Opere. Il bacio del lebbroso - Destini - Groviglio di vipere - Vita di Gesù

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Opere.  Il bacio del lebbroso - Destini - Groviglio di vipere - Vita di Gesù

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Scrittori del mondo: i Nobel

La UTET ringrazia il Club degli Editori che ha ideato que­ sta collana nonché le Case Editrici che ne hanno consentito la realizzazione concedendo i diritti e le traduzioni delle opere pre­ scelte per la pubblicazione.

François Mauriac

1952

FRANÇOIS MAURIAC

Λ

üV Unione Tipografico-Editrice Torinese

François Mauri x 1952

FRANÇOIS MAURIAC

nV Unione Tipografico-Editrice Torinese

I

Edizione speciale della UTET per concessione del Club degli Editori e della Arnoldo Mondadori Editore © 1930 by F.lli Treves-Aldo Garzanti Editore © x933> T932> T937 by Arnoldo Mondadori Editore

Le opere

IL BACIO AL LEBBROSO DESTINI GROVIGLIO DI VIPERE VITA DI GESÙ

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François Mauriac

Chi ha imparato a conoscere Mauriac in questi ultimi anni, leggendolo puntualmente settimana per settimana sull’«. Express » prima e sul « Figaro littéraire » dopo, può anche essersi chiesto le ragioni del Nobel o può essere stato indotto a pensare che in lui il moralista avesse di gran lunga il sopravvento sullo scrittore libero, sull’inventore e sul romanziere. D’altra parte il sospetto sarebbe giustificato, ma diciamo subito che si tratta di un equivoco e che le due immagini convivono natural­ mente, senz’alcun dissidio, quasi senza uno sforzo av­ vertibile. In Mauriac c’è un fronte unico che si è mani­ festato, volta per volta, secondo le esigenze del tempo, senza per questo costituire dei mondi separati ma al contrario riuscendo a volgere l’intera figura secondo un modo di lettura quanto mai libero e necessario. Ma vediamo come stanno le cose. Per nascita Mauriac appartiene alla grande famiglia degli scrittori borghesi che hanno arricchito la letteratura francese con il contribu­ to delle abitudini provinciali e con l’apporto di una visio­ ne profondamente legata alla tradizione cattolica. Per una larga parte della sua esistenza questo fondo ha funzio­ nato da controcanto allo spettacolo del mondo, in par­ ticolare a quel tanto di spettacolo che la sua natura riu­ sciva a ricavare dai soggiorni parigini. La “triste Bor­ deaux” - a ben guardare — non si è ancora spenta oggi

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nel cuore e nella fantasia dello scrittore che avanza ver­ so la vecchiaia piena e assoluta ma stiamo attenti a non confondere queste radici con delle cadenze letterarie, con delle sfumature crepuscolari. Non che il giovane Mau­ riac non le abbia avvertite ma, sin da principio, il suo giuoco è stato estremamente serrato, a giri stretti, dove non rimaneva nessun margine per la divagazione o, ad­ dirittura, l’evasione. Si vuol dire che ciò che per molti altri è stato uno strumenti di fuga, lo stimolo per ac­ cendere il fuoco di una poesia legata ai fatti e agli avvenimenti, in Mauriac aveva sempre un suono molto profondo e subito lo ha portato a valutare il grande tema della sua vita. Del resto, nel corso della sua lunga vita si nota quasi naturalmente questa soluzione dei vari problemi nell’unico tema, che è quello della salvezza. Bordeaux, la campagna delle Lande, il mare, i pini, la casa paterna, tutti questi diversi scenari si dissolvono in un’unica domanda che vale per il futuro come per il passato, se è vero che anche oggi nei ritorni alla casa di Malagar Mauriac porta la stessa sensibilità dell’ado­ lescente nell’interrogare le ombre, nel risuscitare il pas­ sato con il suo carico di colpe e di peccati. La poesia c’è in tutte queste occasioni ma per quanto penetrante e ricca di umori, anch’essa vacilla e scompare al mo­ mento di levare ancora una volta la voce che chiede: quale sorte ci è stata riservata? che volto avrà alla pne il nostro Dio? In altre parole, nulla è mutato dalla parte della valutazione morale e dovremmo anzi dire di più, cioè che Mauriac è nato con questo peso della visione cristiana della vita e non gli è mai riuscito dì liberar­ sene. Se poi avessimo bisogno di una conferma al pro­ posito, basterebbe esaminare il suo comportamento come romanziere e come commentatore, per cui noi assistiamo a una lettura ancorata a certe leggi della religione e

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nello stesso tempo libera al momento delle soluzioni. Mauriac dice: le cose stanno così, da una parte c’è il bene, dall’altra il male e in mezzo ci sono gli uomini, ci siamo noi, prima di tutto ci sono io. Di qui il peso straordinario dato all’intervento personale, alla parte di sangue diretto che ciascuno di noi immette nelle cose del mondo ma subito dopo nessuna apertura di credito alle soluzioni miracolose, a un rimedio assoluto ed è così che il romanziere, che in luì è soprattutto uno scru­ tatore del cuore umano, all’ultimo momento riprende il sopravvento e lascia il discorso aperto, quel discorso che l’ultimo Mauriac a rigore dovrebbe concludere e fis­ sare. Detto questo, è fin troppo chiaro da dove nasca in luì il profumo segreto delle sue letture del mondo, dove tragga nutrimento lo stimolo poetico che nessuna delusione è riuscita a spegnere o a camuffare. Così come il suo spirito con gli anni non ha perduto nulla o ben poco della sua facoltà di strappare con due movimenti il senso della realtà, allo stesso modo la sua fantasia ha bisogno di pochissime luci per riaccendersi e bru­ ciare. E questa è un’altra prova della felice convivenza dello scrittore e del moralista. Del resto, ci sarà più facile capirla se tutte le volte sapremo ricordarci che alla base di ogni suo movimento c’è uno scatto, un fre­ mito, il segno di quella straordinaria capacità di bruciare dentro di sé la realtà apparente delle cose per aprire la strada alla sola domanda che lo interessa, che lo distin­ gue da tutta l’altra letteratura del secolo. Naturalmente il primo movimento Mauriac lo ha tratto dalla valu­ tazione del tempo, uno dei suoi primi libri è un libro di versi e non si intitola a caso, Adieu à l’adolescence. Se lo dovessimo giudicare con gli strumenti che la critica ci mette in mano, la fatica sarebbe di molto ridotta: nelle poesie di Mauriac la prudenza sembra travolgere

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tutte le altre possibilità ma si tratta soltanto di prudenza? A mio giudizio, bisognerebbe mettere l’accento sulla par­ te dei legami che è preponderante, sull’impasto dei sen­ timenti e infine su un minimo di compiacenza che l’età giustifica insieme all’indicazione del gusto corrente. Il poeta fu scoperto da Barrés e il fatto va ricordato qui non tanto per rispetto della verità storica o per dare il senso di un clima che l’imminente prima guerra avreb­ be annullato per sempre. No, se qui riportiamo il nome di Barrés è perché il rapporto ci fa comodo e ci aiuta a separare sAbito il Mauriac dal resto di una famiglia a cui per ragioni di comodo troppe volte è stato avvi­ cinato. Intanto va detto che la formazione di Mauriac è av­ venuta nel segreto di una tipica famiglia ricca di pro­ vincia e le uniche testimonianze che abbiamo sono testi­ monianze poetiche, cioè quelle che la passione dello scrittore ha scelto e voluto conservare. Ci manca un documento come è per esempio quello di un suo vicino e coetaneo, il Rivière, il quale nel lungo discorso intes­ suto con Alain Fournier ci ha lasciato fra l'altro una ricchissima notizia su un’educazione borghese a livello medio. Ora anche se si stabiliscono dei raffronti fra il giovane Rivière e il giovane Mauriac si vede che certi nomi hanno avuto lo stesso peso per tutt’e due (Barres naturalmente, Francis fammes...) ma il confronto resta ben presto bloccato e per Mauriac ci troviamo costretti a muoverci al buio e a mettere l’accento sulla parteci­ pazione più che sulla parte della definizione. Si potrebbe rispondere all’obiezione che anche Mauriac è stato cri­ tico. Ma di quale critica? O meglio, la sua critica non obbediva prima di tutto a una preoccupazione di ordine morale? Cercate quello che ha scritto su Pascal o su Flaubert e — ecco l’argomento che risolve la questione -

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cercate gli scritti di teorìa, sull’arte del romanzo e ve­ drete che il punto di partenza è e rimane sempre lo stesso. L’uomo di fronte a Dio. Tutto il resto c’è e a volte avvolto in una musica dilaniante e disperante ma già condannato, già perduto in partenza. Si direbbe che da giovane il Mauriac si sia abituato a mordere questa radice amara, questa parte di veleno che c’è nelle nostre passioni e nei nostri sentimenti con una specie di rab­ bia. Beninteso, una rabbia contenuta, ancora segreta che si tradisce soltanto in rarissimi momenti e poi viene subito riassorbita in una nuova domanda, che è rasse­ gnazione, che è soprattutto pacipcazione. Questo ci aiuta a capire come il critico a un certo momento sia stato sostituito dal polemista: in tutt’e due i casi era sempre la spinta della domanda che lo dominava. I tempi erano fissati dall’urgenza con cui le cose gli si presentavano. E qui vale la pena di notare una curiosa contraddizione: il romanziere si stacca dal primo fondo nell’ambito del­ le folgorazioni, Le Baiser au lépreux è molto più secco e rapido di Thérèse Desqueyroux e, inutile osservarlo, della Fin de la nuit, il critico o lo scrittore di moralità parte con lentezza, con agio e di colpo si trasforma in critico. Come si spiega questo apparente rovesciamento? Direi che la storia del romanziere - che del resto, come sì sa, finisce quasi del tutto con la seconda guerra tradisce una volontà di più larga interrogazione delle cose. Non che Mauriac dubiti delle ultime soluzioni, se è vero che per lui ogni storia si blocca sulla prima domanda, soltanto è portato dall’esperienza a interrogare meglio e più a lungo i dati della realtà, insomma il ro­ manziere, nonostante tutto, appare dotato di una mag­ giore pietà o, più semplicemente, di una pietà che il commentatore diretto delle cose della vita crede dì non dovere usare.

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Ma torniamo a Rivière ancora per un momento e pen­ siamo alle rispettive soluzioni spirituali. Per Rivière si parla, anzi si deve parlare di un cammino tortuoso e tormentato, per Mauriac anche questa parte delle diffi­ coltà rientra nel libro segreto della sua formazione. In Rivière si entra e si riesce a seguire un dialogo, dove la parte dell’uomo è illuminata a giorno e nei minimi particolari. Chi ha letto le pagine di A la trace de Dieu sa di quale fede si debba parlare per Rivière, di quale cristianesimo, in quanto tutto è esposto, dibattuto, esa­ minato e, nei nostri limili, risolto. Ma per Mauriac? Quali soluzioni ha avuto il suo cattolicesimo, quali con­ trazioni o dilatazioni? La sua è una storia di gridi, di aneliti e di cupi rivolgimenti interiori. Ne sappiamo qualcosa dai suoi personaggi, anche se per loro vale la regola del silenzio. Non diremmo ad ogni modo per il suo caso la parola di Flaubert, in quanto non c’è nes­ sun personaggio nato dalla sua fantasia che lo sposi o ci autorizzi a deviazioni o ad assorbimenti. In ogni mo­ mento il lettore avverte il distacco e, per quanta parte­ cipazione o sofferenza ci possano essere in quelle letture, la figura di chi racconta resta sempre riconoscibile: anzi direi che tanto più lo scrittore si nasconde o vuol na­ scondere la sua voce, tanto più si avverte la sua pre­ senza o la presenza delle sue domande, che è poi la stessa cosa. C’è, lo ripetiamo, una libertà che uno scrit­ tore cattolico di solito non possiede o non crede di dover difendere. Per riportarci alla tradizione dell’ulti­ mo ottocento o del primo novecento, gli altri romanzieri cattolici obbediscono, bene o male, alla volontà dimo­ strativa e non sono disposti a non suggerire, a non trovare delle risposte per i loro personaggi. Mauriac non suggerisce mai, ma proprio nel momento in cui coglie la soluzione evidente del dramma, traccia la parte del-

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l’ombra. Un’ombra concreta, prepotente, tutto il contra­ rio delle suggestioni romantiche e qui si passa alla defi­ nizione: con quali ombre compone i suoi romanzi? In­ tanto c’è una parte di eco, vale a dire i fatti che pure sono così brutalmente stretti e piegati davanti al lettore non si esauriscono mai in se stessi, continuano, così co­ me venivano da lontano e per una grossa parte si erano svolti al di fuori del nostro sguardo. Ma questa è la parte dell’eco naturale, vale a dire una parte che am­ mette soluzioni umane, importante quanto si vuole ma estremamente esigua se passiamo a confrontarla con quella di Dio, del Dio che non si nomina ma che sta dietro il narratore, il creatore. Quando Sartre nel 1938 mosse guerra a Mauriac romanziere e lo accusò di di­ sporre volgarmente della sorte e dei gesti dei suoi per­ sonaggi, commise un errore: era proprio il contrario. Se Sartre avesse guardato bene come stavano le cose e quale fosse la dialettica di Thérèse o di qualsiasi altro protagonista mauriacchiano avrebbe capito che tutti erano sullo stesso piano: protagonista, narratore e Dio. In tal caso, il narratore ha solo la funzione del presentatore ma un presentatore senza voce o che, tutt’al più, alla voce ha sostituito una specie di tremore, di attesa, di amoroso riguardo. L’arte del romanzo sopporta in Mauriac una forte con­ trazione di quelli che fino allora erano stati considerati i buoni diritti del romanziere: alla capacità di strappare il senso della realtà alle cose Mauriac contrapponeva un lungo momento di attesa, di sospensione, in cui tutto poteva accadere o rinnovarsi su altre basi. Siamo quindi molto lontani da Flaubert che porta la maschera dell’as­ soluta obiettività ma non riesce a nascondere il fuoco dei suoi interessi e quindi il suo grido: Madame Bo­ vary, c’est moi va inteso come una conferma della sua

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attitudine all’intervento e non ci vuol molto a capire che tutti i suoi personaggi godono di questo privilegio d’intervento: tutti hanno una medicina per salvare il mondo. In Mauriac non si rintracciano più di queste certezze personali, anzi, caso mai, i suoi personaggi po­ trebbero essere chiamati col nome di vittime se dietro — come si è detto - non ci fosse l’ombra di Dio, di chi ha in mano la chiave di questa e di tutte le altre storie. In Mauriac conta l’atteggiamento e conta la disposizione con cui si piega sul personaggio di cui intende raccon­ tare la storia “o sul fatto che vuole soltanto rappresen­ tare. Non è più la posizione del poeta o lo è se la limi­ tiamo al fondo e vi aggiungiamo tutto quello che non sappiamo della sua seconda stagione e che coincide con gli anni della guerra. Dalle poesie al Baiser passano poco più di dieci anni ma il Mauriac di quella prosa bruciata è inconciliabile con l’uomo delle infinite inter­ rogazioni dell’addio. Soltanto che anche per questa im­ magine ci ritroviamo con le stesse difficoltà, non sap­ piamo e siamo costretti a misurare la trasformazione sen­ za alcun sussidio di ordine critico. Certo il mondo si è allargato e, quel che più conta, si è intensificato: Mauriac ha strappato le radici dal mondo della sua pri­ ma storia terrena e è approdato a Parigi. Non muta lo scenario che d’altronde continuerà a restare quello di sempre: la provincia è l’altro grande dato della sua storia di scrittore. Per Rivière il passaggio non è avvertibile perché si trattava del mondo delle idee e della poesia astratta. Qui per Mauriac il passaggio è avvertibile per­ ché il mondo della realtà ha funzionato da catalizzatore, facendo precipitare su un fondo eterno quelle che erano le vicende analizzate sin dal tempo della provincia. La città agisce su chi viene dalla provincia a leggere il mondo in due modi: o si nota un distacco netto, aperto

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e allora tutte le radici sono trapiantate o apparentemente nulla si rompe e la lettura della realtà viene patta per conpronti, per sovrapposizione. Questo secondo caso è quello di Mauriac, la provincia lo ha dipeso, lo ha pro­ tetto, se volessimo servirci di un’immagine diremmo che gli ha consentito di non bruciare con la materia di cui si apprestava a registrare le traspormazioni e la morte. Ma di quale provincia si tratta? Non certo di un capi­ tale di abitudini, di leggi morali, di ripetizioni e nep­ pure di un mondo poetico: nell’un caso e nell’altro Mau­ riac procede con uguale spietatezza, appenda il bisturi e mostra intorno i pochi brandelli di carne che abbiano ancora un riperimento con la figura umana. No, la sua provincia è l’abitudine a rimuginare le cose, a lasciarle cadere sul pondo della memoria, così come è la prudenza nei riguardi dei colori e dei suoni, insomma è il con­ trario dell’esteriore, di tutto ciò che contribuisce alla demolizione meccanica dell’uomo. Naturalmente questo peso comporta una contropartita, perché l’abbiamo già detto non c’è in lui alcun compiacimento crepuscolare o nessuna illusione, per cui un mondo contrapposto al­ l’altro sarebbe migliore o peggiore. No, l’uomo è sem­ pre ricondotto in lui allo stato naturale mentre cambia la pacoltà di comprenderlo, quella tale disposizione a piegarsi su di lui per coglierne l’infinita miseria, il segno del riscatto. Sono parole grosse e vanno adoperate con estrema prudenza, tanto più che il mondo normale di Mauriac è soffocato dalla nebbia e gronda tristezza, san­ gue, delitto come salvezza: un mondo in cui non entra nessuna dottrina. Caso curioso per uno scrittore che passa per cattolico, un mondo in cui non entra neppure nes­ suna pacoltà di salvezza e dove invece tutto è rimandato ancora una volta, e questo perché il romanziere è un operaio limitato, condizionato, vinto in partenza.

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Negli stessi anni della grande fioritura di Mauriac romanziere, un grande scrittore del tempo, il Gide, tentò di dare una dimostrazione del romanzo libero con Les Faux-Monnayeurs ma il risultato lasciò molto perplessi. Il romanzo di Gide - tanto più se lo confrontiamo a quello di Mauriac - è tutto prestabilito o basato sulla negazione dell’idea del preordinato e del logico. Gide si serviva liberamente della realtà pno al punto di ino­ cularvi il pregiudizio dell’anarchia e naturalmente era sempre lui a fare da arbitro, regolando gli interventi e le reazioni dfi suoi personaggi. Prendete Thérèse che pure resta uno dei personaggi più caratterizzati di Mau­ riac, quasi da dover dire che è il protagonista ideale del suo mondo, ebbene con lei non si esce mai dal cerchio delle possibilità, per cui il mistero sopraffà la realtà pno a distruggerla come tessuto, beninteso non come aria, come condizione. E le passioni? Qui non c’è dubbio che il moralista ha aiutato il romanziere ma l’affermazione va controllata nel senso giusto. Non che Mauriac applichi le sue specula­ zioni, le preoccupazioni religiose al mondo della fan­ tasia, tanto meno quelle che egli chiama le sofferenze e le gioie del cristiano. No, egli soltanto non ammette che i suoi personaggi siano esonerati dal pagare di per­ sona l’esperienza delle passioni. La passione ha, dunque, in luì tutto il peso che i romanzieri della tradizione le hanno assegnato ma con qualcosa in più ed è il dato della piena autonomia di queste passioni. Pensate a quel­ lo che non riesce a fare dell’avarìzia Balzac e avrete l’idea della « categoria »; ora per Mauriac questo non ser­ ve e le passioni restano allo stato puro, anche quando l’abbiamo visto precipitare le loro vittime sul passo del destino. Anche perché sono senza nome, così invischiate come appaiono in una particolare geografa dell’anima

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umana e soprattutto sono senza voie. Mauriac è un ro­ manziere che non toglie mai la sua materia dal luogo d’origine, anche quando vediamo che il suo coltello ta­ glia, porta brandelli, ebbene anche allora lavora con una massa unica, non scioglie la libertà dell’uomo dalla sua profonda schiavitù del mondo e delle cose. A volte tutto questo potrebbe lasciare pensare a un contrasto non risolto, a una specie di paradossale con­ traddizione ma non dimentichiamo che Mauriac non ha mai preteso per sé la posizione del primo lettore, del lettore guida. La sua attenzione non lo placa fino a con­ sentirgli la nascita di uno stato di « diversità ». Non è Thérèse ma nello stesso tempo partecipa dello stato di creatura e si sente soggetto alle stesse trasformazioni. Non dimentichiamo che la storia della sua donna nasce per una parte da un fatto di cronaca e che Mauriac cerca di avvicinarvisi non attraverso un lavoro di ricostruzione, come è stato quello di Flaubert e, in tutt’altro senso, quel­ lo dì Gide, ma attraverso il terreno della partecipazione e della pietà. Che — si badi bene — non è pietà nel senso cristiano ma puramente umana, quel tanto di pietà che ci è consentito dalle nostre capacità di libertà spirituale. La pietà nasce al momento di una felice contrapposi­ zione dell’anima alle cose. Il romanziere è schiavo per legge delle cose ed è chiamato a risolvere i diversi pro­ blemi che gli vengono proposti nel quadro delle nostre comuni conoscenze e per questo dì solito procede per sezioni; il romanziere in questo caso opera e sì sosti­ tuisce a Dio, rimandando a un altro momento la vera soluzione. Di qui il registro delle probabilità, di qui la coincidenza fra scrittore di romanzi e scrittore di mi­ steri letterari o di storie misteriose. In Mauriac la cro­ naca resta cronaca fino alla fine e non accetta interventi

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di nessun genere ma sin da principio è vista come im­ magine della storia, storia addirittura. Sous la couche épaisse de nos actes, notre âme d’en­ fant demeure, inchangée; l’âme échappe au temps. Si tratta, dunque, di recuperare questa parte intangi­ bile che è poi per Mauriac l’immagine stessa di Dio. Di qui la continua soluzione fra immagini di danna­ zione e di perdizione e immagini dì salvezza ed è ap­ punto la soluzione che consente l’intelligenza piena del­ l’uomo. La lettura di Mauriac insegne come primo scopo la ricostituzioni di questo elemento essenziale, del dato dì fondo. Poi prendono posto le passioni, legate ai fat­ ti, al peso del tempo. Il dialogo nasce a questo livello e permane nonostante tutto, anche nei momenti in cui ogni rumore interiore sembra impossibile e lo scrittore procede in un mondo di silenzio e di buio. Caso mai, il compito del romanziere acquista la sua vera dimen­ sione proprio in questi momenti di negazione o di sof­ focazione e Mauriac ha sempre cercato di lasciare nelle sue rappresentazioni un’apertura, la fessura della luce e del suono che ricostituisce la ragione umana. Ora se teniamo presenti questi elementi, non possia­ mo fare a meno di riconoscere alla lettura del roman­ ziere Mauriac un carattere drammatico e considerare tutta la sua opera come opera di un teatro superiore dove i grandi protagonisti sono ancora una volta l’uomo e Dìo. Dell’uomo rileva soprattutto due immagini, quella del giovane, quella della donna che poi sono altrettanti temi della sua opera drammatica. Il giovane come la creatura che sente di più l’impulso a vendemmiare la vita, a strappare, a godere delle cose e la donna come l’essere più soggetto all’opera di preda da parte degli altri. Ma fino a che punto queste due immagini capitali possono essere considerate attive, libere, autonome? Sem-

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brerebbe che in loro e quindi in tutti noi ci fosse una parte consistente di destino insuperabile per cui il male possa manifestarsi. Per Mauriac che obbedisce alla sug­ gestione pascaliana, questo limite è insuperabile e la pie­ tà non annulla, non sradica la pianta del male mentre tutto viene consegnato ancora una volta alla pietà di­ vina. La pietà di cui siamo capaci - ed è uno dei grandi motivi di Mauriac - ha un valore di soluzione poetica, è esca di meditazione, in quanto ci riporta alla comu­ nione, all’idea di famiglia ma non di più e quindi a Dio viene restituita la grande dignità di inventore del mondo. Non dimentichiamo però che accanto a queste immagini del male, a questi pori di dannazione Mauriac lascia crescere e parlare creature incontaminate, quasi a voler documentare l’importanza della scelta, la possibi­ lità di una prima e salutare vocazione. Si chiederà quale delle due famiglie ha avuto il sopravvento nella storia del romanziere, ebbene - senza per questo dare alla risposta un peso di assoluto — bisogna rispondere che il cuore di Mauriac batte soprattutto per Thérèse e non si tratta soltanto di indulgenza sentimentale. Thérèse do­ mina due libri, invade altri racconti, resiste insomma nella sua più vera memoria di uomo e deve essere ac­ colta come l’espressione più completa non soltanto della famiglia femminile ma del mondo tout court di Mau­ riac. Thérèse è la donna delle prime aspirazioni e della realtà, dell’addio alla giovinezza e della vita parigina, è la fusione naturale fra idea di provincia e idea di vita o, com’è stato detto bene, la sua forza è in propor­ zione diretta al capitale di solitudine che rappresenta. La solitudine non la porta soltanto nella corsa verso il mondo, la protegge anche nel momento della disgrazia, insomma la realtà non la tocca. Ecco un altro punto vi­ tale del romanziere Mauriac, il deserto, l’inferno na-

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scono su questo limite e dall’altra parte Thérèse risponde che nulla può infrangere questo recinto di dannazione, neanche l’amore umano, l’amore che ci appare solo come desiderio. Neanche il tempo, nel senso che il tempo interviene come conferma, riprova della parte del male che è in noi. Il male è una nozione fondamentale della visione mauriacchiana della vita e pochi hanno saputo come lui descrivere la presa di coscienza, l’aggancio del male den­ tro di noi. Da questa parte non esiste nessun’ombra: i suoi personaggi, Thérèse in testa, camminano a testa alta, dritti verso il loro destino. Senonché l’ombra è radicata nel sangue stesso della vita, per cui vivere altro non è che subire la lezione spietata del male. Mauriac illustran­ doci la natura della sua donna mette per l’appunto l’ac­ cento su questa fusione di notte e di vita, di colpa e di vita. Soltanto la morte alla fine ha una facoltà libe­ ratrice e riesce a sanare e a risolvere gli equivoci e i dubbi della nostra fragilità. Naturalmente questo peso fatale dell’ombra interiore esigerebbe per raggiungere una soluzione d’ordine umano il pentimento o per lo meno l’intervento del dolore ma qui il romanziere non si sente di accettare una spiegazione tanto semplicistica e ci mostra fino alla pne i suoi uomini chiusi fra pec­ cato e solitudine: il dolore stesso non matura mai in qualcosa di visibile, di sensibile e quindi di utile. Non ci si stanchi di mettere l’accento sull’importanza del male che Mauriac fissa in certe correzioni o devia­ zioni dei nostri sentimenti. Il male, per esempio nel dominio dell’amore, acquista quel carattere di separa­ zione insuperabile che fa degli uomini degli esseri ciechi. Destins, a questo riguardo, ci offre delle luci preziose. Quando Mauriac ci dice: (Elisabeth) ne savait pas ce que c’était que l’âme. Bob c’était un front, des cheveux,

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des yeux... non ja che ripetere con altre parole la defi­ nizione del peccato della carne, del peccato che al posto del Creatore pone la creatura. E in questo modo gli oggetti dell’amore non diventano simboli, sono il fuoco stesso, sono gli argini della divisione. Al termine di que­ sta corsa a solo, l’amore diventa pretesto di dannazione. Ancora delle parole rivelatrici: Elle croyait qu’on peut vivre en aimant et sans être aimé et que le patient amour finit pour recréer, par modeler selon ses vues l’être dont il fait ses complaisances... L’amore si trasforma ancora in corsa verso il nulla, tutte le volte che non resta sim­ bolo di comunione e di partecipazione sofferta. Senonché Mauriac non limita le sue indagini e le sue investigazioni al campo dell’amore fisico, ben sapendo che anche negli amori più santi si trova lo stesso veleno della separazione. Ed ecco che tocchiamo l’altro registro del romanziere Mauriac, il registro della famiglia. Inu­ tile dire che per questa parte ha giocato fortemente il peso delle prime memorie, il capitale di quelle che sono le nozioni naturali della nostra vita e nel suo caso, tutto il libro degli episodi provinciali di cui si è nutrito il primo tempo della sua esistenza. Mauriac ha seguito due modi di lettura: la prima che chiameremo la lettura di Thérèse, investe il mondo delle anime sole, di chi si perde nel corso della vita e con terrore vede come sia diffi­ cile o impossibile uscire dal margine dell’errore e del peccato. L’altro modo di leggere il mondo appartiene alla storia della società particolare in cui è nato, cre­ sciuto e vissuto fino alla giovinezza: leggere la storia delle famiglie è servito a Mauriac non tanto per alzare il velo su uno scenario separato e proibito, quanto per registrare i danni di certe correzioni che noi imponiamo a nostri sentimenti. In questi casi, il male è nascosto, protetto o addirittura chiuso nel cuore del bene appa-

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rente, della tranquillità borghese. Così nasce l’interprete e lo studioso dei grovigli di vipere. Il romanziere mo­ difica perfino i suoi progetti, prepara nuovi strumenti e nuove armi e se il suo primo scopo resta quello dì fis­ sare il nodo centrale dello studio che lo interessa in quel preciso momento, l’orizzonte appare estremamente allargato e il romanziere è costretto a registrare oltre che il peso della colpa, le conseguenze del male. Per forza di cose, lo studio dell’anima diventa studio di una so­ cietà. E qui si inserisce un altro motivo delle sue capa­ cità di interpretazione libera, in quanto il romanziere cattolico non dissimula mai la presenza dell’amore e ha il coraggio di rovesciare sul tavolo del laboratorio anche il quaderno delle passioni più sante o apparentemente più sante. Beninteso, il discorso non si abbassa mai a un livello di cronaca e per quanto la descrizione del­ l’ambiente sia esatta e precisa, resta il fatto che il ro­ manziere non la prende mai a pretesto o a giustifcazione. Non si trova ombra nei suoi procedimenti della regola naturalista e ogni personaggio porta in pieno il peso delle sue responsabilità. Mauriac sa che ogni sen­ timento obbedisce al quadro clinico della nostra persona e soprattutto che i nostri atti rispecchiano delle passioni assolute, essenziali. Peut-être n’y a-t-il pas plusieurs amours. Peut-être n’est-il qu’un seul amour. Cette vieille femme se meurt de ne posséder plus son fils: désir de possession, de domination spirituelle, plus âpre que celui qui emmêle, qui fait se pénétrer, se dévorer deux jeunes corps. Se leggiamo bene, il peccato, la colpa hanno radici molto più profonde di quel che non possa apparire a prima vista e non valgono o a poco valgono gli stimoli, i dati della carne e del sangue, Alla base della separa­ zione c’è ancora una volta la prepotenza di un sentì-

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mento e il segno della solitudine. La madre che avvelena il suo sentimento naturale è uno spirito che prevarica e salta i limiti del rispetto e della pazienza. In altre parole, la salvezza si ottiene alla luce di una corrispon­ denza viva, critica e nel rispetto dell’« altro ». Lo storico della provincia conosce fin troppo bene i limiti inerti della « buona condotta », delle regole, dell’abitudine e del conformismo. Tutta una sovrastruttura che — caso mai serve ad accrescere la parte del veleno, ad arricchire i magazzini dei risentimenti e delle violenze segrete. An­ cora ricordiamo Thérèse, vale a dire chi sentendosi soffo­ care sotto la legge della morale ufficiale nutre il capitale della sua ribellione. La vita senza intelligenza resta per questo romanziere cattolico il segno del primo peccato. E quando sentiamo Thérèse che dice: « noi abbiamo bi­ sogno, più degli uomini, dell’intelligenza » sappiamo che tale giustificazione per una volta gliela suggerisce il suo storico. Notiamo di passaggio che Mauriac ci restituisce un’immagine della sua provincia fra i primi del secolo e gli anni trenta ma, ciò nonostante, la rappresentazione è perfetta e non dà mai segni di abuso cosicché a distanza dì tanto tempo non ha perso nulla del suo valore. Tutt’al più ci potranno essere delle piccole correzioni di fatto da aggiungere ma il fondo della sua rappresentazione tiene ancora e tiene soprattutto perché lo scrittore ha l’accorgi­ mento di andare direttamente sulla materia e di sfiorare appena il rapporto di conseguenza. Ter esempio, è avver­ tibile l’umore di chi racconta, certi tratti rapidissimi resti­ tuiscono nettamente l’impressione dell’ostilità, dello spi­ rito di polemica ma tutto si risolve in una battuta o in uno scarto del discorso. Mauriac è abilissimo nel fare dei processi senza uscire mai dalla rappresentazione o — come avviene in Noeud de vipères — nel rendere palpitante un discorso pieno

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che coinvolge tutta una conoscenza profonda del mondo che egli intende farci sentire. Bisognerebbe dire che il vero dramma avviene su uno scenario ideale, su uno scenario che si trova subito dopo quello ufficiale della rappresentazione e che l’azione si coagula violentemente in determinati gesti a forza di silenzi, di compostezze e di pace apparente. Il dramma scoppia per eccesso di costrizione: i personaggi non parlano o adoperano un linguaggio convenzionale, tanto è profonda la penetra­ zione nel conformismo. A volte si direbbe che tutto il mondo di Mauriac sia piegato sotto il peso di questa violenza nascosta, sotto la tranquillità e la pace e che al discorso obbligato corrisponda sul fondo vero della realtà un altro discorso non soltanto contrario e oppo­ sto, ma un discorso che non riesce neppure a formularsi. Di qui i gridi, di qui i gesti di violenza. Mauriac se ci servisse una nuova immagine — è il romanziere di queste atmosfere cupe, sorde, così cariche di energia umana da risultare inumane, divelte dal libro dei rap­ porti autentici. 1 suoi personaggi probabilmente ignorano addirittura la facoltà del vedersi, del riconoscersi: questi matrimoni che intervengono con regolarità nella comme­ dia della provincia sono fatti per dividere, per appro­ fondire l’abisso che separa le nature umane e su questo primo risultato si parte per la costruzione di un altro mondo mostruoso, di un mondo che conserva l’apparen­ za della regola umana mentre invece è uno zoo, è un recìnto di esseri di cui ci sfugge la possibilità di defini­ zione. In altre parole, i mostri di Mauriac nascono da questo margine di infedeltà alla natura umana: infedeltà che è generata dalla mancanza dì intelligenza, dal predo­ minio di certe passioni non alte, dal peso della solitu­ dine. Ognuno recita la sua parte ma da vìttima, anche quando sembra che le cose stiano diversamente e che ci

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sia il polso di una guida. Alla fine il romanziere di fron­ te alla pesca della sua rete trova delle creature che han­ no tradito, involontariamente o volontariamente, coscienti o no. Ma tutti traditori e questa volta non soltanto gli uni nei riguardi degli altri, no, tutti verso l’immagine unica dell’uomo intatto. È su questa conquista che Mauriac matura il suo biso­ gno di scrivere la sua vita di Gesù. Ora se teniamo pre­ sente questa soluzione del romanziere abbiamo già deli­ neati i caratteri della sua storia. Anche la data di com­ posizione sta a confermare un arresto del romanziere, del creatore puro: 1936. Va dato atto a Mauriac ancora una volta di non essere mai diventato un fabbricante di se stesso e di aver saputo conservare una rara sensibilità rispetto al valore delle proprie parole. Mauriac non si ripete, tutt’al più è sempre lo stesso ma la sua forza sta proprio nell’aver saputo volta per volta adattare questa profonda identità a delle occasioni positive. La sua voca­ zione di romanziere ha avuto modo di aprirsi e matu­ rarsi in quindici anni e non per nulla ha coinciso con il tempo di maggior partecipazione alla vita. Non sap­ piamo e non lo sapremo mai che cosa è stata la vita di Mauriac in quegli anni ma se ci atteniamo a una sua confessione, dobbiamo dire che anche per lui ha contato la regola pirandelliana del vivere e dello scrivere. Mau­ riac ha alluso con la sua grazia alle tentazioni della città ma subito dopo ha aggiunto che il romanziere è suscetti­ bile di tentazioni ancora più ricche e pericolose e che ad ogni modo fra la partita che si giuoca nelle strade e nelle case e quella che il romanziere segue a tavolino, non c’è dubbio che quest’ultima ha facile vittoria. Ebbene prendiamo Mauriac al tempo del Noeud de vipères, del Mystère Frontenac, non ci vuol molto ad accorgersi che nell’allargamento di certi temi o nel tornare alla fonte

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della partenza l’intensità diminuisce o per lo meno cam­ bia oggetto. Mauriac si prepara da una parte a scrivere il romanzo più inquietante della nostra storia, il libro di Gesù, e a lasciare il mondo delle creature della fantasia per entrare nella città e discutere delle cose del mondo. Al romanziere segue, dunque, lo storico di Gesù e al romanziere segue lo scrittore del Journal e notiamo an­ cora come una curiosità che lo stesso 1936 segna, con la guerra di Spagna, il tempo della prima scelta politica per Mauriac: la figura dell’uomo si arricchisce e da quel momento il discorso che aveva uno scopo preciso si al­ larga, si moltiplica, si umanizza in modo singolare. Di tutte le conversioni di quegli anni — oggi che siamo in grado di giudicare senza tema di grossi equivoci — non c’è dubbio che quella dì Mauriac è stata la più autentica e la più fruttuosa, perché in quegli anni è cominciato un discorso che dura tutt’oggi con freschezza e senza cedimenti di passione. La vita dì Gesù non si riporta né a un desiderio di fare dell’apologetica né a un bisogno di pietà e neppure al bisogno di intervenire con una parola nuova nel di­ scorso che gli intellettuali cattolici del tempo avevano ripreso con tanti generosi 'propositi di inserirsi nel qua­ dro dei temi dell’ora. No, la vita di Gesù è una specie di scommessa che il romanziere lancia al Creatore e in­ sieme il desiderio di assolvere il cumulo delle dolorose esperienze di lettore del mondo in un tentativo dì comu­ nione piena. In un certo senso, il libro — soprattutto se confrontato al resto dell’opera di Mauriac - appare sacri­ ficato, impacciato: si sente che chi scrive non è padrone dei propri movimenti e che il rapporto è troppo alto, per cui la parola perde il suo naturale nitore e lo stesso impiego di forze risulta non del tutto efficace o non effi­ cace come sempre. La storia di Mauriac viene a distanza

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di tanti anni da quella cosi famosa e importante di Re­ nan, sono passati più di settantanni e Mauriac scrive per una Francia in un certo senso irriconoscibile, tanto è mutata. Non si tratta più di provare la verità storica e, tanto meno, di correggere scientificamente i dati della leggenda che si è costruita sulla figura di Cristo, no, per Mauriac si tratta di stabilire un dialogo e di riconoscere prima di tutto il Figlio dell’Uomo. Non ci sono possi­ bilità di incontri fra Renan e Mauriac, se non sul fondo d’origine ma mentre nel grande pensatore la figura di Cristo finisce per velarsi di un sentimento di poesia, il compito di Mauriac è proprio di sciogliere Cristo da tutti gli equìvoci con cui l’abbiamo vestito e coperto e risen­ tirlo vicino, presente, dentro di noi. Non c’è dubbio che contro la pagina della vita letta e interpretata, egli ne apre un’altra che con gli anni si è andata irrobustendo e approfondendo e che possiamo chiamare la pagina del­ la sua stupenda lezione pascaliana. Il critico Mauriac è appena una pallida immagine dell’uomo che dibatte den­ tro di sé i temi essenziali dell’esistenza e che portano almeno come indicazioni e punti di riferimento - i nomi di Pascal e dì Racine. Non chiediamo a Mauriac quello che non ci può dare, chiediamogli soltanto la grazia e il soccorso delle sue illuminazioni che hanno avuto un peso anche per noi. Anche se dovessimo considerare la Vita di Gesù dal punto di vista dell’oratoria sacra, non po­ tremmo però non riconoscere che la parte sensibile, la parte della verità sentita e restituita è di gran lunga su­ periore a quella della verità accompagnata e sottolineata. Pensate alla papiniana Vita di Cristo per avere subito e facilmente la diversità del discorso di Mauriac: Papini vuole soprattutto dimostrare e convincere, Mauriac si preoccupa di rendere sensibili le ragioni interiori della sua fede. E intanto il discorso non è mutato, ritroviamo le

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spezzature di sempre, gli irrigidimenti e le impennate che ce lo fanno vedere direttamente impegnato nell’opera di scavo, anche se questa volta il dottore del male sì trova di fronte a un altro registro ancora più complicato e alla pne di una ricchezza umana non sempre decifrabile o riducibile. Quel tanto di agostiniano e dì pascaliano che respira nel suo cuore ha costituito per il narratore del bene un ostacolo, anche se egli ha tenuto a mettere l’ac­ cento sul dato dell’amore. Gli è che la prospettiva è cambiata: quando Mauriac studia Thérèse si trova nella posizione giusta e sotto la luce migliore per cogliere l’ori­ gine e il senso del male, se invece intende cogliere l’im­ magine opposta la sua posizione gli restituisce tutto il peso della sua lentezza e della sua immobilità. L’amore non si racconta, lo sa benissimo chi ha dimostrata tanta capacità di movimento e tanta libertà d’azione nel rac­ contare il male. Ma se nelle storie della vita comune, egli riusciva a dividere le responsabilità e a stare da parte fra chi tradiva e chi era tradito, di fronte a Cristo la situazione viene corretta e Mauriac si trova fra i figli del­ l’uomo che hanno tradito o che sentono il peso della condanna generale. Del resto, quando molti anni dopo, nel 1962, dovrà mettere su carta le ragioni della sua fede, si troverà nella stessa impasse, tanto radicata è in lui la passione della fede e quella dell’amore e alla fine lo ritroviamo legato a un solo albero. Ancora una volta da buon pascaliano, chi manifesta la propria fede non può soffocare dentro di sé un grido di sgomento e dì spe­ ranza. Si può parlare di speranza per Mauriac? Direi di sì, se al libro del romanziere contrapponiamo subito quel­ lo del commentatore dell’attualità, i volumi del Journal, del Bloc-notes, insomma la storia degli ultimi treni’anni. Probabilmente quando Mauriac ha cominciato a scri­ vere in pubblico il suo diario, così diverso da quello che

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avevano tenuto i suoi amici Gide e Du Bos, non imma­ ginava che avrebbe trasformato quell’oscuro bisogno di comunicazione nell’unico strumento di lettura del mon­ do. Mauriac in certo senso è il contrario dello scrittore che si compiace delle sue domande; proprio perché il suo ideale è un ideale di fuoco e di gridi, la dilettazione del diario deve essergli sembrata controproducente. E in­ fatti il termine di journal nasce in lui con una precisa volontà di equivoco e anzi è il journal che si trasforma in giornale, in attiva funzione pubblica. In un primo tempo sono notazioni di attualità, fatti di cronaca, tanto il distacco dal lavoro di romanziere doveva costargli caro, poi a poco a poco la politica lo ha costretto a prendere posizione e a dilatare il suo discorso fino a farlo coinci­ dere esattamente con i limiti del dramma che stava per scoppiare in Europa e nel mondo. Neppure qui il lettore avrebbe dovuto aspettarsi un discorso continuo, logico ma soltanto degli improvvisi risentimenti, degli scatti, degli inviti perentori: solo che tutto sarebbe stato bagnato da un sentimento che di solito gli scrittori e i commentatori di cose politiche ignorano. Così in un primo tempo lo scrittore procedeva con cau­ tela e servendosi dei mezzi che aveva adoperato fino al­ lora e giocava di psicologia, cercando di spiegare azioni, avvenimenti col soccorso delle interpretazioni interiori. Poi col tempo Mauriac allontanava questo sistema peri­ coloso per una visione generale delle cose e affrontava direttamente i termini delle questioni. Tutto questo senza però accedere a armi d’accatto, a strumenti imprestati ma insistendo sempre di più sul carattere sacro della realtà. Da questo punto di vista il commentatore restava sulle posizioni del romanziere e ribadiva il concetto che ogni spettacolo umano è una ripetizione del dramma della Croce. Se il male nel cuore delle sue eroine era raggìun-

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gibile allo stato puro, qui su una scena cosi allargata e nella confusione dei protagonisti la ricerca diventava estremamente complicata e difficile. Nonostante, Mauriac in breve tempo imparò a cogliere l’essenziale delle que­ stioni e a mettere l’accento morale su problemi che, visti dal di fuori, sembravano soltanto tecnici o astrattamente politici. In altre parole, il procedimento era questo: pri­ ma dare un senso umano alla favola tragica che, spesso senza saperlo, i protagonisti del tempo cercavano di rap­ presentare e poi riportare tutto sul piano di un confronto divino. Il discorso acquistava così una dimensione malto più ampia e dei toni che il Mauriac ìntimo non aveva ancora conosciuto. La stagione della guerra di Spagna che vede Mauriac schierarsi accanto a Maritain e ai suoi amici, la guerra del ’39 e poi Γoccupazione tedesca e infine la liberazione e il difficile percorso del secondo dopoguerra. Tutti questi anni consacrano il Mauriac moralista con le rare ecce­ zioni della Pharisienne, di Chemins de la mer, del tea­ tro, insomma con le apparizioni del primo Mauriac ma apparizioni che avevano più l’aria dì un modo di ricor­ dare indiretto agli altri la sua prima natura o addirittura volevano essere la conferma del passaggio definitivo a un altro registro di scrittura. 1 critici, gli amici, gli studiosi si sono fermati a lungo su questa metamorfosi, portando nelle loro discussioni gli argomenti di rito: stanchezza, sfiducia e bisogna dire che a volte lo stesso Mauriac si è servito dello stesso voca­ bolario. Ma era solo una questione di tecnica letteraria o di vitalità? La domanda poteva reggere nei primi tempi ma oggi non ha più senso: treni’anni sono molti anche nel quadro di una vita lunga e così soddisfatta, così ricca di successi (l’Accademia, il Nobel, il simbolo di una coscienza cristiana riconosciuta in tempi e in mondi lon-

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tant). Che cosa ha, dunque, piegato irrimediabilmente Mauriac e distratto dal lavoro di creatore? Se diamo un senso spirituale alla sua vicenda, non c’è dubbio che alla base della trasformazione c’è stato l’amore. Resta da ve­ dere sotto che luce si è presentato. Probabilmente il ro­ manziere Mauriac intorno ai primi anni trenta ha avver­ tito non diremo la vanità ma i limiti delle sue' ricerche, tanto più che l’azione di creare ha avuto in lui quasi sempre il carattere del confronto e della ripetizione con­ trollata. Poi ha misurato l’eco delle sue ricerche e quando decide la misura del journal ha già bruciato tutto lo spa­ zio delle speculazioni intime, personali. Soprattutto ha capito che le sue storie brevi sono delle folgorazioni e per questo irripetibili, in un certo senso scontate. Né si deve tacere che nei personaggi dell’immediata realtà lo scrittore riusciva a scorgere in maniera assai più evidente le tracce degli errori, dei tradimenti e del legame pro­ fondo, più profondo là dove appariva più nascosto e contratto, con una ragione superiore, con l’immagine del Salvatore. Così si conclude e in modo naturale, un cam­ mino cominciato nel lago della nostalgia e del dolore dell’adolescenza, rendendo sempre più chiari i termini del problema centrale di Mauriac. Il romanziere non è morto col moralista, anzi sarebbe più appropriato dire che si è accresciuto, arricchito e — non sarà male ripe­ terlo — umanizzato. Né si direbbe che è mutata la tecnica della pesca, della presa: Mauriac è rimasto in questo giovane, con la freschezza delle prime prede. Per questo al fondo di ogni suo gesto, anche quando questo gesto suoni condanna, sdegno, desolazione, ritroviamo la preoc­ cupazione di operare un recupero, di risolvere in salvezza le colpe, gli errori. Tutta la storia — e quale storia — Mau­ riac la legge a questa luce divina, più che interpretarla secondo i termini della norma e della dottrina, è stato 2.

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fra i primi a mettere in atto questa separazione necessa­ ria fra l’errore e chi lo commette, fra il peccato e il pec­ catore. Proprio perché crede al peccato e non ha cessato di crederci mai, ha un enorme capitale di pietà e di intel­ ligenza per chi ne è vittima. E se il moralista adopera altre armi per intervenire nel discorso e segnare a dito i responsabili degli errori dell’umanità, la sua posizione all’interno non cambia e non si sente autorizzato a pren­ dere il posto di Dio. Crede al male, crede al peccato ma tutto questo comporta un’altra fede, la fede nella sal­ vezza. Caso mai, ci sarebbero da mettere in rilievo i li­ miti delle nostre possibilità d'intervento e da questo pun­ to di vista potremmo spiegarci la parte più difficile da leggere della sua storia, quella del suo avvicinamento a de Gaulle. La speranza ha avuto bisogno a un certo punto di fissarsi in una persona umana dotata di virtù non co­ muni. Ma questo sarà e resterà un episodio e, a mio giu­ dizio, non determinante nella sua vicenda terrena. Me­ glio, d’altra parte, ricordare la battaglia generosa dello scrittore contro le colpe del colonialismo, la sua franca presa di posizione contro la tortura: sono fra le imma­ gini più belle non soltanto della sua storia personale ma di uno dei periodi più cupi della storia di Francia. Sono cose — non vale forse insistervi — che hanno la loro prima spiegazione nel rispetto amoroso della figura umana. Mauriac è cosciente della forza corruttrice del tempo, sa che la vita non consuma solo i nostri volti, i nostri corpi, questi strumenti di perdizione e dì idola­ tria, ma rovina e sconvolge i cuori, le menti, là parte più alta della nostra immagine. Sa tutto questo e ha sempre lottato perché lo sconcio della nostra dignità non avvenga, non sia consumato completamente, perché la colpa non si trasformi in delitto. Sono infiniti modi di leggere il cuore umano e la sua lente ha avuto modo di

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passare da per tutto, è entrata nel cuore degli adolescenti, si è fermata sul vuoto fascinoso delle passioni femminili, ha messo a fuoco la dilaniata vocazione negatrice dei po­ litici, delle guide dell’umanità. Ma ogni volta non ha legato a queste operazioni un briciolo di compiacimento, il suo cuore ha battuto sempre per dolore, mai per ve­ dere una degradazione che si compie e assolve nell’imma­ gine dell’uomo. Gli è riuscito di passare il mondo ad occhi aperti, senza venir meno a un autentico bisogno di purezza. E qui non soltanto da un punto di vista let­ terario ma anche sotto l’aspetto morale, la sua lezione ha tenuto proprio per questo rigore di ricerca e di inten­ zione. Quello che Du Bos aveva individuato come il problema del romanziere cattolico è in realtà il problema del cri­ stiano nel mondo: il cristiano che prende le sue respon­ sabilità, non indietreggia, non si nasconde e dà le rispo­ ste che è stato chiamato a dare. Mi sembra che Mauriac vada giudicato con questa misura, non diversamente, non col solito metro del risultato pratico. Che del resto c’è ed è stato riconosciuto da testimoni insospettabili, Gide per esempio. Ma la dignità dell’opera cede il passo ad altre considerazioni e spinge a una valutazione diversa. Non per nulla c’è stato un passaggio di poteri dal romanziere al moralista, uno scambio — ripeto — che non ha peraltro snaturato l’uomo o corretta la sua coscienza. Tutt’al più, sono da calcolarsi i tempi e i modi delle due operazioni e è da tener presente la difficoltà di riassumere la secon­ da stagione, così complessa e diffusa, in maniera suffi­ cientemente corretta. Il romanziere appare dotato di una compattezza che il moralista non ha ma su questo hanno avuto ragione la natura del lavoro, la legge del rendere testimonianza secondo lo spirito del tempo e non più secondo la assoluta libertà della vocazione. Ma proprio

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di vocazione, di ispirazione dobbiamo occuparci, perché Mauriac nei due ordini della sua vita ha sempre rispet­ tato questo limite. Presentando le sue opere complete e pensando ai suoi personaggi, ai loro ritorni, alla loro costante presenza, Mauriac parla di roman-fleuve ma lascia intendere - sia­ mo nel 1950 — che i personaggi della fantasia danno la mano a quelli della realtà e ne autorizzano la trasposi­ zione su un altro piano. Ma anche qui è giusto parlare di altri piani o invece non sarebbe più esatto affrontare il tema dal punto di vista delle atmosfere? Se si fa così, ancora una volta si ha la conferma che lo scrittore di fronte a mondi diversi opera con la stessa conseguenza e la stessa velocità: soprattutto si serve sempre dello stes­ so limitato quadro di strumenti. A Mauriac basta uno sguardo per cogliere il dramma che si nasconde sotto una conversazione normale, così come gli basta uno sguar­ do per strappare alla grande commedia della politica l’origine di certi gesti che la pura logica delle cose non spiega. Per questo non dobbiamo stancarci di insistere sul punto centrale dell’opera del romanziere e del gior­ nalista che è quello del riferimento, della traduzione im­ mediata, direi spontanea dei nostri atti su un teatro di ordine spirituale. Che cosa dà un peso, che cosa dà quella straordinaria efficacia alla più piccola delle sue frasi, che cosa anima le sue domande? Non certo quel tanto di rettorica di fondo che si è portato dietro dagli anni della prepara­ zione agli studi classici, no, soltanto la profonda convin­ zione che una parte dei nostri gesti è spiegabile con il contesto del discorso in cui noi siamo chiamati a inserirli ma la parte maggiore, quella che contiene la verità, non appartiene a noi e senza saperlo siamo costretti a denun­ ciare. Senza questa chiave dell’attore inevitabile, di uno

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che recita una parte scritta da un altro non ci spieghia­ mo Mauriac. Naturalmente questo dato giansenista non lo spinge a una forma di scetticismo o di velato cinismo: proprio gli ultimi anni della sua carriera ci dimostrano come sia lontano da un Barrés che pure è stato bagnato a volte dalla stessa luce e ha dato alle sue parole un’in­ tonazione disperata. Ma in Barrés si sente che non c’è alcuna ragione di conservare un minimo di fiducia all’uo­ mo, mentre per Mauriac anche nei momenti di maggior disperazione — gli anni della guerra d’Algeria — l’uomo non perde la traccia della dignità e viene sollecitato, ammonito, invocato. Quella che a prima vista potrebbe apparire come rettorica è invece memoria dell’uomo o di quello che nell’uomo è recuperabile, suscettibile di cor­ rezione. Dei grandi scrittori cattolici di questo secolo, un Ber­ nanos sposta il limite della salvezza sulla Grazia, Mauriac condivide la stessa posizione ma forse fa qualcosa di più verso la strada dell’umana collaborazione, per cui am­ mette che la Grazia possa essere aiutata, favorita dal po­ vero numero della nostra volontà. Soprattutto col passare degli anni egli ha fatto di tutto per dare alla Grazia il senso stesso della nostra speranza. La cosa è tanto più sorprendente perché in fondo lo scrittore è rimasto le­ gato a doppio filo col terreno delle sue origini e gli basta passare la porta della casa di Malagar per sentirsi avvolto dalla luce della morte e dell’umana vanità. Sono gli stessi accenti di un tempo, caso mai più robusti, più sicuri della verità a cui alludono ma di colpo tutto cede alla misura della rassegnazione, una rassegnazione virile, co­ sciente e responsabile. Chi avesse modo e tempo potreb­ be studiare il senso di questa lunga lotta in profondità di Mauriac con le cose, misurare quanto gli deve essere costato questo doppio moto di sradicamento e di ritorno

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alle origini. Ma se c’è un’immagine del cristiano in lui, prima di tutto bisogna andarla a cercare in questi mo­ menti di strazio, di musiche lontane che si confondono con la parte più chiusa della sua memoria: ebbene, nei momenti in cui chi lotta sembra vacillare sotto if colpo della memoria terrena, ecco che lo vediamo liberato, pronto a partire e a seguire un’altra voce. L’uomo che ci appariva così compromesso, così invischiato con le cose che fanno, bene o male, la nostra vita, ora era nudo, libero, disposto ad affrontare il terrore dell’ultimo volto. Mauriac stesso ha parlato di questa particolare coinci­ denza dell’età con le difficoltà: da giovane poesia, fede, tutto gli appariva facile, quando fu uomo, quando toccò la maturità si accorse quanto fosse difficile tradurre la parola in atto, quanto costasse passare dal dirsi cristiano all’esserlo. Naturalmente a questa evoluzione ha corri­ sposto non un irrigidimento, un aumento del capitale negativo: ci sono infatti più veleni nel primo Mauriac che non nel secondo, tanto meno nel terzo. Ed è giusto che sia così: abbiamo già detto che stu­ diare Mauriac significa illustrare una storia di spoglia­ zione e quel che colpisce di più, tale spogliazione si ve­ rifica con l’aumento apparente del suo guardaroba. Mau­ riac ha fatto tutta la sua brava carriera di uomo ufficiale, è forse l’unico superstite di una famiglia di scrittori che hanno illustrato in un certo modo la letteratura francese ma bisogna andare sotto questo borghese illustre, ricco, famoso per poter ritrovare intatto il capitale delle prime sensibilità. Mauriac è rimasto quella molla pronta e si­ cura del Baiser au lépreux, dell’inventore e correttore del destino di Thérèse e non è cosa da poco se si calcola la mole del lavoro, i libri, gli articoli, questa sua eccezio­ nale facoltà di essere presente anche alla memoria di chi non lo ama e di chi appartiene a un altro mondo. Forse

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il miracolo sta nell’aver saputo legare la lezione quoti­ diana del mondo al fascio dei nervi centrali e soprattutto nell’aver stabilito un equilìbrio fra due posizioni appa­ rentemente contrarie: da una parte la certezza di guidare una certa opinione, dall’altra parte la certezza di non contare nulla e dì raccontare una favola di cui ci sfugge il novanta per cento della sua realtà interiore. A volte questa fusione fra superbia e umiltà, fra sicurezza e de­ bolezza, fra pretese e rinunce sembra ben diffìcilmente giustificabile ma il dubbio è alimentato in noi dalla no­ stra incapacità a custodire puntualmente nel corso della lettura che Mauriac fa del mondo, il dato del riferimento all’altro che è poi in lui soltanto il Figlio dell’Uomo, un Dio sensibile, un Cristo che ci viene incontro con la sola luce dell’umanità. è troppo poco in un tempo e in un mondo che hanno quasi totalmente rinunciato a soccorsi del genere? Non lo so, so però che chi crede in questa necessaria opera­ zione di riferimento, di eterna traduzione dall’alto trova nelle parole di Mauriac qualcosa di più di un monito che del resto il tempo avrebbe avuto modo di rendere mono­ tono e sterile: se noi reagiamo ancora alle sue invettive, alle sue accorate invocazioni vuol dire che le sue non sono state operazioni gratuite, fittizie, di comodo senti­ mentale. Per tutte queste ragioni, senza anticipare un giudi­ zio che appartiene al futuro, ci sembra di dover met­ tere prima di tutto in luce questo servizio reso dal Mauriac non per obbligo, non per una scelta, ma quasi per una condanna (Mauriac è nato cristiano e non gli è mai riuscito di liberarsi di questa legge) alla verità della sua fede. Su questo punto non ci sono stati compromessi, cedimenti, la vena del suo giansenismo gli ha consentito di rendere testimonianza di verità con ferocia, con dispe-

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razione ma con intensità, con fuoco. Fosse pure soltanto una scintilla, questa scintilla basterebbe per fare di Mau­ riac un’anima diversa dalle altre e per dare ai suoi libri e alla sua opera una facoltà di trasformazione che lo porta su uri altra categoria. Il critico può fare il suo la­ voro fino in fondo, tagliare, potare, circoscrivere, stori­ cizzare ma per quanto si voglia indipendente e autonomo alla fine non può fare a meno di registrare qualcosa che ·» nessun trattato di estetica gli sa spiegare: in quel mo­ mento l’uomo di buona volontà deve ammettere che c’è stata e c’è nel discorso di Mauriac una frazione di luce che la letteratura non svela. Se rifate la strada e dagli appunti del «Figaro» ritornate all’uomo solitario che nel sud della Francia inventa le storie vere dei suoi perso­ naggi vedrete che è stata proprio questa piccola luce a segnargli la strada e a dare una -continuità nel vero al suo lavoro. E questa è una riprova della sua autenticità, della sua forza diretta, meglio ancora del diritto che Mauriac ha acquisito con la sua presenza a parlare e per se stesso e per noi. Carlo Bo

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Titolo originale: LE BAISER AU LEPREUX

Traduzione di Giuseppe Prezzolini Prima edizione: Parigi 1922 Prima edizione italiana: Milano 1930

I

Giovanni Peluèr, steso sul letto, aprì gli occhi. Attorno alla casa le cicale stridevano. Come un metallo liquido la luce colava attraverso le persiane. Giovanni Peluèr si alzò, con la bocca amara. Era così piccolo che la bassa specchiera a muro rifletté la sua povera faccia, le guance infossate, un naso lungo, aguzzo, rosso e come logoro, simile ai bastoncini di zucchero d’orzo che i ragazzi as­ sottigliano col loro paziente succhiare. L’attaccatura dei corti capelli scendeva ad angolo acuto sulla fronte già rugosa; una smorfia gli scoprì le gengive e i denti ca­ riati. Benché non si fosse mai odiato tanto, si rivolse delle pietose parole: “Esci, va’ a passeggio, povero Gio­ vanni Peluèr!” e con la mano si carezzava la guancia mal rasata. Ma come uscire senza svegliare il padre? Fra l’una e le quattro il signor Gerolamo esigeva un silenzio solenne: questo tempo consacrato al riposo l’aiu­ tava a non morire d’insonnie notturne. La sua siesta in­ torpidiva la casa: non una porta doveva aprirsi o chiu­ dersi, non una parola, né uno starnuto doveva turbare il prodigioso silenzio al quale, con dieci anni di pre­ ghiere e di lagnanze, aveva ammaestrato Giovanni, i domestici, e perfino i passanti, abituati ad abbassare la voce sotto le sue finestre. I carretti facevano un giro apposta per evitare la sua porta. Ma nonostante queste complicità in favore del suo sonno, il signor Gerolamo,

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appena desto, accusava del suo risveglio un acciottolio di piatti, un latrato, un colpo di tosse. Si era forse persuaso che un silenzio assoluto gli avrebbe garantito un riposo infinito collegato direttamente alla morte come un fiume all’oceano? Sempre assonnato e infreddolito, anche in piena canicola, si sedeva con un libro in mano accanto al fuoco della cucina; il suo cranio calvo rifletteva la fiamma, mentre Cadetta si occupava di manipolare salse senza far attenzione al padrone più che ai prosciutti ap­ pesi alle travi. Egli, invece, osservava la vecchia conta­ dina, tutto meravigliato che, nata sotto Luigi Filippo, delle rivoluzioni, delle guerre, di tanta storia, non avesse conosciuto nulla all’infuori del maiale che allevava e per la cui morte ogni Natale i suoi occhi cisposi si inu­ midivano di avare lacrime. A dispetto della siesta del padre, la fornace di fuori attirò Giovanni Peluèr; anzitutto gli garantiva la soli­ tudine: lungo la sottile striscia d’ombra delle case, po­ teva sgusciarsene via senza che nessuna risata scoppiet­ tasse dalle soglie sulle quali le ragazze stavano a cucire. La sua miserevole fuga suscitava lo scherno delle donne; ma esse dormivano ancora verso le due del pomeriggio, tutte in sudore e smanianti a causa delle mosche. Aprì la porta oliata, senza che cigolasse, attraversò il vesti­ bolo dove gli armadi a muro versavano un odore di marmellate e di muffa e la cucina i suoi tanfi di grasso. Il silenzio pareva reso più profondo dalle sue scarpe di corda. Di sotto una testa di cinghiale staccò il suo cali­ bro 24 conosciuto da tutte le gazze del mandamento, che Giovanni Peluèr era nemico giurato delle gazze. Pa­ recchie generazioni avevano lasciato dei bastoni nel portabastoni : il bastone-fucile del prozio Usilan, la canna da pesca e il bastone animato del nonno Lapegin e gli altri bastoni le cui punte ferrate ricordavano le villeg­ giature a Bagnères-de-Bigorre. Un airone impagliato or­ nava la credenza. Giovanni uscì. Come l’acqua di una piscina il calore si aprì e si richiuse su di lui. Fu lì lì per andare nel

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posto dove il ruscello, prima di attraversare il villag­ gio, concentra sotto un bosco di ontani il suo alito ghiaccio, che sa di sorgente. Ma qui il giorno prima le zanzare l’avevano perseguitato; inoltre aveva voglia di rivolgere la parola a qualche essere vivente. Così si di­ resse verso l’abitazione del dottor Piesciòn, il cui figlio, Roberto, studente in medicina, era ritornato proprio quella mattina per le vacanze. Nulla viveva, nulla sembrava vivere; ma attraverso le imposte semichiuse, qualche volta il sole faceva brillare gli occhiali rialzati su una fronte di vecchia. Giovanni Peluèr camminò fra due cieche mura di giardino. Quel passaggio gli era caro perché nessuno sguardo vi si na­ scondeva ed egli poteva abbandonarsi alle proprie me­ ditazioni. Non sapeva riflettere senza corrugare la fron­ te, gestire, ridere, declamare versi, pantomima per cui tutto il villaggio lo beffava; ma là gli alberi indulgenti coprivano i suoi soliloqui. Ah! avrebbe pur preferito il viluppo di vie d’una grande città dove si può parlare a se stessi, senza che i passanti si volgano indietro a guardare! Per lo meno era quanto Daniele Trasì assi­ curava nelle sue lettere a Giovanni Peluèr. Questo com­ pagno, contro il volere della famiglia, s'era « lanciato nella letteratura » a Parigi. Giovanni se l’immaginava, col corpo raccolto, scattare nella folla parigina, pene­ trandovi come un tuffatore; e ora senza dubbio vi nuo­ tava, ansimando verso mete precise: la fortuna, la glo­ ria, l’amore, tutti i frutti vietati alla tua bocca, Gio­ vanni Peluèr!

Entrò in casa del dottore, in punta di piedi. La donna di servizio gli disse che i signori erano fuori a cola­ zione; Giovanni risolse di aspettare Piesciòn figlio la cui camera s’apriva sul vestibolo. Questa camera asso­ migliava talmente a chi l’abitava che, vedendola, non si aveva più voglia di conoscere l’ospite: sulla parete un trofeo di pipe, e cartelloni di balli studenteschi; sulla tavola, un teschio deturpato da una pipetta; alcuni libri

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comprati per passare il tempo nelle vacanze: Afrodite, L’orgia latina, Il giardino dei supplizi, Il diario d’una cameriera. Le Pagine scelte di Nietzsche attirarono Gio­ vanni, che si mise a sfogliarle. Dal baule aperto ema­ nava un odor di vestiti che abbia usato uno studente in estate. Allora Giovanni Peluèr lesse questo passo : « Che cosa è bene? — Tutto ciò che esalta nell’uomo il senti­ mento della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa. - Che cosa è male? - Tutto ciò che ha radice nel­ la debolezza. Periscano i deboli e i falliti; e si aiutino anche a sparire. - Che cos’è più nocivo di qualunque vizio? - La pietà che chi è nato ad agire sente per gli spostati e per i deboli : il Cristianesimo ». Giovanni Peluèr posò il libro; quelle parole entravano in lui come la luce incendiaria di un pomeriggio entra in una camera di cui si spalanchino le imposte. Istinti­ vamente andò, infatti, alla finestra, dischiuse la camera del suo compagno al fuoco del cielo, poi rilesse l’atroce frase. Chiuse gli occhi, li riaprì, contemplò il suo volto nello specchio: ah! povera figura di sparuto landese, di «landesino» come lo chiamavano in collegio, triste cor­ po nel quale l’adolescenza non aveva saputo compiere il suo consueto miracolo, miserabile preda per il pozzo sacro di Sparta! Rivide se stesso a cinque anni dalle suore: nonostante l’elevata posizione dei Peluèr, i primi posti, i buoni punti toccavano ai bimbi ricciuti e belli. Ricordava quell’esame di lettura nel quale, pur avendo letto meglio degli altri, era stato classificato ultimo. Gio­ vanni Peluèr si domandava talvolta se la mamma, morta tisica e che non aveva conosciuta, gli avrebbe voluto bene. Il babbo lo amava come un penoso riflesso di se stesso, come la propria ombra miserabile in questo mon­ do, che attraversava in pantofole o disteso in fondo a un’alcova che sapeva d’etere e di valeriana. La sorella maggiore del signor Gerolamo, la zia di Giovanni, avreb­ be senza dubbio aborrito questo ragazzo, ma il culto, an­ zi l’adorazione, che dedicava a suo figlio Fernando Casnav, uomo ragguardevole, presidente del Consiglio ge­

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nerale e presso il quale viveva a B... l’assorbiva talmente che gli altri scomparivano; non li vedeva più; non di meno accadeva che con un sorriso, con una parola ca­ vasse dal nulla Giovanni Peluèr, perché calcolava che questo figlio di un padre malaticcio, questo povero essere votato al celibato e a una morte prematura incanalerebbe a favore di Fernando Casnav il patrimonio dei Peluèr. Giovanni rivedeva il deserto della sua vita. Aveva con­ sumato in amicizie gelosamente nascoste i tre anni di collegio; e né il suo compagno Daniele Trasì, né quel­ l’abate professore di retorica avevano compreso i suoi sguardi di cane sperduto. Giovanni Peluèr aprì il libro di Nietzsche a un’altra pagina, e divorò l’aforisma 260 di Al di là del bene e del male, che tratta delle due morali : quella dei pa­ droni e quella degli schiavi. Guardava la propria faccia arsa dal sole e tuttavia di colore giallastro, ripeteva le parole di Nietzsche, si compenetrava del loro signi­ ficato, le udiva ululare dentro di sé, come un potente vento d’ottobre. Per un momento credette di vedere ai suoi piedi, simile a una quercia divelta, la sua fe­ de. La sua fede non era là, abbattuta, in quel torrido giorno? No, no; l’albero lo stringeva ancora con le sue mille radici ; dopo quella raffica Giovanili Peluèr ne ritrovava in cuore l’ombra amata, il mistero sotto le fronde folte e di nuovo immobili. Ma eccolo scoprire all’improvviso che la religione era stata per lui soprat­ tutto un rifugio. All’orfanello bruttino aveva offerto una notte consolatrice. C’era qualcuno sull’altare che teneva il posto degli amici che non aveva avuto, e la Vergine ereditava la devozione che avrebbe rivolto alla madre. Di tutti i segreti che lo soffocavano si liberava al con­ fessionale o nelle silenziose preghiere crepuscolari, quan­ do la navata tenebrosa della chiesa raccoglie quel po’ di freschezza che resta nel mondo. Allora il vaso del suo cuore si infrangeva davanti ai piedi invisibili. Si sarebbe forse mescolato al gregge delle zitelle e delle serve, se

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avesse avuto i riccioli di Daniele Trasì, quel viso che dall’infanzia in poi le donne non avevano cessato di accarezzare? Era uno di quegli schiavi che Nietzsche de­ nunzia; ne riconosceva in sé la faccia volgare; e sul volto sentiva di portare una condanna inevitabile; tutto il suo essere era fatto per la sconfitta; come il padre, d’altron­ de, il padre anche lui devoto, ma più di Giovanni colto in teologia e datosi da poco alla lettura di Sant’Ago­ stino e di. San Tomaso d’Aquino. Giovanni, che poco si curava di dottrina, e professava una religione sentimen­ tale, si meravigliava che quella del signor Gerolamo fosse anzitutto ragionevole. Tuttavia ricordava la frase che suo padre amava ripetere: «Senza la fede che cosa sarei diventato ? ». Questa fede, però, non arrivava fino a sfidare un raffreddore per sentir la messa. Nelle feste solenni il signor Gerolamo si faceva sistemare nella sa­ crestia riscaldatissima e di là seguiva, imbacuccato, la cerimonia. Giovanni Peluèr uscì. Di nuovo, tra mura cieche e sotto la muta indulgenza degli alberi, camminava gesti­ colando; qualche volta si figurava d’aver perduto la for­ za di credere, gli pareva che la fede, che come un su­ ghero l’aveva tenuto a galla nella vita, fosse venuta a mancargli d’un tratto. Più nulla! Più nulla! Assaporava questa miseria, e certe reminiscenze scolastiche gli si af­ follavano alle labbra: «....La mia sventura sorpassa la mia speranza... Sì, ti lodo, o Cielo, della tua perseve­ ranza... ». Ma pochi passi più in là, dimostrava agli al­ beri, ai mucchi di sassi, alle muraglie, che fra i cristiani esistono dei Padroni, e che i Santi, i Grandi Ordini e tutta la Chiesa universale offrono un sublime esempio di volontà di potenza. Agitato da tanti pensieri non ritornò in sé che al ru­ more dei propri passi nel vestibolo, rumore che fece sor­ gere un gemito dal primo piano; una voce piagnucolosa e assonnata chiamò Cadetta; allora le ciabatte della ser­ va si strascicarono nella cucina; il cane abbaiò; alcune

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imposte furono spalancate: il risveglio del signor Gero­ lamo scuoteva dal letargo la casa. Era l’ora nella quale, con gli occhi gonfi e la bocca amara, la sua concezione del mondo più si incupiva. Giovanni Peluèr si rifugiò dunque nel « tinello » fresco come una cantina. Sotto le tappezzerie muffite si scorgeva il salnitro dei muri. Una pendola non scandiva il tem­ po per nessun orecchio umano. Si affondò in una pol­ trona imbottita, guardò in se stesso il posto dove la sua fede soffriva e si penetrava di angoscia. Una mosca ron­ zava, si posava. Ecco un gallo cantare — poi un breve trillo d’uccello - poi ancora un gallo - ... la pendola suonò la mezza — un gallo... dei galli... S’addormentò fino all’ora così dolce in cui era solito recarsi, per viuzze remote, alla porta minore della chiesa e scendere in quella tenebra odorosa. Non sarebbe dunque più andato a quell’appuntamento, il solo che mai fosse stato con­ cesso al millepiedi Giovanni Peluèr? Non ci andò, ma giunse al giardino dove il sole morente gli fece dire: siamo alla fine della calura. Alcune farfalle bianche palpitavano. Il nipote di Cadetta annaffiava le lattughe, un pezzo di tanghero coi piedi nudi negli zoccoli, il pre­ ferito delle ragazze, che Giovanni Peluèr sfuggiva, ver­ gognoso d’essergli padrone: non sarebbe toccato a lui, meschino, di servire quel trionfante e giovanile dio or­ tense? Anche da lontano non osava sorridergli; la sua timidezza quando si trovava con i contadini era tale da paralizzarlo. Più volte aveva cercato d’aiutare il curato nel patronato, al circolo di studi, e sempre rattrappito dalla vergogna, istupidito, oggetto di derisione, era rien­ trato nella sua notte. Nel frattempo il signor Gerolamo percorreva il viale fiancheggiato da peri nani, da girasoli, resede, gerani, e non ne sentiva gli odori perché Γ immenso ciuffo rotondo di un tiglio riempiva del suo effluvio la terra e il cielo. Il signor Gerolamo strascicava i piedi. L'orlo dei calzoni s’impigliava fra la caviglia e la pantofola. Il cappello 3.

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di paglia sformato era orlato di moire. Aveva sulle spalle una vecchia mantellina a maglia dimenticata da sua so­ rella. Giovanni riconobbe, fra le mani paterne, un Mon­ taigne. Forse i Saggi, come a lui la religione, fornivano al padre dei sotterfugi per fregiare col nome di saggezza la rinunzia a ogni conquista? Sì, sì, ripeteva Giovanni Peluèr, questo pover’uomo chiama talora stoicismo, talora rassegnazione cristiana, l’immensa disfatta della sua vita. Ah! come si sentiva lucido Giovanni ora! e come, pur amando e compatendo suo padre, lo disprezzava in quel momento ! Il malato prese a lamentarsi: fitte alla nuca, asma, e conati di vomito... Proprio allora un mezzadro, un tal Dubernio Dortina, gli era comparso dinanzi ed esigeva una camera nuova per metterci l’armadio della figlia sposata! Dove dunque poteva trovare se non altro la tranquillità di soffrire? Dove morire in pace? Per giun­ ta, l’indomani era giovedì, giorno di mercato sulla piaz­ za, e quindi d’invasione: la sorella Felicita Casnav e il nipote farebbero da re in casa; fin da quell’alba funesta il bestiame in vendita risveglierebbe il malato; l'automo­ bile dei Casnav, brontolando davanti alla porta, annuncerebbe il settimanale flagello; la zia Felicita forzerebbe l’entrata della cucina, capovolgerebbe il regime del fra­ tello in nome del regime del figlio; e la sera la coppia lascerebbe dietro di sé Cadetta in lacrime e il padrone sul punto di soffocare. Strisciante e debole dinanzi al nemico, il signor Ge­ rolamo nutriva in cuore il proprio rancore. Tornava così spesso a borbottare che avrebbe serbato per i Casnav « una vendetta delle sue », che Giovanni Peluèr quel giorno non fece attenzione a ciò che il padre gli diceva: — Gli faremo un tiro, basta che tu voglia aiutarci. Ma ci starai? — Giovanni, che era a mille miglia dai Cas­ nav, sorrise. Frattanto suo padre l’osservava e gli di­ ceva: — Dovresti essere più in ordine alla tua età! come sei trasandato, poveraccio ! — Benché il signor Gero­ lamo non avesse mai mostrato di curarsi del suo modo

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di vestire, Giovanni non chiese nulla; non presentì nulla di quel che si preparava a una svolta del suo destino; aveva preso il Montaigne dalle mani del padre e vi lesse questa frase: « Per parte mia, lodo una vita liscia, in ombra e muta ! ». Ah ! sì, la loro vita era liscia, in ombra e muta fin che si voleva! I Peluèr guardarono un soffio d’aria increspare l’acqua nella cisterna, agitata dai girini intorno a una talpa morta. Il signor Gerolamo credette di sentire la guazza della sera, e si diresse verso casa. In fondo al giardino Giovanni, sfaccendato, infilò la testa nel vano di una porticciola che dava sulla viot­ tola. Al suo apparire il nipote di Cadetta, che teneva stretta al petto una ragazza, la lasciò, come si lascia ca­ dere un frutto.

II

Quella notte Giovanni Peluèr non dormì affatto. Le sue finestre erano aperte alla notte lattiginosa, una notte più rumorosa del giorno per il gracidare degli stagni. Ma i galli soprattutto non cessano mai di cantare, finché, al­ l’alba, non sono stanchi di aver salutato il chiaroscuro ingannevole delle stelle. Dal borgo alle fattorie si dan­ no Γall’erta, e l’uno risponde all’altro, e mille sentinelle ripetono quel grido... Giovanni vegliava, cullandosi con questo verso ripetuto senza fine. Le finestre stagliavano nettamente brani di cielo crivellato di stelle. Giovanni si levava a piedi nudi, considerava quei mondi e li chia­ mava per nome, senza mai stancarsi di dibattere il pro­ blema che s’era posto il giorno prima: aveva dato la sua adesione a una metafisica o a un sistema di ingegnose consolazioni? Senza dubbio fra i maestri regnavano dei credenti. Ma Chateaubriand era mai stato in dubbio quando si trattava di arrischiare l’eternità per una ca­ rezza? E Barbey d’Aurevilly, quante volte aveva tradito il Figlio dell’Uomo per un bacio? Non trionfarono tanto più quanto più tradirono il loro Dio? Appena fu l’alba, i lamenti strazianti dei porcellini svegliarono Giovanni. Come ogni giovedì, per evitare d’esser visto da quelli del mercato, non spalancò le imposte. Sul marciapiede, giusto in faccia alla finestra, la signora Buridè, merciaia, fermò Noemi d’Artièl per

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domandarle se aveva fatto colazione. Giovanni Peluèr guardava questa Noemi che aveva diciassett’anni. La sua testa bruna e ricciuta d’angelo spagnolo non era fatta per un corpo così tozzo; ma Giovanni adorava il con­ trasto del giovane corpo vigoroso, mal squadrato, col volto serafico che faceva dire alle signore che Noemi d’Artièl era bella come un quadro. Come una Vergine di Raffaello un po’ tozza stimolava il meglio e il peggio di Giovanni, e l’eccitava agli alti pensieri come ai bassi diletti. Già il suo collo e il dolce seno luccicavano per la traspirazione. Le ciglia appena accennate accrescevano la castità delle lunghe palpebre scure: nel viso ancora im­ merso in una vaga infanzia le labbra erano puerili e ver­ ginali; ma d’un tratto si vedevano quelle mani forti da giovanotto, quei polpacci cilindrici, che le stringhe ser­ ravano, e che si dovevano pur chiamare caviglie! Gio­ vanni Peluèr sbirciava con aria sorniona quest’angelo; ma il nipote di Cadetta, lui sì, poteva guardarla in fac­ cia, col diritto che hanno i bei ragazzi, anche del po­ polo, su tutte le ragazze. Era molto se Giovanni Peluèr osava annusare l’aria mossa dalla sua veste di percalle, e quell’odore di saponetta e di biancheria linda che dif­ fondeva intorno quando alla messa cantata traversava la navata sfiorando, la seggiola di lui. Giovanni Peluèr so­ spirò, e rimise la camicia del giorno prima che era anche quella di due giorni prima. Il suo corpo non meritava cure; si serviva di una brocca nana in un minuscolo catino per poter chiudere il coperchio della toletta senza romperla. Sotto il tiglio del giardino invece di recitare la pre­ ghiera lesse il giornale in modo che il foglio nascon­ desse la sua faccia al nipote di Cadetta. Quel birbante fischiettava! Con un garofano rosso all’orecchio, pareva un galletto brillante e verniciato. I pantaloni color in­ daco erano stretti alla vita da una cintola. Giovanni Peluèr lo odiava bassamente, e provava orrore di que­ st’odio. Né bastava a consolarlo il pensiero che quel giovanotto sarebbe un giorno diventato un orribile con­

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tadino, poiché allora ad annaffiare le lattughe sarebbe venuto un altro giovanotto altrettanto forte, altrettanto atticciato — così come altre farfalle bianche avrebbero palpitato nell’aria eguali alle farfalle di quella mattina. “Anima mia,” si disse Giovanni Peluèr, “anima mia, in questa mattina d’estate tu sei ancor più brutta del mio viso.”

Riconobbe dentro casa la voce flautata del curato. Che cosa stava macchinando a quell’ora che non era quella della sua visita quotidiana? Specie quel giorno, come mai osava rischiare d’incontrarsi con Fernando Casnav che diventava furioso soltanto alla vista d’un prete? Na­ scosto dietro il tiglio, Giovanni Peluèr vide Fernando passare di corsa, come era solito fare sempre cinque minuti prima dei pasti. Lo seguiva la madre, ansimante. Col suo gran corpo tutto gambe, il busto sferico, la te­ sta di vecchia Giunone attaccata ai seni, tutta quella forte macchina guasta e consumata, obbediva alle ingiunzioni del troppo amato figliolo, come se premendo un bottone egli avesse messo in moto un meccanismo. Il signor con­ sigliere accondiscese a fermarsi per aspettarla, s’asciugò col fazzoletto la fronte che gocciolava e la fodera di cuoio della paglietta. Arcigna divinità, sudava sotto la giacca d’alpaga, e nulla del mondo si rifletteva nei suoi occhi metallici. Sua madre gli apriva la strada, stron­ cando gli esseri come fossero rami. Si racconta che un giorno avesse detto : « Se Fernando si sposa, mia nuora morirà ». Nessuna nuora s’era arrischiata a farlo; e del resto quale ragazza avrebbe mai acconsentito a strigliare, a nutrire quest’uomo arrivato, che a cinquant’anni com­ piuti aveva ancora bisogno di cure come un infante? L’avemaria si sciolse nella calura. Giovanni Peluèr sentì il consigliere brontolare : — Porche campane. Non s’insinuò a tavola che quando la zia e Fernando, già insalviettati fino al collo, vi troneggiavano. Il signor Gerolamo fu l’ultimo a sedersi, col dorso curvo da pau­

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roso, ma con l’occhio vivo, e osò confessare che era in ritardo per via del curato. Con la testa rattratta fra le spalle i Peluèr aspettavano il temporale, che non scop­ piò che al cosciotto arrostito. Primo servito, Fernando Casnav, con la forchetta in aria, interrogava il viso della madre. Felicita annusò il pezzo, lo rivoltò, poi sentenziò: — Troppo cotto! — Allora la coppia di comune ac­ cordo respinse i piatti. Cadetta comparve con certi occhi da gallina inseguita, e difese il suo arrosto lagnandosi nel suo dialetto; strepito inutile, perché il consigliere finì per saziare ugualmente la fame da lupo con la carne troppo cotta. Riempito che fu, si scusò di non essere an­ dato prima a salutare lo zio Peluèr; ma aveva veduto nell’ingresso un cappello da sacerdote: i Peluèr sapevano che un prete gli faceva orrore fisicamente. Senza alzare gli occhi, con la sua voce monotona, il signor Gerolamo disse: — Il signor curato è venuto per parlarmi di te, Giovanni. Sai che ti vuol dare moglie? — Fernando sghignazzò e disse che non era una cosa seria. — Per­ ché? Giovanni è sui ventitré anni. — Allora Fernando Casnav scoppiò: di cosa s’immischia quel corvo? Con quale diritto ficca il naso negli affari della famiglia? E perdendo le staffe, osò chiedere a mezza voce se Gio­ vanni era « sposabile ». Con una strizzatina d’occhio la madre richiamò all’ordine lo zoticone. — Sarebbe una gran bella cosa che Giovanni si sposasse, — diceva, — a questa casa manca una massaia. Ah ! è vero che le spose hanno sempre dei capricci, e il regime di Gerolamo ne sarebbe scombussolato. — Fernando, calmatosi, l’appro­ vava: certo che Giovanni poteva formarsi una famiglia. Ma non sarebbe una disgrazia per lui ? Quel caro ragazzo aveva già delle abitudini, delle manie, proprio da vecchio scapolo. La zia Felicita insinuò che il fratello avrebbe avuto ragione, se mai, di non abitare con la giovane coppia. E che colpo sarebbe per lui ! Ricordò quante par­ tenze a vuoto aveva fatto Giovanni Peluèr per il colle­ gio, quando, nonostante il posto fissato, la valigia fatta

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e la carrozza alla porta, il padre, all’ultimo minuto, lo tratteneva. Inquieto, ma non volendo mettere in dubbio che que­ sta storia del matrimonio fosse altro che un’invenzione sorniona del signor Gerolamo, Giovanni, assente col pen­ siero, si ricordò di quelle sere del 2 ottobre, quando sotto la pioggia l’aspettava l’antico landò che doveva con­ durlo attraverso il Bazadese fino alla pia casa della Lan­ da dove i ragazzi curvi sui dizionari sognano di andare a caccia. Sul suo baule, che era ancor quello d’un pro­ zio, erano ancora incollati dei pezzi di carta a fiorami. Il signor Gerolamo singhiozzava, fingeva d’avere un at­ tacco d’asma, tanto era vile dinanzi al minuto d’angoscia d’una separazione! Fin da quell’epoca, certo, il poveruo­ mo esigeva il silenzio, ma un silenzio un po’ turbato dalla piccola vita sofferente di Giovanni Peluèr che gli stava al fianco. Così Giovanni Peluèr studiò col curato fino ai quindici anni e non andò al collegio che per la licenza liceale... Che cos’era, quest’improvvisa fantasia di dargli moglie ? Giovanni si ricordò delle parole strane del padre, il giorno prima, nel giardino... ma di che cosa mai si preoccupava? Tanto, si ripeteva, un Giovanni Peluèr non è « sposabile »... I Casnav erano pazzi a pren­ dere sul serio quella farsa. Ed eccoli a insistere per co­ noscere il nome dell’eletta; ma l’ora della siesta permise al signor Gerolamo di schivare la domanda. La coppia, nonostante il caldo, andò a passeggiare nel giardino e, pieno d’angoscia, Giovanni spiava, dal corridoio, i loro colloqui. Al rumore della messa in moto dell’automobile che se­ gnava la loro partenza, il malato si svegliò, e appena Giovanni ebbe riconosciuto lo strascichio delle pantofole paterne, entrò nell’atmosfera di odor di medicine che sa­ turava la camera. In questa mefitica officina gli fu rive­ lato che pensavano seriamente di dargli moglie, una mo­ glie che era Noemi d’Artièl. La specchiera rifletté il cor­ po di Giovanni, più secco degli scopeti nelle lande in­ cendiate. Eccolo balbettare: — Ma lei non vorrà saper­

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ne di me —, e fremette udendo queste parole inaudite: — Si è tastato il terreno, e la ragazza non dice di no... — I d’Artièl credono di sognare, e non osano pensare a tanta fortuna. Ma Giovanni scuote la testa e sembra, con le mani tese in avanti, difendersi contro quel mi­ raggio. Una ragazza nelle sue braccia, di propria voglia? Noemi della messa cantata, Noemi di cui non potè mai fissare gli occhi, simili a fiori neri ? L’aria agitata dal suo corpo misterioso quando traversava la navata, Giovanni Peluèr 1’accoglieva sulla sua carne come il solo bacio che avesse mai conosciuto. Tuttavia il padre scopre i propri disegni, che sono poi quelli del curato: importa che i Peluèr abbiano dei discendenti e che nulla dei loro beni rischi di passare a zia Felicita e a Fernando Casnav. Il signor Gerolamo aggiunge: — E sai, quando il curato vuole una cosa, non c’è verso di resistergli —. Giovanni sorride, fa smorfie; fremono gli angoli delle sue labbra, e obietta: — Le farò orrore —. Il padre non pensa a protestare; non essendo mai stato amato, non si imma­ gina nemmeno che il figlio possa conoscere questa feli­ cità. Invece, ricorda con compiacenza le virtù di Noemi, che il curato ha scelta fra tutte le altre ragazze, e che è l’edificazione della parrocchia. Noemi appartiene a quella razza che non cerca nel matrimonio una gioia carnale; donna di dovere, sottomessa a Dio e allo sposo, sarà una di quelle madri come se ne trovano ancora, che conservano una candida ignoranza, nonostante le mol­ teplici gravidanze. Il signor Gerolamo tossicchia, s’inte­ nerisce un poco: — E potrei morire in pace, quando ti sapessi sposato e al sicuro dai Casnav... — Il curato vorrebbe andare per le spicce: Giovanni potrebbe vedere il giorno dopo Noemi; essa lo aspetterebbe dopo cola­ zione alla canonica, dove la signora d’Artièl troverebbe un pretesto per lasciarli a quattr’occhi. Il signor Gero­ lamo parlava in fretta, eccitato, per via della discussione inevitabile, del rifiuto di Giovanni che bisognava vin­ cere, e le dita gli tremavano. Giovanni, sbalordito, non trovava più parole. Che vergogna provare un simile ter-

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rore ! Non era insomma il momento di sfuggire al gregge degli schiavi e di agire da padrone? Gli capitava quel momento unico per rompere la sua catena, per diventare un uomo. E poiché il padre insisteva per una risposta, fece un segno di consenso. Più tardi, ripensando a quel minuto nel quale decise il suo destino, riconobbe che die­ ci pagine di Nietzsche mal capite l’avevano fatto deci­ dere. Se la svignò, lasciando il signor Gerolamo stupe­ fatto di una vittoria così facile e impaziente di annun­ ziarla al curato. Il tempo di scendere la scala, e Giovanni Peluèr già si adattava al prodigio, si sentiva impercettibilmente me­ no casto. Vergine, gli era stato rivelato che la sua ver­ ginità non sarebbe forse eterna. Osò risvegliare dentro di sé un’immagine, e fissare con arditezza quegli occhi scuri; ah! bastava per venir meno! Giovanni Peluèr pro­ vò il desiderio di bagnarsi. Come accade a molte tinoz­ ze della regione della Gironda, quella dei Peluèr era pie­ na di patate, e Cadetta dovette vuotarla. Dopo pranzo Giovanni Peluèr traversò il villaggio. Si sorvegliava per non fare gesti, e non parlava fra sé e sé. Rigido, diplomatico, salutava ogni gruppo davanti alle porte che si faceva silenzioso al suo avvicinarsi, co­ me le rane d’uno stagno; ma nessuna risata scoppiettò. Alla fine, passate le ultime case, sulla strada ancora li­ vida, fra due neri eserciti di pini che soffiavano su di lui un alito di serra, e le migliaia di vasi che ricolmi di resina profumavano come incensieri la silvestre cattedra­ le, potè ridere, scuotere le spalle, far crocchiare le dita, gridare: «Sono un Dominatore, un Dominatore, un Do­ minatore », e ripetere facendo spiccar la cesura, questo distico: «Per che segrete molle, - e concatenamento il Ciel condur ci volle - al grande avvenimento ? ». h

Ill

Giovanni Peluèr teme che la conversazione cada; e la paura del silenzio spinge il curato e la signora d’Artièl a sfiorare tutti i soggetti e a dissiparli pazzamente; fini­ ranno presto per non aver nulla da dire. Come un fiore di magnolia traboccante dal vaso, la veste di Noemi sporge dalla seggiola. Come uno di quei fiori che danno al capo, e che non è prudenza lasciare in camera la not­ te, essa impregna col suo odore di ragazza, in un gior­ no fulvo di luglio, quel povero parlatorio, dove Dio è dappertutto, su tutte le pareti e sul camino. Giovanni non gira la testa, ma gli occhi; ispeziona Noemi come una statua calata giù dal suo piedistallo e che veduta così da vicino, gli appare come sotto una lente. Cerca avidamente i difetti, le « bolle » di questo metallo vivo e fremente: alle pinne del naso, dei punti neri; all’ini­ zio dei seni, una pelle che dovette esser bruciata da una spennellatura di iodio troppo vecchio. Una parola del curato la fa ridere un momento, ma basta perché nella chiostra pura dei suoi denti Giovanni s’accorga di un canino un po’ scuro, forse falso. L’esamina in modo che gli occhi di lei non osan rivolgersi a lui; e forse la guarda per non essere guardato. Dio sia lodato! Il curato sa parlare anche da solo e predicare di palo in frasca. Nonostante sia piccolo e grassoccio non ha nulla di gioviale. E la corpulenza non

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impedisce che appaia l’austerità interna. Nelle fattorie lo capiscono poco, ma nel villaggio l’amano, e sotto la sua direzione parecchie anime fanno bei progressi nella vita spirituale. Ha un carattere dolce, ma, come di so­ lito accade, tiene in pugno il mondo. Tutto soavità e compunzione, la sua volontà si piega ma non si spezza. Distoglie dal ballo della domenica le più belle ragazze, e tien testa bonariamente alle imprese galanti dei gio­ vanotti; nessuno sa che ha salvato l’impiegata delle poste sull’orlo dell’adulterio. Ora ha deciso che non è bene che Giovanni resti solo; a questo pastore importa soprat­ tutto che la famiglia Peluèr non diventi un giorno la casa Casnav; che il lupo non s’annidi nell’ovile. Giovanni non aveva mai notato come le donne re­ spirano col petto; quando si gonfiava, il seno di Noemi toccava quasi il mento. Senza cercar di continuare la commedia, il curato si alzò, dicendo che forse quei cari ragazzi avevano da dirsi qualche cosa di confidenziale; e invitò la signora d’Artièl a venire nel giardino per ammirare certe susine Regina Claudia che prometteva­ no benissimo.

E ora nella stanza oscura, come se si trattasse d’un’esperienza d’entomologia, non c’è più che quel piccolo maschio nero e spaurito davanti alla femmina meravi­ gliosa. Giovanni Peluèr non si muove più, non alza gli occhi: è ormai inutile; eccolo prigioniero degli sguar­ di fissi su di lui. La vergine misura con l’occhio quella larva che rappresenta il suo destino. Il bel giovane dagli scambievoli volti, il compagno di sogno di tutte le ra­ gazze, colui che offre alle loro insonnie il suo petto du­ ro e la stretta cintura delle sue braccia, svanisce nel cre­ puscolo di quella canonica, si fonde fino a non essere più altro nel più oscuro angolo del parlatorio, che que­ sto grillo sperduto. Essa considera il suo destino che sa ineluttabile: non è possibile dir di no al figlio dei Pe­ luèr. I genitori di Noemi vivono con l’angoscia che il giovanotto si sottragga, e non immaginano neppure che

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la loro figlia possa fare qualche obiezione; e neppure lei vi pensa. Da un quarto d’ora, tutto quello che deve darle la vita è là, che si rode le unghie, e si dimena su una seggiola. Egli si alza, ancor più piccolo in piedi che seduto, e parla, balbetta una frase che lei non ca­ pisce e che lui ripete: — So di non essere degno... — Noemi protesta: — Oh, signore!... — Giovanni si ab­ bandona a una pazza crisi di umiltà, riconoscendo che non lo si può amare e non domandando che il per­ messo di amare. Le parole gli tornano, le frasi si orga­ nizzano. Ha aspettato fino a ventitré anni per aprire il suo cuore a una donna. Gesticola, come se fosse solo, per dipingere la sua bell’anima, e infatti è solo. Noemi guardava la porta, e non si meravigliava; ave­ va sempre sentito dire di Giovanni Peluèr: «Che tipo, gli manca una rotella ». Egli parlava, e la porta restava chiusa; nulla di vivo nella canonica salvo quel fantoc­ cio e i suoi gesti. Noemi si turbò; un desiderio di pian­ gere la soffocava. Giovanni alla fine tacque; e lei ebbe paura come in una camera dove si sa che è entrato un pipistrello e vi sta nascosto. Quando il curato e la si­ gnora d'Artièl ritornarono, essa si gettò al collo della mamma senza immaginare che questa effusione potesse essere un consenso. Ma già il curato strofinava la sua gota contro quella di Giovanni. Le signore se ne anda­ rono sole per non risvegliare la curiosità dei vicini. Die­ tro le imposte accostate, Giovanni Peluèr riuscì a vedere, accanto alla signora d’Artièl allampanata e gracile che se n'andava col didietro a sghimbescio come i cani, quel vestito di Noemi, quel vestito un po’ sgualcito che non straboccherebbe mai più, quella nuca curvata, fiore meno vivo, fiore già reciso? Questo ragazzo selvatico, abituato a rimpiattarsi lon­ tano dal mondo con Punici preoccupazione di non es­ sere veduto, rimase parecchi giorni stordito e istupidito per tanto fracasso intorno a lui. Il destino lo traeva fuo­ ri delle tenebre; come una formula di magia le parole

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di Nietzsche avevano abbattuto i muri della sua cellula; col collo dentro le spalle e le palpebre strizzate, poteva sembrare un uccello notturno lasciato andare in piena luce. Anche quelli che gli stavano accanto cambiavano: il signor Gerolamo trascurava la dieta, e diminuiva il tempo della siesta per inseguire il curato in sacrestia; i Casnav non comparvero più il giovedì e non manifesta­ rono la loro esistenza che con mille voci vituperose sul temperamento di Giovanni e su certe particolarità che, si diceva, lo rendevano inadatto allo stato matrimoniale. Dal fondo della sua umiltà Giovanni Peluèr si mera­ vigliava che i d’Artièl potessero essere invidiati per via del suo matrimonio. Si ripeteva dappertutto che Noemi meritava certamente quella fortuna. I d’Artièl erano un’antica famiglia allora in cattive acque. Il laborioso signor d’Artièl aveva lasciato qualche penna in diverse imprese, e non si vergognava di fare l’impiegato al mu­ nicipio; né era più un segreto che a Pasqua i d’Artièl avevano dovuto licenziare la donna di servizio. Giovan­ ni Peluèr si guardava nello specchio e non si trovava più tanto brutto. Il signor curato andava ripetendo ovun­ que che il figlio Peluèr, se mancava un po’ d’apparen­ za, era per altro uno spirito fuori dell’ordinario. Il rispettoso silenzio di Noemi, ogni sera, mentre Gio­ vanni Peluèr si ascoltava parlare seduto sopra un canapè del salotto, disponeva questo ragazzo a credere che, co­ me diceva il curato, una signorina seria apprezza nel suo fidanzato soprattutto i pregi dello spirito. Egli continuava, come prima, ad abbandonarsi ai suoi soliloqui, a gesticolare, a citare versi all’improvviso, e la bella figliola rannicchiata in un angolo del canapè gli parve altrettanto indulgente verso i suoi discorsi quanto poco prima gli alberi della strada deserta. Si spinse lontano nelle confidenze, fino a parlarle di quel Nietzsche che forse lo avrebbe costretto a rivedere i fon­ damenti della sua vita morale; Noemi s’asciugava le mani madide con un fazzolettino appallottolato e guar­ dava la porta dietro la quale i suoi genitori bisbiglia­

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vano, senza che lei, grazie a Dio! potesse afferrare il senso delle loro parole: i pettegolezzi sul futuro genero turbavano il padre d’Artièl che, essendo stato turlupi­ nato e derubato a tutte le svolte della sua vita, non du­ bitava affatto che sotto quest’apparente rivolgimento del­ la fortuna non si nascondesse un disastro. Ma stando alla signora d’Artièl l’unico fondamento di quelle calunnie era la malevolenza dei Casnav e la ripugnanza per le donne che Giovanni Peluèr aveva dimostrato, forse per ragioni religiose, forse per timidezza. Sotto il chiaro di luna suonavano le undici; la signora d’Artièl apriva la porta, senza tossire né bussare, e senza speranza di sor­ prendere i giovani in un atteggiamento sospetto. Si scu­ sava di disturbare «le tortorelle»; era l’ora, diceva, del « coprifuoco ». Giovanni sfiorava con le sue labbra i ca­ pelli di Noemi, poi se ne andava accompagnato dalla sua ombra lungo le case. Il suo passo marziale svegliava i cani da guardia che la luna impediva di riaddormen­ tarsi; cosicché, anche di notte, riempiva di rumore il villaggio. Lo strano era che non provava più nulla del­ la commozione di un tempo, quando Noemi alla messa cantata fendeva l’aria con la sua veste stirata di fresco. Scuoteva il capo, per non pensare a quella notte di set­ tembre, nella quale gli si sarebbe abbandonata. Quella notte non arriverà mai: scoppierà una guerra, qualcuno morrà; la terra tremerà... Noemi d’Artièl, nella sua lunga camicia, recitava la preghiera davanti alle stelle. Le piaceva toccare con i piedi nudi il freddo ammattonato; e offriva il dolce seno alla compassione della notte. Non si asciugava la lacri­ ma che scorreva prossima alla sua lingua, ma la beveva. Il fremito del tiglio e il suo profumo arrivavano alla via lattea. I suoi sogni un po’ pazzi non vagabondavano più su questa strada del cielo. I grilli che strepitavano sull’orlo dei loro buchi, le ricordavano il suo padrone. Una sera, distesa sulle lenzuola e tutta abbandonata alla notte calda, singhiozzò dapprima sommessamente, poi ge­

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mette a lungo e considerò con compassione il suo casto corpo intatto, esuberante di vita ma di una freschezza vegetale. Che ne farebbe quel grillo? Sapeva che egli aveva il diritto a tutte le carezze, anche a quella, miste­ riosa e terribile, dalla quale nascerebbe un bambino, un piccolo Peluèr, nero nero e gracilino... Quel grillo se lo doveva tenere tutta la vita e fin tra le sue lenzuola. Men­ tre singhiozzava, la madre entrò (oh camiciola a fe­ stoni! o magra treccia!). La piccina inventò che aveva orrore del matrimonio, e che desiderava farsi carmeli­ tana. La signora d’Artièl senza protestare, la prese tra le braccia fino a che i singhiozzi si furono diradati. Poi l’assicurò che in faccende simili bisognava rimettersi al proprio direttore di coscienza; non era forse il curato che aveva scelto per lei la via del matrimonio? Piccola ani­ ma casalinga, tutta tenerezze e religione, Noemi era in­ capace di rispondere. Non leggeva romanzi; serviva e obbediva i genitori; le assicuravano che un uomo non ha bisogno d’essere bello; che il matrimonio produce l’amore come un pesco le pesche... Sarebbe bastato per convincerla ripetere l’assioma: Non si dice di no al figlio dei Peluèr! Non si dice di no al figlio dei Peluèr; non si rifiutano fattorie, poderi, greggi, argenterie, e la bian­ cheria di dieci generazioni ben ordinata in grandi ar­ madi, alti e profumati, un parentado con quel che c’è di meglio nel paese. Non si dice di no al figlio dei Peluèr.

IV

La terra non tremò; il cielo non dette segni e l’alba di quel martedì di settembre rischiarò dolcemente il mon­ do. Dovettero svegliare Giovanni Peluèr che aveva dor­ mito un sonno profondo. Le lastre del vestibolo e la pietra della soglia scomparvero sotto il bosso, il lauro e le foglie di magnolia. Tutti gli odori della casa ce­ dettero al profumo di quella fiorita calpestata. Le dami­ gelle d’onore bisbigliavano tra loro e per non sciuparsi le vesti evitavano di sedere. La sala del Cavallo rosso s’ornò di ghirlande di carta. Il pranzo doveva arrivare già pronto da B... col treno delle dieci. Su tutte le stra­ de le « vittorie » condussero famiglie in guanti bianchi. Il sole si rifletteva nelle tube arruffate dei signori in abito a coda di rondine, che destavano l’ammirazione dei contadini. Il signor Gerolamo smascherò le sue batterie: sarebbe rimasto a letto. Era il suo modo di ignorare le esequie e le nozze del suo vicinato. In queste occasioni solenni inghiottiva una compressa di cloralio e tirava le cortine del letto. Si ricordavano che durante l’agonia della mo­ glie era andato a coricarsi all’ultimo piano della casa e, col naso contro il muro, non aveva consentito ad aprire un occhio se non quando fu assicurato che l’ultima pa­ lata di terra era stata gettata sulla bara, e che il treno aveva condotto via l’ultimo degli invitati. Il giorno dello

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sposalizio del figlio non volle che Cadetta spalancasse le imposte quando Giovanni Peluèr, color verde e ridotto a nulla entro il suo frac, gli chiese di benedirlo.

Giorno terribile ! A Giovanni era tornata di colpo tutta la sua vergogna. Benché il corteo sfilasse tra il frastuono delle campane, col suo orecchio fine da cacciatore non perse nulla dei commenti compassionevoli della folla. Sentì un giovanotto mormorare : — Che peccato ! — Al­ cune ragazze, salite sopra un albero, scoppiavano dalle risa. Fra l’altare incendiato e la folla rumoreggiante va­ cillava, annaspava con le mani sul velluto dell’inginoc­ chiatoio. Non guardava, ma sentiva fremere al suo fian­ co il corpo misterioso di una donna... Il curato leggeva, leggeva. Ah se il suo discorso non fosse finito mai ! Ma il sole, crivellando di coriandoli le vecchie lastre, dove­ va declinare, poi si sarebbe aperto il regno della notte rivelatrice. Il calore aveva sciupato il pranzo; una delle aragoste puzzava. La bomba ghiacciata si mutò in una crema gialla. Piuttosto che fuggire, le mosche si sarebbero fatte schiacciare sui pasticcini, e le donne grosse soffrivano d’essere bardate; intensi sudori bruciarono senza rimedio le camicette. Soltanto la tavola dei bambini strillava di gioia. Dal fondo del suo abisso Giovanni Peluèr spiava i visi: che cosa bisbigliava Fernando Casnav a uno zio di Noemi? Come un sordomuto, Giovanni indovinava la frase dal movimento delle labbra: — Se ci avessero dato retta, si sarebbe evitata questa disgrazia, ma nella nostra posizione era ben delicato intervenire...

V

La camera di quella pensione d’Arcachon era mobiliata in finto bambù. Nessuna stoffa nascondeva gli accessori sotto la toletta, e la carta da parati era insozzata da macchie di zanzare schiacciate. Dalla finestra aperta la vasca mandava un alito di pesce e di alghe salmastre. Il rombo d’un motore s’allontanava verso l’aperta cam­ pagna. Due angeli custodi velavano le loro facce ver­ gognose dietro le cortine di cretonne. Giovanni Peluèr dovette combattere a lungo, prima contro la propria frigidità, poi contro una morta. All’alba un gemito fioco segnò la fine d’una lotta durata sei ore. Madido di su­ dore Giovanni Peluèr non osava muoversi, più schifoso di un verme vicino a quel cadavere finalmente abban­ donato. Noemi era simile a una martire addormentata. I ca­ pelli appiccicati alla fronte, come nell’agonia, rendeva­ no ancora più esile il suo viso di fanciullo picchiato. Le mani in croce sul seno innocente stringevano lo sca­ polare un po' stinto e le medaglie benedette. Si sarebbe dovuto baciare i suoi piedi, prendere quel tenero corpo senza svegliarlo, correre, tenendolo così, verso l’alto ma­ re. e abbandonarlo alla casta schiuma.

VI Benché un biglietto circolare obbligasse la coppia a re­ stare assente tre settimane, dieci giorni dopo le nozze tornò ad approdare nella casa Peluèr. Il borgo fu tutto a rumore, e i Casnav, senza aspettare il giovedì, accor­ sero a scrutare il viso di Noemi. Ma la giovane donna non rivelò nulla del suo cuore. I d’Artièl e il curato fermarono, d’altra parte, i pettegolezzi: le tortorelle ave­ vano preferito _ dicevano - la calma del focolare dome­ stico al subbuglio degli alberghi e delle stazioni. Uscen­ do dalla messa solenne, Noemi, agghindata, strinse le mani sorridendo: rideva, dunque era felice. Tuttavia me­ ravigliò vederla così assidua alla messa quotidiana. Al­ cune signore osservavano che le sue mani coprivano a lungo, dopo la comunione, un viso assottigliato e do­ lente. Questa cera sbattuta fece concludere che Noemi era incinta. La zia Felicita parve misurare un giorno con occhio furtivo la vita della sposa. Ma un colloquio se­ greto con Cadetta — vecchia augure che presiedeva ai bucati - la rassicurò. D’allora in poi giudicò politico tenersi in disparte, non volendo, diceva, fingere d’appro­ vare con la sua presenza un'unione mostruosa, combi­ nata dai preti. Si riservava di riapparire sulla scena ap­ pena il dramma inevitabile sarebbe scoppiato.

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Tuttavia il signor Gerolamo si meravigliava che la nuora lo curasse con la passione d’una suora di San Vin­ cenzo de’ Paoli. Noemi gli portava ogni rimedio ail’ora prescritta, ordinava i pasti secondo un regime rigoroso e, con dolce autorità, imponeva che tutti tacessero du­ rante la siesta. Come una volta, Giovanni Peluèr scap­ pava dalla casa paterna, costeggiando i muri delle viuz­ ze fuori mano. S’appostava dietro un pino, sull’orlo di un campo di miglio, per tirare alle gazze. Avrebbe vo­ luto trattenere ogni minuto, e che la sera non venisse mai. Ma già l’ombra nasceva più presto. I pini, in pre­ da ai venti dell'equinozio, riprendevano in sordina il lamento che l’Atlantico insegna loro nelle sabbie di Mimizan e di Biscarros. Dal folto delle felci si innalza­ rono le capanne di scopa al cui riparo i landesi cacciano i palombi in ottobre. L’odore del pan di segala profu­ mava il crepuscolo intorno alle fattorie. Il sole tramon­ tava quando Giovanni Peluèr tirava alle ultime allodole. A mano a mano che si avvicinava al borgo il suo passo diventava più lento. Un po’ di tempo ancora, ancora un po’ di tempo, prima che Noemi soffra di sentirselo in casa! Attraversava il vestibolo alla chetichella; lei lo aspettava al varco, con la lampada alta, gli veniva in­ contro con un sorriso d’accoglienza, offrendogli la fron­ te, soppesando la carniera, facendo insomma tutti i ge­ sti della sposa che è felice perché l’amato bene è tor­ nato. Ma non reggeva a questa parte più di qualche minuto, e nemmeno per un istante potè lusingarsi di averlo illuso. A pranzo il signor Gerolamo li liberava dal silenzio: da quando un’infermiera s’occupava di lui, non la finiva più di descrivere le sue sensazioni; e poi­ ché si incaricava di ricevere i mezzadri, Noemi doveva anche ragionare con lui della proprietà. Il signor Ge­ rolamo era pieno d’ammirazione per questa ragazzina, la sola di tutta la casa che sapesse verificare i conti del fattore e sorvegliare la vendita del legname da miniera.

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Le attribuiva persino il merito dei due chili che aveva guadagnato dopo il matrimonio del figlio. Finito il pranzo, e poiché il signor Gerolamo son­ necchiava coi piedi contro gli alari, i due sposi si tro­ vavano a quattr’occhi, senza diversioni possibili. Giovan­ ni Peluèr si sedeva lontano dalla lampada, respirava ap­ pena, e scompariva nell’ombra. Ma niente poteva im­ pedire che fosse là, e che alle dieci Cadetta portasse i candelieri. Com’era duro salire in camera da letto! L’au­ tunno piovoso sussurrava sulle tegole. Un’imposta sbat­ teva, il traballio d’un carro si allontanava. In ginocchio contro il tremendo letto, Noemi scandiva a mezza voce le parole della preghiera: Prosternata davanti a voi, o Dio mio, io vi rendo grazie d’avermi dato un cuo­ re capace di conoscervi e di amarvi... Giovanni Peluèr nella tenebra, indovinava la contrazione del corpo ado­ rato e se ne allontanava più che poteva. Talvolta Noemi, avanzando una mano verso quel viso meno odioso poi­ ché non lo vedeva più, vi sentiva delle lacrime cocenti. Allora, piena di rimorso e di compassione, come una vergine cristiana nell’anfiteatro, si gettava con un solo slancio verso la bestia, con gli occhi chiusi, le labbra serrate, e stringeva quell’infelice.

VII

La caccia al palombo servì a Giovanni Peluèr di prete­ sto per passare le giornate lontano da colei che, soltanto coll’esser presente, assassinava. Si levava senza rumore per non svegliare Noemi. Quando lei apriva gli occhi, era già lontano; un biroccino lo portava sulle strade fan­ gose. A una fattoria staccava il cavallo e presso la ca­ panna da caccia si nascondeva fischiando per timore di disturbare un volo di palombi. Il nipote di Cadetta gri­ dava che poteva avvicinarsi, e l’appostamento incomin­ ciava: lunghe ore di nebbia e di sogno cullate dai cam­ pani delle mandrie, dalle grida dei pastori, dal grac­ chiare dei corvi. Già alle quattro doveva lasciare la caccia, ma per non ritornare che il più tardi possibile, Giovanni scivolava in chiesa; non vi recitava preghiere di sorta; sanguinava dinanzi a qualcuno. Spesso gli venivano le lacrime; gli pareva che la sua testa riposasse su delle ginocchia. Poi gettava sul tavolo di cucina dei palombi color ardesia col gozzo ancora pieno di ghiande. I suoi scarponi fu­ mavano davanti al fuoco; sentiva sulla sua mano la lin­ gua tiepida di una cagna. Cadetta scodellava la zuppa; dietro di lei, Giovanni entrava nella stanza da pranzo. Noemi gli diceva: — Non sapevo che fossi già di ri­ torno... — Oppure: — Non vorresti lavarti le mani? — Allora andava in camera sua e i battenti non erano an-

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cora chiusi: una lanterna illuminava le carreggiate colme di pioggia... Giovanni Peluèr si lavava le mani senza riuscire a pulirsi le unghie, e le nascondeva sotto la ta­ vola perché Noemi non le vedesse. L’osservava sottec­ chi: com’erano bianche le sue orecchie! Lei non aveva appetito. Lui insisteva goffamente perché prendesse an­ cora dell’arrosto. — Ma se ti dico che non ho più fa­ me ! — Un sorriso sottomesso, talora il cenno di un bacio correggevano questi brevi segni d’impazienza. Noe­ mi guardava in faccia lo sposo come un’agonizzante che crede nel cielo guarda la morte, e forzava al sorriso le sue labbra, come si fa per ingannare qualcuno che stia per morire. Era lui, lui, Giovanni Peluèr che illividiva quegli occhi, che scolorava quelle orecchie, quelle lab­ bra, quelle gote: bastava la sua presenza a consumare quella giovane vita. Così disfatta gli era ancora più cara. Quale vittima fu mai più amata dal suo carnefice? Il signor Gerolamo era il solo che rifiorisse. Quel dol­ ce uomo, non vedeva nessuna sofferenza all’infuori della propria. Ci si meravigliò di sentirlo rallegrarsi di un se­ rio miglioramento del suo stato di salute. L’asma gli dava tregua. Poteva sonnecchiare fino a giorno senza aiu­ to di narcotici. Gli aveva portato fortuna, diceva, non ricevere più il dottor Piesciòn il cui figlio sputava san­ gue ed era in cura dal padre. Il signor Gerolamo, per timore del contagio, aveva rotto col suo vecchio compa­ gno di scuola. Giurava che la nuora bastava a tutto e che aveva più esperienza di tutti i medici. Nulla le ri­ pugnava: nemmeno i servizi più umili. Aveva saputo rendere deliziosa la dieta più insipida. Aveva sostituito i condimenti proibiti con succo di limone e d’arancia, talora con un dito di vecchio « armagnac », ed eccitava così l’appetito che il signor Gerolamo assicurava di aver perduto da ormai quindici anni. Dopo qualche timida prova, Noemi volle aiutare la digestione del suocero con una lettura ad alta voce. Instancabile, non si fermava più, faceva finta di non accorgersi che il signor Gero­

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lamo annunziava con un leggero soffio regolare che stava per prendere sonno. Suonava un’ora, ed era un’ora di meno da tremar di disgusto nella tenebra della ca­ mera nuziale, spiando i movimenti dell’orrendo corpo steso contro il proprio, che, per compassione di lei, avrebbe finto di dormire. Talora il contatto di una gam­ ba la svegliava: allora scivolava tutta fra il muro e il letto; o sentendosi sfiorare sussultava: era l’altro che cre­ dendola addormentata osava una carezza furtiva. Era lei allora a fingere di dormire, per paura che Giovanni Peluèr fosse tentato di spingersi oltre.

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Mai fra di loro quelle dispute che talora separano gli amanti. Si sapevano troppo feriti per colpirsi: la minima offesa si sarebbe inasprita, sarebbe stata inguaribile. Ognuno vegliava a non toccare la ferita dell’altro. I loro gesti furono misurati per farsi meno soffrire; quando Noemi si spogliava, egli guardava da un’altra parte e non entrava mai nello stanzino di toletta quando lei si lavava. Si abituò ad essere più pulito, fece venire del­ l’acqua di Lubèn, di cui s’inondava e, tremando, inau­ gurò una doccia. Giovanni credeva d’essere l’unico col­ pevole; Noemi si odiava perché non si sentiva una spo­ sa secondo Dio. Non si scambiarono mai un rimprove­ ro, nemmeno muto, 'ma con lo sguardo si chiedevano reciprocamente perdono. Decisero di recitare insieme le preghiere; nemici nella carne, si univano in questa im­ plorazione serale; almeno le loro voci potevano confon­ dersi; fianco a fianco e separati, si raggiungevano nel­ l’infinito. Una mattina, poiché senza averlo convenuto, s’erano incontrati al capezzale d’un vecchio infermo, si serviro­ no avidamente di questo nuovo legame, e da quel gior­ no in poi, una volta alla settimana, fecero il loro giro dei malati, attribuendosene reciprocamente il merito. Tol­ te queste visite, Noemi fuggiva Giovanni, o meglio il

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corpo di Giovanni, e Giovanni fuggiva il disgusto di Noemi. Invano essa volle reagire contro questa ripulsio­ ne della sua carne: un giorno tetro di novembre, nono­ stante odiasse camminare, si sforzò di seguire Giovan­ ni Peluèr nella landa e fino ai confini di quelle paludi deserte dove il silenzio è tale che quando la tempesta sta per scoppiare, vi si sentono i colpi sordi dell’Atlan­ tico contro le sabbie. Le genziane avevano finito di co­ prirle di fiori. Essa andava avanti, come uno che scappi, e lui la seguiva da lontano. I pastori del Béarn, dai quali Giovanni Peluèr discendeva e che avevano goduto del diritto di pascolo in quel deserto, vi avevano sca­ vato un pozzo per le loro mandrie molti secoli prima; i due sposi si raggiunsero sul margine della sua bocca fangosa. E Giovanni pensava a quei vecchi pastori col­ piti dal male misterioso della landa, la pellagra, che si ritrovano sempre in fondo a un pozzo o con la testa immersa nella melma di una laguna. Ah! anche lui, anche lui, avrebbe voluto stringere quella terra avara che l’aveva impastato a propria immagine, e finire sof­ focato da quel bacio.

IX

Spesso la visita del curato interrompeva la lettura. Egli chiamava Noemi « figlia mia » e accettava un bicchiere di nocino; ma non sapeva più sostenere, come una vol­ ta, conversazioni teologiche con il signor Gerolamo, né divertirlo con aneddoti sulla vita del clero. Davanti a questo giudice, ognuno rimetteva la maschera. Gli occhi non esprimevano più nulla; le anime si sentivano spiate. Il curato non trovava più svago in una conversazione di palo in frasca: tutto quello che diceva pareva tendere a un fine non ancora scoperto. Allungava verso il fuoco le sue gambe corte e gonfie, e assestava all’improvviso degli sguardi, che subito si velavano, sulla coppia si­ lenziosa. Meno perentorio, meno sicuro di sé, da molto tempo non aveva raccontato, come gli piaceva fare, le sue discussioni con un certo razionalista, nelle quali ri­ tornava spesso questa formula: «Io gli risposi, del re­ sto vittoriosamente... ». Il signor Gerolamo assicurava di non averlo veduto così preoccupato dal tempo in cui l’ex sindaco aveva preteso di far suonare le campane per i funerali civili e usare il carro funebre della « fab­ briceria ». Il curato avrebbe voluto che Giovanni Peluèi si rimettesse a un lavoro di storia locale, intrapreso con passione, ma interrotto da un anno. Il giovane preten­ deva di mancare dei documenti essenziali. In realtà, po­ co tenace, non andava mai a fondo d’uno studio. Stria­

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va di note le prime pagine dei libri, e non tagliava le ultime. Aveva un perpetuo bisogno di camminare per arzigogolare a suo agio, che l’allontanava dallo studio a tavolino. Una sera, quando il signor Gerolamo si fu ri­ tirato, il curato ritornò con ostinazione su questo argo­ mento. Giovanni Peluèr dichiarò che non poteva più andar avanti, se non consultava delle opere speciali alla Biblioteca Nazionale: e non era proprio il caso di fare un viaggio a Parigi per questo... — E perché, figliolo caro, non farlo? — Il curato rivolse questa domanda a mezza voce; giocherellava con la frangia della sua cin­ tura e non alzava gli occhi dal fuoco. Una voce debole mormorò: — Io non voglio che Giovanni mi lasci —. Ma il curato insiste: è un peccato non mettere a pro­ fitto l’ingegno. Giovanni, che non era capace di dirigere un circolo di studi o un’altra opera sociale, non avrebbe dovuto restare più a lungo un operaio inutile... Il sant’uo­ mo sviluppò questo tema. La triste voce, aggiunse, con grande sforzo: — Se Giovanni se ne va, partirò con lui... — Il curato scosse il capo: Noemi s’era resa indi­ spensabile presso il caro ammalato. Del resto non si trat­ tava che d’una breve separazione - di qualche settimana, di qualche mese... - Noemi non trovò più la forza di protestare. Non una parola di più fu pronunziata fino a quando il curato ebbe rimesso il suo soprabito ovat­ tato e calzato gli zoccoli. Giovanni Peluèr si ravvolse in una pellegrina, accese la lanterna e precedette l’ospite. L’inverno piovigginoso e le sue corte giornate non permisero più agli sposi di fuggirsi - se non quando Giovanni Peluèr andava a caccia di beccacce; - e in que­ sto caso gli toccava rientrare alle quattro col crepuscolo. Un solo fuoco, una sola lampada ravvicinavano quei cor­ pi nemici. Intorno alla casa, la pioggia addormentatrice sussurrava. Il signor Gerolamo aveva i suoi dolori d’ogni inverno alla spalla sinistra e si lamentava. Ma Noemi stava meglio. Si costringeva a uno sforzo quotidiano per distogliere Giovanni dai suoi progetti di viaggio; aveva

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promesso al cielo di far l’impossibile per trattenerlo ac­ canto a sé. Le sue preghiere impedivano al disgraziato di restare nell’indecisione, senza nulla risolvere, e, men­ tre parevano trattenerlo, in realtà lo forzavano a pren­ dere una risoluzione. Egli alzava verso Noemi i suoi oc­ chi di cane bastonato: -— Bisogna che me ne vada, Noe­ mi —. Questa protestava, ma se lui mostrava di cedere, lei, invece di insistere per guadagnar la partita, lasciava andare. Il signor Gerolamo nonostante citasse volentieri il verso dei Due piccioni : « L’assenza è il più grande dei mali », considerava con gioia segreta l’idea di vivere solo con la nuora. Per giunta il curato incalzava Giovanni ogni volta che rincontrava. Che cosa poteva contro que­ sta complicità il triste ragazzo? D’altronde in cuor suo approvava quell’esistenza d’esilio. Non aveva mai lascia­ to il suo buco, salvo che per un pellegrinaggio a Lour­ des e per le sue notti d’amore ad Arcachon. Ingolfarsi solo nella calca di Parigi, per lui era come un affondare per sempre in fondo ad un oceano umano più temibile dell’Atlantico. Ma troppi cuori lo spingevano verso l’a­ bisso. Infine la partenza fu fissata per la seconda set­ timana di febbraio. Molto tempo prima Noemi si occu­ pò della valigia e del corredo. Giovanni Peluèr era an­ cora là, che già lei aveva riacquistato un po’ d’appetito. Le sue gote si colorirono. Un pomeriggio che era nevi­ cato fece delle palle di neve e le gettò in faccia al ni­ pote di Cadetta, e Giovanni Peluèr dietro la finestra del primo piano li guardava. Con lucida coscienza, assisteva a questa resurrezione. Come la campagna si libera del­ l’inverno, così quella donna si liberava di lui: egli la fuggiva per farla rifiorire.

Giovanni Peluèr dopo aver abbassato il finestrino su­ dicio del vagone, guardò più a lungo che gli fu possi­ bile il fazzoletto che Noemi agitava. Come sventolava quel segnale d’addio e di gioia! Durante l’ultima setti­ mana aveva inebriato il viaggiatore con una finta tene­ rezza, e ardente l’aveva provocato fino al punto di far­

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gli mormorare, una notte nella quale aveva creduto di sentirla vivere sotto il suo ansito: — E se non partissi, Noemi? — Ah! benché nella tenebra non gli avesse risposto che con un’esclamazione soffocata, egli indovinò quel terrore, quell’orrore, e non potè trattenersi dal dire: — Rassicurati, me ne andrò —. Fu l’unica parola con cui facesse capire che non era illuso. Lei si voltò verso il muro ed egli l’intese piangere. Giovanni Peluèr guardò sfilare i pini familiari che il piccolo treno attraversava; riconobbe una macchia dove aveva fallito il colpo contro una beccaccia. Le rotaie fiancheggiavano la strada che spesso aveva percorsa in biroccino. Quella fattoria distesa tra il fumo e la neb­ bia, al margine d’un campo vuoto, e che pareva strin­ gere a sé il forno, la stalla, il pozzo, la salutò per no­ me, ne conosceva il padrone. Poi un altro treno lo tra­ sportò attraverso lande dove non era mai stato a caccia. A Langon disse addio agli ultimi pini come ad amici che lo avessero accompagnato il più lontano possibile, e si fermassero alla fine e coi loro rami distesi lo benedi­ cessero.

X

Prese alloggio nel primo albergo che gli capitò sul Quai Voltaire. La mattina guardava piovere sulla Senna che non aveva ancora osato varcare, poi, a mezzogiorno, scivolava fino al caffè della stazione d’Orléans dove son­ necchiava, fra il rimbombo dei treni che portavano verso sud-est viaggiatori felici. Finita la colazione, non osan­ do trattenersi senza prendere una consumazione, beveva dopo la sua bottiglia di vino bianco un paio di bicchie­ rini di liquore, e il suo spirito si muoveva agile nel­ l’assoluto. I suoi tic, le sue parole smozzicate, facevano talora sorridere i vicini e i camerieri, ma, rimpiattato fra il tamburo di una porta e una colonna, restava per lo più inosservato. Leggeva i giornali fino alla quarta pagina: assassinii, suicidi, drammi di gelosia e di paz­ zia, tutto era buono per Giovanni Peluèr, che si pasceva del male universale. Dopo il pranzo un biglietto da due soldi gli permetteva d’andare sul marciapiede della par tenza: vi cercava il vagone sul quale era scritto il nome d’Irun, e i cui vetri larghi avrebbero riflesso il giorno dopo le lande monotone. Aveva calcolato che quel treno passava a meno d’ottanta chilometri a volo d’uccello dal­ la casa Peluèr. Appoggiava la mano sulla parete del va­ gone, e quando il convoglio si metteva in moto, sembra­ va un uomo che vedesse sparire per sempre la metà del­ la sua anima. Nel caffè dove si metteva di nuovo a un

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tavolino, era l’ora d’un’orchestrina e Giovanni Peluèr subiva fino alla disperazione la onnipotenza della musica sul suo cuore. La musica lo abbandonava senza scampo al fantasma di Noemi. Eccolo viaggiare col pensiero su quel corpo che non aveva mai contemplato se non addormentato. Nel sonno e durante le notti di settembre e quando la luce della luna filtrava sul letto, il triste fauno aveva imparato a conoscere quel corpo meglio che se, amante contraccambiato, l’avesse posseduto in un comune delirio. Non aveva mai tenuto fra le braccia che un cadavere, ma l'aveva realmente penetrato con i suoi occhi. Forse noi conosciamo meglio di ogni altra la donna che non ci ha amato. A quest’ora - pensava - Noemi dorme nella vasta camera fredda, dorme felice, liberata d’una presenza ri­ pugnante, abbandonandosi alla voluttà del letto deser­ to. Attraverso lo spazio sente la gioia della donna ama­ ta, la gioia perché egli non le giace più accanto. La testa fra le mani, Giovanni Peluèr si eccitava alla col­ lera: tornerebbe al paese, si imporrebbe a quella donna, se la godrebbe anche se dovesse crepare ! Ne farebbe un suo strumento... Allora lei risorgeva entro di lui, sottomessa, con quel dolce seno gonfio, come un albero che tende il suo frutto. Si ricordava dei suoi consensi da morirne d’orrore e senza un grido... Giovanni paga­ va le consumazioni, seguiva la via lungo il fiume fino all’albergo, si spogliava a tastoni per non vedersi nello specchio. Ogni tre giorni gli portavano insieme alla cioccolata una busta che talvolta apriva solo di sera. Ah ! che cosa gli importavano quegli ipocriti voti per il suo ritorno! Il solo piacere di Giovanni Peluèr era di pensare che la mano di Noemi s’era appoggiata a quella carta, che l’un­ ghia del suo mignolo aveva lasciato quella linea sotto ogni parola. Verso la fine di marzo, gli parve di sen­ tire un po’ di sincerità nei richiami di Noemi: « ...Sono sicura che non credi al mio desiderio di rivederti. Co­ 4.

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nosci male tua moglie...». E scriveva anche: «Tu mi manchi ». Giovanni Peluèr sgualciva la lettera e rileg­ geva quella che il padre gli aveva spedito con lo stesso corriere: « ...Troverai Noemi cambiata in meglio; è in­ grassata, è magnifica ; mi cura e mi coccola con tanto buon umore che dimentico persino di ringraziarla. I Casnav non si fanno più vedere, ma so che fantasticano qualche screzio tra voi: lasciamoli dire. Io metto buccia nuova; non è lo stesso del figlio di Piesciòn, che non esce se non in vettura e si crede spacciato, benché un medico di Bordeaux pretenda di guarirlo con la tintura di iodio sciolta nell’acqua: i giovani se ne vanno prima dei vec­ chi... ». Quando vennero le prime giornate belle, Giovanni Peluèr osò finalmente traversare i ponti. Nel crepuscolo dorato ristette a guardare la Senna, e le sue mani toc­ cavano il parapetto tiepido, carezzandolo come un esse­ re vivente. Sentì allora una voce bisbigliargli, chiaman­ dolo: carino, e gli diceva: vieni con me. Vicinissimo al suo, era un viso giovane, esangue sotto il belletto. Una mano gonfia e senza unghie cercava la sua. Fuggì, e non si fermò che all’entrata del Louvre, un po’ ansimante. Avrebbe mai osato aspettarsi un appello, anche da crea­ ture simili? Un’altra donna, che non fosse Noemi?... Per la prima volta volle dilettarsi col pensiero d’una com­ plice, se non felice, per lo meno indifferente e senza disgusto; ma una felicità così povera gli pareva incon­ cepibile; l'acerba conoscenza di una sfortuna così gran­ de lo mise di nuovo in collera. Ah! perché non accon­ sentiva, quella sera, ad annientarsi fra braccia indulgen­ ti e sottomesse? Non sono state fatte apposta per dei Peluèr queste dispensatrici di carezze? Vedeva tremolare nella vasca delle Tuileries il cielo delle otto di sera; e un cerchio di bambini gli si formava intorno per i suoi gesti. Filò via, a spalle curve, fece il giro della piazza, raggiunse via Royal e, essendo l’ora del pranzo, osò varcare la soglia di un celebre ritrovo. Rannicchiato contro la porta, di fronte al bar, al qua­

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le stavano appollaiati come a una mangiatoia d’acagiù dei pappagallini col ciuffo, provava con delizia la sen­ sazione di non meravigliare col suo aspetto né le fem­ mine, né i camerieri in capo, neri e grassi, veri topi da fogna dei locali di lusso. Quel budello scintillante attira troppi selvaggi americani, troppi fattori e notai provin­ ciali perché un Giovanni Peluèr faccia ridere. Il Vouvray aveva dato colore ai suoi zigomi ed egli sorrideva al bestiame attirato dalla mangiatoia di acagiù. Una bionda grassoccia scivolò dal suo alto sgabello, gli chiese d’ac­ cendere la sigaretta, bevve nel suo bicchiere, e gli offrì a mezza voce cento franchi di felicità, aspettando, ap­ pollaiata di nuovo, la risposta. Un vecchio signore d’una tavola accanto gli consigliava di attendere la chiusura del locale, « perché allora quelle che restano vi fanno prezzi più convenienti », ma Giovanni Peluèr pagò il conto e fu raggiunto sul marciapiede dalla dama. Lei chiamò un tassì e fece scendere il cliente dietro la chiesa della Maddalena. La scala dell’albergo senza vestibolo lambiva il marciapiede, come per aspirarne le immon­ dizie. Il rumore delle forcine sul marmo svegliò Giovanni dal suo letargo. Vide della braccia smisuratamente larghe all’attaccatura delle spalle. Dei nastrini rosa abbellivano questa carne tremolante. La donna lo chiamò bello mio, mentre con cura si levava le calze di seta vegetale. Que­ sta fretta di darsi, questa acquiescenza, questa sottomis­ sione senza disgusto, facevano provare a Giovanni Pe­ luèr un dolore peggiore di quando Noemi, con tutto il suo corpo, gli gridava: «No!». Stupita, la femmina lo vide gettare un foglio sulla tavola, e prima che avesse potuto fare un gesto, egli era già fuori e infilava una via come un ladro. Nella ressa dei boulevard gustò la bea­ titudine che viene dopo aver scampato un pericolo. Gl’ip­ pocastani nudi dei Campi Elisi l’attirarono. Una panchi­ na era libera; vi si riposò, affannato, tossicchiando. Pensò che lo spicchio di luna eclissato dalle lampade ad arco, spandeva la sua luce calma sul branco di cupe cime fra

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i Pirenei e l’oceano. Non soffriva più; tutto era puro in lui. Si compiaceva della sua miseria senza macchia. Noe­ mi e Giovanni si sarebbero amati un giorno d’estate sen­ za tramonto. Pregustò l’accordo della loro carne glorifi­ cata. O luce nella quale i loro corpi immortali, i loro corpi incorruttibili si sarebbero chiamati ! Giovanni Peluèr disse ad alta voce: — Non vi sono padroni; noi nasciamo tutti schiavi e diventiamo i tuoi liberti o Si­ gnore —■. Un agente che gli s’era avvicinato, stette un po’ a osservarlo, poi alzò le spalle e si allontanò. Giovanni s’installò ogni dopopranzo fuori del caffè della Pace, sulla riva di un triste fiume di facce. Le ma­ lattie segrete, l’alcool, gli stupefacenti avevano rimpa­ stato a immagine di non so quale immondezza migliaia di volti che erano stati tutti volti di fanciullo. Giovanni Peluèr s’interessava alla cerca delle prostitute, faceva il censimento di quel branco di magre lupe. Giocava a in­ dovinare per conto di qual vizio un signore dal mono­ colo e col labbro penzolante faceva la caccia. Giovanni Peluèr cercava avidamente un solo viso che portasse l’im­ pronta dei dominatori e dei padroni, uno solo e avrebbe seguito quell’essere eletto; ma gli occhi erano perduti, le mani tremanti; brame contro natura insozzavano quei vol­ ti che non si sapevano spiati. E poi anche se questo pa­ drone fosse esistito, sarebbe stato immortale? Giovanni Peluèr, gesticolando a quel tavolino dei boulevard, come fra i muri d’una strada del suo villaggio, citava a se stesso la frase di Pascal sulla fine della più bella vita del mondo. Si perde sempre la partita! Si perde sempre la partita o rammollito d'un Nietzsche! Dei giovanotti, ac­ canto a lui, si davan di gomito. Una donna seduta con loro l’apostrofò. Trasalì, buttò del denaro sul tavolino e prese il largo. Udì la donna che gridava: — Si può es­ sere più pazzi di così?... — Ed eccolo scivolare tra la ressa, trotterellando come un topo lungo le vetrine, ela­ borando il piano d’uno studio apodittico che avrebbe intitolato Volontà di potenza e santità.

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Talvolta la vetrina d’un negozio lo rifletteva e non si riconosceva. La cattiva nutrizione lo aveva reso più magro e più sottile. La polvere di Parigi gli irritava la gola. Avrebbe dovuto smettere le sigarette e non aveva mai fumato tanto; non faceva che tossire e sputare. Le vertigini lo costringevano ad appoggiarsi ai lampioni. Preferiva rinunciare al cibo che soffrire di bruciori dopo mangiato. Sarebbe finito un giorno in un rigagnolo come un gatto morto? Allora Noemi sarebbe stata libera... Co­ sì fantasticava al cinema, dove andava a finire, meno attirato dallo spettacolo che dalla musica ininterrotta. Spesso febbricitante e stanco morto, entrava in uno sta­ bilimento di bagni. Una tendina di calicò vela la luce, i rubinetti a collo di cigno gocciolano, non si sente più vivere il corpo. Giovanni Peluèr cercava rifugi così me­ diocri perché per molto tempo non aveva conosciuto a Parigi altra chiesa all’infuori della Maddalena, la sola che incontrasse fra il suo albergo e il caffè della Pace. Ma un giorno cambiò itinerario e conobbe San Rocco, la cui cappella tenebrosa diventò il suo porto quotidiano. Ritrovò l’odore e l’aspetto della chiesa natale, gli stessi in questo crocicchio della città immensa che nel borgo sconosciuto. Non una volta entrò in una biblioteca. Sarebbe forse vissuto così fino alla morte, se una mat­ tina una lettera del curato non lo avesse richiamato al­ l’ovile. Le parole esprimevano l’urgenza, benché la let­ tera desse le migliori notizie del signor Gerolamo e di Noemi. Pieno d’angoscia Giovanni Peluèr montò su quel treno diretto del quale tante volte aveva sentito staccarsi da lui, scivolare dolcemente, poi sempre più presto verso il sud-ovest, il vagone che porta il nome d’Irun.

XI

Nessun fatto nuovo aveva indotto il signor curato scrivere quella lettera di richiamo; s’era deciso dopo che Noemi, in confessione, aveva accusato soltanto i suoi peccati veniali d’ogni sabato, ma aveva chiesto l’aiuto spirituale del suo direttore contro certe tentazioni, contro certi turbamenti dei quali non precisò la natura. Partito Giovanni Peluèr, aveva avuto da principio un po’ di quella stanchezza felice che provano i convale­ scenti. La solitudine le dava una voluttà continua; e il­ languidita si compiaceva di se stessa. Benché fosse in­ capace di analizzarsi, tuttavia si sentiva diventata un’al­ tra e, restituita alla vita di ragazza, s’accorgeva nella sua carne di non essere più ragazza. Il disgusto l’aveva di­ stolta dallo spettacolo della donna che sbocciava in lei; ma quest’estranea esigeva da lei un misterioso soddisfa­ cimento. Inquieta di non provare più la pace che aveva prima che quell’uomo la possedesse, come avrebbe potu­ to discernere questo disaccordo fra il suo cuore sempre addormentato e la sua carne semisveglia? Aveva provato il laceramento del suo essere, con orrore, certamente, ma la carne è fedele e nulla dimentica di quello che subisce. Siccome la giovane donna non apriva nessun libro se non quello delle preghiere, e la sua condizione di ra­ gazza ben nata e povera l’aveva tenuta lontana da ogni intima compagnia, nessuna finzione 0 confidenza avreb-

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be potuto illuminarla sulla segreta esigenza formatasi in lei. Allora il destino le fornì un viso. Il sole di marzo faceva luccicare le pozzanghere sulla piazza. La siesta di Gerolamo Peluèr incantava la casa al punto che neanche un mobile vi scricchiolava. Come tutte le donne del borgo, Noemi cuciva al pianterreno, nel vano d’una finestra con le imposte socchiuse. La bian­ cheria filava via dal tavolino da lavoro. Udì un rumore di ruote, vide fermarsi a qualche passo dalla finestra un calesse all'inglese. Un giovanotto teneva le redini e si guardava intorno in cerca di una indicazione, ma la piaz­ za era deserta. Siccome Noemi, incuriosita, apriva le im­ poste, il forestiero volse la testa, si levò il cappello, e domandò dove abitava il dottor Piesciòn. Dopo che Noe­ mi gli ebbe indicata la strada, salutò, dette una frustatina alla groppa del cavallo e sparì. Noemi riprese a cu­ cire e tutto il giorno agucchiò, col pensiero in aria, in­ consapevole di quel viso di cui aveva ricevuto l’impronta. L’indomani, alla stessa ora, lo sconosciuto ripassò, ma senza fermarsi. Tuttavia davanti alla casa Peluèr, tratten­ ne un po’ il cavallo e i suoi sguardi cercarono la giovane fra le imposte socchiuse. A ogni buon conto, salutò. A cena il signor Gerolamo disse di sapere dal curato che il figlio Piesciòn andava di male in peggio e che il padre aveva chiamato un giovane medico della sottoprefettura, di cui si vantavano i metodi: trattava la tubercolosi con la tintura di iodio in «dose massiccia»; bisognava che il malato ingurgitasse centinaia di gocce diluite nell’ac­ qua. Il signor Gerolamo dubitava che lo stomaco del figlio Piesciòn potesse tollerare quell’intruglio. Ogni giorno il tilbury passò e ogni giorno rallentò davanti alla casa Peluèr, senza che mai Noemi aprisse le imposte. Il giovane dottore salutava quella striscia d’ombra nella qua­ le respirava una giovinezza invisibile. Il borgo s’interes­ sava alla cura iodata; tutti i tubercolotici del cantone la provarono. Si assicurava che il figlio Piesciòn stesse me­ glio. La primavera fu precoce; una tiepida fine di marzo

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sgranchiva il mondo. Una sera, Noemi potè spogliarsi con la finestra aperta. Si appoggiò coi gomiti al davan­ zale, felice e triste, e senza desiderio di sonno. Si trovò dinanzi alla notte che, con un lavorio segreto, rivelava quel viso d’uomo che l’aveva impressionata. Per la prima volta vi fermò deliberatamente il suo pensiero; poiché il forestiero la salutava ogni giorno senza nemmeno scor­ gerla, non sarebbe cosa più cortese l’indomani, aprire un poco le imposte e restituire il saluto? Avendo deciso di fare così, ne provò una commozione tanto dolce che ri­ tardò il momento d’andare a letto. Dentro di lei si pre­ cisarono dei lineamenti, ad uno ad uno: i capelli ricciu­ ti e neri intravisti nell’attimo in cui il giovane si levava il cappello; il rosso carnoso delle labbra sotto i baffi cor­ ti, l’abito sportivo sul quale luccicava il fermaglio di una stilografica, niente cravatta, ma una molle camicia di tussor aperta. Noemi tutta istinto, ma abituata all’esame di coscien­ za, si mise presto in guardia: il suo primo allarme ven­ ne, durante la preghiera, dal fatto che dovette ricomin­ ciare ogni orazione: fra Dio e lei, sorrideva una figura bruna. A letto ne fu ossessionata, e al risveglio, la men­ te ancora annebbiata dai sogni, pensò prima di tutto che l’avrebbe rivista. Durante la messa di quella mattina le mani di Noemi non si staccarono dal viso. All’ora della siesta, quando il tilbury rallentò dinanzi alla casa Peluèr, tutte le imposte del pianterreno erano chiuse ermetica­ mente. Fu allora che l’esiliato ricevette a Parigi delle lettere che lo stupirono, quelle dove Noemi diceva: «Tu mi manchi... ». Era il tempo in cui lei aspettava nella stanza scura che il tilbury fosse passato per socchiudere le im­ poste e mettersi al lavoro. Un pomeriggio si ripete che anche lo scrupolo è un peccato, e pensò: “Mi monto la testa”. Una volta per tutte, potrebbe affacciarsi alla fine­ stra e rispondere al saluto del forestiero. Le parve di sentire un rumore di ruote, e già la sua mano esitava

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sulla spagnoletta, ma per la prima volta dopo due setti­ mane il tilbury non passò. All’ora in cui il signor Gerolamo prendeva la valeria­ na, Noemi salì da lui e non potè fare a meno di avver­ tirlo che il nuovo dottore non era andato dai Piesciòn. Il signor Gerolamo lo sapeva: il figlio dei Piesciòn ave­ va avuto il giorno prima una ricaduta e non sopportava più lo iodio. Vomitava sangue a catini, diceva il curato. La primavera è una stagione pericolosa per gli ammalati di petto. Si riferiva che il dottor Piesciòn aveva avuto parole durissime per il suo collega, che senza dubbio non avrebbe osato più comparire nel borgo. Noemi ricevette un mezzadro, aiutò Cadetta a piegare il bucato. Alle sei si recò all’adorazione; poi come ogni giorno si fermò dai genitori. Ma dopo il pranzo si lamentò d’avere mal di capo e ritornò in camera. Noemi condusse una vita più attiva. Le sue covate riuscirono bene. Vestita a festa, fece le visite annue che le signore del paese si scambiano con solennità. Poi co­ minciò il giro dei mezzadri. Le piacevano le corse in biroccino, per le strade vicinali tutte sfondate dai carri. Accanto alla giovane, il nipote di Cadetta guidava il ca­ vallo. Le ginestre punteggiavano di giallo le macchie di felci secche. Sulle querce le foglie morte fremevano, re­ sistendo ancora a un soffio caldo del sud. Il preciso spec­ chio rotondo d’una laguna rifletteva i fusti alti dei pini, le loro cime e l’azzurro. Sugli innumerevoli tronchi, fre­ sche ferite sanguinavano e, ardenti, profumavano quella giornata. Il canto del cuculo ricordava altre primavere. Per i sobbalzi il nipote di Cadetta andava a finire contro Noemi, e quei due ragazzi ridevano. Il giorno dopo la giovane donna si lamentò d’essere indolenzita, e l’am­ ministratore fu pregato di terminare il giro dei mezza­ dri. Tranne che alla messa non la si vide più fino alla mattina in cui Giovanni Peluèr tornò.

XII

Noemi l’aspettava alla stazione: il suo vestito di mus­ solina sbocciava al sole! Portava dei mezzi guanti di filo e, al collo nudo, un medaglione sul quale erano dipinti due amorini in lotta con un capro. Alcuni ragazzi gio­ cavano a camminare in equilibrio sopra una rotaia. Il trenino fischiò molto prima di comparire. Noemi voleva che la sua commozione fosse una gioia. L’assenza aveva addolcito nel suo ricordo i lineamenti di Giovanni Peluèr, ed essa aveva, per cosi dire, ricreato il suo sposo perché non fosse più ripugnante, e non conservava di lui che un’immagine insidiosa e ritoccata. Il suo desi­ derio di amarlo era tale che si credette impaziente d’ab­ bracciare questo Giovanni Peluèr irreale. Se il desiderio aveva ondeggiato intorno al suo dolce corpo fiorente, carezzando a suo dispetto altri visi, Dio sapeva che nem­ meno una volta aveva assecondato un pensiero torbido. In compenso Noemi non dubitava che dovesse esserle accordata la grazia di veder scendere dal treno uno sposo differente da quello di cui aveva salutato la partenza con un profondo sollievo del cuore. Sul predellino d’un vagone di seconda, Giovanni ap­ parve. No. No. Non era più lo stesso. Le sue mani in­ debolite reggevano appena una valigia di cui il nipote di Cadetta prontamente lo sbarazzò. A braccetto di Noe­ mi, titubava un poco. — Ma sei malato, povero Gio­

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vanni! ■— Neppure lui riconosceva questa donna, tanto aveva guadagnato durante la sua assenza, - risplendente e fiorente — e di fronte al maschio femmina meravigliosa più che mai, da quando s’erano incontrati, non era mol­ to, nel parlatorio del curato. Intorno alla coppia si mormorava. Giovanni Peluèr si vergognava per via della giornalaia, del capostazione e del postino. — Avrei dovuto mandarti la vettura. Per­ ché non m’hai scritto ch’eri malato? — Noemi preparò il letto, lavò il viso e le mani di Giovanni Peluèr, stese una tovaglietta di bucato sul comodino, vi dispose (in ordine) le riviste che si erano accumulate e che non aveva aperte. Giovanni, come un povero ragazzo cocco­ lato, la spiava con i suoi occhietti vivi. Il signor Gero­ lamo non volle che si chiamasse il dottor Piesciòn; quel dolce uomo andava fuori dei gangheri alla sola idea che un altro, all’infuori di lui, potesse esser malato in casa. Appena il figlio fu a letto, si coricò anche lui, preten­ dendo d’essere pieno di dolori, e rifiutando con paro­ lacce le cure di Cadetta. Noemi venne a vederlo, non per informarsi della sua salute, ma per ottenere il con­ senso alla visita del dottore. Egli rifiutò recisamente: Piesciòn non lasciava il letto del figlio, infestato dai mi­ crobi. Se proprio ci teneva a vedere uno scortichino, chiamasse « quel giovanotto della tintura di iodio ! » Noe­ mi voltò il capo, e disse che quel ragazzo non le ispirava nessuna fiducia; e d’altronde non era il medico di tutti i tubercolotici del circondario? Il signor Gerolamo tagliò corto, con un tono burbero, gridando che quella era la sua ultima parola, e che non voleva più essere disturbato. Come nei suoi giorni peggiori, si coricò col naso contro il muro, emettendo a intervalli regolari dei sospiri spa­ ventosi e duri : « Ah ! Dio ! Dio ! » che una volta sveglia­ vano Giovanni nel silenzio della notte.

Quando Noemi tornò in camera, la serva stava sten­ dendo una branda. Giovanni Peluèr che nel mezzo del capezzale non lasciava scorgere che gli occhi lucenti e

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arrossati, gli zigomi troppo rossi, il naso aguzzo, balbettò che nel letto grande aveva troppo freddo, che aveva sempre preferito dormire allo stretto, infine che prima che un medico l’avesse visitato riteneva imprudente dor­ mire con Noemi. Noemi avrebbe voluto protestare, fin­ gersi delusa. Ma non trovò parola, e posò le sue labbra sulla fronte madida di Giovanni Peluèr; ed egli voltò la testa, non potendo sopportare l’orribile gratitudine di quel bacio. La giornata passò così, calma e triste. Steso nella sua dura branda, sonnecchiava, e lo svegliava solo il tintinnio d’un cucchiaio contro un piatto. Benché non fosse gravemente malato, Noemi lo sosteneva per farlo bere, ed egli beveva a sorsi lenti per sentire più a lungo quel braccio tiepido intorno al collo. Venne il crepusco­ lo; la campana della chiesa dette un rintocco. Udirono nella corte gli hi! vai! del nipote di Cadetta che attac­ cava. La porta fu socchiusa dal signor Gerolamo, coi pie­ di nudi nelle pantofole, coperto d’una veste da camera macchiata di medicine. Aveva avuto vergogna della sua collera e veniva a farsi perdonare, affettando d’essere inquieto, e assicurando di non poter aspettare oltre per essere rassicurato: per ordine suo il nipote di Cadetta andava a cercare il giovane « dottore della tintura di iodio ». Giovanni Peluèr protestò; non sentiva che un po’ di stanchezza; con qualche giorno di riposo sarebbe sparita; il dottore non avrebbe capito perché s’osasse di­ sturbarlo con tanta urgenza...

Seduta nell’ombra, Noemi non diceva più una parola, ascoltava il rumore delle ruote diminuire e, senza un sussulto, senza un singhiozzo, piangeva. Una burrasca sferzò i vetri, accelerò la notte e nessuno degli sposi chiese la lampada. Venne alla fine Cadetta con il lume e apparecchiò presso il letto di Giovanni. Mentre man­ giavano, Noemi gli domandò se il suo lavoro di storia era finito; lui scosse la testa e lei non gli rivolse altre domande. Si sentì il biroccino di nuovo nella corte. Gio­ vanni Peluèr disse: — Ecco il dottore —. Noemi si levò

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e stette in piedi, lontana dalla lampada. Ascoltava, si­ mile all’avvicinarsi di un uragano, il brontolio d’una voce, i passi sulla scala. Cadetta aprì l’uscio; egli entrò. Più corpulento di quanto fosse parso a Noemi, era quel che nel paese dei Peluèr si chiama un bel tipo. Nero di pelo, ma la pelle color granata, sbirciava già senza ver­ gognarsi, con i suoi lunghi occhi di mula andalusa quelli di Noemi, e seguiva la linea del suo corpo con lentezza metodica. Anche lui aveva pensato a lei, anche lui! Non osando lasciare la zona d'ombra Noemi fremeva. Intanto il dottore esaminava il malato: — Vuole sbottonare la camicia? Un fazzoletto basterà, signora... Conti trentuno, trentadue, trentatré... — La lampada illuminava quelle clavicole, quelle scapole, quelle costole, quella pietosa miseria... No, lo stato del signor Peluèr non era per niente allarmante, ma bisognava sorvegliare « i suoi api­ ci ». Ordinò dei ricostituenti, delle iniezioni di cacodilato. Di quando in quando dava un’occhiata a Noemi. Non pensava mica fosse stata lei a cercarlo? Era così strano obbligare un medico a fare sei chilometri in bi­ roccino, di sera, per visitare una persona indebolita! Il dottore non se ne andava e col suo accento pesante affer­ mava di non aver mai preteso di guarire, col suo tratta­ mento a base di iodio, un tubercoloso in stadio così avan­ zato come il figlio dei Piesciòn. La sua voce strascicata, da campagnolo, aveva un timbro maschio e grave. Noe­ mi si sentiva spiata da sguardi calati attraverso palpebre color zafferano; lui invece non vedeva di lei che un fan­ tasma silenzioso. Finì per dire che meglio di tutto era prevenire la malattia, e che il signor Peluèr era un ter­ reno preparatissimo e favorevole ai bacilli: — Un ter­ reno, direi, tubercolizzabile. La povera signora Peluèr morì tisica, non è vero? — Questo gergo stonava su quelle labbra fresche, create per non dispensare altra scienza che quella dei baci. Giudicava necessario che si sorvegliasse il malato. E dicendo ciò, cercava d’essere invitato a tornare. Siccome Noemi taceva, si alzò e do­ mandò con disinvoltura se il signor Peluèr desiderava

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altre visite, non foss’altro che per fargli le iniezioni. — Che ne pensi, Noemi? — Siccome lei non rispondeva, Giovanni credette che non avesse sentito, e ripetè: — Che ne pensi, Noemi, deve tornare il signor dottore? — Alla 'fine essa si decise : — Mi pare assolutamente inu­ tile —. Lo disse in tono tale che Giovanni Peluèr temette che il dottore se ne fosse avuto a male, e protestò che « il medico era l’unico giudice ». Il ragazzone, senza im­ barazzo alcuno, promise di accorrere alla prima chiama­ ta. Noemi allora prese la lampada e lo precedette. Scen­ deva lesta, sentendo sulla nuca quell’alito caldo. Il biroc­ cino aspettava alla porta. Il giovanotto vi salì senza aver ottenuto uno sguardo. Il nipote di Cadetta fece schioc­ care la lingua. Una lanterna illuminava la groppa del cavallo. Il vento della notte spense la candela che la giovane reggeva alta, ed essa rimase così nella notte, sul­ la soglia di quella casa morta, ascoltando il rumore del biroccino che si affievoliva. Non dormì. Giovanni Peluèr nel lettino di ferro, si agitava, pronunciava parole con­ fuse. Noemi si levò per rimboccarlo, posò la mano sulla fronte senza svegliarlo, come avrebbe fatto al bimbo che non sarebbe mai nato.

XIII

Giovanni Peluèr, due giorni dopo, riprese le sue abitu­ dini. Usciva alla chetichella, mentre il padre faceva la siesta, appostava le gazze e, dopo una sosta in chiesa, rientrava il più tardi possibile al covo. Noemi stava già perdendo il suo splendore. Giovanni Peluèr osservava quel cerchio intorno agli occhi così tristi, che non lo guardavano se non con umile dolcezza. Aveva sperato che l’esilio dal letto nuziale sarebbe bastato perché Noe­ mi potesse abituarsi alla sua vicinanza. Ma la sposa lot­ tava disperatamente contro il proprio disgusto e questa lotta l’estenuava. Più volte, di notte, chiamò Giovanni Peluèr perché le venisse accanto, e siccome lui faceva finta di dormire, si levava, gli dava dei baci, quei baci che in altri tempi le labbra dei santi ponevano sui leb­ brosi. Nessuno sa se furono consolati dal sentire sulle loro ulcere l’alito dei beati. Ma lui, Giovanni Peluèr, giunse a strapparsi da quegli abbracci ed era lui che con orrore gridava: —■ Lasciami!

Gli alti muri dei giardini si ammantavano di lilla scu­ ri. I crepuscoli presero l’odore delle siringhe. Nel crepu­ scolo i maggiolini ronzavano. Nel mese di Maria, la sera, dopo le litanie, il curato annunziava: — Si racco­ manda alle vostre preghiere il buon esito agli esami di parecchi giovani, il matrimonio di varie giovinette, la

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conversione d’un padre, la salute d’un giovane in peri­ colo di morte... — Tutti sapevano che si trattava del figlio dei Piesciòn che stava malissimo. I gigli di giugno fiorirono. Noemi si meravigliò che Giovanni non por­ tasse più il fucile nelle sue passeggiate; egli disse che le gazze lo conoscevano troppo e che le furbacchione non si lasciavano più avvicinare. Temeva che quelle pas­ seggiate fossero eccessive poiché non ne ritornava più, come prima, col volto animato. Giovanni protestò allora che il calore lo faceva impallidire. Una notte Noemi l’udì tossire più volte. Lo chiamò a voce bassa: — Dor­ mi, Giovanni ? — Egli la rassicurò che soffriva un po’ alla gola e che non era nulla; ma lei indovinava il suo sforzo per trattenere la tosse che, suo malgrado, scoppia­ va. Accesa una candela, lo vide madido di sudore. Lo guardò con angoscia. Con gli occhi chiusi, pareva inten­ to a un lavoro misterioso che si compiva in lui. Sorrise alla moglie, e Noemi fu sconvolta da quel sorriso così tenero, così calmo. Le disse a mezza voce: — Ho sete.

All’indomani mattina non aveva più febbre; anzi la sua temperatura era troppo bassa. Noemi si rassicurò; avrebbe voluto che non uscisse dopo colazione, ma non potè trattenerlo. L’insistenza di Noemi parve spiacere a Giovanni che guardava l’orologio come se temesse d’es­ sere in ritardo. Il signor Gerolamo disse scherzando: — Noemi finirà per credere che tu corri a un appuntamen­ to! — Giovanni non rispose; il suo passo frettoloso ri­ suonò nel vestibolo. Un temporale oscurava il cielo. Si sarebbe detto che il silenzio degli uccelli immobilizzasse le foglie. Per tutto quel giorno, nel vano della finestra al pianterreno, Noemi ebbe paura. Alle quattro la cam­ pana della chiesa batté a piccoli tocchi radi, e la giovane donna si segnò perché qualcuno entrava in agonia. Udì sulla piazza una voce che diceva: — È per il figlio dei Piesciòn. Anche stamane era lì lì per morire —, Dei goccioloni crivellavano la polvere, a cui strappavano l’o­ dore delle sere di temporale. Siccome il suocero dormi­

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va ancora, Noemi andò in cucina per parlare di Roberto Piesciòn con Cadetta. La vecchia, che era sorda, non ave­ va udito la campana a morto. Ma disse che si poteva saper qualcosa dal sciur Giuvann. E poiché Noemi si meravigliava. Cadetta sospirò, lacrimò. Se lo immagina­ va bene che la sciura non lo sapeva: altrimenti avreb­ be impedito a quel bravo sciur, debole com’era, di pas­ sare tutti i dopopranzo con il figlio dei Piesciòn; è già da un mese; ormai! Ma egli aveva proibito alla sua vec­ chia Cadetta di dirlo a chiunque. Noemi finse di non essere sorpresa. Uscì. Non ne poteva più; un vento pol­ veroso spingeva nuvole pesanti. Andò verso la casa del dottore dove la morte aveva chiuso tutte le imposte. Giovanni Peluèr apparve sulla soglia: strizzava i suoi occhi abbagliati, benché il giorno fosse come appannato, e non vide sua moglie. La faccia terrea, e come fuori di questo mondo, andava istintiva­ mente verso la chiesa, dove entrò. Noemi lo seguiva da lontano. L’umida frescura della navata l’afferrò, quel freddo di terra, freddo di fossa appena aperta, che strin­ ge i corpi vivi nelle chiese che il tempo affonda a poco a poco e a cui si accede scendendo dei gradini. Quella tosse il cui rumore l’aveva svegliata la notte precedente, Noemi l’udì di nuovo, ma questa volta ripercossa all’in­ finito dalle volte.

XIV

Giovanni Peluèr aveva chiesto che il suo letto fosse portato giù in una camera del pianterreno, che s’apriva sul giardino. Quando soffocava spingevano il letto di ferro sotto la veranda ed egli guardava il vento restringere o dilatare il blu tra le foglie. Avevano fatto venire una gelatiera perché non riusciva più a inghiottire se non il latte crudo e freddo, e un po’ di gelato. Suo padre ve­ niva a vederlo, gli sorrideva, ma da lontano. Forse Gio­ vanni avrebbe preferito il buio della camera per nascon­ dervi la sua agonia, ma aveva scelto di morire nel giar­ dino perché Noemi fosse meno esposta al contagio. Si assopiva con qualche iniezione di morfina. Riposo! Ri­ poso dopo quegli orrendi pomeriggi passati al capezzale del figlio dei Piesciòn che gridava di disperazione per ciò che lasciava per sempre: le serate di baldoria a Bor­ deaux, i balli nelle osterie dei sobborghi intorno all’or­ ganetto di Barberia, le corse in bicicletta, quando la polvere si attacca alle magre cosce pelose e ci s’ammazza di fatica, e soprattutto le carezze delle femmine. I Casnav sparsero ovunque la voce che per via dell’avarizia del signor Gerolamo il figlio non avrebbe goduto il bene­ ficio di climi più dolci e delle cure d’altezza. Ma, a parte il fatto che Giovanni non era uomo da morire fuori dal suo covo, il dottor Piesciòn sentenziava che contro la tubercolosi nulla equivale alla foresta delle Lande: e tap-

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pezzo persino di giovani pini la camera del malato come per un Corpus Domini, e circondò il letto di vasi tra­ boccanti di resina. Alla fine, esaurita la sua scienza, fece chiamare il suo giovane collega, benché fosse ormai in­ discutibile che Giovanni Peluèr non avrebbe più tolle­ rato lo iodio « a dosi massicce ». Noemi accolse il bel ragazzo con una indifferenza che non le impediva di ac­ corgersi che egli impallidiva sotto il suo sguardo o quan­ do le loro mani s’incontravano. Ad ogni incontro ella assaporava la certezza che Tunica cosa al mondo che le stesse a cuore era quell’infermo, il suo sposo. Ma può darsi anche che nel fondo più oscuro del cuore, sentisse il giovane maschio sicuramente uncinato, e che fosse così tranquilla soltanto perché si sentiva sicura di tirarlo, un giorno o l’altro vivo e palpitante alla sponda... Giovan­ ni Peluèr proibiva a Noemi di baciarlo, ma accettava che gli ponesse la mano fresca sulla fronte. Credeva ora che l’amasse? Lo credeva e diceva: — Siate benedetto per sempre, mio Dio, che mi avete dato l’amore di una don­ na prima di morire... — E come una volta nelle sue gite solitarie non finiva mai di ruminare lo stesso verso, ora, quando si sentiva stanco del rosario e mentre Noemi gli teneva il polso, contando i battiti, ripeteva sottovoce il grido di Paolina: Il mio Poliuto è giunto all’ultima sua ora, e sorrideva. Non che si credesse un martire, ma ave­ vano sempre detto di lui: « Ê un povero diavolo »; e non aveva mai dubitato di esserlo davvero. Bastava che guar­ dasse indietro sull’acqua grigia della sua vita per mante­ nersi nel disprezzo di se stesso. Che ristagno! Eppure sotto quelle acque calme era corso un fremito di vita, ed ecco che, avendo vissuto come un morto, morire era per lui rinascere. Una sera che il curato e il dottor Piesciòn s’erano trattenuti nel vestibolo, Noemi li raggiunse e domandò amaramente spiegazione del loro silenzio: perché non l’avevano avvertita delle soste quotidiane di Giovanni al capezzale di un tisico? Il dottore chinò il capo, si scusò dicendo che non conosceva lo stato del signor Giovanni.

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Caritatevole senza limiti, come poteva meravigliarsi di una devozione che egli stesso praticava e dalla quale suo figlio traeva vantaggio? Il curato si difese più vivace­ mente: Giovanni Peluèr aveva chiesto il silenzio; e un direttore di coscienze deve spingere la sua discrezione fino allo scrupolo verso i propri penitenti: — Ma è lei, signor curato, è lei che ha voluto quel fatale viaggio a Parigi. — ... Io solo, Noemi ? — Essa si appoggiò al mu­ ro, e col dito allargava una graffiatura nel gesso. Si udi­ va tossire nella camera. Le ciabatte di Cadetta strascica­ rono. Il curato aggiunse: — Ho agito dopo aver prega­ to, Noemi. Bisogna adorare le vie del Signore. Infilò la sua veste ovattata, ma nel suo intimo, era in preda a sentimenti contraddittori e, durante le insonnie, piangeva su Giovanni Peluèr; invano ripeteva a se stesso che l’ammalato aveva fatto testamento in favore di Noe­ mi, e che il signor Gerolamo dopo la morte del povero ragazzo aveva l'intenzione di dare la casa e la maggior parte disponibile dei suoi beni alla giovane, a patto che non riprendesse marito. Il curato, uomo di scupoli, ma troppo propenso a immischiarsi del destino degli altri, interrogava il suo cuore. Non aveva dubitato che quel matrimonio dovesse esser felice, e sub specie aeterni, non bisognava ammirarne il risultato? Che cosa ci aveva guadagnato lui in quest’affare? Da buon pastore non aveva avuto altra preoccupazione che quella del suo greg­ ge. Il curato, ogni volta che si giudicava, si assolveva, ma non si stancava di riaprire il processo. Temeva di aver perduto il discernimento fra l’ingiusto e il giusto, e non si capacitava di poter avere dei dubbi sul valore di ciò che aveva fatto. Umiliato, pontificò meno: per celebrare la sua messa quotidiana, non disfece più lo strascico della sua sottana, e rinunziò al tricorno che lo distingueva dai colleghi. Tutte le sue piccinerie si di­ staccavano da lui, ad una ad una. Ricevette senza gioia l’annunzio che, sebbene non fosse il decano dei curati, tuttavia il vescovo gli accordava il diritto di portare la

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mantellina sopra la cotta. Come aveva potuto dare im­ portanza a queste miserie, lui, il guardiano delle anime? Nulla più gli importava, ormai, se non metter in chiaro qual era stata la sua parte in quel dramma: era stato il docile strumento di Dio? o il povero curato di campa­ gna s’era sostituito all’Essere infinito? Intanto, ogni sera, sulla strada gelata un biroccino conduceva via il giovane dottore. Attraverso le cime fitte dei pini il chiaro di luna filtrava, mal trattenuto dai rami intrecciati. Le cupole rotonde e scure spaziavano nel cielo, come un volo immobile. Più volte, a qualche centinaio di metri dal cavallo, corte ombre di cinghiali traversarono la strada da un ciglio all’altro. I pini si scostavano intorno a una nube a fior di terra, che na­ scondeva un prato. La strada voltava, e si entrava nel­ l’alito ghiaccio d’un ruscello. Il giovanotto, sotto la sua pelle di capra, isolato nell’odore di nebbia e della sua pipa non sapeva che ci fossero degli astri sopra i pini. Il suo naso non si sollevava dalla crosta terrestre più del muso d’un cane. E quando non pensava al fuoco della cucina al quale fra poco si sarebbe asciugato, alla zuppa nella quale verserebbe del vino, il suo pensiero si attaccava a quella Noemi così a portata di mano e che non aveva mai toccata. “Tuttavia,” si diceva il cac­ ciatore, “non l’ho mancata; è ferita...” Il suo istinto l’avvertiva quando la selvaggina femminile era stremata e domandava grazia. Aveva sentito il grido di quel gio­ vane corpo. Quante donne aveva posseduto, proibite, spose di uomini e non di un rottame come quel Peluèr! Colpita e più di ogni altra inerme, soltanto questa Noe­ mi sarebbe inaccessibile? Fin che durava l’agonia del marito, senza dubbio essa obbediva a uno scrupolo, ma chi mai prima che lo sposo fosse così malato, aveva trat­ tenuto quella pernice mezzo affascinata? Quale calamita più forte l’attirava nell'ombra, lungi dal focolare? Un altro amore? Non la credeva devota; quella specie di donna il dottore credeva di conoscerla bene; aveva già

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dovuto cimentarsi col curato per la conquista di una pe­ corella. La devota gioca, si concede un peccato veniale, gira intorno alla fiamma, si brucia un piede, e all’ultimo momento sguscia tra le dita, come ricondotta da un filo invisibile al confessionale. Fece dei progetti per il mo­ mento in cui Giovanni Peluèr sarebbe « crepato ». Di­ ceva a se stesso: “L’avrò”. E rideva, avendo la pazienza del landese che caccia alla posta. Circa in quel tempo le persone pie del paese che, di pieno giorno, entravano in chiesa e si credevano sole, trasalivano udendo un sospiro che partiva dal coro; qua­ si tutti i momenti di libertà il curato li viveva in quel­ l’ombra, dinanzi al suo giudice. Là soltanto gustava la pace, non quella che dona il silenzio delle chiese di campagna tenebrose e come sommerse, ma quella pace che niente al mondo può dare. Il prete comprendeva che v’era una bella distanza dalla piccola creatura malaticcia, da quel Giovanni Peluèr, appena capace alla vigilia del­ le grandi solennità di strofinare i cristalli dei lampadari e di raccogliere le lunghe borraccine di cui le signore facevano ghirlande, che c’era una bella distanza da quel­ l’uccisore di gazze a questo moribondo che dava la sua vita per la salvezza di molti. Il curato si sprofondava dinanzi a Colui il cui segreto è di rendere gli schiavi simili a Dio.

XV L’estate s’era temprata per Giovanni Peluèr che soffo­ cava. In settembre parecchi temporali fecero diventar rosse le foglie. Il nipote di Cadetta portava al malato i primi porcini perché il loro odore di terra silvestre lo distraesse insieme agli ortolani acchiappati di buon mattino che pensava di ingrassare al buio: servirebbero al sciur Gio­ vanni dopo averli annegati in un vecchio vino d’Armagnac. Stormi di colombi selvatici annunziavano un in­ verno precoce: ben presto si potrebbero mettere i richia­ mi sul paretaio? A Giovanni Peluèr era sempre piaciuto, quando si avvicinava la fine d’autunno, l’accordo segre­ to del suo cuore coi campi di miglio mietuti e con le lande fulve conosciute soltanto dai colombacci, dalle greg­ gi e dal vento. Quando all’alba aprivano la finestra per­ ché respirasse meglio, riconosceva il profumo dei suoi tristi ritorni dalla caccia nei crepuscoli d’ottobre. Ma non gli fu concesso d’aspettare in pace il trapasso : Noemi non sapeva che i morenti hanno diritto al silenzio; e come un tempo non aveva saputo celargli il suo disgu­ sto, ora non sapeva risparmiargli i suoi rimorsi. Gli ba­ gnava di lacrime la mano, mai sazia di perdono. Invano egli le diceva: — Sono io che t’ho scelta, Noemi... io solo non ho avuto riguardo per te... — Lei scuoteva il capo, non vedeva nulla, salvo che Giovanni moriva per lei: com’era nobile e grande! come lo avrebbe amato se

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fosse guarito ! Gli renderebbe centuplicata la tenerezza di cui era stata così avara. Come poteva sapere Noemi che se Giovanni Peluèr fosse entrato in convalescenza lei avrebbe già cominciato a staccarsene, e che per farsi ama­ re da lei avrebbe dovuto giungere alla sua ultima ora? Era una donna molto giovane, ignorante e carnale, e non conosceva bene il suo cuore. Ma questo cuore, pie­ no di desiderio, era senza astuzia e sottomesso al Signore. Goffamente essa esigeva dal moribondo la parola che l’avrebbe liberata dal rimorso. Dopo tali discussioni egli si avviliva, e desiderava di non restare solo con lei; e 10 sarebbe stato spesso (perché il signor Gerolamo era inchiodato al letto da tutti i suoi mali collegati) ; ma che devozione mostrava il dottorino! Giovanni Peluèr si meravigliava della strana fedeltà d’uno sconosciuto. In­ capace di sostenere una conversazione, godeva almeno di quella presenza.

Un pomeriggio, alla fine di settembre, si svegliò da una lunga sonnolenza e scorse Noemi, in una poltrona, la testa arrovesciata dal sonno, ascoltò quel soffio calmo di bimbo, richiuse gli occhi. Al rumore della porta, li riaprì: era il dottore che entrava pian pianino; Giovanni si sentì troppo debole per fare lo sforzo d’una sola pa­ rola d’accoglienza e finse di dormire. Gli scarponi da caccia del giovanotto scricchiolarono. Poi più nulla: la pausa di silenzio incitò Giovanni a guardare. L’amico sco­ nosciuto stava in piedi presso la giovane donna addor­ mentata. Dapprima diritto, impercettibilmente si chinò verso di lei, e la sua forte mano villosa tremava... Gio­ vanni Peluèr chiuse gli occhi, udì la voce bassa di Noe­ mi: — Ah! Mi scusi... Mi ha sorpresa, dottore; dormi­ vo un poco, credo... Il nostro malato è abbattuto oggi... 11 tempo è così opprimente... Vede: le foglie non si muo­ vono neppure... — Il dottore rispose che però il vento soffiava da sud-ovest; e Noemi: — Ê un vento di Spagna che ci porterà il temporale... — Il temporale era quel ragazzo pallido e furioso di desiderio, i cui occhi pa­

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revano « carichi » come il cielo. Noemi si levò, si av­ vicinò a Giovanni, mise quel letto di ferro fra lei e l’uo­ mo che la covava con lo sguardo. Egli balbettò: — Si riguardi, signora, anche nell’interesse di lui. Oh! Io! Io, resisto a tutto; trovo la forza di mangiare e di dor­ mire come una bestia... Come fanno quelli che muoio­ no di dolore? — Si sedettero lontani l’uno dall’altro. Giovanni Peluèr sembrava sempre che sonnecchiasse e, senza muovere le labbra, ricantava a se stesso, marcan­ do la cesura: Il mio Peluèr vicino è all’ultima sua ora... Come se quella fine d’autunno l’avesse trattenuto in un abbraccio, tra i suoi veli e il suo odor di lacrima, sentì diminuire il senso di soffocazione, potè nutrirsi un poco; eppure furono i giorni in cui soffrì di più. Pros­ simo a morire ma pur vivo, non aveva nessun dubbio per Noemi; ma una volta entrato nelle tenebre con che cosa si difenderebbe contro quel bel giovanotto? La mi­ serabile ombra di un morto non separa quelli che furono predestinati ad amarsi. Non rivelò nulla dei suoi af­ fanni; stringeva la mano del dottore, gli sorrideva. Ah! e tuttavia come avrebbe voluto vivere per vincerlo ed essere il preferito! Quale cupa follia gli aveva dunque ispirato il desiderio della morte? Anche senza Noemi, anche senza moglie, è così buona l’aria che si respira, e la carezza del vento è la migliore di tutte le carezze... Madido di sudore, e disgustato del proprio odore di malato, guardava il nipote di Cadetta che dalla finestra aperta gli tendeva la prima beccaccia della stagione... O mattinate di caccia ! Beatitudine dei pini dalle cime smor­ te e grigie nell’azzurro, simili agli umili che saranno glorificati ! Allora, nel più folto della foresta, una co­ lata verde d’erbe, d’arbusti e di nebbia rivelava l’acqua viva che Valios1 colora di giallo. I pini di Giovanni Peluèr formano il fronte deH’immenso esercito che san­ guina tra l’oceano e i Pirenei; essi dominano Sauternes 1. Terreno roccioso ma sabbioso.

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e la vallata bruciante dove il sole è davvero presente in ogni chicco di ogni grappolo d'uva... Col tempo Gio­ vanni Peluèr sarebbe stato meno geloso del suo cuore perché ogni bruttura come ogni bellezza si perde nella vecchiaia; e avrebbe avuto almeno per sé i ritorni dal­ la caccia, e la contentezza dei funghi raccolti.

Le estati scorse ardono nelle bottiglie d’Yquem e i tra­ monti degli anni passati fan rosso il Gruau-Larose. Si legge davanti al gran fuoco della cucina, e intorno stan­ no le lande piovose... Frattanto Noemi diceva al dot­ tore: — Non si scomodi a tornare domani... — E lui rispondeva: — No! no! Tornerò!... — Noemi capiva? Era possibile che non capisse? Le aveva mai fatto una dichiarazione? Giovanni Peluèr doveva morire senza ve­ dere l’esito di questa lotta al suo capezzale? Si sarebbe detto che qualcuno essendosi accorto che il povero ragaz­ zo si staccava dal mondo senza soffrire abbastanza, in­ trecciasse in fretta dei legami tali che egli non potesse romperli senza un grande sforzo. Tuttavia, ad uno ad uno, si spezzarono fino alla sua ultima ricaduta: le sue passioni si estinsero davanti a lui e venne il giorno in cui potè dare a tutti il medesimo sorriso, la medesima gratitudine senza sfumature. Non ripeteva più dei versi, ma parole come queste: «Sono io. Non temete».

Le piogge della fine d’inverno rinchiusero la camera tenebrosa. Perché si domandavano se Giovanni Peluèr soffriva, visto che soffrire era per lui una gioia? Della vita non percepiva più che i canti dei galli, i traballoni dei biroccini, i rintocchi delle campane, quell’insistente gocciolio sulle tegole e, la notte, i singhiozzi degli uc­ celli rapaci, gridi di bestie assassinate. L’ultima sua alba toccò i vetri. Cadetta accese un fuoco il cui fumo resi­ noso riempì la camera. Giovanni Peluèr ricevette sul suo corpo spirante quell’alito dei pini incendiati, che così spesso, nelle torride estati, la landa natale gli aveva sof­ fiato sul viso. I d’Artièl pretendevano di sapere che ca­

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piva ancora ma che non vedeva più. Il signor Gerolamo, nella sua vestaglia macchiata di medicine, era in piedi contro la porta, un fazzoletto sulla bocca. Piangeva. Ca­ detta e suo nipote s’inginocchiarono nell’ombra. La voce del prete, con le parole propiziatorie, sembrava forzare i battenti di una porta invisibile: «Parti da questo mon­ do, anima cristiana, in nome di Dio padre onnipossente, che ti ha creata; nel nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio vivente, che soffri per noi; nel nome dello Spirito Santo che è disceso su di noi; nel nome degli Angeli e degli Arcangeli; nel nome dei Troni e delle Dominazioni; nel nome dei Principati e delle Potenze... ». Noemi lo con­ templava ardentemente, dicendo dentro di sé: “Era bel­ lo...”. La gente del borgo confuse la campana a morte della sua agonia con l'Angelus della mattina.

XVI

II signor Gerolamo si coricò. Gli specchi nei quali così spesso Giovanni Peluèr aveva contemplato la miseria del­ la propria faccia, furono velati con tele. Il suo corpo fu rivestito come per la messa solenne: Cadetta gli mise persino in capo un cappello a cencio e in mano il libro da messa. La cucina si riempì d’un rumore di festa per­ ché quaranta persone dovevano venire a mangiare. Al­ cune mezzadre urlarono intorno al carro funebre come le antiche prefiche. Per la prima volta il curato aveva un funerale di seconda classe. Tutti gli invitati ebbero un paio di guanti e un soldo avvolto nella carta. Durante il trasporto piovve, ma il cielo si rasserenò fino al ritorno dal cimitero. Giovanni Peluèr andò così ad aspettare nella terra la resurrezione dei morti, in quella sabbia secca che mum­ mifica e imbalsama i cadaveri, e Noemi si seppellì nel lutto per tre anni. Il lutto stretto la rese letteralmente invisibile. Non usciva che all’ora della messa e si assi­ curava, prima di attraversare la piazza, che non vi fosse nessuno. Anche quando vennero i primi calori, un col­ letto orlato di bianco cinse il suo collo. Bastarono certe critiche perché non si mettesse più un vestito di seta nera dai riflessi troppo vistosi. Circa in quel tempo si sparse la voce che il dottorino si era convertito: se lo in­ dicarono alla messa, nei giorni di lavoro. Vi faceva

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un’apparizione, fra una visita e l’altra. Il curato, se do­ mandavano il suo parere su un avvenimento così con­ solante per un pastore, sorrideva con la sua bocca senza labbra e come cucita, ma non diceva una parola. Forse aveva perduto un po’ della sua autorità e della sua for­ za di persuasione, perché non potè ottenere dal signor Gerolamo che cancellasse dalle clausole del suo testa­ mento quella che obbligava Noemi a non riprender ma­ rito. Non riuscì nemmeno quando insistè per addolcire i rigori d'un lutto che riprovava come eccessivo. Il si­ gnor Gerolamo si gloriava d'appartenere a una famiglia nella quale le vedove non lasciavano mai il lutto e i d’Artièl mostrarono molto zelo nel mantenere Noemi così seppellita. Era per questo che in certe albe inver­ nali, quando la chiesa è molto scura, il dottorino non distingueva la vedova entro la sua nube tenebrosa, più di quanto lei non vedesse lo sposo attraverso la pietra sigillata che i suoi ginocchi ogni giorno toccavano. Fu molto se intravide talvolta la luce di un viso brillante di giovinezza nonostante i digiuni mattutini della comu­ nione e la vita claustrale. AH’indomani della messa an­ niversaria, quando tutto il borgo seppe che Noemi Peluèr non avrebbe lasciato il velo, i sentimenti cristiani del dottore cedettero. Non soltanto trascurò la chiesa, ma anche i suoi malati. Il vecchio Piesciòn aveva sentito dire che il suo giovane collega beveva, e perfino che si le­ vava di notte per bere. Il signor Gerolamo non era mai stato così bene e sua nuora ebbe qualche ora libera; si occupava della tenuta, ma i pini non hanno bisogno di sorveglianza. La sua pietà solida, regolare, era di breve ambito e poco sostenuta da letture. Appena capace di meditazione, Noemi si attaccava soprattutto alle formu­ le. Siccome non vi sono poveri nel paese della resina, e si fa presto a radunare intorno a un armonium il greg­ ge belante dei figli di Maria, che altro restava a Noemi, secondo l’uso delle landesi, se non la distrazione senza eccesso, del cibo? Noemi ingrassò appena al terzo anno

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di lutto, e il dottor Piesciòn dovette ordinarle di pas­ seggiare un’ora al giorno. Un pomeriggio al tempo dei primi calori, andò fino alla fattoria detta Tarteium, e, accasciata, si lasciò cade­ re sul ciglio della strada. Tutt’intorno le ginestre ronza­ vano di api e di tafani; i moscerini, usciti dagli scopeti, le punzecchiavano le caviglie. Noemi sentiva battere il suo cuore oppresso di persona grossa, e non pensava a nuli altro che a quella strada polverosa tutta abbando­ nata al fuoco del cielo per un recente taglio di pini, lungo la quale, per ritornare, avrebbe dovuto percorrere ancora tre chilometri. Aveva l’impressione che i pini in­ numerevoli, dai tagli rossi e viscosi, in quelle sabbie e lande incendiate l’avrebbero trattenuta prigioniera per sempre. In quella donna incolta e senza intelligenza si svegliava confusamente la disputa che aveva dilaniato Giovanni Peluèr. Era questa terra di cenere, questa vita eremitica che obbligava una disgraziata morente di sete ad alzare la testa, a tendersi tutta verso il refrigerio eter­ no ? Si asciugava le mani madide col fazzoletto orlato di nero e non guardava che le sue scarpe polverose e il fosso dove giovani felci si aprivano come dita. Tutta­ via alzò gli occhi, ebbe sul viso quell’odore di pan di segale che era l’alito della fattoria, e bruscamente si levò in piedi, tremante: un tilbury che riconobbe, si era fer­ mato davanti alla casa. Quante volte, fra le imposte ac­ costate d’una finestra, aveva guardato luccicare quelle ruote con più amore che se fossero state stelle! Scosse il vestito pieno di sabbia; dei carri traballavano; una ghian­ daia gridò; Noemi, in una nuvola di moscerini, rima­ neva immobile con gli occhi su quella porta che un gio­ vane stava per aprire. Con la bocca semiaperta e il re­ spiro sospeso, aspettava, aspettava, come un’umile bestia sottomessa. Quando la porta della fattoria si schiuse, i suoi sguardi frugarono l’ombra, dove si muoveva un corpo; una voce familiare ordinava in dialetto dosi enor­ mi di tintura di iodio... Egli apparve: il sole fece brillare ogni bottone del suo vestito da caccia; il mezzadro tenne

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il cavallo per la briglia; diceva che si era alla stagione più pericolosa per gli incendi: tutto è ancora secco, nulla rinverdisce sotto il bosco, e le lande non sono più inon­ date... Il giovane prese in mano le redini. Perché Noemi indietreggiava? Una forza arrestava il suo slancio verso colui che si avanzava, la traeva indietro. Si addentrò ne­ gli scopeti più alti di lei; gli spini scorticavano le sue mani. Si fermò un momento, ascoltando il rumore della vettura sulla strada che non si vedeva più. Senza dubbio, fuggendo così, pensava che il borgo non avrebbe accettato senza scandalo che decadesse dalla sua posizione di vedova ammirevole, e che una clausola del testamento del signor Gerolamo impedirebbe sempre ai d’Artièl di acconsentire a quello che la signora d’Artièl chiamava un « matrimonio bestiale ». Ma l’istin­ to di Noemi avrebbe spazzato ostacoli come questi, se non fosse stata presa per la gola da un’altra legge più forte del suo istinto. Piccola, era condannata alla gran­ dezza; schiava, doveva regnare. Era una borghese un po’ sciocca che non poteva sorpassare se stessa: ogni via le era chiusa, salvo la rinuncia. Da quel momento, nella pi­ neta piena di mosche, seppe che la sua fedeltà al morto sarebbe stata la sua umile gloria e che non era più in suo potere il sottrarvisi. Così Noemi corse attraverso gli sco­ peti, fino a quando, sfinita, le scarpe piene di sabbia, do­ vette abbracciare una quercia intristita sotto il bigello del­ le foglie morte, ma tutte frementi d’un soffio di fuoco, una quercia nera che somigliava a Giovanni Peluèr.

I

— Il vento è fresco, senza soprabito, Bob? Vado a cercarle il mio. Il giovane protestò dicendo che soffocava, ma non potè trattenere Elisabetta Gornac: ella si affrettava pe­ santemente verso la casa; sul terreno indurito, fra le fronde del boschetto di carpini strinati dal sole, cam­ minava faticosamente come se le sue gambe ancora sot­ tili e i suoi piccoli piedi non avessero più la forza di sostenere il corpo grasso. Bob brontolò: — Non sono poi tanto malato... Eppure, seduto sulla pietra ardente del terrazzo, sof­ friva di non sentire un appoggio alle spalle, alla schie­ na, alla nuca; così debole ancora che non gli piaceva essere lasciato solo. E si spazientiva nel vedere Elisabetta Gornac immobile all’estremità del viale, in attesa che finissero di passare, colle loro giacche macchiate di sol­ fato, i lavoranti catalani. Passando, essi la squadravano e non la salutavano. Ella pensò: “Non si sa più che razza di gente si ha in casa.” Ma era necessario che, in quell’angolo spopolato della Garonna, la vigna continuasse a dare i suoi frutti. Elisabetta ripeteva al suocero, Giovanni Gornac: — Finiranno per assassinarci, quei catalani... Eppure avrebbe accettato, come il suocero, di far laè

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votare anche degli assassini, pur di non lasciar soffrire la vigna: prima di tutto, che la vigna non soffra! Nel cortile, limitato dal decrepito castello e da due bassi capanni, Elisabetta scorse il suocero seduto, un bastone fra le gambe. Il sangue gli affluiva alle guance, al cranio sudato, gli gonfiava le vene delle mani, del collo troppo corto, delle tempie. — Papà, sei ancora andato nella vigna sotto questo sole? — Lo crederesti, figlia mia? Galbert ha sfogliato la vite, nonostante i miei ordini ! Sperava che non andassi a vedere! Ma senza ascoltarlo Elisabetta è entrata in casa. Il vecchio brontola contro la nuora. Non la vede quasi mai, è sempre in movimento. Eccola con un soprabito sulle braccia: beata lei che ha freddo! — Non è per me: è pel piccolo Lagave. Sai benissi­ mo che basterebbe una ricaduta per... E correva, quasi, verso il boschetto di carpini senza udir brontolare il vecchio Gornac : — Ormai non si occu­ pa più che di quel ragazzaccio, di quel bellimbusto! Quando penso che Maria Lagave, sua nonna, lavorava da me a giornata, e faceva sempre il bucato ! Ma il figlio di Maria Lagave, Agostino, aveva otte­ nuto con inauditi sforzi un posto elevato nell’amministrazione delle finanze. Il vecchio Gornac dimentica la sua rabbia - sorride sempre quando pensa ad Agostino Lagave. — Maria Lagave, a che punto sarebbe il tuo Ago­ stino, oggi, se non me ne fossi occupato io? Ogni volta che egli rivolgeva questa domanda alla vicina, la vecchia rispondeva: — Senza i suoi buoni consigli, signor Gornac, mo­ riremmo di fame, oggi, Agostino ed io, in una parroc­ chia delle Lande o del Sauternais. Ella era intelligente, e ambiziosa per il figlio, il quale del resto imparava tutto ciò che si voleva: il curato di Viridis gli aveva ottenuto una borsa di studio al Semi­

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nario. Questa donna dei campi, nell’anno 1890, aveva ancora il diritto di pensare che un ragazzo colto e one­ sto può farsi una bella posizione nel clero. Non man­ cavano le floride parrocchie in cui la madre del curato invecchia nell’agiatezza, circondata dalla considerazione generale. Pure, Giovanni Gornac, allora nel pieno delle sue for­ ze, aveva fiutato da che parte veniva il vento. Benché non avesse mai avuto dell’entusiasmo per la Chiesa, non avrebbe affatto pensato, in altri tempi,, a farle la guerra. Certamente aveva assorbito dai brani scelti di Voltaire, e dalle canzoni di Béranger, i principi di un anticle­ ricalismo solido e tradizionale; ma questo piccolo bor­ ghese non era uomo da regolare la sua condotta con delle idee. Quello ch’egli chiamava la sua religione del progresso, parve, anzi, subire un leggero declino nel maggio 1877. Ma subito dopo le elezioni repubblicane del 14 ottobre, egli si stabilì finalmente, e per non più uscirne, dal lato dell’opportunità. Più di ogni altra cosa il crac dell’« Unione Generale », questa sconfitta finan­ ziaria e cattolica nel medesimo tempo, l’aveva aiutato a mantenervisi. Giovanni Gornac, molti anni dopo, impal­ lidiva ancora pensando che se il padre clericale, morto nel 1881, avesse vissuto un mese di più, tutta la sua fortuna sarebbe stata inghiottita dal disastro. Giovanni aveva avuto appena appena il tempo di liquidare le sue azioni dell’« Unione Generale » e delle « Banche impe­ riali e Reali privilegiate d’Austria » patrocinate dall’« Unione ». — Quando penso che mio padre avrebbe potuto vi­ vere un anno di più... Pure, ripeteva a Maria Lagave: — Non è male che tuo figlio Agostino finisca i suoi studi al Seminario: non ti costa niente ed è tanto di preso al nemico... Egli stesso aveva mandato i suoi due figli al Collegio della diocesi di Bazas: il vitto è migliore che nelle scuo­ le laiche, c’è più aria e più igiene.

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Egli ricorda ancora quel giorno ardente del principio d’agosto, in cui vide discendere alla stazione di Langon Maria Lagave con la testa ravvolta dal suo più bel faz­ zoletto di seta, le braccia cariche di libri rossi, di corone verdi e dorate. Agostino la seguiva, tutto impacciato nel­ la sua prima tonaca da seminarista. -— Bisognerà chiamarti signor curato, da ora in poi? — Ti si deve del rispetto ora, eh, Agostino! — ri­ devano attorno a lui i ragazzi e le fanciulle. Giovanni Gornac aveva ostentatamente volto il capo altrove; ma la sera stessa entrava, familiare e autoritario, nella casa dei Lagave; sedeva senza paura di disturbare il pranzo di famiglia dato in onore del ragazzo, che ave­ va ottenuto, con tutti i primi premi della sua classe, il diploma in retorica. Invano Maria Lagave protestava che quei signori esigevano la sottana per i loro studenti in filosofia; e che Agostino sarebbe sempre in tempo a to­ glierla quando quei signori avrebbero pensato a tonsu­ rarlo. — Ma, sciocca, non vedi che si attaccherà a lui come il vischio, e che questo ricordo lo seguirà sempre e gli farà una fama di prete spretato? Perché egli li lasciasse mangiare tranquilli, Maria Lagave promise che, l’indomani stesso, il ragazzo avreb­ be ancora indossato i suoi abiti civili. Giovanni Gornac si impegnò, allora, a comperargli un abito nuovo e a pagargli l'anno di filosofia al Liceo. E come Maria La­ gave si lamentava perché la tonaca « era costata cara e non sarebbe stata indossata che un sol giorno » egli finì di convincerla suggerendole di ricavare dalla stoffa una bella gonna per lei. — Guarda che stoffa, durerà quanto te. Quegli anni furono l’epoca migliore della vita di Gio­ vanni Gornac. Al più florido commercio di vino che ci fosse allora a Bordeaux, quell’uomo calvo, giallastro, con l’occhio vuoto e brillante, non dedicava che una parte

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della sua attività. Teneva al denaro soltanto perché gli permetteva di comperare del terreno. Da anni conduceva di pari passo due operazioni: una finanziaria, l’altra elettorale. Comperava pezzo a pezzo le immense proprietà dei Sabran-Pontevès, nella landa, e rubava ogni quattro anni qualche centinaio di voti al deputato del circondario: il marchese di Lur. Egli era ammirato. Aveva fondato a Viridis un cir­ colo in cui, il sabato, dopo la paga, i contadini anda­ vano a bere e a parlare di politica: boari e mulattieri vi si fermavano e non tornavano alle loro fattorie che tardi nella notte. I Gesuiti di Viridis si davano una pena inutile con i loro patronati, le loro trombe e le loro bandiere! Gio­ vanni Gornac non disputava loro i bambini; sapeva che appena adolescenti li avrebbe facilmente attirati là dove era permesso bere a sazietà e raccontare i propri amori.

L’anno 1893 vide il trionfo di Giovanni Gornac. I vecchi vignaioli parlano ancora oggi di quell’annata ca­ nicolare. Nelle bottiglie con la data di allora, il sole di quell’estate lontana brucia sempre: essi vi ritrovano il sapore ardente che aveva la vita a quell’epoca, quando il vino delizioso colava con tanta abbondanza che lo lasciavano nei tini, non avendo più botti da riempire. Un inestinguibile incendio ardeva il cielo delle Lande. E fu in quell’anno che il marchese di Lur perdette il suo seggio di deputato, guadagnato da un avvocato di Bazas del quale Giovanni Gornac era stato il sostenitore. Nella stessa epoca l’antico seminarista Agostino Lagave, che egli considerava come il suo porta-fortuna e che ave­ va aiutato con il suo denaro, otteneva il diploma d’i­ spettore delle finanze. Giovanni Gornac dava in moglie al suo primogenito Prudenzio la signorina Elisabetta Lavignasse, di Beautiran - unica discendente di una fami­ glia meno ricca, ma più antica e considerata di quella dei Gornac. Infine approfittava, grazie agli incendi nei

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boschi, del deprezzamento dei pini per comprare a buo­ nissime condizioni gli ultimi ettari delle terre dei Sabran-Pontevès.

Oggi, a ottant’anni suonati, prossimo al sonno eterno in quella terra che ha tanto amato, papà Gornac sogna i bei giorni in cui i raccolti erano splendidi e le braccia non mancavano per curare la vigna. Pietro, il nipote, lo ossessiona ripetendogli le sue tirate sullo spopolamento. Forse che nel 1893 si avevano più figli di oggi? Eppure le braccia non mancavano! Lui, per esempio, aveva avu­ to esattamente i due maschi che si era augurato di pro­ creare. Sua moglie (una Péloueyre) aveva ben potuto morire dopo la nascita del secondogenito: aveva com­ piuto tutto quello che egli si aspettava da lei. Era ne­ cessario avere due figli: uno per custodire la terra, l’al­ tro per ottenerne dallo Stato il mantenimento. Pure, me­ glio avere un figlio solo che averne tre o quattro, si dicevano a volte Maria Lagave e Giovanni Gornac. È una cosa tanto bella quando parecchie eredità si accu­ mulano su una sola persona ! E un figlio unico basta, purché non si allontani dalla terra. Quindi, allorché la nuora diede alla luce un secondo maschio, dieci mesi dopo il primo, Giovanni Gornac ne provò una certa amarezza. — I miei luigi non valgono più che dieci franchi ! — lamentava. Alla nascita di un terzo maschio, dichiarò: — I miei luigi non valgono più che uno scudo. I due ultimi nati morirono in tenera età: il dottore curò la bronchite dell’uno con del tè tiepido; l’altro, a sei mesi, mangiava già la minestra come un adulto e morì di dissenteria. Il vecchio Gornac è giunto mai a confes­ sarsi che da diversi anni gli avvenimenti non lo obbedi­ scono più? I suoi due figli hanno raggiunto al cimitero i due innocenti; ed ora non gli resta che la nuora e un nipote, quel Pietro che lo irrita sempre e del quale non ama parlare.

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Elisabetta Gornac si è affrettata verso la terrazza dove è seduto il bel convalescente, il figlio di Agostino, Ro­ berto Lagave, ch’ella chiama Bob, perché lo ha cullato bambino fra le braccia. Bob si era abbottonata la giacca. — Vede, ha proprio freddo. E lo avviluppò con un soprabito da donna, rialzò il collo di pelliccia. Invece di mostrarsi irritato, il ragazzo le diceva grazie con una voce che pareva commossa; ma anche nelle minime e più comuni frasi la sua voce in­ cantava in virtù di una leggera incrinatura, quasi non avesse finito di mutare. Anche il suo viso non era quello di un giovane di ventitré anni. Le guance bionde pare­ vano imberbi, tinte agli zigomi da un sangue troppo vivo. Il suo persistente sorriso ringraziava la donna che, avendolo ben ravvolto nel soprabito, si era allontanata di qualche passo. Delle ciglia infantili lunghe e folte davano al suo sguardo un languore quasi importuno; Elisabetta distolse gli occhi da lui, guardò attentamente passare un pigro treno nella pianura. Aveva conosciuto Bob quando era bambino; ma dopo i suoi quindici anni era questa la prima volta ch’egli si fermava per un lungo soggiorno al paese; ed ella non aveva ancora potuto capire che il ragazzo onorava della stessa languida attenzione i contadini, i cani, gli alberi, le pietre, attenzione non provocata da altra ragione che dall’abbondanza, dalla lunghezza delle ciglia piantate diritte sulle palpebre pesanti. Se Bob Lagave era rimasto, per anni, inconscio del turbamento che destava negli altri il suo sguardo, da parecchio tempo, però, si era reso conto di questo dono, e la sua grazia naturale lo induceva a fingere di provare davvero il desiderio di piacere, per non smentire le pro­ messe dei suoi occhi. Era stato un ragazzetto semplice, di intelligenza pigra, il quale non si meravigliava nel vedere che tutti sorri­ devano davanti alla sua bellezza e che, al suo avvici­ narsi, i più severi si facevano dolci. Lo scolaro indolente

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trovava giusto e logico di non poter alzare la testa verso i grandi senza che una mano non scendesse subito a po­ sarsi sui suoi capelli. Passarono degli anni prima ch’egli imparasse a co­ struirsi un’anima che assomigliasse al suo viso ed a sfrut­ tare - senza durezza, del resto, con molta grazia e con molta pigrizia - il suo pericoloso potere; infine, Bob divenne realmente quello che a tutta prima diceva il suo sguardo: un animaletto insinuante che mendica carezze, meno dolci, però, di quelle di cui egli possiede la scienza. Per conoscere dei ragazzi della stessa specie però sa­ rebbe bastato che la signora Gornac avesse guardato at­ tentamente i giovani garonnesi che lavoravano e canta­ vano nella sua vigna, e che in gran parte erano abili nell’arte dell’amore come Bob — uno di loro del resto, uguale a loro per il sangue della nonna Maria Lagave.

II

— Adesso ho troppo caldo. Bob ricacciò un poco sulle spalle il cappotto, si sbot­ tonò la giacca; ed ebbe ancora freddo. Aveva il corpo tutto madido, e gli pareva che la sua giovane forza do­ vesse uscirgli così dai pori, fino all’esaurimento. — È strano: le gambe non mi reggono più. Elisabetta prese una poltrona da giardino e la trascinò verso Bob, il quale vi si lasciò cadere gemendo « che non sarebbe guarito più; ch’era un uomo finito». Ella protestò che non ci si rimette tanto presto da una pleurite. Suo figlio Pietro era stato costretto a pas­ sare due anni in campagna. Scoprì anche fra le sue re­ lazioni altri esempi per convincere Bob ad avere pazien­ za. Ma il giovane guardava fisso a terra e non voleva essere confortato. Nessuno all’infuori di lui, egli pensava, poteva mi­ surare la sua disgrazia. Aveva creduto nel suo corpo come nell’unico dio possibile. Un tempo rispondeva a proposito e a sproposito: — Non conosco indisposizioni. Non mi sono mai accorto di avere uno stomaco. Potrei mangiare e bere sempre, senza interruzione; digerirei le pietre. Il giorno in cui, durante una gita in automobile, fu preso dal temporale fra Parigi e Versailles, al ritorno

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non aveva voluto cambiarsi d’abito: sarebbe stata una mancanza di fiducia nel suo dio, il corpo. Il giorno seguente, rincorrendo un autobus sentì un dolore a sinistra (come se nel suo fianco la corsa agi­ tasse un liquido) e giudicò fosse un dolore intercostale. Ma la sera, la febbre lo aveva costretto al letto. Quindi non ebbe più possibilità di uscire di casa. Era questa l’unica cosa che lo disperasse: comprese che fino a questa malattia egli aveva sempre teso tutti i suoi sfor­ zi a crearsi la possibilità di rientrare il più tardi possi­ bile nell’appartamento che i Lagave abitavano in via Vaneau. — Roberto? Noi non lo vediamo mai! — così rispon­ devano i Lagave a coloro che chiedevano del figlio. Bob non fuggiva soltanto la scala sporca (non c’è scala di servizio) e il cortile interno sul quale si apriva la sua camera, echeggiante all’alba di un frastuono di pattumiere (e si sente a tarda notte il nome che gli inquilini devono gridare al portinaio per farsi aprire, i loro passi sonori, le loro risate). Bob non fuggiva soltanto quell’odore che la piccola cucina di un appar­ tamento sui seimila franchi a Parigi spande in tutta la casa; non fuggiva l’ingrandimento fotografico di Maria Lagave, sotto il quale Agostino aveva messo un bronzo firmato Dalou: una musa appoggiata a un plinto offre l’alloro a un qualunque grand’uomo di cui basta, al di sopra, appendere l’effìgie. Sarebbe pure riuscito a non vedere la tenda della sala da pranzo: foglie color cioc­ colata su fondo marrone chiaro, finita da fiocchi; e an­ che le sedie dorate del salotto tutte messe a distanza uguale dal grande sgabello imbottito, color ciliegia, or­ nato di passamanerie, sul quale, il martedì, giorno di ricevimento, la signora Lagave presiedeva al circolo di signore in visita. Bob odiava la sua casa, ma non era tanto nervoso da non poter resistere a viverci qualche ora. Fin dai primi giorni della sua malattia — quando con lo spirito ondeggiante sulla soglia del delirio vedeva suo padre

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curvarsi su di lui tre volte al giorno: il mattino, a mez­ zogiorno e la sera rincasando dal Ministero - al timore che aveva della sua vicinanza e al sollievo che provava nel sentire i suoi passi allontanarsi nel corridoio, capì finalmente che aveva fuggito sempre e soltanto quel­ l’uomo; o piuttosto, aveva fuggito il disprezzo che ispi­ rava al padre e che questi tradiva non tanto nelle sue parole, quanto nei silenzi che ostentava alle domande di Bob. Eppure la signora Lagave si confessava candidamen­ te di averlo educato nel culto del padre. Ancora bam­ bino, egli sapeva che non esiste nulla di più ammire­ vole, in questo tetro mondo, di un uomo che è arrivato a forza di volontà, e da solo, a farsi una posizione. Quando in settembre, al tempo della vendemmia, i ge­ nitori lo accompagnavano dalla nonna Lagave, egli ave­ va paura di quella contadina magra e dura che diceva di lui: — Mi fa vergogna. Ella era offesa perché il bambino non dava al suo Agostino quelle gioie orgogliose che lei aveva conosciu­ to ai bei tempi delle distribuzioni di premi al Seminario di Bordeaux, quando davanti alla folla plaudente avan­ zava un Agostino glorioso, miope, carico di libri rossi, drizzando la persona piccola e terrea sotto la corona di carta verde. — È strano — diceva Agostino alla madre Maria Lagave — appena ho visto questo marmocchio troppo biondo, ho subito capito che non sarebbe stato un uomo laborioso; ho subito fiutato il fannullone. La cosa straordinaria era che Bob assomigliava alla madre, bionda slavata. Aveva di lei il colore della pelle e dei capelli, la bocca tumida che, brutta nella donna, stava bene al ragazzo; e anche il gran naso della nonna abbelliva il viso di Bob. Del padre non aveva che le mani e i piedi « di una piccolezza sconcertante » - così si compiaceva definirli il gruppo dei suoi amici di Pa­ rigi· E tanto grande era la grazia di Bob bambino, che il

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signor Lagave aveva rinunciato per lui ai benefici di una educazione spartana. Del resto, su questo argomento so­ lo, sua moglie resisteva alle sue volontà. Figlia di un esattore di Bordeaux, la cui parentela aveva lusingato Agostino Lagave alle sue prime armi con la società (ma più tardi, aveva avuto dei rimpianti che si acuivano man mano egli si elevava di grado nella gerarchia sociale), la signora Lagave aveva vezzeggiato l’infanzia di Bob, malgrado i rimproveri del marito. Oggi è costretta a tacere quando Agostino « tiene a scindere la sua respon­ sabilità ». Certo, il ragazzo era fiacco, senza intelligenza, ma educandolo un po’ rigorosamente si sarebbe potuto fare qualcosa di lui nell’Ufficio Tasse. La signora Lagave gli ricordava, in sua difesa, che i pessimi voti di Bob quando era al liceo non l’avevano mai illusa sull’origine dell’indulgenza eccezionale di cui il bambino godeva; gli ricordava le sue visite inutili all’assistente generale « perché stringesse i freni della disciplina ». Ma contro ogni speranza, Bob ottenne la licenza li­ ceale. La signora Lagave sperò un attimo che il diploma attenuasse la severità del marito. Invece, egli prese da questo diploma il pretesto per scagliarsi contro l’affievolirsi della cultura, visto che i « frutti secchi » riusci­ vano senza sforzo. Quest’uomo severo, ma poco portato all’introspezione, non avrebbe mai saputo ammettere di essere stato urtato dal trionfo di Bob, contrario a tutte le sue previsioni, e convenire, quindi, di essere stato cattivo profeta. Meno ancora si sarebbe confessato - egli che viveva chiuso nell’ammirazione di sé e si librava in una sfera spirituale tanto lontana dal suo miserabile figlio - di provare un’umiliazione segreta, una oscura gelosia. Come Maria Lagave, sua madre, e Giovanni Gornac, il suo protettore, egli non aveva mai conosciuto le passioni del cuore — e appena appena i turbamenti della carne. Se Giovanni Gornac non fosse intervenuto nel suo de­ stino, egli avrebbe certamente fatto una onorevole car­ riera ecclesiastica. Si sarebbe detto di lui: «Non è un santo, ma la sua condotta è esemplare; e che straordi­

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nario amministratore!... Sarebbero necessari molti uomi­ ni così ! ». Sarebbero necessari molti uomini così. Ma né la madre Maria, né il vecchio Gornac, refrattari come lui ai tor­ menti dell’amore, erano stati mai ossessionati dalla pre­ senza di un essere della razza ostile, esseri che gli uomi­ ni non creati per amare disprezzano e odiano, senza po­ tersi impedire di invidiarli e imitarli goffamente. Invece basta, questa sera, alla devota, forte e quasi cinquantenne Elisabetta Gornac, il gesto di mettere sulle spalle dell’adolescente un soprabito da donna, perché un sangue più rapido scorra nelle sue vene. Quanto ad Ago­ stino Lagave, da anni, vestito di nero, (e sempre con quella cravatta confezionata di cui l’elastico gli sale sulla nuca) egli esamina e giudica con occhio sprezzante il bell’insetto dalle elitre frementi che si vestono di riflessi, sbocciano come un fiore.

Bob aveva rifiutato di iscriversi all’Università, studen­ te nella facoltà di legge. Asseriva di seguire il corso di Belle Arti e di lavorare da un pittore-decoratore. Dopo aspri dissensi, consentì a che il padre lo facesse passare come allievo architetto ; ma altri motivi di contrasto sor­ gevano ad ogni minimo pretesto. Il primo fu provocato dallo smoking·. — Ne avevo forse uno, io, alla tua età? — diceva Agostino Lagave. Poi Bob dovette faticare per avere la chiave di casa. Egli, del resto, evitava le discussioni, fingeva di piegarsi ai desideri del padre, batteva in ritirata. Però non rien­ trava che all’alba e il suo viso, nonostante gli occhi stan­ chi, non era quello di un giovane che ha dormito sotto i ponti o è andato al mercato coperto ad aspettare la levata del sole. Una sera il padre, che aveva sempre rifiutato di com­ prargli lo smoking, lo sorprese in anticamera, meravi­ gliosamente vestito da sera; di più aveva una pelliccia buttata sulle spalle, ed un elegante bastone in mano:

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— Dove hai trovato il denaro? Voglio sapere, esigo sapere di dove viene il denaro. È già troppo avere per figlio un bellimbusto, un fannullone; non voglio essere disonorato da lui. Sarebbe il colmo, se tu arrivassi al punto di nuocere alla mia carriera! (Appena formulato, questo timore lo invase, lo rese furioso.) Se tu nuocessi alla mia promozione, ti rinnegherei. Sarebbe troppo im­ morale che tutta una vita di lavoro e di onestà fosse compromessa dalle marachelle di un piccolo miserabile... Il lampadario stile Rinascimento della sala da pranzo spandeva una luce che veniva assorbita dalle tende a ri­ cami color cioccolata. — Parla, caro, parla — gemeva la signora Lagave — spiega a tuo padre: è un malinteso... Ma, appoggiato al marmo del camino, il giovane, ve­ stito del suo bell’abito (e il panciotto bianco faceva ri­ saltare la sua vita), abbassava la testa, non perché fosse umiliato dai sospetti, ma perché era urtato dai gesti di quel piccolo uomo nero, irritato e che urlava: — Ma protesta, almeno! parla, discolpati!... Trova una parola ! Bob si guardò nello specchio, si lisciò i capelli, indos­ sò la pelliccia e quando ebbe oltrepassato la soglia gridò: -— La mamma è al corrente di tutto. Ti dirà che se continuo a stare in questa casa è perché non voglio la­ sciar lei, non per mancanza di denaro. Questo mese ho guadagnato molto più di te. E uscì dopo queste parole le quali non erano che una vanteria, poiché Bob non guadagnava neppure quel tan­ to che potesse bastare ai suoi minuti piaceri. Agostino restò un attimo immobile, stupefatto, poi interrogò la moglie con lo sguardo; ma anche se la si­ gnora Lagave avesse capito quale mestiere il figlio face­ va, non avrebbe saputo spiegarlo al marito; ed era per questo che si era finora rifiutata di parlargliene, malgra­ do le insistenti preghiere di Bob. Che ci potessero essere persone incapaci di ammobiliare da sole il loro appar­ tamento e tanto sciocche da rivolgersi, coprendolo stu-

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piđamente d’oro, a un giovanotto perché si occupasse di sistemarlo secondo il suo gusto, adattando stoffe e tap­ peti, era una cosa che oltrepassava le concezioni che i Lagave avevano degli affari e del lavoro; e, per la verità, non lo credevano. Le forme e i colori erano a loro indifferenti, come la letteratura a un illetterato, a un ignorante. Agostino aveva l’abitudine di ripetere una frase familiare al vec­ chio Gornac: «Per me!... basta che io abbia delle co­ mode poltrone, bene imbottite... ». Ripeteva questa frase per abitudine, e si calunniava, perché mai nessuno fu insensibile alle comodità più di quel figlio di contadini... Se avesse continuato a studiare al Seminario avrebbe ottenuto il beneficio della completa indifferenza verso tutto ciò che si chiama lusso; e gli altri avrebbero riconosciuto in lui la virtù di rinunciare a dolcezze che non aveva mai conosciuto. Sarebbe stato uno di quei santi uomini che ammiriamo puerilmente perché sanno rinunciare, non a ciò che essi amano, ma a ciò che, noi, amiamo. Quella sera, la signora Lagave fece vedere al marito i documenti che Bob le aveva affidato: lettere, progetti, fatture dalle quali si capiva che il figlio aveva « ammo­ biliato degli appartamenti » a tre straniere: due ameri­ cane di Nuova York e una principessa rumena. Aveva anche fatto da intermediario tra un negoziante di mo­ bili artistici e un polacco il cui nome era ebreo. L’onesto funzionario si rallegrò vedendo almeno il nome di un uomo in queste losche combinazioni e pensando che non poteva accusare Bob di ricevere lavoro soltanto dalle donne. La mancanza di fantasia impediva ai Lagave di im­ maginare la vita segreta del figlio, il quale, dopo la ba­ ruffa per lo smoking, cercava di passare il minor tempo che fosse possibile in via Vaneau. A volte, di sera, i suoi genitori lo vedevano abbattersi in casa come un colombo viaggiatore stanco, senza neppure immaginare quali pae­ si avesse attraversato. Non gli facevano nessuna doman­

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da « per principio » diceva Agostino Lagave. Ma in fon­ do, egli non era curioso della vita di nessuno, neppure di quella del figlio. Agli altri non succedeva niente di importante; gli altri non lo interessavano. Finché il padre era assente dal salotto, Bob circon­ dava la mamma di tenere attenzioni e di cure, ma se Agostino entrava, la sua presenza lo paralizzava. Seduto sull’orlo di una sedia, egli restava silenzioso, immobile, con lo sguardo assente, come se il signor Lagave — che si divertiva a parlare di questioni di servizio, di promo­ zioni e di politica - parlasse una lingua a lui sconosciuta. Bob ascoltava meno tranquillamente quando il padre rac­ contava i suoi trionfi scolastici compiacendosi ai ricordi con una stupida soddisfazione, un’intollerabile beatitu­ dine. Ma più sinistri erano altri suoi ricordi - le storie di ricevitori da lui perseguitati, la sua abilità per coglier­ li in flagrante colpa di frode, per ridurli alla prigione, al suicidio. La madre e la moglie di uno di essi si era­ no inginocchiate davanti a lui, gli avevano baciate le mani, lo avevano supplicato: otto giorni sarebbero ba­ stati per trovare i quattrini da rimettere in cassa. — Niente: la nostra professione richiede un’anima romana; fui inflessibile. Quelle sere Bob passava direttamente dalla sala da pranzo alla cucina a prendervi una brocca d’acqua calda, e dalla cucina alla sua camera. Il rumore dell’acqua nel bagno trasportabile turbava un attimo la eterna partita di tric-trac nella quale, diceva il signor Lagave, il suo spirito, dopo una giornata di lavoro, trovava un salutare ristoro. Il giovanotto non si faceva più vedere dai suoi genitori. Essi udivano il colpo della porta d’ingresso chiusa con violenza. Allora la signora Lagave si alzava, entrava nella camera di Bob, dove sembrava fosse pas­ sato un ciclone, constatava con amarezza che egli si era ancora cambiato la camicia; non si faceva un’idea di quello che costa il bucato al giorno d’oggi, quel ragaz­ zo. L’acqua del bagno aveva spruzzato le pareti, oltre la tela cerata inchiodata davanti alla toletta; ed era pro-

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prio fatica sprecata aver dato la cera al pavimento il mattino stesso. Udiva Agostino che gridava: — Chiudi la sua porta, quell’odore si sente fin qui ! Egli esecrava i profumi, ma soprattutto quell’odore di acqua di Colonia, di chypre, e di tabacco inglese, un attimo vittorioso del puzzo di cucina e di quello dell’ar­ madio in cui erano custoditi i suoi abiti. La porta della scala chiusa, Bob scompariva per i suoi genitori nella notte oscura - nell’inimmaginabile nulla. Essi erano incapaci di evocare le peripezie della sua vita, come se un manico di scopa lo avesse miracolosa­ mente trasportato in qualche favolosa tregenda. Per im­ maginarle fu necessario che una pleurite, improvvisa­ mente, facesse di Bob il loro prigioniero; allora la vita sconosciuta che il ragazzo conduceva fuori affluì verso di lui, costretto in casa. Degli esseri di cui Bob era il tormento e la gioia, desolati di non avere sue notizie, sfidarono la sua proibizione di andarlo a cercare in via Vaneau. Fin dai primi giorni della sua malattia, delle automobili si fermarono alla sua casa. Il portinaio subì l’umiliazione di ripetere: «non c’è» a parecchie signore che cercavano l’ascensore. E un giovane alto fu di una gentilezza tanto insidiosa che la signora Lagave dovette aprire la porta della camera del malato « un attimo, il tempo di vedere un pochino Bob ». Ma Bob ne fu così contrariato che gli venne la febbre alta. Da quel giorno, la portinaia ebbe l’ordine di non lasciar salire nessuno e di dare ai visitatori notizie della salute di Bob. Lunghi conciliaboli si tennero davanti alla portineria fra persone delle quali l’unico ragguaglio che il portinaio potesse dare, era che non abitavano nel quartiere. — Guarda: è venuta una principessa. C’è una corona sul suo biglietto da visita; e poi, anche un marchese... Non conosceva che dei nobili... La signora Lagave, smarrita, e che parlava già del figlio al passato, era sempre estatica. — Avventurieri! — rispondeva Agostino, impressionato però. A tutta prima quell’odore di donne e di ricchezza che

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si insinuava in casa sua non parve irritarlo — sia che la malattia di Bob lo portasse all’indulgenza, sia che gli fosse grato del suo sforzo nel voler impedire agli amici importuni l’accesso dell’appartamento. Su questo argo­ mento l’ammalato era più rigoroso del medico stesso: snobismo, certamente, timore abbastanza volgare delle ironie di cui avrebbero fatto le spese le tende color cioc­ colata, gli ingrandimenti fotografici, e forse anche i suoi genitori. Ma quel ragazzo indolente temeva soprattutto le conseguenze di un incontro di suo padre con qual­ cuno dei suoi amici. Bob era sensibile alle differenze di classe sociale, come tutti i provinciali che hanno messo radici, a Parigi, in un ambiente diverso dal loro; temeva quei misteri di parole e di abitudini della gente di mon­ do fra la quale Agostino Lagave avrebbe prima perduto terreno e poi si sarebbe esasperato. Quando fu convalescente, Bob resistette qualche gior­ no; ma - precedendo l’invasione degli amici tenaci dei fiori ornavano già tutti i vasi disponibili dell’appartamento, riempivano di un odore di nozze le stanze del­ la casa; su un ridicolo tappeto in imitazione Beauvais, una scatola preziosa di canditi, offerta dalla principessa, appariva fuori posto come lo sarebbe stata la principessa stessa seduta sullo sgabello color ciliegia del salotto. Intanto, Bob riacquistava la sua temperatura normale; e il signor Lagave il suo umore nero. Egli si esasperava nel vedere la moglie raggiante per tutti quei fiori e quei frutti canditi. Ella ammirava il figlio come al tempo in cui affermava « che Bob sarebbe stato premiato in qual­ siasi concorso di bellezza infantile » (tempo in cui già Agostino prevedeva che quel bel bambino così diverso da lui, sarebbe stato «un frutto secco»). Ogni sera il funzionario, rincasando, brontolava: — Si sente odore di cocotte qui ! E per « purificare l’aria » apriva la finestra benché la primavera fosse piovosa e fredda.

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Un sabato mattina, tornando a casa più presto del solito, incontrò una fanciulla che usciva dalla camera di Bob, e che si spaventò alla sua vista e fuggì come un uccellino dalla porta semiaperta. Agostino ebbe appena il tempo di vedere degli occhi brucianti sotto un cap­ pellino di feltro, due gambe lunghe e dei piccoli piedi magri calzati di scarpe in pelle di serpente. Si affacciò alla finestra: la sconosciuta saliva su una automobile « guida interna », sedeva al volante, metteva in moto la macchina, scompariva. Che cosa erano, dunque, quelle donne che parevano nude sotto l’abito corto, che guida­ vano la macchina e andavano a trovare i giovanotti nel­ le loro case? Il signor Lagave, deciso a una sfuriata, aprì con violenza la porta della camera del figlio, lo vide disteso sul letto, la testa immersa nel cuscino, gli occhi chiusi. Agostino esitò un attimo, poi richiuse la porta, andò nel suo studio, sedette allo scrittoio e cominciò ad annotare un rapporto. Si astenne anche dal fare rim­ proveri alla signora Lagave. Questo figlio di contadini non si sarebbe mai abbassato a una discussione con la moglie passata al nemico. Sì, da quando Bob era am­ malato, ella lo guardava con lo stesso sguardo estatico con il quale lo contemplava bambino, allorché Agostino si lagnava di non occupare in casa sua il primo posto - l’unico posto che gli era dovuto. Se egli era riuscito a convincere a poco a poco la moglie della nullità del figlio e a fare di lei una sposa gloriosa, ma una madre umiliata, la madre, oggi, rialzava la testa, prendeva la sua rivincita, scopriva nel figlio un valore, che, pur non assomigliando in niente a quello che ammirava nel ma­ rito, non le appariva meno prezioso e non appagava meno il suo orgoglio. Avrebbe potuto credere, il signor Lagave, che durante la sua assenza, ella aprisse la porta all’invasore? Sì, a quella fanciulla, prima di tutto - una fanciulla veramen­ te dell’alta società, una signorina Della Sesque, impa­ rentata con i Della Sesque di Bazas, la sola donna che

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Bob ricevesse volentieri e la sola che avesse presentato alla madre. Gli altri amici non venivano che il pome­ riggio e la signora Lagave aveva ordine di non farsi vedere da loro. Ma dalla camera vicina ella li udiva ridere, respirava il fumo delle loro sigarette. Attraverso il buco della serratura o dalla porta socchiusa, li vedeva seduti in cerchio attorno al letto di Bob: la principessa, un’altra donna bionda, un giovane dalle lunghe gambe con una testa piccola su delle spalle da pittura egiziana, poi il famoso ebreo polacco con il suo grosso labbro in­ feriore. Erano questi i fedeli; ma degli ospiti meno intimi si accompagnavano spesso a loro. Tutti si asso­ migliavano per una luce di giovinezza: giovanotti, gio­ vani donne quarantenni scrutavano con lo stesso sguar­ do intento e maniaco un Bob aggressivo, restio, inso­ lente - un Bob che sua madre non aveva mai conosciuto. Ridevano di tutte le sue parole. La signora Lagave non avrebbe mai creduto che il figlio avesse tanto spirito. Del resto, ella riconosceva a stento la voce di lui: un Bob diverso, in verità, dal ragazzo taciturno che sedeva alla tavola di famiglia. Era incredibile come quella gen­ te lo ammirava. La signora Lagave pensava che Bob avesse qualche straordinario merito perché delle persone così difficili lo divorassero con gli occhi. Ella non sapeva ch’esse nel figlio amavano la loro giovinezza sfiorita, agonizzante, o già morta - tutto ciò che avevano per­ duto e di cui inseguivano il riflesso in una creatura effi­ mera. Un culto li radunava in quella camera, un miste­ ro che aveva i suoi riti, le sue formule, la sua liturgia. Nessuna cosa al mondo aveva per loro lo stesso valore di quella grazia, di quella giovinezza insostituibile che li aveva per sempre fuggiti. Ed eccoli seduti in cerchio attorno a un corpo che la giovinezza, per qualche tem­ po ancora, illumina. La malattia che altera appena ap­ pena quel corpo li rende più sensibili a questa fugacità, a questa caducità. Forse Bob capisce che egli non è altro, per loro, che un passaggio nel quale si riposa un attimo il Dio che

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quei fanatici adorano. Forse sente che non è a lui - pri­ vo di nome, di denaro, di ingegno, di spirito - che si rivolge la loro adorazione: e da questa sua sensazione deriva certamente l’ostilità che oppone alle loro lodi, i suoi capricci di tirannello. E con quale affettazione si fa servire da loro ! Un giorno, essendosi l’ebreo polacco scusato di non avergli trovati i frutti esotici di cui aveva desiderio, Bob ebbe la sfacciataggine di fare ridiscendere all’amico i quattro piani, con l’ordine di non tornare finché non li avesse trovati. Il polacco non fu di ritorno che tardi e gli altri lo avevano aspettato. La signora Lagave li spiava dalla por­ ta, terrificata, perché era l’ora in cui soleva rincasare il marito. Egli era, da qualche giorno, di un umore nero e aggressivo. Ella sentiva che Bob condivideva la sua paura e faceva di tutto perché gli amici prendessero congedo. Il signor Lagave non li incontrò in casa, ma sulla scala; dovette cedere il passo a quel gruppo chiassoso di ragazzi e di donne ritinte che lo squadrarono con risa represse. Quando arrivò al suo pianerottolo, il funzio­ nario si appoggiò alla ringhiera, guardò giù, ascoltò. E capì, per caso, il loro linguaggio. — Crede che sia il padre? — Ha visto il padre, principessa? No, ma si stenta a credere una cosa simile! — Quel padre è strabiliante! — il miracolo visto al microscopio, straordinaria­ mente ingrandito. — Noi non immaginiamo l’esistenza di persone si­ mili! Di solito non si vedono all’aria libera; stanno die­ tro uno sportello, nascoste fra mucchi di scartafacci... -— Ero pronta a tutto, ma non a vedere quel nanerottolo ! — È superiore ad ogni fantasia. Ma, ad ogni modo si resta contenti di aver visto una cosa simile ! è

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— Sì, ma fa paura! Sembra, da un certo lato, uno stregone. Non le pare, principessa? — Se lo si schiacciasse, uscirebbe da lui della mate­ ria nera. Il suo sangue deve essere inchiostro. — Hai sentito che cosa dice Gianni? Che se lo si schiacciasse, da lui colerebbe inchiostro? — Io non posso credere che sia il padre: il nostro Bob uscito da quel nanerottolo? Immagina l’amore di quello scarafaggio, principessa? — Oh, stia zitto, Alano, la prego. Uscivano sulla strada; ma l’ometto funebre, piegato sulla ringhiera come un burattino bastonato, udiva an­ cora le loro risate.

Il signor Lagave girò la chiave nella toppa. Mentre la moglie e il figlio respiravano di sollievo credendo il pericolo scongiurato, egli entrò, andò nella sua camera. Piantato davanti all’armadio a specchio, le gambe diva­ ricate, si contemplò a lungo, e si piacque. Rimise a posto la sua cravatta confezionata, si riaggiustò sul naso gli occhiali, soffiò dal collo della giacca un po’ di for­ fora, si drizzò sui tacchi come quando entrava nell’uffi­ cio del suo capo-gabinetto e chiamò la moglie. Con i pollici piantati nelle tasche del panciotto, le annunciò che aveva telefonato al dottore, che Bob era trasporta­ bile, che doveva cambiare aria e che il più presto pos­ sibile fosse, era tanto di guadagnato. Quindi Bob era aspettato per l’indomani, in Gironda, dalla nonna La­ gave. Presa alla sprovvista, la signora Lagave disse che la principessa R... aveva offerto ospitalità a Bob nella sua villa di Cannes per passarvi la convalescenza e che Bob aveva accettato. Agostino fissò sulla moglie quello sguardo vuoto e freddo che la lasciava sempre balbettante, interdetta, e ripetè la sua decisione: Bob prenderebbe il treno l’in­ domani, lei lo accompagnerebbe fino a Langon e rien­ trerebbe a Parigi il giorno stesso. I portinai avevano ricevuto l’ordine di buttare fuori, da oggi in poi, le

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cocottes e gli avventurieri che quel piccolo miserabile attirava in casa e che lei aveva avuto l’incoscienza di accogliere nell’appartamento di un uomo irreprensibile. —■ Ed ora basta! Non una parola di più! Quando la signora Lagave entrò nella camera di Bob per trasmettergli le decisioni paterne, egli era steso sul letto, con gli occhi chiusi, le braccia inerti lungo il cor­ po. Non aveva toccato i grape-fruits che erano, su un piatto bianco, grossi come frutti della terra di Canaan. I mozziconi delle sigarette fumavano ancora. Le fine­ stre aperte sul tetro cortile, stagliavano un pezzo di cie­ lo — un cielo di giugno di una purezza più potente del fumo e della polvere della città. La madre di Bob fu meravigliata vedendo che egli rinunciava senza fatica alla villeggiatura offerta dalla principessa. — È meglio così: odio quella gente. — Sono stati così gentili con te, Bob. Non sei cor­ tese ! — Sono tutto quello che c’è di più vile al mondo; gente da salotto e che non sa essere e non può essere altro che gente da salotto. Fra le ciglia socchiuse, guardava la madre: — Papà ha ragione... sono stomachevoli... Quanto rancore nella sua voce! Appoggiato con un gomito al cuscino, la fronte nella mano, era improvvi­ samente invecchiato e sul suo viso tristissimo non c’era più che un’ombra di giovinezza e di purezza. Ma ad un tratto sorrise e disse alla madre: — In luglio, ella sarà ad Arcachon... Forse potremo vederci... Arcachon è ad ottanta chilometri da Viridis... Ma ella ha la sua automobile. — Come puoi pensare la signorina Della Sesque in casa di tua nonna Lagave?!... Sei pazzo, bambino mio! Eppure, sì, sì, saprebbero raggiungersi, vedersi; e che felicità, ora, sapere ch’ella respirerebbe, non troppo lontano da lui, l’aria della stessa regione...

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Sulla terrazza di Viridis, anche stasera, Bob, indicando un punto dell’orizzonte, chiede ad Elisabetta Gornac: — Arcachon è in quella direzione? La donna si meravigliava di quell’insistenza: — Ma che cosa c’è di tanto interessante per lei, sulla riva di quel laghetto ? Egli rispose a bassa voce e come se volesse stuzzicare la curiosità di Elisabetta: — Qualcuno. Il silenzio della signora Gornac lo lasciò deluso. Avrebbe voluto che ella chiedesse con insistenza; ma sic­ come taceva sempre, disse: — È una fanciulla. La signora Gornac crollò il capo, sorrise e conservò un silenzio pieno di riserva; e non fece nessuna delle domande che si aspettava Bob. Ecco, non era ancora quella la sera in cui, di confidenza in confidenza, egli oserebbe finalmente pregarla di ricevere a Viridis la fanciulla. Paola Della Sesque, con la sua automobile po­ teva partire da Arcachon e tornarvi nella medesima giornata; ma era impossibile pensarla in casa di Maria Lagave; l’unico posto dove i due giovani potevano ve­ dersi era senz’altro la terrazza di Viridis. Ma perché Elisabetta capisse e acconsentisse sarebbe stato necessa­ rio parlarle a lungo di Paola.

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Una signora abituata a vivere in campagna, quindi poco al corrente delle abitudini del vivere di oggi, avreb­ be ammesso la libertà di una fanciulla, la quale fa­ ceva da sola cento chilometri per passare la giornata con un uomo ? Bob avrebbe già disperato di poter vedere Paola se la famiglia Della Sesque non fosse stata molto conosciuta nella provincia. Un Della Sesque era stato ministro sotto l’Impero. Quasi rovinata dalla rivoluzione del 4 settembre, e dopo la vendita dei suoi poderi (Gio­ vanni Gornac ne aveva comprato qualcuno), la famiglia Della Sesque si era stabilita a Parigi. Bob voleva con­ vincersi che Elisabetta Gornac sarebbe stata lusingata di ricevere una fanciulla come Paola. Ma era una donna molto religiosa: avrebbe acconsentito ad occuparsi di un intrigo d’amore? Ma non era ancora, questa, la sera adatta per parlare. L’espresso delle sei passava lontano, sul viadotto. — L’aria è quasi fredda... È meglio rientrare in casa, Bob... La nonna l’aspetta e la sgriderà ancora... Era vero: Maria Lagave non tollerava che i pasti ve­ nissero ritardati di un minuto. E Bob in questo paese non respira di sollievo e in armonia se non vicino a Elisabetta: molto più di quanto non creda, egli ha biso­ gno di quell’atmosfera di adorazione di cui i suoi amici parigini lo avvelenano. Ed è poco dire che la sua gra­ zia non ha influenza su Maria Lagave; tutto di lui esa­ spera la vecchia: cravatte, camicie di seta, pantaloni bianchi. E la sera, Bob doveva aspettare che la nonna fosse a letto per togliere la spilla con la quale ella fer­ mava i cortinaggi dell’alcova « perché quel bellimbusto non prenda freddo ». Soltanto allora egli cacciava per terra l'enorme piumino che ella pretendeva tenesse tutta la notte sul letto per « sudare bene » e apriva la fine­ stra, gesto che agli occhi di Maria Lagave equivaleva a un suicidio. Eppure, nonostante le cure di cui lo afflig­ geva, Bob non si illudeva; nessun sentimento tenero ispirava la vecchia. — Tuo padre ti ha affidato a me ed io ho accettato

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il peso della responsabilità: d’altra parte è lui che paga. Quando sarai di nuovo a Parigi potrai a tuo piacere rovinarti la salute; ma qui la padrona sono io. Bob teme i suoi occhi di gallina cattiva che lo squa­ drano sprezzanti quando le chiede dell’altra acqua calda per il suo bagno, o quando si lamenta che i polsi delle sue camicie non sono stirati flosci. — Tuo padre li ha sempre portati inamidati. E il continuo cambiarsi di biancheria? — Eppure non è certamente il lavoro che ti insu­ dicia!... Non puoi aspettare il prossimo bucato? Non sai quello che costa oggi una lavandaia? Elisabetta Gornac guarda allontanarsi Bob — guarda scomparire quella figura dolce e delicata nell’ombra del fogliame. Fissa il punto dell’orizzonte che ha fermato lo sguardo del ragazzo. Pensa: “Una fanciulla”. Ripete a voce bassa : — Una fanciulla —. Ma non c’è nessun turbamento in questa donna placida. Deve raggiungere il vecchio Gornac il quale si lamenterà ancora di essere trascurato... Ah, e poi deve avvertire che preparino la camera del figlio Pietro: egli arriva sempre senza preav­ viso. E presto arriverà a Viridis: Elisabetta si augura di poter vivere tranquilla durante il tempo delle vacanze; si ripromette di evitare ogni contrasto: si sforzerà a non provocare in lui malumore o tedio, fingerà, anche, di condividere le sue opinioni; ma ella conosce Pietro: farà presto a buttare il nonno fuori dei gangheri! Quale abisso fra il vecchio Gornac e il nipote! Nessuno po­ trebbe credere che sono del medesimo sangue: Pietro è religioso, mistico anche, « sempre intento a fantastica­ re » - come dice il vecchio - e staccato dalla terra, dal denaro, socialista quasi (ma guardate un po’!), con il naso sempre sui libri, oppure nei dintorni di Parigi o della provincia per tenere delle conferenze. Man mano si avvicina alla sua casa, Elisabetta si rappresenta meglio quale sarà la sua vita in famiglia fra qualche giorno: le provocazioni del vecchio, i paradossi di Pietro, le pa­ role forti, le porte sbattute. La cosa più strana è che lei,

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pur essendo pia, tiene spesso la parte di Giovanni Gornac e dà quasi sempre torto al figlio; per quanto le loro idee siano diverse ella si accorda facilmente con il vec­ chio radicale.

Fin dal primo incontro Giovanni Gornac l’aveva giu­ dicata la nuora dei suoi sogni. Elisabetta era una « si­ gnora di campagna », cosa che non significa essere una donna forte, abbronzata, dedita ad una vita da amaz­ zone, maschia e attiva. Una signora di campagna si chiude in casa, non abbandona che raramente il salotto o i suoi fornelli. Non esce mai senza cappello e anche in giardino porta i guanti. Odia le passeggiate a piedi; la sua pinguedine è quella di una donna che va soltanto in carrozza. Il pallore delle sue guance non si ottiene che nell’ombra dei pianterreni. Invece, alla sua maniera, Elisabetta aveva condotto una vita attiva: suo padre Ettore Lavignasse, rovinato dalla fillossera, si era rifatto una fortuna impiantando una fabbrica di trementina che non avrebbe saputo am­ ministrare senza l’aiuto di sua figlia, la quale era ammi­ rabile per tenere la contabilità e occuparsi dell’ammi­ nistrazione. Quando Elisabetta ebbe sposato Prudenzio Gornac, il suocero si affezionò tanto di più a lei inquantoché potè associarla a tutti i suoi affari. Egli scoprì nella nuo­ ra le qualità di cui si sapeva giustamente privo: come capita spesso, quest’uomo d’affari era un mediocre am­ ministratore; occupato dal suo commercio, dai suoi ac­ quisti di proprietà, dalla politica, non trovava il tem­ po di amministrare le sue terre e i suoi immobili, il numero dei quali cresceva ogni anno. I suoi due figli (ed era questa la più grande disfatta della sua vita) non gli erano stati di nessun aiuto. Senza voler parlare del figlio minore, il pazzoide, partito per fare il pittore a Parigi e di cui una sera avevano visto ritornare il feretro senza che nessuno in paese riuscisse mai a sapere niente di preciso sulla sua morte, - Pru-

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delizio, il maggiore « il ritratto vivente della madre... un Péloueyre fatto e sputato » aveva per gli affari una criminale indifferenza: la stessa che oggi il vecchio Gornac ha il dolore di ritrovare nel nipote Pietro. Prudenzio, con il pretesto di occuparsi delle lande, aveva vissuto nella sua fattoria del Bos, servito dalla fattora, senza neppure andare a caccia, intento soltanto « a fantasticare sui libri ». In collegio aveva avuto dei successi e il curato lo diceva intelligente. Ma suo padre pensava che “avrebbe fatto una bella carriera con que­ sto!” Timido, selvatico anche, con la salute rovinata dal­ l’alcool e dal vino bianco, in un paese dove pure non mancavano gli orsi della sua specie, egli era di tutti il più irsuto. Però, era sottomesso in tutto al padre e aveva appena protestato al momento di sposare Elisabetta Lavignasse, di Beautiran. Aveva lasciato che il vecchio gli comperasse i mobili, demolisse delle pareti, fissasse i domestici; e trovava logico che, nelle foreste di pini lasciategli dalla madre, il signor Gornac abbattesse senza avvertirlo gli alberi di cui il legname gli era necessario. Cominciò peraltro a protestare quando vide il padre reclamare con troppa frequenza Elisabetta a Viridis o a Bordeaux e trattenerla parecchi giorni; gli affari non erano spesso che un pretesto. Per la prima volta in vita sua il vecchio Gornac poteva parlare di ciò che gli stava a cuore e lo appassionava con qualcuno della fa­ miglia. Elisabetta amava la terra e avrebbe volentieri pas­ sato la sua vita a realizzare le iniziative di Giovanni Gornac. Ma era una donna piena di buon senso, devota al marito e che conosceva il suo dovere. Dopo un anno di matrimonio, Prudenzio non beveva più di quattro aperitivi al giorno, faceva il bagno qualche volta e si radeva la barba tutte le mattine. E, visto che Elisabetta rimaneva sorda ai richiami di Giovanni Gornac, era ormai il vecchio che - senza avvisar nessuno — arrivava alla fattoria del Bos. Il tilbury non era ancora entrato nel viale che collega­ va la strada maestra alla fattoria, che già Prudenzio rico­

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nosceva i sonagli e gli schiocchi della frusta paterna. Il cuore gli si stringeva: era finita la tranquillità. Ah, che cosa gli importava che il padre prendesse posto a capo tavola, comandasse ovunque da padrone, maltrat­ tasse i fattori, imponesse i suoi gusti a pranzo, le sue manie, le sue ore del sonno e dei risvegli ! Prudenzio pensava che questo era nell’ordine logico degli avveni­ menti. Ma soffriva nel vedere Elisabetta ravvivata da una sorpresa gioconda; lei che parlava poco con il ma­ rito trovava mille argomenti sui quali interrogare il suo­ cero. E se Prudenzio, timidamente, voleva prendere par­ te alla conversazione: — Sono cose delle quali non ti intendi — ella gli diceva. Ed anche se avesse voluto, avrebbe tentato invano di fargli capire qualcosa: il povero uomo ignorava sempre tutto. Il padre si spazientiva: — Non sei mai al corrente di nulla. — Ma io non sapevo... Non mi avevi mai detto che... — Non ci sei che tu ad ignorarlo; tutti gli altri lo sanno. Non ho avuto bisogno di spiegare niente a Eli­ sabetta. I domestici e i fattori avevano preso l'abitudine di non rivolgersi che alla signora e quando parlavano del « signor Gornac » non era mai Prudenzio che volevano indicare, ma il padre. Durante il periodo delle gravidanze Elisabetta aveva rinunciato ad ogni viaggio, e la fattoria del Bos diven­ tava il porto d’attracco del vecchio Gornac: vi portava i suoi libri di conti che Elisabetta consultava volentieri senza lasciare la camera dalla quale, per mezzo di un’at­ tiva corrispondenza, reggeva i poderi. -— Ah, figliola mia, — sospirava il suocero — che peccato che io non sia al posto di Prudenzio ! Insieme, avremmo fatto delle cose grandi! Ella protestava che per nessuna ragione al mondo avrebbe acconsentito a sposare un miscredente come lui. Ma un’altra religione li univa: i pini, la vigna - la terra,

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insomma. Armonizzavano, si fondevano, in quest’amore. Se qualcuno avesse aperto il loro cuore, vi avrebbe tro­ vato scritti i nomi di tutte le fattorie, il possesso delle quali li colmava di gioia, li fortificava nei giorni di tri­ stezze e di preoccupazioni, - impedendo che nessun dramma toccasse in loro l’amore che avevano della vita. Quindici giorni dopo la morte del suo secondogeni­ to, Giovanni Gornac aveva comperato « per un pezzo di pane » un vigneto che confinava con Viridis ; Elisabetta aveva atteso più a lungo a riaprire i suoi libri di conti e a ricevere i suoi fittavoli dopo la perdita dei suoi due figli, ma tuttavia fu questa passione che la riprese e la consolò. — Va bene, signor curato, la terra non ci segue nella morte — ella diceva — ma è una cosa che dura oltre di noi, dopo tutto. Elisabetta ripeteva a suo marito: — Mi domando come fai a non annoiarti; io non so che cosa diventerei se non avessi da occuparmi dei Prudenzio non osava rispondere « mi basti tu !» - que­ ste cose gentili non usavano in casa Gornac. Egli amava le sue terre perché, senza di esse, non avrebbe potuto sposare Elisabetta, ma ne era geloso; e soffriva, quando, la notte, sotto l'imperio di una emozione che gli toglieva la parola, nell’ombra amorosa dell’alcova, si alzava im­ provvisa la voce di Elisabetta: — Ricordami, domani mattina, che devo chiederti la tua firma per il contratto Lalanne.

Elisabetta è sicura che se non avesse lasciato solo il marito, - quel fatale ottobre in cui dovette andare a sorvegliare la vendemmia a Viridis - egli non sarebbe morto. Quando ella era in casa, egli non beveva ecces­ sivamente, ma se rimaneva solo, si ubriacava ogni gior­ no. Ed ella è sicura che, in condizioni normali, non sa­ rebbe caduto dal calesse e avrebbe quindi evitato quella frattura al cranio. 6.

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Elisabetta pensava spesso a questa morte con un ama­ ro rimpianto, ma senza rimorsi: ella aveva fatto soltanto il suo dovere. Una crisi di dolori reumatici immobilizza­ va il vecchio Gornac, proprio nel più brutto momento di uno sciopero di vendemmiatori. Il raccolto, quell’an­ no, era magnifico; i barili mancavano; non si poteva cer­ tamente lasciar marcire l’uva : l’uva bianca poteva aspet­ tare, ma quella nera no: sarebbe stato un disastro. Elisabetta, accorsa alla prima chiamata del suocero, aveva sal­ vato tutto. Non aveva trovato neppure il tempo di rispon­ dere alle lettere di Prudenzio. Il pover’uomo non aveva mai capito « la serietà di certe cose ». Una vendemmia come da dieci anni non si vedeva l’uguale era in pericolo, ed egli non dava a questo nessuna importanza; era pro­ prio vero che non era attaccato che alla sua tranquillità e alle sue comode abitudini. Tante volte, dopo, Elisabetta ha ricordato quel tele­ gramma ricevuto una sera a Viridis: «Grave incidente di vettura; signor Prudenzio gravissimo... ». Era salita subito, con il suocero ancora convalescente, nella car­ rozza attaccata in tutta fretta. Piangeva nell’ombra: sa­ rebbe arrivata in tempo a chiudergli gli occhi? Avevano chiamato il prete? Il signor Gornac, dal canto suo, cer­ cava di ricostruire l’incidente. — Ecco quello che sarà successo... Gli era necessario fermare il suo spirito su qualcosa di concreto. E chiedeva ad Elisabetta: — Hai scritto a Lavergne per i barili? — Ma sì, papà: non tormentarti. Egli riportava a fatica il pensiero sul figlio agoniz­ zante. Soffriva: la famiglia era colpita; i suoi due figli lo avevano preceduto nella morte; gli restava un nipote che non amava la terra. Sentiva ancora quell’impressione - che gli era sempre stata insopportabile - di malessere indefinito: la sensazione che una partita essenziale era sul punto di essere perduta senza che egli potesse mo­ dificare in nulla gli eventi. Prudenzio Gornac — uomo — poteva scomparire senza troppo mancargli; ma la morte

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dell’ultiino figlio Gornac era un disastro. Ma perché si perdeva a pensare alla sua discendenza, a quello che avrebbe lasciato dietro di sé? Non aveva che settant’anni; suo padre era vissuto fino agli ottantaquattro... Poi c’era la nuora che rimaneva tutta per lui: “Almeno non si rimaritasse...” Sussurrò : — Sarebbe il colmo! — Che cosa dici, papà? — Niente, cara, niente... Ecco il Bos, arriviamo. Ma con il pensiero, preparava già un testamento in favore della nuora, a condizione che ella non si rimari­ tasse. Pensò ancora a Prudenzio, tentò di immaginarne il corpo immobile, fece uno sforzo per provare i sen­ timenti logici alla morte di un figlio. Anche Elisabetta, vicino a lui, pazientemente, riordinava il suo spirito in­ quieto che si smarriva sempre oltre il cerchio del suo sincero dolore. Pensava alla sua vita di ieri, alla sua vita di domani: una situazione nuova... una vita nuova. Suo figlio Pietro aveva, allora, dodici anni. Quali erano i diritti di una vedova?... La comunione dei beni limi­ tata a quelli acquistati durante il matrimonio... Ma non c’erano stati acquisti di beni. Credeva ricordare che la vedova ha diritto all’« antiparte ». Ma che cosa è 1’« anti­ parte»? Non poteva certo, ora, parlare di questa cosa al suocero. E Pietro, raggiunta la maggiore età, non si oc­ cuperebbe di niente: assomigliava in tutto a Prudenzio. Povero Prudenzio! Bisogna ch’ella preghi per lui; ha dimenticato il suo rosario; lo dirà contando le avemarie sulle dita. Così il suo pensiero non si smarrirà più in fantasticherie lontane dal morto. Non appena la carrozza s’inoltrò sotto le querce del Bos, Elisabetta soffrì davvero. Un fattore sbucò dall’om­ bra, saltò sul predellino, raccontò in dialetto la disgra­ zia. Il povero « signor padrone » respirava ancora. Riconobbe Elisabetta? Volse verso di lei gli occhi senza sguardo. Il curato disse: — Mi capiva... Mi stringeva una mano...

IV

Eppure è quella donna forte, quella donna di affari come la chiama il vecchio Gornac che, dieci anni dopo la morte di Prudenzio, si appoggia, questa sera, sul ter­ razzo di Viridis allo stesso posto in cui era disteso poco prima il piccolo Lagave. Ella non si preoccupa di sapere a che punto è il lavoro di solforatura della vigna, o se il motore è stato riparato; pensa alla fanciulla amata da Bob. Un treno si arrampica lontano, sul viadotto _ lo stesso treno che una sera o l’altra le ricondurrà Pietro, il figlio... Pietro ha mai amato? È mai stato amato? — È un ragazzo di buon senso — ha l’abitudine di ripetere Elisabetta. — Posso stare tranquilla, non farà mai delle sciocchezze, lui. Prima di tutto ha dei prin­ cipi, un po’ troppo rigidi per la verità. Avrebbe, sì, una tendenza a spogliarsi di tutto; è troppo generoso, non sa che cosa sia il denaro guadagnato; del resto, ciò che possiede non gli è costato niente. Non conosce il valore del denaro. Questa sera Elisabetta ricorda un piccolo fatto: l’an­ no passato, come Pietro rifiutava di recarsi a una festa da ballo al castello di Malromé, ed ella insisteva per­ ché vi andasse, chiamandolo selvaggio e ipocondrico, egli aveva risposto: — Io ballo malissimo, e poi annoio le ragazze. Le

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donne mi trovano troppo serio... non si divertono che con gli uomini abituati ai piaceri... Elisabetta, irritata, aveva risposto: — Quale vuoi di quelle ragazze? Fa un segno e l’avrai! Un partito come te! Ma questa sera ripeterebbe le stesse parole? Un as­ surdo sentimento si fa strada in lei: l’umiliazione. Umi­ liazione perché Pietro non piace alle donne! Se fosse invece accerchiato e perseguitato da loro come il piccolo Lagave, ne sarebbe lusingata? Ora risale lungo ili boschetto di carpini, bussa alla porta dei Galbert i quali hanno finito la loro cena e al suo apparire si alzano. Non restano che i filari meri­ dionali della vigna da solforare. Sarà meglio lasciare riposare i buoi, domani mattina. L’italiano che Galbert ha preso a giornata lavora come una bestia da soma. La vigna ha bisogno d’acqua, basterebbe un temporale: ecco, basterebbe proprio un temporale. Invece, si desi­ dera la pioggia e cade la grandine.

— La piccola Della Sesque ? Ê la piccola Della Sesque la fanciulla del suo cuore? — La conosce? Bob Lagave volse ad Elisabetta un viso improvvisa­ mente illuminato, pieno d’ardore. Era seduto sulla ba­ laustra della terrazza, con le gambe inerti nel vuoto; Elisabetta era in piedi vicino a lui. Erano le dieci del mattino; sulla vigna una nebbia fluttuava. — L’ultima volta che l’ho vista era fra le braccia della balia. Ma io e sua madre ci diamo del tu. Del re­ sto, siamo cugini... Non saprei dirle di che grado... Op­ pure sì, aspetti... cugini prossimi, invece; la bisnonna della bambina era la sorellastra di mio nonno. Sì, un Della Sesque si era sposato due volte; la sua seconda moglie era una Lavignasse. Ma, è vero, aveva sposato in prime nozze una Péloueyre, e siamo cugini anche dal lato di mia suocera... Povero Bob, l’annoio, vero?

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No, non lo annoiava. Paola potrebbe venire a Viri­ dis. Presto la vedrebbe... — Siccome ha dell’intimità con la signora Della Ses­ que... — Intimità! è dire un po’ troppo! Come galoppa! Sa che i Della Sesque sono rovinati? Ebbene, hanno ven­ duto le loro terre nel periodo peggiore. Mio suocero ha ottenuto la Ferrière per un prezzo irrisorio. Poi i Della Sesque sono andati a Parigi. Ci si domanda come fanno a vivere: le signore hanno degli abiti così lussuosi! Si dice che si mangino il capitale! È possibile. Ma ogni cosa ha una fine. Io non critico nessuno, ma tutto questo non mi piace. Sono gente disordinata, diversa da noi. — Va bene, ma le sembrerebbe logico e normale ospi­ tare Paola Della Sesque se avesse un guasto d’automo­ bile a pochi metri da qui? — Certamente! — E se io le dicessi che un giorno o l’altro si pro­ durrà questo guasto?... Con lo sguardo carezzevole cercava Elisabetta Gornac la quale arrossì e lo interruppe bruscamente. — Vedo dove vuole arrivare. No, questo no, ragazzo mio. Non mi immischi nei suoi pasticci. Egli protestò che non si trattava di un pasticcio, ma che Paola e lui si ritenevano fidanzati. — Lei fidanzato a una Della Sesque? E rideva troppo forte, troppo a lungo. Bob strinse le labbra, socchiuse gli occhi come quando temeva di farsi vedere offeso; e la sua voce si fece dolce, segno in lui di una rabbia contenuta: — Oh, i Della Sesque hanno le abitudini di Parigi; non si faccia illusioni ! A Parigi, lei, io, i Della Sesque, siamo la stessa cosa... C’è però questa differenza: che io sono ricevuto in certi salotti, nei quali i Della Sesque non metteranno mai piede...

Era impossibile contenersi più a lungo: Bob dopo la malattia non dominava più i suoi nervi.

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Elisabetta, pensando alla sua salute, ebbe paura di averlo irritato: — Andiamo, non sia insolente. Non mi ha capita: non la sapevo immaginare fidanzato, per la sua età! Egli si sforzò di riacquistare un po’ di calma. -— Ho detto fidanzato così, per modo di dire... I suoi genitori non sanno niente, lo confesso; sarebbero furi­ bondi; vanno al sodo, loro, naturalmente. Ma ascolti, signora. Quando avrà visto Paola capirà come ho po­ tuto osare di chiederle questo favore. È una fanciulla diversa da tutte le altre... Non conosce il male, non sa­ prà mai farlo... — Aspetti... Ora mi ricordo... Chi mi ha parlato, in­ fatti, di Paola Della Sesque con ammirazione?... Ah Pietro! L’ha incontrata l’anno scorso a una festa cam­ pestre. Mi diceva: « Finalmente una ragazza con la quale si può parlare ! ». -— È vero, si può conversare con lei anche se si è colti come Pietro. Sta bene, Pietro? Non ha ancora ri­ cevuto sue notizie? Non l’ho quasi più visto dopo la nostra infanzia, dal tempo in cui giocavamo insieme, qui. Già a dodici anni, ricorda, signora? aveva sempre un libro in tasca. — Sì, da questo lato assomiglia davvero a suo padre, il quale non usciva mai, anche per una breve passeg­ giata, senza un libro. Deve arrivare da un giorno all’al­ tro. Ha la mania di non preannunciarsi. — Ciò che è straordinario, signora, è che una ra­ gazza come Paola si sia accorta di me... No, non rida, le giuro che non .c’è niente fra di noi. Quando la vedrà, capirà... — Però, vi bacerete pure, no? Andiamo, lo con­ fessi!.,. Elisabetta si sventolava con il fazzoletto. Egli rispo­ se, semplicemente: — Le bacio la fronte, gli occhi, i capelli, la mano... — E che cosa vuol fare di più?

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Bob guardò meravigliato quella placida donna, rise di un riso un po’ ambiguo, mormorò: — Come è poco al corrente, lei! Ma non c’è un’altra fanciulla uguale a Paola, capisce: non c’è! — A Parigi, forse... Ma da noi, in provincia... — Le ragazze di provincia? Ah, non me ne parli! E rideva ancora, un po’ volgarmente: — No, signora, io me ne intendo... non c’è che Paola... Dondolava le gambe nel vuoto e guardava lontano. Elisabetta distolse lo sguardo da quel viso; cedette al desiderio di vederlo felice: — Ebbene, 1’accoglierò in casa mia volentieri, ma per un giorno o due soltanto; il tempo di riparare un guasto al motore. — Davvero, lei farà questo? — Forse faccio male... Ma egli era balzato in piedi, baciava le mani di Eli­ sabetta : — Vado a scriverle, andrò a Langon a imbucare la lettera perché parta stasera. E si allontanò, rapidissimo. Elisabetta gli gridò: — Non corra... stia attento a non sudare. Ma egli era troppo lontano per udirla. Nella casa di sua nonna c’era un fresco da cantina; certamente si sa­ rebbe buscato un malanno. Aveva fatto male a lasciarsi strappare quella promessa. Ma no, dopo tutto non cor­ reva nessun rischio. E che cosa direbbe il suocero se sapesse che lei si prestava a simili intrighi ? “Fatto è che la cosa non è nelle mie abitudini. Sono troppo debole con quel ragazzo.” Era necessario dire tutto al suo confessore?... Ma no, Bob aveva giurato che non facevano, lui e Paola, niente di male. “Ma i Della Sesque sarebbero in diritto di rimpro­ verarmi. Comprendo come per loro un matrimonio si-

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mile sarebbe un disastro... La figlia diventerebbe una spostata. E poi sarebbe il caso di parlare di fame.” Camminava sotto le fronde dei carpini, preoccupata, con gli occhi bassi; vide per terra un fazzoletto di co­ tone a fiorami che Bob aveva lasciato cadere correndo, e lo raccolse. Il ragazzo lo aveva certamente preso in un armadio della nonna; ma portato da lui quel fazzo­ letto da contadini pareva uscito da un negozio alla mo­ da, profumava di ambra e di tabacco. Elisabetta lo ripose nella sua borsa da lavoro, e men­ tre passava davanti alla casetta dei Galbert scorse sulla soglia il vecchio Gornac, il quale sollevava un lembo della tela che nascondeva la porta. Era l’ora della cola­ zione dei Galbert; ma egli non lasciava loro tregua, non ammetteva che L-suoi dipendenti avessero altre preoccu­ pazioni che le/sue. Elisabetta/lo chiamò con voce brusca: — Andiamo, papà... lasciali mangiare in pace... Poi è l’ora di tornare a casa: sarà servito il pranzo anche per noi. Egli prese il braccio della nuora, brontolando che ella aveva dimenticato di avvertire i Galbert che la siesta pomeridiana, causa il gran caldo, durerebbe fino alle quattro e ' che, quindi, dopo lavorerebbero fin oltre il tramonto del sole. Ma ella non ascoltava le sue spiega­ zioni, ossessionata dalla vicenda sentimentale del piccolo Lagave e dalla partecipazione che vi prendeva. Non avrebbe dovuto acconsentire... Una donna della sua età! In cuor suo dava ragione a Giovanni Gornac, il quale le diceva entrando in sala da pranzo: — Non hai più la testa a posto, figlia mia... No, non aveva più la testa a posto e bisognava ri­ metterla a partito. Ebbene, dopo pranzo, attraverserebbe la strada maestra, andrebbe da Maria Lagave ad avver­ tire Bob di non contare più sul suo aiuto. La vecchia non troverebbe stranissima la sua visita ? “Le dirò che riporto a Bob il fazzoletto smarrito.”

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— Oh, signora Gornac! con questo caldo!... Maria Lagave squadrava Elisabetta rossa ed accaldata. La cucina era fresca e nera d’ombra; delle mosche ron­ zavano, agonizzando su un pezzo di carta moschicida. —- Fa tanto caldo che non possono neppure uscire i buoi dalle stalle... Soltanto Roberto ha il coraggio di essere fuori a quest’ora... — Ah, non è in casa? Gli riportavo questo fazzo­ letto... — Lei è troppo gentile, signora... Disturbarsi per questo ragazzaccio e con questo sole ! Poteva aspettare a darglielo quando fosse venuto a casa sua... Le è sem­ pre tra i piedi, del resto. Io gli dico continuamente: « Non hai discrezione ». La vecchia non alzava il capo dal suo lavoro di ma­ glia. Che cosa pensava? Elisabetta disse: — In casa nostra fa caldo quanto fuori, al sole, qua­ si. E poi sono stata tutta la mattina seduta, mi fa bene camminare un po’. Allora Bob è fuori con questo caldo? — Aveva una lettera urgente da impostare, mi ha detto. Ma pensi ! Come se le lettere di quel ragazzo che non ha mai mosso un dito non potessero aspettare! Ep­ pure no, era necessario che la lettera partisse stasera stes­ sa. E lui, che è il più grande fannullone che esista sulla faccia della terra e non si muoverebbe neppure per rac­ cogliere le mie forbici, è andato a Langon in bicicletta. Io non ho voluto esporre il cavallo a un colpo di sole; si sa quello che costa un cavallo, oggi. Le assicuro che quando qualche desiderio prende Bob egli non sente più stanchezza. Se l’avesse visto ! Certamente sarà per una donna... — Bisogna compatire, Maria. I giovani... — Sì sì, ce ne sono che si divertono; ma lavorano anche. Ogni cosa a suo tempo. Bob, invece, è un buono a nulla, per non dire di più. Suo padre non meritava questo castigo. Non è davvero giusto dire: «Tale il padre, tale il figlio », signora Gornac !

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Elisabetta uscì nuovamente nella fornace ardente del sole. Attraversò la strada deserta. — Ormai non c’è che fare... — sussurrò. Poi continuò a pensare: dopo tutto la cosa non era grave: la piccola Della Sesque aveva l’età della ragione; però direbbe a Bob che era l’ultima volta che si occu­ pava di affari sentimentali. E se Pietro fosse a Viridis, al momento del guasto al motore? Ebbene, crederebbe anche lui ad un incidente... Non era certamente scaltro... Elisabetta entrò nel suo salotto immerso nella penom­ bra, si stese su un divano. Udiva il russare del vecchio Gornac al secondo piano. Il sole aveva immobilizzato, pietrificato di stupore il mondo; neppure un gallo can­ tava; il sole regnava assoluto. Forse delle creature inna­ morate approfittavano di quell’universale torpore. Nelle vigne addormentate, sotto i bassi capannoni tenebrosi, mani si cercavano, occhi si chiudevano nell’abbandono. Il mondo fino alle quattro era vuoto, accogliente soltan­ to, per quelli che non avevano paura delle fiamme delPora; ma che cosa potrebbero temere essi? L’ardore del­ la terra prolunga il loro ardore e l’argilla brucia quanto i loro corpi. Elisabetta Gornac si addormentò.

V

Tre giorni dopo, fu alla stessa ora, in quella sosta tor­ pida della terra, che Bob aprì la porta dell’anticamera: e una giovane voce di donna rispondeva alla sua. Elisabetta si alzò, abbracciò con uno sguardo i due corpi vicini sulla soglia del salotto. Vide, che Paola si toglieva un leggero soprabito e appariva vigorosa, il corpo evidente sotto il vestito sportivo. Quando la fan­ ciulla si tolse il cappello, Elisabetta fu ferita nel vederle quella testa di giovinetto bruno, di giovinetto bello e intelligente. Pure, seguitava a parlare come i timidi, senza interruzione, interrogando la fanciulla. La vita di provincia doveva annoiarla... quando si vive a Parigi... Qui non c’erano distrazioni... Ma si accorse che i due giovani non cercavano neppure di rispondere alle sue parole, e tacque. Allora Paola la ringraziò della fiducia che aveva in lei e le assicurò che non avrebbe avuto alcun motivo per pentirsene. Elisabetta chiese, con un piccolo riso forzato, se il guasto al motore sarebbe riparato prima della notte. Bob rispose che Paola contava ripartire l’in­ domani al crepuscolo. — Questa sera ceneremo all’albergo di Langon. È meglio che il signor Gornac non ci veda... — E io vado a preparare la sua camera... non vuol salire a rinfrescarsi? È vero, vedo: è vestita di tela. Al-

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lora vi lascio soli. Avrete molte cose da dirvi; lascio a vostra disposizione il salotto. I due giovani scambiarono un’occhiata, dissero che non avevano paura del caldo. Elisabetta, allora, aprì la porta del giardino e li guardò allontanarsi, scomparire. Salì al piano superiore, entrò nella camera già pronta dal giorno prima e si accertò che non mancasse nulla; poi, dalle persiane socchiuse, i suoi occhi frugarono il giardino. Lo stesso silenzio di tutti i giorni a quell’ora, vi regnava. Nessuna parola umana vi era percettibile. Nessun ramo frusciava; c’era soltanto la voce della pia­ nura oscillante e di una cicala accanita nel suo stridio; e a volte, un uccello spezzava un suo gorgheggio, come in sogno. No, niente tradiva, nel giardino assopito, la loro presenza. “Non fanno rumore, non sono ingombranti” pensò per rassicurarsi. Ma si ricordò che quando Pietro era bambino, ella si preoccupava s’egli giocava senza grida. Non avranno dunque niente da dirsi quei due ragazzi ? Dove erano seduti ? Su qualche panchina ? O in quale prato erano distesi, vicini vicini? Giovanni Gornac, dal pianterreno, la chiamò. Ella trasalì, chiuse le persiane: — Eccomi, papà! Egli era seduto nella sala da biliardo, e aveva il suo vecchiopanama rossastro in testa. Ho cercato di uscire. Ma questo maledetto caldo mi/ ha stordito. Volevo andare a guardare oltre il ter­ razzo, se non si vedeva fumo dal lato delle lande. Vai tu, cara. Sai in quale direzione cercare il Bos ? Mettiti fra il terzo e il quarto tiglio. È un tempo buono per la vigna, questo; ma terribile per i pini! Sempre, per quanto lontano andasse il suo ricordo, l’estate gli aveva dato dei tormenti: torrida, c’era il pe­ ricolo che degli incendi scoppiassero nelle pinete; pio­ vosa, la vigna ne soffriva. Elisabetta pensò che il suocero avrebbe potuto incon­

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trare Bob e la signorina Della Sesque: un attimo fu per­ plessa, combattuta se dovesse o no raccontargli la frot­ tola del guasto al motore. Ma pensando all’inevitabile rabbuffo che avrebbe provocato, si sentì senza coraggio: dopo tutto, visto che la fanciulla non pranzava in casa, quella sera, e che sarebbe rientrata nell'ora in cui Gio­ vanni Gornac era già a letto, meglio valeva tacere. For­ se non si accorgerebbe di quella presenza estranea. Egli era selvatico, detestava i visi nuovi, appena si annun­ ciava una visita « se la svignava », e quando un’auto­ mobile oltrepassava il cancello si nascondeva nella vigna finché il nemico si era ritirato. — Allora, ritornerai a dirmi se hai visto del fumo?

Elisabetta attraversò il cortile, s’inoltrò nell’ombra del viale di carpini. I due giovani non potevano essere che qui; nascosti nel piccolo spazio fresco formato dal viale, un boschetto a destra e l’orto a sinistra. Tutt’attorno non c’era che la vigna sotto l’arido e pallido azzurro. Tanto profondo era il torpore della terra che Elisabetta imma­ ginava poter sentire i loro sospiri confusi, il palpito dei loro cuori. Camminava, ora, nel viale di tigli che, a le­ vante, prolungava la terrazza. Si fermò tra il terzo e il quarto tiglio, guardando l’orizzonte in direzione delle sue foreste. Alzò la testa, trasalì; sì, un velo di fumo ombrava il cielo. Una persona abituata in città avrebbe creduto all’ombra di un temporale imminente, ma ella riconobbe subito al cerchio dell’orizzonte la colonna ros­ sa e stretta che poi si spandeva a ventaglio sull’azzurro sporco. In quell’attimo, il vento del sud frusciò tra le foglie, sparse sulle vigne l’odore dei pini bruciati. Elisabetta si fece il ragionamento che in quelle circostanze l’aiutava a calmare la sua angoscia: “C’è fuoco verso il Bos, sì, ma potrebbe essere anche a cinquanta chilometri più in là.” Del resto era impossibile, dal punto in cui era, misu­ rare la distanza. L’anno in cui le lande bruciarono in

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riva al mare, portata dal vento, pioveva cenere anche a Viridis. Era necessario però avvertire il suocero: “Chissà in che stato lo piomberà la notizia!” Pensava con maggior noia alla insopportabile agita­ zione del vecchio Gornac che non ai suoi pini, forse distrutti. Se di solito Elisabetta era colpita dalla calma soprannaturale di quei pomeriggi d’agosto divampanti nelle vigne - quando a qualche chilometro delle fre­ menti foreste di pini erano distrutte in un immenso crepitio _ oggi stupiva nel sentirsi ancora più sensibile a questo silenzio: un altro incendio covava, a qualche passo di distanza, vicino a lei, forse dietro la siepe di ligustri. Il fuoco poteva estendersi e toccare il Bos, ella non pensava ai suoi alberi distrutti ma ai due corpi di­ stesi, non sapeva dove — vicinissimi certamente, così vicini al viale nel quale ella era immobile, che, se fosse cessato il vento del sud carico di odore di resina bru­ ciata, ella avrebbe sentito... Che cosa avrebbe sentito? Si ostinava a pensare ai due giovani, anche davanti a quel gran fumo apparso sul cielo, dal lato delle lande - le terre alle quali il suo cuore era attaccato da tanti forti e atavici legami. Si passò la mano sul viso, si guar­ dò le braccia, sentì improvviso il peso del corpo. Per costringersi a reagire pensò: “Se i pini del Bos bruciano bisognerà venderli a un prezzo irrisorio: il vivaio... peg­ gio ancora...: perdita completa degli alberi”. Ma anche questo pensiero non la distoglieva dal suo attonito aspet­ tare, non la staccava dalla mostruosa indifferenza che la teneva immobile in mezzo al viale, sotto un sole impla­ cabile, in quel giardino di cui non riconosceva più il silenzio. “Eppure debbo andare ad avvertire papà... La cosa lo renderà furente... Come può, così vicino alla morte, essere tanto attaccato ai beni terreni?” Questa riflessione cristiana le era solita; ma l’aveva sempre applicata al vecchio Gornac e mai a se stessa. E oggi per la prima volta ne capisce il significato: la­

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sciare tutto; capisce che ciò che brucia laggiù all’oriz­ zonte le sarà portato via, ch’ella non è padrona di nien­ te, che è già nuda su questa insensibile terra - terra della quale papà Gornac ha già riempito la tomba dove un giorno essi saranno stesi vicini, con Prudenzio, con il fratello di Prudenzio, e con i due piccoli feretri dei suoi ultimi nati... Ma, ecco! quel ragazzo e quella fan­ ciulla che si nascondono, così vicini a lei, saranno anch’essi separati un giorno. ■—■ No, non è la stessa cosa ! Non è la stessa cosa ! — ripete a bassa voce. Non saprebbe esprimere quello che sente, non vede con chiarezza il panorama indeciso delle sue sensazioni; ma comprende che, per quanto effimero, l’amore è una evasione dal tempo. E se presto o tardi si dovrà rien­ trare nella prigione comune, certamente resta la conso­ lazione di potersi dire: “Una volta, almeno, sono evaso; una volta, almeno una volta, ho vissuto, indifferente alla morte, alla vita, alla ricchezza, alla povertà, al bene o al male, alla gloria e alle tenebre, sospeso a un soffio; ed era un viso che mostrandosi o scomparendo faceva l’ombra e la luce nella mia vita. Una volta almeno, questo soltanto mi ha dato il senso dell’esistere, il senso della durata: il battito regolare del mio sangue quando mi riposavo su una spalla e il mio orecchio era vicino ad un cuore.” Elisabetta ripeteva: — Non è la stessa cosa — senza potersi spiegare perché la morte che doveva rubarla per sempre alle sue vigne e alle sue foreste non sarebbe stata così potente contro l’amore - l’amore ch’ella non aveva conosciuto. Qualunque cosa potesse avvenire, il piccolo Lagave e la fanciulla avrebbero l'eternità di que­ sto pomeriggio. Che silenzio! Elisabetta immaginava che non fosse il sole d’agosto, ma quella coppia segreta a sospendere in una pausa il tempo, ad addormentare la terra. E benché tutti i pensieri si fossero confusi nel suo cervello, ella sentiva una indifferenza tanto grande per tutto ciò che

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era stato fino ad oggi la sua ragione d’essere, un tale distacco, ch’ebbe paura. “Sono ammalata... Certamente sono malata; è l’età forse...” Si ricordò che un’amica, una donna normale e tran­ quilla, a quarantott’anni era diventata quasi pazza. Si toccò con la mano sinistra il braccio nudo, i fianchi, le cosce : “Basta con queste sciocchezze” si disse. “Andiamo ad avvertire papà.” Ma guardando nuovamente verso le terre del Bos vide che la colonna di fumo si era diluita nell’azzurro; leggeri vapori si dissolvevano al disopra delle lande. L’incendio era stato domato. Era inutile mettere in an­ sia il vecchio. Già il mondo si svegliava; dorsi rossi di buoi emer­ gevano dalle vigne e una voce d’uomo li chiamava con i loro nomi. “Basta con le sciocchezze” si diceva Elisabetta. “Ba­ sta con le sciocchezze...” Entrò nella sala da biliardo. — Rassicurati, papà, il cielo è terso dalla parte del Bos. Giovanni Gornac, seduto davanti ai libri di conti, alzò la testa. Disse che quando la resina era cara si poteva dormire tranquilli; i fattori vegliavano. E poi sempre di meno in meno le mandrie pascolavano nella landa. — Io sono sempre stato convinto che sono i pastori ad appiccare il fuoco. Elisabetta uscì nuovamente; il sole, al declino, allun­ gava la sua ombra sul suolo. Si inoltrò nel viale a de­ stra del boschetto di carpini e improvvisamente vide i due giovani che si dirigevano verso la casa. Essi non parlavano, si tenevano per mano, come i contadini. Pao­ la indossava un abito che le disegnava, nel passo, le cosce snelle, i suoi piedi erano nudi nelle scarpette di tela, aveva del sangue su una gamba bruna. La camicia

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di Bob era aperta sul petto. Un dolore repentino immo­ bilizzo Elisabetta. Pure, il suo viso non doveva tradire nulla dei suoi sentimenti, perché i due giovani le sor­ ridevano avvicinandosi. Ella li guardava; e le parevano trasparenti, quasi diafani. Non aveva mai visto degli occhi pesanti e ombrati come quelli dei due ragazzi, non aveva mai visto sotto le palpebre dormire quella luce torbida, quel segreto di ardore, di stanchezza, di ambiguità. Non aveva mai visto nessun viso da vicino, non aveva mai guardato fino ad oggi degli occhi vivi e lucenti. Ed ecco, ancora quel dolore lancinante che le fece portare la mano alla fronte... Bob le gridò: — Che caldo!... Paola si baciò un braccio come ad assaggiarsi la pelle e disse: — Il mio braccio è salato. E Bob avendo risposto « lo sapevo », scoppiarono a ridere. Elisabetta disse loro di non entrare in casa: era meglio che il vecchio Gornac non li vedesse: — Vi porterò da bere sulla terrazza... I giovani la ringraziarono con indifferenza; si guar­ davano e non la vedevano più. Ridiscesero lungo il via­ le senza preoccuparsi di essere osservati da Elisabetta e, già immobili, con i visi vicinissimi, restavano impietrati d’amore. E anche la donna vecchia e pesante non si muoveva, ferma a contemplarli. Poi, per non farsi ve­ dere da Giovanni Gornac, rientrò in casa dalla parte del­ la cucina. I domestici facevano la siesta. Ella rie.npì una brocca d’acqua ghiacciata, nella dispensa prese la botti­ glia dell’aranciata e due bicchieri, e tornò verso la ter­ razza. Paola era sola. La sua figura risaltava nitida con­ tro il cielo. — Bob tornerà fra poco. È andato a cercare in casa sua il costume da bagno. Scendiamo in automobile fino al fiume e Bob farà il bagno. Poi andremo a cena a

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Langon. Dopo Bob mi riaccompagnerà. Verso che ora debbo tornare? Posso stare fuori fino a mezzanotte? Non c’era impaccio nella sua voce; certamente non immaginava neppure che la sua condotta non fosse ir­ reprensibile. Elisabetta la rassicurò. In quei giorni di gran caldo lei andava a letto molto tardi per godere della fresca aria notturna; ed era molto meglio che la fanciulla rincasasse quando Giovanni Gornac fosse ad­ dormentato. — La porta sarà socchiusa. Non abbia paura del cane; è legato. Paola Della Sesque guardava ai piedi della terrazza il sentiero aperto fra le vigne, dal quale Bob doveva ritornare. Intanto si sforzava a tenere viva la conver­ sazione. -— Non dimenticherò mai, signora, che ci siamo fi­ danzati nel suo giardino. — Fidanzati?... Ma, e i suoi genitori? — Lo so, mi ostacoleranno, tanto più che sono stata chiesta in sposa dal figlio di... Ma sarebbe indiscreto dire il nome. È uno dei più ricchi possidenti di Bazas. Lei lo conosce, certamente. Quindi, rifiutandolo, darò un dolore ai miei genitori. Ma anch’essi hanno forse mai pensato a qualcosa di diverso dal loro egoistico piacere ? — Bambina mia, in questo caso, i suoi genitori non penseranno che alla sua felicità. — Io sola posso giudicare della mia felicità. Lei che conosce Bob... — È molto caro, ma io alla sua età non avrei mai sposato un ragazzo così giovane. Avrei cercato un uomo serio, maturo, forte, al quale appoggiarmi come ad un baluardo. Ella diceva per abitudine queste frasi, formali quasi, e che aveva sempre sentito ripetere nella sua famiglia. Famiglia in cui le donne, per principio, disprezzavano la giovinezza dell’uomo, aspiravano al matrimonio con

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un «signore», un uomo arrivato: importanza, corpu­ lenza, calvizie. Come ripeteva: — Un uomo fatto... un uomo fatto... — non perden­ do di vista anche lei il sentiero dal quale sarebbe sbu­ cato il giovane Lagave, Paola la interruppe : — Io preferisco un uomo da fare. Tutto è da fare e da rifare in Bob... Oh, non mi faccio illusioni... Ma lo amo così... Eccolo. Egli correva sventolando un minuscolo costume da bagno. Gridò trafelato: — Hai chiesto alla signora Gornac, Paola? — Andiamo Bob, taci, ti prego... Paola si era fatta rossa; e poiché Elisabetta chiedeva: — Di che cosa si tratta? — il ragazzo, nonostante le proteste della fanciulla, disse che Paola era desolata di non poter fare il bagno perché non aveva costume, e che egli le aveva suggerito di chiedere a lei quello di Pietro. — Un costume decente, che gli arrivava fino al col­ lo... Gliel’ho visto addosso l’anno scorso... A Pietro era anche un po’ largo... Ma a te, Paola, andrà bene... — La prego, signora, di non credere alle sue parole. Scherzavamo. E dava dei colpi di gomito a Bob perché tacesse. Eli­ sabetta difatti volse altrove un viso severo. Era legger­ mente offesa; Pimmagine che avevano evocata di suo figlio Pietro, striminzito in un costume troppo largo e chiuso fino al collo, la umiliava. Paola allora volle par­ lare di lui: — Quando vedrà suo figlio, signora, vorrà ricordar­ mi a lui ? Che piacere ho provato nel parlargli l’anno scorso a quella scampagnata. È difficile incontrare in società un uomo del suo valore... Come sei sciocco Bob a ridere così! Perché ridi? Eppure non hai bevuto... -—- Sì, ho bevuto dell’aranciata. Rido per niente ! Non sono libero di ridere per niente? Del resto, guarda, ridi anche tu...

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— Come sei sciocco! Si prendevano gioco di suo figlio, era chiaro. Eli­ sabetta soffriva pensando: “Non sono degni di lui.” Non erano degni di lui, ma erano vicini, innamorati, in quel giorno che volgeva al termine, in faccia alle lan­ de e alla terra di Sauternes, sul terrazzo infuocato. Allora disse: — Bob, non sudi, giacché vuole fare il bagno... Poi risalì verso casa, senza volgersi indietro.

VI

— Non vai ancora a dormire, Elisabetta? — No, papà, voglio approfittare un poco del fresco della notte... — Diffida del fresco. Quando si è sofferto troppo caldo durante il giorno, è facile prendere un malanno al fresco della notte... Allora non vai a lètto? Papà Gornac desiderava che le sue abitudini fossero leggi in casa. Elisabetta cedeva quasi sempre ai suoi de­ sideri. Ma quella sera doveva aspettare il ritorno della fanciulla. — Chiudi bene la porta. — Sì, papà, stai tranquillo. — Se prenderai un raffreddore non dirai di non es­ sere stata avvertita. Io mi domando come puoi rimane­ re, tu che sei sempre così attiva, seduta senza fare nien­ te e al buio... Beh, non sei più una bambina. Buona notte. Quando egli ebbe chiuso la porta dell’anticamera, Elisabetta sospirò di sollievo. Era seduta su una panchi­ na, oltre la soglia, in giardino. Un prato frusciante scen­ deva fino alla strada maestra; al di là c’erano le ombre confuse delle colline accese da punti luminosi. Risa, richiami, latrati di cani, salivano dalla terra ancora ardente, ma liberata. Elisabetta pensava cose va­ ghe e nuove che non aveva pensato mai. Pensava che

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nella memoria dei due innamorati il ricordo di questa notte, pur uguale a tante altre, vivrebbe fino alla morte. E, per riflesso, anch’ella non poteva impedirsi di dare alla notte un significato solenne. Il suo spirito seguiva i due ragazzi, dal momento in cui aveva udito svanire le loro risa... Ecco, erano saliti in automobile, avevano attraversato il borgo di Saint-Macaire, poi raggiunto il fiume attraverso quel viottolo incassato... Bob, solo, si era spogliato nell’ombra dei salici, e la fanciulla seduta sulla ghiaia della riva lo aveva aspettato... Ah! ancora quel dolore repentino, lancinante... Dove saranno ora? Una voce grave le disse: — Buona sera. Riconobbe alla statura il figlio del bovaro. Il ragazzo scendeva verso la strada maestra ed ella non lo scorse più. Ma poco dopo udì ancora la sua voce e l’onda di una risata repressa che gli rispondeva: era atteso in fondo al prato. Elisabetta guardò sopra la sua testa la tela nera del cielo palpitante, infinito, divorato da pallidi mondi. Non sapeva perché aveva paura. Ma, gli occhi aperti a quarantott’anni, ella scopriva la sua solitudine, e, come una sonnambula, si risvegliava all’orlo di un tetto - all’orlo di un abisso. Non c’era altra difesa possibile che un corpo adorato: nasconde, difende, protegge dagli uo­ mini, dalla notte, dall’infinito. Come deve essere facile il coraggio a due esseri legati dall’amore ! Le voci e le risa tacquero. Morirono le luci, una a una, e le colline non furono più che onde d’ombra. Una tarda luna si alzò sulle strade silenti. Un gallo svegliò tutti i galli del paese. Elisabetta avvertì il freddo, rientrò in casa senza chiu­ dere la porta. In salotto la lampada era accesa; si cre­ dette al sicuro, sedette al suo solito posto, aprì il cesto pieno di biancheria da rammendare, cercò gli occhiali. Il salotto era vasto e gli angoli restavano in ombra. Le poltrone di palissandro facevano cerchio attorno a un tavolo di mogano. Delle farfalle notturne palpita­

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vano, cieche, contro il paralume della lampada. Elisabetta aveva ribrezzo di quelle farfalle, ma era impos­ sibile chiudere le finestre: era necessario che il fresco della notte entrasse, più prezioso che l’acqua nel deser­ to, a fare della camera un’oasi di frescura per l’indo­ mani. -—- Dalle nove del mattino, chiudo già tutte le fine­ stre — soleva dire Elisabetta. Anche la tristezza dell’ombra entrava con le farfalle, nel salotto tetro. Elisabetta ripose il suo lavoro e mor­ morò: — Che cosa farà quella bambina? Sono già passate le dieci da un pezzo... È sola, fuori, con quel ragazzo... Ah! non avrei dovuto... Invocava le convenienze, ma in fondo era il desiderio di non essere più sola che la fece andare sulla porta. Scrutò la notte, credendo fossero rumore di passi i fruscii delle piante. Nel giardino non c’era nessuno. Dov’erano i due ragazzi ? Che cosa facevano ? Ed ecco, an­ cora quel lancinante dolore... — Il fidanzamento... Il mio fidanzamento... — Guar­ dò quel salotto dove due o tre volte era venuta da Beautiran per passare qualche ora con il fidanzato. E ogni volta i suoi genitori l’avevano riaccompagnata a casa, perché non è conveniente che due fidanzati dormano sotto lo stesso tetto. Un’ora con Prudenzio su quel di­ vano ! La porta rimaneva aperta e nella stanza vicina sta­ va in ascolto la signora Lavignasse che di tanto in tanto tossiva e diceva: — Non vi si sente più parlare! Eppure non si baciavano, ma semplicemente non tro­ vavano più niente da dirsi. Elisabetta alzò le spalle, fu presa da una strana ila­ rità. Era sempre stata guardata a vista, dalla sua infan­ zia in poi. Una ragazza per bene non deve mai rimanere sola. La sua istitutrice montava la guardia alla porta del gabinetto di toletta perché ella non vi si attardasse. Non l’avevano mai lasciata sola! E oggi, con le nuove abitu­

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dini di vita, la signorina Della Sesque passa per una fanciulla più seria delle altre ! “Speriamo che rientri presto! Dirò il fatto suo a quel­ la bambina ! E prima di tutto la pregherò di non mettere più piede qui. Parte domani, buon viaggio.” Questa volta non si sbaglia: camminano nel viale: il cane abbaia. Elisabetta ripone il lavoro, si dirige in anticamera : —- Finalmente, bambina mia! cominciavo ad essere in pensiero per lei. Ma è una voce d’uomo che le risponde: — Mi dai del lei, mamma? — Oh, Pietro, sei tu? — Chi aspettavi d’altri? — Come mai arrivi a quest’ora? Da più di un’ora è passato l’ultimo treno... Pietro Gornac aveva seguito la madre in salotto: — Ho viaggiato tutto il giorno con questo caldo, allo­ ra ho sentito il desiderio di godermi la notte fresca e di camminare al chiaro di luna. I miei bagagli sono alla sta­ zione; sono venuto a piedi attraverso i vigneti. — Perché non avverti del tuo arrivo? Sarebbe molto più semplice per tutti. Ma non vuoi mai prenderti nep­ pure il più piccolo disturbo... — Già dei rimproveri? — Oh no, caro, no: è per te che dico questo... Ti avrei preparato qualche cosa da mangiare... Hai pran­ zato?... Allora vuoi coricarti? Devi essere stanchissimo. Non vedeva l’ora ch’egli si ritirasse nella sua camera. Paola poteva venire da un momento all’altro. Era ne­ cessario raccontare a Pietro la storiella del guasto al motore? Pietro era vicino alla lampada, in piedi, gran­ de, magro, con delle macchie di fuliggine sul viso os­ suto. Quando rivedeva il figlio le pareva sempre imbrut­ tito. — Vai almeno a rinfrescarti il viso. Egli rispose rudemente: — Sì, ci vado, così potrai darmi un bacio.

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—■ Come sei sciocco, mio povero caro ! Ma come sei alto, mio Dio, mi sembri ancora cresciuto. — Sono un metro e ottanta, da cinque anni. È pro­ prio inutile ripetermi queste cose ad ogni mio arrivo: no, non crescerò più. — Andiamo, andiamo, siediti, hai sete? — No. — Fame? ■—- Ti ho già detto che ho cenato. — Hai fatto un buon viaggio? Non hai avuto la tosse? Non hai avuto sangue dal naso? Pietro camminava nella stanza, scuotendo la testa, irritato. “Mia madre non si occupa che della mia salute” pensava. “Non c’è altro che conti per lei.” E, improvviso, le chiese: — Non mi chiedi se le mie conferenze hanno avuto successo ? — Come sei suscettibile! Ebbene, le tue conferenze hanno avuto successo? Egli finse di non cogliere l’ironia della voce e ri­ spose : — Ne hanno avuto moltissimo; a Limoges ho tenuto testa a un comunista e ho capovolto le idee della sala. Il comunista mi ha stretto la mano... I monarchici mi hanno dato più filo da torcere, ad Angers ! —- Ah... Ma siediti... Sei lì che cammini e cammini. Mi dai il capogiro. Se tu bevessi un po’ d’aranciata, al­ meno ? — Se proprio ci tieni! Egli si era seduto, con il busto in avanti, i gomiti sulle ginocchia, le dita immerse nei capelli lunghi e opachi. Richiamò la madre che era già oltre la soglia del salotto: — A proposito, mamma... Il piccolo Lagave è da sua nonna? Ella si fermò, una mano sul pomo della porta: — Perché me lo chiedi?

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— Perché se è lui che ho fatto fuggire come una lepre, vicino al terrazzo, e che ho visto scomparire nel giardino trascinando una ragazza, gli dirò quattro paro­ line, e non più tardi di domani... Stia in casa di sua nonna a fare le sue porcherie. Pietro pensava che la madre condividesse la sua in­ dignazione. Invece si stupì e fu irritato nel sentirla ri­ spondere : — Tu, Pietro, sei sempre pronto a credere le cose peggiori. Vedi subito del male. Non giudichiamo per non essere giudicati. — Ma via mamma, parlo di un piccolo mascalzone, lo sai quanto me... Ma è vero... no, non sai quello che so io... — Che cosa sai? — A Parigi ho un bel vivere in un ambiente che non ha nessun contatto con quello in cui si esibisce quel signore. Ci sono però degli scandali che arrivano sino a noi. È celebre a Parigi il nostro vicino! Un giorno ho sentito un mio compagno dire di un altro ragazzo: « In­ somnia, è una specie di Bob Lagave! ». Ma no, è im­ possibile che una santa donna come te mamma, possa capire il significato di queste cose! Elisabetta si meravigliava di sentir salire dal più pro­ fondo del suo animo un’irritazione che la rendeva ostile verso quel figlio sogghignante, sarcastico, e che faceva scricchiolare le dita con rabbia. Egli camminava trasci­ nando i piedi, come Prudenzio Gornac. — Chi ti dice che non sia calunniato quel ragazzo? Non sembra tanto cattivo. Con il suo fisico deve mie­ tere vittime, e mi immagino che in certi ambienti, a Parigi, le donne deluse non abbiano altro modo di ven­ dicarsi. — No! È inaudito! — Che cosa è inaudito? Ti prego Pietro, di non far scricchiolare le dita così: mi dai fastidio! — E pensare che debbo venire a Viridis, per sentir mia madre fare il panegirico di... di...

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Balbettava, non trovando la parola che potesse espri­ mere il suo disgusto, il suo disprezzo. Camminava nella stanza, con le spalle curve, urtando i mobili, ingrossan­ do la voce e ritrovando senza saperlo, nel tono, nei gesti, il suo fare da oratore. L’eccesso dell’irritazione improvvisa che colse Elisabetta ai gesti, alle parole del figlio, le ricordò le risoluzioni di accondiscendenza e di tenerezza prese qualche giorno prima; ahimè, fin dalle prime parole, egli aveva scatenato in lei delle forze ostili. Allora gli prese le mani: — Pietro, perché seguitiamo a parlare di quest’argo­ mento? Sai pure che ho le tue idee, la tua fede!... Ma egli si svincolò: — No, no, anche tu assomigli a tutte le altre donne; sì, tu, signora Gornac, presidentessa delle Madri Catto­ liche; sei tutta indulgenza per un ragazzo traviato... Voi donne siete subito pronte a trovare una sorta di fascino ai donnaioli e ai perdigiorno!... -— Pietro, ti prego... — Eppure ti credi religiosa, pretendi sapere che cosa sia il peccato. Ebbene, no, non lo sai... Non pensi che un ragazzo, il cui unico scopo sia quello di sedurre delle creature, di macchiarle, di perderle, è un delinquente peggio di un delinquente! Parlava con acredine, stringeva i pugni, camminava come se fosse su un palco. Certamente vedeva, tra il boschetto di carpini e i vigneti, fuggire sotto la luna un giovane rapace e la sua preda acquiescente. Ed era sulla sua terra, sull’erba dove anch’egli si stenderebbe domani, che i due corpi allacciati erano certamente ca­ duti, indifferenti al cielo, agli astri testimoni di una gloria e di una potenza infinite. — Ascolta, figlio mio... Hai ragione. Ma calmati; te ne supplico. Sei pauroso in questo stato... — Sì, capisco: di’ pure che sono un fanatico, un energumeno. Consigliami, come il tuo solito, di pren­ dere della valeriana o una compressa d’aspirina diluita nell’infuso di tiglio ben caldo, di andare a letto e cercar

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di dormire. Ti conosco, va’: non ti sei mai occupata che del mio corpo; non pensi che alla mia salute; la tua religione è una parte del tuo egoistico senso delle como­ dità e dell’igiene... Elisabetta era decisa a una passiva dolcezza, e nessu­ na parola ostile l’avrebbe fatta ribellare: — Andiamo, Pietro, guardami. Voglio che tu mi guardi. Gli prese la testa fra le mani; e improvvisamente su quel viso giallo e scarno, con il segno azzurrastro della barba non rasata, sporco di sudore e di fumo, scorsero due lacrime - due lacrime simili a quelle dei bambini; Pietro, pura anima, toccava ancora l’infanzia, era tutto irrorato ancora della sua luce. Parve avere, così, la sua età: ventidue anni appena. La madre gli stringeva il capo contro la sua spalla e diceva: — Che cos’è questo grande dolore? Egli si abbandonava, riconosceva l’odore della mam­ ma, l’odore dello scialle di lana che le sue lacrime bam­ bine bagnavano un tempo. Ma si accorse che ella gli accarezzava i capelli distrattamente, che pensava ad al­ tro - attenta a qualcosa ch’egli non conosceva. Non un attimo, da quando egli era in casa, Elisabetta aveva ces­ sato di spiare un rumore di passi nella notte. Aveva anche creduto di sentir scricchiolare la ghiaia del viale; poi più nulla. Immaginò che Paola e Bob sorpresi dal ritorno di Pietro spiassero il momento ch’egli si fosse ritirato in camera sua, per entrare in casa. Ma niente faceva supporre che Pietro avesse voglia di andare a letto. Si asciugava il pianto con un fazzoletto sporco e riprendeva a camminare. Elisabetta lo seguiva con lo sguardo: quando si sarebbe deciso ad andare a letto? Ma si tratteneva dal parlargli, contando su un silenzio assoluto per scoraggiarlo e deciderlo al riposo. Final­ mente, stanca, abbozzò uno sbadiglio e finse lo stupore: — Oh, sono quasi le undici! I candelieri sono sul biliardo; non sali in camera?

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— No, resto ancora qui, sono molto nervoso; non dormirei. Ad Elisabetta non rimaneva altro che raccontargli la storiella del guasto al motore. Almeno l’avesse detta subito! Pietro non ammetterebbe, ora, ch’ella avesse ri­ tardato tanto ad informarlo. Balbettò: — Ma è vero, neppure io posso andare a letto. Dove avevo la testa? Abbiamo avuta un’avventura qui... Ave­ vo dimenticato di dirti che... Pietro non l’ascoltava, voltato verso la porta. Disse: — È strano, sento camminare nel viale... A quest’o­ ra?... Ma sì, sento ridere... Sarebbe davvero il colmo... Attraversava già l’anticamera quando la porta fu aper­ ta. Elisabetta, con il cuore in gola, non sapeva più par­ lare. Udì Pietro che gridava: — Chi è? Poi la voce di Paola: — Non mi riconosce? La signora Gornac non l’ha avvertito ? La fanciulla entrò in salotto seguita da Pietro. Egli interrogò con lo sguardo la madre, la quale si sforzò a ridere: — Ecco che cosa succede a farmi dei rimproveri pri­ ma che io abbia aperto bocca per raccontare la cronaca di Viridis. Immagini che non succeda niente qui? Ab­ biamo avuto un incidente d’automobile, proprio davanti al nostro cancello, mio caro... Fortunato incidente... Mi ha permesso di conoscere questa cuginetta della quale mi avevi già fatto le lodi... Parlava troppo, senza disinvoltura, con un brio che Pietro non le conosceva: ella stessa s’accorgeva di reci­ tare una parte. Non aveva più avuto questo tono di voce dal tempo del collegio, quando, per la festa della Supe­ riora, interpretava una parte in una commedia. — Quale incidente d’automobile? Lo sguardo di Pietro andava dalla fanciulla silenzio­ sa, un po' in disparte e della quale non vedeva il viso, alla madre rossa e loquace. Paola Della Sesque si era

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buttata sulle spalle un soprabito da viaggio a grossi qua­ dri; la lampada rischiarava con crudezza il suo abito di tela bianca spiegazzato e macchiato d’erba. Pietro si sentiva addosso con vergogna e dolore quello sguardo di donna; aveva improvvisamente coscienza dei suoi ca­ pelli in disordine, dei suoi polsini, del suo abito nel quale aveva sudato tutto il giorno. Quando una donna lo guardava, di colpo si conosceva intero: vedeva i suoi abiti, il suo corpo; soffriva e avrebbe voluto scomparire. — Ecco esattamente ciò che è avvenuto: l’automobile della signorina Delia Sesque... Ma Pietro non ascolta le parole della madre. Si è avvicinato alla fanciulla, guarda quell’abito bianco che l’erba calpestata ha macchiato... Un abito bianco fug­ giva poco fa sotto la luna, fra il boschetto di carpini e la vigna... Perbacco! Ed ecco che osa alzare la testa e sorride beffardo come un uomo che non si lascia in­ gannare... Paola comprende, perché taglia la parola ad Elisabetta : — Scusi, signora, ma lei non sa mentire, gliene man­ ca l’abitudine. Non crede che suo figlio possa capire, perdonare. Ebbene sì, c’è qualcuno a Viridis che io de­ sideravo vedere; sua madre è stata tanto gentile da aprirci il suo giardino... Oh, ma signore... — aggiunse con una nota di comico spavento — non faccia quegli occhi ! Le giuro che si tratta del convegno più inno­ cente... Pietro la interruppe con il suo riso nervoso: — Mi permetta un dubbio: innocente? un convegno innocente con un individuo come il mio rispettabile vi­ cino? Scusi, signorina... ma parlare di innocenza, quan­ do si tratta di... — Ah no, signore, basta!... La fanciulla prese nella tasca del suo mantello un astuccio di tartaruga, ne tolse una sigaretta, l’accese alla lampada che illuminò un attimo il suo bel viso bruno, dolce di gioventù e di ambigua stanchezza. Aggiunse, con una voce un po’ stonata:

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— La fermo sull’orlo della gaffe: siamo fidanzati. — Lei? Lei fidanzata con il piccolo Lagave? Lei?... Dall’angolo più buio del salotto dov’era il divano, si alzò la voce di Elisabetta: •— Credi che se non fossero stati fidanzati avrei ac­ consentito... Ma Pietro, senza ascoltare la madre, ripeteva: — Lei, fidanzata con Bob Lagave? Che brutto scher­ zo! Ma lei si prende gioco di me... — Ah, eccoli i democratici ! — esclamò la fanciulla. — Penso a tutto ciò che lei mi ha raccontato, l’anno scorso, a quella festa campestre - le sue storielle di Università Popolari, di unione delle classi... insomma, tutte quelle chiacchiere ! Ed ora è lei il primo a gridare allo scandalo perché una ragazza vuole sposare un gio­ vane che non è della sua condizione sociale... Lei è dav­ vero un burlone ! Il fumo della sigaretta la faceva tossire; e rideva, guardando Pietro con un’espressione motteggiatrice che lo esasperò: — Finge di non capirmi, lo so. Ma non è perché sia nipote di una contadina che ritengo Bob Lagave inde­ gno di lei. Preferirei vederla sposare il garzone del ma­ cellaio di Viridis, guardi, sì, lo preferirei... — Andiamo, Pietro ! Che cosa dici ? Sei pazzo ? Elisabetta, uscita dal suo angolo buio, gli aveva preso un braccio, ma egli si svincolò: — No, non sono pazzo. Ripeto che un popolano qua­ lunque è più degno di sposarla che... -—■ Che cosa le ha fatto il piccolo Lagave, dunque? Certamente non è uno stinco di santo, lo so... Ha avuto delle avventure... Ebbene, e con questo? Tanto meglio per lui. Parliamo anche di sregolatezze, di vizio, come più le piace, insomma: non è questo che mi spaventa... — Oh, lo credo, siete tutte uguali, voi donne ! Pietro, furibondo, gesticolava con violenza. Avendo­ gli sua madre detto di parlare più piano per non sve­

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gliare il nonno, contenne la voce, ma non parve per questo meno esasperato: — Sì, lo dicevo anche poco fa a mia madre: preferite i mascalzoni a coloro che hanno del rispetto per voi, un ideale, una fede... A basarsi sui vostri gusti c’è da credere che soltanto il vizio piaccia ai giovani... Non conoscete davvero quell’ammirabile giovinezza appassio­ nata da grandi cause, capace di delicatezze, di fedeltà, di onestà; che ha il rispetto, il culto della donna, e che non la avvilisce... — Che formidabile oratore è lei, signore ! Egli si arrestò di colpo, si passò una mano sulla fronte: — Mi trova ridicolo, vero? — Ma no, ma no; c’è del vero nelle sue parole. Sì, — soggiunse con espressione raccolta — può darsi che an­ che le donne più oneste non tengano troppo alla virtù dell’uomo. In fondo, noi vogliamo soltanto essere de­ siderate, spiate, perseguitate; e facciamo uno sforzo su noi stesse per riuscire a essere grate all’uomo del suo rispetto. Siamo nate per essere inseguite; siamo delle prede... Ma non cammini così, la prego signore; si sie­ da su una poltrona e parliamo come due amici, vuole? Pietro ubbidì. Ma anche seduto, non poteva stare fer­ mo, faceva tremare il tavolinetto, si torceva le mani con forza facendone scricchiolare le dita. Come per vincerlo e calmarlo Paola gli offrì una sigaretta, ma egli rifiutò. — Non fuma? È proprio sulla strada della santità... Andiamo, scherzo ! Lasci quell’espressione torva e mi ascolti. Non mi faccio nessuna illusione su Bob: lo co­ nosco. Vive in un pessimo ambiente; è un povero ra­ gazzo vittima del suo sguardo, del suo bel viso... Par­ lavo di prede... Povero piccolo! È proprio lui a esserne una; io lo so, io, suo unico rifugio, suo riposo; me lo ha detto spesso... Molto spesso vuole che io gli parli dell’avvenire, quando non sarà più giovane e bello, ma quando, pure, troverà sempre in me il medesimo calmo amore... Perché sorride con ironia?

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Pietro Gornac si era alzato, soffocando di indigna­ zione: — E io le ripeto che lei non lo conosce... C’è diffe­ renza anche fra le dissolutezze. Le ripeto che non lo conosce - che non può conoscerlo, perché, per quanto libera di abitudini e di idee lei sia, è pur sempre una fanciulla. Ripetè le parole: « una fanciulla » con una voce d’ado­ razione. Ma Paola non se ne accorse, oppure non gliene fu grata. Anche lei era in piedi, ora, appoggiata con le mani al tavolo, il busto piegato: il suo viso illuminato in pieno dalla lampada era così doloroso che Pietro tac­ que, impacciato : — Ed ora — ella disse — lei deve parlare, lei deve dire tutto. Egli non osò più guardarla, si allontanò dal raggio di luce, si fermò alla finestra nera: — Mi basta averla avvertita. Il resto non mi riguarda. E finse di guardare fuori, nell’ombra. — Com’è profumata la notte ! — disse. Ma Paola incalzò: — Lei ha detto troppo o troppo poco; ed ora andrà fino in fondo, lo esigo. Egli crollò il capo. Sua madre gli venne in aiuto. — Ê già mezzanotte! Ragazzi, è ora di andare a dor­ mire... Domani mattina avremo dimenticato tuttè queste parole inutili... — No, signora, non potrei vivere ricordando queste insinuazioni! Parli con franchezza, signore: l’ascolto. — Ed io, Pietro, ti ordino di tacere. — Le giuro, signora, che non lascerò questa stanza prima ch’egli abbia parlato. Questa volta, voglio sapere: e saprò. Da molto tempo, Paola voleva sapere. Anche altri gio­ vani erano considerati, come Bob, dei piccoli traviati; ma parecchie volte ella aveva colto a proposito di lui,

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di lui solo, dei sorrisi, delle reticenze, come se tra i ma· scalzoncelli della sua età egli occupasse un posto ecce­ zionale e importante. Questi segni, però, non sarebbero bastati a tormentarla; niente di quello che non veniva direttamente da Bob poteva toccarla nel profondo; tanto era convinta che il ragazzo che amava assomigliasse ben poco all’uomo chiuso nel ruolo che si imponeva in casa delle americane, nei bar o nelle sale da ballo. Ma ora ricorda il giorno e l’ora in cui, per la prima volta, fu assalita da un dubbio; era il principio della pri­ mavera scorsa, a Versailles. Bob guidava l’automobile, a piccola velocità, lungo il Grand Canal. Ella guardava le mani nude del giovane sul volante, mani dolci, mani potenti. Ne aveva presa una fra le sue, e la stringeva come fosse la sua unica felicità sulla terra; poi, intene­ rita, non aveva saputo resistere al desiderio di baciarla. Ma, come se le sue labbra fossero state di fuoco, Bob aveva ritirato la mano con tanta violenza, che la mac­ china aveva leggermente sbandato. E aveva detto: — No, no, sei pazza! Lei non aveva capito come un semplice gesto potesse tanto dispiacergli, né perché ripetesse: — Tu, Paola, tu baciar la mia mano! Non ne sono degno... Era stata commossa, a tutta prima, da quell’umiltà, felice di sentirsi, più che amata, adorata, tanto che — dopo aver lasciato l’automobile nel parco e aver rag­ giunta la terrazza del « Grand Trianon » - aveva preso di sorpresa le mani di Bob che rimaneva taciturno e aveva gridato: — Ora le tengo tutt’e due... e per amore o per forza... Egli si era ancora svincolato, con un’espressione amara e dolorosa: — Ti prego, amore mio... tu non sai quanto mi fai soffrire... E aveva troncato le proteste di lei con quelle parole che tante volte, dopo di allora, ella si era ricordata:

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— Non mi conosci, Paola, non sai chi io sia... Dopo, tutte le volte che voleva ancora baciargli la mano, provocava in lui lo stesso scatto di umiltà e di vergogna. E quando era sola, pensava spesso a questa complicazione. Quindi, stasera, non si lascerebbe sfuggire Pietro Gornac, questo miserabile giovane, senza prima avergli fatto sputare tutto il suo fiele. Erano orribili pettegolezzi, non ne dubitava. Come poteva non essere odiato, il suo dolce amore, da coloro che non sono amati, non saran­ no mai amati? Sì, si trattava di orribili pettegolezzi; ma voleva saperli una volta per tutte. Le è facile portare Pietro alla definitiva spiegazione: le basta dirgli che è facilissimo fare delle insinuazioni e che lo sforzerà a ravvedersi delle sue menzogne: — Le mie menzogne? Le mie menzogne? Ebbene, ascolti. Ma l’avverto: soffrirà e mi accuserà della sua sofferenza. E siccome lei crollava il capo: — E sarà stata lei a volerlo — disse. Ella gli ordinò di parlare. Quante volte, più tardi, e l’irreparabile compiuto, Pie­ tro doveva ricordarsi quell’istante per discolparsi, per tranquillizzarsi ! — Io avrei preferito tacere; ma lei non ha voluto...

VII

— Non posso parlare in tua presenza, mamma. Signo­ rina, vuole che andiamo fino al terrazzo? La notte è tiepida. — Si copra, bambina mia — aggiunse la signora Gornac. Aiutò Paola a mettersi il soprabito, ed essendo Pie­ tro già in anticamera, ebbe il tempo di dirle: — Rimanga qui, non vada... Quale importanza può dare a ciò che dice la gente? Io conosco Bob dalla sua infanzia: è un buon ragazzo, un povero ragazzo. Paola ripetè: — Un povero ragazzo. Ed esitò. In quel salotto dove erano scoppiate le loro voci rabbiose, non udiva più che il respiro dei prati fruscianti. Un cane abbaiava. Guardò oltre la strada mae­ stra, fra gli alberi, la bianca facciata della casa dei Lagave illuminata dalla luna. Vide - benché non ne avesse mai varcata la soglia — la camera di Bob, l’alcova di cui egli le aveva spesso parlato, il letto dove egli dormiva durante le sue vacanze, quando era bambino; il pigia­ ma elegante che irritava Maria Lagave. Sapeva che Bob dormiva con le mani incrociate sul petto. Vide quelle mani: nella destra, l’anello ch’ella gli aveva dato, il cammeo color di vecchio sangue; le lunghe dita un po’

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fulve di fumatore - mani che amava tanto e che non poteva baciare. In quel momento Pietro, avendo aperto la porta d’in­ gresso, la chiamò; allora ella gli rispose con una parola che fissava il suo destino: — Eccomi. Seduta sul divano, nell’ombra, Elisabetta ascoltò i loro passi che si allontanavano, ma che non cessarono di es­ sere percettibili. A volte udiva un’esclamazione, la nota più acuta di una voce. Era una fortuna che il vecchio Gornac fosse un po’ duro d’orecchio e che la sua came­ ra guardasse a nord. Come parlava forte Pietro e con quale prepotenza! Non si udiva che lui. Elisabetta ricordò il silenzio del pomeriggio, silenzio che i due innamorati non avevano turbato neppure con un sospiro. Ed ora, coloro che non amavano non si preoccupava­ no di fare rumore, di parlare forte e insieme. Pure ogni tanto i due avversari dovevano interrompersi. Allora Eli­ sabetta udiva soltanto il fiato della terra sotto il cielo che aspettava l’alba. Benché non fosse abituata a passare la notte in piedi, non aveva sonno: le era impossibile occupare il suo spirito d’altro che non fossero quei due intenti a parlare nell’ombra; e aspettava il loro ritorno; distoglieva il pensiero da Pietro come se avesse avuto paura di odiarlo. Perché si occupava di cose che non lo riguardavano? Chi gli aveva detto di intervenire? Che cosa poteva capire di amore? L’amore era un elemento estraneo a lui; egli non poteva capirne niente; egli ultimo nato di una razza chiusa alla passione. Ma Pietro aveva sempre avuto la pretesa di impartire lezioni agli altri, era il suo piacere; ed è ben necessario che un ra­ gazzo della sua specie assapori qualche piacere. Elisabet­ ta si faceva sarcastica: rideva da sola. Nello stesso tem­ po, però, soffriva e si rimproverava di non avere impe­ dito a Pietro di parlare. Toccava a lei difendere il ra­ gazzo addormentato, laggiù, oltre la strada.

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Egli dormiva, ed ella non era obbligata, come Paola, ad immaginare, senza averla mai vista, la sua camera; vi era entrata mille volte (nell’assenza di Bob, d’inverno, Maria Lagave vi passava le sue giornate volentieri per­ ché le finestre erano volte a mezzogiorno). Elisabetta ricordava di essersi seduta sul letto. Pensava a quel let­ to, smarrita. Improvvisamente la fiamma della lampada si abbassò e un odore nauseante riempì il salotto. Elisabetta la spen­ se dopo aver accese le candele dei candelabri; rabbrividì nella luce funebre, chiuse le finestre. I passi dei due giovani si avvicinavano; non parlava­ no più ma il rumore di quei passi sulla ghiaia del viale riempiva la notte. Forse avevano svegliato i Galbert. Quelli che non amano non si nascondono. Entrarono nella stanza. Pietro disse con la sua voce solita: — Che buio! Non ci si vede niente. Non c’è più petrolio nella lampada? Elisabetta vide subito che Paola aveva pianto. La stan­ chezza di una giornata d’amore, le impressioni della sera, lo sfinimento provocato dalla interminabile veglia, tutto aveva lasciato un’impronta sul suo viso, improvvi­ samente invecchiato, quasi brutto. Pietro parlava ancora, pretensioso e volubile. Diceva che non ci sono mai prove sicure in certe cose. Senza dubbio l’opinione generale può essere considerata come prova sufficiente, ma, infine, è meglio fidarsi di informa­ zioni personali; benché gli paresse una cosa inverosimile, poteva anche essersi sbagliato... — Ah, signore, la prego, non mi segua così, e smetta un attimo di parlare: mi stordisce! Queste parole immobilizzarono Pietro, mentre la fan­ ciulla seguitava a camminare stringendosi sulla persona, con le mani, il suo soprabito da viaggio. La signora Gornac andò in anticamera e tornò con un candeliere che tese al figlio: — Hai già fatto abbastan­ za, stasera...-Vai a letto, ora, vai! — Pietro prese il can­ deliere, ma, immobile, seguiva con lo sguardo quel pove­

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ro essere tremante che camminava inciampando nei mo­ bili. — Ho creduto di farle del bene, signorina; e sono sicuro di avere fatto bene. Mi ringrazierà più tardi; ho fatto il mio dovere. — Sì, sì, hai fatto il tuo dovere. Tu, fai sempre il tuo dovere. Puoi andartene a dormire, adesso. — Del resto è stata lei, signorina, ad esigere... Paola, senza guardarlo, si avvicinò ad Elisabetta e le chiese, supplichevole: — Signora, gli dica che se ne vada... che se ne vada. Egli uscì; si udirono i suoi passi lungo le scale di legno. Un uscio, di sopra, si chiuse con violenza. Elisabetta aspettò che il silenzio regnasse ancora nella casa. Allora si avvicinò a Paola, la trascinò sul divano e ricevette quasi fra le braccia quel corpo sconvolto dai singhiozzi improvvisi. Non le fece domande, soltanto le accarezzava con una mano la nuca rasata, attenta a non interrompere le rotte parole della fanciulla. — Lo so, io, come Bob guadagna da vivere. Ho vi­ sitato degli appartamenti ammobiliati da lui; sono cose che urtano, oggi. Si può sempre dire che lo favoriscono, si sa. Certo, sono degli amici ricchi che lo fanno lavo­ rare... Ed è una vera fortuna che conosca uomini e don­ ne molto ricchi... Nel suo mestiere non si può trattare che con gente abituata al più gran lusso... Parlava come avrebbe cantato, sola, di notte, in un bosco. Improvvisamente disse: — È orribile ciò che suo figlio mi ha riportato. Dice che è una cosa notoria. Dice... Ma singhiozzava più forte, incapace di seguitare a parlare. Elisabetta la teneva sempre fra le braccia, le asciugava il pianto con il suo fazzoletto. — Piccola, non mi dica più una parola, non ripeta più una sola frase di quelle riportate da Pietro. Mi guar­ di negli occhi: la cosa non ha nessuna importanza. Non crolli il capo, glielo giuro: nessuna importanza. Oh,

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mio Dio, sì, sono cose alle quali non avevo mai pensato e che quindi rimanevano informi, vaghe nel mio spi­ rito. Bisognerebbe che avessi il tempo di pensarci... Ma come poterle spiegare? Ascolti: qualunque sia la vita di Bob, lei lo conosce bene, no? Lo ama com’è, lo accetta qual è. Perché vuole isolare un difetto, una cattiva ten­ denza? Oh, soffro nel non poterle esprimere quello che penso, non poterla convincere. Vede: difendo Bob come se fosse mio figlio... Forse sono troppo indulgente... Ma penso che non si dovrebbe rinnegare niente di colui che ci ha preso l’anima. Se Bob non fosse un povero ra­ gazzo debole, lei non lo amerebbe... — Allora, anche lei, signora, ammette degli errori nella sua vita, crede a degli errori... — Io non credo a niente; non ammetto niente. Ma perché si interessa tanto al giudizio degli altri, piccoli­ na mia? Paola la guardò meravigliata: — Chissà che cosa direbbe suo figlio nell’udirla ! Ma si può disprezzare colui che si ama? Si può sposare un uomo del quale non si ha stima? Ella fece queste domande con una voce convenzionale, che lasciò sconcertata Elisabetta: — Ma dal momento che si ama! — disse con un viso un po’ stranito. — Amare significa provare tutti i sentimenti, no? Stimare l’uomo che si ama... Non saprei spiegare perché trovo questa frase priva di significato; bisogna che ci pensi: dal momento che si ama... Ripeteva: — Dal momento che si ama... — con un leggero sorriso che illuminava di una luce nuova il suo viso molle e pesante. Ma Paola non prestava alcuna attenzione al viso e alle parole di Elisabetta. Seduta all’altro lato del divano, con i gomiti sulle ginocchia, pareva immersa in pro­ fonde riflessioni: — Ecco che cosa ho deciso di fare — finalmente disse. — Partirò all’alba senza rivedere Bob. — Senza rivederlo?

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—· Oh, non per molto tempo; basta che io chieda qualche informazione e che scriva qualche lettera: ci so­ no due o tre punti oscuri che voglio chiarire. Dopo oserò guardarlo in faccia. — Oh, bambina mia, perché vuole dargli questo di­ spiacere ? — E crede che non soffrirò anch’io? Ma voglio co­ noscere l’uomo che sposerò. — Se lo ama, lo conosce. Che valore hanno le no­ stre azioni? Le racconto un mio ricordo: c’era qui, un tempo, un curato giovane, molto distinto, istruito, ma soprattutto di una grande bontà, di una grande delica­ tezza. Predicava con una voce che toccava il cuore; la sua carità era infinita; si occupava dei giovani e i gio­ vani lo adoravano. Un giorno abbiamo saputo che lo avevano dovuto allontanare in tutta fretta; una storia abbastanza scabrosa... Tutta Viridis diceva (e io più forte degli altri) : « Che ipocrita ! Come sapeva bene darla ad intendere! Come faceva finta di essere carita­ tevole ! Con quale arte ha saputo turlupinarci ! ». Ebbe­ ne, da allora ho spesso pensato a quella faccenda; e, non so neppure io il perché, con più frequenza da qual­ che giorno, dicendomi che quel povero prete non ci ave­ va ingannati, che egli era, in verità, così come lo crede­ vamo noi: buono, misericordioso, disinteressato. Soltanto era stato anche capace di una cattiva azione. Paola la interruppe rudemente: — Non capisco quale rapporto... Elisabetta si passò una mano sulla fronte: — Mi perdoni... Non vedo davvero perché le ho rac­ contato questa storia... Era perché, se lei scoprisse nella vita del suo fidanzato... — Il mio fidanzato? Oh, non ancora, signora! Elisabetta non seppe più che cosa dire, sentì improv­ visamente tutta la sua stanchezza, il desiderio di dor­ mire, un accasciamento profondo. Si alzò per dare a Paola della carta da lettere, poi si lasciò ricadere sul

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divano, mentre la fanciulla al lume delle candele, in piedi contro il camino, scriveva: — Gli dirà, vero, bambina mia, che tornerà? — Certamente, signora! — Fissa una data? L’incertezza gli farebbe tanto ma­ le, ed è così debole ancora... Paola, esitante, mordicchiava la penna. — Crede che tre settimane?... — Tre settimane? Ma è pazza? Quindici giorni al massimo... Elisabetta sentiva già, nell’anima, nella carne, il do­ lore futuro del giovane che dormiva, a quest’ora, nella casa oltre la via maestra, con la testa appoggiata al braccio ripiegato. Soffriva per lui, come avrebbe sofferto la sua mamma. Si esaltava pensando di tentare l’impos­ sibile perché non perdesse Paola. Questo disinteresse di cui aveva coscienza la tranquillizzava. Oscuramente, era felice di non essere gelosa. — Ecco fatto, signora: gli darà questa lettera da par­ te mia. Oh, perdoni: non avrei dovuto chiudere la bu­ sta; è stato per sbadataggine. Ed ora proverò a riposare un poco prima dell’alba... No, non mi svegli: sono così sicura di non dormire! Del resto l’alba è vicina. — Però farà colazione prima di partire. Non vorrà partire senza bere qualcosa di caldo... Paola disse che era inutile, che si sarebbe fermata a Langon. La signora Gornac prese i candelieri, precedet­ te la fanciulla fino alla sua camera, senza più parlare, la baciò in fronte. Entrata nella propria stanza, come ogni sera prima di dormire, si inginocchiò, nascose la testa nelle coperte: — Venite, Spirito Santo, riempite il cuore dei vostri jedeli servitori e accendete in essi il juoco del vostro divino amore. Prostrata davanti a voi, o mio Dio, vi rendo grazie del cuore capace di amarvi che mi avete dato, e di avermi conservata e protetta dal giorno della mia venuta sulla terra... Dice di amarlo e se ne va sen­ za vederlo. Sa di essere amata: possiede questo dono,

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questa felicità : l’amore, e parte perché le hanno detto che egli è stato viziato, che si è lasciato traviare... e cre­ de di amarlo, quella sciocchina. Perdono, o mio Dio, del mio pensiero che non si rivolge a voi solo... Esa­ miniamo la nostra coscienza e chiediamo a Dio, dopo averlo adorato... Ma non potrei avvertire Bob prima che Paola parta? Se lo vede, egli la riprenderà... Se potessi impedire questa partenza! Ella cederà subito al solo ve­ derlo. Mi è necessario riflettere, ma prima finiamo la nostra preghiera. Mio Dio, mi pento amaramente dei peccati che ho commesso contro di voi, vi chiedo umil­ mente perdono... Paola partirà all’alba... Bisognerà che io vada prima in casa di Maria Lagave con una scusa qualsiasi. Ma quale scusa? Si è già immaginata chissà che cosa quella vecchia matta... Non sapendo quando la morte mi coglierà, o mio Dio, anche stanotte vi racco­ mando l’anima mia! Non giudicatela con severità... Qua­ le ragione posso avere per bussare alla porta dei Lagave alle cinque del mattino? Ma perdonate i miei peccati: li rinnego tutti; li detesto e vi prometto che fino all’ul­ timo respiro vi sarò fedele e che non desidero vivere che per voi, mio padrone e mio Dio... fi una cosa ignobile avere questi pensieri nel dire le mie preghiere. Sono castigata della mia debolezza verso quei due ragazzi... Ma già, appena si mette un dito nell’ingranaggio... Del resto facciano un po’ quello che vogliono. Io non me ne occupo più. Dove ero? ...Santi e Sante del Paradiso che gioite della presenza di Dio... No, ne dimentico... Mio buon Angelo Custode, che mi siete stato dato da Dio per proteggermi e conservarmi... E poi non ho nes­ suna ragione da dare a Maria Lagave... Beh, se mi sve­ glierò abbastanza presto...

Elisabetta Gornac aveva sempre avuto la pretesa di sapersi svegliare, la mattina, all’ora esatta che si era prefissa addormentandosi. Se il miracolo non avvenne, questa volta, la colpa fu di non averlo abbastanza desi­ derato. Aspettando il sonno, ella si piacque a immagi­

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nare Bob nell’abbandono, dopo la partenza di Paola: con lei soltanto egli riusciva a dimenticare il suo dolo­ re. Immaginò anche che un giorno egli sarebbe venuto a dirle : « Le ragazze non sanno amare... ». Questo, sulla terrazza, una mattina alle dieci... immagino quel viso un poco pallido, ma non più contratto dall’angoscia... “Come sono sciocca!” si disse, e pesantemente si voltò su un fianco, verso il muro.

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La svegliò una luce pigra e opaca ch’ella credette fosse dell’alba; ma il suo orologio segnava le otto. La nebbia che fluttuava poteva presagire tanto una giornata di cal­ do terribile quanto una burrasca. Dei passi risuonavano nel cortile; sicura che fosse Bob, ella indossò in fretta una vestaglia, si ravviò i capelli, passò un po’ di cipria sul viso gonfio di sonno, corse alla finestra e l’aprì. Nel cortile, infatti, Bob vestito di bianco guardava le sue finestre. -— Finalmente! Dov’è Paola? È andata a fare una commissione a Langon? — Un attimo, Bob, mi aspetti un attimo. Elisabetta si fermò davanti allo specchio, ebbe orrore del suo viso stanco, prese la lettera di Paola e scese in giardino. — Non si preoccupi, ragazzo mio: è stata costretta a ripartire. — Ma soggiunse subito: — La sua assenza non durerà più di qualche giorno. Del resto le deve spiegare ogni cosa in questa lettera. Bob stracciò la busta, lesse tutto di un fiato, interrogò Elisabetta con lo sguardo, poi cominciò a rileggere con più attenzione, la fronte Corrugata; le sue labbra si apri­ vano come se egli sillabasse ogni parola. — Perché è partita? Che cosa è successo? C’è stato qualcosa ?

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— Non faccia quel viso, Bob; Paola ritornerà; lei sa pure come sono le ragazze! Ha voluto riflettere, ponde­ rare! Forse ieri lei è stato troppo intraprendente. — Credete che possa essere questo? — E sorrise. — Oh, allora sono tranquillo: niente si perdona così presto come le carezze, no? Elisabetta si sentì arrossire. Bob lesse ancora la let­ tera. — Ma no, è impossibile, la conosco. No, no, ha obbedito a una ragione che ignoro e che ella stessa ignorava quando ci siamo salutati, stanotte, davanti alla porta. Mi ricordo le sue ultime parole: «Perché non aspettiamo il giorno insieme?». Io le ho risposto con una facezia, ho canticchiato: «Non è ancora il giorno, non è ancora l’allodola... ». — Elisabetta! Essi alzarono contemporaneamente gli occhi e videro a una finestra la testa spaventosa del vecchio Gornac, il quale non rispose neppure al saluto di Bob e borbottò: — Vieni su, Elisabetta, presto! ho la mia sciatica. Aveva la sua sciatica. Per tutto il tempo della crisi, Elisabetta sarebbe stata ai suoi ordini; non sarebbe stato faticoso il curarlo, ma bisognava correre senza tregua per portare i suoi ordini e i suoi contrordini ai Galbert. Ella rispose placidamente: — Non mi meraviglio: il tempo cambia; sei un vero barometro. — Speriamo che non cada la grandine. — Ma no, papà, ma no. Non rimanere all’aria : ora salgo. Il vecchio chiuse la finestra. Elisabetta disse a Bob: — Tenterò di venire a casa sua, mentre il vecchio ri­ posa, dopo il pranzo. Non si tormenti: Paola ritornerà. Egli non rispose, si allontanò con gli occhi fissi a terra, masticando un filo d’erba. Il cielo era basso, livido. Passarono i buoi in un nu­ volo di mosche. — Prima di sera avremo un temporale — diss’egli al bovaro.

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— Un po’ d’acqua non farà male. Un grosso rospo attraversò il viale, indizio di pioggia. Mentre Bob metteva piede sul terrazzo, scorse Pietro, vestito di un abito scuro; Pietro alzò sorpreso il naso dal libro, e fece l’atto di andarsene; ma si ravvide e fece a Bob un gesto di saluto con la mano, come a un contadino. Bob non pensava più che esistesse anche co­ stui. Eppure lo aveva visto, la notte scorsa, al chiaro di luna, ed era stato costretto a fuggire, trascinando Paola verso i vigneti. Paola lo aveva visto prima di andare a letto? Aveva parlato con quella specie di sagrestano, con quel lurido Tartufo? Bob si fermò indeciso, sempre masticando il filo d’erba: — Eccola di ritorno al paese. Pietro rispose con un cenno del capo e continuò a leggere. Ma Bob era deciso a non lasciarlo tranquillo: — Non ha fortuna... — Non mi curo affatto della pioggia, io... — Non parlo del tempo. Volevo dire che se lei fosse arrivato un giorno prima, avrebbe incontrato a Viridis una signorina. Pietro, questa volta, sostenne lo sguardo di Bob, chiu­ se il libro e disse: — La signorina Della Sesque? L’ho vista ieri sera, o piuttosto questa notte. Abbiamo chiacchierato fino alle due! I due nemici si affrontarono. Bob disse: — Lo immaginavo. -— Del resto, siamo cugini con Paola Della Sesque. È intelligente: una delle rarissime ragazze con le quali si possa parlare. Pietro Gornac era seduto su una poltrona da giardi­ no, con le gambe incrociate, e batteva il tempo con un piede. Bob insistette: — Allora, avete parlato fino alle due di cose gravi ? — Ma sa che lei è curioso ? — Sono io che mi occupo degli affari suoi, forse ? O

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non sarebbe lei, piuttosto? Andiamo, abbia il coraggio di guardarmi in faccia; guarda sempre di sbieco. Pietro si alzò con un balzo che rovesciò la poltrona. Tutti e due, ora, parlavano insieme e infuriati. — Se crede che le ingiurie di un uomo della sua specie... — Io non sono uno di quegli ipocriti che riversano il loro fiele sugli altri e li sporcano... — Lei è forse qualcuno che si possa insudiciare, lei?... — Abbia il coraggio di negare che ha parlato male di me a Paola Della Sesque. — La signorina mi ha fatto delle domande e io ho risposto. — Con quale diritto? Mi conosce forse? Che cosa sa lei, della mia vita? — Quello che tutti vedono e sanno... Pietro si sentiva il più forte: egli non arrischiava nulla di caro, o che gli stesse a cuore. E vedeva impal­ lidire l'avversario, farsi tremante, con l’angolo delle lab­ bra troppo rosse agitato da un tremito nervoso. Come i colpi di frusta che sulle spalle degli antichi forzati ri­ velavano impresso il marchio infamante, le provocazioni di Pietro rendevano visibili su quel viso una macchia, una vergogna. — Del resto si tranquillizzi: non ho ripetuto alla si­ gnorina Della Sesque, dietro sua insistenza, che ciò che si dice sul suo conto. Ma avrei avuto paura di sporcar­ mi e di sporcare la mente di quella fanciulla rivelandole le cose turpi delle quali l’accusano - a torto, spero. Le persone che la signorina interrogherà, saranno forse me­ no delicate di me. Poteva insistere nei colpi. Come il piccolo Lagave reagiva male! Ogni parola lo colpiva come un pugno: egli barcollava. Pietro si stupiva di aver potuto restar sveglio sino all’alba torturato d’angoscia per ciò che ave­ va fatto, interrogandosi davanti a Dio, pauroso di aver obbedito a dei motivi che non fossero tutti degni di lui. Aveva tremato all’idea di farsi ancora vedere da

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Paola... Ma no, ora gli bastava rivolgere uno sguardo a quel viso livido per rassicurarsi. Per quel tanto che era in suo potere, aveva salvato una fanciulla, l’aveva strap­ pata a un essere immondo. Un giorno ella gliene sarebbe grata; e anche se dovesse maledirlo... Pietro raccolse il suo libro caduto; non aveva più niente da fare in quel luogo. Pure, esitava, turbato dallo sguardo spento, dallo sguardo smarrito del piccolo Lagave, ripiegato miseramente sulla balaustra del terrazzo. Quanto male gli aveva fatto ! “Non si crederebbe che questi esseri siano suscettibili di vergogna. Forse sono stato troppo crudo.” Pietro non sapeva che in quell’i­ stante la sua vittima non lo vedeva neppure, dilaniato da un solo pensiero: “È finita, non verrà più, l’ho per­ duta”. Aveva dimenticato la presenza di Pietro tanto che lasciava scorrere le lacrime sul suo viso. Il giovane Gornac le vide e ne fu commosso pro­ fondamente - trasformato di colpo. Bastava la minima cosa per colpire il suo cuore malato, il suo spirito scru­ poloso e indeciso. Aveva saputo conciliare la carità e la giustizia? Si era interrogato su questo sino all’alba; ed ecco che davanti alle lacrime del colpevole si inter­ rogava ancora. Il suo cuore cristiano si impietosì. Un flutto di compassione sommerse in lui ogni altro senti­ mento, addolcì la sua voce, il suo sguardo: — Non pianga, non è mai troppo tardi per cambiare vita. Ma Bob era inerte, sordo, e fissava ostinatamente l’orizzonte tetro, il cielo grigio. Il vento dell’ovest por­ tava l’eco delle campane, il rumore dei treni fuggenti nella pianura. Guardava quell’immenso paese muto e vuoto. Pietro proseguì: — Creda a me: un gran bene può nascere in lei dal­ la sofferenza. Non deve fare altro che volere. Non esi­ ste colpa che non sia perdonata. Ho agito non pensando ad altro che alla sua felicità futura, creda, ma, lo con-

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fesso, con una violenza ingiusta, della quale le chiedo perdono: sì, la prego, mi perdoni.. “Come mi ascolta!” pensava Pietro. “Gli faccio dav­ vero del bene.” Egli provava quella specie di piacere che lo esaltava; faceva del bene e nello stesso tempo, pur essendo il vincitore, si umiliava, si riconosceva dei torti, acquistava dei meriti. Ma perché Bob non parlava? — Vuole confidarsi con me? Appoggiarsi a me? Improvvisamente, provava una simpatia profonda per quel giovane traviato che ora, grazie a lui, conosceva la propria bassezza. Ed ecco che guarda la mano del pic­ colo Lagave immobile sulla pietra della balaustra, una mano accurata, delicata, con all’indice il cammeo color di sangue scuro, quella mano che Paola aveva portato alle labbra. Vi avvicina con dolcezza la sua: — Mi dia la mano; non solamente non saremo più nemici, ma io l’aiuterò, si, l’aiuterò a diventare degno... Il contatto di quella mano molle risveglia Bob. Ritira bruscamente il braccio e guarda Pietro come se sola­ mente adesso scoprisse la sua presenza. — Lei — dice con rabbia —- lei... — Non mi guardi con gli occhi così cattivi. Ieri sera e poco fa anche, nonostante la mia durezza, ho agito per il suo bene. Mi lasci ricordarle che ha un’anima. Ah, quella sua povera anima... Nessuno gliene ha mai parlato, vero? Ed ecco perché a lei, per espiazione, sarà chiesto meno che ad altri... Ebbene, io amo la sua anima perché è bella, risplendente, malgrado le macchie di cui è coperta. Non saprei esprimerle la compassione che provo per la sua anima... Come parla bene! Piange egli stesso alle sue parole, tutto penetrato di tenerezza, di speranza. Bob lo ascolta, lo ascolta con gli occhi, si direbbe; lo divora con gli occhi, si avvicina a lui, certo per vederlo meglio. Ma improvvisamente alza il pugno. Pietro Gornac cadde al primo colpo. I grilli canta­ vano attorno al suo corpo immobile. Il sangue colava

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da una narice, si coagulava nei baffi radi; anche la boc­ ca sanguinava : egli doveva avere il labbro spaccato e un dente rotto.

Bob non aspettò che il suo nemico riaprisse gli oc­ chi. Fuggì lungo il viale, fra i carpini e le viti, come se inseguisse la traccia della sua felicità perduta. Leg­ germente sollevato, rileggeva già la lettera di Paola: no, nulla era perduto; ella ritornerà; forse la gente non parlerà; non è sempre cattiva la gente. E poi, ella non crederà a quello che si dice di lui; non esisteva nessuna prova contro di lui; e si può sempre negare, gridare alla calunnia. Il cielo grigio, pesante e basso, era più soffocante dell’implacabile sereno. Bob si rannicchiò fra due filari di vite in faccia all’inerte pianura. Nuvole grevi erano sparse, e dei tuoni rombavano nella soitudine immen­ sa. Sì, negare, negare... Ma pure la sua vita era eviden­ te; quella vita di cui certe azioni avrebbero colpito Paola di vergogna e d’orrore. — La mia vita — mormorò — la mia vita... Aveva soltanto ventitré anni. Che cosa aveva cercato, che cosa aveva voluto compiendo le azioni delle quali, ora, lo assaliva il ricordo? Che cosa aveva premeditato? Molto tempo prima ancora di sapere che cosa fosse il male, quante voci lo avevano chiamato, attirato! Attor­ no al suo corpo ignorante che gorgoglio di appetiti e di desideri ! Aveva vissuto fin dall’infanzia circondato da una sorda cupidigia. Ah! no, non aveva scelto la sua strada! Altri avevano scelto per lui — Puccettino smar­ rito nella foresta, popolata d’orchi... Il suo viso bello e dolce era stato la sua condanna. Gli angeli non do­ vrebbero essere visibili: guai agli angeli smarriti fra gli uomini. Ma perché dava tanto valore a dei gesti ? Ne restavano forse le tracce sul suo corpo? “Scriverò a Paola: «Non ho fatto niente ed ho fatto tutto: ma che importa? Un amore come il nostro copre tutto; marea che sale, ma che non si ritira».”

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Nascosto nella vigna, così sogna il piccolo Lagave. Riesce a convincere se stesso? Le nostre azioni, vera­ mente, non lasciano in noi nessuna traccia? Soltanto qualche mese fa egli rispondeva a coloro che gli chie­ devano i suoi progetti per la villeggiatura: — Cerco un’amante con lo yacht. Egli non crede che al piacere; nessuna cosa lo inte­ ressa fuorché il suo piacere. Pretende una soddisfazione da ogni minuto. Per ora il suo amore concentra i suoi sparsi appetiti in una sola e divorante fame. Ma una volta appagata questa fame, non ritroverà in sé il biso­ gno incalzante di vivere del piacere di ogni minuto? Piccolo animale ammaestrato a mangiare nel cavo di tutte le mani... Queste cose Bob non le sa confessare a se stesso, è convinto che dal giorno in cui Paola entrasse nella sua vita, ogni viltà ne sarebbe per sempre abolita. Ma ella non entrerebbe nella sua vita. Lo sapeva: non aveva mai creduto alla felicità, lui... Vivere senza Paola... Misurò con il pensiero desolato i suoi giorni futuri, deserti come quella pianura livida e addormentata sotto un cielo tenebroso, un cielo da fine del mondo e che delle lame di luce, all’orizzonte, tagliavano con violenza. Dovrà immergersi ancora in quel deserto, essere divorato ancora dagli altri e sentirsi ad ogni attimo un po’ meno giovane. Aveva cominciato a diciotto anni a soffrire la pena di invecchiare. Nelle feste date per i suoi compleanni, fra le risa degli amici, all’ora dei brindisi, aveva sempre inghiottito l’amarezza delle lacrime. Quelli che lo amavano non conoscevano bene il suo viso quanto lui. Il mattino, nello specchio, scrutava dei segni impercettibili, ma che gli erano fami­ liari: la piccola ruga fra le narici e l'angolo delle labbra, qualche capello bianco e che strappava invano, perché rispuntava sempre... Soltanto vicino a Paola avrebbe ac­ cettato di invecchiare. Sa benissimo che per lei, sino all’ultimo giorno, sarebbe stato un bambino, un povero

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bambino. Ma Paola era perduta, l’aveva perduta per colpa di quel miserabile... E improvvisamente scoppiò a ridere, ricordando quel corpo spezzato come una marionetta, nell’erba. A que­ st’ora Pietro sarà rinvenuto. Oh, se l’avesse ucciso ! Lo odiava. Avrebbe voluto che fosse davvero morto, quel­ l’ipocrita, quel Tartufo!... — Averlo ucciso... Sarebbe troppo bello... — disse ad alta voce. E, secondo il suo metodo - che era quello di non rinunciare ad alcun impulso - si abbandonò alla sua profonda inimicizia... Attorno a lui, gocce rade di pioggia si schiacciavano pesantemente sulle foglie macchiate di solfato. Le udì crepitare a lungo, prima di riceverne qualcuna sul viso, sulle mani... La prima gli disegnò una stella sul polso; era tiepida ed egli l’asciugò con le labbra. Poi caddero più rapide; qualche chicco di grandine era misto alla pioggia, ma egli non se ne curò, sapendo che la gran­ dine mista a pioggia non produce danno alla campagna. Non si muoveva. La pioggia gli correva tiepida fra la camicia e il collo... Morire significa subire con indif­ ferenza l’acqua ed il fuoco, significa diventare una cosa. Le cose non soffrono. Come il pensiero della sua soffe­ renza futura lo spaventava! Se per il momento il suo male gli pareva sopportabile, non era solo perché una speranza lo sosteneva? Riparò con il cappello la lettera di Paola per rileg­ gerla. « Fra quindici giorni ritornerò » ella diceva, chie­ deva quindici giorni di riflessione. Lo amava, e, qua­ lunque cosa potessero dirle, ritornerebbe perché lo ama­ va. Egli pronunciò ad alta voce il suo nome : Paola ! E come la pioggia crepitava all’infinito nelle vigne e riem­ piva del suo rumore la pianura, gridò quel nome; era una voluttà che quel nome risuonasse, dominasse le voci della natura livida e tormentata. Improvvisamente si ricordò la sua recente malattia;

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era tutto molle di pioggia; ah, soprattutto non voleva riammalarsi, non voleva morire prima del ritorno di Paola. Corse sotto l’acqua per non prendere freddo e arrivò con il fiato mozzo a casa sua. La nonna, contro sua abitudine, non era in casa; e con questo cattivo tem­ po... Che cos’era avvenuto d’insolito? Il giovane buttò nel fuoco una manciata di sterpi e i suoi abiti cominciarono ad asciugare. Allora soltanto vide un foglio sul quale erano scritte a matita poche parole. Riconobbe la calligrafia di Elisabetta: « Mia cara Maria, il signor Gornac ha avuto un at­ tacco abbastanza grave. Il dottore dice che questa volta ce la caveremo, ma il malato parla ancora con molta difficoltà ed è il vostro nome che ripete sempre. Quindi vi prego di venire. Per colmo di sventura quello sbadato di Pietro è caduto dalla terrazza; ha il viso sfigurato, ma non è niente di grave. Dite a Bob che desidero egli non si disturbi a venire qui. »

Quest’ultima frase era sottolineata; Pietro certamente aveva detto tutto alla madre... — Bah! La signora Gornac mi perdonerà! Anzi mi ha già perdonato... Udì gli zoccoli della nonna buttati con violenza per terra. Ella aprì la porta che fu ostruita un attimo dal suo enorme, gocciolante ombrello. — Hai letto? Lo chiamano attacco! Secondo me è un colpo, ha la bocca tutta storta, poveretto ! Era con­ tento di vedermi, ha pianto! Ritornerò a vegliarlo que­ sta notte. Tieni, la signora Elisabetta mi ha dato questa lettera per te. Pare che il signor Pietro sia caduto dalla terrazza ed ora è a letto con la testa fasciata... Alla sua età! E per colmo di sventura, anche la grandine! È pro­ prio una giornata disgraziata. Non mi meraviglierei che fosse la grandine ad avere tanto impressionato il pover’uomo. Non ha visto che era mista a pioggia, e che

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non poteva fare grandi danni. Ho guardato passando: l’uva non è toccata ma appena appena le foglie... Bob leggeva la lettera di Elisabetta:

« Ha agito come un bambino brutale, ma le concedo le circostanze attenuanti. Non potrò lasciare il capez­ zale di mio suocero né di giorno, né di notte; imma­ gino lei sappia perché la sua presenza in casa sia diven­ tata impossibile, per lo meno finché ci sarà Pietro, il quale però mi prega dirle che ha perdonato. Ho scritto a Paola stamattina, immagino che anche lei abbia scrit­ to... » No, non aveva neppure pensato a scrivere a Paola. Veramente, rifuggiva dallo scrivere perché sapeva che ella rideva dei suoi errori di grammatica. E poi, non sapeva esprimere i suoi sentimenti. Ma oggi si sentiva più eloquente. Entrò in camera sua e si mise a scrive­ re... Più tardi, Paola doveva amaramente pentirsi di non avere risposto a quella lettera. Eppure, Bob le rac­ contava il suo alterco con Pietro e come gli fosse stato vietato l’ingresso a Viridis; che la signora Gornac curava il suocero, insomma che era solo, senza più nessuno per aiutarlo. Paola voleva conoscere la sua vita segreta, farlo sof­ frire, provarlo, punirlo. Ma egli era di coloro che non accettano prove, non accettano castighi. Soffriva; pensava che se lei non si degnava neppure di rispondergli, sa­ rebbe stata una follia contare sul suo ritorno, e che non la rivedrebbe mai più... Passarono diversi giorni. Il caldo era tornato con il bel tempo. Fortunatamente Maria Lagave non lasciava quasi mai il capezzale del vecchio Gornac. Bob poteva ubriacarsi di sofferenza. A volte, nell’ora della siesta, quando, a persiane chiuse, il buio regnava nella sua stanza, gli sfuggivano dei lamenti, delle grida, che sof­ focava nel cuscino. Pure qualche speranza lo sosteneva

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ancora e l’unica sua occupazione era quella di spiare le automobili che passavano per la strada. Riconosceva da lontano la forza del motore e se sentiva una dieci cavalli si precipitava fuori. Anche l’alcool lo aiutava. Siccome non voleva allon­ tanarsi dalla casa (Paola poteva arrivare a tutte le ore) aveva comperato a Langon delle bottiglie di cognac e di kirsch che beveva appena appena diluiti in un po’ d’acqua. Quando era ubriaco si coricava sul letto, nell’ombra ronzante di mosche, balbettando e canterellando. Si rac­ contava delle favole; oppure, come a un bambino ma­ lato, descriveva a se stesso delle visioni che inventava, puerili e talvolta oscene. Era colmo di pietà per il pic­ colo Lagave e meravigliato che nessuno al mondo pen­ sasse a consolarlo. Avrebbe accettato di dormire contro qualunque spalla protettrice e si sussurrava: -— Povero Bob! Povero piccolo! Talvolta una collera improvvisa lo scagliava contro la donna amata: — Quella stupida, crede che non saprò vivere senza di lei! Faceva dei progetti, pensava ad invitare una delle sue amiche. Ebbene sì, morire, finirla, ma prima appro­ fittare di quello che ancora si possiede. E con quella facoltà particolare agli ubriachi di rispondere a un in­ terlocutore immaginario, diceva ad alta voce: — Sono perduto, voi dite? Perduto per perduto, vo­ glio ancora trarne un profitto. Ora vi faccio vedere io... Vedrete che cosa significa infischiarsi di tutti.

— A chi parla, Bob? Egli si sollevò e vide Elisabetta sulla soglia. — Com’è buio qui! Dormiva? Mio povero piccolo, lei sognava, lo vedo. Ma non ho potuto scegliere l’ora per venire a trovarla. Il nostro malato si è assopito. Ho detto a Maria che andavo a respirare un po’ d’aria. Ha ricevuto la lettera? No? Ma non stia in pensiero; non

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ha scritto neppure a me. Certamente verrà all’improv­ viso, un giorno o l’altro. E dove la riceverà? Può rice­ verla qui, visto che Maria è sempre in casa mia; e poi ci sono le strade di campagna, le vigne... Ah, sono tranquilla per lei... Ma che viso strano, Bob! Perché mi guarda senza parlare? Egli si era alzato. Elisabetta indovinò che era in ma­ niche di camicia, ma le persiane chiuse non lasciavano filtrare la luce. — Apro le finestre — ella disse. —- No, farebbe entrare il caldo. Venga a sedersi vi­ cino a me, sul letto, signora Gornac! — Non mi siedo, Bob, sono venuta di sfuggita. È curioso, non riconosco la sua voce; pronuncia le parole in uno strano modo. Lei è ancora addormentato... ra­ gazzo mio. — No, no, non sono addormentato... vorrei dimo­ strarle che non sono addormentato... Ella ebbe appena il tempo di gridare: — Che cosa fa? Ma è pazzo? Si sentì presa all’improvviso, stretta fra le braccia del giovane; sentì sul viso un fiato caldo d’alcool. Ma Bob era così barcollante che con uno strattone ella riu­ scì a liberarsi e a farlo cadere sul letto dove egli rimase spezzato e sghignazzante. Elisabetta andò all’uscio, sulla soglia si volse e disse: — Non le serbo rancore, perché ha bevuto. Egli trivialmente rispose: — Avrebbe potuto appro­ fittarne, sono sicuro che lo rimpiangerà. Ella non rispose che con una esclamazione indignata, e uscì sbattendo la porta. Bob la udì fuggire nel viale. — Se credi che ti corra dietro! Elisabetta attraversò la strada, entrò nella sua casa addormentata. C’era silenzio assoluto nella camera del malato; le restava ancora qualche minuto di riposo; andò nella sua stanza, vi si chiuse a chiave, si gettò sul letto, e potè finalmente piangere.

IX

Bob, l’indomani, ebbe vergogna della sua condotta e pensò di scrivere una lettera di scuse ad Elisabetta. Ma a che pro? Era il diciottesimo giorno dopo la partenza di Paola e nulla aveva più importanza per lui. Era in­ differente a ciò che poteva pensare di lui la signora Gornac. Era indifferente a tutto. Una cosa sola lo atti­ rava: far soffrire Paola, vendicarsi di Paola. — Mi rifarò — brontolava. Credeva di desiderare la presenza della fanciulla solo per il piacere di metterla alla porta. Nelle favole che si raccontava, Paola, ora, recitava una parte di umiliata. A volte egli usciva dalla sua camera, attraversava l’antica cucina adattata a salotto e la cui porta si apriva sul giardino, entrava nella stanza della nonna e vi si tratteneva a lungo. Tutta la casa gli apparteneva da quando Maria Lagave curava il vecchio Gornac. Ozioso come era, egli apriva i cassetti, assaggiava i dolciastri liquori di cui la nonna aveva la ricetta, rubava un can­ dito, una ciliegia sotto spirito e respirava, come nella sua infanzia, la vaniglia e il chiodo di garofano; cer­ cava nelle fotografie del seminario, insudiciate dalle mosche, fra quaranta teste rasate assiepate attorno a due preti scarni, il viso patito, lo sguardo vuoto di Agostino Lagave, poi si ributtava sul letto, e chiudeva gli occhi.

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Dormiva profondamente il giorno in cui Maria Lagave aprì la porta che richiuse in fretta per paura del caldo e delle mosche. Elisabetta le aveva detto che par­ lava troppo e che stancava il vecchio Gornac. Era una buona maniera per farle capire che disturbava. Non se lo farà ripetere due volte. Ma Elisabetta resterà con un palmo di naso quando il vecchio reclamerà Maria; egli preferiva essere curato da lei. Seduta su una seggiola bassa, nell’ombra della seconda cucina, ella sferruzzava, rimuginando i suoi motivi di rancore. Un rombo di motore svegliò Bob; egli riconobbe su­ bito una macchina potente, quindi senza interesse per lui, e richiuse gli occhi. Ma il rombo non si allonta­ nava, persisteva. Udì delle voci familiari. Si precipitò. Ebbe appena aperto la porta che il suo nome fu gridato da varie persone in abito sportivo sedute in una gran macchina impolverata. Maria Lagave, di cui Bob igno­ rava la presenza, era venuta anch’essa sulla soglia, ma rientrò presto nella seconda cucina quando si accorse che Bob faceva entrare in casa quei mostri. Furiosa, trat­ teneva il respiro, con l’orecchio incollato alla porta per ascoltare le esclamazioni - che del resto non compren­ deva - di quella gente. Erano quattro: due uomini e due donne. — Ci avevano indicato la prima casa in faccia al castello. — Ma la casa pareva chiusa, disabitata... E sei ap­ parso sulla soglia come l’angelo della resurrezione, sa, principessa, l’angelo in quel quadro di... di... — Ma Bob non ha affatto un bell’aspetto. In fondo non si sta bene che a Parigi. Abbiamo il coraggio di confessare che fuori di Parigi si sta malissimo... — A Biarritz, per esempio, si muore... Ora andiamo a Deauville in tre tappe... — Abbiamo tante cose da dirti, Bob! Sai che Isabella divorzia? Una storia inaudita! divorzia per quel russo, naturalmente. E il marito in questa faccenda pare che...

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— No! — Si ha un bell’essere emancipati, ma c’è un limite a tutto... Oh... che bel mobile... adoro i mobili di cam­ pagna. E quella poltrona, che bella! — I contadini delle Lande, hanno del gusto! — ...allora il padre ha detto ai figli... «o non ve­ drete più vostra madre o non riceverete più un soldo da me ». — E naturalmente, hanno rinunciato a vedere la madre... -— Precisamente. Si dice che lei sia disperata e che morirà di dolore... — Ebbene, se morirà, i figli erediteranno anche da lei... — La madre della duchessa era americana o ebrea? — Americana ed ebrea; quindi accumulava. — È curioso, però, come si faccia notare. — Sì, grazie a quella sua voce da alcoolizzata. — Ma no, ha semplicemente una voce maschia. — Pazienza avesse soltanto la voce... — No? Crede? Non l’avevo mai sentito dire... — Ma se tutti lo sanno! — E io che la credevo in relazione con Deodat! — Ah ! questa è storia antica. A proposito sai che Deodat ha avuto un attacco apoplettico? Adesso cam­ mina al rallentatore: è una cosa da morire dal ridere, seguita a ricevere e pare che dietro le sue spalle i figli imitino il suo passo! — Ah che cosa orribile! — Sarebbe una cosa orribile se fossero i suoi veri figli! Maria Lagave, in ascolto, non capiva niente di quei discorsi, pure sapeva che dietro la sua porta del fango fermentava. Malediceva in cuor suo il nipote che aveva aperto la casa a quelle donnacce di Parigi. Perché face­ vano tanto rumore ora? Che cosa stavano ancora inven­ tando ? — Dei cocktail qui? 8.

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— Ma sì, ho tutto il necessario, lo shaker è nell’au­ tomobile. — E il ghiaccio? — I miei vicini, i Gornac, hanno la ghiacciaia: sono ben visto dai domestici; aspettate due minuti, vado e torno. — Chiedi anche dei limoni, Bob! Maria vide, dalle persiane socchiuse, Bob che attra­ versava la strada. Un giovanotto alto, senza giacca, con la testa e il petto nudi, prendeva dall’automobile delle bottiglie. — Gin! Vermouth! Angustura! -— gridò rientrando. E approfittarono della breve assenza di Bob. — Ha una brutta cera, non vi pare? — Eppure non ci sarà nessuno a stancarlo, qui! Maria non udì una frase detta a bassa voce ma che suscitò le proteste della principessa: — No, Alano: siete ignobile. — Conoscete il padre? Guardatelo qui, in questa fotografia. Oh che buffo ! Quanto mi piacciono i suoi occhiali e questo nastro rosso largo due palmi. — Bob è certamente molto malato, non vi pare? — Ha sempre il suo fascino però... — Il fascino di quelli che sono vicini a finire... — I resti di un fuoco di paglia... — Attenti ! Eccolo ! Risuonò la voce eccitata di Bob: — Basterà questo ghiaccio? Che felicità, bere dei cocktail ! — Aspetta, vado a cercare il grammofono... Ma sì, abbiamo anche il grammofono. Non viaggiamo mai sen­ za. Durante le « panne » per la strada, suoniamo e bal­ liamo. Maria vide attraverso il buco della serratura Bob che agitava tra le mani un tubo di metallo. — Che disco suoniamo? — Certain Feeling!

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— No, quello che piaceva tanto a Bob: Sometimes I’m happy. Ora ballavano al suono di una musica selvaggia. Ap­ pena se ne fossero andati via, Maria Lagave avrebbe bruciato dello zucchero e lavato a grandi secchi d’acqua il pavimento. In quanto a Bob, troverebbe lei il modo di togliergli la voglia di ricominciare. La voce del ragazzo domina le altre. La principessa dice: — Basta, Bob, ne ha già bevuti quattro... — Ne approfitto perché dopo la vostra partenza, ad­ dio cocktail ! — E vieni con noi ! — Ma sì, se ti rapissimo? Sarebbe una cosa simpa­ tica... Ricordi quella sera, uscendo dal « Boeuf », quando ci siamo decisi ad andare a Rouen e siamo partiti alle due del mattino, in abito da sera? — Oh Bob, venga con noi: Deauville le gioverà più di questo soggiorno. La conosco; lei ha bisogno di di­ vertimenti, per non morire. — Mi dia ancora un cocktail e sono capace di accet­ tare... E se la prendessi alla parola?... Fuir, là-bas, fuir! Un nuovo disco girò sul grammofono. Maria Lagave udì un frastuono di seggiole rovesciate. Bob gridò: — Mi porto una valigia, e la mia trousse.

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Bob non si era neppure curato di lasciare una lettera per la nonna. Delle sigarette bruciavano ancora in un posacenere. Maria Lagave credette vedere sul tappeto delle tracce di sangue: non era che rossetto pestato. Mal­ grado il caldo, ella aprì le imposte: quell’atmosfera gre­ ve di profumo e di tabacco la nauseava. — Buon viaggio — brontolò — vada pure a farsi impiccare altrove! L’unico suo pensiero era il figlio Agostino. Era ne­ cessario telegrafargli? E benché fosse decisa a non andar più al castello, vi si precipitò, impaziente di annunciare la notizia della fuga di Bob alla signora Gornac - forse con l’oscuro, maligno bisogno di veder soffrire. Per quel tanto che Maria riuscì a vedere, nella pe­ nombra della stanza dove era assopito il vecchio Gornac, Elisabetta parve più stupita che commossa, e senza mutar viso, disse con la sua calma voce: -—- Avete fatto tutto ciò che avete potuto, mia povera Maria!... Com’è·possibile salvare la gente quando non ci aiuta in nulla? Ma sì... telegrafate al padre: tocca a lui prendere una decisione. Era una tranquillità sincera. Appena Maria se ne fu andata, Elisabetta, seduta sulla sua poltrona ricoperta di seta nera, restò attenta al dondolio del pendolo, al re­

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spiro dell’ammalato assopito, al ronzio di una mosca. Si aspettava di soffrire? Come dopo una caduta, si tastava. Ma no: non soffriva; forse, invece, si sentiva più leggera, come liberata da un peso. Ecco che quel ragazzo del quale era stata la complice e che ieri aveva osato... (a questo pensiero fece una smorfia, crollò il capo) scompariva di colpo. Non avrebbe più nessuna preoccupazione per lui. Erano finite quelle sciocchezze di cui, da troppi giorni, si occupava. Rientrava nell’or­ dine, nella verità della vita, provando soltanto l’umilia­ zione di avere recitata una parte, in quella faccenda d’amore, un po’ losca, e di essere stata, un attimo, l’og­ getto di un desiderio brutale... Ma come Bob l'aveva trattata con scherno ! Credeva ancora di udirne la voce arrochita : « Farebbe bene ad approfittarne... » Elisabetta si alza, e a passi felpati si avvicina alla finestra, socchiude le imposte. Il tramonto fiammeggia e lontano dormono ancora le vigne. Elisabetta non si sente triste; ma, come il paese le appare improvvisa­ mente vuoto ! Quale oceano sconosciuto si è ritirato da questa pianura perché le sembri come il fondo di un mare, come un’immensa arena vuota? Il vento fresco agita le foglie appassite dal caldo: ha piovuto, in qual­ che luogo. Elisabetta lascia le persiane aperte e pensa a Dio. Ella crede senza sforzo ai colpi di scena regolati con cura dall’Essere Supremo nel destino di ogni uomo. “Siete voi, o Signore, che mi avete liberata da quella cattiva presenza.” E prega con un fervore di cui non si credeva capace - terra ammollita dall’uragano - abituata com’è alle sue manifestazioni religiose un po’ aride e senza conforto. Prega e improvvisamente si sente osservata: il vecchio Gornac fissa su di lei le sue pupille vitree, cerchiate dal­ le palpebre rosse: — Mi sono riposato: non soffro più. Fa meno caldo, vero ? Se piovesse, la vigna ne godrebbe !

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— Perché non mi hai detto che non dormivi più? Ti avrei letto il giornale, papà. — Non mi annoio, io, figliola cara. Guardavo quelle fotografie appese al muro: mia madre, mia moglie, i miei due figli... Non ci sono più che io, vivo, in questa fa­ miglia... Parlava con un’insolita gravità. Era forse la prima volta che delle preoccupazioni d’affari non prendevano tutto il suo pensiero. — Se mi alzerò ancora... — Ma sì, papà, sei entrato in convalescenza... — Se mi alzerò ancora voglio tornare alla fattoria del Bos e all’Ospizio di Langon. Voglio rivedere un’ul­ tima volta i luoghi dove sono stato bambino, dove ho visto felici i miei genitori e dove i miei figli passavano le vacanze. Prima di tornare alla terra... — Vuoi dire presso Dio... — Peuh! Peuh! E non parla più, ripreso da quel sonno la cui fre­ quenza inquieta il dottore. Pure, ode la campana del pranzo : — Puoi scendere, Elisabetta : non ho bisogno di niente. Pietro aspettava la madre in sala da pranzo. Era stato avvertito della partenza di Bob? Osservava la madre di sfuggita. Ella gli chiese che cosa aveva fatto durante il pomeriggio; egli rispose che aveva lavorato al suo studio sull’abate de Foucauld. La conversazione si stabilì fra di loro più animata del solito. Per quanto Elisabetta non fosse troppo attenta alle parole del figlio, pure, più tar­ di, dovette ricordare una riflessione che egli fece, quella sera : « L’apostolato nel paese dei Tuareg è meraviglioso, per coloro che non sanno difendere la causa altrove e la rendono odiosa. In pieno deserto non c’è niente da tentare : basta pregare e soffrire. Quasi tutti possono fare questo... » Sempre dei propositi edificanti ! Elisabetta si sforza

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a non esserne annoiata. “Bisogna pur convenire” ella pensa “che questo irritante ragazzo abbia delle virtù, per rinunciare a ogni vendetta dopo quel pugno ! ” Si rim­ provera di non ammirarlo! Dove sarà Bob a quest’ora? Immagina una camera d’albergo, un letto con le len­ zuola spiegazzate. Il pranzo, ora, indugiava nel silenzio. Dalla finestra aperta, la madre e il figlio videro passare i buoi avvolti dall’alone rosso del sole già tanto basso sull’orizzonte che ben presto le vigne lo nascosero. Crediamo che un essere sia scomparso dalla nostra vita; sigilliamo sul ricordo di lui una pietra senza epi­ taffio; lo abbandoniamo inerte alla corrente dell’oblio, rientrando con il cuore libèro nella corrente della nostra vita abituale : tutto è come se egli non fosse mai stato. Ma non è in nostro potere la facoltà di cancellare una traccia. Le impronte dell’uomo sull’uomo sono eterne, e nessun destino ha mai attraversato impunemente il nostro. L’indomani stesso del giorno in cui Elisabetta si era sentita così felice di non soffrire nell’apprendere la no­ tizia della partenza del piccolo Lagave, l’automobile gui­ data da Paola Della Sesque si fermò, verso le quattro, davanti al cancello di Viridis. E quella notizia che Eli­ sabetta aveva ricevuto senza un’emozione, la disse con voce tremante a Paola. Il cuore della donna matura pal­ pita al pari di quello della fanciulla; e introducendola in salotto le rivolge già delle ansiose domande, dei rim­ proveri. Perché aveva tanto tardato a venire? Bastava che avesse scritto una cartolina perché il ragazzo si tran­ quillizzasse e aspettasse. Aveva fatto di tutto per con­ durlo all’esasperazione. Come raggiungerlo, ora? Dei pazzi erano intervenuti e l’avevano portato chissà dove. Egli era fuggito. Paola non risponde, resta in piedi, con le braccia inerti, il viso chiuso. — Aspettavo delle lettere da Parigi — disse final­ mente. — L’ultima mi è arrivata soltanto ieri.

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Elisabetta alzò le spalle. A che cosa conduceva, quella specie di inchiesta? Ma Paola disse che non rimpian­ geva niente. Benché fosse pronta a sapere delle cose brutte, le informazioni ricevute superavano i suoi timori. Era stata ingiusta con Pietro, e pregava la signora Gornac di dirglielo. Sì, Pietro l’aveva salvata. — Salvata? Eppure, lei è ritornata... è tornata troppo tardi, ma ad ogni modo, eccola qui. Il cielo era grigio, pioveva in collina; nel salotto buio le due donne non potevano spiare le onde dei senti­ menti sui loro visi. — Sono tornata -— disse Paola dopo essersi seduta su una poltrona, con le spalle alla luce — perché non posso rinunciare a lui. — E allora? Non la capisco più, bambina mia... — Non mi capisce perché è di un’altra generazione, di un’altra epoca, signora. Del resto anch’io ho fatto fatica a rinnegare i pregiudizi che mia madre mi aveva inculcati. E forse non sarei riuscita a rinnegarli senza l’aiuto di un’amica che ho trovato ad Arcachon... La fanciulla parlava esitando, ma con una voce dura. — Per quale ragione — diceva -— rinunciare a un uomo soltanto perché non è degno di essere sposato ? Il matrimonio è una cosa e l’amore è un’altra. — Oh, bambina mia, non si vergogna di questi pro­ positi? Stia zitta: non dica delle enormità! — Dico quello che penso, signora... — Ed è questo che lei è venuta a proporre a Bob? Se lo credessi, mi rallegrerei della sua partenza. Egli che ammira lei sola, avrebbe perduta la sua ultima illu­ sione. Mi pare di sentire la sua voce: «Colei che io mettevo tanto in alto è peggiore delle altre!...». — Lo conosco meglio di lei, signora: sarà contento di sapere che mi sono “emancipata”, come dice egli stesso. —- Ed io sono sicura che egli ama in lei, forse senza saperlo, una purezza, una limpidezza!... La fanciulla si alzò, si rimise i guanti: soltanto in quel

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momento le due donne si accorsero che pioveva, senti­ rono l’odore della terra bagnata. -— Non aspetta che la pioggia cessi? — In automobile sono al riparo... Mi avvertirà, si­ gnora, se avrà sue notizie, se ritornerà? — No, bambina mia, non conti più su di me. Posso essere stata la complice di due fidanzati, ma non quella di... Perché ride? — Perché era meno severa, qualche tempo fa, duran­ te la mia prima visita. Parlava dell’amore come una donna che lo conosce. Elisabetta prese la fanciulla per un braccio e la guar­ dò: -—· Che cosa vuole insinuare? — Ma niente, signora. Oh, le rendo giustizia: ha dato prova di un ammirevole disinteresse, non si potreb­ be certo dire che lei ha lavorato a suo vantaggio... ma... ma... -— Ma, che cosa? — Ebbene, immagino che alla sua età, il disinteresse sia l’unica forma dell’amore. Pallidissima, Elisabetta ebbe appena la forza di gri­ dare: — Lei è pazza, la prego di uscire... E aprì la porta. Paola non si scusò. Si era liberata delle parole che da tempo voleva dire a quella vecchia. Non le sarebbe difficile raggiungere Bob. Gli scriverebbe una lettera che gli farebbero pervenire a Parigi... Le due donne si salutarono con un breve cenno osti­ le. Elisabetta guardò allontanarsi l’automobile sotto la pioggia, rientrò in salotto; stette in ascolto ma non per­ cepì alcun rumore; il vecchio Gornac certamente dormi­ va. Si sedette vicino alla finestra e disse ad alta voce : — Che sudiceria ! Come era ancora impantanata nel fango di quell’in­ trigo d’amore! Riuscirebbe mai a liberarne il suo spirito malato? Ma perché no? Con il piccolo Lagave, scom­

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pativa per sempre anche Paola. Tutto rientrava nell’or­ dine. Le rimaneva da fare lo sforzo lieve di ritrovare il ritmo delle sue abitudini quotidiane, dei suoi crucci, delle sue preghiere. E prima di tutto, doveva impe­ dirsi l’inerzia, essere sempre attiva, occupata. Salì nella stanza di Giovanni Gornac, lo trovò in ve­ ste da camera seduto davanti a un tavolo coperto di libri di conti. Gli disse di non stancarsi; egli fece il gesto impaziente dell'uomo che non vuole essere disturbato mentre fa una somma. Allora ella scese ancora in sa­ lotto, si sedette di nuovo vicino alla finestra, aprì il suo cesto da lavoro. Faceva istintivamente tutti i gesti della sua vita solita, come se avessero dovuto suscitare in lei la tranquillità, il torpore spirituale che, prima, avvolge­ vano le sue abitudini. Ma invano: non soffriva, ma si annoiava. Come le pareva vuota la sua vita che aveva sempre giudicata intensa! Ella che si lamentava sempre di non sapere come regolare il tempo fra le sue mille occupazioni, si trovava, tutto a un tratto, a non sapere più che cosa fare. “Non mi occupo più di niente” pensò. Sì, ma tutto procedeva bene come al tempo in cui sor­ vegliava la cantina, il pollaio, i fornelli, la lavanderia. Vide dalla finestra venire verso casa, sotto il mede­ simo ombrello, Pietro e il curato di Viridis, immersi in una discussione. Si alzò e si ritirò in camera sua per non farsi vedere.

Seguirono giorni di pioggia. Elisabetta non ebbe presentimenti. In nessuna ora della notte fu svegliata da un urto oscuro e misterioso. Ella non vide, in sogno, degli uomini correre su una strada chiazzata di pozzanghere, verso un’automobile rovesciata e in fiamme. Non udì quell’urlo di bestia ferita; non riconobbe, alla luce dei resti della macchina incendiata, quel corpo sanguinante, quel viso informe, quelle mani nere.

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Brillò nuovamente il sole. Ma un vento" più fresco asciugava le strade. Giovanni Gornac cominciava ad uscire. Pietro lo evitava il più possibile. Passeggiava a lenti passi nei viali, immerso nella lettura di un libro. A volte si fermava e prendeva degli appunti. Arrivò finalmente quel giorno. Maria Lagave entrò nel salotto dei Gornac, dopo il pranzo, nel momento in cui Elisabetta versava il caffè nella tazza di Pietro. Al rumore della porta aperta, il vecchio Gornac, che sonnecchiava sul suo giornale, alzò il capo. Maria aveva in mano una lettera, la tese ad Elisabetta senza dire pa­ rola e per tutto il tempo che durò la lettura non distolse gli occhi da lei. Elisabetta sussurrò: — Mio Dio! Che cosa orribile! Le sue mani tremavano. Diede la lettera al figlio: — Non riesco a decifrare bene la calligrafia'di Ago­ stino. Leggi tu... Sedete, mia povera Maria. E si allontanò dalla finestra, si appoggiò al muro, re­ stò nell’ombra. Pietro leggeva ad alta voce la lettera di Agostino Lagave. « Mentre io lo credevo in casa tua, mia cara mamma, egli era fuggito e viaggiava con degli avventurieri. Dal risultato dell’inchiesta, pare che egli non abbia visto il passaggio a livello chiuso, perché era ubriaco. Il contachilometri segnava una velocità di centoventi l’ora. Ti scrivo queste cose pieno di vergogna. Quel disgraziato, ahimè, ha fatto una fine uguale alla sua vita. Tu ed io potremo sempre consolarci pensando che abbiamo fatto, in quello che ci era possibile, il nostro dovere. La mia vita onesta e laboriosa non gli sarà stata di alcun esem­ pio; ma dalla mia coscienza non ho rimproveri. I resti del suo corpo, quasi interamente carbonizzato, sono stati chiusi in un feretro piombato. Considerata la stagione e l’assenza, per le vacanze, di molti dei miei superiori e dipendenti, a Parigi non ci sarà che una brevissima ce­ rimonia. Il Ministro mi ha fatto le sue condoglianze e

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sono certo che manderà un suo rappresentante alle ese­ quie. Ho deciso che il corpo di mio figlio sarà tumulato nel cimitero di Viridis, malgrado il prezzo esorbitante del trasporto. Arriverò con lui, giovedì mattina. Tu non occuparti di nulla. Pensa a tutto l'Impresa B... Fi­ nora non ho da rivolgere che delle lodi alla perfetta dignità degli agenti di questa importante amministra­ zione. Le spese, ti ripeto, sono gravi. Ma non rimpian­ go quest'ultimo gesto, dopo tanti altri, in favore di un ragazzo che non mi ha mai ringraziato dei sacrifici che ho fatto per lui. Non ti descrivo il dolore di Ortensia. Ho tentato invano di consolarla dicendole che se fosse vissuto, il nostro Roberto sarebbe stato - volendo fare gli ottimisti - un fallito. Queste considerazioni, per quanto ragionevoli non hanno fatto che irritarla. Inchi­ niamoci davanti al dolore di una madre e aspettiamo che il tempo svolga la sua opera di buon medico. Non ci sarà, a Langon, nessuna cerimonia, ma soltanto il tra­ sporto della salma. Previeni la famiglia Gornac. Con tristezza mi ricordo teneramente a te. » Il vecchio Gornac si alzò, abbracciò Maria: —· Oh, mia povera Maria, non è giusto che i giova­ ni se ne vadano prima di noi. —· La madre soltanto è da compiangere. Per lui, po­ vero ragazzo, è meglio così, forse. Non avrebbe mai fatto niente di buono. Non sappiamo che cosa avrebbe fatto della sua vita. — Com’è terribile una morte così improvvisa! — disse Pietro. — Non deve avere avuto il tempo di ria­ versi, di capire. Dovremo pregare molto per lui. — Ma queste automobili! — gridò Giovanni Gornac — centoventi all’ora! Bisogna proprio dire che si vuo­ le la morte a tutti i costi. Elisabetta non parlò. Si staccò dal muro al quale era appoggiata, uscì dall’ombra e, dopo avere abbracciato Maria, si sedette sul divano. Pietro camminava nella stanza facendo scricchiolare le dita. L’angoscia comin-

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dava a zampillare in lui: “Se io non avessi parlato, il piccolo Lagave non sarebbe partito, vivrebbe ancora; sono responsabile della sua morte — della sua morte senza pentimento”. Uscì dal salotto e andò in fondo al giardino, portan­ do il peso di questo pensiero, come una preda. Il vecchio Gornac disse a Maria che le farebbe bene camminare un poco e ch’egli l’accompagnava. I due vec­ chi uscirono a braccetto, egli curvo, lei diritta ancora. Elisabetta restò sola, immobile, seduta sul divano, le mani sulle ginocchia. Quando Pietro rientrò, ella era ancora allo stesso posto, nella stessa attitudine. Il gio­ vane ricominciò a camminare nella stanza: — Credi che io sia responsabile, mamma? È spaven­ toso portare il peso di questo pensiero! Capisco che per fare del male è necessario prima di tutto averne l’intenzione. La mia intenzione era diritta e sana, almeno in apparenza. Però, lo debbo confessare, il piccolo Lagave mi ha sempre esasperato... È vero che si trattava di illu­ minare quella fanciulla: era un dovere. Non parli, mam­ ma? Mi condanni? Ella rispose indifferente: — Ma no, ragazzo mio. Pietro continuò a passeggiare urtando le poltrone, sen­ za interrompere il flusso dei suoi pensieri. Diceva che una cosa sola lo consolava: si poteva far molto per i morti, e fino al suo ultimo respiro, in tutte le sue preghiere e le sue comunioni, pregherebbe per la salvezza del piccolo Lagave. Soggiunse, dopo un si­ lenzio : — Povero ragazzo ! Immagino ciò che sarà stata la cerimonia di stamattina nella chiesa di San Francesco Saverio, in questi primi giorni di settembre...

Immaginava la chiesa vuota, i preti frettolosi. Non immaginava certamente lo stupore che ebbe lo stesso Agostino Lagave - il quale prevedendo il vuoto della chiesa aveva inviato l’annuncio della morte di Bob ai

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superiori e dipendenti che sapeva a Parigi in quella stagione — vedendo arrivare, qualche ora prima delle esequie, dei fasci e delle corone di fiori. Erano corone quasi tutte di rose, ma di ogni specie conosciuta. Il fe­ retro ne fu interamente coperto, l’anticamera invasa, e siccome ne arrivavano sempre, dovettero appoggiarle contro il muro della casa, sul marciapiede, al livello della fogna e tra le immondezze della strada. Il rappre­ sentante dell’Impresa si lamentava di non essere stato av­ vertito e mandò in tutta fretta a cercare un carro. Nessun biglietto da visita, nessun nome, c’era su queste corone. “Come era amato!” pensava la signora Lagave pian­ gendo. Ma non osava dirlo ad Agostino, che il profumo dei fiori indisponeva più del cadavere. Era l’ultimo soffio di un paese estraneo, dove un infelice ragazzo aveva conosciuto la scienza delle peggiori soddisfazioni e del più semplice amore. Quando il corteo si mosse, il padre udì una donna che diceva: — È certamente un’attrice... Agostino Lagave camminava diritto e rigido tra i mu­ ri infuocati delle case. I sussulti del carro agitavano, davanti a lui, le rose. La chiesa non era vuota, ed egli n’ebbe a tutta prima una piccola soddisfazione; ma gli furono tese poche mani. All’infuori dei suoi colleghi, molti dei presenti - che vedeva per la prima volta - si accontentarono di inchinare appena la testa. Molti visi erano bagnati di lacrime. Molte persone scomparvero senza passare davanti a lui.

— A che cosa pensi, mamma? Elisabetta trasalì, come un bambino colto in fallo e si alzò: — A niente, caro... a quello che mi dicevi. Certa­ mente, hai agito come ti dettava la tua coscienza. La sua voce era amorfa. E avendole Pietro proposto di andare in chiesa, ella non fece obiezioni, mise il cap­ pello e i guanti, prese un parasole. Si incamminarono

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attraverso gli orti e le vigne, senza dire una parola. La chiesa di Viridis era buia. Pietro si inginocchiò, chiuse la testa fra le mani. Elisabetta, anch’essa in ginocchio, guardava fissamente l’altare, ma le sue labbra non si muovevano per nessuna preghiera. Con un’espressione dura sul viso sempre sereno, ella non distoglieva gli oc­ chi dal tabernacolo e dalla nera Madonna che lo domi­ na, vestita di un abito rosso ricamato in oro. L’orologio batteva in quella solitudine, in quel vuoto. Con lo stesso gesto di quando era bambino, Pietro sedette e interrogò con uno sguardo la madre per vedere se aveva finito la sua preghiera. Ella si alzò ed egli la seguì. Prese l’acqua benedetta che il figlio le porgeva, ma non fece il segno della croce. Fuori, nel tramonto di quella bella giornata, essi constatarono che le sere erano più fresche. Pietro osservò che la settimana passata non avrebbero potuto andare in chiesa e tornare a casa a piedi. Parlarono di cose indifferenti : il giovane propose alla madre di an­ dare a fare una visita a Maria: — Sarebbe opportuno e gentile. Ella rifiutò con una vivacità che lo stupì. Quella sera passò come tutte le altre. Non c’era nulla di insolito nell’attitudine di Elisabetta, ma ella non la­ vorava e le sue mani erano inerti e inattive, come alla domenica, sulle sue ginocchia. Il vecchio Gornac si era addormentato, senza finire la lettura del suo giornale. Si udiva, dalla finestra aperta, il passo di Pietro nel giar­ dino: certamente rimuginava i suoi scrupoli e i suoi dub­ bi su quella morte; forse pensava a quella notte, ancora così recente, quando nell’erba dove i suoi passi fanno tacere i grilli una fronte, oggi ghiacciata, riposava sul seno di una fanciulla felice. Una fronte agghiacciata per sempre; - per sempre inerte anche la mano che lo aveva colpito. Egli non riusciva a soffocare questa gioia insidiosa: l’uomo che mi ha colpito al viso non vive più. “Ed io che mi volevo convincere di averlo perdo­ nato! Avevo soltanto preso l’aspetto di chi perdona, avevo fatto il gesto di misericordia, ma nessun senti­

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mento era nobile e sincero nel mio cuore. La carità non è in me che un abito esteriore, un travestimento. Le mie passioni ne sono appena deformate. Vivono mascherate dalla mia fede, ma vivono.” Il senso pratico degli esseri portati alla vita mistica induce Pietro ad approfittare di questa scoperta per nutrirne la sua umiltà. È difficile al cristiano il non vedersi migliore degli altri! Pietro si accanisce a misurare in sé l’atroce gioia provata alla morte di Bob. Immobile sotto le fronde nere, rivolge contro di sé il suo furore. Il suo piacere è quello di ripetersi : “Bob era migliore di me perché viveva a viso sco­ perto, sincero.” Si esalta, acquistando la certezza di es­ sere l’ultimo degli uomini, ma anche pensando che la­ vora, per il fatto di questa certezza, al suo migliora­ mento. Tutto serve a chi vive in Dio. All’ora solita, la famiglia Gornac si ritirò nelle pro­ prie camere. Elisabetta, chiusa nella sua stanza, restò calma come in presenza del suocero e del figlio, si af­ facciò alla finestra, guardò nell’ombra e disse ad alta voce: — È morto. Ma queste parole non svegliarono in lei nessuna eco. La candela rischiarava appena la vasta camera. Appoggiò la fronte alla lastra dello specchio, poi si guardò attentamente. E parlando a quella donna grassa, pallida e corretta, riflessa nel cristallo, ripetè, ancora, con voce indifferente: — È morto, è morto, è morto! Non disse le solite preghiere, si coricò, chiuse gli oc­ chi nel buio. Si addormentava leggermente, si risveglia­ va, parlava a Bob: — Ella non vale più delle altre... Non la sposerà. Sorrideva aspra e beffarda, credeva di dormire, ma udiva il fruscio delle foglie nel giardino, il grande, inin­ terrotto mormorio dei prati.

XI

L’indomani mattina, alle nove, Pietro raggiunse la ma­ dre in salotto e le disse che la famiglia Lagave era arri­ vata. Egli aveva appena allora accompagnato da Maria il nonno, il quale voleva che non lo aspettassero a pran­ zo perché contava rimanere tutto il giorno con Agostino. Il corpo era anch’esso arrivato, ed era stato deposto nella chiesa di Langon. Non vi sarebbe cerimonia a Vi­ ridis. Elisabetta chiese: — Quale corpo ? — Ma via, mamma, lo sai pure, quello del piccolo Lagave... — Il corpo del piccolo Lagave? Pietro strinse il capo della madre tra le mani e la guardò attentamente negli occhi. — A che cosa pensi, mamma? — Ma, a nulla... — Avevi la mente lontana? Ascolta: sarebbe oppor­ tuno andare a pregare in chiesa, vicino al feretro. Pare che la mamma del ragazzo non Γ abbandoni un istante. Al ritorno faremo una visita di dovere a Maria. Pietro parlava con strana franchezza, come se improv­ visamente si fosse liberato di tutti i suoi scrupoli. Aven­ do la madre acconsentito con un gesto, egli fece attac­ care la vettura. Appena fu seduto in carrozza, accanto a lei, le disse:

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-— Ho una buona notizia che ti darà la stessa gioia che ha procurato a me. Sì, me l’ha data Agostino Lagave il quale, del resto, non presta alla cosa nessuna impor­ tanza... Ebbene, ecco: Roberto non è morto sul colpo... — Non è morto?... — £ stato in agonia per due ore e anche più; ha capito di morire, perché un quarto d’ora prima dell’ul­ timo respiro ha ripreso conoscenza. Lo hanno traspor­ tato nella casa più vicina... e sai quale era la casa? Il presbiterio! È morto fra le braccia di un povero curato di campagna, il quale ha scritto una bellissima lettera ai genitori. Agostino me l’ha fatta leggere; c’è fra le altre, questa frase: « Suo figlio ha reso l’anima a Dio, in sentimenti di pentimento e di fede, felice di soffrire e di morire... ». Come Dio è buono, mamma! Ecco come tutto si illumina. Egli prese la mano di Elisabetta, la strinse, siccome la sua immobilità era rotta soltanto da un moto imper­ cettibile delle labbra, credette che pregasse e rispettò il suo raccoglimento. Era felice di provare un senso di gioia sapendo assicurata ai suo nemico la salvezza spi­ rituale. Ora, non dubitava più di esserne stato l’indegno ed indiretto strumento. La giornata era grigia, l’atmosfera pesante, ma nes­ sun temporale ammassava nubi all’orizzonte. La polvere che sporcava l’erba delle prode non aderiva alla vigna già bianca di solfato. La vettura discendeva verso la Garonna. Pietro, incapace di stare fermo un minuto, si fregava le mani, se le passava sul viso. — È curioso — disse — sento ancora le cicatrici del colpo che mi ha dato. Vide volgersi verso di lui il pallido viso della madre la quale lo considerò, per la prima volta da due giorni, con attenzione, e si tolse un guanto, alzò la piccola ma­ no grassa, toccò, quasi a volerle guarire completamente, le cicatrici. Poi, la mano ricadde. Ma Elisabetta appari­ va, ora, meno rigida, il suo petto si sollevava al ritmo

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del respiro, guardava attentamente la grigia pianura. Era il tempo in cui, dopo le gravi opere dei campi, gli uo­ mini riposano affidando l’uva al sole perché la maturi. Muto si stendeva il grande paese vuoto come il fondo di un mare dal quale qualcuno era per sempre sconv parso. Il cavallo attraversò la Garonna a guado. Pietro disse: — Come è bassa l’acqua! La chiesa era all’inizio del ponte. La signora Gornac scese dalla vettura e disse la frase solita: — Mettete il cavallo all’ombra. Entrò con il figlio nella chiesa fredda e nera. Pietro le toccò un braccio: — È nella navata di destra... — sussurrò. Ella lo seguì. Sotto un drappo nero, c’era una cassa rigida e lunga messa su due cavalletti; e contro di essa una forma avvolta nei veli da lutto - la madre - era prostrata con la fronte quasi appoggiata alle ginocchia. Pietro, in ginocchio, si meravigliò nel vedere che Eli­ sabetta rimaneva in piedi con le mani appoggiate allo schienale di una sedia, il viso rilassato. Ma improvvisa­ mente udì un grido rauco, la vide fremere tutta e poi cadere singhiozzante, senza respiro, le spalle squassate, come colpita da un urto. La chiesa deserta ripercuoteva l’eco dei pesanti singhiozzi. Ella non asciugava il pianto sul suo viso disfatto; con una mano si era scomposta l’onda tranquilla dei capelli sulla fronte, e una ciocca grigia, pendula, la faceva disordinata e ambigua. Pietro le diceva invano di appoggiarsi al suo braccio e di usci­ re; ella pareva non vedere e non udire. Egli sorvegliava con occhio furtivo la porta; grazie al cielo non v’era nella chiesa altri che la salma e quella forma prostrata ed inerte. Da un momento all’altro però poteva entrare qualcuno. — Vieni mamma, non restiamo più qui. Ma sorda, immemore, ella tendeva le braccia verso il feretro, balbettava delle parole informi, invocava quel misero corpo:

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— Sei tu, sei tu...! Pietro non tentava più di portarla via. Con i denti serrati, aspettava la fine del suo supplizio. Quella donna disperata era sua madre. Aveva l’aspetto di una bestia ferita, buttata a terra su un fianco, ansante. Ma già il suo dolore si quietava, e se qualcuno fosse entrato ora, ella non avrebbe dato scandalo. Come dopo il folgorar dei lampi e il rombo dei tuoni la pioggia sola crepita, di quel terribile dolore non erano più per­ cettibili che i sospiri e quelle lacrime fitte — lacrime più abbondanti, in quei pochi minuti, di tutte quelle che Elisabetta avesse versate fino ad oggi. Vedendola più calma Pietro uscì, ordinò al cocchiere di abbassare il mantice della carrozza: la signora era un po’ indisposta, aveva una delle emicranie che tutti sapevano esserle so­ lite. Poi ritornò accanto alla madre, le rinfrescò gli occhi con il suo fazzoletto bagnato di acqua benedetta e la condusse in vettura. Non c’era nessuno all’uscita e il cocchiere già seduto a cassetta si voltò appena. Dei brividi spezzavano ancora il corpo di Elisabetta, ma ella non piangeva più. Pietro riconobbe a fatica il suo viso: le guance erano incavate, il mento appesantito e un cerchio livido le ingrandiva straordinariamente gli occhi. Ella lo allontanò da sé ed egli credette che lo ritenesse responsabile di quella morte. Ma ella lo respin­ geva come avrebbe respinto qualunque essere vivente. Dal suo sconvolgimento profondo sorgeva alla luce quell’amore nascosto nella sua carne, e che ella, ignara, aveva portato in sé, come una donna incinta il germe vitale. Il cavallo camminava al passo, lungo la salita che con­ duce a Viridis. Ella si ricordò di avere visto, un giorno, Bob bambino, in quel punto della strada, e ricominciò a piangere. Ricordava: il bambino tornava dal fiume te­ nendo in una mano il costume da bagno molle di acqua e mordendo felice un grappolo d’uva nera. Pietro non osava guardarla. La vita era davvero orribile - egli pen­ sava — ed era stanchissimo di vivere:

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“Non ci siete che voi, Signore. Io voglio perdermi in voi, non riconoscere che voi.” Un singhiozzo della madre gli fece riaprire gli occhi. Impietosito egli le disse delle parole di consolazione: doveva ricordare la morte del piccolo Lagave la cui sal­ vezza eterna era sicura: era diventato — figliol prodigo pecorella smarrita e ritrovata - tutto' ciò che Dio predi­ lige e ama. Ma ella scuoteva la testa, non sapeva che cosa fosse l’anima. Bob era una fronte, dei capelli, de­ gli occhi, un petto che aveva visto nudo con la pelle delicata e bianca, delle braccia che una sola volta egli aveva teso verso di lei. Volse il capo, appoggiò il viso contro il cuoio della carrozza per paura che Pietro le leggesse i pensieri negli occhi. “Le sue braccia che un giorno mi ha aperte...” Pietro non sapeva questi pensieri, eppure disse: — Noi crediamo alla resurrezione della carne... Vide ancora volgersi verso di lui un viso scomposto. — Risparmiami le tue prediche e le tue sentenze... Era sua madre che parlava così, la sua devota madre. Ah! finalmente capiva perché la loro fede non li aveva uniti con nessun legame; egli disprezzava quella sua re­ ligione di donna vecchia che non pensa allo spirito. Un insieme di precetti, una polizza di assicurazione contro l’inferno di cui Elisabetta si applicava a non violare nes­ suna clausola, la misera preoccupazione di essere sem­ pre in regola con un infinito indeciso, come si è con il fisco — ecco cosa era la sua religione - e tutto questo poteva avere più consistenza di una festuca nella marea dei suoi pensieri? Ella diceva fra sé: “Ho vissuto, è vero: ho fatto dei conti... delle addi­ zioni... dei conti...” E avendo incontrato lo sguardo di Pietro, gemette: — Mi vergogno, davanti a te, tu sapessi come mi vergogno ! Egli l’attirò contro la sua spalla ed ella non si difese dal gesto tenero, non parlò più. Egli ricordava di averla vista, ancora giovane, nella

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sala da pranzo della fattoria del Bos, seduta davanti ai libri di conti aperti sul tavolo e con il suocero - il gran naso armato di occhiali cerchiati di tartaruga - curvo sulla sua spalla... Pietro cercò dei gesti, delle espressio­ ni, delle sfumature che avessero potuto far prevedere la donna che oggi geme e sospira contro di lui. Non trovò altro che brusche violenze, delle simpatie, delle antipatie irragionevoli; fosse il nuovo curato, il vicario, un fat­ tore, un domestico, ella li portava alle nuvole per qual­ che tempo, poi per una sciocchezza li disprezzava. Ma questo non significava niente. D’altra parte che cosa sap­ piamo di coloro che ci hanno dato il peso della vita? Nessuna carne ci è così sconosciuta quanto quella da cui la nostra ha preso la sua sostanza. Come era sua madre ragazza, in collegio? Certamente la severità del­ l’educazione e dei costumi l’avevano fatta uguale alle sue compagne, uguale a tutte le donne della sua fami­ glia e a tutte le poverette che erano intristite prima di lei nella cittadina lugubre. Eppure no, anche l’ambiente più fosco non uccide tutti i germi in un cuore. Pietro avrebbe potuto pensare a quei semi di grano trovati nei sarcofaghi e di cui si racconta che dopo cinquemila anni germogliano. Quando furono giunti, aiutò la madre a scendere dal­ la vettura, e, entrati che furono nell’anticamera, le disse: — Ricordati, mamma, che è necessario tu vada dai Lagave. Sei in condizioni di fare questa visita? Ella si raddrizzò; egli aveva trovato le parole per farla reagire: doveva una visita di condoglianze alla fa­ miglia. Ma disse a Pietro di andarvi senza di lei, per il momento, e gli promise di raggiungerlo dopo mezz’ora. -—- Saprò essere cauta e composta, non temere; il col­ po è passato; ora tutto è finito. Ma egli preferì aspettarla. La sentiva camminare nella sua stanza, sopra l’anticamera. Quando riapparve, cor­ retta, con i guanti neri, la fronte bianca e sgombra sotto l’onda liscia dei capelli, egli sospirò soddisfatto. Gli oc­ chi di lei erano ancora rossi, ma nessuno poteva mera­

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vigliarsi che avesse pianto; chi non conosceva il suo buon cuore? Poi le circostanze esigevano che in casa di Maria le finestre fossero chiuse. Nell’ombra, nessuno ve­ drebbe niente su quel viso.

Nella sala della casa Lagave, dove la famiglia era seduta in circolo, Pietro tremò quando udì Maria dire alla madre che aveva ritrovato nella biancheria di Bob dei fazzoletti segnati con la lettera E. — Glieli deve avere prestati quel giorno che aveva sangue al naso. Se vuol venire a vedere... Elisabetta si alzò, lasciò il circolo di persone sussur­ ranti ed entrò con un passo calmo nella stanza di Bob. Camera con i muri bianchi, sepolcro vuoto. La polvere danzava nel raggio di luce che filtrava dalle imposte. Il letto era senza coperte e arrotolato il materasso dove aveva riposato la testa pesante. Lo sportello dell’armadio aperto da Maria stridette: una cravatta vi era ancora ap­ pesa. Elisabetta guardava fissamente il letto: due braccia si tendevano verso di lei; e vide un viso magro, scavato; ricordò gli zigomi, le mascelle evidenti, gli occhi cavi, la pelle tesa sull’ossatura: un teschio, di già. — Sì, sono miei, li riconosco. Prese i fazzoletti, e mentre Maria la precedeva in sala, aspirò, un attimo, un odore di tabacco e di acqua di Colonia; poi riprese il suo posto.

Pietro ottenne dalla madre che dopo la cerimonia in chiesa ella non andasse fino al cimitero. Era più logico che rimanesse presso la signora Lagave. Così ella potè liberamente confondere le sue lacrime con quelle della madre di Bob. La sera, dopo il pranzo, quando il vecchio Gornac si fu ritirato nella sua camera, ella parve a Pietro così tranquilla che osò parlarle dell’argomento scabroso; cioè che aveva scritto a Paola Della Sesque; se la fanciulla non leggeva i giornali di Parigi, forse ignorava ancora la notizia. Ma Elisabetta, improvvisamente furiosa, lo

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interruppe: perché si occupava di cose non sue? Che cos’era questa sua mania di entrare nella vita degli altri? Non gli bastava di pregare per gli altri, giacché deside­ rava che fossero diversi da ciò che erano, giacché non poteva resistere alla tentazione di mutarli, di trasfor­ marli?... — Se hai scritto a quella ragazza di venire qui, ti avverto che la metterò alla porta. Non sopporterò la presenza di colei che ha causato la sua morte... — Ma mamma, sai pure che sono stato io a... — Lei poteva benissimo non partire; e una volta par­ tita poteva tornare... Sì, anche tu sei responsabile... Ed io, io che avrei potuto alzarmi, quella mattina, e dare l’allarme a Bob perché trattenesse quella sciocca... E ho dormito invece, dormito, non mi ricordo di avere mai tanto dormito. Ella tacque e pianse. Pietro camminava nella stanza, scostava le poltrone, parlava della volontà di Dio, dice­ va a sua madre che doveva inchinarsi ai voleri della Provvidenza, fece allusione alla fine cristiana del piccolo Lagave. Ma ella gli gridò: — Forse Iddio ti ha fatto delle confidenze? Non sappiamo con certezza che una cosa sola: che il suo corpo è nella terra, che marcisce, che nessun occhio lo vedrà più, nessuna mano lo toccherà più. Non c’è che questo di sicuro. Tutto il resto... — Sei tu, mamma, che bestemmi così? Mi sembra di sentir parlare il nonno... Ella protestò che non voleva bestemmiare: — Non so più niente, so soltanto che soffro... E sussurrò ancora: — Soffro... soffro... Pietro, intanto, scriveva un telegramma a Paola Della Sesque, per impedirle di venire a Viridis. Lo portò a Galbert raccomandandogli di farlo trasmettere l'indo­ mani mattina non appena fosse aperto l’ufficio telegrafi­ co del paese. Quando tornò in salotto vide sua madre immersa in una torpida sonnolenza. Aprì la finestra,

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sentì l’odore dei tini portati fuori dalle cantine per la prossima vendemmia. Chiese ad Elisabetta se voleva re­ citare con lui le preghiere della sera, ma ella volse il capo senza rispondere. Allora, allontanandosi un poco dal cerchio luminoso della lampada, egli s’inginocchiò per terra, appoggiò le braccia ad una poltrona, si chiuse la testa fra le mani. Quando si rialzò vide che la madre aveva lasciato la stanza senza dargli il solito bacio serale.

Egli si alzò l’indomani all’alba, e per andare ad ascol­ tare la prima messa dovette attraversare una fitta cortina di nebbia. Dei passeri invisibili pispigliavano. Uscendo dalla chiesa si inoltrò per una strada che lo allontanava dalla sua casa. La nebbia si diradava. L’odore dei torchi risvegliava in lui ricordi di vacanze sul finire. Cammi­ nava, nella strada deserta, parlando a se stesso, fortifi­ cando in sé la decisione di abbandonare tutto senza vol­ tarsi indietro - impaziente di ritrovare a Parigi il suo direttore spirituale e di ottenere da lui l'abbreviarsi del termine che lo separava ancora dalla sua rinuncia com­ pleta al mondo. Pensava a Bob redento, con una pacata tenerezza. Tutta la sua vita, tutta la sua vita avrebbe offerta in cambio della salvezza eterna di quel ragazzo che egli aveva insultato, che egli aveva precipitato nella morte —; ma la morte soltanto aveva potuto dare soffio vitale a quell’angelo di carne. Questi pensieri lo presero al punto che si ritrovò da­ vanti alla sua casa senza sapere quale strada avesse se­ guita. Riconobbe subito, ferma contro la scalinata che conduceva alla soglia, un’automobile. Paola Della Sesque era in casa; il telegramma era stato spedito troppo tardi. Ella doveva essere partita il giorno prima da Arcachon ed avere dormito a Langon. Pietro ebbe un attimo di ansia pensando alle minacce della madre: che accoglien­ za aveva fatto alla povera fanciulla? Aprì la porta dell’anticamera, ma la richiuse senza osare di entrare. No, non aveva il coraggio di sostenere lo sguardo di Paola. Si avvicinò alla finestra socchiusa

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del salotto affacciato sul giardino, guardò nella stanza silenziosa. Paola, volgendo le spalle alla finestra, era se­ duta sul bracciolo di una poltrona, la testa appoggiata contro la spalla di Elisabetta. Pietro vedeva una mano della madre accarezzare la nuca rasata della fanciulla, e di tanto in tanto l’altra mano scendere a toccare un braccio nudo quasi ella cercasse un segno, una traccia. Quella carne per la quale il piccolo Lagave aveva vis­ suto ed era morto, ella l’aveva fra le braccia. Le labbra dell’adolescente avevano baciato quelle mani, quei polsi, avevano indugiato nella dolce piega del braccio. Forse, oscuramente, Elisabetta desiderava seguire su quel corpo una pista, e come un viaggiatore ritrova la cenere di un campo abbandonato, fermarsi a lungo ad una lividura. Pietro si allontanò dalla finestra, andò sulla terrazza, sedette sulla balaustra, le gambe pendule come aveva fatto Bob tante volte. Vedeva con la mente un Cristo immobilizzato da tre chiodi e che non può dare altro per gli uomini che il suo sangue. Così dovevano essere i veri discepoli; intervenire soltanto con il sacrificio, con l’olocausto. Nulla si cambia negli individui; gli esseri non cambiano se non per una volontà speciale del loro Creatore; bisogna redimerli, così come sono, con le loro inclinazioni, i loro vizi; prenderli, scoprirli, salvarli, co­ perti ancora interamente di fango; sanguinare, annullarsi per loro. Quel ragazzo di ventidue anni, seduto su una terraz­ za, non si chiedeva se la madre non gli avesse lasciato nel sangue l’eredità di quella passione che dopo tanti anni di inerzia divampava in lei. Gli esseri non cambia­ no, ma molti vivono a lungo senza conoscersi, molti muoiono senza conoscersi - perché Dio ha soffocato in essi, dalla loro nascita, la cattiva semenza; perché Egli è libero di togliere quella atavica frenesia che in qualche ascendente è stata criminale e che forse lo ridiventerà nei loro figli. Pietro udì il rombo dell’automobile di Paola, la scor­ se sulla strada, fra gli alberi, la vide discendere verso

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Langon. Seguì più che gli fu possibile la polvere solle­ vata dalla macchina, la immaginò ferma davanti al ci­ mitero: la fanciulla attraversa il portico dove è lasciato il carro funebre, cammina sulla terra di cenere, decifra gli epitaffi,., scopre finalmente la tomba dei Lagave vicina a quella dei Gornac (la morte non interrompe la loro vicinanza). Dei carri sobbalzano dietro il muro, sulla strada di Villandraut; un treno ansa, e le segherie span­ dono intorno il loro continuo lamento musicale e stra­ ziante. Pietro pensa che non aspetterà la resurrezione del corpo da quel luogo; immagina i suoi resti leggeri, con­ fusi colla sabbia del deserto. Partire... Ma non è forse suo dovere restare ancora vicino alla madre? Non per­ ché si faccia delle illusioni sul conforto che può darle la sua presenza... Ricorda di avere provato per lei, quan­ do era bambino, una tenerezza dolorosa e gelosa; con sua madre, come con tutte le persone da lui amate, Pie­ tro è sempre stato quello dei due che ama di più e che soffre. Questi cuori eternamente delusi sulla terra, sono una preda di Dio. Pietro ha scritto in un suo diario la parola di Cristo già scritta da Pascal: « Io ti sono amico più che il tale o il tal altro perché ho fatto per te più di loro ed essi non soffrirebbero quel­ lo che io ho sofferto per te, e non morirebbero per te nel momento delle tue infedeltà e crudeltà. Ti amo più ardentemente di quello che tu non ami i tuoi peccati... » Più che il tale o il tal altro, più che questa madre indifferente e alla quale, per tutto il tempo della sua vita, egli è costato meno lacrime di quelle che non ab­ bia versato da due giorni sulla tomba di un ragazzo estraneo...

XII

Gli avvenimenti ritardavano la spiegazione che Pietro desiderava avere con la madre. Nei primi giorni della vendemmia il vecchio Gornac fu colpito da un altro leggero attacco. Maria era trattenuta nella sua vigna dal­ le necessità della vendemmia. Elisabetta correva dalla camera dell’ammalato alle can­ tine e ai tini. Pietro le propose di aiutarla, ma ella rifiu­ tò con lo stesso disdegno che, in altri tempi, aveva per il timido marito: non erano cose di sua competenza, non capiva niente in fatto di praticità. — Stai con i tuoi libri e non occuparti di nulla. Egli si rallegrava nel vederla ripresa dall’attività, dal­ la vita; forse, a sua insaputa, la disprezzava un poco: quel suo grande dolore cedeva alle preoccupazioni di un raccolto; ella si preoccupava che Galbert non rubasse e verificava le ore di lavoro dei lavoranti a giornata. Pietro la ritrovava uguale alla donna che aveva sempre cono­ sciuto. Ma la vedeva pochissimo, perché, la sera, spezzata di fatica, ella si ritirava in camera sua appena finita la cena. (Una suora dell’ospedale di Langon veniva ogni sera per vegliare Giovanni Gornac.) Una sola volta, mentre saliva alla sua camera, gli parve di udire, davan­ ti alla porta della madre, camminando a passi smorzati per non svegliarla, dei singhiozzi, dei sospiri. Si fermò,

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in ascolto. La notte era piovosa e tormentata dal vento, la pioggia crepitava sui vetri del corridoio, sulle tegole, gorgogliava nelle grondaie. Come distinguere un lamen­ to umano e staccarlo da quel pianto universale? L’indo­ mani mattina il viso tranquillo di Elisabetta lo rassicurò : egli credette di non avere udito gemere che la notte autunnale. Ma il lavoro indefesso della madre era ciò che lo tratteneva anche dal parlarle della sua vocazione. Se era sicuro che si sarebbe consolata facilmente di non averlo più vicino, temeva che soffrisse nel vederlo ri­ nunciare all’eredità delle terre e per questo si disinte­ ressasse delle proprietà destinate a cadere un giorno in mani estranee. Già ottobre era sul finire ed egli non si era ancora deciso alle confidenze. Fu Elisabetta che una sera, porgendo alle fiamme del camino, in salotto, le scarpe fangose, gli chiese se contava trattenersi ancora a lungo a Viridis. Egli rispose che gli dispiaceva lasciar­ la sola. Ella credette che alludesse alla vendemmia, alla malattia di Giovanni Gornac, e lo ferì gridando: — Oh, per l’aiuto che mi dai! Rispose che si trattava di un distacco più lungo di quello che ella potesse immaginare, fece allusione ad un’attrazione invincibile, a un richiamo interno al quale doveva finalmente arrendersi. Cercò di decifrare, sul vi­ so della madre, le risonanze dei sentimenti che le sue parole le destavano in cuore; ma lo sguardo di Elisabet­ ta era fisso sulla fiamma, ed il suo· volto illuminato dal riflesso non manifestava turbamento di sorta. — Sapevo già da tempo che questa era la tua voca­ zione — ella disse dopo un silenzio. — Sarebbe stato un vero dolore per tuo nonno vederti in abito talare. Ma ogni giorno egli si spegne e io temo che non pas­ serà l’inverno; è inutile, quindi, parlargli di questo; la­ sciamolo morire in pace. Gli chiese se contava entrare in un seminario o in un convento. Pietro esitava ancora; ma quasi certamente

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si ritirerebbe per lungo periodo di tempo fra i trappisti: l’Africa lo attirava. Ma a misura che parlava sentiva la gola stringersi in un nodo per la sensazione amara della sua solitudine. Sì, se il salotto fosse stato· vuoto e quella donna - sua madre - non fosse stata seduta davanti a lui curva sul fuoco, egli non si sarebbe sentito più solo. — Allora mi approvi, mamma? — Approvarti ? Sei libero di fare quello che credi per la tua felicità, mio bambino caro. Egli gradì quelle parole « mio bambino caro » come un poco d’acqua fresca dopo un’ardente sete. Scrutò il viso della madre, sperando vedervi delle lacrime; ella non piangeva. Come avrebbe voluto vederla piangere! E allora, egli che non aveva pensato ad altro che a di­ stoglierla dal pensiero di prevedere il futuro abbandono delle sue terre, gliene parlò, tanto aveva desiderio di vederla soffrire. Ma ella lo interruppe con una frase che lo stupì: — Che cosa vuoi che me ne importi? Credi tu che questo abbia qualche importanza? — Ma, mamma, pensa che dopo di te tutto sarà ven­ duto: farò voto di povertà, non voglio conservare un soldo di mio. I pini, le vigne che il nonno ha piantato... Non aveva mai pensato a queste cose: pure, l’istinto di famiglia in quell’attimo lo possedeva tanto che egli parlava della terra con lo stesso amore di Giovanni Gornac, proprio sul punto di abbandonarla e tradirla. Ma Elisabetta gli opponeva la stessa insensibilità: — Se non eri tu ad abbandonarla, sarebbe stato tuo figlio o tuo nipote... Niente dura, niente esiste... Ripetè, quasi in un sussurro: — Niente, niente, niente... Pietro allora si alzò, si inginocchiò ai piedi della ma­ dre e, come ai tempi della sua infanzia, le mise la testa sulle ginocchia, le prese una mano inerte e vecchia, se la posò sulla fronte. Così, le disse che partiva per un lungo tempo, forse per sempre. Se doveva imbarcarsi per 9.

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l’Africa, ella andrebbe a salutarlo. Ma è l’ultima volta su questa terra, stasera, che essi vivono vicini, sotto lo stesso tetto, nel vecchio salotto, come una madre e un figlio. Non saranno mai più uniti, quaggiù. Che strazio, per un ragazzo maldestro che non ha mai saputo espri­ merle il bene che le vuole! È riuscito a commuoverla, finalmente! Ella piange, piega la testa e le sue labbra cercano il viso smunto, tor­ mentato del ragazzo che nessuno ha scelto sulla terra, che Dio solo ha scelto. Ella piange; ma il morto al quale sono dedicate le lacrime che versa ogni notte, esige an­ che il dono di questo suo pianto. Il nostro dolore segue sempre la stessa china, fluisce sempre verso la mede­ sima creatura, anche se, a tutta prima, è provocato da un’altra. Elisabetta singhiozza, ora, e non sa più quale testa tiene sulle ginocchia. La pena lacerante di una separazione eterna le impedisce di essere sensibile al distacco del figlio. Ripete come in sogno: — Piccolo mio, povero piccolo mio! — a uno che non è più qui. Pietro si rialzò consolato. E restarono senza parlare, tenendosi la mano; egli non dubitava più di essere fi­ nalmente unito alla madre. Ma ella ascoltava il sospiro che faceva la pioggia sulla terra fredda. Vedeva la pie­ tra nuda e bagnata sulla quale non era ancora scolpito un nome. Immaginava la solitudine notturna del cimi­ tero, le corone stinte; si sforzava a violare le tenebre dell’avello, si stendeva, in spirito, vicino a quel corpo perduto, lo abbracciava, si smarriva nell’abisso del nulla.

Pietro lasciò Viridis poco tempo dopo Ognissanti. Giovanni Gornac morì in dicembre. Prima di morire aveva accettata la visita del curato, aderendo ai ragiona­ menti della nuora; del resto non era sicuro che fosse tut­ to falso ciò che la Chiesa insegnava: se i Sacramenti non fanno del bene non fanno neppure del male. Maria Lagave, che alla fine della vendemmia era caduta e si era

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rotta il femore, sopravvisse a lui soltanto qualche set­ timana. Agostino Lagave, trattenuto a Parigi, fu felice di af­ fittare le sue terre e la sua casa ad Elisabetta. Ella visi­ tava spesso quella casa vuota, accendeva un fuoco di sar­ menti nella camera dove Bob aveva vissuto, ma presto non trovò più fra quelle pareti l’impressione che egli vi aveva lasciato della sua presenza, e soffrì di non pro­ vare altro che noia. Ad una ad una la ripresero le sue abitudini religiose. Il suo amore le divenne un argomento per degli scru­ poli; indugiò un pezzo prima di osare confessarsi e fu stupita che il suo confessore - un padre Marista di Vi­ ridis - non vedesse in lei un mostro incomprensibile. — Siete tutte le stesse, figliola mia — egli le disse. — Quando si conosce una donna si conoscono tutte. Ella si meravigliò nel constatare che il suo caso non fosse un’eccezione. Il suo amore immiserì per la man­ canza della singolarità ch’ella gli prestava. Il frate si guardò bene dal proibirle di pensare al morto, ma a patto che vi pensasse con spirito cristiano. Ella si fami­ liarizzò così anche con il pensiero di Bob, il quale si unì al quotidiano gregge dei suoi più intimi pensieri. A poco a poco, ella rientrò in ciò che chiamava la cor­ rente della vita. Il prezzo basso del vino le dava dei fastidi. Pure essendo ricchissima, si preoccupava per tutto il denaro che bisognava spendere; per nessuna cosa al mondo si sarebbe rassegnata a vendere un titolo di rendita; gli interessi dovevano bastare alla manuten­ zione delle sue proprietà. Non parlava con nessuno, incapace di interessarsi alla vita degli altri; e ciò che diceva di sé non era tale da interessare la gente. I si­ gnori di Viridis e di Langon le facevano una sola visita all’anno, ch’ella restituiva. Elisabetta Gornac passava per una donna avara, benché sostenesse tutte le spese e le opere pie della sua parrocchia. Un mattino lesse la partecipazione del matrimonio di Paola con un ricco signore della provincia di Bazas.

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Stracciò il cartoncino in piccoli pezzi, non per odio o rabbia, ma per la paura di essere risvegliata, tolta dal suo torpore. Il pensiero che alla sua morte le sue terre sarebbero disperse, non la staccava da esse. Forse, anche, provava un’oscura contentezza pel fatto che Pietro avesse rinun­ ciato a ogni diritto. Ella passò tre giorni a Marsiglia con il figlio prossimo a salpare. Benché egli non rive­ stisse ancora la tonaca, il suo abito logoro, la sua cra­ vatta, le sue scarpe erano quelle di un uomo per il quale non esiste più l’universo visibile. Madre e figlio furono impacciati i primi giorni di non avere niente da dirsi, poi si rassegnarono al silenzio e aspettarono in pace il momento dell’addio. Pietro credeva in un mondo dove gli esseri godono di una eternità per conoscersi. Non cercava più di sapere che cosa dissimulavano la placida fronte e gli occhi senza sguardo della madre. Ella pianse sul molo quando il bastimento tolse gli ormeggi, ma si sentì felice nel treno che la riportava a Langon. Era la stagione dei gravi lavori dei campi ed ella aveva fretta di ritornare alla sua casa. La vite fiorì, maturò l’uva e venne il tempo della ven­ demmia. La vita di Elisabetta si confuse con le stagioni. La pioggia, la neve, il gelo, il sole diventarono i suoi nemici o i suoi complici, a seconda che nuocevano o era­ no propizi alla terra. Il suo corpo le annunciava, con i dolori reumatici, i cambiamenti di tempo. L’adipe le diede dei disturbi al cuore, e dovette ras­ segnarsi all’immobilità; usciva soltanto per andare al Bos. Nel paese, correva voce che Galbert la derubasse. Delle lettere anonime turbarono un poco la sua tran­ quillità, ma ella preferì tacere, e fingere di non capire. Si lamentava di Pietro il quale non le scriveva se non per chiederle del denaro: come se non avesse anche lei le sue opere pie! Un giorno d’estate discese dalla sua vettura davanti a un pasticciere sulla piazza Maubec, a Langon. Un’auto­ mobile aspettava davanti al medesimo negozio. Una gio­

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vane signora troppo elegante distribuiva dei dolci a quattro bambini. Elisabetta riconobbe Paola, la quale distolse gli occhi da lei. La vecchia signora comperò una torta, ritornò alla sua carrozza e si fece accompagnare al cimitero. At­ traversò il portico dove vien lasciato il carro funebre, calpestò quel suolo di cenere fermandosi a volte per de­ cifrare un epitaffio. Si inginocchiò sulla pietra della tom­ ba dei suoi morti, ma non su quella che ricopriva i resti del piccolo Lagave e che ella considerò a lungo, im­ mobile. Osservò che il cancelletto aveva bisogno di essere verniciato. Le rondini volavano nell’azzurro. Un carro sobbalzava sulla strada di Villandraut. Le segherie non interrompevano il loro lungo lamento. Mucchi di tavole profumavano l’atmosfera di un odore di resina fresca e di trucioli. Un treno correva e il fumo della locomotiva annebbiava l’azzurro. Due donne, dietro il muro del ci­ mitero, parlavano in dialetto. Una lucertola, uguale a quelle che si scaldano sulla terrazza di Viridis, nascon­ deva sulla pietra quasi tutto il nome di Roberto Lagave e la data del suo giorno di nascita. Era una giornata d’estate identica a mille altre giornate di estate, identica a quelle che brucerebbero la pietra sotto la quale ripo­ serebbe la spoglia di Elisabetta, quando ella avesse rag­ giunto i Gornac che l’avevano preceduta nella polvere. Ecco che una sofferenza improvvisa venuta da lontano saliva in lei, la sconvolgeva. Ah! ella non era ancora morta come quei morti ! Chiuse gli occhi, rivide la stan­ za buia e pur lucente : il piccolo Lagave le tendeva le braccia, la chiamava: i suoi denti erano luminosi, il suo gracile petto nudo... Ella si avvicinò al cancelletto che aveva bisogno di essere verniciato, appoggiò il viso alle sbarre, immaginò delle insondabili tenebre, una bocca sigillata, un lembo di lenzuolo, delle ossa leggere, e si mise in ginocchio. Il De Profundis già detto tante volte mise ordine nel suo dolore, gli diede una regola, cullandolo. Una parte di lei si assopiva ancora, si tranquillizzava. Dio, ch’era

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nel figlio Pietro Vita e Spirito, era in lei sonno ed oblio. Sulla soglia del cimitero ella respirò Paria sana. La vecchia vettura l’allontanò insensibilmente dal suo amo­ re. Lungo la salita che conduce a Viridis il cocchiere mise il cavallo al passo. Ecco il punto della strada dove ricordava di avere visto Bob bambino; ritornava dal fiume tenendo in una mano il costumino da bagno molle d’acqua e mordendo felice un grappolo d’uva nera. Ella lo vide ancora, quel giorno; ma vide anche che la fillossera aveva rovinato la vite dei suoi vicini e si rallegrò nel pensare che la vigna di Viridis n’era im­ mune. Era però necessario che Galbert ripassasse ancora due volte il solfato. Elisabetta Gornac tornava ad essere uno di quei corpi morti che il fiume della vita trascina.

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Titolo originale: LE NOEUD DE VIPERES

Traduzione di Mara Dussia Prima edizione: Parigi 1932 Prima edizione italiana: Milano 1932

Voglio che questo cuore divorato dall’odio e dall’avari­ zia, questo nemico dei suoi, lo consideriate con pietà nonostante la sua bassezza; voglio che interessi il cuor vostro. Tristi passioni gli nascondono, durante la sua tetra vita, la luce che gli è tanto vicina, sebbene un raggio talvolta lo tocchi, quasi lo bruci. Le sue passio­ ni... e soprattutto i mediocri cristiani che l’osservano e che lui stesso tormenta, gli nascondono questa luce. Quanti tra noi respingono così il peccatore e lo allon­ tanano da una verità che, attraverso essi, non risplende più!

... Dio, considerate che noi non compren­ diamo noi stessi e che non sappiamo ciò che -vogliamo, e che ci allontaniamo in­ finitamente da ciò che desideriamo.

S. Teresa

d’Avìla

I

Ti meraviglierai di trovare questa lettera nel mio for­ ziere, sopra un pacchetto di titoli. Sarebbe stato meglio affidarla al notaio perché te la consegnasse dopo la mia morte, oppure metterla nel cassetto del mio scrittoio: il primo che i miei figli forzeranno quando ancora il gelo della morte non mi avrà irrigidito. Ma in spirito ho rifatto per lunghi anni questa lettera, e l’ho imma­ ginata sempre, durante le mie insonnie, spiccare sul fon­ do della cassaforte appositamente vuotata, la quale non avrebbe contenuto altro che questa vendetta preparata per quasi mezzo secolo. Rassicurati; tu d’altronde sei già rassicurata: «i titoli ci sono». Mi sembra udire questo grido, dal vestibolo, al tuo ritorno dalla Banca. Sì, tu griderai ai figli attraverso il velo di lutto : « i titoli ci sono ». Poco è mancato però che essi non vi fossero più e ne avevo ben studiato l’espediente. Se l’avessi voluto, voi sareste oggi privi di tutto, fuorché della casa e dei terreni. Avete avuto la fortuna che so dominare il mio rancore. Ho sempre creduto che l’odio fosse ciò che di più vivo avessi in me; ed invece, non lo sento più. Sono invecchiato e a stento so rivedere in me il malato folle di poco fa, che durante le sue notti insonni non tra­ mava più la sua vendetta (questa bomba a scoppio ritar­ dato era già preparata con una scrupolosità di cui ero

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fiero), ma studiava il modo di poter di essa gioire. Avrei voluto vivere quel tanto che era necessario per poter vedere il vostro muso al ritorno dalla Banca. Sarebbe bastato darti un po’ più tardi la procura per aprire il forziere, per avere la gioia estrema di sentire le vostre domande disperate: «dove sono i titoli?». Mi sembra­ va che allora la più atroce agonia non avrebbe diminuito il mio piacere. Ero io l’uomo capace di fare tali calcoli? Come mai ero giunto a tal punto, io, che non ero un mostro ?

Da quattro ore il vassoio, con la mia colazione e i tovaglioli sporchi, giacciono sulla tavola attirando le mo­ sche. Ho suonato inutilmente; in campagna i campanelli non funzionano mai. Attendo con impazienza in questa camera, ove ho dormito fanciullo, ove certamente mori­ rò. Il primo pensiero di Genoveffa, in quel giorno, sarà quello di chiedere la mia camera per i suoi figli. Occu­ po la stanza più vasta e meglio esposta. Dovete pur riconoscere che mi sono offerto di cedere il mio posto a Genoveffa, e che l’avrei fatto se il dottor Lacaze non avesse temuto per i miei polmoni l’atmosfera umida del pianterreno. Avrei certamente fatto questo sacrificio, ma con un rancore tale che è meglio mi sia stato vietato di farlo. (Tutta la mia vita è trascorsa nel compiere sacri­ fici il cui ricordo mi avvelena; sacrifici che conservano ed accrescono i rancori resi più acuti dal tempo.) Il piacere della discordia è una eredità di famiglia. Ho spesso udito raccontare da mia madre che mio padre era in discordia con i genitori, morti senza aver più vi­ sto il figlio, che trent’anni prima avevano scacciato di casa (mia madre aveva messo su famiglia con quei cugi­ ni di Marsiglia che noi non conosciamo). Non abbiamo mai saputo il perché di questi litigi, ma ne attribuiamo la causa all’astio che covava nei nostri antenati. Ancora oggi, se incontrassi qualcuno dei cuginetti di Marsiglia, gli volterei senz’altro le spalle. Non

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si possono più soffrire i genitori che si siano allontanati; ma non è così per i figli, per la moglie. Esistono fami­ glie in cui regna l’accordo, ma, se si pensa a tutte quelle in cui due esseri si esasperano e provano disgusto per la comunanza cui sono costretti, di tavola e di lavabo, per il fatto di trovarsi sotto la stessa coperta, ci meravi­ gliamo grandemente dello scarso numero dei divorzi! Si detestano e pur tuttavia non possono allontanarsi dalla loro casa... Che cosa è oggi, anniversario della mia nascita, que­ sta febbre che mi prende? Entro nel mio sessantottesimo anno e sono il solo a saperlo. Genoveffa, Uberto, i loro figli hanno sempre avuto ad ogni anniversario i loro dolci, le piccole candele di cera, i fiori... Se da tanti anni non ti regalo più nulla per la tua festa, non è per­ ché l’abbia dimenticata, ma per vendetta. E mi basta. Gli ultimi fiori ricevuti li aveva colti con le sue mani deformate la mia povera madre. Per l’ultima volta, no­ nostante la malattia di cuore, s’era trascinata fino al roseto. A che punto ero? Sì, tu ti domandi perché questa improvvisa furia di scrivere : « furia » è ben questa la parola. Tu puoi giudicarne dalla mia calligrafia, da que­ ste lettere inclinate nello stesso senso come i pini sotto il vento di ponente. Ascolta; sin dal principio t’ho par­ lato d’una vendetta lungamente meditata e alla quale rinuncio. Ma c’è qualcosa in te, qualcosa di te che voglio vincere: il tuo silenzio. Oh, comprendimi! Hai lo sci­ linguagnolo ben sciolto tu, e puoi discutere con Cazau del pollame e dell’ortaglia per ore e ore. Ciarli e fai sciocchezze con i ragazzi, anche i più piccoli, per gior­ nate intere. Oh! Quei desinari dai quali uscivo con la testa vuota, roso dagli affari, dai pensieri miei di cui non potevo parlare a nessuno... A cominciare dal pro­ cesso Villenave soprattutto, quando sono divenuto al­ l’improvviso un grande avvocato d’assise, come dicono i giornali. Più ero portato a credere alla mia importan­

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za, più tu mi davi la sensazione della nullità... Ma no. Non è di questo ancora che si tratta, è di un’altra specie di silenzio che voglio vendicarmi: il silenzio intorno alla nostra famiglia, al nostro disaccordo profondo nel qua­ le tu ti ostinavi. Quante volte mi sono domandato, a teatro o leggendo un romanzo, se esistono veramente nella vita amanti o sposi che si fanno delle « scene », che si spiegano a cuore aperto e trovano conforto nell’esprimersi ! Tu, nei quarant’anni sofferti fianco a fianco con me, hai trovato la forza d’evitare ogni più intima parola, hai sempre tagliato corto. Per molto tempo, fino al gior­ no in cui ho compreso che in fin dei conti tutto ciò non t’interessava affatto, ho creduto a un sistema, ad un partito preso la cui ragione mi sfuggiva. Ero tal­ mente al di fuori delle tue preoccupazioni, che te ne sottraevi, non per terrore, ma per noia. Ed eri così abile nel fiutare il vento, nell’intuirmi, che se ti prendevo di sorpresa, trovavi subito delle piccole scappatoie: mi picchiavi pacata sulla gota, m’abbracciavi e t’allontanavi. Che tu laceri questa lettera, dopo averne lette le pri­ me righe, potrei crederlo certamente. Ma no, poiché da qualche mese ti sorprendo, ti stupisco. Per quanto poco tu possa osservarmi, come non potresti notare il cambia­ mento del mio umore? E confido che questa volta non ti chiuderai in te stessa. Io voglio che tu sappia, che voi sappiate, tu, tuo figlio, tua figlia, tuo genero, i tuoi ni­ poti, chi era quest’uomo che viveva solo contro il vostro gruppo serrato, quest’avvocato soverchiamente affaticato che bisognava saper trattare bene perché possedeva il denaro. Questo essere che soffriva in altro campo e per altre cose. Quali? Rassicurati, tu che non hai mai vo­ luto indagare, io scrivo qui con le mie stesse mani il mio elogio funebre e non una requisitoria contro di voi. Qualsiasi altra donna che te, si meraviglierebbe della spaventevole lucidità che domina il mio carattere. L’abilità a ingannare se stessi, che aiuta a vivere la maggioranza degli uomini, m’è sempre mancata. Di abiet-

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to non ho esperimentato altro all’infuori di ciò che già conoscevo. Ho dovuto interrompermi... Non avevano ancora por­ tato la lampada; non erano ancora venuti a chiudere le imposte. Guardavo il tetto del deposito di vino dove le tegole hanno tinte vivaci di fiori e di gole di uccelli. Sentivo i tordi nell’edera del pioppo e il sordo rumore di un barile rotolato. Che fortuna attendere la morte nel solo luogo al mondo dove tutto rimane simile ai miei ricordi ! Solo il chiasso del motore sostituisce lo stridore della noria girata dall’asina (vi si aggiunge anche il rombare di questo orrendo postale aereo che macchia il cielo e annuncia l’ora della merenda). Capita a pochi ritrovare nella realtà, alla portata del loro sguardo, quel mondo che i più scoprono in se stes­ si, solo quando hanno il coraggio e la pazienza di ram­ mentare. Mi metto una mano sul petto e sento il battito del cuore. Guardo l’armadio dove, in un angolo, sono la siringa di Pravaz, l’ampolla di nitrito d’amile e tutto l’occorrente in caso di crisi. Se chiamassi, mi sentireb­ bero? Ma per poter dormire tranquilli essi vogliono non tanto persuadermi quanto credere che si tratti di una falsa angina pectoris. Respiro. Mi sembra quasi che una mano si posi sulla mia spalla sinistra e la immobilizzi in una falsa posizione, come farebbe qualcuno che non voglia essere dimenticato. Per me la morte non giungerà come una ladra. Da anni la sento aggirarsi intorno a me; sento il suo alito. È paziente con me che non raf­ fronto e mi sottometto docile alla sua legge. In veste da camera, con l’apparato dei malati gravi incurabili, finisco la mia vita nella stessa poltrona ove mia madre fu colpita dal primo attacco. Con l’alito cattivo, con la barba lunga da più giorni, schiavo di ripugnanti manie, sono qui seduto, come lei, vicino al tavolo ingombro di medicine. Non vi fidate; nelle crisi torna in me l’istinto della bestia. L’avvocato Bourru che mi credeva morto, mi vide sorgere di nuovo e tornare nei sotterranei degli

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istituti di credito a staccare le cedole per ore ed ore, con le mie stesse mani. Bisogna che io viva ancora molto per finire questa confessione, per obbligarti finalmente ad intendermi. Ne­ gli anni in cui ho diviso il tuo letto, quando la sera mi avvicinavo, non mancavi di dirmi : « Io cado dal sonno, già dormo, dormo... ». Rifiutavi così non le mie parole, ma le mie carezze. È pur vero che il nostro dissidio è cominciato da quel­ le interminabili conversazioni che dilettavano noi gio­ vani sposi. Due ragazzi ancora: io vent’anni, tu diciot­ to. Forse l’amore era per noi un piacere meno forte di queste confidenze, di questi abbandoni. Giuravamo, co­ me avviene nell’amicizia dei fanciulli, di dirci tutto. Io, che per raccontarti qualche cosa ero costretto ad abbel­ lire avventure da nulla, credevo che altrettanto fosse per te. Non immaginavo nemmeno lontanamente che tu avessi potuto pronunziare altro nome di uomo prima del mio; non lo credevo fino a quella sera... Fu proprio nella camera ove oggi scrivo. Si è cam­ biata la carta ai muri, ma i mobili di acajou sono ri­ masti allo stesso posto; v’era sul tavolo il bicchiere d’ac­ qua opalino e il servizio da tè vinto a una lotteria. Un raggio di luna illuminava la stuoia. Il vento del sud che attraversava le lande, faceva giungere fino al nostro letto l’odore di un incendio. Quella sera - lo ricordi ancora? - pronunziasti di nuovo il nome di Rodolfo, dell’amico di cui già spesso mi avevi parlato, ch’era sempre nelle tenebre della ca­ mera come se il suo fantasma dovesse essere sempre presente tra noi, nelle ore della nostra più grande inti­ mità. E come se ciò non ti bastasse: — Vi sono cose che avrei dovuto dirti, mio caro, prima del nostro fidanzamento. Ha il rimorso di non averti confessato... Oh! Rassicurati, nulla di grave... Non ero turbato e non feci nulla per provocare la tua confessione, ma tu me la prodigasti con una com­ piacenza che mi dette subito fastidio. Non cedevi ad

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uno scrupolo, ma ubbidivi ad un senso di delicatezza verso di me, come tu mi dicevi e come, d’altronde, cre­ devi. No, eri presa da un ricordo delizioso, non potevi più trattenerti. Sentivi forse minacciata la nostra felicità, ma, come si dice, era più forte di te. Non dipendeva da te se l’ombra di Rodolfo aleggiava intorno al nostro letto. Non credere che la nostra disgrazia sia nata dalla ge­ losia. Io, che dovevo in seguito diventare follemente ge­ loso, non provavo nulla che ricordasse questa passione, in quella notte d’estate di cui ti parlo, una notte del 1895 nella quale mi confessasti che, ad Aix, durante le vacanze, eri stata fidanzata a questo giovanotto scono­ sciuto. Penso che soltanto dopo quarantacinque anni posso spiegarmi ! Ma leggerai tu la mia lettera ? Tutto ciò t in­ teressa così poco ! Tutto quello che mi riguarda ti an­ noia. Già i figli t’impedivano di vedermi e di udirmi; e da quando nacquero i nipoti ancora peggio ! Faccio quest’ultimo tentativo; forse avrò più potere su te da morto che da vivo, per lo meno per i primi giorni. Ri­ prenderò per qualche settimana un po’ di posto nella tua vita. Non foss’altro che per dovere, leggerai queste pagine fino alla fine; ho bisogno di crederlo. Lo credo.

II

Non sentivo, durante la tua confessione, alcuna gelosia. Ma come farti comprendere ciò che essa distruggeva in me? Ero stato l’unico figlio di quella vedova che tu hai conosciuto, o meglio presso la quale tu hai vissuto per molti anni, senza riuscire a comprenderla. Ma anche se ciò ti avesse interessato, tu, cellula di una potente nu­ merosa famiglia gerarchicamente organizzata, non sare­ sti arrivata ad intendere che cosa fosse l’unione di questi due esseri, di questa madre e di questo figlio. No, tu non sapresti concepire quali cure la vedova di un mo­ desto funzionario, capo servizio della Prefettura, possa avere per un figlio che rappresenta tutto ciò che nella vita le rimane. I miei successi a scuola, l’unica mia gioia, la inorgoglivano. Allora non dubitavo affatto che noi fossimo molto poveri. Mi sarebbe bastato per persuader­ mene vedere la nostra vita misurata, la stretta economia di cui mia madre s’era fatta una legge. Non mi mancava nulla. Mi rendo conto, oggi, fino a qual punto io fossi un fanciullo viziato. Le masserie di mia madre, a Hosteins, fornivano riccamente la nostra mensa, ma mi sa­ rei meravigliato sentir dire ch’era una mensa raffinata. I pollastri ingrassati col miglio, le lepri, i pasticci di beccaccia, non suscitavano in me nessuna idea di lusso. Avevo sempre sentito dire che questi terreni avevano scarso valore. E infatti quando mia madre li ereditò, era­

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no solo sterili distese dove mio nonno da fanciullo aveva portato al pascolo le mandrie. Ignoravo però che prima cura dei miei genitori era stata quella di farli seminare e che a ventun anni mi sarei trovato possessore di due­ mila ettari di bosco in piena crescita, che già fornivano pali per miniere. Mia madre faceva anche economie sul­ le sue modeste rendite. Fin da quando mio padre era vivo, avevano comperato Calèse spogliandosi di tutto (quarantamila franchi per quel vigneto che io non ce­ derei per un milione). Abitavamo allora in via Santa Ca­ terina, al terzo piano di una casa di nostra proprietà (che insieme ad altri terreni da costruzione formava la dote di mio padre). Due volte la settimana ci arrivava dalla campagna un paniere colmo e mia madre andava dal macellaio il meno possibile. Il giovedì e la dome­ nica bisognava lottare per farmi uscire, non pensavo al­ tro che ad entrare alle scuole superiori. Non rassomi­ gliavo in nulla a quei fanciulli che sono sempre pronti a fingere di non prender niente sul serio. Ero uno sgob­ bone, e me ne gloriavo; uno sgobbone e null'altro. Non ricordo che lo studio di Virgilio o di Racine, al liceo, m’abbia dato il più piccolo piacere. Non era altro che materia scolastica. M’interessavo solo di quelle opere che erano comprese nel programma, le sole che per me aves­ sero importanza, e scrivevo a proposito di esse tutto ciò che è necessario scrivere per far piacere agli esamina­ tori, e cioè tutto ciò che è già stato detto e scritto da intere generazioni di studenti. Ecco fin a qual punto ero idiota e come lo sarei forse rimasto senza l’emottisi che spaventò mia madre e che, due mesi prima degli esami per l’università, mi obbligò ad interrompere tutto. Colpa di un’infanzia troppo dedita allo studio, di una adolescenza malaticcia. Un ragazzo in pieno sviluppo non vive impunemente trascurando qualsiasi esercizio fisico, curvato sopra un tavolo, con le spalle rientranti, fino a notte inoltrata. Ti annoio? Lo temo. Ma non trascurerò nessun par­ ticolare. Stai tranquilla, mi tengo a ciò ch’è strettamente

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necessario: il dramma delle nostre due vite era già. ini­ ziato durante questi avvenimenti, che tu non hai cono­ sciuto o che hai dimenticato. Tu vedi già d’altronde, in queste prime pagine, come io non risparmi me stesso. Vi è già di che lenire il tuo rancore... No, non protestare; mi pensi solo per alimen­ tare la tua inimicizia. Temo tuttavia di essere ingiusto verso me stesso, po­ vero ragazzo chino sui libri. Quando leggo i ricordi d’infanzia degli altri, quando vedo il paradiso al quale tutti si rivolgono, con angoscia mi domando: “Ed io? Perché questo deserto dall’inizio della mia vita? Ho for­ se dimenticato ciò che gli altri ricordano; ho conosciuto forse gli stessi incantesimi...”. Non vedo altro che il fanatismo accanito, la lotta per il primo posto, la riva­ lità astiosa contro un certo Enoc e un certo Rodrigo. Istintivamente respingevo ogni simpatia. Ricordo che il prestigio dei miei successi m’attirava la stizza degli in­ vidiosi. Ero crudele verso chi pretendeva amarmi; abor­ rivo ogni affetto. Se fossi scrittore, non potrei trarre dalla mia vita di scolaro una sola pagina commovente. Aspetta... Una sola cosa, quasi da nulla: mi accadeva talvolta di avere la convinzione che mio padre, di cui avevo un vago ricor­ do, non fosse morto, ma che un insieme di strane circo­ stanze l’avesse fatto sparire. Tornando da scuola, poiché l’ingombro nei marciapiedi avrebbe ritardato il mio cam­ mino, risalivo via Santa Caterina correndo in mezzo alla strada, attraverso i veicoli. Salivo gli scalini a quattro a quattro. Mia madre, seduta vicino alla finestra, rammen­ dava la biancheria. La fotografia di mio padre era so­ spesa allo stesso posto, alla destra del letto. Lasciavo che ella mi abbracciasse, le rispondevo appena e subito aprivo i miei libri. All’indomani di quella emottisi che mutò il mio de­ stino, passai lugubri mesi in quel villino di Arcachon, ove la salute malandata naufragò la mia ambizione per

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l’università. Mi arrabbiai con mia madre perché per lei questa mia ambizione non contava nulla, perché mi sem­ brava non preoccuparsi del mio avvenire. Ella viveva ogni giorno nell’attesa dell’ora del termometro e ogni suo dolore e ogni sua gioia dipendevano solo dal mio peso settimanale. Riconosco che io, che più tardi dovevo tanto soffrire per il fatto di essere malato senza che nes­ suno si preoccupasse della mia malattia, sono stato giu­ stamente punito della mia insensibilità, della mia impla­ cabilità di fanciullo troppo amato. Dopo le prime belle giornate « ripresi a fiorire », co­ me diceva mia madre. Tornavo a nuova vita, crescevo e mi rafforzavo. Il mio corpo, che tanto aveva sofferto per il regime cui l’avevo sottoposto, sbocciò in quella foresta asciutta, piena di ginestre e di corbezzoli, quan­ do Arcachon non era che un villaggio. Sapevo intanto da mia madre che non dovevo preoc­ cuparmi dell’avvenire perché possedevamo una grossa fortuna, che ogni anno aumentava. Nulla mi preoccu­ pava, tanto più che non avrei prestato il servizio mili­ tare. Avevo una grande facilità di parola che aveva stu­ pito tutti i miei maestri, e mia madre voleva che stu­ diassi legge ed era certa che, a meno che non mi fossi lasciato attrarre dalla politica, sarei diventato senza ec­ cessiva fatica un grande avvocato... Ella parlava, parla­ va, mi svelava alì’improvviso i suoi piani. L’ascoltavo musone, ostile, con lo sguardo rivolto alla finestra. Cominciavo a « sbizzarrirmi ». Mi spiava con timo­ rosa indulgenza. Ho visto in seguito, vivendo in casa dei tuoi, quale importanza ha una vita sregolata in una famiglia religiosa. L’unico inconveniente che mia madre vi vedeva era che la mia salute potesse risentirne. Quan­ do si assicurò che non abusavo dei divertimenti, permise che uscissi di casa alla sera purché fossi di ritorno alla mezzanotte. No, non temere che ti racconti i miei amori di quei tempi. So che certe cose non ti piacciono e d’al­ tra parte si trattava d’avventure così misere ! Ma mi costavano care e mi dispiaceva. Soffrivo per

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il fatto che la mia giovane età non mi servisse a nulla per la scarsa attrattiva che suscitavo. Non ero brutto. Le mie fattezze sono regolari e Genoveffa, il mio ritratto vivente, è stata una bella ragazza. Appartenevo a quella categoria di esseri di cui si dice che non abbiano giovi­ nezza; ero un adolescente malinconico, senza vivacità. Col mio aspetto agghiacciavo le persone, e quanto più me ne accorgevo, tanto più tenevo duro. Non ho mai saputo abbandonarmi, ridere, folleggiare. Non si pote­ va immaginare che io potessi aggregarmi ad una comi­ tiva allegra; appartenevo alla categoria di coloro la cui presenza fa fallire ogni cosa. Ero suscettibile, incapace di sopportare lo scherzo più innocuo e in cambio, quan­ do volevo celiare, senza volerlo, colpivo gli altri con una violenza tale che essi non me la perdonavano. Puntavo dritto sul loro lato ridicolo, suH’infermità di cui non avrei dovuto parlare. Assumevo con le donne, perché ti­ mido ed orgoglioso, il tono superiore e dottrinale che esse non possono soffrire. Non potevo vedere le loro vesti. Più sentivo che dispiacevo loro e più accentuavo in me tutto quello che suscitava la loro avversione. La mia giovinezza non è stata altro che un lungo suicidio. Per timore di spiacere naturalmente mi affrettavo a spia­ cere appositamente. A torto o a ragione davo la colpa a mia madre di ciò che ero. Mi sembrava di espiare la colpa di essere stato, fin dall’infanzia, troppo osservato, coccolato, ser­ vito. Fui con lei, in quel tempo, di una durezza atroce. Le rimproveravo l’eccesso del suo amore e non le per­ donavo di colmarmi d’un affetto che solo lei al mondo poteva darmi, d’un affetto che mai, dopo di lei, avrei conosciuto. Perdonami se vi ritorno sopra; è solo in que­ sto pensiero che trovo la forza di sopportare l’abbandono nel quale tu mi lasci. Come avrebbe sofferto, povera donna addormentata da tanti anni, il cui ricordo so­ pravvive solo nel cuore estenuato di questo vegliardo, se avesse potuto prevedere come il destino l'avrebbe ven­ dicata !

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Sì, ero crudele veramente. Nella piccola stanza da pranzo del villino, al chiarore della lampada che illu­ minava i nostri pasti, rispondevo solo a monosillabi alle sue timide domande, e talvolta me ne andavo brutal­ mente al minimo pretesto e senza motivo. Non si sforzava di comprendermi, non capiva il mo­ tivo del mio furore, lo subiva come la collera di un dio: — È la malattia — diceva — ha bisogno di sfogar­ si... Sono troppo ignorante per capirti — aggiungeva — una vecchia come me non è una compagna deside­ rabile per un ragazzo della tua età... — Pur essendo così economa, per non dire avara, mi dava più denaro di quel che chiedessi, mi spingeva a spenderlo, mi por­ tava da Bordeaux cravatte ridicole che non volevo met­ tere. Corteggiavo, benché non mi piacesse, la figlia di certi nostri vicini con i quali eravamo in rapporti di amicizia. Essa svernava ad Arcachon per curarsi e mia madre im­ pazziva al pensiero di un possibile contagio. Temeva che la compromettessi, che mi fossi contro voglia impegna­ to. Sono oggi sicuro d’essermi inutilmente lasciato an­ dare a questa conquista solo per dare un tormento a mia madre. Tornammo a Bordeaux dopo un anno di assenza. Ave­ vamo cambiato casa. Mia madre aveva comprato una casa sulla via principale e me l’aveva taciuto per farmi una sorpresa. Mi stupii quando un cameriere ci aprì la porta. Il primo piano era per me. Tutto sembrava nuo­ vo. Segretamente abbagliato da un lusso, della cui brut­ tezza solo oggi mi accorgo, ebbi la crudeltà di non fare altro che critiche e d’inquietarmi per il denaro speso. Fu allora che mia madre, esultante, mi presentò i con­ ti che d’altronde non mi doveva, poiché la maggior parte della nostra ricchezza proveniva dalla sua famiglia. Cin­ quantamila lire di rendita, senza contare i tagli dei bo­ schi, formavano in quell’epoca, e soprattutto in provin­ cia, una bella fortuna, di cui qualsiasi altro si sarebbe servito per farsi strada, per innalzarsi fino alla più alta

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società della cittadina. L’ambizione non mi mancava, ma difficilmente avrei potuto nascondere i miei sentimenti ostili ai colleghi della facoltà di legge. A costoro, quasi tutti figli di famiglia, educati presso i Gesuiti, io, studente di liceo e nipote di un pastore, non perdonavo l’orribile sensazione d’invidia che i loro modi m’ispiravano, pur considerando la loro inferiorità di spi­ rito. Nell’invidiare esseri che si disprezzano, si rivela una passione vergognosa che avvelena una intera esistenza. Li invidiavo e li disprezzavo e il loro disdegno (forse immaginario) infiammava ancor più il mio rancore. Il mio carattere era tale che non pensavo nemmeno per un attimo di farmeli amici, e ogni giorno più mi schieravo con i loro avversari. L’odio per la religione, che è stato per tanto tempo la mia passione dominante, quella pas­ sione per la quale tu hai tanto sofferto e che ci ha reso per sempre nemici, cominciò a nascere in me quando ero alla facoltà di legge, nell’anno dei famosi decreti e del­ l’espulsione dei Gesuiti, nel 1879 e nel 1880, al momento della votazione dell’art. 7. Fino allora non m’ero interessato di questioni religio­ se. Mia madre non me ne parlava altro che per dire: — Vivo tranquilla, perché se non risparmieranno noi, non potranno risparmiare nessuno —. Mi aveva fatto battezzare. La prima comunione, al liceo, mi sembrò una formalità noiosa, di cui m’è rimasto un vago ricordo, e non fu seguita da altre. La mia ignoranza in materia re­ ligiosa era assai grande. Quando da ragazzo incontravo preti per la strada essi mi sembravano persone travestite, quasi mascherate. Non affrontavo mai i problemi religiosi se non dal punto di vista politico. Fondai un circolo di studi che teneva le sue riunioni al caffè Voltaire e lì m’esercitavo a parlare. Ero timido nella vita privata, ma cambiavo completamente nelle di­ scussioni pubbliche. Avevo partigiani di cui godevo es­ sere il capo, ma che in fondo disprezzavo non meno dei borghesi. L’avevo con loro perché manifestavano schiet­ tamente i loro miserabili impulsi che erano anche i miei,

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e perché mi obbligavano a rendermene conscio. Figli di piccoli funzionari, di vecchi operai, ragazzi intelligenti e ambiziosi ma pieni di livore, essi mi adulavano senza amarmi. Offrivo loro qualche pranzo che faceva epoca e di cui per un pezzo parlavano. Ma i loro modi mi disgusta­ vano e mi accadeva di non poter trattenere un tono bef­ fardo che li feriva a morte e di cui mi serbavano ran­ core. Pur tuttavia il mio odio verso la religione era sincero. Mi tormentava altresì un desiderio di eguaglianza socia­ le e obbligavo mia madre a dare a basso prezzo le case di argilla e paglia, ove vivevano i nostri mezzadri, che si nutrivano solo di brodaglia e di pan nero. Per la prima volta in vita sua ella cercò di resistermi: — Per la rico­ noscenza che ne avrai... Ma non feci altro. Soffrivo nel riconoscere che io e i miei avversari avevamo una passione in comune: la ter­ ra, il denaro. Esiste la classe dei possidenti e la classe di chi non ha nulla. Capii che sarei sempre stato dalla parte dei possidenti. La mia ricchezza era uguale se non superiore a quella di tutti quei giovani burbanzosi che, pur voltando la testa nel vedermi, ero certo non avreb­ bero rifiutato il mio aiuto. Nelle riunioni pubbliche v’era sempre qualcuno intorno a me che mi rimproverava i miei duecentomila ettari di bosco e i miei vigneti. Scusa se mi soffermo così su tutti questi particolari, ma senza di essi non potresti comprendere che cosa sia­ no stati, per me esulcerato, il nostro incontro, il nostro amore. Io, figlio di contadini, io figlio di una donna che aveva «portato il fazzoletto», sposare una Fondaudège! Ciò sorpassava ogni immaginazione^ non era im­ maginabile...

Ill

Ho interrotto perché il lume si spegneva e perché sen­ tivo parlare qua sotto. Non facevate molto chiasso, par­ lavate anzi sottovoce e ciò appunto mi turbava. Altre volte, dacché ero in questa camera, avevo seguito i vo­ stri discorsi; ma ora diffidate e bisbigliate appena. Mi hai detto l’altro giorno che sto diventando sordo. Ma no, sento sempre il rombo del treno sul viadotto; no, non sono sordo; siete voi che abbassate il tono della vo­ stra voce, perché non volete che io intercetti le vostre parole. Cosa mi nascondete? Gli affari non vanno? Sono tutti là, intorno a te, pronti a parlare : il genero che si occupa di rum, quello che non fa niente e nostro figlio Uberto, l’agente di cambio... Il denaro di tutti è a disposizione di questo ragazzo che dà il venti per cento ! Non contate su me: non pronunzierò mai le parole «sarebbe così semplice tagliare i pini...» che tu stai per suggerirmi questa sera. Mi ricorderai che le due figliole di Uberto, fin dal loro matrimonio, alloggiano presso i suoceri, perché non hanno denaro per metter su casa: « Abbiamo nel granaio una quantità di mobili che si rovinano e il prestarglieli non ci costerebbe nulla... ». Ecco ciò che stai per chiedermi. « Esse sono in collera con noi e non mettono più piede nella nostra casa. Sono

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privata dei miei nipoti... » Questa era la questione sorta tra voi e della quale parlate a voce bassa.

Rileggo queste righe scritte ieri sera, quasi delirando. Come ho potuto cedere a questa pazzia? Non è più una lettera questa, ma un diario interrotto, ricominciato... Lo cancello? torno ad iniziarlo? Non è possibile perché il tempo stringe. Ciò che ho scritto rimane scritto. D’al­ tronde non desidero altro che aprirmi interamente con te e obbligarti a scrutare nel fondo dell’anima mia! Da trent’anni non rappresento altro per te che un apparec­ chio distributore di biglietti da mille, un apparecchio che funziona male e che bisogna sempre scuotere fino al giorno in cui si potrà finalmente aprirlo, sventrarlo, per attingervi a piene mani il tesoro contenuto. Mi lascio di nuovo vincere dalla rabbia. Essa mi ri­ porta al punto in cui m’ero fermato: devo risalire alla causa di questo furore, devo ricordare quella notte fa­ tale... Ma, innanzi tutto, è necessario che tu ricordi il nostro primo incontro. Nell’agosto dell’ ’83 ero a Luchon con mia madre. L’albergo Sacarron era allora pieno di mobili imbottiti, di gran cuscini e di camosci impagliati, sempre il pro­ fumo dei tigli dei viali d’Etigny ch’io sento, anche oggi dopo tanti anni, quando i tigli fioriscono. Al mattino mi svegliavano il trotto corto degli asini, le sonagliere e gli schiocchi di frusta. L'acqua della mon­ tagna scorreva fin nelle strade. Udivo il grido dei ven­ ditori ambulanti di pasticcini e di pan di latte. Vedevo le comitive partire a cavallo, accompagnate dalle guide. L’intero primo piano era abitato dai Fondaudège, che occupavano l’appartamento di re Leopoldo. — Dovreb­ bero essere economi, quei signori ! — diceva mia madre. Essi erano sempre in ritardo quando si trattava di pa­ gare (avevano affittato i vasti terreni, che noi possede­ vamo ai magazzini generali, per depositarvi le merci). Noi pranzavamo alla tavola comune, voi invece, i si­ è

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gnori Fondaudège, eravate serviti a parte. Ricordo la vo­ stra tavola rotonda, vicino alla finestra: tua nonna, obesa, nascondeva la sua testa calva sotto i merletti neri. Cre­ devo sempre che ella mi sorridesse: erano invece la for­ ma dei suoi occhi piccolissimi e l’esagerato taglio della sua bocca che davano quell’illusione. La serviva una suo­ ra dalla faccia piena, biliosa, con un gran collare inami­ dato. Tua madre... come era bella! Vestita di nero, sem­ pre triste per la scomparsa dei suoi due figli. Lei e non te, in principio, ammirai di nascosto. Mi turbava la nu­ dità del suo collo, delle sue braccia, delle sue mani. Non portava alcun gioiello. Mi figuravo sfide stendhaliane e, fino a sera, cercai il modo di poterle rivolgere la parola o consegnarle furtivamente una lettera. Quanto a te, ap­ pena ti notavo. Credevo che le signorine non m’interes­ sassero affatto. Avevi d’altronde quell’insolenza di non badare mai agli altri, che era un modo di sopprimerli. Un giorno, tornando dal Casino, sorpresi mia madre in conversazione con la signora Fondaudège, ossequiosa, gentile, come chi teme di abbassarsi al livello del suo interlocutore. Mia madre invece parlava con tono forte: aveva a che fare con un inquilino e i Fondaudège non erano per lei altro che negligenti pagatori. Con la sua mentalità di contadina possidente, non si fidava dell’af­ fare e delle fragili ricchezze incessantemente minacciate. L’interruppi mentre diceva: — Certamente ho fiducia nella firma del signor Fondaudège, ma... Per la prima volta m’immischiai in un discorso di af­ fari e la signora Fondaudège ottenne la dilazione richie­ sta. Ho spesso pensato in seguito, che l’istinto contadi­ nesco di mia madre non si era sbagliato: la tua famiglia mi è costata molto e se io avessi lasciato fare, tuo figlio, tua figlia, tuo genero avrebbero fatto sparire presto la mia ricchezza, l’avrebbero inabissata nei loro affari. I loro affari! Uno studio al pianterreno, un telefono, una macchina da scrivere... Con questa messinscena il denaro spariva a pacchi di centinaia di migliaia di lire. Ma

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esco di carreggiata... Siamo nel 1883 a Bagnères-de-Luchon. Vedevo ora questa potente famiglia sorridermi. Tua nonna non s’interrompeva mai nel parlare perché era sorda. Dacché dopo i pasti potevo scambiare qualche pa­ rola con tua madre, essa molestava e sconvolgeva le idee romantiche che intorno a lei avevo creato. Non me ne vorrai se ti dico che la sua conversazione era vuota, ch’ella viveva in un mondo così ristretto ed aveva un vocabolario così ridotto che dopo tre minuti non pote­ vo più continuare la conversazione. La mia attenzione cadde allora su te, senza per nulla accorgermi che i nostri colloqui non venivano affatto ostacolati. Come avrei potuto immaginare che i Fondaudège vedessero in me un partito vantaggioso? Ricordo una passeggiata nella valle del Lys, con tua nonna e la suora sul fondo della « vittoria », e noi due sul seggio­ lino. Non mancavano certo le vetture a Luchon e biso­ gnava essere dei Fondaudège per portarvi il proprio equipaggio ! Una nuvola di mosche avvolgeva i cavalli che anda­ vano al passo. La suora taceva, gli occhi socchiusi, la faccia lucida, mentre tua nonna si faceva vento con un ventaglio comprato nei viali d’Etigny, sul quale era di­ segnato un « matador » che infligge una stoccata a un toro nero. Tu, eri tutta vestita di bianco, con i guanti lunghi nonostante il caldo e gli stivaletti dall’alto gam­ bale. Tutto in te era bianco. Mi dicevi, malinconica, di esserti votata al bianco dopo la morte dei tuoi fratelli. Ignoravo cosa volesse significare « essere votata al bian­ co ». Seppi in seguito che, nella tua famiglia, avevate inclinazione per queste devozioni un po’ bizzarre. Il mio stato d’animo era tale allora che tutto ciò ave­ va per me profumo di poesia. Come farti comprendere quel che tu avevi suscitato in me? Improvvisa ebbi la sensazione di non dispiacere più, di non spiacere più, di non essere più odioso. Una sera, data indimentica­ bile della mia vita, tu mi dicesti: — Che cosa straordi­

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naria per un giovanotto, delle ciglia così lunghe! — Ac­ curatamente ti nascondevo le mie idee spinte. Ricordo che, durante quella passeggiata, ad una salita, scendemmo dalla vettura per alleggerirne il peso; tua nonna e la suora, presa la corona del rosario, cominciarono le pre­ ghiere mentre dall’alto del suo sedile il vecchio cocchie­ re, addestratovi da anni, faceva eco alle loro avemarie. Io impassibile guardavo te sorridere. La domenica non mi costava nulla accompagnarvi alla messa delle undici. Per me nessuna idea metafisica si collegava a queste ce­ rimonie. Le ritenevo il culto di una classe, al quale ero fiero di sentirmi associato, una specie di religione degli avi per uso della borghesia, un insieme di riti privi di qualsiasi significato, escluso quello sociale. Poiché tu qualche volta mi guardavi di nascosto, il ricordo di queste messe rimane legato alla meravigliosa scoperta che facevo: essere capace d’interessare, di pia­ cere, di suscitare un sentimento. L’amore che sentivo si confondeva con quello che ispiravo, che credevo d'ispi­ rare. Nulla di reale era nei miei sentimenti; ciò che più contava era la mia fede nell’amore che avevi per me. Mi riflettevo in un altro essere e la mia immagine così riflessa non offriva nulla di ripugnante. Mi rasserenavo in una quiete deliziosa. Il mio essere, sotto il tuo sguar­ do, come sorgente liberata scaturiva in palpitanti emo­ zioni. Il più comune gesto di tenerezza, una stretta di mano, un fiore custodito in un libro eran cose per me nuove, affascinanti. Soltanto mia madre non sentiva il benefico effetto di questo mio rinnovellarsi; era ostile al sogno (che io cre­ devo folle) che lentamente si formava in me. L’avevo con lei, perché non se ne mostrava raggiante. Lontana dal sospetto di poter distruggere la mia infinita gioia, d’essere finalmente piaciuto a una donna, essa ripeteva: — Non t’accorgi che questa gente cerca di lusingarti ? Esisteva una fanciulla cui piacevo e che desiderava forse sposarmi: lo credevo, nonostante mia madre lo du­ bitasse, perché voi eravate troppo in alto e troppo po­ lo.

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tenti per trarre un vantaggio dalla nostra unione. Nu­ trivo un rancore sordo verso lei che metteva in dubbio la mia felicità. Poiché era in corrispondenza con le principali banche, mia madre assunse informazioni sui tuoi. Fui esultante il giorno in cui ella dovette riconoscere che la casa Fondaudège godeva, nonostante qualche momentaneo imba­ razzo, grandissimo credito. — È vero che guadagnano un’infinità di denaro — mi diceva — ma conducono una vita troppo di lusso e sperperano tutto il loro avere in cavalli e livree. Preferiscono gettare la polvere negli occhi piuttosto di risparmiare... Le informazioni delle banche mi rassicurarono com­ pletamente sulla mia felicità. Avevo la prova che era­ vate disinteressati e che i tuoi mi sorridevano per pura simpatia, tanto che piacere a tutti mi sembrò, all’improv­ viso, cosa molto naturale. Mi lasciavano solo con te, la sera, nei viali del Casino. È strano che, quando nella vita si comincia a godere un po’ della felicità che ci è riservata, nessuna voce ci dica: « Per quanto tu possa vivere, non avrai altra gioia che queste poche ore. As­ saporale fino in fondo perché, dopo di esse, più nulla ti resta. Questa prima sorgente che hai incontrato, è an­ che l’ultima; dissetati una volta per sempre, perché più non berrai ». Ero persuaso di trovarmi invece all’inizio d’una lunga vita animata di passione e non riportavo la mia atten­ zione su quelle sere in cui stavamo immobili, sotto le foglie addormentate. Vi furono segni che interpretai male. Ricordi quella notte, su un sedile (nel viale serpeggiante che saliva dietro le Terme) ? All’improvviso, senza un motivo plau­ sibile, scoppiasti in pianto. Ricordo l’odore delle tue gote bagnate di lacrime, l’odore di quella pena scono­ sciuta. Credevo fossero lacrime di amore felice. La mia giovinezza non sapeva interpretare quei rantoli, quei sus-

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suiti. E tu mi dicevi: — Non è nulla, è solo perché sono vicina a te... Mentendo, non mentivi. Era proprio per il fatto di trovarti vicino a me, che tu piangevi. Vicino a me e non all’altro, a colui il cui nome alcuni mesi dopo dovevi ri­ velarmi in questa camera ove io scrivo, ove io, ormai vecchio, sto per morire circondato da una famiglia in agguato, che attende il momento del bottino. Ed io, su quel sedile, nei viali serpeggianti di Superbagnères, io, col viso appoggiato tra la tua spalla e il tuo collo, respiravo il profumo della piccola piangente. L’umida e tiepida notte dei Pirenei odorava d’erbe ba­ gnate e di menta e sentiva anche del tuo profumo. Sulla piazza delle Terme, che noi dominavamo, i fanali illu­ minavano le foglie dei tigli intorno al chiosco della mu­ sica. La loro luce attirava le farfalle notturne che un vec­ chio inglese tentava prendere con una lunga rete. Mi di­ cesti : — Prestami il tuo fazzoletto... — Asciugai le tue lacrime, riposi quel fazzoletto tra la camicia e il petto. Ero diventato un altro; il mio viso brillava di nuova luce e lo capivo dagli sguardi delle donne. Nessun so­ spetto nacque in me, dopo quella sera delle lacrime. D’altronde, per una sera come quella, quante in com­ penso gioiose! Ti appoggiavi a me, ti stringevi al mio braccio e ansavi nel seguire il mio passo affrettato. Ero un fidanzato casto. Tu interessavi una parte di me asso­ lutamente intatta. Mai ebbi la tentazione di abusare del­ la fiducia dei tuoi, che, nemmeno lontanamente, credevo potesse essere calcolo. Sì, ero un altro uomo: dopo quarant’anni oso final­ mente farti questa confessione di cui non avrai più il piacere di trionfare, quando leggerai questa lettera. Un giorno discesi dalla « vittoria », mentre passeggiavamo sulla strada della valle del Lys, e improvvisa ebbi la sensazione acuta, la certezza quasi fisica, che esistesse un altro mondo, una realtà di cui non conoscevamo che l’ombra... La notte s’addensava ai piedi delle montagne, mentre sulla sommità duravano campi di luci. Le acque

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scorrevano ed io, tra le dita, schiacciavo del finocchio... Non fu che un istante che, nel corso della mia triste vita, si rinnovò raramente. La sua singolarità gli dà maggior pregio ai miei occhi ed è perciò che, in seguito, nella lunga disputa religiosa che ci ha straziati, dovetti scar­ tare tale ricordo... Te ne dovevo la confessione, ma non è ancora il momento di trattare questa questione. Inutile ricordare il nostro fidanzamento. Fu concluso una sera e senza che io lo avessi voluto. Interpretasti, credo, una mia parola nel senso del tutto opposto a quel­ lo che avevo voluto darle; mi trovavo legato a te ed ero meravigliato di me stesso. Inutile ricordare tutto ciò. Vi è un’azione crudele e mi condanno a fermare il mio pensiero su di essa. Mi avevi subito avvertito di una tua esigenza. « Nel­ l’interesse del buon accordo » ti rifiutavi di vivere con mia madre e di abitare nella sua stessa casa. Tu e i tuoi genitori eravate decisi a non transigere su questo punto. Dopo tanti anni, come è presente nella mia memoria quella soffocante camera d’albergo con la finestra sui viali d'Etigny! La polvere d’oro, gli schiocchi di frusta, il rumore dei sonagli, e l’eco di una canzone tirolese ci giungevano attraverso le persiane chiuse. Mia madre, sofferente di mal di testa, stava distesa sul divano. Portava una gonna e un copribusto poiché non aveva mai conosciuto un abito da mattina, un ac­ cappatoio, o una veste da camera. Approfittando del momento in cui diceva che ci avrebbe ceduto i salotti del pianterreno e che si sarebbe ritirata in una camera del terzo piano, soggiunsi: — Senti mamma, Isa pensa che sarebbe meglio... — Mentre parlavo guardavo di sfuggita il suo viso di vecchia e giravo gli occhi da un’altra parte. Con le dita deformi ella gualciva il ricamo del copri­ busto. Se avesse replicato, avrei saputo come risponderle: il suo silenzio invece attenuava la mia collera. Fingeva di non stare attenta e di non essere affatto sorpresa. Finalmente parlò, cercando parole che potes-

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sero farmi credere che si aspettava la nostra separazione. ■— Abiterò quasi tutto l’anno ad Aurigne che è la migliore masseria nostra e lascerò voi a Calèse. Farò co­ struire ad Aurigne un padiglione di tre vani. È seccante fare una spesa, per quanto poco possa costare, quando forse l’anno venturo sarò morta. Ma tu potrai servirtene dopo per la caccia ai palombi. Sarebbe comodo abitarvi in ottobre. Non ti piace la caccia? Ma puoi avere figli che ne abbiano la passione. Per quanto grande, la mia ingratitudine non poteva raggiungere l’eccesso di questo affetto, che, cacciato dal­ le sue posizioni si correggeva, si formava, si conciliava. E quella sera tu mi chiedesti: — Cosa ha tua madre?

Dal giorno dopo ella riprese il suo aspetto abituale. Da Bordeaux giunse tuo padre, con la figlia più grande e il genero; erano stati messi al corrente e mi squadra­ rono da capo a piedi. Avevo l’impressione che si do­ mandassero l’un l’altro: «Ti sembra un partito conve­ niente?... La madre è impossibile... ». Non dimenticherò mai l’impressione che mi fece tua sorella Maria Luisa, che voi chiamavate Marinetta, e che, pur avendo un an­ no più di te, sembrava tua sorella minore. Era gracile, aveva il collo lungo, la treccia pesante, gli occhi da bambina. Il barone Philipot, il vecchio al quale tuo padre l’aveva data, mi fece orrore. Da quando è morto, ho spesso pensato a quel sessantenne, come ad uno degli uomini più infelici che abbia conosciuto. Quale martirio si era imposto quello sciocco, perché la giovane moglie dimenticasse che era vecchio! Il busto lo stringeva tan­ to da soffocarlo; il colletto inamidato, alto e largo, na­ scondeva la pappagorgia, e la tintura lucente dei baffi e dei favoriti faceva risaltare la devastazione della carne violacea. Ascoltava appena ciò che gli si diceva e cercava sem­ pre uno specchio; quando l’aveva trovato, non potevamo trattenerci dal ridere - ricordi ? - nel sorprendere lo

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sguardo che quell’infelice dava alla sua immagine e il continuo controllo che s’imponeva. La dentiera gli im­ pediva di sorridere e le labbra erano suggellate da una volontà che non veniva mai meno. Avevamo anche no­ tato il gesto col quale si metteva il cappello per non gua­ stare la ciocca che, partendo dalla nuca, si spargeva sul cranio come il delta di un fiumiciattolo. Tuo padre, pur avendo la stessa età, piaceva ancora alle donne nonostante la barba bianca, la calvizie, la pancia, e pretendeva di affascinare anche nel trattare gli affari. Solo mia madre seppe resistergli. Il colpo che io le avevo dato, l’aveva resa più dura. Discuteva ogni articolo del contratto così come avrebbe fatto per una vendita o per un affitto. Segretamente contento di sape­ re in buone mani i miei interessi, fingevo di indignarmi per le sue pretese e la disapprovavo. Se i miei beni sono oggi nettamente separati dai tuoi, se voi avete oggi così poca presa su di me, lo devo a mia madre che pretese un regime dotale rigorosissimo, come se si fosse trat­ tato di una figlia decisa a sposare uno scioperato. Potevo dormire tranquillo poiché i Fondaudège ac­ consentivano alle sue richieste; credevo che essi tenes­ sero a me per il fatto che tu tenevi a me. Mia madre non voleva sentir parlare di rendita; esi­ geva che la tua dote fosse versata in denaro sonante: — Mi citano l'esempio del barone Philipot — diceva — che ha sposato la figlia maggiore senza un soldo... lo credo bene! Per aver data quella povera ragazza a quel vecchio, dovevan pur ricavarne qualche utile! Ma con noi è un’altra cosa: credevano che io fossi entusiasta di questa parentela: non mi conoscono... Noi « tortorelle » ostentammo di disinteressarci della questione. Penso che tu avessi tanta fiducia nel genio di tuo padre quanta io ne avevo in quello di mia madre. E dopo tutto, forse né io né tu sapevamo fino a qual punto amassimo il denaro... No, sono ingiusto; non l’hai amato altro che per i

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figli. Forse mi assassineresti per arricchirli, ma per loro ti toglieresti il pane dalla bocca. Io invece... amo il denaro, lo confesso, perché esso mi dà la sicurezza. Non potete far nulla contro di me, finché rimango padrone della mia ricchezza. — Ne oc­ corre così poco alla nostra età — mi ripeti. Quale sba­ glio! Un vecchio è considerato solo in virtù di ciò che possiede; quando non ha più nulla, lo si scaccia. Non gli rimane altra scelta che la casa di riposo, l’ospizio o l’avventura. Quante volte ho notato che si ripetono, con un po’ più di forma e di modi, nelle famiglie borghesi, le storie dei contadini che lasciano morire di fame i loro vecchi dopo averli spogliati di tutto! Ebbene sì, ho pau­ ra di diventare povero e mi sembra che non avrò mai abbastanza denaro; quel denaro che attrae voi e pro­ tegge me. È passata, senza che io la sentissi, l’ora dell’Angelus... no, non l’hanno suonato, perché oggi è venerdì santo. Gli uomini della mia famiglia stanno per arrivare in au­ tomobile ed io questa sera scenderò a cena. Voglio ve­ derli tutti insieme: mi sento più forte contro tutti che nei colloqui con ognuno di essi. E poi ci tengo a man­ giare una costoletta in questo giorno di penitenza, non per fare una bravata, ma per provarvi che ho conser­ vato integra la mia volontà e che non cederò su nulla. Se facessi una soia concessione, una ad una cadreb­ bero tutte le posizioni che occupo da quarantacinque anni e dalle quali non hai potuto sloggiarmi. Mangiare una costoletta il venerdì santo, al cospetto di questa fa­ miglia che si nutre di fagioli e di sardine, indicherà che nessuna speranza resta loro di derubarmi, finché son vivo.

IV

Non m’ero ingannato pensando che la mia presenza tra voi ieri sera, avrebbe disturbato i vostri piani. Soltanto i ragazzi sedevano allegri a tàvola, perché, alla sera del venerdì santo, mangiano cioccolato e crostini imburrati. Non riesco a distinguere tra loro questi ragazzi; mia ni­ pote Giannina ha già un bimbo che cammina... Ho di­ mostrato a tutti di avere un appetito eccellente. Tu hai fatto allusione alla mia salute e alla mia età, per poter scusare agli occhi dei figli il fatto che io mangiassi la carne. L’ottimismo di Uberto mi è sembrato terribile. Come un uomo per il quale si tratta di vita o di morte, egli dice di esser certo che la Borsa tra poco risalirà. So, pur non sentendolo, che questo quarantenne è mio figlio e mi riesce impossibile guardare in faccia questa verità. E se i suoi affari andassero male? Un agente di cambio, che dà dividendi così alti, si espone, rischia molto... Il giorno in cui sarà in ballo l’onore della fa­ miglia... l’onore della famiglia! Ecco l’idolo al quale nulla sacrificherei. La mia decisione sarà presa e dovrò parare il colpo senza commuovermi, tanto più che al posto mio ci sarà sempre il vecchio zio Fondaudège per provvedere... Ma continuo a divagare... o piuttosto cer­ co di sottrarmi al ricordo di quella notte, nella quale, a tua insaputa, hai distrutto la nostra felicità.

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È strano pensare che tu possa aver dimenticato quelle poche ore di tepide tenebre che, in questa camera, han­ no deciso del nostro destino che ogni tua parola, senza che te ne accorgessi, sempre più separava. La tua me­ moria, ingombra di mille ricordi futili, nulla ha ritenuto di questo disastro. Tu, che professi di credere alla vita eterna, hai quella notte impegnato e compromesso la mia eternità, perché il nostro primo amore m’aveva reso sensibile all’atmosfera di fede e di adorazione che irro­ rava la tua vita. Amavo te e, con te, gli elementi spiri­ tuali del tuo essere e mi commuovevo quando ti ingi­ nocchiavi racchiusa nella tua lunga camicia di educanda... Alloggiavamo nella camera ove ora scrivo. Come mai, tornando dal viaggio di nozze, eravamo venuti a Calèse, in casa di mia madre? (Non avevo accettato che ella ci cedesse Calèse, ch’era opera sua e che ella amava.) Mi sono ricordato in seguito, per poterne alimentare il mio rancore, alcune circostanze che dapprima m’erano sfuggite, o da cui avevo distolto l’attenzione. La tua fa­ miglia col pretesto della morte di uno zio aveva, all’uso inglese, soppresso i festeggiamenti nuziali. Segno evi­ dente che si vergognava di una parentela così mediocre. Il barone Philipot raccontava a tutti, a Bagnères-de-Luchon, che sua cognata aveva « perso la testa » per un giovane quasi bello, molto ricco e con un sicuro avve­ nire, ma d’origine oscura, e diceva: — La sua non è una famiglia —. Parlava di me come se io fossi stato un figlio naturale; ma, tutto sommato, trovava interessante che io non avessi una famiglia di cui si potesse arrossire. La mia vecchia madre era presentabile e sembrava te­ nesse molto alla propria condizione. Infine, a sentire lui, tu eri la fanciulla viziata che faceva dei suoi genitori ciò che voleva e la mia ricchezza — diceva — era molto attraente perché i Fondaudège potessero consentire al matrimonio e chiudere gli occhi sul resto. Quando mi furono riferiti questi giudizi non appresi nulla che già non sapessi e, felice com’ero, non vi at-

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tribuii alcuna importanza. Avevo trovato il mio torna­ conto a celebrare le nozze quasi di nascosto: come avrei potuto trovare giovani decorosi nella piccola banda fa­ melica di cui ero stato il capo? Il mio orgoglio m'im­ pediva di prendere contatto con i miei nemici di ieri e questo matrimonio mi avrebbe reso facile il poterli avvicinare ; ma mi rattristavo nel doverlo riconoscere, perché non dissimulavo il mio carattere indipendente, inflessibile. Non mi inchino davanti a nessuno, conservo fedelmente le mie idee. Il matrimonio aveva perciò de­ stato in me qualche rimorso. Avevo promesso ai tuoi di non far nulla per allontanarti dalle pratiche religiose, ma non m’ero impegnato a non affiliarmi alla masso­ neria. D’altronde voi non pensavate di pretendere qual­ cosa da me. A quell’epoca, la religione non riguardava che le donne, e nella tua società la formula accettata era : « Il marito accompagna la moglie a messa ». Vi avevo già provato a Luchon che ciò non mi ripugnava. Al nostro ritorno da Venezia, nel settembre dell’ ’85, i tuoi genitori trovarono mille pretesti per non riceverci nel loro castello di Cenon ove gli amici loro e quelli di Philipot avevano occupato tutte le stanze. Trovammo quindi conveniente alloggiare per qualche tempo in casa di mia madre. Il ricordo della nostra durezza nei suoi riguardi non ce lo impediva, e consentimmo a restarvi finché ci avrebbe fatto comodo. Ella si guardò bene dall’esultarne, ma diceva che la sua casa era nostra, che potevamo ricevere chi ci pareva, che non si sarebbe fatta vedere. Diceva: — So sparire — e ancora — sto sempre fuori di casa —. Infatti si occu­ pava molto delle vigne, delle cantine, del pollaio e del bucato. Dopopranzo saliva un momento in camera sua e si scusava se, al ritorno, ci trovava ancora in salotto. Bussava prima di entrare, tanto che dovetti avvisarla che non doveva farlo. Arrivò fino al punto d’offrirti di pen­ sare alla casa, ma tu, che non ne avevi alcun desiderio,

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non le desti quel dolore. Ah! Com’eri condiscendente con lei e quanto te n’era grata! Non mi avevi allontanato da lei quanto ella temeva; anzi mi mostravo con lei più gentile di quel che non lo fossi prima di sposarmi. Le nostre allegre risate la mera­ vigliavano: quel giovane marito felice era proprio suo figlio, per così lungo tempo chiuso in sé, ostile? Pen­ sava di non aver saputo prendermi, perché ero troppo superiore a lei. Tu mettevi un riparo al male che ella aveva fatto. Ricordo la sua ammirazione quando tu imbrattavi di pitture parafuochi e tamburelli, quando, attaccando sem­ pre allo stesso punto, cantavi o suonavi al piano una « romanza senza parole » di Mendelssohn. Venivano qualche volta a trovarti alcune signorine tue amiche. Le avvertivi : — Vedrete mia suocera; è un bel tipo, una vera signora di campagna come non se ne tro­ vano più —. Tu le trovavi uno « stile ». Mia madre aveva una maniera di parlare in dialetto ai domestici che tu trovavi molto carina. Arrivavi fino al punto di mo­ strare la fotografia in cui mia madre, a quindici anni, portava ancora il fazzoletto. « Più nobili di molti no­ bili » era il tuo ritornello sulle vecchie famiglie campa­ gnole. Com’eri convenzionale allora ! Ma la maternità ti richiamò alla realtà della natura. Cerco sempre di evitare il racconto di quella notte. Faceva così caldo che, nonostante tu avessi paura dei pipistrelli, non avevamo potuto lasciar chiuse le persia­ ne. Pur sapendo che era lo sfregamento delle foglie di un tiglio contro il muro della casa, avevamo sempre l’impressione che qualcuno respirasse in fondo alla ca­ mera. A volte il vento imitava, nel muovere le foglie, il rumore di una pioggia dirotta. La luna che tramon­ tava rischiarava il pavimento, e i nostri indumenti sparsi sembravano fantasmi. Nel prato mormorante, il mormo­ rio era diventato silenzio. E mi dicevi: — Dormiamo. Bisognerebbe dormire... —

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Ma un’ombra aleggiava sulla nostra stanchezza. Non ri­ salivamo soli dal fondo dell’abisso, sorgeva con noi quel Rodolfo sconosciuto, che svegliavo nel tuo cuore strin­ gendoti fra le braccia. Quando le riaprivo, indovinavo la sua presenza. Non volevo soffrire, avevo paura di soffrire. Istintivamente agivo per la mia felicità. Sapevo di non doverti inter­ rogare e lasciavo che quel nome scoppiasse come una bolla di sapone alla superficie della nostra vita. Non feci nulla per strappare dal fango questo principio di cor­ ruzione, questo segreto putrido che dormiva sotto le acque addormentate. Ma tu, miserabile, avevi bisogno di sfogare con le parole la tua passione ingannata e non sazia. Bastò che mi lasciassi sfuggire la domanda: — Ma insomma, chi era questo Rodolfo? — Ci sono cose che avrei dovuto dirti... Oh! rassi­ curati, nulla di grave. Parlavi con voce bassa e affrettata e non poggiavi più la testa sulla mia spalla. Già la distanza piccolissima, che separava i nostri corpi distesi, era diventata insor­ montabile. Era figlio di un’austriaca e di un grande industriale del nord... L’avevi conosciuto ad Aix, ove avevi ac­ compagnato tua nonna, l’anno prima del nostro incon­ tro a Luchon. Veniva da Cambridge; non me lo descri­ vevi, ma io gli attribuii subito tutte le bellezze di cui ero privo. Il chiarore lunare illuminava la mia grande mano nodosa di contadino, dalle unghie corte. Dicevi che, pur essendo egli meno rispettoso di me, non ave­ vate fatto nulla di male. La mia memoria non ha rite­ nuto nulla di preciso su quanto hai confessato. Che m’importava? Non si trattava di questo perché, se tu non l’avessi amato, mi sarei consolato pensando ad una di quelle piccole disfatte che oscurano, ad un tratto, la purezza di una fanciulla. E mi domandavo: “Come ha potuto amarmi, se non era trascorso ancora un anno da quel grande amore?”. Il terrore mi gelava, quando mi dicevo: “Non è altro che finzione, m’ha mentito, non

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ha scelto me”. Come avevo potuto credere che una fan­ ciulla mi avrebbe amato! Ero un uomo che non si ama! Le stelle mattutine palpitavano ancora. Un merlo si svegliò. Il vento che udivamo soffiare tra le foglie, pri­ ma ancora che sui nostri corpi, gonfiava le tende e mi rinfrescava gli occhi come al tempo della mia felicità. Questa felicità esisteva, non più tardi di dieci minuti prima, e già pensavo: “Il tempo della mia felicità...”. Ti domandai : — Non ha voluto saperne di te ? Ricordo che ti ribellasti e sento ancora il tono spe­ ciale che la tua voce assumeva, quando era in gioco la tua vanità. Naturalmente, Rodolfo era invece molto or­ goglioso e molto fiero di sposare una Fondaudège. Ma i suoi genitori avevano saputo che tu avevi perduto due fratelli, tutti e due uccisi dalla tisi appena adolescenti, e, siccome anche lui era di salute delicata, furono irri­ ducibili. Ti interrogavo con calma e non comprendesti che cosa stavi per distruggere. — Tutto ciò, mio caro, è stato per noi provviden­ ziale — mi dicevi. — Sai quanto i miei genitori siano superbi, del resto ridicolmente, lo riconosco. Posso con­ fessarti che la nostra felicità è stata possibile solo perché quel mancato matrimonio ha fatto perder loro la testa. Conosci l’importanza che si dà, nella nostra società, a ciò che riguarda la salute quando si tratta di matrimonio. Mia madre immaginava che tutti conoscessero la mia avventura, che nessuno -più mi avrebbe sposata e aveva l’idea fissa che sarei rimasta zitella. Che vita mi ha fatto fare per alcuni mesi ! Come se non ne avessi avuto ab­ bastanza del mio dolore... Era riuscita a persuadere mio padre e me che non mi sarei più potuta sposare. Trattenevi le parole che avrebbero potuto mettermi in sospetto. Mi ripetevi che tutto ciò era stato provviden­ ziale per il nostro amore. — Appena ti ho visto, ti ho amato. Avevamo pregato molto a Lourdes, prima di andare a Luchon, ed ho com-

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preso, vedendoti, che le nostre preghiere erano state esaudite. Non capivi l’irritazione che queste parole suscitavano in me. I vostri avversari segretamente si formano della religione un’idea molto più alta di quanto essi stessi non lo credano. Se ciò non fosse, perché si sentirebbero of­ fesi dal fatto che voi la praticate bassamente? A meno che ai vostri occhi non sembri semplicissimo chiedere a quel Dio, che chiamate padre, anche i beni temporali!... Ma che conta tutto ciò ? Appariva chiaramente dalle tue parole che tu e la tua famiglia vi eravate avidamente gettati sul primo imbecille incontrato. Finora non avevo mai considerato fino a qual punto fosse sproporzionato il nostro matrimonio. Tua madre doveva essere stata colpita dalla follia e doveva averla trasmessa a tuo padre e a te... Mi dicevi che i Philipot erano arrivati fino al punto di minacciare di rinnegarti, qualora tu mi avessi sposato. Sì, a Luchon, quell’imbe­ cille di Philipot, che noi canzonavamo, aveva fatto l’im­ possibile per decidere i Fondaudège alla rottura. — Ma io ci tenevo a te, mio caro, e non l’ha vinta. Mi ripetevi ogni tanto che tu, d’altronde, non rim­ piangevi nulla. Ti lasciavo parlare e mi trattenevo. Mi rassicuravi che non saresti stata felice con Rodolfo per­ ché era troppo bello, perché non amava ma si lasciava amare, e qualcuna te l’avrebbe portato via. Non t’accorgevi che, quando lo nominavi, anche la voce cambiava tono: diventava meno sottile, acquistava una specie di tremito, di spasimo, come se vecchi sospiri fossero rimasti quasi in sospeso nel tuo petto, che se ne liberava solo al nome di Rodolfo. Non ti avrebbe reso felice perché era bello, attraente, amato. Ciò voleva dire che io ero la tua gioia per il mio volto brutto, per l’intrattabile modo di fare che al­ lontanava i cuori. Dicevi che Rodolfo era insopporta­ bilmente affettato, come i giovanotti che sono stati a Cambridge e che scimmiottano gli inglesi... Preferivi un marito che non sapesse scegliere la stoffa per un

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vestito e fare il nodo alla cravatta, che odiasse gli sport, che non esercitasse la sapiente frivolità, quell’arte di elu­ dere le questioni serie, la verità e le confessioni, quella scienza di saper vivere felici e con gentilezza di modi? No, tu avevi preso me, infelice, perché mi trovavo là, l’anno in cui tua madre, preoccupata del periodico rin­ novarsi della malattia, s’era persuasa che tu non eri « maritabile ». Avevi preso me perché non volevi e non potevi rimanere zitella per sei mesi ancora, e perché agli occhi della gente era scusa sufficiente la mia ricchezza... Trattenevo il respiro affannoso, stringevo i pugni, mi mordevo le labbra. Quando mi capita di avere disgusto di me stesso fino al punto di non poter più soffrire né il mio cuore né il mio corpo, il mio pensiero va a quel ragazzo del 1885, a quello sposo di ventitré anni che, con le braccia serrate contro il petto, soffocava con rab­ bia il suo giovane amore. Tremavo, t’accorgesti che battevo i denti e mi do­ mandasti : — Hai freddo, Luigi ? Risposi che non era nulla, che non era altro che un brivido. — Non sarai geloso, spero? Sarebbe troppo sciocco... Non mentivo giurando che non vi era in me alcuna ombra di gelosia. Come avresti potuto capire che il dramma si svolgeva al di fuori di qualsiasi gelosia? T’inquietavi per il mio silenzio, lungi dal presentire fino a quale profondità fossi stato colpito. Con la mano cercasti nell’oscurità la mia fronte e mi accarezzasti. Il mio viso non era bagnato di lacrime, eppure la tua mano non riconobbe i lineamenti familiari in questa dura fac­ cia dalle mascelle serrate. Avesti paura. Ti coricasti quasi su me per accendere la candela; non riuscivi a prendere i fiammiferi. Soffocavo sotto il tuo corpo odioso. — Co­ s’hai? Non rimanere così muto perché mi fai paura. Finsi di stupirmi e t’assicurai che non avevo nulla che potesse darti pensiero.

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— Quanto sei sciocco, mio caro, a farmi impaurire! Spengo la luce. Dormo.

Non parlasti più. Guardavo spuntare il nuovo giorno, il giorno della mia nuova vita. Sul tetto cantavano le rondini; un uomo attraversava il cortile, trascinando gli zoccoli. Udivo tutto quello che ancora oggi odo, dopo quarantacinque anni: i galli, le campane, un treno merci sul viadotto; respiro ancora, come prima respiravo, l’odo­ re che io amo, quell’odore di cenere portato dal vento quando dalla parte del mare vi sono campi incendiati. Mi sollevai all’improvviso. — Isa, piangevi per causa sua, quella sera su quel se­ dile, nei viali serpeggianti di Superbagnères ? Siccome tacevi, t’afferrai pel braccio; ti divincolasti con un rantolo quasi animalesco e ti rivoltasti sul fianco. Dormivi ravvolta nei tuoi lunghi capelli. Il fresco del­ l’alba ti aveva costretta a tirar su le coperte, in disor­ dine, sul corpo rannicchiato, raggomitolato, come quello di una bestiola. Perché destarti dal tuo sonno di bimba? Non sapevo già, ciò che volevo udire dalla tua bocca? Mi alzai senza far rumore, mi recai a piedi scalzi fino allo specchio dell’armadio come se fossi stato un altro, o meglio come se fossi ridiventato io: l’uomo che non era mai stato amato e per il quale nessuno aveva mai sofferto. Ebbi compassione della mia giovinezza e passai la mia grande mano di contadino sulla guancia non ra­ sata ove spuntava una barba dura, dai riflessi rossicci. Mi vestii in silenzio e scesi in giardino. Mia madre, che si alzava prima della servitù per dare aria alla casa, stava nel viale delle rose. Mostrandomi la caligine che incombeva sulla piana, mi disse: — Approfitti del fre­ sco? Oggi farà un caldo asfissiante e alle otto chiuderò tutte le finestre. L’abbracciai con tenerezza maggiore dell'usuale ed ella mi disse a mezza voce: -— Mio caro... — Il cuore stava per scoppiarmi (ti meravigli forse che io parli di cuore?) e stetti in forse se parlare... Come cominciare? M'avreb-

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be ella capito ? Il silenzio è facile e vi soccombo sempre. Scesi verso la terrazza. Smilzi alberi da frutta si di­ segnavano vagamente sopra il vigneto. La sommità delle colline sconvolgeva la bruma, la squarciava. Spuntava dalla nebbia un campanile, quindi pian piano, come cor­ po vivo, sorgeva la chiesa. Tu credi che io non abbia mai capito la bellezza di queste cose... Sentivo invece, in queil’istante, che una creatura finita, come io lo ero, può cercare la ragione, il senso della sua disfatta; ed è possibile che questa disfatta racchiuda un significato e che gli avvenimenti, soprattutto quelli in cui entra il cuore, siano forse i messaggeri di cui bisogna interpre­ tare il segreto... Sì, ero capace di percepire, in determi­ nate circostanze della vita, cose che avrebbero dovuto avvicinarmi a te. La mia emozione, quel mattino, durò solo pochi istan­ ti. Mi sembra di vedermi ancora, mentre risalivo verso casa. Non erano ancora le otto e già il sole picchiava forte. Tu stavi alla finestra con la testa abbassata e spaz­ zolavi con una mano i capelli che reggevi con l’altra. Non mi vedevi. Mi fermai un istante con la testa ri­ volta verso di te e ti guardai con un odio, il cui senso di amarezza mi sembra sentire in bocca ancor oggi, dopo tanti anni. Corsi fino alla scrivania, aprii il passetto chiuso a chia­ ve, ne tirai fuori un piccolo fazzoletto sgualcito, quello che avevo adoperato per asciugare le tue lacrime la sera di Superbagnères e che, povero idiota, avevo tenuto sul petto. Lo presi, vi attaccai una pietra, come avrei fatto a un cane vivo che avessi voluto annegare, e lo gettai in quella pozza che, in casa, chiamiamo « gocciolo ».

Ebbe inizio allora l’epoca del grande silenzio che, da quarant’anni, non è più stato rotto. Nessuno si accorse di questo sfacelo e tutto continuò come durante il pe­ riodo della mia felicità. Seguitammo i nostri rapporti intimi, ma dal nostro amplesso non sorse più il fanta­ sma di Rodolfo e tu non pronunziasti più il suo nome terribile. Quel fantasma sorto al tuo richiamo, aveva aleggiato intorno al nostro letto, aveva portato a ter­ mine la sua opera di distruzione. Non ci rimaneva ora che tacere e attendere la lunga serie dei risultati e la concatenazione delle conseguenze. Forse tu sentivi di aver avuto torto a parlare. Pensavi che ciò non era molto grave e che d’altronde era meglio bandire quel nome dai nostri discorsi. Non so se ti ac­ corgesti che non parlavamo più, come prima, durante la notte. Le nostre interminabili conversazioni erano finite; stavamo in guardia e non dicevamo più nulla che non fosse già meditato. Il mio dolore mi svegliava in piena notte. Ero unito a te come il lupo alla trappola. Immaginavo le parole che ci saremmo scambiate se ti avessi scossa e buttata giù dal letto: «No, non ti ho mentito» tu avresti gri­ dato « poiché t’amavo... ». Sì, per il tuo piacere e perché fa sempre comodo ricorrere al turbamento carnale che nulla esprime, per far credere all’altro che lo si ama.

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Non ero un mostro e la prima fanciulla che m’avesse amato, avrebbe fatto di me ciò che le sarebbe piaciuto. Nell’oscurità a volte mi lamentavo, ma tu non ti destavi.

La tua prima gravidanza rese del resto inutile qual­ siasi spiegazione e fece cambiare a poco a poco i nostri rapporti. Si manifestò prima della vendemmia, e tor­ nammo in città ove però abortisti e dovesti rimanere a letto per molte settimane. In primavera fosti di nuovo incinta e bisognosa di molti riguardi. Cominciò allora il periodo delle gestazioni, delle disgrazie, dei parti che mi fornirono, più di quel che fosse necessario, il prete­ sto per allontanarmi da te. Mi ingolfai in una vita se­ gretamente disordinata; molto in segreto, in quanto che cominciai a lamentarmi di essere troppo « affaccendato » come diceva mia madre, e a sostenere che si trattava per me di salvare la nostra situazione. Avevo le- mie ore, le mie abitudini. La vita, in una città di provincia, svi­ luppa nell’individuo corrotto l’istinto dello stratagemma proprio del malvivente. Rassicurati, Isa, ti risparmierò ciò che può farti orrore. Non temere la descrizione del­ la bassezza nella quale discendevo quasi ogni giorno. Tu mi ci ricacciavi, tu che me ne avevi tirato fuori. Se io fossi stato meno prudente, non vi avresti visto che fuoco. Da quando nacque Uberto, tradisti la tua vera natura: eri madre, soltanto madre. La tua attenzio­ ne si allontanò da me, non mi vedevi più, ed era let­ teralmente vero che non avevi occhi che per i figli. Fe­ condandoti, avevo fatto tutto ciò che tu attendevi da me. Finché i figli furono piccolissimi e finché non badai a loro, non potè nascere tra noi alcuna disputa. Ci rin­ contravamo solo in questi gesti rituali in cui i corpi agiscono per abitudine, e in cui l’uomo e la donna sono lontani ognuno mille miglia dalla propria carne. Cominciasti ad accorgerti che esistevo solo quando, a mia volta, gironzavo attorno ai figli e ad odiarmi quan­ do pretesi di avere dei diritti su di essi. Gioisci della confessione che oso farti: non era l’istinto paterno che

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mi spingeva. Sono stato geloso della passione che ave­ vano svegliato in te; ho cercato di prenderteli per pu­ nirti. Cercavo nobili pretesti, mettevo avanti l’esigenza del dovere; non volevo che una donna bigotta falsasse 10 spirito dei miei figli. Queste erano le ragioni che adducevo, ma che non erano vere. Finirò questo racconto? L’ho cominciato per te e già mi sembra inverosimile che tu possa seguirmi ancora. In sostanza, è per me stesso che scrivo. Vecchio avvocato, metto in ordine il mio incartamento, riordino i docu­ menti della mia vita, di questo processo perduto. Odo le campane... Domani è Pasqua. Scenderò con voi per rispetto a questo giorno santo, te l’ho promesso. — I figli si lamentano di non vederti -—- mi dicevi stamane. Nostra figlia Genoveffa era con te, in piedi, vicino al mio letto. Sei uscita, perché restassimo soli: doveva chieder­ mi qualche cosa. Vi avevo sentito bisbigliare nel corri­ doio : — È meglio che sia tu la prima a parlargliene... — dicevi a Genoveffa... Si tratta certamente di Fili, quel va­ gabondo di suo genero. Come sono divenuto abile a sviare la conversazione, a impedire che si ponga una do­ manda! Genoveffa è uscita senza avermi potuto dir nul­ la. So quello che vuole, perché ho inteso tutto l’altro giorno: basta che mi sporga un po’ quando la finestra del salotto, che è sotto la mia, è aperta! Si tratta di anticipare i capitali occorrenti a Fili per la nomina ad agente di cambio. Un impiego di capitali come un altro, molto sicuro... Come se non vedessi il turbine che sta per giungere, come se non bisognasse, ora, mettere il denaro sotto chiave... Se sapessero quanto ho realizzato, 11 mese scorso, prevedendo il ribasso... Per i vespri sono partiti tutti. Pasqua ha vuotato la casa, i campi. Son rimasto solo, vecchio Faust allonta­ nato dalla gioia della gente per l’atroce vecchiaia. Du­ rante la colazione, erano tutti pronti a raccogliere le mie parole sulla Borsa, sugli affari. Parlavo soprattutto per Uberto, perché se è ancora in tempo, si fermi. Con

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quale ansia mi ascoltava... Ecco uno che non sa simu­ lare! Non si curava del piatto che tu gli riempivi, con quella ostinazione delle povere madri che vedono il figlio in preda a preoccupazioni e che lo forzano a mangiare, come se ciò fosse tanto di guadagnato, tanto di preso ! Ed egli ti respingeva come facevo anch’io con mia ma­ dre, in altri tempi. Ricordo la premura di Fili per riempirmi il bicchiere; e il finto interessamento di sua moglie, la piccola Gian­ nina: — Nonno, fate male a fumare; anche una sola si­ garetta è troppo. Siete sicuri che non si siano sbagliati e che sia proprio caffè senza caffeina? — Recita male la sua parte, poverina, non è sincera e il suono della sua voce la smaschera. Anche tu, appena sposata, eri affet­ tata; ma dopo la prima gravidanza, tornasti normale. Giannina sarà, fin che morirà, una donna che si tiene al corrente di tutto, ripete quello che ha sentito dire e che le è sembrato di buon gusto; sputa sentenze su tutto e non capisce assolutamente nulla. Come mai Fili, col suo carattere, sopporta la vita in comune con quella pic­ cola idiota? Tutto in lei è falso, tranne la sua passione. Agisce male perché nulla ha valore per lei, nulla esiste all’infuori del suo amore. Dopo colazione stavamo tutti seduti nella veranda. Giannina e Fili guardavano con aria supplichevole Genoveffa, la loro mamma; costei a sua volta si voltava verso di te, che facesti un imper­ cettibile segno di diniego. Genoveffa si è allora alzata e m'ha chiesto: — Papà, vuoi fare una passeggiatina con me? Quale timore incuto a voi tutti ! Ebbi pietà di lei e, pur non avendo voluto da principio muovermi, mi sono alzato e ho preso il suo braccio. Abbiamo fatto il giro del prato, mentre la famiglia, dal balcone, ci osservava. Genoveffa entrò subito nel vivo: — Vorrei parlarti di Fili. Tremava. Il far paura ai propri figli è cosa orribile. Ma credete che, a sessantotto anni, si possa non avere un aspetto implacabile? A quell’età non si può cambiare

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la espressione della fisionomia e l’anima si scoraggia quando non può manifestarsi esteriormente. Genoveffa si sbarazzava in fretta di ciò che aveva preparato; si trat­ tava della somma relativa alla quarta parte del valore della carica d’agente di cambio. Insisté su ciò che più poteva indispormi: a sentir lei, l'ozio di Fili compro­ metteva l’avvenire della famiglia perché egli cominciava a sviarsi. Le risposi che per un giovane, come suo ge­ nero, il « quarto d’agente di cambio » non sarebbe ser­ vito ad altro che a fornirgli un alibi. Ella l’ha difeso, dicendo che Fili era ben visto da tutti e che « non si doveva essere più severi verso di lui di quel che non lo fosse Giannina... ». Risposi che io non lo giudicavo, né lo condannavo, perché la sua carriera amorosa non m’interessava affatto. — S’interessa egli di me? E perché dovrei interes­ sarmi io di lui? — Ti ammira molto... Questa sfacciata menzogna mi servì per tirar fuori quello che mi riservavo di dire: — Ciò non gli impedi­ sce però, figlia mia, di chiamarmi « vecchio coccodrillo ». No, non protestare, l’ho sentito con le mie orecchie mol­ te volte... Ma non lo smentirò: coccodrillo sono, cocco­ drillo resto. Da un vecchio coccodrillo non si attende altro che muoia; ma anche morto — ebbi l’imprudenza di aggiungere — anche morto, ne può fare ancora qual­ cuna delle sue —. (Come mi dispiace di aver detto tutto ciò, di avergli messo la pulce nell’orecchio.) Genoveffa, abbattuta, protestava credendo che io dessi importanza a quel soprannome ingiurioso. E invece la giovinezza di Fili, che odio. Come potrebbe ella imma­ ginare ciò che rappresenta, agli occhi di un vecchio odiato ed esasperato, un giovane essere trionfante che, dall'infanzia, è stato saziato di tutto ciò che io non avrei mai gustato in mezzo secolo di vita? Detesto, odio i giovani, e Fili più di ogni altro. Egli è penetrato facilmente in casa mia, attirato dall’odore, come il gatto che entra silenziosamente dalla finestra.

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Mia nipote non aveva una dote vistosa, ma aveva, in cambio, magnifiche speranze. Le speranze dei nostri figli ! Per raggiungerle devono passare sul nostro cadavere. Poiché Genoveffa singhiozzava e s’asciugava gli occhi, le dissi con voce insinuante: — Tuo marito Alfredo, che si occupa di rum, può fare una posizione a tuo ge­ nero. Perché dovrei essere io più generoso di quel che non lo siate voi? Cambiò tono per parlarmi del povero Alfredo: che sdegno! che disgusto! A sentir lei era uno scrupoloso che ogni giorno più riduceva i suoi affari; nella sua ditta, fino a poco prima così importante, non v’era ora posto per due. Mi felicitai con lei che aveva un marito di tal ge­ nere: quando si avvicina la tempesta, bisogna ammai­ nare le vele. L’avvenire è per coloro che, come Alfredo, hanno vedute ristrette. La mancanza di larghezza è oggi la prima qualità negli affari. Credette che io mi beffassi di lei, mentre invece questo è il mio intimo pensiero, tanto è vero che conservo il denaro sotto chiave per non correre il rischio della Cassa di Risparmio. Risalivamo verso casa, Genoveffa non osava dire più nulla. Non mi appoggiavo più al suo braccio. La fami­ glia, seduta in cerchio, ci guardava e senza dubbio già interpretava nefasti presagi. Il nostro ritorno interrom­ peva evidentemente una discussione sorta tra la famiglia di Uberto e quella di Genoveffa. Oh, la bella battaglia attorno al mio gruzzolo, se io consentissi a cederlo ! Sol­ tanto Fili era in piedi. Il vento agitava i suoi capelli ribelli. Aveva una camicia aperta, con le maniche corte. I giovani di oggi non mi piacciono, e così pure le ra­ gazze dalle forme atletiche. Arrossì come un fanciullo quando, alla sciocca domanda di Giannina: — Ebbene, avete chiacchierato? — risposi dolcemente: — Abbiamo parlato d’un vecchio coccodrillo... Voglio ripetere ancora una volta che non per questa offesa lo odio. Essi non sanno che cosa sia la vecchiaia e non possono immaginare il supplizio di aver nulla

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avuto dalla vita e nulla attendere dalla morte. Nulla esiste nell’al di là, nessuna luce, nessuna spiegazione dell’enigma... Ma tu non hai sofferto quello che io ho sofferto, tu non soffrirai mai quello che io soffro. I figli non attendono la tua morte; t’amano, a modo loro, ma t’amano. Si sono schierati in tuo favore, sebbene anch’io, a mio modo, li amassi. Genoveffa, questa donna di qua­ rantanni che, poco fa, cercava di estorcermi quattrocen­ to biglietti da mille per quel fannullone di suo genero, la ricordo bimba sulle mie ginocchia. Appena la vedevi tra le mie braccia, la chiamavi... Ma non arriverò mai alla fine di questa confessione se continuo a mescolare così il presente col passato. Cercherò di mettervi un po’ d’ordine.

VI

Non mi sembra d’aver cominciato ad odiarti subito dopo quella notte nefasta. Il mio odio è nato a poco a poco, a misura che mi rendevo conto della tua indif­ ferenza a mio riguardo, e m’accorgevo che non esisteva altro per te al di fuori di quei piccoli esseri, strilloni e avidi, che vagivano. Non t’eri nemmeno accorta che, quando ancora non avevo trent’anni, ero diventato un commercialista sopraccarico di lavoro, ed ero già salu­ tato come un giovane maestro nel Foro più celebre di Francia, dopo quello di Parigi. A cominciare dalla cau­ sa Villenave (1893) mi rivelai anche un grande avvo­ cato d’assise (molto raramente si eccelle in tutte e due le specialità), e tu fosti la sola persona che non si rese conto della universale rinomanza del mio patrocinio. Fu in quell’anno che il nostro apparente accordo diventò guerra aperta. La famosa causa Villenave consacrò il mio trionfo, ma strinse la morsa che mi soffocava; e, se pur mi re­ stava qualche speranza, mi provò che per te non esi­ stevo. I Villenave — ricordi la loro storia - dopo vent’anni di matrimonio, si amavano di un amore che era diven­ tato proverbiale. Si diceva « uniti come i Villenave ». Vivevano con l’unico figlio di quindici anni nel loro ca­ stello di Ornon alle porte della città, ricevevano poco,

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bastavano l’uno all’altro. « Un amore che si trova solo nei libri » diceva tua madre, con una di quelle frasi fatte di cui sua nipote Genoveffa ha ereditato il segreto. Giurerei che tu hai completamente dimenticato quel dramma. Se te lo raccontassi ti burleresti di me come quando, a tavola, ricordavo i miei esami e i miei con­ corsi! Una mattina, il domestico che faceva le pulizie nelle stanze di sotto, sente al primo piano un colpo di pistola e un grido di dolore; si precipita; la camera da letto dei suoi padroni è chiusa. Sorprende parole a bas­ sa voce, un sordo trambusto e passi precipitosi nel gabi­ netto da toletta. Egli fece ripetutamente scorrere il sa­ liscendi finché, d’un tratto, la porta si aprì. Villenave era disteso sul letto, in camicia, coperto di sangue. La moglie con i capelli sciolti, in veste da camera, ritta ai piedi del letto e con una pistola in mano, disse: — Ho ferito mio marito, fate venire subito il medico, il chi­ rurgo e il commissario di polizia. Non mi muovo di qua —. Non si riuscì a farle confessare altro che : — Ho fe­ rito mio marito —, cosa che il Villenave confermò ap­ pena potè parlare, rifiutandosi di dare altri particolari. L'accusata non volle scegliersi alcun avvocato. Io, ge­ nero di un loro amico, fui nominato d’ufficio suo di­ fensore, ma, nelle quotidiane visite che le feci in pri­ gione, non riuscii a cavar nulla da quella donna osti­ nata. Correvano in città sul suo conto le fantasticherie più assurde, ma io, fin dal primo giorno, non dubitai affatto della sua innocenza: ella si accusava e il marito, che l’amava, lo permetteva. Ah, che fiuto hanno gli uo­ mini che non sono amati per scoprire la passione negli altri! L’amore per il marito possedeva completamente quella donna. Non aveva certo sparato su di lui. Lo aveva forse riparato col suo corpo per difenderlo da qualche innamorato respinto? Nessuno era entrato in casa la sera, nessuno che abitualmente frequentasse la loro casa... ma non voglio raccontarti tutta quella vec­ chia storia. Fino al mattino del giorno in cui dovevo difenderla,

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avevo deciso di tenermi in atteggiamento negativo e di dimostrare solo che la signora Villenave non poteva aver commesso il delitto di cui ella si incolpava. Ciò che squarciò ogni velo, all’ultimo momento, fu la deposi­ zione del figlio Ivo o piuttosto (poiché essa fu insigni­ ficante e non portò nessuna luce) lo sguardo supplice e imperioso col quale la madre lo covava finché non lasciò la sbarra dei testimoni, e quella specie di sollievo che subito ella mostrò: denunziai il figlio, quell’adole­ scente malato, geloso del padre troppo amato. Con lo­ gica appassionata improvvisai quell’arringa, oggi famo­ sa, in cui il professor F. ha spontaneamente confessato d’aver trovato il germe essenziale del suo sistema, e che ha rinnovato la psicologia dell’adolescenza e la terapeu­ tica dei nervosi. Ricordo tutto ciò, mia cara Isa, non perché io speri di suscitare in te, dopo quarant’anni, l’ammirazione che non hai provato al momento della mia vittoria, quando i giornali di tutto il mondo pubblicarono la mia foto­ grafia. Ma voglio farti notare che, nel tempo in cui la tua indifferenza, in quell’ora solenne della mia carriera, mi faceva considerare tutto l’abbandono e la solitudine in cui ero lasciato, io avevo pur tuttavia avuto sotto gli occhi, per intere settimane, e avevo veduto entro le quat­ tro mura d’una cella, una donna che faceva sacrificio di se stessa per salvare non il proprio figlio, ma il figlio di suo marito, l’erede del suo nome. Lui, la vittima, l’aveva pregata... — Accusati — ed ella aveva spinto il suo amore fino all’assurdità, fino a far credere alla gente di essere una criminale, di essere lei l’assassina dell’uo­ mo che amava in modo unico. L’amore coniugale, non l’amore materno l’aveva spinta... (e l’ha ben provato in seguito, separandosi dal figlio e vivendo sempre lon­ tana da lui, con mille pretesti). Avrei potuto essere anch’io, un uomo amato, come lo era il Villenave. Lo avevo visto molte volte durante il processo. Che cosa aveva più di me? Era, sì, molto bello e fine, ma non doveva essere molto intelligente, e l’ha provato con la

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sua attitudine ostile a mio riguardo, dopo il processo. 10 invece ero quasi un genio. A quale celebrità sarei arrivato se, allora, una donna mi avesse amato? Non si può da soli aver fiducia in se stessi. Bisogna avere un testimone della nostra for­ za: qualcuno che segni i colpi e conti i punti, che ci premi nel giorno della ricompensa. In altri tempi, alla distribuzione dei premi, carico di libri, tra la folla cer­ cavo con gli occhi mia madre che, al suono di una mu­ sica militare, cingeva di alloro dorato la mia testa dai capelli tagliati di fresco. All’epoca del processo Villenave anche lei cominciò a non curarsi più di me. Me ne accorsi a poco a poco: 11 primo segnale del suo disinteressamento fu la cura che aveva per un piccolo cane nero, che abbaiava fu­ riosamente quando mi avvicinavo. Ad ogni visita non si parlava che di questa bestia. Ella non ascoltava più ciò che le dicevo di me. Mia madre, d'altronde, non avrebbe potuto sostituire l’amore che mi avrebbe salvato, in quel momento della mia esistenza. Mi aveva trasmesso il suo stesso vizio: amare troppo il denaro, e questa passione l’avevo nel sangue. Aveva fatto tutti gli sforzi per sistemarmi in una professione che, come ella diceva, « mi rendesse molto ». E, pur sentendomi attratto dalla letteratura, pur essendo invitato dai giornali e da tutte le grandi rivi­ ste, pur avendo avuto l’offerta, per le elezioni, d’una candidatura a La Bastide (colui che accettò al posto mio fu eletto senza difficoltà), resistevo all’ambizione perché non volevo rinunziare a « guadagnar molto ». Anche tu lo desideravi e mi avevi fatto capire che non avresti mai abbandonato la provincia. Una donna che mi avesse amato, avrebbe desiderato la mia gloria e mi avrebbe insegnato che l’arte di vivere consiste nel sacrificare una passione bassa ad una più nobile. Quei giornalisti imbecilli, che fingono d’indignarsi perché l’av­ vocato Tale approfitta d’essere deputato o ministro per racimolare guadagni casuali, farebbero molto meglio ad

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ammirare la condotta di coloro che hanno saputo stabi­ lire una intelligente gradazione tra le loro passioni, e che hanno preferito la gloria politica agli affari più redditizi. Se tu m’avessi amato, mi avresti guarito dalla tara di nulla anteporre al guadagno immediato, d’essere incapace di abbandonare la piccola e meschina preda degli onorari per un’apparente potenza. Non vi è ap­ parenza senza realtà; l’apparenza è una realtà. Macché! Come il droghiere che sta al cantone, non avevo altra consolazione che quella di « guadagnar molto ». Ecco ciò che mi resta: il denaro guadagnato durante questi anni terribili, di cui, folli, volete che mi spogli. Ah, non posso sopportare il pensiero che lo possederete 10 stesso dopo la mia morte! Ti ho detto, cominciando questa lettera, che avrei preso le mie disposizioni per­ ché non vi restasse nulla. Ti ho lasciato capire che ave­ vo rinunziato a questa vendetta... Ma l’odio che covo nel cuore ha lo stesso movimento della marea: più si allontana e più m’intenerisco, più si avvicina e più il suo flusso melmoso mi ricopre. Da oggi, da questo giorno di Pasqua, dopo l’offen­ siva svolta per depredarmi in favore del vostro Fili, da quando ho rivisto al completo la muta familiare, se­ duta in cerchio davanti alla porta di casa, intenta a spiarmi, sono stato ossessionato dalla visione di voi, ar­ mati l’un contro l’altro per la divisione dell’eredità. Voi certamente vi azzufferete come cani per il possesso delle mie terre e dei miei titoli. Le terre sono infatti per voi, ma i titoli non esistono più. La settimana scorsa ho ven­ duto a prezzo altissimo quelli di cui ti parlavo nella prima pagina di questa lettera; da allora diminuiscono ogni giorno di valore. Non mi sbaglio mai: quando io 11 abbandono, tutti i battelli colano a picco. Avrete an­ che i milioni liquidi, ma li avrete se io lo vorrò, perché vi sono giorni in cui decido di non farvi trovare nem­ meno un centesimo...

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Vi sento mentre, cicalando, salite in gruppo la scala. Vi fermate: parlate senza timore di svegliarmi (è ormai inteso che io sia sordo); vedo sotto l’uscio la luce delle vostre candele. Riconosco il falsetto di Fili (si direbbe che debba ancora cambiar voce) e all’improvviso risa sof­ focate e chiocciar di donne. Tu li rimproveri e dici loro: — Vi assicuro che non dorme... — Ti avvicini alla por­ ta della mia camera, stai in ascolto, guardi attraverso la serratura: il lume mi denunzia. Torni verso la muta e dici sottovoce: — ancora sveglio, vi sente... Essi si allontanano in punta di piedi. I gradini scric­ chiolano; ad uno ad uno si chiudono gli usci. Nella notte di Pasqua la casa è piena di coppie ed io potrei essere il tronco vivente di questi giovani rami. Quasi tutti i padri sono amati, ma tu eri la mia nemica e i miei figli passarono al nemico. Dovrei ora parlare di questa guerra, ma non ho più la forza di scrivere. Eppure non ho voglia di mettermi a letto, di stendermi, anche se lo stato del mio cuore me lo consente. Alla mia età il sonno attira l’attenzione della morte, non devo quindi fingere d’essere morto, perché la morte non potrà giungere finché sarò sveglio. Temo forse l’angoscia dell’ultimo rantolo? No, ma il fatto che essa è ciò che non esiste, ciò che non può indicarsi altro che col segno « meno ». è

VII

Finché i nostri tre figli furono nella loro prima infan­ zia, la nostra inimicizia rimase velata: l’atmosfera in casa nostra era pesante. La tua indifferenza verso di me, il tuo disinteressamento per tutto ciò che mi riguar­ dava, ti impedivano di soffrirne e persino di accorger­ tene. Del resto non c’ero mai, facevo colazione da solo alle undici, per potermi trovare in tribunale prima di mezzogiorno. Le cause mi assorbivano interamente, e tu sai ora come io impiegassi il poco tempo disponibile che mi rimaneva per la famiglia. Perché una tale vita cor­ rotta, spaventosamente semplice, priva di tutto ciò che abitualmente le serve di scusa, ridotta puramente allo schifo, senza ombra di sentimento, senza la minima par­ venza di tenerezza? Avrei potuto facilmente avere le av­ venture che la gente ammira. Un avvocato della mia età poteva conoscere certe raccomandazioni. Molte giovani donne volevano commuovere, non l’avvocato, ma l’uo­ mo... Ma avevo perduto la fiducia in esse o meglio nel poter piacere a qualcuna di esse. Scoprivo a prima vista l’interesse che animava quelle di cui intuivo la compli­ cità, di cui percepivo il richiamo. Il preconcetto che tut­ te cercassero di farsi una posizione mi ghiacciava. Per­ ché non confessare che, alla tragica certezza d’essere uno che non si ama, si aggiungeva la diffidenza del ricco che teme d’essere ingannato, sfruttato? Quanto a te, t'avevo 11.

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fissato una pensione e sapevi che non dovevi aspettarti da me nemmeno un soldo di più della somma stabilita. Questa era d’altronde molto forte, non la superavi mai, e da questo lato mi sentivo sicuro. Ma le altre donne? Ero uno di quegli imbecilli i quali credono ch'esistano certe che amano disinteressatamente e certe altre, astute, che cercano solo il denaro. Quasi che, nella maggioran­ za delle donne, l’inclinazione amorosa non vada di pari passo col bisogno di essere mantenute, protette, viziate... A sessantotto anni, rivedo con una lucidità, che certe volte mi farebbe urlare, tutto ciò che ho respinto, non per virtù ma per diffidenza e grettezza. Le poche rela­ zioni abbozzate duravano poco, sia perché la mia indole sospettosa interpretava male la domanda più innocente, sia perché mi rendevo odioso per la mania, che tu molto ben conosci, di discutere in trattoria o coi cocchieri a proposito delle mance. Mi piace sapere prima quello che devo pagare; oso confessare con vergogna che amo tutto ciò che ha una tariffa. Ciò che mi piaceva nella vita libertina, era forse il fatto che aveva un prezzo fis­ so. Quale legame può esistere tra il cuore e il piacere, in un tale uomo? Credevo che i desideri del cuore non potessero mai essere esauditi e li soffocavo appena na­ scevano. Ero diventato maestro nell’arte di debellare qual­ siasi sentimento, proprio nel momento in cui la volontà rappresenta in amore una parte decisiva e in cui, giunti sul margine della passione, siamo ancora padroni di ab­ bandonarci o di ritirarci. Ricorrevo agli amori più fa­ cili, a quelli che si hanno a prezzo stabilito. Non mi piace essere ingannato; ma pago quel che devo. Voi dichiarate che io sono avaro, ma ciò non mi impedisce di non poter soffrire i debiti e pago tutti in contanti; i miei fornitori lo sanno e mi benedicono. Non posso sopportare il pensiero di dovere la minima somma. Così ho compreso «l’amore»: pagando, pagando... Quale di­ sgusto ! Non insisto sulla cosa; da me stesso mi macchio : ho amato e forse sono stato amato... Nel 1909, allo sfio­

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rire della mia giovinezza. Perché non parlare di questa avventura? Tu l’hai conosciuta, hai saputo ricordartene il giorno in cui hai rimesso a me la decisione. La piccola istitutrice, accusata d’infanticidio, che ave­ vo salvato in istruttoria, mi s’era data dapprima per gra­ titudine; e poi... Sì, sì, ho conosciuto l’amore in quel­ l'anno, ma l’ho perduto per la mia insaziabilità. Come se non fosse stato sufficiente farla vivere con ristrettez­ za, quasi in miseria, esigevo che fosse sempre a mia di­ sposizione, che non vedesse nessuno, che potessi pren­ derla, lasciarla, riprenderla secondo il mio capriccio e durante i miei rari riposi. Era una cosa mia. Il mio gu­ sto di possedere, usare, abusare si estende anche agli es­ seri umani. Avrei dovuto avere degli schiavi. Una sola volta ho creduto di aver trovato la vittima adatta alle mie esigenze. Sorvegliavo persino i suoi sguardi... ma di­ menticavo di averti promesso di non intrattenerti su questi argomenti. Ella non ne poteva più e partì per Parigi. Mi hai spesso ripetuto: — Non è soltanto con noi, Luigi, che tu non puoi andare d’accordo ma, come ben vedi, tutti ti temono e ti fuggono —. E lo vedevo... Ero sempre stato un solitario al Palazzo di Giustizia ed ero stato eletto il più tardi possibile al Consiglio del­ l’Ordine. Non avrei voluto la carica di Presidente del­ l’Ordine degli Avvocati, dopo tutti i cretini che mi erano stati preferiti. D’altronde, l’ho mai desiderata? Avrei do­ vuto far bella mostra, ricevere: sono onori che costano cari e il rischio non vale la posta. Tu lo desideravi per i figli, non per me; non hai mai desiderato nulla per me... — Fallo per i figli — dicevi. L’anno dopo il nostro matrimonio, tuo padre ebbe il primo attacco e il castello di Cenon ci fu chiuso. Adot­ tasti subito Calèse. Di me, non hai veramente accettato altro che il mio paese. Hai messo le radici nella mia terra senza che le nostre radici potessero ricongiungersi. In questa casa, in questo giardino, i tuoi figli hanno tra­ scorso tutte le loro vacanze. La nostra piccola Maria qui

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è morta; e, pur non avendoti la sua morte incusso ter­ rore, attribuisci un carattere sacro alla camera ove ella ha sofferto. Qui hai covato la tua nidiata, qui hai curato le malattie, qui hai vegliato vicino alle culle, qui hai avuto a che dire con balie e istitutrici. Le corde tese tra questi alberi hanno sostenuto gli abitini di Maria, tutti i suoi candidi indumenti lavati. In questo salone l’abate Arduino riuniva al pianoforte i nostri figli e faceva can­ tare loro cori che, per evitare la mia collera, non erano sempre dei cantici. Nelle sere d’estate mentre fumavo davanti alla casa, udivo le loro voci pure; quell’aria di Lulli: Ah, questi boschi, queste rocce, queste fontane... Calma felicità dal­ la quale mi sentivo escluso; zona di purezza e di sogno che m’era interdetta; amore tranquillo, flutto assopito che veniva a morire a pochi passi dal mio scoglio. Quando entravo in salotto, tutti tacevano e ogni con­ versazione si interrompeva appena m’avvicinavo. Geno­ veffa si allontanava con un libro. Soltanto Maria non aveva paura di me; la chiamavo ed ella veniva, la pren­ devo con slancio tra le braccia ed ella vi si rifugiava volentieri. Sentivo battere il suo cuore d’uccellino. Ap­ pena la lasciavo, correva in giardino... Maria! Ben presto i figli s’inquietarono per la mia assenza a messa, per la costoletta che mangiavo al venerdì. La lotta tra noi due, in presenza loro, non conobbe che po­ chi scatti terribili, nei quali fui spesso battuto. Ad ogni disfatta seguiva una guerra nascosta. Calèse ne fu il tea­ tro, perché in città non ero mai in casa. Le ferie del tribunale coincidevano con le vacanze del collegio, e in agosto e settembre eravamo riuniti tutti qui. Ricordo quel giorno in cui ci trovammo di fronte (a proposito di uno scherzo fatto mentre Genoveffa reci­ tava la storia sacra) : io rivendicavo il mio diritto di di­ fendere lo spirito dei miei figli, tu mi opponevi il do­ vere di proteggere la loro anima. Ero stato battuto, una prima volta, quando accettai che Uberto fosse affidato ai Gesuiti e le figlie alle Dame del Sacro Cuore. Avevo ce­

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duto dinanzi al prestigio che, per me, hanno sempre avuto le tradizioni della famiglia Fondaudège. Ma avevo il desiderio ardente della rivincita e m'importava, quel giorno, di aver scoperto ciò che poteva farti andare su tutte le furie, che ti obbligava a scuoterti dalla tua indif­ ferenza e ad attirare su me la tua attenzione, anche se carica d’odio. Avevo finalmente trovato come incontrarci, ti obbligavo a venire alle mani. L’empietà era stata per me una forma vuota, nella quale avevo fino a poco prima colato le mie umiliazioni di contadino arricchito, disprez­ zato dai suoi compagni borghesi, e che ora invece em­ pivo del mio amore deluso, di un rancore infinito. La disputa si riaccese durante la colazione (ti do­ mandavo quale piacere potesse trovare il Padreterno a vederti mangiare della trota color salmone anziché del bue lesso). Ti alzasti da tavola. Ricordo lo sguardo dei figli. Ti raggiunsi nella tua camera; avevi gli occhi asciut­ ti e mi parlavi con grande calma. Compresi quel giorno che la tua attenzione non si era allontanata da me quan­ to io avevo creduto. Avevi messo la mano su alcune lettere; vi era quanto bastava per ottenere una separa­ zione. — Sono rimasta con te per i figli. Ma se la tua presenza deve rappresentare una minaccia per la loro anima, non esiterò. No, non avresti esitato ad abbandonare me e il mio denaro. Per quanto interessata, avresti fatto qualunque sacrificio pur di lasciare intatta nei figli la fede del dogma, quest’insieme di abitudini e di formule, questa follia. Non possedevo ancora la lettera piena d’offese che mi inviasti dopo la morte di Maria; eri perciò la più forte. La mia posizione sarebbe stata dannosamente indebolita da un processo tra noi: in quell’epoca e in provincia, la società su questo punto non scherzava. Correva già la voce che io fossi massone; le mie idee mi ponevano al margine della società, e senza il presti­ gio che godeva la tua famiglia mi avrebbero nociuto assai. E soprattutto... in caso di separazione, avrei do­

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vuto restituire le azioni del Canale di Suez che costitui­ vano la tua dote. Mi ero abituato a considerare questi titoli come cosa mia e l’idea di rinunziarvi mi spaven­ tava (senza contare la rendita che ci passava tuo padre). Tirai diritto e acconsentii a tutte le tue richieste, ma decisi di consacrare i miei riposi alla conquista dei figli. Presi questa risoluzione al principio di agosto del 1896; le tristi e soffocanti estati d’allora si confondono nella mia mente; riporto qui i ricordi di quasi cinque anni (1895-1900). Non credevo che fosse difficile riconquistare i figli. Contavo sul prestigio dell’esser padre, sulla mia intelli­ genza. Pensavo che sarebbe stato facile attirare a me un fanciullo di dieci anni e due bimbe. Ricordo la loro me­ raviglia e la loro inquietudine il giorno in cui proposi loro di fare una lunga passeggiata col papà. Stavi se­ duta in cortile sotto' il tiglio argentato, e t’interrogarono con lo sguardo. — Ma, miei cari, non dovete chiedermi alcun per­ messo. Partimmo. Come bisogna parlare ai ragazzi? Io, abi­ tuato a tener testa al Pubblico Ministero, o al difensore, quando rappresento la parte civile, a tutta una sala ostile, io, temuto dal presidente della Corte d’assise, divento timido dinanzi ai fanciulli, alla gente del popolo e a quei contadini di cui sono figlio. Davanti a loro perdo terreno, balbetto. I miei figli erano gentili con me, ma stavano in guar­ dia. Tu avevi occupato, per prima, quei tre cuori e ne tenevi le chiavi; era quindi impossibile penetrarvi sen­ za il tuo permesso. Troppo scrupolosa per diminuirmi ai loro occhi, non avevi nascosto loro che dovevano pre­ gare molto per il « povero papà ». Qualunque cosa fa­ cessi, per loro ero sempre il padre: il povero papà per il quale bisognava molto pregare, che bisognava conver­ tire. Tutto quello che io potevo dire o insinuare a pro-

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posito della religione, rafforzava l’immagine ingenua che di me si facevano. Essi vivevano in un mondo meraviglioso, le cui tap­ pe erano le feste piamente celebrate. Ottenevi tutto da loro parlando della prima comunione che avevano recen­ temente fatta, o che si preparavano a fare. E quando, alla sera, sulla veranda di Calèse, cantavano, non m’era dato di sentire sempre motivi di Lulli, ma cantici. Ve­ devo da lontano il vostro gruppo confuso e, quando c’era la luna, distinguevo tre piccole figure alzate. I miei passi sulla sabbia facevano interrompere i canti. Ogni domenica mi svegliava il trambusto delle parten­ ze per la messa. Temevi sempre di non fare in tempo. I cavalli sbuffavano. Chiamavate la cuoca che ritardava. Qualcuno dei ragazzi aveva dimenticato l’offizio. Una voce sottile chiedeva: — Oggi è la domenica dopo la Pentecoste ? Tornando, venivano ad abbracciarmi e mi trovavano ancora a letto. La piccola Maria, che aveva dovuto reci­ tare appositamente per me tutte le preghiere che aveva imparato, mi guardava con attenzione, sperando, senza dubbio, di riscontrare un leggero miglioramento del mio stato spirituale. Soltanto lei non m’irritava. Mentre i suoi due fratelli maggiori si erano già adagiati nelle credenze che tu pra­ ticavi, con quell’istinto del conforto che, più tardi, fa­ rebbe loro scartare tutte le virtù eroiche, tutta la sublime follia cristiana, Maria invece era animata da commo­ vente fervore, da tenerezza di sentimento per i dome­ stici, per i contadini e per i poveri. Dicevano di lei: — Darebbe tutto quello che possiede; il denaro non le resta attaccato alle dita. Ciò è molto carino, ma richiede sorveglianza... -— E ancora: — Nessuno le resiste, nem­ meno suo padre —. Veniva spontaneamente sulle mie ginocchia, alla sera. Una volta si addormentò appog­ giata sulla mia spalla; i suoi riccioli mi solleticavano la gota. Soffrivo per l’immobilità cui ero costretto e avevo desiderio di fumare; pur tuttavia non mi muovevo. Quan-

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do alle nove la governante venne a cercarla, la portai fino alla sua camera, mentre voi mi guardavate mera­ vigliati come se fossi stato il cervo della favola che leccava i piedi alla piccola Blandina. Pochi giorni dopo, il mattino del quattordici agosto, Maria mi disse (sai come fanno i bambini) : — Promettimi di fare quello che sto per chiederti... Prima prometti, poi ti dirò... Mi ricordò che tu avresti cantato, l’indomani, alla messa delle undici e che sarebbe stato gentile da parte mia andarti a sentire. — Hai promesso! Hai promesso! — ripeteva abbrac­ ciandomi — l’hai giurato ! Interpretò come segno del mio consenso il bacio che le detti. Tutti lo seppero e sentivo d’essere osservato. Il signore che non metteva mai piede in chiesa sarebbe andato l’indomani alla messa! Era un avvenimento di una importanza straordinaria. Mi sedei a tavola, la sera, in uno stato d’irritazione tale, che non potei celare a lungo. Uberto ti domandò non ricordo più quale schiarimento su Dreyfus. Ram­ mento di aver protestato con rabbia contro ciò che gli rispondesti e di essermi alzato da tavola senza ritornar­ vi. Preparata la valigia, all’alba del quindici agosto, pre­ si il treno delle sei e andai a passare una giornata ter­ ribile a Bordeaux soffocante e deserta.

È strano che, dopo tutto ciò, mi abbiate rivisto a Calèse. Perché invece di viaggiare, ho sempre trascorso con voi le mie vacanze? Eppure avrei potuto trovare scuse plausibili, per farlo. In verità, era per non fare doppia spesa. Non ho creduto mai che fosse possibile partire e spendere tanto denaro senza avere, innanzi tut­ to, « rovesciato le pentole » e chiusa la casa. Non avrei provato nessun piacere a girare di qua e di là, sapendo che lasciavo dietro di me la casa in piena funzione, e finivo così per rimanere alla greppia comune. Come avrei potuto andare a mangiare altrove, dal momento che il

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mio pranzo era pronto a Calèse? Questo era il senso di economia ereditato da mia madre e me ne facevo una virtù. E perciò tornai, ma con un rancore tale che anche Maria non ebbe alcun potere su me. Inaugurai contro di te una nuova tattica. Lungi dall’attaccare di fronte le tue credenze, mi accanivo a metterti in contrasto con la tua fede, ogni qual volta se ne presentava l’occasione. Confessa, mia povera Isa, che, per quanto buona cristia­ na tu fossi, avevo buon gioco. Avevi dimenticato, se pur l’avevi mai saputo, che carità è sinonimo d’amore. Sotto quel nome, tu riunivi soltanto un determinato nu­ mero di doveri verso i poveri, doveri che assolvevi con scrupolo, in vista dell’eternità. Riconosco che hai cam­ biato molto; ora, infatti, curi i malati di cancro! Ma, allora, soccorrevi i poveri — i tuoi poveri - per trovarti più a tuo agio nelì’esigere, da chi era alle tue dipen­ denze, ciò che ti doveva. Non transigevi sul dovere che le padrone di casa hanno di ottenere il maggior lavoro possibile con la minima spesa. Quella povera vecchia che passava, al mattino, col suo carretto di legumi e alla quale avresti largamente fatto la carità se t’avesse teso la mano, non ti vendeva l’insalata senza che tu non facessi di tutto per diminuire di qualche soldo il suo magro guadagno. Le più timide richieste da parte dei domestici e dei lavoranti, per ottenere un aumento di salario, suscita­ vano in te dapprima meraviglia e poi una indignazione tale, la cui veemenza ti dava forza e ti assicurava sempre l’ultima parola. Avevi una speciale genialità per dimo­ strare a questa gente che non aveva bisogno di nulla ed enumeravi senza fine, ampliandoli, i vantaggi dei quali godevano: — Avete l’alloggio, un barile di vino, la metà d’un maiale che nutrite con le mie patate, un orto per piantarvi i legumi —. I poveretti si stupivano di essere così ricchi. Dicevi che la tua cameriera poteva depositare interamente alla Cassa di Risparmio le qua­ ranta lire che le davi ogni mese: — Ha tutti i miei ve­

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stiti vecchi, la mia biancheria, le mie scarpe. A che le serve il denaro? A far regali alla famiglia... — Tu, d’altra parte, li curavi amorevolmente se si ammalava­ no; non li abbandonavi mai e riconosco che, in genere, eri sempre stimata e spesso amata da questa gente che disprezza i padroni deboli. Professavi, in tali questioni, le idee del tuo mondo e della tua epoca. Non avevi però mai riconosciuto che il Vangelo le condanna: — To’, — ti dicevo — credevo che Cristo avesse detto... — Ta­ gliavi corto, sconcertata, furiosa, a causa dei figli. Finivi sempre per cadere in trappola e balbettavi: — Non si deve prendere tutto alla lettera... — Era qui ove io fa­ cilmente trionfavo, e ti portavo un’infinità d’esempi per provarti che la santità consiste giustamente nel seguire alla lettera il Vangelo. Se avevi la malaugurata idea di protestare che non eri una santa, ti citavo il precetto: « Siate perfetti come perfetto è il vostro padre celeste. » Riconosci, mia povera Isa, che pure a modo mio, fa­ cevo del bene, e che i malati di cancro devono in parte a me, se oggi hanno le tue cure. In quel tempo l’amore per i figli ti assorbiva completamente; essi divoravano le tue riserve di bontà e di sacrificio. Ti avevano fatta allontanare non solo da me, ma da tutti, e t’impedivano di vedere chiunque. Anche a Dio, tu non potevi parlare che della loro salute e del loro avvenire. Ma su questo punto avevi buon gioco. Ti chiedevo se, dal punto di vista cristiano, non fosse meglio augurare loro dispia­ ceri, povertà, malattie. Tagliavi corto dicendo: -— Non ti rispondo più, parli di cose che non conosci... Ma, per tua disgrazia, v’era il precettore dei nostri figli, l’abate Arduino, un seminarista di ventitré anni; invocavo senza pietà la sua testimonianza e lo mettevo in un crudele imbarazzo, sia perché lo facevo interve­ nire solo quando avevo ragione, sia perché non era ca­ pace di esporre liberamente il suo pensiero in queste discussioni. Con lo svolgersi del processo Dreyfus, tro­ vai mille motivi per mettere contro di te il povero abate; tu dicevi: — Disorganizzare l’esercito, per colpa di un

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miserabile ebreo... — Queste parole scatenavano la mia finta indignazione e non mi davo pace finché non avevo obbligato l’abate Arduino a dichiarare che un cristiano non può approvare la condanna a morte di un innocen­ te, fosse anche per la salvezza della patria. D’altronde non cercavo di convincere te e i figli, che conoscevate quella vicenda solo attraverso le caricature dei giornali. Formavate un blocco che non si poteva intaccare. Eravate convinti che potevo aver ragione solo a forza di raggiri, ed eravate arrivati al punto di tacere in presenza mia. Al mio arrivo, come succede ancor og­ gi, troncavate di botto le vostre discussioni; ma qualche volta non sapevate che mi nascondevo dietro una mac­ chia d’alberi e allora, all’improvviso, intervenivo prima che voi poteste fuggire e vi obbligavo ad accettar bat­ taglia. — È un santo uomo — tu dicevi parlando dell’abate Arduino — ma un vero ragazzo e non crede al male. Mio marito gioca con lui come il gatto col sorcio; ecco perché lo sopporta, nonostante la sua avversione per le sottane. E invero, avevo consentito alla presenza di un pre­ cettore ecclesiastico, perché nessun altro si sarebbe ac­ contentato di cinquanta lire al mese per tutto il periodo delle vacanze. I primi giorni ritenevo questo giovanotto, nero e miope, molto timido, un essere insignificante e non gli badavo più che se fosse un mobile. Faceva lavo­ rare i ragazzi, li conduceva a spasso, mangiava e non diceva una parola. Saliva nella sua camera, appena in­ goiato l’ultimo boccone. Qualche volta, quando la casa era vuota, si sedeva al piano. La musica non desta in me nessun sentimento, ma come tu dicevi: — Faceva piacere.

Non hai certamente dimenticato l’incidente che, tu non l’hai mai dubitato, fu la causa duna segreta cor­ rente di simpatia tra l’abate Arduino e me. Un giorno i ragazzi ci avvisarono che il curato stava per arrivare;

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subito, come era mio solito, fuggii verso la vigna. Uber­ to, mandato da te, mi raggiunse: il curato doveva farmi una comunicazione urgente. M’incamminai verso casa, bestemmiando perché temevo molto quel vecchietto. Mi disse che veniva per scrupolo di coscienza. Ci aveva rac­ comandato l’abate Arduino come un eccellente semina­ rista, la cui nomina a vice diacono era stata rimandata per motivi di salute, ma ora aveva saputo, durante il ritiro ecclesiastico, che il ritardo era causato da provve­ dimento disciplinare. L’abate Arduino, pur essendo mol­ to religioso, andava pazzo per la musica e, trascinato da un suo camerata, aveva dormito fuori del seminario per assistere, al Teatro, ad un concerto di beneficenza. Pur essendo in abito civile, erano stati riconosciuti e denunziati. Il colmo dello scandalo fu che faceva parte del programma la signora Giorgetta Lebrun, l’interprete di Thais', alla visione dei suoi piedi scalzi, della sua tunica greca, retta sotto le braccia da una cinta d’argen­ to (« ed era tutto » si diceva « non aveva nemmeno due piccole spalline»), si udì nella sala un oh! d’indigna­ zione. Dal palco dell’ « Unione » un vecchio signore gri­ dò: — È un po’ forte... dove siamo? — Ecco quanto avevano visto l’abate Arduino e il suo compagno! Dei due peccatori, uno era stato cacciato subito, a lui invece era stato perdonato perché elemento non comune; ma i suoi superiori gli avevano ritardato di due anni la nomina. Ci trovammo d’accordo nel dichiarare che l’abate go­ deva di tutta la nostra fiducia. Ciò nonostante il curato dimostrò una grande freddezza al seminarista che, di­ ceva lui, l’aveva ingannato. Tu ricordi quest’incidente, ma hai però sempre ignorato che quella stessa sera, men­ tre fumavo sulla terrazza, vidi avanzare verso di me, alla luce della luna, la magra figura del nero colpevole. Mi si avvicinò goffamente e mi chiese scusa d’essere entrato in casa mia senza avermi avvisato di non esserne degno. Alla mia assicurazione che la sua scappatella me lo ren­ deva alquanto simpatico, protestò con improvvisa fer­

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mezza e si accusò. Diceva che io non potevo misurare tutta la gravità del suo fallo, perché egli aveva peccato contemporaneamente contro l’obbedienza, contro la sua vocazione, contro la proprietà dei costumi. Aveva com­ messo un peccato scandaloso e non gli sarebbe bastata tutta la vita per il male commesso... Vedo ancora la sua lunga schiena curva, la sua ombra, proiettata dal chiarore lunare, tagliata in due dal parapetto della ve­ randa. Per quanto prevenuto contro gli uomini della sua spe­ cie, non potevo sospettare la minima ipocrisia, dinanzi a tanta vergogna e a tanto dolore. Si scusava di non averci detto nulla per la necessità in cui s’era trovato di non rimanere per due mesi a carico della madre, una vedova molto povera che lavorava a giornata a Libourne. Avendogli risposto che, a parer mio, non era affatto ob­ bligato ad avvisarci di un incidente che riguardava la disciplina del seminario, mi prese la mano e mi disse parole mai udite, che sentivo per la prima volta nella mia vita e che mi facevano una certa meraviglia: — Lei è molto buono. Non potei trattenere, quella sera, dinanzi a quel gran seminarista imbarazzato, il mio speciale modo di ridere, che tu conosci e che ti dava ai nervi anche nei primi tempi della nostra vita comune; così poco comunicativo che, quando ero giovane, aveva il potere di spegnere intorno a me qualunque allegria. Potei finalmente par­ lare: — Non sapete, signor abate, fino a qual punto siano strane queste vostre parole. Domandate a quelli che mi conoscono se sono buono, chiedetelo alla mia famiglia e ai miei colleghi, e vi diranno che la cattiveria è la mia ragione d’essere. Imbarazzato più che mai, egli rispose che l’uomo ve­ ramente cattivo non parla della sua cattiveria. — Eppure vi sfido — aggiunsi — a trovare nella mia vita ciò che voi chiamate una buona azione. Mi citò allora, alludendo alla mia professione, le pa-

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role di Cristo: «Ero prigioniero e voi m’avete visita­ to... ». — Ci trovo il mio guadagno, signor abate, e agisco per interesse professionale. Fino a poco tempo fa pa­ gavo i carcerieri perché il mio nome fosse sussurrato, al momento opportuno, all’orecchio degli imputati... Ve­ dete, dunque! Non ricordo più quel che mi rispose. Passeggiavo sot­ to i tigli. Ti saresti stupita se t’avessi detto che provavo una specie di dolcezza alla presenza di quell’uomo in sottana! Eppure era vero. Quando mi capitava di alzarmi allo spuntar del sole e di scendere giù per respirare l’aria fresca dell’alba, vedevo l’abate partire per la sua messa a passo svelto e così assorto che, a volte, passava a pochi metri da me senza vedermi. Era l’epoca in cui ti schernivo, in cui facevo di tutto per coglierti in fallo ad ogni istante e metterti in contraddizione con i tuoi principi. Ciò non esclude la rettitudine della mia coscienza. Ogni qual volta ti coglievo in flagrante per la tua avarizia o per la tua severità, fingevo di credere che non fosse più rimasta in voi alcuna traccia dello spirito di Cristo; non ignoravo che, sotto il mio tetto, un uomo viveva, se­ condo quello spirito, all’insaputa di tutti.

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Capitò una circostanza nella quale non dovetti fare al­ cuno sforzo per trovarti abominevole. Nel ’96 o nel ’97, tu certamente ricordi la data esatta, morì nostro cognato il barone Philipot. Una mattina tua sorella Marinetta, svegliandosi, gli rivolse la parola, ma egli non rispose. Aprì le imposte, vide il vecchio con gli occhi stravolti e la bocca aperta, ma non capì subito di aver dormito per molte ore vicino ad un cadavere. Credo che nessuno di voi abbia compreso l’enormità del testamento di quel tristo: lasciava alla moglie una ricchezza enorme a patto però che non si rimaritasse; in caso contrario la maggior parte di essa doveva spet­ tare ai nipoti. — Bisogna sorvegliarla molto — ripeteva tua madre. — Per fortuna, nella nostra famiglia ci si sostiene a vicenda. Non bisogna che questa piccola rimanga sola. Marinetta era allora sulla trentina, ma aveva l’aspet­ to di una fanciulla. Si era docilmente lasciata dare in moglie ad un vecchio e l’aveva sopportato senza ribel­ lione. Eravate sicuri che ella dovesse facilmente sotto­ mettersi agli obblighi della vedovanza; non davate nes­ suna importanza a questo brusco uscire dal tunnel in piena luce. No, Isa, non temere che io abusi del vantaggio che mi è dato. Era naturale augurarsi che quei milioni re­

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stassero in famiglia e che ne godessero i nostri figli. Pensavate che Marinetta non dovesse perdere il beneficio dei dieci anni di assoggettamento ad un marito vecchio. Agivate da buoni parenti e sembrava naturalissimo che non sposasse una seconda volta. Ti ricordavi di essere stata fino a pochi anni prima una donna giovane? No, questa era ormai per te una partita chiusa; eri madre e null’altro esisteva né per te né per gli altri. La vostra famiglia non aveva mai brillato per fantasia: a questo proposito non eravate né animali né esseri umani. Rimanemmo d’accordo che Marinetta avrebbe trascor­ so a Calèse la prima estate della vedovanza. Ella accettò con gioia, non perché esistesse molta intimità tra voi, ma perché voleva bene ai nostri figli, soprattutto alla piccola Maria. Io, che la conoscevo appena, rimasi col­ pito dalla sua grazia; pur avendo un anno più di te, sembrava una sorella molto più giovane. Tu eri diven­ tata pesante per i figli che avevi portato nel tuo grembo; ella sembrava uscita intatta dal letto di quel vecchio. Aveva un viso da bambina e si pettinava con un’accon­ ciatura alta, secondo la moda di allora, e i suoi capelli di un biondo cupo spumeggiavano sulla nuca. (Cosa mirabile, oggi dimenticata: una nuca spumeggiante!) Gli occhi un po’ troppo rotondi davano l’impressione che fosse sempre stupita. Per scherzo circondavo con le mani «la sua vita di vespa»; l’allargarsi del busto e delle anche sembrerebbe oggi mostruoso: le donne d'allora somigliavano a fiori stentati. •Mi meravigliavo dell’allegria di Marinetta, che faceva divertire i ragazzi, organizzando partite a mosca cieca nel granaio e giocando, la sera, alle « belle statuine ». — È un po’ troppo leggera — dicevi — e non si rende conto della sua situazione. Era già molto per te averle permesso d’indossare ve­ stiti bianchi durante la settimana; ma ritenevi sconve­ niente che assistesse alla messa senza velo e che il suo mantello non fosse bordato di crespo. Ti sembrava che il caldo non fosse una scusa sufficiente.

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L’equitazione era l'unico divertimento che avesse pro­ vato con suo marito. Fino al suo ultimo giorno, il baro­ ne Philipot, celebrità del concorso ippico, non aveva quasi mai tralasciato di fare la sua passeggiata mattutina a cavallo. Marinetta fece venire a Calèse la sua giumen­ ta, e siccome nessuno poteva accompagnarla montò da sola, cosa che sembrò doppiamente scandalosa: una si­ gnora, vedova da tre mesi, non deve fare nessun eser­ cizio, e tanto meno poi doveva cavalcare senza una guar­ dia del corpo. — Le dirò qual è il nostro pensiero in merito — ripetevi. Glielo dicevi, ma lei faceva a modo suo. Per farla finita una buona volta, mi chiese di accompagnarla e mi disse che avrebbe pensato lei a procurarmi un ca­ vallo molto docile. (Tutte le spese erano naturalmente a carico suo.) Partivamo all’alba per evitare le mosche, e perché bi­ sognava fare due chilometri al passo prima di arrivare ai boschi di pini più vicini. I cavalli ci aspettavano da­ vanti alla veranda. Marinetta, appuntando sul suo vesti­ to d’amazzone una rosa irrorata d’acqua, che diceva: « Non adatta per vedove », faceva le boccacce davanti alle imposte chiuse della tua camera. La campana della prima messa suonava a piccoli rintocchi. L’abate Ardui­ no ci salutava timidamente e scompariva nella nebbia che ondeggiava sui vigneti. Chiacchieravamo fino all’arrivo al bosco. Mi accorsi che agli occhi di mia cognata godevo d’un certo presti­ gio, non tanto per la mia posizione al Palazzo di Giu­ stizia quanto per le idee soversive di cui, in casa, mi facevo paladino. I tuoi principi erano troppo simili a quelli di suo marito. Per una donna, la religione, le idee rappresentano sempre qualcuno: tutto assume un volto dinanzi ai suoi occhi, volto amato o odiato. Dipendeva solo da me innalzare il mio prestigio pres­ so quella piccola ribelle. Eppure! finché s’irritava con­ tro di voi raggiungevo facilmente il suo diapason, m'era però impossibile seguirla quando manifestava il suo di­

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sprezzo pei milioni che perderebbe rimaritandosi. Avrei avuto tutto l’interesse a parlare come lei, a darle ad in­ tendere la mia nobiltà d’animo; ma m’era impossibile fingere e non potevo nemmeno far mostra di approvar­ la, quando non dava nessuna importanza alla perdita di quella eredità. Devo confessar tutto? Arrivavo fino al punto di non escludere l’ipotesi della sua morte che ci farebbe suoi eredi. (Non pensavo ai figli, ma a me.) Pur preparandomi prima, pur ripetendo la mia lezio­ ne, era più forte della mia volontà il dirle: — Sette mi­ lioni ! Pensaci, Marinetta, non si rinunzia a sette mi­ lioni! Non esiste nessun uomo che valga il sacrificio di una piccola parte di questa ricchezza! — E siccome pre­ tendeva mettere la felicità al disopra di qualunque cosa, le assicuravo che nessuno era capace d’essere felice dopo aver sacrificato una tal somma. -— Ah ! — gridava lei, -— hai un bell’odiare i tuoi parenti, ma appartieni alla stessa razza. Partiva al galoppo ed io, lontano, la seguivo. Ero stato giudicato, ero perduto. Quali delusioni non m’avrebbe dato la mia maniaca passione per il denaro! Avrei po­ tuto avere in Marinetta una sorella, un’amica... E vor­ reste che sacrificassi a voi la cosa per la quale ho tutto sacrificato. No, no, troppo caro m’è costato il mio de­ naro perché ve ne dia un solo centesimo prima dell’ul­ timo anelito.

E intanto, siete sempre insieme. Mi domando se la moglie di Uberto, che domenica è venuta a trovarmi, era delegata da voi o se era venuta di sua iniziativa. Pove­ ra Olimpia! (Perché Fili l’ha soprannominata Olimpia? Abbiamo dimenticato il suo vero nome...) Ma io sono piuttosto del parere che non vi abbia detto nulla del suo tentativo, poiché non avreste accettato, dato che ella non è della nostra famiglia. Questo essere, indifferente a tut­ to quello che non costituisce il suo ristretto universo, a tutto quello che non la riguarda direttamente, non co­ nosce dovere familiare; ignora che io sono il nemico, e

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non per benevolenza, per pura simpatia, ma perché non pensa mai agli altri, nemmeno per odiarli. Quando in sua presenza pronunziano il mio nome, ella dice: «È sempre molto cortese con me ». Non si accorge della mia asprezza e quando mi capita di difenderla contro voi tutti, per puro spirito di contraddizione, ella è con­ vinta di esercitare un fascino su di me. Dalle sue frasi confuse ho potuto dedurre che Uberto si era fermato al momento opportuno, ma che aveva do­ vuto investire tutto il suo avere personale e la dote della moglie per salvare la sua carica. — Egli dice che dovrà per forza ritrovare il suo denaro, ma che gli occorre­ rebbe un anticipo... e lo chiama un anticipo di eredità... Scuotevo la testa, approvavo, fingevo di essere le mille miglia lontano dal capire ciò che ella voleva. Che aria ingenua assumo in certi momenti !

Se Olimpia sapesse cosa ho sacrificato al denaro, quan­ do ero ancora un po’ giovane ! In quelle mattine del mio trentacinquesimo anno tornavamo, tua sorella ed io, dal­ la nostra passeggiata a cavallo, al passo, sulla strada già calda, tra le vigne zolfate. Parlavo a questa donnina gioiosa dei milioni che non doveva perdere. Ed ogni volta che accennavo a questi milioni in pericolo, ella rideva di me con un grazioso disprezzo. Per difendermi mi compromettevo di più: — È nel tuo interesse che insisto, Marinetta. Credi che io sia ossessionato dal pensiero dell’avvenire dei miei figli? Isa non vuole che la tua ricchezza sfugga loro! Io invece... Rideva e, stringendo un po’ i denti, mi diceva: — Sei veramente abominevole. Protestavo dicendo che non pensavo ad altro che alla sua felicità, ma ella scuoteva la testa con disgusto. In so­ stanza, pur non confessandolo, sentiva più il desiderio della maternità che quello del matrimonio. Mi disprezzava; ma ero certo che, allorché dopo cola­ zione, nonostante il caldo, uscivo dalla casa oscura e

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fredda in cui i miei facevano la siesta distesi su divani di cuoio o su sedie di paglia; quando socchiudevo le imposte intere della porta-finestra e uscivo nell’azzurro infuocato, non dovevo voltarmi per assicurarmi che an­ ch’ella veniva: sentivo il suo passo sulla ghiaia. Cam­ minava male e torceva gli alti tacchi sulla terra indu­ rita. Ci appoggiavamo coi gomiti sul parapetto della terrazza: ella provava gusto a tenere, quanto più le era possibile, il braccio nudo sulla pietra bruciante. Sotto di noi la pianura si abbandonava al sole in un silenzio profondo, come quando si addormenta al chia­ rore lunare. Le steppe disegnavano all’orizzonte un gran­ de arco nero sul quale pesava il cielo metallico. Nessun uomo, nessun animale, sarebbe uscito prima delle quat­ tro pomeridiane. Le mosche vibravano sul posto immo­ bili, come l’unica fumata, non scossa dal minimo alito di vento, che si vedeva nella piana. Sapevo che quella donna ricca vicino a me, non po­ teva amarmi e che non v’era nulla di me che non le riuscisse odioso. In quella sconfinata proprietà noi vive­ vamo soli in un torpore insuperabile. Come incosciente­ mente l’elitropio si gira verso il sole, così quel giovane essere sofferente, strettamente sorvegliato da un’intera famiglia, cercava il mio sguardo. Eppure, la minima torbida parola da parte mia avrebbe avuto in risposta la derisione. Sentivo che avrebbe respinto disgustata il mio gesto più timido. Restavamo così l’uno vicino al­ l’altra, sull’orlo di questo immenso tino ove la vendem­ mia futura fermentava nel sonno delle foglie azzurro­ gnole. Cosa pensavi, Isa, delle nostre passeggiate mattutine e dei nostri colloqui nell’ora in cui tutti si assopivano? Lo so, perché un giorno, attraverso le imposte chiuse del salotto, t’ho sentita dire a tua madre, che soggior­ nava a Calèse, venuta certamente per rinforzare la sor­ veglianza su Marinetta: — Egli ha una cattiva influenza

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su di lei per quanto riguarda le idee... ma per il resto, la divaga, senza inconvenienti. — L’essenziale è che egli la divaghi — rispose tua madre. Eravate contenti che io distraessi Marinetta... — Ma al suo ritorno dalla villeggiatura — dicevate — bisogne­ rà trovare qualche altra cosa. Posso averti ispirato disprezzo, Isa, ma t’ho disprez­ zata anch’io e ancor più, per quelle parole. Non imma­ ginavi nemmeno lontanamente che potesse esistere il minimo pericolo. Le donne dimenticano i sentimenti che non provano più. E invero nulla poteva accadere dopo colazione sul limite della pianura, poiché, pur non essendovi nessu­ no, ci trovavamo tutti e due come davanti a uno scena­ rio. Sarebbe bastato che un solo contadino non si fosse abbandonato alla siesta, perché avesse potuto vedere, immobili come tigli, quell’uomo e quella donna, ritti di fronte alla terra incandescente, e impossibilitati a fa­ re il minimo gesto senza toccarsi. Altrettanto innocenti erano le nostre passeggiate not­ turne. Ricordo una sera d’agosto, Il pranzo era stato tumultuoso per via di Dreyfus. Marinetta, che con me rappresentava il partito della revisione, mi superava nell’arte di smascherare l’abate Arduino e di obbligarlo ad abbracciare un partito. Siccome avevi esaltato un arti­ colo di Drumont, Marinetta, con la sua voce di fanciullo che recita il catechismo, domandò: -— permesso, signor abate, odiare gli ebrei ? Quella sera, con nostra grandissima gioia, l’abate non era ricorso a vaghe cattive scuse. Parlò della grandezza del popolo eletto, della sua altissima funzione di testi­ monio, della predizione della sua conversione, che an­ nunziava la fine dei tempi. Alla protesta di Uberto che bisognava odiare gli uccisori di Nostro Signore, l’abate rispose che ognuno di noi aveva il diritto di odiare un solo uccisore di Cristo: «Noi stessi e non altri...». è

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Sconcertata, replicasti che con quelle belle teorie non restava altro da fare che abbandonare la Francia allo straniero. Fortunatamente per l’abate, venisti a parlare di Giovanna d’Arco e vi riconciliaste. Sulla veranda, una voce infantile diceva: — Oh ! che bel chiaro di luna ! Andai in terrazza. Sapevo che Marinetta mi avrebbe seguito e intesi infatti la sua voce sussurrarmi: — Aspet­ tami... — Aveva messo intorno al collo un boa. La luna piena sorgeva ad oriente. Marinetta contem­ plava le lunghe ombre oblique dei carpini sull’erba. Le facciate chiuse delle case dei contadini erano illuminate in pieno dal chiarore. I cani abbaiavano. Mi chiese se era la luna che rendeva immobili gli alberi e mi disse che, in una notte come quella, tutto era stato creato per turbare chi è solo; e poi aggiungeva: — È uno scenario vuoto ! — Quanti visi uniti, in quell’ora, quanti corpi ravvicinati ! Quale complicità ! Vedevo nettamente una lacrima brillare sulle sue ciglia. Nell’immobilità dell’u­ niverso, viveva solo il suo respiro. Di te, morta nel 1900, cosa rimane, questa sera, Marinetta? Cosa rimane di un corpo sepolto da trent’anni ? Ricordo il tuo profumo not­ turno. Per credere alla resurrezione della carne, bisogna forse aver vinta la carne. La punizione di chi ne ha abusato è il non poter più credere che essa risusciterà. Afferrai la sua mano senza secondo fine, come avrei fatto a un fanciullo dolorante; come una bimba ella appoggiò la testa sulla mia spalla. L’accolsi perché ero là: l’argilla accoglie la pesca che cade. La maggior parte degli esseri umani si scelgono alla maniera degli alberi germogliati uno vicino all’altro, i cui rami si confon­ dono solo perché crescendo s’allungano. Fui così infame da pensare in quell’istante a te, Isa, e di sognare la possibilità di una vendetta: servirmi di Marinetta per farti soffrire. Per quanto breve sia stato il tempo in cui il mio spirito è stato invaso da questa idea, altrettanto è vero che ho concepito questo delirio.

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Facemmo pochi passi fuori della zona illuminata dalla luna, verso il boschetto di melagrani e di siringhe. Il destino volle che udissi allora un rumore di passi nel viale del vigneto, quello che percorreva ogni mattina l’abate Arduino per andare a messa. Era certamente lui... Pensai a ciò che una sera questi mi disse: — Lei è mol­ to buono... — Se avesse potuto leggere nel mio cuore in quell’istante ! Mi salvò forse la vergogna che ne provai ? Ricondussi Marinetta alla luce, la feci sedere sul se­ dile e le asciugai gli occhi col mio fazzoletto. Le dicevo le stesse parole che avrei detto a Maria se fosse caduta nel viale dei tigli e se l’avessi sollevata. Fingevo di non essermi accorto di quel poco di torbido che poteva esser­ vi stato nel suo abbandono e nelle sue lacrime.

IX

Il mattino seguente, ella non montò a cavallo. Io mi recai a Bordeaux (andavo a passarvi due giorni ogni settimana, nonostante le ferie del Palazzo di Giustizia, per non interrompere le mie consultazioni). Quando salii in treno per tornare a Calèse, il celere era già in stazione, e con mia grande meraviglia scorsi, dietro i vetri della vettura sulla quale era scritto « Biar­ ritz », Marinetta, senza velo, vestita di grigio. Mi ricor­ dai che da tempo un’amica la pregava di andarla a rag­ giungere a Saint-Jean-de-Luz. Guardava un giornale il­ lustrato e non vide i segni che le facevo. Quando alla sera te ne parlai, prestasti poca attenzione a quanto ti dicevo, credendo fosse stata una breve fuga. Mi dicesti che Marinetta aveva ricevuto, poco dopo la mia parten­ za, un telegramma dalla sua amica e sembravi sorpresa che io non ne sapessi nulla. Avevi forse sospettato un nostro incontro clandestino a Bordeaux? La piccola Ma­ ria era a letto con la febbre, soffriva da qualche giorno di una diarrea che ti preoccupava. Devo essere giusto: quando un tuo figlio era malato, nulla aveva più valore per te.

Vorrei sorvolare su quel che seguì. Dopo più di trent’anni, non saprei fermarvi il mio pensiero, senza fare uno sforzo enorme. Conosco la tua accusa. Hai osato di­

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chiarare in mia presenza che io non avevo voluto il con­ sulto. Indubbiamente, se avessimo fatto venire il pro­ fessor Arnozan, questi avrebbe subito riconosciuto i sin­ tomi della tifoidea in quel supposto catarro. Ma richia­ ma i tuoi ricordi. Una sola volta mi hai detto: — Se chiamassimo Arnozan? — Ti risposi: — Il dottor Aubrou assicura di curare in paese più di venti casi dello stesso catarro... — Non hai insistito e pretendi di aver­ mi supplicato, l’indomani ancora, di telegrafare ad Ar­ nozan. Se tu l’avessi fatto me ne ricorderei. È vero che ho talmente ruminato questi ricordi, per giorni e notti intere, che non mi ci ritrovo più. Ammettiamo che io sia avaro... mai però fino al punto di lesinare quando si trattava della salute di Maria. È altrettanto meno vero­ simile che il professor Arnozan lavorasse per amore di Dio e degli uomini: non l’ho chiamato, soltanto perché eravamo convinti che si trattasse di un semplice catarro « che aveva attaccato l’intestino ». Aubrou ordinava che Maria mangiasse per non indebolirsi. Lui l’ha uccisa, non io. No, noi eravamo d’accordo, tu, mentitrice, non hai insistito per far venire Arnozan. Non sono io il respon­ sabile della morte di Maria. È orribile da parte tua aver­ mene accusato; e tu lo credi! l’hai sempre creduto!

Estate implacabile ! Il delirio di quell’estate, la ferocia delle cicale... Non potevamo arrivare a procurarci del ghiaccio. Asciugavo, in quei pomeriggi interminabili, il suo piccolo viso sudato che attirava le mosche. Arnozan è giunto troppo tardi e si cambiò regime di cura quando era già cento volte perduta. Forse ella delirava, quando diceva: — Per papà! Per papà! — Ricordi con quale accento gridava: — Mio Dio, sono appena una bimba... — E poi: — No, posso soffrire ancora —. L’abate Ar­ duino le dava da bere l’acqua di Lourdes. Le nostre teste si trovavano vicine su quel piccolo corpo, le nostre mani si toccavano. Quando ella morì, mi credesti insensibile. Vuoi sapere cosa pensavo? È strano che tu, cristiana, non abbia potuto allontanarti da quel cadaverino. Ti pre-

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gavano di mangiare, ti dicevano che avevi bisogno di tutte le tue forze. Ma avrebbero dovuto trascinarti per forza fuori della camera. Stavi seduta vicino al suo letto e con la mano tremante le toccavi la fronte, le gelide gote. Posavi le labbra sui capelli ancora vivi e talvolta t’inginocchiavi, non per pregare, ma per appoggiare la fronte sulle rigide, gelide manine. L’abate Arduino ti rialzava, ti parlava di quei figli ai quali bisognava rassomigliare per entrare nel regno di Dio : — Ella è viva, la vede, l’attende —. Approvavi con gesti vaghi; quelle parole non giungevano al tuo cervello; la tua fede non ti serviva a nulla. Non pensavi che a quella carne della tua carne che stava per essere sepolta ed era prossima ad imputridire; mentre io, l’in­ credulo, sentivo dinanzi a ciò che restava di Maria, tutto il significato della parola « spoglia ». Avevo la sensa­ zione irresistibile di una partenza, di un’assenza. Ella non era più là; non era più lei. — Cercate Maria? non è più qui. In seguito, mi hai accusato di dimenticare presto. Solo io so quel che si è infranto in me, quando l’ho abbrac­ ciata nella bara, per l’ultima volta. Ma non era più lei. M’hai disprezzato perché non t’accompagnavo al cimi­ tero, quasi ogni giorno. — Non vi mette mai piede — dicevi. ■—■ Eppure Maria era la sola persona che sem­ brava egli amasse un po’... È senza cuore. Marinetta tornò per il seppellimento, ma ripartì dopo tre giorni. Il dolore t'accecava e non vedevi la minaccia che si profilava da quella parte. Sembrava che tu pro­ vassi una specie di sollievo per la partenza di tua sorel­ la. Venimmo a sapere, due mesi dopo, che si era fidan­ zata con un letterato, una specie di giornalista, incon­ trato a Bruxelles; ma era troppo tardi per parare il colpo. Fosti implacabile; un odio trattenuto scoppiò all’improv­ viso contro Marinetta; non hai voluto conoscere quelΓ« individuo », un uomo comune, simile a tanti altri; colpevole soltanto di privare i nostri figli di una ricchez-

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za, di cui del resto non godeva alcun beneficio, poiché i nipoti Philipot ne avevano la parte maggiore. Ma tu non ragioni mai; non hai mai provato il mi­ nimo scrupolo; non ho conosciuto nessuno più serena­ mente ingiusto di te. Dio sa quali peccatuzzi confessavi! Non esiste nessuna beatitudine che tu non abbia inter­ pretato, in tutta la tua vita; in senso contrario. Non ti costa nulla accumulare falsi motivi per respingere l’og­ getto del tuo odio. Dicevi del marito di tua sorella, pur non avendolo mai visto né conosciuto: — A Biarritz ella è caduta vittima di uno scroccone, di una specie di topo d’albergo... Non esageravo dicendo che, quando la poveretta morì di parto, non hai manifestato il minimo dolore. (Ah! non vorrei giudicarti così aspramente, come tu mi hai giudicato a proposito di Maria.) Gli avvenimenti ti det­ tero ragione e la cosa non poteva finire differentemente; era andata da sola incontro alla sua rovina e tu non dovevi rimproverarti nulla perché avevi fatto interamen­ te il tuo dovere. La poveretta sapeva bene che la casa era sempre aperta per lei, che la si aspettava, che non doveva fare altro che un cenno. Potevi rendere giustizia a te stessa: non eri stata complice. Resistere con corag­ gio ti era costato molto, « ma vi sono circostanze nelle quali bisogna saper calpestare il proprio cuore ». No, non ti affliggerò. Riconosco che sei stata buona col piccolo Luca, il figlio di Marinetta, quando morì sua madre, che fino all’ultimo momento si era preoccupata di lui. Lo prendevi con te durante le vacanze; andavi a trovarlo, una volta ogni inverno, nel suo collegio nei pressi di Bayonne: — Facevi il tuo dovere, poiché il padre non faceva il suo...

Non ti ho mai raccontato come ho conosciuto il pa­ dre di Luca, a Bordeaux, nel settembre del 1914. Cer­ cavo di avere una cassetta di sicurezza in una banca; i parigini in fuga le avevano prese tutte. Finalmente il direttore del Credito Lionese mi avvertì che un suo dien-

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te, che tornava a Parigi, avrebbe forse acconsentito a cedermi la sua. Quando mi disse il suo nome, m’ac­ corsi che si trattava del padre di Luca. Ah! non era affatto il mostro che tu credevi. Cercavo invano in quel­ l’uomo di trentotto anni, tisico, truce, roso dal terrore dei Consigli di amministrazione, colui che quattordici anni prima avevo intravisto ai funerali di Marinetta e col qua­ le avevo parlato di affari. Egli mi parlò a cuore aperto. Viveva maritalmente con una donna, con la quale voleva che Luca non avesse alcun contatto. Aveva affidato il figlio alla nonna Fondaudège, nel suo stesso interesse... Mia povera Isa, se tu e i tuoi figli aveste saputo che cosa, in quel giorno, io ho offerto a quell’uomo! Posso ora dirtelo. Egli avrebbe conservato la cassaforte sotto il suo nome ed io avrei avuto da lui la procura. Tutte le mie ricchezze liquide vi sarebbero state contenute, con una carta che attestava che esse appartenevano a Luca. Suo padre non avrebbe toccato la cassaforte, finché io fossi stato in vita; ne sarebbe entrato in possesso, dopo la mia morte, e voi non avreste dubitato· di nulla... Evidentemente, se affidavo a quell’uomo me e le mie ricchezze, dovevo ben odiarvi in quel momento! Ebbe­ ne, egli non ha voluto accettare; non l’ha osato; ha par­ lato del suo onore. Come mai fui capace di una follia tale? In quell’e­ poca i nostri figli si avvicinavano’ alla trentina, erano sposati, e ormai schierati in tuo favore contro di me in ogni circostanza. Agivate in segreto; io ero il nemico. Dio sa che tu non eri d’accordo con loro, e soprattutto con Genoveffa, alla quale rimproveravi di lasciarti sem­ pre sola, di non chiederti consiglio su nulla; ma il fron­ te si ristabiliva ugualmente contro di me. Del resto tutto passava sotto silenzio, ad eccezione delle circostanze so­ lenni: vi furono, così, liti terribili al momento del ma­ trimonio dei figli, perché non volevo dare loro una dote, ma fissare una rendita. Mi rifiutavo di far conoscere alle famiglie interessate l’ammontare del mio patrimonio. Ho tenuto duro, sono stato il più forte, perché sostenuto

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dall’odio, sì, dall’odio, ma anche dall’amore, l’amore che avevo per il piccolo Luca. E tuttavia le famiglie passa­ rono sopra a tutto, perché non dubitavano affatto che il gruzzolo non fosse enorme. Inquieti per il mio silenzio, cercavate di sapere qual­ che cosa. Talvolta Genoveffa, quella povera goffa donna che sentivo giungere da lontano con i suoi pesanti zoc­ coli, m’inteneriva. Le dicevo: — Mi benedirete, quando morirò — soltanto per il piacere di vedere i suoi occhi brillare di cupidigia. Ella ti ripeteva quelle mie parole meravigliose ed allora stavate tutti in apprensione. Cer­ cavo però il mezzo di lasciarvi soltanto ciò che era im­ possibile nascondere. Non pensavo che al piccolo Luca. Ebbi persino l’idea di ipotecare le terre.

Eppure, nonostante tutto, mi è successo una volta, l’an­ no dopo la morte di Maria, di lasciarmi prendere dalle vostre moine. Mi ero ammalato e alcuni sintomi ricor­ davano il male che aveva rapito la nostra figlioletta. De­ testo che mi si curi, odio i medici e le medicine. Ma tu non avesti requie finché non mi rassegnai a mettermi a letto e a far venire Arnozan. Mi curavi con devozione, non vi è bisogno di dirlo, ma anche con inquietudine e a volte, quando mi doman­ davi ciò che provavo, mi sembrava discernere l’angoscia nella tua voce. Avevi, nel toccarmi la fronte, il mede­ simo gesto che avevi per i figli. Ti volesti mettere a dormire nella mia camera e, se durante la notte mi agi­ tavo, ti alzavi e m’aiutavi a bere. “Ella ci tiene tanto a me” mi dicevo “chi l’avrebbe mai creduto?... For­ se per quel che io guadagno?” Ma no, tu non ami il denaro in sé... Era solo per il fatto che la posizione dei figli sarebbe stata scossa in seguito alla mia morte? Ecco ciò che più era verosimile: ma non era tutto. Quando Arnozan m’ebbe esaminato, tu gli parlasti sulla scalinata con quel tono di voce che, così spesso, ti ha tradito: — Dica a tutti, dottore, che Maria è morta di febbre tifoidea. A causa dei miei due poveri fratelli

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si fa correre la voce che sia stata la tisi a portarla via. La gente è cattiva, non vuole cessare di parlarne. Temo che tutto ciò rechi moltissimo danno a Uberto e a Ge­ noveffa. Se mio marito fosse gravemente malato, si da­ rebbe consistenza a tutte queste chiacchiere. Ho avuta molta paura per alcuni giorni; pensavo ai miei poveri figli. Lei sa che anche lui ha avuto un polmone attac­ cato prima del suo matrimonio. Ciò si è saputo; tutto si sa; la gente ama talmente curiosare! Anche se morisse di malattia infettiva, la gente non vorrebbe crederlo più di quanto non l’abbia creduto per Maria; e i miei po­ veri figli ne farebbero le spese. Mi arrabbiavo quando lo vedevo curarsi così male. Si rifiutava di mettersi a letto! Come se si fosse trattato di lui solo! Egli non pensa mai agli altri, nemmeno ai suoi figli... No, no, dottore, un uomo come lei non può credere che esista­ no uomini come lui. Lei è come l’abate Arduino, lei non crede al male. Ridevo da solo, nel mio letto, e quando sei rientrata me ne hai chiesto il motivo. Ti ho risposto con queste parole, di uso corrente tra noi : « Per nulla ». « Per­ ché ridi ? » « Per nulla. » « A che pensi ?» « A nulla. »

X

Riprendo questo quaderno dopo una crisi che mi ha tenuto per circa un mese sotto il vostro giogo. Da quan­ do la malattia mi disarma, la cerchia dei parenti si serra attorno al mio letto. Voi siete là, mi osservate. Domenica scorsa, Fili è venuto a tenermi compagnia. Faceva caldo, rispondevo a monosillabi, ho perduto le idee. Per quanto tempo ? Non saprei dirlo. Il suono del­ la sua voce mi ha destato. Vedevo nella penombra le sue orecchie tese e i suoi occhi di giovane lupo, vivi, brillanti. Portava al polso, al disopra dell’orologio, una catenina d’oro. La camicia era semiaperta sopra un petto di fanciullo. Di nuovo mi sono assopito. Lo scricchiolio delle sue scarpe mi ha svegliato, e l’ho osservato attra­ verso le ciglia. Palpava con la mano la mia giacca dal lato della tasca interna, che contiene il portafogli. Mi sforzai, malgrado i folli battiti del cuore, a rimanere immobile. Non s’è fidato; è tornato al suo posto. Ho fatto finta di svegliarmi e gli ho chiesto se avessi dormito a lungo: — Pochi minuti appena, nonno. Ho provato il terrore della solitudine; questo terrore dei vecchi soli che un uomo giovane osserva. Mi sembra che egli sarebbe capace di uccidermi. Un giorno Uberto ha riconosciuto che Fili era capace di tutto. Vedi, Isa, come sono stato infelice! Sarà troppo tardi 12.

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quando leggerai questo mio scritto, per mostrarmi della pietà. Ma mi è dolce sperare che tu ne proverai un po’. Non credo al tuo inferno eterno; ma so cosa vuol dire essere un dannato in terra, un reietto, un uomo che, ovunque vada, sbaglia strada; un uomo la cui strada è sempre stata falsa; uno che non sa vivere, come l’intende la gente; uno che difetta, in senso assoluto, di saper vivere. Soffro, Isa. Il vento del sud brucia l’atmosfera. Ho sete e non ho che l’acqua tiepida del gabinetto da toletta. Milioni sì, ma non un bicchier d’acqua fresca. Se sopporto la presenza, per me terrificante, di Fili, è forse perché egli mi ricorda un altro fanciullo, che oggi avrebbe passato la trentina, il piccolo Luca, nostro ni­ pote. Non ho mai negato la tua virtù; quel ragazzo ti ha data l’occasione di manifestarla. Tu non l’amavi per­ ché non aveva nulla dei Fondaudège, quel figlio di Ma­ rinetta, quel ragazzo dagli occhi lucenti, dalla bassa at­ taccatura dei capelli riportati sulle tempie come delle basette. Si comportava male, in quel collegio di Bayonne, ove era convittore. Ma ciò, dicevi, non ti riguardava ed era già molto per te incaricarti di lui durante le vacanze. No, i libri non l’interessavano. In quel paese senza selvaggina, trovava il modo di abbattere, quasi ogni gior­ no, la sua preda. Finiva sempre col portarci la lepre, l’unica lepre di ogni anno, che aveva la sua tana tra i filari; vedo ancora il suo gesto di gioia, nel gran viale delle vigne, il suo pugno chiuso che teneva per le orec­ chie la bestia dal muso sanguinante. Lo sentivo partire all’alba; aprivo la finestra e la sua voce fresca mi gri­ dava nella nebbia: — Vado a fare una battuta nei fondi. Mi guardava in faccia, sosteneva il mio sguardo, non aveva paura di me; non gliene sarebbe mai venuta l’idea. Se, dopo qualche giorno d’assenza, io sopraggiungevo senza aver avvertito e sentivo in casa l’odore di sigaro, se sorprendevo il salotto senza tappeti, e tutti i segni di una festa interrotta (dopo che io ero partito, Geno­ veffa e Uberto invitavano alcuni amici, organizzavano

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delle riunioni nonostante il mio divieto formale; e tu eri complice della loro disobbedienza « perché » dicevi «è necessario ricambiare le cortesie»), allora era sem­ pre Luca che mi veniva incontro per disarmarmi. Egli trovava comico il terrore che ispiravo: — Sono entrato in salotto mentre erano in procinto di riordinare e ho gridato: ecco lo zio! sta arrivando per la scorciatoia... Se avessi visto come se la svignavano ! La zia Isa e Geno­ veffa portavano i sandwiches nell’office. Che confusione! Questo ragazzo era il solo essere per il quale non fossi uno spauracchio. Scendevo qualche volta con lui fino al fiume, quando pescava con la lenza. Questo fan­ ciullo sempre in moto e sempre saltellante poteva rima­ nere per ore intere immobile, attento, quasi come un salice, e il suo braccio aveva movimenti lenti e silen­ ziosi come quelli di un ramo. Genoveffa aveva ragione quando diceva che non sarebbe stato mai un « lettera­ to ». Non si disturbava mai per vedere il chiaro di luna sulla terrazza; non aveva la sensazione della natura, per­ ché egli stesso era la natura, era confuso in essa, era una delle sue forze, era una sorgente viva tra le sorgenti. Pensavo a tutti i drammatici elementi di quella gio­ vane vita: la madre morta, il padre di cui non bisogna­ va parlare in casa, il collegio, l’abbandono. Mi sarebbe bastato molto meno per traboccare d’amarezza e di ran­ core. Da lui traboccava la gioia e tutti l’amavano. Come sembrava strano a me, che tutti odiavano! Tutti l’ama­ vano, compreso me. Lui sorrideva a tutti, anche a me; ma non più che agli altri. In questo essere tutto istinto, ciò che più mi colpì, a mano a mano che cresceva, fu la sua purezza, l’igno­ ranza del male, l’indifferenza. I nostri figli, ne conven­ go, erano dei bravi ragazzi. Uberto è stato un fanciullo modello, come tu dici. Sotto questo punto riconosco che il tuo sistema d’educazione ha dato i suoi frutti. Se Luca avesse avuto il tempo di diventare uomo, sarebbe stato retto? La purezza, in lui, non sembrava acquisita né co­ sciente: era la limpidezza dell’acqua tra i ciottoli. Essa

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brillava su lui, come la rugiada sull’erba. Se mi ci sof­ fermo, è perché ebbe in me una profonda eco. I prin­ cipi da te ostentati, le tue allusioni, le tue arie di disgu­ sto, lo stringersi della tua bocca non avrebbero potuto darmi la sensazione del male che mi è stato dato, a mia insaputa, da quel ragazzo. Se l’umanità fin dall’origine porta al fianco, come tu immagini, una ferita, nessun occhio umano l’avrebbe scorta in Luca: egli usciva dalle mani del figurinaio, intatto e perfettamente leggiadro. Ed io sentivo al suo confronto la mia deformità. Posso dire di averlo amato come un figlio? No, per­ ché ciò che in lui amavo, era il fatto di non ritrovarmi in lui. So molto bene ciò che Uberto e Genoveffa hanno preso da me: la loro asprezza, questo primato, nella loro vita, dei beni temporali, questa potenza del disprezzo. (Genoveffa tratta suo marito Alfredo con una impla­ cabilità che porta la mia impronta.) In Luca ero sicuro di non imbattermi in me stesso. Durante l’anno non pensavo affatto a lui. Suo padre 10 prendeva durante le feste di Capodanno e di Pasqua, le vacanze estive lo riconducevano a noi. Abbandonava 11 paese in ottobre, con gli altri uccelli. Era religioso? Tu dicevi di lui: — Anche in un pic­ colo bruto come Luca, si ritrova l’influenza dei Padri. Non tralascia mai la sua comunione della domenica... Ah ! per esempio il suo atto d’indulgenza è presto sbri­ gato. Infine, non si può esigere da nessuno più di quello che può dare. Non mi parlava mai di queste cose, né vi alludeva mai. Tutti i suoi discorsi riguardavano le cose più con­ crete. Talvolta, quando tirava fuori dalla tasca un col­ tello, un fischio, uno zufolo per chiamare le allodole, il suo piccolo rosario nero cadeva nell’erba ed egli lo raccattava prontamente. Forse, la domenica mattina, sem­ brava un po' più tranquillo degli altri giorni, meno fri­ volo, preoccupato quasi di alcunché d’ignoto. Fra tutti i legami che denotavano il mio attaccamen-

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to a Luca, ve n’è uno che forse ti meraviglierà: mi accadeva più di una volta, in quelle domeniche, di rico­ noscere, in quel giovane cerbiatto che non saltava più, il fratello della nipote spentasi dodici anni prima, della nostra Maria, pur così differente da lui, che non pote­ va tollerare che si schiacciasse un insetto e che provava piacere nel tappezzare di muschio il cavo di un albero per collocarvi una statuetta della Vergine. Lo ricordi? Ebbene, nel figlio di Marinetta, in colui che tu chiamavi il piccolo bruto, v’era Maria nostra che riviveva per me, o meglio, la stessa sorgente scaturita con lei e con lei inabissatasi sotto terra, che di nuovo scaturiva ai miei piedi. All’inizio della guerra, Luca aveva quindici anni. Uberto era mobilitato nei servizi ausiliari. I consigli di revisione, che egli subiva con filosofia, ti angosciavano. Sul suo petto stretto, che fu per anni il tuo incubo, ri­ posava ora la tua speranza. Allorché la monotonia degli uffici, ed anche qualche mortificazione, fecero sorgere in lui il vivo desiderio di arruolarsi e dopo che l’ebbe ten­ tato invano, tu arrivasti fino al punto di parlare aperta­ mente di ciò che avevi tanto curato di nascondere : « col suo atavismo » ripetevi ovunque. Mia povera Isa, non credere che io ti scagli la pietra addosso. Non ti ho mai destato interesse; non mi hai mai osservato; e in quel periodo meno ancora che in qualsiasi altra epoca. Non hai mai intuito come la mia angoscia aumentasse col succedersi delle campagne in­ vernali. Poiché il padre di Luca era mobilitato in un ministero, avevamo con noi suo figlio non solo durante le vacanze estive ma anche a Capodanno e a Pasqua. La guerra lo entusiasmava. Aveva paura che finisse prima che egli avesse raggiunto i diciotto anni. Lui, che prima non apriva mai un libro, divorava ora le opere di guer­ ra, studiava le carte. Sviluppava con metodo il suo cor­ po; a sedici anni era già un uomo, un uomo fatto. Ecco uno che non si inteneriva per i feriti, per i morti ! Dai

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racconti più neri, che gli facevo leggere sulla vita di trincea, riportava l’impressione di uno sport terribile e magnifico che non avrebbe avuto sempre il diritto di esercitare: bisognava quindi affrettarsi. Ah! che paura aveva di arrivare troppo tardi ! Aveva già in tasca l’au­ torizzazione di quello sciocco di suo padre. Io, con rav­ vicinarsi del fatale anniversario del gennaio ’18, seguivo fremendo la carriera del vecchio Clemenceau, la sorve­ gliavo, come quei genitori dei prigionieri che attende­ vano con ansia la caduta di Robespierre e che spera­ vano che il tiranno cadesse prima che il loro figlio fosse giudicato. Quando Luca fu al campo di Souges, durante il pe­ riodo di istruzione e di preparazione, gli inviavi indu­ menti di lana, dolciumi, ma avevi parole che risveglia­ vano in me l’istinto dell’assassino, quando, mia cara Isa, dicevi : — Povero piccolo, sarebbe veramente triste... ma lui almeno non lascerebbe nessuno dopo di lui... — Riconosco come non vi fosse nulla di scandaloso in queste parole.

Capii un giorno che non v’era più alcuna speranza che la guerra finisse prima della partenza di Luca. Quan­ do il fronte fu intaccato allo Chemin des Dames, egli venne a salutarci, quindici giorni prima di quel che fosse previsto. Tanto peggio! Avrò il coraggio di ri­ chiamare qui un ricordo orribile, che mi sveglia ancora, di notte, e mi fa gridare. Quel giorno andai a cercare nel mio studio una cintura di cuoio, ordinata al sellaio su un modello da me stesso fornitogli. Salii sopra uno sgabello e cercai di tirare a me la testa in gesso di De­ mostene che sta sopra la mia libreria. Impossibile smuo­ verla. Era piena di monete d’oro, che vi nascondevo dalla mobilitazione in poi. Affondai la mano in quell’oro, che era ciò a cui più tenevo al mondo, e ne imbottii la cin­ tura di cuoio. Quando scesi dallo sgabello, quel ser­ pente intirizzito, pieno di metallo, mi si arrotolò al collo

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e mi schiacciò la nuca. Lo porsi con gesto timido a Lu­ ca. Egli non comprese dapprima cosa gli offrissi. — Che vuoi che me ne faccia, zio? — Ti può servire negli accantonamenti, se cadi pri­ gioniero... e in tante altre circostanze: con questo si può tutto. — Oh! — disse ridendo — ne ho già abbastanza del mio zaino... Come hai potuto pensare che io possa in­ gombrarmi di tutto questo denaro? Al mio primo invio in linea, sarei costretto a lasciarlo... — Ma, figlio mio, all’inizio della guerra tutti quelli che ne avevano, portavano il denaro con sé. — Perché non sapevano ciò che li attendeva, zio. Stava ritto in mezzo alla stanza. Gettò sul divano la cintura d’oro. Come sembrava esile, nell’uniforme trop­ po grande per lui, quel ragazzo vigoroso! Dal colletto aperto emergeva il suo collo di soldatino. I capelli rasi toglievano al viso qualsiasi carattere particolare. Era pronto per la morte, era « addobbato », simile agli altri, senza un segno di distinzione, già anonimo, già scom­ parso. Fissò per un istante il suo sguardo sulla cintura, poi alzò gli occhi verso di me con una espressione di derisione e di disprezzo. Pur tuttavia, mi abbracciò. Scen­ demmo con lui fino sulla porta che dà sulla strada. Si voltò per gridarmi di « riportare tutto alla Banca di Francia ». Non vedevo più nulla. Intesi che tu gli dicevi ridendo: — Non contarci molto ! È domandargli troppo ! Poiché rimanevo immobile nell’ingresso, quando la porta fu richiusa, mi dicesti: — Confessa che sapevi ch’egli non avrebbe accettato il tuo oro. Eri tranquillo nel fare quel gesto. Mi ricordai ad un tratto che la cintura era rimasta sul divano; un domestico avrebbe potuto trovarla. Risalii in fretta, me la misi di nuovo sulle spalle, per vuotarne il contenuto nella testa di Demostene.

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Mi accorsi appena della morte di mia madre che av­ venne pochi giorni dopo: da anni aveva perduto ogni nozione di tutto e non viveva più con noi. Ogni giorno, ora, penso a lei, penso alla madre della mia infanzia e della mia giovinezza: l’immagine di quello che era di­ ventata, è sparita. Io, che detesto i cimiteri, mi reco qualche volta alla sua tomba. Non vi porto fiori da quando mi sono accorto che li rubano. I poveri portano via le rose dei ricchi per i loro morti. Bisognerebbe fare la spesa di una cancellata, ma tutto è così caro, ora! Luca non ha avuto tomba: è scomparso, è un disperso. Conservo nel portafogli l’unica cartolina che ha avuto il tempo d’inviarmi: «Tutto va bene, ho ricevuto il vostro invio. Tenerezze ». Egli ha scritto « tenerezze ». Ho fi­ nalmente avuta questa parola da quel povero ragazzo.

XI

Questa notte sono stato svegliato da una specie di sof­ focamento. Ho dovuto alzarmi, trascinarmi alla mia pol­ trona ove, nel frastuono di un vento furioso, ho riletto queste ultime pagine, stupefatto per la bassezza del mio fondo morale che esse mettono in luce. Prima di scri­ vere, mi sono appoggiato alla finestra. Il vento si era calmato; Calèse dormiva senza un respiro, sotto tutte le stelle. Improvvisamente, verso le tre dopo mezza­ notte, di nuovo la burrasca, i tuoni, le pesanti gocce gelate. Crepitavano in tal modo sulle tegole che ebbi paura della grandine; ho creduto che mi si fermasse il cuore. La vigna ha da poco sfiorito; il raccolto futuro copre il poggio; ma sembra che esso stia là come quelle giovani bestie che il cacciatore lega ed abbandona nell’oscurità per attirare la selvaggina; nuvole rumoreggianti girano sulle vigne che si offrono. Che m’importa ora del raccolto? Non posso più nulla raccogliere al mondo; posso solamente conoscere un po’ meglio me stesso. Sentimi, Isa. Scoprirai nelle mie carte, dopo la mia morte, le mie ultime volontà. Datano dai mesi che seguirono la morte di Maria, quando ero ma­ lato e tu ti preoccupavi per i figli. Vi troverai una pro­ fessione di fede concepita press’a poco in questi termini: « Se, al momento di morire, accetto gli uffìzi di un sa­

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cerdote, protesto anticipatamente, in piena lucidità men­ tale, contro l'abuso che si farà del mio indebolimento intellettuale e fisico, per ottenere da me ciò che il ra­ gionamento riprova ». Ebbene, ti faccio questa confessione: avviene tutto il contrario quando scruto in me, come faccio da due mesi in qua, con un'attenzione più forte del disgusto; è pro­ prio quando mi sento più lucido di mente, che la ten­ tazione cristiana mi tormenta. Non posso negare che esiste in me una tendenza che potrebbe condurmi al tuo Dio. Se arrivassi al punto di compiacermi con me stesso, combatterei meglio questa esigenza. Se potessi disprez­ zarmi senza secondo fine, la questione sarebbe per sem­ pre risolta. Ma l’insensibilità che io posseggo, la spa­ ventevole miseria del mio cuore, il dono che io ho di ispirare odio e di creare intorno a me il deserto, tutto ciò prevale contro la speranza... Mi credi, Isa? Forse non è per voi, retti, che il tuo Dio è venuto, se Egli è venuto, ma per noi. Tu non mi conoscevi, tu non sapevi chi io fossi; le pagine che hai ora letto, mi hanno reso meno abominevole ai tuoi occhi? Vedi perciò che esiste in me un tasto segreto, quello che Maria destava, rifugiandosi nelle mie braccia, quello che destava il piccolo Luca, la domenica, quando, al ritorno dalla messa, si sedeva sulla panca davanti alla casa e contem­ plava la distesa dei prati. Oh ! non credere che mi faccia un concetto troppo alto di me stesso. Conosco il mio cuore, questo groviglio di vipere: soffocato da esse, saturo del loro veleno, con­ tinua a battere sotto il loro nodo: questo groviglio di vipere che è impossibile sciogliere, che bisognerebbe ta­ gliare con un colpo di coltello, con un colpo di spada. « Non son venuto per portare la pace, ma per portare la guerra. »

Può essere che domani io rinneghi ciò che oggi qui ti confido, come ho rinnegato, questa notte, le mie ul­ time volontà scritte trent’anni or sono. Ho mostrato di

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odiare di un odio espiabile tutto ciò che tu professavi, e continuo ad odiare coloro che si protestano cristiani; molti di essi non deludono forse una speranza, non al­ terano un viso, quel viso, quell’immagine? Con qual diritto, mi dirai, li giudichi tu che sei un essere abomi­ nevole? Non vi è forse, Isa, nella mia turpitudine, un qualche cosa che rassomigli, più di quel che non faccia la virtù loro, al Segno che tu adori ? Quanto scrivo è certamente, ai tuoi occhi, un’assurda bestemmia. Dovre­ sti provarmelo. Perché non mi parli? perché non mi hai mai parlato? Esiste forse una tua parola che mi strazie­ rebbe il cuore? Questa notte, mi sembra che non sarebbe troppo tardi per ricominciare la nostra vita. Se non at­ tendessi la morte, per affidarti queste pagine? Se ti scon­ giurassi, in nome del tuo Dio, di leggerle fino in fon­ do? Se spiassi il momento in cui avrai finito la lettura? Se ti vedessi rientrare in camera mia, col viso bagnato di lacrime? Se tu mi aprissi le braccia? Se ti chiedessi perdono? Se cadessimo l’uno ai ginocchi dell’altra? La burrasca sembra finita. Le stelle che precedono l’alba palpitano. Credevo che piovesse di nuovo, ma sono invece le foglie, che continuano a gocciolare. Se mi sdraiassi sul letto, soffocherei. Intanto, non posso più scrivere, poso la penna e lascio cadere la testa contro la spalliera... Un sibilo animalesco, poi un fracasso enorme e, nello stesso tempo, un lampo hanno riempito il cielo. Nel pauroso silenzio che seguì, sono scoppiate sui poggi le bombe che i vignaioli lanciano perché le nuvole di gran­ dine si disperdano o si sciolgano in acqua. Dei razzi sono comparsi in quella parte delle tenebre ove Barsac e Sauternes tremano nell’attesa del flagello. La campana di San Vincenzo, che allontana la grandine, suonava a tutto spiano come chi canta di notte perché ha paura. All’improvviso chicchi di grandine sulle tegole, come il rumore di una manciata di sassi... Poco fa, sarei balzato alla finestra. Udivo scricchiolare le imposte della camera. Hai chiesto ad un uomo che attraversava in fretta il

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cortile: — È pesante? — Ti ha risposto: — Per fortuna è mischiata alla pioggia, ma ne cade abbastanza —. Un fanciullo spaventato correva a piedi scalzi nel corridoio. Per abitudine ho calcolato: “Centomila lire perdute...” ... ma non mi sono mosso. Nulla mi avrebbe trattenuto, altre volte, dallo scendere, come quando mi trovarono, una notte, in mezzo alle vigne, in pantofole, con la can­ dela spenta in mano, mentre la grandine mi picchiava sulla testa. Un profondo istinto di contadino mi spin­ geva, quasi avessi voluto stendermi e coprire col mio corpo le vigne bersagliate. Ma questa sera eccomi di­ ventato estraneo a ciò che era, nel senso più profondo della parola, il mio interesse. Sono finalmente estraneo a tutto. Non so che cosa, non so chi mi abbia liberato. Le gomene sono rotte, Isa, ed io vado alla deriva. Quale forza mi trascina? Una forza cieca? Un amore? Forse un amore...

XII Come mai ho pensato a mettere questo quaderno nel mio bagaglio? A che mi serve ora questa lunga confes­ sione? Con i miei non ho più alcun rapporto e colei, alla quale mi sono finora completamente dedicato, non deve più esistere per me. Perché ricomincio questo la­ voro? Perché certamente, senza saperlo, vi trovo sol­ lievo, liberazione. Quale luce aprono le ultime righe, scritte la notte della grandinata! Non ero forse quasi pazzo? No, no, non parliamo qui di follia. Che la pa­ rola follia non sia nominata, perché sarebbero capaci di servirsene contro di me, se queste pagine venissero in loro possesso. Esse non sono rivolte più a nessuno. Bi­ sognerà che le bruci appena mi sentirò peggio... A me­ no che io non le lasci a quel figlio sconosciuto che son venuto a trovare a Parigi. Poco è mancato che non ri­ velassi il suo nome a Isa, nelle pagine in cui alludevo ai miei amori del 1909, quando stavo per confessare che la mia amica, incinta, era partita per rifugiarsi a Parigi... Mi ritenevo generoso perché inviavo alla madre e al figlio, prima della guerra, seimila franchi all’anno. Non mi è mai venuta l’idea di aumentare questa somma. È colpa mia se ho trovato qui due esseri assoggettati, avvi­ liti da umili lavori. Alloggio in una pensione familiare in via Bréa, col pretesto che essi abitano in quel quar­

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tiere. Tra il letto e l’armadio, ho appena il posto di se­ dermi per scrivere. Eppoi, che baccano! Ai miei tempi Montparnasse era tranquillo; ora sembra popolato di pazzi che non dormono mai. Faceva meno chiasso la mia famiglia davanti alla scalinata di Calèse, la notte in cui vidi con i miei occhi, intesi con le mie orecchie... Perché ripensarvi? Pur tuttavia sarebbe una liberazione fissare, fosse pure per un attimo, quel ricordo atroce... Perché dovrei d’altronde distruggere queste pagine? Mio figlio, il mio erede, ha il diritto di conoscermi. Metterei così riparo, in piccola parte, alla lontananza in cui l’ho tenuto da quando è nato. Ecco, per giudicarlo mi è bastato intrattenermi due volte con lui. Non è l’uomo che possa trovare il minimo interesse in questo scritto. Cosa può capire questo su­ bordinato, questo individuo mediocre, questo abbrutito che gioca alle corse dei cavalli? Durante il viaggio notturno da Bordeaux a Parigi, mi figuravo i rimproveri che egli mi avrebbe mosso, pre­ paravo la mia difesa. Come ci si lascia influenzare dai romanzi e dal teatro ! Non dubitavo affatto di avere a che fare con un figlio naturale pieno di amarezza e di nobiltà d’animo! Me lo raffiguravo ora austeramente no­ bile come Luca, ora bello come Fili. Avevo previsto tutto, tranne che mi rassomigliasse. Vi sono padri che hanno piacere nel sentirsi chiedere: — Vostro figlio vi rassomiglia ? Ho ponderato il rancore che in me produce il veder­ mi comparire questo spettro di me stesso. In Luca ho teneramente amato il ragazzo che non aveva nulla che mi rassomigliasse. Roberto differisce da me solo in que­ sto: d’essersi mostrato incapace di sostenere qualsiasi esa­ me. Ha dovuto rinunziarvi dopo ripetuti scacchi. Per questo sua madre, che ha fatto l'impossibile, lo disprez­ za. Ella non può trattenersi dal farvi sempre allusione; lui china il capo e non sa darsi pace per tutto quel de­ naro perduto. Per questo soltanto è mio figlio. Ma la ricchezza che io gli porto supera la sua meschina imma­

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ginazione; essa non rappresenta nulla per lui; non vi crede. Ma in verità, sua madre e lui hanno paura e ri­ petono, poveri infelici: — Non è legale... possiamo essere presi... Questo donnone pallido, dai capelli scoloriti, questa caricatura di ciò che amai, fissa su me i suoi occhi ancora bellissimi: — Se ti avessi incontrato per la strada — mi ha detto — non ti avrei riconosciuto —. L’avrei io rico­ nosciuta? Temevo il suo rancore, le sue rappresaglie. Tutto avevo temuto, ma non questa cupa indifferenza. Esacerbata, istupidita da otto ore al giorno di scrittura a macchina, ella teme le fole. Ha conservato della giu­ stizia, con la quale ha già avuto a che fare, una diffiden­ za morbosa. Ho loro spiegato bene la manovra : Roberto prende in un istituto di credito una cassetta di sicurezza sotto il suo nome e vi trasporta le mie ricchezze; mi dà la procura per aprire la cassetta e si impegna a non toc­ carvi nulla fino alla mia morte. Esigo naturalmente che mi firmi una dichiarazione, nella quale egli riconosca che tutto ciò che la cassetta contiene, mi appartiene. Ep­ pure non posso espormi a questa incognita. La madre e il figlio obiettano che alla mia morte si ritroveranno i documenti. Questi idioti non vogliono rimettersi a me. Ho cercato di far capire loro che ci si può fidare di un avvocato di campagna, quale è Bourru, che tutto mi deve e col quale tratto affari da circa quarant’anni. Que­ sti ha in deposito una busta sulla quale è scritto : « da bruciarsi il giorno dopo la mia morte » e che sarà bru­ ciata, ne sono sicuro, con tutto ciò che contiene. Là den­ tro metterò la dichiarazione di Roberto. Son certissimo che Bourru brucierà questa busta suggellata, poiché essa contiene documenti che egli ha tutto l’interesse di veder sparire. Ma Roberto e sua madre temono che, dopo la mia morte, Bourru non bruci nulla e li faccia cantare. Vi ho pensato anch’io; consegnerò loro quanto serve per fare andare in galera Bourru se si muove. Il documento sarà bruciato da Bourru in presenza loro, e allora soltanto essi

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gli restituiranno le armi da me fornitegli. Che vogliono di più? Questa idiota e questo imbecille, ai quali porto mi­ lioni, non capiscono niente e si ostinano, e invece di ca­ dere ai miei ginocchi, come immaginavo, discutono, so­ fisticano... E quand’anche ci fosse del rischio? Il gioco vale la posta. Ma no, non vogliono firmare documenti: — Sarebbe troppo imbarazzante per la dichiarazione delle rendite... avremmo delle seccature... Ah ! devo proprio detestare molto gli « altri », per non abbandonare questi due! Anche degli «altri» hanno paura: «scopriranno il trucco... ci faranno causa...». E già: Roberto e sua madre immaginano che i miei abbiano avvisato la polizia perché io sia sorvegliato. Acconsen­ tono a vedermi solo di notte o nei quartieri eccentrici. Nelle mie condizioni di salute non posso certo vegliare o passare la vita in tassì ! Non credo che gli altri sospet­ tino: non è la prima volta che viaggio solo. Non hanno alcun motivo per credere che l’altra notte, a Calèse, as­ sistessi, non visto, al loro consiglio di guerra. Comun­ que sia, non mi hanno ancora scovato. Questa volta nul­ la potrà impedirmi di raggiungere il mio scopo. Il gior­ no in cui Roberto avrà consentito ad agire, potrò stare tranquillo, perché è vile e non commetterà imprudenze. Questa sera, è il tredici luglio, un’orchestra suona a distesa, e alla fine di via Bréa alcune coppie ballano. O quieta terrazza di Calèse! Mi ricordo l’ultima notte tra­ scorsavi. Nonostante il divieto del dottore, avevo preso una cartina di veronal e m’ero profondamente addor­ mentato. Mi svegliai di soprassalto e guardai l’orologio: era luna. Ebbi paura nell’udire molte voci; la finestra era rimasta aperta e non v’era nessuno in cortile né in salotto. Entrai nel gabinetto da toletta, che dà a nord, sulla scalinata. Là si attardava la mia famiglia, contra­ riamente alle abitudini. Data l’ora avanzata, non teme­ vano che qualcuno udisse, poiché soltanto le finestre del gabinetto da bagno e quelle del corridoio si aprivano da quel lato.

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La notte era calma e calda. Durante i periodi di si­ lenzio, udivo il respiro un po’ corto di Isa, lo strofinio di un fiammifero. I piccoli olmi neri non erano scossi da alcun alito di vento. Non osavo sporgermi, e ricono­ scevo ogni nemico, dalla voce, dalla risata. Non discu­ tevano: qualche riflessione di Isa o di Genoveffa era seguita da un lungo silenzio. Poi, d’un tratto, per una parola di Uberto, Fili scattò, e parlarono tutti insieme. — Sei ben sicura, mamma, che la cassaforte del suo studio non rinchiuda altro che carte di nessun valore. L’avaro è sempre imprudente. Ricorda l’oro che voleva dare al piccolo Luca... Dove lo nascondeva? — No, sa che io conosco il motto della cassaforte che è: Maria. L’apre soltanto se deve consultare una po­ lizza d’assicurazione o un foglio di tasse. — Ma questo, mamma, potrebbe rivelare l’ammon­ tare delle ricchezze che egli nasconde. — Mi sono assicurata che vi son solo dei documenti che riguardano gli immobili. — Ciò è terribilmente significativo, non ti pare? Si vede che ha preso tutte le precauzioni necessarie. Fili, sbadigliando, mormorò: — No! Che coccodrillo! Sono stato proprio fortunato ad incontrarmi con un coccodrillo simile! — Se volete sentire il mio parere — disse Genoveffa — non troverete più nulla nella cassetta di sicurezza del Credito Lionese... Che ne dici, Giannina? — Si direbbe che t’ami un poco, mamma. Quando eravate piccoli, non si mostrava talvolta gentile con voi? No? Non avete saputo prenderlo, non siete stati abili. Bisognerebbe tentare di circuirlo, di conquistarlo. Ci riu­ scirei sicuramente se egli non avesse avversione per Fili. — L’impertinenza di tuo marito ci sarà certamente costata cara... — disse Uberto interrompendo aspramente la nipote. Sentendo Fili ridere, mi sporsi un po’. La luce di un fiammifero illuminò per un istante le sue mani unite, il suo mento morbido, la sua bocca carnosa.

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— Orsù, non ha atteso che arrivassi io per avere av­ versione per voi. — No, ma prima ci detestava meno... — Ricordate ciò che racconta la nonna — riprese Fili. — Il suo atteggiamento quando gli morì una fi­ gliola... sembrava non se ne curasse... Non è mai andato al cimitero... — No, Fili, esageri. Se ha amato qualcuno, è stata Maria. Non avrei potuto trattenermi senza questa protesta di Isa, pronunziata a voce bassa e tremante. Mi sedei su di una sedia col corpo proteso in avanti e la testa contro il davanzale della finestra. Genoveffa riprese: — Tutto ciò non sarebbe successo se Maria fosse an­ cora viva. Non avrebbe potuto fare altro che darle dei vantaggi... — Andiamo! L’avrebbe presa in uggia come gli altri. È un mostro che non ha sentimenti umani... Isa ha protestato di nuovo: — Ti prego, Fili, di non parlare così di mio marito in presenza mia e dei suoi figli. Tu devi portargli ri­ spetto. — Rispetto ? Rispetto ? Mi è sembrato che egli borbottasse: — Se credete che sia divertente per me l’essere entrato a far parte di una famiglia simile... La suocera con tono brusco gli rispose: — Nessuno ti ha obbligato a farlo. — Ma mi si è fatto sperare... Su via! Perché piange, Giannina ? Che ho detto di tanto straordinario ? — Su! Su! — brontolava Fili con tono di noia. Non intesi più altro, all’infuori di Giannina che si soffiava il naso. — Quante stelle! — esclamò una voce che non potei identificare. L’orologio di San Vincenzo suonò le due. — Ragazzi, bisogna andare a dormire. Uberto protestò, dicendo che non si potevano lasciare senza aver deciso nulla e che era il momento di agire.

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Fili approvò, poiché non credeva che io potessi vivere ancora molto. Se si fosse tardato, non vi sarebbe stato più nulla da fare. Dovevo aver già preso tutte le mie precauzioni... — Che sperate dunque da me, miei poveri figli ? Ho provato tutto; non ho altro da tentare. — Sì! — disse Uberto. — Tu puoi ancora... Che diceva ? Mi sfuggiva ciò che più mi premeva sapere. Il tono col quale Isa pronunziò le parole: — No, no, questo non mi piace affatto — mi fece capire che ella era offesa, urtata. — Si tratta di salvare il nostro patrimonio, mamma, e non di sapere ciò che tu preferisci fare. Ancora mormorii incomprensibili, troncati da Isa: — È inumano, figlio mio. — Ma tu, nonna, non puoi essere più oltre la sua complice. Ci disereda col tuo permesso. Il tuo silenzio lo conferma. — Giannina mia cara, come osi tu... Povera Isa ! Aveva vegliato intere notti al capezzale di questa bimba urlona, l’aveva presa nella sua camera perché i genitori volevano dormire e nessuna gover­ nante poteva più sopportarla. Con un tono tagliente, che mi avrebbe fatto dare in escandescenze, Giannina replicò: •— Mi dispiace doverti dire ciò, ma è mio dovere. Suo dovere! Chiamava così l’esigenza della sua carne, la paura di essere abbandonata da quel giovane di cui udivo il riso idiota... Genoveffa ammise con sua figlia che, senza dubbio, la debolezza poteva diventare complicità. Isa sospirò: — Forse, figli miei, il sistema più semplice è quello di scrivergli. — Ah ! No ! soprattutto niente lettere ! — protestò Uberto. — Sono sempre le lettere che ci rovinano. Vo­ glio sperare che tu non gli abbia già scritto, mamma? Confessò di avermi scritto già due o tre volte. — Lettere minacciose o insultanti?

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Isa esitò a rispondere. Io, io, ridevo... Sì, mi aveva scritto delle lettere che conservavo gelosamente; due piene di gravi offese, una terza quasi tenera e tale da farle per­ dere qualsiasi causa di separazione legale, che quegli imbecilli dei figli potessero persuaderla ad intentarmi. Tutti sbraitavano ora, così come succede quando, all’abbaiare di un cane, tutta la muta comincia a latrare. ■— Tu non gli hai scritto, nonna? Non è in possesso di nessuna lettera pericolosa per noi? — No, non credo... Ossia una volta, Bourru, quell’avvocatuccio che mio marito deve tenere in scarsa con­ siderazione, mi ha detto con voce lacrimosa (ma è una canaglia e un finto) : « Ah ! è stata molto imprudente, signora, a scrivergli... ». — Che gli hai scritto? non cose offensive, spero. — Una volta, dei rimproveri un po’ troppo violenti dopo la morte di Maria. E un’altra volta, nel 1909, per­ ché aveva contratto una relazione più seria delle altre. E poiché Uberto mormorava: — 'È grave... molto gra­ ve — ella credette bene di rassicurarlo affermandogli di avere in seguito tutto bene accomodato, facendo le sue scuse, riconoscendo il suo torto. — Ah! questa è la fine... — Allora egli non può più temere una causa di se­ parazione... — Ma, in fin dei conti, che cosa vi fa pensare che le sue intenzioni siano così nere? — Via! Bisognerebbe esser ciechi: il mistero impe­ netrabile delle sue operazioni finanziarie, le sue allusio­ ni, le parole sfuggite a Bourru davanti a testimoni : « Ne faranno un boccone, quando il vecchio morirà... ». Discutevano ora come se la vecchia non fosse stata presente. Essa si alzò, gemendo, dalla sua poltrona. Fa­ ceva male, diceva, a rimanere seduta fuori di notte, poiché soffriva di reumatismi. I figli nemmeno le rispo­ sero. Udii che, senza interrompere i loro discorsi, distrat­ tamente le auguravano la buona notte. Dovette andar

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lei in giro ad abbracciarli, perché essi non si incomo­ davano. Per prudenza, tornai a letto. Il suo passo pesante risonava nella scala. Arrivò fino alla porta della mia stanza; intesi il suo ansare. Posò la candela sul pavimen­ to e aprì. Si avvicinò al mio letto, si chinò su di me per assicurarsi che io dormissi. Quanto tempo vi rimase ! Temevo di tradirmi. Respirava a piccoli tratti. Final­ mente richiuse la porta. Appena ebbe chiusa a chiave anche quella della sua stanza, raggiunsi il mio posto d’ascolto nel gabinetto da toletta. I figli erano ancora là e parlavano ora sottovoce. Mol­ te parole mi sfuggivano. -—■ Non sapeva vivere — disse Giannina. — Ma, mio caro Fili, tu hai la tosse. Indossa il soprabito. — Dopo tutto, non è la moglie che odia, ma noi. Chi l’avrebbe immaginato! Una cosa simile non si legge nemmeno nei romanzi. Non dobbiamo giudicare nostra madre — concluse Genoveffa -— però mi pare che la mamma non sia molto in collera con lui. — Sfido (era la voce di Fili), ella riavrà sempre la sua dote. Le Suez di papà Fondaudège devono essere sa­ lite dal 1884... — Le Suez? Sono state vendute... Riconobbi dal modo di parlare stentato ed esitante, il marito di Genoveffa, quel povero Alfredo che non aveva ancora detto una parola. Genoveffa col tono acre, stridente, che adopera con lui, l’interruppe: —■ Sei pazzo? le Suez vendute? Alfredo raccontò che, nel maggio, era entrato in ca­ mera della suocera mentre ella firmava alcune carte, e che essa stessa gli aveva detto: — Sembra che sia il momento di vendere queste azioni; hanno raggiunto il massimo e stanno per diminuire. — E tu non ci hai avvisati — gridò Genoveffa. — Ma sei veramente idiota. Le ha fatto vendere le Suez? E ce lo dici con la massima semplicità...

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— Ma Genoveffa, credevo che tua madre vi tenesse al corrente. Poiché si è sposata col sistema dotale... — Sì, ma non avrà intascato lui il guadagno di que­ sta operazione? Che ne pensi, Uberto? E dire che Al­ fredo non ci ha avvertiti ! E avrei trascorso tutta la mia vita con quest’uomo... Intervenne Giannina per pregarli di parlare più piano per non svegliare la sua figliola. Per qualche minuto non udii più nulla. Poi risonò nuovamente la voce di Uberto: — Penso a ciò che dicevate poco fa. Non potremo tentar nulla da quel lato con nostra madre. Eppure biso­ gnerebbe prepararla pian piano... —· Preferirebbe forse questo alla separazione. La se­ parazione, portando necessariamente al divorzio, diventa un caso di coscienza... Certo la proposta di Fili, a prima vista, non piace. Macché ! Non giudicheremo, non saremo noi a giudicare inappellabilmente. Noi dobbiamo solo provocare la cosa. E non si farà, se le autorità compe­ tenti non riconosceranno che è necessario. — Vi ripeto che farete un buco nell’acqua — dichiarò Olimpia.

La moglie di Uberto doveva essere urtata per alzare così la voce. Affermò che ero un uomo posato, di crite­ rio: — Coi quale — ella disse — devo riconoscere di trovarmi spesso d’accordo e che rivolterei come un guan­ to, se voi non ostacolaste la mia opera... Non udii l’insolenza che dovette rispondere Fili; ma ridevano tutti, come avviene ogni qualvolta Olimpia apre bocca. Raccolsi brani di frasi: — Son cinque anni che non difende, che non può difendere cause. — Per la malattia di cuore? — Ora sì, ma quando lasciò il Palazzo di Giustizia non era ancora molto malato. La verità è che aveva delle questioni con i colleghi. Vi sono state scenate, nei cor­ ridoi, sulle quali ho già raccolto testimonianze... Tesi invano l’orecchio. Fili e Uberto avevano avvici­

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nato le sedie e non intesi che un mormorio indistingui­ bile, e poi l’esclamazione di Olimpia: — Su via! il solo uomo col quale possa qui parlare delle mie letture, scambiare idee generali, e voi vor­ reste... Dalla risposta di Fili percepii la parola « pazza ». Il genero di Uberto, quello che non parla mai, disse con voce soffocata: •— Ti prego di essere gentile con mia suocera. Fili rispose che scherzava. Non erano tutti e due vit­ time, in questa faccenda? Siccome il genero di Uberto assicurava, con voce tremante, che non si considerava vittima e che aveva sposato sua moglie per amore, tutti gli fecero coro: — Anch’io! anch’io! anch'io! — Geno­ veffa disse con rabbia a suo marito: — Ah! anche tu! Ti vanti di avermi sposata senza conoscere la ricchezza di mio padre? Ma ricorda quanto mi dicesti, la sera del nostro fidanzamento : « Non im­ porta che non voglia parlarne, tanto sappiamo che è enorme ! ». Vi fu una risata generale; un baccano. Uberto parlò di nuovo per qualche istante, ma non intesi che l’ultima frase : — V’è una questione di giustizia, una questione di moralità che si impone. Difendiamo il patrimonio, i di­ ritti sacri della famiglia. Nel profondo silenzio che precede l’alba, le loro pa­ role mi giungevano più chiare. — Farlo pedinare? Ha troppi contatti con la polizia, ne ho avuto le prove, lo avvertirebbero... — e dopo qual­ che istante. — La sua severità, la sua rapacità, sono note; in due o tre affari, bisogna pur dirlo, si è dubitato della sua scrupolosità. Ma per quanto riguarda buon senso, equilibrio... — In ogni modo, non vorrete negare il carattere inu­ mano, mostruoso, innaturale dei suoi sentimenti a no­ stro riguardo... — Credi forse, Giannina — disse Alfredo a sua

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figlia — che ciò basterebbe per stabilire una diagnosi? Comprendevo, avevo ben compreso. Regnava in me una grande calma, nata da questa certezza: essi erano i mostri, io la vittima. Mi fece piacere notare che Isa non c’era. Aveva più o meno protestato mentre era là; da­ vanti a lei non avrebbero osato fare allusione ai progetti che avevo sorpreso e che, d’altronde, non mi spaventa­ vano. Poveri imbecilli ! come se io fossi l’uomo che si lasciava interdire e rinchiudere! Avrei messo immedia­ tamente Uberto in una situazione disperata, prima che essi avessero potuto muovere un dito. Egli non dubita nemmeno lontanamente d’essere in mio potere. Quan­ to a Fili, ho un incartamento... Non mi era mai passato per la testa di dovermene servire. Ma non me ne ser­ virò: basterà che io mostri i denti. Provavo, per la prima volta in vita mia, la soddisfa­ zione d’essere il meno cattivo. Non avevo desiderio di vendicarmi; o per lo meno non desideravo altra ven­ detta che quella di togliere loro l’eredità per la quale illanguidivano di impazienza, tremavano di angoscia.

—■ Una stella filante! — gridò Fili... — Non ho avuto il tempo di esprimere un desiderio. — Non se ne ha mai il tempo! — esclamò Gianni­ na. E suo marito aggiunse, con la fanciullesca allegria che aveva conservato: — Quando ne vedrai una, grida: milioni! Che idiota, quel Fili! Si alzarono tutti. Le poltrone del giardino fecero stri­ dere la ghiaia. Udii il rumore del chiavistello della por­ ta d’ingresso e le risate soffocate di Giannina nel cor­ ridoio. Gli usci delle camere da letto si chiusero ad uno ad uno. Presi la mia decisione. Da due mesi non avevo avuto più crisi e nulla mi impediva di recarmi a Parigi. Generalmente partivo senza avvisare, ma non volevo che questa partenza sembrasse una fuga. Fino al mattino, continuai a pensare ai miei piani e li misi a punto.

XIII

Quando mi alzai, a mezzogiorno, non sentii alcuna stanchezza. Bourru, chiamato telefonicamente, giunse do­ po colazione e passeggiammo in lungo e in largo sotto i tigli, per tre quarti d’ora. Isa, Genoveffa e Giannina ci osservavano da lontano ed io gioivo della loro ansia. Che peccato che gli uomini fossero a Bordeaux! Parlan­ do di questo vecchio avvocatocelo, essi dicono: — Bour­ ru è la sua anima dannata —. Disgraziato Bourru! Lo tratto più rigidamente di uno schiavo ! Quel giorno, il poveretto si dibatteva per non farmi lasciare armi contro di lui al mio eventuale erede... — Ma — gli dicevo — egli le cederà appena avrete bruciato la dichiarazione firmata da lui... Quando se ne andò, salutò profondamente le signore che risposero appena e inforcò la sua bicicletta. Rag­ giunsi le tre donne e annunziai loro la mia partenza per Parigi, quella sera stessa. Ad Isa, che protestava dicendo che il viaggiar solo nelle mie condizioni era impruden­ te, risposi: — È necessario che mi occupi dell’impiego del mio denaro, poiché, pur non sembrando penso a voi. Mi osservarono con ansia; il mio accento ironico mi tradiva. Giannina guardò sua madre e disse arditamente: -— La nonna o lo zio Uberto potrebbero sostituirti, nonno.

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— È un’ottima idea, piccola mia... ma ecco: è stata sempre mia abitudine far tutto da me. E poi, è male, lo so, ma non mi fido di nessuno. — Nemmeno dei figli ? Oh ! nonno ! E calcò « nonno », con tono affettato, assumendo un’espressione leziosa, irresistibile. Ah! la sua voce esa­ sperante, quella voce che avevo inteso la notte scorsa, mista alle altre... Allora mi misi a ridere di quel riso pericoloso che mi provoca la tosse e che, visibilmente, li spaventa. Non dimenticherò mai il povero volto di Isa, la sua espressione estenuata. Aveva già dovuto su­ bire altri attacchi, e Genoveffa sarebbe probabilmente tornata alla carica, appena io mi fossi allontanato: — Non lasciarlo partire, mamma... Ma mia moglie non era risoluta nell’agire, non ne poteva più, sfinita dalla fatica. La sentivo dire l’altro giorno a Genoveffa: «Vorrei mettermi a letto, dormire, non svegliarmi più ». Mi commuoveva ora, come m’aveva commosso la mia povera madre. I figli spingevano contro di me questa vecchia macchina usata, che non poteva più servire a nulla. L’amavano senza dubbio, ma a modo loro; la costringevano a consultare il dottore, ad osservare regi­ mi. Appena la figlia e la nipote si allontanarono, mi si avvicinò : — Senti — mi disse in fretta — ho bisogno di de­ naro. — Siamo appena al dieci e t’ho dato il tuo mensile al primo del mese. — Sì, ma ho dovuto anticipare del denaro a Gian­ nina: essi sono in grandi ristrettezze. A Calèse farò eco­ nomia e te lo restituirò ad agosto, prendendolo dal mio mensile... Risposi che tutto ciò non mi riguardava affatto e che non dovevo mantenere Fili. — Ho conti in sospeso col macellaio, col droghiere... To’, guarda. E li tirò fuori dalla borsa. Mi faceva pietà e le offrii

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di firmarle degli assegni bancari, così sarei sicuro che il denaro non andrebbe altrove... Vi consentì. Presi il mio libretto degli assegni e notai che Giannina e sua madre, dal viale dei roseti, ci guardavano. — Son sicuro — le dissi — che esse pensano che tu mi parli d’altro... Isa trasalì e domandò a voce bassa: — Di che cosa? — Provai in quell’istante una stretta al petto. Con le mani serrate feci il gesto che ella ben conosceva. Mi si avvicinò: — Soffri? Mi appoggiai un attimo al suo braccio; sembravamo, in mezzo a quel viale di tigli, due sposi che finissero la loro vita dopo anni di intima unione. Mormorai a bassa voce : — Va meglio —. Ella doveva forse pensare che era quello il momento di parlare, l’unica occasione. Ma non ne aveva più la forza. Notai come fosse trafelata anche lei. Io, per quanto malato, avevo resistito; lei si era completamente abbandonata, non era più buona a nulla. Cercava la parola e, per darsi coraggio, voltava gli occhi di nascosto verso la figlia e la nipote. Legge­ vo, nel suo sguardo fisso su di me, una stanchezza senza nome, forse della pietà e certamente un po’ di vergogna. I figli, quella notte, dovevano averla ferita. — Il vederti partire solo m’impensierisce, Le risposi che se mi fossi sentito male in viaggio, non sarebbe valsa la pena di farmi trasportare a casa. E poiché ella mi giurava di non alludere a ciò, ag­ giunsi : — È una cosa inutile, Isa. La terra dei cimiteri è ugua­ le dovunque. — Penso come te — disse con un fil di voce. — Mi mettano pure ove vorranno. Prima ci tenevo tanto a dor­ mire vicino a Maria... ma cosa rimane di Maria? Compresi ancora una volta che per lei, la piccola Ma­ ria non era altro che polvere ed ossa. Non osai dirle che, dopo tanti anni, sentivo vivere quella figlia, quasi

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la respiravo; e che spesso essa attraversava con un bru­ sco soffio la mia vita tenebrosa. Genoveffa e Giannina la spiavano invano, Isa sem­ brava stanca. Misurava forse la nullità di tutto ciò per cui lottava da tanti anni? Genoveffa e Uberto, spinti a loro volta dai figli, aizzavano contro di me questa vec­ chia donna, Isa Fondaudège, la fanciulla odorante delle notti di Bagnères. Dopo circa mezzo secolo, ci trovavamo l’uno di fron­ te all’altra. Ed ecco che, in questo afoso pomeriggio, i due avversari sentivano il vincolo creato, nonostante una sì lunga lotta, dalla complicità della vecchiaia. Eravamo giunti allo stesso punto, credendo di odiarci. Non v’era nulla, più nulla v’era, per lo meno per me, al di là di quel promontorio ove attendevamo di morire. A lei re­ stava il suo Dio, doveva restarle il suo Dio. Le veniva a mancare ad un tratto tutto quello a cui aveva tenuto non meno aspramente di me: tutte le bramosie che si interponevano tra lei e l’Essere infinito. Vedeva lei, ora, Colui dal quale più nulla la divideva? No, le restavano le ambizioni, le necessità, i figli, era preoccupata dei loro desideri. Doveva essere insensibile per procura. Preoc­ cupazioni finanziarie, di salute, calcoli fatti per ambizio­ ne o gelosia, tutto era là, dinanzi a lei, come i compiti degli scolari sui quali il maestro ha scritto: da rifare. Volse nuovamente lo sguardo verso il viale ove Ge­ noveffa e Giannina, armate di cesoie per potare, finivano di ripulire le piante di rose. Dal sedile ove m’ero sedu­ to per riprendere fiato, guardavo mia moglie che si al­ lontanava, a testa bassa, come un fanciullo che sia stato rimproverato. Il sole troppo caldo annunziava il tempo­ rale. Ella avanzava col passo di chi stenta a camminare e mi sembrava di sentirla gemere: — Ah! povere gambe mie! — Due vecchi sposi si detestano assai più di quan­ to possano credere. Aveva raggiunto i figli che, evidentemente, la rimpro­ veravano. La vidi tornare all’improvviso verso di me,

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rossa in volto, ansante, sedersi vicino, e l’udii dirmi in tono lacrimevole: — Questi periodi burrascosi mi logorano e ho i nervi tesi in questi giorni... Sentimi Luigi, vi è qualcosa che mi angustia... Quale nuovo impiego hai fatto delle Suez della mia dote? So bene che mi hai fatto firmare altri documenti... Le indicai la cifra dell’enorme guadagno che avevo realizzato in suo favore, alla vigilia del ribasso dei tito­ li, e le spiegai che avevo effettuato il nuovo impiego in obbligazioni. — La tua dote, Isa, ha prolificato e, pur tenendo conto del deprezzamento del franco, ne sarai sorpresa. Ho impiegato tutto a nome tuo, dote e profitti, nella Westminster... I figli non avranno nulla a ridire... puoi star sicura. Io sono padrone del mio denaro e di quello che esso ha prodotto; ma quello che era tuo, è tuo. Va pure a tranquillizzare quegli angeli disinteressati. Mi afferrò bruscamente pel braccio: — Perché li detesti, Luigi, perché odii la tua famiglia ? — Siete voi che mi odiate, o meglio sono i miei figli che mi odiano. Tu... tu non mi conosci, ad eccezion fatta di quando ti irrito o ti faccio paura. — Potresti aggiungere: «o di quando ti torturo...». Credi che non abbia mai sofferto, io? — Su via! Non avevi occhi che per i figli... — Dovevo pur rifugiarmi in essi. Cosa mi restava all’infuori di essi (e con tono più basso) dal momento che tu, lo sai bene, fin dal primo anno m’hai trascurata ed ingannata? -— Mia povera Isa, non vorrai farmi credere che le mie scappatelle t’abbiano molto colpita... forse nel tuo amor proprio di donna giovane... Rise amaramente e disse: — Sembri sincero! Quando penso che non ti sei nem­ meno accorto... Trasalii di speranza. È strano dirlo, trattandosi di sen­ timenti passati, ormai spenti. La speranza di essere stato

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amato, quaranta anni dopo, a mia insaputa... Ma no, non lo credevo... — Non hai avuto una parola, un grido... Ti basta­ vano i figli. Ella si nascose il viso nelle mani. Non vi avevo mai notato come in quel giorno, le vene gonfie, le chiazze. — I figli! Se penso che, dal momento in cui ognuno di noi ebbe la sua camera, mi sono privata per anni della gioia di averne qualcuno con me alla notte, perfino quando erano malati, perché attendevo, speravo sempre che tu venissi. Alcune lacrime scorrevano sulle sue mani di vecchia. Sì, era Isa; io solo potevo rivedere ancora, in quella donna grassa e malaticcia, la fanciulla vestita di bianco, sulla strada della vallata del Lys. — È vergognoso e ridicolo ricordare certe cose alla mia età!... Sì, soprattutto ridicolo. Scusami, Luigi... Guardavo i vigneti, senza rispondere. Mi sorse in quell’istante un dubbio. È possibile, durante circa mezzo secolo, osservare un solo lato della creatura che divide la nostra vita? È possibile che noi facciamo, per abitu­ dine, la scelta delle sue parole e dei suoi gesti, ritenen­ do solo quelli che alimentano i nostri dolori e conser­ vano il nostro rancore? Tendenza fatale a semplificare gli altri; eliminazione di tutti quei gesti che mitighe­ rebbero la pena e renderebbero più benigna la carica­ tura che abbisogna al nostro odio per la sua giustifica­ zione... Vide forse Isa la mia agitazione? Cercò troppo presto di rilevare una situazione. — Non parti questa sera? Credetti discernere un barlume di speranza nei suoi occhi perché credeva « d’avermi convinto ». Finsi di me­ ravigliarmi e risposi che non avevo nessun motivo di rimandare il viaggio. Ritornammo insieme, ma, a causa del mio mal di cuore, non passammo per il viale dei carpini ch’era in salita, e seguimmo invece il viale dei tigli che circonda la casa. Nonostante tutto, ero incerto e turbato. Se non partissi ! Se consegnassi ad Isa questo

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quaderno! Se... Ella mi mise una mano sulla spalla. Da quanti anni non aveva fatto questo gesto? Il viale sboc­ ca davanti alla casa, a tramontana. E disse: — Cazau non accomoda mai le sedie del giardino... Guardai distrattamente: le poltrone vuote formavano ancora uno stretto cerchio. Coloro che le avevano occu­ pate avevano sentito il bisogno di avvicinarsi per par­ lare sottovoce. La terra era solcata di impronte e dap­ pertutto v’erano i mozziconi delle sigarette che fuma Fili. Il nemico si era accampato là, la notte scorsa, e aveva tenuto consiglio sotto le stelle. Qui, in casa mia, sotto gli alberi piantati da mio padre, avevano parlato d’interdirmi o di rinchiudermi. In una sera di sconforto ho paragonato il mio cuore ad un groviglio di vipere. No, no: il groviglio di vipere è fuori di me; esse erano uscite di me e si avvoltolavano, la notte scorsa, forman­ do quel cerchio orrendo ai piedi della veranda; la terra ne porta ancora le tracce. Ritroverai il tuo denaro, Isa, pensavo, il tuo denaro che ho fatto fruttare. Ma null’altro che quello, perché troverò il modo di non farvi avere le terre. Venderò Calèse; venderò i terreni. Tutto quello che proviene dal­ la mia famiglia andrà a quel figlio sconosciuto, a quel giovane col quale mi incontrerò domani. Chiunque sia, egli non vi ha conosciuto, non ha partecipato ai vostri complotti, è stato allevato lontano da me e non può odiarmi; o se mi odia, l’oggetto del suo odio è un essere astratto, che non ha rapporti con me... Mi svincolai con collera e salii in fretta gli scalini dell’ingresso, dimenticando il mio vecchio cuore malato. Isa gridò : — Luigi ! Ma io non mi voltai.

XIV

Non riuscendo a prender sonno, mi sono vestito di nuovo e sono sceso nella strada. Per arrivare al boule­ vard Montparnasse, ho dovuto farmi strada attraverso coppie che ballavano. In altri tempi, anche un repub­ blicano accanito come me evitava i festeggiamenti del 14 luglio. A nessuna persona seria sarebbe saltato in testa di partecipare ai divertimenti della strada. Quelli che ballavano questa sera, in via Bréa e davanti alla Ro­ tonda, non sono né dei mascalzoni né degli scioperati, ma giovanotti robusti con la testa scoperta; alcuni di essi indossano camicie aperte con le maniche corte. Tra le ballerine, pochissime fanciulle. Essi si attaccano alle ruote dei tassì che interrompono i loro divertimenti, ma con garbo e buon umore. Un giovanotto che mi aveva inavvertitamente urtato, ha gridato: — Fate largo al nobile vecchio! — ed io son passato tra una duplice fila di visi giocondi. — Non hai sonno, nonno? — m’ha chiesto un giovanotto bruno dai capelli piantati sulla fronte. Luca avrebbe imparato a ridere come loro e a ballare nella strada; ed io, che non avevo mai saputo cosa volesse dire ricrearsi, divertirsi, l’avrei imparato da quel povero ragazzo ! Sarebbe stato il più soddisfatto di tutti; non gli sarebbe mancato il denaro... E invece la sua bocca si è riempita di terra... Correvo così dietro ai miei pensieri, quando, col cuore stretto dal dolore cau­ li.

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satomi dai miei, mi sedetti sulla terrazza di un caffè ove regnava l’allegria. AH’improvviso, tra la folla che passava sui marcia­ piedi, vidi me stesso: Roberto, con un compagno dal­ l’aspetto mite. Odio le lunghe gambe di Roberto, il suo tronco corto come il mio, la sua testa affondata tra le spalle. In lui, tutti i miei difetti fisici sono accentuati. Io ho il viso lungo ed il suo è come la testa di un cavallo, un viso di gobbo. Anche la sua voce è quella di un gobbo. Lo chiamai; lasciò il compagno e si guar­ dò intorno con trepidazione. — Non qui — mi disse — mi raggiunga sul mar­ ciapiedi di sinistra in via Campagne Première. Gli feci notare che in nessun altro luogo potevamo stare nascosti meglio che in mezzo a quella gran folla. Si convinse, salutò l’amico e si sedette al mio tavolo. Aveva in mano un giornale sportivo. Per rompere il silenzio cercavo di parlare di cavalli. Mi ci aveva abi­ tuato, in altri tempi, il vecchio Fondaudège. Raccontavo a Roberto che quando mio suocero giocava, faceva inter­ venire nella scelta dei cavalli le considerazioni più dispa­ rate; non solo le lontane origini del cavallo, ma la qua­ lità del terreno che esso preferiva... Roberto m’inter­ ruppe : -— Ma io ho delle informazioni da Dermas (era la ditta di tessuti ove lavorava, in via dei Petits-Champs). Quello che l’interessava era di guadagnare; i cavalli l’annoiavano: — Ho la bicicletta — soggiunse. E i suoi occhi brillarono. — Presto — gli dissi — avrete l’automobile... — Crede! Si bagnò di saliva il pollice, prese una cartina per sigarette e vi arrotolò il tabacco. Regnava di nuovo il silenzio. Gli domandai se la crisi degli affari si faceva sentire nella ditta ove lavorava. Mi rispose che avevano licenziato una parte del personale, ma che lui non cor­ reva quel rischio. Le sue riflessioni non uscivano mai

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fuori della ristrettissima cerchia del suo utile particolare. Proprio su un simile bruto stavano per piovere i mi­ lioni. “Se li destinassi per qualche lavoro” pensai “se li distribuissi brevi manu? No, i miei mi farebbero in­ terdire... E col testamento? Impossibile oltrepassare la proporzione disponibile. Ah! Se tu vivessi, Luca... è vero che non avrebbe accettato... ma avrei trovato il modo di arricchirlo senza che potesse pensare che ero io... Per esempio, facendone la dote per la donna che egli avesse amata...” — Dica, signore... Roberto si carezzava la guancia, con la mano rossa, dalle dita nodose. — Ho riflettuto: se l’avvocato, quel Bourru, morisse prima che noi avessimo bruciato il documento... — Ebbene, gli succederà il figlio. L’arma che io vi lascerei contro Bourru servirebbe, in tal caso, contro suo figlio. Roberto continuava ad accarezzarsi la guancia. Non tentava più di parlare. La stretta al petto, questa atroce contrazione, bastava a tenermi in pensiero. — Senta, signore... una supposizione... Bourru brucia il documento; io gli restituisco quello che lei m’ha dato per obbligarlo a mantenere la sua promessa. Chi gli impedisce, allora, di andare a trovare la sua famiglia e di dire ai suoi figli : « So dov’è il gruzzolo. Vi vendo il mio segreto: voglio tanto per palesarvelo, e tanto, se riuscirete... ». Può chiedere che non si faccia il suo no­ me... Così non rischierebbe nulla: si farebbe un’inchie­ sta; si vedrebbe che io sono suo figlio, che mia madre ed io abbiamo mutato tenore di vita dopo la sua morte... E delle due cose una, o noi avremo fatto dichiarazioni giuste per l’imposta del reddito, o avremo cercato di nascondere... Parlava con chiarezza, il suo spirito si sgranchiva. Len­ tamente la macchina ragionatrice s’era messa in moto e non si fermava più. Quello che rimaneva in potenza, in quel commesso di telerie, era il contadinesco istinto di

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previdenza, di diffidenza, l’avversione per il rischio, la preoccupazione di non lasciar fare al caso. Avrebbe cer­ tamente preferito prendere alla mano centomila franchi piuttosto che dover dissimulare quell’enorme ricchezza. Attesi che il mio cuore si sentisse più sollevato e che la stretta si allentasse: — Vi è del vero in quanto voi dite, e acconsento. Non firmerete nessun documento. Mi fido di voi, e d’al­ tra parte, mi sarebbe facile provare che il denaro è mio. Del resto tutto ciò non ha nessuna importanza, poiché tra sei mesi, al massimo tra un anno, sarò morto. Egli non fece alcun gesto di protesta e non seppe tro­ vare la parola comune che chiunque altro avrebbe detta; e non perché fosse più insensibile di qualsiasi altro ra­ gazzo della sua età, ma semplicemente perché era educato male. — Così può andare — disse. Dopo avere elaborato per qualche istante la sua idea, aggiunse : — Dovrò recarmi di tanto in tanto alla cassetta di sicurezza, anche mentre sarà vivo... perché alla banca conoscano la mia fisionomia. Andrò a visitare il suo denaro... — Ho diverse cassette di sicurezza all’estero — dissi. — Se lo preferite, se lo credete più sicuro... — Abbandonare Parigi? Ah! e allora! Gli feci notare che poteva rimanere a Parigi e muo­ versi solo quando fosse necessario. Mi domandò se le mie ricchezze erano in titoli o in denaro liquido, e disse: — Vorrei che lei mi scrivesse una lettera nella qua­ le, essendo in pieni sentimenti, dichiari di legarmi spon­ taneamente il suo patrimonio... e ciò perché la cosa po­ trebbe essere scoperta e dagli altri, non si sa mai, potrei essere accusato di furto. E poi anche per avere la co­ scienza tranquilla. Tacque di nuovo e comprò dei semi, che si mise a mangiare con voracità, quasi avesse fame; poi all’im­ provviso :

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— Si può sapere che cosa le hanno fatto gli altri? — Prendete quello che vi si offre — risposi, brusca­ mente — e non fate domande. Arrossì, abbozzò un sorriso forzato, come doveva es­ sere abituato di fronte ai rimproveri del suo principale, e scoprì così i denti sani e aguzzi, l’unica cosa aggra­ ziata in quel volto ingrato. Sgusciava i semi senza parlare più. Non sembrava più imbarazzato. Evidentemente la sua fantasia lavo­ rava. M’ero imbattuto nell’unico essere capace di non vedere altro, in questa miracolosa fortuna, che i lievis­ simi rischi. Volli sedurlo a viva forza: — Avete un’amichetta? — gli chiesi a bruciapelo. — Se vorrete sposarla, potrete vivere come ricchi bor­ ghesi. E siccome lui faceva un gesto vago e scuoteva malin­ conicamente la testa, insistei: — Del resto potete sposare chi volete. Se vicino a voi c’è una donna che credete inaccessibile... Tese l’orecchio, e per la prima volta vidi brillare nei suoi occhi una fiamma giovanile: — Potrei sposare la signorina Brugère! — Chi è la signorina Brugère? — No, scherzavo; è una prima commessa da Dermas, pensi un po’ ! Una donna superba, non mi guarda e non sa nemmeno che io esista... Pensi un po’ ! E siccome gli assicuravo che, con la ventesima parte della sua ricchezza, poteva sposare qualunque prima commessa di Parigi: — La signorina Brugère! — ripeteva. Poi, alzando le spalle: — No! pensi... Il petto mi doleva. Chiamai il cameriere. Roberto eb­ be allora un gesto che mi sorprese: — No, signore, lasci fare a me: posso offrirglielo io. Con soddisfazione mi rimisi in tasca il denaro. Ci alzammo. I musicanti riponevano i loro strumenti. Le ghirlande di lampade elettriche si spegnevano, Roberto

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non poteva più temere d’essere visto in mia compagnia. — L’accompagno — disse. Lo pregai di camminare piano, per il mio mal di cuore. Mi meravigliai che non facesse nulla per affret­ tare l’esecuzione dei nostri progetti. Quando gli dissi che, se fossi morto in quella stessa notte, avrebbe perso una fortuna, fece una smorfia di indifferenza. In altri termini, l’avevo quasi disturbato. Era press’a poco della mia statura. Avrebbe mai avuto l’aspetto di un signore ? Sembrava così smilzo, il figlio mio, il mio erede! Cercai di dare ai nostri discorsi un carattere più intimo; gli assicurai che' non pensavo mai senza rimorso all’abban­ dono in cui avevo lasciato lui e sua madre. Sembrò sor­ preso ; trovava « molto carino » che io avessi assicurato loro una rendita puntuale, poiché « v’erano molti che non avrebbero fatto altrettanto » e aggiunse una frase orrenda: — Tanto più che lei non era il primo... — Evidentemente, giudicava sua madre senza nessuna in­ dulgenza. Giunto davanti al mio portone, mi disse di botto : — Una supposizione... potrei prendere una profes­ sione che mi obbligasse a frequentare la Borsa... si po­ trebbe così spiegare la mia ricchezza... — Guardatevene bene — gli dissi. — Perdereste tutto. Roberto guardava il marciapiede con aria preoccupa­ ta: — Era per l’imposta sul reddito; se l’ispettore avesse fatto un’inchiesta... — Ma si tratta di denaro liquido, di una ricchezza anonima, depositata in cassette di sicurezza, che nessu­ no, voi escluso, ha il diritto di aprire. — Sì, certamente, ma tuttavia... In un eccesso di rabbia, gli chiusi la porta in faccia.

XV

Attraverso il vetro contro il quale picchia una mosca, guardo i poggi intirizziti. Il vento trascina urlando nu­ vole pesanti la cui ombra scivola sulla piana. Questo silenzio di morte indica l’attesa generale del primo bron­ tolio del tuono. — La vigna ha paura... — ha detto Maria trent’anni fa, in un triste giorno d’estate simile a questo. Ho riaperto questo quaderno. Ê proprio la mia scrittura. Ne esamino da vicino i caratteri, la traccia la­ sciata dall’unghia del mignolo sotto le righe. Arriverò fino alla fine di questo racconto. So ora a chi è destinato ed è necessario che finisca questa confessione; ma dovrò sopprimervi molte pagine che essi non avranno la forza di leggere. Io stesso non posso rileggerle tutte di segui­ to, e ogni tanto m'interrompo e nascondo il viso nelle mani. Ecco l’uomo, ecco un uomo in mezzo agli uomini, eccomi. Potete respingermi, tanto non esisto più. Quella notte, siamo tra il tredici e il quattordici lu­ glio, dopo aver lasciato Roberto, ho avuto appena la forza di spogliarmi e di stendermi sul letto. Un peso enorme mi soffocava e, pur nonostante, non morivo. La finestra era aperta: se fossi stato al quinto piano... ma ero al primo e mi trattenne solo la considerazione che forse non mi sarei ammazzato. Potevo a stento stendere il braccio per prendere le pillole che, di solito, mi dan­ no un po’ di sollievo.

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Intesi finalmente, all’alba, suonare il campanello. Un medico del quartiere mi fece un’iniezione e così ripresi fiato. Mi ordinò l’immobilità assoluta. Il dolore ecces­ sivo ci rende più docili dei bambini e mi sarei guardato bene dal muovermi. Quella camera e quei mobili brutti e male odoranti, il frastuono di quel tempestoso quat­ tordici luglio non mi davano fastidio perché non sof­ frivo più: non chiedevo altro che non soffrire. Roberto venne una sera soltanto e non si fece più vedere; ma sua madre, quando usciva dall’ufficio, veniva a passare due ore con me, mi faceva dei piccoli servizi e mi por­ tava la corrispondenza che ritirava fermo posta (nessu­ na lettera da parte della mia famiglia). Non mi lamentavo, ero molto docile, bevevo tutto quello che mi era stato ordinato. Ella cercava di sviare la conversazione quando le parlavo dei nostri progetti e diceva : — Non vi è fretta —. Indicandole il mio petto, le dicevo : — Ecco la prova che v’è urgenza... — Mia madre ha vissuto fino a ottant’anni con crisi più forti delle tue. Una mattina mi sentii meglio di quel che non mi fossi trovato da molto tempo. Avevo una gran fame, ma ciò che mi davano in quella pensione era immangiabile e mi venne il desiderio d’andare a far colazione in una pic­ cola trattoria del boulevard Saint-Germain, di cui ap­ prezzavo la cucina. Il conto mi meravigliò e m’indignò meno di quel che non succedesse in quasi tutte le altre bettole, ove di solito mi sedevo con la paura di spender troppo. Il tassì mi lasciò all’angolo di via Rennes; feci qual­ che passo a piedi per ritrovare le mie forze. Tutto an­ dava bene. Era appena mezzogiorno e decisi di andare a bere un bicchiere di vichy ai « Deux Magots ». Entrai, mi sedetti su uno sgabello, e guardai distrattamente il boulevard. Ebbi una stretta al cuore: sulla terrazza, divise da me, dal solo spessore della vetrata, vidi quelle spalle dritte,

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quella chierica, quella nuca già grigia, quelle orecchie piatte e staccate... Uberto era là, intento a leggere con i suoi occhi di miope un giornale, di cui quasi toccava col naso la pagina. Evidentemente non mi aveva visto entrare. I battiti del mio cuore malato accelerarono il loro ritmo ed una gioia orribile mi invase: spiarlo men­ tre egli non sapeva che io ero là. Tutto avrei potuto immaginare fuorché trovare Uber­ to su quella terrazza del boulevard. Che faceva in quel quartiere? Era certamente venuto con uno scopo ben de­ finito. Dopo aver pagato il bicchiere di vichy per essere padrone di alzarmi quando volevo, non avevo altro da fare che attendere finché fosse necessario. Uberto aspet­ tava certamente qualcuno, perché guardava l’orologio. Credevo di avere intuito chi, strisciando tra un tavolo e l’altro, lo avrebbe raggiunto e rimasi male quando vidi scendere da un tassì il marito di Genoveffa. Alfre­ do portava il cappello poggiato su un orecchio. Quando era lontano dalla moglie, quell’uomo quarantenne, bas­ so e grasso, perdeva il giudizio. Indossava un abito trop­ po chiaro e calzava scarpe troppo gialle; la sua eleganza provinciale faceva contrasto con quella sobria di Uberto « che si veste come un Fondaudège », diceva Isa. Alfredo si tolse il cappello, si asciugò la fronte lu­ cente e vuotò d’un sorso l’aperitivo che gli era stato servito. Il cognato era già. in piedi e guardava l’orolo­ gio. Mi preparavo a seguirli: sarebbero certamente saliti in tassì, avrei cercato di fare altrettanto per non perderli di vista. Era una manovra difficile, ma era già molto aver scoperto la loro presenza. Aspettai, per uscire, che essi fossero giunti al margine del marciapiede. Non fe­ cero segno a nessun autista e attraversarono la piazza. Si avviavano, discorrendo, verso Saint-Germain-des-Près. Quale sorpresa e quale gioia! Entravano in chiesa. Un agente di polizia, che vede il ladro cascare in trappola, non prova un’emozione più piacevole di quella che, in quell’istante, quasi mi soffocava. Li seguivo cautamente: avrebbero potuto voltarsi indietro, e se mio figlio era

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miope, mio genero ci vedeva bene. Nonostante l’impa­ zienza, mi feci forza e mi fermai due minuti sul mar­ ciapiede, poi, a mia volta, oltrepassai il portico.

Mezzogiorno era suonato da poco. Avanzavo con pre­ cauzione nella navata quasi vuota. Mi accorsi subito che coloro che cercavo non v’erano, e lì per lì mi sorse il dubbio che m’avessero visto, che fossero entrati là solo per far perdere la pista e quindi fossero usciti da una porta del fondo. Tornai sui miei passi e mi inoltrai nella navata laterale di destra, nascondendomi dietro le enor­ mi colonne. Li vidi all’improvviso, contro luce, nel lato più scuro dell’abside. Stavano seduti e, in mezzo a loro due, vi era una terza persona, dalla schiena umilmente curvata, la cui presenza non mi sorprese affatto. Era la stessa persona che, poco prima, mi aspettavo di veder giungere furtivamente fino al tavolo del mio figlio legit­ timo: era l’altro, quel povero spettro, Roberto. Avevo avuto il presentimento di questo tradimento, ma non vi avevo fermato il mio pensiero, per stanchez­ za, per pigrizia. Fin dal nostro primo abboccamento, avevo riportato l’impressione che quel misero essere, quel servo, difettasse di coraggio e che sua madre, pra­ tica di vicende giudiziarie, lo avrebbe consigliato di mettersi d’accordo con i miei e di vendere più caro che fosse possibile il suo segreto. Guardavo la nuca di quel­ l’idiota: era solidamente inquadrato da quei due grassi borghesi: di cui l’uno, Alfredo, era quello che si dice una buona pasta (e del resto molto attaccato ai suoi in­ teressi, di vedute corte, ma è tutto ciò che gli occorre), l’altro, il mio caro figlio Uberto, aveva i denti lunghi e, nel tratto, quell’autorità incisiva, che ha preso da me, e contro la quale Roberto era senza difesa. Li osservavo nascosto dietro una colonna, come si guarda una mosca alle prese con un ragno, quando si è decisi dentro di sé di distruggere nello stesso tempo la mosca e il ragno. Roberto chinava sempre più il capo. Aveva dovuto co­ minciare col dire: — Facciamo a metà... — ritenendosi

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il più forte. Ma, facendosi conoscere da quei due, lo sciocco s’era dato in loro potere e non poteva più far valere le sue ragioni. Ed io, testimone di quella lotta, che io solo sapevo inutile e vana, io mi sentivo come un dio, pronto a stritolare con la mia mano potente questi fragili insetti, a schiacciare col tacco queste vipere attorcigliate, e ridevo. Erano trascorsi appena dieci minuti che già Roberto non fiatava più. Uberto parlava in continuazione; dava senza dubbio degli ordini; l’altro approvava con lievi cenni del capo e vedevo le sue spalle curvate sollevarsi. Alfredo, affondato nella sedia di paglia, come in una poltrona, col piede destro appoggiato sul ginocchio si­ nistro, si dondolava, con la testa rovesciata, ed io di dietro vedevo il suo viso bilioso e nero per la barba, rasserenarsi. Finalmente si alzarono e li seguii nascondendomi. Camminavano a piccoli passi, Roberto in mezzo a loro, con la testa bassa, come se avesse avuto le manette. Die­ tro la schiena, le sue grandi mani rosse spiegazzavano un cappello floscio d’un color grigio sporco e sbiadito. Credevo che nulla m’avrebbe più meravigliato. Erravo: mentre Alfredo e Roberto giungevano alla porta, Uberto bagnò la mano nell’acquasantiera e, voltatosi verso Val­ lar maggiore, si fece un gran segno di croce. Non mi premeva più nulla ora e potevo starmene tranquillo. A quale scopo seguirli? Sapevo che quella sera stessa, o l’indomani, Roberto avrebbe sollecitato l’e­ secuzione dei miei progetti. Come l’avrei ricevuto? Ave­ vo tempo di pensarci. Cominciai a sentirmi stanco e mi sedetti. Quel che in quel momento dominava nel mio spirito e faceva passare in seconda linea il resto, era l’irritazione causata dal gesto religioso di Uberto. Una fanciulla, modestamente vestita e dal viso ordinario, po­ sò vicino a sé una cappelliera di cartone e s’inginocchiò nella fila di sedie che si trovava davanti alla mia. La vedevo di profilo, col collo un po’ curvo e gli occhi

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fissi su quello stesso altare che Uberto, portato a termine il suo dovere familiare, aveva proprio allora così gra­ vemente salutato. La ragazza sorrideva appena e non si muoveva. Entrarono a loro volta due seminaristi: l’uno, molto alto e molto magro, mi ricordava l’abate Arduino, l’altro era piccolo e azzimato. S’inginocchiarono a fianco a fianco e sembrarono anch’essi colpiti dall’immobilità. Guardavo ciò che essi guardavano; cercavo di vedere ciò che essi vedevano. “Insomma” mi dicevo “qui non v’è altro che silenzio, fresco, odore di vecchie pietre nel­ l’ombra.” Di nuovo il viso della piccola modista attirò la mia attenzione. I suoi occhi erano ora chiusi; le pal­ pebre dalle lunghe ciglia mi ricordavano quelle di Ma­ ria sul letto di morte. Sentivo nel medesimo istante così vicino, a portata di mano, e pur tuttavia infinitamente distante, un mondo di bontà che non conoscevo. Isa m’aveva spesso detto: — Tu che non vedi altro che il male... tu che vedi il male dappertutto... — Era vero e non era vero.

XVI

Pranzai, con lo spirito libero, quasi gioioso, in uno stato di benessere che non avevo più provato da tanto tempo, e come se il tradimento di Roberto, anziché scon­ certare i miei piani, li avesse agevolati. Un uomo della mia età, mi dicevo, la cui esistenza è minacciata da anni, non cerca più molto lontano il motivo del suo variare d’umore: esso si trova nel suo organismo. La leggenda di Prometeo indica che tutta la cattiveria della gente ha sede nel fegato. Ma chi oserebbe riconoscere sì umile verità? Non soffrivo e digerivo bene la bistecca sangui­ nolenta. Ero contento che la porzione fosse abbondante, potevo così risparmiare la spesa di un’altra pietanza. Avrei preso poi del formaggio: nutrisce di più e costa meno. Quale atteggiamento tenere con Roberto ? Dovevo cambiare le mie batterie; ma non potevo fissare la men­ te su quelle questioni. D’altronde, perché dovevo fissar­ mi un piano? Era meglio che m’affidassi all’ispirazione. Non osavo confessare a me stesso il piacere che mi ri­ promettevo, di scherzare come un gatto con quel povero topo campagnolo. Roberto non supponeva nemmeno lon­ tanamente che io avessi svelato il complotto... Sono cru­ dele? Sì, lo sono, ma non più degli altri, come gli altri, come i bambini, come le donne, come tutti coloro (pen­ savo alla modistina intravista a Saint-Germain-des-Près),

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come tutti coloro che non appartengono al partito del­ l’Agnello. Tornai con un tassì in via Bréa e mi distesi sul letto. Gli studenti che frequentavano quella pensione, erano partiti in vacanza e potei riposarmi tranquillamente. La porta a vetri, velata da una sudicia tendina, toglieva alla mia camera qualsiasi intimità. Molti pezzetti del legno intagliato del letto stile Enrico II erano scollati, e riu­ niti con cura in un cofanetto di bronzo dorato che orna­ va il caminetto. La carta lustra delle pareti era cosparsa di macchie. Anche tenendo la finestra aperta, l’odore del pomposo tavolino da notte, coperto da marmo rosso, riempiva la stanza. Un tappeto dal fondo color mostar­ da, copriva il tavolo. Quell’insieme mi piaceva perché rappresentava in compendio la bruttezza e la pretensio­ ne del genere umano. Il fruscio di una gonnella mi svegliò. La madre di Roberto era al mio capezzale e vidi il suo sorriso. Il suo atteggiamento ossequiente sarebbe bastato per mettermi in sospetto, se non avessi saputo nulla, e per farmi ca­ pire cbe ero stato tradito. V’è una certa specie di pre­ mura che è sempre segno di tradimento. Le sorrisi an­ ch’io e le sussurrai che mi sentivo meglio. Vent’anni fa, il suo naso non era così grosso. Aveva allora, per riempire la grande bocca, i bei denti che Roberto aveva ereditato. Oggi invece il suo sorriso svaniva su una rada rastrelliera. Aveva dovuto camminare in fretta, e il suo odore lottava vittorioso contro quello del tavolino dal marmo rosso. La pregai di spalancare di più la finestra. Ubbidì, tornò verso di me, e mi sorrise di nuovo. Ora che stavo bene, mi diceva, Roberto si sarebbe messo a mia disposizione per «l’affare ». Proprio il giorno dopo, sabato, sarebbe stato libero da mezzogiorno in poi. Le ricordai che le banche sono chiuse al pomeriggio del sabato. Ella decise allora che Roberto avrebbe doman­ dato un permesso per il lunedi mattina; l’avrebbe facil­

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mente ottenuto, tanto più che non doveva più preoccu­ parsi dei padroni. Si meravigliò quando insistei perché Roberto conser­ vasse il suo posto ancora per qualche settimana. Allor­ ché si accomiatò, avvertendomi che il giorno dopo avreb­ be accompagnato suo figlio, la pregai di farlo venire solo: volevo parlare un po' con lui per imparare a cono­ scerlo meglio... La povera sciocca non sapeva nascondere la sua inquietudine; aveva paura che suo figlio si tradis­ se. Ma nessuno si sogna di contrariare le mie decisioni, quando parlo con un certo tono. Ero sicuro che era stata lei ad indurre Roberto ad accordarsi con i miei figli; conoscevo troppo bene quel giovanotto1 timoroso e pau­ roso per dubitare dell’agitazione in cui l’aveva messo la decisione presa. Quando, l’indomani mattina, il disgraziato entrò, tro­ vai giuste, fin dal primo sguardo, le mie previsioni. Aveva le palpebre dell’uomo che non dorme più; il suo sguardo sfuggiva. Lo feci sedere e mi mostrai preoc­ cupato del suo aspetto; fui infine affettuoso, quasi te­ nero. Gli descrissi, con l’eloquenza di un grande avvo­ cato, la vita felice che gli si apriva. Gli ricordavo la casa e il parco di dieci ettari che stavo per comprare, a nome suo, a Saint-Germain. La casa era ammobiliata completamente in stile antico e nel parco v’erano uno stagno pieno di pesci, una rimessa per quattro automo­ bili e molte altre cose che aggiungevo a mano a mano che me ne veniva l’idea. Quando gli parlai dell’auto­ mobile e gli proposi una delle migliori marche ameri­ cane, mi sembrò un uomo agonizzante. Doveva essersi certamente impegnato a non accettare nulla da me. — Non vi preoccupate — aggiunsi -— poiché il con­ tratto d’acquisto sarà firmato da voi. Ho già messo da parte, per consegnarvele lunedì, un certo numero d’obbligazioni che v’assicurano circa centomila franchi di rendita e potrete perciò vivere tranquillo. Ma la mag­ gior parte del capitale liquido è ad Amsterdam; vi an-

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dremo nella settimana prossima per prendere tutte le nostre disposizioni... Ma che avete, Roberto? Balbettò: — No, signore, no... nulla prima della vostra mor­ te... Mi dispiace... Non voglio spogliarla. Non insista: mi dispiacerebbe... Stava appoggiato all’armadio, col gomito sinistro nel­ la mano destra, e si rosicchiava le unghie. Fissai su lui i miei occhi tanto temuti dall’avversario al Palazzo di Giustizia, gli occhi che, quando ero avvocato di parte civile, non abbandonavano mai la vittima finché essa non si era rifugiata, nel banco, tra le braccia del gen­ darme. In fondo lo ringraziavo; provavo quasi un senso di sollievo: sarebbe stato terribile finire la vita con quella larva. Non lo odiavo e l’avrei respinto senza straziarlo. Ma non potevo trattenermi dal divertirmi ancora un po’ : — Che bei sentimenti avete, Roberto! È molto deli­ cato da parte vostra voler attendere che io muoia, ma non accetto il vostro sacrificio. Avrete tutto a partire da lunedì, e per la fine della settimana gran parte della mia ricchezza sarà sotto il vostro nome... — e siccome protestava: — o prendere o lasciare — aggiunsi con tono deciso. Evitando il mio sguardo, mi chiese di poter avere qualche giorno per riflettere ancora. Povero idiota! Era il tempo necessario per scrivere a Bordeaux e chiedere istruzioni. — Vi assicuro che mi stupite, Roberto. Il vostro at­ teggiamento è strano. Credevo di aver reso più dolce il mio sguardo, ma il mio sguardo è più severo di quanto io stesso non sia. Roberto borbottò con voce flebile: — Perché mi fissa così? — Risposi, imitandolo mio malgrado: — Per­ ché vi fisso così? E voi? perché non potete sostenere il mio sguardo ? Chi ha Γ abitudine di essere amato, compie istintiva­ mente tutti quei gesti e dice tutte quelle parole che at-

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tirano l’affetto. In me invece, abituato da tempo a es­ sere odiato e ad incutere terrore, le pupille, le sopracci­ glia, la voce, il modo di ridere, prevenendo la mia vo­ lontà, si rendono docilmente complici del mio terribile atteggiamento. Così quel povero giovane tremava sotto il mio sguardo, che avrei voluto indulgente. E più ri­ devo, più la mia gaiezza mi sembrava un presagio sini­ stro. Come si finisce un animale, così gli chiesi a bru­ ciapelo : — Quanto t’hanno offerto gli altri? Quel dargli del tu indicava, lo volessi o no, più di­ sprezzo che amicizia. Balbettava: — Quali altri? — in preda ad un terrore quasi religioso. — I due signori — gli dissi — il grasso e il ma­ gro... Sì, il magro e il grasso! Mi premeva di finirla; provavo ribrezzo a prolun­ gare quella scena (come quando non si osa calcare il tacco sul millepiedi). — Rincuoratevi — gli dissi finalmente. — Vi per­ dono. — Non l’ho voluto io... è stata... Gli misi una mano sulla bocca; non avrei potuto sop­ portare di sentirlo accusare sua madre. — Zitto! Non nominare nessuno... sentiamo: quanto v’hanno offerto? un milione? cinquecentomila lire? me­ no? Non è possibile! Trecento? duecento? Scuoteva la testa con aria compassionevole: — No, una rendita — disse a bassa voce. — E ciò ci ha tentato; era una cosa più sicura: dodicimila franchi all’anno. — A cominciare da oggi? — No, da quando avrebbero l’eredità... Non aveva­ no previsto che voi voleste mettere subito tutto sotto il mio nome... ma forse è troppo tardi... essi potrebbero benissimo intentarci causa... a meno di non nasconder loro... Ah! quanto sono stato sciocco! ma sono ben punito...

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Piangeva sconciamente, seduto sul letto, con una ma­ no penzoloni, enorme, gonfia di sangue. — Sono figlio vostro — gemè. — Non mi lasciate precipitare. E con un gesto goffo, tentò di mettermi un braccio in­ torno al collo. Mi sottrassi dolcemente, andai verso la finestra e, senza voltarmi, gli dissi: — Avrete, a cominciare dal primo agosto, millecin­ quecento franchi ogni mese. Prenderò immediatamente le disposizioni necessarie perché questa rendita vi sia versata finché vivrete. Essa sarà riversibile, presentandosi la necessità, su vostra madre. Naturalmente i miei deb­ bono ignorare che ho sventato il complotto di Saint-Germain-de-Près (il nome di quella chiesa lo fece trasalire). Inutile dirvi che perdereste tutto alla più piccola indi­ screzione. In compenso, mi terrete al corrente di quello che si potrebbe ordire contro di me. Roberto sapeva ora che nulla mi sfuggiva e cosa gli sarebbe costato il tradirmi ancora. Gli facevo capire che mi auguravo di non veder più né lui, né sua madre. Essi dovevano scrivermi fermo posta, al solito ufficio. — Quando lasciano Parigi i vostri complici di SaintGermain-de-Près ? Mi assicurò che avevano preso, il giorno prima, il tre­ no della sera. Tagliai corto all’espressione affettata della sua gratitudine e delle sue promesse. Era senza dubbio stupito: una divinità bizzarra, dalle risoluzioni impreve­ dibili, che egli aveva tradito, lo prendeva, lo lasciava andare, Io rialzava da terra... Lui chiudeva gli occhi e lasciava fare. Con la schiena a sghembo e le orecchie basse, riportava, strisciando, l’osso che gli gettavo. Mentre stava per uscire, si fece ardito e mi domandò come avrebbe avuto la rendita, a mezzo di quale inter­ mediario. — La riceverete — gli dissi con tono secco. —- Man­ tengo sempre ciò che prometto; il resto non vi riguarda. Con la mano sul saliscendi, diceva ancora timidamente:

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— Avrei piacere che fosse un’assicurazione sulla vita, una rendita vitalizia, una cosa simile, presso una società seria... Sarei più tranquillo. Aprii con violenza la porta che egli teneva socchiusa, e lo spinsi nel corridoio.

XVII Stavo appoggiato al caminetto e contavo macchinal­ mente i pezzi di legno verniciati raccolti nella coppa. Per anni ed anni avevo sognato questo figlio scono­ sciuto e, durante la mia triste vita, non avevo mai smar­ rito la coscienza della sua esistenza. Esisteva, in qualche luogo, un figlio nato da me che avrei potuto rintracciare e che, forse, mi avrebbe confortato. Il fatto che egli fos­ se di modeste condizioni, me lo faceva sentire più vici­ no: m’era dolce pensare che non doveva rassomigliare in nulla al mio figlio legittimo; me lo· immaginavo, a volte, semplice e fortemente affezionato, come lo è spes­ so la gente del popolo. Giocavo la mia ultima carta. Sa­ pevo che, dopo di lui, non avevo più nulla da sperare da nessun’altro e che non mi sarebbe rimasto altro da fare che vivere in solitudine. Per quarant’anni avevo cre­ duto di consentire all’odio, a quello che ispiravo, a quel­ lo che provavo. Nutrivo pertanto, come gli altri, una speranza e ingannavo la mia fame, come potevo, fino a ridurmi all’ultima riserva. Ora tutto era finito. Non mi rimaneva nemmeno più l’orribile piacere di combinare piani per diseredare coloro che mi volevano male. Roberto li aveva messi sull’avviso: avrebbero finito con lo scoprire le cassette di sicurezza, anche quelle che non erano sotto il mio nome. Trovare un altro rime­ dio? Ah! poter vivere ancora, avere il tempo di spen­

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dere tutto! morire... e non far trovare loro nemmeno il necessario per pagare un modesto funerale. Ma come imparare ad essere prodigo, alla mia età, dopo un’intera vita di economia e dopo avere, per anni ed anni, sod­ disfatto la passione del risparmio ? E d’altronde i miei figli stanno in agguato, mi dicevo. Non potrei far nulla senza che essi se ne facciano un’arma temibile... Dovrei impoverirmi di nascosto, a poco a poco... Macché! Non saprei diventar povero! Non arriverei mai fino al punto di perdere il mio denaro! Se fosse possibile seppellirlo nella mia fossa, finire sottoterra stringendo fra le braccia l’oro, i biglietti di banca, i titoli... Ah! se potessi smentire coloro che predicano che i beni di questo mondo non debbono seguirci nella morte ! Esistono le « opere di beneficenza », ma sono traboc­ chetti che inghiottono tutto, anche le donazioni che in­ vierei agli uffici di beneficenza, alle piccole suore dei poveri. Non potrei pensare ad altre persone che non siano miei nemici ? Ma la cosa terribile della vecchiaia è di essere il risultato di un’intera vita, il totale nel quale non si può cambiare nessuna cifra. Ho impiegato sessant’anni a formare un vecchio morente di odio. Sono quello che sono; dovrei poter diventare un altro. Dio, Dio... se tu esistessi! Sul far della sera, entrò una ragazza per prepararmi il letto; non chiuse le imposte. Mi distesi al buio; i rumori della strada, la luce dei fanali non m’impedi­ vano di appisolarmi. Ogni tanto mi svegliavo per breve tempo, come succede in viaggio quando il treno si fer­ ma, e poi mi assopivo nuovamente. Pur non sentendomi male, mi sembrava di non dover far altro che restare immobile e attendere pazientemente che quel sonno di­ ventasse eterno. Dovevo ancora dare disposizione che fosse versata a Roberto la rendita promessagli e volevo anche passare alla posta, perché nessuno, ora, vi sarebbe andato. Da

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tre giorni non avevo letto la mia corrispondenza. L’at­ tesa della lettera sconosciuta, e che soprattutto ci inte­ ressa, sta ad indicare che la speranza è inestirpabile e che ce n’è sempre in noi per lo meno un filo. Il pensiero della posta mi dette la forza di alzarmi, il giorno dopo verso mezzogiorno, e di recarmi all’uf­ ficio postale. Pioveva, ero senza ombrello, rasentavo i muri. La mia andatura destava la curiosità della gente, che si voltava a guardarmi. Avevo una gran voglia di gridare: “Che ho di straordinario? Mi prendete per un pazzo? Non bisogna dirlo: i figli ne approfittereb­ bero. Non mi guardate così: sono come tutti gli altri, ad eccezione del fatto che i miei figli mi odiano e che devo difendermi da loro. Ma ciò non vuol dire che io sia pazzo. Talvolta sono sotto l’effetto di tutte le dro­ ghe che debbo prendere per l’d«g/»d pectoris. Ebbene sì, parlo da solo perché sono sempre solo. Il dialogo è una necessità per l’uomo. Che c’è di straordinario nei gesti e nelle parole di un uomo solo?”. Il pacco che mi fu consegnato conteneva stampe, al­ cune lettere di banca e tre telegrammi. Si trattava certa­ mente di qualche ordine di Borsa, che non si era potuto eseguire. Aspettai di essermi seduto in una bettola per aprirli. A lunghe tavole, alcuni muratori, simili a pierrot di tutte le età, consumavano lentamente la loro porzione e bevevano il loro litro di vino senza parlare. Avevano lavorato dal mattino sotto la pioggia e dovevano ripren­ dere il lavoro all’una e mezzo. Era la fine di luglio. La folla riempiva le stazioni della metropolitana... Avreb­ bero compreso nulla delle mie tribolazioni? Certamente! E come non lo avrebbe saputo un vecchio avvocato ? La prima causa che avevo difeso, riguardava dei figli che litigavano per non dover mantenere il padre. Il disgra­ ziato cambiava focolare ogni tre mesi, dappertutto ma­ ledetto, e si trovava d’accordo con i figli nel fare ap­ pello alla morte, perché li sbarazzasse di lui. In quante masserie avevo assistito al dramma del vecchio che, per

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tanto tempo, si rifiutava di mollare il suo gruzzolo e poi si lasciava infinocchiare fino al punto che i figli lo fanno morire di lavoro e di fame! Sì, lo doveva ben sapere quel magro muratore ossuto che, a due passi da me, masticava lentamente il pane tra le nude gengive. Oggi un vecchio ben vestito non desta la meraviglia di nessuno nelle bettole. Tagliavo un pezzo di coniglio bianco e mi divertivo a vedere le gocce di pioggia rag­ giungersi sulla vetrata, ove decifravo a rovescio il nome del proprietario. Cercavo il fazzoletto, sentii con la mano il pacco delle lettere. Mi misi gli occhiali e aprii a caso un telegramma: « Esequie mamma domani, ventitré lu­ glio, alle nove, chiesa San Luigi ». Portava la data di quella mattina. Gli altri due, spediti la sera prima, ave­ vano dovuto seguirsi a qualche ora d’intervallo. Uno di­ ceva: «Mamma malissimo, torna». L’altro: «Mamma morta... ». Tutti e tre erano firmati da Uberto.

Piegai i telegrammi e seguitai a mangiare, preoccu­ pato, perché dovevo trovare la forza di prendere il tre­ no della sera. Per molti minuti non pensai che a questo; poi nacque in me un’altra sensazione: lo stupore di so­ pravvivere ad Isa. Era inteso che io ero prossimo a mori­ re. Sia per me, sia per gli altri, non c’era il minimo dub­ bio che sarei dovuto morire io per primo. Progetti, liti, complotti, non avevano altro obiettivo che i giorni che avrebbero seguito la mia morte ormai vicina. E, come i miei, non nutrivo in proposito il minimo dubbio. V’era un aspetto di mia moglie, che non avevo mai perduto di vista: era la mia vedova, quella a cui i veli di lutto avrebbero dato fastidio nell’aprire la cassaforte. Un mu­ tamento negli astri non mi avrebbe sorpreso tanto, quan­ to mi metteva a disagio la sua morte. E, a dispetto di me stesso, in me l'uomo d’affari cominciava ad esami­ nare la situazione ed il partito da ricavarne contro i nemici. Tali erano i miei pensieri fino al momento della partenza del treno. Entrò allora in gioco la mia fantasia. Per la prima

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volta vidi Isa quale doveva essere stata sul suo letto, la vigilia e il giorno prima. Ricomposi la scena, (ignoravo che fosse morta a Bordeaux), mormorai: — L’apparato funebre... — e soccombetti ad un vile sollievo. Quale at­ teggiamento avrei assunto? Cosa avrei manifestato sotto lo sguardo attento ed ostile dei figli? La questione era risolta. In quanto al resto, l’essere costretto a mettermi a letto, appena arrivato, avrebbe risolto ogni difficoltà, perché non c’era da pensare che io potessi assistere ai funerali; proprio ora, avevo invano tentato di arrivare fino alla ritirata. Ma Γimpossibilità di muovermi non mi spaventava: morta Isa, non aspettavo più la morte; il mio turno era passato. Avevo però paura di una crisi, tanto più che ero solo nello scompartimento. Qualcuno mi attenderà alla stazione (avevo telegrafato) ; certa­ mente Uberto... No, non era lui. Quale sollievo, quando mi apparve la grassa faccia di Alfredo, devastata dall’insonnia! Sem­ brò atterrito quando mi vide. Dovetti appoggiarmi al suo braccio e non potei salire da solo nell’automobile. Attraversammo in quel mattino piovoso, un quartiere della tetra Bordeaux, popolato di macelli e di scuole. Non avevo bisogno di parlare: Alfredo entrava nei più minuti particolari, descriveva il punto preciso del giar­ dino pubblico, in cui Isa era caduta un po’ prima di arrivare alle serre, davanti al ciuffo di palme; la far­ macia ove l’avevano trasportata, la difficoltà di portare il suo pesante corpo fino alla sua camera, al primo pia­ no; il salasso; l’iniezione... Nonostante l’emorragia cere­ brale aveva conservata la conoscenza per tutta la notte. Aveva chiesto di me con dei segni, con insistenza, e poi s’era spenta nel momento in cui un prete recava l'olio santo. — Ma si era comunicata il giorno prima... Alfredo voleva farmi scendere davanti alla casa, già parata a lutto, e andarsene col pretesto che aveva appe­ na il tempo necessario di vestirsi per la cerimonia. Do­ vette però rassegnarsi ad aiutarmi a scendere dall’auto­

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mobile e a farmi salire i primi scalini. Non riconobbi l’ingresso. Tra pareti di tenebre, grosse candele di cera bruciavano intorno ad un cumulo di fiori. Cercai di guar­ dare. Provai lo stesso disorientamento che si prova in certi sogni. Due monache immobili dovevano essere state fornite con tutto il resto. Da quell’agglomeramento di stoffe, di fiori, di luci, la solita scala, col suo tappeto usato, saliva verso la vita di tutti i giorni. Ne scendeva Uberto, vestito molto correttamente. Mi tese la mano e mi parlò. Come veniva da lontano la sua voce! Rispondevo, ma nessun suono saliva alle mie lab­ bra. Il suo viso s’avvicinò al mio, divenne enorme... svenni. Ho saputo dopo che quello svenimento non era durato nemmeno tre minuti. Tornai in me in un pic­ colo locale che era adibito a sala d’aspetto, prima che io mi fossi ritirato dalla professione. I sali mi punge­ vano le mucose. Riconobbi la voce di Genoveffa: — Tor­ na in sé... — Aprii gli occhi e vidi che stavano tutti curvi su me. I loro volti sembravano differenti, rossi, al­ terati, qualcuno verdastro. Giannina, più robusta di sua madre, sembrava della sua stessa età. Il viso di Uberto era devastato dalle lacrime. Aveva la stessa espressione brutta e impressionante di quando era bambino, al tem­ po in cui Isa prendendolo sulle ginocchia gli diceva: — Povero piccolo, soffri veramente... — Soltanto Fili, che indossava lo stesso vestito che aveva trascinato in tutte le taverne di Parigi e di Berlino, volgeva verso di me il suo bel viso indifferente ed annoiato quale do­ veva avere allorché partiva per una festa, o meglio quan­ do ne ritornava, ebbro, sciattato, col nodo della cravatta non ancora fatto. Dietro di lui, distinguevo a mala pena alcune donne velate che dovevano essere Olimpia e le sue figlie. Collari bianchi luccicavano nella penombra. Genoveffa mi avvicinò alle labbra un bicchiere dal quale bevvi qualche sorso. Le dissi che mi sentivo me­ glio. Mi domandò, con voce dolce e buona, se volevo andare subito a letto. Pronunziai la prima frase che mi venne in mente:

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— Dal momento che non ho potuto darle l’estremo saluto, come avrei desiderato accompagnarla all’ultima dimora ! Ripetevo, come un attore che cerchi la giusta into­ nazione: — Poiché non ho potuto dirle addio... — e quelle comuni parole che non miravano ad altro che a salvare le apparenze, e che m’erano venute perché face­ vano parte del mio ufficio nella cerimonia funebre, de­ starono in me, con improvvisa potenza, il senso che esse esprimevano; quasi avessi avvertito me stesso di quello di cui ancora non m’ero accorto: che mai più avrei ri­ visto mia moglie; mai più vi sarebbero state fra noi spiegazioni; non avrebbe letto mai più queste pagine. Le cose sarebbero rimaste eternamente allo stesso punto cui le avevo lasciate, abbandonando Calèse. Non avrem­ mo più potuto ricominciare a bisticciarci su nuove spe­ se; era morta senza conoscermi, senza sapere che io non ero soltanto un mostro, un crudele, e che un altro uomo esisteva in me. Anche se fossi arrivato al suo ultimo respiro, anche se nessuna parola fosse stata scambiata tra noi, ella avrebbe visto queste gote bagnate di la­ crime, si sarebbe spenta con la visione del mio dolore. I miei figli soltanto, muti per lo stupore, contempla­ vano quello spettacolo. Forse, durante tutta la loro vita, non mi avevano mai visto piangere. Il vecchio, ringhioso viso temuto, la testa di Medusa il cui sguardo nessuno di loro aveva potuto sostenere, subiva una metamorfosi, diventava semplicemente umana. Udii qualcuno che diceva (credo che fosse Gian­ nina) : — Se tu non fossi partito... perché sei partito? Sì, perché ero partito? E non avrei potuto ritornare in tempo? Se non m'avessero indirizzato i telegrammi fermo posta, se li avessi ricevuti in via Bréa... Uberto imprudentemente aggiunse: — Sei partito senza lasciare l’indirizzo... non pote­ vamo essere indovini... Un pensiero, fino allora confuso in me, balzò d’un

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tratto. Con le mani appoggiate sui braccioli della pol­ trona, mi rizzai, tremante di rabbia, e gli gridai in fac­ cia: — Bugiardo! E siccome Uberto balbettò : — Papà, diventi pazzo ? — ripetei : — Sì, siete bugiardi: sapevate il mio indirizzo e osate dirmi in faccia che non lo conoscevate. Alla debole protesta di Uberto: — Come avremmo potuto saperlo? — chiesi: — Non hai avuto rapporti con qualcuno che m’inte­ ressa molto? Osi negarlo? Tu l’osi? I miei, pietrificati, mi guardavano in silenzio. Uberto muoveva la testa come un ragazzo impacciato per la bu­ gia detta. — Del resto non avete pagato caro il suo tradi­ mento. Non siete stati molto generosi, figli miei. Dare dodicimila franchi di rendita a un giovane che vi resti­ tuisce un patrimonio, non è molto. Ridevo, di quel riso che mi provoca la tosse. I miei figli non sapevano trovar parola. Fili mormorava a mez­ za voce: — È un tiro vile... — Abbassando la voce, ad un gesto supplice di Uberto che tentava invano di par­ lare, continuai: — Per colpa vostra non l’ho rivista più. Voi eravate al corrente di ogni mio più piccolo atto, ma bisognava che io non potessi dubitare... Se mi aveste telegrafato in via Bréa, avrei capito d’essere stato tradito, e nulla avrebbe potuto decidervi a farlo, nemmeno la preghiera di vostra madre morente. Ne siete certamente addolorati, ma non perdete per questo il controllo di voi stessi... Dissi loro queste cose ed altre ancora più terribili. Uberto, con voce strozzata, supplicava sua sorella: ■— Ma fallo tacere! fallo tacere! Qualcuno può sentire... Genoveffa mi mise un braccio intorno al collo e mi fece sedere: — Non è questo il momento, papà. Ne riparleremo a mente calma. Te ne prego, in nome di quella che è ancora là... — Uberto, livido, mise un dito sulla bocca:

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il cerimoniere entrava con la nota delle persone che do­ vevano reggere i cordoni. Feci qualche passo vacillando; riuscii a varcare la porta della camera ardente e a chi­ narmi su di un inginocchiatoio. Uberto e Genoveffa mi raggiunsero. Ognuno di essi mi prese un braccio, li seguii docilmente riuscendo, con molta difficoltà, a salire la scala. Una monaca aveva con­ sentito a sorvegliarmi durante la cerimonia funebre. Uberto, prima di allontanarsi, fece finta d’ignorare quel che v’era stato tra noi e mi domandò se aveva fatto bene a designare il presidente dell’Ordine degli Avvo­ cati a reggere un cordone. Mi voltai verso la finestra senza rispondere. Già si udiva lo scalpitare dei cavalli. Molta gente ver­ rebbe a mettere la firma. Con chi non eravamo in rap­ porti, da parte dei Fondaudège? Da parte mia: avvo­ cati, banche, uomini d’affari... Provavo la sensazione di benessere dell’uomo che si è discolpato e che è stato ri­ conosciuto innocente. Ero riuscito a convincere i miei figli d’essere stati bugiardi ed essi non avevano negato la loro responsabilità. Mentre la casa era tutta piena di frastuono, come se vi fosse una strana festa da ballo senza musica, costrinsi la mia attenzione a fissarsi sul loro malfatto. Essi m’avevano impedito di ricevere l’ul­ timo saluto di Isa... E spronavo il mio vecchio odio come un cavallo rattrappito: ma esso non affiorava più. Non so se mi rendesse calmo, mio malgrado, il riposo fisico o la soddisfazione di aver avuto ragione. Le salmodie religiose non giungevano più al mio orec­ chio; il rumore funebre andava allontanandosi fino al punto in cui un silenzio profondo, come quello di Calèse, regnò nella grande casa. Isa l’aveva vuotata dei suoi abitanti e trascinava dietro il suo cadavere tutti, an­ che i domestici. Vi restavamo soltanto io e la monaca, che terminava al mio capezzale il rosario cominciato presso la bara. Quel silenzio fece rinascere in me la sensazione della

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separazione eterna, della partenza senza ritorno. E di nuovo mi si gonfiò il petto di singhiozzi, perché ora era troppo tardi e perché tra lei e me tutto era stato ormai detto. Per poter respirare stavo seduto sul letto, sostenuto da cuscini. Guardavo i mobili stile Luigi XIII, il cui modello avevamo scelto da Bardié, durante il no­ stro fidanzamento, e che erano stati suoi fino a quando ereditò quelli di sua madre. Il letto, il triste letto dei nostri rancori e dei nostri silenzi...

Soltanto Uberto e Genoveffa entrarono, gli altri ri­ masero nel corridoio. Compresi che non potevano abi­ tuarsi al mio viso in lacrime. Stavano in piedi presso il mio letto, lui, curioso nel suo abito da sera in pieno mezzogiorno, lei che sembrava una torre di stoffa nera ove spiccavano un fazzoletto bianco e una faccia rotonda e agitata, scoperta dal velo tirato indietro. Il dolóre ci aveva smascherati e non ci riconoscevamo più. Si preoccupavano della mia salute. Genoveffa poi disse: — L’hanno accompagnata quasi tutti fino al cimitero: era molto amata. Le feci qualche domanda sui giorni che precedettero l’attacco di paralisi. — Sentiva dei malesseri... forse ha avuto anche il presentimento della fine; infatti il giorno prima di par­ tire per Bordeaux, è stata sempre in camera sua intenta a bruciare pacchi di lettere, tanto che abbiamo creduto che vi fosse il caminetto acceso... L’interruppi. M’era venuta un’idea... Come mai pri­ ma non vi avevo pensato? — Credette, Genoveffa, che io fossi partito per qual­ che motivo? Mi rispose con aria di giubilo che « le aveva certa­ mente fatto colpo... ». — Ma non le avete detto... non l’avete tenuta al cor­ rente di quanto■ avevate scoperto?... Genoveffa interrogò con lo sguardo suo fratello: do­ veva far vedere che capiva? Il mio viso doveva essere

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strano, perché sembrarono spaventati; e, mentre Geno­ veffa m’aiutava ad alzarmi, Uberto rispose premurosa­ mente che la madre si era ammalata da più di dieci giorni dopo la mia partenza e che, in quel periodo, avevano deciso di non renderla partecipe di quelle tristi questioni. Diceva il vero? Aggiunse poi con voce tre­ mula : — Del resto, se avessimo ceduto alla tentazione di parlargliene, saremmo i responsabili principali... Si girò un po’; vedevo il convulso movimento delle sue spalle. Qualcuno aprì la porta e chiese se si poteva preparare la tavola. Udii Fili che diceva: «Che volete! non è colpa mia, ma tutto ciò mi mette appetito... ». Genoveffa, lacrimando, mi chiese che cosa volessi man­ giare e Uberto mi disse che sarebbe tornato dopo cola­ zione: avremmo chiarito tutto, una volta per sempre, se avessi avuto la forza di ascoltarlo. Gli feci un cenno di assenso. Dopo che furono usciti, la suora mi aiutò ad alzarmi; potei fare un bagno, vestirmi, sorbire una scodella di brodo. Non volevo intraprendere la battaglia, come un malato che l’avversario risparmia e favorisce. Quando tornarono, non trovarono più il vecchio che destava loro pietà, ma trovarono un altro uomo. Avevo preso le droghe necessarie; stavo seduto, col busto eret­ to ; mi sentivo meno affranto, come mi succede ogni qual­ volta abbandono il letto. Uberto indossava un abito da passeggio; Genoveffa era avvolta in una vecchia veste da camera di sua madre. — Non ho nessun vestito nero da mettermi... — Si sedettero di fronte a me e, dopo i primi convenevoli, Uberto cominciò: — Ho riflettuto molto... Aveva accuratamente studiato il suo discorso e si ri­ volse a me come ad un’assemblea di azionisti, pesando ogni parola e cercando di evitare qualsiasi scatto. — Ho fatto il mio esame di coscienza, al capezzale di mia madre; mi sono sforzato di cambiare il mio punto di vista, di mettermi al tuo posto. Un padre la

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cui idea fissa è diseredare i figli, noi ti vediamo così e questo, a mio parere, legittima o per lo meno giustifica la nostra condotta. Ma t’abbiamo dato gioco contro di noi con questa lotta senza quartiere e con... E siccome cercava la parola adatta, gli suggerii pia­ no: — Con vili complotti. Uberto arrossì; Genoveffa si risentì: —· Perché «vili»? Sei più forte di noi... — Suvvia! Un vecchio molto malato contro una mu­ ta di giovani... — Un vecchio molto malato — disse Uberto — go­ de, in una casa come la nostra, una posizione privile­ giata; non si allontana dalla sua camera, vi rimane in agguato, non ha da fare altro che spiare le abitudini dei suoi e approfittarne. Combina i suoi piani, li pre­ para a suo agio. Sa tutto degli altri, mentre questi non sanno nulla di lui. Conosce tutti i posti da dove può ascoltare... — (Siccome non potevo fare a meno di sorri­ dere, sorrisero anch’essi.) — Sì — continuò Uberto — una riunione di persone di famiglia è sempre imprudente. Si discute, si alza la voce, si finisce col gridare senza ac­ corgersene. Ci siamo fidati troppo dello spessore dei muri della nostra vecchia casa, dimenticando che i pa­ vimenti sono sottili. E vi sono anche le finestre aperte... Queste allusioni quasi ci divertirono. Uberto, per pri­ mo, tornò serio. —- Ammetto che noi abbiamo potuto sembrarti col­ pevoli. Mi sarebbe facile invocare ancora una volta il caso della legittima difesa, ma scarto tutto ciò che può dare un carattere odioso alla questione. Non cercherò di stabilire chi fu l’aggressore, in questa deplorevole lotta. Ma bisogna che tu comprenda... Si era alzato e puliva le lenti dei suoi occhiali, soc­ chiudendo gli occhi. Notai il suo viso infossato, con­ sunto. — Devi comprendere che lottavo per l’onore, per la vita dei miei figli. Tu non puoi immaginare la no­ stra condizione, appartieni ad un’altra epoca; hai vis­

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suto in tempi eccezionali in cui un uomo prudente vi­ veva tranquillamente. So bene che sei stato all’altezza della situazione; che hai visto, prima di tutti gli altri, il turbine che avanzava; che hai realizzato in tempo... ma perché eri fuori degli affari, fuori combattimento, come è il caso di dire! Potevi giudicare freddamente la situazione, la dominavi, non eri ingolfato come me, fin sopra gli occhi... Il risveglio è stato troppo brusco... Non c’è stato il tempo di guardarsi attorno... È la pri­ ma volta che tutti i rami si spezzano insieme. Non ci si può aggrappare a nulla, rifare su nulla... Con quale angoscia ripete « su nulla... su nulla... ». Fino a quel punto s’era impegnato? Sull’orlo di quale disastrosa situazione si dibatteva? Uberto ebbe paura di avere ceduto troppo, si riprese, espresse i soliti luoghi comuni : il lavoro intenso del dopoguerra, la superprodu­ zione, la crisi del consumo... Quello che diceva aveva poco valore e badavo solo alla sua angoscia. Mi accorsi allora che il mio odio s’era spento, forse da molto tempo, e così pure il desi­ derio delle rappresaglie. Avevo trattenuto in me il mio furore, straziandomi l’animo. Perché rifiutare l’eviden­ za? Provavo, dinanzi a mio figlio, un sentimento con­ fuso in cui dominava la curiosità: l’agitazione di quel disgraziato, il suo terrore, il suo raccapriccio che potevo far cessare con una parola... Vedevo in spirito la mia ricchezza che era stata, in apparenza, l’essenza della mia vita, che avevo cercato di regalare, di perdere, e di cui non ero stato padrone di disporre a mio piacere. Me ne sentivo, all’improvviso, più che estraneo: non destava più in me alcun interesse, non mi riguardava più. Uberto, diventato taciturno, mi spiava attraverso gli occhiali. Che cosa potevo tramare? Qual colpo stavo per tirargli? Faceva una smorfia, portava indietro il bu­ sto e alzava il braccio come un fanciullo che cerchi ri­ paro. Timidamente ricominciò: — Non ti domando altro che ristabilire la mia con­ dizione. Con quel che eredito da mia madre, mi baste­ 14.

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rà (esitò un istante prima di pronunciare la cifra) un milione. Una volta sgombrato il terreno, me la caverò da solo. Disponi come vuoi di quello che rimane; m’im­ pegno a rispettare la tua volontà... Inghiottì la saliva. Mi osservava di sfuggita, ma il mio viso era impenetrabile. -—■ E tu, figlia mia? — domandai a Genoveffa. — Sei in buone condizioni finanziarie? Tuo marito è saggio... Genoveffa s’irritava sempre quando sentiva elogiare suo marito. Protestò dicendo che la ditta era chiusa. Da due anni Alfredo non acquistava più rum: era quindi sicuro di non sbagliarsi ! Avevano senza dubbio di che vivere, ma Fili minacciava di abbandonare sua moglie, e per farlo aspettava soltanto d’essere certo che la ric­ chezza era sfumata. E poiché mormoravo : — Una bella disgrazia! — vivamente rispose: — Sì, è una canaglia, lo sappiamo e lo sa Gianni­ na... ma se l’abbandona, ella ne morirà. Sì, ne morirà; ma tu, papà, non puoi concepire una cosa simile, perché è al di fuori di te. Sul conto di Fili, Giannina ne sa più di quel che ne sappiamo noi, e mi ha detto spesso che è peggiore di quanto non possiamo immaginare. Ma ciò non impedisce che ella morrebbe per il suo abban­ dono. Ti sembra assurdo, perché per te il sentimento non esiste; ma con la tua grande intelligenza puoi ca­ pire ciò che non senti. — Ma tu stanchi papà, Genoveffa. Uberto pensava che sua sorella avesse mancato di tat­ to, ferendo il mio orgoglio. Leggeva sul mio viso i se­ gni del dolore ma non ne poteva conoscere la causa; non sapeva che Genoveffa aveva riaperto una piaga e vi metteva il dito. Sospirai: — Beato Fili! I miei figli si scambiarono uno sguardo di meravi­ glia. Mi avevano sempre ritenuto, in buona fede, un pazzoide e forse m’avrebbero fatto rinchiudere con la coscienza tranquilla. — Buono solo a divertirsi — borbottò Uberto — e a spadroneggiare.

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— Suo suocero è più indulgente di te — dissi. — Al­ fredo ripete spesso che Fili non è un cattivo soggetto. Genoveffa scattò: — Ha in pugno anche Alfredo: il genero ha corrot­ to il suocero e tutti, in città, lo sanno: sono stati visti insieme, in compagnia di ragazze... Che vergogna! e come se ne addolorava la mamma!... Genoveffa si asciugò gli occhi. Uberto credette che io volessi sviare la loro attenzione daH’argomento essen­ ziale, e disse con voce irritata: — Ma ora non si tratta di questo, Genoveffa. Si di­ rebbe che al mondo non vi siate che tu e i tuoi. Arrabbiata, ella protestò « che voleva sapere chi dei due fosse più egoista » e aggiunse: — Certo, ciascuno pensa soprattutto ai suoi figli. Ho fatto sempre per Giannina tutto quello che ho potuto e me ne vanto, così come la mamma lo ha sempre fatto per noi. Mi getterei nel fuoco... Il fratello l’interruppe, con quel tono aspro che mi riconoscevo, per dire « che vi getterebbe anche gli altri ». Come m’avrebbe divertito, poco fa, quella lite ! Avrei salutato con gioia i segni annunziatoti di una lotta sen­ za quartiere intorno a quel poco d'eredità che non mi fosse stato possibile far sparire. Non provavo adesso se non disgusto e noia... Che questa questione sia risolta una volta per sempre ! Che mi lascino morire in pace ! — È strano, figli miei — dissi loro — che io finisca col fare ciò che m’è sempre sembrata la sciocchezza più grande... Ah ! non si curavano più di litigare, mi guardavano con lo sguardo severo e diffidente, attendevano, stavano in guardia. — Io che avevo sempre portato come esempio il vec­ chio mezzadro, spogliato vivo, che i figli lasciano mori­ re di fame... e quando l’agonia dura troppo, gli si met­ tono addosso dei cuscini, lo si copre fino alla bocca... — Papà, te ne supplico...

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Protestarono con un’espressione d’orrore che non era finta. Cambiai bruscamente tono: — Avrai molto da fare, Uberto: la divisione dei beni sarà difficile. Ho depositi un po’ dappertutto, qui, a Pa­ rigi, all’estero. Ci sono poi i terreni, gli immobili... Spalancavano gli occhi ad ogni parola e non voleva­ no credermi. Vidi le fini mani di Uberto aprirsi e ri­ chiudersi. — Bisogna portare a termine tutto prima della mia morte e contemporaneamente alla ripartizione di ciò che erediterete da vostra madre. Io mi riservo il possesso di Calèse: della casa e del parco (manutenzione e ripara­ zioni a vostro carico). Non voglio più sentir parlare delle vigne. Mi sarà versata, a mezzo del notaio, una rendita mensile di cui fisseremo l’ammontare... Dammi il mio portafogli, sì... nella tasca sinistra della giacca. Uberto me lo tese con mano tremante. Ne tirai fuori la busta: — Vi troverai delle indicazioni sull’ammontare delle mie ricchezze. Puoi portarla al signor A ream... Ma no, telefonagli di venire, gliela darò io stesso e gli confer­ merò, in presenza tua, le mie volontà. Uberto prese la busta e mi chiese con ansia: — Ti burli di noi? No? — Va a telefonare al notaio: vedrai così se mi burlo... Uberto si precipitò verso la porta, poi si fermò: — No — disse — non sarebbe opportuno farlo og­ gi... Dobbiamo aspettare una settimana. Si passò una mano sugli occhi; si vergognava certa­ mente, si sforzava di pensare a sua madre. Poiché girava e rigirava la busta, gli dissi: — Ebbene aprila e leggi: ti autorizzo. Uberto si avvicinò subito alla finestra e tolse il sug­ gello. Lesse, come avrebbe mangiato. Genoveffa, che non poteva più trattenersi, si alzò e tese lo sguardo avido al di sopra delle spalle del fratello.

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Guardavo quei due: non v’era nulla che dovesse far­ mi inorridire. Un uomo d’affari in pericolo, un padre e una madre di famiglia ricuperavano all’improvviso i milioni che credevano persi. No, non mi facevano or­ rore; mi meravigliava invece la mia indifferenza. Sem­ bravo uno che abbia subito un’operazione, che si risve­ gli e che dica di non aver sentito nulla. Avevo lacerato in me qualcosa cui credevo di tenere moltissimo. Ora ne provavo soltanto un sollievo fisico e spirituale: re­ spiravo meglio. Cosa facevo del resto, da anni ed anni, se non cercare di perdere queste ricchezze, di farne be­ neficiare qualcuno che non fosse uno dei miei ? Mi sono sempre ingannato sull’oggetto dei miei desideri. Non sappiamo quel che desideriamo, non amiamo quel che crediamo di amare. Udii Uberto dire alla sorella: — È enorme... è enor­ me... è una ricchezza enorme... — Scambiarono poche pa­ role a bassa voce, poi Genoveffa dichiarò che non accetta­ vano il mio sacrificio, che non volevano che io mi privassi di tutto. Quelle parole « sacrificio », « privazione » suonavano stranamente al mio orecchio. Uberto insisteva: — Hai agito sotto l’emozione provata oggi. Ti credi più malato di quel che sei; non hai ancora settant’anni e si vive ancora molto con quello che tu soffri. Tra qual­ che tempo, avrai dei rimorsi. Se vuoi, posso alleviarti del peso di molte preoccupazioni materiali, ma conserva ciò che ti appartiene. Vogliamo solo ciò che è giusto, non abbiamo voluto mai altro che la giustizia... Ero vinto dalla stanchezza e mi si chiudevano gli oc­ chi. Dissi loro che la mia decisione era presa e che or­ mai non ne avrei parlato che davanti al notaio. Stavano per arrivare alla porta, quando senza voltarmi li chiamai : — Dimenticavo d’avvertirvi che bisogna versare a mio figlio Roberto una rendita mensile di millecinque­

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cento franchi; gliel’ho promesso. Me lo ricorderai quan­ do firmeremo l’atto notarile. Uberto arrossì. Non si aspettava quella frecciata. Ge­ noveffa non vi vide malizia. Fece ad occhio e croce un rapido calcolo, e disse: — Diciottomila franchi all’anno... Non trovi che è troppo ?

XVIII

Il prato è più lucente del cielo. La terra, satura d’acqua, fuma e le vecchie strade, colme d’acqua piovana, riflet­ tono un azzurro cupo. Tutto m’interessa come quando Calèse m’apparteneva. Non ho più nulla e pure non sento la mia povertà. Lo scrosciare della pioggia, di notte, sulla vendemmia che si guasta, non mi dà minore tristezza di quella che mi dava quando ero io il padro­ ne del raccolto minacciato. Quello che ho ritenuto segno d’attaccamento ai propri beni, non è altro che istinto carnale di contadino, figlio di contadini, nato da chi, da secoli, interroga con ansia il cielo. La rendita, che mi spetta mensilmente, si accumulerà presso il notaio: non ho mai avuto bisogno di nulla. Durante tutta la mia vita sono stato prigioniero d’una passione che non mi do­ minava; sono stato abbagliato da un riflesso, come il cane che abbaia alla luna. Svegliarsi a sessantotto anni! Rinascere al momento di morire! Che mi sia dato di vivere ancora qualche anno, qualche mese, qualche set­ timana... L’infermiera se n.’è andata, mi sento molto meglio. Re­ stano con me Amelia ed Ernesto, i domestici di Isa, che sanno fare le iniezioni. Tutto è a portata di mano: fia­ lette di morfina, di nitrito. I miei figli, che hanno mol­ to da fare, non abbandonano la città e si fanno vedere solo quando hanno bisogno di qualche schiarimento in-

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torno a una stima... Non nascono molti litigi: la paura di essere « danneggiati » li ha indotti a prendere la ri­ dicola decisione di dividere i servizi completi di bian­ cheria damascata e di cristallerie. Taglierebbero in due un arazzo piuttosto che farne beneficiare una sola per­ sona, e preferiscono che tutto sia scompagnato piutto­ sto che una parte sia maggiore dell’altra. Dicono che questo si chiama: amare la giustizia. Avrebbero passato la vita a dissimulare sotto bei nomi i sentimenti più bassi... No, non devo esagerare. Chissà che essi non siano schiavi, come lo sono stato anch’io, di una pas­ sione che non primeggia nella parte più intima del loro essere? Cosa pensano di me? Che sono stato vinto, che ho ceduto. « Sono diventato una cosa loro. » E perciò, ad ogni visita, mi dimostrano molto rispetto e molta gratitudine. Pur tuttavia li stupisco. Uberto soprattutto mi studia: diffida, non è sicuro che io sia placato. Ras­ sicurati, povero figlio mio. Non ero già più molto te­ mibile il giorno che, convalescente, son ritornato a Calèse. Ora poi...

Gli olmi dei sentieri e i pioppi dei prati disegnano larghi piani sovrapposti; tra le loro file oscure, s’accu­ mula la nebbia, la nebbia ed il fumo dell’erba bruciata, e quell’immenso respiro della terra che ha bevuto. Sia­ mo in pieno autunno e i grappoli, ove qualche goccia d’acqua rimane prigioniera e brilla, non ritroveranno più il sole di cui li ha privati l’agosto piovoso. Ma per noi, non è forse mai troppo tardi; ho bisogno di ripetere a me stesso che non è mai troppo tardi. Non per devozione sono entrato in camera di Isa, il giorno dopo il mio ritorno a Calèse, ma sono stato spin­ to a spalancare la porta socchiusa, la prima a sinistra dopo la scala, dall’ozio, da questa totale disponibilità di se stessi, di cui non so se, durante la permanenza in campagna, goda o soffra. Non soltanto la finestra, ma anche l’armadio ed il cassettone erano completamente spalancati. I domestici avevano fatto piazza pulita e il

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sole distruggeva, fino negli angoli più remoti, i resti im­ palpabili di un’esistenza finita. In quel pomeriggio di settembre le mosche ridestate ronzavano insistenti. I ti­ gli folti e rotondi assomigliavano a frutti maturi. L’az­ zurro, cupo allo zenit, impallidiva contro le colline ad­ dormentate. Sentivo la risata d’una ragazza che non ve­ devo; cappelli da sole si muovevano in mezzo alle vi­ gne; era cominciata la vendemmia. Ma la vita stupenda era fuggita dalla camera di Isa; sul fondo dell’armadio un paio di guanti, un ombrellino sembravano morti. Guardavo il vecchio caminetto in pie­ tra ove, sul timpano, sono scolpiti un rastrello, una pala, una falce e un covone di grano. I caminetti di allora, ove possono fiammeggiare tronchi enormi, sono chiusi, d’estate, da grandi parafuochi di tela dipinta. Quello che 10 guardavo rappresentava una coppia di buoi al lavoro; in una giornata di rabbia, quando ero piccolo, l’avevo crivellato a colpi di temperino. Esso era appoggiato con­ tro il caminetto e, mentre cercavo di metterlo a posto, cadde e scoprì il nero quadrato del focolare pieno di cenere. Ricordai allora quel che i miei figli mi avevano raccontato sull’ultimo giorno che Isa aveva trascorso a Calèse: — Bruciava delle carte, credevamo che ci fosse 11 fuoco acceso... — Compresi allora che ella aveva sen­ tito approssimarsi la morte. Non si può pensare nello stesso istante alla morte propria e a quella degli altri: preso com’ero dall’idea fissa della mia prossima morte, come avrei potuto preoccuparmi della tensione di Isa? — Non è nulla, è l’età — le ripetevano i figli stupiti. Ma lei, il giorno in cui fece quel gran fuoco, sapeva che la sua ora era ormai prossima. Aveva voluto sparire del tutto, aveva distrutto ogni più piccola traccia. Guardavo, nel focolare, i grigi mucchi che il vento smuoveva ap­ pena. Le molle, che ella aveva adoperato, erano ancora là, tra il caminetto e il muro; le presi e frugai in quel mucchio di polvere, in quel nulla. Vi frugavo, come se vi fosse nascosto il segreto della mia vita, delle nostre due vite. La cenere diventava più

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densa, a mano a mano che le molle vi penetravano. Estrassi qualche pezzo di carta, protetto dallo spessore del mucchio, ma non ricuperai che poche parole, frasi spezzate, dal significato incomprensibile. Erano scritti tutti con una calligrafia che non riconoscevo. Pur con le mani tremanti, mi davo da fare con fervore. Su di un minuscolo pezzo di carta, sporco di fuliggine, potei leg­ gere la parola : P , sotto una piccola croce, una data : 23 febbraio 1913 e mia cara figlia. Presi altri frammenti, mi misi a ricomporre i caratteri tracciati sull’orlo della pagina bruciata, ma non ne rica­ vai che questo: «Non siete responsabile dell’odio che questo ragazzo vi ispira, sareste colpevole solo se cede­ ste. Ed invece vi sforzate... ». Dopo molti stenti potei leggere ancora: «...giudicare temerariamente i morti... l’affetto che ha per Luca non prova... ». La fuliggine copriva il seguito, tranne questa frase: « Perdonate, senza sapere che cosa dobbiate perdonare. Offrite per lui la vostra... ». Avrei avuto più tardi il tempo di riflettere, ora non pensavo che a cercare qualcosa di meglio. Frugavo, col busto chino, in una posizione scomoda che mi impediva di respirare. La scoperta di un taccuino di tela vernicia­ ta, che sembrava intatto, mi turbò; ma non era stato ri­ sparmiato nessun foglio. Decifrai solamente, sul retro della copertina, queste poche parole scritte da Isa : Grup­ po spirituale. E sotto : « Non mi chiamo Colui che dan­ na, il mio nome è Gesù » (Cristo a San Francesco di Sales). Seguivano altre citazioni, ma erano illeggibili. Rimasi a lungo chino su quella polvere ma invano, perché non vi ricavai altro. Mi sollevai e mi guardai le mani di­ ventate nere. Vidi, nello specchio, la fronte sporca di cenere. Mi venne il desiderio di camminare come quan­ do ero giovane; discesi le scale troppo in fretta, dimen­ ticando il mio cuore malato. ax

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Per la prima volta, dopo settimane, mi recai verso i vigneti distesi al sole e in parte spogliati dei loro grap­ poli. Il paesaggio era leggero, limpido, gonfio come le bolle azzurrine che Maria soffiava, in altri tempi, al­ l’estremità d’una cannuccia. Già il vento ed il sole in­ durivano le strade e le profonde impronte dei buoi. Camminavo, portando dentro di me l’immagine di Isa morente, in preda a passioni potenti che solo Dio aveva avuto il potere di mortificare. Questa massaia era stata una suora divorata dalla gelosia. Il piccolo Luca le era stato odioso... una donna capace di odiare un ragazzetto... gelosa per i suoi figli? perché io preferivo Luca a loro? Ma lei aveva detestato anche Marinetta... Sì, sì: aveva sofferto per causa mia; avevo avuto il potere di tortu­ rarla. Quale follia! Marinetta morta, Luca morto, Isa morta, morti tutti! morti! ed io, vecchio ancora in piedi sull’orlo estremo della stessa fossa ove essi erano sepolti, gioivo del fatto di non essere stato indifferente ad una donna, di aver suscitato in lei questi risucchi. Tutto ciò era ridicolo e, in verità, ne ridevo da solo, trafelando un po’, appoggiato ad un paletto da vite, con la faccia rivolta alle pallide distese di nebbia ove ap­ parivano i paesi con le loro chiese e le strade di cam­ pagna fiancheggiate dai pioppi. La luce del sole morente giungeva con difficoltà fino a quel mondo sepolto. Sen­ tivo, vedevo, toccavo la mia colpa. Essa non consisteva solo in quell’orrendo nido di vipere, rappresentato dal­ l’odio dei miei figli, dal desiderio di vendetta, dalla passione per il denaro; ma anche nel mio rifiuto ad in­ dagare al di là di queste vipere attorcigliate. Mi ero at­ taccato a quel groviglio immondo come se fosse stato il mio cuore, come se i battiti del mio cuore si fossero confusi con quei rettili striscianti. Non m’era bastato, nel corso di un mezzo secolo, di non conoscere in me quello che io non ero; ma avevo creduto che lo stesso succedesse agli altri. Mi lasciavo sedurre dalle meschine bramosie, lette nel viso dei miei figli. Ciò che in Ro-

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berto mi colpiva era la sua stupidaggine e mi attenevo a quell'apparenza. L’aspetto degli altri non mi sembrò l’ostacolo da spezzare, da superare per poter giungere ad essi. Avrei dovuto scoprire ciò a trenta, a quarant’anni. Oggi sono un vecchio dal cuore che pulsa lentamente e guardo la vigna che si addormenta, nell’ultimo autun­ no della mia vita, che intristisce per il fumo e per i lampi. Sono morti coloro che dovevo amare, coloro che avrebbero potuto amarmi, e non ho più né il tempo né la forza di rivolgermi a coloro che ancora vivono, per conoscermi. Tutto in me, voce, gesti, risate, appartiene al mostro che ho eretto contro la gente e al quale ho dato il mio nome. Erano proprio questi i pensieri che andavo rimugi­ nando, appoggiato contro quel paletto da vite, all’estre­ mo limite d’un filare, col viso rivolto ai prati luminosi di Yquem, su cui s’era adagiato il sole morente? Un in­ cidente, che voglio qui riportare, me li ha resi più lim­ pidi; ma essi erano già dentro di me, quella sera, men­ tre tornavo a casa, col cuore pervaso della quiete che incombeva sulla terra; calavano le tenebre e il mondo intero le accoglieva; lontano, le colline che andavano scomparendo somigliavano a spalle ricurve; attendevano la nebbia e l’oscurità per allungarsi, forse per disten­ dersi, per addormentarsi di un sonno quasi umano. Speravo di trovare a casa Genoveffa e Uberto che mi avevano promesso di pranzare con me. Per la prima vol­ ta in vita mia, desideravo il loro arrivo e ne gioivo. Ero impaziente di mostrare loro il mio nuovo cuore. Non dovevo perdere un istante per conoscerli, per farmi co­ noscere. Prima di morire, avrei avuto il tempo sufficiente per provare la mia scoperta ? Sarei andato diritto al cuore dei miei figli, avrei superato tutti gli ostacoli che pote­ vano dividerci. Il groviglio di vipere era finalmente sciolto; avrei saputo conquistarmi così presto il loro affetto che essi, chiudendomi gli occhi, avrebbero pianto.

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Non erano ancora giunti; mi sedei sul sedile, vicino alla strada, facendo attenzione al rombo dei motori. Più ritardavano e più desideravo il loro arrivo. La mia vec­ chia collera tornava a galla: a loro non interessava farmi aspettare! non si curavano che soffrissi per causa loro; lo facevano anzi appositamente... Mi calmai: il ritardo poteva essere causato da qualcosa che ignoravo, e non era detto che il motivo fosse precisamente quello cui pensavo con rancore. La campana annunziava l’ora del pranzo. Arrivai in cucina per avvertire Amelia che biso­ gnava aspettare ancora un po’. Mi si vedeva molto rara­ mente sotto quei neri travi dai quali pendevano i pro­ sciutti. Mi sedei vicino al fuoco, su una sedia di paglia. Amelia, suo marito, e Cazau, il sensale, di cui avevo sen­ tito da lontano le grasse risate, si erano ammutoliti al mio entrare. Ero circondato da un’atmosfera di rispetto e di terrore, perché non parlo mai con i domestici; non sono un padrone difficile od esigente, ma essi per me non esistono, non li considero. Quella sera invece la loro presenza mi rassicurava e, visto che i miei figli non venivano, avrei desiderato consumare il pranzo ad un angolo della tavola, dove la cuoca tagliava la carne. Cazau se ne era andato ed Ernesto stava indossando una giacca bianca per servirmi. Il suo silenzio mi op­ primeva. Cercavo invano una parola, ma non conoscevo nulla di quei due esseri che c’erano fedeli da ventidue anni. Finalmente mi ricordai che un tempo la figlia, ma­ ritata a Sauveterre di Guiana, veniva a trovarli, e che Isa non le pagava il coniglio che ella portava, perché mangiava spesso in casa nostra. Dissi alla svelta, senza voltare la testa: — Ebbene, Amelia, come sta vostra figlia? È sempre a Sauveterre ? — Ella volse verso di me la faccia stu­ pita e, dopo avermi squadrato, disse: -— Il signore sa che è morta... fanno dieci anni il ventinove, il giorno di san Michele. Lo ricorda, signore? Il marito restò muto, ma mi guardò duramente; ere-

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deva che io avessi finto di dimenticare. Balbettai : — Scu­ satemi... la mia vecchia testa... — E, come mi succede­ va quando ero impacciato e intimidito, sogghignavo, non potevo fare a meno di sogghignare. Ernesto annunziò con la solita voce: — Il signore è servito. Mi alzai e andai a sedermi nella sala da pranzo male illuminata, di fronte all’ombra di Isa. Rivedevo il posto di Genoveffa, dell’abate Arduino, di Uberto... Cercai con lo sguardo, tra la finestra e la credenza, il seggio­ lone di Maria, che era servito anche a Giannina e a sua figlia. Feci finta di ingoiare qualche boccone: lo sguardo di quell’uomo che mi serviva, mi destava orrore. Il domestico aveva acceso in salotto un fuoco di fa­ scine. Come la mareggiata, ritirandosi, lascia le conchi­ glie, così in questa stanza ogni generazione aveva la­ sciato album, cofanetti, fotografie, lucerne. Gingilli mor­ ti coprivano le mensole. Un passo pesante di cavallo nel buio, lo stridore del torchio che è accanto alla casa, mi straziavano il cuore. — Perché non siete venuti, figli miei ? — Ecco il lamento che mi saliva alle labbra. Se, attraverso la porta, i domestici l'avessero inteso, avreb­ bero creduto che vi fosse in salotto qualche estraneo, per­ ché non potevano essere né la voce né la parola del vec­ chio miserabile, che ritenevano avesse fatto apposta a non sapere che la loro figlia era morta. Tutti, moglie, figli, padroni e servitori s’erano coaliz­ zati contro la mia anima, mi avevano imposto quella parte odiosa. Io m’ero atrocemente irrigidito nell’attitu­ dine che da me esigevano, m’ero conformato al modello che il loro odio m’aveva fissato. Quale follia sperare, a sessantotto anni, di poter tornare indietro e imporre loro la visione nuova dell’uomo che sono, che sono sempre stato! Non vediamo se non quello che siamo abituati a vedere. Ed anche voi, poveri figli, non vedo in altro modo. Se fossi più giovane, le abitudini sarebbero meno segnate, le consuetudini meno radicate; ma dubito che, anche in gioventù, avrei potuto spezzare l’incantesimo.

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Ci vorrebbe una forza, mi dicevo. Ma quale? Qualcuno. Sì, qualcuno in cui poter ricongiungerci tutti e che fosse, agli occhi dei miei, garante della mia vittoria interiore; qualcuno che testimoniasse per me, che mi alleggerisse del fardello immondo, che se lo prendesse... Anche i migliori non imparano da soli ad amare; per passare al di là del ridicolo, dei vizi e soprattutto della bestialità umana, bisogna avere in sé un amore arcano che la gente non conosca. Finché questo segreto non sarà scoperto, cerchereste invano di mutare lo stato de­ gli uomini: credevo che fosse l’egoismo a rendermi estraneo a tutto ciò che non riguardava che l’economia della società; e sono stato infatti un mostro di solitudine e d’indifferenza; ma verrà anche in me la sensazione, la certezza oscura che a nulla serve cambiare la faccia della gente; bisogna saper raggiungere il loro cuore. Cerco soltanto chi sarà capace di riportare questa vittoria; do­ vrebbe essere il Cuore dei cuori, il centro bruciante di ogni amore. Desiderio, che forse era già preghiera. Poco è mancato, quella sera, che m’inginocchiassi, col gomito appoggiato ad una poltrona, come in altri tempi faceva Isa in estate, con i figli vicino a lei. Tornavo dalla ve­ randa verso la finestra illuminata; camminavo silenzio­ samente, e, invisibile nello sfondo nero del giardino, guardavo il gruppo che pregava: — Prosternati dinanzi a Te, mio Dio — recitava Isa — ti ringraziamo d’averci dato un cuore capace di conoscerti e d’amarti... Rimanevo in piedi, in mezzo alla stanza, vacillando, come se mi avessero colpito. Pensavo alla mia vita, guardavo la mia vita. No, non si risale una tale corrente di fango. Ero stato così orrendo, che non avevo avuto un solo amico. Ma, mi dicevo, non dipendeva forse dal fatto che non ero stato capace di simulare? Se tutti gli uomini procedessero sinceramente come io l’ho fatto per mezzo secolo, ci meraviglieremmo forse che sia così piccola la differenza di livello tra di essi ? In verità, nes­ suno agisce a viso aperto. La maggior parte simula la grandezza, la nobiltà, e, a sua insaputa, si conforma a

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tipi da letteratura o ad altri. Lo sanno i santi, che si odiano e si disprezzano perché si vedono. Non sarei stato disprezzato, se non fossi stato così sincero, così aperto, così semplice. Questi erano i pensieri che occupavano la mia mente, quella sera, mentre camminavo su e giù nella stanza oscura, urtando contro i pesanti mobili, avanzi arenati nel passato d’una famiglia, ove tanti corpi, oggi disfatti, s’erano appoggiati, distesi. I bimbi erano saliti con le scarpe sul divano, quando vi si tuffavano per sfogliare il Mondo Illustrato del 1870; in quel punto la stoffa era rimasta nera. Il vento turbinava intorno alla casa, rime­ scolava le foglie morte dei tigli. Avevano dimenticato di chiudere le imposte d’una camera.

XIX

Il giorno seguente attesi con ansia l’ora della posta. Gi­ ravo su e giù per i viali, come faceva Isa, quando stava in pensiero perché i figli tardavano. Avevano litigato? Qualcuno di loro s’era ammalato? Mi facevo «il sangue cattivo » e diventavo abile come Isa nel formulare, nel nutrire idee fisse. Camminavo, in mezzo ai vigneti, con l’aria assente e lontana da tutto di chi segue un pen­ siero; ricordo, però, di aver notato il cambiamento avve­ nuto in me e d’essermi compiaciuto della mia preoccu­ pazione. Dalla pianura nascosta nella nebbia salivano ru­ mori. Cutrettole e tordi s’inseguivano tra i filari ove l’uva tardava a maturare. Da ragazzo, a Luca, ormai sulla fine delle vacanze, piacevano quelle mattinate di passaggio d’uccelli... Poche parole d’Uberto, scritte da Parigi, mi turbaro­ no. Era stato costretto, mi diceva, a partire in fretta per un affare abbastanza serio, di cui mi avrebbe parlato al ritorno, fissato per due giorni dopo. Pensavo che fossero sorte complicazioni di carattere fiscale: aveva commesso forse qualche atto illegale? Nel pomeriggio, non potendo più resistere, mi feci accompagnare alla stazione e partii per Bordeaux, pur essendomi impegnato a non viaggiare più solo. Geno­ veffa abitava, ora, nella nostra vecchia casa. L’incontrai

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nell’ingresso, mentre salutava un individuo che doveva essere il dottore. — Uberto non t’ha messo al corrente? Mi condusse seco nella sala d’aspetto, dove ero sve­ nuto il giorno dei funerali. Trassi un sospiro, quando seppi che si trattava della fuga di Fili, perché temevo di peggio : era partito con una donna « che lo interes­ sava molto » e dopo una scenata violenta che non aveva lasciato più nulla da sperare. Non si riusciva a strap­ pare Giannina da uno stato di prostrazione tale che preoccupava il dottore. Alfredo e Uberto avevano rag­ giunto a Parigi il fuggiasco. Secondo un telegramma, ricevuto proprio allora, essi non erano riusciti a nulla. — Quando penso che avevamo assicurato loro un as­ segno così vistoso... Avevamo certamente preso le no­ stre precauzioni, non avevamo versato il capitale. Ma la rendita era considerevole. Dio sa quanto Giannina si mostrasse debole con lui, che otteneva tutto quello che voleva. Quando penso che un tempo minacciava di ab­ bandonarla, convinto che tu non ci lasceresti nulla, e che ora che ci dai le tue ricchezze, si decide a fuggire. Come spieghi tutto ciò? Si fermò dinanzi a me, con le sopracciglia inarcate e gli occhi spalancati. Poi si avvicinò al termosifone e, con le dita unite, si fregò il palmo della mano. — Si tratta naturalmente — dissi — di una donna ricchissima... — Macché! una maestra di canto... tu la conosci, la signora Vélard. Non troppo giovane e navigata. Gua­ dagna appena quanto le occorre per vivere. Come te lo spieghi? — mi domandò. E senza aspettare la mia risposta, ricominciò a parlare. Giannina entrò in quel momento: era in veste da camera e mi porse la fronte. Non s’era dimagrita; la disperazione aveva cancellato sul suo viso grasso e sgraziato quello che odiavo: quella povera creatura così manierata, così affettata, era diventata terribilmente naturale e semplice. La luce viva di un lampadario la illuminava in pieno,

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senza che ella battesse ciglio; mi domandò soltanto: — Tu sai ? — e si sedette su di una poltrona a sdraio. Udiva le parole di sua madre, la requisitoria inter­ minabile che Genoveffa doveva continuamente ripetere dopo la partenza di Fili? — Quando penso... Ogni periodo cominciava con quel « quando penso » che stupiva sentir dire da una persona che pensava così poco. Avevano acconsentito al matrimonio, diceva Ge­ noveffa, per quanto Fili, a ventidue anni, avesse già dissipata una forte sostanza di cui s’era trovato molto presto in possesso (siccome era orfano e senza parenti prossimi, s’era dovuto emanciparlo). Avevano chiuso un occhio sulla sua vita di gozzoviglie... ed ecco come li ricompensava... Cercavo invano di contenere l’irritazione che nasceva in me. La mia vecchia cattiveria tornava a galla. Come se Genoveffa stessa, Alfredo, Isa e tutti i loro amici, non fossero stati appresso a Fili, non gli avessero fatto mille promesse ! — La cosa più curiosa — mormorai — è che tu credi a quel che dici. E pure sai bene come voi tutti gli cor­ revate dietro... — Mi sembra, papà, che tu voglia difenderlo... Protestai dicendo che non si trattava di difenderlo, e che avevamo avuto il torto di giudicare Fili più vile di quello che non fosse. Gli si era fatto notare senza dubbio troppo rudemente che, una volta in possesso della ric­ chezza, egli sopporterebbe qualsiasi affronto, e che era­ vate sicuri che non se ne sarebbe più andato. Ma gli uomini non sono mai tanto bassi quanto si crede. — Quando penso che difendi un miserabile che ab­ bandona la giovane moglie e la propria figlia... — Genoveffa — gridai esasperato — non mi capi­ sci, cerca di fare uno sforzo per capirmi: è senza dub­ bio male abbandonare la moglie e la figlia; ma il col­ pevole può aver ceduto a moventi ignobili così come a nobili ragioni...

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— Allora — replicò Genoveffa urtata — trovi nobile abbandonare la moglie di ventidue anni e una figlia... Ella non cedeva, non comprendeva assolutamente nulla. — No, sei troppo sciocca... a meno che tu non lo faccia apposta a non capire... Sostengo che Fili appare ai miei occhi meno disprezzabile dopo... Genoveffa mi troncò la parola, gridandomi di aspet­ tare che Giannina fosse uscita dalla stanza per insultar­ la, difendendo suo marito. Ma questa, che fino allora non aveva aperto bocca, disse con una voce che rico­ noscevo a stento: — Perché negarlo, mamma? Abbiamo umiliato Fili. Ricordati che, da quando fu decisa la ripartizione dei beni, lo tenevamo in pugno. Sì, sembrava un cane tenuto al guinzaglio. Ed ero perciò arrivata fino al punto di non soffrire più molto perché non mi amava. Io l’ave­ vo, era mio; m’apparteneva: ero padrona del denaro e gli facevo sospirare ogni cosa. Era il tuo modo di dire, mamma : « Ora puoi fargli sospirare ogni cosa per mol­ to tempo ». Credevamo che non anteponesse nulla al denaro. Lui stesso lo credeva forse e perciò la sua col­ lera e la sua vergogna sono state più forti. Non ama la donna che me l’ha preso; me l’ha confessato partendo, mi ha detto in faccia molte cose atroci, perché fossi si­ cura che diceva la verità. Ma ella non lo disprezzava, non lo umiliava. Ella s’è data a lui, non l’ha preso. Io invece me l’ero comprato. Ripetè queste parole, con un triste senso di avvili­ mento. Sua madre si stringeva nelle spalle, ma godeva nel vederla piangere perché « le lacrime le calmeranno i nervi... » e diceva ancora: — Non temere, mia cara, tornerà a te; la fame fa allontanare il lupo dal bosco. Quando avrà patito per le privazioni... Ero sicuro che queste parole suscitavano disgusto in Giannina. Non potendo sopportare il pensiero di finire la serata in compagnia di mia figlia, mi alzai e presi il

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cappello. Le feci credere che avevo affittato un’automo­ bile e che tornavo a Calèse. Giannina disse improvvi­ samente: — Conducimi con te, nonno. La madre le domandò se era pazza; doveva rimanere là, perché gli avvocati avevano bisogno di lei. E poi, a Calèse... la pena l’avrebbe afflitta. Sul pianerottolo, ove m’aveva accompagnato, Geno­ veffa mi rimproverò di aver assecondato la passione di Giannina: — Riconosci che sarebbe una gran bella cosa se ella riuscisse a separarsi da quell’individuo. Si potrà sempre trovare un motivo di annullamento del matrimonio; con le sue ricchezze potrà rimaritarsi splendidamente. Ma è necessario anzitutto che si separi. Proprio tu, che non potevi vedere Fili, ti metti ora ad elogiarlo in presenza sua... Ah! no! e soprattutto che non venga a Calèse! ce la rimanderesti in un bello stato! Qui finiremo certa­ mente col distrarla e dimenticherà... A meno che non muoia, pensavo, o che viva misera­ mente, attanagliata da un dolore incessante, che nem­ meno il tempo lenirà. Giannina appartiene forse a quel­ la categoria di donne che un vecchio avvocato ben co­ nosce: donne per le quali la speranza è una malattia in­ guaribile, e che, dopo venti anni, guardano ancora la porta con gli occhi del cane fedele. Tornai nella camera ove Giannina era rimasta a se­ dere, e le dissi: — Quando vorrai, piccola mia... sarai sempre la ben­ venuta. Non fece nessun cenno per manifestarmi che aveva capito. Genoveffa tornò e mi chiese con aria sospettosa: — Che le dici? — Ho saputo in seguito che ella m’ha accusato d’aver « sviata » Giannina, in quei pochi secon­ di, e d’essermi divertito « a metterle in testa un’infinità di chimere ». Scendendo le scale mi ricordavo ciò ch’ella m’aveva chiesto: — Portami via... — M’aveva doman­ dato di portarla con me, perché avevo, istintivamente,

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detto su Fili le parole che aveva bisogno di sentire. Ero forse il primo che non l’avesse oltraggiato. Passeggiavo per Bordeaux che andava riacquistando la normale animazione; i marciapiedi del Corso dell’In­ tendenza, bagnati di nebbia, luccicavano. Il frastuono del movimento meridiano copriva il rumore dei tram. I ri­ cordi della mia giovinezza erano svaniti; li avrei forse ri­ trovati nei rioni più tetri di via Dufour-Dubergier e di via Grosse Cloche. Là, forse, qualche vecchia, all’angolo d’una buia strada, stringeva ancora contro il petto un fumante recipiente di castagne lesse dal sapore d’anice. No, non ero triste. Qualcuno m’aveva compreso e l’essermi trovato d’accordo era per me una vittoria. M’ero però urtato in Genoveffa: non potevo far nulla contro la sua stoltezza. È più facile avvicinarsi ad un’anima che vive in mezzo ai delitti e ai vizi più orribili, che non superare la volgarità. Tanto peggio! ne trarrei la mia decisione; non si poteva fendere la pietra di tutte quelle tombe. Come sarei felice se, prima di morire, mi fosse dato raggiungere il cuore anche di un solo essere !

Dormii all’albergo e tornai a Calèse la mattina dopo. Dopo qualche giorno, Alfredo venne a trovarmi e ap­ presi da lui che la mia visita aveva avuto funeste con­ seguenze: Giannina aveva scritto a Fili una lettera da pazza, in cui si discolpava di tutti i suoi torti e s’accu­ sava chiedendogli perdono. — Le donne fanno sem­ pre... — Il buon uomo non osava dirmi, ma certamente pensava: “Essa ha incominciato a commettere le stesse sciocchezze di sua nonna”. Alfredo mi fece capire che la causa era già persa pri­ ma d’iniziarla, e che Genoveffa me ne rendeva respon­ sabile: avevo fatto apposta a montare la testa di Gian­ nina. Sorridendo, chiesi a mio genero quale motivo po­ tevo avere avuto. Mi rispose, protestando che non con­ divideva affatto il parere di sua moglie, la quale diceva ch'io avevo agito per malizia, per vendetta, forse per « pura malvagità ».

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I miei figli non venivano più a trovarmi. Da una let­ tera di Genoveffa appresi, due settimane dopo, che ave­ vano dovuto rinchiudere Giannina in una casa di sa­ lute. Non si trattava, ben inteso, di pazzia e riponevano molte speranze in questa cura di isolamento. Anche io ero isolato, ma non soffrivo. Mai come al­ lora il mio cuore m’aveva lasciato tanto respiro. In quel­ le due settimane, e per molto ancora, l’autunno si pro­ traeva radioso. Le rose rifiorivano e non cadeva ancora nessuna foglia. Avrei dovuto soffrire perché i miei figli di nuovo s’allontanavano da me. Uberto si faceva ve­ dere solo per parlare d’affari; era breve, contegnoso, di modi cortesi, ma stava in guardia. L’influenza, che i miei figli m’accusavano d’aver avuto su Giannina, m’aveva fatto perdere tutto il terreno guadagnato. Ero ritornato, per loro, l’avversario, il vecchio perfido e capace di tutto. La sola creatura che avrebbe potuto capirmi, era rin­ chiusa e separata dai vivi. Ciò nonostante provavo una quiete profonda. Privo di tutto, isolato, colpito dal do­ lore di una morte orribile, rimanevo calmo, attento, vi­ gile. Il pensiero della mia triste vita non m’avviliva e non sentivo il peso di quella vuota esistenza... quasi non fossi un vecchio molto malato, quasi avessi ancora in­ nanzi a me un’intera vita, come se la pace, che in me dominava, fosse stata qualcuno.

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Giannina non è ancora guarita dopo un mese ch’è fug­ gita dalla casa di salute e che io l’ho accolta. Crede d’es­ sere stata vittima d’un complotto; sostiene che l’hanno rinchiusa perché si rifiutava d’accusare Fili e di chiedere il divorzio e l’annullamento del matrimonio. Gli altri pensano che sono io che le metto in testa queste idee e che l’aizzo contro di loro, mentre invece durante le inter­ minabili giornate di Calèse, lotto contro le sue idee e le sue chimere. Fuori, la pioggia mischia le foglie alla mel­ ma, le fa marcire. Pesanti zoccoli smuovono la ghiaia del cortile; passa un uomo, con la testa coperta da un sacco. Il giardino è così spoglio che mostra quanto sia insignificante quel che è concesso al piacere: gli schele­ triti viali di carpini, i nudi boschetti, tremano sotto la pioggia incessante. L’umidità penetrante delle camere da letto ci spaventa, alla sera, quando dobbiamo allon­ tanarci dal braciere del salotto. Mezzanotte suona e non possiamo rassegnarci a salire; i tizzi, pazientemente di­ sposti l’uno su l’altro, si dissolvono in cenere; devo ri­ cominciare per l’infinitesima volta a cercare di convin­ cere Giannina che i suoi genitori, suo fratello, suo zio non le vogliono affatto male e cerco di sviare, per quanto posso, il suo pensiero dalla casa di salute. Torniamo sem­ pre a parlare di Fili: — Non puoi immaginare che uomo fosse... non puoi sapere che individuo... — Queste pa-

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role preludono, senza alcuna differenza, a una requisi­ toria o a un elogio, e soltanto il loro tono mi fa capire se lo esalterà o lo coprirà di fango. Ma, sia che ella lo elogi, sia che lo biasimi, i fatti che mi cita mi sembrano insignificanti. L’amore dà a questa povera donna, così priva d’immaginazione, il potere sorprendente di defor­ mare, di ingrandire i fatti. Ho conosciuto il tuo Fili: una nullità che la gioventù riveste per un momento di luce. Tu attribuisci a questo ragazzo viziato, carezzato, spesato di tutto, intenzioni delicate o scellerate, perfidie meditate: egli non ha invece che sensazioni riflesse. Non capivate che aveva bisogno, per respirare, di sen­ tirsi il più forte. Non bisognava fargli sospirare una. cosa tanto a lungo. « La cosa sospirata » non fa saltare certi cani; essi se la svignano verso bocconi serviti in terra. Anche lontana, l’infelice non conosce il suo Fili. Cosa rappresenta costui ai suoi occhi, se non l’angoscia della sua presenza, le carezze rinviate, la gelosia, il terrore d’averlo perduto? Senza occhi, senza odorato, senza an­ tenne, ella corre e impazzisce dietro di lui, senza che nulla la illumini su quello che realmente è l'oggetto della sua ricerca affannosa... Esistono padri ciechi? Gian­ nina è mia nipote, ma se fosse mia figlia, la vedrei qua­ le è: una creatura che non può avere nulla da un altro. Questa donna dai lineamenti regolari, solida, pesante, di mente corta, è di quelle che non attirano uno sguardo, che non suscitano un pensiero. Purtuttavia in queste lun­ ghe notti, mi sembra bella, d’una bellezza a lei estranea, che si addice alla sua disperazione. Non esiste un uomo che si lasci attrarre da questo incendio? La disgraziata brucia nelle tenebre e nel deserto, senza altro testimonio all’infuori di questo vecchio. Avevo pietà di lei, durante le lunghe veglie, e non cercavo di paragonare Fili, quel ragazzo simile a milioni di altri, alla comune farfalla bianca che assomiglia a tutte le farfalle bianche, e di considerare la frenesia che egli aveva il potere di scate­ nare in sua moglie, e che per lei rendeva nulli il mondo

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visibile e quello invisibile: non esisteva per lei altro che un maschio già un po’ sfiorito, proclive a preferire l’alcool al resto e a considerare l'amore un’occupazione, un dovere, una fatica... Quale bassezza!

Ella guardava appena la figlioletta che entrava pian piano nella camera, all’imbrunire, e posava distrattamente le labbra sui suoi riccioli. Non che la figlia non avesse potere sulla madre: era infatti per lei che Gian­ nina non trovava la forza di partire alla ricerca di Fili (sarebbe stata la donna capace di molestarlo, di provo­ carlo, di fare delle scenate in pubblico). No, non sa­ rebbe bastata la mia presenza per trattenerla, ella rima­ neva per la figlia, ma non aveva da essa alcuna conso­ lazione. E la piccola si rifugiava alla sera tra le mie braccia, sulle mie ginocchia, mentre aspettavo che il pranzo fosse servito. Ritrovavo, nei suoi capelli, quel­ l’odore di uccello, di nido, che mi ricordava Maria. Chiudevo gli occhi con la bocca poggiata sulla sua testa, mi trattenevo dall’abbracciare troppo forte il suo corpicino, chiamavo dentro di me la mia piccola Maria. Cre­ devo, in quel momento, di abbracciare anche Luca. Quan­ do ella aveva giocato molto, la sua carne aveva l’odore pungente delle gote di Luca al tempo in cui questi s’ad­ dormentava a tavola, tanto aveva corso... Luca non po­ teva aspettare la frutta, ci porgeva, facendo il giro della tavola, il viso stanco di sonno... Così sognavo, mentre Giannina passeggiava su e giù per la stanza, camminava, camminava, si sprofondava col pensiero nel suo amore.

Ricordo che una sera mi domandò: — Che dovrei fare per non soffrire più? Credi che passerà? — Era una notte freddissima; la vidi aprire la finestra, spa­ lancare le persiane, immergere la fronte e il busto nel freddo chiarore lunare. La ricondussi vicino al fuoco, e, pur incapace di qualsiasi gesto di tenerezza, mi sedetti accanto a lei, le circondai le spalle con un braccio. Le

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chiesi se le rimanesse ancora qualche conforto: — Hai fede? — Ella rispose distrattamente: — La fede? — come se non avesse capito. — Sì, — ripresi io, -— Dio... — Alzò verso di me il viso consunto, guardandomi con diffidenza, e disse « che non vedeva quale rapporto vi fosse... » e poiché insistevo: — Certo sono credente, e osservo i miei doveri reli­ giosi. Ma perché mi hai rivolto quella domanda? Ti burli forse di me? — Credi — continuai — che Fili sia all’altezza della tua considerazione? Mi guardò con la stessa espressione annoiata e irritata che assume Genoveffa quando non sa cosa rispondere, quando teme di cadere in un tranello. Finalmente si ar­ rischiò a dire che erano due cose ben distinte... non le piaceva far entrare la religione in quelle questioni. Era praticante, ma aborriva giustamente da quei confronti ibridi. Adempiva a tutti i suoi doveri religiosi. Avrebbe detto, con lo stesso tono, che pagava il suo contributo. Ciò che avevo tanto esecrato durante tutta la vita non era altro che questa grossolana caricatura, questo medio­ cre ufficio della vita cristiana e avevo finito di vedervi una manifestazione veritiera per poter avere il diritto di odiarla. Bisogna guardare in faccia ciò che si odia. Ma io, mi dicevo, io... Non sapevo già di ingannare me stesso, in quella sera verso la fine del secolo scorso, sulla veranda di Calèse, quando l’abate Arduino mi di ceva: «Lei è molto buono...»? In seguito mi sono tu rate le orecchie per non udire le parole di Maria mo­ rente. Eppure al suo capezzale m’è apparso il segreto della morte e della vita... Una bimba moriva per colpa mia... Ho voluto dimenticarlo. Ho cercato, senza posa, di perdere questa chiave che una mano misteriosa mi ha sempre teso, ad ogni svolta della mia vita (lo sguardo di Luca dopo la messa, al mattino della domenica, al tempo delle prime cicale... E in primavera, la notte della grandine...). Questi erano i miei pensieri di quella sera. Ricordo

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di essermi alzato e d’aver spinto la poltrona con tanta violenza che Giannina fece un salto. La quiete di Calèse, in quell’ora tarda, quella quiete profonda, quasi immo­ bile, sopiva, reprimeva il suo dolore. Ella lasciava che il fuoco si spegnesse e, a mano a mano che la stanza diventava più fredda, avvicinava la sedia al focolare fin quasi a toccarne la cenere coi piedi, tendendo verso il fuoco morente le mani e la fronte. La lampada del caminetto illuminava quella donna rannicchiata, mentre io passeggiavo nella fitta penombra ingombra di mobi­ li. Giravo, impotente, intorno a quel blocco umano, a quel corpo prostrato. Ciò che questa sera mi soffoca mentre scrivo queste parole, ciò che mi fa male al cuore tanto da sembrarmi che si spezzi, questo amore di cui conosco finalmente il nome ador...

« Calèse, 10 dicembre 193··. « Cara Genoveffa, cercherò di riordinare, in questa settimana, le carte di cui qui tutti i cassetti sono pieni. Ho però il dovere di portare a tua conoscenza, senza in­ dugio, questo strano documento. Sai che nostro padre è morto al suo tavolo di lavoro e che Amelia l’ha tro­ vato, la mattina del 24 novembre, col viso poggiato su un quaderno aperto: lo stesso che ti spedisco in plico raccomandato. « Faticherai quanto me per decifrarlo... è bene che i domestici non abbiano potuto leggere quella calligra­ fia. Spinto da un senso di delicatezza, avevo dapprima deciso di risparmiartene la lettura: nostro padre si espri­ me con parole singolarmente atroci. Ma ho il diritto di lasciarti ignorare un documento che appartiene tanto a te quanto a me? Conosci i miei scrupoli per tutto ciò che si riferisce da vicino o da lontano all’eredità dei nostri genitori. E perciò ho cambiato parere. « Del resto chi di noi non è maltrattato in queste pa­ gine piene di fiele? Esse non ci rivelano nulla di nuovo.

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Il disprezzo che ispiravo a mio padre ha avvelenato la mia adolescenza. Per molto tempo non ho avuto fi­ ducia in me, mi sono piegato sotto il suo sguardo se­ vero, ci sono voluti molti anni prima che mi rendessi conscio del mio valore. « Ma gli ho perdonato tutto e aggiungo che ti co­ munico questo documento, spinto soprattutto dal dovere di figlio. Infatti, comunque tu possa giudicarlo, non si può negare che da esso la figura di nostro padre, no­ nostante i sentimenti orribili che egli ostenta, ti appa­ rirà, non oso dire più nobile, ma certo più umana (pen­ so in ispecie al suo amore per nostra sorella Maria e per il piccolo Luca che troverai testimoniato in modo commovente). Riesco, ora, a spiegarmi meglio il dolore che egli manifestò davanti alla bara della mamma e che ci meravigliò. Tu credevi che recitasse la parte. Quelle pagine serviranno a rivelarti quale cuore esistesse in quell’uomo implacabile e orgoglioso fino alla follia, e vale la pena, mia cara Genoveffa, che tu ne sopporti la lettura anche se penosa. « Devo a questa confessione il beneficio, che anche tu le dovrai, di sentirmi la coscienza tranquilla. Sono scrupoloso per natura. Pur avendo mille ragioni di cre­ dermi nel mio pieno diritto, basta un nonnulla per tur­ barmi. Ah! la delicatezza morale, spinta fino al punto in cui l’ho sviluppata, non rende facile la vita! Perse­ guitato dall’odio paterno, non ho osato alcun gesto di difesa, neppure il più legittimo, senza provarne inquie­ tudine, se non rimorso. Se non fossi stato padre, re­ sponsabile del nome e del patrimonio dei nostri figli, avrei preferito rinunziare alla lotta, piuttosto che sof­ frire lo strazio e la tragedia intima, di cui più volte sei stata testimone. « Ringrazio Dio d’aver voluto che le pagine di no­ stro padre mi giustifichino. Esse confermano, per prima cosa, quanto già conoscevamo sugli stratagemmi da lui inventati per privarci dell’eredità. Non ho potuto leg­ gere senza arrossire le pagine in cui descrive il proce­

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dimento trovato per rendere complici a vicenda l’avvo­ cato Bourru e quel tale Roberto. Stendiamo un velo su quelle scene vergognose. Il mio dovere era di scongiu­ rare, a qualunque costo, quei piani abominevoli, e l’ho fatto con un risultato di cui non mi vergogno. Stai pur certa, sorella mia, che devi a me la tua ricchezza. L’in­ felice, durante la sua confessione, si sforza di persua­ dere se stesso che l’odio che provava per noi è d’un tratto svanito; si vanta d’essersi bruscamente allontanato dai beni terreni (confesso di non aver potuto, a questo punto, trattenermi dal ridere). Ma poni attenzione, per favore, all’epoca di quell’inatteso ravvedimento: esso avviene quando i piani sono sventati e quando il suo figlio naturale ci ha rivelato il segreto. Non era facile far sparire una ricchezza simile; un progetto di mobi­ litazione, che ha richiesto anni ed anni per essere pre­ parato, non può essere sostituito in pochi giorni. La verità è che il poveretto sentiva l’approssimarsi della sua fine e non aveva più né il tempo né i mezzi di disere­ darci con un sistema differente da quello che aveva pen­ sato e che la Provvidenza ci ha fatto scoprire. « L’avvocato non ha voluto perdere la sua causa, né dinanzi a lui, né dinanzi a noi; ha avuto la furberia - che voglio credere commessa per incoscienza - di tra­ sformare la sua disfatta in vittoria morale; ha affettato il disinteresse, la noncuranza... Eh! che cosa avrebbe potuto fare di meglio ? No, non mi lascio commuovere e credo che col tuo buon senso riterrai che non dobbia­ mo provare ammirazione né sentir gratitudine. « Ma v’è un altro punto di questa confessione che dà alla mia coscienza la completa tranquillità; un punto sul quale ho esaminato me stesso con maggiore severità, senza essere riuscito per molto tempo, oggi lo confesso, a calmare la suscettibilità della mia coscienza. Parlo dei tentativi, d’altronde vani, per sottoporre all'esame di specialisti lo stato mentale di nostro padre. Devo dire che mia moglie ha fatto molto per dissuadermi. Sai che non sono solito dare grande importanza alle sue opi­

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nioni, perché ella è la persona meno ponderata che esista. Ma su questa questione mi riempiva, giorno e notte, le orecchie di argomenti tali che, confesso, qual­ che volta mi sentivo scosso. Aveva finito col convincermi che quel grande avvocato, quel finanziere astuto, quel profondo psicologo rappresentava l’equilibrio puro... Dei figli che cerchino di far rinchiudere il vecchio padre per non perdere l’eredità, si rendono facilmente degni d’o­ dio... Vedi che parlo chiaro... Ho passato molte notti senza poter dormire, e Dio lo sa... « Ebbene, mia cara Genoveffa, questo quaderno, spe­ cialmente nelle ultime pagine, prova evidentemente la follia intermittente che assaliva quell’infelice. Il suo caso mi sembra abbastanza interessante per sottoporre queste confessioni all’esame di uno psichiatra; ma riten­ go sia mio dovere assoluto non divulgare a nessuno scrit­ ti così dannosi per i nostri figli. E ti dico subito che, a parer mio, dovrai bruciarli appena li avrai letti. Non bisogna correre il rischio che cadano sotto gli occhi di un estraneo. « Sai bene, mia cara Genoveffa, che abbiamo tenuto sempre molto segreto quanto riguardava la nostra fa­ miglia, e che avevo preso tutte le precauzioni necessarie perché non trapelasse la nostra inquietudine sullo stato mentale di chi ne era il capo. Ma qualche elemento estraneo alla nostra famiglia, non è stato così discreto e così prudente: quel miserabile di tuo genero, in particolar modo, ha raccontato a questo proposito particolari dannosissimi. E noi oggi lo scontiamo: non apprenderai nulla di nuovo se ti dirò che, in città, confrontano la nevrastenia di Giannina con le eccentricità che si attri­ buiscono a nostro padre, dopo le chiacchiere di Fili. « Distruggi, dunque, questo quaderno e non parlarne con nessuno; non se ne parli più nemmeno tra noi. È forse un peccato perché vi sono indizi psicologici e im­ pressioni di caratteri che denotano, nell’oratore, le qua­ lità dello scrittore. Motivo di più per distruggerlo. Pen-

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sa che uno dei nostri figli potrebbe in seguito pubbli­ carlo. Staremmo freschi ! « Ma tu ed io possiamo dare alle cose il loro nome e, terminata la lettura di questo quaderno, non possia­ mo più dubitare della parziale demenza di nostro padre. Mi spiego, oggi, una parola di tua figlia, che avevo pre­ sa per un capriccio di malata: — Il nonno è l’unico uomo religioso che io abbia conosciuto —. La poveretta s’era lasciata sedurre dalle vaghe aspirazioni, dalle fan­ tasticherie di quell’ipocondriaco. Nemico dei suoi, odia­ to da tutti, senza amici, sfortunato in amore, come ve­ drai (vi sono particolari comici), geloso di sua moglie fino al punto di non averle perdonato una relazione in­ nocente avuta da signorina, ha desiderato la consolazio­ ne della preghiera, sentendosi prossimo a morire? Non ci credo; ciò che risulta dal suo scritto è il disordine mentale più caratteristico: mania di persecuzione, follia di carattere religioso. Nel suo caso, mi chiederai, non v’è traccia alcuna di vero cristiano? No: un uomo, al corrente quanto io lo sono in queste questioni, conosce le cose per esperienza. Il suo falso misticismo, lo con­ fesso, mi dà un disgusto invincibile. « Saranno forse differenti le impressioni di una don­ na? Se la sua religiosità t’impressionasse, ricorda che nostro padre, sorprendentemente dotato d’odio, non ha mai amato nulla che contro qualcuno. L’ostentazione delle sue aspirazioni religiose è una critica diretta, o indiretta, ai principi inculcatici da nostra madre fin dal­ l’infanzia. Egli manifesta un misticismo fuligginoso, so­ lo per aggravare di più la religione ragionevole, mode­ rata, che fu sempre in auge nella nostra famiglia. La verità è equilibrio... Ma mi fermo dinanzi a conside­ razioni nelle quali difficilmente mi seguiresti. Ti ho già detto abbastanza: consulta ora il documento. Sono im­ paziente di conoscere la tua impressione. « Mi rimane poco spazio per rispondere alle domande importanti che mi rivolgi. Mia cara Genoveffa, il pro­ blema che dobbiamo risolvere, data la crisi che attra­ 15.

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versiamo, è angosciante: se conserviamo in cassaforte i pacchi di biglietti di banca, dovremo vivere del nostro capitale: il che è male. Se invece acquistiamo dei titoli in borsa, la riscossione delle cedole non ci consolerà del continuo calare del loro valore. Poiché siamo costretti a perdere in ogni modo, la cosa migliore è quella di ser­ bare i biglietti della Banca di Francia: il franco vale poco, ma è garantito da un’immensa riserva aurea. In quanto a ciò, nostro padre aveva visto giusto e dob­ biamo seguire il suo esempio. Vi è una tentazione, mia cara Genoveffa, contro la quale devi lottare con tutte le tue forze: quella dell’impiego del denaro ad ogni costo, così radicata nel popolo francese. Dovremo evi­ dentemente vivere nella più stretta economia. Sai che potrai sempre rivolgerti a me se avrai bisogno di un consiglio. Nonostante i brutti tempi che corrono, pos­ sono presentarsi da un giorno all’altro delle buone oc­ casioni: seguo molto da vicino, in questo momento, una “china” e un’“anisetta” : ecco un genere che non risentirà della crisi. A parer mio, è questo l’affare che dobbiamo seguire arditamente, ma nello stesso tempo prudentemente. « Sono lieto delle notizie datemi del miglioramento di Giannina. Non bisogna temere, per ora, l’eccessiva devozione che in lei ti preoccupa. L’essenziale è che il suo pensiero si allontani da Fili. Quanto al resto, saprà trovare da sé la giusta misura: appartiene ad una razza che ha saputo sempre non abusare delle cose migliori. « A martedì, mia cara Genoveffa. « Tuo affezionatissimo fratello

« Uberto. »

Giannina a Uberto: « Mio caro zio. Ti chiedo di essere giudice tra la mamma e me. Ella si rifiuta di darmi il “diario” del

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nonno: a sentir lei, il mio culto per lui non resisterebbe dopo averlo letto. Poiché ci tiene tanto a non colpire la cara memoria che di lui conservo, mi meraviglio che mi ripeta sempre: — Non sapresti immaginare tutto il male che dice di te. Non risparmia nemmeno il tuo fisico... — Più ancora mi meraviglia la sua premura di farmi leggere la severa lettera nella quale hai com­ mentato quel “diario”... « Per farla finita, la mamma m’ha detto che me lo darà se tu lo riterrai opportuno, e che si rimette a te. Mi appello quindi al tuo spirito di giustizia. « Permettimi di scartare senz’altro la prima obiezione che mi riguarda: per quanto, in quel documento, il non­ no possa dimostrarsi implacabile verso di me, son tut­ tavia sicura che non mi giudica peggio di quel che io non mi giudichi. Sono certa soprattutto che la sua seve­ rità risparmia l’infelice che ha vissuto per un intero autunno presso di lui, fino alla sua morte, nella casa di Calèse. « Caro zio, perdonami se ti contraddico su un punto essenziale: sono la sola che possa testimoniare quali fos­ sero diventati i sentimenti del nonno, durante le ultime settimane della sua vita. Tu denunzi la sua incerta e male intesa religione; io ti affermo che ha avuto tre colloqui (uno alla fine di ottobre e due in novembre) col curato di Calèse, la cui testimonianza non so perché ti rifiuti di raccogliere. Secondo la mamma, il diario nel quale egli riporta i più insignificanti incidenti della sua vita non parla di quei colloqui: non avrebbe omesso di farlo, tu dici, se essi avessero dato luogo ad un mu­ tamento del suo destino... Ma mamma dice anche che il diario è interrotto a metà d’una parola: non v’è dub­ bio che la morte ha sorpreso tuo padre nel momento in cui si accingeva a parlare della sua confessione. So­ sterresti inutilmente che, se fosse stato assolto, non avrebbe mancato di comunicarsi. So io quello che mi ha detto due giorni prima di morire: ossessionato dalla sua indegnità, il poveretto aveva deciso di aspettare il

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Natale. Che motivo hai per non credermi? Perché ri­ tenermi un’allucinata? Sì, due giorni prima di morire, il mercoledì, mi pare di udirlo ancora, nel salotto di Calèse, parlarmi del Natale sospirato, con voce piena d’angoscia, forse già velata... Mi diceva che il vecchio Simeone aveva potuto tenere in braccio il piccolo Bam­ bino, che lui invece lo avrebbe accolto (ricordo la sua espressione) nella paglia di un cuore ghiacciato, in una vecchia stalla ripulita appena delle sue immondizie, aperta ancora a tutti i venti dell’universo... Era felice, quella sera; una pace infinita cominciava a impossessar­ si di me, egli vedeva spuntare la sua alba... « Rassicurati, zio : non pretendo fare di lui un santo. Sono d’accordo con te che fu un uomo terribile, e tal­ volta anche orribile. Ma ciò non impedisce che una luce meravigliosa l’abbia colpito nei suoi ultimi giorni e che sia stato lui, lui solo, a prendermi, in quel momento, la testa tra le mani, ad allontanare per forza il mio sguardo... « Non credi che tuo padre sarebbe stato un altro, se anche noi avessimo agito differentemente? Non accusar­ mi di gettare la colpa su te: conosco le tue buone quali­ tà, so che il nonno si è mostrato crudele verso di te, e verso la mamma. Ma, disgraziatamente per noi, ci aveva preso per cristiani... Non protestare: dopo la sua morte, frequento persone che possono avere i loro di­ fetti, le loro debolezze, ma agiscono secondo la fede, in grazia di Dio. Se il nonno avesse vissuto in mezzo a loro, sarebbe riuscito a scoprire, dopo lunghi anni, questo Amore che non ha potuto raggiungere se non alla vigilia della morte? « Non pretendo accusare la nostra famiglia in favore del capo implacabile. Non dimentico, soprattutto, che l’esempio della mia povera nonna avrebbe potuto essere sufficiente per fargli aprire gli occhi se egli non avesse, per troppo tempo, preferito saziare il suo rancore. Ma lasciami dire perché do ragione a lui contro di noi: il nostro cuore era là dove era il tesoro; non pensavamo

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che all’eredità minacciata; non ci mancavano certo i mo­ tivi plausibili: tu eri un uomo d’affari, io una povera donna innamorata... Ciò non toglie che, tranne che in mia nonna, i nostri principi rimanessero completamente separati dalla nostra vita. I nostri pensieri, i nostri de­ sideri, le nostre azioni non si radicavano nella fede alla quale aderivamo solo a parole. Eravamo rivolti, con tut­ te le nostre forze, soltanto ai beni materiali, mentre il nonno... Mi comprenderai se ti affermerò che là dove era il suo tesoro, non v’era il suo cuore. Giurerei che su questo punto il documento, di cui mi si rifiuta la lettura, porta una testimonianza decisiva. Egli non fu né costretto, né obbligato a lasciarvi le sue ricchezze, come voi sostenete; aveva invece scoperto che il suo cuore era altrove, perché altrove viveva il suo vero te­ soro. « Spero, zio, che tu mi comprenda e attendo fiducio­ sa la tua risposta...

« Giannina. »

VITA DI GESÙ

Titolo originale: VIE DE JESUS

Traduzione di Angiolo Silvio Novaro Prima edizione: Parigi 1936 Prima edizione italiana: Milano 1937

Il Cristianesimo risiede essenzialmente nel Cristo. È meno nel­ la sua dottrina che nella sua Persona. Perciò i testi non possono distaccarsi da Lui senza perdere immediatamente il loro senso e la loro vita. Tutta la perspicacia dei critici, tutta la loro pa­ zienza, tutta la loro probità hanno potuto rendere ed hanno effettivamente reso servigi eminenti nello studio materiale dei libri nei quali la Chiesa primitiva ha compendiato la sua cre­ denza: non hanno però potuto, senza la Fede, iniziarli alla vita interiore dei testi, farne loro comprendere la continuità, il movimento e il mistero, nello Splendore della Presenza che è la loro anima. MAURICE ZUNDEL

(Le poème de la Sainte Liturgie)

Capitolo I

La notte di Nazaret

Sotto il regno di Tiberio Cesare, il legnaiuolo Jeshu, fi­ glio di Giuseppe e di Maria, abitava quella borgata, Na­ zaret, della quale non è menzione in alcuna storia e che le Scritture non nominano: alcune case scavate nel maci­ gno d'una collina, di fronte alla pianura d’Esdrelon. Le vestigia di queste grotte sussistono ancora. E una di queste celò quel fanciullo, quell’adolescente, quell’uomo, tra l’o­ peraio e la Vergine. Là egli visse trent’anni — non già in un silenzio di adorazione e d’amore: dimorava nel bel mezzo d’una tribù, fra i litigi, le gelosie, i piccoli dram­ mi d’una numerosa parentela, dei Galilei devoti, nemici dei Romani e d’Erode; e che, nell’attesa del trionfo d’Israel, salivano per le feste a Gerusalemme. Stavano dunque là dal principio della sua nascosta vita quelli che al tempo dei suoi primi miracoli pretenderan­ no che sia folle e vorranno impadronirsi di lui; quelli di cui l’Evangelo ci dà i nomi : Giacomo, Giuseppe, Simo­ ne, Giuda... Fino a qual punto si fosse reso simile a tutti i ragazzi della sua età, lo scandalo dei Nazzareni lo prova abbastanza quando per la prima volta predicò nel­ la loro sinagoga. — Non è forse il legnaiuolo, — dice­ vano essi, — il figlio di Maria? E i suoi fratelli (i suoi cugini) non sono forse qui, in mezzo a noi? — Così di lui parlava la gente del vicinato, o con la quale egli ave­ va giocato, e della quale poco dianzi ancora eseguiva le

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ordinazioni: era il falegname, uno dei due o tre falegna­ mi del borgo. E nondimeno, come tutte le botteghe di questo basso mondo, a una data ora anche quella si oscurava. La por­ ta e la finestra si chiudevano sulla strada. E tre creature rimanevano sole nella camera, intorno a una tavola ove del pane era posato. Un uomo di nome Giuseppe, una donna di nome Maria, un ragazzo di nome Jeshu. Più tardi, quando Giuseppe ebbe lasciato questo mondo, il figlio e la madre rimasero l’uno in faccia all’altra, in attesa. Che cosa si dicevano ? « Ora Maria conservava tutte queste cose dentro di sé, rivolgendole nel suo cuore. » Questo passo di Luca e quest’altro del medesimo evan­ gelista: «E sua madre conservava tutte queste cose nel suo cuore... » non provano soltanto ch’egli ha avuto da Maria tutto ciò che conosce dell’infanzia del Cristo: essi tagliano con un tratto di fuoco la tenebra di questa vita a tre, poi a due, nella bottega del carpentiere. Certo, la donna non poteva nulla dimenticare del mistero che s’era consumato nella sua carne; ma di mano in mano che gli anni lo ricoprivano senza adempiere le promesse dell’angelo annunziatore, un’altra da lei ne avrebbe for­ se distolto il pensiero, poiché in vero queste profezie erano oscure e spaventevoli. Gabriele aveva detto : « Ed ecco tu concepirai nel tuo seno e partorirai un figliuolo e gli porrai nome Gesù. Esso sarà grande, e sarà chiamato Figliuolo dell’Altissi­ mo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre. Ed egli regnerà sopra la casa di Giacobbe in eterno; e il suo regno non avrà mai fine». Ora il fanciullo era divenuto un adolescente, un gio­ vinetto, un uomo: quell’operaio galileo chino sul suo ban­ co. Non era grande; non lo chiamavano figlio dell’Altis­ simo; e non aveva trono, ma uno sgabello, accanto alla fiamma d’una misera cucina. La madre avrebbe potuto dubitare... Ora ecco la testimonianza di Luca: « Maria cu­

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stodiva queste cose e di continuo le rivolgeva nel suo cuore ». Le custodiva: non le palesava. Neppure al Figlio, for­ se... Nessun colloquio tra loro è immaginabile. Pronun­ ciavano in arameo le parole comuni della povera gente, quelle che designano gli oggetti usuali, gli arnesi, il ci­ bo. Non c’erano parole per ciò che s’era avverato in tale donna. La famiglia, in silenzio, contemplava il miste­ ro. La meditazione dei misteri incominciò là, in quel­ l’ombra di Nazaret, dove la Trinità respirava. Stando alla fontana, al lavatoio, a chi la Vergine avrebbe dato a credere ch’era vergine e aveva partorito il Messia? Ma durante quelle faccende, nulla la distrae­ va dal rivolgere nel suo cuore il suo tesoro: la saluta­ zione dell’angelo, le parole pronunciate per la prima vol­ ta: — Ben ti sia, o favorita; il Signore sia teco, bene­ detta sia tu fra le donne — parole che sarebbero ripe­ tute miliardi di volte nei secoli dei secoli, — tutto ciò l’umile Maria lo sapeva: lei che, ripiena dello Spirito Santo, aveva profetato un giorno, dinanzi a sua cugina Elisabetta: «Tutte le età mi predicheranno beata». Dopo vent’anni, dopo trent’anni, la madre del le­ gnaiuolo crede ancora che tutte le età la predicheranno beata. Si ricordava del tempo ch'era stata gravida, quel viaggio alla contrada delle montagne, in una città di Giuda. Era entrata nella casa del sacerdote Zaccaria ch’era muto, e di Elisabetta sua moglie. E il fanciullino che que­ sta vecchia donna portava nel ventre era saltato d’alle­ grezza, e Elisabetta aveva esclamato: — Benedetta sia tu fra le donne... Dopo vent’anni, dopo trent’anni, si crede ancora be­ nedetta fra tutte le donne? Nulla accade: e che potrebbe accadere a quest’operaio stremato, a quest’ebreo non più giovanissimo, che è appena capace di piallar delle assi, meditar la Scrittura, obbedire e pregare? Di tutti quelli che avevano assistito alla divina mani­ festazione fin dal principio, in quella notte, esisteva an­ cora un solo testimonio? Dov’erano i pastori? E quei sa­

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pienti, conoscitori degli astri, venuti d’ai di là del Mar Morto per adorare il Bambino? L’intera storia del mondo era parsa piegarsi ai disegni dell’Eterno. Se Cesare Au­ gusto ordinava il censimento dell’Impero e delle contra­ de sottomesse come la Palestina al tempo d’Erode, era perché una coppia prendesse la strada che va da Naza­ ret a Gerusalemme e a Betlemme, e perché Michea ave­ va profetato : «Ma tu, Betlemme d’Efrata, piccola, quan­ to al tuo grado, fra le tribù di Giuda, da te nascerà il sovrano d’Israele... ». La madre invecchiata di quest’operaio carpentiere cer­ cava nel cupo dell’ombra gli angeli che nei giorni dopo l’Annunciazione non avevano mancato di nutrir la sua vita. Erano loro che nella santa notte avevano insegnato ai pastori il cammino della grotta, e dal fondo di quelle stesse tenebre dove l’Amore tremava di freddo in una mangiatoia, promesso la pace in terra agli uomini di buo­ na volontà. Ed era pure un angelo che aveva, in sogno, comandato a Giuseppe di prendere il Fanciullo e sua madre e fuggire in Egitto la collera di Erode... Ma dopo il ritorno a Nazaret il cielo s’era di nuovo chiuso, e gli angeli erano spariti. Bisognava lasciare che il Figlio di Dio si nascondesse nella carne d’un uomo. D’anno in anno, la madre del legnaiuolo avrebbe potuto credere d’aver sognato, se non fosse rimasta continuamente alla presenza del Padre e del Figlio, volgendo e rivolgendo nel suo cuore le cose compiute. Il vecchio Simeone

Da uno solo di questi eventi, forse, ella si sforzava tal­ volta d’allontanare il pensiero. C’era stata una parola proferita nel Tempio ch’essa, in certe ore, aveva la ten­ tazione di dimenticare. Il quarantesimo giorno dalla na­ scita del bambino, erano ritornati in Gerusalemme per la purificazione di Maria e per presentare al Signore quel

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figlio maschio che gli apparteneva come tutti i primo­ geniti, e che bisognava riscattare con l'offerta di due tor­ tore. Ed ecco che un vecchio di nome Simeone, s’era pre­ so il bambino nelle braccia. E d’un colpo sussultò di gioia nello Spirito Santo e disse: — Lascia, o Signore, il tuo servitore andare in pace poiché i suoi occhi hanno visto la Salute, la luce che illuminerà le genti, la gloria d’Israele... — Ma perché il vecchio s’era d’un tratto vol­ tato verso Maria? Perché aveva profetato: — A te una spada trapasserà l’anima...? Questa parola non le era più uscita di dentro: que­ sta parola, questa spada. È entrata in lei in quel mo­ mento, e vi riman conficcata. Poiché ella ben sa che non può essere colpita che nel figlio, e che ogni pena come ogni gioia non le viene che da lui. Ecco perché ciò che sussisteva in Maria di debolezza umana si rallegrava forse di ciò: che gli anni passavano senza che si dissi­ passe l’oscurità della loro povera casa e della loro po­ vera vita. Ella pensava forse che per la salute del mondo non occorreva nulla più di questa presenza ignorata dal­ le genti, di questo seppellimento sconosciuto di un Dio nella carne, e ch’ella non aveva da temere altra spada che il dolore d’essere sola, fra le creature, testimone di quest’immenso amore.

Capitolo II

Il Fanciullo in mezzo ai dottori

Vita così comune, così uguale a tutte le vite, che Luca, il quale si vanta nel cominciamento del suo evangelo « d’essersi esattamente informato di ogni cosa fin dal principio », altro non trova da riferire circa l’adolescen­ za del Cristo, che quell’incidente occorso nel viaggio a Gerusalemme ch’egli fece a dodici anni coi genitori per la festa di Pasqua. Quando Maria e Giuseppe se ne ri­ tornavano a Nazaret, ecco, il fanciullo li aveva lasciati. Essi credettero da prima che fosse rimasto presso i loro vicini e le loro conoscenze, e camminarono senza di lui per una intera giornata. Poi l’inquietudine li prese. Avendolo invano ricercato di gruppo in gruppo, tornaro­ no sgomenti sui loro passi. Per tre giorni credettero aver­ lo perduto ed errarono attraverso Gerusalemme. Come alfine lo videro nel tempio stare in mezzo ai dottori stupiti dei suoi ragionamenti, non pensarono a condividere l’ammirazione loro, e la madre gli rivolse, per la prima volta forse, dei rimproveri: — Figlio mio, perché ci hai fatto così? Tuo padre ed io ti cercavamo assai travagliati... E per la prima volta Jeshu non dette la risposta che avrebbe dato qualsiasi altro fanciullo: non rispose col tono d’uno scolaro ordinario. Senza insolenza ma quasi non avesse età, quasi fosse al di là d’ogni età, li in­ terrogò a sua volta.

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— Perché mi cercavate? Non sapevate che mi bisogna attendere alle cose del Padre mio? Lo sapevano, senza saperlo... L’affermazione di Luca è formale: i genitori non compresero ciò che il figliuolo diceva loro. Maria, una madre come le altre madri con­ sumata da cure e inquietudini... e quale madre penetra facilmente il mistero d’una vocazione? Quale madre, a una cert’ora, non si trova smarrita davanti a questo gio­ vane essere in sviluppo che sa dove vuole andare? Ma da predestinata qual era, illuminata fin dal principio, raccoglieva nel proprio cuore ciò che la povera don­ na comprendere non poteva. Tuttavia, queste parole del figlio dovevano sonarle dure. Il suo Jeshu gliene rivolse mai delle dolci, prima dell’estrema, dall’alto della croce? Luca ci assicura che Gesù era sottomesso ai genitori: non aggiunge però che sia mai stato tenero con loro. Nessuna delle parole del Cristo a sua madre, riportate negli Evangeli (eccetto l’ultima), che non manifesti du­ ramente la sua indipendenza rispetto alla donna: quasi ch’egli si fosse valso d’essa per incarnarsi, e fosse uscito da quella carne, e nulla più di comune sussistesse tra lei e lui. A quelli che un giorno gli annunziavano: — Ec­ co, tua madre e i tuoi fratelli son là fuori e ti cercano... — rispose: — Chi è mia madre e chi sono i miei fra­ telli ? — poi riguardando in giro coloro che gli sede­ vano attorno: -— Ecco — disse — mia madre e i miei fratelli. Perché chiunque fa la volontà di Dio, esso è mio fratello, e mia sorella, e mia madre... Questo almeno è certo: il Fanciullo di dodici anni le parlava già senza dolcezza, quasi avesse voluto fissare la distanza che doveva dividerli; d’un colpo, era come un estraneo. Maria sa che così dev’essere. D’altra parte ba­ sta la pressione d’una mano, la luce d’uno sguardo, per­ ché una madre si senta amata; e questa ritrova suo Fi­ glio dentro se medesima a ogni istante: essa non è mai stata nel caso di perderlo non avendolo mai abbandonato nel proprio cuore. Il Cristo ha l’eternità per glorificare sua madre secondo la carne. Quaggiù, egli la trattava

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forse talvolta come tutt'ora fa con le spose che si pro­ mette di santificare e che dietro le loro grate, nelle loro celle, o in mezzo al mondo, sperimentano pure tutte le apparenze dell’abbandono, della desolazione, non senza custodir la certezza interiore d’essere elette e dilette. Questo Gesù che cresceva in saggezza in età e grazia, e che sua madre partendo da Gerusalemme credeva si fosse accompagnato a parenti e vicini, viveva dunque mescolato con molta gente, artigiani come lui, o lavora­ tori, vignaiuoli, pescatori del lago: gente che parlava di semenze, di pecore, di reti, di barche e di pesci; che osservava il tramonto per strologare di vento e di piog­ gia. Egli sa, da allora, che per farsi intendere dagli uo­ mini semplici gli bisogna usare parole che designino le cose che giornalmente maneggiano, raccolgono, semina­ no, mietono col sudore della propria fronte. E anche ciò che sorpassa queste cose non è compreso dalla po­ vera gente se non per via di paragone con esse e per analogia: l’acqua del pozzo, il vino, il granello di se­ nape, il fico, la pecore, un po’ di lievito, una misura di farina: non occorre altro perché i più umili comprenda­ no la Verità.

Il giovane Gesù

Un Ebreo di dodici anni è già uscito dall’infanzia. Questo Gesù che stupiva i dottori, doveva agli occhi dei Nazzareni aver l’aria di un ragazzo piissimo e versato nella conoscenza della Torà. Ma fra l’incidente del viag­ gio a Gerusalemme e la sua entrata in lizza, in pieno sole, diciotto anni passano, i più mistetiosi. Poiché l’in­ fanzia è talora così pura che il bambino Gesù è imma­ ginabile: ma il giovane Gesù? l’uomo Gesù? Come penetrare in tale notte? Egli era interamente uo­ mo, e salvo il peccato ha portato tutte quante le nostre in­ fermità, - anche la nostra giovinezza, ma non, certamente,

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questa inquietudine, quest’ardore sempre deluso, questa agitazione di cuore. A trent’anni gli basterà dire a un uomo: — Lascia ogni cosa e seguimi — perché quel­ l’uomo s’alzi e gli tenga dietro. Donne rinunzieranno ai loro piaceri per adorarlo. Gli esseri che non sono amati chiamano gli altri seduttori. Niente di tal potere sui cuo­ ri si manifestava forse ancora in quel ragazzo che pial­ lava delle assi e meditava la Torà, in mezzo a un piccolo cerchio umano d’artigiani, di contadini, di pescatori... Ma che ne sappiamo noi? Fin tanto che l’avesse coperto di cenere, il fuoco che egli era venuto ad accendere sul­ la terra non covava forse nel lume dei suoi occhi, nella sua voce? Allora forse ordinava a un giovane: — No! Non alzarti! Non seguirmi... Che si diceva di lui ? Perché il figlio del legnaiuolo non si sposava? Certamente gli era inibito dalla sua de­ vozione. La preghiera ininterrotta, sebbene non s’apra in parole, crea intorno ai santi un’atmosfera di raccoglimen­ to e d'adorazione. Noi tutti abbiamo conosciuto degli esseri che, occupati in opere ordinarie, rimanevano in­ cessantemente in presenza di Dio, - e i più vili li rispet­ tavano, nel sentimento oscuro di tale presenza. In verità, colui al quale un giorno vento e mare avreb­ bero ubbidito, aveva pure il potere di stendere una gran pace nei cuori. Aveva il potere d’impedire alle donne di sentirsi turbate nel vederlo; e placava le tempeste inci­ pienti perché non sarebbe stato il Figlio di Dio che in lui avrebbero adorato, ma un fanciullo tra i figli degli uomini.

Capitolo III

Fine della vita occulta Il rumore sollevato dalla predicazione di Giovanni Bat­ tista giunse a Nazaret. Se esisteva, nel quindicesimo an­ no del regno di Tiberio, un angolo ove gli uomini co­ noscessero ciò che il Dio unico attende, esige da ciascu­ no di noi in particolare: non sacrifici, né olocausti, ma la purità interiore, la contrizione del cuore, l’umiltà, l’amor dei poveri, - era in quella Galilea soggetta a Erode Antipa, il tetrarca; presso quel popolo disprezzato dai Romani e dai Greci. Atene e Roma s’erano spinte quan­ to più lontano era possibile sulla via della dominazio­ ne, della conoscenza e del piacere. Qui, questo piccolo popolo s’inoltrava nella direzione opposta, voltava la schiena a quella ricerca della potenza, dell’appagamento e della sazietà. Sulle sponde del Mar Morto, gli Esseni vivevano in astinenza e castità, unicamente solleciti del­ la propria anima. Noi immaginiamo, nella bottega di Nazaret, quest’uo­ mo teso a spiar l’ora sua che s’avvicina. Forse Maria gli parlava di Giovanni, del figlio della cugina Elisabetta, e di quella misteriosa nascita: Zaccaria, il sacerdote, e sua moglie Elisabetta, ch’era sterile, erano già vecchi. A Zac­ caria, mentre stava solo, offrendo l’incenso, e tutto il po­ polo attendeva nel vestibolo, fu rivelato che un bambino maschio gli sarebbe nato, che sarebbe stato ripieno dello Spirito Santo. Poi che Zaccaria aveva dubitato un istan-

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te del miracolo, era rimasto muto fino a che l’evento si compiesse e che la vecchia Elisabetta avesse partorito un figliuolo; allora, contro il parere dei vicini, il padre ave­ va scritto sopra una tavoletta: — Giovanni è il suo no­ me —. E tosto la sua lingua s’era sciolta. Maria si ram­ mentava della visita fatta sei mesi dopo a sua cugina. Ma il cantico che ella aveva cantato dalla soglia, non le risaliva dal cuore, dopo tanti anni: La mia anima magni­ fica il Signore e lo spirito mio esulta di gioia in Dio mio Salvatore — poiché egli ha riguardato alla bassezza della sua servente — poiché, ecco, d’ora innanzi tutte le età mi predicheranno beata... No, il silenzio delle ultime ore della vita occulta non poteva essere turbato dall’inno della gioia. Maria comprendeva che il tempo era giunto: la spada già si moveva un poco. Poiché quel Battista, di cui si narra ch’è vestito di pel di cammello, che porta una cintura di cuoio intorno ai lombi e il suo cibo sono locuste e miele selvatico, non si contenta di predicare, né di battezzare con l’acqua: egli annunzia l’imminente arrivo d’uno sconosciuto: ■— E io non sono degno di sciogliere, chinandomi, il correggiolo delle sue scarpe... Io vi ho battezzato con l’acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo... Vi è qualcuno in mezzo a voi che voi non conoscete... I pubblicani, i soldati, il popolo minuto gli ponevano delle domande: — Che dobbiamo fare? — Egli rispon­ deva ai gabellieri: — Non riscotete nulla più di ciò che vi è ordinato —. E ai soldati: — Astenetevi da qualsiasi violenza —. E senza dubbio quei cuori ardenti erano de­ lusi, essi che attendevano senza saperlo la risposta inau­ dita che un altro farebbe loro tra poco: — Se volete essere perfetti, lasciate ogni cosa, e seguitemi. Giovanni Battista parlava di quello sconosciuto aper­ tamente: — Ecco viene colui ch’è più forte di me. Egli ha la ventola in mano e netterà il suo granaio, e brucerà la paglia in un fuoco inestinguibile. Ultimi giorni della vita occulta. L’operaio non è già più un operaio: respinge tutte le ordinazioni, e la bot­

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tega prende un aspetto desolato. Sempre egli ha prega­ to, ma ora giorno e notte Maria lo sorprende con la faccia contro la terra. L’impazienza che ogni cosa si compia, e che egli spesso manifesterà durante quella ascesa al Calvario di tre anni, forse già lo preme. Ah, che non vede l’ora di sentir scoppiettare i primi fuscelli dell’incendio che ha la missione di suscitare ! Fino a questo momento il Dio si è talmente annichilito nell’uo­ mo, che la stessa madre sua, pur iniziata al mistero, lo dimenticava; si riposava del peso di quella conoscenza opprimente: era il suo figliuolo, come tutti i figliuoli, ch’ella baciava in fronte, che guardava dormire; un gio­ vinetto di cui rammendava la tunica; egli si guadagnava il suo pane, si metteva a tavola per prendere il suo cibo, parlava coi vicini: né mancavano artigiani religiosi come lui e versati nelle Scritture. Egli è bene lo stess’uomo, non c’è dubbio, che negli ultimi giorni si accosta al­ l’uscio, ascolta senza nulla dire ciò che le turbe raccon­ tano: lo sguardo fisso al di là, attento a quél rumore che d’ogni parte si leva riguardo a Giovanni. Ma già un potere in lui si manifesta del quale sua madre sola è te­ stimonio. Sì, un uomo, o .meglio « l’uomo », ciò ch’espri­ me questa misteriosa denominazione « il Figlio del­ l’uomo ». Già è lontano di qui; votato del tutto a ciò che ama, a quest’umanità che bisognerà conquistare — e contro qual nemico! Quando pensa ai suoi nemici, Gesù non immagina i Farisei, i sommi sacerdoti, i soldati che lo percoteranno sul volto... Abbiamo il coraggio di guar­ dare in faccia questa verità: egli conosce il suo avver­ sario. Il suo avversario ha parecchi nomi in tutte le lingue. Gesù è la luce venuta in un mondo ch’è preda alla potenza delle tenebre. Il demonio è il padrone ap­ parente dell’universo in questa quindicesima annata del governo di Tiberio. Egli inventa per Cesare, a Capri, quegli immondi sollazzi di cui Svetonio parla. Si serve

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degli dei per corrompere gli uomini, si sostituisce agli dei, divinizza il delitto, è il re del mondo. Gesù lo conosce, ma lui ancora non conosce Gesù: non l'avrebbe indotto in tentazione se conosciuto l’avesse. Semplicemente, gira intorno alla più candida e santa anima di cui abbia mai tentato l’approdo. Ma qual santo non è fallibile? È questo, che rassicura il Maledetto. L’orgoglio, che ha perduto lui stesso, si ostenta su tanti visi che si credono angelici ! A questo punto di sua vita il Figlio dell’uomo è il gladiatore nascosto in oscurità, ma prossimo a lanciarsi nel circo abbacinante, il reziario che la fiera aspetta e paventa. — Io vedevo — doveva gridare il Cristo in un giorno d’esultanza — io vedevo Satana cader dal cielo come la folgore. — È forse durante queste ultime ore di vita occulta ch’egli ebbe la visione di quella caduta. Vedeva forse anche (e come non avrebbe visto?) che l’Arcangelo vinto si tirerebbe dietro quei milioni d’ani­ me più numerose e folte dei fiocchi d’una tempesta di neve? Prese un mantello, allacciò i suoi sandali, e disse a sua madre una parola d’addio che non sarà mai co­ nosciuta.

Capitolo IV

Il battesimo di Gesù

Si affretta verso la Giudea, s’inoltra in quella regione del Giordano, presso Betania, dove i suoi primi amici l’at­ tendono, e che non è la stessa Betania dove, un po’ pri­ ma dell’ora delle tenebre, gli amici ultimi l'adoreranno. Viaggia solo o accompagnato da altri Nazzareni che il battesimo di Giovanni attira? Ben conosceva nel suo cuore quei discepoli del Battista, venuti da Betsaida a Betania, e ch’egli avrebbe tolti al Precursore; e tra loro, il prediletto: quel figlio di Zebedeo... Ma prima Gio­ vanni Battista è solo quando Gesù gli s’avvicina; non lo conosce ancora. È soltanto più tardi che esclamerà: — Ec­ co l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato dal mon­ do —. Gesù viene a sottoporsi al rito battesimale come ogni altro devoto israelita, quasi avesse delle macchie da lavare. Bene occorreva che il Figlio dell’uomo facesse un primo gesto, ch’egli emergesse al disopra di quel­ l’umanità nella quale stava da trent’anni più sepolto del seme nell’argilla, più nascosto che non è ora nell’Euca­ ristia. Ma non gli conviene di montar sopra un paracarro e gridare: — Io sono il Cristo, il Figliuol di Dio —. Si spoglia dei suoi vestimenti per entrar nell’acqua, no­ nostante il diniego di Giovanni a cui deve far violenza. Allora lo Spirito Io ricopre visibilmente con l'ombra dell’ali che fremettero trent’anni prima sulla Vergine perché partorisse. Giovanni Battista ode una voce (altri

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forse l’intesero): — Tu sei il mio diletto... — Il Figlio dell’uomo si ritrae allora nella solitudine dove il demo­ nio gironzola per molestare il formidabile sconosciuto.

La prima chiamata Dopo quaranta giorni di digiuno e contemplazione, eccolo ritornato al luogo del battesimo. Sapeva in anti­ cipo per quale incontro: «L’agnello di Dio!» dice il profeta vedendolo avvicinarsi (e certo sottovoce...). Que­ sta volta due dei suoi discepoli erano con lui. Guarda­ rono Gesù, e quello sguardo bastò: lo seguirono fino al luogo dov’egli dimorava. L’uno dei due era Andrea, il fratello di Simone; l’altro, Giovanni, figlio di Zebedeo: « Gesù avendolo guardato, l’amò... ». Ciò che è scritto intorno al giovane ricco che doveva allontanarsi triste, è qui sottinteso. Che fece Gesù per trattenerli? «Veden­ do che lo seguivano, disse loro : — Che cercate ? — Ed essi risposero: — Rabbi, dove dimori? — Ed egli: — Ve­ nite e vedrete —. Essi andarono e videro dov’egli dimo­ rava, e rimasero presso di lui quel giorno. Ora era in­ torno le dieci ore. » Testo commovente come nessuna diretta parola del Cristo. Il luogo ove dimora? Il deserto popolato di pietre che Satana lo incita a trasformare in pani. Ciò che si scambia in questo primo incontro, in quest’alba di Betania, è il segreto d’amore non umano - inesprimibile. E già il fuoco acceso si propaga, salta d’albero in albero, d’anima in anima. Andrea avverte suo fratello che ha trovato il Cristo, e conduce nel deserto Simone che da quel giorno Gesù chiama Cefa. Il giorno dopo l’incendio si dilata, guadagna ancora Filippo, un uomo di Betsaida, com’erano Andrea e Pie­ tro. La parola e il gesto che li avvincono al Cristo non rimangono ignoti. Ma la fiamma passa da Filippo a Natanaele. Quest’altro albero non brucia subito perché Natanaele è versato nella Scrittura e protesta che da Na­

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zaret non può uscir nulla di buono. L’amico suo gli risponde semplicemente: — Vieni e vedi. Bastava a un’anima predestinata veder Gesù per ri­ conoscerlo? No, Gesù le faceva un cenno; e quello che fa a Natanaele è lo stesso che tra poco convincerà la donna di Samaria. — Come mi conosci tu? — aveva domandato Natanaele con un moto di diffidenza. — Pri­ ma che Filippo ti chiamasse mentre stavi sotto il fico ti ho visto. — Natanaele rispose subito: — Tu sei il Figlio di Dio. Poco importa che l’opera segretissima, compiuta sotto il fico, non sia stata rivelata. Ciò che Natanaele scopre è che il profondo del proprio essere è posseduto da quel­ l’uomo; egli si sente aperto dinanzi a lui come oggi anco­ ra l’ultimo di noi prosternato nella confessione delle pro­ prie colpe o teso il viso verso l’ostia. Codesto cenno che abbatte faccia a terra gli esseri semplici e senza artifizio, a chi non l’ha il Cristo durante la sua vita mortale pro­ digato? Poiché egli risponderà ai più segreti pensieri degli scribi e dei Farisei; ma essi ben lungi dal battersi il petto, non ci vedranno che un’astuzia di Belzebù. Più che la loro incredulità, la fede dell’umile Natanaele stupisce il Cristo del quale immaginiamo il sorriso, men­ tre gli dice: — Perché t’ho detto che t’ho visto sotto il fico, tu credi! Ma vedrai cose più grandi...

Forse, quand’ebbe luogo quell’incontro con Natanaele, Gesù aveva già lasciato il deserto, dove durante quaran­ ta giorni aveva digiunato e sostenuto gli assalti del Prin­ cipe immondo. Risalendo il Giordano per Archelaide e Scitopoli, aveva raggiunto il lago di Tiberiade e quella Betsaida, patria dei discepoli poco fa rapiti a Giovanni. Non che l’ora dell’abbandono totale fosse già sonata per essi: le loro reti e barche li riterranno un po’ di tempo ancora: questa non è che una prima chiamata. Nulla ci rischiara circa i sentimenti del Precursore abbandonato, salvo forse una certa ostilità che presto si manifesterà nel cerchio dei seguaci di Giovanni rispetto

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ai discepoli di Gesù. Ma il Figlio dell’uomo che soprav­ viene come un ladro, non volta il capo verso quelli che lascia alla loro solitudine dopo aver loro portato via una carissima anima. La sua grazia opera nel segreto dei cuori ch’egli ha defraudati d’un figlio, d’una figlia; le sue consolazioni affluiscono per altre vie da quelle che ci sono familiari. Nulla gli è più estraneo delle pro­ teste, delle scuse, delle lacrime: attraverso secoli d’illan­ guidimento bisogna raggiungere quest’uomo ebreo dol­ cemente implacabile che è venuto per separare, come afferma egli stesso e che ci si accanisce già dal primo passo, con (apparentemente) una indifferenza di Dio per quel Penitente, quel Battista a cui ruba i migliori compa­ gni. Tra poco lo griderà su i tetti: non la pace egli porta, ■ma la spada. Egli esige che lo si preferisca ai congiunti più stretti, e persino a un maestro come il Precursore. E che questi siano lasciati per venir dietro a lui.

Capitolo V

Cana

È questo Gesù, pallido ancora per il digiuno e la zuffa con l’arcangelo, che camminava lungo il Giordano e raggiungeva il lago di Tiberiade coi suoi nuovi amici. E uno di loro era Giovanni, figlio di Zebedeo, già diletto su tutti gli altri; poi Andrea, Simon Pietro, Natanaele (detto pure Bartolomeo). Ciascuno d’essi vide per la prima volta questo dramma che il Cristo ha introdotto nel mondo e che si recita oggi ancora dappertutto ove il nome di Gesù è glorificato: la vocazione, la chiamata, il dibattito dei poveri uomini impegnati in piena vita, soffocati da mille impedimenti, trattenuti soprattutto da quei legami del sangue che incatenano il cuore, e con­ dannati a una meravigliosa purità. Ma sulla sponda del lago, questi uomini hanno la fortuna d’essere soli col Cristo. Nessuno, fra loro e il Maestro che li attira, si sostituisce alla Grazia. Gesù non li sollecita; li lascia per qualche tempo alle loro famiglie, al loro mestiere. Egli stesso torna a veder sua madre nella casa di Nazaret. Si ritroveranno tutti a Cana, in Galilea, dove sono invitati a nozze. San Giovan­ ni precisa che il Cristo vi si recò coi suoi discepoli. Ma poiché durante il convito Gesù disse a Maria : « La mia ora non è ancora giunta », bisogna collocare questa festa dopo il ritorno in Galilea, un po’ prima che gli apostoli avessero tutto abbandonato per seguitarlo.

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Il primo miracolo fu compiuto in una solennità del­ l’unione carnale, in mezzo a un festino così allegro che il vino mancò ed egli dovette trasformar l’acqua di sei urne di pietra destinate alle abluzioni. « Egli manifestò la sua gloria » scrive San Giovanni, « e i suoi discepoli credettero in lui. » Era dunque per loro ch’egli compiva quell’atto, per apparecchiarli a ri­ spondere col dono totale a una seconda chiamata. Era perciò che Maria lo pregava: ■— Non hanno vino... — e che malgrado parole un po’ dure egli tradiva la sua debolezza divina verso la Madre. Già il suo partito è preso, di varcare tutte le soglie, sedere a tutte le mense: poiché è per i peccatori ch’egli è venuto, per quelli che si perdono. Lo scandalo comincia da Cana, e durerà fino a Befa­ nia, fino all’estrema unzione. Quest’uomo che si dice figlio di Dio si mescolerà ogni giorno con dei pubbli­ cani, con delle cortigiane, dei dissoluti, con la feccia. A Cana, c’è gente felice che non si priva del piacere di scherzare e di ridere. Il capo del festino interpella lo sposo: — Ognuno — gli grida — beve da prima il buon vino, e, dopo che si è molto bevuto, il meno buo­ no; ma tu hai custodito il buon vino fino ad ora —. Im­ possibile dubitare che le sei urne di pietra non abbiano accresciuta l’allegrezza d’una comitiva già abbondante­ mente abbeverata. Più d’un astinente poneva forse al Cristo l’ipocrita domanda che rispunterà così spesso nei discorsi dei Farisei: — I discepoli di Giovanni digiuna­ no: perché i tuoi no? — Ma egli sorride e tace perché la sua ora non è ancora venuta. Frattanto, come gli era stato annunciato, Natanaele era testimonio d’un pro­ digio più sorprendente di quello che l’aveva abbagliato a Betania: cosa non può fare ormai il Figlio dell’uo­ mo? Il giorno ch’egli affermerà che il vino è il suo san­ gue e il pane è la sua carne, quelli che furono a Cana non stenteranno a credere. Codesto primo miracolo, in apparenza il meno « spirituale » di tutti, li istrada a loro insaputa, li inizia all’inimmaginabile mistero.

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Ld chiamata definitiva

Gesù, seguito dai suoi, si recò a Cafarnao, sulla riva del lago dove Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni ri­ trovarono le loro barche e le loro nasse. Non li lasciò che per un po’ di tempo : non gli sfuggirono più. A noi sem­ bra naturalissimo, tante volte abbiamo letto questo rac­ conto, che Gesù andando lungo la riva del lago e ve­ dendo i suoi amici gettar le reti, non abbia avuto biso­ gno che d’una parola: — Venite dietro a me, e vi farò pescatori d’uomini — perché senza volgere il capo essi piantassero ogni cosa e lo seguissero. In verità, ciò non fu senza aver loro dato un nuovo segno del suo potere, scelto fra tutto quanto prometteva più sicuramente di colpire quei semplici spiriti. S’era da prima fatto prestar la loro barca, per liberarsi dalla gente che lo stringeva troppo da presso. Simone aveva remato un poco, e Gesù, seduto a poppa, parlava alla folla addensata sulla riva, a una folla certamente appassionata, poiché egli già di­ suniva gli animi : a Nazaret, nella sinagoga (dove come ogni devoto ebreo egli aveva diritto di parlare) le sue interpretazioni delle profezie avevano irritato la gente che l’aveva visto nascere e presso la quale il carpentiere Jeshu non incuteva troppo rispetto, malgrado tutte le guarigioni che si cominciava ad attribuirgli. Egli aveva portato al colmo la loro irritazione dando loro a cre­ dere che i Gentili sarebbero loro preferiti, e non s’era sottratto che per miracolo al loro furore. Ora non ci si arrischierà più solo: eccolo nella barca con Simone e i figli di Zebedeo. Dopo Betania, quei barcaiuoli sanno ch’egli conosce la vita intima di ognu­ no: coi propri occhi hanno visto il prodigio di Cana, Gesù ha guarito d’una febbre la suocera di Simone; non gli rimane che prenderli in ciò che per loro più conta, pescare tanti pesci quanti uno vuole: codesto sì, devono ben sapere che è sovrumano ! Ed ecco che Simone è costretto a chiamare in aiuto Giacomo e Giovanni per

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tirar le reti. Le due barche affondavano, tanto erano piene di pesci. Allora Cefa cadde in ginocchio. Ed è ancora oggi il segno che Dio è presente, quando noi vediamo le nostre sozzurre in tutto il loro orrore. — Si­ gnore, discostati da me, perché io sono un peccatore. — La risposta di Gesù, come molte delle sue parole, rac­ chiude una profezia che si avvera ancora sotto i nostri occhi. — D'ora innanzi tu sarai pescatore d’uomini vivi. Pure, l'uno d’essi almeno, Simone, era ammogliato. E quando la chiamata decisiva li coglie, Giacomo e Gio­ vanni non abbandonano soltanto la loro barca, ma anche il padre loro, Zebedeo. L’abbandonano « coi mercenari », precisa l’evangelista, per mettere l’accento su l'orrore di questo abbandono. — Se qualcuno viene a me — doveva ripetere Gesù un giorno con una singolare violenza — e non odia suo padre e sua madre, la sua moglie e i suoi figli, i suoi fratelli e sorelle, e persino la propria vita, non può essere mio discepolo. — Giammai egli aveva così duramente manifestato il deliberato proposito di urtar la natura. Tale inaudita esigenza non è tuttavia il punto d’arrivo, ma il punto di partenza di qualsiasi san­ tificazione. No, non è per niente che questo Cristo tanto amato è stato così violentemente odiato. Quale ingenuità scandalizzarsi perché molti di quelli che hanno visto il Cristo nella carne, non han potuto adorarlo! Molti at­ tenuano la forza delle sue più aspre parole qualificandole iperboliche; tutti gli orientali hanno un linguaggio ec­ cessivo. E nondimeno: — Questa parola è dura — bor­ bottavano i Giudei — e chi potrebbe ascoltarla? — Essa irritava dunque anche dei semiti abituati all’iperbole. E suona ancora sempre talmente cruda, talmente odiosa. L’amore assoluto respinge i mediocri, urta la falsa ari­ stocrazia, disgusta i delicati. E senza dubbio i suoi ne­ mici lo odierebbero assai più che non facciano (ed anche i suoi pretesi amici!) se non sostituissero l’insipido e melato Rabbi di tipo corrente, all’uomo che ha realmen­ te vissuto, e che ha manifestato un carattere « intero »

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nel senso metafisico: letteralmente implacabile. È la loro ignoranza, oggigiorno, che distoglie molti dal detestare il Cristo. Se lo conoscessero, non lo sopporterebbero. Gesù ha talmente pesato le sue parole, che ci ammo­ nisce di provar bene le nostre forze prima di lanciarci dietro a lui: — Perché — dice — chi di voi, se intende costruire una torre, non si raccoglie prima per calcolare la spesa necessaria e vedere se ha quanto gli occorre per terminarla? nel timore che dopo gittate le fondamenta dell’edificio non gli riesca di condurlo a fine, e che tutti quelli che lo rivedranno si facciano beffe di lui, dicen­ do: quell'uomo ha cominciato a costruire e non ha po­ tuto terminare... — È la storia di tutte le false partenze alla volta di Dio: è così dolce convertirsi, essere perdo­ nati! Ma il Cristo ci invita egli stesso a misurar prima le nostre forze, ben sapendo a che ci trae, e che non è per celia che ci ha amati.

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Capitolo VI

I cambiatori scacciati dal tempio

Dopo un breve soggiorno a Cafarnao, dove il demonio lo denunciava a tutti per bocca degli ossessi, dove i ma­ lati lo vessavano, salì a Gerusalemme, poiché era la Pa­ squa, e il tempo dei grandi sacrifici: i mercanti condu­ cevano nel vestibolo del tempio dei branchi di buoi e di pecore per i ricchi. Altri vendevano le colombe che i poveri offrivano. I cambiatori stavano a disposizione di quelli che necessitavano del loro ufficio. Che di più naturale? E che v’è in ciò di scandaloso? « dal momento che si fa per il buon Dio... ». Piccola frase di sempre. Ed ecco che d’un tratto scattò un furioso armato di fru­ sta — non d’una frusta da bambini, ma fatta di corde. I suoi discepoli allibiti si guardavano bene dall’imitarlo. Egli scaccia il bestiame, rovescia le tavole, grida : — Via tutto questo! Non fate della casa di mio Padre un mer­ cato ! — Quale scandalo ! Tutti quei vili scappano in coda alle loro bestie. I suoi.amici stessi non sapevano che era l’Amore. Come avrebbero riconosciuto in quella esplosione l’amore del Figlio per il Padre? Si fermò ansante, furioso in volto e grondante di su­ dore. I Giudei borbottavano: — Che segno ci mostri per agire in tal modo ? — Gesù li guardava. Avrebbe potuto compiere sotto i loro occhi tutto ciò che avessero voluto, guarire tutti gl’infermi che si trovavano lì e ch’egli atti­

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rava d’ogni dove e lo molestavano come mosche. Certo l’avrebbe fatto, se uno di quegli sciancati fosse uscito dalla folla e avesse osato di supplicarlo: ma tutti quanti tremavano davanti ai dottori della legge - anche davanti a lui, forse, che ancora freme con nel pugno chiuso quel fascio di corde. Allora si volta verso i suoi avversari, Farisei, dottori, sacerdoti. Sorride leggermente e dice: — Distruggete questo tempio: in tre giorni io lo riedificherò —. Final­ mente ! eccolo preso in flagrante delitto d’irriverenza e d’impostura. Quest’uomo si fa grossolanamente beffe di loro, essi pensano. Gesù parlava del tempio del proprio corpo. Ma, fossero pure stati in buona fede, chi dei suoi interlocutori avrebbe potuto comprenderlo? Il Cristo li fuorvia forse di proposito ? Egli non può desiderare che udendo non comprendano, e che vedendo non vedano. Li acceca perché han meritato le tenebre. Han meritato le tenebre perché avrebbero potuto non esser ciechi. « Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedifi­ cherò!» I dottori, i Farisei, i difensori della lettera si scambiano delle occhiate e gioiscono. Due di loro raccol­ gono nella memoria quell’odiosa parola: se la ricorde­ ranno nel giorno della giustizia, di lì a tre anni, quando il Figlio dell’uomo sarà loro dato nelle mani, finalmente, e che stretti intorno al sommo sacerdote cercheranno una testimonianza contro l’impostore. Forse Gesù, mentre ancora serrava nel suo pugno la frusta di corde, leggeva il momento della sua vita avvenire quando quei due ver­ rebbero ad accusarlo: — Quest’uomo ha detto che po­ teva distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni -—. Forse già nel suo cuore ode la domanda del sommo sa­ cerdote: — Non rispondi nulla a ciò che questi uomini depongono contro di te?

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Nicodemo

Ma l’ora delle tenebre ancora non ha sonato. Tra i Farisei che circondano il Figlio dell’uomo non tutti sono volpi. Non basta essere fariseo per attirarsi il suo odio. Uno di essi, membro del Gran Consiglio, dottore in Israel, era turbato per ciò che udiva e vedeva. Avrebbe voluto intrattenersi con quello sconosciuto. Senonché, c’erano i suoi colleghi, la sua carriera... Un’anima diritta, senza dubbio, questo Nicodemo; ma d’altro ceto da quei pescatori galilei che, seguitando il loro Maestro, non avevano altro da perdere che una vecchia barca sdruscita e delle reti rammendate. Un dottore in Israel è ob­ bligato a maggior prudenza che non il popolo minuto. La prudenza è una virtù, e non conviene dare scandalo quando si occupa una posizione eminente. E nondimeno Nicodemo non può resistere a quella tentazione, a quella attrazione. Non è il meno importan­ te miracolo di Gesù, questo, di turbare un tale uomo « arrivato ». Nel cuor della notte (simile a quelli che vanno a far la loro Pasqua in segreto, in una città lon­ tana), il gran personaggio raggiunge Gesù che non lo respinge. E magari, poiché egli è dottore in Israel, pen­ sa che il vero gli verrà rivelato in profondità. Qui si palesa quella specie d’inintelligenza propria dei filosofi di professione: il Figlio dell’uomo si trova sullo stesso piano dei pescatori, dei pubblicani, delle don­ ne perdute... Ma l’erudito Nicodemo lo sconcerta con l’ingenuità della sua logica. — Come si può rinascere una seconda volta? Bisognerà entrar di nuovo nel seno della propria madre? — obietta il sapiente a Colui che gli porge il segreto d’ogni vita spirituale: morire nella carne per rinascere secondo lo spirito. Prudentemente, Nicodemo si ritira prima dell’alba. Ma se ne va dal lato della luce. Timido e fiacco per na­ tura, conservatore d’una posizione raggiunta, il suo cuore non era però meno scosso. La Grazia lo lavorerebbe len­

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tamente nel corso di quegli anni, fino al giorno in cui, debolmente, egli oserebbe prendere la difesa del Naz­ zareno, in pieno Consiglio, — fino a quell’ora delle te­ nebre nella quale alfine si scoprirebbe: e i profumi che Maddalena doveva spargere ai piedi del Signore vivente, li spargerebbe egli senza più nulla temere dai Giudei, sul cadavere lacerato del suo Dio. E già Gesù respirava, mentre Nicodemo era presente, nel segreto della notte, un odore di mirra e daloe.

Capitolo VII

La samaritana

In quei giorni, delle divergenze sorsero fra i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù. Giovanni battezzava pres­ so Salim. Gesù non battezzava egli stesso, ma non vie­ tava ai suoi discepoli di farlo; ed essi attiravano più gente che il Battista. Questi s’ingegnava di placare i suoi con delle parole sublimi: — Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ode, gioisce grandemente della voce dello sposo. Quest’alle­ grezza è la mia... Conviene che egli cresca e io dimi­ nuisca. È nondimeno il Figlio dell’uomo che gli lascia libero il campo. Gesù per ridursi in Galilea avrebbe potuto seguire il Giordano come nell’ultimo suo ritorno e come fanno tutti i Giudei preoccupati d’evitare la Samaria, regione disprezzata e maledetta da quando dei coloni assiri vi avevano introdotti i loro idoli. I samaritani avevan fatto peggio: avevano accolto un sacerdote ribelle, cacciato da Gerusalemme, e costui aveva eretto un altare sul monte Garizim. Se Gesù seguiva questa strada, a traverso le messi di Samaria, era per incontrare un’anima, non certo meno macchiata né meglio disposta di tante altre; per lei, per­ tanto, e non per un'altra egli si addentrava in territorio nemico. La prima venuta, alla lettera, la prima in cui si imbatterebbe, e della quale si servirebbe per conquistarne

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molte altre. Spossato, siede su l’orlo del pozzo che Gia­ cobbe ha scavato, un po’ prima di arrivare alla piccola città di Sichar. I suoi discepoli sono andati a comprar del pane, e aspetta che ritornino. La prima anima venuta... Accade che è una donna. Gesù avrebbe avuto più d’una ragione per non rivol­ gerle la parola. Anzitutto non sta bene che un uomo parli sulla strada a una donna. E poi, egli è ebreo, e lei samaritana. E infine, lui che conosce i cuori e pure i corpi, non ignora chi è quella graziosa creatura. Era l’Uomo-Dio che alzava gli occhi verso quella femmina. Lui, la Purità infinita, che non ha avuto biso­ gno di uccidere il desiderio sotto la sua forma bassa e triste, non è meno il desiderio incarnato. Egli vuole l’anima di quella donna con violenza. La vuole con quella avidità che non tollera né attesa né dilazione, im­ mediatamente, nel medesimo istante e nel medesimo luogo. Il Figlio dell’uomo esige il possesso di quella crea­ tura. Ella ha un bell’essere ciò che è: una concubina, una donna che si è trascinata e voltolata per terra, che sei uomini hanno stretta nelle braccia, e colui che ora la possiede e con lei si gode non è suo marito. Gesù prende ciò che trova, raccoglie qualsiasi cosa, purché il suo regno arrivi. La guarda, e decide che oggi stesso ella si impadronirà di Sichar in suo nome e fonderà in Sa­ maria il regno di Dio. Un’intera notte gli è toccato fa­ ticare per catechizzare un dottore della Legge, per far­ gli intendere che cosa significa morire e rinascere. La donna dei sei mariti capirà a tutta prima ciò che il teo­ logo non ha afferrato. Gesù la squadra: egli non ha quel soprassalto, quella contrazione dei virtuosi dinanzi a una ragazza la cui massima occupazione è l’amore. Ma nemmeno indulgenza, né connivenza. È un’anima, la pri­ ma venuta, della quale si serve. Una freccia di sole at­ traversa un rottame, tra le immondizie, e la fiamma sca­ turisce, e tutta la foresta s’incendia. La sesta ora. Fa caldo. La donna si sente chiamare.

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Quel giudeo le rivolge la parola? Ma sì! -—- Dammi da bere — ha detto. Immediatamente, civettuola e beffarda, risponde a quello sconosciuto in sudore. -— Come? Domandi da bere a me che sono sama­ ritana ? — Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli t’avrebbe dato dell'acqua viva. Il Cristo brucia le tappe; questa parola è incompren­ sibile per la samaritana; ma egli è già penetrato come un ladro in quell’anima buia. Ciò che ella doveva pro­ vare era d’essere investita da ogni parte, e che lo sco­ nosciuto di cui vedeva il viso molle di sudore e i cui piedi erano grigi di polvere, la occupava nell’intimo, la invadeva: e che quell’onda vivente era irresistibile. In­ terdetta, cessava di beffeggiare, e come tutte le donne si abbandonava subito a delle domande infantili. -— Signore, tu non hai nulla per attingere, e il pozzo è profondo. Onde adunque avresti questa acqua viva? Sei forse maggiore del nostro padre Giacobbe che ci diede questo pozzo, e ne bevve egli stesso, e i suoi fi­ gliuoli e il suo bestiame? Gesù non ha tempo da perdere: con un impaziente spintone la immerge in piena verità. Dice: — Chiunque beve di codest'acqua avrà ancora sete. Ma chi berrà dell’acqua ch’io gli darò, non avrà giam­ mai sete in eterno. E l’acqua ch’io gli darò diverrà in lui una fonte d’acqua zampillante in vita eterna. Ogni parola del Signore dev’essere presa alla lettera... Gli è che molti hanno creduto essersi inebriati di quel­ l’acqua, e si sono ingannati, e non era quella di cui par­ la Gesù; poi che, avendo bevuto, hanno ancora sete. Nondimeno la donna rispose: — Signore, dammi di codest’acqua acciocché io non abbia più sete e non venga più qui ad attingere. — Va’, chiama tuo marito, e vieni qua. Sempre lo stesso sistema per convincere i semplici: quello di cui s’è servito con Natanaele, quando gli aveva

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detto: — Ti ho visto sotto il fico -—. Rivelava loro d'un tratto la conoscenza ch’egli aveva della loro vita, o me­ glio il suo potere d’insediarsi in loro, di stabilirsi nel cuore dell’essere; ed è perciò che, quando la samaritana gli ebbe risposto: — Io non ho marito, — egli replicò: — Bene tu hai detto: non ho marito. Perché tu hai avuto cinque mariti, e quello che ora hai non è tuo ma­ rito: questo hai detto con verità. La donna non apparteneva alla stirpe regale di Natanaele e di Simone, di quelli che subito cadono in gi­ nocchio picchiandosi il petto. Non è anzitutto che una colpevole presa in flagrante delitto e che, per istornare l’attenzione di questo Rabbi troppo chiaroveggente, por­ ta il dibattito sul piano teologico. Dopo aver balbettato: — Signore, io vedo che tu sei un profeta... — aggiunge precipitosamente: — I nostri padri hanno adorato su questo monte, e tu, tu dici che è a Gerusalemme che conviene adorare... Gesù non si lascia trascinare: rimuove l’obiezione con qualche parola... Ma il tempo stringe: laggiù i discepoli stanno venendo con le provviste. Egli li sente parlare e ridere. Conviene che il tutto si adempia fuori della loro presenza. La verità sarà dunque aperta in un tratto a quella poveraccia. — L’ora viene, e già è venuta, che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Sono questi gli adoratori che il Padre richiede. Iddio è spirito, e coloro che l’adorano conviene che l’adorino in spirito e verità. E la samaritana: — Io so che il Messia ha da venire e ch’egli annun­ zierà ogni cosa. I passi dei discepoli risonano già sul sentiero. Per rivelare il segreto che ancora non ha confidato a nessuno, Gesù sceglie quella donna che ha avuto cinque mariti e oggi ha un amante : — Io lo sono, io che ti parlo. E in pari tempo, una grazia di luce è data a quella miserabile, così potente che nessun dubbio potrebbe in­

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taccarla: sì, questo povero ebreo stanco che aveva cam­ minato al sole e nella polvere, e che moriva di sete al punto di mendicare un po’ d’acqua a una samaritana, era il Messia, il Salvatore del mondo. Ella rimase impietrita finché non ebbe inteso avvici­ narsi coloro ch’erano con quest’uomo. Allora lasciata la secchia si gittò a correre come chi gli ha preso fuoco il vestito, entrò in Sichar, radunò la gente a gran grida: — Venite a vedere un uomo che m’ha detto tutto ciò che io ho fatto ! Si direbbe che il Cristo, seduto sempre sulla spalletta del pozzo, mentre i suoi apostoli gli porgono un pezzo di pane, stenti a rientrare nell’angusto universo ov’essi l’obbligano a vivere: «Maestro, mangia! » insistono. Ma l’Amor vivente, smascherato da quella donna, non ha ancora avuto tempo di ridivenire un uomo che ha fame e sete. — Ho da mangiare un cibo che voi non sapete. Questa risposta discende pure da un altro mondo. I poveretti si immaginano che qualcuno gli abbia portato una vivanda misteriosa. Egli guarda quegli occhi spa­ lancati, quelle bocche semiaperte, e al di là, la messe di Samaria, nella luce abbagliante, le spighe che imbian­ cano; e al di sopra delle.spighe, teste che si muovono: la frotta di gente che la donna trae seco: tra cui, forse il suo amante. Gesù scende a terra, alfine; parla loro delle cose dei campi, ch’essi ben conoscono, fa loro comprendere che raccoglieranno ciò ch’egli ha seminato. Li ha già fatti pescatori d’uomini: ora, ecco, saranno mietitori di spighe umane. Due giorni si trattenne fra i samaritani reietti, dando così ai suoi un esempio che invano sarà trasmesso al ri­ manente mondo. Perché se v’è una parte del messaggio cristiano che gli uomini abbiano rifiutata e respinta con invincibile ostinazione, è la fede nell’ugual valore di tutte l’anime, di tutte le razze, dinanzi al Padre che è nei cieli.

Capitolo Vili

« I tuoi peccati ti son rimessi »

Appena ritornato in Galilea, le testimonianze del suo potere si moltiplicano con un tal fragore che i Farisei per il momento rinunziano ad attaccarlo di fronte. Ma potranno sempre coglierlo in fallo: nulla di più agevole per quei casuisti, la cui suprema delizia è cavillare sulle sottigliezze della Torà. Lungi dal far nulla per scansare la trappola tesa, egli vi si getta sopra con fare provo­ catorio. Ma rimane inafferrabile, poiché i motivi dei suoi atti sfuggono loro. Dove dunque vuol egli arrivare? Che cosa cerca? Checché potessero pensar di lui, erano ancora lontani dall’immaginare un tale crimine inconcepibile per un israelita: essendo uomo, farsi Dio. Codesto passe­ rebbe ogni limite! E nondimeno... Bisogna qui dimenticare tutto ciò che sappiamo sul conto di Gesù, ciò che si è avverato sulla terra in suo nome; bisogna mettersi al posto di uno di quei dottori venuti da Gerusalemme o residenti in Cafarnao. Essi osservano da vicino l’agitatore: da vicino, perché la gen­ te si sposta, ed essi vengono spinti in prima fila. Lo scriba che io immagino, mescolato con altri personaggi di maggiore importanza, ha finito per penetrare nella casa ove Gesù è ospitato e che la folla assedia. Ma l’on­ da umana si è richiusa dietro le loro spalle. Uomini che portano un paralitico tentano inutilmente di aprirsi un passaggio. Giungono certo di lontano, a prezzo di lun-

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ghe fatiche: non ripartiranno senz’aver visto colui che son venuti a cercare. A qualunque costo lo raggiunge­ ranno. Infine prendono una decisione disperata: issano l’infermo sul tetto, tolgono i tegoli, e calano il loro ca­ rico nel vano stesso dove Gesù è assiso, suscitando cla­ more di proteste, grida furibonde, minacce. Lo scriba osserva il taumaturgo: gli occhi fissi sulle sue labbra, sulle sue mani. Le parole che ora stanno per essere pro­ nunciate sono le più strane, le più inaspettate, poiché sembrano non avere alcun legame con lo stato dell’in­ fermo. O meglio, sono come una risposta resa d’un trat­ to afferrabile, in un dialogo silenzioso tra il Figlio del­ l’uomo e la creatura coricata: — Uomo, abbi fede, i tuoi peccati ti son rimessi. Molte povere anime davanti a Gesù, nei giorni della sua carne, sentivano ciò che ancor oggi provano alla pre­ senza dell’ostia: conoscevano d’improvviso le loro brut­ ture, ne misuravano l’estensione e la profondità: vede­ vano se stesse. La prima grazia ricevuta era una grazia di lucidità; donde il grido di Simone: — Discostati da me, Signore, poiché sono un peccatore -—. Fu indubbia­ mente la medesima muta preghiera che fece il parali­ tico; non già: — Guariscimi! — ma: ■— Perdonami! — Risonò allora la parola più straordinaria che mai uscisse da bocca umana: 1 tuoi peccati ti son rimessi. Tutti i peccati d’una povera vita d’uomo, i maggiori e i minori, i più vergognosi, quelli che non possono essere confidati ad alcuno, quelli che non sono soltanto ignobili ma anche ridicoli, - e quell’altro che gli era impossibile dimenticare, e sul quale nondimeno non fermava mai il suo pensiero. Tutto è cancellato, senza chiedere particolari, senza indignazione, senza sogghi­ gni. Il Figlio dell’uomo non costringe il penitente a ri­ masticare la sua vergogna: già l’ha tratto abbastanza in alto, abbastanza lontano dalla calca che li stringe, per­ ché la guarigione della sua anima superi nel suo spirito quella del corpo. Quella volta i Farisei compresero di colpo il signifi­

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cato della parola inaudita. Non osavano indignarsi ad alta voce: ciò sorpassava qualsiasi commento. Si scam­ biavano occhiate oblique e pensavano: “Chi può rimet­ tere i peccati se non Diò solo?”. La bestemmia era tal­ mente enorme che neppure osavano gridare alla be­ stemmia. Ma già il Figlio dell’uomo si è lanciato all’at­ tacco, dando loro per due volte la prova della sua on­ nipotenza. Da prima, com’è solito fare, leggendo nei loro cuori: — Che ragionate voi nei vostri cuori? — e tosto, lui che pareva non aver visto che le ulceri di quell’anima raccosciata, lui che va dritto alle anime, ferma il suo sguardo sul corpo del rattrappito steso ai suoi piedi. Si volta verso i Farisei: — Che è più facile dire: i tuoi peccati ti son rimessi, oppure dire: levati e cammina? Ora, affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha ricevuto sulla terra l’autorità di rimettere i peccati, io ti ordino, prendi il tuo letto, e vattene a casa tua. Il paralitico si alzò tra gli urli di gioia della folla. E certamente i Farisei approfittarono del tumulto per di­ leguarsi. Ma lo scriba che io immagino era forse colui di cui parla San Matteo e che, esaltato, gridò a Gesù: — Maestro, io ti seguirò ovunque tu andrai. Egli era sedotto dal seduttore; si sottometteva a quella onnipotenza, le cedeva le armi. Senza dubbio sperava uno sguardo, una parola che d’un tratto lo compense­ rebbe d’una sottomissione così sollecita: ma ciò che quel­ l’uomo dava non era mai ciò che da lui si attendeva. Gesù, tuttora fremente di ciò che or ora ha compiuto, risponde: — Le volpi hanno la loro tana, e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha pure ove posare il capo. Quasi dicesse: “Tu mi hai preso per un seduttore: eb­ bene, ecco le mie seduzioni, e ciò che offro a coloro che mi amano. Ancora questa rinunzia a tutto è la parte più dolce di ciò che riserbo loro. Presto in questo vuoto, in questo nulla, apparecchierò un letto per loro uso, dove

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il posto dei piedi e delle mani sarà in anticipo fissato”. Forse lo scriba ha pensato: “Ho fatto troppo presto... Egli ha voluto mettermi alla prova perché non mi co­ nosce...”. Ora, in quel momento, una voce si levò di tra i discepoli familiari del Maestro: — Signore, concedimi ch’io vada prima a seppellir mio padre. — Seguimi ! E lascia i morti seppellire i morti ! Il sudiciume dei secoli ricopre ancora il risplendente e duro metallo di queste parole: secoli di commenti le­ nitivi, di attenuazioni. Gli è che la verità non la si guar­ da in faccia, la verità letterale di queste parole, nessuna delle quali passerà. Ma che! Quant’esse sian vere ci è pur dato misurarlo quando nel corso di funerali ufficiali consideriamo il corteo: quei visi scaltriti, malati, solcati dal duplice logoramento dell’età e dei crimini, quelle carni macerate, marinate nei vizi, quella folla di corpi (il nostro è uno d’essi) la cui corruzione è più avanzata di quella del morto ch’essi incensano: poiché di lui al­ meno non rimane che la spoglia; l’anima è altrove puri­ ficata da un fuoco sconosciuto. Ma noi che crediamo so­ pravvivergli, siamo noi che puzziamo: il fetore del mar­ ciume spirituale soverchia l’altro. « Lascia i morti sep­ pellire i loro morti... » Forse lo scriba non potè udire di più. Forse il discepolo si allontanò. Nondimeno, è qui che il Cristo parla da Dio. Avesse gridato: — Io sono Iddio! — non si sarebbe più chiaramente manife­ stato. In favore di Dio solo, possiamo lasciare a dei mer­ cenari la cura di seppellire il povero corpo da cui siamo nati. Il che non toglie ch’io non cerchi tra i miei vicini, in tutte le buone famiglie che frequento, chi dinanzi a una simile esigenza non uscirebbe dai gangheri. Cia­ scuna parola del Cristo gli guadagnava delle anime, e altre molte gliene portava via: c’era, intorno a lui, un viavai di cuori, un perpetuo ondeggiare.

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La vocazione di Matteo E d'un tratto il Figlio di Dio che aveva avuto le sue ragioni per sconcertare quello scriba e quel discepolo, sostò sulla sponda del lago davanti alla piccola tavola dove sedeva un pubblicano: ciò che di più vile e più spregevole vivesse fra gli Ebrei, — un subalterno delle genti di rapina, a cui lo Stato commetteva la riscossione di talune gabelle: genti che angariavano il popolo al­ leandosi bassamente coi Gentili: la feccia della società. Gesù gittò dunque uno sguardo a quel Levi figlio d’Alfeo seduto dietro il suo scrittoio di gabelliere, e gli dis­ se: — Seguimi. Certo già lo conosceva, allo stesso modo che Simone e i figli di Zebedeo erano suoi amici ancora prima d’aver udito l'ordine di abbandonare ogni loro cosa. Passando di là il Maestro1 doveva aver più d’una volta incontrato quello sguardo di povero cane levato verso di lui, ac­ cogliendo in pieno cuore il desiderio d’una creatura ri­ boccante d’amore ma tanto lontana dall’immaginare che a un pubblicano fosse lecito parlare al Figlio dell’uo­ mo, e ancor meno seguirlo. Gesù, che odia d'un odio impotente (poiché ancora non l’ha punto attaccata) la compiacenza dei falsi santi, non poteva sopportare in un uomo quella persuasione della sua propria miseria che annulla la creatura davanti alla purità di Dio. Levi (si chiamava forse già Matteo?) si alzò dunque, e seguì Gesù... O meglio, tra lo stupore e lo scandalo e la gioia dei Farisei il cui gruppo si ricostituiva a distan­ za, era Gesù che andava dietro all’immondo gabelliere e che entrava nella casa e sedeva alla tavola di lui ove una marmaglia era invitata: esseri dell’ambiente di Levi, dei quali ancora alcuni dicono « che nessuno vede », « che non son ricevuti in nessun luogo ». I dottori ottengono la loro rivincita: accerchiano presso la porta i discepoli intimiditi e assestano loro un colpo dritto: — Perché il vostro maestro mangia coi pubblicani peccatori? — ed

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essi non sanno che rispondere. Allora di tra gli invitati la terribile voce si leva : — Non sono quelli che stanno bene che han bisogno del medico, ma i malati. Andate e imparate —. (Con che tono rimanda quei teologi ai loro studi!) — Andate e imparate che significa questa pa­ rola : « Io voglio misericordia e non sacrificio » poiché io son venuto a chiamare non i giusti ma i peccatori. V’ha una sorta d’ipocrisia peggiore di quella dei Fa­ risei: e consiste nel coprirsi dell’esempio del Cristo per correr dietro alla propria cupidigia e cercare la compa­ gnia dei dissoluti. Gesù è un cacciatore che coglie e sfor­ za le anime nei loro nascondigli; né cerca il proprio pia­ cere presso le facili creature. Noi, invece, esse ci per­ dono, e noi non le salviamo.

Capitolo IX

Giuda

I Farisei non potevano ormai più ignorare l’inconcepi­ bile pretesa di quell’uomo. Bisogna comprendere che cosa è per un israelita il « Dio uno » che interi abissi separano dalla creatura. Oramai il loro metodo sarà, a proposito di ciascun gesto del bestemmiatore e di ciascuna parola ch’essi spiano, di richiamarlo al testo, alla lettera della Torà. Che i suoi discepoli strappino alcune spighe in giorno di sabato, o ch’egli stesso in quel medesimo gior­ no guarisca una mano disseccata, la muta è là oramai, che dà l’allarme, che segna il colpo. Ma lui, lungi dal difendersi, li sfida, e con quale temerità! II Figlio dell’uomo è anche signore del sabato. Chi si crede egli dunque? È pazzo? Aveva già osato affer­ mare: «Il sabato è fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato... » e ciò era enorme; ma il signore del sabato! Da quel giorno la sua rovina è decretata. Egli ha non­ dimeno dei ripiegamenti di prudenza. Noi non abbiamo il diritto di dire che il Dio, malgrado lui, si tradisce troppo presto, che lo affoga, che lo lascia talora respi­ rare alla superficie quando per sorprenderlo non c’è altri che una povera donna di Sichar. Parrebbe nondi­ meno che in pubblico egli ancora s’ingegni di soffocare i gridi che denunziano in lui l’Autore della vita. Ma non ha potuto tenersi dal gridare ch’è pure il signore del sabato.

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Già è crocifisso in molti cuori. Dei conciliaboli si formano a Gerusalemme. Non vi è più un giorno da perdere. Perché il tempo per seminare è breve. Egli mi­ sura ciò che gli resta da vivere. Ancora qualche mese per illuminare i miseri dei quali ha deciso di servirsi, e che dovranno rinnovar la faccia della terra. Essi l’amano ardentemente, senza dubbio, e ciò è l’essenziale. Ma an­ cora non comprendono nulla. Eccetto uno, forse: l’uomo di Keriot, quel Giuda det­ to l’ultimo dei dodici che Gesù ha scelti fra tutti i suoi discepoli. Egli è nominato dopo Simone e Andrea, dopo Giacomo figlio di Alfeo e l’altro Simone detto lo ze­ lante e Giuda Taddeo. Come codesto Giuda fu conqui­ stato? Egli custodiva il denaro: era dunque l’uomo pra­ tico, colui senza dubbio che mostrò da prima più fede in Gesù, poiché essendo intelligente l’aveva seguito: una fede indomabile nel successo temporale del Signore. An­ che gli altri credevano in tale successo, però meno di Giuda. I più vicini al cuore di Gesù, e lo stesso figlio di Zebedeo, credevano assicurata la propria fortuna. Il trono che li aspettava già lo vedevano riscintillare. Per suo proprio conto, nel suo piccolo, Giuda durante quei tre anni dovette sfruttare la fonte d’acqua viva, or­ ganizzare i profitti. Intelligente, ma di corta veduta, quando tutto crollerà (per colpa stessa, pensava, di quel pazzo che aveva a bella posta sciupato dei magnifici doni inimicandosi l’intero mondo) non comprese che l’affare - ciò che per lui era un affare - ingigantirebbe, e che tutto ciò ch’egli se ne era ripromesso sarebbe sorpassato al di là di ogni immaginazione. E il Cristo pure lo sa­ peva. Giuda era con lui fin dal principio, e c’è ancora, e ci sarà fino alla fine. Nondimeno egli non tentava d’ingannarli. — Non prendete né oro né argento — comandava loro, mandan­ doli a due a due ad annunziar la buona novella, — né alcuna moneta nelle vostre cinture, né sacco per la stra­ da, né due tuniche, né calzari, né bastone... — Giuda

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sorrideva, pensando: “Se dovessimo prendere alla let­ tera tutto ciò che dice il nostro caro Signore!”. — Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. — (Giuda mormorava: — Parla agli altri!) — Siate dun­ que prudenti come i serpenti... — e Giuda: — Per que­ sto puoi star tranquillo! — Guardatevi dagli uomini, poiché vi flagelleranno nelle loro sinagoghe. — (“Non me” pensa Giuda “io lo so come bisogna parlargli!”) E disprezza i suoi compa­ gni perché li vede fremere udendo che il Maestro pro­ fetizza: — Il fratello manderà a morte il fratello; e il padre il figlio; e i figli insorgeranno contro i genitori e li faranno morire... Perché codesto stupore ? si domanda Giuda, osservan­ do con la coda dell’occhio i suoi camerati: quale idea si fanno dunque della famiglia? Da lungo tempo egli sa che ciò è vero: che esistono padri e figli che si odiano. Egli ama nel Cristo quella semplicità di visione, quello sguardo di Dio su l’umano errore. Nel medesimo istan­ te, il Maestro annunziava: — Sarete odiati tutti a cagio­ ne del mio nome! — Ebbene, sì... ma ciò non fa paura a Giuda. Gli altri tremano: ma lui, Giuda, si adatta a essere odiato, a patto che lo si tema. Ora lo si temerà poiché sarà in possesso delle parole magiche: i poteri dello stesso Gesù sulla materia e sulla vita. Ah! il gior­ no ch’egli sarà libero di scacciare i demoni e guarir le malattie, come se la riderà dell’odio o dell’amore d’un mondo che gli leccherà i piedi ! — Non temete — prosegue Gesù — non temete co­ loro che uccidono il corpo e non possono uccidere l’a­ nima: temete piuttosto colui che può perdere l’anima e il corpo nella geenna. — Giuda alza le spalle: perché dovrebbe temere Belzebù, dal momento che avrà potestà su lui, e tutti e due si tratteranno da potenza a potenza? Padrone di scacciarlo, lo sarà parimenti di ottenere da lui tutti i reami della terra... E nondimeno lo stesso uomo di Keriot s’intenerisce. Come non amare Gesù? Di lui solo bisognerebbe fidarsi

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a occhi chiusi. La voce del Maestro si è addolcita per rassicurare i suoi poveri amici tremanti: — Due passeri non si vendono forse per un asse? Pure, neanche uno ne cade sulla terra senza che il nostro Padre lo permet­ ta. Non temete perciò: voi valete più del prezzo di molti passeri. Chi dunque mi avrà confessato dinanzi agli uomini, io pure lo confesserò dinanzi al Padre mio che è nei cieli. E chiunque mi avrà rinnegato dinanzi agli uomini, io pure lo rinnegherò dinanzi al Padre mio... Giuda si riprende: egli non ama troppo quel richia­ mo al cuore: qui, capisce meno degli altri. Essi vibrano alla minima carezza, attaccati al loro padrone come dei cani. E l’Economo si sdegna di sentirli preferiti. Ma d’un tratto Gesù sforza di nuovo la voce: — Non pensate che io sia venuto a portar la pace sulla terra. Non la pace, ma la spada. (“Finalmente!” pensa Giuda.) Io son venuto a mettere il figlio contro il padre, la figlia contro la madre, la nuora contro la suocera. Inimicizia sarà fra quelli d’una stessa casa. Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me; e chi ama suo figlio o sua figlia più di me, non è degno di me... In bocca a un uomo simili parole sarebbero parse mostruose. Se non temessimo, con un’immagine troppo ardita, recare offesa alla indissolubilità delle due nature, diremmo che qui ancora il Dio leva il suo formidabile capo al di sopra del sangue, ed emerge fuori della carne. Giuda crede di comprendere quelle parole di odio... In verità, sono gli altri a intravedere che solo l’amore in­ carnato può gridarle senza che il fulmine lo incenerisca. Giuda immagina un mondo sconvolto dal Cristo, dove gli eletti, dove i prescelti non saranno più impacciati da sentimenti umani, dove nessun vincolo di sangue li im­ pedirà più. Il trionfo della forza, una solitudine trion­ fante! Naturalmente, per l’uomo di Keriot non tutto è bene ciò che il Maestro dice: ecco che parla della croce, adesso. A sentirlo, chiunque lo segue senza prendere la sua croce, non è degno di lui ! Egli seguirà il Signore e lascerà la croce agli altri.

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Giuda applica a sé la frase : « Colui che salverà la propria vita la perderà: e colui che perderà la propria vita per cagion di me, la ritroverà ». Ma sicuro ! Giuda rinunzia a tutto, egli ha tutto abbandonato per seguire il Signore. Ha lasciato in tronco gli affari che non anda­ vano male. Si è disgustato con gente d’importanza... pu­ re non tralasciando di procacciarsi influenze in mezzo a loro. E pensa con amarezza che gli altri undici che non hanno detto niente di più, sono amati più di lui. Gesù dice inoltre: — Colui che vi riceve riceve me... — Giuda medita questa parola più di ogni altra pre­ ziosa, pregna di magnifiche conseguenze. Ma eccone un’altra che lo entusiasma: — E chiunque darà soltanto un bicchier d’acqua fredda a uno di quei piccoli perché egli è mio discepolo, io lo dico in verità, non perderà affatto la sua ricompensa... — Giuda pensa: “Io sono ancora uno di quei piccoli, ma crescerò presto, sicché il bicchier d’acqua fredda non rimarrà a lungo un bic­ chier d’acqua fredda...”. Queste medesime parole sono ricevute da undici altri cuori che non le intendono ancora, ma che le accolgono come un buon terreno privo di coscienza. Esse racchiu­ dono il segreto dei segreti: cioè che l’amore non è un sentimento, una passione, ma una persona, qualcuno. Un uomo? Appunto, un uomo. Dio? Appunto, Dio. Lui che è qui. Che bisogna preferire a checchessia? Non basta: che bisogna unicamente adorare. E guai a chi si scanda­ lizza ! E coloro che saranno « i suoi » potranno attraver­ sare la vita a occhi chiusi, senz’aver più nulla da temere dagli uomini. Più nulla da temere e più nulla da aspet­ tarsi. Hanno tutto dato per tutto avere, talmente mesco­ lati col loro amore che chi li riceve riceve altresì l’A­ more. Queste parole del Signore sussurrate all’orecchio dei dodici, contengono in germe l’intrepidità delle mi­ gliaia di martiri, la gioia dei suppliziati: d’ora innanzi, e checché possa loro accadere d’orribile, gli amici di Ge­ sù non avranno più che da alzar gli occhi per vedere il cielo aperto.

Capitolo X

Il sermone sulla montagna

Quando ridiscese coi dodici, rapiti e tremanti, sostò a mezza costa, sopra un pianoro. Non soltanto la folla dei discepoli gli sbarrava la strada, ma anche una moltitu­ dine venuta da Gerusalemme, da Tiro e da Sidon. Ha parlato in segreto ai suoi amici: ora farà manifeste alle turbe degli uomini le parole per le quali è venuto al mondo. Nessuno dei suoi uditori faticherebbe a trovare in ciò che sta per dire l’essenza di questo o quel versetto dei salmi. Più d’un profeta già prima di lui aveva inculcato simili verità. Ma costui, questo Nazzareno, parla come avendo autorità: — E io vi dico... — È l’accento, che suona nuovo; e la minima parola ha una sua portata incalcolabile. Beati... Beati... Beati... Quelli ch’erano nell’ultime file e che non udivano se non quella parola gridata nove volte, potevan credere che il messaggio fosse un mes­ saggio di felicità. E non avevano torto. Grazie a un cambiamento più sorprendente di quello di Cana, la povertà diventava ricchezza, e le lacrime gioia. La terra apparteneva non ai bellicosi ma ai miti. Ma qualunque beatitudine implica una dannazione: « Beati i poveri in spirito perché di loro è il regno dei cieli » significa che quelli che non hanno il distacco del­ lo spirito sono banditi dal Regno. « Beati coloro che

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posseggono un cuore puro perché essi vedranno Iddio » lascia intendere che i cuori impuri non vedranno Iddio. Ora codeste virtù alle quali è promessa la felicità sono quelle medesime che più repugnano alla natura. Perché, infine, chi è povero in spirito? Chi può vantarsi d’aver ammirato in un uomo, anche pio, soprattutto pio, la po­ vertà spirituale? In quelli che si credono perfetti, l’at­ taccamento appassionato alle loro proprie vedute fa or­ rore. «Beati i miti perché possiederanno la terra... Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio. » O durez­ za del mondo! La mitezza è ancora sempre ciò che di più spregiato esiste. Già dall’infanzia, nelle classi mode­ ste, i miti sono perseguitati. Nietzsche è in sostanza il filosofo del senso comune. Il mondo moderno è forse meno duro dell’antico? Nulla è mutato, salvo che queste beatitudini sono state esaltate una volta per tutte sopra una collina, che nessu­ na d’esse passerà, che di generazione in generazione al­ cune creature se le trasmetteranno da cuore a cuore. E questo basta: «Voi siete il sale della terra». Non più di un pugno di questo sale occorre nella massa umana perché essa non si corrompa. Ma che il sale non divenga insipido! La felicità che il Cristo reca agli uomini, che loro annunzia in questo primo discorso, la vede minacciata a ogni istante. Che cosa significava la purità per quei poveri attenti circoncisi ? Essere puro ! Al tempo di Tiberio, quale inconcepibile esigenza ! — Voi avete appreso che è stato detto agli Antichi: Tu non commetterai adulterio... — Sì, questa è la legge univer­ sale, - universalmente violata, ma la cui enunciazione non poteva sorprendere alcuno. Ora il Nazzareno aggiun­ gerà al vecchio dileggiato comandamento un comanda­ mento nuovo, contro il-quale dopo diciotto secoli il mon­ do recalcitra ancora, e del quale si fa beffe e che scrolla inutilmente senza riuscire a strapparlo dalla propria car­ ne: dopo che Gesù ha parlato, solo quelli che accette­ ranno codesto giogo troveranno Iddio: ·— E io vi dico

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che chiunque riguarda una donna con cupidigia ha già commesso l’adulterio nel suo cuore. In forza di queste sole parole il crimine è colpito al di qua dell’atto: la sozzura rifluisce verso l’interno, risa­ le alla sorgente. Più di qualsiasi maledizione, tutte queste parole riducono a nulla la giustizia dei Farisei. D’ora in­ nanzi il dramma si svolge dentro di noi, tra il nostro più occulto desiderio e questo Figlio dell’uomo che si na­ sconde nell’intimo dei cuori. La virtù dei Farisei, come il vizio delle cortigiane e dei pubblicani, non sono più che mera apparenza. Per ciascuno di noi il mistero della salvezza si maturerà nelle tenebre che la morte soltanto potrà dissipare. Un po’ più tardi, il Cristo definirà la sua giustizia che è, esattissimamente, ciò che gli uomini chiamano l’in­ giustizia. Ancora è troppo presto (hanno già avuto il fatto loro!) per dire loro la storia di quel figlio prodigo trattato meglio del savio primogenito, o di quegli ope­ rai dell’ultim’ora che riceveranno un salario uguale a quello dei lavoratori i quali stanno affaticandosi dall’al­ ba. Basta, per intanto, che si abituino al pensiero che un uomo « di onesta vita e costumi », se è pieno di de­ sideri, di appetiti e di sogni, e se vi si abbandona in segreto, è già condannato. Poiché ciò ch’egli compie si confonde con ciò che immagina, con ciò a cui aspira. Ciò che commette nel suo cuore è già consumato agli occhi di Dio. Il prezzo di quegli sguardi e di quei pen­ sieri, di quella cupidigia degli occhi e del cuore che si sazia senza rischio, al coperto d’ogni controllo umano, è la geenna. Noi non addolciremo il messaggio del Cristo, non lasceremo nell’ombra le minacce. Che l’idea dell'inferno sia o non sia sopportabile, il cielo e la terra passeranno, ma non la minima parola del Signore: e questa, come tutte le altre, dev’esser presa alla lettera. — Se il tuo occhio destro ti fa intoppare, cavalo, e gittalo via da te, poiché vai meglio per te perdere uno solo dei tuoi oc-

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chi, che non il tuo corpo intero bruci nella geenna... E se la tua mano destra è per te occasione di peccato, moz­ zala... — Che esige dunque da voi? La perfezione divi­ na, alla lettera: — Voi dunque siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto —. Satana aveva promes­ so a Adamo ed Èva che sarebbero come dei; e il Re­ dentore chiede che diveniamo simili a Dio. Ma che cosa non chiede egli? Troppo poca cosa è la carità: è la follia della carità, ch'egli vuole: tendere l’altra gota, abbando­ nare il mantello al ladro che ha già preso la tunica, ama­ re quelli che ci odiano... È pazzo? Difatti, è, rispetto agli uomini, uno stato di demenza, che pretende e ot­ terrà dai suoi diletti. E l’otterrà perché li ama. Codesta esigenza sarebbe intollerabile se non nascesse dall’amore fatto carne. La geenna di cui egli parla tranquillamente, senz’alzare la voce, non distoglie alcuno di quelli ch’egli attira a sé, perché il richiamo d'una passione infinita li rassicura. Il cuore che ha tanto amato gli uomini, attende da ognu­ no la spontanea resa di sé medesimo: l’abbandono, la rinunzia a qualsiasi cura, a qualsiasi affanno. Ciò che vuole da quei contadini, è la virtù d’imprevidenza, e che si facciano simili ai passeri, ai gigli dei campi. Che im­ porta la geenna se Dio è nostro padre? Ben può egli esigere d’ora innanzi tutto ciò che vorrà. Noi sappiamo ove andare. Il Padre nostro è nei cieli: coloro che pos­ seggono questa ineffabile verità, non rischiano di pagar­ la troppo cara: — Chi di voi, se suo figlio gli domanda del pane, gli darà una pietra? Ma il padre che è nei cieli non lo raggiungeremo per la via del godimento e della sazietà. La porta è stretta, la via è angusta. Non, sopra tutto, effusioni ipocrite: la purità del cuore, ma non i gridi del cuore: — Non sono quelli che grideranno: Signore, Signore... Si direbbe che il Cristo, dopo aver tradito il proprio cuore, si riprenda, quasi temesse che noi ne abusiamo. Il richiamo della geenna è interrotto da parole d’una tenerezza ardente che dubita d’essere mal compresa e si

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dissimula sotto una minaccia. I falsi profeti lo fanno piangere anticipatamente. Contro essi mette in guardia i suoi amici, e dà loro la pietra di paragone per giudi­ care un uomo che si rivolge a noi in nome del Cristo: la santità. — Voi li conoscerete dai loro frutti. — Il Signore parla qui come un uomo che essendo Dio vede ciò che all’occhio umano sfugge. Poiché, come giudicare gli esseri dai loro frutti? E chi non meriterebbe allora d’essere gettato nel fuoco? Anche se si sforza di rag­ giungere la santità... E poi, non ci è forse ordinato al­ trove di non giudicare? O difficile legge! Non si deve giudicare, ma nemmeno ci si deve lasciar ingannare. Eterna messa a punto, a cui l’anima cristiana è convi­ tata. Non meravigliamoci se a questo gioco i semplici di spirito e i cuori puri a poco a poco divengono sot­ tili. Nulla si contraddice in questo discorso, e nondi­ meno tutto si oppone. È malagevole d’essere insieme una colomba, un serpente, un giglio. La verità annunciata sulla montagna, ha più sfumature che una gola d’uccel­ lo. Non si compone di alcuni rigidi precetti che basti seguire per essere in regola. È .una vita piena di insidie e di pericoli, dove tutto è trattato con prudenza ma per amore... Ahimè! si è forse mai sicuri d’amare e d’essere amati ? Coloro che non fanno la volontà del Padre, sanno che non fanno la volontà del Padre: ma coloro che cre­ dono di adempirla, la violano a loro insaputa. L’orgo­ glio di certe persone molto « inoltrate » nel cammino della perfezione, che credono esserlo, oltrepassa d’assai la vanità dei mondani. Se qualcuno delicatamente li av­ verte, esse, in luogo di esaminarsi, offrono quella in­ giuria a Dio, e il loro orgoglio si gonfia d’un merito di più. E poiché riflettendo pensano che la giustizia è stata offesa in loro, non esitano punto a commettere un atto che un pagano qualificherebbe di « vendetta » ma che esse battezzano « riparazione ». Qui ancora si tratta di santi, o per lo meno di quella

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specie di persone che imitano i santi. Ma dove comincia l’ipocrisia? Quale albero umano non è, per qualcuno dei suoi frutti, un cattivo albero?

Il centurione

La legge interiore che il Figlio di Dio dava agli uo­ mini sulla montagna, fruttificò mirabilmente nei giorni che seguirono. I nemici s’erano allontanati per parecchio tempo. Quell’amore per il Padre che si riversa sul pros­ simo, quelle due passioni che ne fanno una sola e che Gesù insegna ai propri amici, riveste, nel corso della sua vita mortale, un carattere che, una volta scomparso il Cristo, non si ritroverà più mai. Poiché egli è il Fi­ glio di Dio; ma il centurione è il suo prossimo, e tutti quelli che lo avvicinano. Durante questi tre anni, l’Es­ sere infinito è divenuto il prossimo dei soldati, dei pub­ blicani, e delle cortigiane. Codesto centurione, al servizio di Erode Antipa, che non è Giudeo, ama i Giudei a tal segno che ha fatto loro costruire di sua borsa una sinagoga. Il suo servi­ tore è moribondo, e gli è grandemente caro. E noi, noi amiamo già il centurione per il quale la morte d’un domestico equivarrebbe a una sciagura. Non osa andare egli stesso da Gesù, e gli invia alcuni dei suoi amici israeliti per evitare che il Maestro si abbassi fino a var­ care la sua soglia. E affida loro quel messaggio che l’u­ manità prosternata non cesserà di ripetere fino alla fine dei secoli: — Signore, non prenderti tànta pena, perché io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto. È per questo che non mi sono neppur stimato degno di venire a te. Ma di’ una sola parola, e il mio servitore sarà gua­ rito. Perché io sono soggetto a dei superiori: ho dei soldati ai miei ordini; e se dico a uno: va’, ed egli va; e a un altro: vieni, ed egli viene... « Gesù fu preso d’ammirazione. »

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Egli non ha soltanto amato gli uomini: li ha pure ammirati. E ciò che in essi ammira è sempre la stessa cosa me­ ravigliosa: non una stupefacente virtù, né una straordi­ naria austerità, né una grande scienza teologica: ma un certo stato di resa, una disfatta, un annientamento, frut­ to di quella lucidità spirituale che è la suprema delle grazie. Umiltà che il volere non basta a conseguire, poiché non è perfetta che a condizione d’ignorarsi. Battersi il petto è un gesto che non costa gran che; e quante lab­ bra orgogliose non ripetono ogni mattina le parole del centurione e quelle di suo fratello il pubblicano ! — Io ti rendo grazie, o Signore, per ciò che mi hai fatto simile al pubblicano... — Così prega il Fariseo d’oggi.

Capitolo XI

1 discepoli di Giovanni

Fu verso quel tempo, che Gesù andò a Nairn e restituì a sua madre un figlio ch’ella aveva perduto. Quella vedova non l’aveva chiamato: né aveva alcuna cosa da chiedergli, poiché Gesù non ancora aveva vinto la mor­ te. Molti, senza dubbio, dicevano di lui: — Sì, i para­ litici, gli ossessi... tutto ciò che volete! ma non risuscita nessuno... Alla fama di Gesù quel miracolo dovè giovare più di tutti i prodigi fino allora operati. Turbò in particolar modo, tra i familiari di Giovanni Battista, alcuni che persistevano ostili al nuovo venuto. Turbò fors’anche il loro maestro nel fondo della prigione ove Erode l’aveva poco prima rinchiuso? Esitava egli, adesso, a credere? Quale pensiero doveva essere il suo quando inviò due dei suoi a Gesù per domandargli se era Colui che do­ veva venire, o se bisognava attendere un altro? Accade talora di aver fede in un uomo, e poi dubitare perché la sua condotta non appare più chiara. I discepoli di Giovanni riportavano al loro maestro che il Nazzareno mangiava e beveva con le cortigiane e i gabellieri, che non protestava contro tale accusa: che se ne vantava, magari, e divietava ai suoi di digiunare « sotto pretesto che gli amici dello sposo si rallegrano finché lo sposo è con loro; e sarà l’ora di rinunziare al cibo e al vino quando lo sposo verrà loro tolto... ». Simili discorsi in­

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quietavano il Battista. Se però si fosse sbagliato! Se la voce udita non fosse dal Cielo! I Farisei giurano che è per Belzebù, che Gesù compie i suoi miracoli. Essi l’ac­ cusano di sedurre le anime... e non si può negare che ha trascinato con sé i migliori amici di Giovanni... In sostanza, che dice di se stesso, questo Gesù? che dirà di se stesso agli inviati di Giovanni Battista? Quell’am­ basciata è una prova alla quale il Precursore sottopone l’Agnello di Dio: egli non può non credere in lui, ma la condotta sua lo inquieta: a meno che, impotente a disarmare i propri amici, egli non preghi in segreto: — Signore, illumina tu stesso quelli tra i miei che, scan­ dalizzati o sconcertati dalla tua maniera di vivere, dubi­ tano di te... Gesù moltiplicò i miracoli in presenza dei due messi, e poi disse loro: — Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi veggono, gli zoppi cam­ minano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti sono risuscitati, la buona novella è annunziata ai pove­ ri. Felice colui per cui io non sarò stato motivo di scan­ dalo ! Partiti loro, Gesù parlò di Giovanni non come di un avversario « che avesse avuto » ma come del più miste­ rioso dei profeti, poiché quest’annunciatore non fa parte del reame: — Il più piccolo nel reame di Dio è più grande di Giovanni Battista... — Questo grand’albero spoglio s’innalza solo in pieno deserto: le sue radici toccano la legge antica e i suoi più alti rami attingono appena il Cristo che parla di lui con più ammirazione che amore. Essi nondimeno si sono visti, già dall’infan­ zia, e riconosciuti: Dio si è abbassato davanti al suo ulti­ mo profeta, ma senza che tra loro due si stabilisse l’u­ nione, la fusione totale dei cuori; quasi fossero stati separati, fuori del tempo e dello spazio: egli è colui che va innanzi, che non può né aspettare l’Agnello, né ritornare sui propri passi. Il Precursore come potrebbe seguire? Brucia e si consuma fra i due Testamenti. Il Figlio dell’uomo s’irrita del pregiudizio dei disce­

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poli di Giovanni riguardanti il digiuno: si può entrare nel Regno ridendo o lacrimando. Ma gli Ebrei non vo­ gliono né lacrime né riso. Ancora oggidì il Cantico del Sole di Francesco d’Assisi non disarma coloro tra noi che San Giovanni della Croce respinge. « A chi dunque paragonerò io gli uomini di questa generazione? A chi somigliano essi? Sono simili a ra­ gazzi seduti nella pubblica piazza, che si dicono gli uni agli altri: noi abbiamo sonato il flauto e voi non avete danzato; abbiamo cantato dei lamenti, e non avete pian­ to. Poiché Giovanni Battista è venuto non mangiando pane e non bevendo vino, e voi dite: è posseduto dal demonio. Il Figlio dell’uomo è venuto mangiando e bevendo, e voi dite: è un uomo dai buoni bocconi e un bevitore, amico dei pubblicani e della gente di mala vita. »

Il convito in casa di Simone Il Figlio dell’uomo che accettava di mangiare e bere coi peccatori, non sdegnava di sedere alla tavola d’un Fariseo come quel Simone del quale San Luca solo ci parla e che riceve il Nazzareno con una deferenza mi­ surata... Poiché egli si guarda dal mostrarsi troppo gen­ tile e dal troppo prodigarsi, - al fine di potere poi so­ stenere che non l’ha ricevuto che per curiosità: è strettamente cortese senza gettarsi via - magari un po’ freddo... Se Gesù, nondimeno, siede a quella tavola, è perché vede venir verso di lui, da sempre, la donna con un vaso d’alabastro: una tra le migliaia d’altre, che si è data, che ha profanato il suo corpo e il suo cuore, che ha mortalmente sofferto per le creature. Essa erra attra­ verso i sinottici e il quarto Evangelo con il suo profumo, coi suoi bei capelli e il viso rigato di lacrime. In San Lu­ ca entra dal Fariseo. Ma Matteo e Marco la introducono, la vigilia della Passione, presso un altro Simone, detto il lebbroso, e che abita a Betania. Quanto a Giovanni,

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egli la chiama Maria. E gli uni credono ch’ella sia Maria Maddalena dalla quale Gesù cacciò sette demoni; altri la sorella di Lazzaro il resuscitato e di Marta. Poco im­ porta! Ha talmente frequentato i cuori, quella donna, che il racconto da lei fatto del proprio gesto potè subire alterazioni: l’essenziale però rimane: quell’incontro della purità incarnata, col peccato incarnato; per la consola­ zione di quelli che non cessano di lottare, di opporre fragili dighe a un’infaticabile marea di sangue e di desiderio. Gesù stava coricato, i ginocchi ripiegati, i piedi nudi fuori del letto. La peccatrice si avanza da dietro. La donna coperta di sozzura non affronta l’Agnello di Dio: « E stando dietro lui, ai suoi piedi, tutta piangente, si mise a innaffiarli delle sue lacrime e ad asciugarli coi suoi capelli; e li baciava e li ungeva di profumo... ». Simone osservava quella scena, e mandava un sospiro di sollievo: la ragione era chiara! Se quell’uomo fosse stato un profeta, avrebbe fremuto di disgusto a quel contatto. Allora Gesù gli dice: — Simone, ho qualche cosa da dirti —. Maestro, parla — dice lui. — Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, e l’altro cinquanta. Come essi non avevano di che sod­ disfare questo debito, egli lo rimise a tutti e due. Quale l’amerà di più? Simone rispose: — Colui, io penso, al quale egli ha più rimesso —. Gesù gli disse: — Tu hai bene giudi­ cato —. E voltandosi verso la donna, dice a Simone: — Vedi questa donna? Io sono entrato nella tua casa, e tu non mi hai dato acqua da lavare i miei piedi: essa in­ vece li ha bagnati con le sue lacrime e li ha asciugati coi suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, ma essa, dopo eh’è entrata, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto il mio capo di olio, ma essa ha unto i miei piedi di profumo. È perciò, ti dico, che i suoi numerosi peccati le sono perdonati, perché ella ha molto amato; ma colui al quale poco si perdona, poco ama —.

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Poi disse alla donna: — I tuoi peccati ti son rimessi —. E coloro ch’erano a tavola con lui dissero dentro se me­ desimi: “Chi è costui che rimette persino i peccati?”. E Gesù disse ancora alla donna: — La tua fede ti ha salvata, va’ in pace. « Perché essa ha molto amato... » Molto amato il Cri­ sto, è chiaro. Ma la parola non abbraccia anche ciò che può esservi di oblio di sé, di sacrificio e di dolore nella passione più triste? Tutto è forse perduto per Dio in quel folle abbandono d’un essere a un altro? Sì, bisogna crederlo, tutto è perduto. E d’improvviso risuona la frase già intesa pure dal paralitico, la più scandalosa tra quelle che il Nazzareno osa proferire: sei parole nelle quali Dio irresistibilmente si tradisce: « I tuoi peccati ti son rimessi... ». Gli Ebrei non stupivano più dei miracoli. Gesù li mol­ tiplicava, ed essi vi si abituavano. E poi, non si sa mai: ci sono dei trucchi, c’è Belzebù: tutto si può spiegare. Ma una semplice frase, un’affermazione senza prova, li sconcerta più di qualsiasi prodigio. Che cosa è dunque un morto che risuscita, al paragone d'un’anima che rina­ sce ? Questa volta il Figlio delfuomo rimane indifferente ai nascosti pensieri dei cuori che Γ attorniano, - intera­ mente voltato verso la povera donna in lacrime, col suo vaso vuoto, i suoi capelli disfatti. Guarda quel corpo abbattuto ai suoi piedi, quel corpo di cui conosce la sto­ ria, quel tempio profanato, del quale la Trinità ha fatto or ora la sua dimora. Pertanto non si prevalgano gli induriti di questo esem­ pio. Colei alla quale più è stato rimesso, più ama. L’a­ more di quella penitente, è in misura uguale ai crimini perdonati. Ma per la maggior parte di noi è l’ingratitu­ dine, la misura dei nostri crimini; e noi cadiamo tanto più in basso di quanto la misericordia ci aveva tratti in alto. Se tuttavia quella donna, una sera, dovesse di nuo­ vo cedere al desiderio... ebbene, sarà lei che vedremo ri­ tornare, con una libbra di nardo, la vigilia dell’agonia del Signore, per un’ultima unzione, per un ultimo perdono.

Capitolo XII

I demoni di Maria Maddalena

Una circostanza ci dispone a confondere la penitente dai capelli disfatti con Maria Maddalena: ed è che di costei sempre si parla nell’Evangelo come della donna che il Signore liberò di sette demoni. Ora, la peccatrice che entra nella stanza coi suoi profumi, non è ignota al Figlio dell’uomo. Non è necessario ch’egli le dica co­ me ad altre: «I tuoi peccati ti son rimessi...». Poiché questa remissione è ormai ottenuta. La creatura lacriman­ te è bene una affrancata dai demoni. Già da gran tem­ po: sembra ch’ella abbia allora toccato sul cammino del ritorno quel punto della strada ove l’anima, nella luce dell’amore, scopre tutt’in una volta la moltitudine dei suoi crimini, e li penetra a uno a uno nel loro orrore, ne segue la traccia nella profonda intimità delle anime travolte e contaminate, e si perde nella rete senza fine dello scandalo, nelle ramificazioni della responsabilità. Questa donna incatenata dall’amore con più forza che non dai sette demoni, noi non sapremo mai come pas­ sasse da un possesso all’altro, poiché l’Evangelo su que­ sto punto è muto. La lotta fu essa breve o lungamente combattuta? Noi vorremmo sapere se il Signore d’ogni carne si valse del suo potere di Dio per prendere costei alla gola, o se la lasciò libera e si fidò dell’amore che, da lui chiamato, cominciava a scaturire attraverso tanti

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rottami, spazzando via ogni lordura e annegando ogni vergogna. Questa vergogna e lordura le conosciamo. Il Fari­ seo disprezzava la donna inginocchiata e in lacrime per­ ché agli occhi dei puri essa era sacra. I sette demoni di Maria Maddalena consistono tutti nell’unico demo­ nio. Non esiste che un demonio, come ne esistono mille, e tutte le possibilità del male fruttificano in quella lus­ suria il cui solo nome basta a imporporare le guance dei Santi. Non si tratta qui delle povere debolezze, dei manca­ menti ai quali ciascuna creatura è soggetta; di quelle miserie che umiliano i giovani e coprono di vergogna gli adulti — ma sì di quel possesso onde certuni sono preda: quelli che, in senso assoluto, sono ebbri del proprio corpo, pei quali ricercare l’assoluto nella carne è l’unica ragione d’essere al mondo. Ben sono essi pos­ seduti dai sette demoni ai quali noi diamo i nomi dei sette peccati. Anzitutto l’orgoglio: una creatura prostituita gusta fino alla follia il suo impero sui cuori: questa libertà di farli soffrire, di darli in preda alla gelosia, di separare quelli che s’amano. Su codesto piano, che cosa è peggio: la cru­ deltà femminile, o la vanità del maschio? Ci è accaduto di udire simile confidenza fatta nel tono più indifferen­ te: — Egli è morto per me... Si è uccisa per me... Assassini. E se non tutti i lussuriosi hanno versato il sangue d’un corpo adulto, hanno tutti annientato, nel­ l’atto stornato dal suo fine, le anime che sarebbero po­ tute nascere. E altre ne hanno distrutte già nate. L’istinto di non perdersi solo, è radicato nelle viscere dei carnali: i componenti l’innumerevole moltitudine che il Cristo ci mostra accalcantesi e sospingentesi sulla lar­ ga strada della perdizione, non sono riuniti là per caso: si cercavano e si sono ritrovati: complici e coppie, han­ no bisogno gli uni degli altri per perdersi. Come gli animali si aggruppano secondo la loro specie, essi sono imbrancati secondo i loro vizi. Ciascun vizio particolare

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alza il suo emblema al disopra del gregge dei suoi fe­ deli. Il giorno del Giudizio li sorprenderà insieme, né sarà necessario di dar fiato alle trombe per chiamarli dai quattro canti del mondo: il torvo grappolo d’ogni scia­ me è di già interamente formato: l’Angelo nero non avrà che da coglierlo. Benché il cemento d’un vizio comune li leghi fino a confonderli, l’invidia, la gelosia, l’odio, scavano tra loro degli abissi. E la loro follia vuole che non si sentano vittoriosi se non nella tortura che s’infliggono l’uno all’altro. Dei demoni minori si trascinano nel solco di questa lussuria odiosa e omicida. L’ingordigia che si motteg­ gia doveva essere in Maria Maddalena, come in tutti i grandi peccatori, non il piacere d’un gusto passeggero, ma la ricerca di uno stato durevole d’una beatitudine disarmata. Femmine che odierebbero l’alcool, lo trangu­ giano come un filtro... E immediatamente i guardiani dell’anima entrano in sopore, la vergogna si allontana traendo con sé la memoria delle creature amate; le bar­ riere cadono a una a una; l’alcool, gli stupefacenti por­ gono ai loro fedeli le chiavi del basso regno. La peccatrice dai capelli disfatti, poiché è stata libe­ rata dai sette demoni, è senza dubbio Maria Maddalena. E noi cerchiamo di rappresentarci il miracolo: il suo passaggio da un mondo a un altro mondo. « Quale sta­ to, e quale stato ! » grida Bossuet. Ma forse, a dire il vero, non vi fu « scena »: ciò che si può raccontare degli atti di Gesù non è nulla in paragone di ciò’ch’egli com­ pie nel segreto delle anime. Già il Figlio dell’uomo vi­ veva, agiva come vive e agisce il Cristo invisibile. La storia di Maria Maddalena si è svolta dentro di noi, o vi si sarebbe potuta svolgere. La nostra propria libera­ zione, o il nostro incatenamento ci aiutano a immagi­ nare ciò che fu codesta liberazione della donna perduta. Poiché si trattava appunto di un possesso. « Maria Maddalena da cui aveva cacciato sette, demoni. » La prostituta era posseduta. La lussuria non è forse un pec­

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cato come un altro? Questa impotenza a guarire di cui si dolgono gl’impuri, anche attratti da Dio, questo per­ petuo ritorno al peccato, è il segno evidente non d’una tentazione ordinaria, ma d una occupazione: occupazione dell’individuo, occupazione della razza? Esiste un testo atroce di Saint-Cyran dove l’eretico ci mostra, in una stessa famiglia, la successione quasi ininterrotta dei dannati, di padre in figlio. Questo spa­ ventevole uomo ha potuto concepire una sorta di dan­ nazione ereditaria senza che la sua fede crollasse davanti a un tale orrore. Ma è verissimo che il mistero dell’e­ redità ci obbliga a credere a un mistero di corrispon­ dente misericordia: ci sono delle razze possedute. La morte d’un essere decaduto non distrugge il germe della decadenza. E i figli della sua carne sono pure i figli del­ la sua cupidigia destinati a trasmettere l’orrenda fiaccola a ciò che da loro uscirà. Per sfuggire a quest’incubo non v’è che da contem­ plare l’anima penitente liberata dai sette demoni. Maria Maddalena ha trionfato delle fatalità della carne. L’amo­ re non potendo essere nato che dall’amore, ella ha ac­ ceso il controfuoco. Alla stessa maniera che il giorno in cui la creatura era tutta la sua vita, il mondo intero si oscurava intorno a un unico essere, (è infatti il più comune mistero dell’amore umano questo enorme abbas­ samento di tutto il resto, questa insignificanza di tutto ciò che esiste al di là dell’oggetto della nostra passione) oggi sul Cristo si riversa questa follia. Ancora una volta il mondo scompare, ma intorno a un uomo che è Dio. E la carne medesima di questa donna annega in tale an­ nientamento. Il vecchio desiderio è morto. La purità e l’adorazione si ricongiungono, si riconciliano in questo cuore placato. Maria Maddalena entra nella stanza dove Gesù è a tavola, e va dritta a lui senza guardare gli altri convitati. Non vi è più che Gesù nel mondo, e lei che ama Gesù. Ed ecco che il suo amore è divenuto il suo Dio. . E una penitente. Coloro che si stupiscono della loro

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impotenza a perseverare, cercano nella conversione una sorgente di delizie. Ma in un’anima seminata dai sette demoni, la zizzania or ora estirpata nuovamente germo­ glia, se la terra non è scavata, lavorata, rivoltata con sudore e con lacrime. A quest’ora della sua vita Maria Maddalena ha dovuto attraversare il momento in cui, già tutta dedita a Dio, sente ancora talvolta una vecchia passione urlare di fa­ me. Maddalena è morta per ciò che ha abbandonato. Nulla la separerà più mai da Colui ch’ella cercava di creatura in creatura. Ella segue Gesù dappertutto ov’egli va, un po’ sel­ vaggia, mi sembra; e non si arresta-se non quando egli stesso, conficcato al palo da tre chiodi, non può più avanzare, non fare un passo di più, fosse pure nella sof­ ferenza. Allora Maria Maddalena inchiodata ella pure contro il termine finalmente raggiunto, contro quell’al­ bero pieno di sangue, l’abbraccia strettamente finché il corpo lacerato del suo Dio non ne sia stato disceso e rinchiuso nel vicino sepolcro. Mentre ella sa dove il sacro corpo giace, anche privo di vita, nulla per lei è perduto. Si allontana dalla tomba soltanto il tempo di andare a comprare i profumi. E all’alba rieccola al se­ polcro, con Salomè, con la madre di Giacomo. Allora soltanto ella si sveglia davanti a quella buca aperta, davanti a quella porta smascherata sul vuoto. Hanno portato via il Signore ! Ed ella ignora dove l’hanno po­ sto ! Cerca un aiuto, si rivolge all’ortolano, e non sa che è Lui (secondo la parola che doveva intendere l’autore àetì’Imitazione : «Quando tu credi essere lontano da me, è allora che, spesso, io ti sono più vicino... »). Ogni personaggio impegnato nel dramma della Re­ denzione appare come un prototipo del quale non ac­ compagniamo ancora nella vita le repliche moltiplicate. Le anime coniate con Γ effige di Maria Maddalena non hanno cessato di popolare il mondo dopo ch'ella vi è passata. Oramai gli esseri più contaminati sanno che loro spetta d’essere i più amati perché sono stati i più con­

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taminati. Maria Maddalena stabilisce fra il grado di abbassamento da dove il Cristo ha tratto talune delle sue creature, e l’amore che esse gli devono, una proporzione che, se è consentita, suscita la santità dall’infamia stessa. Tra gl’impudichi, una cortigiana è quella di cui senza giudizio temerario si può dire che nessuna vergogna l’ha fatta arretrare, e che gradi d’abbassamento per lei non esistono. La sua vocazione è stata di non dire di no a nulla di ciò che inventa l’uomo impegnato in questa corsa dietro l’infinito, in questa caccia all’assoluto attra­ verso il sensibile. Inimmaginabile rovesciamento! Ma­ ria Maddalena resta fedele a tale vocazione: essa con­ tinua a non rifiutare nulla, però a Dio, non più agli uomini. Riprenderà la stessa indefessa ricerca, ma questa volta sulle orme del suo Signore e del suo Dio. Vergine sempre folle, la follia della croce si sostituisce a quella del corpo — abbandonata come poco fa a ogni eccesso, sopra un piano dove ogni eccesso è oramai consentito, dove il superamento di sé per opera di se stessa non conosce più regola, dove non esiste nessun altro limite alla purità, alla perfezione, che la purità e la perfezione del Padre che è nei cieli.

Parabole Senza dubbio si uni questa penitente al gruppo delle donne che assistevano Gesù coi loro beni: alcune delle quali erano di migliore origine che non fossero i disce­ poli (Luca nomina Giovanna moglie di Chusa, inten­ dente di Erode). Attorniato da tutte queste anime che ha liberato, Ge­ sù, sulla sponda del lago, annunzia il Regno di Dio. Sulla montagna aveva attaccato di fronte i Farisei. Ora, cerca il ricovero delle parabole, - come Isaia al quale Iddio irritato comanda: « Parla per non essere compre­ so, spandi tanta luce che ne siano abbagliati ». Gesù si rivolge a dei fanciulli e racconta loro delle storie. Si va

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a cercare assai lontano la ragione delle parabole: ma Dio si abbassa, siede per terra, al livello dei più pic­ coli; discorre di ciò eh’essi conoscono, della semente, della zizzania nei campi seminati, del lievito: egli av­ volge la verità in un racconto così semplice che i sa­ pienti non lo comprendono. Il Figlio dell’uomo copre la sua dottrina, la nasconde sotto la cenere delle immagini perché non deve precorrere la sua ora, non bisogna che 10 si metta a morte ancora. D’altra parte i suoi discepoli e gli stessi Dodici de­ vono essere ammaestrati. Niente può distogliere quei testardi Ebrei dal credere a una vittoria temporale del loro re, con una convinzione radicata al punto che alla vigilia della sua morte penseranno ancora a reclamare un trono. Pazientemente Gesù paragona davanti a loro 11 Regno di Dio al chicco di frumento che si moltiplica da se stesso e che non matura che col tempo: alla più piccola delle sementi che a lungo andare diverrà quel grande albero pieno di nidi di uccelli. Egli li prepara soprattutto alla più triste verità: un altro seminatore esi­ ste, quello che semina la zizzania nel campo del Signo­ re; e non si distingue il grano dalla zizzania, se non a mietitura finita... Allora la zizzania brucerà. Io penso a quei fuochi d’erbe i cui fumi posano immobili sulla campagna in quelle sere estive ove non spira un soffio. La zizzania era la zizzania prima che il grano ne fosse germinato. Il grano era già dato al nemico perché lo seminasse. L’erba cattiva, i cattivi cuori... Ma il Regno di Dio è pure un po’ di lievito mesco­ lato alla pasta. Tutta la pasta umana sarà sollevata da una grazia oscura e onnipotente. I cuori apparentemente più lontani dal Cristo, saranno dilatati. Non si tratta di trionfare con rumore. Bisogna sotterrare l’amore nel mondo. Il Cristo esita ancora a rivelar loro ch’egli stesso vi sarà sepolto fino alla consumazione del tempo, e che l’ostia vivrà nel più chiuso spessore della massa umana. Parabole dolci insieme e paurose per via di quella scelta che è manifesta, di quella volontà di illuminare i buoni

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e accecare i cattivi: — A voi è stato dato di conoscere il mistero del Regno di Dio, mentre che agli altri è an­ nunciato in parabole affinché vedendo non vedano pun­ to, e intendendo non comprendano punto —. Altri vol­ tino e rivoltino quel testo d’una perfetta e terribile lim­ pidità. È la parola di un Dio che sceglie, che toglie l’uguaglianza, che preferisce un’anima a un’altra anima, - perché egli è l’Amore.

La tempesta acquietata I suoi amici che non comprendevano nulla, compren­ devano nondimeno questo: ch’egli era l’Amore, e che bisogna essere pazzi non di terrore, ma di fiducia. Si stringevano a lui come fanciulli, come pecore. Un gior­ no ch’egli aveva voluto traghettare all’altra sponda del lago, una tempesta si scatenò, e la barca si empiva d’ac­ qua. E frattanto Gesù dormiva a poppa, sul cuscino. Essi lo ridestarono con le loro grida: — Maestro, peria­ mo ! — Allora egli si levò e comandò al mare, e il mare si abbonacciò. Essi guardavano tremando quell’uomo in piedi, dai capelli gonfi di vento. Il loro timore aveva cambiato di oggetto, poiché non lo riconoscevano. Doν’era il Maestro familiare, tenero e violento? Al disopra del sangue e della carne, emergeva e faceva loro paura. Guarire gl’infermi, risuscitare i morti: ciò poteva essere dato a un gran profeta; essi stessi ci riuscivano... Ma comandare ai venti e al mare e esserne obbedito... — Chi è egli? — si domandavano quei poveretti. E non­ dimeno riconobbero la voce appassionata, un po’ irrita­ ta: — Dov’è dunque la vostra fede? — In sostanza il Cristo non ne voleva alle sue creature perché fremessero davanti a quella brusca sfuriata contro una potenza mo­ struosa. Ciò era più di quanto esseri effimeri possano sopportare. Ed egli sapeva che il Figlio dell’uomo com­ pie un più sorprendente prodigio quando placa un cuore aperto dalla passione fin nei suoi abissi: poiché né il

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vento né il mare gli resistono, ma i cuori lacerati dal­ l’amore, ma la carne sconvolta dal desiderio, posseggono una forsennata potenza di diniego. Allora il vento gri­ da: — No! — e schiaffeggia il volto del Dio impotente.

Nel paese dei Gadareni

Gesù approdò al paese dei Gadareni, di rimpetto alla Galilea, senza dubbio presso il villaggio oggi in rovina di Kursi. A qual fine aveva attraversato il mare? Su quella riva dimorava l’eterno nemico che non lo tentava più, ora che lo conosceva. Un ossesso nudo uscì dai sepolcri vuoti che là si trovavano. Il demonio gli aveva dato la forza di spezzar le catene di cui l’avevano cari­ cato. Corse verso il Signore, e si prosternò ai suoi piedi: — Che vi è fra me e te, Gesù, Figliuol dell’Altissimo? Di grazia non tormentarmi! — Egli pretendeva chia­ marsi « legione » : era un demonio innumerevole, il qua­ le, dopo la liberazione dell’ossesso, ottenne la grazia di entrare in certi porci; l’intero branco si precipitò nel la­ go, e annegò. I guardiani spaventati gettarono l’allar­ me, e tutta la popolazione supplicò Gesù di andarsene. Il Figlio dell’uomo non ispirava dunque soltanto l’amore o l’odio, ma anche il terrore. Quel Dio annientato nella carne e che i Farisei non vedevano, creava dei sobbollimenti attorno alla sua formidabile presenza. Che sap­ piamo noi del buio del mondo angelico? La gente di Kursi ebbe paura del Cristo: la paura è una forma bassa della fede. Quei contadini non cerca­ vano di sapere chi egli era: era un uomo che aveva spaventato i loro porci. Oggi i porci... e che accadrebbe domani se si trattenesse in mezzo a loro? Contadini: erano più attaccati al loro bestiame che alla loro anima. Ma il Figlio dell’uomo non ne è irritato, e il liberato che si è coperto d’una veste, e che, accosciato accanto al Signore, lo supplica di tenerlo con sé, riceve l’ordine di rimanere dov’è, di divulgare la sua liberazione, di pre-

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dicare il Regno di Dio a quella povera gente. Così quel­ l’uomo fu un precursore di Paolo di Tarso: bisogna ve­ nerare in quello sconosciuto il primo apostolo dei Gentili. Questo Gesù abituato all’adorazione o all’odio, dove soffrire d’aver atterrito i Gerasenii. Essi l’avevano pre­ gato, ma lo scopo della loro preghiera era ch’egli si al­ lontanasse. Essi hanno una posterità più numerosa che non si pensi: tutti coloro che hanno ricevuto una chiama­ ta, che hanno visto, che hanno toccato, che sanno infine che la verità è vivente, ch’essa è qualcuno. Ma non sono che dei poveri uomini impegnati nel loro mestiere, nelle loro bramosie; hanno una famiglia da mantenere, e passioni che non riescono a soffocare. Quell’amore che scava il suo solco in piena carne, che monda, che taglia nel vivo, lo temono più del fuoco. Si lascino coi loro porci! La croce è una follia, e la parte degli angeli non s’attaglia a loro. Oltre di che, essi ragionano. Quel regno di Dio comporta tutto un mondo brulicante di demoni, e nulla di più repugnante a loro delle diavolerie.

La figlia di Jaìro e il lembo del mantello

Gesù montò dunque tristemente nella barca per ritor­ narsene, e quando alfine toccò l’altra riva del lago, con quale gioia vide venire a sé la moltitudine appassionata e familiare ! Ah ! otterranno tutto ciò che chiedono, essi che non hanno paura di lui, che anzi lo affollano e gli impediscono di avanzare! Ecco un capo della sinagoga, Jaìro, davanti al quale il popolo si scosta. Egli si getta ai piedi del Signore, lo supplica di venir presto perché sua figlia è morente. Ma tanta era la calca che Gesù non poteva procedere. D’un tratto, in mezzo a quel formicolio umano, egli conobbe che al Figlio di Dio una virtù era uscita. — Chi mi ha toccato? — Tutti negavano, e Pietro protestò ri­ dendo : — Come ? Ci si monta sui piedi, e tu domandi chi ti ha toccato? — Ma il Signore sapeva che una virtù

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era uscita dalla sua carne. Allora una donna, tremando, si prosternò dinanzi a lui. Soggetta da dodici anni a una perdita di sangue, aveva spesa nei medici tutta la sua sostanza. Ed ella aveva in segreto toccato il lembo del mantello. Ed ecco, era guarita! Gesù la guardò e disse: — La tua fede ti ha salvata, vattene in pace. In quell’istante un amico di Jairo accorse. Inutile muo­ versi: la fanciulla era morta. Il Signore cercò gli occhi di Jairo: era giorno di tenerezze e di meraviglie. Mai come ora aveva amato quel popolo che non lo teme, che gl’impedisce di avanzare, che tocca il lembo del suo mantello! — Non temere, Jairo. Credi solamente. Non la paura, ma la fede. Credere in Gesù è insieme la grazia delle grazie e la virtù delle virtù. Colui che crede è salvato. Ma credere in Dio è un dono di Dio. Che c’è di più terribile al mondo di questa virtù indi­ spensabile alla salute che è pure una grazia affatto gra­ tuita? Beati quelli che sanno chiudere gli occhi, e che in abbandono infantile stringono il mazzo di tutte le loro forze. Jairo e sua moglie introducono Gesù nella loro casa. Nessuno va dietro a loro, eccetto Pietro, Giacomo e Gio­ vanni. Quelli ch’erano intorno al letto non interrup­ pero i loro lamenti che per farsi beffe del taumaturgo che sopraggiungeva a cose finite. Ma lui: — La fan­ ciulla non è morta : essa dorme —. E la chiamò : ·— Fan­ ciulla, levati —. E la piccola si alzò. E Gesù comandò che le dessero da mangiare.

Capitolo XIII

Erode ja mozzar la testa di Giovanni Battista

Alla fine di simili giornate l’uomo-Dio era esausto. Ecco l’ora d’essere aiutato nella sua conquista, non ancora del mondo, ma d’Israele. Egli riunisce i Dodici e comu­ nica loro la sua potestà sullo spirito impuro e sulle ma­ lattie. Non li abbandona al demone della solitudine, ma li manda a due a due, e impone loro la povertà assoluta. La sola regola giudicata irragionevole dalle generazioni che seguiranno, e non potuta fondare nella sua purità né da Francesco d’Assisi né da Teresa, è la regola stessa del Cristo. Che gli apostoli fuggano i caravanserragli, alloggino presso le famiglie che li accoglieranno: che dappertutto predichino la morte della carne: è per lo spirito che si va a Dio, e per il corpo alla corruzione. La corruzione domina in quel momento il paese che il Figlio dell’uomo solleva. Erode Antipa aggiunge de­ litto a delitto. Aveva desiderato Erodiade, la moglie di suo fratello che San Marco chiama Filippo e che lo storico Giuseppe chiama Erode. L’aveva conosciuta a Roma, e quantunque essa fosse sulla trentina, la rapì, e la tenne come moglie dopo aver ripudiata la regina figlia di Aretas re dei Nabateeni. In pieno regno di Dio sorgeva dunque l’altra città che tuttora dura, dove ciascuno di noi ha più o meno vissuto, dove continuamente ritorna, dove il vino rende indulgenti a qualsiasi debolezza, dove i corpi ripieni di

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cibo e sparsi di profumo stanno coricati e si toccano; dove lo spirito svincolato brilla, inventa, seduce i pre­ senti, ma imbratta ferisce e uccide i lontani; il regno dove ci si odia, dove ci si desidera, dove ci si strazia gli uni gli altri, dove la morte si propaga da cuore a cuore: il Mondo. Nel suo palazzo di Macheronte, Erode Antipa, per quanto criminale fosse, curvava il capo quando Giovan­ ni giungeva, sparuto, orrido sotto la sua pelle di cam­ mello, e gli avventava in pieno volto: — Non ti è lecito aver la moglie di tuo fratello! — Da se stesso mai l’avrebbe incarcerato, e non si arrese che alle premure di Erodiade. Fors’anche lo fece per metterlo al riparo, poiché, dice San Marco, Erode venerava e proteggeva Giovanni Battista, seguiva i suoi consigli in molte cose, e volentieri l’ascoltava. Nondimeno il Battista non gettava le sue perle ai porci, poiché non gli parlò mai del Cristo, come lo pro­ va l’affanno di Erode, dopo la morte di Giovanni, uden­ do il racconto dei miracoli di Gesù: — È Giovanni Bat­ tista che io ho fatto decapitare e che è risuscitato dai morti... In realtà, l’amicizia di Erode per il suo prigioniero non era stata all’altezza dell’odio di Erodiade. Codesto schiavo cieco e coronato che si erge in piena Redenzio­ ne, codesto reuccio che trema dinanzi a Roma ma che è il padrone in Galilea e per il quale non esiste crimine, toccherà il limite estremo dell’asservimento. La donna vuole la testa del santo, e spia la sua ora. Sarà la sera, nel colmo dei piaceri, mentre la carne è felice e insieme inasprita, e il vino decupla l’orgoglio e rende quasi insopportabile la fortuna di regnare sopra i corpi e sopra gli spiriti. Erodiade onnipotente non ha paura di sollazzarsi con quella cupidigia immonda; alla fine del pranzo chiama la figliuola Salomè perché danzi: è una fanciulla che le è nata dal suo primo marito. Erano presenti gli ufficiali della corte e tutto il meglio di Galilea. « Beati i cuori puri ! » La parola ancora non

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ha avuto tempo di germogliare. Gli adoratori del vero Dio, in quella sala, fissavano con occhi divoranti quel giovane rettile. — Tutto ciò che tu vorrai! La metà del mio regno, se lo esigi! — gridava il Tetrarca nel bol­ lore di quella estasi inferiore che è la gioia perfetta della carne. È questo che si chiama vivere. Egli viveva, poteva illudersi d’aver vissuto fino alla estrema punta d’una fe­ licità, all’antipodo d’un’altra Beatitudine che respirava, a una giornata di cammino di là, che era vivente, nel cuore di quella notte galilea, in uno di quei siti solitari dove il Figlio dell’uomo si raccoglieva a pregare. La fanciulla uscì, e interrogò sua madre: — Che cosa chiederò? — Erodiade rispose: — La testa di Giovan­ ni Battista —. La figliuola non fu per nulla stupita né urtata. «Il re fu contristato: nondimeno, a causa del suo giuramento e dei suoi convitati, non volle affliggerla con un rifiuto. Mandò subito una delle sue guardie con l’ordine di recar la testa di Giovanni sopra un piatto. La guardia andò a decapitare Giovanni nella prigione, e portò la testa sopra un piatto; Erode la diede alla fan­ ciulla, e la fanciulla la diede a sua madre. » E Giovanni Battista conosceva finalmente la gioia, e sapeva chi era l’Essere dinanzi al quale aveva cammi­ nato sulla terra; e lo possedeva.

Capitolo XIV

Guarigione del paralitico presso la piscina delle Pecore

Nei giorni che seguirono quell’uccisione, la reputazio­ ne umana di Gesù salì al suo culmine (al punto da tur­ bare il Tetrarca) come pure l’amore che egli ispirava, ma più ancora l'odio. Forse bisogna situare intorno a quel momento un breve soggiorno ch’egli fece a Gerusalem­ me, per una festa degli Ebrei a proposito della quale San Giovanni tace. Parrebbe ch’egli compisse quel viag­ gio in segreto, e senza i Dodici che aveva mandati a due a due attraverso la Galilea. In pieno campo nemico e solo, ha fatto ciò per cui è venuto, ma con quella pru­ denza di serpente che raccomandava ai suoi. Un giorno di sabato, sotto uno dei cinque portici della piscina delle Pecore, comandò, senz’alzar voce, a un uomo paralizzato da trentotto anni: — Levati, prendi il tuo letto e cammina —. E immediatamente, come dopo un colpo mancino, si perdette nella folla. Era in verità un delitto agli occhi degli Ebrei incitare un pa­ ralitico a portare il proprio letto in giorno di sabato. Un’inchiesta fu fatta; e il miracolato che aveva frattanto incontrato Gesù nel Tempio e l’aveva riconosciuto, lo denunciò. Il Nazzareno, volgendosi allora verso la turba, tenne testa. Parlò agli Ebrei dei rapporti del Figlio e del Pa­ dre con una tale audacia che dovette lasciare la città santa per non anticipare l’ora delle tenebre.

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Moltiplicazione dei pani

Alla sponda del lago l’attendevano i Dodici, reduci dalla loro missione, stupefatti di ciò che avevano com­ piuto nel nome di Gesù. Giuda di Keriot dovette, in quel momento, posseder la certezza che raggiungerebbe alfine lo scopo, e che il Padrone tenterebbe un gran colpo. Gioverebbe, allora, essere stato tra i suoi primi amici ! Sono tutti felici, abbagliati, ma sfiniti. Tanta gen­ te li premeva, che non lasciava loro nemmeno il tempo di mangiare. Il Maestro ebbe compassione della loro fatica, e li condusse in un luogo deserto perché vi pren­ dessero un po’ di riposo. Ogni deserto dove il Figlio dell’uomo penetrava, su­ bito formicolava d’uomini. Per lui, nessuna solitudine sicura all’infuori della barca di Pietro o di quella del fi­ glio di Zebedeo. Si allontanarono dunque dalla riva. Ma già da quando lo molestava, la folla aveva scovato il luogo del suo rifugio. Quando Gesù e i suoi sbarca­ rono dall’altra parte del lago, trovarono una moltitudine arrivata per via di terra, e che l’afflusso delle città in­ foltiva: un gregge spossato, fedele, fiducioso. E tutte quelle teste di pecore rizzate verso di lui. Egli non si irritò. Un sentimento umano faceva battere il suo cuore di Dio: una divina passione precipitava il ritmo del suo sangue: poiché la pietà, dopo che il Verbo si è fatto car­ ne, è una passione comune al Creatore e alla creatura. Dio ha sentito nel suo proprio corpo la fame dei po­ veri, la loro sete, il loro esaurimento. Ha preso parte al sudore, alle lacrime, al sangue. Allora si mise a insegnar loro molte cose, ci dice l’Evangelo. Codeste cose che il Cristo diceva nel mo­ mento stesso in cui era mosso a compassione dallo spet­ tacolo della folla stanca e raccolta, non sono giunte fino a noi: certo perché nessun linguaggio umano le avrebbe potute rendere. Ma noi sappiamo che tra quelle migliaia d’uomini, di donne, di fanciulli, nessuno v’era che si

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preoccupasse vedendo l’ombra distendersi sulla campa­ gna. Ascoltavano, si abbandonavano a quel misterioso pastore. Egli parlò finché non l’interruppe il mormorare dei discepoli: — Questo luogo è deserto, e la notte ci è sopra. Ri­ mandali, affinché ritrovino le loro castella e i villaggi dei dintorni per comprarsi di che mangiare. Una stanchezza indispettita si tradisce nell’accento del Maestro mentre risponde: — Date loro voi stessi da mangiare —. Non hanno dunque ancora capito che tutto ciò non ha per lui alcuna importanza? Filippo dice: — Quando avessimo per duecento de­ nari di pane, non basterebbe per darne un pezzo a cia­ scuno... — Vi era lì un giovane che aveva cinque pani d’orzo e due pesci. Ma che cosa poteva essere ciò per tanta gente? Cinquemila persone che Gesù fece coricare sull’erba... « Egli prese i pani, e avendo reso grazie, li distribuì loro, e diede loro i due pesci finché ne vol­ lero. » E ne sopravanzarono dodici corbelli pieni. Le pecore pasciute non sono più pecore, ma parti­ giani appassionati: vogliono che Gesù sia re. E questo certo il momento che l’uomo di Keriot spia, il minuto che bisognerà non lasciar passare a nessun costo. Ahimè! Sempre ingannevole, il Maestro approfittò dell’ombra per sottrarsi a quella insigne fortuna e raggiungere le alture, non senza aver comandato ai suoi discepoli d’im­ barcarsi e dirigersi su Cafarnao. Quanto a lui, voleva essere solo, sconvolto forse da ciò che aveva allora allora compiuto per via di simbolo, e che superava infinita­ mente ciò che quelle umili genti immaginavano, - come l’artista urtato dalle lodi che si prodigano ai suoi ab­ bozzi, lui che custodisce nel proprio cuore l’opera an­ cora ignota al mondo. La moltiplicazione inimmaginabile, « impensabile » di quel pane che sarà il suo corpo, di quel vino che sarà il suo sangue, in qual momento oserebbe annunziarla se non oggi stesso? Non gli restano molti giorni da vive­ re. ... La notte è scesa, il vento si è levato, e reca forse

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l’odore di quell’erba pestata dalla moltitudine di cui il Figlio dell’uomo ha avuto compassione. Gesù pensa ai suoi che si stancano a remare contro quel vento. Pensa a raggiungerli, e prende la via più breve.

Gesù cammina sulle acque

Va con passo agile su l’acqua mossa, senza riflettere... Noi sappiamo che nessuno dei suoi miracoli potè essere involontario. Il Figlio di Dio non poteva dimenticare che essendo uomo non avrebbe potuto camminare sul mare. E nondimeno si comporta come un essere che crede avere il diritto di calcare la liquida pianura. La schiuma baciava i piedi ch’erano stati asciugati dalla don­ na perduta. E certamente era lume di luna, poiché egli vedeva da lontano i rematori lottare contro il vento. Marco ci dice « ch’egli volle sorpassarli ». Fu vedendoli lasciar cadere i remi e alzarsi pieni d’angoscia, ch'egli comprese che pure a loro, ai suoi diletti, come alla gente di Kursi, faceva paura. Gridò da lontano : — Sono io ! Non temete ! Sono io ! — E avendoli raggiunti, saltò sulla barca, e il vento cadde, e il mare si raccolse sotto colui che portava. Questo prodigio compiuto nel segreto della notte, e del quale solo i Dodici erano stati testimoni, fu scoper­ to: poiché molti, avendo visto gli Apostoli montare sen­ za il Maestro nella barca, erano ritornati per la sponda a Cafarnao, e ora stupivano di ritrovarvi Gesù. Da ogni parte chiedevano: — Maestro, quando sei venuto qui? Lo cercavano perché li aveva nutriti nel deserto, e pensavano ricevere ancora di quel pane che non costava loro nulla. C’era in loro questa gioia impaziente d’es­ sere di nuovo nutriti gratis. Ed era a loro che Gesù do­ veva risolversi a parlare di quel pane che non sarebbe pane ! Ma il Figlio dell’uomo, irritabile fino, al furore coi Farisei e coi sacerdoti, diventa, quando si tratta di poveri, la Pazienza infinita. È l’eterno paziente che li

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avverte: — Lavorate: non per il cibo che perisce, ma per quello che rimane e che vi sarà dato dal Figlio dell’uomo. Nella sinagoga di Cafarnao dove li ha tratti, i nemici s’erano già mescolati agli umili ch’egli aveva nutriti la vigilia, e cattive voci si alzarono: — Che miracoli fai tu dunque? Quali sono le tue opere ? Senza dubbio hanno inteso parlare di quella strana moltiplicazione... Ma che! Sanno che quell’impostore ha più di un trucco a sua disposizione. E la marmaglia non è difficile da ingannare. Un vero miracolo è la piog­ gia di manna nel deserto. — Fai dunque altrettanto, tu che moltiplichi i pani ! I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto... Gesù sospira dentro di sé: essi ammirano cosa che non fu che un simbolo di ciò che il Figlio di Dio com­ pirà. Ma molti non vorranno crederci. Il miracolo dei miracoli è quello che non cade sotto i sensi e che la sola fede riconosce. Che c’è, per la maggior parte degli uo­ mini, al di là di ciò che si vede e si tocca? O impresa sovrumana, persuaderli di ciò di cui bisognerà bene che il vivente Amore li persuada! Egli sa che nei giorni venturi immensi branchi umani si prosterneranno dinan­ zi a una piccola ostia. Gesù, annientato e vivente sotto quella apparenza, solleverà moltitudini in tutti i paesi del mondo: e che sono, al paragone delle folle future, quelle chiassate di Ebrei intorno a lui a Gerusalemme e a Cafarnao? È giunta l’ora della prima parola che sfiori l’inconcepibile mistero.

Il pane di vita — In verità io ve lo dico, Mosè non vi ha dato il pane del cielo. È mio Padre che vi dà il vero pane del cielo, che dà la vita al mondo.

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Essi dunque gli dissero: — Signore, dacci sempre di questo pane —. Egli rispose: — Io sono il pane di vita. Chi viene a me non avrà mai fame, e chi crede in me non avrà giammai sete. Il Cristo si è spinto troppo oltre: non cercherà più d’ora innanzi di camuffarsi. Non è più dinanzi a una donna di Sichar, che si smaschera, ma di fronte ai suoi avversari e ai suoi amici: e tra questi ultimi parecchi già indietreggiano, scandalizzati di quel viso sconosciu­ to. Questa volta ha passato il segno! E le grida dei Fa­ risei trovano un’eco perfino tra i suoi discepoli. Un mormorio di disapprovazione lo interrompe. Egli li af­ fronta con tutto l’impeto del suo amore. Andrà fino al­ l’ultimo termine, ora; e le affermazioni stupefacenti, mo­ struose, si susseguono: — Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se il Padre che mi ha mandato non lo attira; e io lo resusciterò nell’ultimo giorno... In verità io ve lo dico, chi crede in me avrà la vita eterna. Io sono il pane di vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel de­ serto e sono morti. Eccovi il pane disceso dal cielo af­ finché colui che lo mangia non muoia... Se qualcuno mangia di questo pane, vivrà eternamente; e il pane che io vi darò è la mia carne, per la salvezza del mondo... «Su ciò gli Ebrei disputavano tra di loro dicendo: Come può quest’uomo darci a mangiar la sua carne ? » Scoppi di risa forse echeggiarono. Giuda, in quel mo­ mento, dice tra sé: “Questa volta è proprio perduto, e per colpa sua. E se non si trattasse che di lui ! Ma ci ha pur trascinati...”. E al di sopra delle mormorazioni della folla divisa, la medesima domanda prorompeva inces­ sante: — Come può darci a mangiare la sua carne? Egli li affronta con una andatura da Dio, senza nulla udire in apparenza - ma sente tutto! - senza nulla ve­ dere; ma di quell’immenso riflusso di cuori che si al­ lontanano da lui, nulla gli sfugge. Vacillano le fiamme che durò tanta fatica a accendere. E su esse continua a

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lasciar cadere in brevi piccole frasi la verità assurda, insostenibile: — Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete la vita in voi stessi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue possiede la vita eterna, e io lo resusciterò nell’ultimo giorno. Per­ ché la mia carne è veramente un cibo, e il mio sangue è veramente una bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue abita in me ed io in lui. Come il Padre che è vivente mi ha mandato, e io vivo per il Padre, così colui che mangia me vivrà pure per me. È questo il pane che è disceso dal cielo. Non accade come ai vo­ stri padri che han mangiato la manna e sono morti: colui che mangia di questo pane vivrà eternamente. L’Evangelo aggiunge: «Gesù disse queste cose, inse­ gnando in piena sinagoga a Cafarnao. Parecchi dei suoi discepoli avendolo inteso, dissero: — Questa parola è dura, e chi può ascoltarla ? ». Alcuni dunque che l’avevano seguitato fino allora, si ritrassero. Ma uno di quelli che Gesù aveva deluso per sempre non si unì a loro: l’uomo di Keriot compresse il suo furore. Era stato giocato, gabbato. Ma c’è qualcosa ancora da cavar da quest’uomo, forse?... Giuda occupa nel medesimo istante il pensiero di Gesù. « Egli sape­ va » dice San Giovanni, « chi era colui che lo tradi­ rebbe. » La folla mormorante si disperde. Il Figlio dell’uomo non ha più bisogno di cercare il deserto per scansar gli importuni. Inutile montar sulla barca. Si è spinto troppo oltre. L’abbandono incomincia. Nella cupa sinagoga non rimangono più che dodici uomini sconcertati, che non sanno che dirgli. Egli li guarda, l’uno dopo l’altro; e d’un tratto la domanda così tenera e triste, così umana, anche; e questa volta è il Dio che cede un po’ il posto al Figlio della donna: — E voi, anche voi volete andarvene? Allora Simon Pietro credendo di parlare in nome di tutti grida:

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— Signore, a chi andremmo noi? Tu hai le parole della vita eterna. A codesto grido che dovrebbe consolare l'abbando­ nato, nulla egli risponde da prima. Dodici visi voltati verso la faccia dolorosa. Ma uno solo basta per offuscare tutta la luce che risplende su gli altri undici. Gesù dice alfine : — Non sono io che vi ho scelti voi dodici ? — Ed è certo a voce più bassa, che aggiunge la tragica frase: — E uno di voi è un demonio.

Capitolo XV

Sulla strada di Cesarea di Filippo

Li trasse in una corsa errante, sia che volesse rintrac­ ciare quelli che cercavano di farlo morire, sia che ane­ lasse un intervallo di solitudine con quegli undici cuori incerti, per lavorarseli a suo agio. Poiché molto ancora rimane da operare in loro, e il grido di Cefa: — Verso chi andremmo noi? — è ben lontano da ciò che il Fi­ glio attende da lui. Ciò ch’egli attende è di essere riconosciuto per ciò che è... Ma tutti titubano, esitano, ondeggianti come tutti noi siamo. In certi giorni, abbagliati, ricolmi di certez­ za, dicevano tra loro: “È veramente il Figlio di Dio!” ma talora invece pensavano che forse non tutto era falso, se non nelle accuse dei Farisei, almeno nei biasimi dei discepoli di Giovanni. Se avessero saputo verso dove era­ no incamminati, verso quale sconfitta! I poveretti a cui la parola intorno al pane di vita era parsa dura, come avrebbero accolto una profezia, anche velata, a proposito di quella croce degli schiavi dove tutto doveva conchiu­ dersi ? È necessario apparecchiarli a considerare senza fre­ mere quella corona e quel trono che sognano per il Mae­ stro e per sé, a non perdersi d’animo davanti a quelle spine, quel mantello scarlatto, quei due pezzi di legno. La piccola comitiva si volse verso il nord-ovest, in dire­ zione di Tiro; di là raggiunsero Sidon prima di seen-

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dere verso la Decapoli. Mentre vanno, il Maestro ribatte incessantemente quel punto del suo messaggio: che il regno di Dio è dentro di noi, che tutte le osservanze sulle abluzioni, sul lavamento dei piatti, sull’astinenza dagli alimenti impuri, non servono a nulla per la salute. Ciò che macchia l’uomo non viene dal di fuori: è lui l’artefice della propria sozzurra, che si forma nel suo cuore ed è il frutto della sua cupidigia. Lungo la strada il Signore non rifiutò di liberare una ossessa siriana né di guarire un cieco: ma la madre della ossessa, poiché era pagana, fu da prima respinta. Al sordomuto mise le dita nelle orecchie, e della saliva sulla lingua; e lo stesso fece con un cieco di Betsaida (quello di cui l’Evangelo riporta la straordinaria parola in cui tuttora vibra il suono dello stupore: « Vedo gente che cammina come alberi»). Certamente il Signore in­ tendeva insegnare ai suoi i gesti meglio fatti per sve­ gliare l’attenzione e la speranza degli infermi. Una segreta inquietudine lo teneva: aveva uno scopo che a lui solo era noto. Riprese il cammino verso il nord traendo i Dodici fino a quelle terre pagane ai confini di Israele ove il suo nome ancora non era giunto. Come non era ancora l’ora d’annunciare il regno di Dio ai Gentili, il Figlio dell’uomo fuggiva ogni occasione di manifestarsi. Rasentarono una delle sorgenti del Giordano dove il Dio Pan aveva il suo santuario. Già Cesarea di Filippo era vicina. Gesù di Nazaret attraversa una campagna piena di boschetti e d’acque dove le ninfe respirano. Il Gran Pan sonnecchia sotto le foglie, e l’appressarsi del Dio che lo caccerà da questo mondo, non lo risveglia. Presso Cesarea Gesù si decide alfine a porre ai suoi la domanda che medita da quando hanno preso la strada di Sidon e di Tiro. È per sottoporli a questa prova, che ha intrapreso il viaggio, lontano da Cafarnao, in piena gentilità. Una sera, mentre ancora la città non era in vista, osò chiedere loro: — Chi si dice che io sono? I discepoli intimiditi si scambiarono occhiate.

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— Gli uni dicono che tu sei Giovanni Battista, altri Elia, o uno dei profeti. — E voi, chi dite che io sono? Undici, per un minuto, esitarono. Ma già Pietro ave­ va gridato: — Tu sei il Cristo. Basta questo grido perché al margine della strada, non lungi da un tempio di Pan, la Chiesa cattolica esca da terra e si innalzi a misura che il Figlio dell’uomo pro­ nuncia le parole: — Tu sei beato, Simone, figlio di Giona, poiché non è la carne e il sangue che te Than rivelato, ma è il mio Padre che è nei cieli. E io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’in­ ferno non prevarranno contro di essa. E io ti darò le chiavi del regno dei cieli; e tutto ciò che tu legherai sulla terra sarà legato pure nei cieli, e tutto ciò che tu scioglierai sulla terra, sarà pure sciolto nei cieli. La profezia davanti alla quale aveva fino allora indu­ giato, ecco finalmente l’ora di osarla: poiché quegli uo­ mini di scarsa fede credevano tuttavia ch’egli era il Cri­ sto, egli drizzerebbe sotto ai loro occhi quella croce sconosciuta verso la quale camminavano senza saperlo. Il Signore comincia dunque a parlare loro con precauzione, non avanza che passo passo: l’ansietà dei loro sguardi fissi sulle sue labbra, aumentava a ogni parola: che cosa raccontava egli dunque? Andrebbe un’ultima volta a Ge­ rusalemme; gli anziani, gli scribi, i pontefici lo fareb­ bero soffrire, lo manderebbero a morte... Ma egli resu­ sciterebbe... Che era da capo questa pazzia? Tacque, e nessuno osò rompere il silenzio. Un po’ trafelato, leggeva in ciascuno di quei cuori, e li vedeva volgersi a ogni vento. Solo Giuda aveva compreso, cre­ deva avere compreso. Che il Maestro fosse capace di decifrare l’avvenire, di ciò egli non poteva dubitare. Ciò che agli altri undici pareva incredibile, egli lo am­ metteva a tutta prima. Il falegname di Nazaret sapeva ciò di cui l’uomo di Keriot non dubitava più dopo i di­ 18.

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scorsi insensati sulla carne-cibo e sul sangue-bevanda: Gesù sarebbe schiacciato; l’ultima parola sarebbe stata ai sacerdoti; no, Giuda non ne aveva mai dubitato: ma quale fortuna esserne sicuro! A Gerusalemme bisogne­ rebbe parlare con l’avversario. Gli ultimi discorsi del povero Gesù circa la sua resurrezione confermavano il giudizio delle persone ragionevoli e quello stesso della famiglia: egli era «fuori di sé» e nessuno è tenuto a serbar fede a un demente. Così pensava Giuda mentre il piccolo gruppo avan­ zava a testa china verso Cesarea. E tutt’a un tratto il migliore di tutti, colui che aveva confessato il Cristo, si distaccò, prese il Maestro a parte (forse per incarico dei suoi fratelli), e disse a voce bassa e in tono di protesta : — Iddio non voglia, Signore. No, ciò non ti accadrà. Si trova ancora a Barnias (o Panias, il cui nome deriva da Pan), nel luogo dove fu Cesarea di Filippo, un’erba folta che tocca i rami bassi degli ulivi. Quella croce rizzata per la prima volta nella campagna felice fece or­ rore a Pietro e allontana ancora, in Oriente, quei mi­ lioni d'esseri per i quali un Dio sofferente e crocifisso è inconcepibile. E l’Islam è nato da questo scandalo. Era per amore, che Cefa protestava. Il suo amore si con­ fondeva con l’incredulità: -— No! No! questo non ti accadrà... — Quasi avesse detto: — No, mio diletto, io non voglio che tu muoia! Ma il Figlio di Dio, lui, non volle da prima com­ prendere che dei poveri semiti fossero lenti a credere ciò che dopo diciannove secoli gli uomini della loro razza abominano: il Cristo umiliato, schernito, vinto... No, ciò non poteva essere! Urtato da quel diniego, Ge­ sù grida: — Allontanati da me, Satana, tu mi sei cagione di scandalo. Perché tu non hai l’intelligenza delle cose di Dio, tu non hai che dei pensieri umani. Ma quali altri pensieri Pietro avrebbe potuto avere? Egli non era Dio al pari di Gesù, se Gesù era uomo al

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pari di lui. Mentre l’apostolo indietreggiava a testa chi­ na, l’uomo di Keriot pensava: “Il Maestro incomincia a diventar violento, non si domina più”. Solo allora Gesù si abbonisce e si decide a preparare i Dodici: molto tempo occorrerà per istruirli in quel mi­ stero. Né lo penetreranno del tutto se non dopo toccati i suoi piedi e le sue mani trafitti, il suo costato aperto. Gesù divien timido a un tratto: non osa ancora nominar la cosa, l’oggetto, il segno, quel patibolo per gli schiavi, a forma di T, che sarà adorato nei secoli dei secoli. Poiché è bastata una allusione perché Cefa si sdegnasse, su quella strada, nelle vicinanze di Cesarea, il Signore ricorrerà a una astuzia di Dio: dell’Albero ch’egli non osa esporre apertamente agli sguardi dei Dodici, mo­ strerà loro l’immensa ombra ricoprente l’intero spazio d’una vita d’uomo. A due passi dal santuario consacrato al capripede, Gesù si risolve a parlare della « croce ». — Se qualcuno vuol essere mio discepolo, rinunzi a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Che simili discorsi dovessero dare a un uomo equi­ librato e ragionevole come Giuda una profonda sicurez­ za, non è un’ipotesi, è cosa ben certa: sì, il suo Maestro era pazzo... Ma gli altri intravedono un raggio di veri­ tà; hanno almeno compreso che per loro non è più il caso di comprendere: basta chiudere gli occhi e gettarsi in quella follia. Che cosa arrischiano, dal momento che il Figlio dell’uomo riapparirà nella sua gloria e renderà a ciascuno secondo le sue opere? Gesù, nondimeno, ag­ giungeva : •—■ E che serve a un uomo guadagnare il mondo in­ tero, se ha perduto la sua anima? Forse in quel momento teneva gli occhi addosso all’Iscariota, il quale pensava: “Una volta guadagnato il mondo, ci sarà sempre tempo a salvar la propria anima. D’altra parte, che cosa è l’anima?”. Giuda si ricorda del salmo : « La mia declinante vita si avvicina al soggiorno dei morti... Abbandonato in mezzo ai morti, simile alle vittime della spada che dormono nei sepolcri di cui voi

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non conservate più la memoria... ». A che giova aver guadagnato la nostra anima che non è che un soffio, un po’ di vento? (è l’opinione dei Sadducei). A che scopo guadagnar la propria anima se si perde l’universo?

La trasfigurazione Così pensava Giuda; anche negli altri il Signore do­ vette avvertire un’ultima resistenza. Fra tutti i suoi di­ scepoli egli ne aveva scelti dodici, ed erano ancora trop­ pi. Allora, dopo sei giorni di esitazione, risolse di pren­ derne tre fra i dodici... Ma questi li costringerebbe a cre­ dere, li costringerebbe a riconoscere per forza, dal solo suo aspetto, ch’era il Figlio del Benedetto. Vedrebbero anticipatamente il Figlio dell’uomo giungere nello splen­ dore del suo regno affinché nel tempo delle tenebre po­ tessero ricordarsi di quell’ora e non venir meno. La scelta del Signore era già fatta. Cefa anzitutto; e poi Giovanni, perché egli l’ama, e da lui non può tol­ lerare il menomo dubbio, la menoma tiepidezza. E Gia­ como, perché è il fratello di Giovanni e lo segue dap­ pertutto. Ed ecco in quel giorno il Figlio di Dio risplenderà davanti agli occhi dei suoi tre amici affinché più tardi il discepolo prediletto possa scrivere : « Ciò che i nostri occhi hanno veduto, ciò che le nostre mani hanno toc­ cato, ciò che i nostri orecchi hanno udito intorno al Verbo della vita ». Li menò dunque sopra un monte. Se si tratta del Ta­ bor, secondo una tradizione che risale a San Cirillo di Gerusalemme, era non lungi da Nazaret : nel tempo della sua vita nascosta egli aveva spesso dovuto ritirarvisi per essere solo col Padre. Un borgo ne occupava la vetta, ma egli scoprì facilmente un luogo deserto. Anche se il fatto accadde durante il giorno, il sole del suo volto rese il cielo oscuro, e la neve del suo ve­ stimento ottenebrò il rimanente mondo. Un povero Ebreo

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ricoperto di un mantello di lana grezza, riluceva. Quella luce era sempre la stessa che riconosciamo attraverso i racconti di coloro che l’hanno veduta, da Paolo di Tarso alla piccola Bernadette Soubirous: la luce che contem­ plavano gli occhi ciechi del vecchio Tobia. Quei tre uomini che avevano urlato di terrore quan­ do Gesù s’era appressato alla barca camminando sul ma­ re, non provavano nessuna paura dinanzi a quel viso folgorante. L’uomo che compie gli atti di Dio, spaven­ ta. Ma quando Iddio si manifesta, non vi è più da te­ mere: basta adorare e amare. Ecco Mosè, ecco Elia... C’è qualcosa di più semplice? Come doveva accadere ai pel­ legrini della strada d’Emmaus, i tre discepoli sentivano in sé la loro anima ardente, e son quasi le stesse parole ch’essi pronunziano: — Signore, ci è caro d’essere qui... Resta con noi, poiché già cade la sera... -— Pietro pro­ pone di rizzar tre tabernacoli, uno per Gesù, uno per Mosè, uno per Elia. La nebbia notturna si addensa sopra loro. Una voce li abbatté con la faccia contro la terra: —- Costui è il mio diletto Figlio... Rimasero prostrati finché una mano li toccò sulla spalla. Gesù era solo col suo volto di tutti i giorni e il suo misero mantello. Gli abituali rumori salivano dalla pianura. Ma essi, si credettero cambiati per sempre. Non­ dimeno Pietro ricorderebbe il sole di quel volto, dopo il suo rinnegamento, quando il Figlio dell’uomo carico di catene volgerebbe a lui la sua faccia estenuata. E Giovanni altresì, al piede della croce, se ne risovverreb­ be, gli occhi alzati verso quel capo reclino, macchiato di sangue e di pus. Come ridiscendevano verso la pianura, Gesù raccoman­ dò loro di non dir nulla di quella visione, fino a che non fosse resuscitato. Così, senza perder tempo, egli metteva a profitto la loro fede accresciuta, per intratte­ nerli intorno alla sua morte. I tre discepoli furono di nuovo conturbati: il loro spirito errava attraverso i brani delia Scrittura che la loro memoria aveva custoditi. — Gli scribi dicono che Elia deve venire innanzi.

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Poiché Gesù rispondeva che Elia era già venuto, com­ presero che il Maestro parlava di Giovanni Battista: — Gli scribi han fatto verso di lui come han voluto. Faranno del pari soffrire il Figlio dell’uomo. Com’erano tardi a credere! Come la natura era più forte della Grazia! La loro natura di Ebrei... Essi ama­ vano il successo, lo schiacciamento del nemico, i carboni accumulati sul suo capo. Bisognava fortificare la loro fede. Pazientemente, il Signore riprende il suo lavoro dalla base. Quando, il giorno appresso alla Trasfigurazione, rag­ giunse il grosso dei discepoli, li trovò assai mortificati per non aver potuto guarire un lunatico. — È a cagione della vostra mancanza di fede — osservò subito. E ag­ giunse : — Se aveste tanta fede come un granello di senape, e diceste a questa montagna: muoviti di qui a là, essa si moverebbe... Di bel nuovo li obbliga a guardare ciò che non vo­ gliono vedere, li colloca di fronte a ciò ch’essi respin­ gono: — Il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei pec­ catori; ed essi lo manderanno a morte; e il terzo giorno resusciterà. Chi avrebbe osato protestare? Poiché essi non pote­ vano dimenticare il suo recente furore contro Cefa. Pe­ rò stavano in silenzio, sbuffavano in segreto, e la pro­ messa di resurrezione non li aiutava molto: la parola stessa diceva poco o nulla al loro pensiero. Di mano in mano che si avvicinavano a Cafarnao, la loro attenzione si stornava da quelle lugubri profezie per attaccarsi alla loro infantile speranza: essi sarebbero grandi, dominerebbero, trionferebbero... Ma non tutti nella stessa misura. Sorde dispute gelose scoppiavano, so­ prattutto quando il piccolo gruppo si trovava un po’ di­ scosto dal Maestro. D’un tratto s’alzò la voce impa­ ziente e tremenda:

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— Di che discutevate? Perché mentire? Tutti quanti sapevano che il Signore li interrogava pro forma e che nessuno dei loro discorsi gli era sfuggito. Nondimeno, non osarono confessare che avevano discusso allo scopo di sapere chi fosse il mag­ giore... Gesù rimase in silenzio finché non furono entrati nel­ la loro casa di Cafarnao (quella di Pietro, senza dub­ bio). Seduti intorno a lui, tenevano il capo basso per lasciar passare la collera dell’agnello talora furioso. Ma con un accento di dolcezza ch’essi non prevedevano e che pur dopo tre anni di convivenza li sconcertava, Gesù disse: — Se qualcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo di tutti, il servitore di tutti.

Rinunziava per il momento a parlar della croce, per mostrar loro l’ultimo posto che assegnava ai suoi di­ letti. Ed ecco, quella sola parola rovesciava una volta di più il loro sogno di potenza. E poiché essi rivolgevano altrove la fronte chiusa, il cuore lento a credere, il Si­ gnore distese la mano verso uno dei piccoli fanciulli ch’erano entrati dietro loro e facevano cerchio intorno al Rabbi, e l’attirò contro i suoi ginocchi: — Se voi non diverrete come i piccoli fanciulli, non entrerete nel Regno dei Cieli. E aggiunse: — Chi non si abbasserà come questo piccolo fan­ ciullo... Egli non l’aveva chiamato a caso: l’aveva scelto fra tutti i suoi compagni. Perché parlar dell’infanzia? L’in­ fanzia non esiste: ci sono dei fanciulli. E se è vero che molti, appena usciti da terra, sono delle torbide sorgen­ ti, e fango si mescola ai loro primi bollimenti, molti al­ tri hanno quella trasparenza, quella limpidità sulla qua­ le il santo Volto del Cristo si piegava per riflettervisi. Una nuova follia che esige dalla creatura adulta: ritro­ vare la nostra infanzia: quell’abbandono d’una debolez­

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za che non conosce il male, noi che pur l’abbiamo cono­ sciuto e commesso, e che non siamo che sozzura. Ma appunto: l’infanzia, la prediletta da Dio, è riconquistata sopra tutte le abominazioni d’una vita-terra vergine gua­ dagnata a zolla a zolla contro una marea di desideri, contro una instancabile bramosia. L’infanzia è una vit­ toria, una conquista dell’età matura. Poiché, per quanto candido potesse essere il bambino che Gesù contemplava, racchiudeva in potenza tutti i delitti che commetterebbe più tardi. — Chiunque riceve uno di questi fanciulli a cagion del mio nome, riceve me, e chi riceve me, riceve colui che mi ha mandato. Giovanni, il più libero perché il più amato, gli tagliò la parola: chiunque può dunque ricevere un fanciullo in nome suo, cacciare i demoni in suo nome? Tuttavia, ieri ancora, essi avevano interrotto un uomo che preten­ deva fare esorcismi in nome di Gesù. Il Signore li disapprovò vivamente: non voleva essere prigioniero dei suoi. La sua grazia non ha bisogno di nessuno. Quanti sacerdoti oggi ancora si sostituiscono alla grazia! Frattanto seguitava a trattenere il fanciullo, e lo covava con uno sguardo così triste che il piccolo ebbe paura, forse, e voleva fuggire. — Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono in me, meglio per lui sarebbe appiccargli al collo la ma­ cina che un asino gira e buttarlo in fondo al mare. Parola più consolante che spaventevole: e vuol dire che la purità di un fanciullo vale un prezzo infinito, che il suo valore è inalienabile, checché possa accadere nel­ l’età delle passioni. Delitto inespiabile, macchiare il te­ stimonio candido di cui avremo tutti quanti bisogno nel giorno del giudizio: il fanciullo che saremo stati. Qui il Figlio dell’uomo ci introduce nel mistero del­ la giustizia. Il suo regno, che non è di questo mondo, è retto da una giustizia che gli è del pari estranea. Ciò che merita la morte, o piuttosto una vita di tormenti

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senza fine, nel suo proprio codice, appare legittimo agli occhi del mondo, o almeno privo d’importanza. Il mondo! Gesù ci pensa, in quel momento, e non accade mai che ci pensi senza un commovimento di tutto il suo essere. Allontana il fanciullo, e grida: — Guai al mondo per gli scandali ! Perché è neces­ sario che gli scandali avvengano, ma guai all’uomo per cui lo scandalo avviene! Dopo secoli, il mondo scandaloso ascolta, senz’essere turbato, le imprecazioni di quell’Ebreo e si ride della minaccia. Non teme d’essere « salato dal fuoco » (è l’e­ spressione stessa usata da Gesù). Il mondo non crede a codesto fuoco che, in luogo di consumare, conserverà la carne torturata. « La geenna del fuoco inestinguibile » che tante creature umane ha atterrito da quando il Figlio dell’uomo ne ha descritto l’orrore con una insistenza qua­ si insopportabile, codesto braciere ove lo stesso verme del cadavere non perirà, non castiga soltanto i grandi crimini secondo il codice delle nazioni; è il giusto prez­ zo delle lordure spirituali, del mortale turbamento get­ tato nei giovani esseri esso vendica le anime assassinate. A un mondo che corrompe l’infanzia, che deifica il de­ siderio e l’appagamento, che dà un nome divino a ogni cupidigia, Gesù ha l’audacia di contrapporre una legge quasi inumana di candore, e conferire un valore asso­ luto alla castità, all’integrità del cuore e della carne. Nes­ suna attenuazione: meglio è tagliarsi un membro che ci inclina al male che conservarlo nel sale di quelle fiam­ me : « poiché ogni uomo sarà salato dal fuoco... ». Vide forse brillare una luce spietata negli occhi di quegli Ebrei pronti a fare giustizia ? Si riprese. No ! Non ai puri tocca accendere un fuoco sulla terra per consu­ marvi gl’impuri. Non dobbiamo noi scimmiottare l’im­ placabilità del Dio che ha acceso la geenna ma che è venuto a morire al fine di liberarci. Gesù fissava anti­ cipatamente dei precisi limiti alla correzione fraterna: prima l’avvertimento, poi l’ammonizione in presenza di due o tre... E allora soltanto, se il peccatore si ostina,

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la Chiesa lo tratterà come un pagano. Ch’egli diffidi di quei duri Ebrei! Comanda loro di perdonare non già fino a sette volte, ma settanta volte sette, e racconta la parabola del creditore e del debitore: un re rimette il debito al servitore che gli doveva diecimila talenti; e costui all’uscita del palazzo, afferra alla gola uno dei suoi compagni che gli doveva cento danari e lo fa cac­ ciare in prigione. E il re lo punisce severamente di non aver avuto pietà del suo debitore come altri aveva avuto pietà di lui. Così, per via d’una meditata digressione, le peggiori minacce del Signore si risolvono sempre in parole di misericordia. Ogni anatema lo riconduceva a un segreto d’amore che gli bisognava nascondere dietro una cortina di fiamme, per timore che gli stessi suoi non fossero ten­ tati di abusarne.

Capitolo XVI

Partenza per Gerusalemme

L’autunno senza pioggia era ritornato, e le vendemmie insieme, coi loro capanni di verdura, detti anche taber­ nacoli, da dove ognuno sorveglia il proprio raccolto. Codesta festa dei tabernacoli riconduceva a Gerusalemme Gesù e i Dodici. Da alcune settimane, per lavorarli in segreto, egli s’era allontanato dalla folla; e la piccola co­ mitiva non aveva avuto alcun motivo di accrescersi: ma solo il Maestro poteva fare il computo dei cuori invano sollecitati nel segreto e che gli s’erano rifiutati. Riem­ piono ora le case di Cafarnao, di Corozain, di Betsaida, come se il Cristo mai avesse attraversato le loro città. E tutto ciò ch’egli ha compiuto, l’ha compiuto per nulla. Il tempo che loro è stato dato è finito: il Figlio dell’uo­ mo parte per Gerusalemme e mai ne ritornerà, almeno nel suo corpo di carne. Ciò che era venuto a salvare non sarà dunque salvato. Il grido del cuore, d’un cuore che sa che la partita è perduta, Gesù lo getterà in faccia alle città che non ha conquistate. L’amore che le abbracciava si leva e si ritira. Qual mistero, codesto potere che la creatura ha, di negarsi al desiderio di Dio ! La Grazia doveva aver patito là una immensa disfatta, poiché il Figlio dell’uomo non potè contenersi, e percosse quella riva d’un tale anatema che di Betsaida non è rimasta pur traccia. Egli, cui nulla è celato, non sa darsi pace di quel rifiuto: c’era dello stupore nelle terribili parole.

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Le città maledette

— Guai a te, Corozain; guai a te, Betsaida! poiché se i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, fossero stati fatti a Tiro e Sidon, da gran tempo esse avrebbero fatto penitenza sotto il cilicio e sotto la cenere. Sì, io ve lo dico, ci sarà nel giorno del giudizio meno rigore· per Tiro e per Sidon. E tu, Cafarnao, ti innalzerai fino al cielo? No, tu sarai abbassata fino agli inferni, perché se i miracoli che hai visto fossero stati compiuti a So­ doma, Sodoma sarebbe ancora in piedi... Sì, nel giorno del giudizo ci sarà meno rigore per Sodoma che per te. Dopo tale scatto il Figlio dell’uomo si riprende, si ri­ piega in qualche modo sul mistero del suo essere. Non ha da fuggire il bollore di questo sangue, di questa car­ ne che ha rivestita, per rifugiarsi nell’incomunicabile pa­ ce di suo Padre. — Ti benedico, Padre, Signore del cielo e della ter­ ra, per aver nascosto queste cose ai saggi e ai prudenti e averle rivelate ai piccoli. Sì, Padre, ti benedico perciò che così ti è piaciuto. Si ristora nella conoscenza di quella unione ineffabile. Si consola. La gioia della Trinità si esala in parole che i poveri uomini che l’ascoltano raccolgono in mezzo a tante altre che non hanno comprese. Ma quelle si stam­ pano in loro, poiché forse quell’accento di esultanza si innalzava dopo gli anatemi che li avevano agghiacciati di terrore. Il Figlio dell’uomo sprofondava nell’abisso della sua stessa pace. Aveva stornato gli occhi da quella Cafarnao e da quella Corozain di cui non restano oggidì che pie­ tre sparse. La piccola comitiva camminava in silenzio. Alcuni erano tristi, pensando al fuoco della geenna: qua­ le uomo non ha scandalizzato? E cercavano nella loro vita i nomi delle loro vittime dimenticate. Tutti amava­ no la loro Betsaida ch’era stata allora allora maledetta. Alcuni, tutt’a un tratto, si sentivano stanchi. A che tanti

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sforzi, per riuscire al fuoco eterno e alla distruzione della loro patria terrestre? E d’improvviso la medesima voce che poco dianzi tremava di collera, si alzò, piena di te­ nerezza. —- Venite a me, voi tutti che siete affaticati e vi pie­ gate sotto il carico, e io vi allevierò. — Signore, noi non ne possiamo più delle nostre ri­ cadute, dei nostri tradimenti. È questo carico che non possiamo più portare... — Prendete il mio giogo e ricevete i miei insegnamenti, poiché io sono dolce e umile di cuore; e trove­ rete il riposo delle vostre anime. Poiché il mio giogo è dolce e il mio carico leggero. A quelli che le sue imprecazioni avevano turbato, ed ai quali l’uomo di Keriot aveva sussurrato: « Quale inu­ tile violenza ! quale assurda collera ! », un così affabile invito dava la sensazione quasi fisica di questo mistero: l’umiltà di Dio. Sì, essi avevano gustato la dolcezza di quel giogo. Non avevano più paura. Che importava loro di Betsaida o di Corozain? La sola patria loro è il Cri­ sto; altro regno non hanno che il suo. Invano egli ten­ tava di impaurirli: il suo amore si tradiva a ogni istan­ te : — Venite a me, voi che siete affaticati... Si dimentica sempre, intorno a Gesù, quella famiglia rumorosa e importuna, segretamente ostile: i suoi paren­ ti di Nazaret, che l’avevano inteso gridare contro le città della riva del lago, gli dicevano: — Lascia questo luogo e vattene in Giudea, poiché nessuno agisce in segreto quando desidera essere conosciuto dal pubblico. Se real­ mente tu fai queste cose, mostrati alle genti. Ma Gesù non amava andare a Gerusalemme coi suoi consanguinei, che non credevano in lui, pure sperando di ritrarre qualche profitto dal loro legame; divisi senza dubbio, come Giuda, fra l’incredulità e la cupidigia. Che vi fosse del pericolo per il Maestro a Gerusalemme, lo sapevano e non se ne curavano, poiché essi non ri­ schiavano nulla. Quella famiglia ipocrita, ambiziosa e vile, faceva orrore al Cristo. Egli diceva loro:

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— Il mondo non saprebbe odiarvi: odia me perché rendo di lui questa testimonianza, che le sue opere sono malvage. Andate, voi, a quella festa. Io per me non ci vado affatto, poiché il mio tempo ancora non è venuto. La lasciò dunque partire, e finse di rimanere indietro. Dopo, però, si mise in cammino. Non ebbe a decidere del momento: quell’ultimo viaggio era stabilito già dal­ l’eternità. « Quando i giorni in cui doveva essere tolto da questo mondo furono venuti, prese la risoluzione di recarsi a Gerusalemme... » Tutto era fissato, giorno per giorno, ora per ora. La sua ora era giunta, e non avreb­ be potuto indugiare un istante di più, consacrare ancora una sola parola alla salute delle città maledette. In quell’ultima svolta della sua vita sulla terra, il Fi­ glio dell’uomo avrebbe preferito rimanere solo. Per quan­ to li amasse, doveva essere opprimente tirarsi dietro sem­ pre quegli undici discepoli che non capivano nulla per allusione, e quel traditore scaltro e imbecille. Avesse po­ tuto rimaner solo con Giovanni... In verità, il contesto sembra provare che il figlio di Zebedeo era con lui. Gli altri, li mandò innanzi, a preparare le tappe. Perché, attraversando la Samaria, non passò per Sichar? Doveva esserci nell’aria asciutta l’odor del mosto che i torchi spandevano per la campagna. Le giornate si accorciavano. Quel Dio aggravato da tutti i dolori umani gustò fors’anche la triste felicità congiunta alla sua condizione di effimero? Nel mistero della sua dupli­ ce natura provò quell’insieme di rimpianti e di tenerezza che il sole smorto dell’autunno sveglia in un cuore mor­ tale? Il tempo, la nozione di ciò che dura, si esaurisce e finisce, inebbriava l’Essere - colui stesso che alcuni giorni più tardi doveva affrontare gli Ebrei con le parole inaudite: — Prima che Abramo fosse, io sono! — Ma oggi, su quella strada autunnale, in Samaria, c’è un pas­ sante che non rivedrà più mai la città dove è nato, un uomo perseguitato, già sotto le grinfie della legge; ed egli ancora una volta indugia a rimirare il tramonto settem­

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brino, respira l’odor vinoso dell’ultime vendemmie. Sì, ha conosciuto pure le nostre misere gioie. Ma i discepoli ritornarono: non lo lasciavano mai a lungo. Sempre la stessa storia! I Samaritani non voleva­ no ricever gente diretta a Gerusalemme. I figli di Zebedeo, che avevano ancora negli orecchi i gridi di Gesù contro le tre città, con quell’eterno zelo degli Ebrei per la vendetta e la distruzione, gli suggerirono dunque, co­ me la più semplice cosa: — Signore, vuoi che coman­ diamo che il fuoco discenda dal cielo e le consumi? Gesù, che camminava innanzi, si voltò. Che? Era da Giovanni che gli veniva quel colpo? Il discepolo si ri­ feriva alle imprecazioni del suo Signore contro Betsaida; quel « figlio del tuono », come lo chiamava Gesù con una tenera derisione, non era certo un mite: e pensava che non era più il tempo delle pastorellerie e delle bea­ titudini. Gesù non si sdegna. La sua risposta è di quelle dov’entra un accento di indicibile fatica, un lamento stanco e triste, uno scoramento di Dio: — Voi non sapete di quale spirito siete! E aggiunse: — Il Figlio dell’uomo è venuto non per perdere le anime ma per salvarle. È venuto a cercare e salvare ciò che era perduto. In una visione, quindici secoli più tardi, doveva dire a Francesco di Sales torturato da scrupoli: — Io non mi chiamo colui che danna, il mio nome è Gesù... — E senza dubbio, se il figlio di Zebedeo avesse avuto l’au­ dacia di protestare: «Ma, Signore, l’altro giorno an­ cora, tu non parlavi che di geenna e di fuoco... » il Maestro avrebbe potuto rispondere : « Io non sono un Dio logico. Non v’è nulla di più lontano da me che tutta la vostra filosofia. Il mio cuore ha le sue ragioni che sfuggono alla vostra ragione, perché io sono l’Amo­ re. Ieri era per amore che accendevo davanti a voi quel braciere inestinguibile, e oggi questo medesimo amore vi annuncia che son venuto a salvare ciò che era per­ duto... » Egli guardava dritto davanti a sé, vedeva in

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Gerusalemme, fra tutte le donne folli della città, la mo­ glie colpevole che domani sarebbe trascinata ai suoi pie­ di: essa ama un uomo, in quello stesso momento, e non è suo marito; i due sono ubriachi di desiderio, e già il vicinato li spia. Nemmeno alla donna adultera egli par­ lerà di geenna.

A Gerusalemme

Entrò segretamente nella città e si nascose presso uno dei suoi, forse a Betania nella casa di Lazzaro. Ma pa­ recchi di quelli ch’erano con lui erano stati riconosciuti, poiché lo si cercava dappertutto. I pellegrini si chiede­ vano tra di loro — Dov’è? — senza osare di esprimersi liberamente a suo riguardo, tanto era già sospetto e odia­ to, condannato in anticipo. L’affare del paralitico gua­ rito, durante il suo ultimo soggiorno sotto il portico del­ la piscina delle Pecore, non era dimenticato. Egli vi farà chiara allusione quando nel mezzo della festa oserà pren­ dere la parola nel Tempio, lui che non ha frequentato le scuole, come se fosse dottore in Israele! No, egli non è dottore: protesta che non ha una dot­ trina propria. A che scopo inventare una nuova dottri­ na? La sua dottrina è suo Padre, e la sua gloria è quella di suo Padre. E poiché l’uditorio mormorava contro di lui, domandò: — Perché cercate di farmi morire? Essi s’indignarono: — Tu sei posseduto dal demonio. Chi cerca di farti morire? — I Galilei protestavano in buona fede. Ma i principi dei sacerdoti fremevano di sentirsi così indovinati, e non ardivano mettere la mano su di lui in pieno giorno. Avevano talmente l’aria di temerlo, che i Giudei si domandavano: — Credono dun­ que anche loro che è il Cristo? — Ma no! Impossibile credere una simile sciocchezza: quel ragazzo viene da Nazaret: si sa chi è suo padre e sua madre; la città è

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piena di suoi congiunti che sono i primi a ridere di lui e ad alzar le spalle, per poco che si stuzzichino... Nondimeno la sua voce sconcertava la folla. La sua sola voce: egli non faceva quasi più miracoli. E tuttavia non mai i cuori erano stati così turbati. Nell’avvicinarsi della Passione, le parole del Signore si tingevano in cima di un barlume annunciatore: — Io sono ancora tra voi per un po’ di tempo. Me ne vado a Colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete. E dove io sono non potete venire... — Essi non comprendevano, e però rimanevano sospesi alle sue labbra. L’ultimo gior­ no della festa, gli spiriti furono più che mai divisi da un discorso del quale Giovanni ha ricordato il tema : « Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, dal suo seno, come dicono le Scritture, coleranno fiumi d’acqua viva ». Profezia della quale sappiamo oggidì che è realizzata. Poiché quelli che videro Cristo nel tempo della sua car­ ne, ricevettero una grazia meno grande dì noi che assi­ stiamo al compimento delle promesse. Non soltanto le legioni dei santi, ma l’ultimo dei cristiani in stato di grazia è una fonte d’acqua viva, e il mondo non sa che è attorniato e bagnato da quelle acque zampillanti. Con quale accento quelle cose dovevano esser dette perché il popolo tutto ne fosse sollevato! «È un profe­ ta... È il Cristo! No, è Galileo. Leggete dunque le Scrit­ ture. Il Cristo nascerà a Betlemme... » Ma la più straordinaria testimonianza è quella delle guardie che i pontefici avevano mandato, e che ritorna­ rono a mani vuote. — Perché non l’avete menato? Risposero: — Giammai un uomo ha parlato come quell’uomo. I sacerdoti furiosi chiesero loro se erano sedotti an­ cor essi. E non osando punirli, diedero loro una lavata di capo: esisteva un solo Fariseo, un solo dottore versato nella Legge, che avesse sposato la causa di queU'impo-

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store? La plebaglia imbecille lo seguiva perché non sa­ peva che il Messia non può venire dalla Galilea. Furono le guardie convinte? Per i Farisei, tutte le se­ duzioni di quella parola non saprebbero reggere contro la scienza che essi hanno dei testi. Sono degli esegeti. E nondimeno uno c’era tra loro che nel segreto del suo cuore, al pari degli umili soldati, stimava che mai un uomo aveva parlato come quell’uomo. Soltanto, questo Nicodemo spingeva la prudenza fino ai limiti della viltà. Egli aveva parimenti passato una notte a faccia a faccia con Gesù, solo con lui, e il suo cuore ne era tuttora in­ focato : ma ricopriva quelle braci di cenere... Tuttavia, quel giorno invocò tutto il suo coraggio, e la sua voce tremante echeggiò: — Ci è dunque lecito condannare un uomo senz’averlo udito? — I pontefici si avventarono contro il sospetto: — Anche tu sei Galileo? Esamina dunque le Scritture! Nicodemo abbassò il capo e dovette raggiungere la sua casa rasentando i muri.

Capitolo XVII

La donna adultera

Quella medesima notte il Figlio dell’uomo la passò sul Monte degli Olivi: o forse discese fino a Betania. Ap­ pena fu l'alba ritornò nel Tempio dove già il popolo si affollava. Ed ecco, alcuni avanzavano trascinando una donna atterrita e piangente. Chi aveva avuto l’idea di condurla al Nazzareno? Egli era l'amico dei pubblicani e delle donne perdute; i discepoli stessi di Giovanni potevano attestarlo. Ora la Legge, per ciò che riguarda i fidanzati colpevoli (e a maggior ragione le donne ma­ ritate), è formale: devono essere lapidati. Sta scritto. Il testo è chiaro. I dottori lo attorniano e lo interrogano avidamente, sicuri di coglierlo in fallo: — E tu dunque? Che dici? Si trattava bene di quella lamentevole creatura! Tutto serviva loro per perdere colui che odiavano. Impossibile prevedere la bestemmia dell'impostore. Ma che bestem­ mierebbe, ne erano anticipatamente sicuri. Mentre si strin­ gevano intorno a lui gridando e apostrofandolo, la tri­ ste donna stava in piedi, spettinata, mezzo svestita: mor­ ta di paura fissava con occhio sgomento lo sconosciuto che i sacerdoti gli davano per giudice. Egli non la guardava. Essendosi chinato, scriveva in terra col dito. San Girolamo afferma che erano i pec­ cati degli accusatori che enumerava. La semplice verità è talmente più bella ! Il Figlio dell’uomo sapendo che

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quella sciagurata si sveniva meno di paura che di ver­ gogna, non la guardava perché vi sono certe ore nella vita d’una creatura in cui la più grande carità è non vederla. Tutto l’amore del Cristo per i peccatori è rac­ chiuso in quello sguardo sottratto. E le cifre ch’egli trac­ ciava in terra non significavano niente altro che la sua volontà di non alzar gli occhi verso quel povero corpo. Attese dunque che la folla finisse di vociferare, e al­ fine disse: — Chi di voi è senza peccato scagli contro di lei la prima pietra. Ei si chinò, e di nuovo scrisse sul terreno. « Avendo udito quella parola, e sentendosi rimordere nella propria coscienza, essi si ritirarono gli uni dopo gli altri, i più attempati prima, e poi tutti gli altri, talché Gesù rimase solo con la donna ch’era in mezzo. » I più attempati prima... Questa volta egli ispirava a tutti una grazia di lucidità. I suoi nemici conoscevano il potere ch’egli possedeva di leggere nei cuori. Ognuno sentì muovere dentro sé l’atto segreto che nascondeva agli sguardi da anni, l’abitudine, la cosa vergognosa. Se il Nazzareno d’improvviso si mettesse a gridare: — E tu, laggiù? Non te ne vai? Che facevi dunque ieri, alla tale ora, nel tal luogo? Gesù rimase dunque solo con la donna. Dopo tutto, egli non era il suo giudice naturale. Poiché i suoi accu­ satori s’erano dileguati, ella avrebbe potuto approfittarne per fuggire ella pure, e mettersi al sicuro. Nondimeno restò là, colei che questa notte ancora si abbandonava alle delizie del suo crimine. Aveva molto sofferto, molto lottato contro se stessa, prima di soccombere. Ed ecco che non pensa più al suo amore né ad alcuno, all’infuori di questo sconosciuto che la guarda, ora, poiché sono soli ed ella non è più umiliata. Ed ella pure lo guarda, ancora piena di vergogna, ma non è più quella stessa vergogna. Piange per il male che ha fatto. Il de­ siderio si ritrae da lei. Tutt’a un tratto nel suo cuore e nella sua carne regna una grande calma. O sangue meno

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facilmente placato del mare di Tiberiade! Nulla d’u­ mano era estraneo al Nazzareno: ma perché egli era Dio, sapeva ciò che nessun maschio può sapere: questa debo­ lezza invincibile della donna, questo suo divenire a certe ore, davanti a certi esseri, una creatura che si corica e striscia. E sarebbe, nei secoli, la più straordinaria vitto­ ria del Figlio dell’uomo, la più comune anche, la più famosa (tanto che non ci stupisce più...), aver sosti­ tuito, in legioni di donne sante, la sua propria esigenza all’esigenza del loro sangue. Di colei egli era già il padrone. La interroga: — Don­ na, ove sono quelli che ti accusavano? Qualcuno forse ti ha condannata? — Ella rispose: — Nessuno, Signo­ re —. Gesù le disse: — Nemmeno io ti condanno. Vat­ tene, e non voler più peccare. Ella si allontanò. Sarebbe ritornata; o piuttosto non aveva bisogno di ritornare: essi erano uniti d’ora in­ nanzi per sempre. Così il Cristo si formava, sotto l’ap­ parenza del suo immenso smacco, una clientela nei bas­ sifondi. Egli accumulava un tesoro segreto con quei cuo­ ri di scarto, coi rifiuti del mondo. Un ramo di nocciuolo non gli era necessario per scoprire negli esseri, a dispet­ to di tutte le miserie visibili, quella sorgente di soffe­ renza e di tenerezza sulla quale egli aveva potere.

Eguale al Padre Era una pausa nella lotta a oltranza in cui egli si tro­ vava impegnato, e che non cesserebbe più fino a quella terza ora, la vigilia del sabato, ove il suo spirito si esalerebbe una suprema volta, dall’unica piaga che sa­ rebbe il suo corpo. Egli non si curava più di nulla, combatteva a viso aperto e solo (i suoi discepoli stavano un po’ in disparte) nella stessa città dove regnava il nemico, il Fariseo, il sacerdote; dove già gli ordini per il suo supplizio erano dati, dove fra lui e la croce non

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vi era più che quell’adorabile parola che inchiodava i soldati venuti per arrestarlo. Non si trattava di eloquenza né d’alcun dono umano. Era un potere che nessun altr’uomo prima di lui aveva posseduto, di penetrare nella più fonda intimità, di ar­ rivare dritto al segreto d’ogni creatura. I quattro grandi candelabri che erano stati accesi, la prima sera della fe­ sta dei tabernacoli nel vestibolo delle donne, non arde­ vano più. Nel vestibolo del tesoro, Gesù gridava: — Io sono la luce! — e come i Giudei si ridevano della te­ stimonianza che rendeva a se medesimo, gettava loro in faccia il segreto delle sue due nature: — Se voi mi co­ nosceste, conoscereste ancora il Padre mio. Il crimine di farsi eguale a Dio, egli non poteva più aprire la bocca senza commetterlo. Ma i Giudei, che sa­ pevano ciò che cercavano, volevano farglielo confessare in termini chiari. Gli posero dunque la domanda: — Chi sei tu? Ora che si è palesato, che il Dio impaziente fa fron­ te alla folla delle sue creature, non si perita più di parlare di quel trono orrendo che già tocca con mano senza tremare: — Quando voi avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete chi sono io —. Ostinati i discepoli immaginavano un’esaltazione diversa dal pa­ tibolo. Qual era il promesso regno? Che c’era dietro la porta già semiaperta? Il Maestro ripeteva: — La mia verità vi affrancherà! — e come i Giudei protestavano che non erano mai stati schiavi, li ridusse al silenzio con l’affermazione della quale ciascun di noi cristiani sa che è vera, e lo sa per un’amara e benedetta esperienza: — In verità io vi dico, che chi fa il peccato è schiavo del pec­ cato. Se dunque il Figlio dell’uomo ve ne affranca, voi sarete veramente liberi. Segreto finalmente rivelato della sua potenza su tanta moltitudine d’uomini: essi possono dubitare, negare, be­ stemmiare; possono fuggirlo: non sapranno meno che egli ha il potere d’affrancarli. Non lo abbandonano che per sottomettersi al giogo, che per girare la macina, la

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loro macina, che è il loro destino, del quale nessuna for­ za al mondo li ha mai liberati, eccetto questo Gesù che crocifiggono e adorano. È in ciò, ma in un senso assai stretto, che si può consentire a Nietzsche che il Cristia­ nesimo è, se non una religione di schiavi, almeno una religione di affrancati. Negli ultimi giorni della sua vita, manifestò così aper­ tamente la sua trascendenza, che quelli che lo ricono­ scevano commettevano ai suoi occhi un delitto: — Per­ ché voi non riconoscete il mio parlare? — domandava il Figlio di Dio, scoperto, con esasperazione. E denunciava a loro il Mentitore da cui essi procedevano: questo pa­ dre della menzogna, il Demonio. Se essi non fossero sta­ ti dal diavolo, avrebbero riconosciuto il Cristo in quei giorni in cui la sua natura umana non era più che tra­ sparenza. E la prova è che nessuno sa rispondere nulla quando egli domanda: — Chi di voi mi convincerà di peccato ? No, nulla da rispondere. Ma come i fanciulli che ri­ torcono l’ingiuria : « Non sono stupido, io : sei tu, che sei stupido...» protestavano: — Sei tu che sei posse­ duto dal demonio! Mescolati alla turba ingiuriosa molti cuori ancora esi­ tanti fremevano d’amore all’estremo margine della ve­ rità. Il Signore li sentiva battere contro il suo; e d’un tratto, indifferente a tanti oltraggi, gettava nella bilancia la promessa meravigliosa che finirebbe di guadagnargli i suoi diletti: — In verità io vi dico: se alcuno custodisce la mia parola, non vedrà giammai la morte. Con una parola, ha oltrepassato una volta ancora la frontiera della natura mortale. Ed eccolo, questo Figlio, spoglio della sua umanità, nudo più che non apparirà sulla croce, offerto a tutti gli sguardi nella sua invere­ condia di Dio: — Abramo vostro padre ha trasalito di gioia per ciò che doveva vedere il mio giorno; l’ha veduto e se ne è rallegrato.

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I Giudei gli dissero: — Tu non hai ancora cinquan­ tanni, e hai veduto Abramo! — Gesù rispose loro: — In verità io vi dico che avanti che Abramo fosse, io so­ no! — Allora essi presero delle pietre per gettargliele; ma Gesù si nascose, e uscì dal Tempio. Essi non lo inseguirono. Il diritto di giudicare e di condannare, apparteneva ai Romani. Il Nazzareno non aveva detto chiaramente: — Io sono il Figlio di Dio — Occorreva che i principi dei sacerdoti potessero fondarsi su quest’abominevole bestemmia per rendere legittima l’esecuzione sommaria. Per ciò esitavano. Ma si sarebbe detto che il Figlio dell’uomo avesse bi­ sogno del loro furore. Egli lo stuzzicava come chi teme che la fiamma ricada. E non scelse a caso il giorno del sabato per guarire un cieco-nato.

Capitolo XVIII

Il cieco-nato

Riconoscendo quell’uomo che camminava solo per la strada, i Giudei si domandavano l’un l’altro: — Non è quel tale che mendicava; sapete, quel cieco? — Ma il mendicante stesso raccontava ciò che gli era accaduto: — È uno detto Gesù... Mi ha messo del fango sugli oc­ chi, e mi ha detto di lavarmi alla fontana di Siloé... — Ai Farisei ripete la medesima storia: — Mi ha messo del fango... Io mi sono lavato... — Alcuni furono turbati, malgrado il peccato contro il sabato, da una simile mera­ viglia. Uno d’essi interpellò il miracolato: — E tu, che dici di quell’uomo? — E il mendicante, schietto: — Ma sicuro, è un profeta... Racconterà la sua storia all’intera città? I pontefici fanno venire i suoi parenti, i quali, timorosi, sfuggono: — È infatti nostro figlio, ed è nato cieco. Quanto al resto, è in età da poter rispondere: interrogatelo —. Egli si presenta di nuovo, e nelle sue risposte splende la sem­ plicità colombina: dinanzi a quelle volpi, si gomporta come tutti i deboli che Io Spirito copre dellejsue ali: — Da’ gloria a Dio ! Noi sappiamo che Tjuest’uomo è un peccatore —. Egli rispose: — Se è iun peccatore, io non lo so: so soltanto che ero cieco, e ora vedo —. Gli chiesero: — Che t’ha fatto? In che modo t’ha aperto gli occhi? — Rispose: — Ve l’ho già detto, e voi non

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l’avete ascoltato: perché volete sentirlo ancora? Forse che volete anche voi divenire suoi discepoli? Da poi ch’era rimasto solo un momento con la donna adultera, il Figlio dell’uomo non aveva più respirato, in quella lotta a morte che sosteneva. Ed ecco ancora un cuore semplice su cui riposare, una proda su cui sedere, in quell’aspra erta: un Povero. Non che abbia bisogno di qualcuno. Ma egli è l’Amore. Il mendicante cacciato aveva dovuto prudentemente lasciare la città. D’un tratto vide l’Uomo sul cammino. Il miracolato non sapeva di poter essere ancora cieco, e che un’altra luce esistesse oltre quella del sole. Soltanto c’era un cuore puro. Prima di guarirlo, il Signore aveva avvertito i suoi discepoli che non era a causa dei suoi peccati né per quelli dei suoi parenti, che quel mendi­ cante era stato accecato, ma perché la gloria di Dio si manifestasse. Ora non v’era nessuno in quel punto della strada. Gesù gli domandò: — Credi tu nel Figlio di Dio? E l’uomo risponde: — Chi è egli, Signore, perché io creda in lui? Per quanto semplice sia, ha già indovinato. La sua anima arde, i suoi ginocchi si piegano, giunge le mani. —■ È colui stesso che ti parla. — Io credo, Signore. « E gettatosi ai suoi piedi, l’adorò. » Appena alcuni istanti... Ma basta perché l’Amore vivente riprenda il suo respiro.

// buon pastore

Così adunava intorno a lui un piccolo gregge. Quel­ le pecore non apparivano troppo belle. L’uomo di Keriot si domandava: “A che serve acquistare della gente da nulla? Non si sarebbero trovati dieci uomini influen­ ti tra i discepoli. Quella gente si disperderebbe al primo urto”.

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Ma Gesù diceva: — Le mie pecore, il mio ovile... — Esse conoscevano la sua voce, ed egli conosceva il nome di ciascuna d’esse: il nome, ma anche i crucci, le inquie­ tudini, i rimorsi: tutto il povero ribollire d’ogni vivente cuore sul quale egli si piega come fosse in gioco un interesse eterno. Ed è vero che è in gioco l’eternità, e che il minimo di noi è accarezzato da una tenerezza par­ ticolare. Gesù è il pastore, ed è anche la porta delle pecore. Non si entra nell’ovile che per lui. Già il Figlio del­ l’uomo insegnava al mondo che lo respinge: — Non è vero che possiate fare a meno di me. Non raggiungerete la verità senza di me. Voi la cercherete, pieni di sprez­ zo per coloro che la trovano, e a questa ricerca si ri­ durrà per voi tutta la saggezza, perché non avrete vo­ luto entrare dalla porta. Adesso non apre quasi più la bocca senza fare allu­ sione alla sua morte: — Il buon pastore mette la sua vita per le pecore... — E con una parola rimovendo i monti della Giudea, apre una immensa prospettiva: — Io ho ancora dell’altre pecore che non sono di quest’ovile... Ovili dappertutto ove ci sono uomini: dei chiusi limi­ tati, separati dalla moltitudine, dei « parchi » isolati in mezzo al mondo ostile.

Capitolo XIX

Il buon Samaritano

Il Signore si allontanò un poco da Gerusalemme senza lasciare la Giudea. Non deve scostarsi troppo dalla città, ora. Ma nep­ pure bisogna che soccomba prima dell’ora. Ultimi gior­ ni di abbandono e di riposo, in cui vuota il suo cuore, e racconta le parabole delle quali l’umanità tuttora vive. Uno scriba avendogli domandato: — Chi è il mio pros­ simo? — egli inventa quella storia dell’uomo aggredi­ to dai ladri sulla strada che da Gerusalemme discende a Gerico - strada detta dagli Arabi « salita del Rosso » a causa del suo colore. Storia inventata? È vero che quel­ lo era un luogo pericoloso. E sembra piuttosto che· il Maestro, di mano in mano che il racconto procede, as­ sista allo svolgimento non d’una avventura immaginaria, ma ch’egli ha visto, lui che tutto vede; e che il fatto accada forse in quello stesso momento a pochi stadi dal punto dove un piccolo gruppo « incantato » lo attornia, e dove lo scriba di buona volontà raccoglie la sua pa­ rola. Ecco dunque l’uomo bastonato a sangue e ferito, sul margine della strada. Un sacerdote passa, poi un le­ vita che nemmeno volge la testa. Poi l’uomo che i sa­ cerdoti disprezzano: il Samaritano. Costui fascia le pia­ ghe del disgraziato, dopo averci versato vino e olio, lo alza sulla sua cavalcatura, arriva la sera all’albergo, la­

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scia un po’ di denaro che ha indosso; ne porterà del­ l’altro quando ripasserà. Ha ritardato il suo viaggio, si è spogliato di ciò che possedeva.

Betania Come il Figlio dell’uomo è sollevato, placato, in que­ sto momento della sua vita! Al principio di quel me­ desimo cammino che discende verso Gerico, nel villag­ gio di Betania, c’è una casa, un focolare, degli amici: Maria, Marta, suo fratello Lazzaro. Gesù si concede qual­ che po’ di respiro: non perché abbia bisogno di com­ pensi, ma egli accetta un po’ di riposo, un po’ di te­ nerezza. Raccoglie forze in vista di ciò che sta per ac­ cadere.. Un letto, una tavola frugale, degli amici che sanno ch’egli è Dio e l’amano nella sua umanità... Egli diligeva insieme Marta e Maria quantunque non vi fosse tra le due nessuna somiglianza. Marta si affaccendava per servirlo, mentre Maria, stesa ai suoi piedi, ascoltava la sua parola, e la maggiore si doleva di aver tutto il da fare sulle sue braccia. E il Signore: — Marta, Marta, tu sei sollecita e ti travagli per trop­ pe cose. Una sola è necessaria. Maria ha scelto la buona parte, che non le sarà tolta. Ciò che alcuni traducono, senza dubbio a torto: «Non affaticarti, un solo piatto basta... ». Ma tale è l’impor­ tanza attribuita alle sue minime parole da coloro che l’amano, che la dottrina della Chiesa sulla contempla­ zione e sull’azione, è fondata su quelle... E tuttavia è vero che la parte migliore è d’amare e d’essere amato, e di rimanere attento, seduto ai piedi del Dio che si ama. Ma anche è dolce servirlo nei suoi poveri, pur senza mai perdere il sentimento della sua presenza. O adorabile accortezza di tante anime che sono insieme Marta e Maria! A Gesù non bisognava essere uomo per amare Marta,

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Maria e Lazzaro. Ma gli bisognava esserlo per amarli perituri, per attaccarsi a ciò che in loro abitava soggetto alla morte. È ancora l'autunno; allontanandosi da Be­ fania, dovette fremere a causa di ciò che presto si avve­ rerebbe in quella casa: l’ultimo sospiro di Lazzaro, del quale non sappiamo nulla: la visita della morte, la lotta del Cristo contro di lei, e quella vittoria... Certamente la vedeva egli già nel suo cuore e traboccava d'amore per il Padre, quando per via i suoi discepoli tutt’a un tratto gli chiesero: — Insegnaci a pregare... -— Egli alzò gli occhi al cielo, e cominciò: — Padre nostro...

Pater noster Queste semplici parole che dovevano trasformare l’u­ manità, sono state proferite a bassa voce, in un piccolo cerchio, dall’uomo che usciva da una casa amica, in pros­ simità del villaggio. Che Dio sia nostro Padre, che noi abbiamo un Padre nei cieli; ch’egli esiste, che codesto Padre è in cielo, occorrerà del tempo al mondo per com­ prenderlo. I Giudei lo sapevano senza dubbio... Ma essi credevano in un Padre spaventevole, terribile nelle sue vendette. Essi lo conoscevano male, non sapevano chi egli era. Il Signore insegnerà loro come bisogna parlargli, e che si può ottener tutto da lui, e che non bisogna te­ mere d'insistere né d’importunarlo; poiché è questo ch’e­ gli attende da noi: la familiarità del fanciullo, quella cieca fiducia dei bambini nel loro padre. Un padre il cui regno non è venuto ancora, la cui volontà contrasta con la creatura capace di scegliere il male. Sia fatta la tua volontà... sopra la terra da ora. Il regno della Giu­ stizia è per subito. Che ci dia il nostro pane, che ci ri­ metta i nostri peccati, che ci liberi dal demonio... da quel demonio i cui nemici accusano Gesù d’essere il ministro.

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I malvagi l’avevano raggiunto. Era poco lontano da Ge­ rusalemme, quando da un leggero cambiamento nelle di­ sposizioni dell’uditorio si accorse che il lievito dei Fa­ risei ci si era insinuato. Il giorno in cui liberò un os­ sesso muto, si diffuse la voce: — È per Belzebù che caccia i demoni —. Come ieri a Gerusalemme, l’accusa­ vano d’essere al servizio deH’Immondo, del Maligno, di colui che in estasi egli aveva veduto cadere dal cielo si­ mile al fulmine.

Il peccato contro lo Spirito Monotonia di quell’accusa: eterna piccola onda di bestemmia, contro la quale non può nulla (quale miste­ ro!) per quanto sia Dio, e non guadagna nulla. E non­ dimeno non è più che una questione di mesi, di setti­ mane, di giorni, e il gioco sarà fatto. E la partita sarà vinta o perduta. No, non può essere perduta; ma lo sarà nella misura in cui la creatura libera tiene in scacco l’amore infinito. Conosce egli questo scacco? Sì, egli sa che vi corre dritto incontro, a cagione di quei sacerdoti caparbi, di quegli scribi imbecilli coi loro paraocchi, la loro bardatura di precetti letterali, e tutti i sonagli della lettera e della legge! Ed essi confondono l’Agnello di Dio con quel Belzebù il cui nome significa dio delle mosche e dio del letame! II Figlio dell’uomo si sforza di contenersi, ma è col­ pito nel mistero del suo essere. Risponde senza violenza da prima: — Come Satana caccerebbe Satana? Ogni re­ gno diviso contro se medesimo, perirà. Suo malgrado la sua voce è tremante, la bocca freme. Dove è dunque la pace di Befania, l’odore della cena, la sera, e Marta che si travagliava nella cucina? Dove sono gli occhi levati e le mani giunte di Maria? Il suo furore e dolore scoppiano d’un colpo: coloro che Than-

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no confuso con Belzebù hanno commesso il crimine dei crimini. — In verità io vi dico, tutti i peccati saranno rimessi ai figli degli uomini, anche le bestemmie ch’essi avran­ no proferite. Ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non otterrà mai perdono: egli è colpevole d’un peccato eterno. Non c’è mistero nel « peccato contro lo spirito ». Il testo di Marco è limpido : « Gesù parlò così perché essi dicevano: egli è posseduto dallo spirito impuro ». Il ro­ vesciamento della coscienza, l’affermazione che il male è il bene: ecco il delitto imperdonabile quando è com­ messo da un uomo illuminato dalla luce della fede e che, sapendo che il Male è qualcuno e il Bene è altresì qualcuno, si compiace d’un sacrilegio equivoco, impone nella sua propria vita, al Cristo, la parte del demonio, 10 scaccia come una tentazione, e in cambio adora l’Im­ mondo, gli apre scientemente il suo cuore e consente di essere da lui colmato di delizie. Esiste dunque un peccato eterno. In questo momento, 11 pensiero di Cristo si rivolge a colui al quale è stato paragonato. Questo Dio irritato sembra più formidabile forse quando rimane freddo: i miserabili, egli pensa, parlano assai leggermente di Belzebù che chiamano « dio del letame »... Ma se lo conoscessero, non sorriderebbe­ ro. E, d'improvviso, parole gli sfuggono che i commen­ tatori prudenti sfiorano appena e che sono fatte apposta per agghiacciar di spavento i suoi più cari amici - e loro soprattutto: — Quando lo spirito impuro è uscito da un uomo, erra per luoghi aridi in cerca di riposo. Non trovandone, dice: ritornerò nella mia casa donde sono uscito. E quando arriva, la trova nettata e ornata. Al­ lora se ne va, prende con sé altri sette spiriti più mal­ vagi di lui, e entrando in quella casa vi si stabiliscono: e l’ultima condizione di quell’uomo è assai peggiore della prima. È ben dolce ridivenir puro, aver ripulito la stalla fino all’ultimo escremento e averla ornata come per un 19.

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convito di nozze. Ma il gregge immondo che l’uomo aveva cacciato·, ritorna, una sera, e noi sentiamo contro la porta il soffio di tutti quei grugni... Le donne ascoltavano queste cose senza comprenderle, come ancora fanno, sospese alle sue labbra, incantate dalla sola sua voce. Una d’esse lo interruppe per gri­ dargli : — Beato il seno che ti ha portato e le mammelle che tu hai succhiate! Forse era una Nazzarena, e voleva far cosa grata a Maria nascosta con lei nella folla. Ma il Cristo non era in un momento di commozione; e rispose con voce du­ ra : « Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono ». Ascoltarla, codesta parola, non è nulla; accoglierla con amore non è nulla: custodirla è tutto. Custodirla contro lo spirito impuro, uno e molteplice, formicolante. Tra i convertiti al Cristo alcuni non provano se non or­ rore e disgusto dei delitti loro perdonati; ne sono guariti come i lebbrosi delle loro ulceri. Ma in altri, una brec­ cia rimane aperta: come se l’amore del Cristo indietreg­ giasse davanti a certe piaghe che non si cicatrizzano che per metà, si riaprono, e seguitano a gemere. Nessuna voce osava più levarsi. Ma gli occulti pen­ sieri dei Giudei schiaffeggiavano il Cristo. In quel punto il Figlio dell’uomo esplode alfine: — Questa generazione chiede un segno? E l’avrà! Sarà quello di Giona —. Ciò significava ch’egli dimorerebbe tre giorni nel cuor della terra e che resusciterebbe. Cosa incomprensibile per quel­ li che l’ascoltavano. Ma precisamente: egli voleva che fosse incomprensibile, e gridava che quella generazione sarebbe condannata nel giorno del Giudizio. La regina di Saba si leverebbe contro loro, e i Niniviti che, essi, avevano fatto penitenza... Un Fariseo mellifluo lo interruppe: era l’ora di cena: non vorrebbe venire a mangiare in casa sua? Gesù man­ dò giù la collera, e senza degnarsi di rispondere lo se­ guì, e prese posto, non pensando neppure a lavarsi le mani secondo il rito. Il Fariseo se ne meravigliava, ma

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si guardava bene dal dir nulla a quel violento. Egli di­ menticava il potere che il Nazzareno aveva di leggere nei cuori. Bastò il muto stupore del suo ospite, perché il Figlio dell’uomo insorgesse ancora, tanto più terribile nel nuovo accesso d’indignazione che, per decenza, a quella tavola forestiera, egli aveva ricacciato indietro. Ma questa volta non si fermerà più; il rimprovero si gonfia in ingiuria, l’ingiuria in oltraggio, l’oltraggio in maledizione: il Figlio dell’uomo è figlio di Giudea, ed è un Giudeo veemente e gesticolante che grida: — Guai a voi, Farisei, che pagate la decima della menta, della ruta e di tutte le erbe, e non vi date nessun pensiero della giustizia e dell’amor di Dio! È questo, che biso­ gnava praticare senza omettere il resto. Guai a voi, Fa­ risei, che amate i primi seggi nelle sinagoghe e le salu­ tazioni nelle piazze! Guai a voi, perché siete simili a sepolcri che non si vedono ma sui quali si cammina sen­ za saperlo. Lo scandalo era al colmo. Un dottore della legge cre­ dette di doverlo richiamare alla ragione: — Maestro, dicendo queste cose contro i Farisei, tu oltraggi anche noi... — Il Figlio dell’uomo si voltò verso quel nuovo nemico, più esecrato ancora del Fariseo. Perché i dotto­ ri, gl’insegnanti, avvelenano i piccoli; - e tanto più ese­ crato, in quanto Colui per il quale il tempo non esiste, vedeva nel miserabile dottore d’Israele il rappresentante d’una razza che sarebbe più forte del suo amore. Il Cri­ sto sapeva che rimarrebbe privo di potere contro di loro, durante quanti secoli! Ed è perciò che, gonfio di collera, lui che era l’amore, li affogò d’imprecazioni sublimi: ■—■ E a voi pure, dottori della legge, guai ! perché caricate gli uomini di pesi importabili, e voi non toccate quei pesi neppure con un sol dito ! Guai a voi che edificate i monumenti dei profeti; e sono i vostri padri che li ucci­ sero... Guai a voi, dottori della legge, perché avete tolta la chiave della scienza; voi non siete entrati, e avete impedito coloro che entravano! Bisogna capire lo scoramento di quest’uomo che è Dio

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e che a ogni istante ha presente allo spirito i milioni d’anime escluse dalla sorgente d’acqua viva. E come già la croce si disegnava all’orizzonte, ed egli vi era ormai vicino e cominciava a sentire in bocca il sapore del san­ gue, non vedeva più che quel patibolo, e intorno ad esso tutte le croci, tutti i roghi, tutto l’apparecchio san­ guinante della ferocia umana.

Rassicura t suoi

Usci tranquillo, in un silenzio di morte, poiché le sue stesse violenze erano misurate, regolate dal Padre suo. E migliaia d’uomini lo seguivano « al punto da calpe­ starsi gli uni gli altri », annota San Lucca. Perché egli parlava con autorità, e le cose che molti di quella pove­ ra gente dicevano sottovoce, egli le proclamava a costo della vita. Poiché essi lo seguivano tremando. Avevano paura di quelle potenze così temerariamente sfidate dal Figlio dell’uomo, e la cui vendetta sarebbe spietata. Ed essi stessi, per umili che fossero, sentivano gravar su loro la minaccia. Gesù ha chiamato i dottori assassini... Ed è vero ch’essi non indietreggiano davanti a nessun misfatto. Allora, con una voce che l’invettiva aveva spezzata, rassicurò i suoi, quei bambini raccolti sotto la sua ala: — Io vi dico, a voi che siete miei amici... ■— Parole che dovevano accendere ognuno di quei cuori. Diceva loro che non bisognava temere coloro che non possono ucci­ dere che il corpo. Che non si preoccupino di ciò che avranno a rispondere quando saranno interrogati nelle sinagoghe; che non paventino né i magistrati né le au­ torità... Somiglia così poco al Maestro, la cui voce to­ nante li sbigottiva poco fa, che uno d’essi osa interrom­ perlo per domandare: — Maestro, di’ a mio fratello di dividere con me la mia eredità... — Gesù risponde pia­ namente che non tocca a lui fare spartizioni. Vuole a un tempo rassicurarli e impaurirli, dar loro

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il sentimento dell’incertezza, affinché rimangano con la cintura ai lombi, la lampada accesa, poiché lo sposo può arrivare ad ogni istante. E tale è la sua insistenza, che si comprende come quelle povere anime abbiano credu­ to, dopo la Passione, a un prossimo ritorno del Signore. Tuttavia egli alludeva soprattutto alla sua brusca venuta nella vita di ciascuno di noi in particolare. Il Figlio del­ l’uomo verrà nell’ora che noi non pensiamo. Si tratta di creare in noi uno stato d’inquietudine e di veglia.

Sospiri d’impazienza e d’angoscia Le istruzioni del Signore sono interrotte da sospiri d’impazienza e d’angoscia. Si avvicina al Golgota, e il mondo rimane quello che era. Quando dunque quei cuo­ ri incominceranno ad avvampare? — Io sono venuto a gettare il fuoco sulla terra; e che desidero, se non che si accenda? — Questa profonda coscienza che fin dal principio ha avuto della propria missione, scoppiava in quella parola. Ma nello stesso tempo egli doveva avver­ tire il contrasto: l’universo intero da incendiare, ed egli è a due mesi dalla morte degli schiavi ! E certamente i segni non mancano, in quell’angolo del mondo ove Dio si è abbattuto. Ma quegli imbecilli non vedono nulla: — Quando voi vedete la nuvola che si leva dal ponente, subito dite: la pioggia è vicina, e così è; e quando sen­ tite soffiare il vento del mezzodì, dite: farà caldo; e così avviene. Ipocriti! Voi sapete discernere gli aspetti del cielo e della terra, e come non discernete il tempo dove slamo?

Breve soggiorno a Gerusalemme Fece verso quel tempo, solo o quasi solo, un breve soggiorno a Gerusalemme per la festa della dedicazione che si celebrava nel cuore dell’inverno. Otto giorni di

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luminarie e di ressa. Il Signore se ne stava al sicuro, sotto il portico di Salomone, e i Giudei, secondo la loro immutabile maniera, lo molestavano di nuovo perché si scoprisse:— Fino a quando terrai sospeso il nostro spi­ rito? Se tu non sei il Cristo, confessalo francamente —. E lui, prudente come il serpente, si prende gioco di loro: le sue opere testimoniano di lui. Ed essi non cre­ dono in lui perché non sono del suo gregge. Li allon­ tana, rinunzia apertamente a quella razza dura... E d’im­ provviso getta loro la confessione: — Mio Padre ed io siamo uno... Ciò era enorme, quantunque non fosse la dichiara­ zione formale che avevano udita la donna di Sichar e il cieco nato. I Giudei, interdetti, raccattarono delle pietre, ma le bilanciavano nei pugni esitanti. Per darsi animo, formulavano l’accusa: —· Essendo uomo tu ti fai Dio... — E lui a provocarli e farsi beffe di loro, servendosi d’un testo della legge ove è detto: ■— Voi siete degli dei —. Poi quell’ultima bravata: — Affinché sappiate che il Padre è in me e io sono nel Padre mio... — Le pietre cominciarono a piovere intorno a lui. La folla si precipitò, ma egli era già scomparso.

Capitolo XX

Il Cristo piange su Gerusalemme

Lasciò la città, durante la notte, e si rifugiò al di là del Giordano dove i Dodici l’attendevano, nella regione detta Perea, al nord del Mar Morto. Poche settimane mancano al suo martirio, e solo al­ cuni stadi lo dividono da Gerusalemme ove si stanno prendendo gli ultimi provvedimenti contro di lui, e il nemico è in agguato. Stanco è questo vincitore dissimu­ lato sotto una apparente disfatta. Egli continua a prote­ stare contro l’eterno scandalo dei Farisei perché caccia i demoni in giorno di sabato (ancora quella donna pie­ gata dopo diciotto anni!). La città intorno alla quale erra, gli strappa talora dei gridi che non somigliano per nulla alle imprecazioni sotto le quali si sgretolavano le pietre squadrate di Cafarnao, le fondamenta di Betsaida e di Corozain. In Gerusalemme, la sua città regale, nel luogo stesso dove la terra berrebbe il suo sangue dopo che i suoi amici, in una notte di tenerezza e di agonia, ne avrebbero bevuto essi pure, si sforzava di raggiun­ gere, pietra durissima fra tutte le pietre di Sion, il cuore gelato della sua razza: — Gerusalemme! Gerusalem­ me !... Se durante quei due o tre anni ha potuto così abban­ donatamente scagliarsi contro i Giudei, ricopre ora i suoi anatemi con una straziante invocazione che attraverso i secoli e fino alla loro consumazione non lascerà di mor­

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dere il vecchio Israele: — Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figliuoli nella maniera che la gallina raccoglie la sua covata sotto le sue ali, e tu non l’hai voluto! Così, aspettando l’ora, il Cristo dolente gira intorno alla sua tomba. Approfitterà di questo tempo per rassi­ curare il cuore di coloro che ha atterriti. Molti lo segui­ vano, dei quali aveva rimesso i peccati. Ma forse li aveva turbati con le parole circa il piccolo numero degli eletti:— Molti sono i chiamati e pochi gli eletti... — che la nostra viltà ci induce a stimare suscettibili di in­ terpretazioni rassicuranti... Dopo essersi creduti salvi, al­ cuni poveretti d’improvviso si domandavano se avevano realmente indossato la veste nuziale, e se non fossero condannati alle tenebre esteriori; gli ossessi liberati fre­ mevano nell’attesa dei « sette demoni malvagi » di cui il Maestro li aveva minacciati.

Predilezione per i peccatori Ma ora che è prossimo a lasciarli, l’Amore vivente li rassicura. Il suo desiderio è che i suoi fedeli lo temano con una fiducia illimitata, che riposino su di lui con un cuore appassionato, ma tremando. « E io aspiro treman­ do. » È questo che il Figlio dell’uomo ci chiede: diffi­ denza delle nostre forze, abbandono a occhi chiusi a una infinita misericordia. O come poteva averli siffattamente spaventati? Sap­ piano dunque ciò che già aveva loro lasciato intravedere: che il peccatore non è soltanto amato, ma sì anche pre­ ferito. È per lui, ch’era perduto, che il Verbo si è fatto carne. Tutti i suoi ragionamenti, durante l’ultime setti­ mane di sua vita, tradiscono questa predilezione per i cuori semplici, capaci di eccessi. Lui così duro coi dot­ tori e coi Farisei, si addolcisce coi piccoli. Non è per umiltà né per spirito di sacrificio, che rimane in mezzo

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a loro. È perché li preferisce, o meglio odia il mondo, e si dà a quelli che del mondo non sono. Erode ch’egli chiama « quella volpe » è il solo essere di cui parli con sprezzo. Per lui è un gioco battere i sapienti sul loro stesso terreno; ma di ridurre al silenzio dei dialettici im­ becilli, non gliene importa nulla. La sua vera gioia è di rivelarsi a dei poveri uomini schiacciati da colpe abi­ tuali, e d’aprire sotto i loro passi un abisso di miseri­ cordia e di perdono. E perciò si paragona al padrone delle pecore che ne abbandona novantanove per correr dietro alla centesima smarrita; e la riporta nelle sue braccia. Ascoltandolo, ognuno doveva pensare: “È per me che parla...” poiché chi di loro non aveva pesato con tutto il suo peso car­ nale su quelle sacre spalle? Sono stati raccolti, custoditi e, sporchi di fango, stretti a quel petto. « Vi è più alle­ grezza in cielo per un solo peccatore pentito, che per novantanove giusti... »

// figliuol prodigo

Sì, così è, e bisogna ch’essi conoscano che l’amore è ingiusto. Ciò che il mondo chiama giustizia, è traboc­ cato, sommerso da questa passione d’un Dio che nessuna delle nostre più tristi passioni ributta. E un giorno rac­ conta loro la parabola del Figliuol Prodigo... Una para­ bola?... No, una storia vera, la storia di tutti i ritorni a Dio, dopo quella follia che è la giovinezza di molti uomini. Il figliuolo ha preteso dal padre la sua parte di eredità, si è dato alla crapula, ma non ha sfruttato con­ sideratamente la sua passione; si è astenuto da quel cal­ colo, da quell’astuzia che assicura l’impunità a tanti altri criminali. La sua follia ha spinto il guardiano di porci a quella spoliazione dove l’amor di Dio l’avrebbe con­ dotto. I porci gli disputano il suo cibo. Allora si ricorda della casa di suo padre... Quale straordinaria cosa pen­ sare che Gesù ci è talmente vicino da aver provato quel­

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le impressioni di giovane ricco blandito dal dolce lusso segreto delle grandi case piene di cantine e di servi! Egli conosceva l’odor del grasso delle cucine nostre, il profumo delle carni arrostite alla graticola sopra un fuo­ co di sarmenti, il delicato rispetto dei vecchi servitori nati nella proprietà. È questo da prima che riconduce il figliuolo perduto come tutti i ragazzi perduti. Non è ancora l’amore. Tut­ tavia egli è ricevuto in un delirio di gioia. Si sacrifica il vitello grasso, gli si dà un anello, un vestito... Ma il primogenito che fu sempre fedele, non riceve che un’ammonizione a causa della sua gelosia. Ingiustizia della misericordia! Quelli che avendo arrischiato, gio­ cato e perduto si offrono al Padre perché non hanno più niente, prevalgono talvolta sui devoti regolari, dai conti esatti e bene appurati, e che non meritano nep­ pure l’ombra d’un rimprovero sopra una sola maglia del lavoro che ordiscono giorno per giorno. Il primogenito non ha alcuna idea della dolcezza che un Padre e un Dio preparano al misero figliuolo ritrovato. « Padre, io ho peccato contro il cielo e contro te, e non sono degno d’essere chiamato tuo figlio... » Il Signore preferisce a qualsiasi cosa la resa d’un cuore che, avendo consumato le strade e toccato il limite estremo della sua miseria, ritorna cosciente della propria nullità, letteralmente an­ nichilito, e si consegna nelle mani della misericordia con Io stesso moto con cui, secondo la giustizia degli uomi­ ni, si abbandonerebbe a quelle del carnefice.

Mammona Ma questi godimenti ricuperati appartengono all’or­ dine spirituale; questa abbondanza della casa paterna, questo lusso, non riguardano che l’anima. Il Signore ha un nemico: il denaro, a cui dà il suo nome di dio: Mam­ mona. Il denaro, o lui: bisogna scegliere. L’idea che gli scribi si fanno della ricchezza, segno di benedizione,

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ricompensa della virtù, gli mette orrore. Il cattivo ricco vestito di lino e porpora, che non si cura di nutrire dei suoi avanzi il mendicante Lazzaro accosciato alla porta, sarà dato alla geenna : l’uomo che ha bevuto e s’è ubriacato tutta la vita, sarà torturato da un’eterna sete. Che gl’importa della distribuzione delle ricchezze? Ric­ chi o poveri, i suoi amici devono avere a schifo Mam­ mona, ed egli li riconosce a questo segno. I poveri che non vivono che del rammarico e della brama del dena­ ro, appartengono a Mammona come i ricchi. Gesù odia nel denaro un’arma di cui l’avversario si giova per por­ targli via i suoi diletti. Perché tale è la debolezza del Cristo davanti al demonio: egli non regna che sui cuori dei dispogliati, e quelli degli avari gli sfuggono. Mam­ mona fa del Cristo un eterno errabondo che dappertutto trova il posto occupato. Giuda odiava in Gesù quest’odio del denaro, egli che già cercava dei compensi nella borsa comune. Quanto agli altri, pensavano tra sé: “Noi, noi abbiamo lasciato ogni cosa per seguirlo...”. Ma il Figlio dell’uomo non vuol saperne di quel segreto appagamento: lo schiavo non si inorgoglisce d'essere obbligato, al ritorno dal lavoro, di servire ancora il suo padrone. Ch’essi dunque si considerino, anche dopo il dono totale, come degli inutili servitori.

I dieci lebbrosi

Durante quell’andare e venire intorno alla città, in attesa della sua ora, il Figlio dell’uomo instancabilmente ritorna sui medesimi precetti. Semina, seminerà fino al­ l’ultimo giorno, ma nulla ancora vede germinare. Ecco dieci lebbrosi all’ingresso del villaggio, sui confini della Samaria, che lo implorano chiamandolo — Signore Ge­ sù, — come s’egli fosse dottore in Israele! Sebbene sia­ no tutti guariti, andando a farsi vedere dai sacerdoti, uno solo ritorna per gettarsi ai piedi del Cristo, il solo

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Samaritano della brigata. Il Figlio dell’uomo conosce gli uomini, oramai. Certo, li conosceva da tutta l’eternità, ma ne ha acquistato una conoscenza carnale, quotidiana, op­ primente. Nulla può più irritarlo né stupirlo. Nessuna sorpresa, mentre sospira: — I dieci non sono stati gua­ riti? Solo questo straniero è ritornato... No, non s’irriterà più. I Farisei che si tira dietro come un bove le sue mosche, lo molestano invano: soffre tut­ to, oramai, senza alzar la voce, ripetendo infaticabilmente che il regno di Dio non sarà quella splendida avventura ch’essi sognano e che è tuttora la speranza dei suoi più cari amici. È già venuto, questo regno; ma è interiore, dentro di noi: ed è codesto rinnovamento della persona umana, codesta rinascenza di ciascun essere umano in particolare: l’uomo nuovo. Il giorno del Cristo certissimamente verrà. Sì, rassicu­ ratevi, voi che volete lo spettacolo, il rumore, la gloria: avrete tutto questo, poveri figliuoli! Qui il Signore fa una pausa: intento a prepararli alle prossime tenebre, insinua nel discorso: — Ma conviene prima che il Figlio dell’uomo soffra molte cose e sia rigettato da questa ge­ nerazione...

Il ritorno di Gesù

E senza sostare, per tagliar corto ad ogni domanda troppo precisa, ritorna in fretta a ciò che appassiona quei Giudei; parla loro del suo giorno, della sua inaspet­ tata venuta: repentina così come il diluvio sulla terra, come il fuoco su Sodoma; profezia che è sospesa e che a certi momenti della storia piomba giù; che ogni cata­ strofe realizza in parte, fino al giorno del definitivo com­ pimento. E tale è l’ingiustizia dell’amore: in quel giorno, delle due donne occupate nella stessa faccenda, l’una sarà pre­ sa e salvata, l’altra abbandonata. E sono tutti lì come dei ragazzi che godono d’una paura, assetati di precisi

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particolari: — Dove avverrà, Signore? In qual luogo? -— Ed egli: -— Dove sarà il corpo, là si aduneranno le aquile —. Il brusco muoversi d’uccelli avidi intorno a un cadavere dà l’idea di questo istinto che dai quattro canti del mondo precipiterà le anime elette sopra l’a­ gnello immolato e vivente. Essi cercano di comprendere, e tacciono, sopraffatti dall’angoscia. Allora Gesù apre loro la porta di soccor­ so: la preghiera. Qualsiasi cosa accada, preghino a tem­ po e a controtempo, il giorno e la notte; tale è la mi­ steriosa esigenza di Dio: una supplica ininterrotta... Ed ecco che egli stesso a un tratto s’interrompe, pieno di turbamento, atterrito da ciò che vede o immagina? Co­ me se in quell’attimo l’opacità del corpo sottraesse al suo occhio di Dio gli svolgimenti della vita, il Figlio del Padre, ma sotterrato nel tempo, pone a se medesimo la schiacciante domanda: «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora della fede sulla terra? ». Ipotesi che confonde la mente... Ma ogni parola del Signore possiede un valore assoluto. Egli immagina dun­ que il suo ritorno nel mondo dove non sussisterebbe più un’oncia di fede, dove il Cristo Gesù sarebbe più scono­ sciuto che non fosse sotto l’impero d’Augusto nella stal­ la di Betlemme, dove il suo nome non risveglierebbe più nessun ricordo in alcun cervello umano. Lo spazio d’una generazione basta perché il Cristo ritornando co­ me un ladro si incontri dappertutto in questa parola: « Noi non conosciamo quest’uomo... ».

Capitolo XXI

Il matrimonio

I Farisei si accalcavano sempre più fitti di mano in ma­ no ch’egli si avvicinava al loro vespaio, Gerusalemme. Con la loro idea fissa d’opporre il Nazzareno alla Legge e di costringerlo alla bestemmia, gli diedero il pretesto di spiegarsi circa l’unione indissolubile dell’uomo e del­ la donna; indissolubile checché accada e in qualsiasi ca­ so... A dispetto di Mosè? Sì, a dispetto di Mosè. — È a causa del vostro cuore duro', che Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre donne. — Si può dunque, nella Legge, lasciare e prendere ? Gesù coraggiosamente ne conviene. Questa indissolubilità violata dappertutto, egli la imporrà al mondo. Ogni generazione sarà ormai una generazione adultera. Gli Apostoli borbottano: -— Al­ lora è meglio non sposarsi! — Terribile legge. Gesù sa che ha or ora aperto una porta e scavato un passaggio da noi a lui. Sa ciò che pretende dai suoi più cari amici: non una mutilazione della carne, ma che essi stabiliscano la loro dimora al di là del fiume di sangue che separa la creatura dalla Purità infinita. Il Figlio dell’uomo non ha risolto tutti i tristi problemi del sesso. Per coloro che intendono aderire a lui, egli non risolve la questio­ ne, la sopprime. Che gli amici del Cristo abbiano recato, nascendo, quella inclinazione, quella tendenza; che por­ tino il peso d’una tale o tal altra eredità, egli lo ignora; egli esige da loro la tavola rasa, il rifiuto di soddisfare,

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fuori del matrimonio, ogni sete. Scandalo degli scandali agli occhi dei pagani, delitto contro natura, minorazione dell’uomo... Ma lui. si fa beffe dell’approvazione del mondo. — Non è per il mondo, che ho pregato... — (L’ultima delle parole spietate che egli abbia pronun­ ciate!) Il Figlio dell’upmo sa che è per la purità che noi andiamo a lui, e che non esiste altra via, e che la carne nasconde una possibilità di godimenti, una esigen­ za che, fortificandosi nell’appagamento, dà alla creatura l’illusione di un piacere infinito: che la carne, insomma, è la sua rivale. Perciò, come si sdegna di veder gli Apo­ stoli respingere duramente i fanciulli che si urtano in­ torno a lui! In quelli almeno la cupidigia non è ancora svegliata... Incredibile esigenza! Bisogna farsi simili a loro per entrare nel Regno; ridivenire fanciulli, essere un bam­ bino. — Chiunque non riceverà il Regno di Dio come un bambino, non ci entrerà.

Il giovane ricco

I fanciulli non sono i soli a far battere il suo cuore. Con l’audacia della giovinezza, un giovane lo interrom­ pe: — Maestro buono, che devo fare per ereditare la vita eterna? — Gesù, senza da prima badare a chi gli parla, risponde: — Tu sai i comandamenti? — E glieli enumera. E il giovane: — Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza... Ciò fu detto senza dubbio con un tono di semplicità e d’umiltà che commuove il Cristo. Allora soltanto egli leva gli occhi su colui che gli parla. « Gesù, avendolo riguardato, l’amò. » Avendolo riguardato... Una certa espressione toccava il Figlio dell’uomo: quella grazia di un giovane essere: quella luce degli occhi che viene dal­ l’anima. L’amò dunque, e come un Dio al quale tutto è soggetto, senza alcuna preparazione, quasi brutalmente:

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— Una cosa ti manca: va’, vendi tutto ciò che hai, e dallo ai poveri; e tu avrai un tesoro nel cielo. Poi vieni, e seguimi. Se Gesù non l’avesse amato d’un affetto particolare, avrebbe certo dato a quel giovane la forza di rinunziare a ogni cosa come altri aveva fatto. L’avrebbe reso schia­ vo d’una grazia onnipotente. Ma l’amore non vuole da chi egli ama ottener nulla che non sia liberamente con­ sentito. Per essere rapito a forza, quello sconosciuto non era troppo amato? Il Figlio dell’uomo attendeva da lui un movimento spontaneo del cuore, uno slancio... « Ma lui, afflitto da quella parola, se ne andò via triste, poiché possedeva grandi ricchezze. » Si perdette nella folla, e Gesù lo accompagnava con 10 sguardo, molto al di là dello spazio, nelle profondità del tempo, - di miseria in miseria, poiché coloro che 11 Cristo ha chiamati, e che si sono sviati, cadono, si rialzano, si trascinano coi loro occhi pieni della luce del cielo, coi loro vestimenti imbrattati, le loro mani lacerate e sanguinanti. Il dolore ch’egli prova si tradisce nell’eccesso della maledizione contro i ricchi scagliata quasi subito: — Quanto è difficile ai ricchi di entrare nel regno di Dio! Più difficile che a un cammello passare per la cruna di un ago... Così parla, l’occhio fisso ancora sul giovane triste che si allontana. Mammona si porta via quell’anima ch’egli ha amata, e gli altri non comprendono affatto la sua amarezza: — Chi potrà dunque essere salvato? — so­ spirano. Chi potrà dunque essere salvato? Pensiero tormentoso per gli stessi santi. La tristezza dei suoi amici intenerì Gesù. Poiché egli è il Figlio di Dio, l’autore della vita, distruggerà con una parola ciò che ha detto or ora (for­ se anche vede in spirito quell’ultimo istante in cui il giovane che si allontana gli sarà restituito per sempre da una grazia puramente gratuita). — Nulla è possibile all’uomo — dice — tutto è possibile a Dio... — Anche

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di salvare tanti ricchi quanti gli piacerà, anche di rigua­ dagnare le creature più decadute, di prenderle di forza, di cogliere un’anima tuttora macchiata, sopra una bocca di agonizzante. Tutto è possibile a Dio: questo è vero alla lettera, come pure le altre parole del Signore. Tutto! Egli aveva già detto : — Io attirerò tutto a me —. O adorabile occulta scaltrezza di questa misericordia che sfugge a qualsiasi indagine e che nulla limita! Tutto è possibile a Dio. La sua severità spaventava gli Apostoli, ma la sua indulgenza li rendeva gelosi. E che? Tutto il genere umano sarebbe salvato? E noi, allora? Pietro mormora: — Ecco che noi ci siamo distaccati da ogni cosa per seguirti. L’Amore vivente li cova con uno sguardo che attra­ verso loro giunge di secolo in secolo a toccare l’innu­ merevole folla delle anime consacrate e crocifisse: — Io ve lo dico in verità, nessuno lascerà la sua casa o i suoi fratelli o le sue sorelle, o suo padre, o sua madre, o i suoi figliuoli, o le sue terre, a causa di me e a causa dell’Evangelo, che non riceva ora, in questo stesso secolo, cento volte tanto, di case, fratelli, sorelle, madri, figliuoli e campi, pure in mezzo alle persecuzio­ ni. E nel secolo avvenire la vita eterna.

Gli operai dell’ultima ora

Essi l’ascoltano con un compiacimento che lo esaspera. Non crederanno mica che tutto è loro dovuto? Nulla è dovuto dall’autore della vita alla sua creatura. Non esi­ ste più diritto letterale quando l’amore governa. Come farglielo comprendere? Riceveranno meglio una storia che non il nudo precetto. Gesù incomincia dunque: — Il regno dei Cieli è simile a un padre di famiglia che uscì di buon mattino per condurre a prezzo dei lavorato­ ri nella sua vigna... Da tanto tempo che codesta storia degli operai del­

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l’ultima ora scandalizza il mondo, a che raccontarla? Il salario è il medesimo così per quelli che s’affaticano insino dall’alba, come per quelli ch’egli ha accolti al mezzo e alla fine del giorno. Domanderemo la ragione di ciò? Iddio non è tenuto a giustificarsi. Egli non toglie nulla a quelli che han portato tutto il peso del giorno e dell’arsura. Se è largo con gli ultimi venuti, è giudice del loro amore. Ma, non avessero alcun amore, se li ama, se li preferisce, se corrispondono all’idea misteriosa che il Cristo si fa, che cosa possiamo dire? Sovranamente egli infonderà loro tutto l’amore che loro manca. Noi stessi, creati a immagine divina, abbiamo forse mai rego­ lato i moti del nostro cuore?

Capitolo XXII

Resurrezione di Lazzaro I Dodici vedevano con inquietudine il Maestro appros­ simarsi a Gerusalemme, sebbene si cullassero in una vaga e tenace speranza. Gesù aveva uno scopo ch’essi ignoravano. Un ultimo gesto da compiere. La piccola comitiva, ancora al sicuro sulle terre di Erode, fu rag­ giunta da un messaggero mandato da Betania: — Laz­ zaro, colui che tu ami, è malato —. Il Signore, indiffe­ rente in apparenza, sostò due giorni, e gli Apostoli non dubitavano punto che non fosse per prudenza. Sicché quando Gesù, il posdomani, parlò di entrare in Giudea, non dissimularono il loro terrore, né la loro triste sor­ presa. — Maestro, i Giudei vogliono lapidarti, e tu ri­ torni da loro? — Egli non li ascoltava. Diceva: — Il nostro amico Lazzaro dorme, e io vado a risvegliarlo —. E come i discepoli, semplici e astuti a un tempo, crol­ lavano il capo e si confortavano: — Se dorme, guarirà... — (con l’intenzione occulta di rimanere in luogo si­ curo...). — morto — disse Gesù. — E io mi rallegro, a causa di voi, di non essere stato là. Ma andiamo a lui. Pietro doveva essere assente (il che spiegava il silen­ zio dei sinottici riguardo a Lazzaro), poiché è Tomaso detto Didimo che occupa il suo posto, in quella circo­ stanza, e rianima i paurosi. —- Andiamo anche noi, ac­ ciocché moriamo con lui. è

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« Gesù essendo arrivato, trovò che Lazzaro era già da quattro giorni nel sepolcro, e poiché Befania era presso Gerusalemme circa a quindici stadi, molti Giudei eran venuti a Marta e Maria per consolarle della morte del loro fratello. Tosto che Marta ebbe appreso che Gesù veniva, gli andò incontro, ma Maria sedeva in casa. Mar­ ta disse dunque a Gesù: — Signore, se tu fossi stato qui, il mio fratello non sarebbe morto. Ma, ancora ades­ so io so che tutto ciò che tu chiederai a Dio, Dio te lo darà —. Gesù le disse: — Il tuo fratello resusciterà —. Marta rispose: — Io so ch’egli resusciterà con la tua Resurrezione, nell’ultimo giorno —. Gesù le disse: — Io sono la resurrezione e la vita; e colui che crede in me, foss’egli morto, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morrà giammai in eterno. Lo credi tu? — Ella rispose: — Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figliuol di Dio che è venuto in questo mondo —. E detto questo se ne andò e chiamò di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: — Il Maestro è qui, e ti chiama —. Com’ebbe udito ciò, Maria si levò prestamente, e venne a lui. Ora Gesù non era ancora giunto al villaggio; ma era dove Marta l’aveva incontrato. I Giudei ch’erano in casa con Maria e la consolavano, avendola vista levarsi in fretta e uscire, la seguirono dicendo: — Ella va al sepolcro a piangere —. Quando Maria fu venuta ove era Gesù, vedutolo, gli cadde ai piedi dicendo: — Si­ gnore, se tu fossi stato qui, il mio fratello non sarebbe morto —. Gesù vedendo piangere lei e i Giudei che l’accompagnavano, freme nello spirito e si conturbò. E disse: — Ove l’avete posto? — Essi risposero: — Si­ gnore, vieni e vedi —. E Gesù lagrimò. Onde i Giudei dicevano: — Ecco come l’amava! » Perché dunque piangeva, egli che avrebbe dovuto ri­ dere di gioia a causa di quella stupefacente fortuna di strappare alla morte un amico diletto? Piangeva Lazzaro nell’istante medesimo in cui Lazzaro si sarebbe drizzato in piedi e avanzerebbe verso lui a piccolissimi passi, sal­ tellando forse, piedi e mani ancora impacciati di bende,

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il sudario appiccicato alla faccia. È ben vero che usciva dalle tenebre per vedere il Figlio dell’uomo entrarvi a sua volta, e per quale porta! Ma perché quelle lagrime, dal momento che Gesù sfuggirebbe egli pure alla tomba, al tempo e allo spazio, e che Lazzaro era già nel cuor suo per l’eternità? Solo motivo a quel pianto, il « vieni e vedi » dei Giu­ dei, e soprattutto l’espressione brutale: « Egli pute di già; perché sono quattro giorni che è lì... ». L’odore di quella carne corrotta spremè lagrime a colui il cui corpo non conoscerebbe la corruzione. Perché invano il Figlio dell’uomo richiama alla vita l’amico suo: egli sa bene che la vittoria sarà infine dei vermi, e ch’essi non hanno che da attendere il ritorno del resuscitato. Presto o tardi quel corpo ricomincerà a putire. Nessuna forza al mondo lo salverà dalla putredine. Noi crediamo con tutta l’anima alla resurrezione della carne; ma bisogna che ogni essere umano dia il suo consentimento a que­ sta fatalità di imputridimento. Se è malagevole che uno ci si risolva per se stesso, che sarà per le creature la cui grazia freschezza e forza ci hanno preso il cuore? Ciò che resusciterà sarà il fiore umano che l’occhio illumina, che il sangue colora e infiamma? Sì, sarà questo fiore, ma non più effimero, e dunque non più esso. Il Figlio del­ l’uomo piangeva sopra quei frutti guasti che sono tutti i corpi viventi.

La morte di Gesù decisa

Molti Giudei credettero in lui, ma altri si affrettaro­ no a informare i pontefici, i quali tosto si radunarono a consiglio. Più sfolgorante è il miracolo, più l’imposto­ re appare temibile, e più essi si ostinano nella risoluzione di abbatterlo. Poiché, dotato d’una tale potenza, il Naz­ zareno non può che mirare al potere supremo, e attirare con ciò su Gerusalemme la vendetta di Roma. Pilato non amava i Giudei e aveva il pugno pesante. Non c’è

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più da fare, ora, con dei teologi irritati da un falso messia, ma con dei politici: persone che vedono lontano e prendono le loro precauzioni. Caifa, il gran sacerdote, profeta a sua insaputa, stima che è bene che un sol uo­ mo muoia acciocché la intera nazione sia salva. Il Signore, che teneva pratiche nel Consiglio (forse Nicodemo), avvertito del pericolo, non è più che un uomo braccato che si rintana nel territorio. Efrem, a nord-est di Gerusalemme, gli serve di rifugio. Ma la Pasqua è imminente. Un profeta non può dispensarsi dal salire al Tempio. Basta ai suoi nemici pazientare un po’ di tempo. Perché se Gesù corrisponde in segreto coi membri del Consiglio, i pontefici hanno un uomo devo­ to a loro tra i Dodici. Costui, la resurrezione di Lazza­ ro non ha potuto che più e più inasprirlo contro l’in­ correggibile parabolano che possiede un tal potere sulla materia e non se ne vale che per la propria rovina e per quella dei suoi partigiani. No, nessuna scusa per si­ mile disfatta. L’uomo di Keriot ignora ancora come, al­ l’ultimo momento, si caverà dall’imbroglio. Non c’è fret­ ta: Gesù si avvicina alla trappola. Eccolo intanto che esce dal suo nascondiglio e si inol­ tra per la strada di Gerico, solo, e dietro a lui i Dodici e una piccola banda di esaltati che discutono a bassa voce delle sorti dell’avventura. Nulla ancora hanno compre­ so ! Quando dunque i loro occhi si apriranno ? Questa volta il Cristo non ha riguardi, e d’un colpo strappa il velo: — Ecco che noi montiamo a Gerusalemme, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato al Principe dei sacer­ doti e agli scribi. Essi lo condanneranno a morte e lo daranno in mano ai Gentili per essere beffato flagellato e crocifisso. Ed egli resusciterà nel terzo giorno. Si aspettava egli delle proteste? Cefa, che si ricorda di aver discusso di Satana, tace. Essi peraltro si sentono meno inquieti. Chi ha resuscitato Lazzaro, è padrone del­ la vita. Che cosa temerebbero ? I suoi discorsi non sem­ brano loro sempre chiari. La flagellazione? La crocefissione? Immagini, Senza dubbio. In ogni caso, non gli oc­

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correranno che tre giorni per entrare nella sua gloria, e non vi entrerà solo. San Luca lo dice esplicitamente: « Poiché egli si avvicinava a Gerusalemme, il popolo pensava che il regno di Dio sarebbe presto apparso ».

Domanda dei figli di Zebedeo Sì, i suoi amici trionferebbero con lui, e anzitutto i più intimi. Il guaio è che sono dodici. Per quanto s’a­ mino, ben vorrebbe ciascuno assicurarsi il posto migliore nel regno venturo. I figli di Zebedeo brigano. Giovanni sussurra a Giacomo: — In fondo, egli mi preferisce a Cefa; e tu, tu sei mio fratello... — E Giacomo: — Chie­ digli che riserbi a ciascuno di noi un trono al suo fian­ co... — Ma Giovanni: — No, io non oso —. Allora la loro madre Salomè forse intervenne: — Ebbene, oserò io! — Par di udire i loro bisbigli: ecco, la madre ambi­ ziosa si stacca dal gruppo. Ella si prosterna ai piedi del Maestro. — Che vuoi ? — domanda lui. Ella risponde: — Comanda che questi miei due figli seggano l’uno alla tua destra l’altro alla tua si­ nistra nel tuo regno. Con quale impeto poco fa ancora li avrebbe rimbrot­ tati tutti e tre! Ma non è più il caso di gridare, ora, né rimbrottare. Non ha più molto tempo da perdere. Chec­ ché facciano, il Signore tratterà fino alla fine i suoi amici con una tenerezza che Giuda stesso non potrà spegnere. Egli sospira dunque come un uomo che sarà giustiziato domani, con una pietà appassionata (e guarda specialmente quello dei due che è più accosto al suo cuore). — Potete voi bere il calice che io devo bere? Essi non sanno quale sia questo calice. Ma a una voce, con tutte le loro forze, con una violenza che li aveva fatti chiamare dal Signore « figli del tuono », i figli di Zebedeo rispondono: — Sicuramente, noi lo possiamo! — Voi berrete difatti il mio calice. Tante maniere ci sono di bervi ! Il martirio che Già-

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corno subì l’anno 44 ne è una. Ma ci sono pure altre angosce. Noi non sappiamo quale fu per Giovanni que­ sto calice, ma soltanto ch’egli vi ha bevuto, a lunghi sorsi. Il Maestro, intanto, al disopra d’essi parla a tutti gli altri, in termini chiari, poiché ora bisogna che ogni parola colpisca. Quando comprenderanno essi che i suoi amici devono aborrire il primo posto, su l’esempio del Figlio dell’uomo, venuto non per essere servito ma per servire? Quel supremo servigio ch’egli è venuto ad as­ sumere, del quale poco fa ancora Caifa l’aggravava in pieno Consiglio, egli finalmente lo svelerà loro: — Il Figlio dell’uomo è venuto a dare la sua vita per il ri­ scatto d’un grande numero.

Ingresso a Gerico, Guarigione di Bertimeo Che intende dire? Eccoli giunti nelle vicinanze di Gerico, città di piacere di Erode, irrigata dalle acque del­ la montagna. Una moltitudine enorme fa ressa. Il cieco, Bertimeo, sentendo quel tumulto, domandò cos’era, e quando ebbe inteso che passava Gesù, si precipitò gri­ dando: — Figlio di Davide, abbi pietà di me! — E poiché gl’imponevano silenzio, si mise a urlare. — Chia­ matelo — disse Gesù... Lo chiamarono dicendogli: ■— Ab­ bi fiducia, egli ti vuole —. Bertimeo, gettando il suo mantello, si levò con un balzo e venne a lui. — Che vuoi che io ti faccia? -— Maestro, che io veda. — Gesù gli disse: — Vat­ tene, la tua fede ti ha salvato.

Zaccheo Si direbbe che il Figlio dell’uomo voglia, prima della sua morte terminare di spargere al primo venuto, di scia­ lacquare il tesoro delle grazie che ha recato nel mondo.

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Dopo quella guarigione, la folla divenne tale che un capo dei pubblicani, uomo ricchissimo, di nome Zac­ cheo, piccolo di statura, dovette montare sopra un sico­ moro per vederlo. Gesù conosceva il cuore di quella spregiata creatura. Alzò gli occhi e lo chiamò: ■— Zac­ cheo, scendi subito, perché oggi albergo nella tua casa —. Zaccheo si affrettò a discendere, e lo ricevette con gioia... Ecco tre anni che i suoi nemici lo accusano di frequen­ tare i peccatori. Fino alla fine egli si compiacerà della compagnia di quelli che lo hanno preferito alle loro sozzure.

Capitolo XXIII

Il convito in casa di Simone

Un ultimo riposo prima delle tenebre, ancora un po’ di calore umano. Gesù, affranto dalla fatica, non andrà di­ rettamente da Gerico a Gerusalemme. Ha bisogno di contemplare ancora una volta dei visi amici, quel Laz­ zaro che non si rammenta della sponda dei morti da dove il Cristo l’ha tratto. L’affaccendamento di Marta, anziché inasprirlo, non gli sarà questa volta meno dolce, forse, della vista di Maria; poiché quelli che stanno per mo­ rire han piacere d’essere cullati e colmati d’umili genti­ lezze. È il sabato, il sesto giorno prima della Pasqua. Un lebbroso ch’egli aveva guarito, di nome Simone, lo pregò di cenare con Lazzaro e le due sorelle. Marta, se­ condo il solito, serviva. Questa Maria che entrò nella sala con una libbra d’olio odorifero, era dunque la peccatrice medesima che innaffiò di lagrime i suoi piedi? Questa contemplativa è anche lei una pentita? Checché ne sia, Maria è pervenu­ ta a quel grado di amore che le rivela la sua propria miseria, e altro non le rimane fuorché modestamente imitare il gesto della cortigiana che ella fu. Ella dunque entrò come aveva fatto l’altra, con un alberello di pro­ fumo. Un’atmosfera di febbre regnava intorno all’uomo che, dopo resuscitato Lazzaro, andava alla testa del popolo a forzare le porte di Gerusalemme, e a sfidare i pontefici

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e gli stessi Romani. La speranza, in più d’uno, vinceva il timore. Posto che l’avversario esitava, impossibile im­ padronirsi del Nazzareno durante le feste senza solle­ vare il popolo. Il Consiglio gli aveva messo accanto al­ cuni osservatori. L’uomo di Keriot li trattava con ri­ guardo, mantenendo un certo riserbo : fino all’ultimo mo­ mento, impossibile prevedere quale piega l’avventura prenderebbe. Da uomo savio teneva gli occhi aperti, pronto a valersi dell’evento; e in occulto radunava un peculio tolto alla borsa comune: sempre tanto di gua­ dagnato. Un solo cuore, sollecitato dall’amore, indovinava in quell’uomo coricato, in Gesù, una creatura stanca di cor­ rere, un cervo sfinito, errante di rifugio in rifugio. La lampada non ha più olio (la lampada del suo corpo). Sola rimane a Gesù la forza di sopportare e soffrire. È facile immaginare lo sguardo che si scambiano quella santa fanciulla e il Figlio dell’uomo. Gli altri non ve­ dono nulla. Ma egli sa che Maria ha compreso, mentre il vaso d’alabastro si spezza e spande il suo profumo. E Maria umilmente, come la peccatrice, asciuga coi suoi capelli i piedi adorati. E d’un tratto la voce di Giuda che li fa fremere, l’una e l’altro: — Si poteva vendere quel profumo per due­ cento denari e distribuirli ai poveri ! — Gesù tiene fisso lo sguardo su quelle due anime, Luna arsa d’amore, l’al­ tra di avarizia e di gelosia. Non ha mai parlato a Giuda se non con una grave dolcezza quasi intimidita dall’or­ rore di quel destino. — Lasciala. Perché le dai noia? È una buona azione ch’ella ha fatto verso di me, poiché voi avrete sempre dei poveri con voi, e quando vorrete potrete far loro del bene, ma me non mi avrete sempre. Ella ha fatto ciò che ha potuto; ha anticipato d’ungere il mio corpo per la sepoltura. Io vi dico in verità che dovunque questo Evangelo sarà predicato, per tutto il mondo, sarà altresì raccontato ciò che costei ha fatto, per glorificare la sua memoria.

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Annuncia egli stesso la sua sepoltura? Giuda si av­ vicina agli scribi che osservano... Non ha ritenuto che quella parola: sepoltura. Non vede nulla al di là di ciò che è immediato. Quel brusco lampo sui secoli avve­ nire: «Dovunque quest’Evangelo sarà predicato, per tut­ to il mondo... » non rischiara il suo cuore notturno. An­ che lui, forse, è colpito dai segni di stanchezza e di lo­ goramento che appaiono in Gesù: un uomo finito. E an­ cora si perde a provocare delle testimonianze di idolatria come ne inventano le donne che gli leccano i piedi. La sera era caduta. Una folla si addensava a Betania, accorsa da Gerusalemme, per vedere Gesù e Lazzaro. A quella medesima ora i principi dei sacerdoti, adunati in Consiglio, studiavano la maniera di farli perire tutti e due. Noi sappiamo da San Giovanni che il Signore passò a Betania.quell’ultima notte, senza dubbio nella casa del­ le due sorelle e del fratello. I discepoli erano occupati con tutto il popolo minuto esaltato che si apparecchiava a ricevere il Rabbi: poiché l’entrata in Gerusalemme era stabilita per il domani. Quanto a lui, vegliava fra quei tre cuori. Anche Giovanni doveva essere lì (il solo degli evangelisti che sembra abbia bene conosciuto Lazzaro). Forse Marta stessa era tranquilla, quella notte, ai piedi del Maestro. Forse Gesù avvertiva Maria additandole la sua umile sorella: — Anche lei ha la parte migliore che è di servire i poveri (i poveri sono io stesso) senza mai perdere il sentimento della mia presenza —. Sulla spon­ da di quell’oceano di sofferenza, il Figlio di Dio accet­ ta, per umiltà, la consolazione d’essere amato da quelli ch’egli ama. Egli ha tuttavia conosciuto questa felicità di cui non aveva bisogno, egli che non riceveva nulla fuorché dal suo Padre. La casa era pregna del profumo del nardo. Marta doveva aver raccattato con cura i fram­ menti del vaso d’alabastro, e li custodiva nel suo grem­ bo. Vedendo gli occhi fedeli aperti e levati verso di lui, Gesù pensava forse alle palpebre appesantite dei suoi tre più cari amici, durante quella notte di veglia, ormai vi­ cinissima ?

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I ramoscelli All’alba dovettero supplicarlo: — Soprattutto non pas­ sar la notte nella città, vieni a nasconderti qui, la sera —. La folla batteva alla porta. Gli avevano condotto un somarello. Egli montò sulla bestia e si avanzò in mezzo alle grida dei fanciulli e delle donne. Mani agitavano dei ramoscelli. Eccolo dunque, il giorno sognato dal­ l’uomo di Keriot! Egli aveva creduto che il Maestro, alla testa d’un popolo armato e fanatico, la corona in fronte, avrebbe fatto tremare i Romani davanti alla sua onnipotenza... E quella speranza mette capo al trionfo derisorio di un Rabbi estenuato, già promesso al patibo­ lo, d’un fuorilegge che va a testa china verso la trap­ pola, in mezzo a una marmaglia imbecille. Ben possono stendere i loro vestiti sotto le zampe dell’asinello e ac­ clamare il Nazzareno Figlio di Davide e Re d’Israele: ciascuno di quegli osanna aggiunge una spina alla sua corona, una punta alle corregge degli staffili che lo flagel­ leranno. I Farisei protestavano: — Non avete vergogna! Fate­ li tacere! — Allora il povero trionfatore, dall’alto del suo asino, lanciò la sublime sfida ove Dio si manifesta : — Se costoro tacciono, le pietre grideranno! E già sorgono, nel cielo del mattino, la città e il Tem­ pio. Il Cristo non ne distoglie più gli occhi. Lazzaro gli ha spremuto le sue prime lagrime. Ora è sulla città, che piange. Non la maledice. Decifra la sua spaventevole storia; geme: — Se tu conoscessi, anche tu, in questo giorno che ti è dato, ciò che farebbe la tua pace! Ma ora queste cose sono celate ai tuoi occhi. Verranno su te dei giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trin­ cee, t’investiranno e stringeranno da ogni parte; ti rovesceranno a terra, te e i tuoi figli che sono nel tuo seno, e non lasceranno nella tua cinta pietra su pietra, poiché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata vi­ sitata.

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Il lunedì santo

Gerusalemme, ali avvicinarsi della festa, rigurgita di Giudei e anche di Gentili. — Chi è costui? — doman­ davano. — Già l’abbiam visto coi nostri occhi... Ha re­ suscitato Lazzaro a Betania... I pontefici discutevano: — Come arrestarlo in pieno giorno, nel folto di quel popolo fanatico ? Giuda Isca­ riota sapeva egli dove il Maestro passava le notti? — Per intanto, appena sceso dall’asinelio, non si nasconde­ va più. — Signore — avevano chiesto alcuni Gentili a Filippo, — noi avremmo caro di vedere Gesù.

Se il seme non muore...

Egli stava in quel'momento nel recinto del Tempio e annunciava l’ora in cui il Figlio dell’uomo sarebbe sta­ to glorificato. A sentir lui, per trionfare bisogna morire; per salvare la propria vita, perderla. — Se il granello che è caduto in terra non muore, rimane solo: ma se muore, produce molto frutto... — (La terra conosceva in anticipo il segreto della rinunzia feconda, della soffe­ renza redentrice. Tale mistero era iscritto nella natura.) Subito dopo queste parole, Gesù s’interruppe. Sembra veder la sua mano tremante scorrere dalla fronte agli occhi, quasi per non vedere, a due passi da lui, quella porta aperta sulle tenebre: — Ora la mia anima è tur­ bata, e che dirò? — L’uomo in lui è combattuto; l’a­ gnello sente l’ammazzatoio, non vuol più avanzare, si irrigidisce. — Padre, liberami da quest’ora! — Ma tosto si riprende: è per questa agonia e per questa morte che è venuto. Non è più al popolo, che si rivolge; ma a se medesimo, per confortarsi, mentre getta il grido di vit­ toria: — E io, quando sarò innalzato sopra la terra, trar­ rò tutti a me —. Tutti, e anche quelli che lo torture­ 20.

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ranno. E tutte le cose altresì, e la carne purificata di Lazzaro. Lo vessavano con domande assurde. Stava per mori­ re, la partita era giocata, e nessuno ancora aveva com­ preso. Ecco giunti gli ultimi giorni: mai più l’autore del­ la vita toccherebbe la terra coi suoi piedi, né, con le sue mani, la fronte dei fanciulli; ed essi non erano abbagliati di certezza! Allo stremo delle forze, quel vinto non po­ teva altro che ripetere con voce affievolita: — Io sono la luce! La luce non è più in mezzo a voi che per un po’ di tempo... Siate figliuoli della luce.

Il martedì e il mercoledì La sera, come l’aveva promesso, si nascose a Befania, c lo stesso fece i giorni seguenti. Forse non dimorava nella casa di Lazzaro da lungo tempo segnata. Il versante orientale del Monte degli Olivi, dove San Marco ci dice che egli si rifugiava, è difatti vicino a Befania. Il mattino del martedì, riprese la strada di Gerusa­ lemme, e maledisse passando un fico che non aveva frut­ ti, senza dubbio per annunziare quale sarebbe la sorte riservata alla città. Ogni giorno, frattanto, risalgono al Tempio. (Quale fatica, già, prima del supremo abbattimento!) E ricomin­ cia a battersi, sostenuto in apparenza da tutto il popolo. Ai Farisei che lo interrogano come un colpevole, osa ri­ spondere come loro giudice. Contro le astuzie di quelle volpi, erige talora la sua astuzia divina. Se gli chiedo­ no: — Di quale autorità fai tu queste cose? — oppone loro una domanda: — Il battesimo di Giovanni era egli dal cielo o dagli uomini ? — Le volpi sfuggono e bal­ bettano : — Noi non sappiamo... —, perché se avessero risposto: -— Dagli uomini, — il popolo, che venerava il suo ultimo profeta, si sarebbe rivoltato. E se avessero ri­ sposto : — Da Dio —, egli avrebbe replicato : — Perché

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non gli avete creduto? — Essi balbettarono dunque che non sapevano. Allora Gesù trionfante: — Ebbene, nemmeno io vi dirò di quale autorità io fo queste cose. Ma il popolo ha compreso. I Farisei furiosi si appar­ tano. Il Rabbi contento della sua vittoria ridiviene fami­ liare come ai suoi primi giorni, racconta delle storie, e ciascuno ora comincia a penetrarne il senso. Per esempio, quell’uomo che ha due figli e dice all’uno di andare a lavorar la vigna, e il figliuolo si rifiuta; poi si ripiglia, e ci va... L’altro risponde: ci vado, Signore, e non ci va... Il più umile di quelli che ascoltano sa che quel pa­ dre di famiglia è il Padre celeste, e che le prostitute, i pubblicani che si sono pentiti, sono dei figliuoli di luce, ma che i Farisei sottomessi alla fede e che la tradiscono nel loro cuore, sono dei maledetti.

1 vignaioli omicidi Per l’appunto, eccoli che ritornano. Il tono del Signo­ re cambia subito, diventa aggressivo. Perché è per loro soli, non per i discepoli, che a tre giorni dalla sua Pas­ sione inventa la parabola dei vignaioli omicidi, così au­ dace, così trasparente, che i principi dei sacerdoti voglio­ no impadronirsi di lui in quello stesso istante, e l'avreb­ bero fatto se il popolo non li avesse intimoriti. L’uomo che ha allogato la sua vigna manda a uno a uno i suoi servitori per ricevere la sua parte del frutto della vigna, ma essi li battono a vicenda e li cacciano. «Allora il signore della vigna si dice: — Che farò? Io vi manderò il mio diletto figliuolo; forse che veden­ dolo gli porteranno rispetto —. Ma quando i lavoratori lo videro, ragionarono tra loro dicendo: — Costui è l’erede, uccidiamolo acciocché l’eredità divenga nostra —. E cacciatolo fuor della vigna, l’uccisero. » Una profezia a così breve scadenza avrebbe dovuto toc­ care i loro cuori: è il Figlio diletto, che in quello stesso

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momento si rivolge ai vignaioli omicidi; la croce esiste già in qualche sito: in qualche magazzino dove i pati­ boli sono in serbo. Giuda fissa la somma di trenta dena­ ri; Pilato legge un rapporto sull’agitazione cagionata tra il popolo da un medicastro nazzareno. E frattanto, quell’esausto avventuriere che la sinagoga tiene d’occhio, e che non andrà ormai più lontano, interroga le volpi spe­ cializzate nelle Scritture e piega di forza il loro muso sul testo. «Riguardatili in faccia, disse: — Che cosa dunque è questo ch’è scritto: la pietra che gli edifica­ tori hanno riprovata è divenuta il capo del cantone? Chiunque cadrà sopra quella pietra sarà fiaccato, ed ella triterà colui sopra il quale ella cadrà. » Se c’era al mondo un avvenimento imprevedibile in quell’istante, e letteralmente inconcepibile, era il rumore universale delle dispute d’un predicatore nazzareno coi sacerdoti di Gerusalemme. Costoro dunque non si sbi­ gottirono. Ma si rendevano conto che non arriverebbero a nulla senza i Romani. Il delitto di bestemmia non esi­ steva agli occhi di Roma: si trattava di rendere Gesù so­ spetto, e ciò spiega la domanda insidiosa posta dagli agenti provocatori: — Ci è lecito pagare il tributo a Cesare, o no?

Rendi a Cesare...

Vent’anni prima, nel momento dell’annessione all’Im­ pero, un altro Galileo di nome Giuda, l’aveva troncata col rifiuto, ed era stato massacrato, lui e i suoi parti­ giani. Se Gesù ricorse al motto famoso: «Rendi a Cesa­ re le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio », gli è che nel dramma del calvario stabilito dall’eternità, non con­ veniva che ai Romani toccasse altra parte da quella del carnefice. Israele si servirà di loro per immolare la sua vittima, ma la vittima appartiene prima a lui. Roma, nel­ la persona di Pilato, non ha trovato nulla da censurare in Gesù.

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Ma dove ha termine il diritto di Cesare? Dove inco­ mincia il diritto di Dio? Qui sorge una disputa intermi­ nabile. Fino al giorno in cui questa parola fu pronun­ ciata da un povero ebreo refrattario e votato al suppli­ zio, Cesare era divino, e gli dei appartenevano all’Impero assai più che l’Impero agli dei. Ecco d’un tratto, drizzata di fuori e al disopra di qualsiasi tirannia, la potenza di Colui che l’uomo liberato riconosce per suo unico Si­ gnore sulla terra e nel cielo. La coscienza umana segui­ terà a subire le peggiori violenze; essa non è meno in­ dipendente oramai: il martirio non tocca che il corpo; e tutte le forze dello Stato verranno a morire, di secolo in secolo, sul limitare d’un’anima santificata.

Capitolo XXIV

L’obolo della vedova Il duello della sinagoga e del Figlio dell’uomo è al punto morto. I Farisei non lo interrogano più, per non sentirsi umiliati dinanzi alla folla. Informati di ciò che si trama, portano pazienza. Talora il Nazzareno li provo­ ca. — Come dicono che Cristo sia figliuolo di Davide? Davide lo chiama Signore: come può essere suo figliuo­ lo ? — Ma essi si sottraggono : stanno preparando la loro risposta che sarà sanguinosa. Nell’attesa dell’ora, il Figlio dell’uomo non agisce quasi più. Si limita a guardar passare la gente : gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro in­ terminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte. Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Fa­ risei, e al tempo stesso s’intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa inopia. Che vale un’elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.

Profezia della rovina del Tempio e della fine del mondo Così, durante le ultime ore, Gesù, in apparenza fuori dal combattimento, vede sfilar la gente, come un agita­ tore pedinato dalla polizia starebbe oggi sulla terrazza

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d’un caffè, sapendo che può essere arrestato da un mo­ mento all’altro. Come nessun viso fermava più la sua attenzione, i suoi occhi rimanevano fissi sul Tempio. Una voce familiare si leva accanto a lui: — Ah, Maestro, che belle pietre! E come sono ornate! Quale muratura! — Gesù allora: — Verranno giorni ove, di ciò che voi riguardate, non sarà lasciata pietra su pietra che non sia diroccata. Nessuno osò rispondere, di quelli che lo seguitavano, mentre egli attraversava il Chedron che scorre ai piedi del Tempio, e saliva al Monte degli Olivi. Ma ognuno si sentiva oppresso da quella profezia, la più grama che potesse colpir gli orecchi di un Giudeo. Finalmente si decisero tutti insieme: — Maestro, quando avverranno queste cose? E quale sarà il segno del tempo nel quale esse devono avvenire? L’uomo-Dio, al fine della sua corsa, già quasi sciolto dal tempo nel quale è stato immerso per trent’anni, par­ lerà senza tener conto della durata: poiché egli è quel Gesù, quel Signore pel quale, secondo la parola stessa d’una epistola di Cefa: «Un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno... ». Molte anime sono state turbate dalla profezia della rovina del Tempio e della città, confusa con la fine del mondo. La fede di molti è stata scossa dalla parola: — Questa generazione non passerà senza che tutte que­ ste cose siano accadute. Le persecuzioni contro i Cristiani, l’assedio e la rovi­ na di Gerusalemme, sì, di tutto ciò quella generazione fu testimonio e vittima. I soli Cristiani seppero sfuggire ai soldati di Roma e trovar la salvezza nelle montagne, con­ forme a quanto aveva raccomandato il Signore: — Quan­ do vedrete Gerusalemme circondata d’eserciti, sappiate che allora la sua distruzione è vicina... Allora quelli che saranno nella Giudea fuggano ai monti... Non perdano il tempo a tornare indietro per cercare un mantello... Ma tra quella rovina e i segni negli astri e le alte maree che annunceranno il principio della fine, Gesù

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non colloca che un intervallo indeterminato: — Gerusa­ lemme sarà calpestata dai Gentili, finché i tempi dei Gen­ tili siano compiuti —. Da che segue col suo occhio eter­ no lo svolgimento della storia, Gesù non è più un uomo che prevede l’avvenire, ma il Figlio di Dio che, sfidando la concordanza dei tempi, gridava ai Farisei: — Prima che Abramo fosse, io sono! E lui che tutto sa, sa altresì che la sua visione non è conforme a quella dei suoi e gl’induce in errore. Ma quell’avventurato errore li armerà d’una speranza abba­ stanza forte per conquistare la terra. Nulla varranno più ai loro occhi le glorie di quel mondo condannato, e con­ dannato a breve scadenza. Se avessero creduto che dopo diciannove secoli i Cristiani sarebbero ancora in attesa della manifestazione del Figlio dell’uomo, si sarebbero forse addormentati. In verità, il Signore, confondendo le prospettive, non li inganna. Perché il mondo finisce per ciascuno di noi il giorno della nostra morte. Ed è vero d’una verità in­ dividuale, che nessuno di noi conosce né il giorno né l’ora in cui il sole si spegnerà per lui e la luna avrà finito di baciare gl’incanti della sua infanzia, e le stelle spariranno tutte insieme nella immensa tenebra che si rinserrerà su di lui. Ed è in ciascuna delle nostre vite, che l’anticristo salta fuori quando meno ce l’aspettiamo, e i falsi profeti vengono col loro veleno, e gli stregoni coi loro filtri: — Vegliate, perché non sapete il giorno né l’ora —. Folli sono le vergini che non hanno preso l’olio con sé e che si sono assopite perché lo sposo tardava a venire, fino a che saranno ridestate nel mezzo della not­ te dal tremendo grido: — Eccolo! Lo sposo è alle por­ te... — Terrore della morte improvvisa. E senza dubbio un giorno Gesù risplenderà nella nu­ vola con gran potenza e gloria. E quel giorno il « tem­ po dei Gentili » non apparirà nel medesimo scorcio come lo vide il Cristo, nei giorni della sua carne. In quella luce che rischiarerà in pieno, non tanto il destino delle razze o dei regni, quanto quello di ciascuna anima urna-

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na in particolare, la storia del mondo si ridurrà a dei miliardi di storie individuali. E tutti i capretti saranno a sinistra, e a destra le pecore. « Allora il Re dirà a quelli che saranno alla sua de­ stra: — Venite, benedetti del Padre mio: ereditate il re­ gno che vi è stato apparecchiato dalla fondazione del mondo. Perché io ebbi fame, e voi mi deste a mangia­ re; ebbi sete, e voi mi deste a bere; fui forestiere, e voi mi accoglieste; ignudo, e mi rivestiste; infermo, e mi visitaste; in prigione, e voi veniste a me —. I giusti ri­ sponderanno: — Signore, quando ti abbiamo noi veduto aver fame, aver sete; quando ti abbiamo veduto fore­ stiere, o ignudo, o malato, o in prigione? — E il Re risponderà loro: — In verità io vi dico: tutte le volte che l’avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, è a me che voi l’avete fatto. » Quale speranza ! Tutti coloro che scopriranno che il loro prossimo era lo stesso Gesù appartengono dunque alla moltitudine di quelli che ignorano il Cristo o l’han­ no dimenticato. E nondimeno sono essi, i diletti. Non è in potere di alcuno, tra coloro che portano la carità nel cuore, di non servire il Cristo. Taluno che crede odiarlo gli ha consacrato la vita; poiché Gesù è travestito e ma­ scherato in mezzo agli uomini, nascosto nei poveri, negli infermi, nei prigionieri, nei forestieri. Molti che lo ser­ vono ufficialmente, non seppero mai chi egli è; ma molti che non lo conoscono neppur di nome, udranno l’ul­ timo giorno le parole che spalancheranno loro le porte della gioia: — Ero io, quei figliuoli, ero io, quegli ope­ rai; io piangevo su quel letto di ospedale; ero quell’as­ sassino nella sua cella, quando tu lo consolavi.

Capitolo XXV

Il giovedì santo

L’ombra della sera lo riconduceva a Betania. L’angoscia che avrebbe sofferto, egli già la portava: tutta la Passio­ ne esisteva nel suo pensiero: la viveva, colpo su colpo di staffile, sputacchio su sputacchio. Già trascinava quel le­ gno. Vide forse sua madre in quegli ultimi giorni ? Ella uscì, si può credere, dalla sua notte, alfine, poiché il fi­ glio non aveva più la forza di respingerla. I discepoli osservavano il Maestro e tacevano, aggrappati alla sua promessa: presto ritornerebbe, checché dovesse accadere, come colui che s’è messo al suo viaggio, e batte alla porta, una notte, o al canto del gallo... Sì, essi veglie­ rebbero. Una sera l’uno d’essi chiese forse agli altri: -— Dov’è Giuda? E vi fu chi rispose che l’economo non osava più mo­ strarsi nella casa di Betania dopo le parole da lui dette a proposito del profumo di nardo. E Gesù, che certa­ mente veniva ultimo sotto il peso dell’albero invisibile, vedeva in spirito il più ragionevole dei suoi discepoli mentre, in quel medesimo istante, stava trattando col vin­ citore, sulla base di trenta denari: — Per la forma, — diceva loro, — per non esservi scortese... L’ultima notte avanti quella dell’agonia, il giovedì, al canto del gallo, incaricò Pietro e Giovanni di recarsi nella città a preparare il convito pasquale. La Pasqua di quell’anno cadeva nel giorno del sabato. Per qual ragio­

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ne il Cristo volle mangiarla non la vigilia, come tutti i Giudei, ma l’antivigilia? Sapeva semplicemente che il domani sarebbe lui l’agnello immolato. Certamente un amico era avvertito, che attendeva i due discepoli alla porta della città. Era stato inteso che recherebbe una brocca piena d’acqua perché Pietro e Gio­ vanni lo riconoscessero. Quel fratello aveva steso al pri­ mo piano della sua casa i tappeti e i cuscini intorno alla tavola bassa, e fatto sacrificare al Tempio l’agnello ri­ tuale. Gesù camminava assorto nel suo amore : « Prima del­ la festa di Pasqua » scrive San Giovanni « Gesù cono­ scendo che la sua ora era venuta di passare da questo mondo al suo Padre, dopo aver amato i suoi ch’erano nel mondo, li amò fino alla fine ». Appena arrivati, si disputavano i posti accanto a lui, inconsapevoli di quel giorno e di quell’ora. Giovanni si collocò alla sua de­ stra. L’uomo di Keriot doveva essere il più vicino all’al­ tro lato, poiché Gesù potè dargli con la sua mano un boccone intinto nel piatto. — Ho grandemente desiderato di mangiar questa Pa­ squa con voi innanzi che io soffra. Quella spalla sulla quale doveva abbattersi un albero, un patibolo, ricevette in quel momento il peso vivente d’un capo. Secondo il rito, Gesù benedisse la prima coppa di vino. Ma le contese si riaccesero. Poiché ognu­ no pretendeva d’essere il maggiore, ricordò loro che tra essi il più grande doveva essere il più piccolo. — E io sono in mezzo a voi come colui che serve. E tosto, desiderando il totale abbassamento, lavò loro i piedi: lui, l’autore della vita. Egli lavò i piedi a Giu­ da, che non se ne schermì. Solo Pietro si dibatteva, pro­ testava. E bisognò che il Cristo lo minacciasse: — Se non ti lavo, non avrai parte alcuna con me! — E Pie­ tro: — Signore, non soltanto i piedi, ma anche le mani e il capo...

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L’odore d’urianima In un altro momento Gesù avrebbe sorriso. L’anima pura e semplice di Cefa risplende; ma insieme, vicino a lui, si spande quell’odore di corruzione e di morte spi­ rituale che il Signore non può più sopportare. Egli non resiste oltre, e mormora: — Voi siete netti, ma non tutti. — Subito si ripren­ de: — Voi mi chiamate Maestro e Signore, e con ra­ gione, perché lo sono. Se dunque io vi ho lavato i piedi, voi dovete pure lavarvi i piedi gli uni agli altri. L’odore di quell’anima lo tormenta. No, non può più tollerar quell’odore. Gli altri undici non hanno indovi­ nato né compreso nulla. Forse non amano troppo il loro camerata, troppo attaccato al soldo, come si dice. Ma infine egli ha ragione di difendere la borsa comune: è un po’ chiuso, ma ciascuno ha il proprio carattere. Gesù non riesce più a dissimulare: — In verità, io ve lo dico: uno di voi mi tradirà. Questa parola scoppia nella sala abbuiata dove i tre­ dici sono adagiati intorno a un piatto fumante. Un si­ lenzio, e ciascuno di quei poveretti interroga se stesso, esamina la propria coscienza; e tutti tormentano il Mae­ stro: — Sono forse io? Ma no, non sono io! — Alla sinistra del Cristo, vicino al suo orecchio, la voce di Giuda trema: — Maestro, sarei forse io? Nessuna bravata: senza dubbio egli non sapeva an­ cora: esitava. Una lotta in fondo al suo essere lo stra­ zia, lotta disperata, nel peggior senso, e che tanti cri­ stiani conoscono: quando l’anima, ferita a morte, si di­ batte sapendo che alla fine dovrà soccombere. Questo Gesù, Giuda l’ha amato, e ancora l’ama, forse, malgra­ do i suoi scacchi, il suo rancore, il suo desiderio di non rimaner solidale col più debole. Le trenta monete d’ar­ gento valgono soprattutto come segno della sua allean­ za col governo. Comunque, Gesù era perduto. Giuda si sente mancare: la sua angoscia non è simulata, quando

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chiede: — Maestro, sarei dunque io? — Lui solo do­ vette udire la risposta data a bassissima voce, e che lo marchiava per sempre: — Tu l’hai detto. E di nuovo il Signore apre il suo segreto, con un ac­ cento straziante, poiché aveva or ora perduto uno dei suoi figliuoli perché quel Giuda era uno di coloro ch’egli aveva eletti, un po’ meno amato degli altri, forse; ma durante quei tre anni dovevano essere corse tra loro, in tale o tal altra circostanza, parole tenere, un perdono dato e ricevuto. — Il Figlio dell’uomo se ne va siccome di lui è scritto. Ma guai a quell’uomo per il quale il Figliuol dell’uomo è tradito! meglio sarebbe stato per lui non essere mai nato. Nel pesante silenzio che seguì, Pietro fece segno a Giovanni inclinato sulla spalla di Gesù, che domandas­ se: — Di chi parla? — Giovanni non ebbe che a levar gli occhi e muovere un poco le labbra, per essere com­ preso. — Signore, chi è colui? Forse Gesù si sarebbe rattenuto dal confidarlo ad alcun altro. Ma, giunto al termine di sua vita, in quell’estre­ ma sosta, che cosa può ancora tener celato a colui che sente respirare un’ultima volta? (Come pesa poco quel capo, e come greve sarà la croce !) Perciò gli soffia : — È colui al quale darò il boccone dopo averlo in­ tinto. E avendo intinto il pane nel piatto lo diede a Giuda, il quale, seduto dall’altro lato, aveva dovuto sentire; per lo meno aveva visto il capo del Cristo piegarsi su quello del suo preferito. In quel preciso momento « Satana en­ trò in lui ». Pazzo di gelosia, quel Giuda: troppo sottile per non aver capito che lo si teneva in disparte, che se Giovanni era il più amato, egli era sempre stato il meno amato... L’odio che d’un tratto si scatena in quello scia­ gurato, odio angelico, il Figlio dell’uomo non era più in grado di sopportarlo: lui che ancora aveva da soffrire tutta la Passione. Quella presenza reale, sostanziale, di

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Satana in un’anima creata per l’amore, soverchiava ciò che gli restava di forze. Supplicò dunque: — Fa’ prestamente quel che hai in mente di fare. Gli altri credettero che lo mandasse a distribuire del­ le elemosine o comperare ciò che occorreva per la festa. Giuda, folle d’odio, si alzò. Poiché il Maestro lo man­ dava al suo destino, perché vi avrebbe resistito, lui che forse non aveva mai riposato il capo su nessuna spalla? Il cuore del Cristo non ha mai battuto contro il suo orecchio. Egli era stato amato giusto a sufficienza perché il suo tradimento fosse imperdonabile. Il suo rancore lo soffocava. Aprì la porta, ed entrò nella notte.

L’Eucaristia

Quelli degli stessi Apostoli che non sapevano nulla, sentirono l’aria alleggerirsi. Il Maestro aveva abbassato gli occhi, e tutti guardavano quel volto familiare e sco­ nosciuto, che non era mai il medesimo, incessantemente plasmato e riplasmato da sentimenti ignoti, inumani. Egli teneva un pezzo di pane tra le dita. Lo ruppe con le sante e venerabili mani, e lo distribuì loro dicendo: — Prendete, questo è il mio corpo. Poi, preso il calice e rese le grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero. E disse loro: — Questo è il mio sangue, il sangue del nuovo pat­ to, che sarà sparso per molti. Io vi dico in verità, che io non berrò più del frutto della vigna, fino a quel giorno che lo berrò di nuovo nel regno di Dio. Che cosa compresero quelli che or ora avevano avuto parte di quel corpo e di quel sangue? Il Figlio dell’uo­ mo era lì, adagiato al centro della tavola, e nello stesso tempo ciascuno di loro lo sentiva fremere dentro di sé, palpitare, bruciare come una fiamma che non fosse se non refrigerio e delizia. Per la prima volta in questo mondo si consumava il prodigio: possedere la persona che si ama, incorporarsi in · lei, non fare più che una

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cosa con la sua sostanza, essere trasformato nel proprio amore vivente. £ dalle parole che subito dopo Gesù proferì, che noi possiamo misurar l’amore onde i discepoli traboccavano; poiché li chiama « miei figliuoletti », quegli uomini rudi e nel vigor dell’età; e come un fiotto di sangue la tene­ rezza sgorga all’improvviso da quel cuore che tra poco la lancia aprirà. — Miei figliuoletti, io non sono più con voi che per un poco di tempo. Voi mi cercherete, ma come ho detto ai Giudei che là dove io vo non possono venire, così lo dico a voi al presente. Io vi do un nuovo comandamen­ to: che voi vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Da ciò conosceranno tutti che voi siete miei di­ scepoli: se avrete amore gli uni per gli altri. E ora si rivolge a Simone. Il Principe di questo mon­ do, questa notte, sarà scatenato; e loro stessi, i poveri figliuoli saranno crivellati... Toccherà a lui, Pietro, una volta finita la prova, di confermare i suoi fratelli. Impe­ tuosamente l’Apostolo lo interrompe: è pronto a segui­ tare Gesù, andar con lui alla prigione e alla morte. Gesù scorge in lui la più amara goccia del calice che sta per bere. Perché quell’uomo, il più forte di tutti e che grida in un trasporto d’amore e di fiducia, all’alba l’avrà rin­ negato tre volte. Gesù lo avverte con dolcezza. Ma Pie­ tro, fuor di sé, insiste: — Avessi a morire con te, non ti rinnegherei! E tutti protestavano con Cefa. S’erano levati da tavola e stavano intorno a Gesù il cui sguardo sorvolando il loro capo fissava quell’albero eretto in mezzo alla notte del mondo, quel palo che finalmente la sua carne avreb­ be toccato. Gli Undici compresero che non era più l’ora di ridere e di stupire i Giudei con dei miracoli. Senza sforzi, si mostrano coraggiosi: — Ecco qui due spade... — Gesù scuote le spalle: — Basta! — Non è di spade che abbisognino, ma di fede. — Il vostro cuore non sia tur­ bato... — Sanno dove egli va, conoscono la via... La voce ingenua di Tomaso si ode:

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■— Ma no, Signore, noi non sappiamo ove tu vai; come dunque possiamo conoscere la via? Fino alla fine seguitano a prendere ogni parola nel senso più materiale. Gesù gli dice: -— Io sono la via, la verità e la vita; niuno viene al Padre se non per me. E come Filippo gli taglia la parola: — Signore, mo­ straci il Padre, e ci basta —, Gesù risponde: — Da tanto tempo sono già con voi, e tu non mi hai conosciuto, Filippo ? Chi mi ha veduto, ha pur veduto il Padre. Non s’inquieta più di quella inintelligenza, che non ha potuto vincere, ma che lo Spirito sormonterà. Il pic­ colo cerchio s’è stretto intorno a lui. Come tutti gli uo­ mini che temono di morire, essi non sono che dei fan­ ciulli spaventati dalla notte. E il Figlio dell’uomo il cui amore si spandeva altra volta in parole amare e violente, già spezzato, già fiaccato prima del primo schiaffo, pri­ ma del primo colpo di verga, li prende sotto la sua ala, li riscalda di parole dove l’uomo e il Dio si tradiscono a vicenda: quale tenerezza e quale potenza! E li intro­ duce nel mistero dell’Unione. — Io non vi lascerò orfani; io tornerò a voi. Ancora un po’ di tempo, e il mondo non mi vedrà più: ma voi mi vedrete, perché io vivo, e voi ancora vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io sono nel Padre mio, e che voi siete in me, e io in voi. Chi ha i miei comandamenti e li osserva, esso è quel che mi ama; e chi mi ama sarà amato da mio Padre; e io ancora l’amerò, e mi mani­ festerò a lui. Se qualcuno mi ama, egli osserverà la mia parola, e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui, e abiteremo in lui. Una grande calma regna ora tra loro. Non hanno più paura. Sono gli amici di Gesù, uniti a lui e in lui. Go­ dono già abbondantemente della eredità che ha loro pro­ messo: quell’ardente pace. ■— Io vi lascio la pace, io vi do la mia pace; io non

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ve la do come il mondo la dà. Il vostro cuore non ne sia turbato. L’ora è vicina. Egli non può più stare fermo. — Al­ zatevi, e togliamoci di qui. — Li trae fuori dalla sala, sosta un momento nel vestibolo. Mai ha parlato loro come questa notte. Ora essi sanno che il loro amico è Dio e che Dio è Amore. E chi ha riposato il capo sulla spalla del Figlio dell'uomo, custodirà per sempre ogni parola. —■ Io sono la vite, voi siete i tralci. Come il Padre mio mi ha amato, io altresì ho amato voi. Dimorate nel mio amore, acciocché la mia allegrezza dimori in voi. Avevano forse bisogno di comprendere altro? L’in­ tera Nuova Legge consisteva in una sola parola, la più profanata del mondo: amore. — Questo è il mio comandamento: che voi vi amia­ te gli uni gli altri come io vi ho amati. Non v’è mag­ gior amore di questo: di dar la vita sua per i suoi amici. Essi non l’hanno scelto, l’adorato Maestro: è lui, che li ha scelti dal mezzo del mondo. Il mondo, che è riget­ tato, li odia; come odia il Cristo. Per il loro amore sa­ ranno perseguitati: ma lo Spirito sarà sopra loro. Gli Undici di nuovo si turbano perché ha detto : — Fra poco voi non mi vedrete più, e di nuovo fra poco mi vedrete... — Gesù, pieno di compassione, vorrebbe an­ ticipatamente persuaderli della loro allegrezza quand’essi avranno mangiato e bevuto con lui resuscitato: -— In verità, in verità io vi dico, voi piangerete e sarete contristati mentre che il mondo si rallegrerà; ma la vostra afflizione si convertirà in gioia. La donna, quando partorisce, soffre perché il suo termine è giunto; ma dopo che ha partorito il fanciullino ella non si ri­ corda più dei suoi dolori, per l’allegrezza che le sia nata una creatura umana al mondo... Queste parole li bruciano. Con una specie di ebbrezza lo interrompono: — Ecco, tu parli apertamente, e non

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dici alcuna similitudine. Ora vediamo che tu sai ogni cosa... Noi crediamo che tu provieni da Dio. Il Figlio dell'uomo, che durante tre anni ha così du­ ramente sofferto della mancanza di fede, non si consola troppo di quello sfoggio. Sospira: — Voi credete ades­ so... — E d’un tratto, con voce aspra: — Ecco che l’ora viene, e già è venuta, che ciascun di voi fuggirà in casa sua, e mi lascerete solo. Ma subito, davanti a quelle povere facce desolate, si riprende. No, non è ai suoi diletti, che ne vuole. Tut­ ta la miseria che li opprimerà, egli già la conosce e la patisce. Gli Undici saranno i più deboli, nella stessa guisa che, questa notte, il loro Maestro, abbattuto, già si trova con le spalle a terra. E nondimeno, come si rad­ drizza d’un tratto quel Nazzareno del basso ceto che la forza armata spia, quell’Ebreo fuori legge che sta per essere coperto di sputacchi in un corpo di guardia ! Con quale tono sovrano, egli lancia la sfida che, al di là dei suoi giudici, dei suoi carnefici, al di là dello stesso Ce­ sare Tiberio, coglie il trionfatore angelico di questa notte: — State di buon cuore, io ho vinto il mondo !

La preghiera sacerdotale

Ha vinto il mondo, ma ha separato dal mondo il piccolo gregge di quelli che non periranno. Ed egli se ne gloria davanti al Padre suo, all’entrata dell'arena, al principio della notte (il primo d’innumerevoli fratelli che, in odio al suo Nome, saranno dati in pasto alla Belva). Prima di fare il passo, si raccoglie e prega. Questa piccola frase ripetuta più volte negli Evangeli, nasconde un mistero infinito: «Gesù si ritirò in disparte per pregare... ». Prega il Padre, lui, che è consustanziale al Padre. È forse inintelligibile? Noi, che siamo creati a immagine di Dio, ogni immagine ci riporta al centro del nostro essere, come fossimo noi stessi che parlassi­

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mo a noi stessi. Il più povero Cristiano, dopo la comu­ nione, o soltanto in stato di grazia, divinizzato dalla presenza delle tre Persone, non saprebbe neppure rien­ trare in se stesso senza essere bagnato dal Dio che lo possiede. Egli parla a se stesso, e insieme a un altro. Ma que­ sta volta, sull’orlo delle tenebre, una creatura assiste a questo colloquio del Padre e del Figlio; un giovane: Giovanni, il figlio di Zebedeo. Forse egli non ha rac­ colto parole distinte. Gli fu forse dato di partecipare a quella muta meditazione; e la preghiera del Maestro ado­ rato, senza che il silenzio fosse spezzato, si incideva, versetto per versetto, nel cuore dell’attento discepolo. Egli solo se ne è ricordato, senza dubbio perché solo egli l’ha intesa, codesta preghiera. Non ch’egli fosse migliore degli altri: il più violento, il più appassionato. Questo « figlio del tuono » ieri ancora chiedeva un trono per sé e per suo fratello, cercava il proprio vantaggio perché si sapeva prediletto. Insieme con ciò, delle au­ dacie di fanciullo a cui tutto si perdona. Un giorno egli interrompe il suo Maestro per vantarsi d’aver proibito a un uomo di scacciare i demoni nel nome di Gesù, qua­ si che Gesù appartenesse a lui solo! Un giovane: il che significa, avido, violento, crudele; — fino a volere che il fuoco del cielo stermini quella città di Samaria che non li ha voluti ricevere. Il prediletto, nondimeno: il giovane che Gesù amò, ma che non era ricco come l’altro, e che non possedeva grandi beni (sebbene fosse di miglior famiglia che la maggior parte dei discepoli: suo padre Zebedeo aveva al suo servizio dei mercenari, e Giovanni sembra essere stato un familiare della casa del sommo sacerdote). Il più sottile e più aperto spirito. Non basta: il discepolo che Gesù amava era sfavillante di genio. Come quasi tutti i Santi dopo Paolo fino ai Padri dei primi secoli, fino ad Agostino, a Bonaventura, a Tomaso, a Fran­ cesco, a Giovanni della Croce: ma lui, più ch'essi tutti, colmo dei doni dello Spirito.

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Gli sarebbe bastata questa intelligenza infiammata d’a­ more per essere introdotto nel mistero dell’ultima ora­ zione del Figlio dell’uomo? Forse no: ma il suo capo era poco fa appoggiato sul petto del Signore, ed egli è divenuto un altro, durante questo infinito minuto : il figlio del tuono sarà ormai il figlio dell’Amore, colui che durante la Cena aveva riposato la fronte sul cuore del suo Dio: egli ha sorpreso un segreto che non oblierà più: ciò che i suoi occhi hanno visto, ciò che le sue mani hanno toccato, che i suoi orecchi hanno udito, riguardo al Verbo della Vita. Le parole di trionfo ch’egli ci ha trasmesso, stupisco­ no, così pochi istanti prima della prostrazione e dello schianto di Ghetsemane. La preghiera del Cristo, di cui Giovanni si ricorda, risplende di tranquilla certezza, co­ me se il Signore profittasse di quest’ultimo minuto men­ tre tutto il potere sta per essere dato alle tenebre. « Pa­ dre, l’ora è venuta: glorifica il Figlio tuo affinché tuo Figlio ti glorifichi, poiché tu gli ha dato potestà sopra ogni carne... La Vita eterna è che conoscano te solo vero Iddio e Gesù Cristo che tu hai mandato... È per loro che io prego; io non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dati, perché ti appartengono... » Egli dà un rapido sguardo all’oceano di dolore alla cui sponda è affacciato: lo lascia da parte per contem­ plare la sua opera eterna: questo nodo indefettibile della creatura santificata e del suo Dio nella persona del Fi­ glio : « acciocché essi siano come noi una stessa cosa, io in loro e tu in me ; acciocché siano consumati nel­ l’unità... ». Ma quali sono le frontiere di questo mondo per cui egli non prega? Che sarà il destino eterno di questo mondo rigettato?



Capitolo XXVI

Ghetsemane

Ecco il momento di entrar nella notte. Quando avrà oltrepassato quella soglia, la sua Passione incomincerà. Egli recita Γ« hallel » che è l’azione di grazia pasquale, e spinge la porta. Discende, gira intorno al Tempio che la luna di Pasqua rischiara, raggiunge un recinto al pie­ de del Monte degli Olivi. La piccola comitiva, da che Gesù è perseguitato, dorme spesso in quell’orto, detto Ghetsemane perché vi è un torchio per le olive. Era il loro rifugio abituale, quando essi non si spingevano fino a Betania. Gli Undici, questa notte, non fanno nulla che loro sembri straordinario: secondo il solito dormiranno per terra, nei loro mantelli. Il Maestro prende con sé Pie­ tro, Giacomo e Giovanni, e si allontana per pregare: anche questo è normale, ed essi non si stupiscono. A una gettata di pietra dai suoi tre più cari amici, Gesù è prostrato, la faccia contro la terra. Ha paura: conviene ch’egli sperimenti la paura. L’odor del sangue lo fa rabbrividire; egli prova quel terrore della bestia, quel raccapriccio dinanzi alla tortura fisica. — Padre, se tu lo vuoi, allontana da me questo calice! Una parte del suo essere si sottrae a quell’atroce chia­ mata. —· Che la tua volontà sia fatta e non la mia... — E dunque la sua, in quell’istante, è di sfuggire a quel­ l’orrore. Stacca dalla sua fronte una mano bagnata: da

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dove esce quel sangue? La supplica si spegne sulle sue labbra; egli ascolta. Ogni essere umano, a certe ore del suo destino, nel silenzio notturno, ha conosciuto l’indif­ ferenza della materia cieca e sorda. La materia schiaccia il Cristo. Egli prova nella sua carne l’orrore di quella assenza infinita. Il Creatore si è ritirato, e la creazione non è più che un fondo di mare sterile: gli astri morti coprono la distesa. Echeggiano, nell’oscurità, dei gridi di belve divorate. Questo Ebreo confuso con la terra, abbattuto al suolo, si rialza. Il Figlio di Dio ha toccato un tale grado di abbassamento, che ha bisogno d’una consolazione uma­ na: la sua volta è venuta, crede, di riposare il suo capo pieno di sangue sopra un petto fraterno. Si alza dunque, e si avvicina ai tre addormentati (« addormentati di tristezza» dice San Luca). Ma essi sono presi dal sonno: atterrati. Il sonno la vince su qualunque amore, anche questo si sa. Gesù, pri­ gioniero della sua umanità, nel momento in cui ha biso­ gno dei suoi per non venir meno, cozza contro questa legge della quasi-morte, del torpore e del sogno. L’apo­ stolo diletto dorme egli stesso con tutta l’esuberanza della sua giovinezza. Si direbbe che la sua stessa po­ tenza lo annienti. — Voi non avete potuto vegliar pur un’ora con me! Si levano, sospirano un po’, ricascano. Il Maestro si trascina fino al luogo che già segnò del suo sangue; s’in­ ginocchia, tende le mani di cieco, fino a che non è di nuovo risospinto verso i suoi amici: perché essi, alme­ no, per quanto insensibili fossero, erano lì, e poteva scuoterli, toccare i loro capelli. Il Figlio dell’uomo è ri­ dotto a quel moto di pendolo, dall’assopimento dell’uo­ mo all’assenza di Dio: dal Padre lontano all’amico in letargo. La terza volta che si trascina fino a loro, eccoli che si alzano, finalmente: gli occhi chiusi, non sapendo che ri­ spondere. Se la luna brillava ancora, forse il Cristo vide quei poveri visi imbruttiti, enfiati, irti di barbe.

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— Dormite d’ora innanzi, e riposatevi. Non ha più bisogno d’altri che di se stesso. Rimane immobile, non più la faccia a terra, né rivolta verso gli assopiti. Ascolta i sospiri, il ronfare di quei corpi; e al di là, un rumore confuso di voci, di passi... e infine: — Levatevi! Colui che deve tradirmi, è vicino. In fretta, essi raggiungono gli altri discepoli, li ride­ stano: tutti si serrano intorno a lui che si confonde con loro. Poiché il tribuno ch’esce dalla notte con la gente del sommo sacerdote e alcuni soldati della coorte di por­ tatori di torce, non iscorgono alla luce delle fiamme che un piccolo gruppo oscuro di Giudei, e non v’è al­ cuno che se ne stacchi né che lo domini. L’Autore della vita è uno di quei Nazzareni barbuti non facile a di­ scernere, poiché bisogna che Giuda lo Ìndichi. L’uomo di Keriot ha avuto quell’idea del bacio. — Colui che io bacerò, è desso. Idea soprannaturale, che il traditore non avrebbe tro­ vata di per sé solo. Codesto tradimento nel bacio scon­ certa Colui che peraltro a tutto era apparecchiato. Quella bocca sulla sua guancia! Egli dice: — Amico mio, per­ ché sei qui? — E come i soldati l’accerchiavano: — Tu tradisci il Figlio dell’uomo con un bacio! — Fino al­ l’ultimo, la creatura lo stupisce. Credeva aver conosciuto l’infimo limite della bassezza umana; ma quel bacio... Vi fu da prima un po’ di tumulto. Gli Apostoli non si mostrarono vili così subito, perché sapevano il loro Maestro onnipotente; e come Cefa con un colpo di spada tagliò l’orecchio di Malco servitore del sommo sacerdote, Gesù gli ordinò di rimettere la spada nel fodero: li al­ lontana, e come una madre si fa avanti, si gonfia per coprire la sua covata. — Sono io ! Lasciate andare co­ storo: avreste potuto prendermi tutt’oggi nel Tempio. Ma è la vostra ora... Alla luce delle fiaccole, la muta si precipitò sulla pre­ da consenziente. Allora tutti scapparono, salvo un gio­ vane sconosciuto che si trovava lì, essendogli pur man­ cato il tempo di vestirsi. Come spiegare quell’atto di

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estrema fedeltà? Essi lo afferrarono, ma, con scaltrezza d’agile ragazzo, egli abbandonò loro il lenzuolo che l’av­ viluppava, e si liberò. Gesù fu condotto da Anna (suocero di Caifa, som­ mo sacerdote), che lo fece legare più duramente, e lo rimandò a suo genero. Caifa vegliava con gli Anziani del popolo e alcuni membri del Sinedrio. Il taumaturgo, il nemico dei pontefici, non era dunque che quel povero diavolo ? Comunque, lo interrogò da prima con quel to­ no che, dopo tanti secoli, non avevano perduto i giu­ dici di Giovanna d’Arco: con una prudente benignità. L’accusato risponde che ha parlato apertamente al mon­ do, nella sinagoga e nel Tempio, e non ha nulla da dire in segreto. — Perché m'interroghi tu? Domanda a coloro che hanno udito ciò che ho loro detto. Essi sanno ciò che ho insegnato. Aveva un po’ alzato la voce? Parlava ancora, senz’accorgersene, da padrone? Il primo schiaffo si abbatté sulla sua faccia: una mano grossa di soldato. — È così che tu rispondi al sommo sacerdote? — Se ho mal parlato, mostrami ciò che ho detto di male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? Era necessaria una base all’accusa. Alcuni deposero che l’imputato aveva preteso disfare il tempio di Dio per riedificarlo in tre giorni. Il sommo sacerdote si levò: — Intendi tu? E non rispondi nulla?

Tradimento di Ceja La notte nel suo declinare era fredda. Un gran fuoco bruciava nella corte, acceso dai servi. Chi gironzava in­ torno al palazzo attendendo l’alba, si avvicinava alla fiamma. Fuori dall’ombra usciva un cerchio di visi e mani tese. Una servente fu colpita da quel volto barbu­ to che le pareva di riconoscere. — Ma anche quest’uo­

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mo era con lui ! -— Pietro sobbalzò. — Donna, io non 10 conosco affatto. Egli era entrato lì in grazia d’un discepolo che la portiera del sommo sacerdote conosceva. Diffidente, la donna l’aveva squadrato dicendo: — Non appartiene alla stessa banda? — e già Pietro aveva negato. Ora egli si scosta dal fuoco per non essere ravvisato. Un primo gallo roco annunziava l’alba; Pietro però non l’udì, tre­ mante di freddo e di paura. Gente gli si accalcava in­ torno. -— Ma sì ! Tu sei Galileo ! Ne hai bene l’ac­ cento ! Una testimonianza più pericolosa fu portata da un parente di Malco. — Io l’ho visto poco fa nell’orto... — Pietro, atterrito, protestava, giurava che non conosceva quell’uomo; e le sue imprecazioni erano tali che gli ac­ cusatori esitarono e tornarono a scaldarsi lasciandolo so­ lo. Un gallo, di nuovo, cantò. Anche nel suo povero cuore si faceva giorno. Tutto uscì dalla notte, tutto si rischiarò in lui, nello stesso tempo che i tetti del pa­ lazzo e delle case e le cime degli olivi e le più alte pal­ me. Allora una porta si aprì. Sospinto da due servi, i pugni legati, un uomo apparve, carne da patibolo e da galera. E guardò Pietro, mettendo in quello sguardo un tesoro infinito di tenerezza e di perdono. L’apostolo con­ templava con stupore quella faccia già enfiata dai colpi di pugni. Nascose la propria nelle mani, e appena uscito sparse più lacrime che non avesse versate da che era al mondo. Gesù era già sputacchiato. L’oltraggio era cominciato quando Caifa gli aveva intimato di rispondere: — Io ti scongiuro per l’Iddio vivente di dirci se sei il Cristo, 11 Figlio di Dio —. Allora il silenzioso si era d’un tratto rizzato e aveva proferito distintamente: — Io lo sono. E voi vedrete il Figlio dell’uomo se­ dere alla destra dell’Altissimo e venir sulle nuvole. Vi fu un grido d’orrore. Un primo sputacchio colò sulla sua guancia, poi altri ancora. Dei servi lo schiaf­ feggiavano. Gli velavano la faccia e lo percuotevano col

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pugno: — Cristo, indovina chi t’ha percosso? — e ri­ devano. Se non fosse stato di poca apparenza, se nel suo por­ tamento fosse stata sempre quella maestà che noi im­ maginiamo, la marmaglia si sarebbe tenuta a distanza. No, il Nazzareno non era tale da imporsi a quella fec­ cia rigurgitata dalle cucine... Almeno, in quel momento: anche un uomo comune ha tanti volti ! Il muto splendore della Trasfigurazione, a certe ore aveva dovuto raggiare da questo augusto Aspetto che la fotografia del Santo Sudario di Torino ci ha rivelato. Se noi abbiamo il culto della nostra ani­ ma, quale doveva essere quello del Figlio di Dio! Ma certamente egli volle velarlo. Una onnipossente volontà d’oscuramento ha cancellato dal Santo Volto tutto ciò che avrebbe reso i carnefici esitanti. £ vero d’altra parte che la purità medesima d’una immagine attira l’odio, provoca l’insulto. I bruti avevano un Dio in loro piena balia, e ne godevano a sazietà, come quegli uomini d’e­ quipaggio che torturano il mozzo dato loro nelle mani. La Passione avrebbe potuto fermarsi agli sputacchi. Vi era già troppa abiezione più di quanto la nostra de­ bole fede non possa sopportare. E nondimeno la po­ tenza di Gesù sulle anime ha radice in questa confor­ mità con la sofferenza degli uomini; e non soltanto coi dolori normali della condizione umana. Non ci può essere al mondo un prigioniero, un martire, un condan­ nato innocente o colpevole, che non ritrovi in Gesù vi­ tuperato e crocifisso la sua propria immagine e somi­ glianza. Quel giovane assassino del viale Mozart, tra­ scinato sul marciapiede in mezzo alla folla urlante per la ricostruzione del suo delitto, quando una donna gli sputò in faccia, subito prese l’apparenza del Cristo. Do­ po ch’egli ebbe sofferto e fu morto, gli uomini non sono stati meno crudeli, né ci è stato meno sangue versato, ma le vittime sono state ricreate una seconda volta a immagine e somiglianza di Dio; anche senza saperlo, anche senza volerlo.

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La disperazione di Giuda Mentre lo si strappava dalle mani dei servi per tra­ scinarlo verso il Pretorio (senza dubbio alla torre An­ tonia che domina il Tempio), un uomo costernato con­ templava la sua opera. Non esistono mostri: Giuda non aveva creduto che la cosa sarebbe andata molto lonta­ no: un imprigionamento, qualche scudisciata, forse; e il legnaiuolo sarebbe stato restituito al suo banco da lavoro. Pochissimo è mancato che le lacrime di Giuda non venissero confuse, nella memoria degli uomini, con quelle di Pietro. Egli avrebbe potuto divenire un santo, il patrono di noi tutti che non ci stanchiamo di tradire. Il rimorso lo soffocava: l’Evangelo precisa che «si pen­ tì ». Riportò le trenta monete d’argento al sommo sa­ cerdote, e si accusò: — Ho peccato consegnandovi il sangue innocente... — Giuda tocca il limite della per­ fetta contrizione. Dio avrebbe avuto ugualmente il tra­ ditore necessario alla Redenzione, e la Chiesa un santo di più. Che gli importava di questi trenta denari? Forse non avrebbe consegnato Gesù se non l’avesse amato, se non si fosse sentito meno amato degli altri. I meschini cal­ coli dell’avarizia non sarebbero bastati a deciderlo: nel momento stesso in cui il capo di Giovanni riposò sul cuore del Signore, Satana potè stabilire in quello di Giu­ da il suo eterno regno. « Allora avendo gettato il denaro nel Tempio, andò a impiccarsi. » Il Demonio non ha nulla guadagnato con­ tro l'ultimo dei criminali che ancora spera. Finché sus­ siste nell’anima più aggravata un barlume di speranza, ella non è separata dall’amore infinito che per un so­ spiro. Ed è il mistero dei misteri che questo sospiro il Figlio di perdizione non l’abbia esalato. I sacerdoti non avendo voluto ricevere quel denaro che era il prezzo del sangue, lo destinarono all’acquisto d’un campo per la sepoltura dei forestieri. Assassina­

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vano il Figlio di Dio, e non pensavano che a non spor­ carsi. Così, la vigilia di Pasqua, non osarono penetrare nel Pretorio, e bisognò che il Procuratore si incomo­ dasse egli stesso per parlamentare con loro dal peristi­ lio. Qui appare lampante la stupidità della Lettera: la Lettera che uccide, in nome della quale tanti agnelli sono stati immolati a cominciare dall’Agnello di Dio. Pilato Pilato odiava e disprezzava il Sinedrio e anche Erode Antipa, ma lo temeva. Era stato vinto da loro a Roma in una contesa circa le targhe d’oro che il Procuratore aveva appese nel palazzo reale di Gerusalemme e che dovette riportare a Cesarea, nella sua residenza abitua­ le. Dopo che aveva perduto quel processo, il Procura­ tore diffidava di quei violenti. — Prendetelo voi stessi, quell’individuo — gridava loro — e giudicatelo secon­ do la vostra legge. Ora quegli stessi Giudei che temono di macchiarsi calcando il suolo del Pretorio dove faranno condannare a morte un innocente, professano che non è loro lecito di uccidere alcuno. Consegneranno Gesù per essere cro­ cifisso, ma non pronunceranno la sentenza. Il farisaismo così violentemente denunciato dal Cristo durante tre anni, si manifesta, in quel momento, in tutta la sua lai­ dezza. Pilato esasperato senza dubbio, ma prudente, rientrò dunque nel Pretorio. Egli non sa che domanda fare a quel pover’uomo strappato per un momento alla folla immonda. Non è il caso di dire che il Procuratore cede alla pietà. Si sapeva già che avrebbe lusingato la mania dei pazzi. — Sei tu il Re dei Giudei ? Ma l’Illuminato gli risponde: — Mi chiedi ciò da te stesso, o altri te l’han detto di me? Ma no, che non è un pazzo! Pilato grida: — Sono io

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Giudeo? — umiliato di trovarsi mescolato in quella storia di fanatismo. E intanto l’uomo parla: — Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei ministri contende­ rebbero perché io non fossi dato nelle mani dei Giudei: ma ora il mio regno non è di quaggiù... Tu lo dici, io sono Re. Sono nato e venuto al mondo per testimoniare della verità. Pilato gli dice: — Che cos’è verità? — Se avesse avu­ to il cuore di un mendico, d'una donna perduta, d’un gabelliere, questa risposta forse gli sarebbe stata data: « Io sono la Verità, io che ti parlo ». Ma era un uo­ mo serio, un alto funzionario: avrebbe alzato le spalle. Una virtù segreta opera in lui, nondimeno: quest’uomo ha « qualche cosa »... non saprebbe dire che. Non lo prende più per un pazzo. È l’invidia, che ha scatenato il Sinedrio. Non si può negare la potenza di quello sguar­ do, di quella voce... Egli disprezza i Giudei, questo Ro­ mano, ma è pure superstizioso. Non si sa mai. L’Orien­ te formicola di divinità pericolose. E precisamente sua moglie, che ha fatto un sogno intorno a quel giusto, gli raccomanda di non impicciarsi d’un tale affare. Per­ ché non liberarlo? Sfortunatamente i sinedri si son posti sul terreno politico. Gesù si dichiara Re e Mes­ sia, ed è questa appunto la specie di agitatori che a Ro­ ma più si detesta. Gli avversari di Pilato lo sanno, e rivolgono contro lui un’arma formidabile. Un affare da nulla, ma che può perderlo. Egli è un uomo politico: come tutti i politici, tiene a bada i due partiti e cerca una scappatoia. D’un tratto si picchia la fronte: ha tro­ vato! Un Nazzareno? Ma questo Gesù dipende dunque da Erode! Pilato disgustato col Tetrarca, dopo che, sen­ za chiedergliene licenza, egli aveva fatto massacrare dei Galilei rivoltosi, gli offrirà questo segno di deferenza, prenderà due piccioni a una fava: sbarazzandosi di Gesù, si riconcilia con Erode, che appunto si trova a Geru­ salemme per le feste.

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Gesù dinanzi a Erode L’assassino di Giovanni Battista cercava da lungo tem­ po di vedere quel famoso Gesù, e l’accolse da prima con qualche pompa, circondato dalla sua guardia e dalla sua corte. L’aspetto del disgraziato dovette confonderlo. Nondimeno, l’opprimeva di domande. Ma il Figlio del­ l'uomo s’era cangiato in statua. A dispetto degli urli degli scribi, non rispondeva nulla a quella volpe com’egli un giorno aveva chiamato Erode. Il Tetrarca e quella corte che gli stava intorno, era il Mondo per cui Gesù non aveva pregato. I sacerdoti gli repugnavano meno di quei futili criminali, di quei pappagalli, di quella feccia che si crede il fiore. — No! È poi questo, Gesù? Che delusione! Non fos­ se che per ciò, merita la morte. — Mi avevano pur detto ch’era bello ! Ma è orren­ do! Non ha davvero l’aspetto d’un profeta! Non gli si darebbero due soldi. — È inaudito come si creano le fame! ■— Giovanni Battista era però qualcuno. Accanto a Giovanni Battista, costui non esiste. Non gli arriva alla caviglia. È una brutta copia! — No! Guardate che arie! Ma chi si crede, questo povero diavolo ? — Crede di impressionare col suo silenzio... Alla fine, non potendo strappargli una sillaba, Erode lo fece per scherno rivestire di bianco e lo rimandò a Pilato, al suo amico Pilato.

Barabba

L’alto funzionario dovette cercare un’altra via d’uscita, e gli parve d’averla trovata quando qualcuno gli ram­ mentò l’usanza, per la festa di Pasqua, di restituire la libertà a un prigioniero designato dalla folla. Il Procu­

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ratore venne dunque di nuovo fuori, e il popolo cessò di gridare per udirlo. — Io non trovo alcun maleficio in lui. Volete secon­ do l’usanza che io vi liberi il Re dei Giudei? Se era per ironia che lo chiamava così, quale balor­ daggine! Gli scribi e i sacerdoti, fuori di sé, diramavano per tutto la parola d’ordine: bisogna chiedere la libera­ zione del bandito Barabba. - Fu un solo grido: — Barabba! Barabba! Pilato batté in ritirata, cercando salvare l’innocente da quegli infuriati. Poiché non trovava nulla, la sua in­ dulgenza di Romano gli ispirò uno strattagemma atro­ ce: ridurre quell’uomo a tal grado di abiezione e di mi­ seria, che non vi fosse più alcuno che ardisse dar la minima importanza alla sua derisoria regalità. Fu per strapparlo a quella banda di lupi, che lo consegnò ai soldati; sapeva bene come simile gente se la caverebbe: uscendo dalle loro mani, il Re dei Giudei disarmerebbe persino i sinedri; farebbe compassione agli stessi ponte­ fici privi di viscere.

La flagellazione

I soldati lo presero dunque; si sarebbero ben divertiti. Le corregge contenevano delle pallottole di piombo. Tut­ ti i nostri baci, tutti i nostri abbracciamenti, la prostitu­ zione dei corpi creati per essere la dimora dell’Amore, quell’avvilimento della carne, quei crimini non soltanto contro la Grazia, ma contro la natura: il Figlio dell’uo­ mo prende su di sé tutto, a stretto rigore. Il sangue di cui è coperto, lo avviluppa di un mantello scarlatto sul quale i soldati ne getteranno un altro, di stoffa, questo, e che aderirà alla carne viva. Per terra v’è della brucia­ glia, dei fastelli di spine. — Aspetta che gli faccia una corona, al Re! — Prendi, cacciagli la canna nelle bran­ che. 21.

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— Salve, Re dei Giudei ! — E si inginocchiavano ur­ tandosi l'un l’altro; e i pugni si abbattevano su quel volto che non era più che una piaga. Ecce Homo!

Quando il Romano vide ciò che dell’Ebreo rimaneva, si rassicurò: i soldati non avevano lesinato: quella mise­ revole creatura farebbe onta a coloro che l’avevano ab­ bandonata al suo destino. Egli corse ad avvertirli (con un’aria che pareva dire: «Adesso, adesso vedrete!»). — Ecco, ve lo porto fuori affinché sappiate che non trovo in lui alcun maleficio. Rientrò per cercarlo e riapparve, spingendo innanzi quella specie di fantoccio coperto di similoro, con in capo un cappello di spine, con una maschera di sputacchi, di pus e di sangue dove alcune ciocche di capelli stavano appiccicate. — Ecco l’uomo. Essi non caddero in ginocchio. Dov’erano i lebbrosi guariti, gli ossessi liberati, i ciechi ai quali aveva aperto gli occhi? Molti di quelli che avevano creduto in lui, che speravano ancora contro ogni speranza, perdettero il poco che rimaneva loro di fede, dinanzi a quel relitto umano. — Ah, spazzatelo via ! Che scompaia ! Aver creduto a questa roba! Che vergogna! Un grido immenso : — Crocifiggilo ! -— sconcertò il Procuratore. Egli tentava di gridar più forte di loro: -— Ma è innocente ! — Allora un sacerdote si staccò dal­ la folla. Un gran silenzio successe, poiché parlava a no­ me di tutti. — Noi abbiamo una legge, e secondo la nostra legge egli deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio. Pilato fu turbato. Figlio di Dio che significa? Rientrò nel Pretorio, fece avvicinare Gesù, e gli pose la stupe­ facente domanda: — Onde sei tu? Non si trattava, nel pensiero del Procuratore, della

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origine terrestre di Gesù. Nessun dubbio che il Romano presentisse in quell’avanzo umano una forza enorme che gli sfuggiva. Ma il Cristo non rispondeva. Pilato s’im­ pazientì: l’uomo ignora dunque che il suo giudice ha il potere di crocifiggerlo o di liberarlo ? — Tu non avresti alcuna potestà su di me se non ti fosse data dall’alto; perciò colui che mi t’ha dato nelle mani ha un maggior peccato. «Da quell’ora Pilato cercava di liberarlo; ma i Giu­ dei gridavano : — Se tu lo liberi, tu non sei amico di Cesare: perché, chiunque si fa Re, si oppone a Cesa­ re —. Pilato, avendo udito queste parole, menò fuori Gesù, e si pose a sedere sul tribunale, nel luogo detto in greco lithostrotos e in ebraico gabbatha [questo la­ strico che i sacri piedi toccarono è stato messo in luce]. Ora era il giorno della preparazione della Pasqua, e in­ torno all’ora sesta. Pilato disse ai Giudei: — Ecco il vostro Re —. Ma essi gridarono : — Muoia ! Muoia ! Crocifiggilo! — Pilato disse loro: — Crocifiggerò io il vostro Re? — I principali sacerdoti risposero: — Noi non abbiamo altro Re che Cesare. » Risposta minacciosa. Pilato capì che s’era spinto tropp’oltre, che non risparmierebbe quel misero senz’essere denunciato a Roma. L’uomo trovò una scappatoia per mettere legalmente al riparo la sua responsabilità: e fu di lavarsi le mani in pubblico e di proclamarsi inno­ cente del sangue di quel giusto. Toccava ora ai Giudei di rispondere. Lo sciagurato popolo gridò: — Sia il suo sangue sopra noi e sopra i nostri figliuoli. — Vi fu, e ancora v’è, ma per una maledizione eterna: il posto d’Israele è custodito alla destra del Figlio di Davide.

La via della croce Il cervo è dato ai denti dei cani. Ma come porterebbe egli la sua croce se appena (può trascinare se stesso ? Simone di Cirene, padre dei due discepoli Alessandro e

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Rufo, gli è sostituito. Due ladroni che camminano con lui, trascinando il medesimo legno, non si distinguono da Dio. Codesta croce conviene vederla tal quale è: così diversa dal trono che noi innalzammo dipoi, e che col­ loca l’Agnello di Dio al disopra del mondo! Pressoché insostenibile è la realtà che bisogna osare di guardare in faccia. « I primi cristiani avevano orrore di mettere il Cristo in croce » scrive il Padre Lagrange, perché ave­ vano visto coi propri occhi quei poveri corpi compietamente nudi costretti a un palo grossolano sormontato in forma di T da una sbarra trasversale, le mani inchio­ date a quel legno, i piedi pure inchiodati, i corpi acca­ sciati sotto il proprio peso, il capo penzolante, e cani attirati dall’odore del sangue, che divoravano i piedi, avvoltoi che volteggiavano su quel campo di carnefici­ na, e il paziente sfinito dalle torture, che brucia di sete, e chiama la morte con dei gridi inarticolati. Era il suppli­ zio degli schiavi e dei malandrini. E fu quello che sop­ portò Gesù. Il Golgota sorge alla porta stessa della città. Bastò quella distanza perché le tre cadute consacrate dalla tra­ dizione si avverassero. Breve è la via per la quale egli s’inoltra, soffocato dalla calca, trascinato dai soldati. Ma­ ria non entra forse nel giro dei suoi sguardi, ma essa è lì. Approfitta del fatto che il suo figliuolo e il suo Dio non ha più la forza di respingerla; si leva alfine dal silenzio e dall’ombra, con quella spada nel cuore. Nessun santo sarà capace di abbracciare la croce così strettamente come la Vergine; in silenzio ella si sposa alla Redenzione. No, la Madre non mette un grido, poiché tra le donne che gemono intorno al condannato non è nominata. Quanto a lui, misura il castigo della sua città e del suo popolo dall’eccesso della propria sofferenza e ne freme. — Pian­ gete per voi e per i vostri figliuoli! — Una delle pian­ genti si staccò forse e gli asciugò il volto con un panno­ lino. Veronica è ignota agli evangelisti. Ma ella esiste;

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non è una invenzione. Non può darsi che una donna abbia resistito al desiderio di asciugare quell’orribile faccia.

La crocefissione Ecco il momento più atroce: lo strappo della stoffa in­ collata alle piaghe, i colpi di martello sui chiodi, l’ere­ zione dell’albero, il peso del frutto umano, la sete spen­ ta con aceto e fiele, e la nudità, la vergogna di quella misera carne... O rifugio della piccola Ostia! I giusti­ zieri fanno il loro mestiere: né più né meno; Gesù prega per essi perché non sanno ciò che si fanno. Ma nulla placa l’odio degli scribi e dei sacerdoti. Sono ancora lì, davanti a quella vivente piaga, a ridere, a scuotere il capo, a schernire; non finiscono di gongolare: — Ha guarito gli altri e non può salvare se stesso! Discendi dalla tua croce, e crederemo in te! Se tu sei il Re dei Giudei, salva te stesso! Un’ombra sul loro compiacimento: quell’iscrizione che Pilato ha incollata sul legno: Costui è il Re dei Giudei. Essi tentano un passo presso il Procuratore perché con­ senta una correzione: che si è detto il Re dei Giudei. Ma il Procuratore non ne può più, e forse l’angoscia lo stra­ zia. Li congeda seccamente: ciò che è scritto, è scritto. Intorno alla croce, vicino al suolo, la folla dilaga - così vicino al suolo che il condannato potrebbe rice­ vere ancora degli sputi. Essi si accontentano dei mot­ teggi: — Tu che distruggi il tempio di Dio e lo riedi­ fichi in tre giorni, salvati dunque! Che si salvi egli stesso: non si chiede che di credere in lui. Coloro ch’egli ama, si accalcano, montano la guardia intorno al suo corpo esposto, ricoprendo, ve­ lando col loro amore la sua nudità, troppo sanguinante, troppo dolorosa per offendere qualsiasi sguardo. A tra­ verso il sangue e il pus, egli vede la propria pena rifles­ sa su volti cari: quelli di Maria sua madre, di Maria

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Maddalena, d’una delle sue zie, moglie di Cleofa. Gio­ vanni ha forse gli occhi chiusi. Ed ecco l’episodio subli­ me, l’ultima invenzione dell’Amore innocente e cro­ cifisso, che Luca solo riporta: «L’uno dei malfattori ap­ piccati lo ingiuria dicendo: — Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi —. Ma l’altro lo riprendeva dicendo: — Non hai tu timore di Dio, che sei nel medesimo supplizio? Per noi è giustizia, perché riceviamo la pena degna dei nostri misfatti: ma costui non ha commesso nulla di male ». E tosto che ha parlato, una grazia im­ mensa gli piove in cuore: quella di credere che quel suppliziato, quel miserevole rifiuto che i cani schifereb­ bero, è il Cristo, il Figlio di Dio, l’Autore della vita, il Re del Cielo. E dice a Gesù: •—■ Signore, ricordati di me, quando sarai entrato nel tuo regno. — Oggi stesso tu sarai con me in paradiso. Un solo moto di puro amore, e un’intera vita crimi­ nale è cancellata. Buon ladrone, santo operaio dell’ul­ tima ora, inebriaci di speranza.

La morte Dal fondo del suo patimento, Gesù abbraccia con un solo sguardo le due creature che ha più amate al mondo, e le affida Luna all’altra. « Donna, ecco tuo figlio. » « Ecco tua madre... », e la nostra, per l’eternità. Maria e Giovanni non si lasceranno più. E d’un tratto scoppiò l’urlo lacerante, il più inaspettato, che tuttora ci gela. « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato ? » È il primo versetto del salmo 22, di quel salmo che il Cristo è occupato a vivere fino alla morte. Sì, noi cre­ diamo con tutta la nostra fede che conveniva che il Fi­ glio sperimentasse anche quell’orrore: l’abbandono del Padre. Ma non è meno vero che il suo pensiero morente doveva aggrapparsi a quel salmo, i cui versetti 6, 7 e 8 si adempiranno in lui alla lettera in quello stesso mo­

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mento. « Ma io sono un verme, e non un uomo, il vi­ tuperio degli uomini e il rifiuto del popolo. Chiunque mi vede si beffa di me; essi stendono le labbra e crol­ lano il capo dicendo: Egli si rimette nel Signore; che il Signore lo liberi dunque, poiché lo ama ! Essi hanno forato i miei piedi e le mie mani. Si spartiscono fra loro i miei vestimenti, e traggon la sorte sopra la mia tu­ nica. » Tutto ciò si adempie: la tunica senza costura è tratta a sorte. Il Cristo morente si conforma a ciò che di lui è stato predetto. Vi aderisce con le sue forze estreme. Ma l’abbandono è a Ghetsemane che l’ha conosciuto. Quel primo versetto del salmo 22, quante volte dovette gri­ darlo, durante quei tre anni di angosce ! (come noi stessi diciamo, come sospiriamo nelle ore di stento o di pena: — Mio Dio!). La cosa più strana è, che aven­ dolo udito gridare: — Eli! Eli! — dei soldati credettero che chiamasse Elia, e dissero: — Chiama Elia: vediamo s’egli verrà a salvarlo... — E intanto l’uomo doloroso ri­ passa la sua parte versetto per versetto. E dice ancora : — Ho sete! — Una spugna imbevuta d’aceto gli è ap­ pressata alla bocca. Non era per malvagità : quell’aceto serviva ai soldati, e doveva somigliare a ciò che noi chia­ miamo « vinello ». Gesù disse : — Tutto è compiuto. « E chinato il capo rendè lo spirito. » Ma lanciò pri­ ma quel gran grido misterioso per cui un centurione si batté il petto dicendo: — Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio... — Nessuna parola è necessaria, se piace al Creatore; un grido basta perché la sua creatura lo riconosca.

Il seppellimento Nulla rimane di quella oscura avventura di tre anni, fuorché tre corpi suppliziati, all’entrata d’una città, sotto un cielo di tempesta, un giorno fosco di primavera. Spettacolo ordinario: per l’esempio, l’uso era di lasciare

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i corpi esposti a tutti gli sguardi e agli oltraggi delle bestie, alla porta della città. Ma il giorno della Prepa­ razione non dovevano quei cadaveri rimanere lì. A ri­ chiesta dei Giudei e secondo l’ordine di Pilato, i soldati finirono i due ladroni fiaccando loro le gambe. Poiché Gesù era morto, si accontentarono di un colpo di lancia che gli aprì il cuore; e Giovanni, forse appoggiato il capo contro il corpo in brandelli, vide per la piaga aper­ ta venire l’acqua e il sangue, e li sentì colare su di sé. Un discepolo occulto di Gesù, della specie di quelli che avevano avuto paura di lui mentre era vivo, Giu­ seppe d’Arimatea, ottenne dal Procuratore il permesso di prendere il corpo. Nicodemo, un timoroso anche lui, un politico, si manifestò in quel punto, e accorse con cento libbre di mirra e d’aloe. È l’ora dei pusillanimi. I due che non avevano osato confessare il Cristo vivente, e che si recavano a vederlo di nascosto durante la not­ te, ora che è morto, testimoniano maggior fede e tene­ rezza di coloro che s’erano diffusi in parole. Di nulla importa più, ora, a quegli ambiziosi, a quella gente che copre cariche, poiché hanno perduto Gesù. Che temereb­ bero essi? I Giudei non possono più nuocere loro. Si può prendere loro tutto, dal momento che hanno tutto perduto, e nulla importa loro più di quegli onori ai quali credevano di tenere più che a qualsiasi cosa al mondo: poiché Gesù è morto. Giuseppe d’Arimatea possedeva un sepolcro nuovo in un giardino, su quella pendice del Golgota. A causa della festa, e poiché quel sepolcro era molto vicino, vi deposero il corpo del Signore.

Capitolo XXVII

Resurrezione

Nuvoloni offuscavano l’azzurro. Può darsi che dei no­ stri morti siano riapparsi, ma di loro non ci si ricordò che più tardi. Noi immaginiamo piuttosto una sera di pri­ mavera: quell’odore di terra calda e bagnata, quel lan­ guore carnale, quel vuoto che io risentivo fanciullo, dopo la morte deH’uìtimo toro, quando l’arena si spopolava, come se il mio proprio sangue si fosse impoverito di tutto quel sangue versato. Un conto regolato, un affare finito. E tanto odio oramai inutile, ricaduto sul cuore degli scribi. La sterminata tristezza della loro razza si raccoglieva in loro: quella mancanza di soddisfazione, quella scontentezza: tanta da riempire i secoli dei seco­ li. I Farisei s’inquietavano ancora per quel tanto di agi­ tazione che persiste intorno a un cadavere pur disono­ rato come quello. Chi aveva sempre visto chiaro, si ri­ deva di quelli che l’impostore aveva irretiti. Ma la Pa­ squa veniva, e ciascuno ritornava alla propria casa. Dove s’erano acquattati gli amici del vinto ? Che cosa sopravviveva della loro fede ? Il Figlio dell’uomo era entrato nella morte, e per quale porta! La sua memo­ ria non sarebbe soltanto abominevole ai Giudei, ma ignobile. E la sua eredità, della quale egli aveva tanto parlato? Un segno di abiezione. La sua vittoria sul mon­ do? Quelli che l’odiavano, l’avevano calpestato, schiac­ ciato, convinto d’impotenza, e dunque d’impostura, da­

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vanti al popolo tutto. No: nuli’altro rimaneva ai suoi amici che nascondersi, celar le loro lacrime, la loro ver­ gogna: serbare il silenzio, e aspettare. Poiché essi aspettavano tuttavia, rammemorando certe parole e aggrappandovisi : la loro fede vacillava, ma non il loro amore. Alcuni cuori, forse, bruciavano tra essi, immersi in una folle fiducia, ch’era già la follia della croce. Massime le donne, tutte quelle Marie... Quanto alla madre di Gesù, non occorreva aver fiducia: ella sapeva. Ma la Passione si continuava in lei. I colpi non finivano di piovere, né gli sputi di insozzare il volto adorato. L’effusione del divino sangue ella non poteva fermarla nel suo cuore. Ogni grido vi ritrovava una vi­ brazione, e il minimo sospiro sfuggito alle sue labbra esangui. La Vergine non era più che l’eco indefinita­ mente prolungata della Passione. Ella cercava sulla pro­ pria fronte la traccia delle spine. Baciava le palme delle sue mani... A meno che non dovesse vegliare su Gio­ vanni annichilito...

Qui dovrebbe incominciare la storia del ritorno di Gesù nel mondo. Ma sarebbe la storia del mondo me­ desimo fino alla consumazione del tempo. Perché la pre­ senza di Gesù resuscitato dura tuttora: verrebbe voglia di dire che l’Ascensione non l’ha interrotta: parecchi mesi dopo che i discepoli l’ebbero visto sparire, egli ab­ bagliava della sua luce, sulla via di Damasco, il suo ne­ mico Saul, e gli parlava. Ora San Paolo non ha mai du­ bitato d’essere stato testimonio della Resurrezione come coloro che avevano bevuto e mangiato col Cristo vin­ citore della morte, conforme ne attesta il famoso passo della prima epistola ai Corinti: « Io vi ho insegnato in­ nanzi tutto, come io l’ho appreso, che il Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture: che fu seppel­ lito e che resuscitò il terzo giorno secondo le Scritture; e ch’egli apparve a Cefa, e dipoi agli Undici. Appresso apparve in una volta a più di cinquecento fratelli dei quali la maggior parte sono ancora viventi, e alcuni an-

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cora dormono. E poi apparve a Giacomo, e poi a tutti gli apostoli insieme. E dopo tutti è apparso ancora a me, come all’abortivo ». E senza dubbio le apparizioni del Cristo che sono le guarentige della Resurrezione non devono andare con­ fuse con quelle da cui molte anime furono beneficate da che egli salì al cielo. Ciò non toglie che colui che atterrò Paolo sulla via di Damasco sia il medesimo Gesù che un Francesco, una Caterina, una Teresa, una Mar­ gherita Maria, un Curato d’Ars, e tanti altri santi rico­ nosciuti dalla Chiesa o nelle tenebre d’una vita nascosta, videro, sentirono, toccarono. Presenza che non è la Pre­ senza eucaristica, ma della quale la piccola ostia dà un’i­ dea al cristiano più comune, quando, ritornato al suo posto, ripiega piano piano il suo mantello su quella fiamma che arde nella più profonda intimità del suo essere, su quella viva palpitazione dell’Amor prigioniero. E ciò è così vero, che mentre tanti racconti evange­ lici rimangono chiusi alla nostra immaginazione, non ve n’è alcuno che sia più vicino alla nostra esperienza vissuta, di quelli che riguardano il Cristo resuscitato. E anzitutto perché anche da noi non è conosciuto che at­ traverso la sua Passione. Se non ci giunge più dal fondo della morte, ci giunge sempre dal fondo della sua pe­ na. Per cogliere ciascuno di noi, non lascia mai di at­ traversare questo inferno umano. Il volto a noi noto non è quello dell’Ebreo che i soldati della coorte e i servitori del sommo sacerdote non avrebbero saputo discernere dagli altri senza il bacio di Giuda. È la Fac­ cia schiaffeggiata e ammaccata a causa dei nostri delitti, è quello sguardo accorato e triste che ci accompagna nel corso della nostra vita, di caduta in caduta, senza che l’amore con cui egli ci cova si affievolisca o scoraggi mai. Non v’è incontro del Cristo resuscitato con uno dei suoi, che non rammenti al cristiano qualche fatto della propria vita. Maria Maddalena fuori del sepolcro pian­ ge « perché hanno tolto il suo Signore ed ella non sa dove l’abbiano posto ». « Avendo detto quelle parole,

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ella si voltò e vide Gesù in piedi; e non sapeva che era Gesù. Gesù le disse : — O donna, perché piangi? Che cerchi? — Ella, pensando che fosse l’ortolano, gli disse: •—■ Signore, se sei tu che l’hai portato via, dimmi dove l’hai posto, e andrò a prenderlo —. Gesù le disse: — Maria! — e gli occhi della santa donna si apersero; ella disse : — Rabbonì ! — E noi pure l’abbiamo qual­ che volta riconosciuto. Perché non confessarlo? Nei suoi sacerdoti, assai spesso. Diciamo tanto male dei sa­ cerdoti ! E nondimeno, al cristiano che ha l’abitudine (forse cattiva) di inginocchiarsi a caso nei confessiona­ li, è accaduto più d’una volta di udire la parola inaspet­ tata, folgorante; di ricevere all’improvviso da uno sco­ nosciuto dolce e umile di cuore, prigioniero di quella bara ingraticolata, il dono d’una tenerezza divina, una consolazione che non era dell’uomo. L’invocazione di Tomaso detto Didimo, quante volte non è venuta alle nostre labbra, quando anche noi, con gli occhi della fede, con mani brancolanti di cieco, ab­ biamo visto e toccato le stigmate del Signore! Dominus meus et Deus meus... Mio Signore e mio Dio. Egli è possessione di tutti, dato e rimesso a ciascuno di noi in particolare. Una prima volta Gesù era entrato nella camera dove i discepoli stavano serrati per tema dei Giudei. Aveva mostrato loro le sue piaghe; li aveva inondati della sua pace e della sua gioia, e aveva comunicato loro quella potestà di rimettere i peccati. (Oh certezza d’essere per­ donato ! mano del sacerdote su la nostra fronte, parola di assoluzione che discende sul nostro cuore e su la no­ stra carne, come l’acqua e il sangue dal fianco aperto dal­ la lancia!) Tomaso non si trovava con loro quando Gesù venne, e non voleva credere ciò ch’essi raccontavano. — Se io non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi, e se non metto il mio dito nel luogo dei chiodi e la mia mano nel suo costato, non crederò. — Otto giorni appres­ so Gesù sopraggiunse, e disse a Tomaso : -— Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani, porgi anche la mano e

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mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma cre­ dente —. Tomaso gli rispose: — Mio Signore e mio Dio! — Gesù gli disse: —■ Perché tu hai veduto, To­ maso, hai creduto. Beati quelli che avranno creduto senz’aver veduto! Signore che noi non abbiamo veduto coi nostri occhi carnali, noi crediamo in te. A chi di noi l’albergo d’Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l’avevano preso: il mondo, i filosofi e gli scienziati, no­ stra passione. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Noi seguivamo una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era la sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità d’una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre. O pane spezzato! O porzione del pane consumata malgrado tanta miseria ! « Rimani con noi, poiché il giorno declina... » Il giorno declina, la vita finisce. L’infanzia sembra più lontana che il principio del mondo; e della giovi­ nezza perduta non sentiamo più altro che l’ultimo mor­ morio degli alberi morti del parco irriconoscibile. « Quando furono presso il villaggio ov’erano indi­ rizzati, egli fece vista di voler andare più lontano. Ma essi gli fecero forza dicendo: — Rimani con noi, per­ ché si fa tardi e il giorno declina —. Egli entrò nel villaggio per rimaner con loro. Ed essendosi messo a tavola con loro, prese il pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e lo distribuì loro. Allora i loro occhi si apri­ rono e lo riconobbero; ma egli sparì da loro. Ed essi dissero l’uno all’altro: — Non bruciava il nostro cuore mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scrit­ ture ? » Un’altra volta Cefa, Tomaso, Natanaele, Giacomo e Giovanni pescavano. Erano ritornati al loro mare di Ti-

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beriade, alla loro barca, alle loro reti: « s’erano siste­ mati... », dovevano pensare alle famiglie. Ma non pren­ devano nulla. Uno sconosciuto disse loro di gettare la rete a destra. Presero tanti pesci che Giovanni d’un tratto comprese, e disse a Pietro: — È il Signore! — E Pietro si gettò nel mare per raggiungere più presto il suo Diletto. Egli è lì, sulla riva. È bene Lui. Alcuni tizzi fumano. Il sole asciuga le vesti di Pietro. Fanno cuocere la loro pesca; mangiano il pane che loro è dato da Gesù, al quale non hanno neppur domandato: Chi sei? — Non si è mai del tutto sicuri che sia Lui. Ma sì! mio Dio, sei Tu, sei bene Tu che d’improvviso poni la domanda (Ah! come ci è familiare! Ma non la ri­ sposta, ahimè) : -— Simone, figlio di Giovanni, mi' ami tu più di costoro ? — Veramente, Signore, tu sai che io t’amo. -— Pasci le mie pecore... Tre volte questo dialogo si scambia sulla spiaggia, al margine del lago. Poi Gesù si allontana, e Pietro lo se­ gue; e Giovanni un po’ appresso a lui, come avesse per­ duto il suo privilegio di « più amato », come se il Si­ gnore resuscitato non indulgesse più a quella prefe­ renza del suo cuore. Tuttavia pronuncia riguardo al figlio di Zebedeo delle parole misteriose che faranno credere agli altri discepoli che Giovanni non conoscerà la morte. E quando, qualche settimana più tardi, Gesù si toglie dal gruppo dei discepoli, sale e si dissolve nella luce, non si tratta d’una partenza definitiva. Già egli è imboscato, alla svolta della strada che va da Gerusa­ lemme a Damasco, e spia Saul, il suo diletto persecu­ tore. D’ora innanzi, nel destino di ciascun uomo, vi sarà questo Dio in agguato.

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La

vita

1885, 11 ottobre Mauriac nasce a Bordeaux. 1886 Muore Jean Paul Mauriac, padre di François lasciando sola la moglie Claire con cinque figli, quattro maschi e una femmina. 1892-96 Mauriac compie i suoi primi studi presso i Frères de Marie. 1897-1903 Frequenta il collegio « Grand Lebrun » tenuto dai padri Marianisti a Cauderan nei pressi di Bordeaux. 1903 Ottenuto il baccalauréat s’iscrive alla facoltà di lettere dell’università della sua città natale. 1906 Ottenuta la laurea si trasferisce a Parigi dove supera brillantemente il concorso della « École des Chartes » ma poco dopo dà le dimissioni per dedicarsi compietamente alla letteratura. 1909 Pubblica la raccolta di versi Les mains jointes. 1910 Maurice Barrés segnala il poeta Mauriac in un articolo su « L’Écho de Paris» del 21 marzo. 1911 Mauriac pubblica Uadieu à l’adolescence, sempre in versi. 1913 Si sposa con Jeanne Lafon, dalla quale avrà quattro figli, due maschi : Claude e Jean, e due femmine : Claire e Luce. Esce il primo romanzo di Mauriac L’enfant chargé de chaînes, cui seguirà l’anno dopo La robe prétexte, opera fortemente autobiografica. 1914-18 Richiamato sotto le armi presta servizio come uffi­ ciale nella Sanità a Salonicco. 1918 Tornato alla famiglia e al lavoro vive fra Parigi e la sua proprietà di Malagar, nelle Lande, dove ambienterà moltissime delle sue opere.

602

NOTE

1922 Le baiser au lépreux (30.000 copie in sei mesi), insieme a Préséance uscito l’anno prima, consacra il definitivo successo di Mauriac romanziere. 1925 Riceve il « Gran Prix du Roman » dell’Académie fran­ çaise per Le désert de l’amour. 1932 Mauriac viene nominato presidente della « Société des Gens de Lettres ». 1933 Mauriac diventa Accademico di Francia. 1934 Pubblica il primo volume del suo Journal. 1936 Esce il saggio di Mauriac Vie de Jésus. Collabora sempre più spesso a quotidiani e riviste, scri­ vendo anche di politica. Prende posizione nella Guerra Civile Spagnola a favore del governo repubblicano. 1938 Viene rappresentata a Parigi con ottimo successo la sua prima commedia Asmodée. 1941-44 Durante l’occupazione tedesca della Francia partecipa alla Resistenza aderendo al Fronte Nazionale degli Scrit­ tori. Vive nascosto per sfuggire alla cattura e pubblica, con lo pseudonimo di Forez, Le cahier noir per le « Edi­ tions de minuit ». 1944 II 25 agosto, in piena insurrezione, esce a Parigi il primo editoriale di Mauriac su « Le Figaro ». 1948 Fonda la rivista «La Table Ronde». 1952 Riceve il premio Nobel per la letteratura. 1953 Inizia la sua collaborazione fissa con « L’Express ». 1955 Prende posizione contro il colonialismo e la guerra d’Al­ geria con l’articolo « Mauriac accuse » apparso su « L’Express » del 15 gennaio. 1957 Partecipa a manifestazioni contro l’uso della tortura in Algeria. 1958 Pubblica la raccolta di articoli Bloc-notes. 1959 Appoggia il generale De Gaulle e ne approva la poli­ tica algerina. 1963 Sta scrivendo una monumentale biografia del suo « gran­ de amico » De Gaulle.

Le

OPERE

1909 1911

Les mains jointes U adieu à l’adolescence

NOTE

1913 1914 1920 1921 1922 1923 1924 1925 1926

1927 1928

1929 1930

1931

1932 1933

1934 1935 1936 1937 1938 1939 1940 1941 1943 1944 1945 1947

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L’enfant chargé de chaînes La robe prétexte La chair et le sang - Petits essais de psychologie reli­ gieuse; de quelques coeurs inquiets Préséances Le baiser au lépreux Le fleuve de feu - Genitrix Le mal - Huit poèmes - La vie et la mort d’un poète Le désert de l’amour Orages Bordeaux - Coups de couteaux - Fabien - Le jeune hom­ me - Proust - La province - La rencontre avec Pascal Le tourment de Jacques Rivière Thérèse Desqueyroux Le démon de la connaissance - Destins - Divagations sur Saint-Sulpice - Dramaturges - Le roman - Supplé­ ment au traité de la concupiscence de Bossuet - La vie de Jean Racine Dieu et Mammon - Mes plus lointains souvenirs - La nuit du bourreau de soi-même - Trois récits Voltaire contre Pascal - Ce qui était perdu - Paroles en Espagne - Trois grands hommes devant Dieu. L’affaire Favre-Bulle - Biaise Pascal et sa soeur Jacque­ line - Le Jeudi-Saint - René Bazin - Souffrances et bon­ heur du chrétien - Pèlerins de Lourdes Le noeud de vipères - Commencements d'une vie Discours de réception à l’Académie française - Le mys­ tère Frontenac - Le romancier et ses personnages - Édu­ cation des filles Le drôle - Journal I La fin de la nuit Les anges noirs - Vie de Jésus Journal II Asmodée - Plongées Les chemins de la mer - Maisons fugitives Journal III - Le sang d’Atys La Pharisienne Le cahier noir Ne pas se renier Le bâillon dénoué - Les mal-aimés - La rencontre avec Barrés - Sainte Marguerite de Cortone Du côté de chez Proust - Passage du malin

NOTE

604

1948 1949 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1958 1959 1962

Journal d’un homme de trente ans - La pierre d’achoppement Mes grands hommes - Le feu sur la terre Journal IV - Terres franciscaines Le sagouin Galigaï - Lettres ouvertes - La mort d’André Gide Écrits intimes L’Agneau - Paroles catholiques Le Pain vivant Bloc-notes 1952-1957 Mémoires intérieures Ce que je crois

Edizioni

e traduzioni

Oeuvres de F. M., 13 voli., Parigi 1929-1935 - Oeuvres com­ plètes, voll. I-XI e segg., ivi 1950-52 e segg. Le sangouin, ivi 1951 - Galigaï, ivi 1952 - Lettres ouvertes, Monaco 1952 - La mort d’André Gide, Parigi 1952 - Écrits intimes, ivi 1953 - L’A­ gneau, ivi 1954 - Paroles catholiques, ivi 1954 - Le Pain vivant, ivi 1955 - Bloc-notes 1952-1957, ivi 1958 - Mémoires inté­ rieures, ivi 1959 - Ce que je crois, ivi 1962. Teresa, Roma 1929 - Il bacio al lebbroso, Milano 1930; ivi 1948 - Giovedì Santo, Brescia 1932 - Groviglio di vipere, Mi­ lano 1932 ; ivi 1957 - Il deserto dell’amore, Lanciano 1932 I destini, Milano 1933; ivi 1958 - 1 due romanzi di Teresa Desqueyroux, ivi 1935; ivi 1958 - Gli angeli neri - Quel ch’era perduto, ivi 1937; ivi 1947 - Vita di Gesù, ivi 1937; ivi 1957 - Il fanciullo incatenato, ivi 1938; ivi 1952 - Del romanzo, ivi 1945 - La farisea, ivi 1946; ivi 1958 - Il mistero di Fron­ tenac, Roma 1947 - Amarsi male in « Sipario », 14, 1947 Sofferenze e felicità del cristiano, Roma 1947 - Blaise Pascal e la sorella Jacqueline, Milano-Roma 1949 - Santa Margherita da Cortona, ivi 1952 - La pietra dello scandalo, Firenze 1952 Asmodeo in « Sipario », 69-70, 1952 - Il fuoco sulla terra, in «Teatro-Scenario», 20, 1952 - La toga pretesta, Torino 1953 Jean Racine, Brescia 1953 - Pellegrini a Lourdes, Torino 1953 -

NOTE

605

Galìgai, Milano 1954 - Parole ai credenti, Brescia 1954 - Le vie del mare - Il male implacabile, Milano 1956 - L’agnello, ivi 1956 - Siepi dorate - Lo scimmiottino, ivi 1959·

La critica M. Barrés, Les mains jointes, in « L’Écho de Paris », 21 marzo 1910 - S. S. de Sacy, L’oeuvre de F. M., Parigi 1927 - G. de Catalogne, F. Ai. ou le goût du péché, in « Cahiers d’Occident », ivi 1928 - J. Benda, De Gide, de Al. et de Barrés, in « Nou­ velle Revue Française », 1° ottobre 1932 - Ch. Du Bos, F. Al. et le problème du romancier catholique, Parigi 1933 - Autori vari, Hommage a F. Al., in « La Revue du Siècle », VII-VIII 1933 - P. Troyon, Réception de F. Al. à l’Académie française, in « Revue des Deux Mondes », 1° ottobre 1933 - E. Jaloux, F. Al. romancier, Parigi 1933; ivi 1952 - B. Sérampuy, Adieu à F. Al., in «Esprit», 14, 1933-34 - K. L. Skutsch, F. Al. in « Neuphilologische Monatsschrift », Lipsia 1934 - R. Bastide, Les héros de Al., in «La Grande Revue», 1935 - Ch. West­ phal, Itinéraire de F. M., in « Foi et Vie », 1935 - A. Filon, F. Al., Parigi 1936 - R. P. Rideau, La tragédie humaine chez F. Al., in « Études », 26 dicembre 1936 - K. Möllenbrock, F. Al. oder das Geheimnis der menschlichen Existenz, in « Neuphilo­ logische Monatsschrift », Lipsia 1937 - J. Préveire, F. Al. vie secrète, tentation, Liegi 1937 - G. Viseur, Le vrai visage de F. M., Seraing 1937 - J. Schwarzenbach, Der Dichter des zwies­ pältigen Lebens, Einsiedeln 1938 - E. Benisti, La main de l’écri­ vain: Al., in « Revue Hebdomadaire », n° 6, 1936 - J. P. Sartre, F. Al. et la liberté, in « Nouvelle Revue Française », II, 1939 P. Drieu La Rochelle, Al., in « Nouvelle Revue Française », IX, 1941 - S. Vitalis, Deux figures de notre temps: G. Duhamel et F. M., Avignone 1941 - B. M. Boerebach, Introduction à une étude psychologique et philosophique de F. Al., in « Néuphilologus », Groningue 1942 - W. Fowlie, in Clowns and Angels, New York 1943 - J. Madaule, in Reconnaissances, II, Parigi 1943 - R. Poulet, in Parti pris, Bruxelles-Parigi 1943 - A. Mau­ rois, in Études littéraires, II, New York 1944; Parigi 1947 E. Dolléans, in Drames intérieures, Parigi 1944 - R. P. Rideau, Comment lire F. Al., ivi 1944 - J. Chardonne, H. de Monther-

606

NOTE

laut, Losanna 1945 - J. Pascal, F. Ai. et la politique, in « Ré­ forme », 23 giugno 1945 - G. Hourdin, Λί. romancier chré­ tien, ivi 1945 - E. P. Bendz, F. M. ébauche d’une figure, Gö­ teborg 1945 - R. Garaudy, Grandeur et servitude de F. M., in « Lettres Françaises », 8 febbraio 1946 - J. Majault, M. et l’art du roman, Parigi 1946 - A. Palante, AI., le roman et la vie, ivi 1946 - S. Stolpe, F. Λί. och audra essayer, Stoccolma 1947 E. Peli, F. Λί. in Search of The Infinite, New York 1947 J. Rivière, in Nouvelles études, Parigi 1947 - P. Guth, Portrait de M., in « Gazette des Lettres », 17 aprile 1948 - D. O’Donnel, F. M. Catholic and Novelist, in « Kenyon Review », 3, 1948 J. Nocher, in Sadiques contemporains, Parigi 1949 - C. E. Magny, Un romancier de la passivité, F. M., in « Esprit », IX, 1949 - R. J. North, Le catholicisme dans l’oeuvre de F. Ai., Parigi 1950 - N. Cormeau, L’art de F. M., ivi 1951 - P. de Boisdeffre, Saint F. AI. ou la dernière colonne de l’Église, in Métamorphose de la littérature, II, ivi 1951 - F. Vial, F. AI. as Dramatic Author, in «Yales French Studies», I, 1951 J. Duché, Panorama de F. Al., in « Le Figaro Littéraire », 14 luglio 1951 - R. Kanters, De la solitude à la grandeur ou l’art de F. M., in « La Table Ronde », V, 1951 - R. Lalou, F. M., in «Hommes et Mondes», VII, 1951 - T. Maulnier, Paganisme et jansénisme de F. M., in « Le Figaro Littéraire », 28 aprile 1951 - J. Robichon, F. M., Parigi 1953 - P. H. Simon, Al. par lui même, ivi 1953 - F. Al., prix Nobel, in « La Table Ronde», gennaio 1953 - P. Brodin, in Présences contempo­ raines, I, ivi 1954 - M. Jarrett-Kerr, F. Al., Cambridge 1954 R. Kanters, Portrait de F. Al., in « Monde Nouveau », III, 1955 - Numero speciale dedicato a F. Al., in «La Parisienne», 4, 1956 - J. Gagnepin, Le monde de M., in « Bulletin de l’As­ sociation Guillaume Budé », III, 1956 - R. Georgin, in La prose d’aujourd’hui, Parigi 1956 - J. Muller, L’affaire Al., in « La Revue Nouvelle », 15 gennaio 1956 - W. C. Boyce, The Pro­ blem of the Presence of the Author in the Novels of M., in « Dissertations Abstracts », 17, 1957 - P. Brisson in Propos de théâtre, Parigi 1957 - W. Fowlie in A Guide to Contem­ porary French Literature from Valéry to Sartre, New York 1957 - H. Juin, Lettre à F. Al., in « Esprit », I, 1957 - A. Maurois, in Les grands écrivains du demi siècle, Parigi 1957 D. Tylden-Wright, Al. and Bernanos, in The Image of France, Londra 1957 - P. Vandromme, La politique littéraire de F. M., Parigi 1957 - A. Blanchet, Al. polémiste, in « Études », 299,

NOTE

607

1958 - F. Moloney, Ai. A critical Study, Denver 1958 - J. L. Prévost, in Le roman catholique a cent ans, Parigi 1958 - Μ. Alyn, F. AL, ivi I960 - Μ. du Gard, F. Ai., in « Arts », IV, 1960 - X. Grail, M. journaliste, ivi I960.

A. Tilgher, Un romanziere: F. Ai., in « La Cultura », 1928 A. Consiglio, in Studi di Poesia, Firenze 1934 - S. DAmico, Virtù di un drammaturgo, in « La Fiera Letteraria », 25 aprile 1946 - A. Pellegrini, in Incontri in Europa, Milano 1947 E. Cassa-Salvi, Libertà dell’arte e imperativo morale in Al., in « Humanitas », VII, 1952 - A. Cajumi, / mostri di AI., in «La Nuova Stampa», 31 agosto 1954 - C. Bo, Ai. ha lasciato la Table Ronde, in « La Fiera Letteraria », 30 maggio 1954 R. Perroud, Da AI. agli esistenzialisti, Milano 1955 - G. Al­ berti, L’ultimo Al., in « Letteratura », V-VIII, 1956 - F. Casnati, Racine, Ai. e una vecchia polemica, in « Vita e Pensiero », XI, 1956 - P. F. Listri, in « Il Ponte », 2, 1959.

INDICE

François Mauriac

p.

IX

Il bacio al lebbroso Destini Groviglio di vipere Vita di Gesù

207 399

Note

599

1 73

Premi Nobel

1901 1902 1903 1904 1904 1905 1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 1915 1916 1917 1917 1918 1919 1920 1921 1922 1923 1924 1925 1926

della

Letteratura

Sully-Prudhomme Theodor Mommsen Bjornstjerne Björnson Frédéric Mistral José Echegaray Henryk Sienkiewicz Giosuè Carducci Rudyard Kipling Rudolf Eucken Selma Lagerlöf Paul Heyse Maurice Maeterlinck Gerhart Hauptmann Rabindranath Tagore Romain Rolland Verner von Heidenstam Karl Gjellerup Henrik Pontoppidan Carl Spitteler Knut Hamsun Anatole France J. Benavente William Butler Yeats Vladyslaw S. Reymont George Bernard Shaw Grazia Deledda

1927 1928 1929 1930 1931 1932 1933 1934 1935 1936 1937 1938 1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945 1946 1947 1948 1949 1950 1951 1952 1953 1954 1955 1956 1957 1958 1959 1960 1961 1962 1963

Henry Bergson Sigrid Undset Thomas Mann Sinclair Lewis Erik Axel Karlfeldt John Galsworthy Ivan Bunin Luigi Pirandello

Eugene O’Neill Roger Martin Du Gard Pearl S. Buck Frans Emil Sillanpää

Johannes V. Jensen Gabriela Mistral Hermann Hesse André Gide Thomas S. Eliot William Faulkner Bertrand Russell Pär Fabian Lagerkvist François Mauriac Winston Churchill Ernest Hemingway Halldór K. Laxness Juan Ramón Jiménez Albert Camus Boris Pasternak Salvatore Quasimodo St. John Perse Ivo Andrić John Steinbeck Giorgio Seferis

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QUESTO VOLUME E STATO IMPRESSO

NEL MESE DI LUGLIO DELL’ANNO

MCMLXIV NELLE OFFICINE GRAFICHE VERONESI DI ARNOLDO MONDADORI

PER CONTO DELLA UTET

STAMPATO IN ITALIA - PRINTED IN ITALY