all’indirizzo di Oreste, esternandogli il desiderio di liberarlo, a v. 994, pronuncia una battuta in qualche modo riprodotta dal narrator: sfagh`~ te ga;r sh`~ ceivr’ ajpallavxaimen a[n («così eviterei di immolarti con le mie mani»): son proprio queste due ultime battute della Ifigenia euripidea a maggiormente impressionare il narrator, che trasferisce in tristia sacra il senso del gr. [prostrophv, ex 618] a[zhlon […] koujk eujdaivmwn (v. 619, «[questo è] il ministerio [mio]) e qea`~ / sfagivwn, ejf’ oi|si xenofovnou~ tima;~ e[cw» (vv. 775-776, «[strappami via da questa terra barbara e] dal triste ministerio di sgozzare per la dea straniere vittime»), e in manu la traduzione letterale del testo euripideo, ceivr(a). 67-72. Ebbene, due giovani giungono nella Tauride proprio in quel tempo uelifera … carina (met. xv 719, -am … -am), una iunctura strappata a Prop. iii 9, 35, in un contesto tematico assolutamente incongruente con questo ovidiano, che è governato dalla forte allitterazione uelifera iuuenes uenere, e dominato dall’anapesto tra P ed H, col quale si avvia la presentazione dei due co-protagonisti. Per rappresentare l’immagine del loro arrivo Ovidio ricorre ad una iunctura piuttosto rara, presserunt … litora, che ha un riscontro, isolato per la forma plur. del sost., in Stat. Theb. vii 105-106, pronis Gradiuus equis Ephyraea premebat / litora, «Gradivo con i cavalli senza freni calpestava i lidi di Efira»; col sost. al sing. si legge in Hor. carm. ii 10, 3-4, premendo / litus iniquum, «rasentando il litorale infido»: sembra indicare, comunque, il vb. in questa particolare iunctura e con questo particolare significato tra i moltissimi (old ne conta addirittura 26) la pericolosità dell’azione compiuta in modo inavveduto, nel caso dei due giovani inconsapevolmente inavveduto. Per Oreste e Pilade, questi i loro nomi, due dati, indissolubilmente intrecciati, che li accomunano in modo totale: innanzitutto par fuit illis aetas et amor, frutto di contaminazione di due segmenti espressivi desunti da fonti diverse, da Verg. Aen. xi 174, par aetas, allo stesso Ou. met. ix 718, par aetas, met. xii 416, par amor est illis, met. xiii 828, par aetas, ma detto degli haedi (la compresenza, non sintagmatica, di aetas et amor nello stesso contesto non fa di Verg. Aen. viii 327-28, Hor. carm. iv 9, 10-11, Ou. med. 45 dei loci similes). In secondo luogo, ma come naturale conseguenza di quell’amor, la fama contribuisce a conservare i loro nomina imprescindibili l’uno dall’altro: nomina fama, un nesso prelevato in maniera assolutamente meccanica da ars iii 453 (si parla di crimen amantis, ‘il tradimento’), tale è il divario ideologico tra i due contesti. È la fama a conservarne il ricordo: l’espressione fama tenet, desunta dal linguaggio delle sententiae (Publ. sent. 83), già usato in altro senso però dal Sulmonese in met. xii 43 (f. t. [domum]), conferisce un tono quasi ieratico al racconto sancendone un carattere di emblematicità. Ovidio recupera dalla sua produzione precedente (ars i 288; her. 18, 140; fast. iv 160; vi 578) il sintagma, addirittura da lui coniato, nomina tenet, che sarebbe rimasto poi isolato sino all’età medievale. Il vecchio continua il suo racconto: i due vengono condotti all’altare spietato di Trivia (tr. iv 4, 73 sg.): l’enallage trasferisce all’ara, sulla quale si compiono i riti sacrificali, la qualificazione che spetterebbe alla dea. Hanno le mani legate dietro la schiena, come detta il testo originale: […] cevra~ desmoi`~ divdumoi / sunereisqevnte~ cwrou`si, nevon / provsfagma qea`~ (I.T. 456-458, «con le mani legate avanzano quei due, nuovo olocausto per la dea feroce»; cfr. anche 1203b, in cui una fallace Ifigenia ordina a Toante di incatenare gli stranieri): l’evidente spostamento del punto di vista, nel testo latino, con la manovra stilistica dell’enallage prima

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evidenziata, trasferisce sulla spietatezza dell’ara la ferocia dell’oπerta alla dea di vite umane, che più plasticamente appare saziarsi del sacrificio a lei dovuto. 73-80. La sacerdotessa «graia», e la specificazione territoriale è riflesso del punto di vista dell’anziano narrator, compie il rito dell’aspersione dell’acqua lustrale (cfr. qui di seguito il v. 622 della tragedia greca, e 1191). Ora, nel testo greco questo rito è annunciato ma non raccontato nel suo eπettivo svolgersi: al v. 622, caivthn ajmfi; sh;n cernivyomai, «aspergerò d’acqua lustrale la chioma tua», ella informa Oreste su quel che ‘farà’, «aspergerò», escludendo, su precisa domanda del giovane, di scannare gli uomini con la spada; a v. 1191 a Toante dice aJgnoi`~ kaqarmoi`~ prw`tav nin nivyai qevlw, «Innanzi tutto intendo purificarli con santi lavacri»: un altro proponimento, espresso in modo fallace. Nel racconto del senex, invece, i preliminari sono descritti nelle loro fasi operative successive e demarcate: spicca la coordinazione asindetica dei tre kola, sempre introdotti dal dum ai vv. 75-76, costruiti con materiale di ri-uso tratto dalla migliore tradizione della poesia latina da Catullo ad Ovidio stesso (cfr. old s.uu. e Staπhorst 101-102); e a quelle azioni, preparazione del sacro rito, velamento delle tempie con bende (tempora uittis è clausola frequente, già ovidiana in contesti sacrali ed anche in ambito epico), reperimento di motivi che giustifichino l’indugio, appaiono presenziare gli stessi giovani. A questi, infatti, la sacerdotessa, per cessione della parola da parte del narrator, novità significativa rispetto alla più sintetica gestione narrativa di tr. iv 4, si rivolge direttamente (vv. 77-80) implorando il perdóno e riconoscendo la barbarie dei riti a cui è preposta, e da cui prende le distanze dichiarando che si tratta di un ministerio che appartiene alla popolazione che la ospita, addirittura più barbaro del luogo in cui è celebrato (barbariora loco, la stessa clausola di tr. v 1, 72; «nur bei Ovid»: Draeger 4): una variante rispetto al testo euripideo in cui Ifigenia implora il già riconosciuto fratello Oreste (w\ suvnaime, v. 774) di strapparla ejk barbavrou gh`~ e dal terribile rito sacrificale (vv. 775-776, già citati). Nel racconto ‘riportato’ da Ovidio è aggiunto un particolare descrittivo molto vivido: la benda bagnata si avvolge attorno alla fulva capigliatura dei due prigionieri. Il Richmond nell’app. intermedio rimanda, senza aggiungere alcuna osservazione, ad I.T. 52, ejk d’ejpikravnwn kovma~ / xanqa;~ kaqei`nai, «che spandeva giù dal capitello bionde chiome» (così anche Ingleheart 2010, 237): è questo un esempio molto significativo della strumentalizzazione, questa volta solo tecnica, del testo greco da parte dell’autore latino che trae spunto per inventare una diversa destinazione del sintagma kovma~ / xanqav~, con cui indicava le «bionde chiome» pendenti da un capitello che adornava l’unico pilastro sopravvissuto del palazzo scosso dal terremoto: fuluae sono le comae dei giovani già madide dell’acqua lustrale del rito sacrificale. Ovidio, inizialmente, non parla del sacrificio del solo Oreste, ma ci presenta una Ifigenia che compie l’atto dell’aspersione su entrambi i iuuenes, e su entrambi, come le ripetute forme plurali, ducuntur, euincti, iuuenes, ignoscite, largamente indicano, sembrerebbe abbattersi il lugubre destino. Solo successivamente ella chiede loro la città di provenienza. Il poeta latino, mentre rispetta l’ipotesto greco, v. 479, povqen poq’ h{ket’(e) […];, «di dove siete […]?» (cfr. anche 495, 506; lo saprà da Oreste, vv. 508 e 510; nel testo latino l’acquisizione dell’informazione avviene in forma anonima, audito patriae … nomine, v. 81), sorvola sulla riflessività meditativa della donna, cui avrebbe potuto anche far riferimento in modo indiretto: hJ ga;r tuvch parhvgag’ e~ to; dusmaqev~, «la sorte devia verso ciò che non è dato conoscere», v. 478. Lo scopo di Ovidio è quello di mostrare più da vicino ad entrambi l’appressarsi della morte, e di fare in modo che apprendano contemporaneamente del tragico dilemma: alter e uobis … alter ... . L’ovvia mancanza nel testo elegiaco del procedimento sticomitico, che caratterizza, nel rispetto della struttura istituzionale del gevno~, il parlato del testo euripideo, impone una ricostruzione degli eventi a√data prevalentemente alla forma del discorso indiretto, sotto la guida della voce narrativa del senex, che, peraltro, ed è non meno ovvio, riduce il racconto all’essenziale, lasciandosi in qualche caso interrompere dalla ‘citazione’ letterale della rJh`si~ di Ifigenia.

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81-88. Ed è appunto la pia uirgo (I.T. 220, a[gamo~, 856, ajnumevnaio~), qualificazione rispettosa del costume romano dato lo status della vergine vestale, ma nello stesso tempo programmatica, deputata ad anticipare l’evolversi della vicenda, una volta conosciuta la città di provenienza dei due giovani, a rivolgersi loro (secondo ed ultimo discorso diretto) per annunciare il sacrificio per uno dei due ed a√dare all’altro il cómpito di recarsi nunzio ad Argo (alter … e uobis … / … alter…, vv. 83-84). La drammatica alternativa innesca il processo di reciproca solidarietà tra i due giovani, ciascuno dei quali si dichiara pronto a sacrificarsi per l’altro: extitit hoc unum, quo non conuenerit illis. L’espressione, perfezionata nel senso dal contenuto del pentametro, cetera par concors et sine lite fuit, è prelevata dal testo euripideo: kalw`~ e[lexa~ ta[lla plh;n e{n, w\ xevnh (v. 597, «hai detto bene in tutto, o straniera, tranne in un punto»), e taujta; de; fqavsa~ levgei~, / plh;n e{n (vv. 669-670, «e sono d’accordo su tutto, tranne che su un particolare»), nel quale introduce il nobile proposito espresso da Pilade ad Oreste di voler lui morire per l’amico: Ovidio, insomma, ha dovuto capovolgere, rispetto al modello, i due aspetti della forma del contenuto narrativo, anticipando il motivo dell’oπerta di Pilade a quello della ragione, unica, del loro disaccordo. Ciò accade perché nel suo testo la scelta della vittima è lasciata ai due giovani, non, come invece nel testo euripideo, consegnata al disegno di Ifigenia, che, ancora ignara dell’identità parentale di Oreste, programma la salvezza per lui solo perché il giovane ben conosce Micene e la famiglia di lei, cui vuole che a√di il messaggio che la svincola dalla taccia infamante di omicida. Ifigenia ha bisogno che le venga riconosciuto dalla sua città che il ruolo fissato dalla legge taurica le è stato imposto. È questo che condannerebbe Pilade: ou|to~ [Pilade] … / qea`i genevsqw qu`ma cwrisqei;~ sevqen (vv. 595-596, «questi […] da te si separi e sia lui la vittima per la dea»). Solo all’opposizione di Oreste di accondiscendere a tale proposta la donna decide di invertire i ruoli dei due giovani: ejpei; de; bouvlhÊ tau`ta, tovnde pevmyomen / devlton fevronta, su; de; qanhÊ` (vv. 614-615, «Se proprio vuoi così, manderemo lui a portare il messaggio, e tu morirai, visto che di morire una gran passione ti ha preso»). Ovidio soprassiede del tutto su quanto invece emerge prepotentemente nel testo euripideo, dove a dominare è la forte esigenza di Ifigenia di svincolare la propria identità dal titolo di sacerdotessa omicida; questo particolare le fa conservare il ruolo di centralità anche di fronte ad un episodio pur così iconico di filiva come è quello che vede protagonisti Oreste e Pilade. 89-94. Nella tragedia greca all’interno di un fitto dialogo tra i due giovani si snoda il motivo della reciproca oπerta di sé come vittima del sacrificio (vv. 674-724), riassunto nel racconto del senex con un certamen amoris, come egli dice, riprendendo, e sempre in clausola, il sintagma già usato in P. ii 2, 87 (Galasso 1995, 173). Nel corso del certamen Ifigenia scrive, per il fratello, ad fratrem, il messaggio che avrebbe consegnato al sopravvissuto tra i due sulla tavoletta che nel testo greco (vv. 636-637) ella si appresta a prelevare dall’interno del tempio prima del citato dialogo tra i due: ajll’ ei\mi devlton t’ ejk qea`~ ajnaktovrwn / oi[sw, «Dunque, andrò a prendere la tavoletta dall’interno del tempio». L’anafora del sintagma ad fratrem in due versi successivi, pentametro (v. 90) di un distico ed esametro (v. 91) del distico seguente, e la ripresa, per diptoto, frater, alla fine del secondo distico dilatano il messaggio sul quale viene fortemente richiamata l’attenzione del destinatario, e fanno di questo periodo metrico il fulcro dell’intreccio che nel testo ovidiano non approda mai ad una dichiarata ajnagnwvrisi~, e si arricchisce, rispetto all’originale teatrale dove non avrebbe potuto comunque trovare spazio, di un elemento personalizzante del racconto con l’osservazione quasi stupita «humanos aspice casus», che sembra cercare la complicità del destinatario. Lo snodo narratologico è nello sbrigativo attacco, nec mora, col quale il senex abbandona il ‘canovaccio’ euripideo, peraltro nemmeno esattamente rispettato nella sequenza degli eventi, come si è visto, per avviarsi rapidamente alla conclusione dell’asportazione dal tempio della

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statua di Diana (Trivia, Artemide) trainata sulla nave per immensas … aquas, acque della stessa vastità di quelle cantate dal poeta che scriveva ad Ero con la mano di Leandro (her. 18, 162, uixque per immensas fessa trahuntur aquas), o dal poeta che evocava il dramma di Icaro (tr. iii 4, 22, [qui fuit ut] Icarus immensas nomine signet aquas?), o indicava l’infinitezza della distanza che lo separava e lo separa dal mondo d’un tempo (il uastum fretum di P. iii 4, 58). Il racconto di questo evento nel testo greco è a√dato al breve dialogo tra il messo e la corifea (vv. 1284 sgg.); il testo latino prescinde, perché ininfluente sul motivo dell’amicitia funzionale alle finalità dell’epistola, dalla narrazione della fuga, dei minacciosi propositi di Toante, dell’ammonizione con la quale Atena convince il re a desistere. 95-96. La rhesis del senex si chiude (vv. 95-96) con un’espressione compiaciuta sul caso proverbiale di amicizia giovanile, un empatetico commento: mirus amor iuuenum, un caso che ha tanto inciso sulla memoria collettiva della popolazione scitica che, egli dice, eleva, pur a distanza di molto tempo, l’episodio a grande fama, mai tramontata: nunc quoque nomen habent, emistichio ripreso da fast. v 128, dove si ricorda che il corno della fertile nutrice Amaltea fu mutato anch’esso, come lei, in astro. Il frammento narrativo dei Fasti e la straordinaria amicizia di due giovani sono esemplarità destinate ad imperitura memoria, degna di essere poeticamente fissata dalle stesse parole. L’espressione di stupore dinanzi al meraviglioso exemplum di amor manifestato dai due giovani, poi, non poteva trarre parole più adatte che dal contesto oraziano che le suggerisce: in epod. 16, 31, nel quadro, tragico, delle guerre civili, il Venosino allinea una serie di adynata per manifestare ai cittadini invitati alla fuga dalla patria dilaniata dagli odii l’augurio circa l’avvento di tempi maturi per il rientro: tra quegli impossibilia c’è un mirus amor, «amore stravagante», che favorirà mostruosi accoppiamenti, come quello della tigre col cervo, della colomba adultera col nibbio. L’ipotesto oraziano suggerisce allo sconsolato esule lo strumento espressivo più adatto per dare forma ad un sentimento che ha nella straordinarietà la sua caratteristica più autentica; la ripresa, infine, proprio di quel contesto dell’epodo dà una coloritura politica al complesso messaggio di chi è consapevole che non rivedrà più la sua patria. Intanto: ad Ovidio/Oreste basterebbe un Pilade ne redire sit nefas (Hor. ibid., v. 26)? È questo il sigillo col quale il poeta chiude una pagina significativa della sua produzione esilica, dove riscatta la gente che lo ospita riconoscendole una sensibilità che per certi versi manca a pur ragguardevoli esponenti della Romanitas. In realtà è proprio questo il motivo che spinge verso la re-evaluation dei Geti, ancora a iii 5, 28 e a iv 13, 22 definiti inhumani, in un contesto in cui l’esule si vergogna (a, pudet, v. 19) di aver composto un libello in lingua getica. Come ho già ricordato: Ovidio ostenta la sua integrazione nel mondo getico, pronto a rovesciare il paradigma dell’universo getico elevato a modello di negatività, antitetico rispetto all’agiatezza e alla luminosità della Roma augustea. Il poeta, tra amarezza ed ironia, si beπa di tutto e tutti. 97-110. Si conclude la fabula uulgaris, come la definisce Ovidio, riacquisendo l’autocoscienza poetica, cioè una fabula «popolare» ma anche «abusata», scrive Barchiesi 1994, 27; non uulgaris, invece, quella di Piramo e Tisbe a met. iv 53. Il racconto del senex mosse tutti alla lode della pia fides, la stessa clausola a tr. v 14, 20, dove la «pia devozione» è uirtus della moglie. L’amicizia è un sentimento che alberga nei cuori pur barbari della dura gente getica. Appare sempre più chiaro che la vera motivazione di questo significativo riconoscimento sta nell’indiretta accusa mossa ai Romani, nati nella Città ausonia: la solennità dell’aggettivo, introdotto, come il nome proprio, in poesia da Virgilio e raccolto da Ovidio, suona come una nota sarcastica nei confronti di una civiltà che vorrebbe segnalarsi al mondo per il suo alto grado di evoluzione. Il poeta si prepara al commiato con una laudatio del casato dell’amico Cotta, nipote di M. Valerio Messalla Corvino senior, appartenente alla gens Valeria: la rievocazione del capostipite Voleso (Staπhorst 109 sg.), cognomen romano, e di Numa, antico avo per parte di madre (nella

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genealogia del secondo re di Roma, dopo Romolo, Cotta è inserito per via dell’adozione da parte dello zio materno: Syme 1978, 121), è un omaggio particolare col quale l’esule cerca di sollecitare e responsabilizzare il rappresentante di un casato altissimo, che sopravvive proprio grazie a lui, altrimenti destinato all’estinzione. Ovidio invita Cotta Massimo alla coerenza con i suoi mores, la sua moralità, e questa coerenza gli impone una riflessione (puta) sulla necessità di prestare aiuto all’amico lassus, stremato, come si era già definito scrivendo alla moglie in tr. iii 3, 13. La citazione dell’Vrbs Ausonia è collocata in un contesto in cui il confronto con l’ambiente scitico mira ad esaltare la pur profonda sensibilità dei barbara corda di quel lontano Oriente verso il sentimento dell’amicitia, nomen amicitiae (v. 100), che, in segno di approvazione e di condivisione, riprende allusivamente il sintagma di v. 43 all’interno della rJh`si~ del vecchio. Quel confronto è finalizzato anche ad esortare un autorevole rappresentante della Romanitas a non sfigurare, e a dar prova della sua riconosciuta alta nobilitas. Sono queste le ragioni che hanno spinto Ovidio a proporre, anzi a riproporre, dopo l’ ‘editio minor’ di tr. iv 4, 63-82, il racconto scitico della storia di Ifigenia taurica, quae superat Scythicas nobilitate nurus. Ingleheart 2010, 243 scrive che questo mito viene usato da Ovidio «as a paradigm of escape from barbarism and return to civilisation» (contra Pizzolato 153). Questo mito impattava fortemente il pubblico nelle molte rappresentazioni date nei teatri, dove gli spettatori innalzavano voci ammirate quando ascoltavano battute quali «Ego sum Orestes», o «Immo enimuero ego sum, inquam, Orestes!» (Pacuu., TRF 365; Falcone 47 sgg.), come apprendiamo dal citato cap. 24 del Laelius di Cicerone, con riferimento al Dulorestes di Pacuvio, o, come diversamente si è pensato, al Chryses. Il filosofo, peraltro, in de fin. v 22, 63 (ma cfr. già i 20, 65 e ii 24, 79) ricorda ancora la generosità dei due amici, in Tusc. v 22, 63, e in de oπ. iii 10, 45 cita il mito parallelo dell’amicizia di Damone e Finzia, risparmiati da Dionisio commosso dalla prova d’amicizia reciproca fornita dai due giovani. La poesia esilica di Ovidio per evidenti ragioni sfrutta molto il motivo dell’amicizia che la tradizione mitografica fissava in coppie divenute celeberrime, da Oreste e Pilade (la più gettonata dal Sulmonese), a Teseo e Piritoo, ad Achille e Patroclo, ad Eurialo e Niso, tre coppie assai note citate consecutivamente a tr. v 4, 23-26 (per Achille e Patroclo cfr. anche tr. i 9, 29-30). Questo tema, come si sa, è una delle costanti della sua poesia, costellata di storie in cui centrale è la vicenda di coppie vincolate da amicitia senza confini. Nel l. xv delle Metamorfosi (vv. 497-546; Gildenhard-Zissos 178-180) la citazione di Oreste innesca il racconto del dramma di Ippolito/ Virbio a consolazione della soπerenza di Egeria, particolarmente interessante perché incrocia il motivo dell’esilio (cfr., e.g., profugo curru a met. xv 506; Citroni Marchetti 1999, 146 sgg.). Sull’antonomastico exemplum di filiva che vincola in un rapporto indissolubile Oreste e Pilade, pronti l’uno a dare la vita per l’altro, personaggi sulla cui vicenda convergono gli ideali di due civiltà diversissime, la romana e la getica, si innesta la storia contestuale di una fanciulla infelice, lontana dalla patria, costretta ad o√ciare terribili riti sacrificali stranieri, nostalgica della sua patria Argo, invasa dal ricordo amorevole per il fratello. La vicenda di Ifigenia, connessa a quella di Oreste e Pilade e ambientata in terra taurica, presente nella poesia esilica ovidiana con rapidi accenni in tr. i 5, 21-22; i 9, 27-28; P. i 2, 78 (cfr. inoltre tr. v 4, 25; v 6, 23; P. ii 3, 45-46; ii 6, 25, senza riferimento alla Tauride), ha un suo congruo sviluppo narrativo, ancorché ugualmente sintetico, come dicevo, già in tr. iv 4, 63-82, ma non come riconosciuto simbolo mitologematico dell’amicitia estrema – centrale, invece, nell’epistola a Cotta, dove è proposta con sensibilità romana, per quanto a√data alla ‘traduzione’ di un vecchio taurico – cui si fa un rapido accenno di u√cio nel distico 71-72, bensì come testimonianza della barbaries dell’ingrata terra che ospita il poeta. Non lontano da essa, raccontava a v. 63 Ovidio all’anonimo (ma cfr. infra) destinatario di tr. iv 4, nec procul a nobis locus est … ( ~ est locus … / qui Getica longe non ita distat humo, P. iii 2, 45-46; sulle riprese lessicali nelle due narrationes, non sempre puntuali, Fantham 1992, 277), vivono popolazioni che si esaltano celebrando riti sacrificali umani in onore della dea Artemide.

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La riduzione o la cancellazione di parti essenziali dell’originale greco, nell’elegia dei Tristia come nell’epistola dal Ponto, si spiegano proprio con ragioni di inopportunità per la loro inappropriatezza al nuovo contesto. Sia il destinatario dell’epistola dei Tristia, non nominato ma evidentemente, come riconosceva lo Scaligero, Messallino, il maggiore dei figli di Messalla, che il destinatario di questa ex Ponto, Cotta Massimo, il minore dei figli di Messalla (più di vent’anni separano i due, nati rispettivamente nel 36 e nel 14, da madri diverse, una Calpurnia ed una Aurelia: R. Hanslik, «re», viii a, p. 134; Syme 1978, 118; Syme 1993, 342 e 359, nota 39), sono personalità che si sono particolarmente distinte nel versante retorico, raccogliendo l’eredità paterna. Ovidio riserva loro, a tal proposito, espressioni complimentose equivalenti ma fatte di parole ricercatamente alternative: cuius in ingenio est patriae facundia linguae, tr. iv 4, 5 ~ o iuuenis patrii non degener oris, P. iii 5, 7; le diverse ispirazioni che suggeriscono le due elegie, non còlte da Little 37 e nota 37, che, parlando di ripetitività nelle opere dell’esilio, cita le due versioni della Ifigenia taurica «treated in near-identical terms», sono indicative delle due diverse fasi della stagione esilica del poeta, prima possibilista sull’eventualità di un trasferimento, poi ormai pessimista, ma, evidentemente, la gestione, narratologicamente importante, del tema mitologico che arricchisce l’elegia e ne espande i confini dottrinali meglio competeva ad un destinatario dotato di assai sorvegliata institutio retorica. Nell’elegia dei Tristia il ruolo di Ifigenia è quello di sacerdotessa preposta ad immolare vittime umane; la uirgo Pelopeia (Pevloy in I.T. 1) è ritratta nel momento in cui brandisce il pugnale (stricto mucrone, v. 77), per compiere il suo gesto istituzionale; poi, a séguito del riconoscimento (fratrem cognouit, v. 79), si accenna alla fuga col fratello e alla asportazione della statua della dea, restituita alla innocuità dei riti in suo onore (deae … crudelia sacra perosae, v. 81). Nell’epistola a Cotta Massimo la storia taurica di questa martire, nescioquae Iphigenia nel racconto del vecchio getico, è invece costantemente sotto l’attenzione del poeta (l’aggettivo indefinito serve a distanziare il disinteresse del narrator supplente dall’interesse del poeta ‘sostituito’) che la segue a distanza senza perderla mai di vista, in una sorta di racconto sotterraneo parallelo, che gli permette di strumentalizzare il mito in vista della soddisfazione di due finalità che si intersecano: il tema dell’amicizia è associato all’accorata ma anche sfiduciata richiesta di aiuto: succurrere amico / conueniens … puta, vv. 109-110, è il grido finale del poeta. In Cotta Massimo Ovidio, sia pur debolmente, si augura di trovare il salvatore; egli, come Ifigenia ad Oreste (a Pilade nell’originale greco), gli consegna un messaggio che serva a trascinarlo via da Tomi. Ifigenia strappò i due amici al sacrificio e per le acque sterminate del mare fece riportare in patria i simulacra Dianae. Artemis ha abbandonato ormai la sua identità ellenica per confondersi nella fantasia autoriale così fortemente coinvolta e perciò sensibilizzata dalla propria situazione, e romanizzarsi nella dea nazionale Diana. Ifigenia diventa l’immagine ipostatica del poeta esule, che vuol dar l’impressione di credere di aver ritrovato in Cotta Massimo il suo Oreste (la Ingleheart 2010a, passim legge piuttosto una personalizzazione del poeta nel personaggio di Oreste, parlando di ‘clear parallels’, p. 242, anche se ammette, pp. 236 e 239, punti di contatto della figura del poeta esule con Ifigenia ai vv. 65-66), ed a lui si a√da per un allontanamento dalla terra dei terribili riti sacrificali, riti che hanno immolato il poeta e la sua poesia, un poeta che non smette di a√dare alla ‘sua’ Ifigenia, pia uirgo, parole di discolpa, «non ego crudelis …», che suonano di un evidente autobiografismo. Eppure l’assunzione su di sé degli attributi di Ifigenia rimane deprivata dell’esperienza finale che si legge nell’epilogo della vicenda della giovane donna che riesce a portar via con sé la statua della dea, a riscattarsi dalla condizione cui era stata obbligata. È questa la lettura aggiuntiva autoriale dell’exemplum mitologico, che Ovidio propone accanto a quella del senex scitico; in questo modo il poeta esule lascia a√orare la sua presenza costante, per quanto «silenziosa», e personalizza la narrazione mitologica, che, ora, forse, diπerentemente da quanto avveniva ai tempi della composizione della quarta del quarto libro dei Tristia, non esprime più la possibilità che la sua relegatio possa aver fine grazie all’intervento del princeps da qualcuno sollecitato.

Epistola iii 3: Fabio Maximo - Fabio, ho ‘visto’ Cupìdo; al suo aiuto s’aggiunga il tuo

III 3 Fabio, ho ‘visto’ Cupìdo; al suo aiuto s’aggiunga il tuo «Era notte, m’apparve Cupìdo, triste, l’aspetto trasandato; non so se era un sogno o una visione. Al mio discepolo d’un tempo rivolsi rimproveri perché gli insegnamenti impartiti nell’Ars a lui mi valsero l’esilio. Bella ricompensa ai doni che gli avevo oπerto: ben diversamente si sono comportati mitici discepoli nei confronti di mitici maestri: Eumolpo con Orfeo, Olimpo col frigio Satiro, Achille con Chirone, Numa con Pitagora. Ecco, a me è toccato l’esilio; “eppure, lo sai bene, Cupìdo, io non ho scritto un manuale dell’amore per invalidare la legittimità del letto coniugale; tra le mie lettrici non dovevano esserci fanciulle dai capelli pudichi coperti da bende, col corpo vestito della lunga stola. Ti prego, parla al Cesare, che plachi la sua ira ed attenui la severità della pena che mi ha inflitto.”. Fabio, a queste parole, Cupìdo rispose prontamente riconoscendo di non aver appreso da me nulla d’illecito, discolpando i libri nei quali ho cantato l’arte di amare. Ma mi obiettava che altra era la causa eπettiva della punizione comminatami dal Cesare, l’“errore” che giustifica l’ira vendicativa del principe. Cupìdo, però, trovava anche parole di incoraggiamento assicurandomi che l’ira del Cesare si sarebbe placata: l’occasione sarebbe stata la celebrazione del trionfo, che avrebbe colmato di gioia la dimora augusta, l’intera Città; il fumo sugli altari si sarebbe levato alto ed intenso, le preghiere del dio avrebbero trovato la disponibilità del nume. Dopo queste parole quell’immagine si dissolveva nella tenue aria ed io avvertivo il risveglio dei sensi che sembravano intorpiditi dall’evento. Ma tu, Massimo, degno del tuo nobile casato, ti prego, animo nobilissimo, aiuta i supplici.»

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3. FABIO MAXIMO 5 10 15 20 25 30 35

Si uacat exiguum profugo dare tempus amico, o sidus Fabiae, Maxime, gentis, ades, dum tibi quae uidi refero, seu corporis umbra seu ueri species seu fuit ille sopor. nox erat, et bifores intrabat luna fenestras, mense fere medio quanta nitere solet. publica me requies curarum somnus habebat, fusaque erant toto languida membra toro, cum subito pinnis agitatus inhorruit aer et gemuit paruo mota fenestra sono. territus in cubitum releuo mea membra sinistrum, pulsus et e trepido pectore somnus abit. stabat Amor, uultu non quo prius esse solebat, fulcra tenens laeua tristis acerna manu, nec torquem collo neque habens crinale capillo, nec bene dispositas comptus, ut ante, comas. horrida pendebant molles super ora capilli, et uisa est oculis horrida pinna meis, qualis in aeriae tergo solet esse columbae, tractantum multae quam tetigere manus. hunc simul agnoui (neque enim mihi notior alter) talibus aπata est libera lingua sonis: “o puer, exilii decepto causa magistro, quem fuit utilius non docuisse mihi, huc quoque uenisti, pax est ubi tempore nullo et coit adstrictis barbarus Hister aquis? quae tibi causa uiae, nisi uti mala nostra uideres? quae sunt (si nescis) inuidiosa tibi. tu mihi dictasti iuuenalia carmina primus, apposui senis te duce quinque pedes. nec me Maeonio consurgere carmine nec me dicere magnorum passus es acta ducum. forsitan exiguas, aliquas tamen, arcus et ignes ingenii uires comminuere mei. namque ego dum canto tua regna tuaeque parentis, in nullum mea mens grande uacauit opus. nec satis hoc fuerat: stulto quoque carmine feci,

9 aer B C e blv : (a)ether le bl d pp sc 14 fulcra vh, Scaliger, edd.; Staπhorst 120 de uariantibus fulctra, fulcra et fulua disserens pro fulcra optat; italice ‘piede del letto’ (cf. etiam Claassen 1991, n. 20): fulctra B: sceptra le e bl, probau. White 343 («sadly holding his maple-wood rod (sceptra … acerna) in his left hand») : fulua s 20 tractantum mc, Heinsius, defend. Luck 1986 130, recep. Richmond; de forma participiali cf. Verg. geo. iii 502, pellis … ad tactum tractanti … resistit : tractatam B C le e bl, seruauu. André et Pérez Vega 37 stulto B C s : stultus le e bl • carmine B C (stulto … carmine probau. Heinsius coll. P. ii 9, 73, stultam … Artem): carmina le e bl

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3. A FABIO MASSIMO Se puoi, concedi un po’ di tempo al profugo amico, astro della gente Fabia, Massimo, sta’ lì mentre ti dico quel ch’ho visto, ombra d’un corpo o autentica presenza che fosse quella, o sogno. Era notte, la luna penetrava le bifore finestre, col solito splendore di quasi metà mese. Ero preda del sonno, per tutti riposo dagli aπanni, il letto tutto scioglieva il languor di membra, d’un tratto l’aria inorridì smossa da penne sbattute: la finestra ne gemette di flebil timbro. Per lo spavento, da leva il gomito sinistro, alzo le membra, il sonno respinto lascia il trepido cuore. Ritto era Amore, il volto non quello di sempre, triste teneva con la sinistra la testiera d’acero, senza collana al collo né diadema ai capelli, le chiome non ben in ordine e conce come un tempo. Sull’orrido viso morbidi pendevano capelli, ai miei occhi orride penne sembravano, come di solito sul dorso d’aerea colomba, che molti han toccato con mani di carezze. Come lo riconobbi (ché non altri m’è più noto), con tali franchi accenti la lingua s’espresse: “Fanciullo, per te e il tuo inganno esilio al maestro; per me maggior vantaggio non istruirti, anche qui sei venuto, dove non c’è pace, mai, e l’Istro barbaro si coagula in acque dense? A che il viaggio, se non per vedere la nostra soπerenza? Essa (se non lo sai) ti odia. Tu per primo mi hai dettato i carmi della gioventù, tu mi hai guidato ad aggiungere i cinque piedi ai sei. Che mi elevassi nel carme meonio e dicessi le gesta dei grandi capi non hai concesso. Forse modeste, ma pur c’erano: arco e fuochi le forze del mio estro han ridotto. Ché, mentre cantavo il regno tuo e di tua madre, per l’opera grandiosa non c’ero aπatto con la mente. Fosse bastato: con uno sciocco poema ho fatto anche

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Artibus ut posses non rudis esse meis. pro quibus exilium misero est mihi reddita merces, id quoque in extremis et sine pace locis. at non Chionides Eumolpus in Orphea talis, in Phryga nec Satyrum talis Olympus erat. praemia nec Chiron ab Achille talia cepit, Pythagoraeque ferunt non nocuisse Numam. nomina neu referam longum collecta per aeuum, discipulo perii solus ab ipse meo. dum damus arma tibi, dum te, lasciue, docemus, haec te discipulo dona magister habet. scis tamen et liquido iuratus dicere possis non me legitimos sollicitasse toros. scripsimus haec illis, quarum nec uitta pudicos contingit crines nec stola longa pedes. dic precor, ecquando didicisti fallere nuptas et facere incertum per mea iussa genus? an sit ab his omnis rigide summota libellis, quam lex furtiuos arcet habere uiros? quid tamen hoc prodest, uetiti si lege seuera credor adulterii composuisse notas? at tu (sic habeas ferientis cuncta sagittas, sic numquam rapido lampades igne uacent, sic regat imperium terrasque coerceat omnis Caesar, ab Aenea qui tibi fratre tuus), e√ce, sit nobis non implacabilis ira meque loco plecti commodiore uelit”. haec ego uisus eram puero dixisse uolucri, hos uisus nobis ille dedisse sonos: “per mea tela, faces, et per mea tela, sagittas, per matrem iuro Caesareumque caput: nil nisi concessum nos te didicisse magistro, Artibus et nullum crimen inesse tuis. utque hoc, sic utinam defendere cetera possem: scis aliud, quod te laeserit esse magis. quidquid id est (neque enim debet dolor ipse referri, nec potes a culpa dicere abesse tua), tu licet erroris sub imagine crimen obumbres, non grauior merito uindicis ira fuit.

38 hic et 70 Artibus, quo uerbo iuuenile Ouidii opus, Ars amandi inscriptum, indicatur, litteris pronis scripsi 43 Achille] alumno coniecerit Lenz, qui uocem Achille glossam putauit coll. Iuu. 13, 98, uelocis … plantae, sed perperam: Achilli d T 47 te lasciue B C le e bl : tendere tela s 52 contingit B C le e bh lov : contigerit ba n : contigerint bl : contingunt p : attingit ka xf : attigerit kc md : astringit Scaliger 55 an sit B C le e bl : absit S et alii 56 habere uiros B Cv le e bl : habere thoros C : adire toros Castiglioni 61 imperium B C le e bl : imperio Heinsius 62 tuus B C s : nepos B2 le e bl 71 possem B C le : posses e bl (?) lov (p.c.) : possim lo : (defendi) … possent Heinsius 73 ipse B : ille C le e : iste bl 75 uindicis C s, Luck coll. P. iii 6, 49, sed cf. etiam ii 9, 77, uindicis iram (de Augusto), recep. Richmond : iudicis B H L, recepp. André et Pérez Vega

p. iii 3 che tu potessi dirozzarti con le mie Artes. In compenso, a me, poverino, è stato dato l’esilio, e persino in terre estreme e senza pace. 40 Eumolpo Chionide però non fu tale con Orfeo, né col frigio Satiro lo fu Olimpo. Né Chirone ricevé tal profitto da Achille, né, si dice, a Pitagora nocque Numa. Basta nomi a lungo raccolti nel tempo: 45 solo io in rovina per il mio discepolo. Ti dò le armi, lascivo, ti istruisco, e al maestro questi i doni da un discepolo come te. Eppure lo sai, potresti giurarlo sicuro: letti legittimi non io ho sobillato. 50 Quei versi li ho scritti non per chi pudichi ha capelli da benda toccati e piedi da lunga stola. Di’, ti prego, quando imparasti ad ingannar spose e a rendere incerta la prole per ordine mio? Non son forse a rigore respinte da questi libelli 55 le donne, tutte, da legge precluse ad uomini furtivi? Ma di che mi giovo, se pensano ch’abbia scritto norme d’adulterio da severa legge condannato? Ma tu (così abbia tu saette che colpiscono ovunque, così mai le tue torce sian prive di fuoco rapinoso, 60 così regga l’impero e col potere unisca le terre tutte Cesare, a te fratello da parte d’Enea), fa’ che non implacabile sia l’ira verso di me e voglia la mia punizione in luogo più agevole”. Questo m’era sembrato dire al celere fanciullo, 65 questi suoni mi sembrò egli mi consegnasse: “Per le mie armi, fiaccole, e per le mie armi, saette, per la madre mia, giuro, e per il capo di Cesare: nulla d’illecito imparai da un maestro come te, e colpa proprio non v’è nelle tue Arti. 70 E come questo, così potessi giustificare il resto: tu lo sai, è altro che t’ha rovinato. Sia quel che sia (ché il dolore, quello, non va riferito, né puoi dire tu d’esser esente da colpa), maschera pure il crimine con parvenza d’ ‘errore’, 75 l’ira del vindice non fu più grave del dovuto.

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ut tamen aspicerem consolarerque iacentem, lapsa per inmensas est mea pinna uias. haec loca tum primum uidi, cum matre rogante Phasias est telis fixa puella meis. quae nunc cur iterum post saecula longa reuisam, tu facis, o castris miles amice meis. pone metus igitur: mitescet Caesaris ira, et ueniet uotis mollior hora tuis. neue moram timeas tempus quod quaerimus instat cunctaque laetitiae plena triumphus habet. dum domus et nati, dum mater Liuia gaudet, dum gaudes, patriae magne ducisque pater, dum sibi gratatur populus totamque per Vrbem omnis odoratis ignibus ara calet, dum faciles aditus praebet uenerabile templum sperandum est nostras posse ualere preces.” dixit, et aut ille est tenues dilapsus in auras, coeperunt sensus aut uigilare mei. si dubitem faueas quin his, o Maxime, dictis, Memnonio cycnos esse colore putem. sed neque mutatur nigra pice lacteus umor, nec quod erat candens fit terebinthus ebur. conueniens animo genus est tibi: nobile namque pectus et Herculeae simplicitatis habes. Liuor, iners uitium, mores non exit in altos, utque latens ima uipera serpit humo. mens tua sublimis supra genus eminet ipsum, grandius ingenio nec tibi nomen inest. ergo alii noceant miseris optentque timeri, tinctaque mordaci spicula felle gerant: at tua supplicibus domus est adsueta iuuandis, in quorum numero me precor esse uelis.

78 pinna Merkel, recepp. Owen, Richmond : penna B C le e bl, recepp. André et Pérez Vega 84 mollior B C le e bl : gratior a : dulcior vmr • hora B C le e bl (cf. her. 3, 44, [an] nec uenit inceptis mollior hora meis?) : aura B (p.c.) blv et alii (cf. tr. iv 5, 20, dum ueniat placido mollior aura deo), recepp. André, Pérez Vega 91 templum bl a bh m mb o, recepp. André, Pérez Vega, quae P. iii 1, 135 contulit : tempus B le e t et alii, recep. Richmond : numen C vb : 101 non exit codd. (cf. Ou. met. v 511-512, curribus auras / exit in aetherias) : non uescitur coni. Harrison 97 mutatur B le e bl : fuscatur C 107 su(p)plicibus B C le bl: simplicibus e 108 quorum] tuo Claassen 1991, 33, sed in tuo contra metrum est; cf. Prop. i 6, 28, in quorum numero me…; cf. etiam Hild. Cen. epist. eleg. ad amicum, carm. misc. 66, 127; Hildebertus scriptor centonum Ouidii uersus 99108 traiecit, instar prolationis, ad uersus 125-134 suae elegiae

p. iii 3 Per vederti, però, e per sollevare la tua prostrazione, le mie ali sciolte vie immense han percorso. Questi luoghi vidi per prima quando (ordine di mia madre) dai miei dardi fu trafitta la fanciulla del Fasi. 80 Ora dopo lunghi secoli ch’io di nuovo li veda tu fai, soldato amico dei miei castri. Allora, niente paura: l’ira di Cesare si placherà e verrà un’ora più tenera a’ tuoi voti. Ecco il tempo che cerchiamo, ché non tema indugi, 85 il trionfo colma tutto di letizia. Or che casa e figli son lieti, che la madre Livia gioisce, or che gioisci tu, grande padre della patria e dell’eroe, or che il popolo si compiace e per tutta l’Urbe ogni ara brucia profumi infuocati, 90 or che il tempio venerabile oπre facile accesso, che le nostre preci abbiano eπetto è giusto sperare.” Disse, e o si dissolse nell’aria tenue, o vigili si ripresero i sensi miei. Un dubbio sul tuo appoggio a queste parole, o Massimo, 95 e penserei i cigni del colore di Memnone. Ma né il latteo umore muta in nera pece, né l’avorio da candido ch’era si fa terebinto. Il tuo casato è conforme all’animo tuo: ché nobile cuore tu hai e schietto come quello d’Ercole. 100 Invidia, vizio inerte, non s’avventura in caratteri alti, come vipera essa si nasconde e striscia sotterra. La tua mente persino si leva sublime sopra la stirpe, il talento che è in te non è meno del nome che hai. Altri, allora, nuocciano ai miseri e vogliano esser temuti, 105 e portino frecce intinte di fiele mordace: ma il tuo casato è avvezzo ad aiutare i supplici, ed in quel novero voglia tu ch’io ci sia, ti prego.

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Commento

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1-4. Il mittente, l’amicus profugus, pone subito la distanza tra sé ed il destinatario, Fabio Massimo (Syme 1962, 378; Staπhorst 112-113 e nota 1; Kenney 1965, 44, nota 2; Syme 1978, 146 sg.), console nell’11 a.C., suicida nel 14 d.C. Augusto iubente (cfr. qui a iii 8, 1-4), tra il suo forzato otium di profugus e l’exiguum tempus che l’attiva solerzia forse può concedere al facoltoso sodale, sidus Fabiae gentis: il vocativo appellativo si ripeterà con leggera variazione a P. iv 6, 9, Fabiae laus, Maxime, gentis; l’espressione complimentosa realizzata con l’agg. derivato, sidereus … Pedo, qualificherà il poeta Albinovano Pedone in P. iv 16, 6. Si uacat, con cui si apre l’epistola e che si legge anche in P. i 1, 3, a Bruto, è formula di riguardo e di scuse per il disturbo arrecato. Ovidio fa appello alla solidarietà spirituale del ricevente: ades [animo]; all’attenzione di un personaggio di tale livello si rimette per narrargli l’eccezionale esperienza vissuta, non perfettamente definibile: tre disgiuntive correlate, seu … seu … seu, accortamente dislocate nel secondo distico, nell’esametro dopo H, nel pentametro ad incipit e in cesura, introducono l’incertezza sulla natura del fenomeno. Figura centrale del racconto è una corporis umbra. Il sintagma, di ascendenza lucreziana (iv 373-374), ma che l’autore del de rerum natura usa in senso proprio, per indicare cioè l’oscurità della sagoma prodotta in una parte di spazio da un corpo investito dalla luce, si legge al v. 65 di am. iii 9, in cui Ovidio, commemorando l’amico Tibullo, lo immagina nel mondo ultraterreno in compagnia di altri grandi del genere elegiaco – si qua est modo corporis umbra. L’autocitazione potrebbe autorizzare a considerare che Ovidio, accingendosi a raccontare l’eccezionale episodio notturno che lo vede al cospetto di un dio, pensasse ad un eidolon di Amor, come eidolon era stato quello di Tibullo, e, se identifichiamo Amor con la poesia amorosa, ne può derivare una sorta di allusione al definitivo tramonto di quell’esperienza artistica. Il nesso ueri species, col quale Ovidio indica una seconda possibile definizione del deuteragonista dell’esperienza notturna è prelevato da Hor. serm. ii 3, 208, species alias ueri, dove species specificato da alias significa ‘fantasmi’, immagini alternative di verità, false, e, quindi, ancora qualcosa che non ha una consistenza di realtà; l’omissione dell’agg. alias nel testo ovidiano conferisce al sintagma, di conio oraziano, il senso opposto, cioè di ‘realtà autentica’, e questa valenza era necessaria a fissarne la contrastività con la successiva immagine del sopor (l’apparizione delle e√gies sacrae diuum ad Enea in Verg. Aen. iii 148 convince l’eroe che nec sopor illud erat, v. 173), che, come dice anche Kenney 1965, 46, rimanda a rem. 555-556, dubito uerusne Cupido / an somnus fuerit; sed, puto, somnus erat, presentando la teofania di Cupìdo che integra i suggerimenti terapeutici proposti dal poeta precettore anche con quello di pensare ai guai economici o altre varie sventure; e rimanda anche a rem. 576, si modo somnus erat, a chiusura della scena della teofania. La terza opzione non è sullo stesso piano percettivo delle altre due perché indica una condizione psico-fisica (che a sua volta qualifica una visione), non l’oggetto stesso della visione. Il poeta non si rivolge direttamente al suo pubblico, quello che ha sempre letto la sua poesia, ma ad un destinatario singolo, Fabio Massimo in questo caso, pur sapendo che poi l’opera sarebbe stata letta da tutti. Al suo pubblico giungerà non solo l’esternazione di questa esperienza, ma anche la notifica delle persone autorevoli cui invano si è rivolto per ottenere una sede migliore. Se Ovidio racconta a Fabio di un confronto avuto con il dio Amore («a grotesque apparition», scrive Claassen 1987, 33), non può fare a meno di avvolgere la sensazionale vicenda occorsagli in un alone di mistero, in un contesto ambientale e cerebrale che vi si sapessero adeguare, per quanto si adoperi a rendere la cosa credibile, come il verbo della testimonianza autoptica indica (uidi): la notte, il sonno, l’improvviso risveglio, lo spavento. Si tratta, comunque, di un rapporto interattivo improntato a franchezza, anche grazie al fatto che il poeta conserva di sé la figura

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di magister, e di Cupìdo il ruolo di discipulus. Questa scenografia, che Claassen 1991, 29 sgg. considera parodia di analoghe esperienze letterarie precedenti, deve arricchirsi, evidentemente, di aspetti che sono tradizionalmente strutturali di quel che potremmo definire un vero e proprio microgenere, necessari non a persuadere il lettore della verità del ‘fatto’ narrato, ma della verità del significato che se ne può trarre, della verità di quanto si dice in quel fittizio dialogo. È la verità dell’esule, o meglio la verità emozionale, la verità extraprocessuale che dovrebbe, nelle intenzioni del condannato, scagionarlo da quelle accuse che gli hanno procurato la relegatio in un contesto di sommaria amministrazione della giustizia, dato che il provvedimento venne preso, senza dibattimento processuale (tr. ii 131-134), per diretto ordine di Augusto, e, con tutta probabilità, non per aver commesso una illegalità ma per aver urtato, neppure sappiamo se e quanto consapevolmente, la vendicativa suscettibilità del principe, o di chi era a lui assai vicino. Ora, quando il fruitore del testo poetico legge, preliminarmente, che Ovidio crede di aver visto un’ombra, o forse una figura reale, o d’aver sognato, si dispone come uno spettatore che si avvia ad assistere ad una fiction, capace anche di rapirne l’immaginazione per tutta la durata della performance, ma alla fine essa come fiction sarà valutata e si svuoterà non poco delle sue significazioni esteriori, lasciando però gli stessi sedimenti raccolti dal fruitore delle Metamorfosi; e quando, d’altra parte, l’autore scrive, è evidentemente consapevole dell’eπetto, ma sa anche che il modo per rendere esprimibile e credibile l’oggetto della sua cerebralità, un dialogo-confronto con un dio, è quello di sceneggiarlo, alla maniera delle descrizioni delle trasformazioni di cui s’era mostrato maestro. P. iii 3 aiuta ad impostare in maniera non completamente letterale la lettura di tutta la poesia esilica. Per rendere una rJh`si~ del dio bisognava necessariamente ricorrere alla strategia onirica, o, comunque, ad una scenografia avvolta in un alone di mistero, con la quale, secondo Ingleheart 2010, 244-245, Ovidio recupererebbe la scena finale della teofania dell’Ifigenia in Tauride (Atena convince Toante a risparmiare i fuggitivi) omessa nell’epistola precedente (ma su questa omissione rimando alle considerazioni espresse ad loc.). 5-12. Con l’attacco nox erat, et … il poeta si esibisce nel ruolo di narratore di una vicenda che egli stesso, sdoppiandosi nella veste di attore e spettatore, guardandosi insomma dall’esterno, ha sceneggiato, assumendo, in qualche modo, la parte che nelle Heroides immaginava assunta dalle eroine (Seeck 458 sgg.). Lo stilema sopra riportato con il suo piglio epico-narrativo dell’indicazione cronologico-temporale seguìta dalla congiunzione che coordina il momento con la condizione ambientale esterna (c’è una luce lunare, di metà mese, che attraversa le finestre penetrando nella stanza, come nello squarcio oπerto da Orazio in epod. 15, 1, nox erat, et caelo fulgebat luna sereno). L’immagine risente soprattutto della memoria poetica virgiliana: in Aen. iii 147 sgg. (apparizione dei Penati ad Enea), Nox erat, et … una luna piena si riversa per insertas … fenestras, v. 152 (Danesi Marioni 283 sgg. si soπerma sulla clausola luna f. comune a Prop. i 3, 31): è in questo contesto che le e√gi degli dèi ed i sacri Penati parlano ad Enea nel sonno, indicandogli quella terra che i Greci chiamano Esperia e che ora gli Enotri chiamano Italia; e nox erat è, in Aen. iv 522 sgg., l’attacco del drammatico racconto della tragedia di Didone. Col ricorso a questo stilema Ovidio, simulando la volontà di conferire solennità e quindi credibilità al racconto che si appresta a fare, lo colloca, in realtà, in un’atmosfera di sapore farsesco; egli stesso, peraltro (nella fitta discussione sulla paternità, con della Corte 1972, 319 sgg. sembra finalmente prevalere la tesi dell’autenticità ovidiana), aveva aperto allo stesso modo la 5a elegia del iii libro degli Amores («l’elegia del sogno», come titola della Corte), e così anche fast. iii 639-640, nox erat: ante torum uisa est astare sororis / squalenti Dido sanguinolenta coma. Il sonno concedeva anche al poeta una pausa dagli aπanni, estendendo al corpo adagiato sul letto la rilassatezza interiore: la tipicità erotico-elegiaca del sintagma toto toro nel suo sensus obscenus (Prop. i 14, 20-21; iv 8, 88; Ou. am. ii 4, 34), più o meno diretto, è qui risemantizzata con la Umkehrung per un evidente scopo ironico: altro che i nocturna bella di una volta, e della poesia di una volta

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che li rievocava liricamente; Ovidio lo usa per indicare il riposo dalle quotidiane soπerenze della assai disagiata condizione di relegato. Ben diversa la situazione cantata in am. i 5, 2-3, quando, pars adaperta fuit, pars altera clausa fenestrae, egli rilassa medio membra leuanda toro: il sintagma toto … toro, variante di medio toro, definisce un uso del letto ‘in lungo e in largo’, per così dire. Il nesso, come dicevo, occorre ad am. ii 4, 34 (di una puella alta che occupa il letto per intero, dove l’ipallage funzionalizza il valore quantitativo), su ispirazione di Prop. iv 8, 88 (il poeta fa l’amore per tutto il letto, con ipallage con funzione temporale), e sarebbe piaciuto a Giovenale che a 13, 218 scriverà et toto uersata toro iam membra quiescunt, che recupera con l’ipallage il valore temporale: «dopo aver rigirato a lungo». Il sonno lo aveva liberato, per quanto solo temporaneamente, dalle angosce giornaliere; utilizzando quasi le stesse parole di P. i 2, 43-44, cum requies … publica curae / somnus adest, epistola ugualmente indirizzata a Fabio Massimo, sembra il poeta sottolineare la malinconica monotonia di un uomo che si dibatte interiormente tra il passato ed il presente, che ripete ora quel che disse allora per a√dare al destinatario il ruolo di un soggetto ricevente un messaggio martellante, col quale in un certo senso si identifica: Fabio Massimo è l’uomo a cui dire che il sonno dà requie, come dice Iride a Sonno a met. xi 623-624, «Somne, quies rerum … / … quem cura fugit …». Cum subito all’inizio del v. 9 segnala un improvviso cambio dell’atmosfera, come in occasione di un’altra, celeberrima, apparizione descritta da Ovidio in met. xiii 439 sgg.: Agamennone, in attesa che le condizioni del mare si placassero, provvedeva alla riparazione della flotta sulle rive trace (e non troiane), e hic subito […] / exit humo late rupta similisque minanti / temporis illius uultum referebat Achilles; l’eroe greco ordinava ai presenti, quindi, di procedere immediatamente al sacrificio di Polissena (Hardie 2015, 279 sgg.). E ancora: Taltibio in Sen. Troad. 168-199a racconta dell’apparizione prodigiosa (monstra) di Achille: cum subito caeco terra mugitu fremens / concussa totos traxit ex imo sinus; anche il mare percepì che Achille era lì, e solo allora si placò (cfr. Rita Degl’Innocenti Pierini, L’epifania marina di un’ombra: dissonanze e contaminazioni di genere nell’apparizione di Achille nelle Troades senecane, ‘Elaine Phantam in memoriam’, «Pan», n.s. 5, 2016, pp. 29-44). Nel contesto dell’epistola silenzio e riposo lasciano il posto ad un ‘paesaggio’ molto diverso; il secondo kolon pentametrico agitatus inhorruit aer, con una clausola e√cacissima che avrebbe trovato un’altra occorrenza, e nella stessa sede, solo in carm. Lamb. i 137, x sec., mentre il nesso allitterante agg./sost. sarebbe rimasto un hapax assoluto; il sintagma gemuit fenestra, hapax assoluto, ed infine l’espressione pulsus e trepido pectore somnus abit, v. 12, come una personificazione del sonno che ‘si allontana’ dal trepidum pectus del poeta: son tipici esempi di una tecnica che Jo-Marie Claassen 1990, 103 chiama pathetic fallacy, consistente nella ingannevole impressione della condivisione da parte di un soggetto inanimato di sensazioni e sentimenti proprii del soggetto umano. In realtà il poeta opera il transfert di una sua personale sensazione all’aria, investita dall’improvviso batter d’ali, e alla finestra della stanza in cui dormiva, come turbata dal piccolo rumore: anche il chiasmo nel pentametro sembra assecondare la presentazione di questo ‘accerchiamento’ della finestra nella morsa del paruus sonus. La rappresentazione ambientale, allestita nei particolari alla circostanza pertinenti, prepara la scomposta reazione del poeta: territus (il dattilo 1° al v. 11 sembra scaricare i sensi di attesa creati dai versi precedenti) il relegato ripete il gesto compiuto a fatica da una debole Cidippe in her. 21, 18, uix cubito membra leuare, e poi da una Biblide impegnata in una drammatica riflessione in met. ix 518, in latus erigitur cubitoque innixa sinistro, e, addirittura, a met. xi 621, dallo stesso dio Somnus che si ridesta per l’ingresso di Ceice nell’antro cubitoque leuatus … (cognouit enim): l’automemoria poetica indirizza Ovidio verso il proprio passato autoriale nel quale trova espressioni che suonano di formularità ma rivelano soprattutto, mutatis mutandis, una certa consentaneità nella soπerenza. Ed allora, la pathetic fallacy è da considerarsi un mezzo che consente una più diretta visibilità della sympathy autoriale nei confronti di altre sue creature poetiche, disegnate proprio

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con quei mezzi espressivi, ora ripresi per essere compresi dal lettore memore di una vecchia poesia capace di rinnovarsi per ogni esigenza e di riflettere altre Stimmungen rimanendo sempre uguale a se stessa. Il sonno è respinto, si allontana, somnus abit, sintagma assai caro ad Ovidio che lo adopera 8 volte: in clausola nei pentametri (her. 12, 170 [abit Palmer, Bornecque; abest Dörrie]; tr. iv 3, 22 e qui), sempre in incipit negli esametri, stichici o elegiaci (met. vii 643; ix 472; xv 664; fast. iii 23; vi 389). Nell’amara veglia dell’herois Medea a misero pectore somnus abit; il poeta chiede se sia vero che la mente della moglie è tanto a∫itta dal dolore che ab admonito pectore somnus abit: son situazioni emozionali che si estrinsecano in una stessa evidenziazione fenomenologica attivata da identici meccanismi psicologici, e che producono una resa poetica volutamente formulare; ma le piccole variazioni sono significative: il sonno che di Medea è eppure tener, il sonno che di Fabia è eppure lenis, nel caso personale raccontato dall’esule non ha qualificazioni oltre quelle, generiche ed universali, già espresse a v. 7; pulsus intensifica il valore di abit, e dà molto concretamente l’idea del soprassalto. L’espressione è drammatica evoluzione di her. 12, 170, et tener a misero pectore somnus abit, iunctura quest’ultima particolarmente cara ad Ovidio che la usa nei luoghi sopra indicati. 13-20. Contrapposto alla condizione di terrore nella quale versa il povero esule improvvisamente destato dal sonno ed appena rimosso dalla posizione supina, ecco la figura di Amor, che si erge maestoso, stabat, il verbo formulare dell’improvvisa epifania del defunto davanti al letto (Tib. ii 6, 38), o della divinità (met. ix 687; xi 654-655; xv 654, ed il comm. di Hardie 2015, 579-580); il suo volto, diverso dal solito, ben delineato grazie alla luce lunare filtrata dalle finestre (ecco la funzionalità del dato descrittivo di v. 5), preoccupa il poeta; triste poggia la mano sinistra sulla lignea testiera del letto: l’acero era impiegato nella fabbricazione dei letti, come si legge in Plin. n.h. xvi 68 (cfr. comm. Lechi, Torino, Einaudi, vol. iii*, p. 409, n. 67), in un punto in cui l’incertezza del testo salva la lezione dei codd. lectorum ma non l’impossibile †solicios†; la fonte dell’enciclopedico latino è in questo caso Theophr. h.p. iii 3, 1. I vv. 680-681 della Medea, et triste laeua comparans sacrum manu / pestes uocat, dimostrano che Seneca avrebbe apprezzato la contiguità aggettivale presente al v. 14, laeua tristis; e, nel contempo, il recupero senecano evidenzia che le parole di Ovidio si prestavano a creare un’atmosfera tragica, ironicamente tragica, nella quale il lettore potesse cogliere segnali miranti ad impressionarlo negativamente: a chi segue il racconto sono preannunciati accadimenti negativi, o la previsione di un esito fallimentare dell’azione che si sta per intraprendere o che si chiede di intraprendere. Ben tre distici, vv. 15-20, son riservati alla rappresentazione del dio, cui Ovidio a tr. v 1, 22, pharetrati … Amoris, la stessa qualificazione che di Sarmati e Geti si dà a iv 10, 110, aveva dedicato un accenno di segno assai diverso: l’attenzione del poeta si a√ssa soprattutto sulla condizione di degrado della sua figura, scandito dallo scarto vistoso tra il prima e l’attualità (non quo prius, v. 13; nec … ut ante, v. 16). L’elemento più emergente sono i capelli: capillo, comas, capilli chiudono rispettivamente i vv. 15, 16 e 17. Capelli senza diadema (e manca la collana al collo), chiome in disordine (cfr. am. i 2, 20, aut puer aut longas compta puella comas), capelli morbidi ma pendenti su un orrido viso tracciano uno scenario che ricorda le iconografie delle personificate Elegia e Tragoedia nel canto incipitario del iii libro degli Amores (López Cañete Quiles 118 sgg.). Inhorruit aer (v. 9), horrida ora (v. 17), horrida pinna (v. 18): in questa fosca atmosfera dell’horror si inscrive una figura assolutamente nuova di Amor, molto diversa da quella cui Ovidio aveva abituato il suo lettore, ed Amor, comunque, era stato un personaggio che aveva condiviso complicità nell’accogliere i praecepta del maestro. In realtà si tratta del poeta stesso che si oggettiva per avanzare la sua stessa richiesta di aiuto, ma per interposta persona. Il linguaggio al quale il poeta ricorre nella rappresentazione di Amor è in alcuni casi tratto dalla terminologia critico-letteraria: comptus a v. 16, preceduto dalla negazione, riferito al profilo del dio allegorizza la ormai scomposta immagine di ciò che il dio stesso è icona, la poesia erotico-elegiaca, quella di un

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tempo, oramai inesistente. Le attestazioni di Seneca (controu. ii 2, 8, [Ouidius] habebat comptum et amabile ingenium) e di Quintiliano (i.o. x 1, 79, Isocrates in diuerso genere dicendi nitidus et comptus), certificanti il carettere di term. tecn. letterario dell’aggettivo, consentono di cogliere la sfumatura impressa dall’esule allo squallido scenario, in cui, perciò appunto, del dio Amor si propone una rappresentazione, allegorico-metaletteraria, molto alternativa a quella tradizionale. (Diverso il caso di Cic. part. 19, probabile […] genus est orationis, si non nimis est comptum atque expolitum, dove il retore mostra apprezzamento per il discorso che, invece, non indulge al ‘tornito’ e al ‘ricercato’.) Claassen 1991, 28 legge convenientemente l’esilio anche «comme phénomène psychologique». La rappresentazione, straniata, del dio è regolata da una gradatio ascendens culminante nella similitudine della colomba da molte mani toccata sul dorso con carezze (non tractatam [André], ma tractantum, oltretutto lectio di√cilior) che l’han reso ispido. Questa immagine suggerisce a Claassen ibid. 35 un collegamento con tr. i 1, 75-76, in cui Augusto è come un avvoltoio che aπerra una colomba. L’esegesi allegorizzante di Smith si spinge forse oltre quando assimila l’immagine del mal ridotto uccello al proprio lavoro che Ovidio considera logoro, privo di interesse e trascurato; lo studioso pensa all’epicedio del pappagallo di Corinna in am. ii 6 e al passero di Lesbia in Catull. 2 e 3, dove però non sembra che la poesia amorosa presenti logoramenti (sulla presenza degli uccelli nelle ex Ponto di Ovidio, ma non specificamente per il nostro luogo in esame, Martin 1914 140, 144). In am. iii 9, 11, excipiunt lacrimas sparsi per colla capilli, ritroviamo ancora una rappresentazione del dio singhiozzante, con i capelli sciolti sul collo che ricevono lacrime, mesto per la morte di Tibullo; ma qui Ovidio proietta la memoria al Caronte virgiliano (Aen. vi 298 sgg.) e, soprattutto, al ‘suo’ Ciparisso (met. x 138-139), che invoca gli dèi per un pianto eterno, e subito qui niuea pendebant fronte capilli, / horrida caesaries fieri [coeperunt]: il poeta conserva, con il ri-uso lessicale, il segno, ideologico, intrinseco al codice letterario, della metamorfosi nella immagine nuova del dio. Alla degradazione del livello poetico è associato, evidentemente, l’aspetto del liber, che è hirsutus a tr. i 1, 11-12 (Geyssen 2007, 374 sgg.) per le sue chiome sparse (hirsuti gli stessi Geti in P. iii 5, 6). Relegatus il poeta, relegata la sua poesis; in Scholte xv sgg. un elenco di passi sulla sovrapponibilità dei due declini; la poesia del relegatus è anche la delegata del poeta a Roma, come osserva Hardie 2002, 297-300. Bene fa Bordigato 160 sgg. ad insistere, con la massiccia citazione di richiami disseminati in tutta l’opera esilica ovidiana, sulla corrispondenza tra la misera condizione fisica del poeta relegato, incultus, squalidus, e l’insoddisfacente livello della sua produzione artistica, che rispecchia la drammaticità della situazione in cui egli versa. Insoddisfacente il livello rispetto ai paradigmi qualitativi di un tempo, s’intende; e, comunque, l’insoddisfazione non è tanto quella del poeta, che si è rinnovato, quanto piuttosto dei lettori, che non hanno ‘capito’ quel rinnovamento. La rappresentazione di Amor nel contesto iniziale della lettera a Fabio Massimo risente di una complessa operazione contaminatoria e decostruente che vede appunto la fusione di caratteristiche iconografiche del dio o di personaggi a lui anche collateralmente collegati (la madre), qua e là esibite nelle opere dello stesso Ovidio, e qui recuperate à rebour. Ebbene, il poeta ripropone assemblati quegli aspetti esteriori del dio, quegli ‘arredi’ che avevano contribuito a dare di lui un’immagine stravagante, che ora però subisce una metamorfosi in senso negativo, del tutto rispondente alla negatività in cui è decaduta la componente erotica nella sua sensibilità e nella sua poesia di esule. In am. i 2, 23 sgg. Ovidio, rappresentando il trionfo di Amore (Galinsky 75 sgg.; Lechi 1978, 4 sgg.), di cui si è già dichiarato noua praeda sino a confessare di sottomettersi alle sue leggi (v. 17 sgg.), invita il dio a prepararsi alla parata, intrecciando la chioma di mirto, necte comam myrto, aggiogando le colombe, maternas iunge columbas, ergendosi ritto sul carro donatogli dal patrigno, in … dato curru … / stabis. La iconografia è complessa: concorrono a delinearla vari fattori: innanzitutto la compresenza del motivo della coma, qui nexa myrto, e delle columbae, sacre a Venere, come ricordano Prop. iii 3, 31 e lo stesso Ovidio in met. xiv 597, iunctis inuecta columbis (ThlL iii 1732, 44 sgg.; «re», ii 4, 2496 sgg.). La postura del dio, stabis di v. 26, è

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coordinata al movimento delle colombe, et adiunctas arte mouebis aues; Claassen 1991, 30 ricorda in proposito met. vi 289, stabant …. / ante toros fratrum demisso crine sorores: Niobe, moglie di Anfione re di Tebe, che ha oπeso Latona dicendole di aver avuto solo due figli, è punita con l’uccisione di tutti i figli. Ne Il trionfo di Ovidio di Nicolas Poussin alla sinistra del poeta è ra√gurata semisdraiata Venere giacente con accanto due colombe (Allen 229-240). L’espressione tu pinnas gemma, gemma uariante capillos di v. 41 (McKeown 54) aggiunge un ulteriore tassello al ritratto che insiste su ali e chioma, un tempo adorna di gemme, come ancora si legge a rem. 39, mouit Amor gemmatas aureus alas; collaterale il ‘prezioso’ rilievo del vezzo femminile a medic. 19: le puellae vogliono odoratos positu uariare capillos. Questi dettagli descrittivi che attrezzano una tipologia illustrativa antonomastica, e quindi ‘istituzionale’ di Amor, confluiscono, straniati dalla metamorfosi dell’uomo Ovidio e della sua poesia, in questa apparizione avvolta nell’enigma sogno/visione/realtà. L’elegia erotica, elegia lieta, la seconda del I libro degli Amores, si conclude con una sovrapposizione di Cupìdo (su Cupìdo pre-esilico Landolfi 2007, passim) al cognatus Caesar; in questa elegia triste a Fabio Massimo il poeta lo ricorda fratello del Cesare v. 62, ab Aenea … tibi [i.e. Amori] fratre tuus. Nell’elegia degli Amores Ovidio chiede ad Amore di usare la stessa clemenza del Cesare, qua uicit, uictos protegit ille manu, v. 52, un’immagine mutuata dal properziano illa qua uicit, condidit arma manu di ii 16, 42; cfr. poi tr. i 9, 23 sg.; tr. ii 125; ora ad un Cupìdo ormai stanco, già tanto sfruttato da tanti e tante, chiede che, con il suo solo aspetto di deus non più triumphans, e quindi inoπensivo, di quello stesso Cesare implori la clemenza per il vecchio maestro. La ra√gurazione di Amor mira a rievocare una figura di divinità addolorata, partecipe della soπerenza dell’esule; su di essa si attua il transfert del poeta stesso, che colloca il suo dolore nell’icona del dio, e alla di lui auctoritas a√da il cómpito di esprimere le sue convinzioni in merito alla presunta colpa e alla dura punizione; Ovidio cerca attenuanti, riducendo ad uno i due capi di accusa, dei quali resterebbe in piedi solo quello relativo all’error. 21-22. Il distico ferma il momento in cui il poeta riconosce l’immagine apparsa, ed il riconoscimento, a quel punto, è immediato, non graduale: hunc simul agnoui richiama alla mente, per antitesi, la di√coltà di Enea di riconoscere uno sfigurato Deifobo nell’Ade in Aen. vi 498, uix … adgnouit. La reminiscenza eneadica sembra estendersi al sintagma talibus … sonis che è variazione di notis … uocibus del v. 499 del passo di Virgilio, con evidente scambio numerico delle sillabe tra agg. e sost.: talibus / uocibus; notis / sonis (il notis virgiliano è, peraltro, recuperato con notior di v. 21). Le consonanze col testo virgiliano, la specularità tra l’ ‘irriconoscibile’ Deifobo e l’ ‘irriconoscibile’ figura di Amor, uultu non quo prius esse solebat, sembrano indicare al lettore la fonte dalla quale Ovidio ha tratto lo spunto per inscenare l’avvenuta identificazio­ ne del personaggio apparsogli inaspettamente; è ben probabile che il poeta esule veda nella circostanza narrativa, che si trova ora a gestire, un’occasione per appropriarsi di caratteristiche che appartengono ad una pregressa circostanza narrativa (Hinds 1998, 1 sgg., sulla «reflexive annotation»), che rappresenta come un naturale ipotesto in attesa di rivelarsi un’appropriata anticipazione. La modalità dell’apparizione del dio ha determinato sorpresa e spavento nel poeta, turbato dal repentino batter d’ali, che avrebbe provocato il gemito della finestra, ma non appena egli riconosce Amor, per quanto questi sia rappresentato nella sua ritta statura, e nel suo orgoglioso portamento, stabat, da vecchio maestro gli scarica addosso rimproveri ricorrendo subito ad assoluta franchezza, libera lingua, una iunctura tratta da Naeu. inc. fab. frg. 88 Traglia, libera lingua loquemur ludis Liberalibus, espressione cui si sarebbe alluso proverbialmente anche nella letteratura italiana del Trecento (ad es., Boccaccio, 6a giorn., 4a novella). Anzi, forte contrapposizione emerge tra l’iniziale terrore del poeta ed il successivo totale cambiamento, sottolineato da una tonalità ironica, a proposito dell’immediato riconoscimento, neque enim mihi notior alter (nesso, questo, inaugurato in poesia in ars ii 192, e ripreso anche a P. ii 3, 21), che ricorda notior in caelo fabula nulla fuit di am. i 9, 40, ed anche fabula toto notissima caelo di met. iv 189 sempre

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in riferimento al Mars deprensus dal deus faber, marito tradìto dalla bella Venere, e confermato dalle prime parole pronunciate dal poeta, che si rivolge egli per primo all’immagine che gli si para dinanzi. 23-28. Uno scambio di estese rJhvsei~ tra Ovidio, che subito si presenta come il magister (v. 23), e, quindi, come l’autore del poemetto didascalico Ars amandi, ed Amor, intervallate dal distico 65-66, introduttivo della risposta del dio ai rimproveri mossigli dal poeta, rappresenta la parte centrale e l’ossatura della lettera. Nei frequenti casi di teofania, nella poesia greca e latina, è prevista l’allocuzione isolata del dio/della dea al poeta: così in Hes. Theog. 24 (qeaiv); Callim. fr. 2, 1-2 sgg. (Mousevwn eJsmov~); Verg. buc. 6, 3-4 (Cynthius); Hor. serm. i 10, 32 (Quirinus); Prop. iii 3, 14-15 (Phoebus) e 38 (Calliopea); Ou. ars ii 493 (Apollo); ars iii 43 (Cytherea); rem. 555 (Cupido): son tutti luoghi in cui la divinità, apparendo, interviene per dare indicazioni artistiche al poeta che si limita ad ascoltarle e a rispettarle. Si è insistito da parte dei critici, a cominciare, sia pur con un attenuativo ‘perhaps’, da Kenney 1965, 47, nota 1, anche su una diretta influenza ancora virgiliana (Aen. ii 268 sgg.), quella dell’apparizione in sogno ad Enea di un Ettore dalla barba incolta ed i capelli intrisi di sangue, il corpo lacerato dalle ferite, ancora sfigurato dai colpi mortali riportati nel duello con Achille. Il figlio di Anchise ultro, ‘per primo’, gli parla ponendogli domande; l’ombra dell’eroe di Troia replica ad Enea, lasciando senza risposta le sue domande e piuttosto invitandolo, come si sa, alla fuga. Il Cupìdo di P. iii 3 gioca un doppio ruolo: prima ascolta la voce del poeta che è interlocutore e ‘persona poetica’, e non solo passivo destinatario di un messaggio, poi prende la parola per rettificare, integrare le parole dell’interlocutore e suggerire motivi di speranza. Il lettore, intendo collettivamente Fabio Massimo, il pubblico e lo stesso Augusto cioè, valuta la complessa polifunzionalità cui si sottopone il narratore che si impossessa della identità del dio per imprimere forza e credito alle sue parole. Si crea un dialogo nel dialogo, una «narrazione commentata» di ispirazione epillica, un ingranaggio metadiegetico che Ovidio sembra recuperare dalla tecnica da lui collaudatissima delle Metamorfosi. L’esordio del discorso di Ovidio ha un tono di forte rimprovero; il poeta-maestro, quem (i.e. Amorem) docuisse, si sente ingannato nel ruolo del quale si pente, ma riconosce anche la funzione ispirativa che il giovane dio ha esercitato su di lui suggerendogli, anzi imponendogli (dictasti) i carmi giovanili, carmina iuuena(i)lia, già evocati a tr. ii 339 e iv 10, 57 (i carmina che a lui dictat Amor in am. ii 1, 38), e guidandolo (te duce, per cui cfr. rem. 1; P. ii 10, 22, e già Prop. iii 9, 47: col termine tecnico militare si recupera un atteggiamento del sermo elegiaco) nella composizione del distico elegiaco, con l’aggiunta all’esametro del verso di cinque piedi. In am. i 1, il Programmgedicht, v. 5 sgg., Ovidio da poeta elegiaco parla al puer, rivendicando il ruolo di uates nella Pieridum turba e rifiutando quello di seguace di Cupìdo, per poi piegarsi alla volontà del dio, infine, ma sempre in qualità di uates più che di poeta-amante, e diventarne cantore; ora di nuovo si rivolge al dio, puer (v. 23), e rievoca quei tempi in cui gli fu preclusa l’ispirazione meonia che lo avrebbe abilitato alla celebrazione poetica dei magnorum acta ducum. È significativo questo ruolo bivalente che Ovidio si riconosce ad un tempo di praeceptor amoris (e quindi discipulus Amoris) e praeceptor Amoris, come si presenta in questa elegia; sembrerebbe che egli voglia scaricare la responsabilità di quanto ha scritto su Cupìdo, il figlio di Venere, l’ava leggendaria della gens Iulia attraverso la discendenza eneica. Ebbene, il dio Amor è venuto anche lì, in terra tomitana, nell’esilio senza pace del cittadino Ovidio che soπre sino ad odiarlo, e nell’esilio della poesia erotica, dove l’antico praeceptor amoris e sfortunato praeceptor Amoris (v. 24; cfr. già Ars i 17) non saprebbe più insegnare la pace, e dove l’Istro (denominato Danubio solo tre volte su 29 nella poesia esilica; Luisi 2001, passim), qui imbarbarito dalla natura (a P. iv 2, 38 dal basso livello culturale), raddensa le acque, una sorta di autocitazione da tr. ii 196, maris adstricto quae coit unda gelu (cfr. anche tr. iii 4, 48 [iii 4b, 2], adstricto terra perusta gelu, e

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Martin 1969, 381), come avrebbe fatto l’Ebro di Claudiano che, invece, pigrior, adstrictis torpuit …. Aquis (carm. 34, 18). Quae causa … uia?: con le parole gridate da Volcente agli avvistati Eurialo e Niso in Aen. ix 376 il poeta, con un sorriso amaro, che la riecheggiata lessicalizzazione virgiliana mostra quasi beπardo, al vecchio discepolo chiede le ragioni di quel viaggio, e a se stesso il motivo di quella rappresentazione scenica, e lo troverà a conclusione della lunga rhesis, vv. 63-64: interceda presso il principe perché assegni una sede più agevole per l’esilio; in seguito la richiesta sarà venata di cupo pessimismo; utque loco moriar commodiore precer?, chiederà sconsolato a Bruto in P. iii 9, 38. 29-36. Ovidio confessa, con quella terminologia propria della recusatio-excusatio (cfr. tr. ii 323 sgg.), che la sua ispirazione poetica giovanile, iuuenalia carmina, gli Amores, cui solo qui si allude, era stata completamente immersa nell’impegno erotico-elegiaco per un totale coinvolgimento personale sul piano artistico, quando, sotto la guida del dio, creava distici elegiaci: apposui senis te duce quinque pedes, con evidente allusione ad am. i 1, 3-4, risisse Cupido / dicitur atque unum surripuisse pedem (si veda anche il v. 30, musa per undenos emodulanda pedes!), ed agli elegi erotici tout court, di cui il sintagma te duce, qui non a caso richiamato, rappresenta come un simbolo distintivo. L’arco e i fuochi di Cupìdo e della Madre avevano fiaccato spunti ispirativi di natura epico-encomiastica, comunque già di per sé deboli; il grande opus rimaneva assolutamente lontano dai suoi orizzonti artistici: opus exiguum è definito lo stesso panegirico, Trionfo, nell’epistola successiva (iii 4, 5). Sia pure sotto forma di rammarico, un rammarico di maniera, il poeta ribadisce la genuinità della sua libera scelta artistica, e questa dichiarazione, per quanto abbia un valore per così dire retroattivo, e dia l’impressione di sconfessare quelle opzioni poetiche, sembra invece un modo per ribadirne la giustezza, almeno quella riconosciuta un tempo, mai veramente abiurata, nonostante fosse stata per lui foriera di un destino sinistro (Fedeli 2003, 5). Le esigue forze di cui parla ai vv. 33-34, già richiamate a tr. ii 531-32, natura … uires exiguas … dedit, e, comunque, motivo della recusatio topica soprattutto dell’ultima raccolta (P. i 5, 51 sg.; iii 4, 79, iii 7, 1; iii 9, 18), in un contesto, vv. 29-36, che la Nagle 124 sg. e nota 24 definisce «a cento of themes from Ovid’s amatory apologies», non sarebbero bastate a sostenere le composizioni impegnative del verso eroico: è Ovidio stesso che non ha scrupolo ad ammettere di essere votato per altro. Poi, con lo stesso mezzo elegiaco, si è visto costretto a rivolgersi al principe per ottenere un perdóno; ma ora, al tempo della composizione di questa epistola-fiction, che Pippidi 428 data al più tardi all’inizio dell’estate del 13, dopo cinque anni di relegazione e di inutili suppliche per ottenere un commodior locus, siamo proprio sicuri che abbia ancora la forza e la voglia, convinta, di chiederlo? Rebecca Miller vede un Ovidio ancora impegnato a negoziare «the reason for his banishment». Purtroppo, il risultato di tutta l’attività poetica giovanile sembra ridotto al solo ra√namento di Cupìdo: ma questa è ancora una volta la riaπermazione della omologata validità del proprio lavoro poetico. 37-40. A Maeonio … carmine di v. 31, solenne sigillo dell’elevata poesia eroica (Maeonio pede in rem. 373; Maeoniis chartis in P. iv 12, 27) è opposto stulto carmine di v. 37, hapax assoluto nella poesia latina, il sintagma che definisce con pregnante icasticità l’impegno didascalico del poeta; esso sembra riprodurre nell’aggettivazione un giudizio altrui, il giudizio della critica di regime, qui ‘citato’ polemicamente dall’esule, che dimostra di non condividerlo e di non meritarlo, portando, anzi, a credito delle sue Artes, che sono lo stultum carmen appunto (stultam conscripsimus Artem a P. ii 9,73; Galasso 1995, 141), il dirozzamento dell’allievo raggiunto con l’applicazione degli stratagemmi amorosi, ed il suo aπrancamento dalla stultitia. Proprio a conclusione di questa sezione di versi riservata ad una difesa, dimidiata in un impasto di sentimenti che vincola nostalgia a rammarico, merita di essere collocata un’annotazione esegetica specifica sul v. 31, con l’eπetto ecoico del gruppo nec me, che apre e chiude l’esametro,

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la doppia allitterazione me Mae- / con- car-, la posizione centrale del verbo, ai cui lati sono posti rispettivamente agg. e sost. del sintagma Maeonio carmine, che, mutuato da Hor. carm. i 6, 2, Maeonii carminis alite, sarebbe stato ripreso dal solo Marziale (xi 90, 3; xiv 183, 1): Ovidio sfoggia qui, paradossalmente, uno specimen di spiccata tecnica ovidiana, e che lo faccia per esprimere l’impedimento opposto da Eros al culto della poesia elevata è un valore semantico aggiunto. Con il distico 39-40 il tono da sottilmente ironico diventa amaramente polemico. Ecco la ricompensa per un poeta benemerito: una relegazione in una terra lontana e tormentata da scorrerie nemiche. In extremis … locis è calco di tr. iii 3, 13, lassus in extremis iaceo populisque locisque, ma lo spettro della lontananza diventa da subito una sorta di refrain del lamento dell’esule: tr. i 1, 127-128, nobis habitabitur orbis / ultimus, a terra terra remota mea, infatti, è solo il primo di una lunga serie; si vedano, infatti, ancora, ad es., tr. i 1, 127-128; tr. iii 13, 12, extremam gelidi … in orbis humum?; tr. iii 4, 52, ultima terra; tr. v 2a, 31, barbara … tellus, orbisque nouissima magni; P. i 3, 49, orbis in extremi … harenis; i 7, 5, in extremo … orbe; ii 7, 66, ultima … tellus, ultimus orbis; iii 4, 58, ultima … ora. Qui come altrove nella raccolta di P. i-iii Ovidio parla di exilium; solo a i 7, 42 usa il termine relegari, definendo in modo tecnico la sua eπettiva condanna e, soprattutto, illustrando in modo ampio le mancate ripercussioni negative sulla sua famiglia. 41-48 (>83-92+95-98). I versi 39-40 sono introduttivi alla presentazione di quattro exempla solo tre dei quali eπettivamente mitologici, dato che nel quarto compare la figura storica di Numa. Questi exempla sono accomunati dal rapporto allievo/maestro improntato alla ventilata ben diversa etica della gratitudine: le martellanti negazioni, non … nec … nec … non, che si susseguono in ordine chiastico, mettono in risalto la divergenza. L’organizzazione della materia è regolata da un criterio retorico strutturalmente assai accorto: a ciascuna delle coppie di personaggi citati, maestro e discepolo o viceversa, è riservato un verso. Nel primo distico vige un ordine chiastico: al 1° verso leggiamo al nom. con agg. patronimico il nome del discepolo seguìto da in + acc. del nome, privo di aggettivazione, del maestro; al 2° verso il nome del maestro con agg. etnografico all’acc. retto da in (parlerei di «anafora sintattica») seguìto dal nome del discepolo in nom., privo di aggettivazione. Il secondo distico è costruito, invece, con criteri di simmetria: al 1° verso, infatti, i nomi del maestro e dell’allievo, citati contiguamente, sono posizionati centralmente; al 2° i nomi del maestro e dell’allievo son collocati rispettivamente all’inizio e alla fine del pentametro, dove emerge nel secondo emistichio il suono allitterante non noc- Nu-. Si apprezza una ricercatezza formale, di vecchia scuola callimachea, cui la consumata tecnica versificatoria del poeta avverte l’esigenza di ricorrere per imprimere dinamismo ad una trama catalogica, così sottratta ad una monotona struttura ad elenco. Eumolpo (Kern, s.u. Eumolpos, «re», vi 1120; West 1993, 35, 53, 271; fugace la citazione a P. ii 9, 2), figlio di Chione e di Posidone secondo Apollod. iii 15, 4; Pausan. i 38, 2, di Museo secondo Plat. resp. ii 363c d (cfr. anche Phaed. 69 c), appartiene ad una vicenda mitologica piuttosto peregrina. Appare qui allievo di Orfeo, e quindi condiscepolo di Mida: insieme avevano appreso gli orgia da Orfeo, come si ricorda in met. xi 92-93. Dall’Inno a Demetra, [Hom.] hymn. 2, 474-476, apprendiamo che dei misteri eleusini Eumolpo fu un co-fondatore, [Dhmhvthr] dei`xen … / Eujmovlpou … bivhÊ … / drhsmosuvnhn q’ iJerw`n, kai; ejpevfraden o[rgia kalav («[Demetra] … insegnò … al forte Eumolpo … la norma del sacro rito, e rivelò i misteri solenni», trad. Càssola). Olimpo, secondo Apollod. i 4, 3 padre di Marsia, il ‘Satiro frigio’ (Wegner, s.u. Olympos, «re», xviii 321-24), è ricordato da Ovidio a met. vi 393 invece come discepolo o amasio del Satiro: quoque carus Olympus, «Olimpo, ancora a lui caro» (trad. Chiarini), insieme con Fauni, Satiri e ninfe, piange Marsia; nel nesso quoque carus Rosati 2009, 310 ipotizza acutamente un amaro riferimento, giocato sulla omonimia tra la sede degli dèi ed il padre di Marsia, alle divi-

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nità, olimpiche appunto, in particolare ad Apollo, che di Olimpo aveva ucciso, come è noto, il figlio macchiatosi di hybris. Il terzo exemplum, un celeberrimo discepolato, vede protagonisti Chirone (Escher, s.u. Chiron, «re», iii 2302-2308) ed Achille, allievo del Centauro secondo una tradizione che risale ad Hom. Il. xi 831-832, ∆Acillh`o~ … / o}n Ceivrwn ejdivdaxe; in Eur. I.A. 926 Achille dichiara personalmente di essere stato educato da un uomo eujsebevstato~, Chirone. Sulla productio della sillaba finale di Achille, breve per natura, come, ad es., in Hor. serm. ii 3, 193; Prop. iv 11, 40, non si trova, come avverte anche Staπhorst 130-131, altro riscontro di questa ‘prosodische Abweichung’ nella poesia esilica ovidiana. Ovidio aveva già in ars i 17-18 decisamente assimilato l’immagine di sé come praeceptor Amoris a quella di Chirone, praeceptor Aeacidae (i.e. Achillis): Aeaciden Chiron, ego sum praeceptor Amoris, / saeuus uterque puer, natus uterque dea. Il quarto prototipo prevede il (presunto) discepolato di Numa (ancora una volta citato nelle ex Ponto, dopo iii 2, 106) presso Pitagora, da Cicerone resp. ii 15, 28-29 decisamente negato e bollato con desolata esclamazione: quantus … et quam inueteratus error!: Scipione conferma ad un già dubbioso Manilio che la notizia, frutto di una trasmissione pervenuta auralmente dai maiores natu, e smentita dalla auctoritas degli annali pubblici, era falsa per palese anacronismo, quando solo si fosse pensato anno fere centesimo et quadragesimo post mortem Numae primum Italiam Pythagoram attigisse. In Tusc. iv 1-2 l’Arpinate inquadra il periodo in cui Pitagora visse in Italia all’epoca nella quale Lucio Bruto liberò Roma dalla tirannide (patriam liberauit), ed ipotizza che proprio a causa della ammirazione per i Pitagorici si diπuse successivamente la falsa notizia di un Numa, saggio ed equo, seguace di Pitagora; si trattava di una mera coniectura (Storchi 23 sgg. e passim). Anche Livio, i 18, 2-3 (e si vedano, inoltre, Dionys. ii 59 e Plut. Num. 8), mostra scetticismo intorno alla tradizione che voleva Numa discepolo di Pitagora. Si tratta di una leggenda sorta alla fine del v secolo, in seguito al contatto stabilito dai Romani con i Greci dell’Italia meridionale e col culto della memoria di Pitagora, spiegabile con la tendenza a collegare la Roma arcaica alla più evoluta civiltà ellenica. Numa fu artefice di importanti riforme politiche e religiose; è citato da Ovidio con gran rispetto ed ammirazione in met. xv 479 sgg. in riferimento alla sua celebre sapienza religiosa (Floro in Epit. i 2, 1 parla di inclita religio). In questo contesto, come già a fast. iii 151 sgg., Ovidio, che di√cilmente possiamo ritenere ignorasse la questione, mostra di accedere alla tradizione molto diπusa ma già allora contraddetta, come abbiamo visto con la secca smentita ciceroniana, del magistero del filosofo di Samo (a Samio doctus, v. 153) esercitato sull’illuminato re di Roma, sia pur attenuandone la credibilità con quel ferunt che rimanda, appunto, quei contenuti soltanto ad una diceria. Ma il problema, assai dibattuto già nell’antichità, è di estrema serietà perché investe la questione dell’incidenza della cultura greca nello sviluppo della civiltà romana (cfr. Ou. met. xv 60-478, «il discorso di Pitagora» ed il comm. di Hardie 2015, 486 sgg.). Ad Ovidio, evidentemente, non sfuggiva l’aporia cronologica, sin troppo scontata, ma forse il recupero di una tradizione dai contenuti pur errati, in questo caso, gli consente di esibire un exemplum di natura più squisitamente politica e, quindi, di più facile riferibilità ai risvolti di quel discepolato nei suoi rapporti con il potere. La sezione storica del citato discorso di Pitagora nel xv delle Metamorfosi, vv. 418-452, fissa una impressionante attualizzazione della figura e dell’insegnamento del pensatore greco. Proprio con quel ‘discorso’, dice Ovidio, Numa fece ritorno in patria e accettò di prendere le populi Latialis habenae (vv. 479-481), un’espressione ripresa a P. ii 5, 75 (ex Lucr. ii 1095-1096), proiettando, così, la storia di Roma sino all’attualità autoriale. Ed è estremamente significativo che Plutarco nel bivo~ di Numa, per quanto dubiti fortemente per ragioni cronologiche del magistero di Pitagora sul sovrano di Roma, riporti la notizia della cittadinanza romana accordata al filosofo: l’acronia è facilmente inquadrabile nel tendenziale inserimento della figura del Maestro in avvenimenti non a lui contemporanei, una sorta di memoria storica vivente. In nessuna di queste vicende mitologiche, cui viene associata, per ultima, come si diceva, l’esperienza educativa ricevuta di un personaggio che appartiene alla storia della Roma mo-

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narchica, c’è alcun marcato riferimento ad una particolare gratitudine dell’allievo nei confronti del maestro, che giustifichi la contrapposizione dell’irriconoscenza che il discipulus Amore aveva avuto nei riguardi di Ovidio, procurandogli il male della relegazione. È necessario, evidentemente, confinare l’esegesi nell’ambito di un uso ludico del mito, e di procedere a tratti anche per absurdum, per assicurarsi la possibilità di seguire le orme del pensiero del poeta. Una lettura in chiave antropologica dei praecepta impartiti da Ovidio ad Amor consente di analogizzarli agli orgia insegnati ad Eumolpo da Orfeo: misteri gli uni, misteri gli altri; la hybris di Marsia potrebbe evocare quella, eventuale, del poeta, o quella eventualmente imputata al poeta. Il discepolato di Achille, infine, unanimemente riconosciuto, contrapposto all’anacronismo smaccato del tirocinio di Numa, largamente ricusato, chiude questo quadretto mitologico-storico, che assume i colori dello stravagante paradosso che grava sulla finzione narrativa di tutta l’epistola. In fondo, vorrei anticipare, anche il discepolo Amor dà il suo contributo di gratitudine al suo magister prospettandogli un lieto fine dell’amara vicenda grazie all’imminente trionfo di Tiberio. Che è un’altra assurdità, della quale, oltretutto, il poeta ha lucidissima consapevolezza. A chiusura dei quattro exempla Ovidio appone una sorta di sfragiv~ con un distico davvero interessante; ad un esametro che ricorda la numerosità di esempi di discepoli fedeli ai propri maestri – una sorta di «etc. etc.» – il poeta fa seguire un pentametro che fa molto meditare, illuminato com’è da una non casuale e non trascurabile intratestualità. Il v. 46, discipulo perii solus ab ipse meo, infatti, ripete, con qualche leggera variazione lessicale (analogia concettuale, ad es., con tr. ii 2; iii 5, 74; P. ii 7, 48, ma cfr. infra), il v. 2 di tr. II, ingenio perii qui miser ipse meo, una ripresa che può forse gettare una luce e decodificare quella esperienza para-onirica di segno simbolico, variamente interpretata dagli studiosi, cui il poeta assegna una figura ed un ruolo per poter fissare un rapporto comunicazionale, e sfuggire ad un monologo interiore che nella circostanza sarebbe stato scarsamente e√cace. Si tratta, insomma, del suo ingenium, il proprio genio poetico imputato direttamente nella lettera ad Augusto, spesso evocato (Nagle 116 sg. e nota 12) per descriverne, solo in apparenza, il declino, che qui nella terza elegia del iii libro prende le sembianze del discipulus di un tempo, cui egli insegnava a non essere rudis. Dunque, quell’ingenium è l’energia ispirativa, la scintilla poetica di un uomo che ora si guarda allo specchio e che, con modalità oggettive, ma in realtà autenticamente autoreferenziali, rievoca quella fantasia trasformata in arte della seduzione e corroborata dal fascino del distico elegiaco cui addebita la responsabilità della sciagura, definendola ingenium come a tr. i 1, 56, ingenio sic fuga parta meo, o a ii 2 sopra citato, o a P. iii 5, 4, laesus ab ingenio Naso poeta suo, perìta qui come a tr. ii 2, a P. ii 7, 48, infelix perii dotibus ipse meis, o iii 3, 74, ingenio perii Naso poeta meo («a variation», come vuole Nagle 27, ma si tratta anche di sfumature di volta in volta integrative di un concetto che si ripete), o a Ibis 6, artificis periit cum caput Arte sua: Nasone è stato il Maestro di quella potenza artistica, la sua autentica discipula; non è il dio Amor in sé il discipulus ma la gestione controllata e disciplinata dalla competenza di Ovidio che ha a√dato alla propria poesia i mezzi e i modi di esternazione di quella disciplina perché fossero estesi agli altri: il possessivo, che il Sulmonese in 1a o 3a persona riferisce a se stesso, una costante in tutti i luoghi citati, indica l’inequivocabile assunzione di responsabilità da parte del poeta erotico-elegiaco. Ma è un momento di snodo nelle opzioni artistiche: non è, infatti, solo una retrospettiva; quando farà annunciare ad Amor la speranza della salvezza nella ritrovata gioia familiare imperiale, profetizzata, non senza una sottile vena sarcastica, quasi come una novella golden Age, Ovidio ricodifica la funzione dell’elegia che torna ad essere lieta ma per cantare non il trionfo in sé bensì il sentimento del gaudium da esso prodotto, come avviene nell’epistola successiva, la iii 4, che riprende il tema di tr. iv 2 e P. ii 1. Sulla scena son presenti il realismo dell’uomo Ovidio, la fantasia del poeta Ovidio, la sensibilità colorata di fantasia del poeta Ovidio nei confronti di Cupìdo, il Cupìdo secondo Ovidio. Il poeta parla da praeceptor pentito, il discipulus parla da uir sapiens che con prudentia azzarda l’ipo-

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tesi di perdóno da parte del princeps; ad azzardare è un dio, e screditarlo sarebbe stato blasfemo per chiunque. Ovidio a√da il patrocinio della sua innocenza alla poesia che attraverso il sogno/ visione – oujk o[nar, ajll’u{par ejsqlovn, «non sogno, ma visione reale», come «il sonno di miele» riferisce a Penelope, figlia di Icario, che racconta di un sogno, per così dire programmatico, all’accorto Odisseo in Od. xix 547 – recupera e rievoca la poesia passata che fa da testimone, ma la poesia stessa ammette la colpa dell’error, e la poesia stessa rimedia pensando che il trionfo possa cancellare tutto il pregresso. L’inquadramento della scena in ambito onirico pretende a priori una decifrazione dell’evidentemente fittizio, e, quindi, impone la considerazione che essa sia presieduta dall’ironia. Labate 1989, 72 critica giustamente, a mio avviso, lo scontro frontale, che ha prodotto spaccature nella letteratura critica, tra le due correnti che vogliono riconoscere rispettivamente nella poesia esilica ovidiana una «serietà cortigiana» o una «giocosità anticonformista»; lo studioso (p. 77) interpreta la poesia di Tristia ed ex Ponto come omaggio al principe e alla sua famiglia, un gesto celebrativo dei destinatari che si guadagneranno un posto privilegiato nella posterità. La coscienza poetica di Ovidio, non saprei dire fino a che punto in termini di seriosità, e non saprei dire se la seriosità sia un atteggiamento costante o prenda piuttosto una curva discendente, sta profilando l’ipotesi di imprimere, o forse sta già imprimendo un nuovo indirizzo alla poesia elegiaca, non quello che ripercorra tout court la via segnata dal ‘Properzio Romano’, cantore degli e[ph di Tarpea, di Giove Feretrio, di Ercole o di Cornelia, ma quello che ritrae il sorriso della casa e dei figli, della madre Livia, l’orgoglio del grande padre della patria e dell’eroe (il generale: Tiberio, già marito di Giulia maggiore), il gaudio del popolo, della Città (Eck 107 sgg.), che ritrae la disponibilità del tempio, insomma l’elegia che canta la Famiglia, il Popolo, la Religione (vv. 85-92), i valori per Ovidio, e non solo per lui, anacronisticamente e troppo idealisticamente riprogettati da Augusto (e.g. RG 8, 5). Egli a fatica, attraverso l’epica della valorialità psicologica più che sentimentale della rinascita, tenta di sottrarsi alla morte grazie al suo ingenium, come dice a Cotta Massimo nella quinta di questo terzo libro: namque ego, qui perii iam pridem, Maxime, uobis, / ingenio nitor non periisse meo (33-34). Lo sdoppiamento che il poeta si è imposto, proponendosi in questa epistola dal Ponto come cantore e come detentore di una coscienza, si va esautorando, e le due energie si ricompattano nella loro naturale unità: tempus quod quaerimus instat si legge a v. 85; sperandum est nostras posse ualere preces a v. 92: il nos sostituisce l’ego/tu ed il meum/tuum che hanno animato le due rheseis, regolando il rapporto a due che si è stabilito tra i due parlanti. Ma alla memoria poetica del lettore non sfuggirà che le preces che il cantore esule, già in altri casi, ed ora con la guida della sua coscienza, rivolge al principe, ricordano le preces che egli, cantore dell’eros insieme agli altri cantori dell’eros, rivolgeva alla dura puella perché cedesse alle richieste dell’amante; preces talvolta vittoriose come nel caso proposto da Prop. i 8, 28, uicimus: adsiduas non tulit illa preces. Ovidio a√da a Fabio Massimo questo messaggio, attraversato dalla interferenza di Cupìdo, per il principe, ma il Poeta spera innanzi tutto nel credito che lo stesso Fabio deve accordargli; è su di lui che egli vorrebbe contare, anche perché era stato lo stesso Fabio ad avanzare qualche perplessità sulla pubblicazione dell’Ars, come ricorda in P. i 2, 133-134, cuius [mei] te [i.e. Fabium] solitum memini laudare libellos / exceptis domino qui nocuere suo. Quei congiuntivi presenti, si dubitem faueas quin his … dictis / Memnonio cycnos esse colore putem (vv. 95-96), non cancellano il timore di un mancato appoggio del nobile e potente amico. Ovidio ricorre all’adynaton (Canter 34; Davisson 1980-1981, 124-128; Williams 1994, 119-121) ma non per escludere, secondo il registro canonico di questa figura di pensiero, bensì per ammettere un’eventualità (che le sue parole restino inascoltate da Massimo), pur assai peregrina, che egli vorrebbe sapere scongiurata. La prospettiva negativa è nella sovrapposizione, alla malaugurata ipotesi che Massimo non lo sostenga, del contenuto del secondo membro dell’adynaton, portatore invece di una realtà possibile, quella del color nero dei cigni (aulico il sintagma Memnonio colore con riferimento al re degli

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Etiopi, figlio dell’Aurora [Pley, s.u. Memnon, «re», xv 638-649]), per quanto rara, nell’attualità (oggi si parla di prevalenza di piumaggio bianco o, se nero, sempre però con striature bianche) e nell’antichità, come è dato apprendere leggendo in Juu. 6, 165, rara auis in terris nigroque simillima cycno, a proposito di una donna dalle doti eccezionali. Sul proverbiale candore del cigno fa fede la testimonianza ‘scientifica’ di Lucr. ii 824-825, [conueniebat] et nigros fieri nigro de semine cycnos / aut alio quouis uno uarioque colore (si dà per assurdo che da nero seme si producano neri cigni, o da qualsiasi altro colore); si vedano poi, e.g., Verg. Aen. ix 563, candenti corpore cycnum, e x 699, niuei cycni, Sen. Ag. 215 (= Tr. 183), niuea proles Cycnus, e soprattutto vv. 678-679, clarus niueos inter olores / Histrum cycnus Tanainque colens, in cui si allude proprio al territorio danubiano vissuto da Ovidio esule. Ancora Agostino a Trin. xi 10, 17 si chiederà: quis enim uidet cycnum nigrum?, ed Isidoro in orig. xii 7, 18 aπermerà: nullus enim meminit cycnum nigrum. Subordinatamente il poeta significa un’eventualità opposta, quella da lui auspicata, che Massimo si faccia presso il principe interprete delle idee che egli ha espresso sulla propria poesia, che sono state oggetto del colloquio avuto con Amor, in un tête à tête con la sua coscienza, oggettivata nella figura del dio, che ne è una sorta di metonimica personificazione. Elmen Matthew Smith ritiene che Amor rappresenti il deterioramento della poesia esilica, seguìto da Larosa 2016, 52-53; la Bordigato 160 sgg., inoltre, correla l’aspetto malandato del poeta al livello non meno miserevole del suo prodotto poetico. Ovidio, a mio avviso, considera la sua poesia esilica di scarso peso solo per ragioni di contenuto, non di ispirazione e tanto meno di consistenza artistica; di scarso peso, quindi, nella misura in cui la sua creatività lo spingerebbe verso ben altri motivi lirici. E, in ogni caso, questo giudizio negativo nemmeno è condiviso dall’esule, che semplicemente presume che tale esso appartenga all’audience abituata a leggere versi ovidiani di tutt’altro timbro. In tr. v 1, 39 sg., infatti, l’esule dichiara che un suo ritorno a Roma provocherebbe la fine della sua poesia luttuosa, che tornerebbe ad essere lieta anche se non ludica: la morte della poesia è per Ovidio esule la poesia della morte. La rJh`si~ del relegatus ad Amor non va interpretata come un attacco alla sua poesia precedente (Williams 1994, 57), che anzi viene discolpata non solo ma soprattutto continuamente recuperata in una strategia di intensa intratestualità, e, quindi, orgogliosamente esibita attraverso una adeguata riconoscibilità. Al nesso lucreziano (i 258) candens lacteus umor Ovidio deve la clausola, del tipo condere gentem, del v. 97, già usata in met. ix 358 e xv 79 (Kenney 2011, 432 e 434 parla di ‘espansione metricamente comoda’); il poeta preleva dal testo del de rerum natura anche l’agg. candens, ridondante, che utilizza nel pentametro 98 per qualificare l’ebur a cui contrappone il terebinthus (essenza lignea molto scura, resinosa [Plin. n.h. xvi 231]), termine assai raro in poesia (Verg. Aen. x 136, Oricia terebintho / lucet ebur: la stessa chiusa in Prop. iii 7, 49); ma il contesto è costruito su una rete di intertesti più fitta per l’influsso del citato brano dell’Eneide nel quale, come si vede, sono compresenti terebinthus ed ebur, in una similitudine costruita per esprimere la brillantezza del capo fulvo di Ascanio analogizzato all’avorio intarsiato nel bosso o nel terebinto di Orico (cfr. Mela iii 104, saltus citro terebintho ebore abundant). In nessuna delle occorrenze citate, comprese quelle ovidiane, è dato cogliere l’enfasi che si riscontra ai vv. 97-98 della nostra epistola, che sono una sorta di estensione dell’adynaton, in cui la incisiva marca retorica sembra esaltare l’esigenza di una espressività dilatativa mirante ad una maggiore persuasività nella richiesta di aiuto; ma forse fa capolino l’intenzione parodica, non però oπensiva verso Fabio, bensì scettica verso la propensione alla credibilità che la richiesta abbia successo. Al dio il poeta ancora si rivolge con un vocativo qualificativo che si potrebbe dire istituzionale, lasciue (v. 47), lo stesso usato proprio all’indirizzo di Cupìdo da Apollo in met. i 456, «quid … tibi, lasciue puer, cum fortibus armis?» (ma si vedano anche am. iii 1, 43; ars ii 497, etc.), e poi da Marziale a viii 73, 5 per apostrofare, ‘professionalmente’, il cantore di Cinzia, lasciue Properti (cfr. anche her. 17, 77 [la numerazione è quella delle edd. Palmer e Dörrie]); il ricorso al linguaggio tecnico è obbligato in un contesto in cui Ovidio rievoca il suo magistero ed il discepolato del dio: discipulo … magister.

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49-58. Ai vv. 49-50 il poeta chiama il dio Amore come testimone giurato a deporre (liquido iuratus dicere possis, come a P. iv 6, 21, liquido possum iurare) che nella sua Ars amandi egli non … legitimos sollicitasse toros; ripete la dichiarazione fatta ad Augusto in tr. ii 346, [Artes] / quas ratus es uetitos sollicitare toros. I vv. 51-52, scripsimus haec illis, quarum nec uitta pudicos / contingit crines nec stola longa pedes (l’enallage pudicos crines ha funzione epesegetica di uitta), riecheggiano leggermente variato il distico 247-248 (sempre ad Augusto) di tr. ii, che insieme con quello successivo, a sua volta, ripete alla lettera Ars i 32-35, e che, come fosse il comma di una legge, una prova testimoniale scritta, ma ormai ridotta quasi a cantilena, rammenta al principe a discarico della colpa imputata: la lettura del poemetto erotodiscalico è interdetta alle vergini, che indossano le bende (uittae tenues), e alle Vestali, che di quelle fanno un distintivo, come anche alle matrone che portano la stola (instita longa; Zanker 175 sgg.; fig. 131, p. 178; 372). Ma l’esule si aπretta ad anticipare l’eventuale critica, che una matrona può essere spinta a leggere precetti destinati ad altre; in quel caso, egli aggiunge, con lo scopo di deresponsabilizzare la sua Ars da colpe di illegittimità e di illiceità, qualsiasi libro, se vogliamo chiamare ‘libro’ qualsiasi occasione, può essere galeotto (v. 253 sgg.). Potrebbe essere stato il caso di Elena, una matrona, che cede a Paride in assenza di Menelao (ars ii 359 sgg.): un caso di adulterio assolto (Luisi-Berrino 2008, 40, 119; 2009, passim) dal poeta-giudice, nil Helene peccat (v. 365), e giustificato dallo stesso Paride (her. 16, 299, ipse tibi hoc suadet rebus, non uoce, maritus). Con una certa frequenza il distinguo è ricordato nell’Ars, segno della sempre vigile consapevolezza del poeta di scrivere qualcosa di trasgressivo; egli ripete il proclama a ii 599-600, en, iterum testor, nihil hic nisi lege remissum / luditur; in nostris instita nulla iocis; a iii 26, conueniunt cumbae uela minora meae; iii 5758, petite … praecepta, puellae, / quas pudor et leges et sua iura sinunt: pudore, leggi e diritto non vietano i precetti che egli fornisce perché essi sono indirizzati alle puellae, non alle uirgines; iii 613-114, nupta uirum timeat; rata sit custodia nuptae; / hoc decet, hoc leges duxque pudorque iubent. Sembra che l’autore del libro ‘vietato’ sottintenda, però, di non essere certissimo che quel tipo di pubblico eπettivamente si terrà lontano da quella lettura, come a chiare lettere ammette che qualcuna può cedere al fascino del proibito (v. 257 sg. di tr. ii). Ma soprattutto Ovidio ai vv. 33-34 dice di cantare amori scoperti, liberamente dichiarati e dichiarabili, tutam Venerem canemus, e amori furtivi leciti, concessa furta, un carmen, insomma, del tutto privo di crimen. E ora qui, ai citati vv. 51-52, egli, parlando ad Amor perché soprattutto Augusto legga, o ri-legga, visto che ripete il pensiero già espresso in tr. ii 239 sgg., lascia intendere che, se vergini o matrone abbiano ispirato il loro comportamento erotico ai praecepta dell’Ars, ciò non è avvenuto su istigazione del poeta, e tanto meno col suo permesso. Condivido senz’altro quanto scrive Puccini-Delbey 351: «[…] Auguste pourrait en eπet apparaître comme le destinataire général de l’oeuvre [Tristes et Pontiques] prise en son ensemble». La ripresa del testo della lettera ad Augusto dei Tristia è palese per la citazione di bende e stola, è implicita per il riferimento alla tutt’altro che improbabile trasgressione delle matronae: è come dire che Augusto non avrebbe mai potuto fermare il flusso dei costumi, le leggi dell’inarrestabile evoluzione della storia. Ed aveva assolutamente ragione. In fast. vi 647-648 la causticità di Ovidio raggiunge punte di profonda amarezza: sic agitur censura et sic exempla parantur, / cum uindex, alios quod monet, ipse facit, il poeta grida la sua rabbia ad un Augusto che non aveva mai ricoperto la carica di censore, come ci dice Suet. Aug. 27, 11. I provvedimenti legislativi, le varie leges, di cui si denuncia evidentemente la debolezza al v. 56, non avrebbero mai potuto dirimere la questione morale. Il tono del poeta ora cambia; dal rimprovero si passa alla accorata e garbata richiesta: la formula dic precor, inaugurata qui da Ovidio, e ripetuta nella poesia epica (Stazio e Valerio Flacco) ed epigrammatica (Marziale) d’età flavia, introduce una serie, logicamente ordinata, di tre argomentazioni, sotto forma amaramente interrogativa, un distico per ciascuna, 1) per testimoniare che mai egli ha insegnato adulterio, vietato e punito dalla lex de adulteriis coercendis, con eventuali

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conseguenze di maternità extraconiugali (e a√ni? un’allusione?): la forte assonanza fallere / facere ai vv. 53-54 accresce il senso dell’amarezza e dell’ironia; 2) per denunciare che alla donna sposata era in ogni caso inibita la lettura della sua opera; ella è ab … summota libellis, il vb., cui qui fa eco arcet al v. successivo, è usato da Ovidio a tr. iii 4, 41 e a P. iii 4, 91 per esprimere la propria condizione di esiliato; ella per legge non può «avere uomini furtivamente» (furtiuos: agg. ‘storico’ del sermo eroticus; habere uiros, una clausola ripescata da ars iii 438); 3) per ammettere che è vano per lui difendersi se si continua a muovergli l’accusa composuisse adulterii notas: in notas, termine tecnico (Barchiesi 1994, 80-81 su fast. vi 649) per indicare la punizione inflitta da un censore, qui adoperato in riferimento all’oggetto censurando, si legge il senso critico verso la condanna subìta dal poeta, che … censura la censura. Una gradatio regola le tre interrogative e trascina il discorso da un tono difensivo, mirante a scagionarsi da ogni responsabilità, ad un atteggiamento accusatorio del malcostume imperversante e della iniquità dell’accusa e quindi della pena comminata. 59-64. Il disincanto, la disillusione, il crollo della speranza che la sua innocenza possa finalmente essere riconosciuta sono le condizioni psicologiche e spirituali che concedono al poeta di intravvedere comunque uno spiraglio di luce che lo porti ad una condizione di vita più accettabile: l’attacco at tu di v. 59 è dettato dallo stesso spirito che ha suggerito il precedente dic precor, ma un forte iperbato distanzia il pron. pers. dall’imperativo e√ce: ben due distici si frappongono incidentalmente tra il primo spondeo di v. 59 (ū per positionem) ed il primo dattilo di v. 63. Con questo accorgimento stilistico il contenuto di v. 63, lungamente atteso, ne esce esaltato, nel senso in sé e nella sua valenza all’interno del contesto nel quale è collocato, fungendo da condizione indispensabile perché l’auspicio e la richiesta del poeta possano avere un qualche successo: rendere placabilis l’ira del principe/nume (Staπhorst 138 segnala giustamente P. i 9, 23; iv 9, 52), ottenere che gli venga assegnato un locus commodior, che a P. iii 9, 38 (forse l’ultima epistola della raccolta pubblicata dal poeta, ove si ammetta, ma molto dubbiosamente, che il l. iv sia uscito postumo), in un momento di ulteriore sconforto, da luogo di relegazione diventerà sede dove morire. È cosi che si chiude la rhesis di Ovidio ad Amor. Il vecchio praeceptor Amoris formula all’interno dell’incidens un doppio augurio, che Amor abbia saette invincibili, e che inestinguibile fuoco divampi nelle sue torce, che Cesare, cui viene ricordato il rapporto parentale con Amor per la comune discendenza da Enea, governi il mondo, regat imperium terrasque coerceat omnis / Caesar; quell’Enea di cui nell’epistola ad Augusto l’esule in viaggio verso Tomi ricorda che fu non legitimo foedere iunctus amor, come cantava «il felice autore dell’Eneide» (cfr. tr. ii 533-536). Al v. 61 il chiasmo, l’incisione in P dopo imperium per interrompere il ritmo ed il flusso semantico, l’incisione in t4 dopo terrasque, l’isolamento privilegiato in clausola di omnis, il rejet Caesar in incipit pentametrico sono accorgimenti attentissimi sui quali il poeta scarica la sua sfiducia, espressa con impertinenza, relativamente alla volontà di perdonare di Augusto; e l’abbinamento di Cupìdo, citato per la sua infallibilità, al Cesare, citato come dominatore del mondo, vorrebbe, ironicamente, proporre una capacità del dio dell’amore di far breccia nell’animo del principe. Ovidio ancora una volta, dunque, si erge a praeceptor Amoris, questa volta però per istruire il dio in una strategia assai diversa da quella suggerita a suo tempo nell’Ars; ora lo scopo sarebbe quello di conquistare il cuore di un uomo dal quale dipende il destino di un relegatus in terra ostile. Ha ragione la Claassen 1991, 38 a parlare di ‘irrévérence’, ma dire che il testo «doit conduire le lecteur à une interprétation comique» (ibid.) è forse eccessivo. La parodia è amara, ed il sorriso, se c’è, è venato dal disappunto. Amor da discipulus diventa tutor del poeta, da accusato e rimproverato diventa strumento di intercessione per ottenere una pena più mite. 65-66 + 93-94. Il primo dei due distici fa da cerniera tra la rhesis di Ovidio e la rhesis di Amor; l’ambientazione si riconnette all’esordio, quando il poeta informa dell’apparizione di Cupìdo. I

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due versi per vari aspetti si echeggiano: sono entrambi avviati col dimostrativo monosillabico, l’esametro con analessi dell’isolato ed autonomo haec, il pentametro avvolto tra hos, prolettico, ed il sost. di riferimento in clausola; conservano entrambi l’immagine della visione con l’anaforico uisus (eram), che ricorda il uisus mihi di Aen. ii 773 (Creusa appare ad Enea), dove la klimax simulacrum – umbra – imago (vv. 772-773) può aver impressionato la memoria poetica dell’esule, ispirando l’incertezza, manifestata ai vv. 3-4, circa l’identificazione del soggetto apparsogli; si riflettono, nell’antitesi, ego / ille; si richiamano, nei suoni, DixISSE / DedISSE. Si apprezza la specularità con rovesciamento tra l’ordinario, ‘umano’ dixisse ed il solennemente sovrumano, degno della tradizione epica, dedisse sonos; la gestione sintattica e la collocazione nel distico dei due attori sono regolate da una disposizione chiastica che favorisce la loro ricercata contiguità in dieresi al centro del pentametro: ego – puero / nobis – ille. La configurazione di un Cupido uolucer è già presente altrove nell’elegia erotica ovidiana, ad es. in ars ii 98 (col comm. di Baldo 281), ed è originale di Ovidio. Il secondo distico, che annuncia la fine della rhesis di Amor ed il commiato del dio che scompare dalla vista del poeta, conserva, naturalmente, quel tono d’incertezza sulla natura dell’apparizione, ben evidenziata dall’aut … aut, sospesa, nella consapevolezza di chi ha vissuto quell’esperienza tra sogno e realtà; circa la posposizione del secondo aut si veda ThlL ii 1565, 10-21. Reminiscenze virgiliane significative ispirano all’esule l’immagine della scomparsa del dio dalla sua vista: non è semplicemente meccanica, a mio avviso, la ripresa di Aen. v 741, dixerat et tenuis fugit ceu fumus in auras, dove Virgilio ricorda che la facies Anchisae si disperse nell’aria tenue come fumo impalpabile dopo aver parlato nella notte al figlio esortandolo a raggiungerlo nei Campi Elisi per mostrargli le glorie della storia di Roma. Ovidio recupera, tra parodia e soπerta constatazione, la solennità del passo virgiliano: al dio Amore è a√data come la notifica di un contenuto di speranza, e allo stesso modo ad Anchise Virgilio a√da l’annuncio di un futuro glorioso. Dilapsus il dio Amor come il Proteo della quarta georgica del Mantovano, v. 410, in aquas tenuis dilapsus abibit. E nemmeno si può tralasciare che la stessa clausola dilapsus in auras leggiamo a Ibis 141, tum quoque, cum fuero uacuas dilapsus in auras, in una delle invettive indirizzate al nemico detrattore al quale il poeta promette eterno odio, anche quando sarà svanito nell’aria vuota della morte. 67-76. La risposta di Cupìdo prende le mosse dalle ultime parole di Ovidio, recuperando le immagini delle fiaccole e delle saette citate ai vv. 59-60; su di esse il dio giura, modulando uno schema retorico, una ‘forma’ che marca solennità ed insieme ricerca di credibilità, con l’anafora del sintagma per mea tela (i tela di Amore anche a tr. iv 10, 65) che precede ora faces, variante di lampades di v. 60, ora sagittas, citate in ordine inverso rispetto a quanto aveva fatto nella sua rJh`si~ Ovidio giacente. Con una gradatio ascendens assai significativa, quindi, a torce e frecce il dio associa prima la madre Venere, infine il Cesare, cui è riservato un epiteto già usato a tr. iii 5, 46, dove il Sulmonese dichiara di nutrire buone speranze di salvezza dato che non ha attentato alla testa dell’imperatore, quod caput orbis erat (non passi inosservata questa assimilazione, peraltro non isolata nell’opera ovidiana, del caput del princeps al caput orbis): è lecito pensare che, nel nostro contesto, il prelievo intratestuale trascini con sé la valenza semantica dell’ipotesto. Ed ecco la dichiarazione solenne che il dio suπraga con un giuramento, comunque fatto sui proprî arma, tradizionalmente eroticizzati, a cui, in una fusione che dovrebbe suonare ossimorica, vincola, come si è detto, Venere ed il Caesar: egli non ha imparato nulla di proibito dal praeceptor Amoris, il manuale sulle arti dell’eros non contiene colpe, crimini. L’espressione te didicisse magistro recupera una gloriosa tradizione poetica, rifacendosi ad Hor. carm. iii 11, 1, Mercuri – nam te docilis magistro …, in cui il Venosino si rivolge a Mercurio che col suo magistero insegnò ad Anf ìone un canto capace di smuovere le pietre per impetrare un’ispirazione capace di catturare l’ostinato orecchio di Lide. Ovidio riattiva, con una certa ironia, resa garbata ma anche pole-

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mica dalla reminiscenza poetica oraziana, il concetto della Werbung del canto per accreditare alla propria poesia, egli dice con le parole di Cupìdo, quella capacità necessaria a smuovere il ‘petroso’ Augusto. Anche se nell’itinerario diacronico del sintagma si inserisce Verg. Aen. viii 515, dove il nesso è leggermente variato, sub te tolerare magistro, come Evandro dice ad Enea del figlio Pallante, che sotto la guida dell’eroe troiano imparerà a sopportare la milizia e la fatica onerosa di Marte, è assai probabile che Ovidio abbia guardato piuttosto al modello oraziano. L’assicurazione di assenza totale di crimen nel poemetto didascalico echeggia quanto Ouidius persona aveva dichiarato ai vv. 53-58. Amor parla da leader e smentisce il poeta ribadendo la non colpevolezza dell’Ars, ma sottolinea anche, invece, la gravità dell’error (Rosiello 452 sgg.) che probabilmente è stato error per Ovidio ma non solo per lui (per Giulia? Per Agrippa Postumo?). Al v. 73 quidquid id est (il nesso, di ispirazione virgiliana, Aen. ii 49, si trova in her. 19, 203) è attenuativo della responsabilità del poeta, che, comunque, nella propria rhesis non aveva mai accennato al crimen, addossando tutta la responsabilità della relegatio al carmen. La colpa dalla quale, come si diceva, Cupìdo scagiona Ovidio in qualità di autore dell’Ars (v. 70) ricompare, invece, pesantemente a v. 75, e però è già annunciata nel pentametro precedente, nec potes a culpa dicere abesse tua, dove il pleonastico tua è spiegato da Staπhorst 141 per la predilizione di Ovidio nell’uso dell’aggettivo possessivo posizionato nella clausola del pentametro; ma forse in questo caso col possessivo il poeta vuole caricarsi in propria persona e consapevolmente di una responsabilità; la recente congettura di Harrison 173-174, nec potes, a!, culpam dicere abesse tuam («alas, you cannot say that blame on your part is absent»), risente di un ipercriticismo che non restituisce verità; a her. 19, 106 si legge fataque sint culpa nostra priora tua!. Il nesso crimen obumbres (Owen 12-14 elenca i loci in cui il poeta usa i termini crimen ed error, complessivamente 25) rimanda ad her. 17, 49-50 [edd. Palmer e Dörrie], nec ullus error, qui facti crimen obumbret, erit, «non ci sarà errore che mascheri il mio colpevole comportamento» (Elena a Paride), e a Verg. Aen. xi 223, magnum reginae nomen obumbrat, «lo protegge il gran nome della regina» (Drance recrimina sul fatto che Turno continui a nascondersi impunemente). L’uso del verbo, nel valore con cui giustamente lo classifica l’old in 2b, «to screen, cloak», fissa una forte consonanza con le due occorrenze precedenti, con le quali è possibile stabilire contiguità non solo lessicale ma anche e soprattutto tematica (la somiglianza tematica prevale di gran lunga sulla opposizione o estraneità tematica): Ovidio aveva nel passo delle Heroides preso spunto dal passo eneadico, per esprimere un tentativo di occultamento di responsabilità, di dissimulatio; qui, a sua volta, palesemente ricorda il passo delle Heroides, riletto nel suo senso direttamente connesso alla sfera amorosa, a cui, forse nemmeno tanto sottilmente, si allude col recupero dei due termini, error e crimen, che, come un’icona, notoriamente semantizzano, sia pur nell’alone della misteriosa colpa, le ragioni dell’edictum di relegatio. Il dio dell’amore usa il linguaggio che gli è abituale, quello erotico, per esprimere, ora, una situazione che erotica in sé non è ma che ha qualche analogia psicologica con la situazione erotica, o, forse, deriva da una vicenda che implicazioni erotiche aveva avuto. L’Ovidio della poesia erotico-elegiaca diventa il classico di se stesso, e quel sermo funge da subarchetipo di una fraseologia che vuole farsi riconoscere nella sua nuova veste. Ovidio rievoca le origini dell’amore elegiaco ripristinandone il linguaggio. Questa strategia di scrittura rientra in un apparato paratestuale che marca costantemente la produzione esilica di un poeta che ribadisce la sua arte di un tempo nel momento stesso in cui dà l’impressione (falsa) di disconoscerla (con «falsa modestia» Curtius 97-100 titola un significativo paragrafo del v cap., Topica; cfr., poi, anche 170, 455, 512). È un atteggiamento che va oltre la superficiale ironia; si tratta di una forma di scrittura assai complessa, che si trasforma nell’arma vendicativa nelle mani dell’oppresso, comunque tolerante Augusto. 77-82. In risposta alla seccata osservazione di Ouidius persona che, ripetendo la battuta di Prometeo legato rivolta alle Oceanine nell’omonima tragedia eschilea, se eschilea è (Citroni Marchetti

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1999, 113 sgg.), rimprovera Cupìdo di averlo raggiunto sin nelle remote terre tomitane, vv. 25-28, con l’insinuazione che le ragioni risiedano in un malvagio desiderio di vederlo soπrire, il dio risponde di essere andato per risollevarlo dallo stato di prostrazione nel quale è caduto, alato ripercorrendo lunghi sentieri, come Fama a P. iv 4, 16, Fama, per immensas aere lapsa uias. Ma quelli non son luoghi sconosciuti al dio Amor, che per ordine della madre vi si era recato molti secoli prima per colpire con le sue infallibili frecce la fanciulla del Fasi, nella Colchide, Phasias (sost. di conio ovidiano: ars ii 103, 382; met. vii 298; Kenney 1999, 16-18; poi in Agatia Scol., A.P. iv 4 (3b), 15 [62], Favsia~ … nuvmfh) … telis fixa puella meis, v. 80: il riferimento a Medea rimanda alla poesia erotica ovidiana di un tempo, ad her. 12, Medea Iasoni; il tum primum uidi di v. 79, col quale si indica temporalmente l’intervento di Cupìdo su Medea, sembra voler risvegliare nella mente del lettore il ricordo del tunc ego te uidi (v. 31) ‘scritto’ da Medea a Giasone, col quale la povera fanciulla rievoca proprio il momento primo dell’innamoramento. Ma Ovidio risveglia anche la memoria di ars iii 736, iaculo fixa puella tuo est, commento fuori campo (Cristante 1998, 417) che annuncia il tragico epilogo di Procri. Ora, dice Amor, il poeta Ovidio fa che egli torni a visitar quei luoghi, lo accoglie ancora una volta nella sua poesia cioè. 83-92. Alla parola del dio Amore, che ha perduto i suoi connotati operativi in sede poetica, e che quindi può giovarsi di un ruolo da revenant riformato, la coscienza dell’esule demanda la notizia, ‘pagana’ per l’identità di quel totem, del trionfo di Tiberio in territorio pannonico (già, peraltro, annunciata nella prima epistola del II libro dei Pontica), nella quale si possono concentrare le speranze di una buona disposizione della famiglia imperiale ad accogliere le richieste dell’esule. Veniet … mollior hora per lui: l’espressione è prelevata da Prop. ii 28, 16, extremo ueniet mollior hora die, in cui si prospetta a Cinzia inferma l’arrivo liberatorio dell’ora estrema che le risarcirà i multa pericula aπrontati in vita (Fedeli 2005, 791), anche se almeno ammissibile è un vago riferimento, per antitesi, al celeberrimo grata superueniet quae non sperabitur hora di Hor. Epist. i 4, 14. Ma, come già in altri casi, l’espressione properziana era già stata da Ovidio risemantizzata: in her. 3, 44 leggiamo, infatti, [an] … nec uenit inceptis mollior hora malis? Briseide sconsolata si chiede e chiede al destinatario Achille se mai giunga un’ora più favorevole, una volta che le sventure abbiano avuto inizio. Non c’è dubbio che la battuta sconsolata di Briseide sia stata ispirata ad Ovidio dalla memoria poetica properziana, e non mi sembra che si possa dubitare che la battuta di Cupìdo nel contesto della sua rhesis ad Ouidius poeta sia venata di una sinistra allusione a testi il cui contenuto non sono animati da spirito positivamente consolatorio, quale si vorrebbe far apparire nelle parole del dio Cupìdo: si tratta di un amaro rimpianto misto ad un cruccio pacato dinanzi alla consapevolezza di una situazione veramente irreversibile, come Properzio, troppo pessimisticamente sembra, vedeva quella di Cinzia, e Briseide vedeva la propria. Allontani la paura Ovidio: il sintagma pone metus, creazione ovidiana, apre ben quattro esametri sulle complessive sei occorrenze del corpus Ouidianum; Augusto, a séguito del successo militare del figlio adottivo Tiberio, mitigherà la collera nei confronti del relegato riservandogli provvedimenti più favorevoli ai suoi desideri. Si tratta di un passaggio importante dell’epistola perché si collega in modo diretto la possibile attenuazione della pena per il relegatus al previsto cambiamento in positivo dell’umore dei componenti della casa imperiale grazie ad un felice evento bellico. Non è facile capirne il motivo: una sorta di provvedimento di clemenza in occasione di felici eventi militari? Si tratta di un evento bellico e basta, o ha qualche peso, per il poeta (s’intenda), che la vittoria arrida a Tiberio, l’ex marito di Giulia? Nella poesia di Ovidio, anche quella pre-esilica, per la prima volta si trova espressamente citato il nome di Livia mater (Barchiesi 2006, 104 e Thakur 181, nota 30). Qui, a v. 87, mater Liuia gaudet, il ricorso al termine parentale è in linea con il linguaggio u√ciale riconoscibile dal testo del Senatus consultum de Cn. Pisone patre del 10 dic. del 20 d.C. in cui alla ll. 113-114 si parla della massima devozione del principe erga matrem suam. Thakur 176 sgg. (con bibliografia) nota che

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solo dopo eventi eccezionali come la vittoria in Pannonia, l’a√damento del comando militare in Germania successivo alla disfatta di Varo ed il pronunciamento u√ciale di Tiberio come erede imperiale sulle monete, Ovidio sottolinea il ruolo di Livia come madre, legame tra il primo ed il secondo principe. È innegabile che la lettura dell’Id. 17 di Teocrito, L’Encomio a Tolomeo, incoraggia l’ipotesi di un’influenza sull’Ovidio autore dell’ ‘idillico’ quadretto familiare proposto al v. 83 sgg.; nel testo greco il lettore può apprezzare la versione poetica di una celebrata produzione iconografica, con l’esaltazione, tutta ellenistica (e cortigiana), di Tolomeo II Filadelfo, dal quale il poeta aspetta protezione uguagliandolo a Zeus, con la rievocazione ossequiosa del padre del sovrano, Tolomeo I Sotere, ed infine con la complimentosa presentazione di Berenice, moglie del primo, madre del secondo. Ai vv. 34-57 la regina è descritta come esempio per tutte le donne perbene, a 45 sgg. il poeta greco ricorda quanto fosse cara ad Afrodite che non le fece mai varcare l’Acheronte poluvstono~, «gonfio di lamenti», rendendola partecipe dei suoi privilegi. Una divinizzazione che l’esule avrebbe attribuito alla femina princeps in P. iii 1, 117 riconoscendole la bellezza di Venere e la fermezza morale di Giunone. Il titolo di pater patriae di v. 88 (cfr. anche P. i 1, 37), conferito ad Augusto, cui viene riconosciuto in maniera più concreta un potere di fatto già acquisito, si riferisce ad investiture risalenti all’anno 2 a.C. Ovidio aveva già inneggiato ad Augusto unanimemente elevato, da plebs, curia ed equites, e quindi sotto l’egida di una solenne u√cialità, a pater patriae in fast. ii 127 sgg., dove il titolo viene addirittura identificato con quello di pater orbis, che comporta la condivisione con Giove del nomen di hominum pater, ed esalta lo scarto con il virgiliano diuum pater atque hominum rex di Aen. i 65, ii 648, eredità dell’epos enniano tramandata da Varr. lL v 65, diuumque hominumque pater rex, 589 Flores = 591 Skutsch = 580 Vahl.2 (cfr. anche Macr. vi 1, 10), attributi del solo Giove. Ebbene, mentre nel passo dei Fasti (vd. anche P. i 1, 36) nella presentazione del principe il poeta procede comparativamente accostando a lui la figura di Giove associata a quella, moralmente discutibile, di Romolo (Barchiesi 1994, 71), qui il nome del principe, ugualmente, superlativizzato dal titolo di pater patriae, omaggio peraltro amplificato dall’agg. magnus, è a√liato a quello di pater ducis, cioè Tiberii. Ora, come ricorda Claassen 1991, 37, esattamente in quell’anno fu anche ripudiata Giulia maggiore (e relegata a Ventotene; Giulia minore nell’8 alle Tremiti), di cui, come si sa, Augusto era pater. L’apostrofe ad Augusto, allora, è in qualche modo associabile a quella del ii libro dei Fasti, da cui il poeta trascina la nota non esattamente edificante di un Augustus / Romulus, con la variante di un Augustus / pater Tiberii (Juliam repudiantis), che comporta anche il declassamento della qualificazione aggettivale, che, infatti, nel passaggio da sancte dei Fasti a magne delle ex Ponto fa registrare un’evidente deminutio, o, quantomeno, una presa di distanza da una leggibilità sacrale e religiosa. Dal gaudio che investe la famiglia imperiale l’attenzione si sposta sulla Città vista nella sua interezza: il compiacimento del popolo (per gratatur ThlL vi 2 2244, 10 sgg.) si esprime nel gesto rituale che rende profumati d’incenso gli altari (odoratis ignibus è iunctura esclusivamente ovidiana), non uno escluso (omnis ara); ma è proprio l’immagine delle arae che proietta il pensiero del poeta ancora sul più importante di essi, il uenerabile templum: così si è trasformata la reggia del principe che apre i suoi battenti (ben altri i faciles aditus [ad dominam] di Tib. ii 4, 19), e così si è trasformato il uenerabile templum presso Porta Collina, dove Lethaeus Amor (Hardie 2006, passim) sana i cuori a∫itti da Eros in rem. 549-551 (Est prope Collinam templum uenerabile portam, / inposuit templo nomina celsius Eryx. / Est illic Lethaeus Amor qui pectore sanat), diversamente dalle prescrizioni di Apollo in ars ii 497 sgg. («lasciui» […] «praeceptor Amoris, / duc age discipulos ad mea templa tuos, / est ubi diuersum fama celebrata per orbem / littera, cognosci quae sibi quemque iubet»). È l’apertura alla speranza che le preces di Amor e del suo vecchio praeceptor siano ascoltate: non leggo in nostras [preces] un pluralis maiestatis quanto una dualità, a questo punto indissolubile, di tutor e di assistito, di due entità che si sono da sempre riconosciute in quei due ruoli, anche se ora essi sono invertiti rispetto ad un tempo. Le preces stesse son ben altro e devono sortire ben

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altro eπetto dalle preces del poeta-amans, che con esse conquista la puella: il riferimento a Prop. i 8, 28 (preces, già citato) e a i 9, 11 (ualet) è d’obbligo. 93-94. Amor scompare nel nulla: lo assorbe l’ ‘aria tenue’ o ne scioglie la sagoma il ritorno della percezione reale del poeta. [Il commento del distico è stato supra associato a quello del distico 65-66 che introduce il discorso di Cupìdo.] 95-108. Ovidio finge di credere nell’appoggio che potrà ricevere da Fabio Massimo: una serie di adynata, su cui ho già su discusso, esclude che possa far assegnamento su una fondata speranza. Il particolare riguardo nei confronti del nobile destinatario accompagna, in maniera piuttosto variegata, come si vedrà, tutta la parte finale dell’epistola: il distico 99-100 contiene espressioni di ossequio e di stima per Fabio Massimo (vicine a quelle riservate a Cotta in P. iii 2, 103 sgg.), cui il poeta si rivolge con Anrede a v. 95, con accurata ricercatezza ritmica: l’esametro, olodattilico, è cadenzato dalle incisioni in T e P, ed impreziosito dalla rara ponctuation bucolique; spicca la clausola nobile namque, hapax della poesia latina classica e tardoantica, con la rarità di namque in fin di verso (pochissimi precedenti nelle Metamorfosi, due occorrenze in Virgilio eneadico, due nell’App. Verg., pochissime nella poesia epica d’età flavia); nel pentametro emerge il sesquipedale simplicitatis (la schiettezza è caratteristica mai riferita ad Ercole, qui citato come capostipite della gens Fabia), dattilo + trocheo, in una collocazione metrica che Petronio avrebbe apprezzato in sat. 132, 15, v. 2, damnatisque nouae simplicitatis opus, e in cui lo stesso Ovidio colloca posteritate a P. iii 2, 30; ricercata anche la uariatio che gestisce le qualificazioni del pectus di Fabio: un agg. e un genit. di qualità. L’enfasi dell’aggettivo Herculeae di v. 100 come dell’aggettivo Memnonio di v. 96 ha il sapore di una esaltazione celebrativa così smaccata da risultare artificiosa e, quindi, da tradire un’arguta autoironia, quella che nasce dalla seria perplessità che l’amico-parente possa veramente aiutare un esule che chiede una sede più agevole per la sua relegazione. Kenney 1965, 48, collegando il significativo asclepiadeo 14 dell’ode oraziana, [et] pro sollicitis non tacitus reis, «eloquente difensore di imputati in di√coltà», presentato come uomo pronto a rispondere ai richiami di Venere, ai vv. 107-108 dell’epistola ovidiana, ritiene che l’esule chieda di essere patrocinato da Fabio, «Take me under your protection». Credo piuttosto, dunque, che il collegamento con il carm. iv 1 del Venosino (la celebre renuntiatio amoris), innegabile per l’echeggiamento non casuale dell’oraziano namque et nobilis (v. 13) con l’ovidiano nobile namque di v. 99 (su cui cfr. supra), sia spiegabile con il tono rinunciatario nei confronti dell’eros, un tempo glorioso, che permea il canto del Venosino: anche Ovidio vive un’esperienza simile, e lo ricorda a Fabio allineandosi a quanto a questo già Orazio aveva detto. Le laudes Fabii (su questa gens fondamentali Syme 1978, 135-155 e 1993, 598-618; per la laudatio in fast. ii 193-474 Harries 150 sgg.) sono sviluppate negli ultimi quattro distici con una tecnica a contrasto che sorprende il lettore e lo indirizza verso il riconoscimento di un’allusività, sagace ed impalpabile insieme, che si avverte solo implicitamente nel testo, fondata, è vero, su una inequipollenza, costruita, quindi, su una non-reversibilità di entità opposte messe a confronto in distici alternati, ma è vero anche che il modo migliore di celebrare la leale generosità di Fabio non sarà quello di escludere dal suo patrimonio caratteriale e spirituale, ad es., gli inertia uitia, ancorché siano prerogative, queste, presumibilmente di altri personaggi. Dunque: ai vv. 101-102 Ovidio ripropone una personificazione a lui molto familiare, quella di Liuor, definito, con iunctura ardita e rara in epoca classica e postclassica (sarebbe stata poi recuperata solo nella poesia in distici tardo-medievale (Hild. Cen., centonista, e Hugo Mat.), iners uitium, per condannarne la codardìa e la sterilità che tiene lontana Invidia dai mores alti (la congettura di Harrison 175, mores non uescitur altos, non è necessaria, smentita da Ou. met. v 511-512, curribus auras / exit in aetherias). La profondità di questa callida iunctura avrebbe convinto Seneca che il sintagma potesse nel modo più perspicuo definire, tra altri difetti, l’inuidia in de tranq.

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animi 5, 3, inuidiam, mille alia inertia uitia (ed. Reynolds, Oxford, 1977), dove il filosofo osserva che «l’invidia e mille altri vizi che rendono inerti» (tr. Lazzarini, Milano, 1997) possono regnare in una condizione di vita fiorente e felice; o per definire la uoluptas, come fa in de ben. iv, 11, 5, inertissimum uitium, uoluptas, «that most slothful of vices, pleasure» (tr. Basore, Cambridge, 1935): al Rehm, articolista per la voce iners nel ThlL (vii 1312, 66) dobbiamo la citazione dei due luoghi senecani in cui l’agg. qualifica uitium; lo studioso, ibid. ll. 10-12, richiama l’attenzione sul doppio valore dell’agg.: ‘nequam, turpis’ e ‘impotens, infirmus’. Per rendere in termini ancora più sprezzanti Liuor, il poeta lo analogizza al serpente, latens ima uipera humo, appunto nascosto e strisciante sotterra. Ora, alla persona corrosa da Liuor, o se si vuole, a Liuor persona l’esule contrappone l’alto profilo morale e culturale (ingenio allude alla brillante pratica oratoria, per cui cfr. P. i 2, 67-68) del destinatario, Fabio Massimo, e della gens cui egli appartiene; l’antitesi è giocata su inversioni aggettivali e verbali: altos / sublimis ≠ ima; non exit / latens serpit ≠≠ eminet. Dal contesto e dal tono si direbbe che sia qui largamente anticipato quell’arricchimento, per la dimensione di Liuor, di quelle implicazioni politiche che Barchiesi 1994 33 individua conclamate nell’epilogo di P. iv 16 (vv. 45-48), ricordandone la presenza anche in casi precedenti (ad es., met. i 129-30). Anche la coppia di distici successiva, che, introdotta con ergo, si annuncia tanto conclusiva della precedente quanto, anzi, dell’intera epistola, è costruita su una griglia antonimica: Ovidio ora contrappone (l’at che apre il secondo distico della coppia conserva tutta la forza del senso avversativo avviato da alii di v. 105) i lati negativi di un potere dannoso, che lancia dardi velenosi e che ama farsi temere, alla disponibilità verso chi, come lui, chiede aiuto; spicula felle, già presente a P. i 2, 16 (cfr. anche tr. ii 565 sg. e Degl’Innocenti Pierini 2003, 132 [= 2008 90]), è recupero di un topos della poesia erotico-elegiaca: ars II 520, quae patimur, multo spicula felle madent, e 708, … spicula tingit, da cui è prelevato il participio, sono solo due dei molteplici riferimenti che consentono di verificare la massiccia uariatio che regola nella produzione ovidiana l’arte del ri-uso (Nagle 56-58 e nota 95). Il poeta esprime l’augurio di poter essere annoverato tra le persone cui Massimo voglia concedere il suo aiuto (vv. 107-108): il carattere sarcasticamente protrettico (noceant … optent … / … gerant) insito nell’attribuzione esplicita ad anonimi alii di essere portatori del male è estesa nella sommessa richiesta di aiuto al destinatario dell’epistola con la formula variata me esse … uelis. Lo studio della Quellenforschung fa registrare per il v. 108 due ipotesti: Prop. i 6, 28, in quorum numero me quoque terra tegat e P. iii 6, 38, et in multis me, precor, esse uelit; va da sé che, se P. iii 6 fu composta successivamente a P. iii 3, l’operazione contaminativa riguarda questa elegia, e riguarderebbe evidentemente iii 3 se iii 6 le fosse precedente. Augurarsi di essere nel novero degli amici di Fabio significa per il povero esule accordargli attenzione, quella che il poeta chiedeva all’inizio dell’epistola; è così che si può stabilire un raccordo, secondo la tecnica della Ringkomposition, tra prologo ed epilogo, riconoscendo al componimento una struttura accuratamente studiata. L’Ovidio-Prometeo più volte segnalato in questa epistola dai rilievi di Sandra Citroni Marchetti, indulgendo ai supplicia proprî o di intermediarî, diventa, almeno apparentemente, un anti-Prometeo; la sua non è una ribellione a Giove/Augusto, come a Zeus si ribella Prometeo, ma, forse, non è nemmeno una accondiscendenza: parlerei di una rassegnazione che si dibatte tra fierezza e velata acrimonia.

Epistola iii 4: Rufino - Canti di trionfo ed ispirazione poetica. C’è un ‘dio’ nel cuore e nella voce dell’esule

III 4 Canti di trionfo ed ispirazione poetica. C’è un ‘dio’ nel cuore e nella voce dell’esule «Caro Rufino, dalla città di Tomi ti a√do il mio Trionfo, per il quale chiedo l’indulgenza del lettore. Le mie fragili forze han bisogno del conforto del recensore, dell’indulgenza del lettore, come i malati necessitano dell’aiuto del medico. Il mio ingegno è infiacchito da una soπerenza che si è prolungata nel tempo. I fatti che altri raccontano per averli visti personalmente per me possono essere solo frutto di immaginazione; non ho goduto di quello spettacolo, del plauso della folla, che mi avrebbe infiammato lo spirito ed acceso l’estro poetico. Ma mi manca anche l’entusiasmo necessario ad ispirare canti di giubilo. Se gli occhi temono il sole a cui non siano più abituati, la mente non sa godere di una gioia che appartiene ad un passato troppo lontano e da troppo tempo dimenticato. Peraltro il mio panegirico arriva da voi in ritardo, ad un pubblico che ne ha già letti tanti, e che non può sorprendersi a leggere cose ormai trite. La lontananza ha reso tutto più di√cile, e più lento. Mi si lodi almeno la buona volontà, e di questa gli dèi si contentino; è essa che sopperisce le forze che mi abbandonano. Le parole di un altro Trionfo, prossimo, còlto presso il Reno, che ti invio in lettura, in realtà non sono mie; me le detta il dio che è nel mio cuore. Livia si appresti a partecipare con gioia alla celebrazione di un’altra vittoria in Germania. Che gli dèi concedano il plauso alla mia parola poetica ispirata al canto di eventi di là da venire.»

Testo - Traduzione p. iii 4

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4. RVFINO 5 10 15 20 25 30 35

Haec tibi non uanam portantia uerba salutem Naso Tomitana mittit ab urbe tuus, utque suo faueas mandat, Rufine, Triumpho, in uestras uenit si tamen ille manus. est opus exiguum uestrisque paratibus impar; quale tamen cumque est, ut tueare rogo. firma ualent per se nullumque Machaona quaerunt: ad medicam dubius confugit aeger opem. non opus est magnis placido lectore poetis: quamlibet inuitum di√cilemque tenent. nos, quibus ingenium longi minuere labores aut etiam nullum forsitan ante fuit, uiribus infirmi uestro candore ualemus; quod mihi si demas, omnia rapta putem. cunctaque cum mea sint propenso nixa fauore, praecipuum ueniae ius habet ille liber. spectatum uates alii scripsere triumphum (est aliquid memori uisa notare manu): nos ea uix auidam uulgo captata per aurem uidimus, atque oculi fama fuere mei. scilicet aπectus similes aut impetus idem rebus ab auditis conspicuisque uenit! nec nitor argenti, quem uos uidistis, et auri quod mihi defuerit purpuraque illa queror; sed loca, sed gentes formatae mille figuris nutrissent carmen proeliaque ipsa meum, et regum uultus, certissima pignora mentis, iuuissent aliqua forsitan illud opus. plausibus ex ipsis populi laetoque fauore ingenium quoduis incaluisse potest, tamque ego sumpsissem tali clamore uigorem, quam rudis audita miles ad arma tuba. pectora sint nobis niuibus glacieque licebit atque hoc quem patior frigidiora loco, illa ducis facies in curru stantis eburno excuteret frigus sensibus omne meis. his ego defectus dubiisque auctoribus usus

10 quamlibet lo p, Owen coll. Ou. tr. iii 11, 24, Richmond (cf. hic comm. ad loc.): quem libet B C le e bl s, recepp. André, Pérez Vega 14 quod B C, edd. : quem de e o t v, prabau. Luck: quid S 16 pr(a)ecipuum B2 C le e bl : pr(a)ecipu(a)e B bh d 20 uidimus C le bl s, Lenz, Richmond: scripsimus B (ex corr. in ras.) e, André, Pérez Vega : nouimus Housman 22 exclamatiue interpungendum post uenit puto, sicut André et Pérez Vega, ad ironiam dissimulantiamque exprimendas; firme interpunxit Richmond 27 mentis b bh2 (i.m.) k lo m v (cf. Ou. ars ii 378) : gentis B C le e bl s 29 fauore B C le e bl : fragore Heinsius 35 illa B C le e bl : ipsa Kenney

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4. A RUFINO Queste parole ti portano un non formale saluto: te le manda il tuo Nasone dalla città di Tomi, e ti a√da, o Rufino, un appoggio al suo Trionfo, se pur è giunto nelle vostre mani. È una piccola opera non pari ai vostri allestimenti; valga quel che valga, te ne chiedo protezione. Già robustezza è sanità, e non consulta Macaone: il dubbio del malato si rifugia nell’aiuto medico. Ai grandi poeti non serve l’indulgenza del lettore: restìo e schizzinoso che sia lo conquistano. Dolori prolungati hanno sminuito l’ingegno mio o forse, se l’ebbi mai, anche prima, gracili le mie forze, la vostra sincerità mi dà vigore; me la togliessi, tutto vedrei svanito. Sì, benevolo conforto sostiene tutte le opere mie, e quel libro ha proprio ben diritto d’indulto. Altri vati han visto e scritto del trionfo (assistere e memori annotare è pur qualcosa): noi di fatti a stento intuìti in giro con avido orecchio abbiamo avuto una visione: la fama supplì i miei occhi. Sentito dire e veramente visto originano, si sa, sentimenti simili o uguale slancio! Il fulgido argento, voi, sì, lo vedeste, e l’oro e quella porpora: non mi lamento che mi son sfuggiti; ma dei luoghi, delle genti sagomate in mille figure e già delle scaramucce si sarebbe nutrita la mia poesia, i volti dei re – nessuna prova più garante di lor coscienza – avrebbero giovato forse in qualche modo a quel poema. Proprio il plauso ed il gioioso consenso del popolo sanno riscaldare lo spirito, di tutti, e tanto vigore avrei attinto io da tal clamore, quanto dal suon di tromba “all’armi” profano soldato. Se anche di nevi e ghiaccio fosse il cuor mio e più gelido di questo luogo che patisco, quel volto dell’eroe gigante sull’eburneo cocchio ogni freddo dai miei sensi avrebbe rimosso. Privo di questo impulso e contando su dubbie fonti

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ad uestri uenio iure fauoris opem. nec mihi nota ducum nec sunt mihi nota locorum nomina: materiam non habuere manus. pars quota de tantis rebus, quam fama referre aut aliquis nobis scribere posset, erat? quo magis, o lector, debes ignoscere, si quid erratum est illic praeteritumue mihi. adde quod assidue domini meditata querelas ad laetum carmen uix mea uersa lyra est. uix bona post tanto quaerenti uerba subibant, et gaudere aliquid res mihi uisa noua est. utque reformidant insuetum lumina solem, sic ad laetitiam mens mea segnis erat. est quoque cunctarum nouitas carissima rerum, gratiaque o√cio, quod mora tardat, abest. cetera certatim de magno scripta triumpho iam pridem populi suspicor ore legi. illa bibit sitiens lector, mea pocula plenus; illa recens pota est, nostra tepebit aqua. non ego cessaui, nec fecit inertia serum: ultima me uasti sustinet ora freti; dum uenit huc rumor properataque carmina fiunt factaque eunt ad uos, annus abisse potest. nec minimum refert, intacta rosaria primus an sera carpas paene relicta manu; quid mirum, lectis exhausto floribus horto si duce non facta est digna corona suo? deprecor hoc: uatum contra sua carmina ne quis dicta putet; pro se Musa locuta mea est. sunt mihi uobiscum communia sacra, poetae, in uestro miseris si licet esse choro, magnaque pars animae mecum uixistis, amici: hac ego uos absens nunc quoque parte colo. sint igitur uestro mea commendata fauore carmina, non possum pro quibus ipse loqui. scripta placent a morte fere, quia laedere uiuos Liuor et iniusto carpere dente solet. si genus est mortis male uiuere, terra moratur, et desunt fatis sola sepulcra meis. denique opus curae culpetur ut undique nostrae, o√cium nemo qui reprehendat erit.

43-44 seclusit Korn 46 uersa ly/ira est B C le bl s, seruauu. André, Pérez Vega, inter cruces secl. Richmond : musa uenit d e mb, Fabricius, Lenz 51 carissima B2 e s : calidissima B C : gratissima le bl 55 pocula B C le e bl : carmina ba d 62 p(a)ene B C le e bl, seruauu. André, Pérez Vega, inter cruces seclusit Richmond, qui dubitanter pone uel pauca coniecerit : poma vg vh, recep. Burmannus (cf. Ou. her. 4, 29) 64 suo B C le e bl : tuo Ehwald : sua Némethy 65 uatum B C le e, dubitanter Richmond : uates bl h k mc osscr t: unum Kenney (cf. her. 9, 159; met. ii 98), quod fortasse rectum putat Richmond 74 iniusto B C le e bl : inuiso oc : incerto a : imuicto s va

p. iii 4 a ragione fo appello all’aiuto del vostro sostegno. Non conosco i nomi dei capi, dei luoghi non conosco i nomi: nessuna materia in mano mia. Quanto v’era di tali eventi che fama potesse riferire o qualcuno potesse scrivermi? Perciò, lettore, ancor più devi perdonarmi, se vi trovi errori o omissioni mie. In più, a meditar sempre il lamento del padrone, a malapena a canti di gioia s’è volta la mia lira. A malapena dopo tanto cercar mi venivano giuste parole, e cosa nuova gioir d’un che mi parve. E come gli occhi han paura dell’inusitato sole, così la mia mente era inerte alla gioia. Aggiungi che la sorpresa è il pregio più caro, e riconosciuto non è un servigio tardivo. Altre opere a gara scritte sul grande trionfo già da tempo, sospetto, il popolo legge e declama. Il lettore quelle coppe beve sitibondo, stufo le mie; acqua fresca ha bevuto ora, la nostra sarà calda. Non mi sono fermato io, non m’ha rallentato l’abulìa: spiaggia d’immenso mare estremo mi frena; fin che la notizia giunga qui e in fretta nasca poesia e nata vada a voi, se ne passa forse un anno. Non poco diπerisce roseti intatti cogliere per primo o con mano tardiva, quasi negletti; stupore se, spogliato il giardino di fiori còlti, non germoglia corona degna del suo eroe? Di questo vi prego: nessun vate i suoi carmi pensi abbia io criticato: per sé la mia Musa ha parlato. O poeti, mi accomuna a voi la sacralità del rito, se ai miseri è concesso essere nel vostro coro, parte grande della mia anima, voi, amici, siete vissuti: anche ora, pur lontano, in questa contrada io venero voi. Siano, dunque, al vostro favore rimessi i miei carmi; non posso parlare io per loro. Gli scritti di solito piacciono dopo morte, ché oπendere i vivi Invidia suole e sbranarli con dente ingiusto. Se viver male è un modo di morire, la terra s’attarda, e manca solo il sepolcro al mio destino. Infine, se anche da ogni dove mi s’incolpino opera e impegno, non ci sarà chi condanni il mio servigio.

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p. iii 4 ut desint uires, tamen est laudanda uoluntas: 80 hac ego contentos auguror esse deos. haec facit ut ueniat pauper quoque gratus ad aras, et placeat caeso non minus agna boue. res quoque tanta fuit, quantae subsistere summo Aeneidos uati grande fuisset onus. 85 ferre etiam molles elegi tam uasta triumphi pondera disparibus non potuere rotis. quo pede nunc utar, dubia est sententia nobis: alter enim de te, Rhene, triumphus adest. irrita uotorum non sunt praesagia uatum: 90 danda Ioui laurus, dum prior illa uiret. nec mea uerba legis, qui sum summotus ad Histrum, non bene pacatis flumina pota Getis: ista dei uox est; deus est in pectore nostro; haec duce praedico uaticinorque deo: 95 “quid cessas currum pompamque parare triumphis, Liuia? Dant nullas iam tibi bella moras. perfida damnatas Germania proicit hastas: iam pondus dices omen habere meum. crede, breuique fides aderit: geminabit honorem 100 filius, et iunctis, ut prius, ibit equis. prome, quod inicias umeris uictoribus ostrum; ipsa potest solitum nosse corona caput. scuta sed et galeae gemmis radientur et auro, stentque super uinctos trunca tropaea uiros. 105 oppida turritis cingantur eburnea muris, fictaque res uerae more putetur agi. squalidus immissos fracta sub harundine crines Rhenus et infectas sanguine portet aquas. barbara iam capti poscunt insignia reges 110 textaque fortuna diuitiora sua ........................................................................ .............................................................. 111 et quae praeterea uirtus inuicta tuorum saepe parata tibi saepe paranda facit” di, quorum monitu sumus euentura locuti, 114 uerba, precor, celeri nostra probate fide.

84 (a)eneidos B2 le e bl, recepp. André, Richmond, Pérez Vega : aenidos C : enedos B : Aeneae Quicherat : Aeneadum Ehwald, recep. Owen : Iliados Heinsius 95 triumphis B C le e bl : triumphi d : triumpho p 99 honorem B C le e bl : honores s 103 radientur B (e ex corr.?) le e : radiantur C bl 104 stentque B C le e : stantque bl a bh mb 106 uerae Riese, probauu. Luck, Richmond : uero B C le e bl, probauu. André, Pérez Vega 108 portet s h mc npc, edd. plerique : potat B C le : potet e bl : monstret Ehwald1 : ploret Ehwald2, coll. Claudian. 24, 24 110 post hunc uersum lac. unius dist. indic. Ehwald, qua re uersus carentes 111 et 112 numeri ordine computauit André; contra, inter alios, Owen et della Corte 111 tuorum B C le e bl : uirorum a ba

p. iii 4 Se anche mancano le forze, la volontà va lodata: di questa m’auguro, io, gli dèi si contentino. Grazie ad essa anche il povero viene gradito all’altare, e sacrificio d’agnella piace non meno che di bove. Ancora: di non diversa epopea il sommo vate dell’Eneide sostenne l’impegno gravoso. Per giunta le molli elegie non potevano sopportare l’enorme peso del trionfo con quelle ruote diseguali. Di qual piede servirmi ora non so decidere: un altro trionfo su di te, o Reno, è vicino. I presagi dei vati non son vuoti d’auspici: a Giove alloro si dia, ancor verde il primo. Non leggi parole mie: son relegato sull’Istro, acque bevute dai Geti non ben pacificati: questa è voce di dio; dio è nel mio cuore; questo predìco e vaticìno guidato da un dio: “Perché tardi a preparar cocchio e pompa ai trionfi, Livia? Ormai la guerra non ti consente indugi. La perfida Germania getta via le aste maledette: ormai ammetterai il peso del mio auspicio. Credi, e ben presto ci si crederà: replicherà l’onore il figlio, e, come prima, andrà coi cavalli appaiati. Tira fuori la porpora e gettala sulle spalle vittoriose; la corona sa riconoscere da sé il consueto capo. Ma scudi ed elmi risplendano di gemme e d’oro, e sopra i guerrieri in catene si levino tronchi di trofei. Di mura turrite sian cinte eburnee città, s’immagini la finzione vissuta a misura di verità. Squallido sotto il canneto fratto sciatti capelli il Reno porti ed acque del sangue trascolorate. Ormai i re catturati chiedono le barbare insegne e tessuti più ricchi della loro sorte ........................................................................ .............................................................. ed anche i beni che l’invitto coraggio dei tuoi, spesso a te procuràti, spesso a te bada di procurare”. O dèi, che ci avete ispirato il canto di eventi a venire, vi prego, plaudite le mie parole con celere avallo.

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1-6. A Rufino, destinatario anche di P. I 3 (Syme 1978, 83 sgg.), ove si mostra grato dell’invio di solacia, per quanto insu√cienti comunque accolti come un munus grande, Ovidio scrive questa seconda ed ultima lettera tutta intessuta di questioni letterarie, introdotte dalla notizia dell’invio di un poemetto encomiastico, Trionfo. Il poeta esule si augura, fiducioso, di riceverne un sostegno dall’amico e attraverso lui, presumibilmente, dalla cerchia letteraria cui appartenne un tempo egli stesso, sempreché quell’opera sia pervenuta a destinazione (in uestras uenit … manus, v. 4), aggiunge lo scrivente, per marcare lo stato di precarietà estremo che rende di√coltoso anche lo scambio epistolare. Il rapporto comunicazionale stabilito dal mittente colloca costantemente il destinatario dell’epistola all’interno del clan di letterati: in questi versi iniziali si distingue vistosamente il gioco chiastico in cui rimangono intercalati lo stile del ‘tu’ e lo stile del ‘voi’: tibi … tuus … faueas | uestras … uestris | tueare. Il lettore di ex Ponto i-iii già ha avuto occasione di imbattersi nella presentazione del Trionfo, nella prima elegia del ii libro, dove il tema della clementia Caesaris suggerisce l’accorata richiesta di un atteggiamento benevolo analogo a quello usato per Batone, capo dei Desidiati, ribelli della guerra pannonica, un confronto che appare irridente nella sua iperbolicità; ancor più impudente appare l’enfatizzazione quando si pensi che essa è, come si sa, elemento costitutivo dell’impianto panegiristico. Un accenno è ancora in ii 5, dove Ovidio ringrazia Salano, identificabile con molta probabilità col maestro di retorica di Germanico (Plin. n.h. xxxiv 47), per aver espresso giudizi ore fauente (v. 20) sulla sua poesia esilica, e gli raccomanda tutela sul Trionfo (v. 34), protezione che il grande amico di Germanico, particeps studii, avrebbe comunque esercitato, come il relegatus si aπretta a riconoscere. Un riferimento trasversalmente gestito è anche in P. iii 3, 85 sgg., in un contesto forse anche filtrato da una certa ironia: nella rhesis di risposta di Cupìdo al poeta il dio prospetta il momento in cui l’ira del Cesare si sarebbe placata e lo individua nella celebrazione del trionfo che avrebbe allietato l’intera famiglia imperiale (cfr., comm., supra). Ma il testo archetipico del motivo della celebrazione del trionfo e della sua consacrazione poetica, ricostruito con la strategia del mente uidebo (tr. iv 2, 57; cfr. poi P. iv 4, 45), del fingendo … longeque remotis / auribus (tr. iv 2, 67-68), e con le indicazioni fornite dalla fama, è, appunto, la seconda elegia del l. iv dei Tristia, con la quale è possibile fissare, qui, in P. iii 4, una fitta intratestualità, di cui si darà conto infra. In ogni caso nell’elegia dei Tristia si preannuncia, e con una buona dose di immaginazione, che può sembrare inavvedutezza ed è invece quasi una battuta di sfida, un trionfo sul campo per Tiberio che in realtà non ci sarebbe stato, o, se si vuole, sarebbe stato solo parziale dato il solo parziale recupero dei territori contesi in massacranti campagne precedenti (Dio lvi 24, 6; 25, 2-3), e che, anzi, in dimensioni più convenientemente soddisfacenti, sarebbe stato posticipato di qualche anno ad opera del suo ‘rivale’ Germanico, a capo dell’esercito stanziato in territorio germanico e capace di segnalarsi per il suo grande prestigio (Tac. ann. i 33-34). L’esperienza dell’esilio ha favorito l’ingresso nella poesia ovidiana di eventi storici appartenenti alla contemporaneità del poeta che ne gestisce la narrazione encomiasticamente ed assume pertanto il ruolo di vate (Roussel 39 sgg.). L’autore non esita a definire exiguum il suo opus, riprendendo a ragion veduta – occasioni ispirative e contesti sono, peraltro, gli stessi – un sintagma che si era inventato nel secondo proemio dei Fasti (ii 4, exiguum, memini, nuper eratis opus: Miller 1993, 153-164) e che rimarrà isolato in tutta la poesia latina sino al Medioevo: «opera modesta» ai tempi della composizione dei Fasti (sulla corretta collocazione del 1° e 2° proemio Fantham 1986, 243-281; Miller 1991, 143-144) era la produzione elegiaca, ora lo è il piccolo panegirico appena composto sulla vittoria in Pannonia: l’exiguitas è spostata dal gevno~ alla qua-

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lità dell’esito poetico. Ovidio sottrae la ‘piccola opera’ ad un impari confronto con i paratus (la forma ablativa paratibus è di esclusivo uso ovidiano) dei poeti del circolo. Breimeier, articolista della voce paratus, in ThlL a x 323, 21 sgg. destina il luogo alla sezione ‘pertinet ad sollemnitates varias’, sottintendendo pompae triumphi, e comunque ne evidenzia lo stesso isolamento in questa valenza metapoetica; André 168 richiama il v. 95, pompamque parare triumphis, e considera forse non improbabile il gioco di parole paratibus impar; old, s.u., 2 a, cita l’occorrenza ovidiana e spiega il lemma: ‘equipment, appointments, trappings, paraphernalia’; Syme 1978, n. 1, infine, richiama l’attenzione sulla specifica valenza del termine in senso tecnico, ‘sfarzo’, in campo «military or regal», e rimanda a Sall. hist. fr. i 88. I primi tre distici, dunque, consentono al lettore, informato sul nome del destinatario, del mittente e del luogo di provenienza dell’epistola, un immediato accesso alla tematica in essa sviluppata, di natura metapoetica, ruotante attorno al motivo, consueto, della di√coltà ispirativa alla quale la relegatio condanna il poeta. A questo Leitmotiv fondamentale sono associati l’annuncio della composizione e dell’invio a Roma di un poemetto dal titolo Trionfo, come s’è detto, il riconoscimento della pochezza qualitativa di questa prova poetica conseguente allo status di relegatus, l’improponibilità di un confronto con le opere scritte nell’Urbe, la richiesta di protezione: ut tueare rogo. Questo appello, accorato, che chiude il preambolo e che nel contenuto e nello spirito fuoriesce dai limiti che la convenzione epistolare prevede, a mio avviso, ha un peso molto importante custodendo una significativa istanza, che, data la situazione, non può che essere implorativa: è la richiesta, tutt’altro che velata, ma anche tutt’altro che profondamente sincera, che l’opera sia sottratta ad una censura di pubblico e di critica che Ovidio teme possa essere inflitta, in quanto considerata di livello assai inferiore a quello di molte altre performances. Uno scadimento sensibile della sua quotazione letteraria indubbiamente non gioverebbe alla causa per la quale egli vive e scrive, l’acquisizione di una sede di relegatio meno disagiata. Ma si tratta di iniziative molto formali. La composizione del Triumphus è la dimostrazione di come un poeta possa rovesciare la propria coscienza artistica e la propria umana inclinazione, che insieme, di norma, piuttosto muovono alla scrittura di una recusatio; la composizione del panegirico epicheggiante è la testimonianza più evidente che il poeta dell’elegia, lieta o triste che sia, ha abiurato dai canoni imposti da un genere e, nel solo caso dell’elegia erotica, da una scelta di vita, fortemente selettivi, iniziatici forse, per aderire non solo ad un tema ad essi estraneo ma soprattutto ad un paradigma poetico visto sempre antagonisticamente. C’è da chiedersi se Ovidio abbia compiuto questa operazione mosso da un’ispirazione servilista nei confronti del regime, o, piuttosto, se non abbia voluto dar prova di una propria superiorità, allargando i confini contenutistici, ed ideologici, dell’elegia come gevno~, e/o anche ri-accostandosi ad una composizione katà stíchon, al verso eroico, non per dar prova di buona volontà, bensì con lo scopo di ostentare la capacità di maneggiare a proprio piacimento strategie compositive già da lui, con geniale originalità, del resto sperimentate con le Metamorfosi, ma ora fortemente alternative, anzi tradizionalmente oppositive sotto il profilo poetico, poiché un triumphus comporta evidentemente tra l’altro il canto di arma uirumque. La continua richiesta di comprensione agli amici critici serve più a mettere in bella mostra intenzione e risultato, consistenti nell’aver pensato e scritto un poemetto elogiativo, che non a denunciare l’eπettivo, sincero rincrescimento per una mediocre performance del proprio poetare. Gia Orazio (carm. iv 2) e Properzio (iii 4, presagio della vittoria di Augusto contro i Parti; iv 6, inno per la celebrazione della ricorrenza della vittoria aziaca a quindici anni dall’evento epocale) avevano tentato l’esperimento encomiastico del trionfo (De Vivo 77 sgg.) ma senza mai uscire dai canoni tecnici, per così dire, del loro poetare. In am. i 2 il Sulmonese, prendendo spunto dalla poesia encomiastica del successo militare, aveva cantato il trionfo del dio Amore, che con la sua onnipotenza domina su di lui completamente assorbito dalla passione erotica (tua sum noua praeda, Cupido, v. 19): ebbene, il poeta in P. iii 4, celebrando il trionfo

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del dux, riporta il linguaggio trionfalistico alla sua originaria declinazione, dopo lo straniamento compiuto nella seconda elegia degli Amores. S’impone, in questa sinossi di elegia lieta ed elegia triste, qualche anticipazione, una sorta di preannuncio, di determinati sviluppi di contenuto presenti in questa epistola a Rufino. Ovidio ora usa volutamente, con intenzioni allusive, in maniera ortodossa il linguaggio già snaturato allora per gli adattamenti erotico-elegiaci, quando il dio, populo clamante triumphum, si sarebbe posizionato ritto sul carro, in curru … stabis (i 2, 25-26). I ‘prigionieri’ sfileranno, egli cantava un tempo: haec tibi magnificus pompa triumphus erit (v. 28); ‘prigionieri’ altri che quelli che, sconfitti nelle campagne militari, procederanno in mesto corteo nel trionfo del dux, nell’epilogo di P. iii 4, ai vv. 109-110. Con le mani legate dietro la schiena sfileranno nel trionfo di Amore anche Mens Bona e Pudor (vv. 31-32); la madre applaudirà lieta dal sommo Olimpo; lui andrà sul carro in auratis rotis (v. 42). In questa quarta elegia del l. iii ex Ponto, composta nello stesso anno 13 a distanza di alcuni mesi da quando a Tiberio fu nuovamente conferita la tribunicia potestas (Dio lvi 28, 1) e gli fu, quindi, riconosciuto il ruolo di co-reggente, Ovidio, invasato, canta ed invita Livia, v. 95 sgg., come più dettagliatamente si dirà infra, a non indugiare e a preparar cocchio e pompa ai trionfi. L’elegia ‘lieta’ si concludeva (vv. 51-52) con una richiesta del poeta al dio di non sprecare le sue forze con lui; rivolgesse Eros lo sguardo al suo cognatus Augusto: qua uicit uictos protegit ille manu (Prop. ii 16, 42, illa qua uicit condidit arma manu; McKeown 59 cita P. i 2, 123, uicit [i.e. Augustus] semper, uictis ut parcere posset). L’imitatio punta addirittura anche sulla uariatio che ha fondamentalmente carattere di allusività: in am. i 2 Cupìdo è invitato ad essere emulo di Augusto che sa usare clementia; ora, in P. iii 4, l’allusione a Cupìdo domabile è un indiretto invito al princeps ad adeguarsi alla clementia Amoris: una oppositio in imitando, chiave di una strategia compositiva ispirata dal sarcasmo, certamente più sfrontato dell’aπermazione di Ars i 217-218, dove la ‘citazione’ della celebrazione del trionfo è strumentalizzata per delineare un’occasione favorevole al corteggiamento, grazie al probabile influsso di Prop. iii 4, 15 sgg., dove il poeta-amante si propone spettatore del trionfo del divino Cesare, sì, ma in … sinu carae nixus … puellae: l’antonomastico elegiaco old style oπre, per definizione, suggerimenti utili nell’ambito dell’esperienza erotica; la variabile è nel modo di ‘viverla’. Insomma, si tratta di una reiterazione della strategia del ri-uso: Ovidio riconsegna il linguaggio del trionfo alla sua originaria, e naturale, destinazione, e così, in qualche misura, ‘corregge’ la decostruzione realizzata nella produzione giovanile, lì dove, per la prima volta nell’ambito della sua poesia, avvengono forzatura e deviamento di immagini (primitivamente destinate ad altri ambiti), che non sono di pura natura nominalistica, ma diventano ideologici. Quando, infatti, Ovidio, poeta eroticus, dichiarava che Mens Bona e Pudor avrebbero partecipato alla sfilata come prigionieri, compiva un’operazione in forte contrasto con la politica augustea – basti pensare che a Mens Bona era stato dedicato un tempio in Campidoglio nel 215 a.C. [Liu. xxiii 32], e che Pudor, aijdwv~, è il valore primario in assoluto nella scala etica delle uirtutes secondo l’ideologia augustea. Ma il poeta si aπrettava ad a√ancare come compagne di Eros Blanditiae, Error Furorque, entità implicitamente presentate come pericolose e oggettivamente riconosciute come degne di condanna: lo conferma la linea artistica seguìta dal Sulmonese che registra la nota curva erotica che prenderà la sua produzione elegiaca, fondata sull’insegnamento mirante a svincolarsi dai lacci d’amore: si pensi ai Remedia. Il contrasto, è innegabile ed era scontato, permane nella misura in cui Ovidio non condanna in assoluto, soprattutto non condanna sul piano morale ma su quello, pratico, dell’opportunità e della convenienza, la condizione esistenziale del seruitium amoris, semplicemente lasciando intendere che non gli appartiene, non rientra nella sua Lebenswahl. 7-16. Nella precedente epistola indirizzata a Rufino, la citata P. i 3, Ovidio, paragonandosi a Filottete, l’eroe Peanzio, che grazie a Macaone curò la sua ferita, ricorre all’immagine dell’illustre

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medico per dire di essersi sentito più forte grazie ai moniti dell’amico; risente questa seconda epistola dello sconfortante, infruttuoso trascorrer del tempo e della delusione di speranze vanamente nutrite; il poeta si avvale ancora del mito di Macaone, tace il nome di Filottete, perché ora i fini, ma soprattutto gli esiti, sono altri da quelli oπerti dalla vicenda paradigmatica del celebre arciere: il suo status di aeger (Pichon 81) non può trovare nessun giovamento nell’intervento del mitico eroe greco, figlio di Asclepio. I grandi poeti, come le persone che sono in salute, non hanno bisogno di Macaone; vi ricorre il malato incerto del suo male. Il tema della infirmitas («infirmi dicuntur qui amori resistere non possunt: Ou., Rem., 730», Pichon 169) è ben presente nella poesia esilica (e.g. tr. iii 14, 33-34; v 12, 29-30; P. i 5, 7-8); e, dunque, allo stesso modo il grande poeta non necessita di un lettore indulgente, placido lectore (a P. i 2, 101 sg. placidus iudex è Augusto); egli è capace di conquistarlo per quanto di√coltoso possa essere. Quamlibet inuitum di√cilemque tenent: l’ogg., sottinteso, è lectorem; la lez. quemlibet di vari uetustiores, ed in genere potiores, accolta da André, Pérez Vega, non si lascia in questo caso preferire a quella del non meno uetustior Parisinus Lat. 7993 (p, saec. xii ex.-xiii in.), e di lo adottata invece da Richmond, e prima ancora da Owen. Il confronto con tr. iii 11, 24, quamlibet ignaui praecipitata premunt (ed. André, «bl», 1968), segnalato da Owen in app., presenta una valida argomentazione a sostegno della lezione di p (e di lo) tanto più che l’uso dell’avv. è abituale in Ovidio, soprattutto nella poesia esilica (cfr., per es., mqdq, s.u.). La doppia desinenza accusativa è probabilmente responsabile, già nella fase alta della tradizione, della coordinazione al maschile. Ovidio riconosce il grande conforto oπerto dalla benevolenza degli amici disposti a comprendere che la ‘debolezza’ della sua scrittura è dovuta alla condizione di esiliato, che gli fa ottenere per la composizione del Triumphus un ius ueniae, sintagma che torna in epic. Drusi 271. Il Triumphus per il quale il poeta sta chiedendo benevolenza è definito liber, come liber è il resto della seconda raccolta di poesia dell’esilio: Pérez Vega 129 vede ‘ambigüedad’ nell’uso, bifocale direi, del termine. Si segnala in questo gruppo di distici la presenza di una terminologia medica, rilevata, peraltro, da Dionigi 576 già in i 3; il fatto che il poeta denunci che soπerenze prolungate abbiano ridotto le possibilità del suo ingenium, che parli di una infirmitas uirium a malapena risollevata (ualemus) dal candor degli amici sono elementi indicativi di un cosciente decadimento psico-fisico, che, però, non riesce a far tacere la voce poetica. La resistenza è appena rinvigorita dalla sincera solidarietà degli amici; è inevitabile che i longi labores fiacchino la forza di un uomo colpito duramente. Il nesso ha un sapore epico, come dimostrano le occorrenze in Lucan. i 90 e in Sil. i 139, ma non si può tralasciare di osservare che il sostantivo indica un motivo di primaria simbolicità che attraversa tutta l’Eneide, e rientra in una delle numerose metafore cui il poeta relegato ricorre per dire della tormentata crisi sfociata nell’irreversibile degrado dell’ingenium (Nagle 116, nota 12). 17-28. La condizione di esule diπerenzia decisamente Ovidio dagli altri vati, che, spettatori diretti dell’evento oggetto del loro canto, han potuto annotare e scrivere: spectatum e uisa sono i termini sui quali in maniera forte si denota la partecipazione diretta che il poeta assente considera evidentemente discriminante, e decisiva, più che altro per rimarcare la sua lontananza forzata da Roma. Memori manu, con cui si sottolinea l’azione dell’appuntare in tempo reale per poi ricordare, con lo scopo cioè di fissare mnemonicamente il fatto da evocare, e conservare le suggestioni e le sensazioni d’entusiasmo che si possono provare assistendo in propria persona all’evento, è un sintagma di conio ovidiano e di suo esclusivo uso: si legge anche a P. i 4, 56 (col comm. di Tissol 112 che rinvia a 89 per inuita … manu di i 2, 126; già Gaertner 2005 303), ma con altro senso, quello di ‘riconoscenza’ (old s.u. 5, ‘showing remembrance, unforgetting’), che si deve ad autentiche divinità quali sono Augusto e la madre Livia. Un uso dell’agg. contiguo a quello del nostro luogo, invece, si registra a P. ii 7, 33, memori … uersu (old s.u. 6, ‘preserving the memory, commemorative’). Contrapposto ad alii uates che hanno assistito allo spettacolo, il

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poeta dice di aver avuto una visione, nos … / uidimus con forte iperbato, attraverso ciò che ha potuto captare auralmente col soccorso della fama: il gioco contrappositivo è con molta evidenza esaltato dallo scarto semantico che si crea tra specto, ‘to watch as a spectator’ (old s.u. 3), e uideo (old s.u. 7, ‘to see with mind’s eye’), scarto espresso dall’antitesi, anche sintattica, per aurem / oculi mei: il senso della precarietà è evidenziato dalle forme avverbiali uix, uulgo, ma anche dall’agg. auida che non meglio poteva qualificare quell’orecchio teso a raccogliere notizie (tr. iii 12, 33 sgg.; iv 2, 67-68), un nesso destinato all’isolamento almeno sino a Claudiano, che lo avrebbe apprezzato in Stil. cos. 2, 47, nullis auidam rumoribus aurem. Ovidio, che aveva vissuto l’esperienza poetica dell’elegia erotica e l’esperienza ‘epica’ ed encomiastica della celebrazione nei Fasti, sceglie una posizione borderline in questa rinnovata formula recusatoria, che è oltre la recusatio tradizionale: non giustifica una rinuncia, che di fatto non osserva, ma giustifica la exiguitas del risultato. Il poeta dà l’impressione di mostrare un entusiasmo non inferiore a quello di chi ha direttamente presenziato al trionfo, ed osserva che il sentimento (di orgoglio) e la passione sono veramente gli stessi. Ma è solo apparenza. In realtà il pensiero è solcato da un prevaricante cupo sarcasmo: scilicet ha sfumatura ironica (Leumann-Hofmann-Szantyr ii 8372), come, e.g., in Ter. Andria 185, si. […] meum gnatum rumor est amare. – da. id populus curat scilicet! (Posani 109); Cic. pro Rab. 14, scilicet tibi grauiorem dolorem patrui tui mors attulit quam C. Graccho fratris; ad fam. iii 7, 4, scilicet contempsi te, nec potest fieri me quicquam superbius! (citato da L.-H.-S., ibid.), «guarda un po’ con che disprezzo t’ho trattato: non può esservi atteggiamento più arrogante!» (Cavarzere i 291). Egli non si lamenta di non aver visto, come invece hanno visto gli altri vati (uos uidistis, v. 23, e l’allitterazione non è casuale), brillìo d’argento e d’oro, sfolgorìo di porpore: la costruzione sintattica di questo pensiero e la collocazione delle parole all’interno del distico appaiono studiate con particolare cura: sogg. e vb. rispettivamente aprono e chiudono la strofe segnata inizialmente dal segno negativo, nec; la congiunzione quod con il cong. retta da queror (una costruzione prevalentemente prosastica: old s.u. 2b riporta luoghi da Cic., Caes., Nep., Liu., prima di Ovidio) apre il pentametro chiuso dalla sequenza di suono que-illaque-, che oπre, con i suoi significanti, lo strumento fonico atto a tradurre il disappunto. Il lessico ovidiano registra un caso di analoga sintassi in P. iv 14, 27-28, frigus, et incursus omni de parte timendos, / et quod pulsetur murus ab hoste, queror, dove i motivi del lamento, questa volta accompagnato da rimpianto, sono, come si può vedere, dislocati nel distico con criteri abbastanza simili. La scelta sintattica sarà ripresa da Val. Fl. v 628, non queror exstructa quod uexerit ipsa carina /uellera sacra … sperantem auertere […] («io mi lamento non che lei in persona [Minerva], costruita la nave, abbia trasportato colui che spera di rimuovere […] il sacro vello»), dove è conservata anche la costruzione al congiuntivo. A determinare il cruccio del poeta è il fatto che la mancata presenza fisica allo spettacolo non consente all’opera che egli scrive di godere di quell’ispirazione che sarebbe senz’altro venuta più vigorosa dalla visione diretta dei luoghi, delle sagome di un numero ingente di persone, dalla testimonianza oculare degli stessi scontri: Ovidio rimpiange di non aver potuto essere un novello Ennio autore dell’Ambracia, un ‘inviato di guerra’ liricamente ispirato, pronto a tradurre nel verso epico le eroiche imprese dei guerrieri e del loro comandante, a cui si sia assistito personalmente. Gli è mancato di guardare in viso i re in corteo, capirne i modi della coscienza: tutto questo sarebbe stato nutrimento per la sua opera. Ma anche questa aπermazione è velata dal dubbio. Lo sguardo dei re è la maggiore garanzia per comprendere la condizione della loro coscienza, vi si rispecchia la loro volontà, esso lascia leggere il senso delle loro decisioni, dice il poeta, recuperando arditamente un’immagine già usata in ars ii 377-378, dove, in un contesto decisamente diverso, si legge femina quam socii deprensa paelice lecti / ardet et in uultu pignora mentis habet. Superiore a quello di leonessa che allatta i cuccioli e di vipera schiacciata ignaro pede si rivela l’ardore della donna che, sorpresa nel letto dello sposo l’adultera rivale, mostra sul volto

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evidenti i segni del suo cuore. Il poeta vagheggia che, se da poeta-vate tra la folla acclamante avesse visto il volto del principe, ne avrebbe còlto le intenzioni benevole verso la sua opera, ma nel contempo è più propenso a nutrir dubbi, come fortemente rimarcano i due insistiti avverbi contigui, aliqua eπettivamente raro, di prevalente uso arcaico, a cui la prosa di Cicerone e la poesia di Virgilio erano ricorsi una sola volta (ThlL i 1598, 19 sgg.), e forsitan. Ed allora proietta il pensiero nel ricordo della femina tradìta del ii libro dell’Ars, e non sa immaginarsi se non un volto truce pronto a consumar la vendetta. Nuova nella storia della lingua poetica latina, invece, è l’immagine del nutrimento (nutrissent) del carmen, cui Ovidio associa quella del giovamento, iuuissent, anch’esso term. tecn. del linguaggio medico (ThlL vii 2 747, 30 sgg.); Properzio in i 12, 5 (per altri esempi Pichon 217) ed Ovidio stesso in met. i 496, accompagnando al vb. nutrio l’ogg. amores / -em (old s.u. 4, ‘to promote a feeling, a condition’, fouere direi), allargano lo spettro semantico del termine, peraltro ripreso con questo ampliamento di senso dai maggiori prosatori di i e ii sec. d.C. 29-32. Il consenso popolare è in grado di riscaldare il cuore, è laetus, quasi ‘fecondante’, per chi scrive; Ovidio stesso avrebbe tratto grande energia dal clamore sollevato dalla folla quanto ne può trarre il soldato rudis quando sente il suono della tromba che lo desta alle armi: l’autore degli Amores torna sul motivo analogico del miles (cfr. i 9), molto diversamente contestualizzandolo questa volta. Il sintagma rudis miles ha una tradizione erotico-elegiaca, dove assume sfumature diverse di significato: tra le altre Pichon 255 cita occorrenze in cui si presentano come rudes ‘qui primum amare incipiunt’: è il caso, ad es., di Ou. ars iii 559, hic rudis et castris nunc primum notus Amoris (il motivo della rozzezza si interseca con quello della militia); non meno interessante e congruo col nostro contesto è il caso di met. xiii 290, rudis et sine pectore miles, dove il concetto di ‘rozzezza’ del soldato è perfezionato con la coordinazione di sine pectore che indica mancanza di spirito (her. 16, 307; Hardie 2015, 256), proprio come l’Ovidio autore del Triumphus vuole proporsi; la iunctura è prelevata dalla prosa di età cesariana dove è attestata senza traslazioni: Cic. ad Brut. i 10, 2; Sall. Jug. 49, 2; il valore originario di ‘ignorant of’ (old, s.u.) è, infine, riscontrabile in Nep. Pel. i 1, rudibus Graecarum litterarum. Quand’anche il cuore sia stato indurito dalle nevi e dai ghiacci del paese in cui il poeta è costretto a vivere, che rappresenta il non-lieu, per usare in senso estensivo l’espressione di Augé, il non-luogo, una sorta di ‘u-topia’ (come avrebbe detto Thomas More) ma alla rovescia, in cui identità, relazione, storia si smarriscono (Faraci 354), la visione del volto del comandante che si erge superbo nel cocchio avrebbe rimosso ogni gelo dall’animo, ispirandogli versi adeguati alla circostanza. Purtroppo a tutto questo Ovidio ha dovuto rinunciare, non solo, ma ha dovuto anche far a√damento su fonti incerte, dubiis auctoribus, variante di fast. v 601, dove, infatti, l’agg. accompagnato dalla negazione ha senso positivo (‘certe’), variante, a sua volta, del properziano certis auctoribus di iv 1, 75: non gli resta, e sente di poterlo fare a buon diritto (iure), che chiedere la benevolenza (fauoris di v. 38 richiama fauore di vv. 15 e 29) di chi valuterà la qualità della sua poesia. Il credo rigorosamente stoico farà considerare uanus invece il populi fauor (nec uano populi fauore tangi, epigr. 52, 11) ad uno schivo Seneca epigrammista. Il messaggio più diretto è che l’ingenium prevale nettamente sulla téchne, o, meglio, che questa, se non sorretta dall’ingenium, non produce buoni risultati. Ma Ovidio vi associa un valore aggiuntivo lasciando intendere che l’acclamazione del popolo, indirizzata però al comandante in trionfo, accresce l’entusiasmo del poeta-vate e dà ulteriore linfa alla sua ispirazione. Il clamor popolare, da cui il poeta avrebbe tratto il necessario uigor, non è certamente rivolto a lui ma al dux. Insomma, la rumorosa partecipazione popolare in occasione della celebrazione del trionfo è ulteriore motivo di ispirazione per il poeta: solo se questi è tra la folla può assaporare l’atmosfera che si crea durante una manifestazione come quella di un triumphus, che, del resto, senza il concorso del pubblico non avrebbe nessun senso. La similitudine che pone nel miles rudis l’illustrans serve ad analogizzare la sua ‘ignorantia’ a quella nella quale giace il poeta lontano.

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33-44. In tr. iv 2, 47-48, hos super in curru, Caesar, uictore ueheris / purpureus populi rite per ora tui, la doppia allitterazione, in clausola esametrica ed incipit pentametrico, sembra svilire con la sua opulenza a servizio dell’apparato prosopografico l’esemplare epicità dell’Anrede al centro del verso, tra P ed H. Il poeta ora ritorna sull’immagine: la sola vista del volto del comandante che si erge superbo sul cocchio sarebbe stata capace di sciogliere tutto il gelo che si era formato nel suo cuore, più rigido del luogo della pena (l’aggiunta non è casuale), ma il poeta privo di questa esperienza diretta e di informatori che diano garanzie potrà cadere in errore, e per questo chiede il sostegno indulgente dei valutatori. Gli sono sconosciuti i nomi dei capi e dei luoghi: gli manca la materia nozionale per sviluppare adeguatamente il suo poemetto epico. Questa la sua grave ignorantia, che rende rudis la sua poesia celebrativa. La fama – personificata evoca il celeberrimo episodio eneadico del l. iv (v. 173 sgg.) – o le notizie passategli epistolarmente da chi potesse e/o volesse scrivergli erano insu√cienti a soddisfare le sue esigenze conoscitive: sembrano, in verità, dei pretesti, per quanto quelle omissioni ed eventuali errori pesassero ai fini della composizione di una performance epico-encomiastica. Il suo è comunque un cuore gelido, non riscaldato dal fauor populi: la contrapposizione di contenuti e di metafore che governa i vv. 29-30 e 33-34, richiama la memoria poetica di geo. ii 483 sgg., sin … / frigidus obstiterit circum praecordia sanguis, dove Virgilio ammette che, ove il freddo avvolgesse la sua ispirazione negandogli la possibilità di indagare poeticamente le parti della natura, si accontenterebbe di cantare campi e correnti irrigue delle valli. Con il locus virgiliano s’interseca la memoria di Hor. epist. i 3, 24-26, quod si / frigida curarum fomenta relinquere posses, / quo te caelestis sapientia duceret, ires («Ma se riuscissi a lasciare gli impacchi / che gelano i pensieri, avanzeresti / dove conduce il celeste sapere», tr. C. Carena; cfr. comm. Fedeli 2009, 899). Il confronto sul terreno delle opzioni nell’ambito dei gevnh, di natura perciò metaletteraria, allestito da Virgilio per introdurre la celebrazione di chi felix … potuit rerum cognoscere causas, è suggerita al Mantovano, che lo gestisce «perhaps with a degree of irony» (Thomas i 252), da Empedocle, ai|ma ga;r ajnqrwvpoi~ perikavrdiovn ejsti novhma (fr. 105 Diels-Kranz; cfr. poi Cic. Tusc. i 19, fino alla caricatura oraziana di ars poet. 464-466). La malizia ironica, riconosciuta, sia pur con l’attenuante ‘perhaps’, da Thomas, con la quale Virgilio difende la sua scelta poetica, priva di qualsiasi intenzione – è evidente – di oπuscare la sublimità lucreziana, è possibile riscontrare nel testo esilico: in fondo, pur non presente all’evento celebrativo e sulla base di notizie avute da dubii auctores, Ovidio ha comunque composto un Triumphus, e non lo ha poi ritenuto tanto indegno se lo ha inviato a Roma pur implorandone, con ritualità direi, il giudizio benevolo dei lectores. Il poeta costretto alla relegazione riprende qui, isolatamente nei Pontica (a v. 9 si legge lectore, a v. 55 e a iii 9, 43 lector è nom.), una movenza espressiva invece piuttosto frequente nei Tristia; numerosissime, poi, le occasioni in cui Marziale ricorre alla Anrede al lector (ma si vedano anche Fedro ed Apuleio, met.; Citroni 1995, passim). 45-52. Ecco ancora una ragione per chiedere ed ottenere il perdóno del lector che ravviserà travisamenti ed omissioni. Il poeta aggiunge (adde quod è nesso particolarmente caro al Sulmonese) ulteriori elementi di discolpa in questa autodifesa condotta con dovizia di giustificazioni a discarico: se la propria musa esprime con assiduità la Klagelied, la lirica del lamento e della soπerenza, è estremamente di√cile che riesca a reimpiegarsi, a trasformarsi (eppur l’ha fatto!), per adattarsi ad un canto lieto, quale al confronto è la poesia panegiristica. Le cruces apposte da Richmond a uersa lyra est (cfr. app. cr.) negano questa esegesi, mostrando una cautela forse eccessiva e forse ingiustificata; il senso fornito dalla lez. alternativa, musa uenit, esibita dal Gothanus ii 121 del xii sec. (d), dall’Etonensis 91 del xiii sec. (e) e dal Laurentianus plut. 36,2 del xv sec. (mb), ed accolta, ad es., dal Lenz, lezione che orecchia P. i 1, 20, Musa […] ad inuitos o√ciosa uenit, appare cronologicamente sfasato, perché nel nostro luogo, dove si fa riferimento ad un’ope-

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razione letteraria già compiuta, la già avvenuta composizione del Triumphus (uersa est, perf., è perfettamente congruo al messaggio), non può trovar spazio un pres. uĕnit, indicante, come nel citato verso di P. i 1, una norma permanente, o un fatto che si stia verificando hic et nunc. Molto stentatamente si trova il giusto linguaggio, uix bona uerba … subibant, come aveva già detto il poeta in tr. iii 13, 24, in tantis subeunt nec bona uerba malis; la novità del gaudium appare veramente uno straniamento. Nel contesto retorico e poetologico ora penetra il simbolo virgiliano: la lyra di Ovidio meditata querelas … est: il verbo richiama il noto secondo verso della prima bucolica, siluestrem … musam meditaris auena, ma anche buc. 6, 82, Phoebo … meditante; medita la sua lyra come quella della poesia elegiaca nello Pseudo-Tibullo: iii 4, 71, perlucenti cantum meditabar auena; come per l’anonimo autore di Lydia 6, mea summissa meditatur carmina uoce; come, infine, in contesto bucolico-elegiaco per Apuleio che in flor. 17, olores apud auios fluuios carmen senectae meditantur, si allinea ad un linguaggio divenuto evidentemente canonico. Il carmen laetum, il panegirico in questo caso, a cui con grande sforzo la lyra cerca di volgersi (uix uersa est), ricorda, infine, i carmina laeta ai quali gli Ausonii coloni ricorrono per invocare Bacco in geo. ii 388. Ma nel sintagma coniato dal poeta esule si realizza la commistione della memoria poetica virgiliana, appena evidenziata, con un’ascendenza già assolutamente ovidiana: querela è termine che si può definire ‘tecnico’ della poesia delle Heroides (Baca 195 sgg.). Il poeta procede, come spesso, per aforismi atti a fissare analogie: gli occhi disabituati alla luce del sole la temono; Seneca in de ben. iii 1, 5 sembra corrispondere come per epesegesi all’immagine ovidiana: uitiosi oculi sunt qui lucem reformidant, e non diversamente in Herc. fur. 653, hebetes … uisus uix diem insuetum ferunt, un confronto, quest’ultimo, che rivela la potenzialità tragica dell’espressione ovidiana. Allo stesso modo la mente del poeta esule, autore del Trionfo, si mostrava incapace di reagire adeguatamente dinanzi alla laetitia: ad laetum [uix uersa], v. 46; ad laetitiam [segnis], v. 50, sono espressioni che indicano una tensione rimasta però estranea alla condizione interiore del relegato. L’immagine della mens segnis, in una libera creazione sintagmatica, è suggerita da un passo del terzo proemio delle Georgiche di Virgilio, vv. 42-43, te sine nil altum mens incohat. En age segnis / rumpe moras: l’argomentazione metaletteraria pone a confronto generi letterari diversi, e sviluppa il concetto che alla base dell’ispirazione di ciascuno di essi c’è la Stimmung dell’Autore, una tematica di assoluta pertinenza con il contesto ovidiano. Scrivere in ritardo riduce fortemente la gratia, il debito di riconoscenza, che si deve al servigio, l’o√cium; è la novità a rendere particolarmente gradita ogni cosa: un altro aforisma, il distillato di una consumata visione del mondo, col quale Ovidio imprime il segno della legge di vita alla sua riflessione, conferendole il sigillo della verità indiscussa. Gratia … o√cio … abest ricalca in parte met. xiii 127, … neque abest facundis gratia dictis, ma più puntuale è l’intertestualità con Culex 223, heu quid ab o√cio digressa est gratia …?, anche se il contesto è assolutamente diverso. E l’o√cium, che è uno degli aspetti caratteriali della letteratura, che la definiscono e la motivano, si svilisce nella sua precipua finalità (Merli 2013, 57) perdendo di vigore e di attenzione se è compiuto tardivamente. Nonostante tutte queste riserve, però, Ovidio ugualmente si è impegnato nella stesura del poemetto epicheggiante. Perché? Per dar prova della sua capacità nonostante tutto, per sottrarsi, almeno in parte, a quell’esclusione a cui è stato di fatto condannato, per avviare un rapporto, che può apparire clientelare, con gli aspiranti successori di Augusto, probabilmente soprattutto Germanico (Knox 2004, 16); la finalità più autentica, però, per quanto riflessa, è invece quella di infliggere una bordata alla first lady. 53-64. È di√cile negare una punta d’ironia nel distico 53-54, dove il poeta mette a nudo certo servilismo intellettuale che investe una pletora di scriptores che a gara (certatim: il sarcasmo è accresciuto dal gioco allitterante con il contiguo cetera) hanno scritto sul magnus triumphus, un sintagma, nello stesso caso ablativo, consacrato nientemeno che dalla tradizione enniana, Liuius inde redit magno mactatus triumpo (fr. 319 Flores = 299 Skutsch = 301 Vahl.; Tomasco 48 riferisce

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il verso al secondo trionfo a Roma di Marco Livio Salinatore), di cui Ovidio conserva anche la collocazione metrica; inoltre il nesso sitiens bibit, che qui configura il lector, proprio ad Ennio è riferito, invece, da Properzio nella terza elegia, ‘romana’, del l. iii, v. 6, unde pater sitiens Ennius ante bibit, fortemente connotata, come si sa, sotto il profilo ideologico. Per l’esule, costretto lontano da Roma, è motivo di serio sospetto (suspicor), se non finanche scontata considerazione, che il pubblico già da tempo abbia letto queste opere rimaste, insieme col nome dei loro autori, sulla bocca di tutti: ore populi è un sintagma creato da Ovidio e da lui usato più volte; a met. xv 878, ore legar populi, la combinazione lessicale è assolutamente identica (un contesto ripreso a v. 89; cfr. infra, ad loc.); l’occorrenza di tr. iv 1, 68, illum [Ouidium] qui populi semper in ore fuit, lascia, inoltre, pensare che il poeta abbia recuperato l’immagine con una vena di mesta nostalgia. Il lettore, se pur si accosterà all’opera di Nasone, lo farà quando sarà già sazio dell’acqua fresca bevuta (recens aqua è un altro sintagma inedito), e troverà calda quella oπerta da un Trionfo scritto da un relegato, un testo che non farà più notizia quando giungerà a destinazione. Il motivo delle acque poetiche, con le debite variazioni sul tema, è frequente in contesti metaletterari della produzione esilica di Ovidio (Merli 2013, 16, nota 3). Il tema dell’aqua pota, qui trasposto in sede poetologica, e con questa sfumatura semantica ripreso con qualche variante a P. iv 2, 17-20 (Helzle 1988, 75 sgg.), ha un precedente espressamente erotico nello stesso Ovidio: am. i 6, 26, nec tibi perpetuo (lo stesso emistichio in Prop. i 9, 2) serua bibatur aqua (cfr. anche Petr. 71, citam aquam liberam gustabunt), luoghi in cui rispettivamente l’immagine concorre ad esprimere il seruitium o la libertas in amore; e il seruitium qui potrebbe essere sottilmente alluso ma non nell’approccio amoroso, bensì nel rapporto intrattenuto dal suddito col princeps. La grandezza della poesia, si ricorda a più riprese, è intrinseca al valore del prodotto, ma dipende anche dalla qualità del successo di pubblico (tr. v 9, 6-8; P. ii 6, 33; iii 2, 30). Ovidio, quasi gridando, si spoglia di ogni responsabilità sostenendo la sua innocenza: non è stato lui, non ego (si nota l’enfasi del pron. pers.), a fermarsi (‘otiosum esse, uacare’: ThlL iii 959, 1 sgg., s.u. cesso), non si è lasciato prendere da un’inertia che ne ritardasse l’operato; a bloccarlo è stato il lido tomitano. La distesa immensa di un mare all’estremità del mondo lo tiene lontano dalla realtà politica sociale conviviale di Roma. Sustinet in posizione centrale, preceduto dalla coppia aggettivale (aa) e seguìto dalla coppia sostantivale (AA), domina l’immagine del pentametro e catalizza l’attenzione sul suo valore semantico. C’è una connotazione negativa nel verbo, 1° dattilo del 2° emistichio del pentametro 58, che disegna lo stato di incarceramento in cui il poeta si sente; old s.u. 8 chiosa ‘to check an advance’, e cita, tra l’altro, Ou. fast. iii 652, sustinuit tacitas conscius amnis aquas. Indubbiamente il verso è pervaso dallo scenario desolante di questa distesa marina che nella immaginazione dell’esule, spaurito e disincantato insieme, appare sterminata; la stessa aggettivazione diversamente distribuita ricorre a P. ii 1, 23-24, dove si rappresenta Roma che con le sue mura imponenti (uastis moenibus) avvolge comprendendolo immensum orbem; ebbene, quella distesa marina eguaglia la distanza, incolmabile, che separa Ovidio dalla sua Roma, è il simbolo di una lontananza che non può essere annullata. Un rapido, freddo calcolo temporale dà la misura dell’irrecuperabile ritardo col quale l’esule può veder realizzato il suo proposito di partecipare poeticamente al trionfo: se ne va un intero anno tra a) l’arrivo della notizia, espresso con un sintagma tratto, recta uia, dal prologo dell’Hecyra di Terenzio, quom interea uenit rumor, v. 39, una intertestualità che farebbe pensare ad un’intenzione quasi commediografica, e quindi ironica nel contesto; b) la composizione, pure aπrettata dei carmina (properataque, sempre tra 3a e 4a sede, è di esclusivo uso ovidiano: her. 4, 147 e met. xv 748), che ricorda il sollecito richiamo mosso a se stesso in am. iii 1, 69, teneri properentur Amores; c) l’invio a Roma. Il calcolo è computato sul racconto del poeta stesso: partito presumibilmente verso la fine dell’ottobre dell’8 ed imbarcatosi nel mese successivo, raggiunse la destinazione nel marzo dell’anno successivo. Lo stesso motivo, ma per circostanze diverse, a P. iv 11, 15-16, dum tua peruenit, dum littera nostra recurrens / tot maria ac terras permeat, annus abit.

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La corona che si è riusciti a formare non è all’altezza del comandante di cui si celebra il trionfo, ammette il poeta: la corona, termine usato de laude poetica, accezione registrata da Gudeman, articolista della voce nel ThlL (iv 985, 19 sgg.), si carica di una valenza semantica doppia perché per il gioco creato da Ovidio essa indica anche l’emblema della maestà del dux. Si tratta di una immagine accuratamente preparata nel distico precedente da premesse tutte giocate sulla metafora botanica. Non c’è da meravigliarsi, egli avverte infatti (quid mirum …? sembra prevenire e bloccare sul nascere critiche evidentemente attese), se sono stati còlti tutti i fiori, e il giardino è ormai quasi del tutto spoglio; quel che vi può esser rimasto è stato, in realtà, lasciato dagli altri, in qualche modo trascurato perché insignificante, o ritenuto insignificante, come se fosse risultato meno attraente, paene relicta: a P. iv 2, 28 nella stessa sede leggiamo paene coacta manus, che non è certamente un locus similis ma conserva una certa assonanza ed una parziale identità sintattica col nostro luogo; dell’avv., raro nella poesia elevata, si registra una discreta presenza nella produzione ovidiana (Helzle 1989, 74). Anche i flores sono, come si sa, uno strumento metaforico per indicare l’ornamento retorico e/o poetico, come puntualmente registra Knapp in ThlL vi 936, 451 sgg. 65-72. Ancora una volta non si può evitare di avvertire nelle espressioni marcatamente lusinghiere attribuite alle prove poetiche di altri uates un sapore sottilmente ironico che una sospetta excusatio non petita forse maschera ma certamente non rimuove: Ovidio si aπretta ad allontanare l’impressione che le sue parole potessero nascondere allusioni nei confronti di qualche autore di carmina, ma in questo modo sembrerebbe ammettere implicitamente come tutt’altro che improbabile l’eventualità, accorgendosi, cioè, di aver eπettivamente urtato la suscettibilità di qualcuno; egli, dice, parla in difesa della propria poesia. Il suo torna ad essere l’atteggiamento del modesto poeta, ma è anche vero, nel contempo, che egli stesso ha più volte dichiarato che gli amici nominati nelle sue elegie esiliche hanno vita perenne proprio grazie al fatto di essere stati da lui ricordati. Aπerma di condividere con gli amici, poetae, i communia sacra, metafora religiosa, come già in P. ii 10, 17, sunt tamen inter se communia sacra poetis, e P. iv 8, 81 (Nagle 145-146; Merli 2014, 28-29), per poi schermirsi dichiarandosi miser e forse indegno di far parte del loro chorus (‘schola, ordo’, chiosa Reisch in ThlL iii 1026, 27), cui era ad altissimo titolo appartenuto, come, ma erano altri tempi, aveva detto in ars iii 534, hic chorus ante alios aptus amare sumus, e come da esule immagina che qualcuno dei compagni dica: «ubi est nostri pars modo Naso chori?», tr. v 3, 52. L’insistente presenza del motivo nella sua poesia esilica dimostra quanta importanza riponesse Ovidio, nel quale, comunque, si rifletteva un’esigenza comportamentale diπusa in età augustea, nella partecipazione del poeta alla vita sociale. Si vedano, infatti, ad es., anche i vv. 5-6 di tr. v 3, inter quos [poetas] […] / non inuisa tibi [Baccho] pars ego saepe fui; ii 58, pars […] fui turbae parua precantis idem; 158, cuius [i. e. patriae], ut in populo, pars ego nuper eram; iv 2, 16 (a Messalino), paruaque cuius eram pars ego nuper eques; P. i 7, 16, in quibus [i. e. cultores tui], ut populo, pars ego parua fui. Ovidio riallaccia idealmente rapporti di intima fraternità con gli amici, che definisce addirittura magna pars animae, ricordando l’espressione che Anceo usa rivolgendosi a Piritoo in un contesto di alta drammaticità in met. viii 406, «pars animae consiste meae […]». Il ricorso allo stesso termine nel pentametro, hac … parte, con ben altra destinazione semantica, serve a sottolineare la tragica diπerenza che intercorre tra quella stagione dell’esistenza in cui condivideva con gli amici una vita corale di poesia e questa in cui pur lontano nutre, per quanto velati di nostalgia, sentimenti di venerazione per loro: uos … colo; colere implica, qui, in riferimento a persone, e non a divinità, aπettività, come a P. ii 2, 97; ii 3, 79 (a iii 1, 78 esprime piuttosto il rispetto). L’uso incalzante di pronomi personali, aggettivi dimostrativi, quasi sempre collocati in stretta contiguità (mihi uobiscum, v. 67; uestro, v. 68; mecum, v. 69; ego uos, v. 70; uestro mea, v. 71), rende un’atmosfera di intimità e di complicità carica di rimpianto ma anche di ironico

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distacco. Ebbene, a loro, al loro fauor, cui tempo prima aveva a√dato preghiere (tr. v 3, 4748, uos quoque, […] pia turba […] / […] rogate), egli ora a√da il suo prodotto poetico, e, diversamente da quanto aveva dichiarato a v. 66, dove diceva di parlare a difesa della sua opera, ora asserisce il contrario, di non poter sostenere la difesa dei suoi carmina. Sono espressioni che non si annullano a vicenda, ma che valgono per il ristretto contesto in cui sono collocate; son soprattutto le parole di un uomo che, pur martoriato dal destino, conserva la propria dignità, venata di una infinita umanità, e minata da una condizione avvertita come indecorosa rispetto al glorioso passato. 73-76. Un velo di tristezza avvolge il pensiero di Ovidio, còlto dalla prospettiva della fine: vivere male, nell’infelicità e nella soπerenza, è un modo di rimanere imprigionati in una permanente condizione di morte (Degl’Innocenti Pierini 1999, passim), un motivo assai ricorrente nei Tristia (Faraci 350 sgg.; Brescia 2016, 65 sgg.); la terra colpevolmente s’attarda e rallenta il compimento del destino dell’esule che si coronerà quando troverà finalmente posto nel sepolcro. Ancora una volta l’autentica intenzione del poeta, quella di confessare il presentimento della chiusura imminente del ciclo della vita, è condensata in un sol distico, preparato dal precedente opportunamente funzionalizzato alla introduzione del tema. Gli scritti, egli argomenta, raggiungono in genere il successo dopo la morte dell’Autore, e ciò accade a causa del Liuor, personificazione della critica letteraria stroncatoria secondo la terminologia callimachea, che mira a colpire i vivi ed è avvezzo a sbranarli iniusto dente: il poeta recupera a piene mani dal suo repertorio le frequenti immagini che ha oπerto di Liuor, che assume i connotati di persona nella notissima elegia i 15 degli Amores, dove è definito edax a v. 1 (rem. 389; poi Lucan. i 288; Mart. xi 33, 3), e dove a v. 39 si legge che pascitur in uiuis; personificato anche in met. vi 129, non illud carpere Liuor / possit opus (anche qui carpere); non diversamente in tr. iv 10, 123-124, nec … Liuor iniquo / ullum de nostris dente momordit opus, che ricorda da vicino Hor. carm. iv 3, 16, et iam dente minus mordeor inuido (sulla personificazione di Liuor, ‘Envy’, Helzle 1989, 178 sgg., a proposito di iv 16; Claassen 1999, 162; Berrino 2010, 17-18, a proposito del pun Liuia/ liuor), che ispira, leggermente variato, il sintagma iniusto dente (dente degeneri in Sen. Phaedr. 493 con cui Liuor, ugualmente edax, assale la vittima). Di particolare interesse è il citato passo dei Remedia, perché anche in esso l’immagine di Liuor appare in un contesto in cui il poeta, come farà in quest’epistola a Rufino di qui a poco per il Triumphus, sta annunciando il proposito di impegnarsi poeticamente sul terreno di generi letterari nuovi, diversi dall’elegia, necessari a soddisfare nuove tematiche e nuovi contenuti: è facile pensare alle Metamorfosi ed ai Fasti. Ovidio si considera già defunto, una sensazione che, secondo il convenzionale stereotipo della metafora dell’esilio come morte, attraversa spesso i componimenti inviati dalla terra pontica (e.g., tr. iii 3, 29-36; P. i 7, 10, si uita est mortis habenda genus, Nagle 27 sgg. e soprattutto Claassen 1996, 583 e nota 44, 584; cfr. i più ampi rimandi bibliografici qui nel comm. a iii 1, 25-30). Sembra che al destino del relegato manchi solo il sepolcro: questa condizione, se anche solo psicologica, lo svincoli – questo il desiderio estremo – dai lacci di Invidia, sottraendolo ai suoi strali. 77-82. Come in un discorso tenuto davanti a giudici, infine, l’esule trae le sue conclusioni: potranno pur (questo valore concessivo di ut, a v. 77 e a v. 79, per cui cfr. old s.u., 35 ab, è frequente nella poesia del Sulmonese, e.g., her. 17, 121; tr. v 2, 21; P. iv 5, 8; più volte segnalato in questo commento: cfr. passim) arrivare critiche da ogni parte (undique dà idea di assolutezza), pronte a bersagliare la sua opera, il suo impegno letterario, nessuno (nemo dà altrettanta idea di assolutezza) potrà muovergli l’accusa di essere venuto meno all’o√cium. Ovidio opta per un linguaggio tecnico: il riferimento di culpo ad opera letteraria gode dell’autorevolezza dell’uso oraziano: in ars poet. 445-446 si legge uir bonus et prudens uersus reprehendet inertes, / culpabit

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duros (l’associazione dei due verbi anche in Gell. iv 1 (praef.), quodque eadem definitio culpata reprehensaque est, e v 19, 15, reprehendebat … culpauisse). L’epistolografo, inoltre, onora Properzio con l’omaggio di una citazione per esprimere il concetto che, quand’anche manchino le forze, bisogna comunque elogiare la uoluntas. Ma l’allusione al testo properziano, ii 10, 5-6, quod si deficiant uires, audacia certe / laus erit: in magnis et uoluisse sat est, importante proemio del ii libro in cui l’Umbro canta una recusatio (Fedeli 2005, 316-317), ipotesto fondamentale anche per P. iv 8, ‘proemio al mezzo’ (Galasso 2008a, 3), vuole anche stabilire diπerenze di posizione critica: il poeta esule non parla di audacia, ma molto più sommessamente di uoluntas (ut desint uires, tamen est laudanda uoluntas), come già aveva detto a P. ii 5, 31, illic quam laudes erit o√ciosa uoluntas, sempre a proposito della composizione di un Triumphus per Tiberio. Il testo di Properzio si rivela veramente incidente sull’ispirazione di Ovidio; il poeta umbro ai vv. 23-24 aveva scritto sic nos nunc, inopes laudis conscendere culmen, / pauperibus sacris uilia tura damus: lo scenario dell’oπerta del carmen agli ‘dèi’ da parte del cantore pauper ed incapace di raggiungere il culmine della gloria poetica è il medesimo, perché il relegato Ovidio riconosce nel precedente properziano il modo più autorevole per esporre quella excusatio. L’excusatio non è, però, ed è particolare questo tutt’altro che di scarso rilievo, seguìta da sostanziale, tradizionale (come pensa Claassen 1992, 108) recusatio, di cui conserva invece solo alcuni aspetti. Il ri-uso serve, allora, non a condividere pleno sensu l’‘ideologia’ dell’ipotesto quanto piuttosto ad esporre una posizione poetica che presume di superare quella contenuta nel testo-modello, col quale, dunque, l’ipertesto stabilisce un confronto agonale, in ogni caso mirante a modificare, in certo senso ad allargare i confini di uno stesso genere letterario per arricchirlo di nuove potenzialità, non più considerandolo inadeguato a quelle finalità, e non più considerando il poeta elegiaco inabilitato ad un canto di trionfo. D’altra parte già il Properzio del iv libro, come ho prima ricordato, aveva fornito prove significative delle possibili evoluzioni del gevno~. La uoluntas è ben accetta agli altari, agli dèi – così Ovidio esule auspica per sé –, che accoglieranno il sacrificio modesto dell’agnella con la stessa disponibilità con cui ricevono l’oπerta del bove immolato. Il linguaggio è quello già usato per negare un canto, con lo scopo, inverso, di annunciare la propria volenterosa adesione a quella nuova forma poetica, e tutto ciò, si noti, in un contesto di grave di√coltà ambientale e psicologica. Nella citata ottava epistola del l. iv dei Pontica tornerà il motivo della povertà, apparente a mio avviso, ma non del livello qualitativo della poesia bensì della poesia stessa (Galasso 2008a, 3), quale ne sia il genere, e s’imporrà il riconoscimento di superiorità del monumento, decantato in modo troppo appariscente perché quell’ammissione di supremazia risulti convinta, e quindi sincera: l’esule non innalzerà mai un tempio di marmo di Paro a Germanico (e Properzio aveva metaforizzato l’incapacità ispirativa nella insormontabile di√coltà di toccare il capo dei magna signa, le statue imponenti, v. 21), perché la ruina ha consumato le sue opes, escludendolo dal prestigio e dal censo di cui godono domus … urbesque beatae (v. 33). Qui Ovidio recupera un motivo molto rappresentativo della poesia erotico-elegiaca, che individuava allora nel carmen il mezzo che consentiva al cantore della puella un potere contrattuale (parua […] fateor pro magnis munera reddi, P. iv 8, 35); ora il cantore di un principe in pectore può testimoniare suis opibus, cioè con la potenza della sua poesia, il grande valore dei numina. 83-90. Nello stesso contesto in cui si rivolge contro il Liuor mordax al v. 389 sgg. dei Remedia, su richiamati, Ovidio esibisce superba coscienza del proprio valore poetico, reclamando per sé in ambito elegiaco lo stesso ruolo ricoperto da Virgilio e rivendicando la stessa dignità di cui godeva il Mantovano nella sfera della poesia epica: tantum se nobis elegi debere fatentur, / quantum Vergilio nobile debet epos (vv. 395-396). Ebbene, anche nella nostra epistola a Rufino, dove, come si è visto, ancora l’esule si scaglia contro il Liuor per quanto più pacati siano i toni, troviamo un confronto con il sommo poeta, autore dell’Eneide: res quoque tanta fuit, quantae …, un distico

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costruito con una sintassi a tratti alquanto contorta (come, ad es., ancora a tr. iv 10, 1-2) e reso problematico dalla presenza della lezione Aeneidos, v. 84, considerata corrotta perché contra metrum, e non c’è dubbio che, soprattutto per le ragioni prosodico-metriche, su di essa cada pesante il sospetto della glossa; i casi di tr. ii 533, AL 558, 3, dove vale tra 4° e 5° piede la scansione Aenēĭdŏs, lo dimostrano, ma è forse il caso di segnalare il v. 8 della praef. degli pseudo-ovidiani argumenta Aeneidos, Aenĕĭdōs totum corpus ut esse putent (il quadrisillabo è nella stessa posizione metrica di P. iii 4, 84; vd. anche Pérez Vega in app.): la e potrebbe aver subìto correptio per analogia con la e di Aeneades (un tentativo, a mio avviso discutibile, di correzione è stato proprio quello di Ehwald con Aeneadum dip. da res). Si tratta, è vero, di poesia medievale, ma non va sottaciuta un’altra occorrenza prosodicamente analoga in Graecismus 22,51 di Eberhardus Bethuniensis, 1212 circa (una mistura non distica di esametri e pentametri), in cui a fine pentametro si legge Aenĕĭdŏs. Ovidio enfatizza l’impegno poetico che si è sostenuto per cantare un’impresa tanto importante, come quella compiuta da Tiberio, che sarebbe stato grande onus anche per il sommo vate, autore dell’Eneide: la nota di sarcasmo che attraversa questa espressione nella quale il confronto con Virgilio potrebbe risentire di una iperbolicità di poco dubbia irriverenza, mira in realtà ad un autoridimensionamento del ruolo di poeta-vate che Ovidio si è attribuito, e sul quale può esercitare una critica quasi giocosa perché tutti, a cominciare da lui stesso, ferma restando l’ammirata potenza artistica dell’autore dell’Eneide, ben conoscono la sua eccellenza. Ma non solo: è altrettanto evidente che nell’espressione ovidiana è contenuto anche un altro messaggio, portatore, come è lecito ipotizzare, di un’insinuazione ironica: la guerra vinta da Tiberio è una res altrettanto gloriosa della mitica, e sacra, missione compiuta da Enea (nulla cambierebbe se per res si intendesse l’impegno poetico). Dicevamo della sintassi contorta: la compresenza tanta ... quantae è in realtà una falsa costruzione correlativa; quantae, dat., come registra old s.u. subsisto, 1d «(with dat.) to stand up (to a burden, responsability, etc.)», vale et rei tantumdem onerosae: anche l’evento fu tanto grande, e far poesia su un evento altrettanto gravoso sarebbe stato un grande onere anche per il sommo Virgilio. Il genere elegiaco, secondo una metafora topica nei poeti augustei, non sarebbe stato in grado di reggere l’onere della celebrazione dell’immenso trionfo; il linguaggio è tecnico: gli elegi sono molles come i uersus a P. i 5, 14, la definizione del distico disparibus rotis richiama, con forte intenzionalità, imparibus rotis di ars i 264, che consente di riconoscere a questo ambito poetico, grazie alla sua specificità, la imprescindibilità di certo linguaggio; la combinazione di mollities dei versi e di rotae, che in Prop. iii 3, 17-18 metaforizzano la poesia tenue nell’immagine di prati so√ci da tosare con piccole ruote, risale appunto a questo distico del poeta umbro, mollia sunt paruis prata terenda rotis (Fedeli 1985, 131); il nesso uasta pondera è ripresa di fast. v 42, dove il sintagma indica l’«immensa congerie» (Canali) delle montagne ammassate con le quali i Giganti tentavano la scalata all’Olimpo e che Giove rovesciò addosso ai ribelli: la memoria poetica ha cercato nell’ambito di un contesto che esprimesse al massimo grado il senso del peso e della sua estensione. Ovidio sembrerebbe giustificare così un presunto abbandono del distico a favore del verso eroico. E di fronte ad un analogo dilemma egli si trova ora, dovendo decidere sulla scelta del metro col quale accingersi a comporre un altro trionfo, quello che in tempi prossimi dovrà essere celebrato per la vittoria sul Reno, fatidica frontiera portatrice della non lontana funesta memoria storica del disastro di Teutoburgo: quo pede utar ...?, espressione che leggermente variata nasce in Prop. iii 1, 6, in un contesto fortemente metapoetico quale è il terzo proemio (Fedeli 1985, 5556), quo... pede ingressi?. Siamo in prossimità della parte finale dell’epistola, nella quale sembra si concentrino i motivi che più autenticamente hanno ispirato l’intero componimento; al di là di una materia già più volte trattata, anche se con le dovute attente variazioni, è qui la vera novità di contenuti: l’annuncio della composizione, che per ora consideriamo vera o presunta, di un triumphus per Germanico, cui è strettamente vincolata la non secondaria sollecitazione mossa ad

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una Livia presentata come ancora guardinga, e quasi restìa ad approntare tutto quanto è necessario per aπrontare convenientemente l’evento del trionfo che riguarda Germanico. Ma quanto eπettivamente poteva essere motivo di gioia e di orgoglio per Livia il successo militare di Germanico che sempre più appariva, e tale sarebbe sempre rimasto, il principale rivale per la corsa al soglio del principato, per il quale ella pensava ed agiva solo nell’interesse del figlio Tiberio? I presagi dei poeti son carichi di auspici; in questa epistola i termini uates e poeta sono quasi sempre usati senza specifica distinzione; uates vale, in questo contesto, ‘indovino’, in quanto di potere divinatorio è dotato il poeta (sulla figura di Ovidio nelle opere esiliche come uates, sul suo fas e sul ius di Augusto McGowan 133 sgg.). Ovidio recupera un sintagma a lui particolarmente caro, che, prima che in tr. iv 10, 129, si quid habent igitur uatum praesagia ueri, infatti, si legge, praticamente come un’autocitazione, a chiusura delle Metamorfosi, v. 879 del l. xv (Hardie 2015, 625-628): siquid habent ueri uatum praesagia, uiuam, quando con spirito enniano (epigr. 9-10 Warmington) profetizza per sé, in un rapporto «per così dire orizzontale e vitale con un pubblico di lettori» (Nicastri 14), fama eterna, immortalità, perché l’opera che ha appena portato a compimento godrà di perenne lettura nei secoli, ore legar populi, come ora ripete in questa epistola a Rufino a v. 54, cedendo ad altri scriptores un primato che un tempo era stato assolutamente suo. Ovidio avrà ricordato nostalgicamente la sfragiv~ di alcuni anni prima, che irrobustisce l’inerente significato nei riecheggiamenti oraziani evidenziati a suo tempo da Paratore 193-194 (soprattutto carm. iii 30, «insieme con spunti derivati dall’a√ne ode ii, 20»). Le parole presaghe dei poeti sono di buon auspicio, non irrita uotorum (con la litote si cerca un credito mal sperato), nesso che sarebbe piaciuto a Stazio che lo ripropone leggermente variato in Theb. vii 314, numquam manus irrita -i, e xi 511, cuspis ... / irrita -i. E per l’avveramento di questo auspicio il poeta dice che bisogna oπrire a Giove alloro quando ancor fresco è quello che gli è già stato donato, dum prior illa uiret, con la celebrazione del successo pannonico; questo alloro che il poeta si accinge ad inviare dev’esser verdeggiante primizia, e lo sarà non solo sotto il profilo temporale. Bisogna comporre il canto del trionfo precedendo altre performances. La metafora è chiara: Ovidio conta di oπrire a Giove/Augusto la corona d’alloro, una pianta che avvolge le augustae fores della casa che ha meritato perpetui trionfi, come egli stesso dice in tr. iii 1, 39 sgg., un passo che culmina in un’espressione ripresa, con qualche variazione, nella nostra epistola: utque uiret semper laurus, v. 45, dove addirittura si parla di una foglia sempreverde della laurus. Dunque, la foglia appena nascente della pianta indica la priorità temporale assoluta con la quale Ovidio intende lanciare a Roma una sua prova di poesia epinicia che inneggi alla campagna renana del giovane valoroso comandante, destinato a raccogliere l’eredità augustea, Germanico, per il quale si augurava la successione alla guida del principato già nell’epistola a Salano, P. ii 5: succedatque suis orbis moderator habenis, / quod mecum populi uota precantur idem (vv. 75-76). Ma per abbattere i tempi ‘tecnici’ egli non può far altro che consegnare a questa stessa epistola a Rufino uno specimen del triumphus di Germanico, che, per quanto breve, in ogni caso arriverà forse in tempo sulle bocche dei lectores. 91-94. Ovidio relegato (summotus come in tr. iii 4, 41) sul Danubio, in ‘un territorio non su√cientemente pacificato’, espressione che ripete variando con una litote tr. v 7, 12 e P. ii 7, 2, male pacatis Getis, non saprebbe ricevere nessuna ispirazione per il canto epico; perciò le parole che egli pronuncia non sono direttamente sue. Sull’atipica costruzione sintattica, nec mea uerba legis, qui sum summotus …, che vede collegati il relativo seguìto da vb. alla 1a pers. sing. con l’agg. possessivo di 1a pers. sing. – altro caso, e.g., a tr. i 5, 41, causa mea est melior, qui non contraria foui / arma (André legge quo nel luogo dei Tristia, ma conserva qui la forma nominativa) –, richiama l’attenzione il comm. del Luck, ad l., che trova un parallelo negli ejpituvmbia greci. Claassen 1990, 111, più sottilmente, delinea una distinzione «between the first person “I” and his cause or his work […] the exile’s consolation lies in this kind of extension of his personality»,

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una spiegazione psicologica da estendere, evidentemente, al citato luogo di tr. i 5, a meno che non si pensi ad una sorta di constructio ad sensum. Una voce divina trasmette all’esterno la divina potenza che alberga nell’animo del poeta, e, guidandolo (duce deo, la stessa espressione gridata da Didone ad Enea in her. 7, 141), gli consente profezie e vaticini: si noti il diptoto dei ... deus, molto e√cacemente espressivo dell’eccezionalità della presenza olimpica nell’anima poetica, in questa sorta di parossismo ironico. L’aπermazione di questo status di forte precarietà, viziata da consapevole e perciò strumentale inesattezza storica, data la massiccia presenza locale greca, come ha sottolineato della Corte 1976, 66 anche sulla base della testimonianza di Ovidio stesso (mixta sit haec quamuis inter Graecosque Getasque, tr. v 7, 11; ammissione di un timore eccessivo ed ingiustificato in P. ii 7, 7-8), qui invece del tutto negletta, della insicura pacificazione del confine getico, precede l’annuncio trionfale delle campagne germaniche, condotte sul versante opposto dei limiti territoriali dell’impero. Ovidio sembrerebbe voler richiamare l’attenzione sul disinteresse del governo imperiale per la sicurezza dei confini orientali estremi del principato. Ecco, dopo questa sottile allusione, ora finalmente tutto è pronto per l’inizio del canto, avviato da una inaspettata Anrede, assai vivace, che mira a scuotere una supposta titubanza di Livia, indubbiamente atipica per il genere, nella preparazione del corteo trionfale. 95-112. La liturgia celebrativa del trionfo, ricostruita per uaticinium, appartiene ad una vicenda militare e ad una fase storica quinquennale, dal 9 al 14, da Teutoburgo alla morte di Augusto, sulla quale, come osserva Syme 1978, 62, le fonti letterarie sono in parte lacunose. Il poeta già ‘vede’ il solenne rito, vi assiste idealmente; questa volta non si espone all’accusa di errori od omissioni, perché non canta il déjà-vu (comunque da altri, non da lui), ma il di là da venire. Livia si attarda ad allestirlo, a prepararsi per parteciparvi, in realtà. Vocaboli e costrutti grammaticali e sintattici sono studiatamente scelti per finalità che sfiorano l’ironia: la contiguità, quasi onomatopeica (sulla Ovidian Lautmalerei Claassen 2008, 98 sgg.), currum pompamque parare, la serrata sequenza allitterante pom- pam- pa-, le forme plurali triumphis, bella, nullas moras: sono tutte movenze espressive miranti ad ottenere eπetti che non risultano di limpida riverenza verso la first lady. Ad un trionfo che si moltiplica, a campagne di guerra vittoriose che si susseguono ininterrotte la moglie di Augusto, la madre di Tiberio, soprattutto la nonna adottiva di Germanico, la femina princeps, alla quale il poeta, riconoscendole ormai un ruolo di u√cialità (Thakur 200 sg.), si rivolge in forma diretta con una secca Anrede, risponde con ripetuti indugi. La Germania ha dichiarato la resa: non è vero, non è ancora vero se sono solo auspìci, esiti che si verificheranno successivamente, per ora aspettative autoriali, ma il poeta chiede a Livia che alla sua fausta profezia venga riconosciuto il peso della verità, venga accordata credibilità, che di lì a non molto avrebbe ottenuto da tutti sulla base della verificabilità nell’annuncio degli eventi gloriosi. Una predizione già cantata in P. ii 1, 57-64, un ossequio, espresso già anche ai vv. 49-52 della stessa epistola, alla gloria del giovane comandante, in questa fase della campagna germanica a√ancato a Tiberio, e – è il caso di ricordarlo – dedicatario dei Fasti rivisti nell’ultima fase dell’esilio e della vita. Il successo di Tiberio, che di lì a non molto sarebbe stato avviato nell’Illirico su disposizione di Augusto a consolidamento della pace raggiunta in quella regione, sarà ripetuto (geminabit honorem, v. 99); il figlio della femina princeps, come nel precedente trionfo, ut prius, avanzerà iunctis equis, un’espressione che il ‘nobile cantore’ preleva da un contesto comico dei Menaechmi di Plauto, v. 862, equos iunctos iubes / capere me indomitos, e v. 868, mihin equis cunctis minare?: è la ‘scena di pazzia’ di Menecmo ii, in cui il giovane si spaccia per Cassandra invasata da Apollo, e la scelta del modello sembrerebbe contenutisticamente molto vincolata ed alludente ove il cantore relegato vesta i panni della Cassandra di turno. Il poeta esule pone sullo stesso piano il successo di Tiberio già acquisito sul campo ed il successo solo previsto; il più giovane Germanico è guardato con di√denza, come ben si sa, dalla consorte di

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Augusto perché insidiava la successione di suo figlio, o ne avrebbe comunque potuto indebolire il prestigio grazie alla giovane età e all’allarmante appoggio dell’esercito. Dopo questa significativa premessa il poeta invita Livia ad esibire apertamente il suo gioioso appoggio per la vittoria del figlio: tiri fuori, quasi disseppellisca (prome) la porpora, la tunica palmata (cfr. P. ii 1, 31 col comm. di Galasso 1995, 110), per gettarla sulle spalle del vincitore – avrebbe voluto tenerla nascosta?: prome reconditum / … Caecubum è l’invito di Orazio a Lyde in carm. iii 28, 2. La corona, opportunamente personificata, non vive i dubbi di Livia: essa sa riconoscere quando un capo è quello del duce vittorioso per potervisi posare. Un tripudio di bagliori illumina la rêverie del poeta che si concede una descrittività abbacinante del corteo, che avanza superbo dei segnali della vittoria: egli vede scudi ed elmi radiosi di gemme e di oro, trofei innalzati da pali d’albero ed appesi al nemico che procede in catene (cfr. Juu. 10, 133, truncis adfixa tropaeis lorica), edilizie urbane folgorate dall’avorio e solide di mura turrite: si tratta di immaginazione; coltivandola, Ovidio si ferma ad osservarlo (e a farlo osservare al lettore), ma il suo invito a prender come verità il frutto della sua visione è coinvolgente, come lo spirito che lo ha guidato in questa rappresentazione. È stato proprio questo spirito a consentire l’ospitalità da parte dell’elegia, disparibus rotis, di una materia nuova, sperimentalmente gestita da un genere letterario che, per un momento, torna a farsi lieto, ma diversamente lieto dalle esperienze del passato. Ovidio canta, come un oracolo, un nuovo trionfo per l’imminente vittoria sul Reno, ottenendo l’ispirazione dagli dèi; a loro ora chiede il plauso per le sue parole, e da quel plauso dice di attendersi rapida conferma, celeri ... probate fide: il termine tecnico fides (ThlL vi 673, 30 sgg.; 684, 73 sgg.: ‘de oraculorum eventu quo dati vaticinii fides comprobatur’), a conclusione della rJh`si~ a Livia e del uaticinium a v. 114, richiama l’espressione di v. 99, breui ... fides aderit, dove indica l’avallo che senz’altro la sua predizione riceverà presto dalla realtà dei fatti; a P. ii 1 trionfo pannonico-dalmatico di Tiberio e vaticinio del trionfo successivo, condiviso con Germanico, sono, come qui, due occasioni descrittive presentate consecutivamente ma preludono al lamento del poeta per la sua vicenda personale. L’operazione in Germania, nel 13, sarebbe stata condotta dal solo Germanico: Vell. ii 123,1, quippe Caesar Augustus, cum Germanicum nepotem suum reliqua belli patraturum misisset in Germaniam […]. Syme 1978, 58, nota 1 ricorda che Gelzer («re», x 439) riteneva che la prima acclamazione di Germanico fosse avvenuta nel 13 o all’inizio del 14. Questo ‘Trionfo’ ante litteram e sui generis è il manifesto di un poeta che, nel disincanto di una condizione irreversibile, lancia un messaggio subliminale, nel quale denuncia che se stesse a Roma il potere gli chiederebbe canti di trionfo, cui egli potrebbe adeguatamente rispondere, ma ora, irrimediabilmente lontano da Roma, nondimeno innalza quel canto, infarcendolo, però, di una vena sarcastica, assai sottile, ai confini tra il panegirico e la satira. Tra l’acquisizione «di un ruolo organico all’ideologia del principato», che gli concedesse il «diritto di sperare nel ritorno a Roma» (De Vivo 87), a mio avviso ormai comunque fuori tempo massimo, e la scelta di non sentirsi ed apparire un servo del potere, Ovidio rinuncia alla molteplicità dei possibili dosaggi intermedi ed opta per la dignità della storia della sua esistenza. L’elegia, ospitando lo squarcio eulogico, ma non solo, insito nel tema celebrativo del trionfo, non si é snaturata, anzi ha essa, intenzionalmente, alterato, in una geniale Kreuzung der Gattungen, il paradigma di quel genere poetico, producendone una sorta di sublimazione. Ovidio ha delineato questo trionfo ricorrendo in buona parte alla stessa rappresentazione di cui ha parlato a v. 23 sgg., compresa la sfilata dei re sconfitti che con le loro insegne chiedono vestimenti degni del loro livello, mostrano in volto i segni della fierezza; l’odio angoscioso che attraversa il loro sguardo già programma la vendetta ed avverte di una insperabile domabilità e di una inestinguibile sete di conquista e di potere. In tr. iv 2, 23-24 il poeta aveva già ritratto la diversa reazione dei re sconfitti in umiliante sfilata: et cernet uultus aliis pro tempore uersos, / terribiles aliis inmemoresque sui. La personificazione del Reno, ripresa ancora dalla seconda elegia del iv libro dei Tristia, vv. 41-42, di cui recupera il descrittivamente e√cace particolare macabro

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del sangue che altera e sporca la naturalità cromatica delle acque, corrisponde a quella tipica dei fiumi il cui capo con capelli sciatti era incoronato da canne; l’immagine dei capelli sparsi nell’ipotesto dei Tristia è attribuita alla Germania (v. 43) che ducis inuicti sub pede maesta sedet. La storia si ripete: Ovidio dimostra che l’edictum di relegatio non ha provocato mutamenti in relazione ai suoi orientamenti politici ed alle simpatie nutrite nei confronti della famiglia giulia. Il poeta esule mostra il suo consenso verso il prediletto di Augusto, il giovane Germanico Giulio Cesare, il figlio di Druso Maggiore e di Antonia Minore. L’autore dell’Ars, pubblicata, come si sa, tra l’1 ed il 2 d.C., due o tre anni prima, cioè, della forzata adozione di Tiberio da parte del princeps, quando questi vedeva nei rampolli del proprio casato i soli possibili destinatari del lascito politico dell’impero, aveva inserito nel i libro del suo ‘manuale’ un vero e proprio panegirico, vv. 181-228, per il diciannovenne Gaio Cesare, che sarebbe morto nel 4 d.C.: lo aveva apostrofato princeps iuuenum (ripetendo il titolo riconosciutogli dagli equites), cui aggiungeva auguralmente deinde future senum, v. 194; gli prediceva il prossimo trionfo nella campagna contro i Parti, con una descrizione scolastica dell’evento, corredata tra l’altro di presentazione dei duci sconfitti in catene, di personificazione del fiume, stavolta l’Eufrate, praecinctus harundine frontem, v. 223 (cfr. Prop. iii 4, 4). Dunque: il trionfo annunciato e descritto visionariamente in P. iii 4, 95 sgg. è una sorta di palinodia. La variante è associata al cambiamento nelle alte sfere della governance di Roma; in queste il ruolo che era stato del giovane Gaio Cesare, figlio di Giulia maggiore (figlia di Augusto) e di Agrippa, e nipote quindi del princeps, nel quale non è più possibile riconoscere il diretto erede al potere assoluto, è assunto da Germanico Giulio Cesare. Ma anche questo diritto trova una dura preclusione, ora nella conclamata presenza di Tiberio imposta dalla first lady Livia, la mater patriae, la femina princeps. Alle pp. 31-34 della Introduction dell’edizione oxoniense del ii dei Tristia (1924) Owen addebitava a Tiberio, non ad Augusto, la responsabilità della relegatio comminata ad Ovidio; e che Ovidio, simpatizzando per Germanico, si allineasse sin troppo fedelmente agli orientamenti augustei mi sembra considerazione molto sensata di Galasso 1995, 17, condivisa anche da Knox 14, nota 94. Nandini B. Pandey sostiene che Ovidio, lamentando il mancato arrivo a Tomi di notizie del trionfo, vorrebbe dimostrare che la provincia, soprattutto quella dell’estrema frontiera, è scarsamente informata delle iniziative propagandistiche del regime e degli esiti trionfali delle sue imprese, a tutto detrimento dell’immagine del potere augusteo, come, non diversamente, accade per il di√coltoso recapito della corrispondenza intercorsa tra l’esule ed i suoi amici. Il poeta oπrirebbe la soluzione in tr. iv 2 a√dandosi all’immaginazione e conferendo alla poesia un ruolo estremamente importante al riguardo, una funzione addirittura creatrice di ‘realtà’. Il poeta dimostrerebbe, più e√cacemente, con la descrizione del trionfo ai vv. 95-112 di P. iii 4, che la profezia di un futuro trionfo neutralizza in pratica il bisogno di una reale vittoria. Ma, la studiosa osserva, quelle popolazioni di frontiera, tra le quali i Geti stessi, barbari, un giorno saranno esse stesse incorporate nell’impero e faranno parte di quell’audience chiamata ad appoggiare il princeps. I trionfi immaginati servirebbero a dimostrare l’autenticità dell’esistenza del potere centrale e della sua solidità. Il carattere ugualmente imaginative del su citato trionfo che il Sulmonese celebra poeticamente nel i libro dell’Ars, in tempi in cui la sua esperienza di relegatio non è nemmeno lontanamente imaginative, però, a mio avviso, attenua la validità di questa ipotesi esegetica; a meno che la studiosa non ritenesse di estendere il supposto intendimento ovidiano ai tempi in cui veniva composta l’Ars, ma in questo caso si dovrebbe dare per certo che l’erotodidaskalos, pur vivendo a Roma, conoscesse e prendesse in considerazione la realtà di quei territori che, invece, ebbe modo di sperimentare solo a partire dai primi mesi del 9 d.C. (Kraus 76; Luck 1977, 8), e, infine, addirittura trovasse congrua giustificazione per quel tipo di valutazione storica all’interno del sistema di idee del vademecum sull’arte di amare. Una lacuna di un solo distico dopo il v. 110, indicata da Ehwald, e prevalentemente condivisa poi dagli editori (non l’accettano, però, ad es., Owen, della Corte; vd. app. cr.), non consente

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di leggere il probabile riferimento a Germanico che appare il soggetto dell’azione espressa nel distico 111-112, dominato dal gioco allitterante uirtus / inuicta nell’esametro, e dalla ripetizione dell’avv. saepe che apre ciascuno dei due kola del pentametro (Howe 87 e nota 19). Le traduzioni di della Corte 1974, 54 e della Iodice Di Martino 1989, 143, che prescindono dalla supposta lacuna, ed il commento di della Corte 1974, 133 non appaiono del tutto perspicui, né sembrano annullare le ragioni che inducono a stabilire l’esistenza di una lacuna. Ovidio ha potuto procedere alla entusiastica rappresentazione sulla base soprattutto della sua memoria visiva, quando avrà assistito alla celebrazione di un trionfo a Roma, o sulla base del sentito dire, ma gli strumenti espressivi, lo spirito ora sono stati diversi: è ricorso allo stratagemma della visione oracolare per ammantare oltre misura di novità e di fascino uno spettacolo quasi ordinario; e di questo si giova la stessa poesia, ora non più monotona ed aπannosa di lamenti, bersagliata dalle critiche, come è l’elegia triste nella coscienza e nei parametri estetici dello stesso Ovidio, che, del resto, lo confessa. Ma la più autentica valenza dell’oracolo forse non riguarda la vittoria di Germanico in sé, ma la auspicata ascesa al sommo potere del giovane comandante; l’esule non poteva prevederne il tragico epilogo siriaco, ma fu in grado di percepirne la condizione di pericolo. 113-114. Agli dèi ispiratori della profezia Ovidio chiede l’approvazione, il plauso, probate. Nella forma imperativa, che chiude il Trionfo, si cela un importante segnale per il lettore, che vi potrebbe cogliere la stessa significazione che è in plaudite, il classico invito dei poeti tragici e comici (Quint. i.o. vi 1, 52; Porph. ad Hor. a.p. 155, cfr. infra), e di loro uso quasi esclusivo, pronunciato nella parte conclusiva della pièce teatrale; frequenti le occorrenze in Plauto e Terenzio, ma si veda anche com. ant. pall. inc., crf 105 Ribbeck, reuoca fratrem plaudite. Le sole ulteriori occorrenze, in epoca classica, sono quelle di Hor. ars 155, dove si cita l’annuncio dell’attore in teatro della fine della rappresentazione (Brink 231), e di Ou. am. iii 2, 47, plaudite Neptuno, nimium qui creditis undis, ed anche in questo caso si tratta di un invito all’applauso, ma stavolta per l’inizio di un evento spettacolare, l’aurea pompa. L’esegesi dell’uso che Ovidio fa della forma imperativa, e, soprattutto, dello spirito con cui la impiega, in questo contesto non può prescindere dalla codificazione letteraria del più ‘istituzionale’ plaudite. Il poeta ha organizzato, del resto, una messinscena, a cui egli sa, o, ancora una volta, immagina che abbiano assistito gli dèi, e a questi ne chiede l’approvazione con una sorta di inuocatio, posta alla fine del canto, perché il ‘vate’ ora non ne sollecita l’ispirazione, già ricevuta, ma aspira al loro apprezzamento. Gli dèi dell’Olimpo e gli ‘dèi’ terreni hanno rispettivamente favorito (o, meglio, favoriranno) e realizzato (o, meglio, realizzeranno) la vittoria degli eserciti di Roma alla frontiera settentrionale dell’impero; gli uni e gli altri salutino con benevolenza la voce della poesia. D’altra parte, a riprova del doppio appello lanciato dal poeta rimane il fatto che la conferma, celere, celeris fides, che ora egli chiede agli dèi, come su accennavo, era stata chiesta a Livia, crede, breuique fides aderit, vv. 98-99, espressioni sublimate da quel comune significativo key-word che è fides.

Epistola iii 5: Cottae Maximo - Elogio dell’eloquenza

III 5 Elogio dell’eloquenza «Cotta Massimo, non è il caso che tu ti chieda chi sia il mittente dell’epistola che ti arriva. Se proviene dal Ponto, non può che essere di Nasone. Ho letto e riletto e apprezzato l’eleganza e la dolcezza dei tuoi discorsi, degni della facondia paterna. Purtroppo non ho potuto ascoltarli direttamente dalla tua viva voce. Fortunato chi ha potuto assistere personalmente alla recitazione e gustare la tua eloquenza. Gustare un pomo cogliendolo direttamente dal ramo è ben meglio che mangiarlo pur prendendolo da un piatto impreziosito dal cesello. L’errore che ho commesso non mi consente di continuare ad essere tra i giudici che un tempo apprezzarono la tua arte del dire; un tempo, quando facevo parte del collegio dei centumviri! Mandami sempre scritti tuoi. Parli frequentemente di me come facevi un tempo? Con la mente ti vedo ogni momento. Mi fingo di venire a Roma, invisibile a tutti, e di ascoltarti per godere della tua parola: mi sembra di stare nelle sedi del cielo, accolto dagli dèi; poi torno miseramente qui, nella terra pontica, non lontano da dove scorre lo Stige. Se non mi tocca il destino del rientro in patria, Massimo, strappami la speranza … disperata!»

Testo - Traduzione p. iii 5

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5. COTTAE MAXIMO 5 10 15 20 25 30 35

Quam legis, unde tibi mittatur epistula, quaeris? hinc, ubi caeruleis iungitur Hister aquis. ut regio dicta est, succurrere debet et auctor, laesus ab ingenio Naso poeta suo. qui tibi, quam mallet praesens aπerre, salutem mittit ab hirsutis, Maxime Cotta, Getis. legimus, o iuuenis patrii non degener oris, dicta tibi pleno uerba diserta foro; quae, quamquam lingua mihi sunt properante per horas lecta satis multas, pauca fuisse queror. plura sed haec feci relegendo saepe, nec umquam non mihi quam primo grata fuere magis. cumque nihil totiens lecta e dulcedine perdant, uiribus illa suis, non nouitate placent. felices quibus haec ipso cognoscere in actu et tam facundo contigit ore frui. nam, quamquam sapor est allata dulcis in unda, gratius ex ipso fonte bibuntur aquae, et magis adducto pomum decerpere ramo, quam de caelata sumere lance, iuuat. at nisi peccassem, nisi me mea Musa fugasset, quod legi, tua uox exhibuisset opus, utque fui solitus sedissem forsitan unus de centum iudex in tua uerba uiris, maior et implesset praecordia nostra uoluptas, cum traherer dictis adnueremque tuis. quem quoniam fatum patria uobisque relictis inter inhumanos maluit esse Getas, quod licet, ut uidear tecum magis esse, legenda saepe, precor, studii pignora mitte tui, exemploque meo, nisi dedignaris id ipsum, utere, quod nobis rectius ipse dares. namque ego, qui perii iam pridem, Maxime, uobis ingenio nitor non periisse meo. redde uicem, nec rara tui monimenta laboris accipiant nostrae grata futura manus. dic tamen, o iuuenis studiorum plene meorum,

Post iii 4 posuit ii 11 Richmond de qua dicens: «recte lib. iii eleg. v», et in app. «11 (= iii 5) hanc elegiam huc transferendam indicauit Froesch»; probau. Gaertner 2005 2-5; contra Helzle 2003 41 sq.; his uerbis posthac tertii libri quintam elegiam exhibebat: ‘liber iii eleg. v (recte vi)’ (de elegiarum ordine Richmond in praefationis p. xviii disseruit) : ordinem elegiarum ex codicibus seruauu. André et Pérez Vega quibus me adiunxi 11 h(a)ec feci B C le e bl : eπeci Heinsius 12 non … magis B C s : h(a)ec … minus le bl (magis blv) et alii : nunc … magis v2 : nunc … minus e 17 allata B C le e bl s : ablata g l p : oblata malebat Heinsius 21 at B le e bl : et C 24 in B C le e bl : ad Riese 29 legenda Burmannus, recepp. Luck, Richmond : legendo le e bl, André, Pérez Vega : loquendo B C sc: loquente Castiglioni (cf. u. 50)

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5. A COTTA MASSIMO Leggi l’epistola: chiedi da dove ti sia inviata? Da qui, dove l’Istro si congiunge con le cerulee acque. Citata la regione, va da sé ricordarsi anche dell’autore, il poeta Nasone leso dal suo stesso genio. Con più piacere ti saluterebbe lui, in persona; no, Massimo Cotta, i saluti te li manda, e dagli irsuti Geti. Ho letto, giovane che non disonori la facondia paterna, le eleganti parole che hai detto al foro stracolmo; anche se per molte ore con celere lingua me le son rilette, ne lamento la pochezza. più di molte le ha rese la frequente rilettura, e mi son piaciute sempre più della prima volta. Pur lette tante volte, la loro dolcezza non si disperde: novità non sono; a piacere è il loro vigore. Fortunato chi le apprese proprio mentre le recitavi e sì faconda voce gli toccò di gustare. Infatti, dolce il sapore dell’acqua portata, è vero, ma più piacevole berla proprio alla fonte; è più bello avvicinare il ramo e cogliere il pomo che prenderlo da un piatto a cesello. Se non avessi sbagliato, la Musa non m’avesse esiliato, l’opera che leggo la voce tua l’avrebbe proposta, e, com’ero solito, forse mi sarei seduto giudice delle tue parole, uno dei centumviri, e una più grande letizia avrebbe riempito il cuore mio, quando, attratto dalle tue parole, l’avrei approvate. Ho lasciato la patria e voi; se il destino ha scelto che vivessi tra i Geti inumani, per illudermi di star di più con te – si può – mandami, ti prego, spesso in lettura le prove del tuo studio, e conta sull’esempio mio, se non lo disdegni, anche se più giusto sarebbe lo dessi tu a me. Ché io, che già da tempo son morto per voi, o Massimo, col mio genio a fatica mi sottraggo alla morte. Tu ricambia; e non rare testimonianze del tuo lavoro ricevano le nostre mani: saran gradite. Di’, comunque, o giovane ben nutrito dei miei studi:

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ecquid ab his ipsis admoneare mei; ecquid, ubi aut recitas factum modo carmen amicis, aut, quod saepe soles, exigis ut recitent, quaeror, ut interdum tua mens oblita quid absit, nescioquid certe sentit abesse sui? utque loqui multum de me praesente solebas nunc quoque Nasonis nomen in ore tuo est? ipse quidem Getico peream uiolatus ab arcu (et sit periuri quam prope poena uides), te nisi momentis uideo paene omnibus absens; gratia dis: menti quolibet ire licet. hac ubi perueni nulli cernendus in Vrbem, saepe loquor tecum, saepe loquente fruor; tum mihi di√cile est, quam sit bene, dicere, quamque candida iudiciis illa sit hora meis. tum me, siqua fides, caelesti sede receptum cum fortunatis suspicor esse deis. rursus ubi huc redii, caelum superosque relinquo, a Styge nec longe Pontica distat humus. unde ego si fato nitor prohibente reuerti, spem sine profectu, Maxime, tolle mihi.

38 ipsis B C le bl : scriptis e 41 qu(a)eror ut interdum B (**** post interdum) C lo (q. et i.), dubitanter Richmond : interdum queritur le e bl lo2 : interdum tua mens queritur bh : quaeror? an interdum Riese, quod fortasse rectum putat Richmond : quaeror? et interdum Kenney (altero interrogationis signo omisso) 48 gratia codd. : gratus Luck • licet B C t : potest D 49 hac B C, Richmond, qui autem non improbandum hinc censet, coll. u. 55 : hanc le e bl 55 ubi B C e : ut Heinsius 56 nec B C e : non le bl 57 unde B C le bl : inde e

p. iii 5 in che mai essi ti destano il ricordo di me? In che mai, recitando agli amici un carme al momento composto, o, come spesso suoli, quando pretendi la recitazione, mi chiedo – poiché la tua mente talvolta smarrisce le assenze –: avverte essa, veramente, l’assenza di un nonsoché di sé? E come solevi molto parlar di me quando ero lì, anche ora il nome di Nasone è sulla tua bocca? Possa veramente morire violato da arco getico (e vedi quanto vicina sia la pena per lo spergiuro), se, pur lontano, non ti vedo quasi tutti i momenti; grazie agli dèi: la mente può andar dove vuole. Giunto grazie ad essa nell’Urbe – a nessuno visibile –, spesso parlo con te, spesso godo della tua parola; allora per me è di√cile dir che benessere, e quanto a giudizio mio brilli quell’ora. Allora, se si crede, nella sede celeste d’essere accolto tra gli dèi felici ho vaghezza. Quando di nuovo torno qui, lascio cielo e superi, e la terra pontica non dista molto dallo Stige. Se il destino mi reprime l’impegno del ritorno, toglimi, Massimo, una speranza che non si coroni.

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Commento

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1-6. I primi tre distici contengono ciascuno i dati informativi salienti della missiva secondo le convenzioni epistolari: luogo di provenienza, e quindi indirizzo del mittente, nome del mittente, nome del destinatario. L’avvio degli esametri, un dattilo sempre col tempo forte monosillabico (quam [legis], ut [regio], qui), e la struttura dei pentametri con puntuale corrispondenza sintattica tra parola in dieresi e parola in clausola (caeruleis … aquis | ingenio … suo | hirsutis … Getis) sono due modalità stilistiche rispondenti ad una retorica diplomatica, degradata ad una sorta di servizio erogativo di dati meccanici quasi da riportare sotto forma elencativa; si pensa alla compilazione di un pre-stampato, anche se la tecnica poetica sa imporsi sulla secchezza della fornitura del dettaglio conoscitivo. Una battuta dialogica, infatti, che lascia subito trasparire la presenza attiva del destinatario sulla ‘scena’, un ‘tu’ (quaeris?) comunque esplicitato in Anrede solo nel terzo distico, avverte il lettore della ricezione da parte dell’esule di una sua missiva, e gli permette, quindi, di interpretare l’elegia come una risposta. Ovidio riutilizza sapientemente sintagmi prelevati da fonti diverse, tra le quali figurano anche luoghi della sua stessa poesia. Di ciascuno dei tre kola su evidenziati, infatti, si registra un impiego nella produzione in versi, non solo ovidiana, e, in quest’ultimo caso, non solo esilica: caeruleis … aquis vanta il precedente di tr. i 11, 40, ipsaque caeruleis charta feritur aquis (ma si veda anche ars iii 126, nec quia caeruleae mole fugantur aquae), evoluzione di -is … guttis a met. iv 578 e di -is … equis a fast. iv 446, sempre nella stessa sede metrica [-is [= nigris] … equis avvolgono il v. 50 di her. 7]; l’agg. è assai variamente qualificante nella lingua poetica; Seneca ne avrebbe tratto ispirazione nella composizione di due anapestici: Herc. f. 132, iam caeruleis euectus aquis, e Ag. 69, Vbi caeruleis immunis aquis. Ingenio … suo, variante del frequentissimo, in Ovidio, -o … meo, si legge in am. iii 4, 2; fast. i 306. Il molossico hirsutis dopo dattilo iniziale si legge in Verg. geo. iii 231; Prop. iv 4, 28; Ou. met. xii 280; si vedano anche -os … capillos di her. 9, 63; -os … Getas di P. i 5, 74; di Getas in fin di pentametro si contano 18 occorrenze nelle opere ovidiane dell’esilio. Ovidio organizza una sceneggiatura che ha una sua teatralità, nella quale il mittente deluso trova spazio per denunciare con ironica amarezza la presa di coscienza di essere stato allora dimenticato da chi avrebbe dovuto riconoscerne subito l’identità dalla inequivocabile provenienza dell’epistola (cfr., ad es., P. i 7, 3; ii 10, 1-4 e Galasso 1995, 417). Sembra, nel grigiore del pessimismo dell’esule, che per Cotta, è lui il destinatario, il vecchio amico relegato da tempo sia una sorta di capitolo chiuso, non un pensiero all’o.d.g.. L’elemento geografico localizzante è l’Istro, il corso inferiore del Danubio, che si congiunge con le acque cerulee del mare, nominato ben 29 volte nella poesia esilica (26 volte chiamato Hister, solo tre Danuuius: Luisi 2001, 129), in incipit già nell’epistola ii 4 dal Ponto ad Attico, Accipe conloquium gelido Nasonis ab Histro, v. 1, e in tr. v 10, Vt sumus in Ponto, ter frigore constitit Hister, v. 1; il fiume è frigidus in Ibis 136, dum tepidus Ganges, frigidus Hister erit. Più volte Ovidio ha insistito sul carattere monotono della sua poesia esilica; qui ricorre ad un accorgimento che permette di ammirare la capacità della uariatio giocata sulla tecnica e non sui contenuti, obbligatoriamente sempre uguali e conseguentemente sterili di ispirazione. La citazione della regio suggerisce immediatamente l’identità dell’autore dell’epistola, quel Nasone danneggiato, laesus, aggettivo presente nel linguaggio della soπerenza delle povere eroine scriventi (her. 5, 4 [cfr. anche 104]; 10, 98), e quest’avvio non può non richiamare alla mente l’inizio dell’epist. Sappho Phaoni (her. 15, 1-4). Ma la menzione dell’Istro dalle cerulee acque serve anche a giustificare l’ennesima recriminazione per una sorte così avversa, velata stavolta anche da una patina nostalgica ispessita dal ricordo di un passato vissuto nello scambio di consultazioni poetologiche e di complimenti poetici.

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Proprio in quest’atmosfera di rimpianto, quam [i.e. salutem] mallet praesens aπerre, che riprende in qualche modo l’incipit di her. 18 (Mittit Abydenus quam mallet ferre salutem), si colloca il terzo distico il cui contenuto in altre epistole ha funzione di esordio: l’urgenza di manifestare il finto stupore (… quaeris?, e cfr. anche cur … rogas? di P. iii 6, 5-6: Kirfel 33-34) per il mancato riconoscimento dell’autore della missiva da Massimo ricevuta predomina sugli standard epistolari, e, nel contempo, è prova evidente della capacità variativa che il mittente esibisce e che è legata al tipo di rapporto che lo vincola al destinatario. Ora, in questo terzo distico Ovidio apostrofa finalmente Cotta Massimo (Syme 1978, 125 sgg.), con un saluto che avrebbe voluto rivolgergli non per via epistolare ma da vicino, come farà, ma solo per pura immaginazione, alla fine dell’elegia, codificandone la struttura ad anello. Ora non è possibile altrimenti: gli irsuti Geti, irsuti come a P. i 5, 74, epistola ugualmente indirizzata a Cotta – hirsutus è il liber a tr. i 1, 11-12 –, ecco il riferimento negativo evitato nell’ouverture, sono gli ospiti dell’autore della lettera, che con tecnica di Ringkomposition torna sul dato geografico cui è associata la formula di saluto, e quell’inarcamento tra i due versi del distico, salutem / mittit, sembra volerne superlativizzare l’intensità. 7-16. Ovidio – si deve presumere – ha letto (legimus apre dominante l’esametro, completato dalla lunga espressione vocativa al giovane ed espositiva delle sue doti retoriche), per averli epistolarmente ricevuti, i discorsi pronunciati da Cotta nel foro davanti ad un foltissimo pubblico, e l’impressione che ne ha tratto è veramente lusinghiera; la facondia del giovane, infatti, è assolutamente degna della sua famiglia; il poeta ha già lodato le doti retoriche di Messalla nella seconda epistola del ii libro dal Ponto, a Messalino, v. 51, facundi lingua parens. La litote non degener, anziché avere un valore attenuativo, ostenta piuttosto la ovvietà di quanto si va testimoniando, la scontatezza del dato di fatto; la costr. col gen. (Draeger 6) occorre anche in met. xi 315, non –r artis, Autolico, «il lupo stesso», figlio di Ermes, dal quale ereditò la capacità di rubare e di giurare il falso (Pind. Nem. 4, 25). La ricerca terminologica e la cura dell’organizzazione sintagmatica, uerba diserta, meritano una riflessione: la iunctura ha origine properziana, iii 23, 6, et quaedam sine me uerba diserta loqui (ThlL v 1379, 73-74): l’eleganza, ormai, in prossimità del dis­ cidium, ine√cace, che in altri tempi aveva fatto della parola dell’amans la fortunata Werbung per la conquista della puella, diventa nel molto diverso contesto ovidiano merce di riciclaggio per una eloquenza forense. Il cantore di Cinzia ha astratto il concetto della ra√natezza retorica dalla sua naturale sede u√ciale estendendone il senso, la funzione e la finalità alla sfera erotica. Ovidio riconsegna all’aggettivo la destinazione e l’ambientazione sue proprie, in grado di qualificare, ad es., contio, liber, lingua, littera, oratio, sermo (ThlL ibid. 1379, 66), e lo ha arricchito di un’ulteriore possibilità sintagmatica, che solo Properzio aveva sperimentata, però in chiave erotico-elegiaca. Ovidio stesso in tr. iii 11, 20, scrivendo [est aliquis qui] soluat … in mores ora diserta meos, ha conservato all’agg. il suo uso ortodosso unendolo al sostantivo ora, che nel contesto della nostra elegia a Cotta è utilizzato per indicare le eccelse capacità retoriche della nobile famiglia (patrii … oris, v. 7); chissà, forse non adoperate dall’oratore per perorare la causa del povero relegato! I due distici successivi sono giocati sulla dimensione della quantità: una serie di aggettivi, di grado positivo e comparativo, avverbi e costrutti sintattici indicanti tempo continuato, la forma iterativa re-legendo rinforzata dal contiguo saepe, la doppia negazione in rejet nec umquam / non sono gli strumenti retorici che ne corredano il valore semantico. Ovidio ha speso molte ore nella lettura dei discorsi di Cotta divorandone le parole, li ha riletti per provarne sempre nuovo diletto. Eppure il lungo tempo impegnato nella lettura di quei testi non gli ha dato la piena soddisfazione, anzi addirittura ne ha fatto avvertire la scarsa quantità: è sempre poco e sempre poco dura ciò che piace. Un’ennesima rilettura ha dato l’illusoria impressione che i dicta forensi di Cotta crescessero nella quantità, e ha regalato la certezza di assaporare una gioia estetica che aumentava con l’aumentare delle ri-letture. L’espressione plura … feci di v. 11, che indica

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l’illusoria crescita di quei dicta, è ripresa da met. xiii 160, plura quidem feci quam quae comprendere dictis / in promptu mihi sit, in un contesto ugualmente interessato da implicazioni retoriche (Ulisse aπerma di aver compiuto più imprese di quanto non sia capace di narrare in breve): il poeta ripropone una iunctura tutta sua, e, inserendola in un contesto molto diverso da quello per cui era nata, ne arricchisce le potenzialità semantiche e ne allarga la sfera di fruibilità, perché ora essa è impiegata per simulare un’abbondanza, in un gioco di Umkehrung di gusto alessandrino: alla breuitas del racconto, in promptu (v. 161), ricercata da Ulisse, ma di√cilmente praticabile, si contrappone la breuitas dei uerba di Cotta, avvertita nella sua fisicità dal lettore Ovidio che, però, la maschera con una ripetuta lettura. La terminologia, valorizzata soprattutto dalla contiguità in dieresi nel pentametro 10, multás,|páuca, è troppo etichettata e, quindi, per così dire ‘compromessa’ per non implicare una riconnessione del discorso all’ideologia callimachea della breuitas. L’‘antico’ maestro di arte declamatoria distingue nettamente i paradigmi estetici della prosa forense dagli standard della poesia in genere e della poesia elegiaca in particolare, ma dà l’impressione di essere attratto dalla boria che gli sia riconosciuta l’antica gloria retorica, derivatagli dalla scaltrita competenza, ed anche da quelle performances, per così dire ‘improprie’, fornite in contesti eterodossi rispetto alla prosa letteraria dell’oratore, come possono essere le prestazioni esibite con la poesia dei Fasti o anche delle stesse Metamorfosi: a queste ultime è risalito, appunto, con la ripresa dell’espressione fatta pronunciare ad Ulisse. La lettura ripetuta dei uerba di Cotta, totiens lecta, non fa svanire la loro dulcedo, dote riconosciuta anche alla prosa di Fabio Massimo (P. i 2, 117, doctae dulcedine linguae), ed è a questa soavità che Ovidio sembrerebbe far appello (o vi ha fatto appello finché vi ha creduto) per poter piegare l’animo del Cesare che eguaglia gli dèi. Proprio questa sfumatura coglieva Marziale nel testo ovidiano quando in ii 91 riprendeva il sintagma totiens lecta, v. 3 (totiens tibi lecta), mosso dalla speranza di poter ottenere dalla insistita lettura dei suoi carmina da parte di Domiziano la concessione del ius trium liberorum che gli avrebbe assicurato il necessario vitalizio: l’omologazione del derivato intertestuale favorisce la conservazione della lez. tràdita, tibi lecta, nel testo marzialiano contro collecta, congettura di Shackleton Bailey 1978, 275. Ad aπascinare il poeta è il vigore della prosa di Cotta, che attrae appunto per le sue uires, come dirà a iv 11, 13 a Caro, la cui oratio è immediatamente riconoscibile per le uires degne di Ercole. E, se a soπrirne (eventualmente) è la nouitas, che l’exiguitas del materiale non può assicurare, si ha ragione di credere che Ovidio trovasse qui l’occasione per esprimere, e per imporre un giudizio, riabilitativo, anche in merito alla propria produzione esilica, monotonale, sì, ma vigorosa e ricca di risvolti. L’esule, costretto a vivere lontano da Roma, vela di nostalgia il ricordo dei tempi in cui con altri amici poteva godere dell’ascolto personale della voce faconda di questo insigne oratore: in tr. iv 2, 65-68 è il popolo che gode del privilegio di poter assistere allo spettacolo del trionfo; in P. ii 8, 57-58 felici sono quelli che, vivendo a Roma, possono vedere veramente gli dèi, e non i loro simulacra. Egli, sconsolato, ora esclama: felices quibus … cognoscere … / … contigit, richiamando alla mente del lettore, e quindi innanzitutto del suo destinatario, il celeberrimo verso 490 della seconda georgica, felix qui potuit rerum cognoscere causas, col quale Virgilio, come si sa, da poeta didascalico rendeva omaggio al grande maestro ed ai suoi studi miranti a conoscere le verità della fisica: un omaggio che il relegatus fa all’amico oratore che avrebbe còlto la dottrina della citazione e ne sarebbe rimasto certamente attratto. Felici, dunque, quelli che potranno godere dell’os facundum di Cotta Massimo, pari a quello di Pompeo che nel giorno della proclamazione e quindi dell’inizio del suo consolato allieterà, in mezzo ad una folla immensa, facundo ore curia e senatori, come si legge in P. iv 4, 37: Helzle 1989 117 osserva come Val. Max. ii 6, 8, facundissimo sermone, qui ore eius quasi e beato quodam eloquentiae fonte manabat, ricorra allo stesso linguaggio ovidiano nell’uso di un analogo topos encomiastico. 17-20. Due frasi, che sanno di proverbialità (Vollmer in ThlL vi 1026, 30-31 riporta il luogo tra i ‘proverbia et sim.’), simmetricamente distribuite su due distici, ispirati da un vivere quotidiano

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ed elementare, che agevola un rapporto analogico di presa più immediata, puntellano, come avverte il nam di apertura, il concetto della diπerenza che intercorre tra due esperienze, l’una diretta l’altra indiretta, e quindi esaltano l’impareggiabile genuinità che si può assaporare da una vicenda ove venga vissuta in tempo reale e nell’immediatezza del suo verificarsi. L’immagine dell’acqua, molto occorrente nella produzione ovidiana, e negli ambiti più svariati (bibantur aquae chiude il pentametro 30 di P. i 10, con plur. poetico), dal contesto in cui è inserita, sembra innanzitutto far registrare una diretta dipendenza da Sall. hist. fr. 4, 38, sapor iuxta fontes dulcissimus; ma, soprattutto, è una variante dell’oraziano [Titius] Pindarici fontis qui non expalluit haustus, / fastidire lacus et riuos ausus apertos?, epist. i 3, 10-11, e del properziano ipsa petita lacu nunc mihi dulcis aqua est, ii 23, 2; ed una variante creerà a sua volta Marziale a ix 99, 9, multum, crede mihi, refert a fonte bibatur (Tosi 155, nr. 337, opportunamente cita, a completamento della lemmatizzazione, il proverbio italiano Chi vuol dell’acqua chiara vada alla fonte, ed il tedesco An der Quelle ist das Wasser am besten): si tratta sempre di luoghi in cui son trattati aspetti di natura metaletteraria. Il motivo del pomo meglio gustato se còlto dal ramo anziché assunto da un piatto cesellato sembra rievocare il senso della essenzialità del uiuere paruo di ispirazione augustea: il rifiuto della lanx, che nel non casuale aggettivo caelata nel nostro contesto assume una icastica caratterizzazione, evoca la condanna dei uarii pulchra testudine postes con cui tra l’altro Virgilio disegna le laudes uitae rusticae nella seconda georgica (v. 462): la proverbialità qui è giocata sulla incriminazione dello sfarzo gratuito, nobilitata, anzi sacralizzata dall’allusione a Virgilio. Lo scarto tra le due esperienze è fissato da gratius nel primo exemplum paremiografico, nel secondo da magis iuuat, due termini, questi ultimi, regolati da un assai significativo iperbato, collocati come sono rispettivamente all’inizio dell’esametro e alla fine del pentametro, a conformare del loro significato il senso complessivo del pensiero raccolto nel distico. «È più gradita l’acqua attinta direttamente alla fonte di quella che ci venga pur servita, senza alcuno sforzo». || «Reca piacere trarre a sé il ramo e cogliere il pomo anziché prenderlo da un piatto che si lasci ammirare piuttosto per il suo cesello»: l’idea del movimento, dell’azione, e dell’iniziativa personale quindi, domina in entrambe le immagini: nella prima ‘sententia’ le espressioni allata (di uso piuttosto raro in poesia), in unda, ex ipso fonte propongono idee di spostamenti, di azioni e di gesti provocati da movimenti in avanti, o attestanti provenienze, o locatività. Nella seconda ugualmente si leggono espressioni che riproducono le stesse dinamiche: adducto (old s.u. adduco, nr. 11, ‘to draw in to the body, pull toward one’), decerpere, de … lance. I due aforismi sono senz’altro esplicativi della diπerenza tra esperienza diretta ed esperienza indiretta; ma, forse, contengono, nelle intenzioni di un Ovidio sconsolato, un ulteriore messaggio. Emerge la preferenza accordata dal poeta all’impegno personale per il raggiungimento di un fine rispetto all’acquisizione di un privilegio o all’ottenimento di un risultato grazie alla sola intercessione di altri. Data la condizione di relegatio si potrebbe ipotizzare che Ovidio pensi che avere la possibilità di rivolgersi direttamente al princeps per esporre, ancora una volta, le proprie ragioni avrebbe un senso forse più e√cace, certamente ben più soddisfacente per il richiedente, che a√dare la petizione ad amici, strategia quest’ultima oltretutto considerata ormai del tutto vana, come si evince dal distico finale, in cui il poeta sente la vacuità dello sforzo dinanzi al veto opposto dal fato, e chiede, ora implicitamente ed idealmente, a Massimo di porgergli parole che cancellino per sempre dalla sua mente l’illusione della speranza; nell’epimition, se così possiamo dire, la richiesta sarà formulata apertis uerbis. 21-26. Un periodo sintattico e metrico con un respiro ampio di ben tre distici, in cui le proposizioni si susseguono in un serrato continuum fissato da un insistente polisindeto con le congiunzioni coordinative in apertura del secondo (utque) e del terzo (maior et) distico, espone lo sconforto nostalgico del poeta. Se non avesse commesso una colpa, at nisi peccassem (è questa la protasi al negativo, isolata ed essenziale, e perciò drastica e decisiva), egli argomenta, come

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aveva già fatto rivolgendosi direttamente ad Augusto in tr. ii 31, sed nisi peccassem, se certa sua ispirazione poetica non gli avesse provocato la relegatio, aggiunge perfezionando il senso della prima condizionale, nisi me mea Musa fugasset, dove la labiale allitterante riproduce il suono del lamento, avrebbe ascoltato dalla viva voce di Cotta il testo che ora può solo leggere (legi di v. 22 richiama il legimus di v. 7). E si sarebbe seduto giudice delle sue parole tra i centumuiri. L’accenno ai centumuiri (ThlL iii 829, 25-73) risveglia in Ovidio il ricordo dei tempi ‘romani’ quando faceva parte di quell’autorevole consesso (tr. II 93-94, nec male commissa est nobis fortuna reorum, / lisque decem deciens inspicienda uiris), un tribunale percepito come una vera e propria scuola, dove agli avvocati che potevano contare su più solide capacità retoriche veniva oπerta la chance di esibire al cospetto di una corte così altamente referenziata, per riceverne i dovuti riconoscimenti, la loro arte oratoria trattando questioni di assai varia natura (un corposo elenco in Cic. de orat. i 38, 173; Tac. dial. 31-42). Ovidio, a suo tempo, era appartenuto a quel collegium iudiciale urbanum (M. Wlassak, «pw», iii, coll. 1935-952), si era seduto giudice, ‘iudex in tua uerba’ rievoca ora a Massimo (ThlL s.u. iudex, vii 2 598, 52 sgg., 71, 83; 600, 70 e 76), giudice dei testi di Cotta. Ora immenso sarebbe il piacere di ascoltarne le parole per approvarle ancora una volta ammirato: ben tre apodosi chiudono il lungo, fitto e sconsolato periodo ipotetico, a sottolineare quanti eπetti negativi derivino da quel peccatum. L’organizzazione del pensiero poggia su una massiccia presenza di forme verbali: sulla sequenza iniziale delle due asciutte e fatali condizionali nisi peccassem … nisi fugasset, che rievocano l’error ed il carmen, si scarica la maledetta irrealizzabilità dei riflessi, in questo ambito ristretti e concentrati sull’interdizione dalla vita conviviale del circolo: exhibuisset, sedissem, implesset, ma anche traherer, adnuerem. Queste due ultime voci verbali sono, in realtà, rette dal cum inverso, e quindi sintatticamente svincolate dalla lunga teoria delle apodosi coordinate. L’espediente serve a ridurre, anzi ad annullare gli spazi temporali, nella misura in cui è possibile annullarli: il poeta, per quanto non possa assicurare la sua presenza fisica negli scranni centumvirali del collegium, è in grado ugualmente di lasciarsi trascinare dal fascino della facondia di Cotta ed è pronto ad apprezzare i suoi uerba alla sola lettura: gli manca di assistere alla performance dell’oratore per apprezzarne anche l’actio e gustarne l’ascolto della viva voce. Sarebbe stato questo, in altri momenti, forse, un lamento, un motivo per introdurre un lamento, che ora, invece, sembra perdere la sua identità segnica originaria per acquistarne un’altra, più spostata su motivi esterni alla condizione del relegato, al quale, pur lontano dalle sedi naturali delle recitationes, una possibilità di rimaner rapito da un fascinazione e di mostrare un’approvazione viene comunque concessa. 27-32. Ma il destino ha voluto per lui l’abbandono forzato della patria e degli amici, la relegazione tra gli inhumani Geti: torna, per l’occasione, l’epiteto negativo per la popolazione ospitante, a maggior ragione percepita nel suo basso livello di civiltà culturale, primordialmente culturale, al ricordo dell’elevata statura dell’Urbe salottiera e galante, di cui il relegato di ora era stato un tempo il maestro di cerimonie. Anche questo periodo si sviluppa su tre distici, vivacizzati da una fitta ipotassi: il fulcro del messaggio è custodito nell’ultimo dei tre distici. Dunque: interessante, dal punto di vista stilistico, l’assorbimento nel quem iniziale del v. 27 di un ego sottinteso, implicito nella prima pers. sing. delle due voci verbali che dominano il pentametro 26: la figura del poeta, l’icona della sua più vivida volontà e del suo più intenso desiderio (Fasce 67 sgg.) quasi scompaiono subendo il potere del destino, rimangono nell’ombra dinanzi al volere del fatum, cioè del princeps, che gli ha imposto la rinuncia, dolorosa, ed una nuova sede, disumana. Il poeta può conservare l’illusione (nella poetica dell’illusione, appunto, illusione nel senso di «presenza poetica», Hardie 2002 individua l’unità tematica nella carriera artistica di Ovidio) di trattenersi più tempo con l’amico (mira a prolungare e rendere più fitto il carteggio) solo se questi gli spedisse con maggiore frequenza i pignora studii, le prove della sua attività oratoria; ma

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pignora è termine tecnico che il linguaggio erotico aveva fatto proprio e che ora Ovidio esule, gestendolo come derivato di derivato intertestuale, riconsegna alla sua sfera originaria, ma conservandone anche l’interpretatio maturata nella sfera dell’amor/amicitia, perché quegli scritti sono anche prova d’aπetto: Pichon 233, s.u. pignus, chiosa «indicium quo amor comprobatur», e cita opportunamente Ou. ars ii 248, hoc [periclum] dominae certi pignus amoris erit, cui vanno aggiunti almeno her. 4, 100, illa ferae spolium pignus amoris habet; her. 11, 115, […] parum fausti miserabile pignus amoris; met. iii 283, […] det pignus amoris (col comm. di Barchiesi 2007); viii 92-93, cape pignus amoris / purpureum crinem. In Aen. v 538 Enea dona ad Aceste un cratere cesellato d’immagini, perché lo conservi come ricordo e pignus amoris, ‘pegno d’amicizia’; nella Doppelfassung di v. 572, il pignus amoris, ‘il pegno d’aπetto’, è il cavallo di Sidone che la candida Dido aveva donato ad Iulo. La ricezione dei dicta di Cotta permetterebbe ad Ovidio di continuare a distanza a svolgere il ruolo di un tempo quando apparteneva al nutrito gruppo dei centumuiri. Anzi, in un crescendo che si rivela patetico, l’esule prima chiede che Cotta prenda esempio da lui, che, presumibilmente, gli manda legenda, poi addirittura, ri-vestendo i panni del iudex, aggiunge che sarebbe più giusto che fosse Cotta a dare quell’esempio, ribadendo la richiesta di invio di materiale da leggere e giudicare; il poeta mestamente sta quasi implorando uno scambio epistolare più fitto, che riduca il suo senso di solitudine: l’auspicio di poter ricevere nec rara … monimenta laboris di Cotta (v. 35) è espresso in modo assolutamente palese. 33-36. La successiva coppia distica è strettamente associata al pensiero sino a questo momento sviluppato; Ovidio, quasi con andamento prosastico come dimostra il nam iniziale, conclusivo del pensiero precedente, spiega che notevoli sono gli sforzi da lui compiuti per evitare la morte del suo ingenium, la cui sopravvivenza gli garantisce l’«esistenza in vita» (il binomio esilio/morte è frequentissimo sia nei Tristia che nei Pontica): col diptoto perii / periisse dei vv. 33-34 – ripreso a P. iv 12, 44, [peream] / (si modo, qui periit, ille perire potest) – si promuove l’immagine metaforica di morte, sia intesa come oblìo dovuto alla lontananza, sia letta nelle sue implicazioni sull’ispirazione, e, quindi, interpretata come morte artistica: alla prima il poeta non può opporsi in nessun modo, alla seconda oppone resistenza il suo ingenium. Per essere ravvivato il suo genio ha bisogno dell’invio degli scritti di Cotta che contengono una materia diversa da quella monotona dell’ambiente tomitano, gli consentono di respirare l’aria dell’Urbe, di esercitare il suo u√cio di iudex, gli permettono di parlar d’altro, forse di poetare un giudizio critico pur all’interno di una elegia triste. Invii Cotta le testimonianze del suo lavoro, tui monimenta laboris, una variante di pignora studii di v. 30, ma soprattutto un’espressione che in P. iv 14, 25 il poeta userà per indicare i risultati della propria attività poetica (nostri monimenta laboris). Ovidio sente il bisogno di stabilire un contatto fisico con le carte di Cotta, accipiant nostrae manus (v. 36), una iunctura che risente forse della memoria di fast. iii 226, dant soceri generis accipiuntque manus (è lo scambio di strette di mano tra suoceri e generi in segno di pace). Il poeta chiede un contraccambio realizzabile con una intensificazione dell’invio di epistole da parte di Cotta, redde uicem – e Cotta, come si sa, è il destinatario del maggior numero di lettere da parte dell’esule, P. i 5; i 9; ii 3; ii 8; iii 2; iii 5, che lascia presumere un fitto carteggio. È lo stesso appello rivolto a Macro in P. ii 10, 51, dove chiede che l’amico, che egli, ‘esiliandolo’ (Galasso 1995, 438), immagina accanto a lui, a Tomi, lo conservi nell’animo memore a Roma, non diversamente da quanto si canta in questa elegia ai vv. 49 sgg. (cfr. infra). La trama intertestuale si arricchisce di un ulteriore richiamo nel quale va individuata la genesi di questa modalità espressiva, che Carisio, gramm. 412 11 sg. Barwick, spiega: ‘uicem tibi reddam: beneficium idem repraesentabo, parem gratiam referam, aequabo te meritis’: lo stesso invito il poeta amans rivolge al portinaio nel paraklausithyron di am. i 6; al v. 23 egli chiede al ianitor di ricambiare la cortesia ricevuta a suo tempo, redde uicem meritis, e di spalancare le porte della casa della dura puella. McKeown 135 ricorda opportunamente Ou. met. xiv 35-36, sequenti / redde

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uices, con cui Circe cerca invano di attirare a sé un Glauco assolutamente fedele a Scilla; Sen. Med. 482, miserere, redde supplici felix uicem: Medea chiede invano all’infedele Giasone un contraccambio per i favori a lui resi; Herc. f. 1337 sg., gratiam meritis refer / uicemque nostris: Ercole chiede a Teseo di riportarlo alle ombre dell’inferno, ma Teseo gli risponde che è Atene, ‘nostra tellus’, ad attendere l’Alcide. L’espressione si impone sino a diventare formulare in contesti in cui la supplice richiesta è destinata a rimanere inesaudita. Questo il sovrasenso impressovi da Ovidio, erotico-elegiaco, epico, esule; lo stesso, raccolto e ripreso da Seneca tragico. Insomma, quella organizzazione verbale segnala al lettore una richiesta destinata a rimanere inappagata nel momento stesso in cui viene espressa. 37-42. La pressione dell’esule sul giovane Cotta diventa addirittura ossessiva, senza mai tuttavia essere fiduciosa: sembra quasi che il poeta voglia obbligarlo a rispondere, sollecitandogli una riconoscenza per il magistero di cui ha potuto godere, iuuenis studiorum plene meorum, ma anche dubitando che quegli studia ridestino in lui il ricordo dei suoi suggerimenti. Numerosi segnali retorici attivati dal poeta indicano questa insopprimibile urgenza: da dic … / ecquid … admoneare a ecquid …mens … sentit …?, dalla interr. indiretta alla domanda diretta, introdotte in modo incalzante dallo stesso pronome interr. sempre in incipit stichico; dall’iperbato ecquid … sentit, al parentetico quaeror. La formula sentit abesse, qui riproposta da tr. v 4, 28 (cfr. anche fast. i 548), è testimonianza di un’accoratezza rievocata nostalgicamente, perché inadatta alla situazione attuale di solitudine aggravata dalla smemoratezza di Cotta, a fronte della fedeltà nel rapporto d’amicizia d’un tempo cui facevano appello, insieme, il mittente e la sua epistola personificata. Il diptoto absit / abesse, il sarcasmo nel gioco contrappositivo saepe / interdum sono ulteriori sussidi espressivi su cui fa leva il relegatus per poetare la deriva del pensiero disperato di uomo solo, la progressione di una sorta di resa dei conti, di un’acredine però subito destinata a rientrare per essere assorbita da un’amarezza che si disciplina nel contegno discreto. Ovidio si sente abbandonato e si lacera nella nostalgica rievocazione di tempi sereni, quando c’era la bella abitudine tra sodales o parenti di scambiarsi la lettura dei propri lavori: a tr. iii 7, 23-26 (suggerito da André 1977, 103) la nostalgica rievocazione è rivolta a Perilla, ad Attico a P. ii 4, 13 (Galasso 1995, 227 sgg.; 237 sg.). Richiama alla memoria le consuetudini di una persona con la quale aveva condiviso un’amicizia; è il caso di ricordare che proprio in compagnia di Cotta Ovidio si trovava nell’isola d’Elba quando ebbe notizia del provvedimento relegativo deciso da Augusto (P. ii 3, 83-86, e Galasso 1995, 223-224). Ma, nel contempo, significativo è anche l’orientamento che il giovane avrebbe tenuto nei confronti di Tiberio del quale sarebbe diventato un grande adulatore, come risulta da ann. vi 7, 1, nobilis quidem sede gens ob luxum, per flagitia infamis, in cui Tacito disapprova il comportamento dei senatori che avevano condannato Cesiliano, principale accusatore di Cotta. Il rammarico lascia ancora libero sfogo all’ironia quando il poeta avvolge l’amico in un alone di narcisismo: Massimo desiderava, e desidera, essere attorniato dagli amici dopo aver composto un carme (poeta oltre che oratore, Cotta), perché lo ascoltino, o, come sovente accade (quod saepe soles, prelevato da Prop. I 13, 1, tu [Galle], q. s. s., nostro laetabere casu) pretende da altri la recitazione: aut recitas aut exigis ut recitent, con una perentorietà, segnata dall’insindacabile aut aut, che non ammette alternative. Sarà Marziale a riprendere, e con discreta frequenza (i 38, 1-2; ii 71, 3; ii 88, 1-2 [-as … / … -es]; iii 18, 2; iii 50, 7; viii 20, 2; viii 76, 3; xii 40, 1), l’uso del vb. recito alla 2a sing. del presente indic., mai attestato prima di questo luogo di Ovidio. Ebbene, quando si celebrano quei contubernia, in un’atmosfera di vita intellettuale e di scambio di prodotti letterari (Merli 2010, 82; 2013 21), si accorge Cotta – si chiede il povero esule assente – che in quel gruppo di ascoltatori manca una presenza decisiva, quella di Ouidius poeta? Ha coscienza la sua mens di essere priva di una parte di sé? Son parole in cui la durezza si mescola al rimpianto.

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43-44. Il tono di rimprovero, provocato dal profondo dispiacere e timore di essere stato dimenticato, continua quando il poeta chiede se anche ora, che egli è lontano da Roma, Cotta parli tanto di lui come faceva quando il poeta non era stato colpito dal provvedimento di relegatio. Nasonís|nómen, questa sequenza allitterante molossico-trocaica al centro del pentametro 44, proprio in dieresi, sembra gridata, a dispetto del silenzio che il poeta sospetta sia calato sulla sua figura con la partecipazione e l’avallo anche dello stesso Cotta, probabilmente apparso sfuggente nel carteggio epistolare e distante da una solidale e promettente condivisione. Viene in mente l’esordio di tr. iii 10, siquis adhuc istic meminit Nasonis adempti, / et superest sine me nomen in Vrbe meum (vv. 1-2): anche qui, e non solo evidentemente, la condizione di relegatio a Tomi comporta la dispersione del ricordo del poeta a Roma. 45-56. Un sorriso beπardo ed amaro si nasconde dietro il giuramento, in apparenza solenne e drammatico, che Ovidio pronuncia per avallare il memore aπetto per Cotta, ma da Cotta con tutta probabilità non ricambiato con altrettanta calorosità: egli pone come condizione, nel caso fosse sorpreso a dichiarare falsamente la perennità del pensiero per l’amico, di poter morire colpito da una freccia scagliata da un arco getico. Il riferimento al Geticus arcus è troppo vincolato allo status di vita del relegato Ovidio perché quel giuramento non suoni come una battuta ad eπetto, peraltro esaltata dall’inciso et sit periuri quam prope poena uides, che proietta il pensiero ai periuria degli amanti della poesia erotico-elegiaca; si pensa, per es., ad am. iii 3, 21, ut sua per nostram redimat periuria poenam, spergiuri dei quali Giove dall’alto ride; ars i 633 > Prop. ii 28, 8; [Tib.] iii 6, 49-50, ma l’archetipo è Callim. epigr. 25, 3-4 Pfeiπer, tou;~ ejn e[rwti / o{rkou~ mh; duvnein ou[at’ej~ ajqanavtwn, «i giuramenti d’amore / non raggiungono l’orecchio degli dèi» (trad. D’Alessio; Pianezzola 1998 259); cfr., comunque, già Hesiod. fr. 124 M. W.. L’Ouidius lusor, come ancora egli stesso ricorda di sé a tr. iv 10, 1 (cfr. già tr. III 3, 73), non si smentisce: interseca il suo impegno morale di costante ricordo in eterna amicizia, validato dal cupo giuramento, con la ‘filosofia’ che governa il giuramento nel ménage dell’eros elegiaco, poggiando sulla sententia di Publilio Siro, amantis iusiurandum poenam non habet (A 38, p. 19 Meyer). Dunque, Cotta, pur lontano, è così presente nella mente di Ovidio che al poeta sembra di averlo accanto: la libertà della mens e le sue infinite possibilità consentono di involarsi verso mète anche le più impensate. Il tono tutt’altro che serioso, nonostante tutto, del giuramento è confermato dal fatto che ad esso è rimesso il cómpito di introdurre i versi successivi con i quali l’elegia si avvia alla conclusione, dove sceneggiatura e regìa sono a√date alla stravaganza dell’irreale. La fantasia di un viaggio colora l’ispirazione dei quattro distici che precedono l’epilogo; Nagle 91 avvicina il senso e lo spirito del v. 47 «to the idea of the poetic surrogate’s unrestric­ ted access to Rome», che leggiamo in tr. i 1, 15-16, uade liber, uerbisque meis loca grata saluta! / contingam certe quo licet illa pede (il piede del poeta, ma anche il verso del poeta), e tr. v 1, 80, uobiscum cupio quolibet esse modo. In queste due elegie dei Tristia si sogna il rimpatrio del liber e degli scripta, surrogati della persona dell’esule, suoi delegati, ora l’immaginazione organizza un vero e proprio trasferimento fisico della persona stessa. Ovidio ha voluto concedersi un divertissement letterario, inserendo, come una sfragiv~, un vero e proprio epigramma, forse da sottoporre all’attenzione del giovane retore e poeta. Un’atmosfera fiabesca permea la parte finale di questa ultima epistola a Cotta. Alla mens, e alla sua energia, non si pongono limiti: il poeta stesso le «innalza un vero e proprio inno» a P. iv 9, 37 (Rosati 1979, 110). L’esule sogna di essere giunto a Roma, a tutti invisibile, in grado di parlare solo all’amico, di ascoltarlo (loquor tecum - [te] loquente fruor: si avverte una vaga reminiscenza di Catull. 101, 4), di vivere una candida hora, sintagma rievocativo dei candidi soles (c. 8, 3 e 8) dell’ ‘epigrammista’ Catullo, un’ora illuminata dalla felicità, che gli regala il vagheggiamento di essere assurto alle sedi celesti (il Palazzo?), di aver acquisito la fortuna degli dèi: caelesti sede receptum, un’espressione che trova un isolato

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precedente, nella stessa poesia ovidiana, a met. iv 447, caelesti sede relicta (il vb. è recuperato, in un aggregato semantico equipollente, a v. 55, caelum … relinquo), collocata in un contesto in cui l’immaginifico autore delle Metamorfosi descrive un viaggio esattamente contrario a quello sognato dall’autore dell’epistola esilica. Nel iv libro del poema epico ovidiano, infatti, si rappresenta il viaggio della Saturnia Iuno dal mondo celeste al mondo infernale dove la dea cerca forze malefiche che l’aiutino a contrastare la rivalità di Ino. Il poeta, per illudersi di lasciare l’‘inferno’ e di ascendere al cielo, opera una geniale Umkherung, così coinvolgendo nella suggestione non solo la sua fantasia ma anche il suo stesso testo letterario, al quale chiede di creare un’immagine opposta e di produrre un eπetto semantico equivalente. La struttura ad anello di questo ‘epigramma’, pertanto regolato da una serrata Ringkomposition, riproduce su di un piano solo logico, non grammaticale-sintattico, i due sensi del viaggio: ad hac ubi perueni di v. 49, dove il dimostrativo non ha valore propriamente avverbiale (si sottintende mente, ma con una interpretatio per così dire di√cilior si potrebbe sottintendere hac [uia], i.e. hac mente, ‘sulla strada dell’immaginazione’), risponde, sia pur solo nel richiamo – hac/huc – dei significanti, ubi huc redii di v. 55; in Vrbem di v. 49 è riecheggiato da Pontica … humus di v. 55. L’omphalós centrale è scandito dall’anafora di tum (vv. 51 e 53) che, quasi incredibilmente (siqua fides), ferma il tempo del ‘rientro’ e della permanenza a Roma, ed allontana quello del risveglio, segnato dall’antifrastico rursus che riporta la fantasia alla crudezza del presente e del futuro. Attimi di immensa gioia, centellinati da una lenta scansione, illudono di realtà quella che è solo una folle fantasia, riescono ad avvolgere in un abbaglio quella che è solo «una presenza in spirito». Il risveglio è triste e rassegnato più che pacato: il poeta lascia cielo e superi, caelum superosque relinquo, dove non era mai realmente arrivato, e torna lì da dove non s’era mosso, a Tomi, che a Styge nec longe … distat. «[…] Ovid describes Tomi as if it were the underworld», scrive Grebe 2010, 502, citando opportunamente altri luoghi in cui ricorre lo stesso motivo: tr. v 9, 19; P. i 8, 27; ii 3, 44; iv 9, 74 (cfr. già Williams 1994, 12-13, che non riporta P. ii 3, 44 e iii 5, 56: Grebe ibid., nota 37). Seneca tragico in Phaedr. 1150 sgg., quod tuus caelum superosque (~ Ou. v. 55) Theseus / spectat et fugit Stygias paludes, […], a√da al coro la riflessione sul ritorno alla vita di Teseo: l’eroe ha potuto rivedere le luminose stelle del cielo e la nitida luce del giorno, lasciando la morte, morte relicta, v. 1145 (relinquo ~ Ou. v. 55), ma dovrà piangere il suo triste ritorno, tristis reditus (redii ~ Ou. v. 55); Pallade non deve sentire nessun obbligo di riconoscenza verso Plutone, il sovrano dei morti, al quale i conti tornano comunque. Il tratto narrativo della tragedia senecana riproduce un processo ed un itinerario vita/morte paralleli rispetto a quelli del passo ovidiano (la diπerenza è solo nella virtualità del caso ovidiano): Teseo, proprio come l’esule, torna alla vita lasciando la morte, ma ‘la morte’ ritrova, in casa, flebile hospitium, vv. 1147-1148, con la fine dell’innocente Ippolito. Ancora una volta (limitatamente a P. iii, cfr. qui il comm. a 3, 13-20; 101-102; 4, 45-52; 5, 1-6; 33-36) Seneca tragico ha trovato ispirazione nel testo dell’elegia triste, che gli ha oπerto lo spunto per la composizione di un frammento emozionalmente calibrato; il riscontro intertestuale, poi, consente all’esegeta del testo ovidiano di percepirne il senso nella maggiore profondità, ricavandolo dalla interpretatio senecana. L’epilogo dell’epistola a Macro, la decima del secondo libro, presenta motivi e tono per certi versi vicini a questi dell’epistola a Cotta; lo svolgimento del tema della presenza spirituale del destinatario oπre innegabili spunti di analogia. Versi come te […] intueor quo solo pectore possum (47), istic me memori pectore semper habe (52) sono ispirati dal fantasma della ‘praesentia absens’ («ades … absens» il poeta dice al destinatario Macro) che aleggia anche nel v. 49 sgg. di questa epistola quinta del iii libro, ma è qui che si avverte che Ovidio cerca e raggiunge un’akmé lirica, nell’espressione di un pathos che Seneca avrebbe saputo cogliere nella sua pienezza. 57-58. Il disincanto interrompe quasi subito il sogno; il poeta riconosce la vanità dei suoi sforzi a causa del veto oppostogli dal fatum (Augusto, evidentemente), e dai limiti prescritti dal genere

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epigrammatico. A Massimo è lasciato solo il cómpito di estirpare dall’animo dell’amico ogni speranza di ritorno perché priva di ogni possibilità di realizzazione, una speranza sine profectu, sintagma ripreso da met. ix 50, una litote con finalità tutt’altro che attenuative. Né è compito arduo, ove si consideri che l’esule ha già pensato da solo a scacciare il demone della speranza. L’ultimo distico è segnato dalla fermezza con la quale il poeta richiama l’attenzione su di sé: ego si … / … tolle mihi: il diptoto del pron. di 1a persona sing., che colloca i propri termini ai margini del distico, connota di sé l’intera strofe dominata dallo sconforto e dalla resa, come espressioni quali fato … prohibente e sine profectu (sintagma, quest’ultimo, presente nella poesia latina solo nei due luoghi ovidiani citati) lasciano ampiamente intendere. Già in tr. ii 182, nec … / olim placandi spem mihi tolle tui, Ovidio, rivolgendosi al pater patriae, si era abbandonato allo stesso sconforto, ma allora trovava ancora la forza interiore di chiedere di non perdere la speranza (nec tolle): la ripresa della stessa espressione in un’epistola all’amico Cotta ‘accusato’ di averlo dimenticato al punto di non riconoscere, nonostante signum et manum (cfr. Cic. Catil. iii 10), l’autore della lettera che gli è stata recapitata, è una testimonianza piuttosto evidente di quanto si siano ridimensionate – e ci sembra fin troppo ovvio – le prospettive di rientro a Roma, o di avvicinamento, dell’esule tomitano, da tempo ormai poeta del disincanto, che celebra il trionfo del fallimento delle preces: il pensiero va a Prop. iii 24, l’elegia del discidium.

Epistola iii 6: Ad amicum celato nomine - Maledetto anonimato! Non giova, soprattutto al Cesare

III 6 Maledetto anonimato! Non giova, soprattutto al Cesare Ancora un’epistola priva del nome del destinatario. Si ripristina la prassi osservata nei Tristia per dimostrarne l’insensatezza. «Perché temi di essere nominato? Cesare è clemente, e non proibisce lo scambio epistolare tra me, esule tra le acque eusine, e gli amici. Il tuo comportamento mostra un’odiosità del principe, ma nessuno più di me ne conosce la clemenza. Giove talvolta lascia che si sopravviva ai colpi che infligge. Augusto agisce con giustizia. Spesso ha colpito anche senza ragione. Spesso ha allentato la pena. Tu pensi di dover temere a parlar con un profugo? Avresti ragione di farlo se subissi la tirannide di Busiride o di chi era avvezzo a bruciare gli uomini dopo averli chiusi nel bronzo. Io stesso ho sbagliato in passato a scrivere agli amici lasciandoli nell’anonimato. Avevo perso il ben dell’intelletto. È vergognoso per me e per te se il tuo nome non compare in nessuna parte del mio libro. Comunque, non temere, coprirò la tua identità; voglimi bene di nascosto.»

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6. AD AMICVM CELATO NOMINE 5 10 15 20 25 30 35

Naso suo (posuit nomen quam paene!) sodali mittit ab Euxinis hoc breue carmen aquis. at si cauta parum scripsisset dextra quis esses, forsitan o√cio parta querela foret. cur tamen hoc aliis tutum credentibus unus appellent ne te carmina nostra rogas? quanta sit in media clementia Caesaris ira, si nescis, ex me certior esse potes. huic ego quam patior nil possem demere poenae, si iudex meriti cogerer esse mei. non uetat ille sui quemquam meminisse sodalis, nec prohibet tibi me scribere teque mihi. nec scelus admittas, si consoleris amicum, mollibus et uerbis aspera fata leues. cur, dum tuta times, facis ut reuerentia talis fiat in Augustos inuidiosa deos? fulminis adflatos interdum uiuere telis uidimus, et refici non prohibente Ioue; nec, quia Neptunus nauem lacerarat Vlixis, Leucothea nanti ferre negauit opem. crede mihi, miseris caelestia numina parcunt, nec semper laesos et sine fine premunt. principe nec nostro deus est moderatior ullus; Iustitia uires temperat ille suas: nuper eam Caesar facto de marmore templo, iam pridem posuit mentis in aede suae. Iuppiter in multos temeraria fulmina torquet, qui poenam culpa non meruere pati. obruerit cum tot saeuis deus aequoris undis, ex illis mergi pars quota digna fuit? cum pereant acie fortissima quaeque, uel ipso iudice delectus Martis iniquus erit. at si forte uelis in nos inquirere, nemo est qui se quod patitur commeruisse neget. adde quod extinctos uel aqua uel Marte uel igni

‘recte vii’ scripsit Richmond (de elegiarum ordine cf. praefationis uiri docti Richmond p. xviii) 1 exclamatiue interpunxi post paene, ut André et Pérez Vega 9 possem B : possim C : possum le e bl 17-18 fulminis et refici non prohibente Ioue / uidimus interdum adflatos uiuere telis C, uerborum ordinem in distich. restituit C1 19, 21, 20, 22 C, uersuum ordinem restituit C1 20 Leucothea Merkel, probauu. Richmond, Pérez Vega : lecathoam B : Leucathoeam B2 : leucatheam C : leuc(h)ot(h)oe le e bl : leuc(h)ot(h)ee a v (Leukoqevh Hom. Od. v 334); cf. Ciris 396 (cod. G) : leuchotee V : leucothee uett., probau. André 24 suas B C le e bl : sua malebat Heinsius 28 pati B C le e bl : sua t : pari Heinsius 33-34 om. bl : post 38 transpos. Damsté 33 nos B C le (aut … n.) e (sc. ‘quos exilio Caesar damnauit’) : eos Bentleius (quod si … eos) 34 qui B C e : quin le, probau. Bentleius 35 igni B : igne C le e bl

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6. AD UN ANONIMO AMICO Nasone al suo sodale (quanto vicino a mettervi il nome!) invia questo breve carme dalle acque eusine. Ma se la destra poco cauta avesse scritto chi sei, forse dall’omaggio sarebbe nata lagnanza. Tutti gli altri la ritengono cosa sicura; perché tu solo chiedi di non essere nominato nei miei versi? Quanta la clemenza di Cesare anche al colmo dell’ira, se non lo sai, posso informartene io. Nulla potrei sottrarre io a questa pena che patisco, se mi si obbligasse a giudicar il mio delitto. Egli non proibisce che qualcuno abbia memoria del suo sodale, non vieta che io scriva a te e tu a me. A consolare un amico non commetteresti un crimine, ad alleviarne con tenere parole l’aspro destino. Perché, temendo il sicuro, tal riguardo verso gli dèi augusti fai diventar odioso? Giove lascia talora che colpiti da fulmini e saette si sopravviva e ci si riprenda: l’abbiam visto; e, quando Nettuno aveva ormai squassato la nave d’Ulisse, Leucotea non negò di soccorrerlo in nuoto. Credi a me, i numi celesti risparmiano i miseri; e non sempre colpendo vessano senza posa. Dio non v’è più moderato del principe nostro; con Giustizia egli tempera la sua potenza: da poco Cesare l’ha collocata nel tempio di marmo, già da tempo l’ha posta nel sacrario dell’animo suo. Giove su molti scaglia fulmini alla cieca, anche se non han meritato di patir pena per una colpa. Tanti il dio del mare ha sepolto con la furia dell’onde, ma quanti era giusto che ne fossero sommersi? Che tutti i più forti periscano in battaglia sarà scelta iniqua di Marte: così giudica persino egli stesso. Ma se per caso vuoi indagar un destino come il mio, non v’è chi negherebbe d’aver meritato quel che patisce. In più i morti in acqua o per Marte o pel fuoco

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nulla potest iterum restituisse dies: restituit multos aut poenae parte leuauit Caesar, et in multis me precor esse uelit. at tu, cum tali populus sub principe simus, alloquio profugi credis inesse metum? forsitan haec domino Busiride iure timeres aut solito clausos urere in aere uiros. desine mitem animum uano infamare timore: saeua quid in placidis saxa uereris aquis? ipse ego, quod primo scripsi sine nomine uobis, uix excusari posse mihi uideor. sed pauor attonito rationis ademerat usum, cesserat omne nouis consiliumque malis, fortunamque meam metuens, non uindicis iram, terrebar titulo nominis ipse mei. hactenus admonitus memori concede poetae ponat ut in chartis nomina cara suis. turpe erit ambobus, longo mihi proximus usu si nulla libri parte legere mei. ne tamen iste metus somnos tibi rumpere possit, non ultra quam uis o√ciosus ero, teque tegam, qui sis, nisi cum permiseris ipse: cogetur nemo munus habere meum. tu modo, quem poteras uel aperte tutus amare, si res est anceps ista, latenter ama.

39 at B le e bl, dubitanter Richmond : aut C : ah blv : an G. Fabricius, quod fortasse rectum putat Richmond 40 metum B le e bl : malum C 45 uobis B C le e bl : amici d : uerbis v 49 uindicis B C le e : iudicis bl (?) ba bh d n t : principis p : cesaris pp 51 poet(a)e B le e bl : sodali C 54 legere B C le e : legare bl et alii 57 qui sis B le (cf. iv 3, 2) : quis sis C e bl 60 ista B C le bl : ipse e

p. iii 6 nessun giorno può ancora restituirli: molti li ha restituiti o ne ha allentato in parte la pena Cesare, ed io prego ch’egli tra i molti mi voglia. Ma tu, poiché popolo di tal principe siamo, credi che a parlar con profughi ci sia di che temere? Forse avresti ragione di temere con Busiride tiranno o con chi usava bruciare uomini chiusi nel bronzo. Basta, per vani timori, con le calunnie ad un animo mite: perché in placide acque provi paura di sassi spietati? Io stesso, se in passato scrissi a voi anonimi, credo di poter a stento esser scusato. Ma sbigottito la paura m’aveva rapito l’uso di ragione: per guai mai conosciuti era svanito il ben dell’intelletto. E spaventato dal rovescio della sorte mia, non dall’ira del punitore, rabbrividivo al ‘titolo’ proprio col nome mio. Con questi ammonimenti concedi al memore poeta di porre sulle sue carte i nomi a lui cari. Vergogna per entrambi, se a me vicino per antica familiarità non sarai letto in nessuna parte del mio libro. Però, perché questo timore non ti sottragga il sonno, non avrò più premura di quanta tu voglia, coprirò la tua identità, salvo tua concessione: nessuno riceverà il mio dono per forza. Ora tu, chi potevi amare apertamente e senza problemi, se la cosa porta rischio, amalo di nascosto.

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Commento

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1-6. A proposito di questa epistola dal Ponto, un unicum nel iii libro per essere essa inviata ad amicum celato nomine (della Corte 1974, 137 pensa si tratti di Sesto Pompeo), Mary Helen Thomsen Davisson 1981, 20 parla giustamente di «special case». Il poeta ricorre alla cautela e alla discrezione usate nelle elegie dei Tristia, dirette a personaggi coperti dall’anonimato. I pochi casi analoghi che si verificano nel libro successivo si spiegano con ragioni assai diverse che il timor del destinatario: nella 3a evita di citare il nome ne […] / quaeratur […] tibi (il destinatario) carmine fama meo, vv. 3-4 (sull’ironic tone Farrell 51-52); la 4a è piuttosto una dedica di poesia panegiristica che un’epistola tout court; con la 5a celebra nuovamente il console Sesto Pompeo, del quale parla con riconoscenza ancora nella 15a; la 12a è solo apparentemente anonima: la prosodia del nome (nominis condicio) non consente che Tuticano, Tūtĭcănŭs, entri nel verso (cfr. l’articolata spiegazione che Ovidio fornisce ai vv. 9-16). La vistosa novità non comporta sostanziali variazioni di linguaggio e di stile rispetto alle altre epistole. L’esperimento letterario oπre indizi sulla progressione dello stato d’animo del poeta che va diπerenziando invece le finalità della scrittura rispetto alla prima raccolta. Chiamare sodalis, termine che Hellegouarc’h s.u. inquadra nel contesto politico-religioso, e che in Ovidio è spesso sinonimo di amicus, una persona che preferisce rimanere nell’ombra evitando coinvolgimenti considerati pericolosi, ha francamente il sapore della ridicolizzazione. Secondo l’interpretazione, in bonam partem, di Evans 1976, 108 l’intento di Ovidio sarebbe stato quello di rassicurare l’amico, che preferisce rimanere nell’anonimato, della intatta possibilità, in ogni caso, di continuare a coltivare il rapporto di amicizia con lui. La connotazione politica contenuta nel termine sodalis merita il giusto rilievo e non può essere letta se non in senso ironico: il poeta è convinto che son proprio le ragioni politiche, grettamente politiche se si vuole, a dettare il comportamento di questo anonimo. Già il Benedum vedeva nell’epistola un attacco indiretto ad Augusto, non privo di risvolti ironici; al di fuori della portata di una interpretazione di questo tipo si era invece mantenuto Evans 1983, 30 e 183, nota 33, ancora scettico su una presunta polemica antiaugustea. L’elegia sembra proporre uno stretto collegamento, ed esserne come una premessa, con la successiva, la settima ad amicos, formula vaga ed ambigua, che nella sostanza permette la conservazione dell’anonimato e, nello stesso tempo, sempre più e sempre meglio esalta l’aperta indicazione del nome del singolo destinatario di tutte le altre epistole. P. iii 6 è sospesa tra l’atmosfera elegiaca, che lamenta un’assenza, una lontananza, ed il registro dell’epistolografia poetica che, nello sforzo di aprire la comunicazione, tenta l’annullamento di quella carenza, anzi di quella indisponibilità: una formula, peraltro, già largamente collaudata nelle Heroides. Comunque, è appena il caso di ricordare che nella raccolta poetica giovanile come nelle opere esiliche di Ovidio la variabilità e la compresenza dei due codici diventa una costante e, pertanto, tratto di una caratterizzazione che dimostra la compatibilità di quelle funzioni. Ci sembra di vederlo questo personaggio che quasi rabbrividisce leggendo che dalla mano parum cauta del poeta stava per essere scritto il suo nome (v. 3), e che, prevedendo in quel caso l’ira di Cesare, si distingue da tutti gli altri destinatarî ormai ben fiduciosi che condividere un carteggio con il relegato non comportasse pericoli (tutum, v. 5). In una sorta di Ringkomposition Ovidio riprenderà il motivo alla fine dell’epistola, prima dell’epimition finale dei vv. 59-60, se così vogliamo chiamarlo. Sono riconoscibili, infatti, evidenti echeggiamenti, verbali e concettuali, tra i vv. 3-4, dove il poeta aπerma che, se avesse svelato il nome, l’omaggio oπerto avrebbe prodotto disappunto, ed i vv. 55-56, nei quali si rassicura il destinatario che lo scrivente farà in modo di non procurargli insonnia da ansia e di non usare una premura indesiderata. I termini che segnano questa corrispon-

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denza sono o√cio di v. 4 ed o√ciosus di v. 56, mentre si può addirittura parlare di una gradatio ascendens da parta querela foret dello stesso v. 4 a metus somnos tibi rumpere possit di v. 55, un’immagine ironica e beπarda. L’echeggiamento, a conclusione dell’esteso sviluppo argomentativo dell’epistola sulle ragioni del non giustificato timor, vale a sottolinearne l’incapacità persuasiva. In questo componimento la presenza martellante del du-Stil, che nei versi iniziali, 3-16, gode di una concentrazione dominante, sa quasi di un regolamento di conti, nasce dal bisogno impellente del mittente di criticare il comportamento del personaggio che impone d’esser lasciato nell’ombra: su di lui, che il poeta vorrà immaginare in ascolto a capo chino, vengono scaricate critiche troppo garbate all’apparenza per non essere invece attacchi taglienti. L’omissione dell’identità del destinatario riporta, come si diceva, alle abitudini ed alla Stimmung dei Tristia: Galasso 2013, 5 sostiene, a mio avviso giustamente, che «L’aggressività che si rivolge contro l’amico pavido […] finisce per investire di riflesso anche il sovrano», o, forse, il solo sovrano, posto il carattere immaginario della pavida figura. La manovra di riequilibrio, ‘compensazione’ (Galasso ibid.), compiuta poi da Ovidio, qui come in altri casi, con l’aπermazione di una clementia Caesaris superiore a quella di Giove, Nettuno e Marte, e, quindi, anche di una maggiore iustitia (McGowan 141), è, come vedremo, troppo compromessa da un contesto ironico per non rimanere essa stessa coinvolta nella strategia della capziosità, e nella ricerca dell’eπetto della doppia lettura. Il crollo della speranza del relegato di poter lasciare il territorio dominato dal Mar Eusino non può non aver prodotto conseguenze nella considerazione in cui egli tiene la realtà, all’interno della quale un posto privilegiato occupa il potere politico. Se Ovidio, come suggerisce Galasso 2013, 6, indica ad Augusto le direttive comportamentali che rispettino la stessa ideologia del regime, non lo fa con intento per così dire paideutico verso il princeps, ma nella convinzione che ormai la realtà è già oltre i parametri ideologici augustei, dallo stesso principe elusi. 7-12. Nell’ambito della raccolta i-iii delle ex Ponto questa elegia contiene la più ampia laudatio della clementia Caesaris (il motivo è molto ricorrente, come si sa, nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto) cui son dedicati ben tre distici, vv. 7-12, incastonati tra la parte iniziale riservata all’espressione della perplessità per il timor ingiustificato dell’amico, e la sezione successiva in cui si manifesta il rammarico per una mancata consolatio che in nessun modo sarebbe stata condannata ed anzi avrebbe potuto lenire le pene di un esule. Su quella paura grava la responsabilità di un giudizio mirante a costruire un’immagine negativa del principe, perché paradossalmente, se nell’opinione pubblica la figura del Cesare rimanesse avviluppata nella morsa di un biasimevole addebito di crudeltà, al Cesare deriverebbe discredito proprio dall’atteggiamento timoroso di una persona come l’anonimo. Ovidio utilizza il personaggio del timidus amicus per diπondere, all’interno di una realtà sociale alla cui gestione il potere aveva riservato sempre particolare attenzione, un’immagine del principe non esattamente in linea con il rispetto dei valori tradizionali, innanzitutto quello della clementia, e le finalità sono evidentemente censorie. Oliensis 1997, 179 interpreta in termini politici l’astensione ovidiana nei Tristia; su questa linea si è attestata più recentemente Kristine Kossaifi 253 sgg., la quale osserva che, quando Ovidio rappresenta la ricostruenda o ricostruita unità imperiale con i mezzi propagandistici di una restaurazione dei valori repubblicani tradizionali, all’interno dei quali si inscrive anche il principio della clementia, il poeta solleva una critica sottile ma anche tagliente. Tissol 23 vede nella citazione esplicita del nome dei destinatari un modo per l’esule di un «self-consolatory potential» in quanto «imaginative creation». Dunque: Ovidio vuole apparire impegnato a contrastare la inspiegabilità del timor dell’amico a fronte della clemenza del Cesare; i due motivi, di timor e di clementia, sono espressi contiguamente, in via preliminare, per farne meglio emergere la incompatibilità. Su questo testo cruciale si è misurata la critica per pronunciarsi nel senso di una polemica antiaugustea del poeta esule o di un suo sincero apprezzamento della benevolenza del principe. A titolo di esempio, valgano le accennate opposte valutazioni di Benedum e di Evans, e, più recentemente,

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della Ciccarelli (p. 30), la quale osserva che lo scopo precipuo di Ovidio è quello di dimostrare che la decantata mitezza del principe, in ordine all’editto in poenae nomine, di cui il poeta parla in tr. ii 135-138, è frutto di una «strategia retorica, che attraverso un uso misurato delle parole ‘falsifica’ la realtà». La Claassen 1999, 141-142 ha analizzato le occorrenze del termine clementia, e del concetto ad esso correlato, attribuito al princeps nell’intero periodo dell’esilio tomitano: nella Phase 4, come la studiosa indica lo spazio temporale coincidente con la composizione di P. i-iii (ott. 12-dic. 13), clementia occorre tre volte delle dieci complessive. A mio avviso sottili sono i margini di dubbio che un poeta che si è lamentato costantemente della durezza del luogo in cui è stato confinato e della durezza della pena stessa, se ammette la giustezza di quella pena e addirittura elogia la clemenza del princeps che gliela ha comminata in quella misura e non in una più punitiva, lo faccia con una certa dose di ironia. 13-16. Ovidio non ha chiesto né ha intenzione di chiedere al ‘sodale’ intercessioni presso il principe per ottenere una sede meno disagiata; vorrebbe solo parole di consolazione, che certamente potrebbero essergli recapitate con una missiva che non comporterebbe rischi per il mittente (nec scelus admittas), pur ammesso che ce ne fossero, diversamente che se fosse l’interessato a ricevere una lettera dal Ponto; in tr. v 2, 1-2 il pallore sul volto della moglie ed il tremore della mano che apre la lettera giunta dal Ponto son provocati dalla preoccupazione per le precarie condizioni in cui versa il poeta, ma anche in questo caso l’esule si appella alla lenitas in hoste del dio vincitore ed esorta la donna a mettere da parte il timore: quid dubitas et tuta times?, v. 37. L’archetipo è Verg. Aen. iv 297, omnia tuta timens (di Didone); fa da filtro la Medea ovidiana, quid tuta times? di met. vii 47: due personaggi femminili che, sulla base di presentimenti in qualche modo motivati, temono, anche se era stato loro chiesto di non temere; ma serie e legittime ragioni alimentavano il loro turbamento ed il loro timore. Ovidio attiva, inoltre, in questo contesto la memoria poetica di due sintagmi di illustre tradizione, mollibus / … uerbis di Hor. epod. 5, 83-84, e aspera fata, quelli di Marcello, di Verg. Aen. vi 882. Egli elabora i due modelli con la sapiente tecnica della imitatio cum uariatione e della oppositio in imitando sofistican­ doli al servizio di una fine arte allusiva. Nel luogo dell’epodo Orazio presenta il puer caduto nelle grinfie di Canidia, determinata a servirsene per la preparazione di un filtro d’amore che le valga la riconquista dell’amante; il fanciullo, resosi conto dell’ine√cacia di mollia uerba per ammansire la strega, ricorre alle maledizioni. Sembra che da Tomi arrivino suggerimenti, certamente alterati da uno status ormai avvertito come insostenibile, su come gestire il rapporto col princeps anziché esserne del tutto soggiogati attraverso il timor. Il sintagma ipotestuale dell’Eneide godeva di una fama letteraria altissima e si distingueva, quasi come un simbolo, diventando una sorta di icona dell’avversità del destino, un’immagine che richiamava assai da vicino un momento particolarmente drammatico dell’esperienza familiare del principe e perciò in grado di sollecitare la sua commozione, e quella del pubblico dei lettori. Con la combinazione dei due intertesti Ovidio allestisce un pentametro con una richiesta di consolatio che, rivelando però una desolante sfiducia, cova al suo interno un inespresso commento amaramente ironico: nec scelus admittas, l’avviso di non sanzionabilità di un gesto consolatorio, in quanto non valutabile come uno scelus, ancora una volta mette a nudo il vile timore dell’amico, che vien meno ad un preciso o√cium dell’amicizia (Nagle 103 sg.). Nel distico successivo è svelata la verace intenzione di Ovidio, che non nasconde l’autentica ineccepibilità della sua convinzione. Il comportamento timoroso dell’anonimo amico, e di chiunque preferisca non essere compromesso dalla dichiarazione della propria identità palesata in uno scritto dell’esule, quello sì, in realtà è uno scelus, uno scelus commesso ai danni del principe, anzi degli Augusti dei, che ne subiscono una mancanza di riguardo, un discredito, perché si oπre di loro un’immagine che ispira odiosità, inuidia. L’espressione dei vv. 15-16, nei quali si denuncia che il timor, peraltro ingiustificato, trasforma, paradossalmente, in inuidia la reuerentia verso gli

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Augusti dei, contiene qualche ambiguità: il poeta si chiede perché il destinatario, temendo una situazione che invece dà sicurezza, rende odiosa la rispettosità verso Augusto: Plinio in pan. 4, 5, in catalogo redatto a scopo di Priamel, in cui emergesse la positività della figura di Traiano, tra altri casi pregiudizievoli di condotte col tempo oπese dal uirtutum confinium, cita quella di chi reuerentiam … terrore … captauit. Ora, reuerentia è costruito, come qui, con in + acc. in Tac. ann. xii 23, 1, ob egregiam in patres reuerentiam (old s.u. 1a presenta isolatamente l’occorrenza tacitiana); Cic. de oπ. I 99, adhibenda est … quaedam reuerentia aduersus homines et optimi cuiusque et reliquorum, ricorre ad altra costruzione; nello stesso Ovidio, met. vii 145, è attestata la costruzione col gen., te … tenuit reuerentia famae. Stiewe in ThlL vii 2 207, 58 sg., s.u. inuidiosus, inserisce l’occorrenza di P. iii 6, 16 nella sezione ‘res sive quae movent invidiam in auctores, … alios, sive quibus ipsis invidetur (i. q. invisus’). Ovidio, insomma, piega il termine reuerentia a sopportare una costruzione inedita, che sarebbe piaciuta all’anomalista Tacito, sotto la spinta dell’agg. inuidiosus che, al contrario, prevede la reggenza di in + acc. della persona verso la quale si nutre il sentimento negativo. Questo consente di rivelare l’intenzione veramente sottile del poeta esule, che, facendo dipendere ajpo; koinou` in Augustos deos da reuerentia e da inuidiosa, ha creato un puzzle in cui una tessera gode di una doppia collocabilità. L’acquisizione esegetica che ne deriva comporta che quella odiosità ricada su Augusto, che si fa temere ma anche odiare (come dice Plinio panegirista); sul destinatario stesso, che finisce con l’essere malvisto dal poeta che non può citarne il nome nell’epistola; sul poeta, infine, che soπre quell’anonimato a causa dell’odiosità del principe-censore. Il timore dell’anonimo pone Augusto in pessima luce di fronte all’opinione pubblica? L’opinione pubblica, solidale col dolore del relegato, legge negativamente questo atteggiamento timoroso perché lesivo verso il poeta che cerca conforto? O forse è il poeta che vuole qualificare come inuidiosa una tale reuerentia dell’anonimo, e lo fa così cripticamente? Ovidio oπre qui un saggio del suo virtuosismo retorico, lasciando aperte le varie interpretazioni, che anzi sembrano confluire l’una nell’altra, senza che nessuna escluda l’altra, con lo scopo di destinare il lettore alla riflessione. Si ritaglia il poeta uno spazio successivamente, a v. 43, quando, tornando sull’argomento, oπre elementi che finalmente perfezionino l’interpretazione e sciolgano l’ambiguità: con desine mitem animum uano infamare timore (la rara costr. con l’abl. è attestata in Liu. xl 7, 8 e Sil. iii 273), si addebita ogni responsabilità al parossismo dell’amico che vede la spietatezza degli scogli in acque invece tranquille. L’esule ha voluto apertamente disapprovare innanzitutto il proprio stesso comportamento nella composizione dei Tristia, elegie/epistole inviate a destinatari anonimi; questa disdicevole condotta ha procurato danni d’immagine al sovrano. Egli ha posto rimedio con la scrittura delle Epistulae ex Ponto, ma la resistenza della coscienza di libertà e con essa la costruzione di un’icona del princeps percepito come figura tirannica rappresentano uno zoccolo duro nella società romana, di cui il sodalis fa la parte dell’ambasciatore. 17-22. Vidimus di v. 18 (si pensi, ad es., a Verg. geo. iv 125-27, memini … uidisse), è il tipico segnale col quale il poeta avanza per le proprie aπermazioni pretesa di credibilità: la sua testimonianza autoptica è garanzia di totale a√damento. Ovidio, dunque, ha personalmente conosciuto casi di condanne inflitte da Giove (Augusto) non gravi ed estreme al punto di provocare la morte dell’imputato, e, anzi, tali da ammetterne addirittura il reintegro. Con l’espressione fulminis adflatos … telis il poeta indica le vittime delle fulminee saette (ThlL i 1240, 47-70), come già in tr. i 9, 21-22, dove si parla del timore, giustificato, che coglie tutti quelli che assistono al disastro causato dal fulmine che ha colpito (saeua neque admiror metuunt si fulmina quorum / ignibus adflari proxima qua eque solent). L’immagine è tratta da Verg. Aen. ii 649, me [Iuppiter] … / fulminis adflauit uentis et contigit igni, parole con le quali Anchise conclude la sua rJh`si~ ad Enea che lo sollecita a lasciare Troia, mentre il vecchio ormai rifiuta l’esilio, ricordando come tanto tempo prima (iam pridem, v. 647) fosse stato sfiorato dal vento dell’ignea folgore del re degli uomini e

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degli dèi: questa la punizione inflitta al giovane pastore, che mai avrebbe dovuto rivelare l’incontro con Venere, ma che non seppe resistere al fascino del vanto. Il caso di Ulisse (Odisseo), cantato nel v dell’Odissea, sbattuto tra le onde per volere di Nettuno (Poseidone), e sottratto al naufragio grazie all’intervento di Leucotea (Leucothea/ē), divinità protrettice dei naviganti (Cic. de nat. deor. iii 39), poi, è un esempio celeberrimo di salvezza di un umano da parte degli dèi. Questo specimen mitologico, inserito da Claassen 2001, 57 tra i casi di «dominant or thematic use of mythological figures throughout the exilic works», esplicitamente raccontato, può essere rettamente valutato solo ove venga associato a quello del padre di Enea implicitamente richiamato, per aposiopesi direi, con la sola ripresa intertestuale che proietta la memoria poetica del lettore ad un evento mitologico (l’incontro amoroso di Anchise con Venere) con contorni situazionali che non potremmo mai sapere quanta congruenza possano avere con la realtà biografica ovidiana immediatamente pre-tomitana. La salvezza di Ulisse ad opera di Leucotea oπre un esempio di intervento risolutivo di una vicenda di√cile che avrebbe potuto avere risvolti drammatici, ma nel nostro contesto essa ha valore di senso solo se confrontata con la vicenda di Anchise che avrebbe pagato per sempre la sua vanitosa leggerezza, come è chiaro alla sua coscienza quando si definisce inuisus diuis. Nel caso dell’eroe omerico è un dato di fatto che egli sia sottratto alla minaccia del mare: Nettuno non è Giove, né ha bisogno di ordini di Giove per operare nel regno dei mari in un senso o in un altro; non è Giove nemmeno e soprattutto Leucotea, la vera salvatrice dell’Itacese che, anzi, rimedia ai mali prodotti dal dio del mare. L’exemplum mitologico di Ulisse, come si sa, ma è appena il caso di ricordarlo, per l’Ovidio esilico è un riferimento forte di autobiografismo (cfr., ad es., tr. i 5, 57-84; iii 11, 61-62; P. iv 10, 9-28, dove è svolto, in particolare, il motivo della parte cospicua dell’esistenza spesa lontano dagli aπetti e dalla casa). Anche in questo caso il poeta, facendo riferimento alle altre circostanze testuali in cui ha evocato il mito di Ulisse, chiama il lettore a valutare la diversità della sua condizione interiore, non più disposta alla fiducia di una salvezza, all’aspettativa che da qualche parte anche per lui si erga una Leucotea pronta a strapparlo ai gorghi dell’amaro destino. Ovidio incoraggia il fittizio amico, anonimo e timoroso, sulla veridicità dell’aiuto degli dèi ove si confidi nella credibilità dell’esempio mitologico, che annullerebbe tutte le distanze mentali che possano aprirsi tra l’esperienza tomitana e la vicenda ad esempio odissiaca, ma, nello stesso tempo, negozia l’opzione inversa insita nell’exemplum contenuto nell’intertesto virgiliano, più pessimistica e per lui più realistica. Crede mihi di v. 21, ancora una formula che chiede consenso alla credibilità di quanto si sostiene (Cugusi 80-81), ribadisce, infatti, la veridicità promessa e l’attendibilità pretesa nel già citato uidimus di v. 18: non sempre, egli dice, gli dèi vessano le vittime colpite lasciandole senza requie; nec semper è un simbolo fortemente opposto all’ideologia erotico-elegiaca, in cui il poeta amans assolutizza la sua vicenda (due tra numerose occorrenze: Tib. i 6, 65; Prop. i 2, 31), una filosofia alla quale reagisce l’Orazio di carm. ii 9, 1-2, non semper imbres nubibus hispidos / manant in agros, mentre fustiga l’amico innamorato, Valgio: tu semper urges flebilibus modis / Mysten raptum (vv. 9-10). L’attenzione sul ‘linguaggio’ elegiaco e sull’atmosfera dell’eros elegiaco è incoraggiata da una massiccia contiguità lessicale: anche la vicenda erotica che ruota attorno al mondo elegiaco ha, oltre che un confine temporale illimitato (sine fine, ad es., in Ou. am. ii 10, 11; her. 3, 15), le sue vittime schiacciate dall’eros (ad es., Prop. iii 21, 6), i suoi laesi (Prop. ii 25, 20). Il v. 22 della nostra elegia, nec semper laesos et sine fine premunt, risulta un denso aggregato di termini che non nascono in ambito erotico-elegiaco, ma che in quell’ambito hanno acquisito dignità letteraria, per cui Ovidio vi attinge per la loro impiegabilità come materiale di ri-uso di alto profilo. Laesus, che, sia nel contesto dell’elegia cosiddetta ‘lieta’ che in questo dell’elegia ‘triste’, è il termine dalla valenza semantica più specifica, ad es., e che era stato prelevato dal poeta erotico dal linguaggio extraelegiaco e piegato a significazioni collegate con il proprio mondo, ora, però, torna al suo significato originario, come è largamente attestato in ThlL vii 2 866, 52 sgg. Ovidio restituisce a certo linguaggio che gli elegiaci, ed egli stesso, avevano funzio-

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nalizzato all’espressione del proprio mondo, il suo valore semantico primitivo; Conte 1991 149, osserva: «[Ovidio] è un poeta molto interessato alla natura relativa dei generi, e alla possibilità di utilizzare certi elementi entro codificazioni diverse». Sul valore metaletterario del verbo laedo, indicante l’azione che il poeta giambico o satirico esercita sul ‘nemico’ di turno rimando alle osservazioni di Degl’Innocenti Pierini 2008 90, che cita opportunamente Cic. nat. deor. iii 91, quem [i.e. Bupalum] Hipponactis iambus laeserat, aut qui [i.e. Lycambes] erat Archilochi uersu uulneratus; fam. xii 16, 3, deinde qui magis hoc Lucilio licuerit adsumere libertatis quam nobis? Cum, etiam si odio par fuerit in eos quos laesit, tamen certe non magis dignos habuerit in quos tanta libertate uerborum incurreret (ed. Shackleton Bailey, ii, Cambridge, 2004); Hor. serm. i 4, 78, «laedere gaudes». 23-30. Impegnato nella celebrazione dell’inimitabile moderatio di Augusto, Ovidio ricorda la recentissima (nuper) consacrazione cultuale di Iustitia Augusta che prevedeva la dedicazione di un tempio marmoreo o di un altare o di una statua della dea, come si legge in Benedum 90-92; l’esattezza della data dell’evento, da Axtell ipotizzata per l’8 gennaio del 13 d.C., calcolata anche grazie al collegamento del contenuto dei vv. 23-26 di P. iii 6 con una notizia nei fasti capitolini, sarebbe stata confermata poi da Gagé 163 e da Syme 1978, 40-44. Già nell’elegia proemiale del ii libro delle ex Ponto, ai vv. 33-34, nell’ambito della presentazione del trionfo di Tiberio e di Germanico in Pannonia, viene ricordato che Tiberio ha placato Iustitiam sui parentis, la quale ha un suo proprio tempio all’interno di quel petto, illo quae templum pectore semper habet (Galasso 1995, 111-112; Evans 1983, 28). Iustitia figurava tra le uirtutes di Augusto catalogate sul clupeus uirtutis, come da ultimo ricorda Hardie 2015, 608. In P. i 2, 97 Ovidio definisce Augusto «il più giusto» tra gli dèi; in met. xv 833 il principe è il iustissimus auctor che leges feret. Se solo a poco tempo prima (nuper) risale la dedicazione del tempio e la collocazione all’interno di esso di una statua di Iustitia, già da tempo (iam pridem), dice il poeta puntando sull’evidente eπetto prodotto dai due avverbi temporali, posti rispettivamente in apertura dei due versi che formano il distico, Cesare ha posto nel suo animo quel principio, mentis in aede suae, immagine assolutamente inedita, che con una variante sarebbe stata ripresa da Prosp. Aquit. epigr. 102 (99), 8, noctem peccati cordis ab aede fuget (ThlL i 915, 86 sgg.). A questa dichiarazione che riconosce ad Augusto il senso dell’equilibrio e dell’equità governati da un’energia divina guidata da Iustitia (sulla storia del termine nella poesia esilica ovidiana Claassen 1999, 142), seguono, sorprendentemente, due distici sulla condotta di Giove di√cilmen­te riconoscibile nel senso di giustizia; piuttosto sconsideratezza (cfr. temeraria, v. 27) e casualità, quasi capricciosa, o almeno cieca, regolano l’azione del re degli dèi, spesso diretta a colpire gli incolpevoli. Il riferimento obliquo ma platealmente allusivo alla vicenda autobiografica è tutt’altro che astratto o fortuito. In am. ii 7, 12, in un contesto rigorosamente erotico, il poeta-amante legge in modo equilibrato il rapporto colpa/pena: a Corinna, che l’accusa di tradimento, controbatte che vorrebbe essere consapevole di aver veramente commesso un peccatum; in quel caso direbbe a se stesso: aequo animo poenam qui meruere ferunt. Giove, invece, colpisce all’impazzata, multos … fulmina torquet (cfr. Val. Fl. in Arg. ii 23-24, torquet ab alto / fulmina crebra pater), eppure quelle vittime erano incolpevoli. Nettuno ne ha inghiottiti tanti con la furia delle onde. Multos e tot dei vv. 27 e 29, tanto generici quanto tragici, rimarcano la moltitudine delle vittime; la nefasta ripetitività di questa fenomenologia è a√data anche ai significanti: mulTOS/… TORquet // culPA / … PAti (vv. 27-28). Tanti il dio del mare ha condannato a morire, ma quanti (pars quota: numerose le occorrenze nella poesia ovidiana di ogni stagione) realmente meritavano d’esser sommersi dalle onde spietate (saeuis, un’enallage)? Saeuis undis è sintagma lucreziano, v 222, ut saeuis proiectus ab undis / nauita: la memoria dell’immagine penosa del puer prossimo ad essere ghermito dalla immatura mors ha ispirato questa visione dell’ineluttabile. Il lettore è abituato a leggere sotto il nome di Giove quello del principe, e a questo allestimento metonimico non sfuggono i due distici in esame, per quanto sembri che il poeta voglia

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distinguere Augusto da Giove, dato che dal v. 38 egli insiste sulla clementia del principe. Un gioco piuttosto complesso è attivato dal poeta determinato ad insinuare con allusioni la crudeltà del principe, ma nello stesso tempo impegnato ad ammorbidire accuse troppo esplicite con una sorta di legittimazione delle ragioni accusatorie a proprio carico. Ovidio riconosce alla propria coscienza che tentare un’azione polemica diretta avviando un combattimento ad armi pari potrà produrgli solo nocumento, cioè ulteriore sconforto, nel riconoscimento della sostanziale vacuità dell’azione. Non è un caso che la rappresentazione di questo Iuppiter spietato sia collocata tra un Iuppiter che favorisce il recupero di alcune vittime pur raggiunte dai suoi tela fulminis (vv. 17-18) ed un Augustus che recupera molti allentando almeno parzialmente la loro pena (vv. 37-38). Leggere a vv. 37-38 restituit multos aut poenae parte leuauit / Caesar risveglia immediatamente, come un’eco, la memoria di adflatos … uiuere … / et refici non prohibente Ioue di vv. 17-18. Insomma, questo piglio un po’ schizofrenico di Giove, che colpisce a caso, e a caso riscatta dalla morte o dalla soπerenza, vuole essere, nelle intenzioni del poeta, esteso al principe. Ovidio si sente in balìa di un comportamento non regolato da un disegno razionale. Il suo pensiero è dimidiato, nel confronto Giove/Augusto, tra una perfetta corrispondenza, ‘Augusto è moderato come Giove’, ed una preminenza, ‘morale’ e comportamentale del princeps sul rex deorum, ‘Giove a volte colpisce a caso mentre Augusto colpisce secondo giustizia’. Ma nemmeno è sempre così. Lo scopo è di mantenere una posizione ambigua, in qualche modo esplicativa dell’atteggiamento altalenante di Augusto, che potrebbe trovare una ragione nel fatto che sulle sue decisioni pesavano i giudizi, gli orientamenti, le pressioni di altri personaggi, come, ad es., di Tiberio, e di Livia. 31-38. Il comportamento degli dèi verso gli uomini non è univoco né razionale ma casuale: essi colpiscono innocenti e colpevoli senza una specifica motivazione: Fortuna arbitriis tempus dispensat iniquis si legge in epic. Drusi 371. Marte, ad es., per sua stessa ammissione, è iniquus, iniqua la sua scelta, delectus (del termine in questa accezione semantica esistono precedenti esclusivamente ciceroniani: cfr. ThlL v 429, 80 sgg.), se in una battaglia muoiono tutti i combattenti più valorosi, fortissima quaeque, un nesso che sarebbe piaciuto a Silio Italico che, però, sente il bisogno di completare il sintagma, xvii 491-492, fortissima quaeque / nomina. La coscienza personale di Ovidio penetra il dato mitologico: il relegato si sente paragonabile ai combattenti più validi abbattuti dal capriccio di Marte; nello stesso tempo egli dichiara che non è stata commessa nessuna ingiustizia ai suoi danni: chiunque negherebbe che la punizione che gli è stata comminata non sia giusta. Ovidio ricorre ad un linguaggio tecnico, processuale, ma è appena il caso di ricordare che non era stato istruito nessun processo a suo carico, nessuna rogatio, nessuna publica quaestio, come era accaduto per Cicerone, e che la pena per aver commesso il reato di laesa maiestas gli era stata comminata direttamente dal Cesare in forza dell’inappellabile potere giudiziario che gli derivava dall’imperium. Del resto, un processo avrebbe comportato un pubblico dibattimento, inopportuno per il principe, e probabilmente non solo per lui; si trattava di evitare uno scandalo. Se l’error andava, come spesso dice il poeta stesso, assolutamente taciuto, sembra evidente che era tassativo continuare ad evitare che lo scandalo scoppiasse. E la consegna fu rispettata da tutti, se è vero, e lo è, che il peccatum è rimasto un mistero. In nos inquirere di v. 33 – e l’inquisitio è a√data ad un anonimo ‘tu’ generico (si forte uelis) – è espressione del linguaggio giuridico, anzi con la costr. in + acc. sono attestati solo precedenti ciceroniani, mentre per la poesia l’uso è esclusivamente ovidiano (ThlL vii 1817, 53 sgg.). L’ammissione di colpa e la giustezza della sanzione (commeruisse, v. 34, raro: hapax in Plauto, Terenzio, Cicerone in de orat., ThlL iii 1880, 20 sgg.) contrastano con l’ingiustizia con la quale talvolta Giove colpisce le sue vittime, immeritevoli di pena (non meruere, v. 28): il disorientamento del giudice provoca disorientamento nell’imputato. Tanti muoiono in acqua, in guerra, in un incendio, tutte sventure che non concedono possibilità di salvezza, possibilità di continuare a vedere la luce del giorno: la corrispondenza che

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Claassen 2008, 136 vede tra il valore di restituere come term. medico e come «technical term for the restoration of civic rights», appare forse un po’ forzata, come la deduzione esegetica: «no day can restore the exile to his full civic rights». Cesare invece ha reintegrato molti e a molti ha alleviato la pena, ed è tra questi che Ovidio dice di sperare di essere annoverato. Ecco: lo dice all’anonimo destinatario, che, in quanto tale, non è abilitato ad intercedere per lui presso Cesare. Se avesse ragione della Corte 1974, ii 138, quando sostiene che tutti i personaggi il cui nome è svelato da Ovidio nelle ex Ponto avrebbero avuto vita di√cile perché il permesso accordato da Augusto sarebbe stato mosso proprio dall’intento di scoprire chi eπettivamente appoggiava l’esule, dovremmo verificare che tutti i nominati ebbero un destino negativo per mano del principe, ma non pare che ciò sia vero; nel contempo è un fatto che Sesto Pompeo, nel quale lo studioso pensa di poter riconoscere l’innominato, in ogni caso, fece grande carriera: ma se l’avrebbe fatta ugualmente anche se non avesse optato per l’anonimato non è dato sapere. Forse sì. La figura del Caesar con cui si apre il v. 38 come quella di Iuppiter dattilo incipitario del v. 27 sono presentate specularmente, in un gioco ora di oppositività ora di convergenze: la sovrapponibilità come l’antitesi sono legate alle esigenze dell’argomentazione di turno. (L’assimilazione o il confronto tra Giove ed Augusto è frequente nell’opera esilica: si vedano, ad es., tr. i 1, 81-82; i 4, 26; iii 11, 62; iv 8, 45-52; P. i 7, 49-50: Davisson 1993, 236, nota 70; per tr. ii 33-40, in particolare, Ciccarelli 23 sgg.). A questo punto dell’epistola prevale la denuncia, sia pur formulata in modo ambiguo, di una capricciosità di Augusto non dissimile da quella di Giove. E forse questa devastante schizofrenia nell’atteggiamento di Augusto è spiegabile – giova ripeterlo – col fatto che, almeno nella congetturale ricostruzione di Ovidio, sulla base di quanto gli veniva riferito, il principe, comunque controllato da Livia, era talvolta supplito in certe decisioni da Tiberio. Questa è la ragione che provoca la progressiva e poi definitiva perdita di fiducia del relegatus; che l’appello sia rivolto nel iv libro al solo Germanico è molto significativo. Sembra che Ovidio tenti di risvegliare Augusto; Galasso parla giustamente di valenza retorica dell’istanza persuasiva (2013, 6), di richiamo dell’attenzione di Augusto sui modelli di comportamento, che sono proprî dell’ideologia augustea; come già accennavo, a mio avviso l’ideologia ‘augustea’ è già tramontata; la voce dell’esule Ovidio è già quella che Tacito nei suoi Annales presterà, tra gli altri, a Cremuzio Cordo (iv 34, 2-5-35, 1-3), l’atmosfera è quella respirata, e patita, da Tizio Sabino (iv 68-70), da Trasea Peto (xv 24 sgg.). È assai significativo che Sabine Grebe 2010, 507 arrivi a sostenere che «Augustus seemed to have chosen Ovid as the victim of his arbitrary actions», e, successivamente (p. 508), che «the princeps was bloodthirsty», in ciò confortata da quanto di analogo aveva sostenuto Green 1994, 319. È un giudizio senz’altro estremo, ma meritevole di riflessione. 39-44. Il tema del timor domina decisamente i successivi tre distici, vv. 39-44, quasi come un assillo che grava sulla responsabilità morale del destinatario della lettera, cioè, credo di poter dire, sull’idea della nominabilità e della memorabilità di chi riceve una missiva da chi è stato condannato alla relegatio. Ovidio procede con una serie di argomentazioni miranti a dimostrare l’assurdità della posizione dell’amico, e, quindi, a ribadire la non-temibilità di risvolti vendicativi da parte del Cesare: siamo, egli dice, tutti sudditi dello stesso principe, di quel principe con quelle qualità (tali … sub principe), siamo il suo popolo; la convinzione che dialogare, oltretutto solo per via epistolare, con un profugo attivi legittimamente il metus va scongiurata. Non si dovrà confondere il temuto Augusto con il dominus Busiris, uno dei più spietati re d’Egitto, che pretestuosamente manifestava devozione al re degli dèi; egli aveva liberato l’Egitto da una carestia durata nove anni, reperendo ogni anno un forestiero da sacrificare, come un indovino di Cipro, Frasio o Trasio (Mirto 331-332), gli aveva suggerito di fare (riferimenti in [Apollod.] ii 5, 11 W., dove al mito si accenna dal punto di vista dell’epopea eraclea. Fu appunto l’eroe ad uccidere Busiride e suo figlio Anfidamante). Fu ucciso da Eracle che pose

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così fine alla tirannia; in Ou. met. ix 183 l’eroe si vanta di aver domato il re «che insozzava i templi di sangue straniero»; liberando la terra dai mostri doveva essere considerato un benefattore dell’umanità (Kenney 2011, 414). Sulla falsariga dei frr. 44-46 Pfeiπer degli Aitia di Callimaco al mito di Busiride (a cui si accenna anche in Ibis 397-398) è associato quello di Falaride (fugace accenno al solo Falaride in tr. v 1, 53-54), come già era avvenuto nel i libro dell’Ars al v. 647 sgg. (Pianezzola 260-261), a sostegno della tesi che le donne, profanum genus, meritano di cadere nei lacci che esse stesse hanno teso, ragione che giustifica perché quei due personaggi sian proposti come figure paradigmatiche positive, iustus uterque: non c’è legge più giusta che dare morte con la stessa arte degli artefici di morte (vv. 655-556). Dunque, al tiranno di Agrigento, Falaride, appunto, l’inventore Perillo propose una singolare procedura per eseguire una condanna a morte con tortura: il condannato veniva introdotto all’interno di una struttura in ottone cavo a forma di toro, collocata sotto una pira; la bocca del toro era congegnata in modo che i lamenti del malcapitato fossero percepiti come muggiti, dando così l’impressione di una vera e propria bestia. Ma Falaride decise di sperimentare la macchina proprio con Perillo. Qual è la congruenza di questi di due exempla mitologici nel contesto della lettera all’anonimo? Nella poesia esilica Busiride e Falaride insieme erano già stati ricordati (la menzione in her. 9, 69, pre-esilica dunque, sfugge al senso mitologematico delle occorrenze in tr. e P.) in tr. iii 11, 39-54, dove, anzi, il mito del tiranno di Agrigento ha finanche uno sviluppo narrativo con rJhvsei~ di Trasio e di Falaride. Al destinatario dell’epistola, un improbus che lancia insulti alla sventura del poeta e lo processa senza dargli tregua (vv. 1-2), Ovidio rinfaccia una saeuitia maggiore di quelle di Busiride e di Falaride. In tr. v 12, 47-48, poi, il poeta, accademicamente direi, assume su di sé, artefice del suo male in quanto autore dell’Ars, la colpevolezza di Perillo. Particolare valore acquisisce, invece, la citazione del mito di Falaride in Ibis 437-440, dove il poeta lancia un’altra delle sue maledizioni all’anonimo avversario: aere Perilleo ueros imitere iuuencos / ad formam tauri conueniente sono, / utque ferox Phalaris lingua prius ense resecta / more bouis Paphio clausus in aere gemas. Il sintagma clausus in aere del testo dell’Ibis richiamato da clausos … in aere del v. 42 dell’epistola suggerisce un rapporto tra i due testi più stringente degli altri in cui compare il mito di Falaride; ed il rinvenimento di altri echi puntuali, di cui dirò di sé­guito, incoraggia l’ipotesi di una stretta a√nità ispirativa e creativa. L’atteggiamento del mittente verso l’anonimo è venato di un’acredine sopita nel tono ironico in cui a√ora un sogghigno sprezzante. La componente comico-teatrale delle ex Ponto meriterebbe un’indagine come quella condotta da Amann per i Tristia, tuttavia attenuata nella applicazione forse eccessiva delle theo­retische Betrachtungen zur Komik dalla saggia cautela delle osservazioni di Degl’Innocenti Pierini 2008, 43, n. 9; Larosa 2013a, in misura opportunamente più contenuta, appunto, richiama l’attenzione sulla componente comico-teatrale. Rimane, invece, a mio avviso, assolutamente condivisibile la conclusione di Amann secondo la quale certa tecnica poetica dei Tristia non diπerisce da quella delle opere giovanili. Al suo ‘sodalis’ l’esule riserva un’analogia mitologica utilizzata anche nella scrittura dell’Ibis: questo lascia almeno ipotizzare che Ovidio sia animato da un astio non diverso da quello nutrito per il detrattore, destinatario del poemetto, databile agli anni 11-12 (La Penna 1957, vii sgg.; 1961, 259; Leary, seguendo Syme 1978, 38, pone il terminus post quem alla data di composizione di Tristia iii, cioè il 10 d.C.; Claassen 1999, 137 aveva indicato la forbice marzo 10/febbr. 12 d.C. per il periodo di composizione di Tristia iii-iv). Il ‘sodalis’ potrebbe essersi macchiato di una delazione presso il principe, ed al poeta piace ora immaginare che l’odioso individuo sia assalito dal timore di rimanerne vittima, come era accaduto a Trasio (o Frasio) e a Perillo. E Ovidio rincara la dose chiedendo di por fine ad un immotivato timore, che genera calunnie nei confronti di un mitis animus … come quello di Augusto, e così sciogliendo, almeno apparentemente, l’interrogativo dei vv. 15-16. Desine … infamare: ecco l’invito cifrato che il poeta invia

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al suo timoroso sodale, che, probabilmente, assomma in sé una più larga connivente resistenza ed una vincente volontà di trattenerlo per sempre a Tomi. 45-58. La richiesta dell’anonimo – come si è detto – richiama alla memoria del poeta relegato i tempi in cui egli scriveva elegie indirizzandole a persone come questo anonimo, i destinatari delle lettere raccolte nei libri dei Tristia. Tra loro Ovidio riconosce il sodalis a cui ‘invia’ questa lettera: uobis di v. 45, per riportare un esempio, echeggia, tra i molti, il uos di tr. iii 4b, 17 (proprio il passaggio dal tu di vv. 1-46 al uos di vv. 47-78 ha, come è noto, provocato sin dall’età umanistica l’intervento dei cwrivzonte~; contra, e.g., Evans 1983, 56-57), l’anonimo gruppo di amici che il poeta ha nel cuore rifugiandoli in un cauto silenzio, uos quoque pectoribus nostris haeretis. Ma in uos, come dice Gaertner 2005 8, bisogna leggere la genericità del pubblico, e non solo del pubblico contemporaneo, insomma la audience di ogni tempo, anche del tempo in cui viviamo noi stessi, «ultimo terminale della comunicazione» che Ovidio stesso ha cercato (Nicastri 10-11). Il uos, riferito ad un pubblico generico, è frequente nelle Epistulae ex Ponto, come sottolinea Citroni 1995, 465, nota 5 (ma si veda tutto il cap. viii, Ovidio e la scoperta del «lettore aπezionato», pp. 431-474), ma in questa nostra epistola uos riflette la cerchia di ‘amici’ cui appartiene il personaggio che preferisce rimanere nell’ombra. E su quel comportamento ora il mittente esprime disappunto, sente di doversene scusare, e forse di non esser nemmeno degno di scusarsene (uix, v. 46). Il pauor gli aveva sottratto le capacità razionali, il ben dell’intelletto; su questa immagine della illogicità del suo operato è costruito un intero distico, vv. 47-48, ed il fermo proposito di rendersi assolutamente credibile si rivela soprattutto nell’adozione della repetitio variata: usus rationis retto da ademerat e omne consilium reggente cesserat oπrono realtà mentali certamente assimilabili; la coesistenza sul piano espressivo è supportata dalla uariatio sintattica, che vede le parti sostantivali l’una in acc., retta dalla voce verbale transitiva, l’altra al nom., soggetto della voce verbale intransitiva. La mente del poeta, impegnata nella rievocazione del tempo, nemmeno lontano, quando scriveva i Tristia, va al pauor che lo aveva reso attonitus, un aggettivo usato qui absolute, ma spesso reggente sostantivi in abl. come metu, pauore (ThlL ii 1155, 13 sgg.); pauor nel nostro caso invece ha funzione di soggetto della frase. Lo stesso uso assoluto dell’aggettivo si trova in P. i 6, 12, nam fuit attoniti mens mea nulla diu, dove, non diversamente, il condannato alla relegazione confessa a Grecino che lo sbigottimento, una volta presa coscienza della sorte subìta, gli ha provocato un’incapacità di riflessione che si è protratta nel tempo. L’agg., con valore sostantivato, compare ancora in Ibis, dove al v. 453, attonitus seces … / … uilia membra, l’autore augura al suo nemico detrattore addirittura di piombare in uno stato di violenta pazzia che lo colpisca sino a spingerlo all’autoevirazione. Ovidio, dunque, era assalito da un senso di timore per la sua sorte di relegatus, per una soπerenza a lui assolutamente sconosciuta, che ne stravolgeva la condizione esistenziale, l’organizzazione della vita. Fortunam metuens è una iunctura che si legge in Cic. fam. ii 11, 1, fortuna metuenda, dove l’Arpinate confessa a Marco Celio di temere una inversione della fortuna provocata dalla reputazione acquisita nella provincia, che non sente particolarmente condivisa dagli altri. L’orgoglio rende predominante nell’animo del condannato l’impulso interiore, attivato dalla nuova condizione, sul sentimento o stato d’animo del giudice che lo condannava: lo sgomento per quel che gli accadeva pervadeva la sua mente, che non si smarriva, invece, nella paura per l’ira del punitore, uindicis iram, un sintagma pressoché formulare: lo si ritrova, leggermente variato, a P. i 1, 49 principis iram; letteralmente riprodotto a P. ii 9, 77, quidquid id est, habuit moderatam uindicis iram; la clausola sarebbe stata ripresa da Lucan. ii 540. L’insistenza con la quale il poeta stigmatizza il suo comportamento d’un tempo, del quale si scusa e per il quale pensa di non poter essere scusato, aggrava la scelta dell’anonimo, che, evidentemente, è assalito proprio dal timore di quell’ira del vindice che il poeta, invece, ha appena detto di non

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nutrire, metuens … non uindicis iram. Ovidio, lo stimato poeta dell’ultimo scorcio della Roma augustea, era atterrito del fatto che lui, sì, proprio lui stesse scrivendo da esule lettere, atterrito che il titulus di un’epistola inviata nientemeno che dal Ponto Eusino portasse proprio il nome suo: ne rimaneva come smarrito. La lettura dell’epistola 4b del iii libro dei Tristia, di cui si è già rilevato un punto di contatto nella ripresa in P. iii 6 con il uobis, che assembla il gruppo allargato di amici del quale fa parte il sodalis celato nomine, ripreso dal uos in Anrede dell’elegia dei Tristia, consente di registrare altri e significativi elementi di contatto, che farebbero pensare che Ovidio, scrivendo i versi finali di questa sesta epistola dal Ponto, presupponga il testo dell’elegia della raccolta precedente; e, infine, i puntuali intertesti con l’Ibis rendono almeno ipotizzabile che il testo di P. iii 6 sia stato composto con uno spirito analogo, e che quindi l’una scrittura possa essere considerata ipotesto dell’altra, in quanto entrambe portatrici di un giudizio assai critico nei confronti del destinatario: stando alla cronologia stabilita da La Penna 1957, vii sgg. per l’Ibis, come dicevo, e a quella stabilita da Claassen 1999, 137 per P. i-P. iii, è ipotizzabile che l’epoca di composizione di iii 6 sia assai vicina a quella del poemetto, più probabilmente, a mio avviso, successiva, perché è l’Ibis il testo che fonda esclusivamente sulla inuectiua in hostem l’elemento distintivo dell’ispirazione. Tuttavia è innegabile che è soprattutto il rilievo con l’intratestualità della citata epistola dei Tristia che potrà utilmente, e con maggiore e√cacia, infine, oπrire qualche indicazione sul giusto orientamento per l’esegesi dell’epilogo della nostra epistola. In tr. iii 4b 17-20 il poeta esterna l’aπetto per gli amici che vorrebbe ricordare per nome, ma è costretto dal timore ad essere prudente e a trattenersi dall’o√cium. Cautus di v. 19 echeggia cauta di v. 3 della nostra epistola; timor o√cium … compescit di v. 19 richiama non ultra quam uis o√ciosus ero di v. 56. Appena dopo, vv. 23-24, il poeta aggiunge che leggere i nomi degli amici è rischioso, anceps, quindi li serba nel cuore, e per nessuno di loro sarà causa di timore: quod quoniam est anceps … / nulli causa timoris ero, con evidente riproposizione dell’agg. anceps a v. 60, e del concetto ai vv. 59-60. Ai vv. 25-26 di tr. iii 4 Ovidio rassicura gli amici sul fatto che la sua poesia manterrà il loro anonimato, rimarranno amici latitantes, ed aggiunge: occulte, si quis amauit, amet: questi pensieri e soprattutto questo lessico tornano alla mente del poeta quando in P. iii 6, rivolgendosi in chiusura al sodalis, esclama: tu modo, quem poteras uel aperte tutus amare, / si res est anceps ista, latenter ama. Latenter è avv. di uso assai raro; Ovidio è il primo e l’ultimo poeta di età classica (dopo di lui Commodiano, Optaziano Porfirio, Giovenco, ecc.) che lo utilizza in poesia (isolata occorrenza nella prosa è quella di Cic. top. 63), e, comodo anfibraco nel secondo kolon del pentametro, è probabilmente ispirato dal latitantes di tr. iii 4b, 25. Tr. iii 4 e iii 4b, che si tratti di due elegie o di una sola (Luck 1977, 184 sgg. è a favore della separazione), documentano il consiglio oπerto dal relegato all’amico e agli amici di vivere nascostamente, di amare Nasone in silenzio: la compassionevole autodesignazione conserva ancora l’intenzione di incidere sulla sensibilità del destinatario. Ma la sesta epistola del iii libro dal Ponto esprime uno stadio avanzato del progressivo sensibile cambiamento del punto di vista del mittente. Nell’epistola proemiale delle ex Ponto il poeta manifesta pentimento per la prassi seguìta nei Tristia, ma nell’espressione Musa … ad inuitos o√ciosa uenit si legge che lo stanamento del destinatario è avvertito ancora come uno strappo, per quanto il destinatario già di alcune elegie dei Tristia, oggi individuato, era palesemente riconoscibile all’epoca dei fatti. Né risulta che i personaggi destinatari abbiano subìto danni dalla ricezione di epistole da parte dell’esule pontico. Ora, questa epistola aggiorna l’interpretazione della quaestio; quell’esule che condivideva il timore del destinatario ora è fortemente critico nei suoi confronti; considera un ‘errore’ non aver citato i nomi dei destinatari; addebita la scelta dell’anonimato al grave smarrimento seguìto alla sanzione relegativa. Quella di Ovidio è stata una admonitio (hactenus admonitus, v. 51), che serba dentro di sé un dissenso, un rimprovero, una critica; con essa si recupera la memoria di quel che è stato (memori poetae, ibid.), delle ragioni dell’anonimato dei destinatari praticato

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nei Tristia e del diverso comportamento usato nelle ex Ponto: l’esule si è ritagliato uno spazio poetico per censurare l’atteggiamento di chi preferisce non conservare nessuna condivisione con lui, di chi continua a rifiutare ogni forma di condivisione, verso il quale l’esule rifiutato smette di nutrire sentimenti d’aπetto, ma ora lo dice con tono beπardo: conceda l’anonimo al poeta di apporre sulle sue chartae i nomi che gli sono cari. Ovidio si accolla, condividendola con l’anonimo, la turpitudo che l’identità dell’amico di vecchia data (longo usu è sintagma ovidiano: tr. iii 5, 9 e iii 6, 19 le occorrenze di prossimità semantica) non emerga nei suoi libri. L’ironia prende sempre più forma: il poeta scomodo non ha nessuna intenzione di togliere tranquillità al sonno dell’anonimo, e, pertanto, non osserverà l’o√cium verso di lui che non vuole, per non rimanere implicato al punto da compromettere il suo ruolo e forse la sua stessa vita (Labate 1987, 117). Non svelerà la sua identità: che nell’allitterante teque tegam, qui sis di v. 57 ci sia il senso del disprezzo è provato dalla presenza quasi letterale della pericope in Ibis 52 teque breui, qui sis [, dissimulare sinam], dove acredine violenta suggeriva all’esule parole adeguate, o gliele rinnovellava, ove ci trovassimo, come sembra, dinanzi allo stesso poeta, e ammettessimo la priorità cronologica dell’epistola rispetto all’Ibis. Ovidio non costringerà nessuno ad avere un suo munus: è questo il munus più e√cace che il risentimento dell’esule poteva fare ad un sodalis indegno. 59-60. Nella conclusione, comunque trasgressiva, si avverte l’ambiguità che attraversa tutta l’epistola. La costruzione del distico ricorda, sia pur vagamente, le strategie espressive del poeta erotico-elegiaco e, anzi, dell’erotodidaskalos impegnato a difendere l’elegia erotica come genere, depurata dalla condannata nequitia: qui nolet fieri desidiosus, amet, grida il poeta in am. i 9, 46, stravolgendo dal suo interno quel registro poetico-esistenziale. Da praeceptor amoris Ovidio si ricicla praeceptor amicitiae. L’ammissione delle two voices nell’epistola, e tanto più in questo epilogo, non può ‘leggere’ l’invito contenuto nell’ultimo distico, latenter ama, come ‘particularly pathetic’, secondo l’esegesi della Davisson 1981, 20. Si è piuttosto propensi a riconoscere nei due versi finali una formula di commiato che corona in modo direi naturale, rigidamente conseguenziale, quell’ironia personale, privata, non ribelle in una esibita u√cialità, mista ad amarezza che imprime il suo tono al componimento (sul motivo degli inimici o falsi-amici Degl’Innocenti Pierini 2003, 126 sgg. [= 2008, 82 sgg.]). Certamente l’espressione si res est anceps ista vanifica tutte le rassicurazioni fornite, decreta il fallimento di tutte le argomentazioni usate per dimostrare l’irragionevolezza dei timores del sodalis, dai quali il poeta si sente lontano (res … ista), non perché oggettivamente non li condivida, piuttosto, invece, perché condanna, quasi sino al disprezzo, chi si mostra incapace di aπrancarsene. Al riconoscimento dell’ingiustizia di Augusto perviene la stessa Davisson in due significative riflessioni: 1993, 235, quando sostiene che «[…] the use of exempla supports the view that the emperor who relegated Ovid remains an alarming figure», e 236, dove si legge che «Anyone in Ovid’s position was unlikely to deny Augustus’ justice openly but would no doubt welcome an imperial acknowledgment of injustice». Probabilmente quella omologazione è condivisa tanto dalla cautela del sodalis, proprio per questo a maggior ragione timidus, quanto dall’energico disincanto del non più speranzoso poeta, e tuttavia accende reazioni esattamente opposte, opportunistiche quelle dell’amicus celato nomine, improntate a franchezza quelle del relegato a vita.

Epistola iii 7: Ad amicos - Sperare è vano; morire nelle acque eusine: questo il destino finale

III 7 Sperare è vano; morire nelle acque eusine: questo il destino finale «Amici, ad invocare il vostro aiuto ho sbagliato. È ovvio che vi annoiate a legger richieste sempre uguali. Ormai in terra getica morrò. Non c’è motivo di sperare ancora in un ritorno a Roma, o in una relegazione meno disagiata. Come ho potuto mai sperare di ottenere un gesto di indulgenza? La mia Parca vada fino in fondo alla strada intrapresa. Meglio morire sommersi da un’onda improvvisa che stancare invano le braccia nel gonfiore delle acque. Eppure, la disponibilità ad ascoltare le preces ci sarebbe stata. Ma ormai!: se l’ira del Cesare non me lo nega, troverò morte coraggiosa nelle acque del Ponto.»

Testo - Traduzione p. iii 7

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7. AD AMICOS 5 10 15 20 25

Verba mihi desunt eadem tam saepe roganti, iamque pudet uanas fine carere preces; taedia consimili fieri de carmine uobis quidque petam cunctos edidicisse reor. nostraque quid portet iam nostis epistula, quamuis cera sit a uinclis non labefacta meis. ergo mutetur scripti sententia nostri, ne totiens contra, quam rapit amnis, eam. quod bene de uobis speraui, ignoscite, amici, talia peccandi iam mihi finis erit. nec grauis uxori dicar, quae scilicet in me quam proba, tam timida est experiensque parum. hoc quoque, Naso, feres: etenim peiora tulisti; iam tibi sentiri sarcina nulla potest. ductus ab armento taurus detrectet aratrum, subtrahat et duro colla nouella iugo: nos, quibus adsueuit fatum crudeliter uti, ad mala iam pridem non sumus ulla rudes. uenimus in Geticos fines: moriamur in illis, Parcaque ad extremum qua mea coepit eat. spem iuuat amplecti, quae non iuuat inrita semper? et fieri cupias siqua futura putes? proximus huic gradus est bene desperare salutem seque semel uera scire perisse fide. curando fieri quaedam maiora uidemus uulnera, quae melius non tetigisse fuit. mitius ille perit subita qui mergitur unda, quam sua qui tumidis bracchia lassat aquis. cur ego concepi Scythicis me posse carere

‘recte viii’ scripsit Richmond (de elegiarum ordine cf. praefationis uiri docti Richmond p. xviii) 4 quidque b bh k n: quodque B C le e: quidue bl 5 nostraque quid B le : nostraque quod C : nostra quid ap- bl 6 cera mc md, recepp.Owen, Lenz, Richmond; cf. Ou. Ars ii 85, uincla labant et cera … liquescit : certa B C: c(ha)rta le e bl, probau. Luck, coll. tr. iv 7,7, quotiens alicui chartae sua vincula dempsi, quod Ehwald inuenerat sed reiecerat uehiculum corruptelae putans; codicum le e bl lectionem etiam André, Pérez Vega recepp. • meis B le bl g, probauu. Owen, Richmond : suis C e et alii, recepp. André, Pérez Vega 10 peccandi B C le e bl: peccanti g n 15 detrectet B : detrectat le T, probauu. Heinsius, Luck 1986, 130-131, ut scripsit Pérez Vega, coll. Prop. ii 3, 47, ubi autem detractat est legendum (cf. Fedeli, Teubner, 1984, ad loc., et 2005, 151 et 155) : detractat C e bl 16 subtrahat B : subtrahit C le e bl 17 adsueuit e bl, probauu. Owen, Richmond : adsuerit B C le, recepp. André, Pérez Vega • crudeliter B C le e bl : crudelius Heinsius 21 iuuat1 B C le e bl : iuuet Micyllus • iuuat2 B C le e bl : iuuet Heinsius, Merkel (de sententia cf. P. iii 5, 58) : uenit Camps («cr», 4, 1954, 206-207), prob. Kenney 1965, 49, n. 1 : cadit Luck 1986 131, coll. her. 13, 124; P. i 2, 62; tr. ii 148, qui loci autem hanc poetae sententiam non reddunt post 21 et 22 interrogatiue interpunxit Riese, ut in uiri d. Richmond apparatu legitur 22 et defendit Kenney, qui id mutandum in ut negat; post et et siqua interpunxit Riese • de u. 22 Richmond in app.: «sic interpretor ‘unusquisque putat ea factum iri quae fieri cupiat’»

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7. AGLI AMICI Ad invocar sì spesso la stessa cosa mi va via la voce, e già mi vergogno di preghiere vane senza fine; che derivi noia da simile carme a voi lo credo, e credo tutti sappiate a memoria a cosa miro. Ormai sapete cosa porti una nostra epistola, se pur dai miei lacci non s’è sciolta la cera. Dunque, sia altro il senso del mio scritto: non vada io più contro l’acqua dal fiume rapita. D’aver ben sperato in voi, perdonatemi, amici, ormai smetterò di sbagliare in tal modo. Che opprima mia moglie non si dica: sì, con me è onesta, altrettanto però timorosa e poco fattiva. Anche questo, Nasone, sopporterai: sopportasti di peggio; ormai il peso nemmeno più lo avverti. Il toro, sottratto all’armento, ripugni l’aratro, e il disavvezzo collo sfili dal duro giogo. Noi, schiavi della routine d’un fato impietoso, è già tempo che ben conosciamo ogni male. Siam venuti in terra getica: in essa, sù, moriamo, e in fondo vada la Parca mia alla via iniziata. Fa bene aggrapparsi a speranza, che, sempre vana, bene non fa? e puoi pensar che qualcosa accada sol che la brami? Appresso verrà di disperar davvero della salvezza nella piena coscienza d’esser morti per sempre. Curando vediamo che ancor più s’aprono ferite che sarebbe stato meglio non toccare. Meno tragico morir sommersi da onda improvvisa che sfibrar le braccia nelle tumide acque. Come ho potuto pensar io di lasciar gli scitici

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finibus et terra prosperiore frui? cur aliquid de me speraui lenius umquam? an fortuna mihi sic mea nota fuit? torqueor en grauius, repetitaque forma locorum exilium renouat triste recensque facit. est tamen utilius studium cessasse meorum, quam, quas admorint, non ualuisse preces. magna quidem res est, quam non audetis, amici, sed, si quis peteret, qui dare uellet, erat. dummodo non nobis hoc Caesaris ira negarit, fortiter Euxinis inmoriemur aquis.

35 cessasse B C d, edd.: cessare P et alii, recep. Owen 36 admorint B C le blv : admorunt e : admonuit bl : admoui m : ammonui d : 39 nobis B C : uobis le e bl, Heinsius • negarit Bpc le e : negaret B bl : negabit C blv a bl

p. iii 7 confini e goder di più prospera terra? Come ho mai sperato per me qualcosa di più lieve? Forse non conoscevo così bene il mio destino? Ecco, più mi pressa il tormento, e l’eterno canto del paesaggio rinnovella tristezza d’esilio, che è ora. Il silenzio della premura dei miei, però, giova più che l’impotenza delle preghiere, ove sian rivolte. È impresa grande quella che non osate, amici, eppure, ma a chiedere!, la disponibilità a dare ci sarebbe. A meno che la collera di Cesare non ci neghi questo, nelle acque eussine, almeno, con coraggio morirò.

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1-8. Quest’epistola agli amici è la prima delle tre elegie conclusive del iii libro con funzioni paratestuali dell’intera raccolta i-iii Ex Ponto. È seguìta dalla lettera di accompagnamento al dono per Massimo, di carattere metaletterario, e da quella a Bruto sulle ragioni della poesia esilica, che è un vero e proprio post scriptum, come si vedrà. La poesia del lamento, la poesia della domanda di grazia, la monocorde poesia della nostalgia e della passiva soπerenza, in verità già da tempo, a mio avviso, degradante verso un’ironia strisciante quando non dichiarata con amara evidenza, abbandona il tono lirico della querimonia tout-court lasciando il campo ad una più concreta denuncia, in cui il relegato Ovidio si consente qualche passaggio metapoetico, che autorizza a pensare alla fase terminale di un intero ciclo, anche per questo meritevole di riflessioni complessive. Il motivo ispiratore del componimento risiede nella consapevolezza della sterilità e forse della ingenuità delle petizioni, e quindi della illusorietà della speranza; la percezione che le preces siano state e siano uanae diventa costante quando l’insensibilità, lo stupor, ed il torpore simile alla morte si impossessano definitivamente dell’animo del poeta: con fine carent lacrimae … di P. i 2, 27-28, sintagma ripreso qui a v. 2 con la sola variante sostantivale, adiafora direi, lacrimae/preces, il poeta già lanciava, all’inizio della seconda raccolta di poesia esilica, i primi segnali della rassegnazione. Gli appelli, incessanti non tanto nella quantità e nell’insistenza quanto piuttosto perché rivolti a numerose persone, amici e consorte, orientati sempre nella stessa direzione e motivati dalla solita finalità, quella di ottenere comprensione da parte del principe, hanno esaurito la parola poetica, hanno imposto alla poesia esilica il silenzio, per sfinimento, e, quindi, il poeta ha bisogno di fornire di nuovi contenuti le epistole se conta ancora, non di ottenere qualcosa, ma di continuare a scrivere dal lontano Ponto: ha ragione Burnikel a parlare di Wendepunkt nella poesia esilica ovidiana, ma è evidente che la svolta non esordisce qui, con questa epistola, perché essa è già da tempo in atto. Alla vergogna (pudet, v. 2) dell’Autore, che è vergogna per l’esilio culturale, si aggiunge l’insoπerenza (taedia) presunta degli amici, qui riprodotta con un tocco autoironico: quidque petam cunctos edidicisse reor, un verso (ri)costruito ad arte per indirizzare la mente del lettore, con la ripresa prosodico-metrica del pentasillabo (da e-/dedisco, già usato in ars ii 122 e met. ii 639), datt. + troc., lì dove andava la memoria poetica autoriale: tr. iii 14, 46, uerba mihi desunt dedidicique loqui, un pentametro che già denuncia in maniera drammatica la coscienza di perdere la cognizione del proprio idioma originario, che ora assume un rilievo estremo e si riveste di un significato ancor più soπerto, quale era stato peraltro quello prototipico, sia pur in una diversa sfera sentimentale e in un diverso campo psicologico, di una Medea che, rievocando a Giasone il momento del ripudio, tra l’altro gli ‘scrive’: «o! iusto desunt sua uerba dolori» (her. 12, 133). Ma la memoria poetica di Ovidio si estende, in questo caso di vera e propria contaminazione di fonti, senz’altro a Tib. ii 2, 12, iam reor hoc ipsos edidicisse deos (Murgatroyd 1994, 75): l’elegiaco, rivolgendosi a Cornuto nel giorno del suo genetliaco, immagina che l’amico chieda al Genio, dio natalizio, la fedeltà in amore della sposa, e pensa che gli dèi siano già ampiamente informati di questa richiesta, come se la conoscessero a memoria, evidentemente per l’insistenza e la ripetitività con le quali lo sposo l’ha sempre loro rivolta. La fragilità della certezza che Cornuto nutriva della fides della moglie è la stessa che angustia l’esule riguardo ad una possibile mediazione, e, ove ci fosse, eventualmente fortunata, degli amici presso il principe. Il motivo iniziale della vergogna (per la ricorsività della formula nunc [o iam] pudet Murgatroyd 1980, 265 ad Tib. i 9, 30), tipico della renuntiatio amoris (Galasso 1987, 93), e del timore di arrecar fastidio, tornerà in P. iv 15, 29-30, et pudet et metuo semperque eademque precari, / ne subeant animo taedia iusta tuo, e trova qui una giustificazione nel fatto che res immoderata cupido est, «al desiderio non si pongono limiti». Il tema, ora annunciato, della ‘noiosa’ ripetitività degli

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scritti esilici e la critica a questo tipo di poesia costituiranno l’ouverture dell’ultima elegia del libro, e della raccolta. Il contenuto delle lettere di Ovidio è scontato; non è nemmeno necessario sciogliere la cera che le sigilla per conoscerlo; la cera, simbolo della (inutile) segretezza del messaggio, non garantisce nessun segreto; non c’è bisogno dello scioglimento dei lacci per svelare la natura dell’oggetto della missiva, che è, infatti, facilmente intuibile: è qui la diπerenza, sostanziale, con il v. 7 della settima elegia del l. iv dei Tristia, quotiens alicui chartae sua uincula dempsi, portato da alcuni editori (ad es., Pérez Vega) a sostegno della lezione charta di le e bl, che ritengo, con Richmond, di rigettare a favore di cera di mc md (certa BC). Le lettere inviate dal Ponto agli amici sono sigillate da una cera destinata a perdere la sua funzione, come l’inutile cera che incollava le ali di Icaro ma che scontatamente sarebbe stata liquefatta dalla vampa solare: ars ii 85, uincla dabant et cera … liquescit; met. viii 225-226, uicinia solis / mollit … pennarum uincula, ceras (come la cera sciolta nel fuoco sull’altare in Verg. buc. 8, 80, haec ut cera liquescit). Un mitologema quello di Icaro, il primo exemplum insieme con quello di Fetonte nei Tristia (i 1, 79 sg.), cui il povero esule ricorre per significare, con un senso ampiamente previsto, l’assurdità dell’impresa, della preghiera, della richiesta, della ‘pretesa’. L’immagine della citata elegia dei Tristia dei suggelli tolti alla missiva pervenuta da Roma nella speranza che essa sia stata inviata dall’anonimo amico è di altro segno. La presa di coscienza, che si fonda più sulla convinzione che l’intercessione presso il principe non ci sia stata che non sulla ine√cacia di qualche eπettivo intervento, spinge il poeta ad orientare in modo ancora una volta rinnovato la sua poesia, finora, come dimostrano i fatti, vanamente impegnata nel tentativo di ottenere qualcosa di impossibile. Ovidio ha ormai cambiato registro, modo di pensare: scrive altro, scrive l’assolutezza del suo isolamento. Ancora una volta si realizza nella riscrittura la strategia espressiva necessaria ad esternare la densità del pensiero. Lo soccorre l’automemoria poetica del v. 182 del ii libro dell’Ars, flumina, si contra quam rapit unda nates, e dei vv. 121-122 dei Remedia, stultus, ab obliquo, qui, cum descendere possit, / pugnat in aduersas ire natator aquas, che gli si propongono come ‘naturali’ anticipazioni: si tratta, nei casi delle opere giovanili come in questo nostro, di un uso dell’immagine divenuto proverbiale (Otto 139-140, s.u. flumen). Il praeceptor amoris Ovidio invita ad un atteggiamento morbido e garbato, insomma non spigoloso, invita all’obsequium cioè, dinanzi alla duritia di una puella; il medicator Ovidio, a sua volta, definisce stolto chi attraversi un fiume controcorrente, quando lo si possa attraversare in obliquo. Qui è praticata una sorta di oppositio in imitando: si ricorre al medesimo artificio prescritto nell’Ars e nei Remedia, ma non in vista del raggiungimento dello scopo sperato bensì per una desolata rinuncia, un’operazione, pertanto, che avvalori l’ine√cacia del praeceptum impartito un tempo in altro àmbito, e, soprattutto, ne rimarchi il tono burlesco. Il messaggio, sia chiaro, non consiste nell’elementare riscontro del gap incolmabile tra la duritia della puella e la duritia del princeps, che è l’esito di un’interpretazione superficiale; il significato profondo dev’essere còlto nel risvolto sarcastico della scena che si carica di risentimenti, espressi con modalità forse anche irriverenti, senz’altro velenose, grazie a quella allusività intratestuale, che fa ora del lusus della poesia d’un tempo un’arma di attacco. La chiara visibilità del modello sul piano espressivo è funzione del rovesciamento di esso sul piano narrativo-ideologico. 9-14. Non v’è dubbio che i v. 9 sgg. custodiscano l’esplosione di un’ironia sinora repressa o, comunque, disciplinata da un’accorta moderazione. Ovidio, con tono irridente, a quelle persone che chiama ‘amici’, chiede perdóno per aver tratto positive speranze, bene speraui, da quanto essi avessero potuto ottenere per lui, ma ora questo peccatum (sperare è stato un errore!) avrà una fine; torna a v. 10 il termine finis, finis peccandi, che richiama il sintagma fine carere del v. 2, ma che, forse, addirittura evoca intenzionalmente anche il v. 23 del Phormio di Terenzio: nel prologo, come al solito polemico, il commediografo promette di non parlare più del suo denigratore,

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anche se quello non smette di oπenderlo, peccandi cum ipse de se finem non facit. Se Ovidio avesse eπettivamente tenuto conto con la sua memoria poetica di questo verso, o, in ogni caso, riconoscendo noi nell’espressione ovidiana il valore semantico che le attribuisce Terenzio, il contesto si arricchirebbe di un ulteriore spunto caustico, perché il poeta fingerebbe di considerare finanche oπensive nei confronti degli ‘amici’ quelle ‘assillanti’ richieste. L’esule respinge l’accusa, probabilmente pervenutagli, di essere di peso per la moglie, e replica con una critica nemmeno tanto sottile, addebitando alla consorte, cui pur riconosce probitas, timidezza ed inattività, timida … experiensque parum, un sintagma che sembra rievocare e contrario il genus umano durum … experiensque laborum di met. i 414, dove si allude alla mitica apparizione sulla terra della razza umana, grazie al lancio delle pietre da parte di Deucalione e Pirra. Anzi, riflettendo sulla propria condizione che si è ormai cronicizzata sulla sopportazione, come il diptoto feres … tulisti sottolinea, Ovidio contrappone al ‘peso’ che egli ha potuto essere per la moglie – così sembrerebbe che si vada dicendo – il peso della condanna (con tutti i disagi che essa comporta) che quasi nemmeno più avverte, una condanna permanente, ed il gioco del fonema iniziale allitterante delle due parole contigue vuole marcare la perduta percezione: sentiri sarcina nulla. L’immagine del fardello, che in una precedente pontica a Fabio Massimo (i 2) l’esule cita con un tono di accoratezza e nel contesto di una solidarietà familiare (… coniunx mea sarcina uestra est, v. 145), ora diventa l’espressione di un motivo polemico; il poeta che a Briseide che scrive ad Achille aveva prestato la battuta non ego sum classi sarcina magna tuae (her. 3, 68); a Fedra che scrive ad Ippolito la riflessione che sarcina … haec [i.e. primi amores] animo non sedet apta meo (her. 4, 24); lo stesso poeta, che in tr. v 6, 5-6 (sarcina sum … / … non subeunda fuit) si riconosce un fardello per l’anonimo amico, che lo ha ormai abbandonato, ora è lui a denunciare il peso della sopportazione, e ricorre a quel termine, riferito a persona a partire dall’isolata occorrenza properziana di iv 3, 46 (Hutchinson 110), proprio per controbilanciare il presunto fardello che egli rappresenterebbe per moglie, famiglia, amici. Il vero fardello, sembra voler dire, è quello che sopporta lui, e ci si è abituato al punto che quasi nemmeno più lo avverte. 15-20. Certamente Ovidio non avrebbe mai immaginato, quando, in pieno regime erotico-elegiaco, per analogizzare l’amante che gradualmente si piega alle imposizioni dell’eros, ricorreva alla metafora del toro ribelle eppure destinato a sottomettersi al giogo, e scriveva, ad es., in am. iii 13, 36, nec iuga taurus amat; quae tamen odit habet, o in ars ii 184 (Baldo 292), rustica paulatim taurus aratra subit (ma si vedano anche am. iii 10, 13; fast. iv 403), che un giorno quello stesso motivo sarebbe stato adattato a se stesso, ma in un contesto completamente rifunzionalizzato, così, come, d’altra parte, egli stesso aveva fatto riadattando il motivo prelevato da fonti che potremmo definire eteronime per paradigmi di generi diversi. Il poeta, infatti, quando componeva le opere giovanili, aveva mutuato questa metafora del toro da una letteratura corrente in cui il motivo era piuttosto frequente. In [Tib.] iii 7 (Pan. Mess.), 170, hinc et colla iugo didicit submittere taurus; Prop. ii 3, 47-48 (cfr. infra); Prop. ii 34, 47 (numerazione Fedeli 19942, e 2005 ad loc.), sed non ante graui taurus succumbit aratro, / cornua quam ualidis haeserit in laqueis (ancora in similitudine); una diretta connessione con toro ed aratro in Verg. geo. i 45, depresso incipiat iam tum mihi taurus aratro / ingemere, dove spicca l’empatetica nota di umanità col vb. ingemere, che avrebbe ispirato Manil. ii 250, taurus depositis collo sopitus aratris (cfr. anche iv 142-143). L’empatheia virgiliana si sarebbe manifestata in termini ancor più drammatici in geo. iii 515, ecce autem duro fumans sub uomere taurus, nel tragico contesto della peste del Norico. Sovviene, infine, l’immagine del toro, analogizzata ad un Laocoonte ormai allo stremo, un toro che fugge ferito scuotendo la scure malferma dal capo ad Aen. ii 224, taurus et incertam excussit ceruice securim. Ovidio ricorre qui, ai vv. 15-16, all’immagine del mondo animale per descrivere la propria condizione di esule: egli, ora, nel contesto dell’ ‘elegia triste’, non propone per sé, però, una perfetta assimilabilità al toro, che, sganciato dall’armento, appare rifiutare l’aratro e sottrarre il collo disabituato alla

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durezza del giogo; il nos, incipit ritmicamente isolato del v. 17 (proclitico il successivo pirrichio quibus), segna, infatti, il divario forte tra il poeta e l’animale, taurus, tra P ed H nell’esametro 15. Diπerentemente dal toro, qui vittorioso ribelle, l’esule confessa la prolungata ed irreversibile condizione di soπerenza, imposta dai continui insulti di un destino che si è come abituato a muovergli contro, rendendolo ormai esperto dei mala: ad mala rudes, un costrutto sintattico assai raro, con tre precedenti liviani, usato in poesia solo da Ovidio e solo in questo luogo (old , s.u., 6 C). Non rudes si oppone a nouella, riferito a colla del toro: la forma plurale del pronome, nos, già evidenziato, speculare al uobis di v. 9, con cui il poeta si indica per esprimere le molteplici aggressioni del fatum, sembra attrarre in un’immagine reiterativa anche il collo del toro ribelle, per scandire tutte le volte in cui l’animale si è sottratto al giogo. Taurus, si legge nella nostra epistola, detrectet aratrum: un calcolato intervento ‘correttivo’ dell’espressione properziana di ii 3, 47-48, ac ueluti primo taurus detrectat aratra, / post uenit assueto mollis ad arua iugo, in cui l’elegiaco presenta un ‘prima’ di ribellione, ed un ‘poi’ di accettazione/assuefazione, ad emblema della propria condizione di seruus amoris. I due congiuntivi, detrectet e subtrahat, segnano la distanza tra i due membri di quella figura di pensiero che un tempo era stata similitudine (ueluti), ed ora diventa diπormità, tanto più marcata dalla perfetta riproduzione di un’assonanza contraddistinta dalla insistente littera canina. Alla rassegnazione si accompagna l’orgoglio dell’uomo nel quale si risveglia il senso della dignità personale, talvolta forse schiacciata dalle pressanti preghiere: egli è giunto (è stato mandato) in terra getica, tomitana più precisamente; l’incubo dei vicini Geti, violenti e predatori, ossessionava ed ossessiona il poeta; ebbene, nonostante tutto ciò, ormai in terra getica muoia; la Parca compia il suo percorso. Ovidio abbandona, in questo momento di profondo sconforto, il desiderio di una sepoltura in terra patria, eppure più volte manifestato. Sembra che il deciso e rassegnato moriamur [in Geticis finibus] gridato in questa epistola risponda al desolato moriemur di tr. iii 3, 37: tam procul ignotis igitur moriemur in oris / et fient ipso tristia fata loco; ma quello era un momento diverso, in cui la prospettiva di finire i propri giorni ignotis in oris era espressa piuttosto per esorcizzarla che non per riconoscerne la ineluttabilità. E quanto il moriemur dell’elegia dei Tristia è distante dal moriemur, fermo nonostante il condizionamento della Caesaris ira (dummodo non nobis hoc Caesaris ira negarit, v. 39), che chiude questa epistola ad amicos: fortiter Euxinis inmoriemur aquis (v. 40)! Ormai al principe il poeta relegato non chiede più una sepoltura in terra patria, nella tomba di famiglia; muoia nella ‘nuova patria’, come un eroe (fortiter), non a[tafo~ ma circondato dalla stima dei nuovi ‘concittadini’. 21-24. Con questo motivo si chiude la prima parte dell’elegia, un epilogo provvisorio, che, nel rispetto della tecnica della Ringkomposition, sarà riecheggiato ed integrato, come si è anticipato, dal distico finale (vv. 39-40). La seconda parte dell’epistola, nella quantità perfettamente equivalente alla prima, si apre con un distico sulla cui constitutio textus e sulla cui esegesi l’orientamento degli editori si è fortemente frastagliato (vd. app. cr.). Il poeta si pone sconsolate domande, che non attendono risposte. Che non giovi sperare quando la speranza è sempre vanificata, che non valga pensare che una realtà prenda corpo per il solo desiderio che il sogno si avveri son tutte ovvie verità, e ribadirle è vacuità mentale e sentimentale: spem amplecti (old, s.u. amplector, n. 5), ancora un’espressione di uso prevalentemente prosastico, che condivide il contesto col vistoso gioco anaforico iuuat … non iuuat (il non uenit congetturato da Camps e condiviso da Kenney vanifica l’eπetto voluto per le specifiche significazioni suggerite dall’esclamata amarezza); del motivo è proposta una variante a conclusione dell’epistola a Cotta Massimo (iii 5, 58), spem sine profectu … tolle mihi. I due kola del v. 21, collegati dal relativo, non possono essere scissi, come pretendeva Corbellini 8, con una interpunzione forte dopo amplecti e l’attribuzione di una sfumatura avversativa alla relativa con valore consecutivo («Ma tale che non giova è quella che riesce sempre vana […]»). L’anastrofe della congiunzione, cupias si qua, è dovuta ad una studiata collocazione delle parole nel verso finalizzata ad ottenere il richiamo ritmico

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ed assonante dei due termini che rispettivamente chiudono i due emistichi, cupiás / putés, ed è a queste due voci verbali a√data, com’è ovvio, la pienezza del senso; la traduzione di Green 1982, 128, «if you want something, you must believe it’ill come to pass», una extratestualità evidenziata dall’Autore stesso col corsivo, ben puntualizza la necessità del concorso del pensiero nella ‘realizzazione’ dei sogni. Il tono sarcastico rilevato nel sintagma del v. 9, bene … speraui, è confermato in una sorta di klimax al v. 23, in cui il sintagma bene desperare è giocato su un’arguta manovra ossimorica che corregge in sarcasticamente negativo il valore semantico positivo assunto dall’avverbio nel sintagma del v. 9. L’arguzia espressiva continua nel pentametro 24 dove all’allitterazione dei primi due termini segue il vistoso gioco fonico dell’intero secondo emistichio, scIrE perIssE fIdE; il sintagma ablativale uera … fide, infine, è creazione ovidiana (her. 16, 42; 19, 68; met. iii 659-60), mai più esplorata. Il poeta gioca con le parole raggruppandole in una combinazione cantilenante di suoni che nella loro ordinata reiterazione ribadiscono il senso della ineluttabilità. Più volte il relegato è stato assalito dalla disperazione rendendosi conto che la speranza di ottenere un destino meno avverso si faceva sempre più flebile: si pensi, ad es., già a P. i 2, 62, spes leuis … magno uicta timore cadit, un’epistola più volte richiamata, per la presenza di motivi che sembrano trovare in questa iii 7 definitivo suggello. 25-32. I due distici successivi (vv. 25-28) sono introduttivi delle serrate interrogative dei vv. 29-32; propongono un’immagine complessa in cui sono coinvolti il mondo della medicina, il mondo della guerra, una drammatica esperienza di naufragio, che riconnette l’ispirazione di questo punto della lettera all’episodio del iii libro delle Metamorfosi sopra citato, dove a v. 660 ugualmente il racconto si raggela su una tempesta marina: stetit aequore puppis, che con l’immagine dell’arresto della nave nell’oceano sembra ricalcare la condizione paralizzante di Ovidio bloccato in terra tomitana. Son tutti fattori riducibili alla metaforizzazione della fenomenologia erotica, che proietta la memoria poetica del lettore retrospettivamente ad esperienze inquadrate in ambiti situazionali di tutt’altro segno, quelli, appunto, della prima stagione artistica del poeta: ricordiamo, ad es., le energiche bracciate di Leandro nelle tumultuose acque dell’Ellesponto (iamque fatigatis umero sub utroque lacertis / fortiter in summas erigor altus aquas, her. 18, 83-84). E certamente sorprende che Ovidio, per proporre il dramma d’un uomo in balìa delle onde, recuperi la clausola ciceroniana mergitur unda di Arat. phaen. frg. max. 381, collocata in un contesto – completamente diverso – di natura astronomica (al sorgere di Venere il Delfino s’immerge nell’onda, cedit clara Fides Cyllenia, mergitur unda / Delphinus). Le immagini del iuuare e del putare che animano i vv. 21-22 tornano, in ordine inverso, qui, ai vv. 29-31, dove il relegato nel disincanto di una realtà che gli si staglia davanti sempre più chiara nella sua tragicità, si chiede come abbia potuto mai pensare (cur ego concepi?), lui (ego), di abbandonare il territorio scitico per godere di un luogo meno disagevole, come abbia potuto sperare (cur speraui?) in una condizione meno gravosa. La situazione va anzi peggiorando: le insistenti forme comparative, maiora (uulnera; sul sost. Di Giovine passim), melius (non tetigisse uulnera), mitius (perit quam), marcano il senso della nuova contezza, forse il rimpianto, senz’altro la rassegnazione. Nella presa di coscienza di questa realtà e dell’assurdità della speranza è il senso della mutatio sententiae alla quale il poeta ai vv. 7-8 decide di aderire, ancora sottolineata dai comparativi, prosperiore (hapax ovidiano, riservato a quella sede pentametrica anche in ars iii 50; fast. iii 614 e tr. iii 5, 22), lenius. Il testo che ha ispirato l’esule in questo caso sembra proprio quello dell’Ars, dove si prospetta una situazione riconducibile in qualche modo alla vicenda vissuta da Ovidio. Il poeta Stesicoro, raccontava la leggenda, fu punito con la cecità per aver raccolto nel poema Elena tutti gli elementi di accusa oπerti dalla tradizione ed accumulati nel tempo a carico della sposa di Menelao; avrebbe riacquistato la vista a séguito di una ritrattazione, sostenuta dall’aπermazione che quella di Troia non era la vera Elena ma un suo fantasma,

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ei[dwlon (come avrebbe registrato Platone in resp. ix 586c, imputando l’errore ad a[gnoia tou` ajlhqou`~), e di una laudatio della donna rapita fatta in Palinodia, fr. 11 Diehl, citato nel Fedro di Platone (243 a-b): oujk e[st’ e[tumo~ lovgo~ ou|to~, / oujd’ e[ba~ ejn nhusi;n eusevlmoi~, / oujd’ i{keo Pevrgama Troiva~, «questo discorso non è veritiero, / tu non salisti sulle ben costruite

navi, / né giungesti alla rocca di Troia» (tr. Reale, Milano, 1993). Si tratta probabilmente di un aítion ellenistico; la verità era che il poeta greco, come poi avrebbe fatto anche Euripide nell’Elena, proponeva una lettura diversa della vulgata, riabilitativa di Elena a fronte della versione omerica, ricordata in breve preliminarmente alla laudatio. Ovidio, mostrando di credere al ripensamento di Stesicoro per il quale, quindi, la sorte mutò in senso positivo, se ne appropria per confrontare antiteticamente il proprio destino con quello del poeta greco; a lui, esule per sempre, non è stato accordato nessun riconoscimento per cancellare, o attenuare, la colpa commessa e poter quindi sperare in una terra prosperior, per quanto abbia tentato, come si capirebbe implicitamente, di ‘scrivere’ anch’egli una ‘palinodia’, compiendo sforzi pari a chi nelle acque gonfie del mare sfibra le proprie energie in estenuanti bracciate. L’interrogativa del v. 32, an fortuna mihi sic mea nota fuit?, è il rimprovero dolente che l’esule rivolge a se stesso, alla propria ingenuità che gli ha lasciato vivere la speranza di andar via dal Ponto, e, quindi, di poter scrivere ad ‘amici’ e moglie perché si adoperassero per ottenere il trasferimento. 33-38. Ovidio annulla tutta l’esperienza esistenziale e poetica che lo ha visto supplice con tutti, e in questo ripercorrere le fasi tormentate di un cammino di speranza sempre debole e mai tuttavia spenta egli si lacera, grauius (ancora un comparativo!), e rimane prigioniero del contesto carcerario in cui si trova in un attimo di ritorno ad un passato pur assai vicino, quando la sua era la poesia del paesaggio pontico, forma locorum, tratti di territorio rievocati tante volte, repetita, intrecciati in un tormentato contrasto con le immaginifiche rappresentazioni di una nostalgica fantasia, come, ad es., quando poetava così: ante oculos errant domus Vrbsque et forma locorum (tr. iii 4, 57), o così: aque domo rursus pulchrae loca uertor ad Vrbis, / cunctaque mens oculis peruidet illa suis (P. i 8, 33-34). Anche ora egli è pronto a renouare la coscienza triste dell’esilio, quasi stesse iniziando in quel momento, recens, e quasi stesse riprovando le stesse drammatiche sensazioni dello stacco iniziale dalla vita romana, alla quale la mente lo riporta continuamente: ipse quidem Getico peream … / … / te nisi momentis uideo paene omnibus absens (P. iii 5, 45-47). A questi tre distici che precedono la sphragís (vv. 39-40) sono a√dati gli strali violenti scagliati contro tutti, amici e principe, i destinatari ‘immediati’ dell’epistola, ma nelle intenzioni della scrittura il poeta ha in mente anche un pubblico che egli vuole informare sull’andamento della situazione, sulle personalità cui ha chiesto aiuto senza mai ottenerlo, sulla loro pusillanimità e doppiezza; Ovidio parla al lector, ma non perde di vista quel lettore, ‘medio’, generico (Citroni 1990, 109) nel quale cerca un alleato capace, forse, di smuovere un’opinione pubblica. La delusione dell’abbandono degli amici è tale che, per l’esule, meno pesante, meno svantaggioso – tamen utilius, un altro comparativo – del loro disinteresse (studium cessasse; per studium Claassen 1999, 147-148) sarebbe stato prendere atto dell’ine√cacia del loro supplichevole intervento, non … ualuisse preces, una clausola mutuata dal carme di Catullo a Gellio (116, 6), dove il Veronese confessa la sua vana fatica di placare l’amico, e constata che le sue preghiere a nulla son servite, nec … ualuisse preces, a sua volta prelevato da Virgilio in Aen. xi 229 (i legati, reduci dalla citta di Diomede, comunicano che a nulla son valse le preghiere per ottenere aiuti alleati). E Ovidio, però, carica in ogni caso di significati nuovi il sintagma; i ruoli non sono esattamente gli stessi: non è il poeta che abbia rivolto preces come invece Catullo a Gellio, o come i legati ad auspicati nuovi alleati nel testo virgiliano; il poeta denuncia che le preces non ci sono state; la sua delusione non deriva dall’insuccesso di quelle preces, ma dalla constatazione di essere stato abbandonato proprio da persone dalle quali egli si sarebbe aspettato manifestazioni di solida-

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rietà. E qui, evidentemente, la rabbia si confonde con l’amaro sarcasmo: magna … res est, quam non audetis, amici, dove l’Anrede, che richiama quella del v. 10, è assai caustica insieme con l’allitterazione del vicino audetis. La valenza dell’espressione è complessa, perché in essa si rivela un significato superficiale, ed un più vero significato subliminale. Gli amici, recrimina il poeta, non hanno mai veramente voluto intercedere presso Augusto per chiedere un alleggerimento della pena del condannato; ma essi, soprattutto, non hanno mai osato farsi portavoce presso il principe di una richiesta che il poeta deve aver in qualche modo fatto dopo ripetuti meditati propositi suicidi a malapena trattenuti: o quotiens uitae custos inuisus amarae / continuit [cfr. P. i 6, 41-42] promptas in mea fata manus, P. i 9, 21-22; Tissol 167-168; erano tempi diversi, e nemmeno tanto lontani, quelli in cui lo stesso Ovidio scriveva ut taceam strictas in mea fata manus (tr. v 2 30). Essi non hanno osato non per aπetto sincero bensì per quell’ipocrisia che spesso indossa la maschera della solidarietà (seguo in questo caso sostanzialmente l’interpretazione di Corbellini 18 sgg.). Ovidio sta creando un’atmosfera surreale, giocando sul filo di una ironia assai sottile, in cui entrano come bersaglio sia gli amici (e la moglie) che l’imperatore. Questi, dice il poeta, sarebbe stato ben disponibile a concedere, dare uellet, se quegli ‘amici’ gli avessero chiesto, per conto dell’esule, il diritto di autosoppressione per il condannato: si quis peteret, un imperfetto che racchiude lo sdegno dell’esule, come già in tr. iv 4, 53-54, si quis ab illo [scil. Augusto] / hoc peteret pro me, forsitan ille daret. Nella nostra epistola non si saprebbe dire se prevalga il dolore per questo ulteriore tradimento dei sedicenti amici o la soπerenza per il caparbio diniego del Cesare, mascherato da un dare uellet che ricorda rem. 165, siue operam bellis uellet dare, in cui il contesto è comunque di tutt’altro segno. Ma l’interesse per il sintagma sta nell’uso assoluto del verbo, che lascia nell’indefinitezza quel che potesse essere nelle intenzioni del relegato chiedere e nella volontà del princeps concedere, una nozione comunque tutt’altro che fumosa, oscura, anzi chiara alla coscienza del poeta, che diventa esplicita al lettore nel distico finale. Qui si svela la natura della magna res di v. 37, che non è identificabile in quel che il relegato ha scritto alla moglie a P. iii 1, 87, magna peto, sed non tamen inuidiosa roganti, quanto piuttosto, come rilevava Corbellini 19, in quel che si legge in Sen. cons. ad Marciam 22, 7, magna res erat in quaestione (se gli imputati dovessero perdere il diritto di suicidarsi), sul suicidio col quale Cremuzio Cordo evitò che la condanna a morte fosse eseguita dal potere; Tac. ann. iv 35, impegnato piuttosto a proporre l’ideologico discorso di difesa tenuto da Cremuzio in senato, liquida il racconto degli eventi successivi con un laconico uitam abstinentia finiuit. 39-40. In questo acerbissimum distichon, come volle definirlo Enk 216, il poeta chiede, sempreché, per paradosso, l’ira Caesaris dispettosamente non gliela neghi, di poter morire fortiter nelle acque eusine: attribuisco, dunque, ad hoc valore prolettico con Frécaut 325, nota 86, e non vedo, quindi, alcun riferimento a quanto detto precedentemente, come invece fa Peters 106, seguìto da André 108, nota 2, che definisce questa spiegazione «simple et lumineuse». Il contrasto, anzi la contraddittorietà tra dare uellet e dummodo non negarit (per dummodo non in luogo di dummodo ne si vedano anche tr. iii 1, 4; P. i 1, 14 e Kühner-Stegmann ii 447) è l’ultimo tocco geniale di questa epistola, riflettendo essa la capricciosità che si legge nella disposizione di Augusto verso colui che egli ha personalmente condannato, un uomo che ora, con un atto di coraggio consistente non tanto nel gesto suicida quanto nella dignitosa disobbedienza verso il princeps, sembra imporre a se stesso e agli altri che la Parca compia il suo percorso, dunque non passivamente subìto (fortiter … inmoriemur, v. 40), lì dove era stabilito che lo compisse la Parca stessa con il suo sommo potere, complice, tutt’al più rassegnata ed impotente, la volontà del poeta stesso (moriamur, v. 19). Lo stato d’animo dell’esule è ben lontano dai tempi in cui scriveva saepe precor mortem, mortem quoque deprecor idem, / ne mea Sarmaticum contegat ossa solum (P. i 2, 57-58), in cui scongiura la sciagurata eventualità che sia la terra sarmatica a coprire le sue ossa, e, quindi, auspica di poter morire in patria, e prega che sulle sue ossa non gravi la pressione della terra

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scitica (v. 108, ossa nec a Scythica nostra premantur humo), come espressamente già cantava in tr. i 1, 33-34, ablataque principis ira / sedibus in patriis det mihi posse mori (Drucker 33 sgg.), ma si vedano anche tr. iii [uxori] 3, 32, [quantum erat] ut saltem patria contumularer humo?, e l’amara conclusione ai vv. 45-46: caput hoc, sine honore sepulcri / indeploratum barbara terra teget! E ancora alla moglie chiede che le sue ossa siano raccolte in una piccola urna e riportate in patria (vv. 65-66); è lo stesso lamento espresso da Paride ad Elena, quando sconsolatamente riflette: […] hic Taenaria contegar exul humo (her. 16, 276 ). Il binomio speranza-giuramento, per così dire, di P. iii 9, 27-28, atque ita di mites minuant mihi Caesaris iram, / ossaque pacata nostra tegantur humo, opportunamente contestualizzato, tradisce una ben scarsa fiducia di poter trovare una sepoltura in terra patria.

Epistola iii 8: Maximo - Bigliettino per un dono modesto

III 8 Bigliettino per un dono modesto «Di quali doni potrei far omaggio a Massimo, degno d’argento e d’oro? Qui metalli non ce ne sono, non c’è porpora splendente. A stento è permesso al contadino di arare per trarne i prodotti agricoli. Questa è gente che non conosce le finezze del lusso. Tutto è squallido, anche i campi che producono la tristezza dell’assenzio. Posso inviarti frecce raccolte in una faretra scitica. Tu però, Massimo, accogli con uguale benevolenza l’omaggio.»

Testo - Traduzione p. iii 8

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8. MAXIMO 5 10 15 20

Quae tibi quaerebam, memorem testantia curam, dona Tomitanus mittere posset ager. dignus es argento, fuluo quoque dignior auro, sed te cum donas ista iuuare solent. nec tamen haec loca sunt ullo pretiosa metallo: hostis ab agricola uix sinit illa fodi. purpura saepe tuos fulgens praetexit amictus, sed non Sarmatico tingitur illa mari. uellera dura ferunt pecudes, et Palladis uti arte Tomitanae non didicere nurus. femina pro lana Cerealia munera frangit suppositoque grauem uertice portat aquam. non hic pampineis amicitur uitibus ulmus, nulla premunt ramos pondere poma suos. tristia deformes pariunt absinthia campi, terraque de fructu quam sit amara docet. nil igitur tota Ponti regione Sinistri quod mea sedulitas mittere posset erat. clausa tamen misi Scythica tibi tela pharetra: hoste, precor, fiant illa cruenta tuo. hos habet haec calamos, hos haec habet ora libellos, haec uiget in nostris, Maxime, Musa locis! quae quamquam misisse pudet, quia parua uidentur, tu tamen haec, quaeso, consule missa boni.

‘recte ix’ scripsit Richmond (de elegiarum ordine cf. praefationis uiri docti Richmond p. xviii) 5-6 et 11-12 Butrica deleuerit, nuper defend. Pfundestein 6 illa B C le bl : ista e: ulla lc : arua Hendry 7 s(a)epe B C le e bl : nempe Heinsius 8 illa B C le e bl: ista kb : ulla va 9 et B C le e bl : at Scaliger 13 amicitur B C le bl : oneratur a 14 suos B C bl : suo le e 16 docet B C le e bl : probat ve : notat v 21 hos h(a)ec habet B C e bl : habet hos h(a)ec le d (‘sec. André’ Richmond) : h(a)ec hos habet ba d (‘sec. Lenz’ Richmond) • libellos B C le e bl ‘uocem desidero qua et pharetra et carmen designari possit’ Riese, qua re locellos percunctanter coniecerit Kenney, ut defert Richmond in app.

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8. A MASSIMO Mi chiedevo, a riprova del memore aπetto, quali doni potesse inviarti l’agro tomitano. Sei degno d’argento, di fulvo oro anche più degno, cose che però di solito ti piace donarle tu. E poi non c’è metallo che dia pregio a questi luoghi: a malapena il nemico consente vi scavi il contadino. Spesso la porpora splendente ricoprì i tuoi abiti, ma non è il mare Sarmatico a tingerla. Le pecore portano velli duri, e dell’arte di Pallade le nuore di Tomi non hanno imparato l’uso. La femmina al posto della lana macina i doni di Cerere e appoggiato alla testa porta il peso dell’acqua. Qui l’olmo non s’avvinghia alle pampinee viti, nessun frutto aπatica del suo peso i rami. Lo squallore dei campi produce la tristezza dell’assenzio, dal frutto la terra rivela la misura d’amarezza sua. Niente, dunque, in tutta la regione del Ponto Sinistro, c’era che la mia premura ti potesse far pervenire. Tuttavia t’ho mandato frecce racchiuse in scitica faretra: grondino del sangue, mi auguro, del tuo nemico. Questi i calami, questi i libri che ha questa sponda, questa Musa, Massimo, governa dalle nostre parti. Se anche mi vergogno del dono inviato, ché sembra dappoco, tu però, l’omaggio inviato, ti prego, accoglilo di buon grado.

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Commento

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1-4. L’ultima epistola dell’esule Ovidio a Paolo Fabio Massimo (già destinatario di P. i 2 e iii 3), citato solo col nomen nel pentametro del penultimo distico, precede immediatamente ed è preliminare all’epilogo, metaletterario, della Gedichtsammlung P. i-iii. Il riferimento all’elevato rango del destinatario, degno di argento e di oro, il richiamo alla ‘porpora’ simbolo dei ruoli ricoperti in magistratura, soprattutto il consolato insieme con Q. Elio Tuberone dell’11 a.C., l’anno precedente al consolato del fratello, Africano Fabio Massimo, la scelta di frecce scitiche come possibile dono da inviare all’amico, e cioè gli spicula uipereo felle di P. i 2, 16, e ancora i mordaci spicula felle di P. iii 3, 106 (entrambe queste epistole ugualmente destinate a Fabio Massimo), armi solitamente in uso agli abitanti del Ponto, i dardi intinti di amaro fiele di vipera contrapposti, in iii 3, in modo abnorme, alla disponibilità della gens Fabia: quelle referenze nobilissime e questi dati allusivi riproposti in modo sparso in questa breve epistola rendono l’apostrofe Maxime confinata a v. 22 tutt’altro che un ajprosdovkhton, e, soprattutto, suggeriscono di riconoscere nel destinatario nominato, come si diceva, quasi alla fine della lettera, il maggiore dei figli di Quinto Fabio Massimo, console suπetto nell’autunno del 45. Paolo Fabio Massimo morì, forse suicida, dubium an quaesita morte, in circostanze che il racconto tacitiano (ann. i 5, 2) lascia volutamente misteriose, pur se lo storico vi fa emergere, con la sua arte dell’insinuazione, una responsabilità di Livia. Del resto, nemmeno lo stesso Ovidio oπre al riguardo una testimonianza perspicua quando nell’autunno del 14 in P. iv 6, 9-12, un vero e proprio necrologio (la parola è usata da Syme 1978, 149), si rivolge idealmente a Massimo, ormai suicida, riconoscendo a lui la risolutezza a numen ad Augustum supplice uoce loqui, e confessando per sé il sospetto di esserne stato la causa della morte. Syme 1978, 43, 127, diversamente da Owen che nell’Index riportato nell’ediz. oct del 1915, sia pur con un «ac fortasse», era orientato all’identificazione con Fabio, ritiene che il destinatario di iii 8 sia Cotta, il figlio minore di Messalla Corvino. Tacito in ann. iii 2, 3 cita i nomi dei consoli del 20 d.C., M. Valerius e M. Aurelius; l’identificazione di M. Aurelius con Cotta, suπragata dallo stesso storico a 17, 4, primus sententiam rogatus, Aurelius Cotta, consul […], non consentirebbe mai, per scontate ragioni anagrafiche, di collegare la purpura (P. iii 8, 7) al minore dei figli di Messalla, e questo evidentemente vale che si tratti del consolato o di altra magistratura, come, ad es., la designazione di praetor peregrinus nel 17 (cfr. Fasti Arvalium [Inscript. It. xiii 1, p. 297], Syme 1993, 349 e 360, nota 70), o, addirittura, il proconsolato che esercitò nel 25-26 o 27-28, se non, forse e con maggiore probabilità, nel 35-36 (Syme 1978, 131 e nota 3; Galasso 1995, xxxi). L’argomentazione sulla quale principalmente si fonda la convinzione di Syme è che la nostra elegia «can therefore be taken as a response to the silver statuettes sent by Maximus (ii 8, 1 π.)». Sulla posizione dell’insigne studioso neozelandese si è più recentemente allineata Pérez Vega 145, nota 123 (anche 28, nota 91); contra, tra altri, Froesch 93 (ma cfr. anche, soprattutto, 209, nota 328, e Staπhorst 113, nota 1), della Corte 1974, 15, André xix e 109, Evans 1983, 123 sg., Galasso 2008, 297, Richmond 1990, 79, che rimanda a Froesch approvandolo, «recte, opinor». Pérez Vega pone, inoltre, il problema della apparentemente strana collocazione di questa epistola nel libro, preceduta com’è dalla settima, inviata agli amici, in cui il poeta dichiara di non voler più scrivere lettere né ad alcuno di loro né alla moglie, dati l’accertato sostanziale fallimento delle preces ed il timore di tediarli. L’ottava è un’epistola conclusiva, cui l’autore assegna la funzione paratestuale di indice della materia trattata, una sorta di table of contents con quel composé di dati geologici, geografici, etnografici, caratteriali, antropologici del territorio tomitano e della sua gente, da lui frequentemente richiamati nelle opere esiliche per sottolineare il disagio ambientale grave cui era costretto. Comunque, è evidente che il poeta riserva alla missiva, che

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ha quella funzione nell’ordo del liber, anche qualche novità, ed è non meno prevedibile che questa novità sia in qualche modo legata alla persona del destinatario. Quindi, se è pur vero che Ovidio torna ad indirizzare un’epistola ad un amico, in apparenza contraddicendosi con quanto dichiarato nell’epistola precedente, è soprattutto legittimo riconoscere in quest’epistola a Fabio (era pur sempre necessario che il componimento conservasse i caratteri dell’epistolarità), ormai priva dei soliti appelli, eπettivamente una post-fazione, che preannuncia o, meglio, introduce ‘tecnicamente’ l’epilogo vero e proprio, la nona a Bruto. Le ricostruzioni congetturali della Pérez Vega 145, nota 123, peraltro da lei stessa relativizzate da un dubbioso probabilismo, su eventuali diverse collocazioni originarie dell’elegia all’interno del l. iii («Pero bien podrìa ser, incluso, que originariamente esta elegia no estuviera situada aquì»), e l’interpretazione della rinuncia agli amici di iii 7 come nuova forma poetica, dalla quale rimarrebbe escluso, con questa epistola, Massimo, a suo dire Cotta, cui verrebbe riservato un «algo especial», ibid., rappresentano delle significative novità nel panorama esegetico di iii 7 e iii 8. La studiosa, convinta – ripeto – che il destinatario sia Cotta, ritiene, con Syme, che Ovidio voglia ricambiare il dono da lui inviatogli (cfr. P. ii 8); il poeta avrebbe inizialmente accolto il munus con interessata accondiscendenza, ma poi ne avrebbe avvertito tutta l’intrinseca velenosità, considerando almeno ambiguo l’omaggio di una statuina in argento con i busti dei tre caelites, il Cesare, Tiberio e Livia, cioè dei tre potenti che gli hanno rovinato la vita. Non saprei se nel proposito di contraccambiare statuine dei caelites con frecce avvelenate, ove mai si identificasse nel donante di ii 8 il destinatario di iii 8, Ovidio pensasse ad una sorta di contrappasso, e ritenesse di esaurire in quel significato il valore metonimico del donum. Tuttavia, quand’anche non si condivida questa interpretazione in toto, anche per la diversa identificazione del destinatario di iii 8, essa ha il pregio di cogliere il tono sarcastico dell’epistola, che nasconde proprio nella ‘velenosità’, quella degli spicula Sarmatica, l’elemento corrosivo dell’allusione; una metonimia, sì, ma a mio avviso con altri risvolti. L’emistichio memorem testantia curam dell’esordio (la memor cura è quella del poeta, ma il contesto non esclude che potrebbe, nel contempo, essere espressione di una reciprocità di aπetti, anche se dubbiosamente autentica e, quindi, solo ironicamente proposta) sarà ripetuto a iv 2, 7 (col comm. di Helzle 1989, 66), epistola inviata al poeta Cornelio Severo; non si tratta della ripresa meccanica di uno stilema attestante l’accompagnamento di un dono (carmina) o la giustificazio­ ne di un mancato dono (carmina … / non data sunt), anche se in entrambi i casi al ricordo è legato l’aπetto. Il ri-uso della formula, per quanto diversamente destinata, è suggerito dallo stesso sentimento, allo stesso modo contestualizzato, pur con una non secondaria ma lusinghiera oppositio: Ovidio riconosce a Severo una qualità poetica primaria, una qualifica degna di un eroe culturale della poesia, se lo eleva al livello di un Aristeo, di un Bacco, di un Trittolemo, di un Alcinoo. In entrambe le epistole, la iii 8 e la iv 2, il poeta sembra voler confessare il suo grado di inferiorità rispetto ai destinatari, dovuto alla condizione di relegatus in terra barbara, che non gli consente di inviare doni adeguati ad un’alta personalità del mondo pubblico e del mondo letterario, ad un magistrato e ad un poeta. E, come nell’elegia al poeta Cornelio Severo egli dichiara di rinunciare all’invio di una poesia, che, tuttavia, pur gli invia sotto la formula di epistola poetica, che è, ex silentio, una sorta di excusatio sine recusatione, avvertendola come impari in rapporto alle prove artistiche dell’amico, anche qui, in iii 8, Ovidio, tracciando di sé un profilo minimalista, accompagna una poesia, questa poesia, scusandosi del suo modesto valore, l’unico concessogli dalla sponda pontica che è diventata il ‘suo’ locus (in nostris … locis, v. 22), con doni materiali, i velenosi spicula più volte qui richiamati, e degni di essere letti in chiave simbolica. Un’anticipazione è possibile cogliere già dal v. 2, dove al poeta, desideroso di inviare dona all’amico, lo squallore dello scarno agro tomitano non oπre nessuna scelta; anche genere e peculiarità del dono diventano un pretesto per ricordare la costrizione della relegatio e la sua irreversibilità.

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L’insistenza sull’eccellenza pubblica di Fabio, la sottolineatura, inizialmente velata ma poi emergente, del grande divario che separa la condizione del destinatario rispetto a quella del mittente sono segnali di un atteggiamento forse sottilmente polemico (Evans 1983, 123 sg., 148) da parte di un condannato che, ancora una volta, mostra la consapevolezza ormai matura della impossibilità di un ritorno a Roma o di una mitigazione della pena; un condannato che mostra un tenace spirito caustico nei confronti di chi, evidentemente, avrebbe potuto adoperarsi con maggiore e√cacia e non lo ha fatto; un condannato che ricorre all’arma del sorriso beπardo per ingoiare un ennesimo boccone amaro ma anche per esibire un mai sopito orgoglio che si spinge a concedersi quelle scarne forme di ‘vendetta’ che le circostanze ammettevano. 5-16. Dunque, la scelta, ‘forzata’, del donum. Al v. 5 ha destato le perplessità di J. Butrica la particella avversativa tamen, che si può rendere piuttosto con «e poi», sottintendendo una concessiva del tipo «anche se volessi inviartene [di doni preziosi]», e conferendo anche un valore temporale, come in met. ii 337, repperit ossa tamen («e finì per trovarle [le ossa]», tr. Koch). L’ipercriticismo induce Butrica 171 a sostenere che ci sarebbe contraddizione tra l’aπermazione della totale (‘in any case’, nec tamen …, v. 5) assenza di metalli preziosi nel territorio tomitano e l’aπermazione che il nemico a malapena consente lo scavo ai contadini, e, quindi, argomenta lo studioso, non lo consentirebbe agli eventuali cercatori d’oro, v. 6; considerazione che lo induce ad atetizzare il distico in quanto interpolato. Ma Ovidio, diversamente da quanto aveva cantato in un’aspra polemica morale contro la sete di ricchezze del suo tempo in am. iii 8, 53, eruimus terra solidum pro frugibus aurum, in cui legge il divario rispetto alla Saturnia aetas, ora aπerma che nel territorio in cui vive non risulta che vi siano metalli preziosi. Il nemico, peraltro, consente, e a stento, scavi solo di tipo agricolo, uix sinit illa (i.e. loca) fodi (v. 6), e non si tratta di scavi profondi, che potrebbero portare alla scoperta di qualche ‘miniera’ (‘mine’, come Pfundstein 808, contro Butrica, traduce metallum), così bloccando, a causa di quel proibizionismo, un importante sviluppo di tipo economico in quell’area geografica solo eventuale, ma questo, comunque, non si saprebbe mai. Il motivo della totale mancanza di metalli è tipico delle descrizioni etnogeografiche (Thomas 44 sg.), e qui si apprezza il contrasto netto, che Ovidio si adopera ad evidenziare con opportuni echi lessicali, con la entusiastica descrizione etnografica virgiliana dell’Italia a geo. ii 165-166, haec eadem argenti riuos aerisque metalla / ostendit uenis atque auro plurimo fluxit. Loca fodere si legge in Plaut. trin. 754, e, pertanto, non necessario si rivela l’emendamento di illa (i.e. loca) in arua di Hendry 249-252, che cita come locus similis met. xi 33, fodiebant arua; Ovidio usa il simplex pro composito (eπodere), come Vitruvio che a viii 3, 5 fa dipendere dal vb. semplice sostantivi come argentum, aurum, aes, plumbum (ThlL vi 993, 35 sgg.). Nemmeno impensierisce che dopo haec loca Ovidio dica illa, eccezione sollevata da Hendry: il sogg. dell’oggettiva non poteva che essere il dimostrativo, illa, con funzione determinativa. Per capire i vv. 5-6 è necessario considerarli paralleli a 7-8: nell’area tomitana non ci sono i metalli preziosi cari a Massimo / nell’area tomitana non ci sono le porpore di cui Massimo spesso si copre. I distici sembrano rincorrersi in un gioco continuo di contrasti: alla purpura … fulgens di Fabio, non tinta dal mare sarmatico, ai vv. 7-8, si oppongono i uellera dura delle pecore perché le nurus tomitane non praticano la tessitura della lana, ai vv. 9-10. Il quadro ambientale ed antropologico del Ponto si arricchisce di un anonimo personaggio femminile, semplice e rozzo insieme: questa femina macina il grano, non tesse la lana, porta sul capo il pesante catino colmo d’acqua. Non ci sono olmi, non ci sono viti, non c’è quella realtà rurale che aveva ispirato la gloriosa poesia virgiliana delle Georgiche, non ci sono frutti: nulla premunt ramos pondere poma suos, che suona come un rovesciamento dell’immagine virgiliana dell’innesto, arbos / miratast … non sua poma, geo. ii 81-82; c’è l’assenzio triste, come aveva detto alla moglie in iii 1, 23-24, tristia … horrent absinthia … / … messis amara, simbolo dell’amarezza del luogo. Vi aveva fatto cenno anche in tr. v 13, 21, cana prius gelido desint absinthia Ponto.

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Anche per i vv. 11-12 Butrica 172 ritiene che sussistano le ragioni per un’atetesi, ed anche in questo caso Pfundstein 809-810 interviene a difesa del testo tràdito, a mio avviso correttamente, perché il distico incriminato da Butrica rientra perfettamente nel sistema di idee che regola i due distici precedenti e completa il quadro antropologico che l’esule sta disegnando, sempreché si intenda pro di v. 11 nel significato di ‘in luogo di’. Il poeta presenta uno spaccato di vita quotidiana della regione pontica: non è il mare sarmatico – egli dice – a tingere la porpora del mantello di cui si copre l’amico Fabio, le pecore hanno un vello duro, le donne non conoscono l’arte della tessitura, anzi la femina (si pensa, per antitesi, a Tib. ii 3, 54, illa gerat uestes tenues, quas femina Coa / texuit) anziché tessere la lana macina i doni di Cerere e porta un catino colmo d’acqua sul capo, come si diceva poc’anzi. In questo stravolgimento delle funzioni della femina è coinvolto il linguaggio: la figura zeugmatica che si cela dietro l’espressione pro lana Cerealia munera frangit ammette, almeno sul piano logico, un non attestato nesso lanam frangere (da Plin. n.h. xxxiii 62, netur ac texitur [aurum] lanae modo, vediamo che si dice lanam texere) parallelo all’ammissibile nesso Cerealia munera frangere (per fruges f. ThlL vi 1242, 63 sgg.; old s.u., 3 b). Ora, i vv. 9-11 risentono di un precedente ovidiano, del i libro dell’Ars, vv. 691-692, non sunt tua munera lanae; / tu titulos alia Palladis arte petes, in cui il praeceptor amoris ricorda ad Achille, che sotto una lunga veste dissimula la sua virilità, che la tessitura della lana non gli appartiene, e che la gloria gli verrà da un’altra arte di Pallade, quella che ha permesso la costruzione del cavallo (per cui cfr. Verg. Aen. ii 15), non da quel lavoro femminile ed artigianale di cui quella dea pur era protettrice. Si riscontra qui la tecnica, già più volte individuata, di una ripresa intratestuale fondata sulla riconversione e su un recupero di secondo grado di espressioni che, se anche prelevate da contesti in cui fissano concetti di diversa natura, comunque conservano nel nuovo contesto parte del contesto originario. Il poeta sembra darcene prova con una certa insistenza in un componimento che nelle sue intenzioni è anche una sorta di manifesto della poesia composta in terra pontica. Al v. 13 è ripetuto il ionico a minore (per positionem da peone 3°) amicitur di fast. i 153 (operitur alii); l’immagine dell’olmo che si avvolge alle pampinee viti è comune a vari testi precedenti: Verg. geo. i 2, ulmis […] adiungere uitis; ii 221, laetis intexet uitibus ulmos; Hor. epist. i 16, 3, amicta uitibus ulmo; Ou. met. x 100, pampineae uites et amictae uitibus ulmi; tr. ii 143, pampineis oneratam uitibus ulmum. Al v. 14 la triplice allitterazione premunt … pondere poma, più serrata tra le due parole contigue, imprime un valore aggiunto all’espressione della desolante immagine di una botanica povera e squallida; la ricercatezza formale, inoltre, dell’esametro successivo, un uersus aureus, accentua la desolazione naturalistica alimentata dallo stato d’animo di chi la osserva e la riversa nel canto. Ogni tratto del paesaggio tomitano, sopra tutto psicologicamente, e, quindi, soggettivamente disegnato, concorre a fornire del luogo dell’esilio un ribaltamento del paesaggio italico che esce dalla descrizione virgiliana delle laudes Italiae della seconda georgica, un paesaggio che, come si sa, detta le coordinate per illustrare un’ambientazione, territoriale ed antropologica, da età dell’oro: il punto di vista di questo Ovidio è dalla parte opposta. Il determinismo geo-climatico, aπermatosi in letteratura, suggerisce al poeta certa descrizione del paesaggio, imposta dall’auctoritas di una tradizione che aπondava le sue radici dottrinarie soprattutto in Aristotele che in Eth. Nic. 7, 6, 1148b, 19 sg. parla proprio di talune tribù selvagge del Ponto, ma si veda anche Polit. viii 4, 1338b 19; per i casi di androfagia già Herodot. iv 106 cita, ma con scarsa esattezza, la razza scitica; degno di attenzione anche Hippocr. aer. 24 sulla conformità dei costumi degli uomini alla natura del territorio, che, se privo di vegetazione e di acqua, contribuirà in modo decisivo alla durezza degli abitanti (Faraci 348, note 23 e 24). La fattura del v. 15, un uersus aureus come si è detto, con la coppia aggettivale e la coppia sostantivale che fanno ala alla voce verbale centrale pariunt, è anche un segnale dell’ironia del poeta che esibisce una ricercatezza formale per esprimere un’ambientazione squallida, deprimente, come i due aggettivi iniziali annunciano, tristia / deformes.

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17-22 + 23-24. Nell’epistola è del tutto assente la richiesta, divenuta istituzionale in quasi tutte le altre, anche se progressivamente il tono si è attenuato per via di una convinzione sempre più fragile, di intercessione presso il principe mirante ad ottenere una sede di relegazione più agevole; il poeta è ormai psicologicamente distante da questa aspettazione. La figura di Fabio attira la sua attenzione non tanto come magistrato nell’esercizio u√ciale delle sue funzioni, ma come ‘combattente’ in grado di uccidere il ‘nemico’; Ovidio manda a lui un manufatto dei mestieri del mondo scitico, le frecce, augurandosi che grondino del sangue nemico: l’espressione è forse un po’ criptica per noi lettori del nostro tempo che non sappiamo dare un nome a questo nemico di Massimo; si ha ragione di dubitare che sia un nemico di guerra, perché in questo caso precor di v. 20 tradirebbe un’ipotesi di precarietà nella stima della uirtus militare di Massimo da parte del poeta. La struttura di questo ‘epigramma epistolare’ è di tipo circolare nel pieno rispetto della tecnica alessandrina: il distico iniziale è richiamato dal distico finale: alla domanda a se stesso sulla natura del dono da inviare a Fabio fa eco la risposta nel distico finale, che contiene la natura del dono, che non consiste in una poesia come oggetto artistico, ma come mezzo di comunicazione di una notizia. L’epigramma-epistola è il biglietto di accompagnamento dell’eπettivo dono che Ovidio invia a Fabio: le frecce scitiche, di solito frecce avvelenate, che, fuor di metafora, classificano il nuovo linguaggio dell’esule, come apparirà più chiaro in iv 13, 19-22, dove l’esule si vergogna d’esser quasi diventato un poeta getico, anzi, addirittura, d’avere scritto un libro Getico sermone; intorno a queste si concentra la sedulitas del poeta. A quae (monosillabo iniziale di esametro) … mittere di vv. 1-2 corrisponde quae (nella stessa posizione metrica)… misisse … missa. (Si pensa al c. 65 di Catullo, della stessa estensione, ugualmente un ‘biglietto’ legato al dono della Chioma.) La parte centrale, l’ojmfalov~, è occupata dalla descrizione del modo di vivere della gente pontica che per questo non può oπrire altro prodotto da trasformare come donum se non le frecce. Ebbene: la contrastività tra il modus uiuendi getico-sarmatico e quello urbano di Roma è avvertita con troppo forte trasporto per non pensare che essa si carichi di un’amarezza accusatoria. La presenza di ben tre tamen, al v. 5, al v. 19 e al v. 24, spinge a considerare questa poesia il canto del ‘nonostante tutto’. Il motivo di fondo dell’etsi … tamen, che, come ben si sa, caratterizza il già richiamato epigramma epistolare di Catullo ad Ortalo, si arricchisce di tante componenti che suggeriscono una imitatio Ouidiana: il motivo della memoria (memor, v. 1), associato all’intenzione/atto del dona mittere (missae, missa, vv. 2, 23, 24), frenata/-o dal pudor del mittente, l’evocazione nostalgica dei poma/ del pomum, ora assenti, lì decisivo. Nella sensibilità del mittente l’elemento a contrasto con le caratteristiche della terra in cui vive l’esperienza di relegato è un’Italia non più anche sua, ma ora solo di Massimo, quasi identificato nei soli simboli di una materialità fatta di argento e di oro, di porpora, di gadgets, modelli di avanguardia sociale, nel campo delle arti e dei mestieri, degli usi, nella fenomenologia naturale botanica. Il Ponto fabbrica frecce, frecce avvelenate: questi i suoi souvenirs, questo il dono che Ovidio può oπrire all’amico, con tutto il valore metaforico ed il risvolto simbolico che esse possono rappresentare. Ma soprattutto, specifica Ovidio, questa la sua disposizione d’animo che può produrre il suo estro poetico da lui assimilato alle frecce racchiuse in scitica faretra. La stessa epistola è l’eπettivo dono ‘poetico’ che Ovidio invia all’amico: donum ed epistolium sono tutt’uno. Lo dice egli stesso: in quelle frecce si identificano i suoi calami, i suoi libelli, il nouus libellus tutt’altro che lepidus. Questi ‘calami’, però, devono anche colpire a sangue il nemico di Massimo. Il termine calami è usato argutamente dal poeta con un preciso scopo di generare ambiguità, o meglio di spingere a sovrapporre sino all’identificazione i due significati: calamus è la ‘freccia’, come a met. vii 778 e viii 30, ma anche la ‘penna’, strumento di scrittura, come in her. 11, 3 e 21, 247. La penna di Ovidio in terra tomitana, che ormai è la ‘sua’ terra, è una freccia avvelenata, avvelenati sono i suoi libelli.

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Ai vv. 21-22 con la citazione di calami e libelli il poeta sovrappone ad essi, identificandole, le frecce scitiche; il dono per Fabio consiste nel ferale sarcasmo, capace di ‘uccidere’ il nemico; Massimo, evidentemente, non ha aiutato, non ha potuto aiutare Ovidio come il poeta aveva chiesto ed avrebbe voluto. E, nel contempo, altrettanta feralità Ovidio consiglia a Massimo di usare nei confronti del suo nemico: questo suggerisce il carattere metaforico del dono degli spicula. L’uso insistito del dimostrativo epidittico, hos … haec … hos haec … / haec, la rima leonina che regola i due kola dell’esametro, il gioco di prestigio metrico, hos habet haec / hos haec habet, che ruota intorno al pirrichio ballerino, diviso rispettivamente nei due kola tra funzione proclitica e funzione enclitica rispetto ad haec; l’allitterazione Maxime, Musa: son prove di un virtuosismo che il poeta dà non per esibizionismo e senza compiacimento ma con amara marcatura: sono specimina dei dona che questo poeta sa e può oπrire. O meglio: Ovidio dice a Fabio che gli manda tela, in senso figurato (old, s.u., 5 «fig. or in fig. contexts» con svariate occorrenze da Plauto a Tacito), come lo stesso Ovidio in P. iv 6, 35-36, hostibus eueniat, quam sis uiolentus in armis [clausola epica, Helzle 1989, 151], / sentire et linguae tela [ThlL vii 2 1447, 34 sgg.] subire tuae, rivolgendosi a Bruto, dice che tocca ai nemici verificarne la violenza ed aπrontarne i dardi dell’eloquenza. L’amaro gioco allusivo consente di citare solo i tela ma quelli clausa in Scythica pharetra, dardi che fanno veramente male, fisicamente male, velenosi. Sull’ambiguità del termine tela nella produzione esilica ovidiana, e non solo, si soπerma diπusamente Degl’Innocenti Pierini 2008, 79-101 (= 2003, 119-143). Nella nostra epistola, però, il caso, per una maggiore complessità, mi sembra di poter dire, è diverso da quelli esaminati dalla studiosa con la consueta acutezza: Fabio Massimo, inutile dirlo, non è un vero e proprio ‘nemico’ o un vero e proprio ‘falso amico’ di Ovidio esule, figure contro le quali il poeta ha usato ed userà, anche e forse soprattutto nell’Ibis (posto, come crediamo, che ne sia l’autore), la potenza giambica dei tela poetici. Eppure, in questo momento anche nel vecchio amico Fabio Massimo il relegato tomitano vede una persona che forse avrebbe potuto ‘far di più’. Ma, soprattutto, Ovidio oπre in dono al suo destinatario quei tela perché sia piuttosto lui ad usarli contro i suoi nemici; chi sono questi nemici? Avanzo una cauta ipotesi in chiusura di commento. Sul tema dell’amicizia nella poesia tomitana di Ovidio richiama l’attenzione Gareth Williams 1994, nell’intero cap. iii (The friendship and the theme of artistic motivation), e soprattutto 100 sgg.; lo studioso, è il caso di dirlo, è tra i numerosi esegeti che riconoscono, anche in tema di amicitia, la matrice ironica di buona parte della poesia esilica ovidiana, ma questo non può meccanicamente comportare una riduzione del poeta a «mere ironist», come vorrebbe il suo recensore, W. S. Anderson, in «bmcr» datato 95.12.15. A ricompensa di che, è il caso di chiedersi, Ovidio oltretutto dovrebbe voler inviar doni a Fabio? E quei doni! È una domanda che ci si dovrebbe porre ove non si voglia riconoscere il risvolto ironico, pur pacatamente ironico, dell’epistola, che comporta, oltretutto, una non ammissione del valore metaforico dei tela. Quel memor, riferito alla propria cura, al v. 1, allora, è ironica allusione al fatto che Fabio si è completamente dimenticato di lui. È lo sfogo di un uomo deluso, che si rende conto di aver malamente sperato. Anche il distico finale con l’insistito suono qu- nella sequenza quae quamquam … quia … / … quaeso, il diptoto misisse – missa (che ho opportunamente ripetuto nella traduzione) impressiona per il gioco di suoni e di figure che tradisce la matrice sarcastica avvertita anche da Nagle 58, che parla di «ironic exclamation». Un sarcasmo, si badi, che non può essere percepito come un ex abrupto: già nell’elegia precedente (e non solo), la iii 7, ad es., quando il poeta, rivolgendosi agli amici, scrive quod bene de uobis speraui, ignoscite, amici, / talia peccandi iam mihi finis erit, vv. 9-10, in quella richiesta di perdóno rivolta agli amici per aver, erroneamente (peccandi), riposto speranza nel loro aiuto c’è un fondamento di amarezza che di√cilmente può sfuggire a chi conosce l’arguzia del Sulmonese. 23-24. Il poeta rievoca, anche attraverso un vistoso recupero lessicale, l’appello che aveva inviato a Roma nella conclusione dell’epistola iv 1 dei Tristia, tu quoque non melius, quam sunt mea tem-

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pora, carmen, / interdicta mihi, consule, Roma, boni (vv. 105-106). Certamente i due luoghi ovidiani ispirano l’autore di Priap. 53, 6, quamuis pauca damus, consule poma boni (pauca richiama vistosamente parua di v. 23): in tutti e tre i casi il secondo emistichio, consule ō ă (ī ă) boni, appare come un sigillo, una sfragiv~; l’anonimo, arricchendo il contesto della malizia dell’ipotesto ovidiano, non incongrua nella scherzosa richiesta di protezione avanzata dall’orante al dio Priapo, trasferisce nel suo ipertesto la sardonica espressione ovidiana. (Non appare plausibile l’interpretazione fornita da Roberto Gagliardi, Carmina Priapea. Le forme e le espressioni del maschilismo antico in un classico della poesia erotica latina, Milano, Savelli, 1979, p. 59: «proteggi la frutta di un buono», che converte in un gen. di possesso il gen. di stima boni.) In tutti i tre testi la voce parlante si rammarica della modestia del dono ma ne chiede comprensione al destinatario. All’ultimo verso è riservata, dunque, la gra√ante battuta finale: il poeta invita Fabio ad accogliere di buon grado l’… omaggio; è con esso che consuma la sua (sterile) vendetta. E pensare che aveva presentato quei dona come inadeguati ad una personalità così importante! Naturalmente non si dovrà leggere, in ogni caso, l’epistola nei termini di una violenta polemica: Ovidio non ne aveva né la forza né la volontà. Si tratta, è bene ripeterlo, dello sfogo, di un uomo disperato. Non sappiamo con certezza se fosse arrivata a Tomi la notizia della visita di Augusto ad Agrippa Postumo, il terzo figlio di Giulia maggiore e di Agrippa e perciò inviso a Livia (la first lady, come la chiama Barrett), il quale scontava per la sventata cospirazione organizzata da Giulia minore l’esilio a Planasia (Pianosa). Il principe era accompagnato in gran segreto proprio da Fabio Massimo, che era ideologicamente vicino all’esule Agrippa Postumo ed al suo entourage romano. (Un qualche coinvolgimento della vicenda di Postumo con la sorte di Ovidio ed eπetti fatali su di lui della lettura dell’Ars sono ipotizzati da Norwood 158 a proposito di P. iii 3.) Associato alla famiglia giulia Fabio avrebbe con tutta evidenza preferito una successione di quel ramo anziché, come invece poi sarebbe avvenuto, del ramo claudio. Tacito, ann. i 5, 1-2 cit., riportando quello che era solo un rumor (rumor incesserat), scrive che Fabio l’avesse invece svelata alla moglie Marcia, che a sua volta ne informava Livia. Questa fitta trasmigrazione della voce del mancato patto di segretezza giungeva presumibilmente al principe, che scaricava la sua ira sull’ina√dabile accompagnatore; a meno che, verosimilmente, il principe, ancorché adirato, non fosse stato indotto al gesto fatale ai danni di Fabio dalla stessa Livia. Del viaggio segreto dà notizia anche Dione a lvi 30, 1, dove si sospetta di un coinvolgimento di Livia nella appena avvenuta morte di Augusto, ejpeidh; pro;~ to;n ∆Agrivppan kruvfa ej~ th;n nh`son dievpleuse kai; ejdovkei oiJ kai; pantavpasi katallaghvsesqai, «a causa del fatto che egli si fosse recato in gran segreto nell’isola da Agrippa, e poiché si aveva l’impressione che si fosse del tutto riconciliato con lui», dopo la condanna alla relegazione inflitta per il coinvolgimento nel complotto organizzato da Giulia Minore (Dio lv 32, 1-2), ma le ragioni primarie del provvedimento vengono ricondotte al suo pessimo carattere, del quale si hanno analoghe testimonianze in Vell. ii 112, 7; Suet. Aug. 65, 9; Tac. ann. i 6, 2; Schol. Juu. vi 158, 1. Del ripensamento di Augusto sul conto di Agrippa e dei sospetti su Fabio oπre una significativa testimonianza Plinio a n.h. vii 46, 150, abdicatio Postumi Agrippae post adoptionem, desiderium post relegationem, inde suspicio in Fabium arcanorumque proditionem (una qualche informazione ricaviamo anche da Plut. mor. 508a sgg., e, comunque, va osservato che nei testi di ciascuno di questi autori vengono riportati particolari di volta in volta diversi). Ora, l’assunzione di responsabilità da parte di Ovidio circa la morte di Fabio (P. iv 6, 1-12, occidis ante preces, causamque ego, Maxime, mortis / (nec fuero tanti) me reor esse tuae, col comm. di Helzle 1989, 144-146) spinge a prender in considerazione l’ipotesi che il poeta si sentisse sia pur marginalmente coinvolto nella sua scelta suicidiaria. Di√cilmente, infatti, la sua condizione attuale di relegatus avrebbe potuto nel concreto provocare la fine di Fabio, e, quindi, la ‘responsabilità’ che Ovidio sente pesare su di sé deve esser fatta risalire ai tempi in cui egli era

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ancora a Roma, quando aveva commesso l’error di essere involontario testimone oculare (cfr. tr. iii 5, 49-54; iii 6, 27-29, ma già ii 99 e 103) di un evento, non possiamo saperne la natura, che vedeva coinvolto Agrippa, di cui egli avrebbe potuto informare Fabio, e di cui era giunta notizia a Livia stessa, che, dal suo punto di vista filo-tiberiano, aveva tutte le ragioni per allarmarsi ed allertarsi, come il testo dioneo ed il testo pliniano sopra citati dimostrano. Ora, forse, il nemico di Fabio, contro il quale Ovidio raccomanda di usare gli spicula avvelenati comincia ad avere un volto, una possibile riconoscibilità; l’indagine va condotta all’interno del clan dei più agguerriti aspiranti al trono dell’impero tra i due gruppi di potere, i tiberiani di Livia, che già si sentiva Livia Augusta (sull’interpretazione politica dell’error Luisi-Berrino 2008, 110 sgg., soprattutto 131-133).

Epistola iii 9: Bruto - Epilogo. Autodifesa dell’Autore. Il manifesto della poesia esilica

III 9 Epilogo. Autodifesa dell’Autore. Il manifesto della poesia esilica «Bruto, nei miei libelli la richiesta è sempre la stessa: una sede più vicina alla patria, una sede meno pericolosa. Mi criticano per questa monotonia. Le manchevolezze della mia poesia sono a me ben note e sono molte, ma mi si rimprovera solo questa mancanza di varietà. È di√cile che l’autore denigri il proprio lavoro, eppure il mio giudizio non è travisato da narcisistiche distorsioni. Mi avvedo io stesso, e non di rado, della necessità di correggere espressioni non del tutto perspicue ed adeguate, eppure mi sottraggo all’impegno per la cura formale, perché sono abbandonato dalle necessarie energie. La sorte che mi ha ghermito mi toglie la forza e la voglia di interventi per cambiar parole, per rivedere la forma. Non mi si rimproveri per aver cantato sempre lo stesso motivo. Un tempo scrivevo elegia lieta, ora la mia elegia, testimone della mia situazione e del mio stato d’animo, non può che esser triste. Tuttavia scrivo a molti, è qui la varietà, e son testimone sincero di una condizione di vita assai miserevole. O forse, Bruto, avrei dovuto inviare elegie solo a te? Non volevo scrivere un libro, ma far pervenire a singoli destinatari singole epistole, senza rispettare alcun ordine; ti prego di perdonarmi: mi hanno guidato utilità e dovere; la gloria non c’entra.»

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9. BRVTO 5 10 15 20 25 30

Quod sit in his eadem sententia, Brute, libellis, carmina nescioquem carpere nostra refers: nil nisi me terra fruar ut propiore rogare et, quam sim denso cinctus ab hoste, loqui. o quam de multis uitium reprehenditur unum: hoc peccat solum si mea Musa, bene est. ipse ego librorum uideo delicta meorum, cum sua plus iusto carmina quisque probet. auctor opus laudat: sic forsitan Agrius olim Thersiten facie dixerit esse bona. iudicium tamen hic nostrum non decipit error, nec, quidquid genui, protinus illud amo. cur igitur, si me uideo delinquere, peccem et patiar scripto crimen inesse, rogas. non eadem ratio est sentire et demere morbos: sensus inest cunctis, tollitur arte malum. saepe aliquod uerbum cupiens mutare reliqui, iudicium uires destituuntque meum; saepe piget (quid enim dubitem tibi uera fateri?) corrigere et longi ferre laboris onus. scribentem iuuat ipse labor minuitque laborem, cumque suo crescens pectore feret opus. corrigere ut res est tanto minus ardua, quanto magnus Aristarcho maior Homerus erat, sic animum lento curarum frigore laedit et cupidi cursus frena retentat equi. atque ita di mites minuant mihi Caesaris iram, ossaque pacata nostra tegantur humo, ut mihi conanti nonnumquam intendere curas fortunae species obstat acerba meae, uixque mihi uideor, faciam qui carmina, sanus, inque feris curem corrigere illa Getis.

‘recte x’ Richmond (de elegiarum ordine cf. praefationis uiri docti Richmond p. xviii) 3 propiore e bl : propriore B C : potiore le 4 loqui B C le e bl: queri b a d p v (cf. iv 7,4) 9 Agrius vh, Canter: agarius C : acc/t(h)ius B2 (in ras.) le e bl et alii : acrius n : actius d t 10 dixerit B C le bl : dixerat e 13 uideo B C e, edd. plerique : uideam le bl, Owen 14 post rogas interrogatiue interpunxerunt Owen, André, Pérez Vega 17 aliquod B C le e bl : quidem mc • reliqui B C le e bl: relinquo Cb 19 dubitem B C le bl : metuam e P 21 labor B C le bl : fauor e blv : calor Heinsius cui lectio labor non displicuit • laborem B C le e bl : dolorem ka ve 22 -que suo B C le e bl : quasso Merkel 23 minus C, probauu. edd. plerique : maius B2 (in ras.) : magis le e bl, Owen et alii 25-26 del. Bentleius 25 lento B C bl : lentum B2 le e 25 sic animum lentum curarum pondere tardat legerit Burmannus 26 cursus le e bl (cf. ii 11,21, cursurus … equus) : in cursus C : ras. circa 9 litterarum B: cursor n : si quis be : rector Postgate : gyrus Schreuders 27 mit(t)es B C le e bl : mitem Heinsius: mitis Burmannus 31 qui bh er (sscr.) et alii : quin C : cum le e et alii (cf. Ehwald 1896, 28) : quod B2 (in ras.) et alii : qua n 32 corrigere B C le bl: colligere e, Bentleius

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9. A BRUTO In questi libelli, Bruto, un tema sempre uguale; perciò, mi dici, un non-so-chi stronca le mie poesie: che non chiedo se non d’ottenere una sede più vicina, e dico che assedio mi facciano nemici a frotte. Oh! Quanti i difetti! Me se ne rimprovera uno solo: se la mia Musa pecca solo in questo, bene! Le manchevolezze dei miei libri le vedo io, da me, per quanto ognuno approvi i propri versi più del dovuto. L’autore elogia il suo lavoro: così forse Agrio una volta avrà detto che Tersite era bello a vedersi. Questa distorsione, però, non travisa il mio giudizio, né di qualunque cosa abbia prodotto subito m’innamoro. Perché allora se vedo che sbaglio continui io a sbagliare, mi domandi, e lasci io che menda rimanga nello scritto. Sentire le malattie è un conto, allontanarle un altro: la percezione del male è in tutti, eliminarlo è un’arte. Spesso, pur spinto a cambiare una parola, l’ho lasciata; è che le forze abbandonano il mio discernimento; spesso mi rincresce (che indugio a fare? Confesso: è la verità?) correggere e sopportare il peso di un lavoro lungo. Allo scrittore la fatica fa bene di per sé, e fatica attenua fatica, e lo sviluppo dell’opera è fervido come il suo cuore. Correggere impegna, sì, in misura tanto minore quanto maggiore d’Aristarco era il grande Omero, ma oπende l’estro con la fredda e lenta cura formale e frena l’ardore del destriero in corsa. E gli dèi miti mi attenuino la collera di Cesare, e sian le mie ossa coperte da terra quieta, ché, se cerco d’intensificare talora il mio impegno, lo spettro acerbo della sorte mi si para dinanzi, e a stento mi vedo sano a comporre versi, e a curar di correggerli tra la ferocia dei Geti.

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nil tamen est scriptis magis excusabile nostris, quam sensus cunctis paene quod unus inest. laeta fere laetus cecini, cano tristia tristis: conueniens operi tempus utrumque suo est. quid nisi de uitio scribam regionis amarae, utque loco moriar commodiore precer? cum totiens eadem dicam, uix audior ulli, uerbaque profectu dissimulata carent. et tamen, haec eadem cum sint, non scripsimus isdem, unaque per plures uox mea temptat opem. an, ne bis sensum lector reperiret eundem, unus amicorum, Brute, rogandus eras? non fuit hoc tanti (confesso ignoscite, docti): uilior est operis fama salute mea. denique materiam quam quis sibi finxerit ipse, arbitrio uariat multa poeta suo. Musa mea est index, nimium quoque uera, malorum, atque incorrupti pondera testis habet. nec liber ut fieret, sed uti sua cuique daretur littera, propositum curaque nostra fuit. postmodo collectas utcumque sine ordine iunxi: hoc opus electum ne mihi forte putes. da ueniam scriptis, quorum non gloria nobis causa sed utilitas o√ciumque fuit.

33 est le e bl, recep. Richmond : e B (corr. ex ẽ?; sine signo correctionis sec. André) C, Owen, André, Pérez Vega 41 scripsimus B bl : scribimus C le : scribitur e P 44 eras B e : erat C le bl 45 docti B C le e : amici bl et alii 47 materiam le e (-em Burmannus), edd. plerique : materia B C bl : materiae (… 48 suae) dubitanter Heinsius, recep. Richmond, qui autem suo in clausula u. 48 seruau. • quam quis B C le e bl, recepp. edd. plerique : quam sibi mb (quis interposuit mb2) : quam quam v : cum quis Bentleius : quom quis olim coni. Owen : quamuis Riese, probau. Richmond 49 malorum B C le e bl : laborum v 50 incorrupti … testis B C le e blv : corrupti … tristis bl : incorruptae … uocis pnv : incorruptae testis Heinsius, reiecit Owen coll. Ou. fast. iv 203 (pro magno teste uetustas / creditur […]) 56 causa B C : cura d

p. iii 9 Niente tuttavia v’è nei miei scritti di più perdonabile del fatto che in tutti non c’è che quasi un sol senso. Lieto ho cantato letizie, triste canto tristezze: al genere s’adatta l’una e l’altra realtà. Che scrivere se non dei disagi di una terra amara e pregar di morire in un luogo più agevole? Anche se dico spesso la stessa cosa, a stento mi s’ascolta, e se voce nascondi profitto non trovi. E comunque, se son le stesse cose, non agli stessi abbiam scritto, e la solitudine della mia voce cerca il conforto di molti. O forse, per evitare al lettore un pensiero replicato, dovevo chiedere a te solo, Bruto, tra gli amici? Non era cosa di tal valore (perdóno a chi confessa, o dotti): la fama dell’opera val meno della mia salvezza. Infine, la materia ch’abbia ognun prodotto di sua fantasia, a sua discrezione molto varia chi è poeta. La mia Musa riflette, anche troppo veritiera, i miei mali, e ha il valore d’un incorrotto testimone. E non farne un libro, ma ad ognuno consegnar la sua lettera: questo il mio premuroso proposito. Quindi le ho raccolte e messe insieme così, senz’ordine: non credere che ci sia un mio lavoro di selezione. Perdona i miei scritti; non la gloria ne è il movente ma l’utilità e il dovere.

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1-6. Lo scopo precipuo di Ovidio quando si apprestava a scrivere dal Ponto quest’elegia a Bruto, non a caso destinatario anche della prima epistola della raccolta, era quello di apporre la sfragiv~ ad un ciclo che nelle intenzioni doveva costituire una compiuta silloge, una Gedichtsammlung (ll. i-iii), come evidenti indicatori segnalano e come, appunto, ben vide primieramente Hermann Hartmut Froesch nella Dissertazione del 1968. L’epistola è deputata, quindi, a contenere gli elementi della paratestualità tipici dell’epilogo, o, meglio, del postscriptum, ed il mittente non ebbe dubbi a costruire l’ossatura del componimento su parametri metapoetici per segnalare e discutere quelle critiche alla monotonia provenienti da un personaggio anonimo, e forse addirittura fittizio. L’identificazione di Bruto è risultata assai problematica. P. iv 6, scritta dopo la morte di Augusto, è indirizzata a Brutus avvocato giudiziario (cfr. vv. 35-36, ma si veda il più ampio contesto dei vv. 27-42) ed esperto di letteratura (ibid., v. 18, uestra … carmen in ora dedi); nulla autorizza a riconoscere in questo personaggio il Bruttedio Bruto (a lui accenna Syme 1993, 641 e nota 93 a p. 647) di cui parla Seneca il Vecchio in contr. vii 5, 9 e ix 1, 11; «Nothing can be said with certainty about Brutus’ identity» ammonisce cautamente Helzle 1989, 136; è almeno imbarazzante, osserva acutamente Barchiesi 2007 458, l’omonimia di questo destinatario, della prima e dell’ultima epistola della Gedichtsammlung, con M. Giunio Bruto ricordato ai vv. 23-24 di P. i 1, autore di un’orazione per Milone nel 52, filo-pompeiano non della prima ora (Syme 1993, 292). Secondo taluni studiosi, come da ultima Pérez Vega, a lui si allude anche in alcuni luoghi dei Tristia: i 7, 5-6; 11-14; 33-34 (per quanto alcuni pensino ad Igino, liberto di Augusto, cui era a√data la gestione della biblioteca sul Palatino); iii 14, 13-26 (cfr. già Luck 1963, 292; anche in questo caso l’identificazione del destinatario non è univoca, perché, ancora una volta, si divide tra Bruto ed Igino). L’identità di questo personaggio, dunque, non è stata definita con certezza assoluta ed unanimità dalla critica; ancora André 1977, xx-xxi nella Introduction dell’edizione parigina si limitava a presentare un ventaglio di ipotesi altrui, avanzate, peraltro, nel secondo Ottocento, senza prendere posizione. Riconoscono, invece, in Bruto l’editore delle opere dell’esilio Syme 1978, 80, «he may have been charged with the publication of those [Ex Ponto i-iii] books (cf. iii. 9. 51 π.)», 1993, 609, «un certo Bruto», Evans 1983, 112 e 146; Pérez Vega 2000, 3, Gaertner 2005, 7, Green 2005, 293, 347-348; è di√cile non pensare, ormai, che Bruto, Bruto amico di Ovidio e basta, almeno abbia curato l’edizione delle Epistulae ex Ponto; una posizione isolata assume Krevans 1984, 1-28, che vede nello stesso Ovidio l’editore delle Epistulae. Non si può escludere che Ovidio insceni una sorta di autocritica, simulando di attribuire ad altri eccezioni sulla sua opera in realtà da lui stesso avvertite, o, meglio, da lui immaginate come prevedibilmente mosse da altri. Se, infatti, avesse eπettivamente a√dato le sue epistole per una revisione, a meno che non ci fossero state autonome prese di posizione critiche verso questa nuova poesia, avrebbe accettato con benevolenza le critiche che dichiara essergli state indirizzate, interpretandole con lo spirito dei bei tempi romani che animava la vita del circolo, come un piacevole revival di quello scambio di opinioni estetiche. Inoltre, la formalizzazione ed il dettaglio delle eccezioni sollevate dal lector o dall’auditor non rientrano nella materia poetica: nei testi poetici che testimoniano la pratica dei rilievi mossi dal recensore non sono palesati i motivi specifici, i delicta, che hanno spinto il correttore a richiamare l’attenzione dell’auctor ad un intervento migliorativo. L’abitudine delle recitationes capitoline è ormai anche mentalmente lontana ed estranea all’atmosfera tomitana; il poeta, anzi, sembra rifiutare il giudizio altrui, sente di essere entrato in una nuova dimensione di scrittore, e ciò è dovuto ai nuovi contenuti che comportano, e pretendono, nuove modalità di scrittura, sicuramente lontana dall’attenzione

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costante alle ‘ra√natezze’ del passato, ma non priva, in ogni caso, di accuratezze tecniche, peraltro visibilmente rilevabili. La giustificazione del livello poco lusinghiero che il proprio prodotto letterario raggiungerebbe con le elegie esiliche prende abbrivo da un altro testo, scritto in momenti piuttosto diversi, quando Ovidio organizzava piuttosto una difesa contro una critica forse anche più violenta mossagli da chi riteneva la sua una poesia troppo licenziosa. Parlo dei vv. 361 sgg. dei Remedia, il proemio al mezzo del poemetto di didassi erotica, in cui il Sulmonese, sulla scia del modello callimacheo, Aitia frg. 1, 17 Pf., il celeberrimo e[llete baskanivh~ ojloo;n gevno~, «andate alla malora, razza funesta di Malocchio» (cfr. anche Stat. Praef. silu. 4), canta, gridandola contro il Liuor edax (cfr. P. iii 4, 73-74, scripta placent a morte fere, quia laedere uiuos / Liuor et iniusto carpere dente solet), la tipica recusatio della poesia grave a favore dell’elegia, cui egli ha molto dato e da cui si aspetta che molto gli sia dovuto, almeno nella misura in cui il genere nobile dell’epos era debitore verso Virgilio: tantum se nobis elegi debere fatentur, / quantum Vergilio nobile debet opus (v. 397 sg.). Il poeta, ora nell’epilogo dei Pontica, recupera di quella autodifesa contro i censores dell’Ars certa terminologia di pertinenza giuridica, come innanzitutto il verbo carpo (Pinotti 194), nel senso di «critico», «denigro», che si legge in Cic. Balb. 57, ma che entra poi stabilmente nel linguaggio della critica letteraria – è presente anche nei su citati versi di P. iii 4 –, come attesta Orazio in serm. i 3, 21 e, in qualche modo, più latamente, in carm. iv 9, 33, e come più volte (i 91, 2; v 33, 1-2 [che maggiormente risente dell’archetipo ovidiano], carpere causidicus fertur mea carmina: qui sit / nescio; xi 94, 3) attesterà Marziale, ma si veda anche Quint. i.o. xi 24, in carminibus utinam pepercisset, quae non desierunt carpere maligni. La ripresa, inoltre, del termine libelli (nostros libellos in rem. 361, his libellis in ex P., v. 1: il dimostrativo è riassuntivo); l’echeggiamento della sdegnata indefinitezza in cui è tenuto il recensore (quicumque es in rem. 371, nescioquem in ex P., v. 2 [cfr. infra]); il recupero, e contrario, del vb. laedere, che in rem. 371 indica il risentimento del lettore scandalizzato dalla licentia uatis, in ex P., v. 25 l’oπesa dell’ispirazione poetica arrestata dalla freddezza della cura formale: l’aggregazione di questi fattori, che ritornano in una forma dei contenuti compatta, è la spia di un invito al lettore, chiamato a predisporsi ad un confronto tra le due esperienze poetiche che presentano vistosi divarî, ma anche suggeriscono motivi di continuità ed oπrono, in questo senso, spunti di collegamento nei quali si condensano significati. Dai libelli dell’Ars ai libelli delle ex Ponto Ovidio sembra essere stato costantemente perseguitato dalla obtrectatio di giudici malevoli, ora ispirati da una falsa morigeratezza ora indotti dal disappunto provocato da un’eccessiva ripetitività della tematica. Nei Remedia l’erotodidaskalos rivendica il rispetto del prépon, la coerenza della sua ispirazione poetica con la materia, che insieme rendono falsum il crimen che gli è stato ascritto (vv. 387-388); qui, nell’epistola a Bruto, il relegatus avanza analoghe pretese, ma su base naturalmente diversa. Allora reclamava la libera lasciuia (v. 385), ora non altro sostanzia la poesia se non il uitium regionis amarae (v. 37), che legittima la monotonale pulsione poetica: il prépon (conueniens, v. 36: cfr. infra) è ugualmente rispettato. L’atteggiamento critico e polemico, dettato da intenzioni non, esattamente, apologetiche, giustificative invece sì della propria opera (non nuove quando si pensi, ad es., a tr. i 11; ii 31356; iii 14; iv 1; P. i 5), emerge da segnali lanciati subito all’inizio dell’epistola: il congiuntivo sit, col quale si prendono le distanze dal parere espresso da altri; il pronome sdegnosamente indefinito nescioquem col quale si addita l’ipotetico personaggio lasciato in uno sprezzante anonimato, che ha espresso giudizi negativi sull’uggiosa piattezza della poesia dei libelli; l’allitterazione carmina … carpere, i due dattili che rispettivamente avviano i e ii emistichio del pentametro, eπetto fonico deliberatamente cercato quando si pensi che il verbo, pur nella variante sintagmatica, ha genesi in rem. 361, nuper enim nostros quidam carpsere libellos. Ora, innanzitutto, se riconosciamo, come è giusto, in his libellis di v. 1 i tre libri delle Epistulae ex Ponto, che si stanno concludendo con questa lettera a Bruto, bisognerà anche riconoscere a

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questa stessa epistola nona del iii libro in un certo senso la funzione di un ‘a parte’, una sorta di appendice, dall’autore pensata non come conclusione ‘naturale’ del terzo ‘libello’, ma come un’aggiunta suggerita se non imposta dall’eπetto che egli immagina che la raccolta produca sul pubblico dei lettori, e, quindi, considerata come eπettivo epilogo di un ‘as a whole’, uno structured whole, ma pubblicata con la funzione di post scriptum che si può leggere e capire ove si ammetta che tutto il precedente, i 1-iii 8, sia dominio già acquisito del diretto destinatario senz’altro, ma soprattutto di un pubblico di lettori nemmeno tanto ristretto. Est fuga dicta mihi, non est fuga dicta libellis / qui domini poenam non meruere sui: è quel che a tr. iii 14, 9-10 l’esule osserva delle opere scritte prima di essere relegato a Tomi, ma che l’esilio non fosse stato inflitto ai suoi libelli vale anche per quelli che è andato componendo dopo. L’anonimo iudex (ammesso che esistesse, ripeto, ma se non esistesse nulla cambierebbe) ha come recensito i tre libri, e per farlo, evidentemente, essi erano nella volontà del poeta da considerare in circolazione per esporsi alla lettura di un pubblico: l’invio individuale è già avvenuto; poi l’autore, il mittente, ha compiuto il rito dell’assemblaggio delle epistole perché insieme formassero un liber, anche se si tratta di una inedita etichetta di liber, priva delle coordinate tradizionali, stando alle dichiarazioni ed ammissioni finali formulate dallo stesso Ovidio. Al poeta fondamentalmente si eccepiscono difetti bersagliati da una critica incriminazione di annosa ripetitività (si rileggano ancora i vv. 1-4 di P. iii 7), che incolla il contenuto di quei carmina sulla richiesta di una sede meno lontana da Roma, e sul lamento per l’assedio subìto dal densus hostis (sul motivo dell’hostis Degl’Innocenti Pierini 2008, 82 sgg.). Non sembra che si recensisca la forma e si avanzino stroncature che non riguardino la materia. Eπettivamente poche sono le tematiche svolte nelle opere esiliche; a quelle già elencate si possono aggiungere le espressioni di timori derivanti dai pericoli che climaticamente riserva Tomi, il riconoscimento della lealtà degli amici o la denuncia del loro tradimento, argomenti in qualche caso trattati con una terminologia addirittura quasi formulare: nei contesti, ad es., di tr. iii 14, 39-40 e iv 1, 89-90 spiccano il comune sintagma recitem … carmina e l’equivalenza dei nessi auribus utar / auribus accipiat. Il poeta chiude questa polemica con un giudizio a sua volta sprezzante del lavoro del critico, cui si addebita scarsa attenzione: se gli aspetti negativi della sua opera esilica si limitassero alla condannata ripetitività, sarebbe davvero poca cosa. L’immagine del peccare, che qui indica l’errore letterario, senza dubbio risente dell’influsso oraziano di ars 354, peccata (Brink 361), come il già citato delicta (per cui cfr. anche infra). È evidente che il poeta individua in aspetti altri che quelli oraziani la negatività delle sue performances, se davvero di negatività si voglia parlare. Peccare però – è il caso di ricordare – appartiene anche alla sfera linguistica dell’esperienza erotica dove, come si sa, il verbo è utilizzato per indicare il ‘cedimento’ alle sollecitazioni derivanti dai richiami dell’eros, come, ad es., in her. 17, 48, si peccem, e 93, peccatura fuissem (Elena a Paride). Del cedimento fisico del cavallo anziano, e della necessità di sottrarlo alle fatiche (motivo risalente ad Ibico, fr. 7, 6-7 Diehl = 287 Page, i{ppo~ […] ghvra/ / ajevkwn […] e[ba), prima che schiamazzi tra le risa dei presenti parla Orazio in epist. i 1, 8-9, ‘Solue senescentem mature sanus equum, ne / peccet ad extremum ridendus et ilia ducat’ (Palmer 87). 7-12. Ovidio impone la propria personale individualità, ipse ego … meorum (v. 7), per denunciare la responsabilità e ammettere la consapevolezza, tutte sue, degli errori (delicta, come nell’Ars di Orazio, vv. 347 e 442) presenti nei suoi libri: il ricorso alla terminologia oraziana dell’Arte Poetica (sulla presenza oraziana nella poesia esilica cfr. Nagle 128-130), come peccem di v. 13, di cui si è già puntualizzato l’intratesto di 1° grado nell’her. 17, impegna il Sulmonese sul terreno metaletterario, ponendolo nella scia della concezione poetologica del Venosino, ma non più per aderirvi quanto piuttosto per prenderne le distanze (a Nagle 125-130; Williams 1994, 83-91, Helzle 1989, passim, Gaertner 2005, passim si deve, complessivamente, la raccolta più doviziosa di dati). Non condivide egli, e lo fa evidentemente con piglio polemico, la maniera abbastanza

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diπusa, se non generalizzata (quisque, v. 8) di altri poeti di abbandonarsi ad un elogio anche eccessivo delle proprie opere, o forse previene le critiche di chi abbia insinuato che a lui comunque piacesse quel prodotto poetico. L’emistichio esametrico Auctor opus laudat suona come un proclama, e potrebbe echeggiare l’insinuazione di cui dicevo. L’assonanza in au, i tre bisillabi di fila, il giambo/falso pirrichio opus gravitante ritmicamente su laudat (opúslaudát), il preliminare isolamento iniziale della parola trocaica, auctor, generante sensi di attesa: son tutti sussidi retorici e tecnici miranti ad assecondare sia l’enfasi dello slogan, per quanto critico possa essere, che il prevedibile intervento ridicolizzante di non teneri recensori. La forza espressiva e semantica di questo kolon asciutto e denso insieme, in questo contesto, si rivela nell’exemplum mitologico che esso stesso introduce e che occupa il secondo emistichio e l’intero pentametro successivo. Agrio etolico, padre di Tersite, è personaggio omerico (Il. ii 216-219), già presente in Prop. iii 1, 90, elegia programmatica (e, quindi, metapoetica): questo flash properziano e tutta la ripresa del discorso estetico di marca ciceroniana ed oraziana dimostrano come Ovidio fosse preso da un forte eppure innapagabile desiderio di inserirsi in una discussione cólta, come accadeva ai tempi della frequentazione dei circoli capitolini. Aveva Agrio sostenuto la (assai discutibile) bellezza (facie … bona) del figlio, che, in realtà, era il guerriero più brutto presente a Troia, ed anche il peggiore sotto il profilo militare, come esplicitamente, senza il velo dell’ironia, si legge in P. iv 13,15 (mala … forma). L’esule è tutt’altro che incline a condividere questo culto dell’autoelogio che perciò non condiziona il suo giudizio sulla propria poesia, anzi sinceramente dichiara di non innamorarsi subito di tutto ciò che scrive, nec … protinus … amo: il nesso è recuperato da met. i 474, protinus alter amat; fugit altera nomen amantis, contesto fortemente connotato dal marchio erotico-elegiaco formulare degli amores impares, che richiama alla mente, ad es., la sottile polemica antitibulliana cantata da Orazio in carm. i 33. Emerge soprattutto il divario, almeno iniziale, tra le eccezioni mosse da nescioquis, il cavilloso esegeta, inerenti al c o n t e n u t o dei tre libri pontici, e l’auto-coscienza critica del poeta che guarda ai delicta soprattutto f o r m a l i, retorici ed estetici, come ha già fatto in precedenti componimenti sia dei Tristia che delle ex Ponto, quando, secondo i dettami oraziani (ars poet. 386b sgg.), ha pur accolto il suggerimento migliorativo dell’amico (cfr. P. ii 4, 17-18; iv 12, 26). Ovidio distingue e contrappone, come sembra, due aspetti della critica letteraria, ed eleva all’eπettivo rango di delictum quello da lui valutato, che riguarda la forma, la revisione stilistico-formale del carmen (saepe aliquod uerbum cupiens mutare reliqui, v. 17), l’aspetto di più squisita tradizione callimachea, piuttosto che quello dell’anonimo censore che dà l’impressione di badare alla sola monotonia della materia trattata, dall’esule stesso già più volte motivata e giustificata. Eppure in questo epilogo, così rigorosamente impostato su basi metapoetiche, mai sono espressamente usati termini tecnici come lima o litura (Merli 2010 e 2013, passim), presenti invece altrove, come in P. i 5, 19 (e i citati ii 4, 17-18 e iv 12, 26) a Cotta Massimo, in cui un Ovidio ugualmente esausto ammette di riconoscere l’errore, ma confessa, come in iii 9, 17 sgg., anche ‘nec tamen emendo’, perché la correzione è fatica superiore alla scrittura, e la sua mente spossata dal male è incapace di sostenere la durezza dell’impegno (vv. 17-18). Egli spiega l’impasse stilistico con lo stagno contenutistico, in questo modo capovolgendo i termini della questione così come l’aveva presentata Callimaco e come l’avevano recepita i poeti di età augustea: la politezza del carmen è legata ai contenuti, ed ai motivi ispiratori, ma mentre nei seguaci romani del callimachismo l’assecondamento dei motivi di ispirazione, in genere legati ad un ‘sentimentalismo’ autobiografico, poteva favorire la buona qualità del prodotto letterario, ora, con la poesia esilica di un Ovidio stanco e svogliato, avviene il contrario: questa condizione oπre un risultato poetico che risulta deludente a chi sia ancorato agli standard poetici tradizionali, ed allontana il poeta dal labor limae. Ci troviamo di fronte ad un ridimensionamento del verbo callimacheo, ad un suo superamento, alla giustificazione di una poesia vera nel messaggio, soprattutto unica e,

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nella coscienza dell’autore, irripetibile, ed anche non appetibile dai gusti d’un tempo, e disposta, se non costretta, ad essere, alla luce di quei praecepta, poco ‘letteraria’ nel senso tradizionale del termine. Nell’ambito dell’epistola a Bruto il motivo stilistico rimane centrale, incastonato tra la critica della monotonia sollevata dall’anonimo recensore (vv. 1-4) e la giustificazione di quella monotonia perorata dal poeta (v. 33 sgg.). 13-16. Un notevole accumulo di voci verbali, ben undici escludendo il part. sost. scripto, caratterizza la coppia di distici dedicata all’espressione di una condizione di rilassatezza che non consente al poeta infiacchito dalla mancanza di vigore l’intervento sull’ ‘errore’, di cui egli ha pur coscienza, e che pur gli sarebbe dall’interlocutore sollecitato (rogas). Il pensiero è conclusivo (igitur) di un ragionamento oggettivato nella riflessione del destinatario, cui è a√data la formulazione della domanda sulle ragioni della mancata correzione. Il ricorso al linguaggio consolatorio, evidente nell’uso di termini che appartengono al lessico della malattia (sentire et demere morbos; tollitur … malum), qui ha una funzione rovesciata rispetto al codice della consolatio (Sen. cons. ad Marc. 4, 1, nec te ad fortiora ducam praecepta, ut inhumano ferre humana iubeam modo […]), perché il poeta se ne serve per dichiarare piuttosto l’immedicabilità del suo status, e la sua non consolabilità: egli ‘sbaglia’ e in piena consapevolezza continua a ‘sbagliare’ soprassedendo all’errore e conservando il crimen all’interno del suo scriptum: crimen inesse è nesso riconvertito da her. 17, 220 (la colpa di Elena condivisa da Paride), ripetuto a P. iii 3, 70 (nessuna colpa nell’Ars), e riproposto in P. iv 1, 20 (incolpevole il senso del dovere del poeta), con significati, come si vede, sempre diversi. Sono l’incapacità assoluta di guarire e forse l’inguaribilità del suo malum, o perché intrinseca essa o perché, piuttosto, percepito esso come immedicabile, che condannano il poeta esule. Come non confrontare questo stato d’animo con quello, opposto, di rem. 107 sgg., in cui il medicus sostiene caparbiamente che il suo intervento può essere ugualmente e√cace anche se tardivamente egli sia stato chiamato ad operare: qui modo nascentis properabam pellere morbos, / admoueo tardam nunc tibi lentus opem (vv. 115-116)! È lo statuto stesso dell’opera, portatrice di contenuti riabilitativi, ad indirizzare verso esiti opposti. Ma Ovidio, forse, parla oppositivamente anche nei confronti di Orazio che in epist. ii 1, 136 aveva dichiarato, con riferimento al carmen saeculare, che il coro delle Muse auertit morbos, metuenda pericula pellit, e ancora che carmine di superi placantur (v. 138): la poesia dell’esule, ora, può sortire un eπetto consolatorio solo se la si intenda come strumento di momentanea evasione dalla crudezza della realtà relegatoria; con la sua poesia … non si placano gli dèi! L’immagine nella sua interezza è la risultante di una manovra metaforizzante del dolor vissuto dal relegatus. Ovidio si riferisce in senso diretto alla mancanza di volontà di correggere gli errori che riconosce, ma intende alludere anche alla mancanza di e√cacia della poesia nella sua funzione di consolatio, che presuppone un’ars che ora gli viene meno; ora gli basta, ad es., recuperare da tr. v 5, 31, sensus inest … nebulis quas exigit ignis («nei nugoli fumosi dalla fiamma volteggianti un sentimento c’è»), la giuntura sensus inest da destinare a diverso significato: lì «la sensibilità» della nuvola di fumo sprigionata dalla fiamma che guarda verso l’Italia, qui la capacità percettiva della malattia (o, fuor di metafora, dell’errore letterario) comune a tutti. Il luogo dei Remedia e quello dell’epistola oraziana ad Augusto, richiamati come poli opposti di intra- ed intertestualità, possono essere, forse, veramente emblematici per capire la metamorfosi della produzione di Ovidio nelle sue performances di poeta relegatus, che recupera quei testi, con intenzioni sottilmente allusive, per compiere rispetto ad essi una vera e propria Umkehrung. Egli è consapevole che per raggiungere gli standard della poesia di un tempo sarebbe necessario liberarsi del peso, ma non ne ha la forza, anzi non ne ha il potere: un conto è sentire il malum, altro è demere morbum, un’espressione che ricorda il deponere morbum invocato da Catullo a 76, 25. Il cantore dell’Ars amandi, dunque, torna su antiche opzioni poetiche che avevano liberato una lascivia verbale destinata ad urtare la suscettibilità dei censori. Egli, anzi, le supporta perché, per giustificare ora l’incapacità di ‘correggersi’ e di aderire a scelte poetiche che

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altri riterrebbe più ortodosse, giustifica quelle di allora riadattandole. Con la rimanipolazione, inoltre, del testo dei Remedia sopra citato egli interseca il piano contenutistico col piano formale, a tratti, cioè, anche stilistico, della scelta lessicale, quindi, e/o di quella sintattica, a√dando alle stesse parole destinazioni semantiche opposte. 17-26. Ovidio, quindi, torna su un concetto già espresso più volte (un corposo elenco in Scholte xv-xvi, già citato) e più volte ripreso nella prima elegia del v libro dei Tristia, dove al v. 69 sgg. ammette che i suoi scritti son brutti ma si rifiuta di emendarli perché, così come sono, testimoniano che sono stati composti lì, in esilio, una ragione valida perché i critici non li confrontino con quelli dei poeti che vivono a Roma, privilegiati non solo perché ricevono la collaborazione di colleghi nella revisione, ma anche e soprattutto perché la loro mente non è ottenebrata dal grigiore della relegatio in terra lontana ed ostile. Del resto, come accennavo, in P. ii 4, 17-18 egli stesso ringrazia Attico (sui rapporti interpersonali Citroni 1989, 93 sgg.), uetus sodalis, per le correzioni di cui la sua poesia ha potuto godere in più occasioni quando la sottoponeva all’attenzione del valido recensore; in P. iv 12, 26, ancora, si rievoca la reciprocità nell’azione di analisi e di commento critico intercorsa in altri tempi con Tuticano, anch’egli poeta. Il lavoro tecnico compiuto da Ovidio ora consiste nel seguire un itinerario di scrittura esattamente opposto a quello abituale, a quello canonico. Talvolta, egli dice, avrebbe pur avuto l’impulso di sostituire la parola usata con un’altra, ma poi non lo ha fatto, e non averlo fatto è stato frutto di una scelta, sia pur questa imposta dalla mancanza di forze che abbandonano il iudicium, una scelta dettata dalla incapacità di aπrontare gli sforzi legati al duro lavoro della correzione; confessa il rincrescimento per la correzione, che comporta una lunga fatica; ora la sua poesia consiste proprio nella denuncia di quel rincrescimento. Nel distico successivo sostiene che la fatica piace allo ‘scrittore’, scribens (detto con lo spirito distaccato di chi non sente di appartenere a quella cerchia), il quale, sollecitando un impegno supplementare, addirittura attenua il peso del lavoro, che si sviluppa con un fervore non inferiore a quello che anima l’ispirazione. Non è una contraddizione. Il relegatus sta, infatti, dichiarando di non essere uno scrittore, o, meglio, di non sentirsi e di non svolgere la funzione di scrittore, quale svolgeva nella composizione delle opere pre-esiliche, ora che redige lettere dal Ponto. Queste, dunque, sono sottratte ad ogni responsabilità letteraria, ove la si delinei secondo le coordinate tradizionali, che l’esule, in questa fase finale della vita e della produzione, sta sensibilmente aggiornando. Non può non attirare l’attenzione l’insistenza con la quale il poeta gestisce l’uso poliptotico del termine labor nel giro ristretto di due versi (20b-21), ferre laboris onus. / scribentem iuuat ipse labor minuitque laborem, in un contesto in cui spicca, certamente cercata, la rima che governa la clausola dei due pentametri (onus / opus). Immagini oppositive sembrano rincorrersi: piget vs iuuat | ferre laboris onus vs minuit … laborem (pectore feruet opus); riflessioni dettate dal rammarico venato di senso nostalgico perché non si vive più il fervore di un tempo: non mi sembra ci sia traccia dell’humour riscontrata da André 111, nota 1, seguìto da Pérez Vega 2000, 149. Ovidio si allontana dai parametri prediletti da Orazio, serm. i 10, 67 sgg. (critica a Lucilio); ii 3, 1 sgg., dove la polemica nei confronti del poeta incapace di patire nella ricerca della forma migliore è assai vivace; lo aveva già fatto in P. i 5, 15 sgg., come s’è detto. Eppure, di letterarietà le opere dell’esilio prive non sono, se è vero che i recuperi, tutt’altro che meccanici, dalle assai sorvegliate opere giovanili e della maturità sono massicci, come in buona parte tra le altre soprattutto l’indagine della Nagle ha mostrato. Ma la dimostrazione del nuovo corso della poesia ovidiana è proprio in quella forma di riappropriazione e risemantizzazione di frammenti di modalità formali e di ritagli di opzioni lessicali che la condizione esistenziale attuale fa avvertire come ormai desueti eppure, nello stesso tempo, utilizzabili per finalità altre; questa strategia, da sola, dà vita al nuovo, ed ultimo, progetto artistico ovidiano. Il poeta relegato recupera lo spirito originario del uertere, che aveva animato Andronico come Plauto come Terenzio, per aprire

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nuovi varchi nella cultura letteraria: questa volta gli ipotesti non sono i testi greci, consacrati dalla tradizione e riconosciuti nel loro ruolo di testimonials della cultura occidentale; questa volta un poeta se ipsum uertit per aprire una nuova stagione letteraria. Ovidio, allora, respinge lima e litura per lasciare il campo all’immediatezza dell’espressione dei sentimenti, che non può perciò e non deve essere sottoposta a revisioni, perché parlare di sé, della propria condizione significa anche presentarsi come un poeta in di√coltà, in di√coltà ad obbedire ai canoni della poesia di un tempo, quando il labor limae era un impegno non eluso e godeva, per certi versi, di primarietà, anche se per le autentiche ragioni, psicologiche sentimentali ispirative insomma, che avevano suggerito la scrittura, l’autore conservava la sua vigile sensibilità. La narrazione della ‘sua’ realtà getico-sarmatica materia un altro tipo di poesia, non esaltata dal fervore di un tempo; egli ri-usa il linguaggio, i modi, i sintagmi, le figure poetiche già collaudate, ma deprivate di quel fervore che le aveva originariamente permeate, e perciò denudate di quell’eπetto che esse potevano sortire solo se incastonate in quello specifico contesto. La genialità ora sta nella capacità di un rinnovato uertere di un genio latino che fa poesia dichiarando di fare una poesia-non-poesia. La pratica della correzione, sembra rettificare Ovidio, è un impegno assai meno gravoso (minus, che è lectio di√cilior, non magis o maius, che non renderebbero il concetto voluto dal poeta, e dalla logica del contesto), in termini di quantità, rispetto alla grandezza di Omero nei confronti del grammatikwvtato~ Aristarco, l’Aristarco citato da Orazio al v. 450 dell’Ars poetica. Magnus Homerus: una variante deliberatamente scelta, dettata com’è dalla ricercata figura etimologica magnus … maior, che risponde ad abitudini tutte ovidiane, rispetto all’oraziano insignis Homerus di ars poet. 401. Ebbene, Ovidio dell’Ars oraziana ha senz’altro tenuto presenti anche v. 438 sgg., soprattutto perché adombrano in un certo senso lo stesso stato d’animo che angustiando il poeta esule detta uersus inertes. Dunque Orazio dice: se Quintilio Varo a seguito di una lettura, dopo aver avanzato critiche, si sentiva rispondere che alla prova non si era riusciti a far meglio, consigliava allora la totale cancellazione e la riscrittura del testo bocciato. Ma, continua, si defendere delictum quam uertere malles, / nullum ultra uerbum aut operam insumebat inanem, / quin sine riuali teque et tua solus amares (vv. 442-444: «Ma se preferivi difendere l’errore / anziché toglierlo, non sprecava altro fiato / e rinunciava alla fatica inutile / d’impedire che tu, senza confronti, / amassi te stesso e l’opera tua», tr. Ramous). Ovidio è oltre, supera il classicismo augusteo che trovava consacrazione nelle teorizzazioni estetiche dell’Ars di Orazio. La citazione del critico greco, ÔOmhromavstix, a sua volta sembra piuttosto dettata, nel contesto, da un risentimento del poeta, che nell’accanito ma peraltro malamente applicato rigore del critico-filologo alessandrino, noto per aver espunto versi di Omero ritenendoli, erroneamente, spurii, identifica la miope pedanteria dei suoi detrattori. I versi di Omero erano di livello assai più alto del livello assai inferiore del suo giudice incapace di coglierne nel dubbio l’autenticità: il paragone rivela il discredito dell’esule per l’insensibilità dei suoi incompetenti recensori. Questi non ammirano la sua poesia du moment présent considerandola spuria anch’essa, in quanto non rispondente ai canoni estetici ai quali la sua arte del temps jadis li aveva abituati, con quelle sofisticazioni che dilettavano un sofisticato poeta prima che sofisticati lettori. Ora, la poesia che Ovidio esprime, e che egli stesso sembra criticare come non polita, è però, nel contempo, una poesia libera – come un destriero che arde di correre, a briglia sciolta –, senza vincoli estetici, almeno quei vincoli classici ed ora inadeguati, che frenano con gelida lentezza lo slancio libero dell’ispirazione (e√cace al riguardo il rinvio di Delvigo 109, nota 112, a Plin. epist. ix 10, 3; ix 15, 2), anzi dello stesso pensiero, ledendoli per l’osservanza di una disciplina troppo estraniante. L’espressione animum laedit di v. 25 prende spunto dall’excursus di carattere metaletterario di rem. 371 sg., una sorta di omphalós riservato all’enunciazione programmatica a difesa della propria opera contro i detrattori (ma si veda da 361, versi supra richiamati, con il comm. di Lazzarini 149 sgg.). Nei Remedia Ovidio si rivolge ad uno dei tanti critici che hanno rimproverato la licenziosità della sua Musa, la quale però incontra un eccezionale favore di

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pubblico toto in orbe. L’invidia colpisce in alto, egli dice, i fulmini di Giove summa petunt. Dalla genericità qualitativa del du-Stil, quisquis es (v. 366), Ovidio passa all’er-Stil con riferimento esplicito a Giove (v. 370), per poi tornare alla indeterminatezza ed ora anche all’anonimato del du-Stil, quicumque es (v. 371 < Hor. epod. 15, 17, et, quicumque es), nell’epistola a Bruto ripreso con il nescioquem del v. 2, cui già accennavo. Il collegamento col passo dei Remedia è evidente, ma è il caso di approfondire l’interpretazione di questa intratestualità: Ovidio, richiamandosi allusivamente a quel passo, lo ribadisce nella sostanza, e quindi, ancora una volta, ora, nella poesia esilica, attribuisce a se stesso, sia pur per un tipo assai diverso di poesia, un primato che nell’epica appartiene ad Omero, invano criticato dall’esegesi di Zoilo, l’ ÔOmhromavstix (in Orazio come poi nell’Ovidio esule l’obtrectator è il più noto Aristarco). Ebbene, ora Ovidio riprende il motivo della violazione, anche se in termini diversi: lo studio della cura formale del testo poetico, un tempo maniacalmente ricercata pena la decadenza artistica del prodotto, ora è addirittura lesiva della libertà dell’ispirazione, svolgendo il ruolo che nell’Ars era giocato, sul piano etico, dalla licentia stessa, licentia ideologica. Insomma, si crea un rovesciamento: nell’opera giovanile i critici erano oπesi dalla licentia della poesia trasgressiva, licentia di contenuti, ora, nella produzione esilica, dalla mancata cura formale, licentia retorica ed estetica. Nel poemetto sui rimedi contro l’amore il poeta è impegnato a difendere i canoni della blanda Elegia; la sua lasciuia libera … est, egli dice a v. 385, e gli si muove un falsum crimen. Il crimen che in quell’opera, ed in quella stagione artistica, era mosso alla licentia era falsum, come falsum è il crimen che gli si muove ora (cfr. v. 14); Ovidio si riferisce ancora a critiche su una ripetitività risultata stucchevole, di cui lascia credere sia venuto a conoscenza per avergliele presumibilmente riferite lo stesso Bruto. L’excursus del poemetto didascalico si conclude con un proclama assai altezzoso: tantum se nobis elegi debere fatentur, / quantum Vergilio nobile debet epos (vv. 395-396; epos Muretus, Luck: opus codd. Heinsius, Lenz). La rivendicazione del rispettabile livello della nuova poesia non è altrettanto altezzosa, perché manca, con tutta evidenza, la adeguata spinta psicologica, ma conserva la fermezza della convinzione. Williams 20063, 239 condivide il pensiero di Hinds 1998, 90 (ma si veda già Doblhofer), secondo il quale le opere dell’esilio si sviluppano all’interno di un loro tropo, per il quale il «‘decline’ becomes decline»; lo studioso spiega successivamente che la persona di Ovidio soccomberebbe ad una crescente convinzione che la qualità della sua poesia si riduca per via di uno stato di nevrosi, causa di instabilità in un uomo dimidiato com’è tra amore e odio verso la poesia da lui prodotta (ibid., 242). La psicanalisi applicata ad un testo antico e le conseguenti diagnosi vincolano, si sa, chi la conduce e chi le elabora ad un impegno molto di√cile soprattutto per la precarietà oggettiva oπerta dal soggetto analizzato, ed espongono ad inevitabili perplessità. Si pensi, ad es., al volumetto pubblicato a Roma nel 1973 da Antonio De Santis, Properzio. Saggio di interpretazione psicologica (vd. rec. in «Vichiana», 5, 1976, 317-319). Non si potrà mai negare che la condizione psicologica dell’esule fosse di√cile, ma in quale misura essa incidesse sulla sua tenuta psichica è assai di√cile dirlo, come, peraltro, discutibile è interpretare certa desultorietà di comportamenti in senso patologico. Per noi the poet between two worlds ha ormai abbandonato l’old style di una poesia che ha esaurito la febbrile ricercatezza formale, almeno quella ricercatezza, manifestata anche nello scontro polemico tra genera, superata dai tempi, dai gusti, dalle istanze interne ed esterne alla sensibilità dello scriptor, ed appartiene al new world, a cui apparterranno, tra altri, negli immediati successivi decenni, Petronio e Marziale, capace di esprimere nuove forme, detentrici di una nuova ‘ra√natezza’. Ovidio ha scoperto, dopo aver parlato dell’amore altrui, dopo aver simulato di vivere in prima persona l’amor-furor, sempre poeticamente gestiti sotto l’egida dei praecepta acquisiti dalla gloriosa tradizione callimacheo-augustea, ha scoperto, dicevo, l’autobiografismo di stampo catulliano-properziano rivisitato da uno stile, sì rispettoso del livello letterario, ma non ossessionato da quel perfezionismo ormai letto nella sua condannata smaniosità.

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27-34. La rivendicazione della ‘libertà’ della poesia porta alla solita formulazione del tema augurale: che l’ira del Cesare – non si parla di clementia Caesaris – si plachi e sia concesso all’esule di morire in una terra non funestata dalla discordia, una sorta di refrain di questa poesia: tr. i 1, 34; iii 3, 29-46; 59-84, P. i 2, 57-58; 108. Ma il motivo, ora, si arricchisce di un nuovo elemento, dato che il poeta sembra ora porre le condizioni per riprendere a fare poesia secondo i canoni di un tempo nella realizzazione di quanto spera possa essere esaudito, ma la convinzione profonda che quelle condizioni non avranno possibilità di verificarsi prevale sulla fantasia di un miraggio. Quando cerca di intensificare l’impegno poetico, e quindi, di scrivere una poesia letterariamente elevata, disciplinata dal sorvegliatissimo labor limae d’una volta, egli vede lo spettro della cruda realtà, la misura con la tramontata condizione esistenziale, si sente, di conseguenza, incapace di comporre versi, si sente inabilitato alla ‘correzione’ in una terra feroce come quella dei Geti, nel basso Danubio non lontano da Tomi, i feri Geti (tra gli epiteti descrittivi loro assegnati si ricordino, per es., crudi a tr. v 3,8; duri a P. i 5, 12; iii 2, 102; feri anche a P. i 8, 15; iii 9, 32; iv 15, 40; hirsuti a P. i 5, 74; iii 5, 6; intonsi a iv 2, 2; inhumani a P. i 5, 66; iii 5, 28; iv 13, 22; [tr. iii 9, 2, -ae … barbariae]; saeui a iv 8, 84). Ora scrive una poesia che non prevede l’impegnativa fatica della correctio. Quella esilica è una poesia che rende immediatamente la propensione dell’animus, che non subisce patteggiamenti con le rivendicazioni della tecnica, il cui filtro finirebbe col contaminarla. È poesia nuova; poesia del sé autentico, che ad una tecnica di interpolazioni e contaminazioni che nasce spontanea dalla propria memoria poetica non vuole aggiungere nulla che sappia di ripensamenti e correzioni: … il dolore non lo consente. Questo tipo di ‘poesia’ non esiste, non esiste ancora come riconosciuta forma poetica. La formulazione del concetto della mancata idoneità a far poesia, quella d’un tempo, è a√dato al sintagma uix … sanus, costruito con vistoso iperbato (i due termini avvolgono il verso), motivo, questo, diverso, da quello col quale il poeta lamenta l’assenza di auditores competenti che stimolino studium e uirtus, come già più volte si legge nei Tristia e ancora, ad es., in P. iv 2, 33-38 (Merli 2010, 82 e nota 9). Ora, in ars ii 508 Ovidio parla del poeta non sanus (Baldo 325), ‘invasato’, un tema del quale si occupa Orazio nell’Epistola ai Pisoni proprio nel contesto su riportato, v. 455 (ma cfr. anche 296; epist. i 19, 3-4, ut male sanos / adscripsit Liber Satyris Faunisque poetas). La ripresa variata di un intero sintagma, sensus unus inest di v. 34 da sensus inest cunctis di v. 16, con significati completamente diversi, indica, nonostante tutto, la grande abilità del fare poetico di Ovidio, che sembra, sia pur amaramente, scherzare con i propri mezzi artistici, memore di essere stato il più illustre lusor: una intratestualità ravvicinata, còlta la quale si apprezza decisamente la manovra compiuta dal poeta, che attribuisce doppio significato a sensus, ora ‘percezione’, ‘facoltà di ricevere impressioni’, ora ‘significato’, valenza semantica di un messaggio linguisticamente espresso. 35-36. In quest’ultima epistola del iii libro, epilogo di ex Ponto i-iii, luogo ideale per puntualizzazioni ex post di carattere programmatico, è illustrata la diπerenza sostanziale tra la produzione pre-esilica e quella esilica, due esperienze poetiche che si incontrano su un terreno tutt’altro che secondario, il genere letterario, l’elegia: «lieto ho cantato letizie, triste canto tristezze: / al genere s’adatta l’una e l’altra realtà», laeta fere laetus cecini, cano tristia tristis: / conueniens operi tempus utrumque suo est. Il distico riprende i vv. 5-8 della prima elegia del v libro dei Tristia, nei quali il poeta definisce il suo attuale flebile carmen ‘conueniens’ alla lacrimevole condizione di vita di un uomo condannato all’allontanamento forzato e permanente dalla sua patria, dalle sue abitudini e dai suoi aπetti, e ribadisce, nel rispetto del principio del prépon, la congruenza tra materia e forma, tra prodotto poetico e condizione esistenziale del poeta (tr. iii 1, 10: carmine temporibus conueniente suis ~ v 1, 5-6, flebilis ut noster status est, ita flebile carmen, / materiae scripto conueniente suae). Al maestro di declamazione non sfuggiva il precetto ciceroniano frequentemente espresso

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nelle opere retoriche, come anche, ad es., in or. 36, 123, is erit ergo eloquens qui ad id quodcumque decebit poterit accomodare orationem. Laetus, il poeta dell’«elegia lieta» (e s’intende con questa etichetta la produzione elegiaca giovanile di Ovidio, non i miserabiles elegi di Tibullo e gli elegi di Properzio, ‘fallax opus’), un tempo s’era divertito a cantare gaiezze, integer et laetus laeta et iuuenalia lusi: l’automemoria poetica riguarda ripetizioni lessicali e riprese di modalità stilistiche che inducono ad ammettere un’intenzione allusiva. Il v. 35 di iii 9 è una sorta di uersus aureus: un triplice diptoto, il secondo (cecini, cano, voci verbali collocate al centro dell’esametro) ed il terzo (tristia tristis) a contatto, il primo con inversa collocazione desinenziale rispetto a tr. v 1, 7 (laeta … laetus vs laetus... laeta); correptio iambica che fa di cănō un pirrichio, cănŏ, proclitico su tristia (cfr. puto a P. i 8, 39; iii 1, 103); si veda anche confero, dattilo 5° a P. i 1, 25 (Tissol 61): casi per i quali Enk 209 richiama, e.g., Prop. iii 9, 35, non ego uelifera tumidum mare findo carina (Fedeli 1985, 321 sg.); in realtà la scansione trocaica del pres. indic. nella prima persona «becomes common in Ovid» (Housman 276, e già Platnauer 52). L’elegia, dunque, è stata per Ovidio un genere letterario adatto a cantare la materia erotica soggettiva ed oggettiva, ed è un tipo di poesia che in questa nuova fase della vita egli abilita (o riabilita) al canto della soπerenza, questa volta la propria, privata soπerenza: sum … argumenti conditor ipse mei, dice a tr. v 1, 10; e non è una soπerenza di natura erotica: materia, raro in poesia, molto presente invece in Ovidio soprattutto come termine tecnico del linguaggio retorico: am. i 1, 2, materia conueniente modis (McKeown 13) ~ tr. v 1, 6 < Hor. ars 38, materiam … aequam uiribus. La condizione di laetitia consente di cantare una materia laeta, che non necessariamente è personale; la condizione di tristitia, invece, personalizza la poesia mettendola al servizio del canto autobiografico della soπerenza. Lo scarto tra carmina laeta e carmina tristia è proprio nel diverso approccio che il poeta concede alla materia trattata, nel diverso tributo ‘sentimentale’, nel diverso tipo di coinvolgimento: non haec [dolenda] ingenio, non haec componimus arte: / materia est propriis ingeniosa malis, scriveva a tr. v 1, 27-28. Nulla di nuovo, d’altra parte: poeti come Tibullo e Properzio avevano gestito privatisticamente la poesia d’amore facendo oggetto di essa esperienze strettamente personali, e l’avevano anche curata dal punto di vista stilistico alla luce dei suggerimenti callimachei della Mou`sa leptalevh; Ovidio nelle opere esiliche usa lo stesso gevno~ per cantare ragioni personali, ma non erotiche, e, almeno nella sua nuova coscienza estetica, letterariamente curate non come quelle dei predecessori e delle sue stesse opere elegiache, con la cui materia, però, aveva stabilito un rapporto di distanza. Insomma, Ovidio distingue nella scala dei valori estetici della poesia in base al diverso rapporto dell’autore con la materia trattata, non più, però, quella erotica: la manifestazione schietta dello stato d’animo dell’autore, la sincerità, la spontaneità, la coincidenza di verità umana e verità poetica pretendono una immediatezza espressiva che insieme con la condizione di disperazione scoraggia la fatica della correctio, non ammette il filtro del labor limae di un tempo. Ma vanno bandite le distinzioni di un tempo, non ancora del tutto tramontate, che dividevano e dividono, all’interno della scholarship ovidiana, i sostenitori di una poesia simbolicamente rappresentata (ancora recentemente Stevens 163) dai sostenitori di una poesia tradizionalmente sottoposta ad una interpretazione letterale. In tr. i 11, 35 sgg. Ovidio chiede indulgenza al lettore sulla inferiorità della sua poesia motivandola con l’ostilità dell’ambiente in cui vive, con la hiems che vince l’uomo, ma implora che non appena porrà termine al canto, essa cessi di infuriare. Non si tratta, è evidente, di una burrasca atmosferica, e nemmeno di una bufera che metaforizza soltanto l’indignazione del princeps, ma di una tempesta psicologica, quella innescata dal poeta e che trova vita nella sua stessa poesia. La burrasca è in quanto è il poeta che la fa essere, è nella sua ispirazione, è il modo con cui l’uomo, cioè l’esule, può identificarsi col poeta, cioè l’autore dell’elegia triste, e questo è un modo del tutto nuovo per Ovidio di ‘far poesia’, la nouitas ammessa a P. i 1, 13, che non può essere limitata alla citazione esplicita del nome del destinatario in Anrede (Brute, v. 3), e nemmeno al contenuto, quodcumque est, che erotico certamente non è più; è il modo che

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si avvicina alla pratica degli elegiaci dell’eros della prima stagione augustea. In tr. v 12, 3 sg., dove è sviluppato un motivo analogo a quello di i 1, 39 sgg., carmina proueniunt animo deducta sereno … me fera iactat hiems (per ulteriori attestazioni di deducere in senso estetico si veda infra, comm. ai vv. 51-56; per una possibile allusione a carmina … deducta di Verg. buc. 6, 5 Bews 52), Ovidio, rivolgendosi all’anonimo destinatario che gli suggeriva di cercare una distrazione nella letteratura, risponde che la poesia è un’attività lieta che pretende la pax mentis. Nelle motivazioni espresse in questi due luoghi Elizabeth Block 23 sgg. inquadra le origini di quella che ella chiama ‘paralysis’ dell’esule, che riuscirebbe a comunicare poeticamente la sua perdita di controllo ma non sarebbe capace di correggerla: «This paradoxal failure […] was perhaps the worst exile of all» (27). Dunque: Ovidio dichiara di aver in propria persona sperimentato l’esistenza di due tipi di poesia, che si diπerenziano nell’incidenza su di essa della soggettività del poeta: esiste il poeta completamente sganciato da vincoli, sentimentali psicologici ideologici (ammesso, aggiungiamo, che ciò sia possibile in modo assoluto), che lo imbriglino nelle maglie dei personalismi e delle introspezioni di sé, il poeta dell’Ars amandi, ad es., ma anche del disincantato, per quanto fino ad un certo punto disincantato autore degli Amores, per intenderci, ed esiste il poeta che vive nella tormenta e nella tempesta e che non sa che cantare quella tormenta e quella tempesta, identificandosi permanentemente col naufrago. Del resto, già in am. i 1, 6 egli aveva rivendicato la propria indipendenza da Amor ribattendo al saeuus puer che pretendeva diritti sulla poesia: Pieridum uates, non tua, turba sumus (col comm. di McKeown 16); in am. i 2 si avverte il desiderio di riscattarsi in futuro dal dominio della passione amorosa per controllarla e trasformarsi in un amator sanus come quello elogiato da Lucr. a iv 1075-1076, nam certe purast sanis magis inde uoluptas [la hJdonhv] / quam miseris, un passo che non è improbabile che Ovidio abbia considerato quando si pensi che il ricorso all’agg. sanus è per lui raro: in Lucrezio si riferisce ai ‘malati d’amore’, qui, in Ovidio, ai ‘malati d’esilio’. Il concetto della discriminazione è cantato addirittura da Catullo (Block 24; Bonvicini 2000, 83-87) nel c. 16 in cui il Veronese distingue i due mondi, della realtà quotidiana e della realtà poetica, visti parallelamente, quello cioè degli eπettivi rapporti umani dominato e regolato dalla disciplina della morale convenzionale, e quello della finzione letteraria, cercando di annullare davanti ai dileggiati Furio ed Aurelio così ogni ipotesi di poesia autobiografica. Ma, evidentemente, almeno per Catullo la cancellazione della sintesi di vita e poesia, ed in questo fedeli eredi saranno Tibullo e Properzio, non appare eπettivamente riuscita, e risulta una trovata occasionale per rintuzzare le critiche all’autobiografismo poetico a servizio del canto della mollities e della mancata pudicitia. Ebbene, il motivo del non coinvolgimento personale provocato dalla materia, che è il soggetto svolto nella poivhsi~, almeno per la produzione giovanile, diventa topico in Ovidio: è già, ad es., in tr. i 9, 59-60, uita tamen tibi nota mea est, scis artibus illis / auctoris mores abstinuisse sui; tr. ii 353-54, crede mihi, distant mores a carmine nostro - / uita uerecunda est, Musa iocosa mea -; ed è significativo che Marziale, per prevenire accuse di immoralità, a i 4, 8 scriverà: lasciua est nobis pagina, uita proba. Questa presa di distanza, di sapore etico, del poeta dalla materia trattata, cioè ‘de quo loquimur’, come spiega Quintiliano in i.o. i 4, 18 (vd. Cic. acad. 1, 24), ancorché strumentale e in fin dei conti scarsamente credibile, in ogni caso non può essere applicata, avverte Ovidio, alla sua poesia esilica, in quanto egli vi è interamente calato con la sua soπerenza che governa la qualità del verso: non potrebbe dirlo più esplicitamente a tr. v 1, 10, sum […] argumenti conditor ipse mei, o nei su citati vv. 27-28 di tr. v 1. La di√coltà di Ovidio è, dunque, quella di farsi accettare come un poeta cambiato, di farsi accettare forse innanzitutto da se stesso, o, almeno, questo è ciò che egli vuol che appaia. Gli manca la materia del canto, l’esilio gli ha sottratto i contenuti, o meglio li ha miseramente ridotti al solo lamento per lo status di esule, e le parole non possono che essere quelle di sempre. Che le parole della vecchia poesia fossero solo un lusus è dimostrato dalla loro elastica direzionabilità: un tempo, appunto, cantavano la

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lasciuia, dando voce all’elegia lieta, ora cantano il dolore dando vita all’elegia triste: conueniens operi tempus utrumque suo est (il prépon, Helzle 1988, 81). 37-44. La materia del canto, monotona perché il poeta praticamente la limita alla richiesta di un trasferimento in un locus commodior, ora si arricchisce di un elemento nuovo, espresso quasi di soppiatto: egli non chiede di essere trasferito tout court in un’altra sede per poter vivere in modo meno disagiato, come dice ancora a P. iii 3, 64 a Fabio Massimo, dando l’impressione di augurarsi che il Caesar gliela conceda, me … loco plecti commodiore uelit; ora egli chiede la sede meno disagiata ma solo per potervi morire: riaπora, con maggiore crudezza, l’idea della fine, che aveva già fatto capolino a v. 27: ossa … pacata nostra tegantur humo. Ma qui l’esule accenna alla richiesta non per riformularla a Bruto perché ormai la sua sfiducia è definitiva; la ripete, con una formula che sembra una praeteritio, quid nisi … scribam al v. 37, solo perché il contesto riepilogativo esige che venga espresso in sintesi il contenuto delle epistole inviate, quasi come un titulus. Ovidio non ha saputo, non ha voluto cantare altro; la relegatio è stata per la sua vita un’esperienza totalizzante; l’impegno poetico non può che essere ispirato e motivato dal malessere prodotto dalla desolazione del luogo, ignoto ed orrido, come era stata la Tauride per Oreste: h{kw […] / a[gnwston ej~ gh`n a[xenon, «giungo […] in una terra sconosciuta, inospitale», Eur. I.T. 93-94. La condizione di isolamento è ritratta con un verso mirabile, 42: unaque per plures uox mea temptat opem, che prepara il pentametro del distico successivo, unus amicorum, Brute, rogandus eras?, in cui l’esule risponde alle critiche di piattezza, ripetendo, interrogativamente, i termini della critica: sarebbe bastato scrivere al solo Bruto la richiesta di intercessione presso il principe, avrebbe evitato di tediare il lector proponendogli un pensiero reiterato. Scrivere al solo Bruto, sia chiaro, avrebbe significato rinunciare alla pubblicazione del liber, almeno del liber come l’ha concepito, una decisione che, come si vede, Ovidio ha escluso di prendere. La diversità, però, sottolinea, sta proprio nell’aver rivolto, sì, sempre la stessa preghiera, ma a personaggi diversi. Anche le modalità epistolografiche delle eroine del mito che comunicavano con i loro amanti erano praticamente sempre le stesse, ma si trattava di eroine sempre diverse con sempre diversi rispettivi partners. Se l’osservazione gli ha consentito di recuperare un aspetto importante del valore letterario delle Heroides, essa lo immette nel contempo in una scia logica che gli fa fissare una diπerenza fondamentale rispetto a quell’opera giovanile e gli permette di ribadire la considerazione nella quale ora ritiene di dover tenere, e che si debba tenere, la produzione poetica dell’esilio. 45-50. In questa fase dolorosa, e nelle particolari condizioni in cui Ovidio è costretto dal provvedimento relegativo che lo ha colpito, il perseguimento della fama letteraria intesa come valore primario, un tempo raggiunta con la scrittura di una poesia che incontrava il consenso di critica e pubblico, lascia il posto alla salvaguardia della salus. Ovidio lo aveva già confessato in altre occasioni (tr. i 1, 49; iv 1, 3; v 12, 39 sgg.; P. i 5, 57 sgg.), ma preme qui ricordare soprattutto la chiusa della prima elegia del v libro dei Tristia – elegia, come s’è visto, speculare a questo epilogo di P. i-iii –, vv. 75 sgg.: «infine, gloria non inseguo, non la fama che suole fornire stimoli agli ingegni. Non voglio un animo marcito nell’ansia senza fine che penetra lì dove non deve»; la varietà dei contenuti (quella di un tempo, s’intende, ma una certa uarietas, diversa, è anche nella ‘elegia triste’) appartiene ad altri momenti ispirativi, ad altre fasi biografiche quando la pratica poetica alimentava la sete di gloria e la stravaganza esibizionistica di chi scriveva versi con enfasi teatrale (Rosati 1983, 49; Bonvicini 1991, 404): il ‘teatro’ del Ponto non è il ‘teatro’ di Roma: hoc mea contenta est infelix Musa theatro (P. i 5, 69). Ora la sua Musa è la testimonianza più trasparente di una irreparabile a∫izione, Musa mea est index, l’emistichio nel quale Wieland ha trovato ispirazione per il suo studio sulla Redeweise als Ausdruck der Denkweise bei Ovid; il poeta dichiara che nella sua poesia ora c’è il suo ‘sé’ (sum […] argumenti conditor ipse

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mei, tr. v 1, 10), scevra degli infingimenti d’un tempo, e, soprattutto, ammette che nella scala dei valori la ricerca della salus è un gradino più sù della ricerca della fama, esiliata anch’essa. Il termine index, lo dico incidentalmente, induce la Jansen (92) ad ipotizzare, «though we cannot be absolutely sure», che Ovidio avesse dotato la silloge P. i-iii di un Indice dei destinatari e che questo paratesto indirizzasse verso una lettura di tipo strutturalista. Nelle precedenti circostanze in cui aveva fatto questa ammissione il relegato non si era mai spinto a chiedere perdóno ai docti (confesso ignoscite), come invece fa ora, anzi aveva auspicato che la nuova poesia entrasse in Roma di nascosto: è un ulteriore segnale, questo, di una poesia interpretata come un congedo; la confessione, invece, è appena ripetuta: quid enim dubitem tibi uera fateri?, v. 19, dove, come s’è già detto, confida a Bruto l’indolenza per la correzione dello scritto. Il poeta torna ancora una volta, ma ora conclusivamente, sulla valenza artistica della sua produzione esilica, per lamentarne l’inferiorità rispetto a quella d’un tempo. Ora, si tratta di stabilire se e in che misura il carattere assolutamente privato della poesia tomitana di Ovidio, con contenuti e sentimenti prelevati dall’esperienza personale di un esule, eπettivamente incida, nell’autentica coscienza del poeta, sulla resa artistica del prodotto autoriale. Bisogna chiedersi se questo divario qualitativo risulti ad Ovidio stesso, e, quindi, se e in che senso il poeta pervenga ad una sincera ammissione di failure poetica e ad una richiesta di perdóno nel senso oggettivo del termine, o se, piuttosto, il poeta, conoscendo la negatività del giudizio del pubblico abituato a leggere ‘un altro’ Ovidio, non finga di attribuire a sé, senz’altro consapevole di aver fatto della poesia un ‘uso privato’, critiche invece esterne. Ovidio sostiene più volte di considerare la materia della poesia esilica quasi indegna del rango letterario. Essa riflette un’esperienza isolata, di scarso interesse comune; la confessione dei suoi sentimenti di esule e delle sue soggettivissime emozioni non può far presa su un pubblico cui quelle disposizioni di spirito rimangono non solo estranee ma assolutamente distanti, un pubblico che non può che definire mala i suoi scripta (tr. v 1, 69). Dunque, Ovidio avverte di aver inaugurato un microgenere letterario, o, meglio, di aver impresso ad un genere letterario già largamente consolidato una nuova strumentale impostazione (anche in questo è ravvisabile quella marcata originalità di cui parla Lee 409), quella di dichiarare una personale soπerenza e di chiedere ad altri di intervenire per poterla superare. In realtà, Ovidio è sulle tracce del protoelegiaco Catullo che canta il dolore che l’infedeltà di Lesbia gli provoca, l’appello agli ‘amici’ perché lo aiutino, la sottile critica ai falsi amici che approfittano di lui solo per ritagliarsi una chance per avvicinare la puella; è sulle tracce degli elegiaci tout court Tibullo e Properzio, che cantano la loro ostinata intenzione di persistere nel ruolo di serui amoris, che dichiarano di non vergognarsi della scelta di un ruolo subalterno, o, pur vergognandosi, di non poterne fare a meno (e.g., Tib. i 1, 58, segnis inersque uocer; Prop. ii 16, 35, «At pudeat». Certe pudeat!). L’Ovidio erotico-elegiaco aveva ripreso le coordinate principali di questa Lebenswall, ponendosi piuttosto all’esterno, con una sostanziale dissociazione del poetico dal biografico, e riflettendo, quindi, il punto di vista dell’osservatore, distanziato dalla propria sfera intimamente personale, per narrare la variegatissima fenomenologia erotica, riuscendo ad assicurare al prodotto della sua fantasia una molteplicità di eπetti e di risultati: materiam quam sibi finxerit ipse, / arbitrio uariat multa poeta suo: la restitutio textus di questo distico (vv. 47-48) ha seriamente impegnato editori ed esegeti. La tradizione del v. 47 è risultata piuttosto problematica, e presenta disparità di opzioni editoriali. Ritengo che si possa conservare materiam del Gothanus (sec. xiii), ogg. di uariat, contro materiae, genitivo dipendente da multa, dubbiosamente proposto da Heinsius (che corregge anche il tràdito suo alla fine del pentametro successivo in suae) ed accolto da Richmond (che però conserva suo a chiusura del v. 48), emendatio che, se fosse tradizione, apparirebbe indebolita almeno dal dubbio della lectio facilior. Quam quis della maggioranza dei testimoni è da considerarsi sano, e non necessaria appare la congettura quamuis del Riese, accolto da Galasso 2008, 160; va, infine, attribuito valore avverbiale a multa, it. ‘molto’, ‘in gran misura’, di uso poetico: si vedano, e.g.,

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oltre che Verg. Aen. i 5, Ou. met. vii 7, viii 176, fast. vi 766 (in cui può sussistere l’interpretazione della doppia valenza), soprattutto Aen. iii 610, haut multa moratus; iv 205, multa orasse. Condivisibile, pertanto, mi sembra la traduzione di Iodice Di Martino: «Infine, il soggetto che ha tratto dalla sua immaginazione, / il poeta lo può molto variare a suo arbitrio». «Molto» acquisisce nel contesto valenza quantitativa e qualitativa, come è giusto, quando si consideri che Ovidio sta pensando alla sua produzione poetica precedente all’esilio, e, probabilmente, a mio avviso, in filigrana, anche a quella dell’esilio stesso, così sottratta all’accusa di monotonia di contenuti e monotonalità di Stimmung. Il ritorno all’autobiografismo, originario del genere, da Ovidio rettificato in una sorta di oggettivazione dell’esperienza erotica, deprivata di un coinvolgimento a volte drammatico, avviene a seguito di una vicenda, quella della relegatio, che, liricizzata, egli vedeva inaccettata dal pubblico non disposto ad accogliere la metamorfosi di chi diventava il titolare di uno style non ritenuto spendibile poeticamente. In tr. i 1, 61 sg. egli scrive: ut titulo careas, ipso noscere colore; / dissimulare uelis, te liquet esse meum: il liber, se anche, arrivando a Roma, volesse mimetizzarsi, non vi riuscirebbe, perché sarebbe riconosciuto dal color poeticus, che, dunque, è quello di sempre, ma è impiegato per dire cose non gradite. Non più fantasie, illusioni, capovolgimenti, alterazioni, eccentriche fantasmagorie, bensì realtà di stenti e di solitudine per un tipo di vita assai peregrino ma vero, autenticato da un incorruptus testis, e però abietto, psicologicamente rifiutato dalla massa e dai singoli, in quanto marchio di crimen. In verità anche la confessione della propria stanchezza è diventata materia di poesia. Il mancato raggiungimento della fama, previsto dal poeta, non è provocato dalla resa poetica, ma dalla materia trattata, che egli considera non tanti (v. 45: un genitivo di peso/qualità richiamato, sul piano logico, da pondera di v. 50), «di poco valore», per il pubblico, di «grande valore» invece per la sua salvezza. I vv. 49-50 insistono sulla sincerità (Musa […] nimium quoque uera) che domina l’autobiografismo della nuova forma dell’elegia creata con la produzione esilica; su questa sincerità, che va letta come «sincerità poetica», il cui rilievo mi pare francamente trascenda obiezioni di psicologismo, la critica ha espresso dubbi cogliendo esagerazioni nelle lamentele di Ovidio sulla invivibilità della regione nella quale è stato relegato; alcuni studiosi, come particolarmente Fitton Brown (vedi, qui, la nota 22 dell’Introduzione ed il comm. a 1, 11-16), è sconfinato in una poco probabile ipotesi congetturale, fondata su un fermo scetticismo che ha messo addirittura in dubbio che il poeta fosse eπettivamente stato a Tomi; ha ragione Gareth Williams 20063, 235 a ribadire che le distorsioni nelle descrizioni ambientali ed antropologiche dipinte da Ovidio sono anche «the ‘sincere’ outpourings of a persona whose inner crisis is naturally expressed in terms of hyperbolical excess». Come sostiene Pérez Vega 2000, 148, la musa esilica di Ovidio è incorruptus testis, espressione che richiama in qualche modo l’oraziano aere perennius, e suggella non solo l’immortalità della poesia, ma anche ricorda l’incancellabilità dell’accusa di Augusto al cospetto del tribunale dell’umanità, depositaria di perenne memoria. Che Ovidio in altri luoghi parli di depauperamento della vena poetica (Audano 122), manifestando, solo apparentemente a parer mio, una negazione della testimonianza oraziana della profonda autostima del poeta (Martelli 180 parla, invece, di rovesciamento della logica che ispira Hor. carm. iii 30, 1), non inficia la consapevolezza dell’esule di essere il fondatore di un new deal della poesia. 51-56. In tr. v 1, 20-28 Ovidio parla dell’evoluzione del suo percorso poetico dall’elegia ‘lieta’ ai carmi della tristezza, come ha voluto intitolarli per fissare nella memoria dei lettori la tematica di quei versi e la Stimmung che li ha ispirati; li definisce perciò publica carmina, v. 23 (i Fasti secondo Shackleton Bailey 1982 395; Evans 1983 evidentemente li identifica nei Books from exile). Ora, chiudendo quella che al momento gli appariva l’ultima silloge, dichiara di non aver voluto destinare l’elegia ‘triste’ al vecchio pubblico, cioè di non aver concepito un insieme quale ancora si poteva riconoscere nei Tristia, e quindi di non averne voluto fare un liber, un Gedichtbuch

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(una buona messa a punto, relativamente ad Hor. Epist. i, in Stocchi 152 sgg.); egli ha inteso semplicemente recapitare ad ogni destinatario, apertamente dichiarato, la sua lettera, come la sistematica presenza dei dati della convenzione epistolare (mittente, destinatario, luogo di provenienza) dimostrerebbe, prescindendo dal rispetto di un ordo. È ben noto che lo stesso Froesch 143 ha ipotizzato la possibilità di ricostruire un ordine anche numerico delle epistole all’interno di ciascun libro (10 + 10 + 10), spostando ii 11 (a Rufo) dopo iii 4, proposta accolta, isolatamente, da Richmond 72 che in app. scrive «11 (= iii 5) hanc elegiam huc transferendum indicauit Froesch» (ne ho parlato diπusamente nell’Introduzione, cui rimando). La discussa diversa destinazione di iii 8, che, come si è detto, secondo Syme 1978, 78, sarebbe indirizzata non a Fabio Massimo ma a Cotta Massimo, d’altra parte, varrebbe da sola ad inficiare il citato «ordine», come osserva Jansen 90 (cfr. lo schema di Froesch ibid.; ma cf. anche lo schema di Evans 1983, 111 e 123 sg., che riconosce in Fabio Massimo il destinatario di iii 8). Di che natura è l’ordo cui si riferisce Ovidio? Nel l. ii del de oratore (Leeman 151 sgg.) Cicerone considera l’ordo il secondo o√cium oratoris (Quint. i.o. i 5, 54 parla di ‘ordine di argomenti’); è la ‘connected sequence (of a narrative or discourse)’, registrata in old, s.u. n° 10; è, in un certo senso, quell’ordo da Ovidio stesso evocato in tr. ii 263, persequar inferius, modo si licet ordine ferri, «illustrerò qui di seguito, se mi è permesso di procedere in ordine». Quell’ordo, ancora perseguìto nell’epistola al princeps da un relegatus speranzoso di un ripensamento da parte del giudice condannante, e in altre epistole indirizzate a moglie ed amici, è venuto progressivamente mancando nei tre libelli dal Ponto, che, stagnanti sul lamento per il luogo impervio e remoto da Roma, sono privi di qualsiasi conseguenzialità narrativa. Il procedimento sine ordine, espressione da Evans 1983, 111 considerata, in qualche modo, stravagante, che Ovidio dice di aver seguìto, la scrittura di pezzi concepiti come atakta insomma, lo ha esentato dal rispetto di regole narrative rispondenti a precise sequenze cronologiche di eventi a cui la piattezza dello status di relegatus lo ha sottratto. Ma, ciò nondimeno, l’esule, conservando una caratteristica strutturale della poesia augustea, ha chiuso il l. iii con un’epistola di chiara matrice metapoetica, come, ad es., l’epist. i 20, carm. i 38; ii 20 e iii 30 di Orazio, tutti componimenti conclusivi di liber. Tuttavia, il rilievo degli atakta di√cilmente permette di condividere la tesi di Doblhofer, e di chi in qualche modo ne ha seguìto le tracce (cfr. supra), i quali esaminano le epistole esiliche sotto un profilo medico per rinvenirvi i sintomi di una patologia provocata dall’esilio, uno stato depressivo, insomma, che avrebbe suggerito i versi ad un poeta frastornato e psicologicamente fragile. La depressione avrà pur còlto fatalmente il poeta, ma che essa da sola segnasse la scrittura poetica è fortemente opinabile, ma, soprattutto, indimostrabile. Proprio l’invito, hoc opus electum ne mihi forte putes, di v. 54, espresso con un tono quasi iussivo, avvolge nell’ambiguità il pensiero del poeta, consapevole che, se la sua iniziativa editoriale, nel suo complesso, venisse interpretata in senso tradizionale, fallirebbe e provocherebbe una ra√ca di critiche; l’espressione presuppone che il poeta, non dico creda, ma almeno sospetti che l’amico Bruto, e non solo lui, bensì il pubblico dei lettori dotti, cerchino, senza trovarli, gli estremi del liber nella raccolta di ex P. i-iii. Ovidio stesso, d’altra parte, proprio all’inizio di quest’elegia a Bruto parla di libelli, destinati alla pubblicazione e alla diπusione; sa di avere scritto qualcosa di assai diverso rispetto al passato, sa di essere diventato irriconoscibile al lettore abituato a trarre un certo tipo di godimento dalla lettura delle sue opere, ed ora, invece, indotto a sorbire un lamento continuo. Non c’è un discrimine tra la figura del poeta che compone il carme ed il poeta che narra la propria dolorosa condizione di esule. Il lettore deve prendere atto che l’autore delle Heroides, delle Metamorfosi e dei Fasti ora riassume in sé il doppio ruolo, di autore della storia narrata e di protagonista della storia narrata. Egli non è, non è più il magnus poeta che conquista il lector inuitus di√cilisque (P. iii 4, 9-10); son mutate le finalità del far poesia, ora o√ciosa (Froesch 43 sgg.), come l’ha già definita nell’epistola incipitaria della raccolta, ugualmente indirizzata a Bruto, Musa … ad inuitos o√ciosa uenit (v. 20). Ovidio colloca con

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metodica puntualità l’aggettivo all’inizio del secondo kolon del pentametro, per la comodità della sua fisionomia prosodica rilevata, del resto, anche da Tissol 60: her. 10, 114; tr. iv 7, 4; P. iv 2, 6; [Ou.] Nux 122. La Musa, sensibile agli obblighi sociali, ossequiosa, raggiunge anche quelli che non vorrebbero; il poeta a P. iv 6, 45-50 dichiarerà, polemicamente e perciò alludendo proprio a quelli che apparentemente esclude, di non dimenticare mai chi mai si è dimenticato di lui, e lo fa ricorrendo ad una serie di adynata (emblematico il caso di tr. I 8, 1-8, con una sequenza di quattro impossibilia) cifrati dal doppio omaggio, a Virgilio e a Catullo, all’uno reimpiegando il forte iperbato prius (v. 45) / quam (v. 49) di buc. 1, 59-63, all’altro con l’immagine dell’imperituro ricordo, memora, comunque tipica delle modalità epistolografiche: quam quisquam uestrum […] / arguat (Claassen 1999, 149) ingratum non meminisse mei, che rievoca i vv. 17-18 dell’epistola del Veronese ad Ortensio Ortalo. Se la raccolta non diventa un liber come era l’Ars e come erano gli stessi Tristia (si veda il primo verso del prologo di ciascuno dei cinque libri), essa si sottrae agli obblighi, che il poeta Ovidio un tempo avvertiva come tali, di ingenerare interesse nel lettore, e non solo interesse letterario; la raccolta di singole epistole inviate dal Ponto a singoli destinatari non deve rispondere ai canoni poetici u√ciali, rimane in una sfera del privato che stabilisce un rapporto non tra il poeta ed il pubblico, che, comunque, non è escluso dalla lettura di un’opera soggetta a ‘pubblicazione’, ma tra il mittente ed il destinatario, il mittente che scrive a propria utilità ed il destinatario dal quale quello si attende soccorso, in modo che la lettera possa essere di utilitas (si veda Why: aims and addressees, Nagle 71-82). González Ovies 198 ricorda opportunamente la concezione aristotelica delle amicizie, su cui il filosofo si diπonde in Eth. Nic. 1156 sgg.; richiamerei, in particolare 1158 b, in cui Aristotele, citando le varie forme di amicizia tra diseguali, osserva: “Eteron d’ ejsti; filiva~ ei|do~ to; kaq’ uJperochvn, oi|on […] panti; a[rconti pro;~ ajrcovmenon, «Ma esiste un’altra forma di amicizia, che prevede un rapporto di superiorità, come quella di tutti coloro che comandano nei confronti di coloro che ricevono il comando» (ed. I. Bywater, Oxford, 1984, rist.). Il tema della estraneità della personale vicenda biografica rispetto alla materia trattata in ambito letterario (Ingleheart 2010, 61 e, nell’Indice generale, la voce Life/Literature), condizione che distingue nettamente l’elegia erotica ovidiana dai parametri fissati dai suoi due predecessori, subisce una vera e propria inversione nelle opere esiliche tramutandosi in tema del coinvolgimento, e vi gioca un ruolo primario sino a diventare il cavallo di battaglia per il poeta impegnato a giustificare la (presunta e soπerta) degradazione della sua poesia. Non è un caso che l’esordio dell’epistola ad Augusto (tr. ii 1-2, quid mihi uobiscum est, infelix cura, libelli, / ingenio perii qui miser ipse meo?), con l’amara ammissione della responsabilità dell’ingenium per la perdizione del poeta, contiene il riconoscimento più sincero dell’incidenza diretta della poesia sulla vita privata dell’autore. In tr. i 7, infine, Ovidio contratta con l’anonimo destinatario (forse lo stesso Bruto [M. Giunio Bruto?]), e con il lettore evidentemente, l’aggiornamento dei termini di lettura della sua poesia attuale rispetto alle opere pre-esiliche: è lui stesso che spoglierebbe i capelli dell’edera, Bacchica serta, sfilerebbe dalle tempie la corona, perché non può più riconoscersi poeta laetus, ma deve ammettere di esser l’autore di un rude carmen. Inoltre, in tr. i 1 15, nella seconda delle tre Anreden al liber Ovidio (Geyssen passim), esortando il liber ad andare, lo invita a salutare nel solo modo consentito i luoghi che gli sono cari; ora, nell’epilogo del iii libro delle ex Ponto, se egli dichiara di non voler creare un liber, lascia intendere che ormai ha rinunciato ad essere presente in Roma, se non personalmente, almeno nel carattere rappresentativo del suo autore da parte dell’opera. Diverso lo stato d’animo manifestato nell’epistola dal Ponto a Severo (i 8), dove si evince con evidenza, peraltro, che la lettura delle epistole da parte dei destinatari avviene su un testo che contiene non singole missive ma l’intera raccolta: quoque magis nostros uenia dignere libellos / haec in procinctu carmina facta leges, «perché a maggior ragione degni di perdono i miei libretti, sappi che vi leggerai carmi scritti da chi è lì, sempre esposto alla battaglia» (vv. 9-10).

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Questi tre distici finali sono una sorta di NdA, un’Avvertenza, come i vv. 35-40 che chiudono la citata settima elegia del i libro dei Tristia; l’Autore negozia con il lettore le linee-guida per una lettura del testo che risponda alle eπettive intenzioni di chi lo ha scritto. L’a√damento a Bruto del materiale per la ‘pubblicazione’ implica che una lettera da atto privato, da forma di comunicazione di uno scrivente mittente ad un lettore destinatario, e solo a lui, almeno nella volontà del mittente, diventi strumento di informazione di fatti personali del privato, che il privato sceglie di esternare ad un pubblico più o meno vasto, che già conosce il mittente e la sua poesia. È un tipo di operazione che, per volontà dell’Autore, coinvolge nella perdita di privacy mittente e destinatario. Perché Ovidio decide di consegnare al pubblico dei lettori un’opera che dichiara essere di tono minore rispetto alla poesia di un tempo con la quale quel pubblico era abituato a conoscerlo ed apprezzarlo? È sincero il poeta quando parla di manchevolezze della sua poesia esilica? Quando parla di manchevolezze egli interpreta i modi di percepire quella materia da parte del lettore che conservi gusti tradizionali e persista nel tradizionale orizzonte di attese. E se il poeta, allora, non avverte sinceramente una degradazione della sua poesia, perché, in ogni caso, confessa la consapevolezza di una propria failure artistica? La risposta a questi interrogativi potrebbe consentire di stabilire con buon margine di verisimiglianza il tipo di rapporto che Ovidio mantiene con la sua poesia post-romana. Più volte egli ha riconosciuto la funzione terapeutica e l’eπetto consolatorio che l’attività poetica sa esercitare e produrre su di lui e sulla sua di√cile condizione di esule, sia pur con alterna e√cacia (Stroh 1981, 2644 sgg.), ma è evidente che le finalità della scrittura non si esauriscono in quella funzione e in quell’eπetto, se il poeta avverte l’esigenza della pubblicazione, una pratica che reitera vecchie usanze, per Ovidio quelle di sempre. L’esule, pubblicando le sue epistole ad ‘amici’ e alla moglie, che sono sempre e comunque poesia, le trasforma in ‘lettere aperte’, lasciando intendere di averle scritte perché il loro contenuto oltrepassasse i confini di conoscenza del destinatario diretto e raggiungesse aree ricettive assai più ampie. Egli ha composto versi epistolari proprio con lo scopo che fossero letti, altrimenti sarebbe stato per lui come muovere al buio passi di danza: […] quod in tenebris numerosos ponere gestus, / quodque legas nulli scribere carmen, idem est, P. iv 2, 33-34. Ha scritto a singoli soggetti, amici, talvolta sedicenti amici, e consorte, informandoli sulla sua situazione e rivolgendo loro richieste di intercessione presso il princeps (o la princess) perché vuole che la sua situazione sia, diventi di pubblico dominio, desti l’interesse di molti, di molti richiami l’attenzione sulle assai insistenti richieste da lui fatte al principe e alla sua consorte per svariate interposte persone. Così facendo, rende di pubblico dominio un’altra verità: l’appurata trascuranza del princeps dinanzi a quelle richieste e forse una mancata eπettiva intercessione dei sedicenti amici, il cui nome ora può uscire allo scoperto. Citarli non li lede agli occhi di Augusto, che non hanno contraddetto condividendone la noncuranza; il loro disinteresse per le preces dell’esule diventa esso stesso messaggio di una inflessibilità del potere, della quale è bene aver paura. E l’eπettivo impegno di queste persone, o il loro disinteressamento saranno oggetto di giudizio da parte della gente, entrando a far parte di quegli elementi di valutazione che avrebbero costruito la pubblica opinione su un fatto di cronaca di non poco conto, se il più grande poeta dell’epoca era tenuto lontano da Roma. La poesia elegiaca conserva, o recupera, in certo modo il suo carattere romano di soggettività, di luogo deputato a rappresentare la personalizzazione di una vicenda, ma con una diπerenza tutt’altro che secondaria rispetto alla produzione erotica: ora dalla vicenda personale, materia del canto, non è tenuto lontano il potere politico, che, anzi, gioca un ruolo comprimario, perché proprio in esso è possibile riconoscere la causa che ha scatenato la situazione personale dell’Autore e la condizione attuale, per la quale a quello stesso potere politico ci si rivolge, si fa appello per ottenere indulgenza; l’esule ingaggia col potere politico una sorta di sfida sia pur mascherandola con la formulazione di implorazione, che egli sa ormai destinata a rimanere inascoltata. Ovidio dichiara in modo esplicito di non essere stato mosso da aspirazioni gloriose nel li-

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cenziare per la pubblicazione i suoi scripta, che, egli dice, non ha mai desiderato diventassero un liber; lo hanno indotto utilitas o√ciumque, due termini che con Cicerone, e da Cicerone in poi, avrebbero assunto connotati di giuridicità dominando nel campo del diritto romano, come momento economico-sociale di primario rilievo. Il poeta astrae con studiata maestria i due termini sottraendoli alla loro u√cialità, li sveste del loro tecnicismo, per adattarli ad un contesto più personale e soggettivo, privatistico, ma proprio in questa reductio si agglomera la densità del loro significato ironico. L’utilitas privata, quella del singolo cittadino – e l’Ovidio conoscitore del diritto la sa armonica con l’utilitas di altri (Mastino passim), e della collettività –, qui vuole rappresentare l’adattamento della poesia al ruolo di strumento utilizzato per il raggiungimento di un fine molto personale che entra in connessione, o collisione, con la volontà dell’imperatore nella persona del quale si dovrebbero riconoscere, complessivamente, gli interessi di tutta la comunità. In de oπ. iii 30, ad es., l’Arpinate prevede, appunto, il caso della sottrazione del bene di un uomo da parte di un altro uomo come non disdicevole quando quell’azione comporti l’utilitas rei publicae (Gabba 117 sgg.). Insomma, anche col ricorso a termini molto particolari, in contesti che potrebbero apparire assolutamente ‘innocenti’, Ovidio invece trova l’occasione per esprimere il suo disappunto. Il difensore di se stesso ricicla, a titolo personale, e il nobis che chiude l’esametro 55 ben lo evidenzia, i concetti giuridici di utilitas e di o√cium in immagini di ‘concretezza’ e di ‘obbligo morale’ nell’ambito dei rapporti di amicitia: egli ha scritto per ottenere un utile da soggetti che si sarebbero adoperati (o avrebbero dovuto adoperarsi) perché le sue richieste andassero a buon fine in nome di un dovere previsto dalla amicitia, o in nome del vincolo coniugale, visto che si appella agli stessi princìpi quando chiede l’intervento della moglie presso la first lady a iii 1, 75-76. L’o√cium è il dovere del poeta esule, e ad esso il poeta esule spesso fa riferimento, ad es., a P. iv 1, 20, nec o√cio crimen inesse putes, «non credere che ci sia colpa nel mio senso del dovere»; a v. 8 si legge o√cio … pio, «una doverosa devozione» (tr. Galasso 2008), «fiel cumplido» (tr. Pérez Vega 2000), ma si tratta di un dovere sociale, che, quindi, si fonda su una reciprocità che ci spinge ad estendere l’obbligo al destinatario, che deve (o doveva) sentirsi sollecitato dalle parole del poeta ad intercedere in qualche modo presso il princeps perché quegli ottenesse una sede più vicina a Roma e meno disagevole. Quando in serm. I 10, 81 sgg., sia pur in condizioni ambientali assai diverse rispetto a quelle cui dice di essere costretto il relegato, parla di o√cia, Orazio si riferisce ad uno scambio di ‘doveri letterari’. Se il rapporto non si basasse sullo scambio, si avrebbe ragione di chiedersi quale sarebbe il ‘dovere’ del solo Ovidio nei confronti di Bruto, o del solo Bruto nei confronti di Ovidio. In P. i 1, 19-20, il poeta scrive a Bruto che, se anche la citazione esplicita del nome dei destinatari non incontra esattamente la loro volontà ed il loro gradimento, essi nemmeno possono impedirlo, perché la musa sensibile all’o√cium si dirige e si rivolge anche verso gli inuiti. Non credo che sia facile sostenere che questa aπermazione sia del tutto scevra da un risentimento del poeta ormai logorato dalla vanità della speranza di un aiuto che possa provenire da Roma. Ovidio avanza le sue richieste agli amici, presumo, non tramite l’epistula letteraria ma in forma privata; l’epistula è una forma di u√cializzazione della richiesta, che consente visibilità alla persona cui ci si è rivolti per ottenere l’intercessione, un modo per dimostrare la propria gratitudine ripagata con un dono che assicurerà all’intercessore fama imperitura, che mai ci sarebbe stata se l’esule non avesse citato e pertanto immortalato il nome dell’uomo di potere. La forza della poesia è, in prospettiva, superiore alla forza del potere politico di queste personalità che ricoprono cariche pubbliche. Implicito rimane il fatto che l’insuccesso delle ‘ambascerie’, ammesso che ci fossero eπettivamente state, mette in un certo senso in crisi i meccanismi che regolano la filosofia dei rapporti tra questi uomini ed il princeps, ma, più concretamente, mette a nudo la fermezza della volontà di Augusto di non rimuovere l’esule da Tomi. Chantal Labre, che nel 1999 pubblicava la seconda edizione della traduzione (19911) francese delle opere esiliche di Ovidio, così rendeva i vv. 19-20 di P. i 1, qui più volte ricordati per la

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stretta connessione con l’epilogo di P. iii 9 (nec uos hoc uultis, sed nec prohibere potestis / Musaque ad inuitos o√ciosa uenit): «Quand vous le regretteriez, vous ne pouvez l’empêcher: ma Muse vient vous témoigner sa fidèle amitié, que vous le vouliez ou non». Joulien Pingoud 102, un suo recensore, richiamava giustamente l’attenzione sul fatto che la Labre traducesse o√ciosa con fidèle, qualificante l’amitié, ed osservava che l’aggettivo «indica un certo grado di esattezza nella riproduzione del vissuto» e che, svelando Ovidio i nomi dei destinatari, «si percepisce […] il desiderio di fare onore alla realtà, in questo caso la realtà dei legami sociali. Considerata come traduzione, la Musa dell’Ovidio di Labre riproduce quindi fedelmente la realtà dell’originale». Ho citato la versione della Labre perché mi sembra, diversamente da quanto pensa il suo recensore, che la traduttrice abbia còlto, con quell’aggettivo, la sottile sfumatura ironica del poeta relegato che ricambia con il cerimoniale della cortesia e dell’ossequio la mancata fedeltà all’amicizia («que vous le vouliez ou non») da parte dei destinatari delle sue «tristezze», vanamente manifestate sotto forma di preces. Ebbene, Ovidio nel finale della iii 9 riprende il motivo dell’o√cium, come obbedienza al codice della personale amicitia, ma lo arricchisce di ulteriori significazioni. In i 1, 20 la musa compie un dovere sociale, quasi nel rispetto di un cerimoniale, qui, in iii 9, la musa risponde anche al dovere che il poeta ha avvertito verso se stesso per tentare di assicurarsi la salus di cui parla a v. 46; in questo senso il valore della parola è vicino a quello che si interpreta nella battuta di Leandro in her. 18, 145, nec tamen o√cium pecoris nauisue requiro, «ma non domando di una bestia l’aiuto, / né di nave» (tr. Leto); «ma non chiedo il soccorso di un ariete o di una nave» (tr. Rosati). La salus, il poeta relegatus in perpetuum sa bene, può venire a lui innanzitutto, e forse solo, dalla scrittura, che gli consente di mantenere i contatti col passato attraverso un ideale rapporto epistolografico; alla scrittura egli a√da l’espressione di sentimenti stati d’animo impressioni reazioni supposizioni dubbi irrequietezze: il groviglio di una ‘realtà’ endogena sgomitolata dalla parola poetica che sottrae al maledetto silenzio. I vv. 19-20 di P. i 1, prologo della raccolta P. i-iii, più volte qui richiamati, rientrano in un più ampio contesto (13-21) che merita particolare attenzione per le significative consonanze linguistiche che intrattengono con i vv. 49-56 di P. iii 9, epilogo della raccolta, due paratesti che «point to a complementary programme for reading» (Jansen 98 sgg.). I due paratesti si integrano e, letti consecutivamente, possono oπrire un ideale percorso diacronico complessivo dell’opera, soprattutto testimoniano l’evoluzione dell’idea che di questo opus è andata maturando con la maturazione dell’esperienza del poeta esule. Essi, insomma, si presuppongono e pretendono un reciproco confronto attirando inevitabilmente l’attenzione del lettore, antico e moderno, che, in un caso come questo, opportunamente Hardie 2006, 169 definisce ‘intratextually memorious’. I due segmenti testuali condividono, pur nei ripetuti echeggiamenti lessicali evidenziati da Jansen 98, due soli elementi: a) l’aπermazione che in ex P. i-iii, come nella precedente raccolta in cinque libri, aleggia la tristezza derivata dalla soπerenza dell’Autore: non minus hoc illo triste, quod ante dedi di 1, 16 è ripreso da Musa mea est index, nimium quoque vera, malorum di 9, 49; b) la considerazione che il poeta ha agito nel rispetto dell’o√cium, manifestata con o√ciosa a i 1, 20, è richiamata con o√cium a iii 9, 56. I ri-usi linguistici, però, godono di assai diπerenti destinazioni semantiche, in quanto sono tanto vistosamente realizzati quanto diversamente contestualizzati, anzi proprio la loro esibita puntualità misura il rapporto antifrastico tra nuovo testo e testo antico: la indefinitezza, di contenuti o di qualità che sia, addebitata all’opera, espressa con quodcumque est in i 1, 14, ribadito a v. 21 con la variante quicquid id est, sintagma presente già a iii 3, 73 (vd. qui comm.) e con utcumque in iii 9, 53, è nel prologo condizionata dall’esclusione di tematiche erotiche (dummodo non sit amor), nell’epilogo, invece, è cooptata dal criterio, dato come tutt’altro che meditato e perciò generico, di mettere insieme le epistulae per la pubblicazione. A i 1, 15 il termine index designa «il titolo» (Epistulae ex Ponto), in 9, 49 è il segnale (delle soπerenze del poeta) dato dalla

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musa. A Musa a i 1, 20 è legato l’agg. o√ciosa, «la Musa che compie il suo dovere …», a iii 9, 49 Musa è, come si diceva, segnale veritiero del dolore del poeta, Musa uera (index malorum). Il messaggio contenuto nei due paratesti, poi, diverge soprattutto nella disposizione dell’Autore nei confronti dell’opera. I quattro distici che chiudono la iii 9 insistono sul motivo della scarsa considerazione in cui l’Autore sembra tenere la sua opera, nella quale si personifica la sua dolente condizione di relegatus, un motivo che potrebbe qui risultare di maniera, direi, ove si pensi che a P. iv 1, 1 (Helzle 1989, 41-42 e 10-11 della General Introduction), lo stesso Autore chiede al destinatario Sesto Pompeo di accettare il deductum carmen, «il componimento rifinito», «sottile», con valore metaforico dell’aggettivo. L’espressione secondo Servio ad buc. 6, 5 (contra Cucchiarelli 328) trova la sua origine nel linguaggio della filatura della lana (Pind. fr. 179 Maehler; Bacchyl. 5, 9-10; 19, 8-9 Snell-Maehler; Catull. 64, 312-313; Tib. i 3, 86; Ou. her. 9, 77; met. iv 36); di essa si riscontra un primo impiego nella poesia latina, in connessione col senso poetologico, in Hor. serm. ii 1, 4; epist. ii 1, 225, tenui deducta poemata filo; poi in Prop. i 1, 16 (Fedeli 1980, 395-396); i 16, 41, nouo deduxi carmina uersu, per essere, quindi, largamente utilizzato anche dallo stesso Ovidio esilico: in P. i 5, 7, et mihi siquis erat ducendi carminis usus, egli ancora recrimina sulla diversa capacità compositiva, ora incrinata dall’iners situs, «molle oisivité» (André 1977, 20), rispetto all’abilità d’un tempo. Non è improbabile, piuttosto, che nel contesto di quest’ultima epistola del iii libro ci si trovi di fronte ad uno stato d’animo diverso rispetto al citato incipit del iv libro delle ex Ponto. Ovidio dichiara che, lungi dal proposito di fare delle varie epistole scritte un liber, voleva solo consegnare a ciascun destinatario la sua epistola (come l’esplicita citazione del nome lascia intendere), in forma strettamente privata, prescindendo, quindi, dalla pubblicazione. La monotonia alla quale allude nella parte iniziale non può essere ricavabile se non a lettura terminata di una raccolta di tutte le epistole; i tre libelli dal Ponto sono criticabili, per ripetitività, se valutati ‘as a whole’, ma per le singole missive il poeta non addebita una degradazione artistica disconoscendone valore letterario. Egli, insomma, non è più in grado di impiantare un liber che sia regolato da un ordo quale quello osservato nelle opere precedenti, non escluse le stesse Heroides, lettere del lamento, indicate come opera così vicina alla produzione epistolografica dal Ponto: le lettere delle eroine formano nel loro insieme una raccolta di miti che, per quanto unanimemente ruotanti attorno alle soπerte recriminazioni per l’assenza dell’amato ed eventualmente per la sua sospetta infedeltà, rimangono però estremamente variegati, anche per la diversità dei pregressi delle singole vicende della fabula, e finiscono col fornire una visione ampia e multiforme dell’universo femminile dolente per amore. Per la sua condizione di esule, diversamente, un solo motivo domina la vita di Ovidio nel Ponto ed il suo essere poeta, quello del lamento per la lontananza (con tutte le possibili connessioni, risentimento verso i suoi ‘nemici’ compreso), e questo è un motivo personale, non oggettivabile perché assolutamente privato, un motivo che lo costringe ad identificare la vita con la poesia. Nel prologo della raccolta, invece, non appare contrario alla pubblicazione, anzi chiede, con tono anche non accomodante, a Bruto di accogliere l’opera, di sistemarla nella biblioteca, semmai al posto dell’Ars; ribadisce che, per quanto i destinatari siano restii ad essere nominati, essi non possono impedirglielo. Insomma, emerge una ferma volontà di pubblicare contro la quale urtano le forti riserve espresse nei versi iniziali di iii 9, specialmente 7 sgg. La legittima presunzione che le due elegie, così distanziate nel ‘piano dell’opera’, siano però state scritte, o comunque dal poeta confrontate, in tempi assai ravvicinati, apre all’ipotesi che, conclusivamente, egli avesse in animo di lasciare la doppia lettura e la doppia interpretazione dell’opus nel suo insieme, una che ammettesse quelle critiche, l’altra che, a fronte di queste, non ne disconoscesse le argomentazioni giustificative. Ilaria Marchesi 20-22 (ripresa da Jansen 94 sgg.), dopo un iniziale rilievo operato da Syme 1985, 176, ha analizzato lo stretto rapporto, ‘programmatically positive allusion’, che intercorre

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tra la prefazione della lettera di Plinio il Giovane a Setticio (epist. i 1, 1-2) ed il postscriptum di Ou. P. iii 9, 51-56. Gibson-Morello 260-263 sottolineano, inoltre, come l’epistolografo del i sec. d.C. sia stato influenzato dalla vena ironica che essi individuano nel passo ovidiano. Plinio, dunque, scrive: Frequenter hortatus es, ut epistulas, si quas paulo curatius scripsissem, colligerem publicaremque. Collegi non seruato temporis ordine (neque enim historiam componebam), sed ut quaeque in manus uenerat. Superest, ut nec te consilii nec me paeniteat obsequii. Ita enim fiet, ut eas, quae adhuc neglectae iacent, requiram et, si quas addidero, non supprimam. Vale.

Emerge immediatamente, tuttavia, a mio avviso, uno scarto tutt’altro che irrilevante rispetto al testo ovidiano: Plinio scrive di essere stato più volte sollecitato dall’amico praefectus praetorio sotto Adriano a mettere insieme e pubblicare quelle lettere che fossero state composte con una cura più attenta, e di averle riunite alla rinfusa senza osservare un ordine cronologico, l’ordo temporis, evidentemente, poiché non si trattava di un libro di storia; eppure Quintiliano in i.o. ix 4, 25, in ogni caso, osserva che il rispetto costante di quest’ordo è una nimia superstitio, ‘uno scrupolo eccessivo’. Si augura che l’amico non abbia a pentirsene e lui di non doversi rammaricare di avergli dato ascolto. Inoltre lo informa che si sarebbe adoperato nella ricerca di quelle lettere ancora tenute in abbandono e gli esterna l’intenzione di metterle insieme con altre, ove ne avesse ancora scritte, per pubblicarle unitamente. In realtà, quando l’epistolografo aπerma di aver raccolto il materiale ut quaeque in manus uenerat, dice solo una parte di verità, perché un criterio organizzato di raccolta, sì, senz’altro non cronologico, tuttavia esiste e risponde al principio della uarietas, come sostiene egli stesso per es. a ii 5, 7, ut uniuersitatem omnibus uarietas ipsa commendet, e a iv 14, 3, ipsa uarietate temptamus e√cere, ut alia aliis, quaedam fortasse omnibus placeant (Lenaz 34). La finalità di Plinio è la pubblicazione della sua raccolta di lettere, dalla quale si aspetta un unanime positivo riscontro del pubblico: ut uniuersitatem … commendet|ut … omnibus placeant. Il Lenaz condivide l’esegesi di Hermann Peter (Der Brief in der römischen Literatur, Leipzig, Kessinger, 1901 = Hildesheim, Olms, 1965, 110-111) riconoscendo il carattere retorico della riserva con la quale Plinio esprime la sua modestia (che è quel che pensa Evans 1983, 111 del luogo ovidiano), e, opportunamente, cita la praefatio di Gellio alle Noctes Atticae: Vsi autem sumus ordine rerum fortuito, quem antea in excerpendo feceramus. Nam proinde ut librum quemque in manus ceperam seu Graecum seu Latinum […] indistincte atque promisce annotabam […] quasi quoddam litterarum penus recondebam (§ 2).

Anche qui appare chiara la ferma intenzione editoriale, ed anche in questo caso sull’ordo rerum fortuitus la critica fluttua tra un disordine solo apparente, dovuto al desiderio di varietà dell’autore, e la sincerità dell’aπermazione, anche se si tende ad ammettere un aggiornamento da parte dello scrittore prima di pubblicare la sua opera (Calcante i 701). Molto probabile è la ripresa da parte di Plinio prima, di Gellio poi della formula del postscriptum ovidiano, ma ispirata piuttosto, ci sembra di poter dire, da intenzioni e strategie diverse. In ogni caso, forse, data l’insistente critica sul carattere monotono delle epistulae e l’insistente giustificazione di quella monotonia, l’ordo di cui Ovidio accusa la mancanza è l’ordo argumentorum, nell’ambito della dispositio all’interno dell’intero libro (perché l’ordo all’interno della singola epistola è, invece, assolutamente rispettato), sulla quale dissertano l’autore della rhet. ad Her. a i 3, Cicerone in de inu. i 9 e in de orat. ii 179 sgg., e a cui accenna ancora Orazio ai vv. 41 sgg. dell’Ars (Brink 126). La lettura della Gedichtsamm­ lung pontica consente di estendere ad essa l’osservazione estetica del Venosino: se il soggetto di un componimento (o, allargando l’orizzonte, di una raccolta poetica) è frutto dell’intima scelta dell’autore, che fortemente la senta, quella poesia non difetterà in eleganza ed armonia, nec facundia deseret hunc (i.e. poetam), nec lucidus ordo.

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Indice dei luoghi citati

INDICE DEI LUOGHI CITATI

agathias schol. Anth. Pal. iv 4 (3b), 15 [62]: 125.

catvllvs c. 2: 112. 3: 112. 8, 3: 167; 8: 167. 13: 34. 16: 230. 35: 34. 64, 1: 17, 49; 64, 7: 17, 49; 64, 302: 93; 64, 312-313: 239. 65: 34, 210; 65, 17-18: 235. 68: 34; 68, 33-35: 73. 76, 3: 62; 76, 25: 224. 101, 4: 167. 116, 6: 199.

alcaevs frg. 130, vv. 21-22 L.P.: 23.

charisivs gramm. 412, 11 sg. Barwick: 165.

anthol. lat. 558, 3: 148.

cicero acad. i 24: 230. ad Att.: 69. xii 14, 3: 62. ad Brut. i 10, 2: 141. ad fam.: 69. ii 11, 1: 24, 30, 185. iii 7, 4: 140. xi 16,1: 57. xii 16, 3: 181. xiv 2, 1: 52. ad Q. fr.: 69. Catil. iii 10: 169. de fin. i 20, 65: 99. ii 24, 49: 99. v 22, 63: 99. de inu. i 9: 240. de nat. deor. iii 39: 180; iii 91: 181. de oπ. i 99: 179. iii 10, 45: 99; iii 30: 236. de orat. i 38, 173: 164. ii: 234; ii 179 sg.: 240. iii 163: 87. dom. 84: 50. Lael. 15, 54: 69; 24: 92. or. 36, 123: 229. part. 19: 112. Phil. 13, 5, 10: 69. pro Balbo 57: 221. pro Rab. 14: 140. pro Sext. 73: 50; 100: 63. resp. ii 15, 28-29: 117. top. 63: 186. Tusc. i 19: 142. iv 1-2: 117; iv 7, 16: 24. v 22, 63: 99.

aeschylvs Prom. 377 sgg.: 70. Sept. 422: 59; 445: 59; 568 sgg.: 59. Suppl. 116: 76; 934: 59.

apollodorvs i 4, 3: 116. ii 5, 11 W.: 183. iii 6, 2: 59; iii 15, 4: 116. apvleivs flor. 17: 143. aratvs phaen. frg. max. 381: 198. argvmenta aeneidos praef. v. 8: 148. aristoteles Eth. Nic. 7, 6, 1148 b, 19 sg.: 209; 1156 sg.: 235; 1158 b: 235. Polit. viii 4, 1338 b 19: 209. avgvstinvs Trin. xi 10, 17: 120. avgvstvs RG 8, 5: 119. bacchylides 5, 9-10: 239; 19, 8-9 Snell-Maehler: 239. boethivs Cons. Philos. i, v. 4: 18; I, v. 8: 18.

cil vi 4045: 74. clavdianvs carm. 34, 18: 115; Stil. cos. 2, 47: 140. cle 1005, 4 Bücheler: 89. crf 105 Ribbeck: 153. cvlex [app. Verg.] 223: 143.

callimachvs Aitia (Pf.) epigr. frg. 1, 17: 221; frg. 2, 1-2 sgg.: 114; 25, 3-4: 167; frgg. 44-46: 184.

dio cassivs xlviii 44, 1: 67. xlviii 44, 3: 67. lv 32, 1: 11; lv 32, 1-2: 212; lv 32, 2: 11. lvi 24, 6: 136; lvi 25, 2-3: 136; lvi 28, 1: 138; lvi 30, 1: 212. lvii 3, 5-6: 11, 12.

carm. lamb. i 137: 110.

dionys. ii 59: 117.

262

indice dei luoghi citati

dist. Cat. 4, 3: 69.

[hom.] hymn. 2, 474-476: 116.

eberhardvs bethvniensis Graecismus 22, 51: 148.

horativs ars 38: 229; 41 sgg.: 240; 155: 153; 296: 228; 347: 222; 354: 222; 358: 61; 386b sgg.: 223; 400-401: 89; 401: 226; 438 sgg.: 226; 442: 222; 442-444: 226; 445-446: 146-147; 450: 226; 455: 228; 464466: 142. carm. i 1: 33; i 33: 223; i 6, 2: 116; i 37, 13: 87; i 38: 234. ii 9, 1-2: 180; ii 9, 9-10: 180; ii 9, 1-2: 180; ii 10, 3-4: 95; ii 13, 26 sgg.: 23; ii 13, 28: 23; ii 20: 149, 234; ii 20, 9-12: 15. iii 11, 1: 123; iii 14: 67; iii 14, 5: 67; iii 28, 2: 151; iii 29: 33; iii 30: 149, 234; iii 30, 1: 233; iii 30, 6: 89. iv 1, 13: 127; iv 1, 14: 127; iv 2: 137; iv 3, 16: 146; iv 4, 20: 65; iv 7, 9-12: 51; iv 9, 10-11: 95; iv 9, 33: 221. epist. i: 234; i 1: 33; i 1, 8-9: 222; i 3, 10-11: 163; i 3, 24-26: 142; i 4, 14: 125; i 12, 14: 88; i 13, 1 sgg.: 57; i 16, 3: 209; i 19: 33; i 19, 3-4: 228; i 20: 234. ii 1, 225: 239; ii 1, 136: 224; ii 1, 138: 224. epod. 5, 83-84: 178. 11, 11-12: 88. 15, 1: 109; 15, 17: 227. 16, 23: 63; 16, 26: 98; 16, 31: 98. serm. i 1: 33; i 3, 21: 221; i 4, 78: 181; i 10, 32: 114; i 10, 67 sgg.: 225; i 10, 81 sgg.: 237. ii 1, 4: 239; ii 3, 1 sgg.: 225; ii 3, 193: 117; ii 3, 208: 108.

egf 52, 6-10: 59. empedocles frg. 105 Diels-Kranz: 142. ennivs ann. 22 (Fl.): 92; 319 (Fl.): 92, 143-144; 589 (Fl.): 126; epigr. 9-10 Warmington: 149; uar. 21: 94. epicedion drusi 271: 139; 303-04: 63; 371: 182. evripides Androm. 1: 48. Helena 1: 48. Iph. Aul. 926: 117. Iph. Taur. 1: 100; 29: 94; 30: 94; 34: 94; 40: 95; 52: 96; 74-75: 93; 87: 93; 93-94: 231; 128 sg.: 93; 220: 97; 456-458: 95; 478: 96; 479: 96; 495: 96; 506: 96; 508: 96; 510: 96; 595-596: 97; 597: 97; 599-600: 87; 614-615: 97; 618: 95; 619: 95; 622: 96; 636-637: 97; 669-670: 97; 674-724: 97; 726-727: 95; 774: 96; 775-776: 95; 776: 95; 856: 97; 948: 88; 994: 95; 997: 93; 1191: 96; 1203b: 95; 1284 sgg.: 98. Phoen. 403: 61; 1172 sgg.: 59. Suppl. 111 sg.: 75; 287-288: 76. florvs epit. i 2, 1: 117. gellivs praef.: iv 1 (praef.): 147. v 19, 15: 147. hermesianax frg. 7, 77 Pow. (= 2, 77 D.): 60. herodotvs iv 103, 2: 91; iv 106: 209. hesiodvs frg. 124 M. W.: 167. Theog. 24: 114; 918-920: 92. hippocrates aer. 24: 209. homervs Il. ii 53: 91; ii 216-219: 223; ii 459-461: 16. iv 141-145: 93. vi 152: 92. xi 831-832: 117. Od. i 1 sg.: 59. ix 475 sgg.: 59. x 135 sgg.: 68. xi 634: 68. xii 85-100: 68. xix 547: 119.

ibycvs frg. 7, 6-7 Diehl: 222. inscriptiones it. xiii 1, p. 297: 206. isidorvs orig. xii 7, 18: 120. jvvenalis 6, 165: 120. 10, 133: 151. 13, 218: 110. livivs i 18, 2-3: 117; i 34, 11: 60. xxiii 32: 138. xl 7, 8: 179. lvcanvs i 90: 139; i 288: 146. ii 540: 185. lvcilivs frgg. 181-183 M.: 21; 341 M.: 20. lvcretivs i 258: 120. ii 824-825: 120; ii 1095-096: 117. iv 373-374: 108; iv 1075-076: 230. v 222: 181. vi 711: 63.

indice dei luoghi citati lydia [app. Verg.] 6: 143. macrobivs vi 1, 10: 126. manilivs ii 250: 196. iv 142-143: 196. martialis i 4, 8: 60, 230; i 38, 1-2: 166; i 91, 2: 221. ii 71, 3: 166; ii 88, 1-2: 166; ii 91, 3: 162. iii 18, 2: 166; iii 50, 7: 166. v 6, 9-11: 71; v 33, 1-2: 221. viii 20, 2: 166; viii 73, 5: 120; viii 76, 3: 166. ix 99, 9: 163. xi 33, 3: 146; xi 90, 3: 116; xi 94, 3: 221. xii 40, 1: 166. xiv 183, 1: 116. martianvs capella de nupt. 9, 888, 6: 71. mela iii 104: 120. naevivs inc. fab. frg. 88 Traglia: 113. nepos Pel. i 1: 141. nvx [ps. ovidivs] 122: 235. ovidivs am. i 1, 2: 229; i 1, 3-4: 115; i 1, 5 sgg.: 114; i 1, 6: 230; i 1, 30: 115; i 1, 39: 146; i 2: 137, 230; i 2, 1-4: 55; i 2, 17 sgg.: 112; i 2, 19: 137; i 2, 20: 111; i 2, 23 sgg.: 112; i 2, 25-26: 138; i 2, 26: 112; i 2, 28: 138; i 2, 31-32: 138; i 2, 41: 113; i 2, 42: 138; i 2, 43: 91; i 2, 51-52: 138; i 2, 52: 113; i 5, 2-3: 110; i 6, 23: 165; i 6, 26: 144; i 6, 59: 51; i 9: 141; i 9, 40: 113; i 9, 46: 187; i 11, 15-18: 71; i 15, 1: 146; i 15, 39: 146. ii 1, 38: 114; ii 4, 34: 109, 110; ii 6: 112; ii 7, 12: 181; ii 10, 11: 180; ii 18, 38: 66. iii 1, 43: 120; iii 1, 69: 144; iii 2, 47: 153; iii 3, 21: 167; iii 4, 2: 160; iii 5, 1 sgg.: 109; iii 5, 20: 94; iii 6, 17: 49; iii 8, 53: 208; iii 9, 11: 112; iii 9, 65: 108; iii 10, 13: 196; iii 13, 36: 196. ars i 17: 114; i 17-18: 117; i 32-35: 121; i 181-228: 152; i 194: 152; i 217-218: 138; i 223: 152; i 264: 148; i 278: 56; i 288: 95; i 346: 63; i 351: 71; i 401-402: 70; i 409: 71; i 412: 87; i 557: 60; i

263

633: 167; i 647: 184; i 650: 93; i 655-656: 184; i 659-662: 65; i 691-692: 209; i 733 sg.: 55; i 766: 91. ii 85: 195; ii 98: 123; ii 103: 125; ii 122: 194; ii 182: 195; ii 184: 196; ii 192: 113; ii 198: 56; ii 248: 165; ii 294: 56; ii 348: 56; ii 359: 121; ii 365: 121; ii 377-378: 140; ii 382: 125; ii 493: 114; ii 497: 120; ii 497 sgg.: 126; ii 508: 228; ii 513-514: 70; ii 520: 128; ii 599-600: 121; ii 708: 128. iii 13: 59; iii 15-22: 66; iii 17: 66; iii 2122: 66; iii 26: 121; iii 43: 114; iii 50: 198; iii 57-58: 121; iii 126: 160; iii 206: 31; iii 438: 122; iii 453: 95; iii 525-526: 50; iii 534: 145; iii 559: 141; iii 613-614: 121. epist. ex Ponto i 1: 32, 143; i 1, 3: 108, 229; i 1, 13: 229; i 1, 13-21: 238; i 1, 14: 200, 238; i 1, 15: 238; i 1, 16: 238, 239; i 1, 19-20: 237-238; i 1, 20: 142, 238; i 1, 21-22: 33; i 1, 23-24: 220; i 1, 25: 229; i 1, 36: 126; i 1, 37: 126; i 1, 49: 185; i 1, 53-56: 76; i 1, 67: 55; i 1, 79-80: 53; i 2: 30, 33, 34, 72, 206; i 2, 13-23: 33; i 2, 16: 128, 206; i 2, 27-28: 194; i 2, 43-44: 110; i 2, 57-58: 200, 228; i 2, 62: 198; i 2, 67-68: 128; i 2, 68-69: 75; i 2, 78: 99; i 2, 97: 181; i 2, 101 sg.: 139; i 2, 108: 201, 228; i 2, 117: 162; i 2, 119-120: 69; i 2, 123: 138; i 2, 126: 139; i 2, 128: 88; i 2, 133-134: 119; i 2, 136: 48; i 2, 145: 196; i 3: 31, 86, 136, 139; i 3, 3: 31; i 3, 5: 59; i 3, 5-6: 26; i 3, 11-12: 31; i 3, 44: 31; i 3, 49: 116; i 3, 51-55: 33; i 3, 57-60: 33; i 3, 6184: 23; i 3, 65: 23; i 3, 70: 88; i 3, 90: 61; i 3, 92: 31; i 4: 30; i 4, 5: 54; i 4, 10: 54; i 4, 11: 54; i 4, 23: 54; i 4, 23-46: 49; i 4, 34: 88; i 4, 35-36: 48; i 4, 45: 54; i 4, 47: 30; i 4, 55 sg. : 67; i 4, 55-56: 68; i 4, 56: 139; i 5: 86, 165, 221; i 5: 32; i 5, 7: 239; i 5, 7-8: 139; i 5, 12: 228; i 5, 14: 148; i 5, 15 sgg.: 225; i 5, 19: 223; i 5, 26: 63; i 5, 51 sg.: 115; i 5, 57: 32; i 5, 57 sgg.: 231; i 5, 66: 228; i 5, 69: 231; i 5, 74: 160, 228; i 6, 9-12: 33; i 6, 12: 185; i 6, 41-42: 200; i 7: 86; i 7, 3: 160; i 7, 5: 116; i 7, 10: 146; i 7, 16: 145; i 7, 42: 116; i 7, 49-50: 88, 183; i 8: 49, 235; i 8, 1-2: 86; i 8, 5: 33; i 8, 9-10: 235; i 8, 15: 228; i 8, 27: 168; i 8, 33-34: 199; i 8, 39: 229; i 9: 32, 86, 165; i 9, 21-22: 200; i 9, 23: 122; i 10: 86; i 10, 30: 163. ii 1: 118, 136, 151; ii 1, 23-24: 144; ii 1, 31: 151; ii 1, 33-34: 181; ii 1, 49-52: 150; ii 1, 57-64: 150; ii 1, 65: 33; ii 2: 30, 72, 86; ii 2, 44: 75; ii 2, 45: 61; ii 2, 51: 32, 161; ii 2, 59: 75; ii 2, 69: 68; ii 2, 87: 97; ii 2, 94: 33, 51; ii 2, 97: 145; ii 2, 113-114: 69; ii 3: 32, 165; ii 3, 2: 33; ii 3, 10: 87; ii 3, 21: 113; ii 3, 25-30: 87; ii 3, 30: 61; ii 3, 44: 168; ii 3, 45-46: 99; ii 3, 79: 145; ii 3, 83-86: 24, 166; ii 3, 84: 11; ii 4, 1: 160; ii 4, 13: 166; ii 4, 17-18: 223, 225; ii 5: 86, 136; ii 5,

264

indice dei luoghi citati

19: 33; ii 5, 20: 136; ii 5, 31: 88, 147; ii 5, 34: 134; ii 5, 73: 62; ii 5, 75: 117; ii 5, 75-76: 149; ii 6, 2: 94; ii 6, 25: 99; ii 6, 33: 144; ii 7, 2: 149; ii 7, 7-8: 150; ii 7, 33: 139; ii 7, 48: 118; ii 7, 66: 116; ii 7, 68: 33; ii 7, 74: 52; ii 8: 86, 165; ii 8, 1 sg.: 206; ii 8, 29: 77; ii 8: 32; ii 8, 4: 68; ii 8, 29-30: 68; ii 8, 57-58: 162; ii 9, 2: 116; ii 9, 4: 64; ii 9, 73: 115; ii 9, 77: 185; ii 10: 32, 34; ii 10, 1-4: 160; ii 10, 10: 48; ii 10, 17: 145; ii 10, 22: 114; ii 10, 44-48: 33; ii 10, 51: 165; ii 11: 32, 34, 234; ii 11- 1-2: 31; ii 11, 9: 18; ii 11, 14: 32; ii 11, 16: 32. iii 1: 30, 32, 48, 51, 54, 56, 57, 61, 66; iii 1, 1: 17; iii 1, 1- 6: 30, 48-50; iii 1, 1-28: 33; iii 1, 5: 50; iii 1, 7: 50; iii 1, 7-10: 50; iii 1, 9: 50, 76; iii 1, 9b-10: 50; iii 1, 11: 51; iii 1, 1116: 50-51, 233; iii 1, 13: 51; iii 1, 15: 51; iii 1, 16: 51; iii 1, 17: 50; iii 1, 17-24: 51-52; iii 1, 22: 52; iii 1, 23-24: 208; iii 1, 25-30: 52-53, 146; iii 1, 26: 53; iii 1, 28: 53; iii 1, 29: 55; iii 1, 30-31: 53; iii 1, 31: 53, 54, 55; iii 1, 31 sgg.: 53; iii 1, 31-34: ; iii 1, 31-36: 53-55; iii 1, 33: 55; iii 1, 33-34: 64, 70; iii 1, 35: 54; iii 1, 36: 54; iii 1, 37: 75; iii 1, 37-48: 56-58; iii 1, 38: 58, 64; iii 1, 39: 56; iii 1, 40: 54; iii 1, 41: 54, 58, 64; iii 1, 43: 75; iii 1, 43-44: 57; iii 1, 46: 34; iii 1, 47: 58, 63, 64; iii 1, 49: 34; iii 1, 49-56: 58-60; iii 1, 50: 59; iii 1, 51: 59; iii 1, 51 ss.: 65; iii 1, 51-54: 58; iii 1, 52: 59; iii 1, 56: 59, 60; iii 1, 57-62: 60-61; iii 1, 59: 75; iii 1, 60: 34, 60; iii 1, 63-68: 61; iii 1, 65: 63; iii 1, 66: 61; iii 1, 69: 61; iii 1, 69-74: 61-62; iii 1, 75: 54; iii 1, 75-76: 64, 237; iii 1, 75-88: 62-64; iii 1, 76: 32; iii 1, 78: 145; iii 1, 80: 54; iii 1, 81: 63; iii 1, 85-86: 63; iii 1, 87: 62, 200; iii 1, 88: 58; iii 1, 89-98: 64-65, 75; iii 1, 91-92: 64; iii 1, 92: 31; iii 1, 93: 32; iii 1, 94: 32, 54; iii 1, 95-96: 64-65; iii 1, 97: 65; iii 1, 99 sgg.: 55; iii 1, 99-104: 65; iii 1, 103: 65, 229; iii 1, 105-112: 65-66; iii 1, 106 sgg.: 68; iii 1, 113118: 66-68; iii 1, 114: 66; iii 1, 114-118: 68; iii 1, 117: 126; iii 1, 118: 68; iii 1, 119: 68; iii 1, 119-128: 68-70; iii 1, 125: 57, 63; iii 1, 128: 54; iii 1, 129: 70; iii 1, 129-144: 70-75; iii 1, 129166: 71; iii 1, 132: 70; iii 1, 133-136: 71; iii 1, 136: 71; iii 1, 139: 71; iii 1, 142: 74; iii 1, 143: 74; iii 1, 144: 54, 74; iii 1, 145: 67; iii 1, 145154: 75-76; iii 1, 146: 75; iii 1, 149: 75, 76; iii 1, 149 sgg.: 55; iii 1, 151: 75; iii 1, 152: 58, 75; iii 1, 153: 34, 75, 76; iii 1, 155-164: 76-77; iii 1, 156: 50, 76; iii 1, 157: 76; iii 1, 158: 65, 76; iii 1, 159-160: 76; iii 1, 160: 76; iii 1, 163: 65; iii 1, 165-166: 77-78; iii 1, 166: 55. iii 2: 32, 90, 165; iii 2, 1: 34, 86; iii 2, 1-4: 86; iii 2, 3: 87; iii 2, 5: 87; iii 2, 5-6: 61; iii 2, 5-8: 87-88; iii 2, 6: 87; iii 2, 7: 87; iii 2, 9: 87, 88; iii 2, 9-14: 88; iii 2,

10: 87; iii 2, 11: 87; iii 2, 12: 87; iii 2, 15-24: 88-89; iii 2, 19-20: 88; iii 2, 21: 88, 89; iii 2, 23-24: 89; iii 2, 24: 87; iii 2, 25-32: 89-90; iii 2, 29-32: 90; iii 2, 30: 127, 144; iii 2, 33-34: 90; iii 2, 33-38: 90; iii 2, 35-38: 90; iii 2, 39-40: 90-91; iii 2, 39-96: 90; iii 2, 41: 91; iii 2, 41-42: 91; iii 2, 43: 91, 99; iii 2, 43-44: 91-92; iii 2, 44: 91; iii 2, 45-46: 99; iii 2, 45-54: 92-93; iii 2, 49: 93; iii 2, 52: 93; iii 2, 54: 93; iii 2, 55-58: 93-94; iii 2, 59: 94; iii 2, 59-60: 94; iii 2, 59-64: 94; iii 2, 61: 94; iii 2, 62: 94; iii 2, 63: 34, 94; iii 2, 64: 94; iii 2, 65-66: 94-95, 100; iii 2 67-72: 95-96; iii 2, 73-80: 96; iii 2, 75-76: 96; iii 2, 77-80: 96; iii 2, 81: 96; iii 2, 81-88: 97; iii 2, 83-84: 97; iii 2, 89-94: 97-98; iii 2, 90: 97; iii 2, 91: 97; iii 2, 95-96: 98; iii 2, 97-110: 98-100; iii 2, 100: 99; iii 2, 102: 228; iii 2, 103 sgg.: 127; iii 2, 106: 117; iii 2, 109-110: 86, 100. iii 3: 33, 34, 109, 114, 128, 206, 212; iii 3, 1-4: 108-109; iii 3, 3-4: 123; iii 3, 5: 111; iii 3, 5-12: 109-111; iii 3, 7: 111; iii 3, 7 sgg.: 71; iii 3, 9: 110, 111; iii 3, 11: 110; iii 3, 12: 110; iii 3, 13: 111; iii 3, 13-20: 111-113, 168; iii 3, 14: 111; iii 3, 15: 111; iii 3, 15-20: 111; iii 3, 16: 111; iii 3, 17: 111; iii 3, 17 sgg.: 112; iii 3, 18: 111; iii 3, 21: 113; iii 3, 21-22: 113-114; iii 3, 23: 114; iii 3, 23-28: 114-115; iii 3, 24: 114; iii 3, 25-28: 125; iii 3, 26: 26, 112; iii 3, 29-36: 115; iii 3, 31: 115, 125; iii 3, 33-34: 115, 121; iii 3, 34: 115; iii 3, 37: 115; iii 3, 37-40: 115-116; iii 3, 38: 34; iii 3, 39-40: 116; iii 3, 41: 113; iii 3, 41-48: 116-120; iii 3, 46: 118; iii 3, 47: 120; iii 3, 4950: 121; iii 3, 49-58: 121-122; iii 3, 51-52: 121; iii 3, 53-54: 122; iii 3, 53-58: 124; iii 3, 56: 121; iii 3, 59: 122; iii 3, 59-60: 123; iii 3, 59-64: 122; iii 3, 60: 123; iii 3, 61: 122; iii 3, 62: 113; iii 3, 63: 122; iii 3, 63-64: 115; iii 3, 64: 231; iii 3, 65-66: 114, 122-123; iii 3, 67-76: 123-124; iii 3, 70: 34, 124, 224; iii 3, 73: 124; iii 3, 74: 118; iii 3, 75: 17, 124; iii 3, 77-82: 124-125; iii 3, 79: 125; iii 3, 80: 125; iii 3, 83 sgg.: 126; iii 3, 83-92: 116-120, 125-127; iii 3, 85: 119, 136; iii 3, 85 sgg.: 136; iii 85-92: 119; iii 3, 87: 68, 125; iii 3, 87-92: 71; iii 3, 88: 126; iii 3, 91: 34; iii 3, 92: 119; iii 3, 93-94: 122-123, 127; iii 3, 95: 127; iii 3, 95-96: 119; iii 3, 95-98: 116-120; iii 3, 95-108: 127-128; iii 3, 96: 127; iii 3, 97: 120; iii 3, 9798: 120; iii 3, 98: 120; iii 3, 99: 127; iii 3, 99100: 127; iii 3, 100: 127; iii 3, 101-102: 127, 168; iii 3, 105: 128; iii 3, 106: 206; iii 3, 107-108: 127, 128; iii 3, 108: 128. iii 4: 31, 32, 34, 86, 118, 136, 137, 138; iii 4: 234; iii 4, 1-6: 136-138; iii 4, 4: 136; iii 4, 5: 115; iii 4, 6: 75; iii 4, 7 sgg.: 31; iii 4, 7-16: 138-139; iii 4, 8: 61; iii 4, 9: 142; iii 4, 9-10: 234; iii 4, 13-14: 26; iii 4, 15: 141; iii 4,

indice dei luoghi citati 17-28: 139-141; iii 4, 22: 34; iii 4, 23: 140; iii 4, 23 sgg. : 151; iii 4, 23-44: ; iii 4, 29: 141; iii 4, 29-30: 142; iii 4, 29-32: 141; iii 4, 32: 64; iii 4, 33-34: 142; iii 4, 33-44: 142; iii 4, 38: 141; iii 4, 43: 142; iii 4, 45: 149; iii 4, 45-52: 142-143, 168; iii 4, 46: 34, 143; iii 4, 50: 143; iii 4, 53-54: 143; iii 4, 53-64: 143-145; iii 4, 54: 149; iii 4, 55: 142; iii 4, 58: 98, 116, 144; iii 4, 62: 34; iii 4, 65-72: 145-146; iii 4, 66: 146; iii 4, 67: 145; iii 4, 68: 145; iii 4, 69: 145; iii 4, 70: 145; iii 4, 71: 145; iii 4, 73-74: 221; iii 4, 73-76: 146; iii 4, 77: 146; iii 4, 77-82: 146-147; iii 4, 79: 115, 146; iii 4, 83-90: 147-149; iii 4, 84: 34, 148; iii 4, 89: 139, 144; iii 4, 91: 122; iii 4, 91-94: 149-150; iii 4, 95: 137; iii 4, 95 sgg.: 138, 152; iii 4, 95-112: 150-153, 152; iii 4, 96: 68; iii 4, 98-99: 153; iii 4, 99: 150, 151; iii 4, 109-110: 138; iii 4, 110: 152-153; iii 4, 111-112: 153; iii 4, 113-114: 153; iii 4, 114: 151. iii 5: 11, 31, 32, 34, 86, 165, 234; iii 5, 1-6: 160-161, 168; iii 5, 4: 118; iii 5, 5 sgg. : 87; iii 5, 6: 112, 228; iii 5, 7: 32, 65, 100, 161, 164; iii 5, 7-16: 161-162; iii 5, 10: 162; iii 5, 11: 161; iii 5, 17-20: 162-163; iii 5, 21-26: 163-164; iii 5, 22: 164; iii 5, 26: 164; iii 5, 27: 164; iii 5, 27-32: 164-165; iii 5, 28: 98, 228; iii 5, 30: 165; iii 5, 33-34: 119, 165; iii 5, 33-36: 165-166, 168; iii 5, 35: 165; iii 5, 36: 165; iii 5, 37 sg.: 32; iii 5, 37-42: 166; iii 5, 43-44: 167; iii 5, 44: 167; iii 5, 45-47: 199; iii 5, 45-56: 167-168; iii 5, 47: 167, 168; iii 5, 52: 168; iii 5, 48-49: 25; iii 5, 49: 168; iii 5, 49 sgg.: 165, 168; iii 5, 51: 168; iii 5, 53: 168; iii 5, 55: 168; iii 5, 56: 168; iii 5, 57-58: 168-169; iii 5, 58: 197. iii 6: 11, 28, 34, 128, 176, 186; iii 6, 1: 34; iii 6, 1-6: 176-177; iii 6, 2: 94; iii 6, 3: 176, 186; iii 6, 3-4: 176; iii 6, 3-16: 177; iii 6, 4: 177; iii 6, 5: 176; iii 6, 5-6: 161; iii 6, 15: 68; iii 6, 7-12: 177-178; iii 6, 13-16: 178-179; iii 6, 14: 18; iii 6, 15-16: 178-179, 184; iii 6, 16: 62, 179; iii 6, 17-18: 182; iii 6, 17-22: 179-181; iii 6, 18: 179, 180; iii 6, 19: 59; iii 6, 19-20: 26; iii 6, 21: 180; iii 6, 22: 180; iii 6, 23-26: 181; iii 6, 23-30: 181-182; iii 6, 25-26: 34; iii 6, 27: 181, 183; iii 6, 27-28: 181; iii 6, 28: 182; iii 6, 29: 181; iii 6, 31-38: 182-183; iii 6, 33: 182; iii 6, 34: 182; iii 6, 37-38: 128, 182; iii 6, 38: 182, 183; iii 6, 39-44: 183-185; iii 6, 42: 184; iii 6, 43: 179; iii 6, 45-58: 185-187; iii 6, 45: 185; iii 6, 46: 185; iii 6, 47-48: 185; iii 6, 51: 186; iii 6, 55: 177; iii 6, 55-56: 176; iii 6, 56: 177, 186; iii 6, 57: 187; iii 6, 59-60: 176, 186, 187; iii 6, 60: 186. iii 7: 34, 198, 207; iii 7, 1: 115; iii 7, 1-4: 222; iii 7, 1-8: 194-195; iii 7, 2: 194; iii 7, 9: 195, 197, 198; iii 7, 9-10: 211; iii 7, 9-14: 195-196; iii 7, 10: 200; iii 7, 11: 30; iii 7, 15: 197; iii 7, 15-16:

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196; iii 7, 15-20: 196-197; iii 7, 17: 197; iii 7, 19: 200; iii 7, 21: 197; iii 7, 21-22: 198; iii 7, 21-24: 197-198; iii 7, 23: 198; iii 7, 24: 198; iii 7, 24-25: 34; iii 7, 25-28: 198; iii 7, 25-32: 198199; iii 7, 29-31: 198; iii 7, 29-32: 198; iii 7, 32: 199; iii 7, 33-34: 33; iii 7, 33-38: 199-200; iii 7, 37: 200; iii 7, 39: 197; iii 7, 39-40: 30, 197, 199, 200-201; iii 7, 40: 94, 197, 200; iii 7, 45-46: 201. iii 8: 11, 33, 86, 206, 207, 234; iii 8, 1: 210, 211; iii 8, 2: 210; iii 8, 1-2: 210; iii 8, 1-4: 33, 86, 108, 206-208; iii 8, 5: 208, 210; iii 8, 5-6: 208; iii 8, 5-16: 208-209; iii 8, 5-18: 33; iii 8, 6: 208; iii 8, 7: 206; iii 8, 7-8: 208; iii 8, 9-10: 208; iii 8, 9-11: 209; iii 8, 10: 93; iii 8, 11: 209; iii 8, 11-12: 209; iii 8, 13: 209; iii 8, 14: 209; iii 8, 15: 52, 209; iii 8, 17-22: 210-211; iii 8, 19: 210; iii 8, 20: 210; iii 8, 21-22: 211; iii 8, 22: 206, 207; iii 8, 23: 210; iii 8, 23-24: 210-211, 211213; iii 8, 24: 210. iii 9: 31, 32, 34; iii 9, 1: 221; iii 9, 1-4: 224; iii 9, 1-6: 33, 220-222; iii 9, 2: 227; iii 9, 7: 222; iii 9, 7 sgg.: 239; iii 9, 7-12: 222-224; iii 9, 8: 223, 237; iii 9, 13: 222; iii 9, 13-16: 224-225; iii 9, 13-21: 238; iii 9, 14: 227; iii 9, 16: 228; iii 9, 17: 223; iii 9, 17-18: 223; iii 9, 17 sgg.: 223; iii 9, 17-20: 24; iii 9, 17-26: 225227; iii 9, 18: 115; iii 9, 19: 232; iii 9, 20: 234; iii 9, 21: 238; iii 9, 20b-21: 225; iii 9, 25: 225; iii 9, 27: 231; iii 9, 27-28: 201; iii 9, 27-34: 228; iii 9, 32: 228; iii 9, 33 sgg.: 224; iii 9, 34: 228; iii 9, 35: 65, 229; iii 9, 35-36: 228-231; iii 9, 36: 221; iii 9, 37: 221, 231; iii 9, 37-44: 231; iii 9, 38: 30, 115, 122; iii 9, 42: 231; iii 9, 43: 142; iii 9, 44: 231; iii 9, 45: 233, 235; iii 9, 45-50: 231233; iii 9, 46: 238; iii 9, 47: 34, 232; iii 9, 48: 232; iii 9, 49: 238, 239; iii 9, 49-50: 233; iii 9, 49-56: 238; iii 9, 50: 233, 235; iii 9, 51 sgg.: 220; iii 9, 51-56: 230, 233-240; iii 9, 53: 238; iii 9, 54: 31, 234; iii 9, 55: 237; iii 9, 55-56: 20, 238; iii 9, 56: 72. iv 1, 1: 239; iv 1, 20: 224, 237. iv 2: 207; iv 2, 2 : 33, 228; iv 2, 6: 235; iv 2, 7: 207; iv 2, 17-20: 144; iv 2, 28: 145; iv 2, 33-34: 236; iv 2, 33-38: 228; iv 2, 38: 92, 114; iv 2, 44: 165; iv 2, 50: 31. iv 3, 3-4: 176; iv 3, 51-52: 33. iv 4: 176; iv 4, 16: 125; iv 4, 37: 162; iv 4, 45: 136. iv 5: 176; iv 5, 8: 146. iv 6, 1-12: 212; iv 6, 9: 108; iv 6, 9-12: 29, 206; iv 6, 15-16: 33; iv 6, 17-18: 32; iv 6, 18: 220; iv 6, 21: 121; iv 6, 27-42: 220; iv 6, 35-36: 211, 220; iv 6, 45-50: 235. iv 7, 7-10: 51; iv 7, 7-12: 33; iv 7, 8: 51. iv 8: 147; iv 8, 11: 48; iv 8, 12: 48; iv 8, 27-28: 70; iv 8, 35: 147; iv 8, 81: 145; iv 8, 83-84: 33; iv 8, 84: 228. iv 9, 37: 167; iv 9, 52: 122; iv 9, 74: 168; iv 9, 81-86: 33; iv 9: 86; iv 9, 90: 87; iv 9, 107: 68, 70. iv 10, 9: 59; iv 10, 9-28: 180; iv 10, 25: 68; iv 10,

266

indice dei luoghi citati

110: 111. iv 11, 13: 162; iv 11, 15-16: 144. iv 12: 176; iv 12, 9-16: 168; iv 12, 26: 223, 225; iv 12, 27: 115; iv 12, 33-36: 33; iv 12, 44: 165. iv 13, 15: 223; iv 13, 19: 90, 98; iv 13, 19-22: 91, 210; iv 13, 22: 98, 228; iv 13, 29: 65, 68. iv 14, 25: 165; iv 14, 27-28: 33, 140; iv 14, 35: 59. iv 15: 176; iv 15, 29-30: 194; iv 15, 40: 228. iv 16: 146; iv 16, 6: 108; iv 16, 13: 59; iv 16, 41-44: 32; iv 16, 45-48: 128; iv 16, 51-52: 13. fast. i 153: 209; i 306: 160; i 536: 68; i 548: 166; i 649-650: 68; i 650: 67. ii 4: 136; ii 127 sgg.: 126; ii 193-474: 127; ii 240: 48; ii 377: 48; ii 432: 94. iii 23: 111; iii 151 sgg.: 117; iii 153: 117; iii 226: 165; iii 511: 77; iii 614: 198; iii 639-640: 109; iii 652: 144. iv 160: 95; iv 403: 196; iv 446: 160; iv 594: 92. v 42: 148; v 128: 98; v 499: 91; v 592: 50; v 601: 141. vi 42: 93; vi 78: 89; vi 220: 48; vi 233: 48; vi 339: 91, 111; vi 374: 90; vi 389: 111; vi 522: 87; vi 578: 95; vi 647-648: 121; vi 649: 122; vi 766: ; vi 803-810: 62. her. 1, 115-116: 30. 3, 4: 76; 3, 15: 180; 3, 44: 125; 3, 68: 196. 4: 86; 4, 1-2: 86; 4, 17: 62; 4, 24: 196; 4, 32: 88; 4, 100: 4, 121, 165; 4, 147: 4, 144; 153-154: 75. 5, 4: 160; 5, 101-102: 62; 5, 104: 160. 7, 6: 88; 7, 9-10: 87; 7, 50: 160; 7, 141: 150. 8, 12: 90. 9, 63: 160; 9, 69: 184; 9, 77: 239. 10, 98: 160; 10, 114: 235. 11 a-b: 86; 11, 3: 210; 11, 115: 165. 12: 125; 12, 31: 125; 12, 132: 93; 12, 133: 194; 12, 170: 111. 13: 66, 86; 13, 1-2: 86; 13, 114: 93. 14: 68. 15, 1-4: 160; 15, 4: 31. 16: 86; 16, 42: 198; 16, 274: 68; 16, 276: 201;16, 290: 78; 16, 299: 121; 16, 307: 141; 16, 376: 89. 17, 48: 222; 17, 49-50: 17, 124; 17, 77: 120; 17, 93: 222; 17, 121: 146; 17, 220: 224. 18: 86; 18, 1: 161; 18, 83-84: 198; 18, 140: 95; 18, 145: 238; 18, 162: 98. 19: 86; 19, 1-2: 86; 19, 68: 198; 19, 106: 124; 19, 203: 124; 19, 206: 86. 21, 18: 110; 21, 247: 210. ibis 6: 118; 52: 187; 136: 160; 141: 123; 397-398: 184; 437-440: 184; 453: 185; 470: 59; 575: 53. med. 19: 113; 45: 95. met. i 129-130: 128; i 319: 77; i 414: 196; i 456: 120; i 474: 223; i 496: 141; i 589-590: 68; i 620: 77; i 654: 55. ii 27: 50; ii 252-253: 16; ii 337: 208; ii 477: 75; ii 484: 52; ii 639: 194. iii 98: 60; iii 283: 165; iii 659-660: 198; iii 660: 198. iv 36: 239; iv 53: 98; iv 189: 113; iv 447: 168; iv 578: 160; iv 699: 68. v 228: 60; v 386-387: 16; v 511512: 127. vi 129: 146; vi 289: 113; vi 393: 116. vii 7: 233; vii 47: 178; vii 145: 179; vii 298: 125; vii 643: 111; vii 778: 210; vii 800: 62. viii

30: 210; viii 69: 55; viii 92-93: 165; viii 176: 233; viii 225-226: 195; viii 406: 145. ix 50: 169; ix 183: 184; ix 358: 120; ix 404-405: 59; ix 472: 111; ix 518: 110; ix 687: 111; ix 718: 95. x 100: 209; x 138-139: 112. xi 33: 208; xi 92-93: 116; xi 315: 161; xi 621: 110; xi 623-624: 110; xi 654-655: 111. xii 43: 95; xii 280: 160; xii 313: 87; xii 416: 95. xiii 127: 143; xiii 160: 161; xiii 162: 162; xiii 290: 141; xiii 439 sgg.: 110; xiii 730: 68; xiii 732 sgg.: 68; xiii 828: 95; xiii 879: 87. xiv 35-36: 165-166; xiv 59-67: 68; xiv 380: 62; xiv 597: 112. xv 60-478: 117; xv 79: 120; xv 103: 71; xv 307: 75; xv 418-452: 117; xv 479-481: 117; xv 479 sg.: 117; xv 497-546: 99; xv 506: 99; xv 654: 111; xv 664: 111; xv 719: 95; xv 748: 144; xv 833: 67, 181; xv 871-879: 19; xv 878: 144; xv 878-879: 11; xv 879: 149. rem. 1: 114; 39: 113; 107 sgg.: 224; 115-116: 224; 121122: 195; 165: 200; 187-188: 51; 205-206: 55; 361: 221, 226; 361 sgg.: 221; 366: 227; 370: 227; 371: 221, 227; 371 sg.: 226; 385: 221, 227; 387-388: 221; 389: 146; 389 sgg.: 147; 393: 20; 395-396: 147, 227; 396: 20; 397 sg.: 221; 487: 55; 549-551: 126; 555: 114; 555-556: 108; 576: 108; 594: 90; 730: 139; 811: 31. trist. i 1, 11-12: 112, 161; i 1, 15: 235; i 1, 15-16: 167; i 1, 21 sgg.: 75; i 1, 26: 75; i 1, 33-34: 201; i 1, 34: 228; i 1, 37: 28; i 1, 39: 28; i 1, 39 sg.: 230; i 1, 49: 231; i 1, 56: 118; i 1, 61: 233; i 1, 75-76: 112; i 1, 79 sg.: 195; i 1, 81-82: 183; i 1, 87 sgg.: 74; i 1, 93 sgg.: 70; i 1, 127-128: 27, 116; i 1, 128: 49; i 2, 9: 59; i 3, 16: 61; i 3, 17-18: 55; i 3, 19: 48; i 3, 36: 88; i 3, 66: 90; i 3, 81-86: 54; i 3, 98: 89; i 4, 26: 183; i 5, 7: 34; i 5, 19-20: 90; i 5, 21-22: 92, 99; i 5, 33: 61; i 5, 41: 149-150; i 5, 57-84: 180; i 5, 59-62: 26; i 6: 30; i 6, 2: 60; i 6: 48; i 6, 19 sgg.: 66; i 6, 20: 66; i 6, 25-26: 57; i 6, 25-27: 63; i 6, 25-28: 68; i 6, 26: 68; i 7: 32, 235; i 7, 3-4: 28; i 7, 5-6: 220; i 7, 11: 87; i 7, 11-14: 220; i 7, 27 sgg.: 55; i 7, 33-34: 220; i 7, 35-40: 236; i 8, 1-8: 235; i 9, 2: 31; i 9, 5-6: 61; i 9, 20: 87; i 9, 21-22: 179; i 9, 23 sg. : 113; i 9, 27-28: 92, 99; i 9, 28: 94; i 9, 29-30: 99; i 9, 31: 90; i 9, 48: 75; i 9, 59-60: 230; i 11: 221; i 11, 35 sgg.: 229; i 11, 40: 160. ii 1-2: 235; ii 2: 27, 118; ii 31: 164; ii 33-40: 183; ii 41-42: 151; ii 58: 145; ii 63 sgg.: 55; ii 93-94: 164; ii 99: 213; ii 103: 213; ii 125: 113; ii 131-134: 24, 109; ii 135-138: 178; ii 143: 209; ii 158: 145; ii 161: 68; ii 161-164: 67; ii 182: 169; ii 196: 114; ii 208: 75; ii 239 sgg.: 121; ii 243-48: 121; ii 253 sgg.: 121; ii 257 sg.: 121; ii 263: 234; ii 313-356: 221;

indice dei luoghi citati ii 323: 115; ii 339: 114; ii 346: 121; ii 353-354: 230; ii 381-408: 27; ii 403: 90; ii 407-408: 27; ii 531-532: 115; ii 533: 148; ii 533-536: 122; ii 555 sg.: 55; ii 565 sg.: 128. iii 1, 4: 200; iii 1, 10: 228; iii 1, 17-18: 49, 90; iii 1, 18: 49; iii 1, 39 sgg.: 149; iii 3: 48, 56; iii 3, 2-3: 61; iii 3, 7: 52; iii 3: 30; iii 3, 13: 99, 116; iii 3, 29-36: 146; iii 3, 29-46: 228; iii 3, 32: 201; iii 3, 37: 197; iii 3, 45-46: 201; iii 3, 46: 49; iii 3, 59-84: 228; iii 3, 65-66: 201; iii 3, 73: 167; iii 4: 186; iii 4b: 186; iii 4, 1-46: 185; iii 4b, 16: 58; iii 4b, 17: 185; iii 4b, 17-20: 186; iii 4b, 19: 186; iii 4, 22: 98; iii 4b, 23-24: 186; iii 4b, 25: 186; iii 4, 25-26: 186; iii 4, 41: 122, 149; iii 4, 45-52: 116; iii 4, 46: 34; iii 4, 47-48: 185; iii 4, 48 [iii 4b, 2]: 114; iii 4, 52: 116; iii 4, 57: 199; iii 4, 62: 58; iii 5, 5 sgg.: 87, 88; iii 5, 9: 187; iii 5, 10: 61; iii 5, 22: 198; iii 5, 46: 123; iii 5, 49-54: 213; iii 5, 74: 118; iii 6, 7-8: 89; iii 6, 19: 187; iii 6, 27-29: 213; iii 7, 1: 48; iii 7, 23-26: 166; iii 8, 25: 88; iii 9, 2: 228; iii 9, 25-26: 94; iii 10, 1-2: 167; iii 10, 7: 26, 51; iii 10, 25: 51; iii 10, 64: 53; iii 10, 71: 51; iii 11, 1-2: 184; iii 11, 10: 88; iii 11, 20: 161; iii 11, 24: 139; iii 13, 24: 143; iii 11, 39-54: 184; iii 11, 61: 59; iii 11, 61-62: 180; iii 11, 62: 183; iii 12, 17: 50; iii 12, 33 sgg.: 140; iii 13, 12: 116; iii 13, 24: 143; iii 14: 32, 221; iii 14, 9-10: 222; iii 14, 13-26: 220; iii 14, 17: 88; iii 14, 25-26: 33; iii 14, 33-34: 139; iii 14, 37-38: 23, 73; iii 14, 39-40: 222; iii 14, 46: 22, 194. iv 1: 221; iv 1, 3: 231; iv 1, 68: 144; iv 1, 89-90: 222; iv 1, 105-106: 211-212; iv 2: 118, 152; iv 2, 11-14: 68; iv 2, 16: 145; iv 2, 23-24: 151; iv 2, 41-42: 151; iv 2, 42: 93; iv 2, 43: 152; iv 2, 47-48: 142; iv 2, 54: 25; iv 2, 57: 136; iv 2, 57-58: 25; iv 2, 65-68: 162; iv 2, 67-68: 136, 140; iv 3: 30, 46, 56; iv 3, 22: 111; iv 3, 72: 57; iv 4: 65; iv 4, 5: 65, 100; iv 4, 53-54: 200; iv 4, 63: 99; iv 4, 63-82: 92, 99; iv 4, 71-72: 99; iv 4, 73 sg.: 95; iv 4, 77: 100; iv 4, 79: 100; iv 4, 81: 100; iv 5: 32; iv 5, 33: 93; iv 7, 4: 235; iv 7, 7: 195; iv 7, 13: 68; iv 8, 45-52: 183; iv 10: 12-13, 50; iv 10, 1: 167; iv 10, 1-2: 148; iv 10, 1 sg.: 89; iv 10, 57: 114; iv 10, 65: 123; iv 10, 69-70: 30; iv 10, 73-74: 48; iv 10, 75: 48; iv 10, 86: 89; iv 10, 110: 111; iv 10, 123-124: 146; iv 10, 129: 149; iv 16: 146; iv 16, 13: 59; iv 16, 17-18: 32. v 1, 5-6: 228; v 1, 5-8: 228; v 1, 6: 229; v 1, 7: 229; v 1, 10: 229, 230, 231, 232; v 1, 11-14: 15-16; v 1, 20-28: 233; v 1, 22: 111; v 1, 23: 233; v 1, 27-28: 229, 230; v 1, 39 sgg.: 120; v 1, 53-54: 184; v 1, 61-62: 59; v 1, 69: 225, 232; v 1, 69 sgg.: 225; v 1, 72: 96; v 1, 75 sgg.: 231; v 1, 80: 167; v 2: 30, 48; v 2, 1-2: 178; v 2a, 31: 116; v 2a, 1-44: 30; v 2, 13-14: 59; v 2,

267

21: 146; v 2, 30: 200; v 2a, 31: 116; v 2, 33 sgg.: 63; v 2, 35 sgg.: 66; v 2, 37: 68; v 2, 40: 61; v 2, 42: 87; v 2b, 1-34: 30; v 2b, 45-78: 30; v 2, 68: 24; v 3, 5-6: 145; v 3, 8: 228; v 3, 24: 93; v 3, 35: 91; v 3, 35 sgg.: 51; v 3, 47-48: 146; v 3, 52: 145; v 4, 23-26: 99; v 4, 25: 99; v 4, 28: 166; v 4, 33: 88; v 4, 36: 61; v 5: 30, 48; v 5, 31: 224; v 5, 51: 59; v 6, 5-6: 196; v 6, 23: 99; v 5, 25-26: 88; v 5, 31: 224; v 7, 11: 150; v 7, 12: 149; v 7, 51-52: 24; v 7, 56: 90; v 9: 32; v 9, 3-4: 61; v 9, 6-8: 144; v 9, 15 sgg.: 61; v 9, 19: 168; v 10, 1: 160; v 10, 28: 90; v 10, 35-38: 24; v 10, 37: 90; v 11: 30, 48; v 12, 3 sg.: 230; v 12, 29-30, 90, 139; v 12, 39 sgg.: 231; v 12, 47-48: 184; v 12, 53-54: 15; v 12, 58: 90; v 13, 1-2: 86; v 13, 3: 88; v 13, 21: 52, 208; v 14: 30, 48; v 14, 1: 57; v 14, 5-6: 89; v 14, 20: 98; v 14, 28: 62; v 14, 35 sgg.: 66; v 14, 37: 66; v 14, 41: 66; v 14, 45 sg.: 64; v 14, 45-46: 13. pacvvivs cf. trf pavsanias i 38, 2: 116. petronivs satyr. 71: 144; 132, 15 (v. 2): 127. pindarvs frg. 179 Maehler: 239. Nem. 4, 25: 161. plato Phaedr. 69 c: 116; 243 a-b: 199. resp. ii 363cd: 116; ix 586c: 199; x 620a: 15. plavtvs Menaechmi 862: 150; 868: 150. Persa 783: 57-58. Trinummus 754: 208. plinivs jr. epist. i 1, 1-20: 240. ii 5, 7: 240. iv 14, 3: 240. ix 10, 3: 226; ix 15, 2: 226. pan. 4, 5: 179. plinivs sr. n.h. i: 31. vii 19, 4: 48; vii 46, 150: 212. xiv: 31. xv: 31. xvi 68: 111; xvi 231: 120. xix: 31. xxi: 31. xxii: 31. xxvii 28, 45: 52. xxxiii 62: 209. xxxiv 47: 136; plvtarchvs mor. 508a sgg.: 212. Num. 8: 117. porphyrio(n) ad Hor. a.p. 155: 153. ad epod. 11-12: 88.

268

indice dei luoghi citati

priapea 53, 6: 212. propertivs i 1, 16: 238; i 2, 31: 180; i 3, 31: 109; i 6, 28: 128; i 8, 28: 119, 127; i 9, 2: 144; i 9, 11: 127; i 12, 5: 141; i 13, 1: 166; i 14, 20-21: 109; i 16, 41: 239. ii 3, 30: 68; ii 3, 47-48: 196, 197; ii 10, 5-6: 147; ii 10, 21: 147; ii 10, 23-24: 147; ii 10, 33: 147; ii 16, 35: 232; ii 16, 42: 113, 138; ii 23, 2: 163; ii 24, 45: 17, 49; ii 25, 20: 180; ii 28, 8: 167; ii 28, 16: 125; ii 34, 47: 196. iii 1, 6: 148; iii 1, 90: 223; iii 3, 6: 144; iii 3, 14-15: 114; iii 3, 17-18: 148; iii 3, 31: 112; iii 3, 38: 114; iii 4: 137; iii 4, 4: 152; iii 4, 13-15: 25; iii 4, 15 sgg.: 138; iii 7, 49: 120; iii 7, 72: 50; iii 9, 35: 95, 229; iii 9, 47: 114; iii 11, 14: 94; iii 21, 6: 180; iii 23, 6: 161; iii 24: 169; iii 24, 4: 58. iv 1, 75: 141; iv 3, 46: 196; iv 4, 28: 160; iv 6: 137; iv 7, 2: 89; iv 8, 13: 54; iv 8, 88: 109, 110; iv 11, 40: 117. prospervs aqvit. epigr. 102 (99), 8: 181. psevd.aristoteles oecon. 3, 1 [141, 29-142-142, 18 Rose]: 65. pvblilivs sirvs sentent. A 38 Meyer: 167; Q 54: 91; 83: 95. qvintilianvs i 4, 18: 230; i 5, 54: 234. vi 1, 37-45: 75; vi 1, 52: 153. ix 4, 25: 240. x 1, 79: 112. xi 24: 221. rhetorica ad herennivm i 3: 240; i 15, 20: 50. sallvstivs hist. frg. i 88: 137; frg. 4, 38: 163. Jug. 49, 2: 141.

epist. 66, 8: 60. tragoed.: Ag. 69: 160; 215 (= Troad. 183): 120; 678-679: 120. Herc. fur. 132: 160; 653: 143; 1337 sg.: 166. Med. 482: 166; 680-681: 111. Phaedr. 493: 146; 1145: 168; 1147-1148: 168; 1150 sgg.: 168. Troad. 168-199a: 110. servivs ad Aen. i 490: 65. ad buc. 6, 5: 239. silivs italicvs i 139: 139. iii 273: 179. xvi 631: 76. xvii 491492: 182. sophocles Elettr. 147 sg.: 15. Philoct. 681 sgg.: 59; 1333-334: 59. stativs silu praef. 4: 221. Theb. vii 105-106: 95; 314: 149. xi 511: 149. stesichorvs palinodia, frg. 11 Diehl [cfr. Plat. Phaedr. 453 a-b]: 199. strabo vii 4, 7: 93. svetonivs Aug. 8: 60; 27, 11: 121; 62, 1: 67; 65: 11; 65, 9: 212. Claud. 1, 1: 67. Tib. 22: 11. tacitvs Agric. 45, 1: 48. ann. i 3, 4: 11; i 5, 1: 48; i 5, 1-2: 212; i 5, 2: 206; i 6: 11; i 6, 1: 12; i 6, 2: 212; i 33-34: 136. iii 2, 3: 206; iii 17, 4: 206. iv 34, 2-5: 183; iv 35: 200; iv 35, 1-3: 183; iv 68-70: 183. v 1, 2: 67. vi 7, 1: 166. xii 23, 1: 179. xv 24 ss.: 183. dial. 31-42: 164. hist. i 3, 2: 48.

scholia jvv. vi 158, 1: 212.

terentivs Andr. 185: 140. Eun. 26: 58; 32: 58; 35: 58. Hec. 39: 144. Phorm. 23: 195-196.

seneca rhet. controu. ii 2, 28: 112. vii 5, 9: 220. ix 1, 11: 220.

theocritvs Id. 17: 126; 17, 34-57: 126; 17, 45 sgg.: 126.

seneca cons. ad Marc. 4, 1: 224; 22, 7: 200. de ben. i 7, 1: 55. ii 35, 5: 65. iii 1, 5: 143. iv 11, 5: 128. vi 11, 3: 55. de prou. 4, 14-16: 26-27. de tranq. an. 5, 3: 127-128. epigr. [ed. Riese] 2: 51; 2, 5-6: 51; 3: 51; 3, 2-7: 51; 25: 27; 35: 27; 36: 27; 52, 11: 141; 232: 18; 236: 18; 237: 18; 409: 18; 410: 18; 416: 18, 27; 417: 18; 418: 18; 427: 27; 428: 27.

theognides i 209-210 West: 61. theophrastvs h. p. iii 3, 1: 111. tibvllvs i 1, 45-46: 50; i 1, 58: 232; i 3, 86: 239; i 6, 65:

indice dei luoghi citati 180; i 9, 30: 194. ii 2, 12: 194; ii 3, 54: 209; ii 4, 19: 126; ii 6, 38: 111. [tibvllvs] iii 4, 71: 143; iii 6, 49-50: 167; iii 7, 170: 196. trf 365 Ribbeck [pacvvivs]: 99. valerivs flaccvs Arg. ii 23-24: 181. v 628: 140. valerivs maximvs ii 6, 8: 162. varro lL v 65: 126. velleivs i 5, 1: 88. ii 75, 3: 67; ii 112, 7: 11, 212; ii 123, 1: 151. vergilivs Aen. i 5: 233; i 165: 126. ii 15: 209; ii 49: 124; ii 224: 196; ii 268 sgg.: 114; ii 647: 179; ii 648:

269

126; ii 649: 179; ii 772-773: 123; ii 773: 123; ii 794: 94. iii 147 sgg.: 109; iii 148: 108; iii 152: 109; iii 173: 108; iii 610: 233. iv 173 sgg.: 142; iv 205: 233; iv 297: 178; iv 522 sgg. : 109. v 516: 94; v 538: 165; v 572: 165; v 741: 123. vi 298 sgg.: 112; vi 448: 66; vi 498: 113; vi 499: 113; vi 702: 94; vi 882: 178. vii 563: 92. viii 327-328: 95; viii 515: 124; viii 538: 165; viii 563: 92; viii 572: 165. ix 376: 115; ix 563: 120; ix 686: 87. x 136: 120; x 699: 120. xi 174: 95; xi 223: 17, 124; xi 229: 199. xii 67-69: 93. buc. 1, 13: 61; 1, 23: 59; 59-63: 235. 6, 3-4: 114; 6, 5: 239; 6, 82: 143. 8, 80: 195. 10, 1: 31; 10, 4: 787. geo. i 2: 209; i 45: 196. ii 81-82: 208; ii 165-166: 208; ii 221: 209; ii 388: 142; ii 462: 163; ii 483 sgg.: 142; ii 490: 162. iii 42-43: 143; iii 231: 160; iii 349-383: 52; iii 367 sgg.: 51; iii 515: 196; iii 547: 94. iv 125-127: 179; iv 176: 59; iv 410: 123. vitrvvivs viii 3, 5: 208. xenophon oec. 7, 14: 55.

Indice degli autori moderni

INDICE DEGLI AUTORI MODERNI A dams J. N., 249. Ailloud H., 247. Akrigg M. A., 242. Albini U., 247. Allen Ch., 113, 249. Amann M., 184, 2498. Anderson W. S., 211, 249. André J., 31, 32, 53, 74, 91, 93, 112, 137, 139, 166, 200, 206, 220, 225, 239, 241. Arrighetti G., 92, 245. Audano S., 70, 233, 249. Augé M., 140, 249. Austen J., 15. Axelson B., 55, 64, 93, 249. Axtell H. L., 181, 249. B aca A. R., 143, 249. Baeza Angulo E. F., 54, 55, 70, 242, 249. Baldo G., 123, 196 228, 242, 248. Barchiesi A., 16, 19, 23, 33, 67, 68, 73, 90, 98, 122, 125, 126, 128, 165, 220, 243, 249, 250. Barelli E., 242. Barrett A. A., 11, 67, 68, 74, 249. Barry M. I., 244. Basore J., 128. Batty R. M., 249. Bauman R. A., 249. Bechet F., 93, 249. Benedum J., 20, 176, 177, 181, 249. Berg A., 74. Bernhardt U., 59, 61, 68, 249. Berrino N. F., 77, 121, 213, 249, 257. Bertini F., 242, 250. Bevegni C., 247. Bews J. P., 230, 250. Biondi G. G., 11, 247. Block E., 230, 250. Boemer F., 67, 243. Boissevain U. Ph., 245. Bonvicini M., 34, 50, 73, 230, 231, 243, 250. Bordigato C., 112, 120, 250. Bornecque H., 111, 242, 245. Braccesi L., 249. Brescia G., 66, 146, 250. Bretzigheimer G., 250. Brink Ch. O., 222, 240, 246. Brodskij I. A., 19. Broege V., 250. Brugnoli G., 250.

Buecheler F., 89, 245, 247. Buescu V., 54, 250. Buono V., 70. Burnikel W., 194, 250. Butrica J., 208, 209, 250. Bywater I., 235, 244.

C alcante C. M., 240, 245.

Calzecchi Onesti R., 246. Camps A., 197. Canali L., 18, 27, 148, 243, 244, 247. Canfora L., 250. Cantarella R., 248. Canter H. V., 52, 119, 250. Capriolo E., 62. Carena C., 142, 246. Casali S., 250. Càssola F., 116, 246. Caston R. R., 62. Cavalli M., 244, 248. Cavarzere A., 140, 244. Chantraine P., 247. Chiarini G., 16, 116, 243. Chwalek B., 250. Ciccarelli I., 178, 183, 247, 250. Cipriani G., 250. Citroni M., 142, 185, 225, 250, 259. Citroni Marchetti S., 55, 56, 58, 59, 65, 70, 75, 76, 88, 99, 124-125, 250. Claassen J.-M., 18, 26, 30, 50, 53, 56, 58, 62, 69, 72, 87, 88-89, 90, 109, 110, 112, 113, 122, 146, 147, 149-150, 150, 178, 180, 183, 184, 186, 199, 235, 250, 251. Codino F., 246. Colakis M., 30, 65, 68, 70, 251. Conte G. B., 181, 246, 248, 251. Conway R. S., 246. Corbellini A., 197, 200, 251. Costa C. D. N., 21. Cova P. V., 251. Cristante L., 59, 125, 242, 251. Cucchiarelli A., 21, 70, 248, 251. Cugusi P., 180, 251. Cunningham M. P., 251. Curtius E. R., 124, 251. Cutolo P., 251.

D ’Alessio G. B., 167, 244. Damsté P. H., 251.

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indice degli autori moderni

Dan A.-C., 49, 92, 251. Danesi Marioni G., 109, 251. Davies M., 245. Davisson M. H. T. 48, 50, 55, 56, 57, 59, 62, 68, 75, 76-77, 86, 119, 176, 187, 251. De Caro A., 66, 252. Deferrari R. J., 244. Degl’Innocenti Pierini R., 16, 23, 27, 33, 69, 89, 91, 94, 110, 128, 146, 181, 184, 187, 211, 222, 252. Dehon P.-J., 252. Del Corno D., 248. D’Elia S., 64, 252. della Corte F., 12, 109, 150, 152-153, 176, 183, 206, 241, 244, 248, 252. Delvigo M. L., 226, 252. De Santis A., 227. Dessì F., 247. De Vivo A., 137, 151, 252. Diano C., 48, 76, 248. Di Benedetto V., 246. Diehl E., 199. Diels H., 142, 246. Diggle J., 93, 248. Di Giovine C., 198, 252. Dilke O. A. W., 21. Dimundo R., 247. Dionigi I., 139. Di Spigno C., 244. Doblhofer E., 227, 234, 252. Doerrie H., 17, 93, 111, 120, 124, 242. Draeger A. A., 96, 161, 252. Drucker M., 201, 252. Dutoit E., 252. Dziatzko K. F. O., 21.

E ck W., 119. Ehlers W.-W., 25, 252. Ehrenberg V.- Jones A. H. M., 67, 252. Ehwald R., 148, 152, 241, 252. Ellis R., 244. Enk P. J., 21, 74, 200, 229, 252. Ernout A., 246, Evans H. B., 20, 49, 50, 60, 77, 176, 177, 181, 185, 206, 208, 220 233, 234, 240, 252. Ezquerra A. A., 24, 51, 252. F abrini P., 246.

Faggi V., 247. Falcone M. J., 99. Fantham R. E., 99, 136, 253. Faraci F., 141, 146, 209, 253. Farrell J., 176, 253. Fasce S., 12, 24, 241, 253.

Fausti D., 245. Fedeli P., 17, 50, 56, 115, 125, 142, 147, 148, 196, 229, 239, 242, 244, 246, 247, 253. Ferrari F., 93, 248. Festa N., 59. Fish J., 61, 253. Fitton Brown A. D., 24, 51, 233, 253. Flores E., 92, 126, 143, 245. Focardi G., 27. Fordyce Ch. J., 244. Formicola C., 11, 35, 227, 248, 253. Fraenkel H., 23, 57, 253. Fraschetti A., 253. Frécaut J.-M., 64, 200, 253. Froesch H. H., 20, 21, 31, 32, 34, 48, 73, 206, 220, 234, 253. Fucecchi M., 243.

G abba E., 237, 253.

Gaertner J. F., 24, 48, 88, 139, 185, 220, 222, 241, 242, 249, 253. Gagé J., 181, 253. Gagliardi R., 212. Gahan J. J., 253. Galasso L., 18, 27, 31, 32, 62, 77, 97, 115, 147, 151, 152, 160, 165, 166, 177, 181, 183, 194, 206, 232, 237, 242, 244, 247, 253, 254. Galinsky K., 112, 254. Gardini N., 244. Gehman H. S., 254. Gallo I., 15, 249. Gazich R., 252, 253, 259. Geyssen J., 112, 235, 254. Ghedini F., 24, 254. Gibson R. K., 240, 254. Gildenhard I., 99, 254. González Iglesias J. A., 18. González Ovies A., 235, 254. Goold G. P., 51, 241, 242, 243. Graf F., 49, 254. Grebe S., 23, 53, 168, 183, 254. Green P., 183, 198, 220, 242. Griffin J., 254. Groff C., 19. Guizzi F., 244.

H all J. B., 59-60, 243, 254.

Hanslik R., 100. Hardie Ph. R., 53, 67, 71, 110, 111, 112, 126, 149, 181, 238, 243, 254. Harries B., 127, 254. Harrison S. J., 124, 127, 254. Hellegouarc’h J., 89, 176, 254. Heinsius N., 58, 232.

indice degli autori moderni Helzle M., 13, 29, 32, 33, 48, 53, 56, 57, 144, 145, 146, 162, 207, 211, 212, 220, 222, 231, 239, 241, 242, 254. Henderson A. R., 243. Hendry M., 208, 254. Herescu N. I., 11, 254. Hermann L., 254. Heyworth S. J., 50, 247. Higham T. F., 254. Hinds S., 113, 227, 254. Hofmann H., 24, 255. Hollis A. S., 255. Holzberg N., 255. Horváth I. K., 255. Housman A. E., 229, 255. Houston D., 19. Howe G., 58, 254. Huskey S. J., 254. Hutchinson G., 196, 247.

I ngleheart

J., 91, 96, 99, 100, 109, 235, 243, 255. Iodice Di Martino M. G., 153, 233, 241, 255. Irigoin J., 255. Izzo D’Accinni A., 245.

J ansen L., 232, 234, 238, 239, 255.

Johnson P. J., 19, 64, 68, 74, 255. Jouan F., 248.

K elly G. P., 23, 255.

Kenney E. J., 19, 53, 64, 69, 109, 120, 125, 127, 184, 197, 242, 243, 255. Kerényi K., 255. Kirfel E. A., 161, 255. Knox P. E., 143, 255. Koch L., 16, 208, 243. Korn O., 241. Kossaifi Ch., 177, 255. Koster S., 255. Kranz W., 142, 246. Kraus W., 152, 255. Krevans N., 220, 255. Kühner R.-Carl Stegmann C., 52, 200, 255. Kunst Ch., 255. Kuttner A., 67, 255.

L abate

M., 56, 63, 70, 71, 73, 74, 119, 187, 255256. Labre Ch., 237, 238, 256. La Bua G., 78, 256. Lambrino S., 255. Lanciotti S., 247. Landolfi L., 113, 256. Lanza D., 247.

273

La Penna A., 15, 184, 186, 245, 256. Larosa B., 56, 60-61, 61, 63, 70-71, 74, 75, 76, 120, 184, 242, 256. Lazzarini C., 128, 226, 243, 247. Leary T. J., 184, 256. Lechi F., 62, 64, 73, 111, 112, 243, 255. Lee A. G., 232, 255. Leeman A. D., 234, 256. Legrand Ph.-E., 245. Lenaz L., 240, 246. Lenz F. W. [Levy], 142, 241, 243. Leto G., 238, 242. Leumann M.- Hofmann J. B. - Szantyr A., 55, 56, 140, 256. Lindsay W. M., 246. Little D., 24-25, 256. Loefstedt E., 256. Lo Gatto E., 19. Lòpez Cañete Quiles D., 111, 256. Lotito G., 247. Lozovan E., 256. Luck G., 30, 32, 61, 63, 73, 149, 152, 186, 220, 241, 243, 256. Luisi A., 12, 69, 77, 121, 160, 213, 256, 257.

M alaspina E., 63, 257.

Manferlotti S., 62. Mantzilas D., 257. Manzo A., 257. Marache R., 257. Marchesi I., 239, 257. Marg W., 257. Marin D., 257. Mariotti S., 242, 257. Marshall A. J., 257. Marshall P. K., 245. Martelli F., 233, 257. Martin B. K., 51, 114-115, 257. Martin E. W., 16, 112, 257. Martin R. H., 248. Mastino I., 237, 257. Mattioli U., 18. Mayer R., 21, 34. Mazon P., 76. McCallum-Barry C., 257. McGowan M. M., 149, 177, 257. McGuire M. R. P., 244. McKeown J. C., 55, 71, 113, 138, 165-166, 229, 230, 242. Medda E., 247. Melville A. D., 243. Merkel R., 241. Merkelbach R., 245. Merli E., 144, 166, 223, 228, 257.

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indice degli autori moderni

Meyer G., 247. Michelfeit J., 257. Millar F., 257. Miller J. F., 136, 257. Miller R. A., 115, 257. Mirto A., 183, 257. Montiglio S., 26, 257. Mordine M. J., 257. Morello R., 240, 254. Moreschini C., 246. Mori E., 247. Morwood J. H. W., 50, 247. Munari F., 242. Murgatroyd P., 194, 248.

Pingoud J., 238, 258. Pinotti P., 18, 221, 243. Pippidi, D. M., 258. Pizzolato L., 99, 258. Platnauer M., 65, 229, 258. Podossinov A. V., 25, 258. Pomeroy S., 65, 258. Posani M. R., 248. Poussin N., 113. Prato C., 247. Prinz K., 258. Privitera G. A., 246. Puccini-Delbey G., 61, 121, 258. Puškin A.S., 19.

N agle B. R., 20, 30, 49, 53, 54, 56, 63, 65, 69,

Q uesta C., 246.

115, 118, 128, 139, 145, 146, 167, 178, 211, 222, 225, 235, 258. Nandini B. Pandey, 152, 258. Narducci E., 244. Nawijn W., 245. Némethy G., 58, 64, 241. Newlands C. E., 68, 258. Newman J. K., 258. Nicastri L., 15, 149, 185, 249, 258. Nicolai W., 258. Norden E., 74. Norwood F., 212, 258. Novella C., 62.

O ’Hara J., 258. Oliensis E., 71, 177, 258. Otis B., 258. Ottaviano S., 248. Otto A., 195, 258. Owen S. G., 91, 124, 139, 152, 241. P aduano G., 76, 244.

Page D., 222. Palmer A., 17, 111,120, 124, 222, 242. Palmer L. R., 258. Paratore E., 11, 246, 258. Pattoni M. P., 247. Pérez Vega A., 34, 35, 50, 53, 59, 91, 139, 148, 195, 206, 207, 220, 225, 233, 237, 241. Perutelli A., 258. Peter H., 240. Peters F., 200, 258. Pfundstein J. M., 208, 209, 258. P.H.D., 258. Pianezzola E., 167, 184, 242, 258. Pichon R., 55, 61, 139, 141, 165, 258. Picone G., 258. Pighetti L., 247.

R adulescu A., 12, 259.

Rahn H., 259. Ramous M., 246, 248. Rand E. K., 258. Ransmayr Ch., 19. Rauh N. K., 89, 259. Reale G., 199, 246. Reed J. D., 243. Reynolds L. D., 34, 128, 247, 260. Ribbeck O., 248. Richmond J. A., 31, 34, 35, 50, 51, 53-54, 58, 74, 91, 96, 139, 142, 195, 206, 232, 234, 241, 259. Riese A., 232, 247. Robin L., 246. Rodriguez-Pantoja M., 18. Romano E., 15, 246. Rosati G., 16, 65, 71, 116, 231, 238, 242, 243, 259. Roscalia F., 247. Rosenmeyer P. A., 34, 259. Rosiello F., 124. Roussel D., 136, 259. Rowe G. O., 259. Rusca L., 245, 246. Russo J., 246. Ruta A., 18.

S alvadori E., 242.

Santini C., 259. Scàndola M., 246. Schiesaro A., 259. Schilling R., 243. Scholte A., 112, 225, 241. Schreuders O., 259. Schubert W., 259. Scivoletto N., 243.

indice degli autori moderni Scott K., 67, 88, 259. Seeck G. A., 109, 259. Shackleton Bailey D. R., 58, 69, 162, 181, 233, 244, 247, 259. Skutsch O., 92, 126, 143, 245. Slavitt O. and D., 77, 241. Smilda H., 245. Smith E. M., 112, 120, 259. Socas Gavilán F., 48, 241. Solodow J. B., 56, 259. Sontag. S., 62. Staffhorst U., 50, 52, 55, 62, 63, 65, 66, 75, 77, 87, 89, 91, 83, 96, 98, 109, 117, 122, 124, 206, 241. Standford W. B., 259. Stevens B., 52, 259. Stocchi Ch., 234, 259. Stok F., 243, 250. Storchi Marino A., 117, 259. Stroh W., 73, 236, 259. Sumner G. V., 67. Sykutris J., 21. Syme R., 32, 33, 34, 48, 61, 62, 86, 99, 100, 109, 127, 136, 137, 150, 151, 161, 181, 184, 206, 207, 220, 234, 239, 259, 260. Syndikus H. P., 73, 244.

T arrant R. J., 34, 260. Thakur S., 67, 125-126, 150, 260. Thomas R. F., 142, 208, 248, 260. Terreni C., 260. Tissol G., 29, 48, 71, 139, 177, 229, 235, 241, 242. Tissoni G. G., 15, 245.

275

Tola E., 70, 260. Tomasco D., 143-144, 245. Tonelli A., 48, 248. Tosi R., 163, 260. Traglia A., 113, 244. Traina A., 27, 247, 248.

V ahlen I., 92, 126, 143, 245. Vedaldi-Iasbez V., 260. Vial H., 56, 76, 260. Viansino G., 247. Vicaire P., 246. Videau-Delibes A., 260. von der Mühll P., 246. W agner R. A., 244.

Walters C. F., 246. Watson P., 260. West M. L., 61, 116, 245, 248, 260. Wheeler A. L., 74. White H., 52, 260. Wieland H., 231, 260. Wilkinson G. A., 78, 260. Wilkinson L. P., 48-49, 260. Williams G. D., 53, 119, 120, 168, 211, 222. 227, 233, 244, 260. Willige W., 32. Wlassak M., 164. Woodman J., 247.

Z anatta M., 244, 248. Zanetto G., 248. Zanker P., 121, 260. Zissos A., 99, 254.

c o mp osto i n car atter e serr a m a nu zi o da l l a fabr i z i o ser r a edi tor e , p i s a · r o m a . i mp r esso e r i lega t o da l l a t ipogr afi a di agnano, agna no p i s a no (p i s a ) .

* Giugno 2017 (cz2/fg13)

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BIBLIOTECA DI «VICHIANA» * 1. P. Ovidio Nasone, Epistulae ex Ponto, libro iii, introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Crescenzo Formicola, 2017.