Oltre l'homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni 8831101625, 9788831101622

Il denaro non fa la felicità: questa massima della cultura popolare è oggi confermata dalle indagini sulla felicità che

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Oltre l'homo oeconomicus. Felicità, responsabilità, economia delle relazioni
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IDEE / economia Collana diretta da

Luigino Bruni Oltre l’homo oeconomicus felicità, responsabilità, economia delle relazioni

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

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Leonardo Becchetti

Oltre l’homo oeconomicus felicità, responsabilità, economia delle relazioni

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

In copertina: foto di Stefano Castriota. Grafica di Rossana Quarta © 2009, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-0162-2 Finito di stampare nel mese di gennaio 2009 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Introduzione

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Introduzione

Gli scienziati sociali nelle diverse discipline in cui operano condividono (o dovrebbero condividere) un obiettivo comune. Quello di sviluppare e proporre soluzioni in grado di promuovere la persona e la sua realizzazione garantendo al contempo il suo inserimento e il funzionamento armonico della società in cui vive. Così dovrebbe essere, o almeno si spera che sia, ammesso che nel mezzo del percorso delle diverse discipline essi non abbiano gettato la spugna abbandonando questo ambizioso obiettivo di fondo. Il fatto singolare però è che per realizzare tale obiettivo quasi tutte le discipline sociali partono da una definizione di persona assunta a priori la cui validità non è dimostrata da verifiche empiriche. Si arrogano dunque il diritto di stabilire, in via preliminare, ciò che fonda e costituisce l’identità di un individuo e cosa può renderlo felice senza sottoporre alla prova dei fatti queste loro intuizioni. Un’importante novità resa possibile dalla maggiore ricchezza dei dati, oggi disponibili, è quella di verificare empiricamente ciò che rende una persona realizzata. Le indagini sulla felicità sono sempre più numerose e offrono per la prima volta la possibilità di confutare il noto detto di Einstein, condiviso da molti, secondo il quale «le cose che contano non si contano». Le nuove analisi empiriche ci consentono infatti di stabilire, con una certa attendibilità, quali fattori contribuiscono significativamente (in maniera positiva o negativa) alla felicità individuale, al netto dell’effetto concomitante di tutte le altre variabili considerate.

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Introduzione

Il fatto notevole è che alcuni risultati di fondo relativi al segno della correlazione, al di là delle inevitabili differenze e sfumature sulla dimensione quantitativa degli effetti, sono sorprendentemente simili in indagini su diversi paesi che utilizzano differenti fonti d’informazione. Queste ricerche ci permettono pertanto di identificare alcune costanti di fondo che rappresentano una sorta di DNA della felicità individuale stabile, attraverso il tempo e le culture. L’altra apparente sorpresa è che questo DNA coincide solo in parte con quelle ipotesi a priori sulle quali le diverse scienze sociali fondano il loro concetto di persona e sviluppano le loro ricette volte ad aumentarne la soddisfazione di vita. Tra i fattori cruciali che rendono la persona felice, qualunque sia il suo paese di appartenenza, troviamo la qualità della salute, il tempo speso per le relazioni interpersonali, il reddito (più in termini relativi che assoluti), il livello d’istruzione, il godimento di diritti politici, la stabilità delle relazioni affettive, il credo e la pratica religiosa. Tra quelli che hanno effetti negativi sulla realizzazione di vita la disoccupazione, la precarietà occupazionale e i fallimenti delle relazioni affettive. Di fronte a questo elenco il lettore potrebbe domandarsi dove sarebbe l’apparente sorpresa. L’obiezione è sensata ma il punto, affermato in precedenza, è che la sorpresa non è tanto rispetto al senso comune quanto rispetto alla fondazione della persona che le scienze sociali hanno progressivamente affinato e messo a punto nel tempo. In sostanza gli studi della felicità appaiono molto più coerenti con il senso comune (o almeno con quello prevalente fino a qualche tempo fa) e molto di meno con le assunzioni a priori degli scienziati sociali (come vedremo più in dettaglio introducendo la seconda parte del libro) che, nel percorso delle loro rispettive specializzazioni, sono diventate sempre meno comunicanti e hanno finito per creare “riduzionismi” e quasi contrapposizioni (l’homo oeconomicus, l’homo sociologicus, ecc.).

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Introduzione

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Ripercorrendo il cammino di queste indagini, la prima parte del volume, dunque, approfondisce il tema delle determinanti della felicità dichiarata, alternando il commento dei risultati provenienti dagli studi statistico-econometrici, fondati sulle risposte di decine di migliaia di individui in campioni rappresentativi di più di 80 diversi paesi del mondo, con alcuni aneddoti e racconti particolari. La riflessione sui risultati degli studi statistico-econometrici ci consente di enucleare alcuni importanti paradossi: i) il denaro contribuisce alla felicità ma molto meno e molto più indirettamente di quanto si creda (ad esempio, contribuendo alla possibilità di avere migliori cure mediche) e con alcuni effetti collaterali negativi (rischio di spiazzamento dei beni relazionali, alimento della spirale tra aspettative e realizzazioni, conflitto tra comfort e stimoli); ii) la felicità non significa assenza di dolore. Spesso è legata al conseguimento di risultati che costano sforzo ed energia, impegno della volontà e non abbandono alle sensazioni del momento, ma contribuiscono significativamente alla soddisfazione di vita; iii) contrariamente a quanto molti potrebbero pensare l’età è correlata, significativamente e positivamente, con la felicità a parità di condizioni di salute; iv) dedicare parte della propria settimana al “lavorare per nulla”, ovvero ad un’attività che non richiede corrispettivi monetari, aumenta la felicità suggerendo come la produttività individuale dipenda, anche in campo professionale, molto più dalle motivazioni intrinseche che dal compenso monetario. In estrema sintesi questi studi indicano come l’essere portatore di relazioni stabili e non “ferite”, la capacità di crescere in conoscenze e la possibilità di realizzarsi nella dimensione professionale siano elementi costitutivi fondamentali della persona e della sua fioritura.

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Introduzione

In questo quadro la componente della disponibilità economica rappresenta un elemento molto importante, ma solo in funzione strumentale per la realizzazione dei beni superiori sopra elencati e non come fine a se stesso. È immediatamente evidente, dunque, un contrasto con un certo riduzionismo economicista che sottolinea l’obiettivo preminente di massimizzare il benessere dell’individuo in qualità di consumatore e azionista (elementi, tutto sommato, accidentali dell’identità personale), subordinando a ciò le dimensioni che l’indagine empirica rileva come più importanti, ovvero quelle della ricchezza relazionale e della riuscita professionale. La prima parte si conclude con alcune domande sulla capacità dei politici di fare tesoro di questi risultati. In fondo il successo dei medesimi dipende in maniera cruciale dal contribuire positivamente alla soddisfazione di vita dei cittadinielettori. Notiamo in questo caso come solo in alcuni casi ciò sembra avvenire, sottolineando, al contrario, come la recente retorica europeista sembri aver completamente perso il contatto con queste dimensioni costitutive della felicità individuale, rendendo la propria voce sempre più debole e confinandola all’identificazione e al perseguimento di traguardi unici ed ultimi quali quelli, pur importanti ma certamente “penultimi”, della stabilità del bilancio e della crescita economica. La distinzione tra politici “riduzionisti” e politici che perseguono l’obiettivo di una felicità sostenibile è sottile ma essenziale. Da una parte la creazione di valore economico diventa fine ultimo al quale, consapevolmente o inconsapevolmente, si sacrificano tutti i beni superiori che rendono l’uomo felice. Dall’altra essa diventa strumento importante per creare risorse da destinare proprio alla generazione di quei beni superiori. La replica dei fautori dell’approccio tradizionale è che la disciplina economica rappresenta uno strumento fondamentale per rendere possibile la convivenza sociale e che lo spazio

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dei valori è prevalentemente non normato, e va vissuto e inverato dai singoli nella loro sfera privata e nelle realtà associative che animano e di cui fanno parte. Il problema è che le varie sfere (scelte pubbliche, vita privata, dimensioni associative) non sono affatto separate. Se non si fa attenzione agli effetti di spiazzamento della prima sulle altre due, la stessa capacità di realizzare la dimensione valoriale nel privato o nella vita associativa, e le stesse virtù civiche che assicurano la fioritura della vita economica, vengono severamente indebolite. È a questo proposito che il volume fa brevemente cenno all’etica delle virtù e alla loro legge di moto, sottolineando come esse rappresentino il collante fondamentale che rende la società coesa e crea quel tessuto necessario per instaurare relazioni economiche fruttuose. La neutralità o il disinteresse nei confronti di questa dimensione rischia di creare individui «liberi ma senza capacità», rendendo di fatto sterile l’esercizio della libertà stessa. Possono queste considerazioni generali aiutarci a interpretare alcuni fenomeni importanti dei nostri tempi come il crescente euroscetticismo? Probabilmente sì, se osserviamo come il pensiero debole delle istituzioni europee abbia progressivamente fatto esaurire (o reso meno percepibili) le motivazioni ideali che hanno spinto i cittadini europei ad avviare il percorso comunitario dopo la fine della Seconda Guerra mondiale e ha parzialmente nascosto alcuni valori profondi di cui l’Europa potrebbe farsi o è già portatrice (la convivenza pacifica tra popoli un tempo in conflitto tra di loro e la capacità di aggregare attorno a sé i paesi confinanti spingendoli ad adottare istituzioni più stabili e democratiche). In altri casi dietro il pensiero debole si sviluppa un’azione normativa fondata su un concetto di persona sicuramente diverso da quello emergente dagli studi sulla felicità con paradossali effetti sulla felicità collettiva. Dobbiamo (e i rappresentanti delle istituzioni europee devono), dunque, domandarsi se non siano

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queste le motivazioni profonde che alimentano l’euroscetticismo. Se non sono dunque le élites “avanzate” che hanno perso il contatto con le persone e le loro esigenze costitutive piuttosto che la base dei cittadini europei a non capire le intuizioni delle élites avanzate. La seconda parte del volume, partendo dalla constatazione dello scarto tra fondazione della teoria dell’utilità nella scienza economica contemporanea e risultati empirici sulle determinanti della felicità collettiva, scarto che – come abbiamo visto – può avere serie conseguenze pratiche, affronta il tema della parzialità delle visioni delle diverse discipline sociali quando i loro saperi non sono rispettivamente integrati. Il destino delle scienze sociali moderne è quello della parziale incomunicabilità dovuta al progressivo divaricamento dei linguaggi e dei saperi. Insomma il big-bang originario e la disintegrazione dell’antica prospettiva sapienziale che tentava di ricondurre i risultati specifici in una visione olistica e integrata della persona, genera una fortissima “specializzazione funzionale” (per dirla alla Luhmann) nella quale le diverse sfere si allontanano tra di loro e diventano sempre meno comunicanti. Il problema di fondo però è che ciascuna di esse ha sempre come oggetto l’uomo e, dunque, la ridotta comunicazione finisce per rendere impossibile la costruzione di una conoscenza che tenga conto, in maniera armonica, della sfera psicologica, sociologica ed economica. Esattamente come accade nel racconto veterotestamentario della torre di Babele, i costruttori della “torre della conoscenza” parlano diverse lingue e il progetto della torre (la visione integrata dell’uomo alla luce dei contributi dei diversi saperi specializzati) non riesce più ad essere portato avanti perché la cooperazione necessaria per costruire l’edificio e rendere armoniche e non contraddittorie le sue diverse parti, viene bloccata da questa carenza di comunicazione. Avendo constatato i limiti insiti nel procedere ognuno per proprio conto, la necessità di integrare le diverse discipline

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per evitare risultati contradditori e architetture insostenibili viene oggi riassunta nella “teoria della complessità” che riconosce, inevitabilmente, come le ipotesi di partenza e i risultati dei modelli delle diverse discipline non possono essere sviluppati separatamente ma devono necessariamente, per dire qualcosa di sensato sull’uomo, integrarsi con i risultati delle altre discipline sorelle. Nella seconda parte del libro proponiamo alcuni esempi di questi intrecci spesso trascurati, per rendere concreto e immediatamente fruibile questo concetto generale, partendo sempre dall’economia nei suoi pregi e limiti. Quello che l’economia insegna alle altre discipline (e che spesso queste discipline trascurano) è la consapevolezza dei vincoli e delle interdipendenze tra le varie azioni umane. Introducendo il concetto di costo-opportunità essa ricorda che, essendo la nostra azione vincolata nello spazio e nel tempo, ed essendo le risorse, monetarie e non, limitate, qualunque decisione o azione, seppur nobile, ha un costo perché implica l’indirizzo delle nostre energie in una direzione e quindi la sottrazione di tali energie da un’altra direzione che potrebbe essere altrettanto valida. In sostanza la mancata considerazione delle interdipendenze smaschera la presunta nobiltà di alcune azioni ideali che in realtà, sottraendo risorse da altre parti del sistema, possono mascherare la creazione di danni collaterali di ampie proporzioni in altre parti dello stesso. Dire, per esempio, che bisogna assicurare a tutti l’assistenza sanitaria gratuita senza alcun contributo legato al reddito implica la necessità di direzionare parte delle risorse monetarie scarse, dello stato o dei cittadini, in questa direzione sottraendole ad altre destinazioni che potrebbero essere altrettanto nobili (ad esempio, l’istruzione gratuita o le risorse per la famiglia). L’altro elemento fondamentale di realismo, introdotto dall’economia, è quello che il valore economico non è regalato ma va creato con la fatica del lavoro. Che la redistribuzione del

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valore è ovviamente attività fondamentale e, spesso, in grado di soddisfare in maniera visibile le esigenze di giustizia sociale, ma che le risorse per la stessa si realizzano nel momento della creazione di valore. Dunque i “mercanti” e i “chierici”, il profit e il no profit, sono due parti complementari dello stesso sistema. In questa prospettiva pertanto si va affermando la convinzione che l’azione in assoluto più meritoria è quella che agisce contemporaneamente in maniera positiva su pari opportunità, distribuzione e creazione di valore. Determinando in tal modo le condizioni per l’inclusione degli esclusi e per la loro reintegrazione nel tessuto produttivo, in modo tale da far sì che anch’essi possano creare valore beneficiando anche i vicini “non più produttivi”. In modo tale che l’esigenza di ridistribuire valore a chi non è in grado di crearlo diminuisca, liberando risorse per soddisfare nuovi beni e servizi sociali. È proprio in questa linea che si muovono, come vedremo, le nuove iniziative del microcredito e del commercio equo e solidale. Potendo dunque offrire questo contributo originale, l’economia ha, d’altra parte, molto da imparare dalle altre discipline sociali e dai loro progressi. Nata sulla base del paradigma del self interest, ha costruito un homo oeconomicus che agisce isolatamente, massimizzando spesso solo il volume dei beni e servizi consumati e che, seguendo un principio di autointeresse individuale che non tiene conto delle interdipendenze sociali e psicologiche, finisce per essere miope e non lungimirante. Il difetto più grave dell’homo oeconomicus è quello di avere una funzione di utilità o felicità che non dipende in alcun modo dal patrimonio o dalla qualità delle relazioni che egli intesse con i propri simili, dunque una funzione di utilità che dipende direttamente dal volume e dalla qualità di beni e servizi consumati, ma non del contesto sociale nel quale l’azione di consumo si sviluppa. Una disciplina che sviluppa il concetto di persona lungo questa unica dimensione gene-

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ra caricature di persona simili a quelle che Sen chiama i “folli razionali”. Essa ignora infatti che, oltre all’autointeresse (miope) esistono altre due molle fondamentali dell’agire umano che Sen chiama sympathy e commitment, ovvero la “(com)passione per l’altro” e l’impegno interiore a seguire certi comportamenti, perché coerenti con il proprio sistema di valori, anche se talvolta in contrasto con l’autointeresse “miope”. Il riduzionismo economicista trascura il fatto che l’antropologia e la psicologia hanno sviluppato in profondità una concezione di persona che, partendo dal supporto fondamentale dell’individua substantia rationalis di Agostino e Boezio, ha approfondito e colto come dimensione costitutiva e fondativa della persona medesima il suo essere portatore di relazioni. Ciò è parallelamente avvenuto nel pensiero cristiano (Mounier, Ricoeur) e nel pensiero ebraico (Levinas, Rosenzweig), che hanno contemporaneamente messo in luce come l’“io” si definisca e impari a conoscersi anche grazie allo sguardo di un “tu” che gli si pone di fronte e lo “accredita”. Approfondendo questa prospettiva della dimensione relazionale, le scienze sociali hanno parallelamente scoperto che, accanto allo scambio di equivalenti nel quale beni e servizi vengono corrisposti a fronte di una prestazione di valore corrispondente, un sentiero fondamentale delle relazioni umane, parallelo a quello dello scambio di equivalenti, è quello della gratuità, dello scambio di doni, della reciprocità nel quale gli individui offrono qualcosa senza contare in anticipo sulla sicurezza di un controvalore dimostrando in questa maniera la loro fiducia verso l’altro. Lo scambio di doni, con il suo approccio asimmetrico che rivoluziona il principio del do ut des, ha il pregio di “creare fiducia” e beni relazionali contribuendo alla costruzione di relazioni più ricche sulle quali è possibile intessere anche rapporti economici più fruttuosi. Il rapporto asimmetrico infatti, e l’apertura di credito che da esso scaturisce, ha il vantaggio di riconoscere subito l’interlocutore come persona

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e non come nemico con il quale negoziare. Maggiore la prossimità tra le controparti (stessa famiglia, stesso ambiente di lavoro), maggiore l’esigenza e l’importanza di fondare relazioni asimmetriche per aumentare il grado di coesione. La nostra chiave interpretativa fondamentale da questo punto di vista è che le relazioni sono un tesoro di per sé (ci rendono più felici indipendentemente dai loro effetti economici), ma anche una fonte “energetica” fondamentale e trascurata della vita economica. Paradossalmente più sono perseguite in maniera non strumentale e più diventano ricche di contenuti e in grado di innestare, in presenza di elevati livelli di fiducia, relazioni economiche fruttuose e produttive. L’altra pietra miliare spesso ignorata dalla prospettiva dell’homo oeconomicus è quella delle motivazioni intrinseche. È la psicologia che in questo caso ha approfondito e sviluppato questa tematica e la offre come contributo prezioso alle scienze e alle politiche economiche, sempre alla ricerca di nuove ricette per aumentare la produttività e dunque la creazione di valore a parità di ore lavorate. L’approfondimento delle dinamiche interiori della persona ci consente in questo caso di cogliere la profonda sopravvalutazione degli incentivi monetari e la sottovalutazione delle motivazioni intrinseche come stimoli profondi all’agire produttivo del lavoratore. Nelle imprese moderne la creazione di valore non dipende tanto dalla quantità di ore lavorate da lavoratori manuali quanto piuttosto dalla capacità della dirigenza di mobilitare le motivazioni profonde e di avvicinare l’obiettivo aziendale alla motivazione ideale del lavoratore e della sua creatività. Per questo le imprese sanno che è importante occuparsi di etica aziendale e da tanto tempo cercano di occuparsene. Da questo punto di vista il libro, focalizzando l’attenzione sul tema apparentemente non collegato del volontariato, presenta un semplice ma significativo paradosso. Se esistono persone, come i volontari, i quali, avendo una fortissima mo-

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tivazione intrinseca, decidono di “lavorare per nulla”, ovvero di prestare la propria opera e di impegnare le proprie energie in un’attività non remunerata, è evidente che le motivazioni intrinseche sono un (parziale) sostituto della remunerazione e, dunque, una fonte preziosa di crescita di produttività per le imprese. Allontanandoci da questo estremo è in sostanza possibile per le imprese, se sono in grado di fare leva su queste motivazioni profonde, seguire la strada promettente della responsabilità sociale, che le consente di ottenere un maggiore impegno produttivo da parte dei lavoratori a parità di salario, piuttosto che aumentare il salario per cercare di sollecitare un maggior impegno produttivo dei medesimi. È difficile convincere i lettori che gli insegnamenti degli studi empirici sulla felicità e le integrazioni e le ricchezze che le altre discipline sociali possono oggi portare all’economia possano concretizzarsi nell’agire economico di lavoratori e imprese in competizione sui mercati e sottoposte alla dura legge di tale competizione. Che motivazioni intrinseche, qualità della vita relazionale, dinamiche asimmetriche come quelle del dono e della reciprocità possano uscire dall’alveo dell’elaborazione culturale e permeare veramente un tessuto economico rinnovato. La terza parte del volume ha proprio l’obiettivo di indicare che ciò è invece possibile. Essa sottolinea come questi segni di novità siano già all’opera in quella che generalmente definiamo l’«economia della responsabilità sociale» con risultati del tutto rispettabili e potenzialità ancora da realizzare. Dimostrando che le considerazioni sviluppate nelle due parti precedenti del libro non nascono dal pensiero astratto, ma dalle riflessioni scaturite da una serie di esperienze sul campo, nate sulla base di intuizioni di addetti ai lavori e ora sistematizzate in un pensiero economico che integra ed estende quello precedente. Per questo motivo partiamo dai dati di alcune indagini recenti che rilevano come la disponibilità a pagare per la maggior qualità sociale e ambientale del prodotto sia ormai un

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fenomeno assai diffuso, che segnala chiaramente l’emergere di una nuova consapevolezza nei cittadini (autointeressati in maniera lungimirante) del mondo globalizzato. Consapevolezza che nasce dalla constatazione che la globalizzazione ha aumentato le interdipendenze rendendo i “lontani” molto più prossimi e rendendo non più possibile il nostro benessere senza il loro. In questa prospettiva impegnarsi per la tutela dell’ambiente vuol dire anche creare le condizioni per migliorare la propria salute e il proprio ambiente vitale. Mentre acquistare prodotti socialmente responsabili vuol dire votare per un riequilibrio verso l’alto del divario di costo, tutele e dignità del lavoro tra Nord e Sud del mondo rendendosi conto che la miseria altrui mette in crisi le nostre tutele. Parallelamente a cittadini che dimostrano, attraverso le loro scelte, l’importanza di sympathy e commitment accanto al self interest, si sviluppa un nuovo modo di fare impresa. Non parliamo in questo caso soltanto delle imprese sociali di mercato, del mondo del no profit o del terzo settore, delle imprese cooperative, ma anche di tutte quelle imprese for profit che intuiscono l’importanza e la convenienza di aumentare il proprio grado di responsabilità sociale per almeno quattro motivi fondamentali: i) dare garanzie sull’affidabilità dei propri prodotti; ii) incontrare il favore dei consumatori socialmente responsabili; iii) minimizzare i rischi di controversie legali e di risarcimenti miliardari a seguito di comportamenti socialmente irresponsabili; iv) poter far leva sulle motivazioni profonde dei propri dipendenti aumentandone la produttività. In questa terza parte concentriamo, dunque, la nostra attenzione sul ruolo propulsivo delle “imprese sociali di mercato”, analizzando tre fenomeni fondamentali che hanno un effetto di lievito sull’intero sistema: il commercio equo e solida-

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le come esempio significativo delle potenzialità del consumo socialmente responsabile, la finanza etica e, con essa, il microcredito. Con il primo fenomeno una minoranza attiva di cittadini non mossi soltanto da interesse miope, ma anche – e soprattutto – da sympathy e commitment, comprende che lo strumento più efficace per trasformare la realtà economica è oggi proprio quello dei consumi e, attraverso i consumi, crea relazioni di lungo periodo con una fascia di esclusi del Sud del mondo promuovendone le chances di inclusione. La novità del metodo è dunque anche nella capacità di superare il tradizionale approccio filantropico di donazione pura nella quale chi dà fa bella figura e chi riceve rimane li dov’è senza possibilità di riscatto. Nella logica della reciprocità sposata dal commercio equo e solidale il dono esige una responsabilità di chi riceve e sollecita la sua capacità di “reciprocare” in qualche direzione, che non sia necessariamente quella del ricevente. Il nuovo modo di consumare fa comprendere che è in fondo normale, e rappresenta un’estensione e un completamento della democrazia economica, poter scegliere i prodotti non solo sulla base di qualità e prezzo, ma anche tenendo conto del loro valore sociale e ambientale. Offrendo nuove motivazioni ad un atto, quello del consumo, che ci dicono necessario per far funzionare il sistema, il cui valore viene spesso offuscato dal peso dell’opulenza, della sazietà e dal complesso di colpa causato dall’indigenza di chi non ha le nostre stesse possibilità, i consumatori socialmente responsabili diventano attivi promotori di una felicità economicamente sostenibile per loro stessi e per i produttori del Sud del mondo cui offrono la chance di inclusione. Anche la microfinanza si muove sulla stessa logica, soprattutto quando si rivolge alle fasce più povere di individui non bancabili, ovvero non in possesso delle garanzie patrimoniali necessarie per poter ottenere un prestito in banca. In

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questo caso l’elemento di dono, che si traduce in un minor costo della raccolta per gli istituti di microcredito, e dunque nella possibilità di praticare tassi più bassi, s’innesta ancora una volta sul principio di reciprocità e di responsabilità del ricevente, che non ottiene una elemosina ma un’apertura di fiducia che richiede allo stesso di ricambiare con la responsabilità del proprio comportamento economico e, dunque, con la capacità di restituire il prestito ricevuto. La relazione dunque non si esaurisce con una “dazione” unilaterale che mantiene la distanza tra il donatore e il ricevente, o in una “gratificazione” da parte del donatore per il solo fatto di essere stato prossimo a chi riceve e alla sua povertà senza essersi posto il problema di restaurare la sua dignità, offrendogli la possibilità di svolgere un ruolo all’interno della società. Il microcredito si fonda, essenzialmente, su una logica di reciprocità la quale si preoccupa innanzitutto di stabilire che la controparte della nostra azione di generosità non è un oggetto o uno strumento del nostro appagamento per l’aver compiuto una buona azione, ma un soggetto la cui dignità va promossa offrendo una possibilità concreta di mettersi in moto e di svolgere il proprio compito nella società. Il cammino percorso sino ad oggi ci consente di osservare come le utopie di ieri si siano trasformate in realizzazioni concrete, facendoci credere che le speranze odierne possano anch’esse compiersi.

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I. L’economia della felicità

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I. L’economia della felicità

«Se vuoi essere egoista, cerca di esserlo in maniera intelligente. Il modo stupido di essere egoisti è cercare la felicità solo per se stessi. Il modo intelligente di essere egoisti è lavorare per il benessere di altri».

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(Dalai Lama) «Non è il successo che fa la felicità; è la felicità che fa il successo». (Albert Schweitzer)

1. I nuovi studi sulla felicità: perché siamo tornati a occuparcene? La storia recente delle scienze sociali e, in particolare, della disciplina economica si caratterizza anche per una nuova e promettente rinascita degli studi sulle determinanti della felicità, che si ricollega ad un filone fondamentale della storia del pensiero economico risalente, oltre che ad Adam Smith, a Malthus (1798), Marshall (1890), Veblen (1899) e, più recentemente, a Dusenberry (1949) e Hirsch (1976), i quali, in vario modo, sostenevano che il compito più importante degli economisti era quello di trasformare un mezzo (la ricchezza) nel fine ultimo (la felicità) dell’esistenza umana. Due sono le principali obiezioni degli scettici di fronte a questo rinnovato interesse: i) cosa ci sarebbe di nuovo rispetto a quanto già affermato e riflettuto dagli storici del pensiero economico (nuovi studi non sono una riproposizione di temi e argomenti già sviluppati)? ii) Perché mai gli economisti dovrebbero occuparsi di argomenti del genere, uscendo da quelli che sono i loro tradizionali temi macro e microeconomici,

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Oltre l’homo oeconomicus

avventurandosi in un terreno pericoloso e di difficile valutazione empirica in quanto scarsamente misurabile? La risposta alla prima domanda è che la novità dei recenti studi sulla felicità sta nel fatto che, questa volta, non ci sono solo ipotesi “a tavolino”, argomentate in maniera più o meno rigorosa, ma c’è finalmente la possibilità di sottoporre tali ipotesi ad un’accurata verifica empirica grazie all’ampia offerta di indagini a mezzo intervista condotte in molti paesi e disponibili ai ricercatori di tutto il mondo. Tali dati provenienti da fonti diverse (World Value Survey, Eurobarometer, German Socioeconomic Panel, British Household Survey Panel) 1 misurano la soddisfazione di vita dichiarata dagli intervistati su campioni rappresentativi di popolazione di gran parte dei paesi del mondo assieme a tutta una serie di variabili tradizionali demografiche e di reddito. Con questa ricchezza informativa a disposizione è possibile dunque verificare l’effetto netto di diverse potenziali determinanti della felicità individuale in diversi paesi del mondo. La risposta alla seconda obiezione sugli studi della felicità (cosa centrano con l’economia?) è più articolata e complessa e ha importanti risvolti filosofici. La scienza economica ha, nel corso della sua storia, progressivamente ristretto il campo 1 La World Value Survey è descritta dettagliatamente di seguito, in questo capitolo. L’Eurobarometer è una “banca dati” attraverso la quale dal 1973, la Commissione Europea monitora l’evoluzione dell’opinione pubblica negli Stati Membri. L’indagine campionaria riguarda i temi principali della cittadinanza europea: allargamento, situazione sociale, salute, cultura, information technology, ambiente, Euro, difesa, ecc. Il German Socioeconomic Panel e il British Household Survey Panel sono database longitudinali (con osservazioni ripetute nel tempo), raccolte per un campione molto ampio di individui e famiglie rispettivamente tedesche e inglesi. Le diverse indagini hanno misurato nel tempo la variazione dei nuclei familiari, dell’occupazione, del reddito, della ricchezza e i fenomeni di migrazione regionale e internazionale dei lavoratori censiti. La banca dati contiene anche informazioni su istruzione, salute, uso del tempo libero, soddisfazione di vita e valori dichiarati dagli individui.

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I. L’economia della felicità

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d’indagine finendo per essere dominata da un riduzionismo “positivista” che l’ha indotta a occuparsi soltanto di ciò che si poteva misurare rigorosamente (con il problema di non capire più le connessioni tra il misurato e il non misurabile). Spingendo all’estremo la prospettiva riduzionista e positivista, che ritiene metodologicamente corretto lavorare soltanto sulle scelte osservabili degli individui, si può finire per esserne talmente influenzati da ritenere che esistano veramente solo le cose che si possono misurare e verificare empiricamente. I massimi eccessi del positivismo, che diventa filosofia di vita, rischiano dunque di tagliare fuori dalle cose che contano (che poi sarebbero quelle che si possono contare…) tutto ciò (sentimenti, morale, aspirazioni) che appare di difficile misurabilità, facendo quasi coincidere la non misurabilità con l’irrilevanza o l’inesistenza di un fenomeno. È interessante rilevare come questo approccio filosofico abbia progressivamente distorto il senso stesso del concetto di mistero. Per gli antichi il mistero aveva un significato molto simile a quello del simbolo, dal vocabolo greco symbolon, il cui significato si comprende alla luce del verbo greco symballo che significa mettere assieme due cose 2. L’uso del termine simbolo per spiegare il concetto di mistero stava dunque a significare che lo stesso è un qualcosa formato da due parti, una visibile ed una invisibile, un iceberg con una parte emersa ed una sommersa, nel suo complesso dunque una realtà comunque tangibile di cui però non siamo in grado di definire gli esatti confini. Per fare un esempio concreto, per gli antichi il mondo era un mistero per il fatto che non si conoscevano gli esatti confini e conformazione delle terre emerse, ma non per questo il 2 Il termine – e il suo analogo latino sacramentum – veniva usato originariamente per indicare il ricongiungimento delle due parti spezzate di un’unica tavoletta che veniva utilizzato dai due contraenti di un contratto per la garanzia dell’identifica delle controparti.

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mondo non era qualcosa di chiaramente tangibile ed esistente. Oggi il mistero è al contrario quasi sinonimo di favola o di fantasia inventata. Famosa è la storiella del tale che ha perso la chiave di casa percorrendo una lunga strada completamente buia, ad eccezione di un piccolissimo tratto illuminato dalla luce di un lampione acceso. Un’altro passa e vede che colui che ha smarrito la chiave concentra le sue attenzioni proprio nel piccolo tratto illuminato e gli chiede: “Perché cerchi solo in quella zona?”; la risposta è: “Perché solo lì c’è luce”. Parafrasando ed esprimendo un concetto analogo, Einstein disse una volta che si passa molto tempo a contare le cose che non contano e che le cose che contano veramente non si possono contare. Tornando all’uomo e al lampione, i nuovi dati sulla felicità ci consentono di scrivere una seconda puntata di questa storiella. Possiamo dire che oggi c’è una tenue luce all’orizzonte che ci consente di guardare oltre la luce del lampione. E che le immagini, forse sfocate, di ciò che si estende oltre l’alone di luce del lampione ci danno sicuramente una visione del mondo migliore di quella ristretta, fornita dalle immagini più luminose che possiamo osservare sotto il lampione stesso. Tornando ad Einstein possiamo forse dire che oggi le cose che contano iniziano a poter essere contate. Dalle risposte alle prime due obiezioni di coloro che sono scettici, relativamente all’attendibilità di tali studi, nasce immediatamente una terza obiezione: l’esistenza e la disponibilità delle nuove informazioni sulla felicità individuale non implica necessariamente di per sé che tali informazioni siano da considerare affidabili e possano dunque essere utilizzate per ottenere evidenze credibili sulle determinanti della soddisfazione di vita degli individui. Il dubbio inevitabile del ricercatore scrupoloso è quello relativo alla presenza delle molte possibili distorsioni derivanti dal mezzo utilizzato (l’intervista) e dal tema oggetto di ri-

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sposta (un tema così delicato e soggetto ad influenze culturali come quello della felicità). Quanto possiamo ritenere attendibili le dichiarazioni soggettive di felicità? Ci vengono in soccorso, da questo punto di vista, i risultati di alcuni lavori effettuati in medicina che riscontrano una relazione robusta e significativa tra dichiarazione di felicità e benessere psicofisico, con particolare riferimento alle malattie cardiovascolari e alle risposte di stress (Mayman and Manis, 1993), all’attitudine al sorriso (Pavot, 1991; Ekman et al., 1990), ai problemi legati al sistema ormonale e all’attitudine a commettere suicidio (Koivumaa et al., 2001). Emblematico in questa prospettiva anche il contributo di un pionieristico lavoro di ricerca sui diari di un campione di suore americane 3. Le suore, sulla base della lettura dei loro scritti, vengono divise in due gruppi. Il primo composto da coloro che rivelano un atteggiamento positivo e soddisfazione per la propria attività. Il secondo formato da quelle che esprimono un sentimento opposto. Lo studio dimostra che, a distanza di molti anni, la durata media di vita delle suore appartenenti al primo gruppo è stata di sei anni e mezzo superiore a quella del secondo. Evidenze come questa ci suggeriscono dunque che dovremmo prendere piuttosto sul serio queste dichiarazioni di felicità, viste le loro conseguenze sulla vita dei dichiaranti. In fondo stabilire se si è felici o meno è una valutazione del tutto soggettiva nei confronti della quale nessuno può dimostrare con esattezza se l’affermazione sia falsa o vera. La correlazione con lo stato di benessere psicofisico degli intervistati ci conferma però che tale dichiarazione ha conseguenze rilevanti nella vita degli individui. Qualunque siano le differenze nel3

Post S.G. (2005), Altruism, Happiness, and Health: It’s Good to Be Good, in «International Journal of Behavioral medicine», vol. 12, n. 2, pp. 66-77.

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le concezioni di ciò che diversi individui chiamano con la stessa parola (felicità) in diverse lingue, il fatto che questo concetto abbia ripercussioni positive e non trascurabili sulle loro vite ci invita a prenderlo sul serio. Con questa rinnovata fiducia nei dati relativi alla felicità possiamo dunque accingerci a valutare le conclusioni di questi anni di lavori empirici sul tema illustrando qualche dato interessante proveniente dalla fonte, forse più autorevole, in materia di confronti tra diversi paesi, quella dell’Indagine Mondiale sui Valori (World Value Survey). L’Indagine Mondiale sui Valori si propone di misurare il cambiamento politico e culturale nelle diverse aree del mondo. Il progetto, che coinvolge università di diversi paesi, è partito più di vent’anni fa con la realizzazione di indagini campionarie in più di 65 paesi che, nei sei continenti, rappresentano nel loro insieme almeno l’80 percento della popolazione mondiale. Il primo esempio di indagini di questo tipo è stato cronologicamente l’indagine europea sui valori realizzata nel 1981. La prima indagine su scala mondiale è stata completata nel biennio 19901991, una terza indagine è stata realizzata nel periodo 19951996 e una quarta negli anni 1999-2001. Le indagini campionarie a livello paese si basano su campionamento stratificato a più stadi sull’universo dei cittadini con più di 18 anni. Ogni studio contiene informazioni raccolte a mezzo intervista su campioni che vanno da 300 a 4000 individui intervistati in ciascun paese. La Figura 1. 1 illustra chiaramente come, nonostante il tentativo di coprire tutti i paesi del mondo, alcune aree siano fortemente rappresentate (Europa) e altre (Africa subsahariana) molto meno. In genere, dunque, tra i paesi non ad alto reddito, la quota di paesi emergenti è di gran lunga superiore ai paesi più poveri e altamente indebitati. Il limite di questa indagine è quello di non avere serie storiche sulle risposte degli stessi individui. Questo limite rende molto difficile stabilire nessi di causalità tra determinanti del-

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la felicità e la felicità stessa. Altre indagini sviluppate in singoli paesi per periodi ripetuti come il German Socioeconomic Panel e il British Household Survey Panel vengono utilizzate dagli studiosi per ovviare a questo problema. Sulla base di queste diverse e sempre più numerose fonti d’informazione disponibili, i vari studi empirici a disposizione si concentrano sugli effetti di alcune variabili ritenute fondamentali sulla felicità: l’istruzione, la salute, la ricchezza, la qualità dei rapporti relazionali e delle proprie relazioni affettive, gli shock economici come l’inflazione o la disoccupazione. Sullo sfondo un paradosso che questi studi cercano in qualche modo di spiegare. Quello del gap tra paesi ricchi e paesi poveri che, da sostanziale e ampio – se misurato in termini di reddito pro capite e indicatori sociali di sviluppo –, diventa quasi nullo quando si effettuano confronti di felicità tra diversi paesi. Ciò implica che la famosa convergenza in termini di reddito pro capite, traguardo così difficile da realizzare perché condizionato al progresso su una serie di fattori cruciali per lo sviluppo economico (istruzione, qualità istituzionale, capitale fisico, ecc.), sembra essere molto più vicina quando guardiamo ai livelli di felicità individuale. Pur tenendo conto degli enormi limiti di confronti su risposte date da persone appartenenti a diverse culture su questo tema, sapendo che solo alcuni di questi limiti sono superabili grazie all’adozione di tecniche di valutazione più sofisticata, permane la ragionevole consapevolezza che il paradosso esiste veramente anche se la sua esatta dimensione è difficile da valutare.

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2. Il rapporto tra reddito e felicità

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«Mill wrote: “Men do not desire to be rich, but to be richer than other men”». (Mill ha scritto: Gli uomini non desiderano essere ricchi, quanto piuttosto essere più ricchi di altri uomini). (Pigou - 1920)

Nel riflettere sul rapporto tra reddito e felicità personale non possiamo non partire da un dato di fatto in parte scontato e dimostrato da numerosi studi: il reddito ha un impatto diretto positivo sulla felicità individuale (Easterlin, 1995, 2000; Frey - Stutzer, 2000; Di Tella - MacCulloch - Oswald A., 2000). Ciò soprattutto per il fatto che il denaro è fondo di valore (o mezzo attraverso cui il valore si trasferisce nel tempo) e mezzo di scambio con il quale si possono acquistare svariati beni. Quest’ultima caratteristica riduce la possibilità che per il denaro valga la legge dell’utilità marginale decrescente, tipicamente applicabile a tutti gli altri beni (con alcune eccezioni qualificate quali quelle dei “beni relazionali” di cui parleremo più avanti). Secondo tale legge tendiamo progressivamente a dare minor valore a unità successive del medesimo bene materiale, fino ad arrivare ad un punto di saturazione oltre il quale il valore di una unità aggiuntiva diventa negativo. Ciò non accade per il denaro in quanto esso può essere utilizzato per acquistare beni diversissimi e, dunque, una maggiore quantità dello stesso apre alla possibilità di godere di nuovi e diversi beni, senza portare rapidamente al punto di sazietà e di saturazione associato tipicamente al consumo di quantità successive dello stesso bene. È evidente, inoltre, che la capacità economica individuale e le risorse economiche a disposizione di un paese aumentano le possibilità di fruizione di molti beni non monetari quali la salute, l’istruzione e gli stessi beni culturali e artistici. Insomma, ad interlocutori affascinati da derive pauperiste che

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sottolineano come il denaro non sia importante per la felicità, e quindi svalutano l’importanza sociale della creazione di valore economico, è sempre possibile obiettare chiedendo se ci tengono ad avere istruzione semigratuita o sussidiata dallo stato per i loro figli, attrezzature mediche adeguate negli ospedali e costi contenuti o completamente coperti in caso di ricovero. Ricordando dunque che la creazione di valore economico è presupposto ineludibile per la successiva disponibilità e diffusione di gran parte dei beni e servizi sociali. Detto ciò non è possibile non rendersi conto di alcuni paradossi ed effetti indiretti negativi della prosperità economica che solo gli studi sulla felicità riescono a fare emergere appieno. In primo luogo, se confrontiamo il livello di felicità tra paesi, ci accorgiamo subito “a naso” che il divario in termini di reddito pro capite tra Nord e Sud del mondo è assai più contenuto (se non inesistente) in termini di misurazioni di felicità collettiva. I dati a nostra disposizione elaborati dalla World Value Survey sottolineano come, su 112.832 individui intervistati, la quota di coloro che si dichiarano “veramente felici” nei paesi OCSE ad alto reddito è del 32, 8 percento contro il 24, 87 percento degli individui nei restanti paesi (Tabella 1. 1). Si tratta di una differenza in fondo non particolarmente marcata. Se guardiamo ai dati che emergono dalla domanda sulla “soddisfazione di vita”, per la quale è possibile esprimere un valore su di una scala da uno a dieci, troviamo che gli individui pienamente soddisfatti (quelli che rispondono con un valore di 10) sono il 15, 84 percento degli intervistati nei paesi OCSE ad alto reddito e una percentuale di poco minore (il 13, 47 percento) negli altri paesi oggetto di indagine (Tabella 1. 2). Le differenze dunque ci sono ma appaiono, soprattutto in questo secondo caso, assai più contenute di quanto implicherebbe una relazione lineare tra reddito e felicità. Ovviamente il confronto su dichiarazioni relative a valori cardinali di variabili altamente soggettive (come la felicità o la

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soddisfazione di vita dichiarata), e fortemente influenzate da fattori culturali tra diversi paesi, è quanto di più rischioso e aleatorio. Un’indicazione sicuramente più rilevante, che supera il problema delle differenze culturali tra diversi paesi, è quella dell’analisi del rapporto tra reddito e felicità all’interno dello stesso paese. In questo caso, i risultati classici della letteratura a livello internazionale evidenziano una relazione positiva ma non lineare, ovvero aumenti di soddisfazione di vita via via decrescenti al crescere del reddito percepito. In altri termini un conto è l’effetto di passare dalla classe del 10 percento dei più poveri (primo decile) a quella tra il 10 e il 20 percento dei più poveri (secondo decile), e un conto passare da quella tra il venti e il 10 percento dei più ricchi (nono decile) a quella al di sopra del 10 percento dei più ricchi (decimo decile). La legge del beneficio decrescente ci suggerisce che l’effetto sulla felicità della prima variazione è ben superiore a quello della seconda. In alcuni frangenti però la discontinuità è accompagnata anche da visibili riduzioni di felicità al passaggio da una classe inferiore ad una superiore di reddito. È il caso, ad esempio, dei dati sull’Italia dove, paradossalmente, il dieci percento degli individui più ricchi della popolazione all’interno del campione della World Value Survey si dichiara in media meno felice del dieci percento della popolazione che si trova nell’ottavo decile della scala del reddito pro capite (Figura 1. 2). Questo rapporto tra felicità e ricchezza all’interno di un singolo paese fa dunque emergere le prime evidenze dei limiti dell’impatto del reddito sulla felicità. Un altro modo di enucleare questo paradosso viene da una recente indagine sviluppata in un progetto della Banca Mondiale sulle variazioni di reddito e soddisfazione di vita in un campione rappresentativo di individui in Perù. Lo studio suddivide gli individui del campione in base alle variazioni (positive o negative) di reddito e di soddisfazione di vita iden-

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tificando pertanto quattro gruppi. L’attenzione dello studio si concentra poi su un gruppo in particolare, quello dei frustrated achievers 4 (che potremmo tradurre liberamente “vincenti frustrati”), ovvero di quegli individui del campione che presentano contemporaneamente variazioni positive del reddito e variazioni negative della soddisfazione di vita. La difficoltà nello spiegare le determinanti dell’appartenenza a questo gruppo da parte degli economisti tradizionali rivela i seri limiti del paradigma dell’homo oeconomicus nella sua versione più riduzionista, quella dell’individuo isolato che massimizza il proprio grado di utilità, a sua volta determinato dal volume di beni e servizi acquistabili, pesati per le preferenze relative. Se il progresso economico è avvenuto parallelamente a un impoverimento di altri fattori importanti per la felicità individuale, il paradosso dei frustrated achievers può essere in realtà facilmente compreso. Molto più difficile capirlo se la felicità umana viene definita monodimensionalmente sulla base dell’utile economico. Alcune interpretazioni interessanti del paradosso emergono dall’ipotesi che un aumento di reddito può portare l’individuo all’interno di un nuovo gruppo di riferimento nel quale la sua posizione di reddito relativo è, in realtà, peggiorata o può ridurre la qualità dei suoi beni relazionali. Una ricerca di Ed e Robert Diener 5 dimostra paradossalmente come le vincite di lotteria portino nel medio periodo, dopo un effetto positivo di breve sicuramente positivo, ad una riduzione e non un aumen4 Sul tema dei frustrated achievers vedasi Graham C.L. (2003), Frustrated Achievers in Peru, Again?, in «Lecture», World Bank Project on Moving out of Poverty, december 9; e la bella rassegna di Graham C.L. - Pettinato S. (2005), Frustrated achievers: winners, losers and subjective well being in new market economies, in «Center on Social and Economic Dynamics Working Paper», 21, «The Brookings Institution», january 2001. 5 Diener E. - Biswas-Diener R., Income and Subjective Well-Being: Will Money Make Us Happy?, mimeo, Department of Psychology, University of Illinois, December 1999.

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to della felicità. L’interpretazione è che l’aumento del reddito induca ad un mutamento di tenore di vita e all’inserimento in una cerchia sociale nella quale la qualità della vita relazionale sia in realtà più povera di quella precedente. Come vedremo anche nel seguito del capitolo, dunque, se si abbandona questa visione angusta e poco rappresentativa della complessità dell’animo umano, si trovano molte possibili spiegazioni del paradosso del rapporto tra reddito e felicità a partire da alcune teorie tradizionali sviluppate nel tempo dagli economisti e dagli psicologi.

2. 1. Tenere il passo dei Jones (e di tutti i lontani che la globalizzazione rende “vicini”) Una prima interpretazione tradizionale del paradosso ricchezza-felicità fa leva sulla differenza tra reddito assoluto e reddito relativo, sottolineando come il secondo abbia effetti significativamente maggiori del primo sulla felicità individuale. Se ci pensiamo un attimo la cosa appare del tutto ragionevole. Se fosse vero il contrario, per i progressi economici realizzati dall’età della pietra ad oggi, dovremmo scoppiare di felicità mentre in realtà, anche se è impossibile misurarlo, le differenze di felicità tra l’uomo contemporaneo e quello di epoche lontane non dovrebbero essere così rilevanti. L’ipotesi che un individuo non valuti la propria posizione rispetto alla distribuzione assoluta dei valori della popolazione nazionale, o addirittura mondiale, è comunemente adottata in sociologia dove si sottolinea il ruolo cruciale rivestito dal gruppo di riferimento. In altre parole esiste un sottoinsieme di individui della popolazione nazionale o mondiale, rappresentato da quelle persone con le quali più direttamente l’individuo si confronta ogni giorno (amici, colleghi di lavoro, parenti stretti o, in una sfera più allargata, tutti i cittadini del proprio paese)

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ed è la differenza tra i propri livelli di reddito e il livello medio di tale variabile per questo gruppo di riferimento, a contare veramente per l’individuo. Gli economisti sviluppano fondamentalmente lo stesso concetto parlando di reddito come “bene posizionale” (Hirsch, 1976) e analizzando le “esternalità” negative che la crescita di reddito di un individuo può determinare su altri membri del proprio gruppo di riferimento. Il classico motto che illustra questo concetto è quello del keep up with Jones, ovvero del tenere il passo dei vicini di casa (i Jones appunto) rischiando di rimanere frustrati nel momenti in cui i vicini sperimentano una crescita dei loro consumi. È evidente che, se estendiamo questo concetto, l’individuo di uno sperduto villaggio africano, con tenore di vita appena superiore alla media del villaggio, dovrebbe sperimentare lo stesso impatto del reddito relativo sulla felicità di un cittadino di un paese europeo o americano che si trova nella stessa posizione relativa all’interno del suo gruppo di riferimento. E, paradossalmente, una politica economica che aumentasse il reddito pro capite di un intero paese senza modificare le posizioni relative tra gli individui, avrebbe un effetto neutrale sulla felicità collettiva. Se riflettiamo bene, il fatto nuovo della globalizzazione, con il conseguente “crollo della distanza” e della velocità di trasmissione di tutti quei beni e servizi immateriali come immagini, suoni e dati da una parte all’altra del pianeta, ha in questo contesto il paradossale effetto di modificare e ampliare notevolmente il nostro “gruppo di riferimento”. Se prima dunque erano soltanto i vicini di casa, i colleghi di lavoro o gli altri componenti del piccolo villaggio che fungevano da gruppo di riferimento, oggi il confronto avviene con individui molto più lontani resi “prossimi” dai mezzi di comunicazione di massa. Questo spiega alcuni risultati apparentemente paradossali relativi agli effetti del reddito sulla felicità. In un recente lavoro su un campione di individui della ex Germania Orientale,

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Stutzer (2005) 6 osserva un significativo declino della felicità collettiva. L’autore spiega questo risultato sulla base della crescita del gap tra reddito desiderato e reddito percepito tra i cittadini di questo paese. In altri termini, con il crollo del muro di Berlino, il peso dei cugini occidentali nel gruppo di riferimento per i tedeschi orientali è cresciuto significativamente allargando la forbice tra reddito desiderato e reddito percepito. Questi interessanti risultati confermano l’intuizione, geniale e divertente, di film come Good Bye Lenin dove la protagonista è un’anziana signora ammalata di cuore nel periodo immediatamente successivo al crollo del muro. Il figlio della signora, temendo che il terremoto del cambiamento (e possibili riduzioni di felicità per i meccanismi precedentemente illustrati) potessero avere conseguenze fatali in una persona così cagionevole e legata ad abitudini routinarie consolidate da anni, decide di nasconderle la realtà evitando accuratamente ogni contatto con il mondo esterno, o meglio coinvolgendo tutti gli amici e vicini in una recita nella quale si finge che nulla è cambiato. Un’interpretazione diversa ma, per certi versi, simile a quella sinora descritta è sviluppata da Easterlin (2001). L’autore sostiene che ciò che conta nella determinazione della felicità non è il livello di realizzazione (nel nostro caso di reddito) raggiunto, quanto piuttosto il gap tra livello realizzato e aspirazioni. Se ogni nuova conquista realizzata alza l’asticella delle nostre aspettative, è evidente che l’effetto positivo di livelli superiori di reddito raggiunti sulla felicità individuale può essere del tutto o parzialmente vanificato. La conseguenza paradossale dal punto di vista analitico di questa relazione tra attese e realizzazioni è che la tradizionale funzione di utilità, che definisce una legge univoca che lega livelli di reddito e 6 Stutzer

A. (2005), Income Aspirations, Subjective Well-Being and Labor Supply. Paper presented at the 2nd Workshop on Capabilities and Happiness, Università di Milano-Bicocca, 16-18 june 2005.

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livelli di soddisfazione individuale, resta valida se misurata in un dato istante di tempo. Essa però non può più essere considerata stabile in un orizzonte intertemporale in quanto la legge cambia a seconda dei livelli di reddito. Ciò accade perché le nuove conquiste modificano le aspirazioni, e dunque il grado di soddisfazione, abbassando la funzione di utilità in corrispondenza di medesimi livelli di reddito. Un tipico caso di rincorsa tra traguardi raggiunti e aspirazioni è quello della disoccupazione intellettuale. Giovani neolaureati sono spesso disposti ad assumere qualunque tipo di lavoro. La frequenza e il conseguimento di un master o di un dottorato aumenta significativamente la probabilità di trovare le opportunità occupazionali desiderate al momento della laurea ma, al contempo, alza significativamente il livello di aspettative e porta ad aspirare a un tipo diverso di professioni. Se queste professioni non sono raggiungibili la felicità, invece che aumentare, può ridursi. Questo esempio non significa ovviamente che non bisogna aspirare a mete più alte e conseguire traguardi intermedi necessari per raggiungerle, ma sottolinea soltanto alcuni paradossi che possono accadere durante il cammino…

2. 2. Il paradosso di Easterlin e i contadini keniani Una curiosa applicazione del paradosso di Easterlin emerge da un nostro recente studio sulle condizioni di vita di un campione di contadini keniani. In un’area nei pressi di Nairobi esiste una vasta popolazione contadina che beneficia dei frutti di un’infrastruttura irrigua realizzata dalla cooperazione italiana. Una parte di questi contadini sono membri di un’associazione di “primo livello”, Meru Herbs, che fornisce loro una serie di servizi e, attraverso essa, esportano una parte dei prodotti nei canali del commercio equo e solidale. Il commercio equo e solidale è

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una filiera commerciale che si propone di aumentare la quota di valore del prodotto finale percepita dai produttori di base al fine di avviare processi di sviluppo e di inclusione degli stessi nel mercato internazionale. Il nostro lavoro prende le mosse dal desiderio di valutare l’impatto del rapporto con il commercio equo e solidale su questi produttori marginalizzati. Per questo motivo abbiamo raccolto dati sul campo e studiato le caratteristiche socioeconomiche e la soddisfazione di vita dichiarata di un gruppo di un centinaio di produttori con diversa anzianità di rapporto con il commercio equo e solidale e confrontato tali indicatori con quelli rilevati per un gruppo di controllo di produttori localizzati nella stessa area, ma senza rapporti con lo stesso. Lo studio ha evidenziato risultati positivi e significativi per quanto riguarda l’effetto netto del rapporto con il commercio equo e solidale con una serie di indicatori (la qualità della dieta alimentare, la soddisfazione di vita, l’accesso al mercato e le condizioni di prezzo, l’opportunità di ricevere assistenza tecnica). La partecipazione alla filiera equo-solidale si è scoperta inoltre essere caratterizzata da una correlazione significativa e negativa con episodi di mortalità infantile 7. Ovviamente, per verificare la robustezza di tali risultati abbiamo introdotto una serie di variabili di controllo, anch’esse potenzialmente in grado di produrre effetti sugli indicatori socioeconomici che erano oggetto di osservazione. La sorpresa maggiore è stata quella di riscontrare un chiaro effetto negativo e significativo degli anni di scolarizzazione sulla felicità dichiarata. In un primo momento questo risultato

7 Vedasi Becchetti L. - Costantino M. (2005), Il commercio equo alla prova dei fatti; dalle preferenze dei consumatori all’impatto sui produttori del Sud del mondo; Mondadori B. - Becchetti L. - Costantino M., The effects of Fair Trade on marginalised producers: an impact analysis on Kenyan farmers, World Development, vol. 36, n. 5, pp. 823-842.

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ci ha lasciati veramente perplessi. Esso sembrava andare contro tutte le nostre “certezze” relative al ruolo dell’istruzione e a tutti i risultati della letteratura che indicano, a livello micro, come anni aggiuntivi di scolarizzazione aumentino in media i salari percepiti 8 e, a livello macro, come il capitale umano sia una delle determinanti fondamentali dei processi di sviluppo economico 9. Fino, appunto, ai risultati legati agli studi di Becker 10 che dimostrano come l’istruzione, oltre ad aumentare le capacità produttive, è un bene che aumenta benessere e felicità individuale di per sé, in quanto ci consente di fruire e di godere maggiormente della nostra vita e, ad esempio, dei beni artistici e culturali che consumiamo durante il nostro tempo libero. Approfondendo la riflessione sul dato e sulle possibili spiegazioni è stato via via evidente che il paradosso di Easterlin e la cosiddetta “distorsione da selezione” potevano rappresentare la spiegazione più plausibile di questo fenomeno apparentemente contraddittorio. In fondo il nostro campione non misurava in assoluto l’effetto di un aumento di istruzione sulla felicità di un campione rappresentativo di cittadini keniani, ma solamente quello di un aumento di istruzione su quel particolare sottoinsieme di contadini keniani che, pur avendo un maggiore tasso di scolarizzazione, erano rimasti in quella condizione professionale e non erano riusciti a migliorare il proprio status lavorativo. Mentre ovviamente non potevamo osservare e misurare le variazioni di felicità di coloro che, partendo da quella realtà, avevano potuto – grazie ad un aumento di scolarizzazione –, 8 Gli studi empirici a livello micro dimostrano che un anno aggiuntivo di scolarizzazione è associata – in media – con un premio tra il 5 e il 15 percento sui redditi percepiti in un vasto numero di paesi del mondo (Card, 1999; Psacharopoulos, 1994). 9 Si vedano, ad esempio, le rassegne sulle determinanti della crescita di Temple (1999) e di Durlauf e Quah (1998). 10 Becker G. - Becker G. (1997), The economics of life, McGraw-Hill, New York.

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crescere nel loro status professionale (anche in questo caso non è detto che l’effetto misurato sarebbe stato sempre e necessariamente positivo). Dunque appariva assai probabile che quel gruppo di produttori marginalizzati, attraverso una maggiore istruzione, avesse visto crescere il proprio livello di aspettative e che, a causa della permanenza nella condizione lavorativa, l’aumento del livello di aspettative legato ad una maggiore istruzione avesse avuto, a parità di altri fattori, l’impatto di ridurre la felicità dichiarata.

2. 3. Felicità e ore di televisione Tra le molteplici applicazioni il paradosso di Easterlin può aiutarci anche a comprendere il ruolo della televisione sulla felicità. Un lavoro di Bruni e Stanca (2006) 11 evidenzia proprio come, al netto di tutte le altre variabili rilevanti, le ore passate davanti alla televisione sono negativamente correlate con la felicità dichiarata. Gli autori, con le tradizionali tecniche delle “variabili strumentali”, cercano di dimostrare come il risultato da loro ottenuto metta in evidenza l’esistenza di una direzione di causalità che va dal tempo passato davanti alla TV verso la felicità dichiarata e non soltanto in senso contrario (individui per qualunque altra ragione meno felici passano più tempo davanti alla TV). La relazione causale che collega tempo trascorso davanti alla TV e felicità individuale dichiarata è spiegata da Layard (2005) 12, proprio attraverso il gap tra realizzazione e aspirazioni. La TV per le sue caratteristiche tende infatti a proporre modelli irraggiungibili in termi11 Bruni L. - Stanca L. (2006), Income Aspirations, Television and Happiness: Evidence from the World Values Surveys, mimeo. 12 Layard R. (2005a), Happiness: Lessons from a New Science, Penguin, New York.

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ni di reddito e di ricchezza, essendosi prevalentemente trasformata da strumento di indagine e di osservazione della realtà a vetrina di personaggi di successo. Man mano che le ore trascorse davanti alla televisione aumentano, il “lavaggio del cervello” avanza e l’asticella delle aspirazioni sale senza che neanche ce ne accorgiamo perché i nostri termini di paragone diventano le realizzazioni di quella ristretta cerchia di personaggi che in televisione appaiono più frequentemente. Diceva lucidamente Pasolini che la televisione è per principio radicalmente antiegualitaria in quanto genera, per definizione, una enorme asimmetria tra chi appare in video (il vero protagonista) e i teleutenti passivi (spettatori della vita altrui). Questo squilibrio può essere colmato in presenza di un atteggiamento di servizio nei confronti dei telespettatori da parte di chi va in onda. Sempre di più oggi è difficile riscontrare questo atteggiamento nei personaggi televisivi. Inoltre la televisione è un fedelissimo ripetitore di un modello culturale fortemente competitivo nel quale solo chi è in cima alla classifica (della ricchezza, del potere, della bellezza…) può veramente (e falsamente) dirsi felice. Questo schema è un’implicita condanna all’infelicità collettiva perché nessuno può restare permanentemente al comando in queste classifiche. Probabilmente la più impietosa delle tre è proprio quella della bellezza nella quale la legge del corpo condanna inesorabilmente pochi eletti a una breve permanenza nell’Olimpo, rimpianta ed inseguita negli anni a venire quanto più essa rappresenta l’unica risorsa e ragione di vita. In piccole dosi la televisione rappresenta, in fondo, un’espansione delle nostre libertà, delle nostre capabilities, ma in grandi dosi gli elementi sopra descritti finiscono per prevalere… e la felicità dichiarata, al crescere delle ore passate davanti alla TV, diminuisce…

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2. 4. Sazi e disperati? La lezione di Scitovsky sul rapporto tra comfort e stimoli Un terzo tradizionale filone interpretativo del paradosso reddito-ricchezza proviene dalla nota riflessione di Scitowsky sul rapporto tra comfort e stimulation che schematizzeremo brevemente. Secondo questa interpretazione esistono due tipi di beni con diverso effetto sulla felicità individuale. Una prima categoria di essi, alla quale appartengono molti dei beni materiali che è possibile acquisire grazie alla maggiore disponibilità di reddito, tendono a produrre comfort, ma il maggiore comfort ha l’effetto negativo di ridurre gli stimoli al perseguimento di una seconda categoria di beni con effetti più duraturi e stabili sulla felicità individuale, ovvero, i cosiddetti beni “ardui” che richiedono, per essere raggiunti, un investimento e uno sforzo costoso (un semplice ma caratteristico esempio di bene arduo è la passeggiata in montagna). Al crescere del reddito dunque, aumenta il comfort ma si riducono gli stimoli al conseguimento di beni ardui che però possono contribuire significativamente alla nostra felicità. Maggiore la disponibilità e la varietà di distrazioni a disposizione, minore la propensione ad impegnarsi in avventure faticose e difficili ma che possono portare a risultati importanti in termini di soddisfazione di vita. In altri termini l’enorme crescita della varietà delle possibilità di gratificazione immediata nella società contemporanea aumenta il costo opportunità (ciò a cui si rinuncia) nel momento in cui si intende perseguire una meta più difficile che richiede sforzo e sacrificio. La crescente difficoltà ad anteporre una gratificazione immediata ma passeggera allo sforzo che prepara una soddisfazione differita e meno effimera, e quindi l’allontanamento da quel percorso di vita che ha determinato il successo di civiltà e culture nel tempo, sembra testimoniata dall’enorme crescita dell’importanza delle emozioni in molte sfere del vivere, dalla diffusione della droga (che non è altro che

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incapacità di differire il principio del piacere o di anteporre beni ardui a gratificazioni immediate ed effimere) e dalla sempre maggiore difficoltà a prendere decisioni definitive. Questo principio della contrapposizione tra comfort e stimulation contribuisce probabilmente a spiegare il fenomeno recente della fuga dei giovani dalle facoltà scientifiche nel nostro paese. Quanto le nuove generazioni più ricche sono disposte a fare quei sacrifici necessari per una realizzazione più piena di vita?

3. Felicità e vita di relazioni: alcuni paradossi introduttivi In un’epoca nella quale siamo afflitti dalla piaga del “riduzionismo” nelle diverse discipline del pensiero umano, iperspecializzate e scarsamente comunicanti, gli “scienziati” più lungimiranti sono quelli che riescono a creare ponti tra saperi diversi, attenuando il drammatico effetto: “Torre di Babele” che caratterizza il sapere moderno. Evitando, in questo modo, le aberrazioni che si determinano quando discipline diverse producono suggerimenti e proposte perfettamente coerenti all’interno della logica tipica della loro disciplina, ma devastanti e assolutamente contraddittorie se incrociate con le esigenze che scaturiscono dai legittimi punti di vista di altre discipline che si concentrano su altri spicchi della realtà e partono da visioni diverse della persona. In questo ambito uno dei problemi fondamentali della scienza economica, nella definizione di ciò che conta nelle preferenze degli individui, è quello di concentrare la propria attenzione su quantità e qualità intrinseca dei beni e servizi consumati. Dando allo stesso tempo assai poca importanza alle “condizioni di contorno”, ovvero alle circostanze nelle quali beni e servizi vengono consumati, circostanze che invece spesso fanno la differenza. Il premio Nobel Kanheman, psicologo ed eco-

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nomista, in posizione privilegiata per costruire ponti tra diversi saperi, ironizza su questo punto chiedendo spesso nelle conferenze al proprio pubblico se sia meglio per marito e moglie litigare in una Mercedes o in una macchina di media cilindrata. Per gli economisti non c’è dubbio che quello che conta è la qualità del bene consumato (dunque meglio in Mercedes); per la gente normale ciò che conta veramente è la “condizione di contorno” (la gravità del conflitto tra i coniugi). Tra le “condizioni di contorno” più rilevanti per la felicità individuale – che gli economisti non riescono a catturare con i loro strumenti tradizionali – ci sono proprio i cosiddetti “beni relazionali”. L’homo oeconomicus (alla base di gran parte dei modelli degli economisti), infatti, realizza se stesso soddisfacendo le proprie preferenze e massimizzando il volume di beni e servizi consumati in uno splendido isolamento. La concezione dell’homo oeconomicus è dunque in palese contrasto con tutti gli studi filosofici più recenti sulla definizione di persona. È una concezione rimasta a Boezio (individua substantia rationalis), che ignora completamente i contributi moderni di filosofi delle più diverse estrazioni, laiche o confessionali – da Buber e Levinas, da Mounier a Ricoeur 13 – i quali stabiliscono che l’essenza e l’identità profonda dell’individuo è nella relazione e nel “dono reciprocato”. La svolta del pensiero antropologico è collegata alla filosofia esistenzialista che traspare lucidamente da questa citazione di Mounier: «Il problema del13 Mounier E., Introduction aux Esistentialismes (1947); tr. it. (1981), Gli esistenzialismi, con nota storico-filosofica di A. Lamacchia, Ecumenica, Bari, p. 102. Cf. Casper B. (1967), Das dialogische Denken. Franz Rosenzweig, Ferdinand Ebner, Martin Buber, Herder, Freiburg; Baccarini E., Dialogisches Denken. Un capitolo della filosofia tedesca del Novecento, in AA.VV., Soggetto e persona. Ricerche sull’autenticità dell’esperienza morale, a cura di A. Rigobello, Anicia, Roma 1988, pp. 69-96; AA.VV. (1990), La filosofia del dialogo: da Buber a Lévinas, Atti del Seminario di studio 15/19 novembre 1989, a cura di M. Martini, Pro Civitate Christiana, Assisi 1990.

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l’altro è una delle grandi conquiste della filosofia esistenziale. La filosofia classica lo lasciava in uno strano abbandono. Passati in rassegna i suoi problemi di primo piano: la conoscenza, il mondo esterno, l’io, l’anima e il corpo, la materia, lo spirito, Dio, la vita futura; il rapporto con gli altri non figura mai sullo stesso piano degli altri problemi. L’esistenzialismo d’un sol colpo l’ha promosso al posto principale» 14. Dunque i beni relazionali non sono affatto condizioni di contorno trascurabili ma l’essenza stessa della nostra identità o ciò che la caratterizza in maniera sostanziale. Gli strumenti tradizionali dell’economista sono assai poveri e non in grado di catturare questo aspetto fondamentale. Per fare un semplice esempio, secondo il modello standard insegnato in tutti i libri di testo, appare del tutto incomprensibile che un individuo preferisca mangiare una pizza al ristorante con gli amici piuttosto che da solo, quello che conta è soltanto il gusto della pizza, il suo prezzo e quanto essa si confà alle proprie preferenze. Sono ben chiare, tornando all’esempio dei frustrated achievers dello studio della Banca Mondiale sul rapporto tra sviluppo e soddisfazione di vita in Perù, le perplessità di chi ha condotto quello studio e la difficoltà di spiegare l’atteggiamento di questo gruppo di persone, totalmente incomprensibile se valutato sulla base dell’approccio tradizionale. L’interpretazione del paradosso dei frustrated achievers diventa, invece, semplice per l’uomo della strada per il quale la crescita del reddito accompagnata, però, da un impoverimento dei beni relazionali (senza indagare per il momento sulla consonanza tra tipo di lavoro svolto e aspirazioni profonde dell’individuo oggetto di osservazione) può facilmente generare quella riduzione di felicità registrata assieme al progresso economico realizzato.

14 In Cicchese G., Alterità e trascendenza. Una prospettiva antropologica, mimeo.

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Un altro economista illuminato, George Akerlof, anche lui a cavallo tra due saperi – quello economico e quello sociologico –, si divertiva, in una prolusione ad una conferenza europea di economisti, a mettere in luce il paradosso, raccontando la storia e gli effetti inattesi di un programma di borse di studio elargite, per aiutare alcuni membri della popolazione di colore di un ghetto americano ad uscire dalla povertà. Il programma aveva individuato con successo la persona più meritevole, assegnato la borsa di studio e consentito dunque al vincitore di recarsi in una prestigiosa università americana, lontana dal luogo in cui era cresciuto, per avviare un importante ciclo di studi. Il progetto però ad un certo punto si era concluso tragicamente con il suicidio del borsista. Con questo esempio non si vuole certo esasperare e generalizzare, ma ad un sociologo, appare evidente che per la felicità personale non contano solo le realizzazioni individuali ma anche il delicato rapporto con il proprio gruppo di riferimento e il proprio patrimonio di relazioni. L’incapacità, di fronte ad uno shock pur positivo, di rielaborare la propria posizione rispetto al proprio gruppo di riferimento tradizionale evitando la “sindrome del sopravvissuto”, può generare conseguenze paradossali e purtroppo dolorose.

3. 1. Beni relazionali: sintetica definizione e loro caratteristiche Un primo passo per cercare di introdurre il valore delle relazioni all’interno delle tradizionali analisi socioeconomiche è stato il tentativo degli studiosi in questi ultimi anni di proporre una definizione accettabile di bene relazionale. Non si è trattato di un lavoro semplice in quanto i beni relazionali hanno caratteristiche del tutto particolari che sfuggono alle classificazioni tipiche dei beni economici standard. Tradizionalmente in economia i beni vengono classificati secondo una tassonomia a due dimensioni fondata sui criteri di rivalità/non

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rivalità ed escludibilità/non escludibilità. Un bene si dice rivale quando il suo consumo da parte di un determinato individuo preclude il consumo da parte di un altro. Un gelato acquistato in un bar è un classico esempio di bene rivale in quanto una volta digerito da un consumatore, “quello stesso gelato” non è più commestibile per altri. Si parla invece di bene escludibile quando il consumatore del bene possiede un diritto proprietario su di esso e ha, dunque, il diritto di impedire che il bene venga consumato da altri (può anche decidere di condividerlo con altri, ma il diritto di tale decisione spetta a lui). Il gelato acquistato in un bar ha anche questa caratteristica. Tutti i beni che possiedono le caratteristiche di rivalità ed escludibilità vengono chiamati beni privati. Per converso, i beni non rivali e non escludibili vengono definiti beni pubblici. La conoscenza, ad esempio, è generalmente un bene pubblico perché non rivale e non escludibile. Pensiamo, ad esempio, all’invenzione della moltiplicazione. Si tratta di un bene non rivale perché il mio utilizzo della conoscenza incorporata in quel determinato sapere non impedisce ad altri di fare moltiplicazioni, dunque la stessa identica conoscenza può essere riutilizzata dopo (e contemporaneamente a) ogni “consumo” o fruizione individuale. Si tratta anche di un bene non escludibile in quanto posso fare moltiplicazioni ma non ho nessun diritto di proprietà su questa particolare forma di conoscenza che mi permetta di impedire ad altri di utilizzarla. Appartengono alla categoria di beni pubblici beni quali la sanità, la difesa, i paesaggi, ecc. Esiste poi una gamma di beni intermedi (quasi) pubblici che hanno caratteristiche di non rivalità ma di parziale escludibilità. Un classico esempio di beni di questo tipo sono i film, i dischi, i musei a pagamento o i brevetti. Questi beni sono non rivali perché consumare uno di essi (ovvero vedere un film, ascoltare un disco o utilizzare la conoscenza racchiusa in un brevetto) non preclude l’uso dei medesimi da parte di fruitori successivi. In altri termini, men-

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tre quel determinato gelato dopo essere stato consumato non è più utilizzabile, quel determinato film può essere visto da innumerevoli altri fruitori. Film, dischi e brevetti sono anche parzialmente escludibili perché è possibile definire diritti di proprietà su di essi tali da escludere fruizioni non autorizzate (ad esempio, nel caso di film e dischi con il copyright, anche se oggi questa possibilità è enormemente indebolita dal fenomeno della pirateria). È evidente da questa descrizione che i beni quasi pubblici hanno sovente delle caratteristiche molto importanti dal punto di vista della sostenibilità ambientale perché consentono una crescita dei consumi senza necessità di “riproduzione” del bene in nuove unità e dunque creazione di valore economico senza distruzione eccessiva di risorse. Tutti i beni considerati (privati, pubblici e quasi pubblici) seguono in genere la legge dell’utilità decrescente. In base a tale legge, fruizioni successive da parte del medesimo individuo generano livelli di soddisfazione via via decrescenti (in particolare per i beni alimentari è facile arrivare rapidamente ad un punto di sazietà se il consumo è ripetuto a intervalli di tempo ravvicinati). Come si inseriscono i beni relazionali (l’amicizia tra due persone, una relazione affettiva, la partecipazione ad un’associazione, una partita di calcetto, ecc.) in questa tassonomia? Gui 15 e Uhlaner 16 definiscono tali beni come “beni pubblici locali”. Sono beni pubblici in quanto sicuramente caratterizzati da non rivalità e non escludibilità (all’interno del gruppo che condivide un determinato bene relazionale come,

15 Gui B. (2000), Beyond Transactions: On the Interpersonal Dimension of Economic Reality, in «Annals of Public and Cooperative Economics», vol. 71, pp. 139-169. 16 Uhlaner C.J. (1989), Relational goods and participation: Incorporating sociability into a theory of rational action, Public Choice, vol. 62, pp. 253-285. 23.

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ad esempio, i compagni di gioco della squadra di calcetto). Sono locali in quanto solo coloro che hanno investito in quel determinato bene possono fruire dei loro benefici e, dunque, solo per questa ristretta cerchia di persone si applicano le condizioni di non rivalità e non escludibilità. Essi hanno però altre due caratteristiche fondamentali. Devono essere simultaneamente co-prodotti e co-consumati ed hanno generalmente utilità marginale non decrescente. Infatti beni come l’amicizia o la relazione affettiva crescono solo se c’è investimento congiunto e possono essere goduti per definizione congiuntamente. Inoltre il loro valore tende a crescere con l’investimento e con il tempo (ciò vale più per l’amicizia che per il calcetto!). Uno dei fondatori del pensiero economico, come Adam Smith, ha sviluppato delle riflessioni profonde e molto interessanti sul tema dei beni relazionali nella “Teoria dei sentimenti morali”. Secondo Smith il valore di una relazione dipende da due fattori fondamentali: i) il sentire comune; ii) l’ammontare di tempo e di esperienze vissute insieme (coerentemente con il concetto di co-investimento). L’osservazione acuta su questa seconda componente è che, paradossalmente, contribuiscono in eguale misura ad aumentare il valore di una relazione esperienze intense di carattere positivo o negativo. Ad esempio, anche la partecipazione a una commemorazione funebre molto sentita, così come il vivere assieme un momento lieto, può rinforzare le relazioni tra i partecipanti. È la profondità dell’evento vissuto, al di là della sua positività o negatività, che contribuisce dunque alla profondità della relazione 17. 17 Ancora più interessante è il paradosso che illustra come la qualità della comunicazione e l’intensità della relazione può talvolta essere ridotta e non aumentata dall’utilizzo della comunicazione verbale. Esempi di questo paradosso sono il grado di relazione profonda che si instaura tra partecipanti a un corso di meditazione spirituale in silenzio o a membri di un gruppo di lavoro che adottano il metodo del “dialogo muto” per condurre una riunione (in silenzio ognuno scrive un concetto, su un grande foglio al

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Un’altra caratteristica fondamentale dei beni relazionali è colta da Bruni e Stanca 18 quando sottolineano come l’assenza di strumentalità ha un ruolo molto importante nella crescita di valore di un bene relazionale. Paradossalmente dunque, anche in un ambiente di lavoro, quanto più si crea un rapporto con finalità non strumentali, tanto più si “cementa” una relazione che può poi rappresentare un sostrato fondamentale per una maggiore ricchezza di rapporti produttivi (su questo tema si veda il paragrafo 1.3.3. della seconda parte del volume) 19. Pur tenendo conto di questi limiti estremi da non superare dobbiamo senz’altro riconoscere che il tradizionale modo di concepire la vita economica e produttiva tende a minimizzare il ruolo delle relazioni per colpa dei difetti di base dello statuto epistemologico dell’economia, e dunque proprio per le caratteristiche di quell’homo oeconomicus che vive in isolamento e il cui benessere dipende dalla somma di beni e servi-

centro della tavola, e gli altri a turno aggiungono il loro, oppure sottolineano o modificano quello già scritto da altri). 18 Bruni L. - Stanca L. (2006), Income Aspirations, Television and Happiness: Evidence from the World Values Surveys, in «Kyklos», vol. 59, n. 2, pp. 209-225. 19 Il discorso sulle relazioni non può ovviamente essere assolutizzato e trova alcuni limiti fondamentali. I due più importanti sono quelli relativi alle convinzioni morali e al valore dell’intimità. La felicità derivante dall’intensità di una relazione può sicuramente trovare il suo limite quando la medesima contrasta con i principi morali dell’individuo. Gli stessi effetti sociali dell’intensità di relazioni possono diventare negativi quando si passa dalla costruzione del capitale sociale al “familismo” o alla relazione tra compagni di una banda criminale. Riprendendo un ben noto concetto di Ricoeur, il rapporto tra l’“io” e il “tu” deve avere sempre come orizzonte l’attenzione e la cura per il “terzo”. Inoltre il perseguimento dell’intensità di relazione può talvolta violare o entrare in contrasto con un altro bene che aumenta la nostra felicità, quello concernente la sfera d’intimità della persona. Per fare un’esempio concreto, l’introduzione di un open space (stanza di lavoro comune) in un ambiente di lavoro può aumentare l’intensità delle relazioni ma anche ledere la sfera d’intimità della persona.

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zi consumati personalmente. Ma seguire questo paradigma ci porta a non capire alcunché neanche di quel mondo produttivo di cui vogliamo scoprire i segreti. Basti pensare a quante volte, nella realtà, la scelta di un partner con cui lavorare assieme dipende non tanto dal valore del medesimo ma dal mio trovarmi bene con lo stesso; dall’avere con lui un’amicizia o una buona relazione di partenza; dal non sentirmi minacciato dalla sua presenza, ecc. Non considerare l’importanza dei beni relazionali, anche nell’ambiente di lavoro, può portare al tipico errore di molti giovani che, in un colloquio o in un periodo di prova in un’azienda, cercano di fare impressione su chi ha la responsabilità di prendere la decisione sulla loro assunzione, rovesciando un torrente di conoscenze e nozioni, risultando aggressivi e suscitando una reazione di difesa da parte degli esaminatori che finiscono per preferire un candidato con cui pensano di avere un rapporto diretto più facile. 3. 2. Al cuore del paradosso: il rapporto tra beni relazionali, reddito e felicità «There is more to life than increasing its speed». (C’è di più nella vita che aumentarne la velocità). (Mahatma Gandhi)

Abbiamo sinora ragionato separatamente sul rapporto tra reddito e felicità e su quello tra beni relazionali e felicità. Mettendo in evidenza come l’effetto positivo del reddito sulla felicità venga temperato da una serie di possibili effetti collaterali e paradossi e come l’effetto positivo dei beni relazionali sulla felicità sia importante ma venga spesso trascurato negli studi economici. Abbiamo anche rilevato che, da un punto di vista empirico, la relazione tra reddito e felicità assume un profilo non li-

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neare, sottolineando come incrementi successivi di reddito determinino aumenti di felicità via via decrescenti. La nostra impressione è che questo paradosso possa essere in parte spiegato non solo dalla relazione diretta tra reddito e felicità, ma in parte anche dal rapporto che lega il reddito ai beni relazionali e gli stessi alla soddisfazione di vita. In altri termini è possibile enucleare (e successivamente testare sui dati a disposizione) i termini di un paradosso per il quale la crescita del reddito pro capite ha un effetto negativo, a parità di altre condizioni, sui beni relazionali e, attraverso questo effetto, un impatto indiretto negativo sulla felicità individuale. Per spiegare i termini di questo paradosso iniziamo ad analizzare il rapporto che esiste tra reddito e produttività individuale. Anche se esistono vistose eccezioni, il reddito percepito corrisponde, mediamente, alla capacità produttiva di un individuo o al valore monetario del suo contributo professionale che possiamo, per convenienza, misurare in termini di valore di prodotto generato per ogni ora lavorata. Come abbiamo già accennato in precedenza il concetto di produttività non ha alcuna connotazione etica particolare, né relativa all’eventuale valore morale dell’opera professionale prestata, né tanto meno alla corrispondenza tra quantità di lavoro prestato e corrispettivo monetario. Con esso ci si limita a constatare che un’elevata produttività implica una capacità di ottenere un significativo corrispettivo monetario per unità di tempo lavorata. Per intenderci sono estremamente produttivi i calciatori di successo, le pornostar, i conduttori di programmi di TV spazzatura, non per la loro moralità intrinseca o per la fatica connessa al lavoro realizzato, ma semplicemente per la forte domanda espressa dal mercato nei confronti della loro prestazione professionale; domanda che genera un aumento dei loro compensi. Ovviamente, al di là di questi esempi un po’ particolari, una maggiore produttività corrisponde spesso, per

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fortuna, anche ad una maggiore qualità intrinseca o abilità professionale. Dunque redditi più elevati sono per definizione percepiti da persone più “produttive”, ovvero da persone con una remunerazione per ora di lavoro mediamente più elevata. In economia siamo abituati a considerare giustamente come il salario orario corrisponda esattamente anche al costo-opportunità di un’ora di tempo libero. Ovvero, tanto più alto il salario, tanto maggiore il costo monetario connesso con la rinuncia ad un’ora di lavoro per godere di un’ora di tempo libero. Se il “costo opportunità” del tempo libero aumenta, vuol dire che le relazioni interpersonali coltivate, investendo il proprio tempo libero (famiglia, associazionismo sportivo o religioso, amicizia, ecc.), diventano relativamente più care o costose, come in genere tutto il tempo non dedicato al lavoro. Riflettiamo ora, per un momento, sul fatto che una delle caratteristiche più tipiche del nostro tempo è la fretta, il non avere tempo. Quando qualcuno ci dice di non aver tempo in realtà non si esprime correttamente. La dotazione di ore giornaliere non è mai mutata dall’inizio della storia dell’uomo e dunque non si spiega perché oggi molte più persone dichiarano di avere poco tempo o di non avere tempo per la vita relazionale rispetto a secoli fa. In verità, chi ci dice di non avere tempo dovrebbe dire più correttamente che il suo costo opportunità di un’ora di tempo libero è estremamente più elevato di quanto lo fosse secoli fa perché anche il suo salario orario è molto più elevato. Inoltre, approfondendo, non è soltanto l’aumento della produttività del lavoro, ma anche l’aumento della produttività e delle opportunità a disposizione nel tempo libero non relazionale o solitario, ad elevare il costo opportunità del tempo libero relazionale. Dedicare un’ora alla cura o all’investimento in relazioni non implica soltanto sacrificare delle opportunità di lavoro (oggi enormemente più produttive di un centinaio di anni fa), ma anche infinite distrazioni di tempo libero non relazionale (basti pensare a quello te-

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levisivo o a quello passato davanti ad internet) che un tempo non erano affatto disponibili. Quanto affermato sin qui non basta però a giustificare una eventuale relazione negativa tra reddito e godimento dei beni relazionali. Gli economisti ci insegnano infatti che l’homo oeconomicus è sovrano e razionale nelle scelte che effettua massimizzando la propria soddisfazione sulla base delle proprie preferenze compatibilmente con i suoi vincoli di tempo, denaro e possibilità tecnologiche. Dunque nulla impedisce a un individuo, che ha a cuore i beni relazionali, di lavorare un po’ di meno, sfruttando il fatto che la sua maggiore produttività gli consente comunque di ottenere un salario complessivo soddisfacente, e di utilizzare questa sua maggiore ricchezza (a parità di ore lavorate) per godersi un po’ più di tempo libero relazionale. Usando il linguaggio degli economisti l’“effetto reddito” (più salario A scelta di lavorare meno per dedicare più tempo ai beni relazionali) può superare l’effetto “sostituzione” (più salario A maggiore costo del tempo libero dedicato ai beni relazionali A scelta di più tempo dedicato al lavoro e dunque di minor tempo investito in beni relazionali). Si può dunque affermare che una crescita di salario può, in realtà, far aumentare il tempo dedicato ai beni relazionali. Il problema di questa conclusione, che annullerebbe ogni paradosso ed effetto negativo tra reddito e beni relazionali, è che cade nuovamente nell’errore di una visione dell’uomo prettamente individualista e non considera le caratteristiche peculiari dei beni relazionali, beni che devono essere co-prodotti e co-consumati (vedi: 3. 1. Beni relazionali: sintetica definizione e loro caratteristiche, p. 42). Dunque, non basta che un individuo singolo che ha a cuore i beni relazionali faccia prevalere l’effetto reddito sull’effetto sostituzione (scegliendo pertanto più investimento in tempo relazionale e meno lavoro nonostante l’aumento della

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sua produttività). Affinché la sua soddisfazione di vita relativa alla fruizione di beni relazionali aumenti veramente è necessario che anche gli altri individui necessari per la co-produzione e il co-consumo di quel determinato bene relazionale facciano quella stessa scelta. Per fare un esempio concreto ci vogliono due persone per tenere in piedi un rapporto di coppia, dieci persone per fare una partita di calcetto e un numero (elevato ma che lasciamo indeterminato) di persone per dare vitalità e far funzionare un’associazione o un movimento. In tutti e tre i casi la mia scelta di non ridurre il tempo dedicato ai beni relazionali, a seguito del maggiore reddito e della maggiore produttività, non basta ad assicurare che il bene relazionale perduri. Basta una decisione in direzione contraria di mia moglie, di uno o più dei compagni del calcetto, di un numero significativo dei membri dell’associazione o del movimento, a far venir meno la fornitura del bene relazionale e a rendermi meno felice. 3. 2. 1. Il tassista di Recife Alcuni aneddoti, personalmente vissuti, possono aiutare e a dare concretezza alle teorie sopra illustrate. Nel febbraio 2002 sono a Recife con mia moglie. Prendiamo un taxi per raggiungere un punto della città distante dall’albergo in cui ci troviamo. Mentre passiamo davanti al lungomare della città (non pari a quello di Rio ma comunque di una bellezza spettacolare) il tassista ci sente parlare in italiano e ci risponde nella stessa lingua. Dopo i soliti convenevoli di circostanza gli chiediamo dove ha imparato l’italiano. «È una lunga storia… Qui a Recife c’erano per me poche occasioni di lavoro che potessero migliorare la mia situazione economica. Dunque, sono venuto in Italia in cerca di fortuna. Sono finito in un paese del Nord Italia a lavorare come lavapiatti in un ristorante. Il salario era buono e sicuramente superiore a quello che guadagno

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qui facendo il tassista. Dopo un po’ però non ce l’ho più fatta. La vita era insopportabile per me, pochi amici, il clima umido e nebbioso, la vita del piccolo centro non offriva molto, insomma nulla a che vedere con quello che abbiamo qui. Ci ho pensato su e ho deciso che era meglio tornare e fare il tassista a Recife!». Ecco un esempio concreto dei rapporti paradossali tra reddito, beni relazionali, e soddisfazione di vita. Una visione più allargata della concezione di sviluppo e benessere socioeconomico, in grado di incorporare questi elementi, è sicuramente quella sviluppata nel Development Report del 2003 della Banca Mondiale. Nel rapporto la tradizionale relazione positiva tra crescita economica, consumi e benessere è complementata dal ruolo che i beni della conoscenza, quelli relazionali e quelli ambientali esercitano direttamente sulla felicità individuale. Questi beni dunque vengono riconosciuti nella loro duplice valenza di risorse che alimentano la capacità produttiva degli individui e, conseguentemente, la crescita economica di un paese, e, allo stesso tempo, di valori che di per sé contribuiscono al benessere (vedi Figura 1. 3). Se il nostro tassista fosse rimasto in Italia sarebbe probabilmente stato ricompreso nella categoria dei frustrated achievers del famoso studio sul Perù della Banca Mondiale, ma i ricercatori, autori dello studio, istruiti al paradigma dell’homo oeconomicus avrebbero avuto notevoli problemi ad interpretare l’anomalia. 3. 2. 2. Il ritorno di padre John in Congo Un altro caso concreto. Avevo diciotto anni quando, per la prima volta, sono stato in un paese del cosiddetto “Sud del mondo”: l’Egitto. Il Cairo è una città che stordisce per gli odori, la confusione, la sabbia del deserto che copre con uno strato sottile le strade della metropoli, l’alternarsi di pedoni, greggi, automobili, senza soluzione di continuità, su strade e

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marciapiedi. E in questa confusione un’incredibile vitalità ed energia… Ricordo benissimo la sensazione di contrasto al mio ritorno a Roma. Tutto più curato e ordinato (ed era Roma non la Svizzera…), minore densità di persone, un’assoluta prevalenza di anziani. La sensazione era quella di essere entrati in un’elegante casa di riposo… Tutte le altre successive esperienze di viaggi in Africa, Asia, America Latina hanno avuto, nelle loro peculiarità e differenze, questa comune sensazione di immergersi in un mondo dove vitalità, energia (mescolate a povertà materiale e confusione) erano sicuramente maggiori. L’ultimo episodio simbolo di queste differenze Nord-Sud, che mi ha profondamente colpito, è stata la visione di un film girato da padre John in occasione del suo ritorno in Congo per un periodo di ferie. L’idea del Sud del mondo, che ci facciamo da qui attraverso i media, soprattutto in questi tempi più recenti nei quali monta la retorica umanitaria, è quella di un rapporto unilaterale tra chi dà (noi) e chi riceve (loro). Loro hanno bisogno, sono indietro e noi generosamente doniamo o aiutiamo per consentirgli di arrivare al nostro livello “di benessere”. In realtà chi è stato in questi paesi sa bene che se noi diamo qualcosa offrendo, nei casi migliori, le nostre capacità organizzative, le nostre tecnologie, la nostra tradizione istituzionale, riceviamo in cambio tantissimo anche se spesso non siamo in grado di definire esattamente cosa… Questa sensazione è stata confermata dal filmino amatoriale di padre John che, essendo stato girato da una persona del posto, aveva una enorme sobrietà ed era del tutto privo di quella retorica umanitaria della donazione unilaterale che caratterizza molti nostri prodotti mediatici su questo tema. Il viaggio di padre John ti fa entrare in un mondo incredibile. Prima il volo avventuroso su un aereo ad elica che parte dalla capitale solo quando si raggiunge il numero dei sei componenti a bordo (con mezza giornata di ritardo rispetto al previsto). L’aereo sorvola la foresta equa-

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toriale e atterra su uno spiazzo di terra battuta affollato da un gran numero di abitanti locali festanti, accorsi solo per assistere all’atterraggio. Inizia poi il viaggio di una giornata lungo il fiume Congo per raggiungere il punto sulla sponda del fiume dal quale proseguire con un fuoristrada per raggiungere il villaggio meta del viaggio. Il fiume è in questo tratto navigabile e rappresenta l’unica via di comunicazione e collegamento con le zone interne. È dunque percorso, in entrambe le direzioni, da piroghe e barche a motore che effettuano “collegamenti di linea”. Ma il punto più impressionante del viaggio è quello dell’arrivo di sera in un piccolo centro dove padre John era atteso per la mattina di quel giorno stesso. La folla di persone del piccolo centro, giovani, donne e bambini ancora lì, dopo quasi un giorno intero di attesa, esplode in una gioia incredibile al momento dell’arrivo della barca a motore e inizia una festa che dura a lungo nella notte. Dovendo azzardare dei paragoni quello che si vede nel filmato corrisponde a dieci volte l’entusiasmo di tifosi per la vittoria di uno scudetto in una città come Roma che lo vince una volta ogni dieci anni! È in quel momento, di fronte a quelle manifestazioni di energia, vitalità e allegria che il mito del differenziale di sviluppo, che coincide esattamente con il differenziale di felicità, tra le due aree del mondo comincia a scricchiolare e si manifesta la chiara sensazione che in quei luoghi mancano molte cose che noi abbiamo e che farebbero certamente comodo, ma c’è anche qualcosa che noi abbiamo perduto! Non sono ancora riuscito ad elaborare razionalmente, a tradurre in modelli e scelte ottimali di policy sensazioni ed emozioni come queste. Quello che intuisco è che l’economia della felicità ha qualche strumento in più per leggere, interpretare e salvaguardare la ricchezza di due mondi, così diversi, destinati a incontrarsi e a mettersi in relazione nella nuova realtà globale.

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4. I dati su felicità e relazioni «The strenuous purposeful money-makers may carry all of us along with them into the lap of economic abundance. But it will be those peoples who can keep alive and cultivate into a fuller perfection, the art of life itself and do not sell themselves for the means of life, who will be able to enjoy the abundance when it comes». (Gli individui che si preoccupano di creare ricchezza con il loro impegno e le loro idee chiare, ci portano tutti nel loro ventre dell’abbondanza economica. Ma saranno coloro che tengono viva e coltivano, verso una perfezione più piena, l’arte della vita, che non si vendono per i mezzi della sopravvivenza e che saranno capaci di godere dell’abbondanza quando verrà). (John Maynard Keynes, Economic possibilities for our Grandchildren, 1930)

Nel paragrafo introduttivo (vedi: 2. Il rapporto tra reddito e felicità, p. 26), abbiamo, sino ad ora, verificato solamente la distanza, non eccessiva, tra i livelli di soddisfazione di vita tra i paesi del Nord e del Sud del mondo. Analizziamo adesso, attraverso i dati dell’Indagine Mondiale sui Valori, il rapporto tra felicità e classi di reddito. Come sappiamo, l’indagine mondiale sui valori è il risultato di un progetto internazionale di analisi dei mutamenti socioculturali nei principali paesi del mondo. Il progetto ha nel tempo realizzato e messo insieme indagini nazionali sui valori in più di 65 diversi paesi del mondo, sulla base di un questionario omogeneo. Le indagini sono state effettuate in diversi periodi e in ciascun paese sono stati costituiti campioni rappresentativi della popolazione. I dati complessivi dell’indagine consentono di analizzare le determinanti della felicità dichiarata per un numero complessivo di più di 100.000 intervistati. Se consideriamo l’intero campione, senza distinguere per i diversi paesi, i dati a nostra disposizione evidenziano una corrispondenza positiva tra reddito e felicità. La quota dei molto

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felici arriva al 37 percento per il 10 percento della popolazione con il reddito più elevato, mentre è al 27 percento per coloro che si trovano nel quinto decile delle classi di reddito (Tabella 1. 3). La relazione tra reddito e felicità in questa prima indagine descrittiva non è sempre lineare perché, se guardiamo alla categoria dei piuttosto felici, ovvero di coloro che registrano il secondo grado di soddisfazione più elevato dopo coloro che si dichiarano molto felici, troviamo un 55, 57 percento nel quinto decile che scende al 53, 71 percento nel decimo decile, quello della popolazione con reddito più elevato. Se invece analizziamo i risultati relativi al secondo indicatore di soddisfazione di vita – per il quale viene chiesto di indicare un valore da uno a dieci (1 = insoddisfatto, 10 = pienamente soddisfatto) – riscontriamo un dato singolare che mostra come la quota degli individui pienamente soddisfatti nel decile di reddito più basso (14, 25 percento) sia sostanzialmente equivalente a quella degli individui nell’ottavo decile di reddito (14, 53 percento) e di poco inferiore a quella degli individui nel decile di reddito più elevato (18, 49 percento) (Tabella 1. 4). I nostri risultati sono coerenti con analoghi studi effettuati in altri paesi. Frey e Stutzer (2002) 20 dimostrano come la relazione tra reddito e felicità sia positiva ma non lineare, con incrementi di felicità via via decrescenti all’aumentare del reddito. Secondo i risultati di questi autori chi passa dal quarto al quinto decile di reddito vede aumentare la propria soddisfazione di vita (sulla scala da uno a dieci) di 0, 11 punti mentre, per chi passa dal nono al decimo decile, l’aumento è soltanto dello 0, 02 percento. I risultati della semplice comparazione tra livelli di reddito e felicità, che aggregano individui di diversi paesi e non cor20 Frey B.S. - Stutzer A. (2002), What Can Economists Learn from Hap-

piness Research?, in «Journal of Economic Literature», 40 (2), pp. 402435.19.

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reggono per tutte le altre variabili di controllo, sono largamente approssimativi e vanno ulteriormente raffinati. Se eliminiamo, ad esempio, il problema della comparazione tra individui di paesi diversi e passiamo all’analisi del campione italiano riscontriamo, ad esempio, un primo risultato singolare che conferma i paradossi del rapporto tra reddito e felicità. Utilizzando la scala da uno a quattro (molto felice = 4, piuttosto felice = 3, non molto felice = 2 e per nulla felice = 1) osserviamo che il livello medio di felicità parte dal dato di poco inferiore di 2, 75 per il decile inferiore della popolazione, supera il 3, 1 percento nell’ottavo decile e cala al 3 percento nel decimo decile (vedi Figura 1. 2). Passando al rapporto tra felicità e tempo speso in relazioni, osserviamo una correlazione positiva piuttosto robusta. La domanda sul tempo relazionale nella World Value Survey chiede agli intervistati di indicare il tempo speso: i) in famiglia; ii) con i colleghi di lavoro fuori dall’orario di lavoro; iii) con amici all’interno di associazioni religiose; iv) con amici all’interno di associazioni di carattere sportivo; v) con amici non facenti parte delle categorie iii) e iv). Per ogni tipo di categoria di relazioni si richiede di indicare una delle seguenti modalità relative al tempo speso: a) mai; b) poche volte all’anno; c) poche volte al mese; d) ogni settimana. L’indicatore medio ponderato di tempo speso per le relazioni è costruito attribuendo valore zero alla modalità a (mai), 1 alla modalità b (poche volte all’anno), 2 alla modalità c (poche volte al mese) e 3 alla modalità d (ogni settimana). Il valore medio aggregato di tempo speso in relazioni viene ottenuto come media semplice del valore medio calcolato per ciascuna categoria di tempo relazionale. La metodologia scelta per la costruzione di questo indicatore ha il risultato di ridurre in parte la distanza tra le modalità. L’alternativa infatti sarebbe quella di imputare a ciascuna modalità un valore presunto mensile di tempo dedicato a ciascun tipo di relazione (ad

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esempio, ragionevolmente, 4 per la modalità d, 2 presumibilmente per la modalità c, un valore minore di 1 per la modalità d). Un’analisi della sensibilità dei nostri risultati alla sostituzione del primo indicatore con il secondo dimostra, comunque, che i principali risultati dell’indagine che discuteremo di seguito sono confermati anche sotto questa scelta. Un’occhiata ai valori medi del nostro indicatore per ciascun paese nel quale è stata condotta l’indagine conferma che la classifica del tempo relazionale è completamente diversa da quella del reddito pro capite (Tabella 1. 5). Tra i primi sei paesi troviamo infatti tre paesi dell’Africa subsahariana (Nigeria, Tanzania e Uganda) e l’Indonesia. Gli unici due paesi ad alto reddito che si trovano nelle prime posizioni della classifica sono il Lussemburgo e gli Stati Uniti. Tornando dunque al rapporto tra felicità e tempo speso in relazioni, riscontriamo come la quota di coloro che si dichiarano molto felici – tra gli individui intervistati che fanno segnare valori tra 0 e 1 dell’indicatore di tempo relazionale – sia del 18, 65 percento, mentre salga al 28, 84 percento per coloro con valori da 2 a 3 (Tabella 1. 6). Parallelamente, la quota dei “per nulla felici” scende dall’8, 07 percento al 2, 52 percento considerando lo stesso passaggio dalla classe che presenta valori tra 0 e 1 a quella che presenta valori tra 2 e 3. Osserviamo adesso l’evidenza descrittiva sulla terza relazione, quella tra reddito e tempo speso per la vita relazionale. Focalizziamo l’attenzione soltanto sulla classe di coloro che presentano valori da 2 a 3 per l’indicatore relazionale (ovvero coloro che spendono più tempo in relazioni). La relazione tra le due variabili è chiaramente a forma di U rovesciata. La quota di individui appartenenti al primo decile di reddito che si trovano nella classe massima del tempo speso in beni relazionali è del 25, 14 percento, sale al 28, 55 percento nel quinto decile di reddito e scende al 25, 25 percento al decimo e più elevato decile di reddito (Tabella 1. 7).

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L’ipotesi che individui con reddito più elevato dedichino meno tempo alla vita relazionale sembra confermata dai dati, almeno per quanto riguarda questa prima indagine descrittiva. Il profilo ad U rovesciata sembra integrare la nostra interpretazione con ulteriori elementi indicandoci che, per bassi livelli di reddito, la relazione tra reddito e beni relazionali è positiva. Presumibilmente gli individui nel primo decile si trovano in condizioni di bisogno, a causa delle quali la ricerca di mezzi di sussistenza o il tempo speso per raggiungere livelli di reddito sufficienti occupa gran parte del tempo. Al contrario, al crescere del reddito è possibile liberare del tempo per le relazioni (prevale dunque l’effetto reddito sull’effetto sostituzione e così sembra accadere anche per gli altri individui che coproducono e co-consumano i beni relazionali). Quando si va verso i livelli di reddito più elevati il dilemma del “fallimento del coordinamento” emerge, l’effetto reddito non prevale per tutti coloro che co-producono il bene relazionale e il tempo speso in beni relazionali in media cala. Un’ipotesi ragionevole presupposta dalla nostra interpretazione è, ovviamente, che gli individui tendono ad associarsi in media con persone simili per caratteristiche di reddito e dunque co-consumano e coproducono beni relazionali con persone del loro stesso decile. I risultati descrittivi, sinora commentati, non bastano a stabilire l’esistenza di un nesso di causalità tra reddito, relazioni e felicità in grado di suffragare le ipotesi teoriche formulate nelle sezioni precedenti. È necessario verificare se le relazioni di massima, riscontrate nell’analisi descrittiva, rimangono significative quando si tiene conto di tutti gli effetti concomitanti. È, in altri termini, possibile che la relazione (positiva) tra A e B non dipenda da un nesso di causalità da A verso B, ma dal fatto che A sia in realtà correlata con una terza variabile C che causa positivamente B. Per fare un esempio potrebbe non essere il reddito ad aumentare la felicità ma piuttosto la salute. Poiché gli indi-

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vidui con reddito più elevato possono anche dedicare più cure alla salute, la correlazione positiva tra salute e felicità genererebbe una correlazione spuria tra reddito e felicità. Le stime econometriche ci consentono di controllare tutti gli effetti concomitanti valutando la relazione tra A e B al netto dell’effetto di C (e di tutte le altre variabili di controllo che riusciamo a inserire nella stima) su B. Nel nostro caso specifico introduciamo nella stima econometrica le seguenti variabili di controllo (età, sesso, livello di educazione, salute dichiarata, condizioni di lavoro, status familiare, libertà economiche del paese di appartenenza). Inoltre, inseriamo nella stima alcune variabili-paese che consentono di controllare anche per le differenze culturali. I risultati ottenuti indicano che tutte queste variabili hanno effetti significativi sulla felicità dichiarata. Per riassumere, in un modo facilmente comprensibile ai non addetti ai lavori, i nostri risultati, riportiamo i medesimi sotto forma di effetto marginale della variabile oggetto di osservazione sulla probabilità di dichiararsi molto felici. I risultati ottenuti sono valutati per diverse specificazioni del modello e calcolati alternativamente per il campione mondiale, per la stima relativa ai soli paesi OCSE, ad alto reddito, e per i restanti paesi. La Tabella 1. 8 che li riassume ci mostra che l’istruzione secondaria aumenta del 2-3 percento, al netto dell’effetto degli altri fattori, la probabilità di dichiararsi veramente felice, con un intervallo leggermente più ampio per i paesi ad alto reddito (2-6 percento). L’istruzione superiore ha un impatto dell’1-4 percento, piuttosto stabile tra paesi ad alto e paesi a basso reddito. Lo status matrimoniale ha un impatto del 6-9 percento (7-11 percento nei paesi ad alto reddito e 5-7 percento in quelli a basso reddito), mentre la separazione genera uno shock che ha l’effetto di ridurre del 4-8 percento la probabilità di dichiararsi molto felici. La disoccupazione ha an-

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ch’essa un effetto netto negativo, quantificabile in una riduzione del 4-6 percento, della probabilità di dichiararsi molto felici (con picchi del 7-14 percento per il campione dei paesi ad alto reddito). Un raddoppio dell’indicatore del tempo speso in relazioni genera un aumento del 4-5 percento della stessa probabilità (che sale al 6-11 percento nei paesi ad alto reddito). Interessante, e abbastanza comune in lavori analoghi, l’effetto di genere, con l’appartenenza al sesso femminile che ha, a parità degli effetti di tutti gli altri fattori, un impatto positivo di circa il 2 percento sulla felicità dichiarata. L’effetto quantitativamente più forte è senz’altro quello della salute. Un raddoppio dell’indicatore di salute dichiarata aumenta infatti la probabilità di dichiararsi veramente felici del 15-16 percento. È evidente che le considerazioni di segno (l’effetto positivo o negativo) sono molto più attendibili degli effetti quantitativi sopra accennati in quanto le scale che quantificano livelli di salute e livelli di felicità sono necessariamente arbitrarie e mutevoli da individuo a individuo. In sostanza l’effetto salute appare molto rilevante da un punto di vista quantitativo, anche se non siamo in grado di dare una metrica univoca e oggettiva alla scala con la quale gli individui hanno valutato il loro livello di salute. Tutti i risultati ottenuti in questa stima sono sostanzialmente in linea con analoghi riscontri empirci in campioni di diversi paesi. I risultati sull’effetto di genere (donne che si dichiarano mediamente più felici degli uomini) sono riscontrati anche da Alesina et al. (2000) negli Stati Uniti e in Europa; da Frey et al. (2000) in Svizzera. I risultati su matrimonio, separazione e divorzi sono confermati dai lavori di Argyle (1999), Blanchflower e Oswald (2003), Frey e Stutzer (2002). L’impatto negativo dell’occupazione è in linea con quanto rilevato nei lavori di Clark e Oswald (1994) e Gallie e Russel (1998).

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4. 1. Il puzzle del rapporto tra felicità ed età Uno dei risultati, meno attesi a mio avviso, ma coerente con analoghi riscontri nella letteratura empirica, è quello del rapporto positivo tra età e felicità. L’età ha generalmente segno negativo quando non si include una variabile che misura lo stato di salute dichiarato, ma, una volta introdotta quest’ultima, il segno dell’età diventa inequivocabilmente positivo. Questa variazione di segno implica che l’età ha un impatto positivo sulla felicità dichiarata a parità di condizioni di salute. Si tratta comunque di un risultato che contrasta con il sentire comune (per il quale l’invecchiamento è un male) e che richiede ulteriore riflessione e approfondimento. Il problema di analisi che non seguono gli stessi individui nel tempo (come quella da noi effettuata) è che è difficile distinguere un presunto effetto temporale da un “effetto coorte”. Mi spiego. Nel corso degli anni ’70 era facile rilevare l’associazione tra giovane età e utilizzo di motociclette. La conclusione che se ne traeva comunemente è che la motocicletta era un fenomeno giovanile o che l’utilizzo della stessa fosse correlato negativamente con l’età. In realtà, non avendo a quel tempo la possibilità di esaminare l’evoluzione temporale degli allora giovani, non era possibile separare questa ipotesi dal cosiddetto effetto coorte. Ovvero dall’ipotesi che la passione per la motocicletta fosse associata non alla giovane età ma a quella specifica generazione di giovani che, una volta cresciuti, avrebbero mantenuto quella stessa abitudine. Allo stesso modo della motocicletta il ragionamento poteva valere per la musica rock, allora ascoltata dai giovani e molto meno dagli adulti. La storia dell’evoluzione culturale dei gusti di quella generazione sino ai giorni nostri ha dimostrato che l’effetto coorte spiega molto di quelle abitudini. L’utilizzo delle motociclette e, ancor più, l’ascolto della musica rock, non è diminuito per gli individui appartenenti a questa classe nel corso degli anni.

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La generazione citata, allora giovane e oggi adulta, ha mantenuto queste abitudini. Nel caso del rapporto tra età e felicità l’effetto coorte insinua un dubbio. È il trascorrere degli anni che rende più felici (a parità di altri fattori concomitanti e, soprattutto, se la salute è buona), oppure è la generazione di coloro che oggi sono anziani a dichiararsi mediamente più felice dell’attuale generazione di giovani? Difficile dare una risposta conclusiva anche se alcuni recenti studi di Easterlin, che seguono individui durante un lungo arco di tempo, sembrano indicare che l’effetto coorte non spiega tutto il fenomeno. Un’interpretazione della possibile relazione positiva tra età e ricchezza ci viene fornita dagli psicologi che sostengono che, con il passare degli anni, si impara progressivamente a controllare in misura maggiore gli stimoli negativi che provengono dall’ambiente. Se pensiamo ad alcuni grandi capolavori della letteratura esistono sofferenze, tipicamente giovanili, legate alle grandi domande sull’esistenza. Se guardiamo lo stesso fenomeno dalla prospettiva dell’economista scopriamo che, poiché il ventaglio delle possibili direzioni alternative in cui indirizzare la propria esistenza è molto più ampio per i giovani che per gli adulti, le scelte dei giovani sono molto più sofferte e dolorose o, in termini tecnici, comportano costi opportunità più elevati. Questo spiegherebbe anche la relativamente maggiore indecisione e la “vertigine del possibile” che può intervenire in presenza di tali scelte. Vivere su di un binario già scelto, che non deve essere messo quotidianamente in discussione, può essere molto rassicurante e può contribuire alla felicità e soddisfazione di vita.

4. 2. Felicità e clima Alla fine della prima fase della nostra ricerca sulle determinanti della felicità ci siamo domandati se, dopo aver consi-

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derato l’effetto di tante variabili, restasse ancora qualcosa di spiegabile in base all’informazione a nostra disposizione. La riflessione è partita dall’analisi degli effetti paese. Con le tecniche econometriche normalmente utilizzate, infatti, dopo aver considerato il ruolo di età, sesso, reddito, istruzione, stato familiare, condizione professionale, libertà economiche e politiche, tempo speso per le relazioni, l’inserimento di variabili paese abbiamo cercato di verificare se, a parità di tutti questi fattori inseriti nell’analisi, le persone di un determinato paese sono significativamente più o meno felici di quelle di un altro. Alla fine di questo esercizio ci siamo trovati di fronte a un’accozzaglia di paesi a prima vista assai disparata. Cosa unisce tra di loro Porto Rico, Venezuela, Australia, Tanzania e Messico (tutti con segno positivo)? E perché i paesi dell’Est Europa presentano tutti un segno negativo? Ciò che accomuna gli uni e li differenzia dagli altri è probabilmente la temperatura e, più correttamente, l’insieme dei fattori climatici che possono incidere sulla qualità della vita (luminosità, piovosità, umidità, ecc.). Abbiamo pertanto inserito questa ulteriore variabile al nostro modello riscontrando una conferma della nostra ipotesi: la temperatura, a parità di altri condizioni, ha un effetto “campanulate” (prima crescente poi decrescente) e significativo sulla felicità dichiarata. Se partiamo da zero gradi la felicità tende a crescere al crescere della temperatura arrivando ad un picco, tra i venti e i trenta gradi, e scendendo dopo questo. Sicuramente la temperatura non cattura tutto l’effetto in quanto contano anche umidità, giorni di pioggia, luminosità e altre variabili collegate al clima. Colleghiamo questo risultato ad uno tradizionale della letteratura sulla crescita economica. Quello che indica che, a parità di altri fattori, la distanza dall’equatore ha un effetto positivo e significativo sui livelli e sulla crescita del reddito pro capite. Il risultato è stato variamente interpretato in letteratura e una spiegazione originale recente collega il dato geo-

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grafico ad una determinante di carattere storico. Secondo Acemoglu (2001) 21, l’effetto positivo della distanza dall’equatore su livelli e crescita del reddito pro capite dipende, in realtà, dalla storia della colonizzazione. I colonizzatori infatti sono stati profondamente influenzati dal clima nella scelta del tipo di relazione da stabilire con il paese colonizzato. Scegliendo di insediarsi sul posto (e dunque di investire in infrastrutture) nel caso di climi temperati e adottando, invece, una strategia orientata alla pura estrazione e trasferimento delle risorse nei paesi dal clima più torrido. L’abbinamento del risultato sulla crescita con quello sulla felicità suggerisce però un’ipotesi di fondo leggermente diversa, ma non in contraddizione con l’interpretazione storica. Supponiamo ragionevolmente che gli individui abbiano una struttura tradizionale di preferenze per le quali elementi che contribuiscono positivamente all’aumento del benessere individuale sono le disponibilità monetarie e il godimento del tempo libero. È possibile aumentare le proprie disponibilità monetarie scegliendo di lavorare di più, ma con il solito dilemma che un’ora in più di lavoro riduce la quantità di tempo libero goduto, mentre un’ora in più di tempo libero ha il costo opportunità della remunerazione dell’ora di lavoro a cui si rinuncia. Se il clima è un fattore che rende relativamente maggiore il godimento correlato a un’ora di tempo libero, e relativamente più penoso il costo di un’ora dedicata al lavoro, in equilibrio gli individui sceglieranno di sostituire lavoro con tempo libero nei paesi nel quale il clima è più gradevole. Il risultato sarà che la gradevolezza del clima avrà impatto negativo, coeteris paribus, sulle ore lavorate e sui livelli di reddito pro capite di un paese, ma anche che, a parità di reddito percepito, es21

Acemoglu D. - Johnson S. - Robinson J. (2001), The Colonial Origins of Comparative Development: an Empirical Investigation, in «American Economic Review», 91, pp. 1369-1401.

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sere in un paese con un clima meno gradevole sarà associato a un godimento inferiore del tempo libero stesso e, dunque, a un livello di felicità inferiore. In parole povere, gli individui trovano più conveniente sostituire lavoro con tempo libero quando il clima è più gradevole (si pensi anche alla correlazione tra questa variabile e l’intensità della luce del giorno) e dunque il clima avrà effetti sulla felicità a parità di reddito e sul reddito a parità delle condizioni che lo determinano. Se queste conclusioni sono corrette diventa molto interessante valutare le possibili conseguenze economiche del cambiamento climatico sulle variabili economiche e sulla felicità collettiva nei diversi paesi del mondo. Se l’attuale tendenza al riscaldamento globale dovesse effettivamente proseguire 22 potremmo assistere a sostituzione tra lavoro e tempo libero, con effetti di riduzione di ore lavorate e crescita economica associati a un aumento della felicità collettiva in paesi nordici con clima rigido che diventa progressivamente temperato.

4. 3. Il rapporto tra felicità e religione «Per me io crederei solo a un Dio che sapesse danzare». (Friedrick Nietzche, Così parlò Zaratustra)

Uno dei filoni interessanti delle ricerche sul tema della felicità è quello relativo al rapporto tra felicità e religione. Pressoché tutti i lavori empirici identificano una relazione positiva tra religione e felicità, soprattutto quando si utilizza la varia22 Rehdanz K. - Maddison D. (2005), Climate and happiness, in «Ecological Economics», 52, pp. 111-125.

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bile della pratica religiosa effettiva piuttosto che quella dell’educazione religiosa o quella di una generica fede in Dio non praticata. I più recenti lavori aggiungono alcuni interessanti risultati a questa evidenza di base dimostrando che una parte dell’impatto positivo della pratica religiosa è determinata dal fatto che la religione consente l’assorbimento di shock che incidono negativamente sulla felicità (disoccupazione, fallimento di relazioni affettive). In sostanza, per le persone praticanti, gli effetti negativi di questi eventi sulla felicità sono ridotti e i tempi di recupero dallo shock sono più rapidi. In questo senso la pratica religiosa viene definita dagli studiosi del settore una sorta di assicurazione contro gli shock negativi. Tenendo assieme questo risultato con tutto quanto già analizzato in tema di studi sulla felicità, possiamo azzardare un’ipotesi complessiva sul ruolo della religione. La nostra idea, focalizzando l’attenzione in particolare sul cristianesimo, è che la religione sembra avere le caratteristiche ottimali per contribuire a un aumento della felicità collettiva, considerate le caratteristiche degli individui, le situazioni socioeconomiche che vivono e gli effetti di ciò che accade sulla loro felicità. Per almeno quattro motivi. Primo, gli studi sugli effetti dinamici della felicità ci suggeriscono che gli individui hanno problemi maggiori ad assorbire gli shock negativi e tendono invece all’assuefazione nei confronti degli shock positivi, cosicché nel medio termine i primi continuano, in parte, a produrre i loro effetti al contrario dei secondi. La religione cerca, per quanto possibile, di correggere quest’asimmetria di reazione a vantaggio di una maggiore felicità individuale. Essa fornisce, da un lato, una serie di motivazioni per l’accettazione e il superamento degli shock negativi, dando ad essi un’interpretazione e un significato. Dall’altro, la religione medesima cerca di suscitare nei fedeli il senso di gratitudine per gli eventi positivi vissuti inducendo ad apprezzare quanto di buono accade nella vita, con-

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trastando dunque l’effetto di totale riassorbimento e indifferenza nel lungo periodo di fronte ad eventi positivi. Secondo, la religione stabilisce una gerarchia tra valori intrinseci ed estrinseci che è, rispetto a quella definita dalla cultura contemporanea, meno materialista e più orientata a quei beni (relazionali) che contribuiscono alla felicità individuale. Più specificatamente su questo punto, uno dei meccanismi attraverso cui questo avviene è quello della riprovazione dell’atteggiamento di invidia nei confronti dei propri simili (che attenua l’impatto potenzialmente negativo del reddito relativo quando questo è inferiore al livello del gruppo di riferimento) e della riprovazione dei meccanismi di rincorsa tra realizzazioni e aspirazioni relativamente alle risorse monetarie a disposizione. Terzo, la religione sottolinea l’importanza della realizzazione della giustizia sociale e dunque diventa stimolo alla risoluzione di quegli squilibri che generano povertà materiale e infelicità. Infine, quarto ed ultimo motivo, essa indica criteri di scelta ottimale nel set delle possibilità di azione riducendo gli effetti negativi collaterali dell’ampliamento del set delle capabilities (di cui abbiamo parlato discutendo l’approccio di Sen) riducendo la “vertigine del possibile”. È interessante rilevare che alcune delle più significative critiche al cristianesimo e alla religione nella storia del pensiero sono nate proprio dalla percezione di una mancato equilibrio tra questi quattro punti. La ben nota critica di Marx è relativa alla debolezza del cristianesimo come fermento di giustizia sociale. Se gli effetti di assicurazione e capacità di assorbimento degli shock negativi e l’attenuazione dell’importanza dei beni materiali non sono associati dall’impegno per la giustizia sociale, la religione diviene “oppio dei popoli”, in quanto può essere utilizzata strumentalmente dalle classi dominanti per mantenere il proprio potere e il proprio controllo sulla

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società, aumentando la soddisfazione delle classi subalterne nonostante la loro condizione di disagio e precarietà materiale. In fondo l’obiezione dello “schiavo felice” di Amartya Sen sviluppa un ragionamento analogo a quello della critica marxista in quanto, se gli schiavi felici fossero numerosi tanto da contare a livello di risultati aggregati, la felicità dichiarata potrebbe divenire oppio dei popoli! La critica di Nietzche al cristianesimo si muove invece sulla linea dell’ipotesi che l’accettazione degli eventi negativi e la capacità di dare senso al dolore e alla morte, attraverso il significato teologico della croce, ha generato in alcune epoche storiche una visione troppo “dolorista” della fede facendo constatare al filosofo tedesco che, se nelle premesse teoriche i cristiani dovrebbero essere gioiosi e felici, essi appaiono generalmente come persone tristi. Se però i risultati degli studi empirici recenti sulla felicità ci suggeriscono che la pratica religiosa è associata ad una relazione positiva e non negativa con la felicità e, in particolare, se essa attutisce l’effetto di shock negativi sulla felicità, e se rileviamo l’impegno sui temi della giustizia, possiamo forse concludere che entrambe le obiezioni sono state prese sul serio e superate e che, in particolare quella di Marx, abbia stimolato avanzamenti sulla capacità della religione di approfondire il terzo punto, sviluppando la propria capacità di essere fermento di giustizia sociale ed evitando di divenire oppio dei popoli.

4. 4. Felicità come assenza di dolore? Un paradosso Uno degli equivoci più probabili in cui possiamo incorrere parlando del tema della felicità è quello di credere che la felicità coincida con l’assenza di dolore. Quando, invece, è del tutto ovvio che l’opposto del dolore è il piacere e che l’oppo-

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sto della felicità o soddisfazione di vita, è l’infelicità o l’incapacità di dare un senso e di trarre soddisfazione dalla propria esistenza. Ragionando sui diversi modi di intendere la felicità possiamo scoprire che alcuni di essi si avvicinano maggiormente al concetto di piacere, mentre altri se ne allontano radicalmente. Se andiamo a vivisezionare la felicità, inseguendo il bioritmo dei nostri stati d’animo nel corso del tempo, ci avviciniamo molto di più ad una definizione di felicità come somma di momenti piacevoli. Alcuni studi sulla felicità effettuano questo tipo di operazione 23. Se invece associamo il concetto di felicità a quello di soddisfazione di vita ci allontaniamo maggiormente dal concetto di piacere e ci avviciniamo a quello di soddisfazione e senso complessivo della propria vita. In questo secondo caso possiamo imbatterci nel paradosso di una felicità che non è necessariamente correlata positivamente con l’assenza di dolore. Prima di arrivare a descrivere paradossi estremi possiamo soffermarci a ricordare, per un attimo, il concetto di “bene arduo”, fondamentale per comprendere come la felicità non coincida necessariamente con l’assenza di dolore o addirittura di fatica. Il bene arduo è quel bene conseguibile in un futuro a prezzo di uno sforzo e di una fatica oggi (l’esempio classico è quello della passeggiata in montagna, ma un altro può essere quello del parto, un bene arduo del tutto particolare nel quale la distanza tra la fatica e il dolore corrente e il traguardo di bene futuro è particolarmente ravvicinata!). D’altro canto le conclusioni di molti studi di psicologia della felicità sembrano quasi concludere che senza uno sforzo doloroso, una fatica, seppur remunerata e non vana, non è 23 Kahneman D. (2000), Experienced Utility and Objective Happiness: A Moment-Based Approach Chapter 37, pp. 673-692, in Kahneman D. Tversky A. (edd.), Choices, Values and Frames, Cambridge University Press and the Russell Sage Foundation, New York.

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possibile essere felici. Infatti le loro conclusioni individuano le due principali determinanti della felicità, accanto alla relatedness, ovvero alla qualità delle relazioni con i propri simili, nella purposedness e nel sense of achievement, ovvero nell’avere uno scopo da perseguire, una vetta (un bene arduo) da raggiungere e nella soddisfazione di avvicinarsi progressivamente a tale vetta. L’assenza di tensione faticosa verso un obiettivo, o la frustrazione di un obiettivo troppo distante verso il quale non si percepisce la possibilità di graduale avvicinamento, sono al contrario le cause principali di infelicità. Tornando al bene arduo la nostra cultura è curiosamente impregnata di questo concetto in alcuni campi dell’esistenza e ne prescinde quasi totalmente in altri. Se guardiamo, infatti, al mondo del lavoro appare del tutto evidente (e positivamente valutata dalla cultura oggi prevalente) la necessità di un duro apprendistato nel quale la fatica vissuta viene giustificata alla luce del traguardo di una crescita di status professionale, di soddisfazione individuale, di guadagno economico e, in taluni ambiti, di notorietà. Nel campo sportivo il concetto di bene arduo raggiunge il suo vertice paradossale. Pur di arrivare alla vetta (che, anche in questo caso, almeno per gli sport più celebri, promette notorietà e guadagni), ci si sottopone non solo a massacranti allenamenti (e, quindi, a fatiche correnti compensate dalla possibilità di soddisfazioni future), ma anche a trattamenti che possono essere pericolosi per la salute. In altri campi, invece, come quello degli affetti e della vita dello spirito, la cultura del bene arduo è quasi del tutto scomparsa, sostituita da quella dell’inseguimento dell’emozione di breve periodo. Il concetto di un allenamento faticoso, di un impegno che coinvolge anche la volontà e che congiunge due momenti separati nel tempo di gratificazione interiore, dando continuità e stabilità a bioritmi sentimentali intermittenti e per loro natura irregolari, sembra oggi essere passato di moda. La conseguenza è che la capacità di raggiungere beni

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ardui e soddisfazioni meno effimere – in sostanza la capacità di differire il piacere per una soddisfazione più profonda, che è alla base dello sviluppo della persona – nelle nuove generazioni sembra essere sostanzialmente ridotta. Il perseguimento di beni ardui dunque non esclude l’osservazione di una correlazione positiva tra soddisfazione di vita e fatica corrente o sopportazione di situazioni anche dolorose. Escludendo il fenomeno estremo e perverso del masochismo, per il quale l’individuo prova soddisfazione, non malgrado, ma proprio a causa del suo vivere una situazione dolorosa, esistono alcuni paradossi nel rapporto tra felicità e dolore che vanno oltre il concetto “naturale” e sperimentato da ciascuno nella propria vita, almeno in qualche campo, di bene arduo.

4. 5. Prima l’uovo o la gallina? Il problema del nesso di causalità tra la felicità e le sue determinanti Una nota di metodo necessaria e, spero, non troppo noiosa. Un dilemma spesso irrisolvibile nelle analisi economiche è quello della definizione del nesso di causalità tra due variabili. Nei paragrafi precedenti abbiamo raccontato di come numerosi lavori empirici abbiano dimostrato l’esistenza di una correlazione significativa tra felicità e una serie di determinanti. Mentre riscontrare e misurare tale correlazione è semplice, molto più difficile è stabilire, per tutte quelle variabili che mutano nel tempo, la direzione del nesso di causalità. Per fare un esempio, quando studiamo la relazione della felicità con il clima o con il genere (maschile/femminile) non possiamo non concludere che la direzione di causalità va da queste variabili verso la felicità e non viceversa. Infatti la felicità non può determinare né il clima, né il sesso di un individuo (anche se og-

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gi gli individui hanno in alcuni casi la possibilità di cambiare sesso, e dunque la loro felicità relativa potrebbe essere una concausa di questa decisione; il fenomeno non è certo così comune da poter supportare un nesso di causalità inversa a livello di dati aggregati). Il problema diventa più difficile quando studiamo il rapporto tra felicità e fattori, che possono variare nel tempo, come i beni relazionali, la salute, il livello d’istruzione e persino il reddito. In tutti questi casi è infatti altrettanto ragionevole l’ipotesi di un nesso di causalità inversa che stabilisce come l’avere un carattere più ottimista e predisposto alla felicità possa generare effetti positivi sulla salute, sulla decisione dell’investimento in beni relazionali, sull’investimento in istruzione e sulla capacità di far crescere le proprie disponibilità monetarie. Un esempio famoso di nesso di causalità inversa, nel rapporto tra felicità e salute, è quello stabilito dal già citato risultato di un famoso studio americano su un campione di suore 24. Analizzando i diari di un campione di giovani suore gli studiosi avevano individuato un sottogruppo di suore con visione ottimista e positiva del loro ruolo e un secondo gruppo con visione opposta e pessimista. A distanza di molti anni il primo gruppo di suore ha rivelato una vita media di sei anni e mezzo superiore al primo. Dunque, in questo caso, il nesso di causalità inversa (dalla felicità o dall’ottimismo della visione di vita alla salute) è stato clamorosamente dimostrato. Per identificare il corretto nesso di causalità tra due variabili non basta avere un campione che ripete le osservazioni nel tempo per lo stesso gruppo di individui. Ovvero non basta dire che X causa Y in presenza di una correlazione positiva os24

Post S.G. (2005), Altruism, Happiness, and Health: It’s Good to Be Good, in «International Journal of Behavioral medicine», vol. 12, n. 2, pp. 66-77.

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servata tra le due variabili. Neppure l’eventuale distanza temporale tra le due variabili oggetto di osservazione (aver scoperto, ad esempio, una relazione significativa tra una variabile X, osservata in un periodo t, e una variabile Y, osservata in un periodo t + 1 o t + n) è sufficiente per essere certi della presenza di un nesso di causalità. Infatti, la successione temporale tra due fenomeni non implica necessariamente l’esistenza di un nesso di causalità dal fenomeno antecedente a quello susseguente. Per fare un esempio concreto possiamo osservare una correlazione positiva tra reddito di un paese oggi e livello di istruzione di qualche anno precedente. Questa correlazione non implica necessariamente che l’istruzione sia la causa del maggiore reddito in quanto può darsi che livelli già più alti di reddito passato abbiano indotto le famiglie ad investire di più in istruzione. Il metodo migliore per cercare di identificare il nesso di causalità è dunque quello delle “differenze nelle differenze”, ovvero – nel nostro caso – dell’osservazione dell’effetto di variazioni di alcune possibili determinanti della felicità sulle variazioni della felicità stessa. Per realizzare questo obiettivo sono stati messi a punto, da economisti e psicologi, i cosiddetti studi moment based 25, ovvero studi che si basano sulla registrazione da parte degli individui delle variazioni della propria felicità nel corso di una giornata in corrispondenza agli eventi che in quella giornata accadono. I risultati di questi studi confermano, ad esempio, che la correlazione tra felicità e tempo speso in relazioni, è spiegata, almeno in parte, dall’effetto positivo che il tempo investito in relazioni ha sulla felicità in quanto le maggiori variazioni positive di felicità, registrate in media negli studi mo25 Kahneman D. (2000), Experienced Utility and Objective Happiness: A Moment-Based Approach Chapter 37, pp. 673-692, in Kahneman D. Tversky A. (edd.), Choices, Values and Frames, Cambridge University Press and the Russell Sage Foundation, New York.

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ment based, corrispondono proprio a momenti di vita relazionale vissuti nel corso della giornata.

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5. La felicità come criterio per le scelte di politici ed economisti? È possibile utilizzare veramente la felicità (dei cittadini) come variabile obiettivo per le decisioni di politica economica? I risultati che abbiamo evidenziato e commentato sembrano suggerire che si tratta di una scelta necessaria per evitare paradossi ed esiti controproducenti che possono mettere a rischio il successo politico degli stessi decision makers. La stessa Banca Mondiale, nel suo rapporto del 2003 sulla povertà, presenta il già citato modello di riferimento per la valutazione del benessere individuale nel quale il canale tradizionale, che lega produzione, consumi e benessere, è affiancato da altre relazioni che collegano direttamente la fruizione di beni ambientali, relazionali e di risorse individuali (come l’istruzione) alla felicità individuale (vedi: 3. Felicità e vita di relazioni: alcuni paradossi introduttivi, p. 39). In questo schema, dunque, le risorse individuali, ambientali e sociali non sono solo input che possono contribuire a far crescere la produzione, ma anche beni in sé che, se goduti individualmente, contribuiscono all’aumento della soddisfazione di vita. È evidente che la prospettiva della felicità ha alcune implicazioni fondamentali che cambiano il modo di vedere la politica economica. Si tratta di differenze che sembrano sottili ma in realtà sono fondamentali. Un conto è stabilire che l’obiettivo finale delle decisioni di policy debba essere quello della crescita economica, un altro è dire che l’obiettivo della creazione di valore economico è un traguardo intermedio, finalizzato alla realizzazione di una soddisfazione di vita complessiva della persona, nella quale contano anche tutti gli altri

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beni presenti nello schema, sopra descritto, da parte della Banca Mondiale. Nel primo caso è lecito sacrificare all’obiettivo della crescita economica istruzione, sanità e qualità dei beni relazionali goduti dalla popolazione, nel secondo caso la crescita economica è perseguita proprio nell’ottica di far crescere le risorse destinabili al soddisfacimento dei beni superiori sopra menzionati. In questa valutazione di fondo è però necessario rammentare che, tra creazione di valore economico e felicità collettiva, esistono una serie di indicatori intermedi che fanno già parte del patrimonio della cultura economica delle istituzioni nazionali e internazionali e sono spesso adottati come traguardo ultimo delle scelte di policy. Tra di essi ricordiamo tutti quegli indicatori di qualità della vita che ponderano, in diverso modo, una griglia di variabili all’interno della quale la crescita economica è affiancata a una serie di indicatori sociali (questo tipo di indicatori viene adottato sia da istituzioni internazionali come l’UNDP, nelle classifiche di benessere dei diversi paesi mondiali che, ad esempio, da quotidiani come il Sole 24 Ore nell’indagine sulla qualità della vita nelle province italiane). Tali indicatori hanno il problema delle tecniche di ponderazione da utilizzare per aggregare e sintetizzare i risultati dei diversi singoli indici in un’unica misura; problema non risolvibile in modo univoco e che fa dipendere i risultati finali in maniera cruciale dalle scelte soggettive dei ricercatori. Della stessa famiglia di indicatori intermedi tra mera crescita economica e felicità collettiva fanno, in fondo, parte i concetti di capabilities and functionalities, sviluppate da Amarthya Sen. Secondo il premio Nobel indiano la politica economica dovrebbe avere come obiettivo quello di far crescere le capacità di azione e le potenzialità degli individui. In questa ottica beni come la salute, l’istruzione, l’accesso al credito, il godimento di diritti politici e la possibilità di organizzarsi in gruppi di pressione per far valere i propri in-

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teressi sono tutti strumenti che amplificano capabilities e functionalities degli individui. Questi ultimi indicatori sembrano abbastanza lungimiranti e omnicomprensivi. Da dove nasce dunque la necessità di usare direttamente misure di felicità e quali sono le differenze tra i primi e le seconde?

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5. 1. La polemica tra felicità e capabilities Le differenze tra l’approccio degli indicatori di qualità della vita e delle capabilities e quello della felicità collettiva non sembrano essere profonde ma, in realtà, tra i due modi di concepire il benessere individuale esiste una significativa differenza. Sen guarda con sospetto all’approccio dell’economia della felicità e spiega la sua diffidenza con l’esempio dello “schiavo felice”. Possono esistere paradossalmente casi di individui in condizioni di oggettivo asservimento e privazione di diritti politici e di rappresentanza, o addirittura in condizioni di lavoro forzato, dunque con livelli di capabilities estremamente bassi e una qualità della vita obiettivamente insufficiente se valutata con parametri oggettivi e nonostante ciò tali individui potrebbero dichiararsi felici. In tal caso la politica economica che segue il criterio della happiness riterrebbe paradossalmente opportuno non intervenire per migliorare le loro condizioni sociali. All’obiezione dello schiavo felice si può rispondere che essa può avere un senso nel caso in cui si faccia riferimento al comportamento di alcuni (pochissimi individui). In realtà, però, il suo effetto sulle determinanti della felicità collettiva, a livello aggregato, sparisce in quanto le eccezioni dei pochissimi “schiavi felici” diventano irrilevanti di fronte alla grande maggioranza degli individui con preferenze più tradizionali. L’attenzione ai fattori che in media influiscono significativamente

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sulla felicità dichiarata di un campione rappresentativo della popolazione mondiale consente agevolmente di evitare questo rischio. La critica che invece i sostenitori dell’economia della felicità fanno all’approccio delle capabilities e, in genere, a quello degli indicatori della qualità della vita, è che tale approccio non può non essere paternalista e non sottintendere la decisione da parte di un’élite di pianificatori illuminati su ciò che è buono per l’intera collettività. In generale si può comprendere come l’approccio delle capabilities sia nato in un contesto di economie non sviluppate e sembri più adatto a guidare i criteri di scelta delle politiche economiche in condizioni di oggettiva deprivazione materiale come la lotta alla povertà nei paesi del Sud del mondo. Quando si tratta di uscire dalla povertà estrema o da livelli di reddito molto bassi, i criteri della crescita delle capabilities possono pertanto essere più facilmente condivisi. L’approccio dell’economia della felicità sembra invece più appropriato in contesti come quelli delle economie sviluppate, dove esiste già una buona qualità di vita per la maggior parte della popolazione e, dunque, il paradosso dello schiavo felice trova difficile applicazione. In contesti come questi (e in particolare in categorie della popolazione particolarmente abbienti come potrebbero, ad esempio, essere gli adolescenti in famiglie benestanti nei paesi a più alto reddito pro capite), un ulteriore aumento delle capabilities non aumenta necessariamente la felicità personale. Per fare un esempio banale non è affatto detto che comprare una Smart a un giovane viziato generi un incremento della sua soddisfazione di vita. Inoltre la crescita delle capabilities potrebbe, paradossalmente, aumentare la “vertigine del possibile” riducendo la felicità di individui perplessi e combattuti di fronte a un eccesso di possibilità di scelta. In altri termini, la crescita delle capabilities finisce per aumentare il costo opportunità connesso alle scelte indivi-

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duali, aumentando il valore delle opzioni che si escludono automaticamente nel momento in cui, facendo una determinata scelta, escludiamo tutte le altre alternative possibili.

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5. 2. La critica della set point theory (tutti gli shock si riassorbono completamente) Un’altra sfida (per così dire “interna”) alla possibilità di utilizzare le indicazioni provenienti dai nuovi studi empirici sulla felicità, per formulare i criteri guida delle politiche economiche, è rappresentata dalla cosiddetta set point theory. I fautori di questa teoria affermano che tutti gli eventi positivi o negativi che accadono nella nostra vita (un licenziamento, la variazione del nostro reddito, un matrimonio o una separazione, ecc.) agiscono come degli shocks che hanno effetti solo temporanei e non permanenti sulla felicità individuale. In altri termini, gli impatti positivi o negativi degli eventi esterni che accadono finiscono con il tempo per essere riassorbiti per via di meccanismi psicologici interiori, secondo i quali tendiamo da un lato a rielaborare i “lutti” e, dall’altro, a sviluppare fenomeni di assuefazione divenendo progressivamente indifferenti agli eventi lieti che ci accadono. I sostenitori della set point theory concludono argomentando che, se tutti gli shocks hanno effetti solo temporanei, la felicità individuale, a meno di deviazioni transitorie dal suo livello di equilibrio, dipende unicamente da fattori, quasi interamente ereditari e immutabili, legati al carattere delle persone. Se questo è vero la politica economica, potendo incidere soltanto sugli eventi esterni della vita individuale e non sui caratteri delle persone, in larga parte “immutabili”, non sarebbe in grado di avere alcun effetto sulla felicità collettiva e dunque risulterebbe del tutto inutile (e frustrante!) porre quest’ultima come riferimento delle scelte di politica economica.

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In realtà i lavori empirici sulla felicità, che osservano la dinamica degli impatti dei diversi shock nel tempo, sconfessano chiaramente la set point theory (Costa et al., 1987; Cummins et al., 2004). Essi evidenziano una capacità di “rielaborazione del lutto” o di assuefazione agli eventi positivi soltanto parziale. Questi studi dimostrano che gli shock hanno effetti non solo temporanei ma permanenti e questo vale in misura maggiore per gli eventi negativi, i quali non vengono mai del tutto, riassorbiti. Dunque gli individui non si adattano completamente ad un fallimento relazionale, ad esempio una separazione o un divorzio (anche se la condizione di separazione ha in genere effetti più negativi sulla felicità di quella di divorzio proprio, perché lo shock è più recente), o a un fallimento professionale (uno stato di disoccupazione continua a generare effetti negativi sulla felicità individuale finché dura), mentre assorbono solo parzialmente eventi positivi. Un esempio di questi risultati sono gli studi sugli effetti nel tempo dei matrimoni che dimostrano chiaramente un picco di soddisfazione in corrispondenza dell’evento e un declino successivo che porta però il livello di felicità individuale a convergere verso un grado di soddisfazione superiore a quello precedente l’evento. Le considerazioni sviluppate sopra indicano dunque come, con le dovute considerazioni e cautele specificate, gli studi delle determinanti sulla felicità possono essere un importante riferimento per le scelte di politica economica e sociale. I due esempi illustrati di seguito mostrano anzi che la loro implicita o esplicita considerazione può determinare il successo o il fallimento di un progetto politico.

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5. 3. La miopia dell’europeismo degli ultimi decenni che ignora i risultati degli studi sulla felicità

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«We shall once more value ends above means and prefer the good to the useful». (Dovremmo una volta di più dare più valore ai fini che ai mezzi e preferire il buono all’utile). (John Maynard Keynes, Economic possibilities for our Grandchildren, 1930)

Il dramma della cultura europea dei nostri tempi è che il riduzionismo economicista ha conquistato il palcoscenico e il suo predominio culturale appare quasi incontrastato (almeno nei mezzi di comunicazione). Gli obiettivi supremi, verso i quali tutti gli sforzi sembrano essere tesi, sono la quadratura dei bilanci, il rispetto dei vincoli di Maastricht, la riduzione del gap di crescita con i paesi concorrenti, l’aumento della produttività e, a livello di singola impresa, l’obiettivo della massimizzazione del ROE per soddisfare le esigenze degli azionisti. Il problema non è che questi non siano in sé dei valori intermedi e importanti della vita economica, ma che strategie basate sulla loro soddisfazione diventano delle vere e proprie aberrazioni se non vengono accompagnate da altri valori su cui c’è ormai un “silenzio assordante”. Per fare un esempio estremo ma chiaro, al processo di Norimberga il dirigente della massima impresa chimica tedesca, interrogato di fronte alla responsabilità di aver prodotto il Zyklon, sostanza utilizzata per la gassificazione dei prigionieri nei campi di concentramento, rispose, candidamente, che il suo obiettivo era quello di soddisfare gli interessi degli azionisti! Il principio della massimizzazione del valore dell’azionista richiede dunque di essere temperato da un sistema di regole e di contrappesi che esistono e sono efficaci solo quando le istituzioni si

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preoccupano del bene comune e sono rinforzati quando una quota di cittadini socialmente responsabili esercita un ruolo di stimolo alla responsabilità sociale d’impresa votando con il portafoglio attraverso le proprie decisioni di consumo e di risparmio. Ma facciamo un altro esempio di un obiettivo economico che, se perseguito come fine ultimo e non temperato da fini superiori, produce risultati del tutto paradossali. Aumentare la produttività rappresenta la vera ossessione della cultura economica dei nostri tempi. Ovviamente questo traguardo ha un senso perché una maggiore produttività ci consente di aumentare la creazione di valore per unità di lavoro e, dunque, di avere più risorse a disposizione per il soddisfacimento dei bisogni personali e di quelli del welfare. La produttività è determinata dal valore di ciò che viene prodotto e venduto diviso per il numero dei lavoratori o delle ore lavorate. In sostanza, il valore del prodotto attribuibile alla singola unità produttiva o ora lavorata. Dal punto di vista statistico-econometrico le diverse tecniche utilizzate per misurare la produttività – dagli indici più semplici di fatturato o valore aggiunto per addetto alle elaborazioni più complesse che individuano la distanza dalla “frontiera di produzione efficiente” con approcci parametrici o non parametrici in presenza di componenti stocastiche – si muovono sostanzialmente nella stessa direzione inducendoci a leggere in maniera positiva una crescita del valore prodotto a parità di ore lavorate. Anche questo concetto che, se accompagnato dai giusti correttivi, ha la sua importanza e validità, produce paradossi quando viene assolutizzato. Prendiamo il caso di un ristorante “per turisti” con cibo scadente e molto caro. Nelle statistiche questo ristorante presenterà un rapporto – tra valore del prodotto e ore lavorate – superiore alla media e potrebbe diventare, nella logica della produttività come criterio unico di azione, di esempio anche per gli altri, come modello di pro-

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duttività verso cui tendere. Dunque la ricerca esasperata della produttività porterà a un deterioramento della qualità del servizio e a una riduzione del benessere del cliente. Consideriamo alternativamente il caso di un tassista che cerca di approfittare dell’inesperienza di turisti stranieri proponendo tariffe fuori mercato a clienti appena arrivati all’aeroporto da paesi lontani. Anche in questo caso la produttività del tassista in oggetto risulta nelle statistiche superiore a quella dei tassisti onesti e, dunque, questo tassista sarebbe un modello da imitare. Proseguendo con esempi meno divertenti, tutte quelle imprese che riducono il costo del lavoro licenziando, subappaltando alcune fasi della produzione a fornitori in paesi in via di sviluppo, nei quali le condizioni di lavoro sono al di sotto della soglia della dignità (anche rispetto alla situazione media del lavoro nel contesto di quel paese), registreranno ancora aumenti di produttività e andranno prese come esempio dalle altre imprese. Si obietterà a questi esempi che comportamenti del genere, quand’anche non sanzionati o non sanzionabili da parte delle istituzioni, per assenza di norme apposite o capacità di controllo, porterebbero l’impresa a una perdita di reputazione. Pertanto, a fronte di un aumento di produttività e forse di profitti correnti, l’impresa rischierebbe di mettere a repentaglio la profittabilità futura. Questo correttivo automatico non vale nel caso di aumenti di produttività a scapito delle condizioni di lavoro in paesi lontani (a meno di una robusta presenza di consumatori socialmente responsabili che sanzionano anche questo tipo di comportamenti) e neanche nel caso di aumenti di produttività a danno dei consumatori quando il rapporto tra consumatore e impresa non è ripetuto. In questi frangenti la perdita di reputazione non ha alcun impatto negativo sul produttore del bene o servizio (nel caso del tassista e degli stranieri, per esempio, i consumatori sono sempre nuovi e il deterrente della perdita di reputazione non si applica).

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Oltre l’homo oeconomicus

Dunque, tornando all’Europa, ci si meraviglia del fatto che il processo di Unione Europea avviato nel dopoguerra sotto l’egida dell’ideale della pace tra popoli prima in guerra, da perseguire concretamente attraverso i processi di cooperazione economica, godeva allora di grande consenso mentre l’Europa di oggi viene sconfitta nei referendum? Ci si meraviglia del perché l’opinione pubblica non si esalti e innamori della quadratura del bilancio? Pensiamo forse che la soddisfazione di vita dei cittadini cresca e la loro felicità possa essere solleticata da una concezione d’Europa dove gli assoluti della produttività e della soddisfazione degli azionisti possono generare i grotteschi paradossi sopra citati, dove la preoccupazione principale sembra quella di normare tutto il possibile (dall’altezza degli autobus, alla lunghezza, peso e altre caratteristiche dei prodotti ortofrutticoli)? Esiste in realtà un’altra Europa che svolge un ruolo fondamentale. Che ha assicurato prosperità e convivenza pacifica a popoli sempre in guerra tra loro nel corso della storia. Che rappresenta un polo di attrazione per i paesi del mediterraneo e dell’area balcanica che, stimolati dalla possibilità di raggiungere la nostra qualità di vita sociale ed economica, sono disposti a rinnegare i conflitti e a maturare gradualmente quelle tappe di sviluppo istituzionale che i processi di adesione al trattato richiedono. Che trova il coraggio di abolire i sussidi all’agricoltura che soddisfano soltanto una piccola lobby. Danneggiando tutti i consumatori che potrebbero avere prezzi migliori e, soprattutto, i produttori del Sud del mondo che vivono con uno o pochi dollari al giorno per via di meccanismi protezionisti che spingono le istituzioni comunitarie a pagare tre o quattro dollari al giorno di incentivazione per ogni mucca che pascola nei nostri paesi (consentendo tra l’altro di fare dumping ed esportare sotto costo prodotti agricoli nei mercati dei paesi del Sud del mondo).

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Questa rivoluzione non dovrebbe necessariamente realizzarsi a danno delle categorie ora protette perché sarebbe possibile trarre dall’aumento di potere d’acquisto ad essa conseguente le risorse necessarie per compensarle. Questa seconda Europa possibile rischia di venire schiacciata dalla prima se la miopia riduzionista continuerà e se gli insegnamenti che provengono dagli studi sulla felicità non saranno ascoltati.

5. 4. Quale politico ha letto gli studi sulla felicità? Le nostre riflessioni sull’economia della felicità ci possono aiutare a comprendere alcuni eventi della politica, incomprensibili ad una valutazione che non è in grado di uscire dall’angusta ottica riduzionistico-economicista. La Bulgaria è stata all’inizio del nuovo secolo un alunno modello del Fondo Monetario e ha realizzato una performance assai significativa in termini di crescita del reddito pro capite. Il re Simeone, premier uscente e figura molto popolare, si è presentato alle elezioni del 2005 con i successi realizzati in questo specifico settore e le ha sorprendentemente perse. In generale in molti paesi dell’Est Europa abbiamo assistito a una rivincita degli ex partiti comunisti che hanno vinto competizioni elettorali contro i governi non comunisti, impegnati nelle riforme di mercato. Se osserviamo questi eventi nell’ottica dell’homo oeconomicus, la cui felicità dipende dall’aumento del reddito e delle possibilità di consumo, non tenendo conto degli impatti delle politiche sulla distribuzione del reddito e non guardando agli altri fattori che determinano la soddisfazione di vita individuale, questi risultati elettorali ci appaiono incomprensibili. Possibile che i frustrated achievers, da eccezione diventino la maggioranza? Se ragioniamo alla luce degli insegnamenti dell’economia della felicità capiamo invece molte cose. Il gruppo di riferimento per i cittadini delle economie in transizione è

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Oltre l’homo oeconomicus

intanto cambiato. Il confronto con gli stili di vita occidentali è divenuto più pressante e il rapporto tra reddito percepito e reddito desiderato è probabilmente diminuito, nonostante la crescita del reddito percepito. I costi del passaggio all’economia di mercato hanno determinato una riduzione della stabilità del posto di lavoro (altro effetto negativo sulla felicità) e, probabilmente, flessioni nel valore di altri beni come sanità, istruzione e beni relazionali percepiti. Ovviamente queste considerazioni non rappresentano affatto un elogio del vecchio sistema socialista. Stanno solamente a significare che gli individui sono molto più complessi di come appaiono nelle schematizzazioni dei modelli economici. E che i politici, che non tengono conto con attenzione degli “effetti collaterali” delle riforme economiche, corrono il serio rischio di perdere molti consensi nell’agone elettorale.

5. 5. Cosa abbiamo imparato dagli studi della felicità: avvertenze per l’uso A conclusione di questo viaggio nel mondo del rapporto tra felicità e sue determinanti, immagino facilmente una possibile obiezione, che in un certo senso si ricollega all’argomento dello schiavo felice di Sen e che potrebbe essere avanzata in particolare da due tipi di individui: i moralisti e le “persone serie”. I moralisti potrebbero sostenere che alcuni comportamenti sono dolorosi ma necessari e il rispetto delle stesse regole morali di vari credi religiosi non è sempre e necessariamente traducibile in modo immediato in incrementi di felicità collettiva. Le “persone serie” potrebbero sostenere che è un po’ pericoloso, in fondo, definire le scelte di politica economica a partire dalla felicità degli individui, non tanto per il problema

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I. L’economia della felicità

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che essi potrebbero assuefarsi a condizioni sociali non accettabili (lo schiavo felice, appunto), quanto perché soddisfare semplicemente i loro desideri potrebbe risultare non compatibile con i vincoli del sistema. Insomma, non dimentichiamo che l’economia è stata definita la “scienza triste” proprio per la sua attenzione alla valutazione delle interdipendenze tra le diverse scelte e alla definizione dei vincoli che limitano la possibilità di raggiungere gli obiettivi ottimali che ci prefissiamo. Non dimentichiamo, inoltre, che questi vincoli esistono non solo per noi poveri comuni mortali, ma anche per un eventuale Dio, creatore e provvidente, che cercasse di soddisfare i desideri delle sue creature. In una nota commedia cinematografica “Una settimana da Dio” il protagonista, che per una settimana sostituisce Dio nel suo lavoro, si imbatte proprio in questi vincoli quando, cercando di soddisfare tutti i desideri e le richieste ricevute di vittoria a una lotteria, aumenta a dismisura il numero dei vincitori facendo crollare il montepremi e generando una rivolta di piazza. Per fare un altro esempio prosaico, è ancor più chiaro che non è possibile soddisfare, contemporaneamente, tifosi di due squadre opposte della stessa città che chiedono la vittoria della propria compagine nel derby cittadino… È evidente dunque che lo stesso principio di libertà, e la potenza di tale principio, la cui applicazione prevede che nella nostra libertà rientri anche la capacità di creare effetti positivi o negativi nelle vite di altri individui, crea vincoli persino all’azione di – per chi è credente – un’Entità creatrice. Figuriamoci dunque quanti sono i vincoli che limitano la nostra possibilità di realizzare le aspirazioni alla felicità di un’intera collettività! Queste riflessioni ovviamente non incidono sulla parte “analitica” degli studi della felicità quanto sulle ipotesi di strategie politiche di cui azzardiamo una formulazione a partire dai risultati empirici raccolti sul campo. Infatti la parte positi-

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va (valutazione di ciò che incide sulla felicità collettiva) non implica alcuna valutazione morale o valoriale e rappresenta di per sé un importante contributo alla conoscenza delle preferenze degli individui, fondamentale per la formulazione dei modelli economici e della valutazione degli effetti delle scelte di politica economica. Anche sulla parte delle strategie di policy però, se andiamo a vedere il risultato delle indagini sul campo, e non dimentichiamo che le eventuali bizzarrie delle preferenze individuali più originali tendono ad annullarsi in aggregato, scopriamo che in fondo ciò che la gente chiede non appare particolarmente “squilibrato” dal punto di vista morale, né particolarmente velleitario dal punto di vista della realizzabilità concreta. Insomma, la struttura delle preferenze della popolazione mondiale rileva una notevole “maturità” delineando criteri per la soddisfazione di vita assai meno materialistici di quelli contrabbandati dalla nostra cultura e orientati, oltre che alla disponibilità di risorse economiche, al soddisfacimento di diritti fondamentali e a bisogni profondi. Inoltre, la struttura dei desideri collettivi e la loro gerarchia sulla base dell’intensità delle preferenze espresse e ricavate dall’analisi econometrica (salute, istruzione, risorse economiche, lavoro, qualità della vita relazionale, successo e stabilità delle relazioni affettive) indica chiaramente delle possibili direzioni di miglioramento realizzabili nelle scelte di politica economica nel rispetto della compatibilità dei vincoli del sistema. Troppo spesso l’indicazione di vincoli insormontabili all’agire economico è stata utilizzata per coprire la mancanza di fantasia intellettuale o per giustificare qualunque politica dominante. E la promessa di un’età dell’oro raggiungibile nel lungo periodo utilizzata come giustificazione dei costi sociali dei sacrifici (non sempre equamente distribuiti) da fare oggi. Alla nota e autorevole ironia di Keynes che affermava che nel lungo periodo siamo tutti morti, si affianca la recente

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posizione di Sen che in un articolo contrappone la logica delle “lacrime, sudore e sangue” a quella del “ce la faremo poco a poco con l’aiuto dei nostri amici”. Alla luce di queste considerazioni il compito degli economisti è, oggi, quello di lavorare per cercare nuovi spazi e nuove compatibilità per realizzare il desiderio di felicità collettiva nel rigoroso rispetto dei vincoli di sostenibilità economica ed evitando di trasformare i sogni della generazione corrente in incubi per le generazioni successive.

FIGURA 1. 1

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TABELLA 1. 1 Felicità dichiarata nei paesi OCSE ad alto reddito e nel resto dei paesi del campione Felicità dichiarata

MONDO

PAESI OCSE

RESTO DEL CAMPIONE**

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AD ALTO REDDITO *

Molto felice Abbastanza felice Non molto felice Per nulla felice

27,05 53,29 16,45 3,21

Numero di intervistati 112.832

32,88 57,66 8,18 1,28

24,87 51,66 19,54 3,93

30.691

82.141

* Paesi OCSE ad alto reddito: Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Stati Uniti d’America. **Resto dei paesi del campione: Albania, Algeria, Azerbagian, Argentina, Armenia, Bangladesh, Bosnia Erzegovina, Brasile, Bulgaria, Bielorussia, Cile, Cina, Taiwan, Colombia, Croazia, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Egitto, El Salvador, Estonia, Georgia, Ungheria, India, Indonesia, Iran, Israele, Giordania, Corea, Lettonia, Lituania, Macedonia, Malta, Messico, Moldavia, Montenegro, Marocco, Nigeria, Irlanda del Nord, Pakistan, Perù, Filippine, Polonia, Porto Rico, Romania, Federazione Russa, Serbia, Singapore, Slovacchia, Slovenia, Sud Africa, Tanzania, Turchia, Uganda, Ucraina, Uruguay, Venezuela, Viet nam, Zimbabwe.

Fonte: Becchetti, Londono Bedoya, Trovato (2005).

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TABELLA 1. 2

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Soddisfazione di vita nei paesi OCSE ad alto reddito e nel resto dei paesi dell’indagine SODDISFAZIONE DI VITA

MONDO

PAESI OCSE

RESTO

Insoddisfatto 2 3 4 5 6 7 8 9 Pienamente soddisfatto

5,36 3,95 5,61 5,66 14,21 9,64 13,08 17,13 11,24

1,34 0,95 2,28 3,13 7,89 8,87 16,6 26,47 16,62

6,85 5,06 6,85 6,59 16,56 9,92 11,77 13,67 9,25

14,12

15,84

13,47

31.736

85.528

DEL CAMPIONE

AD ALTO REDDITO

Numero di osservazioni 117.264

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FIGURA 1. 2 Felicità dichiarata e classi di reddito in Italia (1= dieci percento della popolazione con reddito più basso, 10=dieci per cento della popolazione con reddito più alto)

3 2,9 2,7

2,8

Felicità

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3,1

Felicità-Reddito in Italia

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

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FIGURA 1. 3 Una nuova concezione di benessere Benessere

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Fruizione dei beni ambientali

Risorse naturali

Networks, valori condivisi, fiducia valori e trust

Consumo dei beni materiali

Risorse sociali Reti relazionali

Imput di risorse ambientali Output Edifici, beni investimento attività finanziarie

Risorse costruite dall’uomo

Conoscenza tacita, habitat, competenze

Conoscenza codificata

Risorse umane

Fonte: World Bank, World Development Report 2003: Sustainable Development in a Dynamic World.

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TABELLA 1. 3 Felicità e distribuzione del reddito (valori percentuali, totale di riga = 100)

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MOLTO

1° decile 2° decile 3° decile 4° decile 5° decile 6° decile 7° decile 8° decile 9° decile 10° decile

FELICE

20,07 22,45 21,93 26,70 27,14 31,22 31,84 32,86 35,13 37,05

ABB.

FELICE

45,16 49,91 53,54 53,28 55,57 53,91 55,49 54,89 53,43 53,71

NON

MOLTO FELICE

26,19 22,55 20,60 17,25 15,15 13,06 10,73 10,93 10,24 8,16

PER

NULLA FELICE

8,57 5,09 3,93 2,77 2,13 1,81 1,94 1,31 1,20 1,08

Numero di osservazioni: 97970

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TABELLA 1. 4

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Soddisfazione di vita e distribuzione del reddito (valori percentuali, totale di colonna = 100) 1° decile Insoddisfatto 14,79 2 5,94 3 7,93 4 7,10 5 14,49 6 9,05 7 8,69 8 10,88 9 6,89 Pienamente soddisfatto 14,25

2° decile 3° decile 8,87 6,45 4,87 4,74 8,15 8,95 7,26 7,35 16,02 18,24 9,34 9,58 11,21 11,85 13,28 13,49 7,70 7,92

4° decile 4,65 3,91 5,70 6,47 15,93 10,13 12,83 16,05 10,15

5° decile 3,66 3,26 5,15 6,12 17,40 10,93 14,06 16,56 9,66

13,30

14,17

13,20

6° decile 2,80 3,38 4,04 4,71 12,06 11,38 15,29 18,69 12,79

7° decile 8° decile 2,51 2,38 4,10 3,20 3,69 3,06 4,39 3,46 11,12 9,81 9,32 8,53 14,59 14,99 21,30 23,17 15,13 16,87

Insoddisfatto 2 3 4 5 6 7 8 9 Pienamente soddisfatto

14,86

13,84

11,43

14,53

9° decile 1,64 3,55 2,98 3,46 8,54 8,08 14,45 23,26 19,02

10° decile 1,44 1,90 2,41 2,48 6,55 6,42 14,60 26,40 19,32

15,02

18,49

Numero di osservazioni: 101,906

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TABELLA 1. 5

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Tempo speso in relazioni nei diversi paesi del mondo Paese

Indice Tempo Relazionale

Paese

Indice Tempo Relazionale

Lussemburgo Nigeria Indonesia Slovenia Tanzania Uganda Turchia Lettonia Croazia Stati Uniti Ungheria Polonia Zimbabwe Bangladesh Perù Irlanda Sudafrica India Filippine Iugoslavia Iran Egitto Singapore Bosnia-Erzegovina Portorico Svezia Venezuela

3.514 3.423 3.378 3.216 3.154 3.094 3.049 3.037 2.952 2.926 2.918 2.902 2.895 2.874 2.847 2.818 2.803 2.785 2.739 2.736 2.726 2.719 2.716 2.703 2.688 2.687 2.683

Germania Messico Olanda Estonia Grecia Cina Corea Albania Spagna Bielorussia Moldova Belgio Marocco Malta Finlandia Gran Bretagna Danimarca Pakistan Argentina Giordania Slovacchia Cile Italia Islanda Austria Giappone Repubblica Ceca

2.645 2.637 2.636 2.625 2.624 2.614 2.601 2.600 2.580 2.580 2.579 2.561 2.561 2.554 2.549 2.546 2.534 2.522 2.508 2.488 2.469 2.454 2.399 2.398 2.390 2.374 2.327

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2.678 2.670 2.667 2.664 2.663 2.646

Romania Francia Ucraina Lituania Russia

2.300 2.244 2.226 2.218 2.087

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Canada Algeria Macedonia Bulgaria Vietnam Portogallo

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TABELLA 1. 6 Felicità e tempo speso in relazioni Indice di tempo relazionale*

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(0-1) Molto felice Abbastanza felice Non molto felice Per nulla felice

18,65 48,72 24,56 8,07 100

(1-2) 22,27 56,09 18,20 3,44 100

(2-3) 28,84 53,91 14,73 2,52 100

Numero di osservazioni: 84856 *Indice di tempo relazionale: media delle risposte date sulla frequenza del tempo trascorso con: i) familiari, ii) colleghi di lavoro fuori dall’orario di lavoro, iii) gruppi religiosi; iv) amici. Per ogni domanda sono possibili quattro modalità di risposta (mai, alcune volte all’anno, alcune volte al mese, ogni settimana) a cui assegnamo valore crescente da zero a tre.

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TABELLA 1. 7

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Reddito e tempo speso per le relazioni (valori percentuali, totale di colonna = 100)

1° decile 2° decile 3° decile 4° decile 5° decile 6° decile 7° decile 8° decile 9° decile 10° decile

RTI (0-1)

RTI (1-2)

RTI (2-3)

30,82 26,05 25,05 22,49 20,57 21,56 21,55 21,12 19,95 21,21

44,07 47,1 49 48,84 50,87 50,39 50,28 50,96 52,35 53,55

25,14 26,86 25,95 28,7 28,55 28,06 28,2 27,92 27,7 25,25

Numero totale di osservazioni: 82093

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Oltre l’homo oeconomicus

TABELLA 1. 8

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Effetto marginale di alcune determinanti principali sulla probabilità di dichiararsi molto felici (Indagine su campioni bilanciati di 65 paesi per un totale 86980 individui) MONDO

OECD HI

NON OECD

Istruzione secondaria

2-3

2-6

2-4

Istruzione superiore

1-4

2-3

2-3

6-9

7-11

5-7

Disoccupazione

-4/-6

-7/-14

-6/-7

Decile inferiore di reddito

-5/-7

-5/-7

-5/-7

1

1

1

Decile superiore di reddito

6-10

3-7

7-11

Separazione

-4/-8

-5/-12

-4/-5

Tempo speso in relazioni*

4-5

6-11

4-5

4

2-4

4-7

15-16

17

15

Matrimonio

Quinto decile

Pratica religiosa Salute*

* da livello medio a livello massimo

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Oltre l’homo oeconomicus

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II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus

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1. La torre di Babele e la sfida della complessità «Ma da che sono tra gli uomini questo è per me il meno: il fatto di vedere. “A costui manca un occhio e a quello un orecchio e a un terzo la gamba, e vi sono altri che hanno perso la lingua o il naso o la testa”. Vedo, e ho visto di peggio e certe cose così tremende, che non vorrei parlare di ciascuna né tacere di qualcuna: cioè uomini a cui manca tutto, se non che hanno una cosa di troppo: uomini che non sono niente altro se non un grande occhio o una grande bocca…». (Friedrick Nietzche, Così parlò Zarathustra)

I risultati delle ricerche sulla felicità discussi nel precedente capitolo gettano un sasso importante nello “stagno” delle discipline delle scienze sociali. Questi studi ci offrono uno sguardo necessariamente interdisciplinare sull’uomo, sui suoi desideri e aspirazioni, sui successi e sulle ferite che contribuiscono alla sua fioritura. Quando parliamo del rapporto tra reddito e felicità (e così per molte altre variabili), i risultati empirici che otteniamo e le interpretazioni degli stessi si muovono necessariamente in una prospettiva integrata (vedi il cap. I: 2. Il rapporto tra reddito e felicità, p. 26), nella quale le considerazioni tipiche della scienza economica (la moneta come mezzo di scambio che aumenta le nostre possibilità di acquistare beni e, dunque, di aumentare il nostro benessere) si mescolano con le considerazioni delle scienze psicologiche (la rincorsa tra realizzazioni e aspirazioni, il rapporto tra comfort e stimoli) e sociologiche (l’importanza del confronto con il

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gruppo di riferimento e la preminenza del reddito relativo su quello assoluto). È naturale che sia così perché l’homo oeconomicus, sociologicus o quello psicologicus non esistono: la persona è una sola e necessariamente integra in sé le diverse prospettive di queste visioni parziali. I nuovi studi sulla felicità sollecitano dunque una maggiore integrazione degli approcci delle diverse scienze sociali. Se la grande crescita del patrimonio delle conoscenze ha portato a una progressiva settorializzazione e specializzazione, l’esigenza di guardare all’uomo intero, ai suoi desideri e aspirazioni, richiede oggi uno sforzo di confronto e integrazione. È questo l’intento che ci proponiamo di perseguire, talvolta in modo un po’ paradossale e provocatorio, in questo secondo capitolo.

1. 1. Economisti contro ambientalisti In molti ambiti si comincia, da parte di studiosi provenienti da diverse discipline, a far riferimento ad un non ben chiaro e specificato problema della complessità nella conoscenza e nel sapere contemporaneo. Per spiegare cosa s’intende per problema della complessità partiamo dalla considerazione che uno dei limiti più gravi dell’estrema specializzazione e frammentazione della cultura contemporanea è la mancanza di sintesi tra le diverse discipline e la scomparsa di un sapere integrato. Assieme agli ovvi risultati positivi e ai grandi traguardi ottenuti in termini di scoperte scientifiche e mediche, l’iperspecializzazione delle diverse discipline ha riproposto, nel mondo contemporaneo, qualcosa di molto simile alla torre di Babele. Gli esperti di ciascun campo parlano lingue diverse e incomprensibili ai non addetti ai lavori. Il problema diventa serio: i) quando si danno e si applicano ricette, si costruiscono pezzi di cultura o di

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II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus

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società senza tener conto degli approfondimenti e delle conclusioni raggiunte dalle altre discipline, dei risultati e delle esigenze che provengono da diverse visioni del mondo; ii) quando la visione di uomo su cui si fonda lo statuto epistemologico delle diverse discipline è parziale e limitata; iii) quando si opera nelle zone di confine tra discipline, cosa inevitabile poiché, intenzionalmente o meno, le prescrizioni di policy e le ricette per l’azione non sono mai la risposta circoscritta a un problema circoscritto, ma investono l’uomo nella sua completezza e la sua vita sociale in tutti i diversi campi. Un esempio. Uno dei più classici terreni di confine in epoca di globalizzazione è quello del modello di sostenibilità di sviluppo analizzato dalle prospettive, diverse tra loro, degli economisti e degli ambientalisti. Gli economisti, tradizionalmente meno avvezzi a dare importanza al problema dei vincoli delle risorse naturali, e generalmente ottimisti sulla capacità del progresso tecnologico di superare con nuove scoperte gli attuali limiti all’azione produttiva e alla sua sostenibilità ambientale, concentrano la loro attenzione sul problema della crescita economica suggerendo come, attraverso la crescita dei consumi, sarà possibile sostenere il processo di creazione di valore generando quelle risorse economiche necessarie per combattere la povertà e sostenere ed aumentare le spese sociali. In questo quadro i problemi dell’eventuale scarsità delle risorse ambientali possono essere risolti dal mercato e dal sistema dei prezzi che, quando crescono, segnalano la scarsità relativa di una determinata risorsa e stimolano gli agenti economici a sostituirla con risorse alternative. Dunque, in assenza di vincoli stringenti sulla disponibilità delle risorse, l’imperativo sembra essere quello di consumare di più, ovvero di creare più valore economico per risolvere il problema della povertà e per mantenere ed aumentare il tenore di vita e le risorse disponibili per i servizi sociali di cui oggi godiamo. La ricetta degli economisti era efficacemente

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sintetizzata in uno spot pubblicitario di qualche tempo fa nel quale il consumatore usciva dal negozio con un’anonima busta gialla e veniva ringraziato per strada dai passanti per il solo fatto di aver contribuito con i suoi acquisti alla crescita dei consumi collettivi e quindi dell’economia. Per gli ambientalisti – meno avvezzi a occuparsi del problema della necessità di creazione di valore economico, ma concentrati sul problema ambientale e delle risorse e preoccupati dell’impatto e della sostenibilità degli attuali modelli di sviluppo – bisogna invece assolutamente invertire la rotta modificando tali modelli e dunque consumando di meno. In particolare gli ambientalisti sottolineano che il sistema dei prezzi può non bastare perché, nel caso di risorse non appropriabili e non rinnovabili come il clima, gli effetti di un degrado ambientale elevato possono determinare danni irreversibili. Il problema è inoltre complicato dall’assenza di informazione perfetta sulla reale gravità del problema ambientale. La povertà e le sue conseguenze possiamo dolorosamente misurarle, mentre gli effetti del degrado ambientale, in un modello così complesso come quello dell’ecosistema, possiamo soltanto valutarli con una certa approssimazione. In mancanza di informazioni precise s’impone quindi l’esigenza di adottare un principio di precauzione. Dunque consumare di più, come suggeriscono gli economisti, o consumare di meno come ci chiedono gli ambientalisti? Ringraziare o meno il consumatore della pubblicità che esce dal negozio con la sua busta gialla? È evidente in questo campo la necessità di un sapere integrato che contemperi entrambe le esigenze studiando forme di creazione di valore economico ecologicamente sostenibili per creare un’economia più leggera in grado di produrre valore economico con maggiore efficienza energetica.

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1. 2. Economisti contro giuristi «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?».

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(Dante, Divina Commedia - Purgatorio, XVI, 97)

Esistono molti altri campi nei quali le scoperte di una disciplina particolare, che modificano sostanzialmente una prospettiva o un concetto necessario al funzionamento di un’altra disciplina, fanno fatica ad essere incorporate in quest’ultima. Per gli economisti è evidente che il valore “fondamentale” di un’attività finanziaria o di un’opera realizzata si determina attraverso metodi come quello dello sconto di flussi di cassa, valutando cioè per ciascun anno di vita dell’attività economica i flussi di cassa netti e scontandoli per un opportuno tasso che consente di trasferire coerentemente valori nel tempo. Queste acquisizioni, ormai standard, fanno fatica ad essere accettate nella disciplina giuridica che, in talune circostanze, quando definisce i concetti di “danno emergente” e “lucro cessante”, confonde spesso (generando un’apposita giurisprudenza in materia) il valore di un’attività economica con i ricavi e ignorando il problema dello sconto delle attività finanziarie nel tempo. Insomma, per chi non è avvezzo al concetto del mercato e della legge di domanda è ancora difficile comprendere che il valore di un’opera dipende da quanto un’eventuale compratore è disposto a pagarla e non dal tempo o dal lavoro prestato per realizzarla. Se la teoria del valore-lavoro sembra, a primo acchito, più equa, essa trascura un elemento di giustizia rappresentato dal fatto che il valore di un’opera deve dipendere dalla sua utilità per la collettività e dal giudizio che la collettività stessa dà sull’opera attraverso la domanda. La legge di domanda non va ovviamente assolutizzata poiché

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essa non possiede alcuna moralità intrinseca (anzi la legge della domanda finisce per privilegiare spesso opere di dubbio valore e di dubbia moralità, che giocano al ribasso sugli istinti del pubblico) e non può essere l’unico riferimento nel caso di fornitura di beni o servizi pubblici, ma rappresenta pur sempre un principio democratico e sottolinea l’importanza del giudizio dei cittadini sul valore di un determinato bene o servizio. Un altro tipico ambito di scontro potenziale tra giuristi ed economisti è quello relativo all’efficacia delle leggi. Per gli economisti appare del tutto evidente che non basta proclamare solennemente il valore di un diritto per realizzarlo nei fatti. Al contrario, i migliori propositi possono generare effetti perversi nel momento in cui non rimuovono concretamente gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di un diritto e il sistema giudiziario non ha la forza e l’efficienza necessaria per applicare le sanzioni previste. Tra i tanti esempi possiamo citare quelli delle leggi che proibiscono il lavoro minorile le quali, in contesti di forte povertà, quando non vengono accompagnate da misure complementari volte ad offrire ai bambini-lavoratori concrete possibilità alternative, possono addirittura generare l’effetto perverso di far cadere tali minori nel mercato della prostituzione o, comunque, in una condizione di inattività che può essere più dannosa del lavoro minorile stesso. In sostanza, gli economisti ragionano sempre sulla base dei vincoli, delle interdipendenze e dei costi opportunità. E dunque, nell’esaminare costi e benefici di una decisione, si pongono sempre il problema del confronto con l’alternativa concreta alla quale si rinuncia prendendo la decisione stessa, oltre che con ciò che sarebbe effettivamente accaduto in assenza di quella decisione. Nel caso del lavoro minorile è evidente che la piaga si supera soltanto quando si verifica una crescita del salario familiare tale da consentire di poter soste-

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nere l’investimento nell’istruzione dei figli 1. In mancanza di ciò, un semplice divieto, stabilito per legge, non apre di per sé la strada della formazione ai minori e finisce per rendere obbligate vie più pericolose necessarie per il mantenimento dell’economia familiare. L’insegnamento che traiamo da questo esempio è che gli economisti ritengono ragionevolmente che le leggi diventano efficaci nel momento in cui creano gli incentivi opportuni per la realizzazione di quei principi in esse contenuti. Un esempio di regolamentazione di successo è quella sulle polveri sottili. In tal caso non si enuncia semplicemente la necessità di un principio (abbattimento delle polveri), ma si stabilisce che gli amministratori locali sono responsabili e possono essere chiamati in giudizio dai cittadini per danni alla salute, se il livello delle polveri supera una soglia di guardia per un certo numero di giorni all’anno. L’efficacia della norma dipende in questo caso dall’essere stata in grado di creare un forte incentivo per gli amministratori a far rispettare i limiti per via della loro responsabilità giuridica nei confronti dei cittadini. Ponendo in atto una serie di provvedimenti volti ad abbattere le polveri sottili e, dunque, sviluppando una regolamentazione la quale, a sua volta, spinge il settore industriale ad un’innovazione di prodotto in direzione di una maggiore sostenibilità ambientale. L’esempio delle domeniche con circolazione vietata (ad eccezione dei veicoli con i motori meno inquinanti nelle principali città italiane) 1 Dai più importanti studi empirici recenti sulle determinanti del lavoro minorile emerge, infatti, suffragato dall’evidenza empirica, il cosiddetto luxury axiom secondo il quale il lavoro minorile tende a scomparire quando il reddito dei genitori supera una certa soglia: Basu K. (1999), Child Labour, cause, consequence and cure, with remarks on interantional labour standards, in «Journal of Economic literature», vol. 37, pp. 1083-1119; Basu K. - Van P.H. (1998), «The Economics of Child Labor», in «American Economic Review», 88, pp. 412-427.

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e l’enorme stimolo che esse hanno dato alla domanda di veicoli a minore impatto ambientale, spingendo le case automobilistiche in questa direzione, al di là delle considerazioni sull’esistenza o meno di vie più efficaci per raggiungere l’obiettivo finale della normativa ambientale, illustra chiaramente l’efficacia di questo percorso. Passando a un altro fronte di attrito e di incomunicabilità, per quanto riguarda la disciplina dell’economia e i terreni di confine e di scontro di linguaggio con le altre scienze sociali, possiamo affermare che il limite principale è l’incapacità dell’homo oeconomicus, il paradigma individuale posto a base dei modelli e delle teorie, di incorporare una serie di acquisizioni delle scienze sociali ormai patrimonio comune. Questo limite rischia alcune volte di portare gli economisti a conclusioni grottesche che proviamo a descrivere nei prossimi paragrafi.

1. 3. Economisti contro antropologi e altri scienziati sociali Il punto chiave di frizione è, in questo caso, quello relativo alla concezione di persona alla base delle diverse discipline delle scienze sociali. Gli economisti sono fermi ad una visione di homo oeconomicus che prende le mosse dallo stato dell’arte delle discipline sociali di fine 1800. La concezione di persona, ancora alla base di quasi tutti i modelli sviluppati, è quella di un individuo che agisce isolatamente massimizzando una propria funzione di utilità che spesso contiene come principale, se non unico, argomento il volume dei beni consumati. Mentre un’intuizione fondamentale e sostanzialmente valida della scienza economica è la capacità di rappresentare le scelte individuali secondo un principio di razionalità, in presenza di vincoli (ed uno dei meriti fondamentali è quello di specificare chiaramente vincoli e inter-

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dipendenze tra azioni e conseguenze), il difetto fondamentale è quello di ignorare l’importanza delle relazioni primarie nelle scelte individuali, nonché di rappresentare in maniera assai povera le preferenze individuali ignorando alcuni fondamentali moventi dell’azione umana quali il senso del dovere. Questa impostazione trascura del tutto i più importanti risultati delle scienze sociali sull’identità relazionale della persona fermandosi, di fatto, al principio dell’individua substantia rationalis di Agostino e Boezio. Si può discutere di quanto le relazioni primarie siano centrali nella persona (e la postfazione a questo libro tratteggia una prospettiva nella quale esse hanno un ruolo chiave), ma è certo che, se esse vengono escluse completamente dalle preferenze o dai fattori che condizionano le scelte individuali, è evidente che esce dai modelli economici un pezzo di realtà molto importante e i modelli economici stessi (e le scelte di policy che da essi scaturiscono) fanno della cattiva cultura proponendo uno “sguardo avvilente” sull’uomo che lo impoverisce progressivamente, finendo per inaridire quelle stesse risorse relazionali e capitale sociale che sono alla radice del buon funzionamento della vita economica. La conseguenza odierna di un’antropologia poco corretta è l’inversione tra elementi accidentali ed elementi sostanziali della persona nella gerarchia di valori che ispirano le scelte economiche. È del tutto evidente che la soddisfazione dell’uomo nei suoi attributi di consumatore e di azionista è un obiettivo prevalente nella cultura economica di oggi rispetto alla soddisfazione dell’uomo nella sua dimensione di lavoratore e essere relazionale. Il postulato, indimostrato e indimostrabile, di questa visione è che, soddisfacendo il consumatore e l’azionista siano se non altro non danneggiate le altre due dimensioni. In molti casi però questo non avviene. Dunque la conseguenza è che pagare un po’ meno i prodotti, o guadagnare qualcosa di più sulle azioni possedute, diventa più importante che condurre una vita relazionale e affettiva di successo e

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trovare la propria realizzazione attraverso una scelta professionale appropriata. Da questo problema fondamentale nascono, a mio avviso, una serie di elementi problematici dell’attuale impostazione della scienza economica che mi propongo di illustrare di seguito con alcuni esempi.

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1. 3. 1. Avvitare bulloni o produrre idee? Gli economisti hanno sempre avuto a cuore il problema della produttività dell’impresa (e, al suo interno, di quella dei lavoratori), quale nucleo microeconomico della creazione di valore a livello aggregato. Per una riflessione accurata sulla produttività del lavoro è necessario avere una visione completa di ciò che avviene all’interno dell’impresa stessa. Da questo punto di vista l’approccio tradizionale della scienza economica è stato sempre molto schematico. Da principio si è partiti dall’estrema stilizzazione dei fattori produttivi, lavoro e capitale, quali input del processo produttivo in contesti di informazione perfetta. Molto candidamente in questa prima fase di studio si riconosceva di essere solamente in grado di porre in relazione una determinata quantità di input iniziali con un certo risultato produttivo, senza avere gli strumenti per capire cosa realmente succedesse all’interno dell’impresa stessa che, proprio per questo motivo, veniva definita una “scatola nera” (blackbox). Assai primitiva era anche la definizione delle motivazioni e dei comportamenti del fattore lavoro che, coerentemente con la visione individualistico-riduzionista, massimizzava, in isolato, la disponibilità di risorse economiche scegliendo, sotto il vincolo del tempo disponibile nell’arco di una giornata, tra ore di lavoro e tempo libero. Una conseguenza necessaria di questa impostazione è che il lavoratore “stilizzato” sulla base di questo modello, pur essendo libero di dare la propria soluzione al dilemma tra ore di

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lavoro (che generano disutilità ma producono reddito) e tempo libero goduto, mai avrebbe preferito un lavoro a salario più basso rispetto ad uno a salario più elevato. Caratteristica anche l’idea che il tempo impiegato nel lavoro non può generare felicità ma solo effetti neutrali o negativi sulla felicità individuale. La “penosità” del lavoro viene compensata, appunto, dalla remunerazione salariale che ci consente di essere felici quando viene utilizzata per comprare beni. L’acquisto di beni, possibile grazie al salario, e il godimento del tempo libero rappresentano, dunque, le due determinanti della felicità. Un’altro dei limiti fondamentali di questo approccio è stato quello di non considerare i complessi problemi delle asimmetrie informative e dei conflitti di obiettivo tra i vari portatori d’interesse all’interno dell’azienda stessa. Ma ancora prima, e in principio, il problema fondamentale è quello di assimilare il lavoro ad un input di carattere meccanico non tenendo conto che, mentre uno dei fattori produttivi, il capitale, è rappresentato da stratificazioni (o vintage) successive di strumenti meccanici che svolgono la funzione di mezzi di produzione, il secondo input, il lavoro, è rappresentato da persone in tutta la loro ricchezza e complessità, di cui è necessario tener conto se ci si vuole addentrare nel mistero della produttività al fine di ottimizzare i processi di produzione aziendali. Questa visione riduzionista e schematica è stata sicuramente favorita dal fatto che, al momento della formazione e dello sviluppo del pensiero neoclassico, la forma di produzione prevalente era ancora quella che impiegava manodopera poco qualificata in processi meccanici e ripetitivi di stampo tayloristico. La “cosificazione” del fattore lavoro quale macchina produttiva, che reagisce a stimoli e punizioni di carattere monetario, necessarie per costringerlo a realizzare uno sforzo “penoso”, trovava il perfetto parallelo nella scienza contabile, per la quale il fattore lavoro medesimo veniva contabilizzato come

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un semplice costo (senza considerare affatto il suo essere anche risorsa o patrimonio di conoscenze per l’azienda) alla stregua di ogni volgare elemento materiale necessario alla produzione (dai beni capitali alla cancelleria). Ma il mondo della produzione di oggi è qualcosa di molto diverso. Lo sviluppo di attività ad alto contenuto di capitale umano, le innovazioni tecnologico-informatiche, che hanno ridotto notevolmente i costi della flessibilità dei processi produttivi, fanno sì che l’economia odierna, più che essere caratterizzata da prodotti standard e catene di montaggio, si fondi sul principio della varietà della creazione di nuovi prodotti e della customizzazione degli stessi, sulla base delle più diverse esigenze espresse dai clienti. In misura sempre crescente oggi il valore di un prodotto non è rappresentato dalle sue caratteristiche fisiche, ma da aspetti simbolici e immateriali e la produttività stessa all’interno dell’azienda dipende dalla capacità dei lavoratori di innovare e di cogliere quei contenuti immateriali che soddisfano i gusti dei consumatori, sia nel momento della definizione del prodotto, sia in quello della promozione dello stesso sui mercati. Dunque la componente creativa nel lavoro aziendale diventa di gran lunga più importante e richiede una ridefinizione, di caratteristiche e ruolo del fattore lavoro, meno schematica e più in grado di rappresentare queste variabili fondamentali per il successo dell’azienda. La prima rivoluzione della scienza economica di fronte a queste trasformazioni è quella dello sviluppo della teoria delle asimmetrie informative e dei conflitti d’interesse. Un primo modo di far luce nella scatola nera consiste dunque nel concepire l’azienda come nesso di contratti tra diversi portatori d’interesse (azionisti, possessori di obbligazioni, manager, lavoratori), studiando i meccanismi possibili per armonizzare e indirizzare questi interessi verso la finalità della creazione di valore economico, in un contesto nel quale non è possibile de-

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finire contrattualmente tutte le situazioni e le contingenze e l’informazione sui comportamenti, necessariamente limitata e asimmetrica. In questa prospettiva si sviluppa tutta la moderna teoria dei contratti, che studia gli innumerevoli potenziali conflitti d’interesse tra lavoratori e datori di lavoro e cerca regole adatte a risolverli. Questo approccio alla vita dell’impresa, pur presentando importanti novità, non esce da una visione meccanicistica e conflittuale dell’impresa stessa. Infatti, in sostanza, pur se in una prospettiva più complessa e realistica di quella iniziale, l’impresa è sempre luogo di individualismi in conflitto tra di loro e le soluzioni proposte si basano sempre sull’ideazione di meccanismi sanzionatori o premianti, prevalentemente di carattere monetario. L’idea dominante è che il modo migliore per aumentare la produttività di un’azienda sia, comunque, quello di corrispondere un premio in termini di remunerazione economica, in caso di comportamento virtuoso o di minacciare una punizione dello stesso tipo, ma di segno contrario, in caso di comportamento non virtuoso. Su questa linea si muovono i filoni dei salari di efficienza alla Stiglitz e le varianti dei modelli di turnover 2. Su questi principi si muovono tutti i modelli di corporate governance che studiano i modi di riequilibrare conflitti d’interesse tra manager e proprietà, tra azionisti e possessori di obbligazioni.

2 Salop S. (1979), A model of the natural rate of unemployment, in «American Economic Review», vol. 69, pp. 117-125, march; Shapiro C. Stiglitz J.E. (1984), Equilibrium unemployment as a worker discipline device, in «American Economic Review», «American Economic Association», vol. 74 (3), pp. 433-44; Yellen J.L. (1984), Efficiency Wage Models of Unemployment, in «American Economic Review», vol. 74, n. 2; «Papers and Proceedings of the Ninety-Sixth Annual Meeting of the American Economic Association», pp. 200-205.

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1. 3. 2. Perché i sistemi di incentivazione tradizionale funzionano poco nell’azienda moderna? Motivazioni intrinseche e qualità delle relazioni nell’impresa postfordista Dunque, secondo la teoria “riduzionista” del comportamento del lavoratore, che si insegna in genere agli studenti di primo anno di università nei corsi di economia, lo stesso massimizza la quantità di risorse economiche a disposizione scegliendo tra ore di lavoro, che consentono di far crescere le risorse economiche in proporzione del salario orario, e ore di tempo libero, nel quale queste disponibilità economiche sono utilizzate per acquistare beni e servizi. Le ore dedicate al lavoro consentono di far crescere il proprio salario ma il tempo di lavoro è un tempo che genera in sé disutilità in proporzione allo sforzo (fisico o intellettuale), esercitato durante il lavoro stesso. Il tempo del lavoro è un tempo in sé frustrante ma che consente di accumulare quelle disponibilità economiche che poi si possono spendere durante il tempo libero nel quale avviene il vero incremento di benessere. È evidente che, provando a sfidare queste generalizzazioni in maniera anche paradossale, seguendo alla lettera questo modello, i lavori preferiti dovrebbero essere quelli della pornostar, del trafficante di armi o di droga, se intendiamo questi lavori come esempio di salari reali molto elevati per uno sforzo fisico e intellettuale non particolarmente sostenuto. Perché allora la stragrande maggioranza delle persone si ostina a fare altri lavori? Perché quasi metà della popolazione dei paesi sviluppati si impegna in opere di volontariato, vivendo l’estremo paradosso, per l’approccio riduzionista, di faticare e lavorare (anche se per un periodo limitato di tempo), per uno stipendio nullo? Perché per molti che lasciano il lavoro e varcano la soglia della pensione il contraccolpo psicologico è durissimo se il lavoro è penoso e il tempo libero è quello nel

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quale è possibile godere dei proventi accumulati acquistando beni e servizi? È evidente che esiste una varietà di approcci molto più sofisticati allo studio delle dinamiche del mercato del lavoro che possono aiutarci a risolvere questi apparenti paradossi. Se questo è vero possiamo ancora partire, seppure per un primo approccio alla materia, dalla semplificazione dell’homo oeconomicus contenuta nei libri di testo, che non coglie elementi così importanti della realtà? Quali siano questi elementi, appare del tutto evidente dai paradossi presentati. Il lavoro è anche piacere, soddisfazione nel veder realizzata l’opera del proprio sforzo e del proprio ingegno, piacere che aumenta quanto più ci si trova in un ambiente e con colleghi di lavoro con i quali esiste un’intesa. Per fortuna con il progresso tecnologico la quota di lavori creativi rispetto a quelli routinari e ripetitivi è probabilmente aumentata e l’operaio alla catena di montaggio non rappresenta più gran parte del mondo del lavoro contemporaneo. Esistono inoltre nelle persone dei valori morali e delle preferenze “prosociali”, come si sostiene nella letteratura economica eclettica 3, ovvero il piacere di rendere altre persone felici. Aggiungeremmo noi che tali preferenze prosociali sono del tutto ovvie se ci riconduciamo agli ultimi risultati in materia di antropologia, sull’essenza relazionale dell’essere umano. Creatività e piacere del lavoro, valori morali e tendenze prosociali spiegano dunque i vari paradossi senza ovviamente voler prescindere dagli elementi di penosità e di fatica che nel lavoro rimangono e sono spesso il segno che esso è impe-

3 Si guardino a questo proposito i lavori di rassegna di Fehr E., di Falk A. (Psychological foundations of incentives European Economic Review, 46 [2002], pp. 687-724.8.494) e di Sobel J. (2002), Can We Trust Social Capital?, in «Journal of Economic Literature», «American Economic Association», vol. 40 (1), pp. 139-154.

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gno e coinvolgimento personale e non sfruttamento dell’altrui opera.

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1. 3. 3. Produttività e cura delle relazioni: un esempio virtuoso Il fatto che gran parte degli economisti modellino il lavoratore in maniera così riduzionista non è affatto innocuo e ha conseguenze controproducenti per gli stessi teorici di questo approccio, quando si passa a formulare ricette per la soluzione dei vari problemi di asimmetria e di incentivo nell’obiettivo di aumentare l’efficienza di un’azienda. Le ricette proposte nella visione tradizionale sono quelle degli incentivi basati sulla performance individuale e dei cosiddetti tornei, ovvero delle gare nelle quali viene premiato, con una promozione o con un aumento salariale, chi ha raggiunto i migliori risultati produttivi. In questa sezione vogliamo per un attimo prescindere da piacere del lavoro, preferenze prosociali e motivazioni intrinseche 4 per dimostrare che, soltanto tenendo conto delle caratteristiche attuali del funzionamento delle aziende, l’applicazione degli incentivi basati sulla performance individuale e dei cosiddetti tornei creano risultati controproducenti sulla produttività dell’azienda anche su individui “abbrutiti” del tipo di quelli descritti nell’esempio standard per gli studenti di economia.

4 Alcuni importanti riferimenti sulla letteratura delle motivazioni intrinseche vedasi tra i principali lavori degli psicologi: Deci E.L. - Ryan R.M. (1985), Intrinsic motivation and self-determination in human behavior, «Plenum Press», New York; tra i principali contributi degli economisti vedi: Kreps D.M. (1997), Intrinsic Motivation and Extrinsic Incentives, in «American Economic Review», vol. 87, n. 2, pp. 359-364; Frey B.S. (1997), On the relationship between intrinsic and extrinsic work motivation, in «International Journal of Industrial Organization», vol. 15, pp. 427-439.

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Gran parte delle imprese moderne si caratterizzano fondamentalmente per il fatto che la creazione di valore non dipende dalla forza bruta o dalla capacità del lavoratore in catena di montaggio di avvitare sei invece che tre bulloni in una determinata unità di tempo. Essa dipende, invece, dalla creatività dei dipendenti, dal loro capitale umano e dalla loro capacità di lavoro di squadra. Per fare un esempio di quanto la creatività sia importante anche in terreni non strettamente produttivi pensiamo all’importanza della pubblicità e al valore dei marchi. Un prodotto di abbigliamento o una scarpa con un marchio di successo può arrivare a costare fino a dieci volte di più rispetto all’analogo prodotto contraffatto, ovvero al prodotto che ha le stesse caratteristiche merceologiche e di qualità, ma non il marchio. Dieci volte di più, per fare un esempio concreto, se il coccodrillino della maglietta è quello di forma giusta e non quello più grasso delle imitazioni! È evidente, dunque, che non è solo il contenuto fisico, quanto e soprattutto gli elementi simbolici o di status, a determinare il valore di un prodotto e la produttività di un’azienda. È la creatività e le conoscenze dei dipendenti che generano nuovi processi e prodotti; e studiano come adattarli ai gusti e alle esigenze dei consumatori o come indirizzare i gusti e le esigenze dei consumatori verso le caratteristiche del prodotto. È, inoltre, chiaro che gran parte delle attività di un’impresa sono rappresentate da compiti complessi che richiedono le energie e l’applicazione congiunta di diverse persone che apportano il loro peculiare bagaglio conoscitivo e informativo. Poiché la conoscenza è un processo dialogico, l’apprendimento si sviluppa attraverso il confronto delle proprie idee con quelle degli altri. Mettendo insieme i pezzi di un puzzle che non assume contorni definiti finché i pezzi non sono tutti collegati. In tali contesti si verifica molto spesso quella che chiamiamo condizione di superadditività, ovvero la condizione per la quale il risultato dell’applicazione congiunta di più in-

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dividui è superiore alla somma di quanto sarebbero riusciti a fare gli stessi da soli (in molti casi addirittura i problemi sono talmente complessi che i singoli da soli non possono proprio risolverli e, dunque, la loro produttività isolata è nulla). È evidente, dunque, che lo scambio di informazioni e di bagagli conoscitivi è al centro dell’attuale vita delle organizzazioni produttive e che, senza questo scambio, non si genera alcuna superadditività e il risultato produttivo per l’impresa è insoddisfacente. Utilizzando uno schema preso a prestito dalla teoria dei giochi potremmo dire che la vita aziendale è fatta da una serie di “giochi di fiducia” nei quali tutto si realizza nei seguenti tre momenti: i) decisione di un individuo – parte del team – di iniziare il processo di lavoro di gruppo condividendo la propria informazione con altri (attraverso l’invio di un file, la consegna ai colleghi di un proprio dossier o, semplicemente, attraverso la comunicazione di conoscenze personali, ecc.), esponendosi in tal modo alla possibilità di abuso da parte dei riceventi che possono decidere di acquisire la nuova informazione, non condividere la propria e andare avanti da soli con il progetto; ii) decisione, da parte di chi riceve l’informazione, di abusare o no della stessa; iii) risultato finale del lavoro di gruppo. Ebbene, in questo schema essenziale, che solitamente si riproduce in modo più o meno simile in molteplici circostanze in tutte le organizzazioni di lavoro, è del tutto ovvio che la condivisione di informazioni tra i partecipanti al gioco stesso tende ad aumentare quanto più la componente superadditiva del prodotto è importante rispetto ai contributi singoli. Ma è anche evidente che la creazione di incentivi che premiano la performance individuale o tornei di promozione ad unico vincitore, distruggono la cooperazione, rafforzando e incentivando i comportamenti opportunistici. In parole povere, è evidente che il “lavoratore abbrutito” del modello riduzionista preferirà la soluzione opportunistica,

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II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus

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qualora l’azienda creasse un sistema di incentivi che premiano il singolo e non il team. In tal caso infatti più forte sarebbe la tentazione di chi riceve l’informazione del collega di utilizzarla unicamente a proprio vantaggio, interrompendo il processo di collaborazione, al fine di vincere la gara individuale per il premio produttivo. Il risultato per l’azienda sarebbe oltremodo negativo perché, data la presenza di componenti superadditive non sfruttate, il livello di produttività complessivo sarebbe sicuramente inferiore a quello di una soluzione cooperativa. Insomma, se l’economia di mercato sembra proporre la forma di conflitto che prende il nome di concorrenza come elemento fondamentale della vita economica, è del tutto evidente che riproporre tale dimensione all’interno dell’azienda stessa finisce per minare le economie di squadra che al suo interno potrebbero realizzarsi, con effetti negativi per la stessa capacità dell’impresa di sviluppare il proprio potenziale e di prosperare nell’agone competitivo. Per spiegare in maniera più chiara cosa intendiamo dire, consideriamo il seguente esempio tratto da un lavoro di Becchetti e Pace (2006). Schematizziamo un tipico momento produttivo di un’impresa moderna attraverso un “gioco di fiducia”. L’esempio può applicarsi a tutte quelle iniziative complesse sviluppate all’interno dell’azienda stessa, per le quali è necessario il contributo di individui con diverse competenze. Immaginiamo, per semplicità, che sia necessario il contributo di due soli individui (lavoratore A e B) che, quando operano da soli, sono in grado di realizzare un’opera rispettivamente di valore (ha) e (hb) per l’impresa. Nel nostro esempio si assume ragionevolmente che, se i due decidono di collaborare, il risultato finale dell’opera non è semplicemente la somma dei due contributi singoli. A tale somma va infatti aggiunta una componente (e) che è l’effetto della superadditività generata dallo sforzo con-

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giunto. In sostanza ciò che ipotizziamo è che il dialogo, l’interazione e lo scambio d’informazioni sono elementi fondamentali della formazione di conoscenza produttiva. Infatti in molti casi tale conoscenza matura solamente mettendo insieme i saperi individuali e un nuovo apprendimento nasce proprio nel momento del processo dialogico nel quale si spiegano e si confrontano con l’altro le proprie conoscenze 5. La struttura del gioco (illustrato nella Figura 2. 1) è “sequenziale”, ovvero le scelte non avvengono contemporaneamente, e tutto nasce dall’atto di fiducia di uno dei due lavoratori (nel nostro esempio il lavoratore A) che decide di iniziare la condivisione delle informazioni (inviando il proprio file al lavoratore B, parlando per primo ed esponendo il proprio punto di vista ad una riunione, ecc.). Dunque il primo “nodo del gioco” è rappresentato dalla decisione del lavoratore A di condividere o no le sue conoscenze. Nel secondo nodo del gioco, a seconda della scelta effettuata dal giocatore A, il giocatore B può decidere se abusare o no della fiducia accordatagli dal giocatore B. Nella Figura 2. 1 vengono illustrati i risultati del gioco a seconda delle scelte strategiche dei due giocatori indicando, in ogni “scatola” corrispondente ad un punto terminale del gioco, prima il guadagno del lavoratore A, poi quello del lavoratore B e, infine, quello dell’impresa nel suo insieme. Per semplicità ipotizziamo nel gioco che i lavoratori sono anche proprietari dell’impresa e dunque si appropriano pro quota dei benefici del loro lavoro. I risultati del gioco sono sostanzialmente analoghi quando si considera, alternativa-

5 Questi elementi sono ben schematizzati nella nota storiella dei ciechi e dell’elefante. Quando i ciechi chiedono a un saggio di spiegare loro cos’è un elefante, il saggio suggerisce loro di andare a toccarlo. Ogni cieco tocca una parte diversa dell’elefante e – una volta tornati dal saggio – questi chiede a ciascuno di raccontare agli altri le sensazioni provate. Mettendo insieme le loro conoscenze parziali i ciechi riescono ad avere un’idea dell’elefante.

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mente, che i lavoratori percepiscano un salario fisso più un premio proporzionale ai profitti che l’impresa realizza grazie alla loro opera. Come è possibile rilevare, se il lavoratore A decide di non condividere, il gioco finisce subito e ogni lavoratore presenta il suo lavoro separatamente. L’impresa sceglie il lavoro migliore e dunque, per essa, il risultato totale sarà determinato dal più elevato tra i valori di (ha) e (hb). Il lavoratore A ottiene zero se il suo lavoro è inferiore a quello del lavoratore B e (ha) viceversa. La situazione del lavoratore B è analoga a parti rovesciate (scatola 1, Figura 2. 1). Se invece il lavoratore A decide di condividere abbiamo due possibili soluzioni che dipendono dalla strategia scelta dal lavoratore B. Se il lavoratore B sceglie di abusare si approprierà del lavoro di A e presenterà tutto come lavoro proprio consentendo all’impresa di realizzare un risultato pari a (ha+hb) e conseguendo egli stesso il medesimo risultato. Il guadagno del giocatore A sarà in questo caso pari a zero (scatola 2, Figura 2. 1). Se il giocatore B sceglie invece di cooperare scambierà le proprie conoscenze con A facendo seguito alla condivisione già effettuata da parte di A nei suoi confronti. Il risultato complessivo per l’impresa sarà (ha+hb+e) grazie al “premio” di superadditività che scaturisce dalla collaborazione tra i due. Questo risultato complessivo sarà diviso in parti eguali tra i due lavoratori che dunque otterranno entrambi un valore pari a (ha+hb+e)/2 (scatola 3, Figura 2. 1). Di fronte a questi possibili esiti quale sarà la scelta dei due giocatori? È evidente che, sotto ipotesi non molto restrittive, se le conoscenze individuali di A sono maggiori di quelle di B (ha>hb), A non sceglierà mai di condividere. Infatti non condividendo otterrebbe (ha) mentre condividendo otterrebbe zero nel caso in cui ehb, hb | hb >ha

ABUSARE

NON ABUSARE

Max (ha, hb) “Scatola” 2 0

“Scatola” 3 (ha+hb+e)/2

ha +hb

(ha+hb+e)/2

ha +hb

ha+hb+e

Fonte: Becchetti-Pace [2006], The Economics of the “Trust Game Corporation”, CEIS Working Paper, n. 233.

Questo esempio molto semplice suggerisce che la strategia migliore per un’azienda, la cui produttività dipende in maniera cruciale dalla creatività e dalla cooperazione tra i propri dipendenti, è quella di investire nella qualità dei rapporti tra gli stessi in modo tale da stimolare il processo dialogico di condivisione delle informazioni. Migliorare clima e ambiente di lavoro, dunque, non ha solo effetti sulla felicità dei lavoratori, ma anche un impatto significativo sulla produttività stessa dell’azienda. Ovviamente la validità di queste considerazioni è subordinata alla validità delle assunzioni alla base del nostro esempio. Quanto più verifichiamo che i tipi di interazione tra lavoratori all’interno di un’azienda hanno tra i propri tratti fondamentali le caratteristiche illustrate nel modello, tanto più le

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conclusioni del ragionamento effettuato diventano importanti per illustrare il rapporto tra relazioni e realtà produttiva. Le riflessioni svolte in questi due ultimi paragrafi suggeriscono che, per uscire da questa visione approssimativa, un po’ triste e assai limitata nella capacità di individuare ricette per assicurare uno sviluppo e una crescita della prosperità aziendale, basta estendere lo sguardo ad alcuni importanti contributi delle altre scienze sociali, dalla sociologia alla psicologia. Considerando, ad esempio, come sottolineano i sociologi, attenti all’influenza sull’individuo del gruppo sociale di riferimento, che la felicità del lavoratore dipende dalla qualità delle relazioni che vive sul posto di lavoro, e come invece sottolineano gli psicologi, che ciò che alimenta in modo decisivo la produttività del lavoro è la motivazione intrinseca del lavoratore la quale è positivamente influenzata da due componenti fondamentali come la purposedness (coscienza che la propria attività ha un fine utile) e sense of achievement (percezione di un progressivo avvicinamento della meta che si vuole perseguire attraverso il proprio sforzo lavorativo). La mancata comprensione di elementi come questi può portare ad alcune incomprensioni paradossali del rapporto tra persona e lavoro come quelle spiegate nel paragrafo che segue. 1. 3. 4. «Lavorare per nulla»: il paradosso dei volontari e l’homo oeconomicus Se il paradigma individualistico-riduzionista rivela dunque notevoli limiti nello spiegare la vita e i segreti dell’operosità delle aziende for profit, è evidente che esso appare del tutto inadeguato per spiegare fenomeni di crescente rilievo dal punto di vista produttivo come quelli del funzionamento delle aziende no profit e del volontariato. Se il lavoro è essenzialmente penosità, compensata da un corrispettivo salariale, com’è possibile che l’homo oeconomicus scelga per una parte im-

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portante della sua giornata, riprendendo un’espressione felice di Freeman, di «lavorare per nulla»? 6. Il tentativo grottesco di spiegare comunque queste anomalie, all’interno della prospettiva tradizionale, ancora oggi produce dei risultati esilaranti. In un lavoro di Katz e Rosenberg pubblicato sull’«European Journal of Political Economy» 7 si rileva con preoccupazione (speriamo soltanto dal punto di vista della teoria economica!) come una quota molto elevata della popolazione canadese (il 27 percento) svolga attività di volontariato. Gli autori affermano letteralmente che «una possibile spiegazione di questo fenomeno è che ci sia una proporzione consistente di individui altruisti o non completamente razionali. Ciò implica in ogni caso che una proporzione significativa della popolazione non possiede una funzione di utilità neoclassica. Se una deviazione così massiccia dal paradigma neoclassico è possibile, essa rappresenterebbe, come riconosciuto dalla vasta letteratura su economia e altruismo, una seria sfida alla teoria economica standard» 8. Per fortuna gli autori trovano la soluzione a questo loro affanno e possono tirare un sospiro di sollievo. Il loro modello è infatti in grado di dimostrare che le aziende premiano oggi le persone con qualità relazionali e in grado di lavorare in team. Dunque, in un contesto di asimmetria informativa, avere in

6 Freeman R.B. (1997), Working for nothing: the supply of volunteer labor, in «Journal of Labor Economics». 7 An economic interpretation of institutional volunteering, in «European Journal of Political Economy», vol. 21, n. 2, pp. 429-443, june 2005. 8 «One possible explanation of the extent of volunteering in developed economies is that a sizeable proportion of individuals are altruistic or that they are not completely rational. However, this implies that a significant proportion of the population does not possess a neoclassical utility function. While such a massive deviation from the neoclassical paradigm is possible, it would, as recognized by the vast literature on altruism and economics, constitute a serious challenge to standard economic theory».

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curriculum un’esperienza di volontariato diventa un’indicazione importante (lo è sicuramente, magari fosse decisiva!) che dimostra che il candidato possiede quelle qualità relazionali che lo rendono idoneo al lavoro cooperativo in azienda. Gli autori possono, dunque, concludere affermando che «anche in presenza di taluni individui altruisti, la scelta del volontariato è razionale per una vasta proporzione della popolazione. Dunque, mentre si accetta che una parte (piccola) della popolazione è altruistica non è necessario assumere che sia altruistica una parte molto grande della stessa, per spiegare la larga diffusione del fenomeno del volontariato nei paesi sviluppati» 9. Credo che il lettore non addetto ai lavori possa commentare da sé questi due brevi paragrafi che illustrano – con più chiarezza di quanto ho cercato di fare e cercherò di fare in questo libro – i problemi dell’approccio riduzionista. A parte il fatto che risulta veramente difficile spiegare il fenomeno, assai diffuso, del volontariato dei pensionati, come strumento per migliorare il proprio curriculum in vista di un’assunzione in azienda (!), cercherò di esplicitare alcune considerazioni, a commento di questo singolare approccio, al problema del volontariato. Il primo problema centrale è la confusione tra individualismo e razionalità, se non nella prima proposizione, sicuramente nella seconda del pensiero degli autori che riportiamo di sopra («We suggest that, in the presence of some altruistic individuals, volunteering may be rational for a large proportion of the population»). Gli studi empirici dimostrano molto chiaramente come ogni tentativo di riportare il fenomeno del volontariato al 9 «We suggest that, in the presence of some altruistic individuals, volunteering may be rational for a large proportion of the population. Thus, while we accept that a (small) proportion of individuals in the economy are indeed altruistic, we show that it is not necessary to assume that a significant proportion of the population is altruistic in order to explain the large scale of volunteering in developed countries».

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comportamento dell’homo oeconomicus sono privi di senso. La propensione al volontariato non aumenta affatto quando gli individui hanno un “costo opportunità” del tempo libero più basso (ovvero sono meno produttivi; per essi sostituire un’ora di lavoro con un’ora di volontariato costa meno). Inoltre, come già detto, la molla del volontariato non è affatto (o lo è in misura certamente limitata) quella di acquisire capacità e competenze per una maggiore produttività futura. I risultati empirici indicano, infatti, che il grado d’istruzione, la bravura scolastica, la produttività individuale (tutti elementi che fanno aumentare il costo opportunità del tempo), sono correlati positivamente e non negativamente con la propensione a fare volontariato. Inoltre, tale propensione appare significativamente correlata con la dimensione della famiglia, con il genere femminile e con la pratica religiosa. Queste variabili, in particolare quella della dimensione della famiglia (che senz’altro aumenta e non diminuisce il costo opportunità del tempo libero!), dimostrano che è la cultura e la coltivazione delle dimensioni della gratuità e della reciprocità ad essere determinante e fondamentale di questa scelta 10. Invece di cercare di comprendere la ricchezza e la complessità dei comportamenti umani, la preoccupazione maggiore di una visione riduzionista dell’economia di fronte a “pericolose anomalie”, come quelle del volontariato, sembra essere quella di difendere il “paradigma standard” e il suo “sguardo avvilente” sull’uomo che per fortuna la realtà, le altre scienze sociali e gli stessi avanzamenti del pensiero filosofico sull’identità della persona, disconoscono in maniera clamorosa. Dunque l’incapacità di creare ponti tra la disciplina economica e le altre scienze sociali, di arricchire la definizione di per10

Freeman R.B. (1997), Working for nothing: the supply of volunteer labor, in «Journal of Labor Economics»; Michelutti M. (2006), Voluntary as a conscience good?, Working paper forth.

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sona, utilizzata per l’analisi economica dei fondamentali contributi dell’antropologia e della sociologia – che indicano come elementi essenziali dell’identità umana siano la qualità delle relazioni vissute, la reciprocità e lo scambio di doni –, porta a interpretazioni singolari di fenomeni di così vasta portata come quelli del volontariato. Con conseguenze pericolose quando da siffatte visioni restrittive si vogliono far derivare ricette di policy. È evidente infatti che se la dimensione relazionale e di dono non è postulata al principio nei modelli, non potrà certo essere considerata nel momento in cui si formulano proposte di intervento.

1. 4. Una sintesi del problema della complessità e dei conflitti tra discipline Nella Tabella 2. 1 possiamo provare a fare una sintesi del problema della complessità e delle interazioni tra le diverse discipline, affrontato negli ultimi capitoli, rovesciando il problema in positivo e vedendo ciò che ognuna di esse può “insegnare” alle altre. Gli studiosi di diritto dovrebbero tener conto del fatto che la legge della domanda e dell’offerta ha delle sue dinamiche intrinseche che non possono essere ignorate. Fissare per legge un prezzo che non corrisponde a quello di equilibrio del mercato non sostituisce di per sé la forza stessa del mercato, genera effetti collaterali negativi e spesso la nascita di un mercato sotterraneo parallelo dove il prezzo di equilibrio è quello determinato da domanda e offerta. Un altro contributo fondamentale è quello relativo al concetto di valore di un bene, che va anch’esso riferito al valore di transazione o di mercato piuttosto che al costo necessario per realizzarlo. Infine le leggi più efficaci non sono quelle che enunciano un principio, ma piuttosto quelle che metto-

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no in moto un meccanismo di incentivi in grado di rendere il principio rispettato. Il bando del lavoro minorile può paradossalmente peggiorare la condizione dei minori se non sono offerte alternative valide al lavoro. La legge sulle polveri sottili nelle grandi città è invece efficace quando, fissando il principio di responsabilità degli amministratori locali, crea l’incentivo giusto affinché questi ultimi si impegnino a far rispettare la soglia d’inquinamento stabilita. Le scienze naturali devono e possono sollecitare gli economisti sul problema dell’esauribilità delle risorse naturali e soprattutto su quello del deterioramento delle risorse non rinnovabili e non appropriabili come il clima. Evidenziando come, soprattutto in questo secondo caso, non bastano i meccanismi di prezzo a garantire la qualità della risorsa ambientale, ma è necessario adottare principi di precauzione o sviluppare nuove tecnologie di produzione a impatto zero che consentono un uso molto più efficiente delle risorse, ove possibile, attraverso la trasformazione degli scarti in input per ulteriori produzioni. L’antropologia può dare alla scienza economica un contributo fondamentale attraverso l’aggiornamento della visione di persona che è alla base dei modelli. La dimensione importante dell’autointeresse (miope) deve essere integrata con quelle dell’autointeresse lungimirante, della reciprocità, della fiducia e dell’altruismo. I contributi della psicologia all’economia sono molteplici e non è certo questa la sede per una loro trattazione esauriente. Basti soltanto accennare: i) al filone della finanza comportamentale che analizza le anomalie e le deviazioni dal comportamento di razionalità massimizzante sui mercati finanziari; ii) ai lavori che sottolineano come le preferenze sono tutt’altro che fisse e stabili e, rovesciando la sequenza tipica dei modelli economici che determina le scelte di consumo a partire da preferenze stabili, propongono casi in cui è il consumo a modificare le preferenze.

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Uno dei casi più interessanti, da questo punto di vista, nasce dallo studio delle abitudini di consumo di musica leggera, dove alcuni studi recenti evidenziano la presenza di una fascia d’età nella quale (per l’intensità delle esperienze relazionali che si vivono) l’ascoltare alcune canzoni determina effetti tali sulle preferenze da creare una “rendita permanente”, generando nei fruitori una preferenza spiccata, durante tutto il resto della loro vita, per quei brani ascoltati in quel particolare picco emozionale (Holbrook M.B. - Schindler R.M., 1989). Quante persone restano perennemente affezionate alle canzoni che hanno fatto da colonna sonora ai loro primi amori? Ancora, il contributo forse più interessante che la sociologia offre agli economisti, anche alla luce dei risultati empirici negli studi della felicità, è il fatto che in moltissimi ambiti ciò che conta non è soltanto il valore assoluto realizzato ma lo scarto, rispetto alla media del gruppo di riferimento. Va detto che questa direzione d’integrazione tra le due discipline è già da tempo sviluppata con i modelli che tengono conto dei problemi di fairness e di salario o reddito relativo. Infine, un contributo generale dell’economia alle altre scienze sociali è quello della considerazione che le nostre scelte sono sempre determinate in un contesto di vincoli e, dunque, di risorse scarse (siano le disponibilità monetarie, il tempo o le possibilità tecnologiche). Gli economisti, quindi, non sono particolarmente cinici quando attribuiscono un valore monetario a una vita salvata o perduta, e facendo ciò non pensano necessariamente che la vita non sia un “valore” assoluto. Essi cercano soltanto di definire criteri sulla base dei quali bisogna scegliere se destinare risorse alla prevenzione degli incidenti stradali o, per esempio, alla ricerca contro una malattia incurabile e, nel fare ciò, devono necessariamente fare un’analisi costi-benefici valutando il costo del salvataggio di una vita aggiuntiva in ciascuna delle due scelte.

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TABELLA 2. 1

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Il vantaggio dell’approccio della complessità: ciò che una disciplina può insegnare ad un’altra Economia – diritto Mercato nero, costo opportunità, valore di mercato, incentivi per efficacia leggi. Fissare per legge un prezzo fuori dall’equilibrio tra domanda e offerta genera effetti collaterali indesiderati in termini di eccessi di domanda e di offerta, che generano file d’attesa, razionamento e mercati illegali paralleli. Le norme che stabiliscono principi moralmente validi, ma non contribuiscono, con appositi incentivi, a risolvere i problemi che sono alla base dei comportamenti non virtuosi, non contribuiscono efficacemente a risolvere il problema. La determinazione del valore economico di un’opera non dipende dal costo necessario per realizzarla, ma dal valore di mercato della stessa, ovvero dai flussi di cassa scontati derivanti dall’opera. Le leggi migliori sono quelle che consentono di perseguire, in maniera efficace, la realizzazione di determinati lavori creando gli incentivi opportuni negli operatori economici (es. legge polveri sottili) (cap. II, paragrafo 1. 2). Scienze naturali – economia Alcune risorse sono esauribili, i prezzi, come indice di scarsità relativa, non necessariamente bastano a evitare il loro esaurimento. Livelli di produzione che generano volumi di emissioni ambientali nocive molto elevati possono generare danni consistenti sulle risorse ambientali non appropriabili e non rinnovabili (come il clima), nonostante la tendenza degli individui a preoccuparsi maggior-

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mente dell’ambiente al crescere del loro reddito (cap. II, paragrafo 1. 1). Antropologia – economia L’uomo non è solo individua substantia rationalis. La sua identità profonda è determinata dalla qualità delle sue relazioni e le sue scelte sono influenzate non solo da self interest ma anche da symphaty e commitment. Relazioni e realizzazione sul lavoro sono elementi molto più sostanziali della dimensione di consumo e di guadagno azionario. Importanza di motivazioni intrinseche e beni relazionali nella decisione produttiva dell’individuo (cap. II, paragrafo 1. 3). Psicologia – economia Spiegazione delle anomalie e delle deviazioni dalla razionalità massimizzante in finanza (finanza comportamentale), analisi di shock transitori che possono generare comportamenti non razionali, preferenze che si evolvono (ad esempio, non sono solo le preferenze fisse degli individui a influenzare le scelte di consumo, ma le decisioni di consumo possono modificare le preferenze degli individui). Sociologia – economia L’utilità degli individui è influenzata non solo dai valori assoluti dei beni, ma anche – e soprattutto – dai valori relativi degli stessi in rapporto al livello medio di un gruppo di riferimento che rappresenta l’universo rappresentativo per l’individuo considerato. Economia – altre scienze sociali Nelle scelte individuali e collettive è fondamentale tener conto dei vincoli di tempo, denaro e possibilità tecnologiche.

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I rapporti di interdipendenza tra grandezze economiche e i vincoli di disponibilità delle risorse fanno quasi sempre sì che indirizzare più mezzi verso il perseguimento di un determinato obiettivo genera il costo (opportunità) di sacrificare mezzi e risorse per il perseguimento di un obiettivo alternativo (cap. II, paragrafo 1. 2).

2. Accettare la sfida della complessità 2. 1. Il conflitto tra i “tolemaici” e gli eclettici «Una volta un discepolo gli chiese: “Se un re vi affidasse un giorno un territorio da governare secondo le vostre idee, che cosa fareste prima di tutto?”. Confucio rispose: “Rettificare i nomi”. Poi si spiegò al suo discepolo sconcertato: “Se i nomi non sono corretti, se non corrispondono alla realtà, il linguaggio non ha oggetto. Se il linguaggio non ha oggetto, l’azione diventa impossibile; così tutti gli affari umani si disgregano e amministrarli diventa futile e impossibile. Perciò il primo compito di un vero uomo di stato è quello di rettificare i nomi”». (Confucio, Detti)

È chiaro, a questo punto, che l’argomento di fondo di questa trattazione è di evidenziare come si possano definire schematicamente due tipi di scuole di pensiero, di fronte al problema dell’antropologia dell’uomo economico. Da una parte chi cerca di difendere un armamentario superato e pensa che la scienza economica debba necessariamente difendere il principio dell’individualismo massimizzante “miopemente autointeressato” 11.

11 Uno dei padri del pensiero economico che più ha contribuito allo sviluppo del paradigma neoclassico è Edgeworth (1981) che nel saggio: Ma-

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Dall’altra chi ritiene che i comportamenti umani sono molto più complessi, che la scienza economica (nella sua branca teorica, ma anche in quella che si occupa delle verifiche empiriche attraverso gli approcci statistico-econometrici) ha sviluppato formidabili strumenti per studiare l’uomo nella sua complessità e capisce la differenza tra l’individualismo massimizzante “miopemente autointeressato” (un modello molto limitato e particolare di comportamento) e il principio di razionalità che è molto più vasto e riguarda la capacità di perseguire coerentemente e con efficacia dei fini che a noi si propongono sulla base delle proprie preferenze (che possono essere altruistiche, egoistiche o di qualunque altro tipo). In parole povere, un altruista non è un individuo miopemente autointeressato, ma può essere perfettamente razionale se lega coerentemente gli obiettivi che si prepone all’azione realizzata. Persino il masochista è perfettamente razionale se prova soddisfazione dal far male a sé stesso e persegue coerentemente tale obiettivo! Per ricollegare a un celeberrimo dibattito del passato questa disputa tra visione ristretta e visione allargata nel con-

thematical Physics afferma: «The first principle in Economics is that every agent is actuated only by self-interest», giustificando questa scelta con il fatto che l’economia si occupa di attività particolari come guerra e contratti nei quali le parti peggiori dell’uomo sono in azione. Come argutamente afferma Sen il problema è che questo paradigma riduzionista è stato esteso all’analisi di tutte le sfere dell’azione umana e che la natura dell’uomo continua ad essere modellata, oggi, sulla base dell’approccio utilizzato per rispondere ad alcune questioni particolari (come il comportamento in guerra o nelle relazioni contrattuali), poste in passato dagli studiosi. Sostanzialmente sulla stessa linea, Sugden afferma che la visione dell’homo oeconomicus, il suo agire isolatamente e l’importanza della legge dell’utilità decrescente riflette lo stato di avanzamento degli studi di psicologia dell’epoca in cui il pensiero economico nasce, senza adattamenti successivi che incorporano nuovi risultati delle scienze sociali (ad esempio: l’importanza del concetto di relazione nella definizione filosofica di persona sviluppata nei decenni a seguire).

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cepire la scienza economica, è come se nel momento del passaggio dalla teoria tolemaica a quella copernicana gli astronomi si fossero divisi tra coloro che ritenevano principio fondamentale ed essenziale per la sopravvivenza della disciplina la teoria geocentrica (il sole che ruota attorno alla terra), e quelli che invece sostenevano che l’essenza della disciplina fosse nel patrimonio degli strumenti d’indagine e nel metodo scientifico. Dunque, coloro che ritengono che se salta il paradigma dell’homo oeconomicus si minano le fondamenta stesse della scienza economica sembrano comportarsi proprio come chi riteneva che la difesa del paradigma tolemaico fosse fondamentale per il futuro dell’astronomia. Il problema dell’approccio “tolemaico” è dunque quello di avere una visione dell’uomo riduzionista, meccanicista e individualista, con un approccio eccessivamente materialista alla definizione delle sue preferenze. Il modello tolemaico concentra tutta la sua attenzione sulla quantità dei beni e servizi consumati, dando assolutamente poco peso alle condizioni di contorno che invece sono spesso essenziali nel definire l’utilità dell’individuo connessa a una determinata scelta di fruizione di un bene o servizio. Esso non consente dunque di comprendere fenomeni come l’altruismo, l’“utilità” derivante dal godimento di beni relazionali, le motivazioni intrinseche e la retroazione delle esperienze e delle stesse regole di policy e di vita dell’impresa sulle preferenze stesse degli individui. Il modello tolemaico, oltre che errato, si rivela pericoloso e controproducente (o non in grado di produrre soluzioni ottimali), per gli stessi obiettivi definiti dal paradigma neoclassico del buon funzionamento dell’impresa o del sistema economico. I fautori del sistema tolemaico difendono il loro approccio minacciando che la rimozione del postulato dell’individuo “miopemente autointeressato” finirebbe per mettere in crisi lo stesso paradigma della razionalità e i fondamenti della scienza economica. La loro caratteristica è di essere general-

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mente meno aperti alle idee e alle acquisizioni delle altre discipline sociali. Questo elemento fa perfettamente rientrare il sistema tolemaico nella visione della “specializzazione funzionale” di Luhman e nel paradosso della Torre di Babele, dove ciascuna disciplina parla la sua lingua e non riesce a comunicare con le altre. A questo approccio si contrappone una prospettiva che lentamente, ma sempre più decisamente, si va facendo strada. Questa prospettiva, con una serie di studi teorici ed empirici che non vengono meno al principio del rigore scientifico, identifica sempre maggiori anomalie e paradossi nelle predizioni che scaturirebbero dal postulato dell’individualismo “miopemente autointeressato”. Tali paradossi dimostrano come sia urgente e necessario rifondare la visione antropologica alla base dell’homo oeconomicus integrandola con i contributi delle altre discipline sociali. Gli studi in oggetto partono quasi sempre dall’incorporazione di qualche principio o conclusione delle discipline vicine (psicologia e sociologia), all’interno dei modelli economici; principi e conclusioni che consentono di spiegare quelle deviazioni dal paradigma tolemaico che gli strumenti tradizionali dell’individualismo razionale e massimizzante non riescono a cogliere. Dall’insieme di questi contributi emerge una visione completamente diversa della scienza economica come di una disciplina i cui attrezzi del mestiere fondamentali non sono affatto il paradigma dell’individualismo “massimizzante, miopemente, autointeressato”, ma piuttosto gli strumenti e le metodologie scientifiche che ci consentono di studiare l’uomo e di coglierne i comportamenti sociali (il metodo matematico nell’elaborazione dei modelli, il metodo statistico-econometrico nell’elaborazione dei dati). La nuova visione eclettica appare ben conscia che la trincea dell’individualismo massimizzante va abbandonata anche se questo non vuol dire abbandonare il principio del comportamento razionale. Il problema per i so-

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stenitori dell’approccio eclettico, dunque, non è che l’individuo non cerchi di soddisfare i propri desideri compatibilmente con i vincoli che la vita gli pone (paradigma delle scelte razionali), o che cerchi di farlo ottimizzando le risorse a sua disposizione (paradigma della razionalità massimizzante), ma che la definizione angusta di questi obiettivi da parte dei “tolemaici” è palesemente inadeguata. Per fare degli esempi, si va generalmente al ristorante o al cinema assieme, e non da soli; la condizione di contorno conta più del valore intrinseco del bene consumato. Per il piacere di andare in compagnia si sceglie magari un film o un ristorante che non massimizza le proprie preferenze individuali. Questa scelta non implica l’abbandono del principio della razionalità, ma piuttosto la soddisfazione di un sistema di preferenze, meno anguste di quelle solitamente rappresentate, nelle quali i beni relazionali contano. Allo stesso modo i volontari, i missionari, gli artisti non sono irrazionali, ma soddisfano un loro insieme di preferenze nelle quali sono essenziali i valori del dono e della reciprocità, o della creatività artistica. Inoltre, ciò che il paradigma eclettico dice ai tolemaici è che non esiste neutralità valutativa e assenza di conseguenze nel modo di impostare un modello alla maniera tolemaica. Lo sguardo avvilente sull’uomo, la gabbia dell’individualismo massimizzante, producono una cultura e delle soluzioni di policy sbagliate che hanno la conseguenza di orientare le preferenze degli individui in direzione dello stesso individualismo massimizzante, con effetti controproducenti su quelle stesse regole ottimali e di policy e, dunque, sul funzionamento ottimale di imprese e sistemi economici. Meccanismi di sanzione e di premio fondati unicamente sugli incentivi monetari rafforzano le motivazioni estrinseche a danno di quelle intrinseche, aggravando i problemi potenziali di conflitti d’interesse derivanti da informazioni asimmetriche, che vorrebbero risolvere. Il sistema tolemaico rischia di produrre un impoveri-

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mento del capitale sociale e delle preferenze relazionali degli individui con il rischio di minare quello stesso cemento fondamentale che tiene insieme le relazioni economico-sociali degli individui.

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2. 2. Simpatia o dovere morale? Sen, Kant e san Paolo Possiamo approfondire questa discussione riprendendo l’approccio di Sen nel suo famoso lavoro sui rational fools 12, attraverso le due categorie di sympathy e commitment. Sen critica l’autointeresse massimizzante del riduzionismo economicista sottolineando come questo non tenga in nessuna considerazione due caratteristiche fondamentali dell’animo umano: la sympathy (la capacità di sentire con e per l’altro) e il commitment (impegno morale). Secondo Sen, mentre l’inclusione della sympathy non mette in discussione il metodo della massimizzazione vincolata, quello del commitment sì. Nel primo caso, infatti, la nostra “compassione” ci porta a gioire o a soffrire per le gioie e le sofferenze degli altri e, dunque, pur scegliendo comportamenti altruistici, continuiamo in fondo a massimizzare le nostre preferenze che includono il bene dei nostri simili. Nel secondo invece siamo vicini al concetto del “dover essere” kantiano e ciò che mette veramente in discussione l’approccio della massimizzazione vincolata è l’effettuare delle scelte diverse da quelle suggerite dalla massimizzazione della propria utilità, per via del proprio moral commitment e, dunque, contrarie al proprio tornaconto immediato per essere coerenti con i propri principi. Entrambi questi modi di comportamento rifiuta12 Sen

A. (1977), Rational Fools: «A critique of the behavioral foundations of economic theory», in «Philosophy and Public Affairs», vol. 6, n. 4, pp. 317-344.

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no la versione riduzionista delle preferenze (massimizzazione di preferenze individuali che non includono il godimento del benessere altrui), ovvero quella di un individualista (non simpatetico) massimizzante. Solo la seconda però mette anche in crisi il principio della massimizzazione vincolata, a meno che non vogliamo inserire nelle preferenze anche il gusto per il perseguimento del proprio dovere. Può essere utile collegare questi diversi modi di strutturare le preferenze individuali alla visione dell’uomo del pensiero religioso. Se pensiamo a san Paolo appare evidente che, mentre l’atteggiamento riduzionista dell’individualista non simpatetico massimizzante è sempre riprovato, esistono due stadi di cristianesimo che corrispondono in linea di massima alle visioni di sympathy e commitment. L’individuo che osserva i precetti con fatica e senza comprenderne il significato profondo vive sotto la schiavitù della legge, osserva un commitment ma non è abbastanza illuminato da aver modificato la propria struttura di preferenze e, dunque, compie scelte non ottimizzanti rispetto alla propria funzione di benessere. L’individuo che invece ha scoperto la “legge del cuore”, ha superato questa fase ed è consapevole che la sua identità profonda è di carattere relazionale. Sa di essere ricco di ciò che riceve donandosi e comprende che il suo personale benessere coincide con il benessere degli individui verso i quali presta la sua opera. Facendo proprio questo principio dialogico, in realtà tale individuo continua a massimizzare le proprie preferenze, anche se le stesse sono cambiate. In lui essere e dover essere coincidono o, meglio, si è scoperta la consonanza profonda tra dovere sociale e proprio interesse personale, fino a far coincidere il secondo con il primo. In genere dunque parliamo di approccio tolemaico quando la scienza economica utilizza l’antropologia dell’individualista, materialista e non simpatetico, massimizzante, mentre ci affacciamo al pensiero eclettico quando riconosciamo che

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l’uomo è fatto anche di comportamenti del secondo e terzo tipo ispirati al commitment e alla sympathy qualunque sia il suo grado di consapevolezza e la sua capacità di far diventare il dovere sociale anche piacere personale.

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2. 3. Il vantaggio dell’approccio eclettico: l’integrazione con le altre discipline In questo volume sostengo le ragioni dell’approccio eclettico sottolineando quei risultati scientifici e contributi di pensiero che maggiormente hanno messo in evidenza i limiti dell’approccio tolemaico e le potenzialità di quello eclettico, dimostrando – attraverso le ricerche empiriche sulla felicità presentate nella prima parte – che le preferenze degli individui sono piuttosto lontane da quelle delineate dall’approccio tolemaico. Un precursore del filone eclettico è sicuramente il premio nobel Gorge Akerlof. La sua capacità di combinare la riflessione economica con i contributi del pensiero sociologico ha consentito a questo economista di effettuare, nel tempo, delle aperture brillanti. Un primo postulato del pensiero tolemaico che Akerlof sfida è proprio quello che, coerentemente con il principio dell’individualismo miopemente autointeressato che cerca di massimizzare il volume dei consumi o la quantità di risorse monetarie a disposizione, non è razionale passare da lavori con un salario orario più elevato ad altri con salario meno elevato (e dunque tanto meno scegliere di “lavorare per niente”, come accade per i volontari). Coerentemente con il metodo che parte dalla verifica empirica portato avanti dall’approccio eclettico, Akerlof non crea un modello teorico dove assume come postulato che gli individui sono anche altruistici, relazionali e, sulla base di questi valori, effettuano le proprie scelte. Cosa di per sé del tutto ovvia per l’uomo comune che, pur

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convinto della rilevanza e del peso notevole di comportamenti opportunistici e individualisti nella società, è in grado di cogliere anche i fenomeni di segno opposto. La strada scelta da Akerlof per dimostrare la sua tesi è quella di un’indagine empirica in grado di provare l’esistenza di una quota consistente di individui che scelgono (anche) in base a valori e non solo sulla base dell’individualismo che massimizza la quantità di risorse monetarie a disposizione. Akerlof intitola pertanto il suo lavoro: Motivazioni non pecuniarie dei cambiamenti di lavoro 13 e sceglie dunque come oggetto di osservazione tutti quei casi numerosi nei quali le persone cambiano lavoro scegliendo un salario inferiore rispetto a quello che lasciano abbandonando il precedente posto di lavoro. La scelta è, dunque, quella di focalizzare l’attenzione proprio su esempi che violano palesemente – attraverso l’espressione delle proprie preferenze, rivelate in scelte concrete –, l’assunto che si cambi lavoro necessariamente per andare a guadagnare di più. Studiando le motivazioni che spiegano questi comportamenti “anomali” l’autore è in grado di far emergere tutta una serie di determinanti non monetarie, che incidono sulla scelta di lavoro (ad esempio, il costo di abbandonare la propria città, il desiderio di ricongiungersi con il coniuge o con il compagno, il desiderio di passare più tempo in famiglia o di dedicare più spazio al tempo libero) e che sono spesso direttamente riducibili a preferenze non miopemente autointeressate. La letteratura economica presenta innumerevoli lavori di tipo eclettico e, dunque, per un giovane di oggi che si dedica alla professione dell’economista il problema delle scuole probabilmente neanche si pone (ciò che conta è il rigore dell’approccio) e sembra del tutto normale il non doversi limitare en13 Akerlof

G. - Rose A. - Yellen J.L. (1988), Job Switching and Job Satisfaction in the U.S. Labor Market, in «Brookings Papers on Economic Activity», vol. 2, pp. 495-582.

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tro i confini dell’homo oeconomicus e poter sconfinare nell’eclettismo. Non bisogna sottovalutare però l’affezione per il vecchio paradigma di molti studiosi che hanno maturato la loro attività di ricerca in anni addietro e oggi hanno un peso superiore rispetto ai giovani nel mondo della cultura. Non bisogna inoltre tralasciare il fatto che la cultura media digerisce e mastica oggi più i vecchi risultati del paradigma tolemaico che quelli nuovi dell’approccio eclettico. E che la gente comune, rilevando magari solo istintivamente il palese contrasto con la visione del mondo proposta dall’approccio tolemaico – che per essa rappresenta in toto la scienza economica –, sviluppa un atteggiamento di repulsione nei confronti della disciplina e matura l’istinto di gettare a mare con il sistema tolemaico anche il telescopio! Ancora muovendoci nel campo di chi sta concretamente contribuendo allo sviluppo del paradigma eclettico non possiamo non fare riferimento al filone di ricerca sul rapporto tra motivazioni intrinseche ed estrinseche. Nel filone di ricerca che approfondisce lo studio delle determinanti della produttività individuale si è ricordata l’importanza di una tappa fondamentale della ricerca, quella dell’economia degli incentivi e delle regole ottimali, necessarie a risolvere i problemi di asimmetrie informative e i conflitti di obiettivo tra i diversi portatori d’interesse. La visione dell’uomo e della produttività individuale sviluppata dall’approccio degli incentivi, pur facendo segnare passi avanti importanti dal punto di vista della conoscenza dell’ambiente produttivo, resta comunque ancorata ad una visione meccanicista e materialista dell’individuo. Oseremo dire che il lavoratore-uomo viene lusingato o minacciato con bastoni e carote monetarie che dovrebbero metterlo in riga e spingerlo ad essere produttivo. Per fortuna alcuni economisti cominciano ad accorgersi, come già accennato, che questo modo di definire il comporta-

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mento umano e le conseguenti soluzioni di policy realizzate non sono senza effetti sul comportamento stesso, finendo per peggiorarlo e per rischiare di aumentare i problemi a cui si vuole porre rimedio. Un lavoro pionieristico illuminante viene sviluppato da Gneezy e Rustichini 14, in un ambito piuttosto peculiare. Gli autori realizzano un esperimento studiando il comportamento di alcuni bambini impegnati nella raccolta di fondi per scopi filantropici con e senza la presenza di incentivi monetari, definiti in termini di premi percentuali sulle somme raccolte da ciascuno. Il risultato sorprendente è che la quantità di fondi raccolti è maggiore quando gli incentivi monetari non ci sono. Le conclusioni degli autori sono che, in alcune circostanze, gli incentivi monetari possono spiazzare le motivazioni intrinseche che spingono a realizzare una determinata opera. Attraverso queste conclusioni si comincia a far luce nella “scatola nera” della vita produttiva, delineando un principio che alcune correnti di pensiero nella psicologia affermano con forza da tempo e che pare del tutto ragionevole. Ciò che veramente fa la differenza – ai fini della produttività individuale – sono le motivazioni intrinseche e non i compensi monetari. Sostituendo per un attimo i compensi monetari con la carota scopriamo che, dietro la teoria meccanicistica e materialistica della centralità delle remunerazioni monetarie, c’è una visione dell’uomo sostanzialmente simile a quella della forza animale. Se l’uomo è soprattutto forza animale (e certamente il tipo di lavoro realizzato nelle catene di montaggio degli inizi della rivoluzione industriale poteva indurlo a pensare di più del lavoro ad alta intensità di capitale umano e capitale sociale tipico dell’impresa contemporanea) allora per indirizzare la sua forza in direzioni produttive bastano la carota e il bastone. 14 Gneezy U. - Rustichini A. (2000), Pay enough or don’t pay at all, in «Quarterly Journal of Economics», 115, pp. 791-811.

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Quando invece il lavoro diventa creativo, richiede impegno ed applicazione intellettuale, volontà di aggiornamento e di approfondimento culturale e professionale, sforzo applicato alla risoluzione di problemi complessi, allora la carota si rivela del tutto insufficiente. Intendiamoci, le motivazioni intrinseche sono sempre la molla fondamentale dell’agire personale anche quando si effettuano lavori meccanici o ripetitivi, ma sicuramente l’inadeguatezza del bastone e della carota è decisamente più palese per questa seconda gamma di lavori più creativi. Dunque, stimolati dalle esigenze di un mondo del lavoro in trasformazione, gli economisti cominciano a comprendere l’ovvio. Ovvero che fattori cruciali nella vita di un’azienda sono la motivazione intrinseca dei dipendenti, la prossimità tra il loro centro di valori e quello dell’azienda (di qui l’importanza della responsabilità sociale d’impresa) e la qualità delle relazioni sociali nel posto di lavoro. Con questa consapevolezza va in crisi anche l’assunto che il lavoro sia solamente disutilità e sforzo penoso, necessario per accumulare risorse economiche da spendere fuori dal tempo di lavoro, in quel tempo libero che fa aumentare la nostra felicità. Di grande rilievo in questo panorama è il fatto che proprio uno dei più brillanti economisti contemporanei e dei principali esponenti della teoria degli incentivi, Jean Tirole, abbia cominciato con i suoi ultimi lavori ad esplorare i limiti stessi di questa teoria, addentrandosi nel campo delle motivazioni intrinseche ed esplorando le possibilità e i rischi di spiazzamento degli incentivi monetari sulle motivazioni intrinseche stesse 15. Il ragionamento di fondo è che lo spiazzamento può essere tanto maggiore, quanto maggiori sono le motivazioni intrinseche che guidano l’individuo. Alcuni esempi illuminanti sem-

15 Bénabou R. - Tirole J. (2003), Intrinsic and Extrinsic Motivation, in «Review of Economic Studies», 70, pp. 489-520.

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brano chiarire quest’aspetto. Se si chiede al proprio figlio di tagliare l’erba del giardino, senza promettere alcun incentivo monetario, si rafforza in lui l’idea che quella prestazione di lavoro sia un valore e un dovere, coerente con la dimensione di reciprocità e di dono gratuito che esiste all’interno della dinamica familiare. Se si comincia a promettere la “paghetta” per lo stesso tipo di attività è probabile che le motivazioni intrinseche si indeboliscano lasciando il campo a comportamenti opportunistici. Gli stessi risultati di Gneezy e Rustichini (commentati sopra) sono un ulteriore esempio che lo spiazzamento appare legato alla presenza ex ante di motivazioni intrinseche forti. Inoltre, sistemi di sanzione/punizione, tipici della teoria degli incentivi, possono impoverire la qualità della relazione tra principale (controllore) e agente (controllato), rendendo manifesta una mancanza di fiducia del primo nel secondo e incidendo negativamente sulla stessa autostima dell’agente. Il titolo del lavoro di Gneezy e Rustichini (paga bene o non pagare affatto) sembra illustrare molto efficacemente questo punto indicando che, se l’incentivo monetario è debole, l’effetto dello spiazzamento delle motivazioni intrinseche può essere superiore a quello della motivazione monetaria generando una riduzione dell’impegno.

2. 4. Gli scandali societari e l’inasprimento delle regole: una controricetta paradossale «At Enron, with respect to managers, an executive admitted: “I never heard a discussion about a person’s teamwork or integrity or respect”». Spector B. (2003), The Unindicted Co-conspirator, «Organizational Dynamics», 32, pp. 207-220.

Un’altra spallata all’approccio degli incentivi proviene da una riflessione di Frey e Osterloh (2005), che applicano il te-

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ma del rapporto tra regole sanzionatorie, motivazioni intrinseche ed estrinseche al tema della governance dei mercati finanziari, divenuto di scottante attualità a seguito degli scandali del principio del nuovo secolo 16. In sintesi i due autori sottolineano come la risposta della teoria degli incentivi all’ondata di scandali sia stata quella di rafforzare i meccanismi di monitoraggio e sanzionatori senza effettuare nessuna valutazione sull’effetto virtuoso o perverso dei sistemi di incentivo più diffusi. La controproposta paradossale, in direzione diversa dal senso comune, è quella di selezionare gli amministratori delle società favorendo coloro che si rivelano dotati di una struttura di preferenze nelle quali prevalgono le motivazioni intrinseche, riducendo l’enfasi su strumenti di incentivo monetario legati alla performance e aumentando le forme di partecipazione dei dipendenti. Insomma piuttosto che aumentare il livello delle punizioni sarebbe meglio cercare degli amministratori che abbiano in curriculum un’esperienza di scoutismo o di volontariato. La povertà relativa di valori all’interno della dirigenza di una grande impresa è, dunque, la vera causa degli scandali e la creazione di meccanismi di deterrenza nei confronti dei comportamenti opportunistici ha solo scopo punitivo e nessun effetto, in termini di incentivo positivo a un comportamento maggiormente ispirato a virtù civiche e valori morali.

2. 5. Un’obiezione ragionevole dei tolemaici Un’obiezione tipica dei tolemaici a tutto questo eclettismo da cui la teoria economica sembra essere invasa da più di-

16 Osterloh M. - Frey B.S. (2005), Corporate Governance for Crooks? The Case for Corporate Virtue, CREMA, Working paper series 2005-2010.

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rezioni è che i comportamenti altruistici sono un’eccezione a livello aggregato e quindi quando studiamo i macrofenomeni e modelliamo l’agente “rappresentativo”, ovvero quello che riassume in sé le caratteristiche medie degli agenti del sistema, possiamo ignorare gli elementi relazionali, altruistici, ecc. La risposta a questa ragionevole obiezione è duplice. In primo luogo le deviazioni non sono affatto così marginali come sembra. Basti riprendere le cifre sull’impegno nel volontariato, citate (vedi in questo cap. II: 1. 3. 3. Produttività e cura delle relazioni: un esempio virtuoso, p. 118), a proposito dello studio di Katz e Rosemberg. O citare i risultati di numerosi esperimenti di teoria dei giochi dove, in moltissimi casi, si riscontrano soluzioni cooperative in contraddizione con gli equilibri opportunistici che deriverebbero dal comportamento di individui massimizzanti miopemente autointeressati 17. O ancora evidenziare i risultati di recenti indagini empiriche sulla disponibilità a pagare per i contenuti di responsabilità sociale ed ambientale dei prodotti equosolidali, che identificano una quota tra il 30 e il 40 percento (tutt’altro che marginale) della popolazione, disposta a pagare un prezzo più elevato per prodotti socialmente o ambientalmente responsabili a parità di altre caratteristiche 18. In secondo luogo, la natura profonda della persona, al di là dei comportamenti opportunistici, possiede le potenzialità di un comportamento socializzante, reciprocante o altruistico. Tale comportamento contribuisce positivamente alla sua soddisfazione di vita (si vedano i risultati degli studi della felicità al cap. I, Felicità e vita di relazioni: alcuni paradossi introdutti-

17 Su questo punto vedasi in particolare Sobel J. (2002), Can We Trust Social Capital?, in «Journal of Economic Literature», «American Economic Association», vol. 40 (1), pp. 139-154. 18 Auci S. - Becchetti L. - Rando L. (2006), The willingness to pay for the environment: an empirical analysis, mimeo.

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vi, p. 39). Dunque non è tanto importane valutare se individui di questo tipo sono oggi molti o pochi, ma piuttosto è rilevante considerare quanto essi possano potenzialmente migliorare la qualità delle relazioni sociali ed economiche, inclusa la produttività di un’azienda o di un sistema economico in presenza di asimmetrie informative e di conflitti d’interesse. I prossimi due capitoli cercheranno di argomentare più approfonditamente quest’ultimo concetto.

2. 6. L’economia di zio Paperone e la “legge di moto della virtù” Il riduzionismo economista dei tolemaici, utilizzando un paradigma antropologico fortemente limitativo, finisce per non comprendere appieno il ruolo delle virtù sociali nella vita socioeconomica. Partendo dal postulato che solo ciò che è misurabile e osservabile conta e fondando i propri ragionamenti su di uno “sguardo avvilente” sull’uomo che lo imprigiona nella gabbia dell’individualismo massimizzante miopemente autointeressato, esso non riesce a comprendere le leggi di moto delle virtù sociali, né le potenzialità derivanti dall’investimento nelle stesse, per l’intero sistema economico. Per capire quanto è distante l’antropologia dell’homo oeconomicus da quella (ad esempio) delle principali religioni, possiamo semplificare confrontando il ritornello dei “tolemaici” – l’individuo facendo il proprio utile fa anche il bene della collettività – e la prospettiva opposta dell’antropologia cristiana dove l’uomo, curandosi del bene degli altri (in misura almeno pari a quella del benessere proprio), contribuisce alla propria felicità e al proprio utile. Secondo la prima prospettiva insomma l’uomo è una monade la cui azione autointeressata viene riconciliata con quella dei suoi simili da una mano invisibile (che in realtà per operare in tale direzione richiede un corredo di regole e istituzioni forti); per la seconda invece

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l’uomo è essenzialmente relazione e, attraverso la relazione e la cura dell’altro, scopre sé stesso perché donandosi si “ri-ha”, essendo la sua fioritura determinata fondamentalmente dall’arricchimento e dalla conoscenza di sé derivata dalla relazione con gli altri. Partendo dall’impostazione tolemaica diventa impossibile cogliere questi elementi profondi e valorizzarli nelle ricette di intervento, proposte per il miglioramento della polis. Da una visione dell’uomo siffatta esce fuori una versione caricaturale della persona che calza perfettamente con il comportamento di personaggi come lo zio Paperone dei fumetti di Disney. Prendiamo un esempio banale di scelta tra due situazioni diverse esogenamente definite. Un individuo deve decidere se andare a cenare in una pizzeria dove potrà acquistare una pizza al prezzo di P- ¡ (con ¡ che indica un numero piccolo a piacere), mangiando da solo, oppure uscire con i propri amici e mangiare con loro una pizza che pagherà il prezzo P. Nell’economia alla zio Paperone, quella dell’homo oeconomicus, la scelta sarà senz’altro la prima perché le relazioni non sono tra i beni che figurano come argomenti all’interno della funzione di utilità, mentre tutte le persone reali di senno, che attribuiscono alle relazioni un valore superiore ad ¡, sceglieranno la seconda soluzione. Non è difficile comprendere come questo sguardo avvilente sull’uomo, quando diventa cultura dominante, finisce per influire sul modo di pensare delle persone, rischiando di trasformarle gradatamente in quel paradossale modello antropologico su cui si basa. Così come l’importanza delle relazioni e il loro impatto sulle scelte economiche vengono del tutto ignorate, allo stesso modo accade per le virtù sociali e individuali. Utilizzando un approccio matematico è del tutto evidente che la virtù si comporta proprio come un’equazione differenziale. La virtù personale o sociale dell’individuo non è fis-

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sa e costante nel tempo e il suo valore in movimento dipende in ogni istante dal rapporto tra investimento nella vita virtuosa (incrementato attraverso la realizzazione di azioni virtuose che creano un “abito” o abitudine alla virtù stessa) e una sorta di “deprezzamento”, o legge dell’entropia, che induce al depauperamento del comportamento virtuoso quando questo non viene costantemente esercitato. Dunque, schematizzando questo ragionamento attraverso il modello dell’equazione differenziale abbiamo . V=dV+Iv Ovvero la variazione nel tempo della virtù (V) indicata a sinistra (il puntino sopra la V è la convenzione utilizzata per indicare la derivata della variabile rispetto al tempo) è funzione negativa del tasso di deprezzamento (ovvero il valore d tra zero e uno che indica la quota del livello attuale di virtuosità che viene dissipata in un determinato momento del tempo per via della legge dell’entropia) ed è funzione positiva dell’investimento generato dalla ripetizione dell’atto virtuoso (Iv). Insomma senza investimenti progressivi la virtù tende a zero mentre con investimenti ad un tasso superiore a quello della legge dell’entropia, ovvero della sua naturale tendenza al deprezzamento (con Iv>bV), essa può crescere significativamente. Per fare un esempio banale, apprendiamo con fatica da bambini l’abitudine di alzarci presto per recarci a scuola. La disciplina diventa sempre meno costosa man mano che la esercitiamo mentre può diventare insopportabilmente onerosa qualora prendessimo l’abitudine ogni giorno di svegliarci a mezzogiorno. Esistono ovviamente molte altre circostanze o influssi che possono influire sulla nostra propensione alla virtuosità ma queste due leggi dell’investimento e del deprezzamento sono comunque due fattori fondamentali che ne regolano il livello. La virtù, oltre ad essere importante per sé, è un fondamentale collante della vita economica e sociale aumentando la pro-

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pensione a pagare per numerosi beni pubblici. Vari studi empirici dimostrano che istruzione e pratica religiosa hanno impatto positivo e significativo sulla disponibilità a pagare per ridurre il degrado ambientale, sulla propensione a pagare le tasse e a svolgere attività di volontariato 19. È infatti del tutto evidente che la maggior parte delle transazioni della vita sociale ed economica non sono regolabili con contratti completi che prevedano regole, sanzioni e controlli per tutti i tipi di circostanze che possono determinarsi all’interno delle stesse. In presenza di una situazione di incompletezza contrattuale, dunque, il successo nello svolgimento delle transazioni economiche dipende in maniera fondamentale da virtù personali e civiche o da fattori alimentati dalle stesse quali il senso del dovere, il principio della reciprocità, la cura per le relazioni o la fiducia e la reputazione. Spesso non ci rendiamo conto di quanto la nostra vita si basi su interazioni “senza rete”. Diamo per scontato il successo di tante operazioni che dipendono in realtà da un concatenarsi di comportamenti fiduciari e virtuosi. Prenotiamo la corsa di un taxi via telefono e siamo (abbastanza) certi che il taxi arriverà nel tempo dovuto, diamo un ordine alla banca via telefono o telematico di vendita o acquisto titoli, di bonifici dal nostro conto, con la quasi totale certezza che i soldi verranno effettivamente trasferiti. Nel campo della finanza possiamo ormai dire che tutto è assolutamente virtuale e fondato sulla fiducia e che il valore originario su cui si basa la transazione è praticamente scomparso o resta un riferimento lontano. In sostanza nessuno sposta quantità di oro fisicamente da un posto all’altro ma i livelli dei nostri conti correnti o della nostra ricchezza variano coerentemente con le intenzioni manifestate nei nostri ordini trasmessi all’intermediario finanziario. 19 Auci

S. - Becchetti L. - Rando L. (2006), The willingness to pay for the environment: an empirical analysis, mimeo; Becchetti L. - Caiazza S. (2006), The determinants of tax morale: a cross-country analysis, mimeo.

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Le virtù civiche, la fiducia reciproca, il senso del dovere sono dunque il vero collante dell’economia ma non entrano nei modelli, con il rischio che i suggerimenti di policy che scaturiscono dai modelli stessi possono, ignorandolo, paradossalmente depauperare questo fondamentale patrimonio sociale. Con esempi in alcuni campi più specifici è possibile dimostrare come l’arricchimento di questo patrimonio di virtù personali e sociali consenta di aumentare la qualità delle relazioni economiche favorendo la crescita del benessere collettivo e consentendo di produrre beni o servizi, reali o virtuali, che, in assenza di tale elevato livello di capitale sociale, non potrebbero essere prodotti.

2. 7. Le virtù sociali favoriscono l’attività economica: un esempio concreto Un esempio interessante è quello dei servizi finanziari nei mercati di credito informale. È molto semplice dimostrare in questo frangente che, in assenza di motivazioni virtuose intrinseche o indotte dal controllo sociale, è impossibile ottenere dagli imprenditori che realizzano un investimento l’incentivo al massimo sforzo produttivo, offrendo allo stesso tempo un’assicurazione piena relativamente al risultato della loro azione. Supponiamo, come spesso si verifica, che tali investitori si trovino attorno alla soglia di povertà e che dunque il fallimento del loro progetto possa avere conseguenze molto negative sulla loro capacità di sussistenza. Un’assicurazione piena è definita come quello strumento che garantirebbe loro lo stesso identico risultato (intermedio tra quello di successo e di fallimento in assenza di assicurazione), indipendentemente dall’esito di successo o fallimento del progetto. Un’assicurazione siffatta avrebbe però il grave difetto di retroagire negativamente sugli incentivi. Nessun investitore si sentirebbe più

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motivato a produrre uno sforzo massimo, che rende più probabile il successo del progetto, sapendo in anticipo che la sua remunerazione sarà la stessa in qualunque caso e che dunque la stessa non premierà il suo sforzo aggiuntivo. Questo dilemma diventa risolvibile solamente se ipotizziamo che l’incentivo a non impegnarci al massimo in presenza di assicurazione piena sia contrastato da un costo psicologico o sociale connesso con il tradimento delle aspettative della collettività e degli altri partecipanti all’assicurazione. Se dunque il livello di virtù personali o di controllo sociale è abbastanza elevato, la possibilità di garantire un’assicurazione piena (o parziale) agli investitori permane, ma solo in questo caso. Dunque la presenza di un livello sufficientemente elevato di virtù civiche determina di per sé una relazione economica più fruttuosa per entrambe le parti, supponendo che entrambe preferiscano ridurre il rischio come quasi sempre accade in questi particolari contesti. Riassumendo il principio generale spiegato all’inizio del capitolo, la virtù è tutt’altro che statica e fissa, va alimentata ed è un fattore fondamentale necessario per il successo del vivere sociale e degli obiettivi economici che ci proponiamo. Se questo è vero, il postulato che dell’etica non ci si debba occupare, che essa sia non misurabile e vada tenuta fuori dal modello, finisce per generare il suggerimento di politica economica che non sia necessario favorire l’investimento nella medesima. Con il risultato di impoverire gradualmente le virtù civiche della popolazione e con effetti controproducenti sugli stessi obiettivi di sviluppo economico e sociale che ci si pongono. Tornando all’esempio dei salari dei manager, si ritiene che pagare di più sia l’unico modo per assicurarsi un comportamento in linea con le regole, senza interrogarsi sull’effetto di stipendi eccessivamente elevati sulla virtù individuale, sulle motivazioni intrinseche e sulla tentazione di onnipotenza che

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tipicamente rischia di colpire coloro che, una volta garantiti da particolari condizioni di privilegio, finiscono quasi naturalmente per sentirsi al di sopra del bene e del male. Dunque l’ipotesi della neutralità o dell’irrilevanza dell’etica e delle virtù, che giustifica il loro mancato inserimento nel modello dell’homo oeconomicus nell’approccio tradizionale, è fondamentalmente errata. La mancata considerazione di questa variabile nel comportamento dell’homo oeconomicus porta a sottovalutare necessariamente il ruolo della stessa e a non tener conto delle sue variazioni nelle proposte di policy che vengono realizzate sulla base del modello.

2. 8. Virtù, libertà e capacità («La libertà è nulla senza la capacità») La mancata considerazione della legge di moto della virtù porta anche a un difetto di prospettiva nel considerare gli effetti positivi della libertà. La libertà, intesa come mancata proibizione di porre in atto determinati comportamenti, è un’indicatore assai remoto di benessere economico. Una libertà siffatta, senza un livello di virtuosità adeguato, che aumenta le nostre capacità concrete di godere di azioni non formalmente impedite, non significa nulla. Posso avere una piena libertà formale del primo tipo vivendo in una società occidentale, ma se il mio livello di virtuosità e la mia capacità di differire il piacere immediato per assicurarmi un piacere differito (ciò che abbiamo definito come “bene arduo”), conseguibile solo attraverso esercizio e sforzo (un titolo di studio, una posizione professionale, un successo sportivo, ecc.), sono nulli, la mia capacità effettiva di godere tutti i beni potenziali che la libertà formale non mi proibisce è anch’essa prossima allo zero. Per fare un esempio semplice, se sono incappato nel tunnel della droga, le mie possibilità di raggiungere i beni ar-

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dui, di cui sopra, sono di fatto molto limitate e, dunque, la mia libertà e capacità effettiva, pur in presenza di una piena ed ampia libertà formale, sono assai scarse. Dunque, si dà pienezza e contenuto alla libertà investendo nelle capacità e nelle virtù personali e sociali, indirizzando la legge di moto della virtù in direzione di un suo accrescimento. Tutta l’economia della responsabilità sociale (microcredito, commercio equo e solidale, Banca Etica) si muove in questa direzione. Fondata sull’azione socialmente responsabile, essa offre chances di inclusione agli esclusi dal mercato, ma implica la responsabilità da parte dei riceventi e richiede che essi contraccambino l’opportunità ricevuta attraverso una loro azione produttiva. Superando in questo la logica della filantropia, che (se necessaria quando indirizzata a individui non più in grado di provvedere a sé stessi) spesso non dà gli stimoli necessari per l’accrescimento delle capacità quando è rivolta a individui in situazione di disagio, ma potenzialmente in grado di camminare con le proprie gambe. È chiaro che, se consideriamo la legge di moto della virtù che regola il suo evolversi dinamicamente nel tempo, ci rendiamo conto che la neutralità dell’etica – oggi spesso invocata come conseguenza naturale dei principi liberali – finisce per minare le stesse condizioni che rendono prospera la vita socioeconomica. Con la neutralità dell’etica possiamo continuare ad avere consumatori “interstiziali” che, passivamente, seguono mode e status symbol e, nella misura in cui continuano ad avere portafogli sufficienti, consumano. Di certo non avremo più cittadini produttivi o in grado di instaurare quelle relazioni di fiducia interpersonale che sono alla base del successo della vita economica. Alla luce di queste considerazioni ribadiamo che la posizione di alcuni che ritengono che l’etica dovrebbe restare fuori dall’economia, confinata nello spazio delle scelte e dei com-

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portamenti individuali e che paventano il rischio di uno “stato etico”, confusamente associato alle esperienze delle dittature del ventesimo secolo, non è solo contraddittoria ma anche controproducente. È evidente che si tratta di una enorme confusione. L’etica è semplicemente una scala di priorità che orienta le scelte sociali come quelle individuali. Dunque, pur non parlandone mai, è evidente che tutte le scelte di politica economica degli stessi individui sono orientate ad una determinata etica o scala di valori. Dunque, obiettare all’economia della responsabilità sociale che l’etica dovrebbe restare fuori dall’economia vuol dire in realtà porre “barriere all’entrata” ad un diverso modo di impostare la scala delle priorità (una diversa etica) che si contrappone alla scala di valori (o etica) dominante. Inoltre, l’economia della responsabilità sociale non ha nulla a che vedere con un ordine di priorità o con un’etica imposta dall’alto con motivazioni strumentali, come poteva essere quella paternalista di molte dittature del ventesimo secolo. Al contrario, essa crea semplicemente spazio e libertà per sviluppare le potenzialità di azione dal basso degli individui e, dunque, lascia libero campo alle loro scelte individuali. Parlare quindi di rischio di stato etico per “bollare” l’esperienza dell’economia della responsabilità sociale vuol dire veramente non aver capito di cosa stiamo parlando.

2. 9. La sostanza e l’accidente Abbiamo già considerato che, se riflettiamo un po’ più approfonditamente sulla scala di valori implicita che viene assunta oggi molto spesso come base di ragionamento per le decisioni di politica economica, ci accorgiamo che sovente gli elementi accidentali dell’individuo vengono prima di quelli sostanziali.

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La massimizzazione del benessere del consumatore e/o della ricchezza dell’azionista come traguardo massimo delle scelte economico/sociali rappresenta una inversione nella scala dei valori e viene al più frettolosamente giustificata sulla base del postulato, indimostrato e indimostrabile, che dal perseguimento di questi obiettivi derivi automaticamente il raggiungimento di tutti gli altri valori “superiori” (la crescita economica in senso aggregato, il benessere socioeconomico, la qualità della vita, il primato della persona, la felicità economicamente sostenibile). Di fatto, in moltissimi casi siamo di fronte a scelte dilemmatiche per le quali perseguire l’obiettivo del benessere del consumatore e della ricchezza dell’azionista vuol dire entrare in contraddizione diretta con quelli della tutela della persona e della qualità della vita. Ad esempio, la massimizzazione della ricchezza degli azionisti può comportare una riduzione della qualità del lavoro all’interno dell’impresa e il deterioramento della qualità della vita relazionale. Gli uomini sono qualcosa di diverso dai soldi e dai macchinari e la loro flessibilità e mobilità può comportare dei costi sociali e relazionali che evidentemente non sorgono quanto spostiamo soldi e macchine. Se abbiamo come valore massimo nella scala delle priorità quello della massimizzazione del benessere del consumatore e/o della ricchezza dell’azionista è evidente che la massima flessibilità e mobilità del lavoro è una delle strategie che ci consente di perseguire coerentemente questo obiettivo. Se pensiamo che la qualità della vita relazionale e la stabilità professionale siano elementi fondamentali della dignità e della realizzazione della persona, la massima flessibilità e mobilità del lavoro non è sempre la scelta ottimale coerente con questi valori. Per catturare con un’analogia paradossale il problema dell’inversione della scala di valori, e quello delle interdipendenze tra valori stessi, è come se un partito con l’obiettivo di

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massimizzare il benessere dei guidatori vincesse le elezioni e, perseguendo ciecamente e coerentemente la propria finalità, decidesse di abolire le strisce pedonali mettendo a rischio il benessere e la vita dei pedoni... Se ci rifacciamo alle visioni antropologiche più accreditate ci accorgiamo che l’inversione della scala dei valori spesso implica la confusione della sostanza con l’accidente. Mentre il nostro essere consumatori e azionisti, o meglio, il poter consumare più beni e a prezzi inferiori o il ricevere un valore maggiore dalla vendita delle azioni, rappresenta tutto sommato un elemento accidentale del nostro essere uomini, la possibilità di vivere in pienezza le proprie relazioni o di realizzarsi dal punto di vista professionale è qualcosa di molto più vicino alla sostanza profonda del nostro essere. Dunque l’inversione della scala delle priorità cui assistiamo oggi implica il privilegiare l’accidente e consentire che il suo perseguimento indebolisca la nostra sostanza. Queste considerazioni ovviamente non vogliono ignorare il contesto difficile in cui si realizzano oggi le nostre scelte, né vogliono trascurare la pressione di paesi e popolazioni che giustamente reclamano un loro posto nel mondo del benessere e sono disposti a impiegare tutte le loro energie per uscire dalla povertà, e neppure la necessità di ciascuno di noi di impegnarsi seriamente per crescere in cultura e competenze al fine di poter dare un contributo produttivo alla società. Infine non si vuole minimizzare l’esigenza, in paesi come l’Italia, di rimuovere le barriere che rendono difficile l’accesso al lavoro dei giovani in cerca di prima occupazione, anche a causa di eccessive garanzie e privilegi di alcune categorie professionali che rappresentano vere e proprie barriere all’entrata. Nonostante questo è evidente che, se la nostra società produce quantità di giovani che vivono in un permanente stato di precarietà e che non sono in grado di costruire relazioni stabili, con effetti significativi, e da tutti visibili, sull’equilibrio demo-

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grafico del nostro paese, essa non è certo il migliore dei mondi possibili. È necessario, tenendo realisticamente conto dei vincoli dell’agire socioeconomico, invertire l’ordine di priorità tra elementi sostanziali ed accidentali per la persona. Evitando di essere noi al servizio della macchina produttiva e delle sue esigenze e sacrificando alla stessa il perseguimento di beni superiori, piuttosto che sfruttarne le enormi potenzialità per il perseguimento di quegli stessi beni superiori che rendono felice la nostra esistenza.

2. 10. Il riduzionismo e la retorica del mercato Uno degli elementi più disturbanti del riduzionismo economicista, quando si traduce dal piano scientifico a quello della cultura corrente, è la retorica del mercato (o quello che Tremonti chiama il “dogmatismo mercatista”). Nella semplificazione estrema del dibattito di oggi la richiesta petulante di opinionisti e commentatori è quella di una dichiarazione di fede pro o anti mercato e la lamentazione corrente è quella dell’arretratezza della cultura di questo paese, dove ancora esistono molte resistenze nei confronti della logica del mercato. È evidente che tempi e spazi a disposizione negli strumenti di comunicazione di massa costringono inevitabilmente alla semplificazione. Ciò ci lascia sperare che, alle spalle di questi appelli, esista un pensiero più strutturato e complesso. Ciononostante la chiamata alle armi pro mercato appare sospetta e persino meno efficace di quanto potrebbe esserlo in caso di maggiore approfondimento del tema e più ragionata struttura dell’argomentazione. Basta assistere a due ore di lezione agli studenti di primo anno per capire i limiti e le potenzialità del mercato, oppure, in alternativa, leggere due-tre capitoli dei manuali sui principi

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di economia. Già da questo primo approccio emergerebbero le trappole e le ambiguità dell’attuale dibattito. Quello che tutti i manuali dicono è che il mercato è uno splendido strumento che consente, senza la necessità di un approccio centralizzato o la presenza di un banditore, di mettere d’accordo le proposte di domanda ed offerta di una quantità innumerevole di individui, le quali sono a loro volta dipendenti dai gusti dei consumatori, dalle capacità tecnologiche produttive e dai limiti di disponibilità delle risorse. Per capire bene questa funzione positiva del mercato ricordo un esempio illuminante relativo a un episodio accadutomi a Fernando de Corona, una bellissima isola del Brasile, paradiso naturale incontaminato con splendide spiagge e una eccezionale fauna marina. Giunti sull’isola con mia moglie per un soggiorno di due soli giorni veniamo subito condotti in una specie di hangar assieme ad altri turisti. Le autorità dell’isola ci chiedono cortesemente di dare loro i documenti con le informazioni sulla nostra permanenza, chiedendoci la gentilezza di aspettare un’ora all’interno del capannone durante la quale ci verranno descritte le bellezze naturali dell’isola. Nel frattempo gli operatori turistici del posto, studiando i nostri biglietti, decideranno l’itinerario migliore da proporre ai diversi visitatori. Colpiti favorevolmente dalla gentilezza dei locali, ma anche un po’ infastiditi dalla perdita di tempo e dalla necessità di stazionare all’interno di un luogo chiuso senza poter iniziare a visitare un posto così bello, attendiamo l’esito della valutazione mentre scorrono sullo schermo diapositive di piante e animali che avremmo potuto vedere anche a casa in televisione o sul nostro computer. Finalmente dopo un’ora ci viene reso noto l’esito della valutazione. Per noi, coppia di turisti romani, la “pro loco” locale, tenendo conto del numero ridotto di giorni di permanenza, ha partorito la geniale proposta di una visita all’unico

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reperto “storico” dell’isola, un cannone del 1700 che si trova al centro dell’unico centro abitato… Ringraziando per l’illuminato consiglio salutiamo frettolosamente per andarci a trovare delle camere, fittare delle biciclette e iniziare a girare per conto nostro le spiagge dell’isola… Il problema dell’ufficio turistico di Fernando de Corona è assai simile a quello in cui può incorrere un’economia “pianificata” e non di mercato. Ovvero un’economia dove si vuol decidere dall’alto cosa i consumatori devono consumare e cosa le imprese devono produrre. Si tratta, come si evince dal nostro esempio, se lo si pensa esteso su scale più ampie, di uno sforzo immane, costoso in termini di tempo e di risorse e con esiti assolutamente controproducenti per via dell’informazione limitata e insufficiente a disposizione degli eventuali pianificatori. Il mercato consente, senza alcuna programmazione o pianificazione, di risolvere attraverso i meccanismi dei prezzi l’incontro tra domanda ed offerta. Il resto di ciò che il manuale di primo anno di economia ci dice è che il mercato non è in nessun modo in grado di incidere sui livelli delle dotazioni, monetarie e non, con le quali gli individui vi accedono, non essendo in grado di avviare di per sé eventuali meccanismi di redistribuzione delle stesse, né di favorire l’accesso al mercato medesimo di coloro che ne sono esclusi per carenza di risorse monetarie a disposizione. Il mercato dunque raggiunge efficacemente degli obiettivi ma non è in grado di conseguirne altri. La diffidenza contro la retorica secondo la quale il mercato è la panacea di tutti i mali può essere compresa attraverso questi due semplici esempi. Magnificare le qualità del mercato come soluzione di tutti i mali (inclusi quelli della povertà o della mancata inclusione sociale) è come raccontare ad uno zoppo, a un non vedente o un disabile che tutti i loro problemi relativi al vincere o gareggiare efficacemente nella competizione della vita con il resto della popolazione, potranno essere risolti se soltanto si

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iscriveranno e si presenteranno al punto di partenza di una gara podistica dove dovranno gareggiare con giovani e aitanti atleti. Oppure è come magnificare le caratteristiche dell’automobile alla propria nonna malata che deve essere portata in ospedale, dimenticandosi però di portarcela e utilizzando l’automobile per fare delle grandi sgommate sull’autostrada. Nessuno discute le virtù e le potenzialità intrinseche dell’automobile o il valore della partecipazione ad una competizione sportiva. Il problema è che queste potenzialità non servono a nulla o vengono percepite come truffaldine (almeno dai non vedenti, disabili, dalle “nonne malate” o da coloro che hanno a cuore le loro sorti), se poi non si utilizza l’automobile per portare la nonna all’ospedale o non si consente ai portatori di handicap di godere in qualche modo dei benefici della competizione tenendo conto delle loro difficoltà di partenza.

2. 11. Pari opportunità e crescita vanno di pari passo? Il rapporto del 2003 della Banca Mondiale riprende questo tema in maniera elegante descrivendo l’attuale sistema economico in tre momenti successivi: i) le dotazioni iniziali di partenza, fortemente ineguali (alcuni nascono ricchi, altri poveri); ii) i canali attraverso i quali, a partire dalle dotazioni iniziali, si sviluppano i propri talenti per creare valore e ottenere; iii) una remunerazione (reddito) per il valore creato. Dunque, dotazioni iniziali, percorsi che trasformano le potenzialità e i talenti in realizzazioni produttive per la società e, infine, le remunerazioni ottenute come corrispettivo per tali realizzazioni. La Banca Mondiale sottolinea che, se non è possibile ridurre la disuguaglianza a livello di dotazioni iniziali, una sistema economico degno di questo nome deve darsi da fare per garantire a tutti, a prescindere dalle loro dotazioni iniziali, l’accesso ai canali che trasformano le potenzialità in realizza-

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zioni. Questo obiettivo si realizza generando processi d’inclusione che creino pari opportunità e consentano accesso al credito e all’istruzione. Mai come oggi quest’obiettivo delle pari opportunità è apparso strettamente connesso con quello della crescita economica di un paese. Per comprenderlo osserviamo questo schema che illustra come, a partire dalle dotazioni iniziali, si realizzano i risultati economici. Immaginiamo all’origine le dotazioni di talenti della popolazione di un paese (Figura 2. 2). La sorgente dei talenti si trasforma in un fiume produttivo quando questi talenti possono essere sviluppati attraverso l’accesso ai canali dell’istruzione e del credito. Una parte della portata d’acqua potenziale di questo fiume si esaurisce dunque in questo punto se esistono vincoli di accesso all’istruzione per i meno abbienti. Passato questo punto critico esiste un altro momento delicato lungo il corso del “fiume”. Quello nel quale gli indiviFIGURA 2. 2 Le leggi della creazione di valore a livello microeconomico A. Le dotazioni iniziali

B. Il passaggio dalle dotazioni ai risultati

C. I risultati

I vincoli finanziari alla formazione

Razionamento del credito

Ricchezza Talenti ind.

Scelta imprenditoriale Mancanza di motivazioni (effetto della bassa RS d’impresa)

successo della propria attività

Burocrazia Costo servizi Scarsa qualità Regole e istituzioni

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dui formati devono decidere se dedicarsi ad attività che creano valore per il sistema economico. Gli ulteriori blocchi, a questo punto, sono di due tipi. Il primo è quello di cui si parla sempre, ovvero le difficoltà che il sistema delle regole (burocrazia, lunghezza dei processi civili, ecc.) impone alla creazione d’impresa. Il secondo, di cui si parla meno, è che ci deve essere una certa consonanza tra valori ideali dell’individuo che deve scegliere la propria professione e valori “aziendali”. Se le motivazioni ad intraprendere un’attività di carattere imprenditoriale da parte di giovani cervelli sono oggi scarse ciò dipende in parte dal fatto che comunque si tratta di attività faticose e rischiose. Per intraprendere attività del genere deve esistere una motivazione forte. Una di queste è sicuramente quella materiale alimentata dall’opportunità di raggiungere livelli di reddito elevati. Un’altra può essere quella di tipo ideale, che associa l’attività imprenditoriale intrapresa a un obiettivo sociale correlato che attraverso di essa si può perseguire parallelamente all’arricchimento personale. Credo che lo sviluppo della cultura della responsabilità sociale d’impresa possa essere una strada molto promettente per aumentare la probabilità che giovani talenti si dedichino all’attività imprenditoriale in quanto quest’ultima è in grado di aumentare significativamente le motivazioni intrinseche connesse all’attività imprenditoriale stessa. Ragionando in termini di responsabilità sociale esiste oggi un continuum di imprese che vanno, dall’estremo di quella che non si pone affatto il problema, a tutta una gamma intermedia di esse che sono oggi impegnate in vario modo sui temi della responsabilità sociale mantenendo il loro scopo di massimizzazione dei profitti, fino ad un nuovo modello di imprese che modificano il loro obiettivo finale da quello unico della soddisfazione degli azionisti (massimizzazione del profitto), a quello dell’attenzione alle esigenze di un più vasto gruppo di portatori d’interesse che include i lavoratori, i fornitori, la comu-

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nità locale. Di tale estremo fanno parte le cosiddette imprese sociali, che rovesciano la prospettiva dell’impresa tradizionale ponendosi come obiettivo primo quello di un qualche tipo di utilità sociale, retrocedendo a vincolo il criterio della realizzazione di un utile d’impresa che consenta loro di sopravvivere o di prosperare sul mercato. Questa categoria può ulteriormente essere divisa in due. Da una parte imprese sociali che sono sul mercato e competono con le imprese profit (le banche etiche e la microfinanza, il commercio equo e solidale) con il merito di trasformare la solidarietà in fattore competitivo e di sollecitare promettenti tentativi di imitazione da parte delle imprese tradizionali. Dall’altra imprese che si occupano di fornire un bene o servizio sociale svolgendo azione di sussidiarietà nei confronti dell’intervento pubblico in uno dei suoi settori di azione tradizionale (sanità, assistenza alle categorie deboli). Una crescita di tutto il sistema delle imprese verso una maggiore responsabilità sociale non è affatto in contraddizione con l’obiettivo della creazione di valore economico come potrebbe sembrare ad una prima superficiale impressione. Se guardiamo all’azione del primo gruppo di imprese sociali di mercato è vero proprio il contrario. Commercio equo e solidale e microfinanza, impegnandosi a promuovere l’inclusione di soggetti che partono con dotazioni svantaggiate e rendendo loro possibile l’accesso a quei canali (educazione, credito, formazione professionale) che consentono la trasformazione dei talenti in capacità produttive, realizzano paradossalmente l’obiettivo di contribuire allo sviluppo del sistema economico sacrificando parte del loro utile d’impresa. Concludendo sulla retorica del mercato è bene diffidare di chi chiede adesioni fideistiche senza essere in grado di sviluppare riflessioni approfondite come queste. La realtà è infinitamente più complessa ma offre delle incredibili opportunità per realizzare un maggiore sviluppo socioeconomico e per promuovere il vero obiettivo che deve porre al centro la rea-

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lizzazione della persona e la sua felicità perseguita in modo sostenibile. Talvolta, per aiutare a fissare i concetti principali di alcune argomentazioni è assai efficace utilizzare immagini, metafore o piccole storie. Quella che proponiamo nel prossimo paragrafo cerca di condensare, per quanto possibile, quanto affermato a proposito del mercato.

2. 12. Il venditore di lavatrici C’era una volta un venditore di lavatrici dotato di capacità veramente notevoli. Bussava alle case degli abitanti di un piccolo villaggio non ancora raggiunto dal progresso e, una volta accolto, magnificava le qualità del suo prodotto raccontando in che modo esso avrebbe potuto migliorare la qualità della vita e la felicità degli abitanti di quel piccolo paese. Il dialogo di solito iniziava con una sua prolusione sulle funzioni della lavatrice e su come essa sarebbe riuscita a ridurre il tempo passato a svolgere le faccende domestiche, liberando spazi per il tempo libero e le relazioni interpersonali e riducendo la fatica del vivere quotidiano. Dopo questo primo racconto gli abitanti del villaggio solitamente si illuminavano ed iniziavano a fantasticare sul miglioramento dello standard di vita che l’elettrodomestico avrebbe loro apportato. Passato questo primo momento d’incantamento di fronte alle “magnifiche sorti e progressive” di cui la lavatrice era strumento e simbolo, approfittando della presenza in casa loro dell’uomo del progresso avanzavano timidamente altre richieste. «Non si potrebbe avere anche uno strumento che ci consenta di avere l’acqua calda in casa tutte le mattine? E di uno che ci sollevi dalla fatica di lavare i piatti a mano?». Il venditore di lavatrici a questo punto si fermava per un attimo perplesso: l’unico elettrodomestico che la sua ditta aveva in ma-

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gazzino pronto per la vendita era la lavatrice… Dopo un primo istante di perplessità però, individuava una brillante soluzione che propinava poi agli interlocutori con la sua notevole capacità oratoria. «Non c’è alcun problema, per soddisfare questi ulteriori bisogni potete usare la lavatrice!», riprendeva con enfasi e senza esitazioni aggiungeva: «La lavatrice è il simbolo del progresso dell’umanità e solleverà l’uomo da tutte le fatiche quotidiane». Una buona metà dei cittadini del villaggio, persuasi dall’abilità del venditore, acquistò la lavatrice e, convinta dalle sue abili parole, utilizzò l’elettrodomestico non solo per lavare la biancheria, ma anche per svolgere le altre importanti mansioni che il venditore aveva assicurato la lavatrice sarebbe stata in grado di assolvere. Dunque gli abitanti del villaggio iniziarono a mettere i piatti nella lavatrice e provarono a utilizzare l’acqua della stessa per fare un bagno caldo. L’acqua però non era affatto calda e i piatti dentro la lavatrice si rompevano tutti una volta azionata la centrifuga. Nel paese montò la rabbia, gli abitanti infuriati iniziarono a parlar male delle lavatrici nel villaggio, alcuni tra i più arrabbiati le presero a calci e le distrussero, dimenticando, nell’impeto d’ira, gli onesti servigi resi dall’elettrodomestico nella sua vera ed unica funzione, quella di lavare i panni. Nel paese l’indice di gradimento nei confronti della lavatrice era ai minimi storici e nessuno degli abitanti dell’altra metà del villaggio, convinto dalla cattiva pubblicità di coloro che la lavatrice avevano già acquistato, desiderava comprarne una per sé. Da principio il venditore di lavatrici tentò di proseguire il suo lavoro bussando alle porte delle case nelle quali non era ancora stato. Lo accoglievano volti accigliati e quasi nessuno lo lasciava più entrare. Alla fine dovette abbandonare il villaggio per evitare le ire dei suoi abitanti. Alcuni cantori entusiasti del mercato rischiano di produrre gli stessi effetti del venditore di lavatrici, con l’effetto di pri-

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vare di fatto alcuni villaggi dei benefici concreti e circoscritti dei meccanismi di mercato. Come già sottolineato, il mercato ha il grande merito di consentire la fissazione di un prezzo di equilibrio attraverso il gioco della domanda ed offerta di un numero assai elevato di partecipanti al mercato stesso, senza la necessità di alcun banditore. Il prezzo definito dal mercato è un buon indicatore che informa sulla scarsità relativa del bene medesimo e sui gusti dei consumatori indirizzando correttamente le scelte di allocazione dei fattori produttivi verso la produzione di questo o di quel prodotto. Se dunque il mercato è particolarmente adatto a svolgere alcune funzioni, il problema sorge quando vogliamo far fare al mercato qualcosa di diverso dal “lavare i panni” e fingiamo che esso possa anche “portare l’acqua calda in casa” o “lavare i piatti”, per restare nell’ambito della favola del venditore di lavatrici. Il mercato non può assolutamente risolvere il problema delle ineguaglianze distributive, ovvero non possiede nessuno strumento intrinseco per ridistribuire le fiches con le quali partecipiamo al gioco. Dunque per risolvere il problema della povertà dobbiamo per forza di cose introdurre altri “elettrodomestici”. Il mercato non risolve il problema dei beni pubblici (salute, istruzione, difesa, qualità ambientale) che, se abbandonati alle decisioni spontanee individuali, vengono prodotti in quantità inferiore a quella necessaria. Il mercato per realizzare appieno le proprie potenzialità (attraverso la concorrenza) richiede che i diversi attori abbiano pari peso e pari dignità. Questa condizione è assai fragile e in molti frangenti (monopoli naturali, rendite di posizione) non può essere assicurata dal mercato stesso ma va sostenuta e promossa da specifiche autorità di vigilanza (antitrust), incaricate di contrastare i tentativi delle imprese di dimensioni maggiori di colludere e di limitare le possibilità di accesso al mercato di nuovi attori. Inoltre il mercato è uno strumento neutro che non ha alcuna morale propria. Valore economico e valore mo-

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II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus

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rale non coincidono affatto e, dunque, in alcuni settori moralmente delicati, molto spesso si decide di non lasciar fare il mercato. Infine, lo stesso, per funzionare bene, ha bisogno di perfetta informazione mentre, purtroppo, l’informazione stessa è un bene pubblico, ovvero paradossalmente, se ne produce troppo poca se affidata alle sole leggi di mercato. E quando l’informazione è incompleta o asimmetrica alcune proprietà virtuose del mercato vengono meno e alcuni elementi devono essere valutati in senso opposto. Per fare un esempio, le proprietà informative dei prezzi cambiano completamente quando l’informazione è imperfetta. In presenza di certezza sulla qualità e le caratteristiche dei prodotti il consumatore cercherà sempre i prezzi più bassi possibili. In presenza di incertezza sulla qualità, e di rischi per il consumatore derivanti dalla scarsa qualità stessa, il prezzo diventa segnale di qualità e, dunque, molte volte si preferirà un prezzo leggermente più elevato poiché un prezzo troppo basso sarà visto con sospetto. Per concludere, tornando all’insegnamento della nostra favola, chi si lamenta della mancanza di cultura di mercato dovrebbe capire che tale carenza dipende, in parte, anche da alcune forzature che spingono a “vendere” il mercato come soluzione taumaturgica di tutti i problemi economico-sociali che ci affliggono. Una valutazione più realistica di potenzialità e limiti del mercato eviterebbe di trasformarlo in un “idolo”, con effetti controproducenti nei confronti dell’apprezzamento per ciò che il mercato può fare.

3. Un confronto finale riassuntivo tra il paradigma riduzionista e quello eclettico È possibile, alla fine di questo capitolo, abbozzare una piccola sintesi finale delle differenze tra i due paradigmi (ridu-

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Oltre l’homo oeconomicus

zionista ed eclettico). Per fini espositivi, tali differenze verranno necessariamente enfatizzate. È un gioco utile e necessario per sottolineare le peculiarità dei due principi generativi pur sapendo che in molti contributi scientifici e culturali in realtà i due modelli si presentano combinati tra di loro in vario modo e in diverse proporzioni. I due paradigmi si differenziano innanzitutto per la visione di persona. Quello riduzionista appare fondamentalmente individualista. Fonda la sua analisi su un’idea di individuo che massimizza in isolato il proprio autointeresse senza tener conto delle interdipendenze tra le proprie scelte e il benessere altrui e degli effetti perversi che gli impatti negativi delle proprie scelte sul benessere altrui potrebbero determinare su se stesso (autointeresse miope). Riguardo a quest’ultimo punto intendiamo dunque affermare che tale individuo non è in grado di percepire completamente il gioco delle interdipendenze, tipico della complessità del mondo globalizzato, e dunque non si accorge che, quando i danni sociali e ambientali superano una certa soglia, essi possono generare effetti negativi di ritorno che mettono in gioco il benessere e la felicità personale. Dall’altra parte abbiamo una visione di persona nella quale l’identità individuale si determina e si perfeziona attraverso il gioco delle relazioni. Per l’individuo del paradigma eclettico dunque la qualità dei rapporti primari è una risorsa fondamentale che fornisce un contributo decisivo alla propria felicità. Per tale individuo l’autointeresse miope, quale molla dell’azione individuale, è temperato da altre spinte come quelle dell’autointeresse lungimirante che rende il medesimo capace di cogliere le interdipendenze tra benessere proprio e altrui e lo spinge a porre in atto comportamenti di equità e reciprocità. La metodologia di fondo che regola l’azione dell’individuo nel paradigma riduzionista è quella della razionalità intesa come coerenza tra gli obiettivi e l’azione, perseguita attra-

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II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus

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verso il principio della massimizzazione vincolata, ovvero attraverso l’impegno a rendere massima la propria soddisfazione tenuto conto dei vincoli (tempo, denaro, tecnologia) che limitano l’azione. La metodologia di azione dell’individuo del paradigma eclettico è anch’essa fondata sulla razionalità e sulla massimizzazione vincolata con la differenza che la sua funzione obiettivo incorpora il benessere di coloro con i quali stabilisce relazioni oltre ad elementi di equità. Inoltre il principio di massimizzazione vincolata è temperato dal commitment, o dovere morale, che, in alcune circostanze, prevale sul proprio interesse spingendo a scegliere un corso di azione che non necessariamente massimizza i propri obiettivi personali ma che risulta coerente con il proprio insieme di valori. La versione più “consapevole” dell’individuo del paradigma eclettico è quella che riesce a trasformare gli elementi di dovere morale in attributi della propria funzione di felicità, interiorizzando tali norme e facendole coincidere con il soddisfacimento del proprio interesse. I modelli fondati sul paradigma riduzionista non riescono a spiegare moltissimi paradossi. Si tratta di paradossi talmente generalizzati e diffusi da mettere in discussione il paradigma stesso. A partire dalla diffusione del volontariato (individui che “lavorano per nulla”), dalla disponibilità a pagare per le caratteristiche sociali e ambientali dei prodotti di consumo, fino all’impossibilità a spiegare perché così tanti individui pagano le tasse anche quando i deterrenti contro l’evasione non sono poi così incisivi. Le politiche che nascono dalle due impostazioni presentano differenze significative. L’approccio fondamentale è che le politiche di deterrenza, definite sulla base di meccanismi sanzionatori, sono ritenute relativamente meno efficaci che nell’approccio riduzionista, mentre uno spazio importante viene assegnato alle politiche che fanno leva sulle motivazioni intrinseche e che generano effetti positivi sulle virtù civiche

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Oltre l’homo oeconomicus

dei cittadini (tutt’altro che esogene e non influenzabili dalle scelte di policy). In linea generale, dunque, il paradigma eclettico non considera l’etica come un fattore irrilevante o esogeno, ma tiene implicitamente conto del fatto che la virtù civica ha una sua legge di moto nella quale l’evoluzione del suo livello futuro dipende dagli input formativi e dalla ripetizione di comportamenti virtuosi in grado di contrastare la legge dell’entropia e la sua naturale tendenza al “deprezzamento”. Coerentemente con i molteplici risultati empirici che indicano il ruolo positivo e significativo di istruzione, famiglia e educazione religiosa nell’incrementare il capitale sociale, la capacità di reciprocità, la cooperazione alla produzione di beni pubblici (si vedano gli effetti positivi e significativi sull’attitudine al volontariato, alla morale fiscale, alla disponibilità a pagare per le caratteristiche di responsabilità sociale e ambientale dei prodotti), il paradigma eclettico sottolinea l’importanza di questi tre fattori che generano capitale sociale. In particolare l’istruzione non è percepita soltanto come capace di accrescere capitale umano con effetti sui redditi, ma anche come valore che di per sé aumenta la felicità individuale e contribuisce allo sviluppo delle virtù civili. L’approccio eclettico ha anche ricette nuove per il funzionamento e il prosperare dell’impresa nell’era della globalizzazione. Partendo dal punto fondamentale della legge di creazione di valore, in sistemi complessi, nei quali diventa fondamentale il processo di condivisione delle informazioni e il lavoro di gruppo tra individui dotati di conoscenze complementari e insufficienti se considerate isolatamente. Tale approccio intende ristabilire un equilibrio tra motivazioni intrinseche e motivazioni economiche. In questa prospettiva sottolinea come le tradizionali forme d’incentivo individuale scoraggino la cooperazione nei “giochi di fiducia” nei quali si realizza l’attività produttiva dell’impresa e come la re-

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sponsabilità sociale d’impresa rappresenti una strategia importante per aumentare la prossimità tra obiettivi aziendali e motivazioni intrinseche dei dipendenti. Nel campo della governance delle imprese, ancora una volta l’approccio eclettico sottolinea l’importanza di affiancare i sistemi di deterrenza a meccanismi di selezione in grado di valutare le motivazioni intrinseche e le virtù civiche di coloro che sono chiamati a posizioni importanti all’interno dell’impresa. Nessuna regola, per quanto perfetta, è riuscita sinora a funzionare da deterrente infallibile contro l’insorgere di scandali finanziari, mentre, in tutti questi casi, sistemi di selezione e di controllo basati sulle motivazioni intrinseche e virtù civiche dei dirigenti d’impresa avrebbero potuto contribuire ad arginare il fenomeno. Infine, nelle politiche Nord-Sud l’approccio eclettico sottolinea, accanto alla costruzione di nuovi modelli di governance nelle istituzioni internazionali, l’importanza di creare sinergie dal basso favorendo l’azione organizzata della società civile, in applicazione al principio di sussidiarietà, aumentando così il grado di partecipazione, di democrazia e di responsabilità dei cittadini. Nel capitolo conclusivo si approfondiranno in concreto alcune nuove modalità di azione economica che potranno aiutare a comprendere meglio in che modo il paradigma eclettico, prima ancora che nella teoria e nelle sistematizzazioni degli studiosi, si stia realizzando sul campo grazie alle intuizioni e alle prassi illuminate di pezzi importanti della realtà economica.

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SUPERIORE A QUELLA ATTESA

PROPENSIONE A PAGARE LE TASSE

ED AMBIENTALE PRODOTTI,

PAGARE PER QUALITÀ SOCIALE

PARADOSSI: DIFFUSIONE VOLONTARIATO, DISPONIBILITÀ

A

Non spiegabili in base all’homo oeconomicus

Razionalità, approccio massimizzante

DI AZIONE

PRINCIPIO

PARADIGMA RIDUZIONISTA Individua substantia rationalis (Boezio) Homo oeconomicus (Hobbes, Hume)

(self interest) Autointeresse miope

DI RIFERIMENTO

ATTEGGIAMENTO

ANTROPOLOGIA

Confronto di sintesi tra paradigma riduzionista e paradigma eclettico

TABELLA 2. 2

Spiegabili se si considerano motivazioni intrinseche, sympathy e commitment

Razionalità, approccio massimizzante temperato da elementi di dovere morale

(self interest, symphaty e commitment) Autointeresse lungimirante, altruismo, beni relazionali, reciprocità, fairness

PARADIGMA ECLETTICO Identità relazionale individuo (Levinas, Buber, Rosenzweig, Ricoeur, Mounier)

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178 Oltre l’homo oeconomicus

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GOVERNANCE

POLITICHE NORD-SUD

CORPORATE

EDUCAZIONE RELIGIOSA, FAMIGLIA

Stock options, qualità delle regole di controllo

Contribuiscono alla formazione di capitale umano

RUOLO

Incentivo all’azione dal basso della società civile, sussidiarietà, promozione qualità informazione su CRS imprese, sostegno del consumo e del risparmio socialmente responsabile

Limite al differenziale di remunerazione tra top managers e lavoratori per evitare spiazzamento nelle motivazioni intrinseche, attenzione alle caratteristiche prosociali nella selezione dei managers

Oltre al capitale umano, creano capitale sociale, aumentano disponibilità a pagare per i beni pubblici e contribuiscono positivamente alla “legge di moto” della virtù

Leva sulle motivazioni intrinseche, CRS delle imprese come strumento per avvicinare funzione obiettivo imprese a motivazioni intrinseche lavoratori

Sistema di incentivi, sanzioni e premi monetari

MERCATO DEL LAVORO

DI ISTRUZIONE,

Attenzione maggiore alle motivazioni intrinseche e alle iniziative in grado di incidere positivamente sulla legge di moto delle virtù civiche

GENERALE

DI POLICY

Deterrenti definiti sulla base di meccanismi di sanzione/punizione

STRATEGIA

AZIONI

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Oltre l’uomo economico

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Bibliografia

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II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus e dell’impresa: cosa impariamo dagli studi dell’economia della responsabilità sociale?

1. Agli antipodi dell’homo oeconomicus. Quanto conta il mondo delle preferenze non autointeressate (o non autointeressate in maniera miope)? L’obiezione più rilevante al nuovo ed emergente paradigma eclettico, nel quale si ipotizza e si dimostra la presenza di individui con preferenze altruistiche, orientate alla reciprocità o che incorporano il valore dei beni relazionali, è che gli individui con queste preferenze sono delle “anomalie” che contano poco a livello aggregato e che, dunque, il buon vecchio sguardo cinico sulla realtà implicato dall’utilizzo dell’homo oeconomicus come individuo rappresentativo, è un’approssimazione corretta per analizzare il funzionamento dei sistemi socioeconomici a livello aggregato. In sostanza, riprendendo l’argomento di Sen in rational fools 1 relativo al difetto di fondo dell’antropologia economica di ignorare symphathy e commitment, è come se queste critiche minimizzassero il peso di questi fattori, pur ammettendone l’esistenza, ritenendoli poco rilevanti da un punto di vista aggregato. Con una serie di esempi, tratti da diversi studi empirici, intendiamo dimostrare che ciò non è affatto vero. Le deviazioni osservate rispetto al paradigma dell’individuo miopemente autointeressato sono talvolta così importanti e massicce da mette1

Sen A. (1977), Rational Fools: «A critique of the behavioral foundations of economic theory», in «Philosophy and Public Affairsvol», 6, n. 4, pp. 317-344.

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus

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re in crisi la capacità di rappresentazione del reale di tali modelli (si pensi soltanto al già citato esempio del volontariato nel cap. II: 1. 3. 3. Produttività e cura delle relazioni, p. 110). Inoltre, ciò che è più importante è che il peccato di fantasia dei modelli riduzionisti, che tagliano fuori dalla realtà componenti fondamentali dell’uomo, non consente di sviluppare tutte le potenzialità esistenti per la realizzazione delle finalità dell’agire socioeconomico (lotta alla povertà, salvaguardia dell’ambiente, miglioramento della qualità della vita in direzione di una maggiore felicità collettiva). In parole povere se non teniamo conto della ricchezza dell’individuo e delle sue motivazioni non siamo neanche in grado di formulare la migliore politica possibile per stimolare produttività e sviluppo (si vedano, da questo punto di vista, il riferimento al rapporto tra produttività e beni relazionali, l’esempio della trust game corporation presentato nel cap. II: 3. Un confronto finale riassuntivo tra il paradigma riduzionista e quello eclettico, p. 171), e la legge di moto espressa nell’“equazione differenziale” della virtù discussa nel cap. II: 2. 5. Un’obiezione ragionevole dei tolemaici, p. 148). Numerosi sono gli esempi sulla rilevanza delle preferenze non autointeressate in maniera miope (insistiamo nel dire che, a rigor di logica, anche l’individuo altruista, relazionale o reciprocante, sapendo che la felicità dipende dalla capacità di promuovere il benessere altrui, promuove alla fine anche il proprio interesse in maniera non miope), ma ci concentriamo su tre aspetti. La disponibilità a pagare dei cittadini-contribuenti per una maggiore qualità ambientale (vedi: 1. 1. Disponibilità a pagare per l’ambiente, p. 182); la disponibilità a pagare dei consumatori per una maggiore qualità sociale dei prodotti (vedi: 1. 2. Disponibilità a pagare del consumatore socialmente responsabile…, p. 206 e seguenti), e la disponibilità a pagare dei risparmiatori per la lotta all’inclusione e l’accesso al credito degli esclusi (1. 4. 2. La rilevanza e la capacità di contagio del risparmio socialmente responsabile, p. 219).

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Oltre l’homo oeconomicus

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1. 1. Disponibilità a pagare per l’ambiente Per sviluppare il primo aspetto presentiamo alcune evidenze empiriche utilizzando nuovamente l’indagine mondiale sui valori già presentata e descritta nel cap. I: I nuovi studi sulla felicità…, p. 19. Sul tema della disponibilità a pagare per l’ambiente, l’indagine mondiale sui valori propone le seguenti domande: i) «Sei d’accordo con un aumento del prelievo fiscale se il denaro in più viene usato per prevenire danni ambientali?». ii) «Sei d’accordo a dare parte del tuo reddito se fossi certo che il denaro venisse usato per prevenire l’inquinamento?». iii) «Sei disposto a pagare prodotti al venti per cento in più rispetto ai prezzi abituali se ciò servisse a proteggere l’ambiente?». Le risposte possibili prevedono diverse modalità che vanno da: «sono fortemente d’accordo»; «sono d’accordo»; «non sono d’accordo»; «sono in forte disaccordo»; «non so». I risultati relativi alla prima domanda indicano che, su un campione di 70.328 individui provenienti da più di 70 diversi paesi del mondo, la quota di coloro che sono fortemente d’accordo si attesta al 17, 48 percento, quella di coloro che sono d’accordo al 47, 64 percento (Tabella 3. 1A). Si dichiarano in disaccordo il 24, 74 percento degli intervistati e in forte disaccordo il 10, 14 percento degli stessi. Per quanto riguarda invece la risposta alla domanda sul reddito (domanda ii) le percentuali relative a coloro che sono fortemente d’accordo, d’accordo, in disaccordo e in forte disaccordo sono rispettivamente del 16, 06; 43, 60; 29, 20 e 11, 14 percento (Tabella 3. 1B). Questi risultati sono un evidente paradosso se valutati sulla base del paradigma dell’autointeresse miope. In base a tale modello interpretativo nessun individuo dovrebbe dichiararsi fortemente d’accordo o d’accordo né sulla domanda delle tasse, né su quella dei prezzi. Invece la quota di coloro che

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus

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scelgono le prime due modalità non è affatto irrilevante rappresentando più del 60 percento degli intervistati nella domanda sulle tasse e il 37 percento circa nella domanda sui prezzi. Dunque, il modello alla “zio Paperone”, dove la felicità è pagare il prezzo più basso, sembra stridere fortemente con le indicazioni raccolte sul campo e una quota assai rilevante di individui non sembra cercare solo questo, ma si dichiara disponibile a sacrificare parte del proprio benessere di consumatore per contribuire alla lotta e al degrado ambientale. Prima di dichiararci convinti dell’affidabilità di queste risposte dobbiamo affrontare una questione di tipo metodologico. Riflettendo sui limiti di questo genere di indagini empiriche che non guardano alle preferenze effettivamente rivelate attraverso gli acquisti, ma solo all’astratta disponibilità a pagare. La letteratura teorica sulla disponibilità a pagare ha approfondito tutte le possibili distorsioni che si possono nascondere in questo genere di rilevazioni a mezzo intervista. Riassumendo brevemente le conclusioni più importanti di due dei lavori più significativi in materia, quelli di Mitchell e Carson (1989) e di Diamond e Hausman (1994), esistono fondamentalmente quattro tipi di distorsioni possibili. La prima si applica quando l’intervistato ritiene che con la propria risposta si possa in qualche modo influenzare le decisioni dei politici circa la fornitura di un determinato bene pubblico o il livello di tassazione necessario per erogarlo. Questo tipo di distorsione, nel nostro caso (in particolare nella domanda sulle tasse), dovrebbe portarci a correggere verso l’alto e non verso il basso la quota di coloro che si dichiarano disposti a pagare per una migliore qualità ambientale. Il timore che la risposta possa effettivamente implicare una modifica verso l’alto del livello di tassazione dovrebbe infatti indurre alcuni degli intervistati, potenzialmente convinti dell’importanza di pagare qualcosa per l’ambiente, a rispondere opportunisticamente di no per scaricare, se possibile, l’onere della spesa su altri.

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DEL CAMPIONE **

3.644 8,23%

3.486 13,38%

TABELLA 3. 1B

10.431 23,56%

6.968 26,75%

17.399 24,74%

21.451 48,45%

12.053 46,27%

33.504 47,64%

8.751 19,76%

3.544 13,60%

12.295 17,48%

Disponibilità a dare parte del reddito per prevenire l’inquinamento

AD ALTO REDDITO *

7.130 10,14%

RESTO

AD ALTO REDDITO *

DEL CAMPIONE **

PAESI OCSE

MONDO

11.806 38,87%

9.497 13,16%

21.303 11,14%

FORTE DISACCORDO

IN DISACCORDO

34.464 28,95%

21.367 29,60%

55.831 29,20%

IN

51.689 43,42%

31.688 43,91%

83.377 43,60%

D’ACCORDO

21.077 17,71%

9.622 13,33%

30.699 16,06%

FORTEMENTE D’ACCORDO

Darei parte del mio reddito se fossi certo che il denaro fosse usato per prevenire l’inquinamento

RESTO

PAESI OCSE

MONDO

OSS.

OSS.

119.036 62,26%

72.174 37,74%

191.210 100%

N.

44.277 62,96%

26.051 37,04%

70.328 100%

Sarei d’accordo per un aumento delle tasse se tale aumento fosse destinato a prevenire l’inquinamento ambientale IN FORTE IN DISACCORDO D’ACCORDO FORTEMENTE N. DISACCORDO D’ACCORDO

Disponibilità a pagare più tasse per prevenire l’inquinamento

TABELLA 3. 1A

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186 Oltre l’homo oeconomicus

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Fonte: Auci, Becchetti, Rando (2006).

**Resto dei paesi del campione: Albania, Algeria, Azerbagian, Argentina, Armenia, Bangladesh, BosniaErzegovina, Brasile, Bulgaria, Bielorussia, Cile, Cina, Taiwan, Colombia, Croazia, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Egitto, El Salvador, Estonia, Georgia, Ungheria, India, Indonesia, Iran, Israele, Giordania, Corea, Lettonia, Lituania, Macedonia, Malta, Messico, Moldavia, Montenegro, Marocco, Nigeria, Irlanda del Nord, Pakistan, Perù, Filippine, Polonia, Porto Rico, Romania, Federazione Russa, Serbia, Singapore, Slovacchia, Slovenia, Sud Africa, Tanzania, Turchia, Uganda, Ucraina, Uruguay, Venezuela, Vietnam, Zimbabwe.

* Paesi OCSE ad alto reddito: Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Giappone, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Stati Uniti d’America.

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus 187

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Oltre l’homo oeconomicus

Il secondo tipo di distorsione si determina quando lo scenario prospettato dall’intervistatore è troppo poco realistico. In quel caso la vaghezza del contesto incide anche sulla qualità della risposta dell’intervistato. Il terzo tipo di distorsione è relativo al fatto che gli individui percepiscono chiaramente, dal punto di vista qualitativo, di avere una disponibilità a pagare per un bene pubblico ma non hanno una chiara idea del quantum e tendono pertanto a rispondere a una domanda che chiede di quantificare tale disponibilità indicando sorprendentemente lo stesso esatto ammontare. Anche questo terzo tipo di distorsione non dovrebbe applicarsi al nostro caso perché la domanda sulle tasse intende valutare solo la disponibilità qualitativa a pagare (senza chiedere quanto), mentre la domanda sui prezzi indica una quantità unica (venti percento in più) rispetto alla quale i consumatori devono comunicare il proprio accordo o disaccordo. Infine, l’ultimo tipo di distorsione è quello che spinge l’intervistatore a cercare di compiacere l’intervistato e, dunque, a rispondere tendenzialmente in maniera coerente ai valori che egli presume l’intervistatore abbia. In questo caso probabilmente la distorsione si può applicare anche alla nostra situazione, sotto l’assunzione che l’intervistato pensi che l’intervistatore abbia opinioni favorevoli a una maggiore tutela ambientale. In realtà non è affatto detto che sia così perché nell’indagine le domande sui valori sono numerose ed effettuate in maniera il più possibile neutrale ed equidistante rispetto ai valori oggetto d’indagine. Non è dunque facile desumere le opinioni degli intervistatori e dei responsabili dell’indagine stessa. A queste quattro fonti di distorsione aggiungiamo una quinta secondo la quale le persone possono preferire, di fronte a una domanda sui valori, di apparire più etiche di quello che in realtà sono. In fondo la risposta positiva non costa nulla ma la scelta effettiva sì e, dunque, di fronte ad una reale incidenza sul portafoglio alcuni di coloro che si sono dichiarati

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus

189

favorevoli – a parole – potrebbero tirarsi indietro nei fatti. È quest’ultimo tipo di distorsione quella più importante da considerare nell’interpretare i risultati sulla disponibilità a pagare per la tutela ambientale. Dunque per motivi di prudenza, tenendo conto di tutti questi possibili problemi, possiamo secondo un noto detto anglosassone «errare dal lato della cautela» e rivedere un poco al ribasso queste prime evidenze descrittive sulla disponibilità a pagare. È evidente però che, se anche riduciamo del dieci percento la quota degli intervistati che si dichiarano d’accordo o fortemente d’accordo, restiamo comunque con una percentuale assolutamente rilevante di individui non miopemente autointeressati. Un’altra domanda che può sorgere a questo punto è: perché se la disponibilità a pagare è così alta (pur con la correzione al ribasso che tiene conto delle possibili distorsioni), le quote di mercato dei prodotti ecologici sono, sì significative, ma non così elevate? La risposta plausibile è che la domanda presenta in realtà un contesto astratto e irrealistico nel quale la scelta tra i due diversi prodotti è senza costo e perfettamente informata. In altri termini non si tiene conto del fatto che nella realtà le persone non conoscono esattamente le caratteristiche dei prodotti e possono avere ragionevoli dubbi sulla loro dichiarata eticità. Inoltre, la scelta senza costi di ricerca non è spesso possibile e i prodotti “ecologici” esattamente corrispondenti a quelli tradizionali possono non esistere o essere meno facilmente raggiungibili. Tutti questi elementi (informazione imperfetta sull’eticità dei prodotti o ignoranza sulla loro esistenza, costi di distanza, limiti della gamma dei prodotti ambientali) spiegano chiaramente gran parte della differenza tra disponibilità dichiarata e quote effettive. L’altra domanda che possiamo porci in questo caso è se la risposta rivela veramente un atteggiamento non autointeressa-

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Oltre l’homo oeconomicus

to. È ben noto, infatti, che la percezione del legame tra qualità della propria vita, salute personale e qualità ambientale sta significativamente crescendo. Dunque la risposta potrebbe in realtà rilevare una comprensione di questo legame e nascondere, paradossalmente, una disponibilità a spendere per la propria salute. È proprio questo il punto su cui ci interessa premere. Insistendo su una questione già affrontata in precedenza, non ci aspettiamo che il comportamento socialmente responsabile sia necessariamente alternativo a quello autointeressato. La differenza vera sta tra autointeresse miope e autointeresse lungimirante e non tra autointeresse e altruismo. L’autointeresse lungimirante è quello che, a differenza dell’autointeresse miope, è in grado di comprendere che la strada della sostenibilità ambientale e sociale è l’unica sostenibile e praticabile e che un comportamento “socialmente irresponsabile” finisce per avere conseguenze negative sul proprio benessere. In sostanza l’individuo socialmente responsabile è colui che è in grado di “internalizzare” la potenziale esternalità negativa (effetto negativo) sugli altri individui del proprio comportamento socialmente irresponsabile, riconoscendosi come parte di essi. Allo stesso tempo è colui che non sceglie di scaricare l’onere dell’aggiustamento su altri con un comportamento opportunistico. Nell’analisi dei casi di condotta non miopemente autointeressata (il consumo e il risparmio socialmente responsabile) vedremo nel seguito del libro che il legame tra benessere individuale e azione socialmente responsabile si fa più tenue e dunque l’internalizzazione dell’esternalità spiega meno che in questo caso, lasciando più spazio all’ipotesi dell’importanza del ruolo dei beni relazionali, dell’altruismo e del piacere di donare. Proseguendo il filo della ricerca sulla disponibilità a pagare per l’ambiente entriamo nel dettaglio dell’analisi esaminando con un’indagine econometrica quali sono i fattori che inci-

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus

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dono sulla variabile oggetto di osservazione. In un lavoro con Sabrina Auci e Luca Rando abbiamo affrontato questo tema concentrandoci su diversi indicatori 2. In primo luogo, proseguendo l’analisi descrittiva abbiamo effettuato una prima esplorazione relativamente all’ipotesi, tipica della letteratura sulla curva di Kutznetz ambientale, che, al crescere del reddito, la disponibilità a pagare per l’ambiente aumenta (Panayotou, 1993 and 2000; Grossman Krueger, 1991 and 1995; Selden - Song, 1994; Shafik - Bandyopadhyay, 1992; Stern 2004; Copeland - Taylor, 2004). L’ipotesi si fonda sull’idea che l’ambiente è una sorta di bene di lusso. Una volta risolto il problema della sussistenza, e soddisfatti i propri bisogni primari, gli individui, al crescere del reddito dovrebbero iniziare a preoccuparsi maggiormente della qualità ambientale e, dunque, la loro disponibilità a pagare per questo tipo di bene particolare dovrebbe aumentare. Dividendo la popolazione intervistata in dieci classi di reddito in ciascun paese osserviamo un effetto rilevante del reddito sulla disponibilità a pagare soprattutto se focalizziamo la nostra attenzione sulla categoria di coloro che si dichiarano d’accordo (seconda modalità), relativamente alla domanda sulla disponibilità a pagare più tasse per la salvaguardia dell’ambiente. In questo caso il numero degli intervistati che risponde affermativamente passa dal 40, 34 percento, per il dieci percento della popolazione più povera in termini di reddito, al 46, 50 percento per il nono decile fino a riscendere al 43, 98 percento nel dieci percento della popolazione con il reddito più alto (Tabella 3. 2A). Molto più forte la differenza a pagare nella domanda dove, invece di un aumento di tasse, si parla di disponibilità a dare una parte del proprio reddito. In

2 Auci S. - Becchetti L. - Rando L. (2006), The willingness to pay for the environment: an empirical analysis, mimeo.

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DI REDDITO

DISACCORDO

2.105 13,24% 2.585 12,48% 2.777 11,86% 2.569 10,37% 2.132 9,80% 1.582 9,33% 1.226 8,78% 952 9,18% 753 9,92% 935 11,40% 17.616 10,77%

IN FORTE

4.572 28,75% 6.479 31,27% 7.291 31,14% 7.155 28,89% 6.227 28,63% 4.706 27,76% 3.762 26,95% 2.799 27,00% 1.911 25,18% 2.237 27,28% 47.139 28,81%

DISACCORDO

IN 6.415 40,34% 8.403 40,56% 9.910 42,32% 11.007 44,45% 9.967 45,82% 7.884 46,51% 6.473 46,37% 4.833 46,62% 3.529 46,50% 3.607 43,98% 72.028 44,02%

D’ACCORDO 2.809 17,67% 3.252 15,70% 3.438 14,68% 4.033 16,29% 3.426 15,75% 2.779 16,39% 2.499 17,90% 1.783 17,20% 1.396 18,40% 1.422 17,34% 26.837 16,40%

FORTEMENTE D’ACCORDO

OSS.

15.901 9,72% 20.719 12,66% 23.416 14,31% 24.764 15,14% 21.752 13,29% 16.951 10,36% 13.960 8,53% 10.367 6,34% 7.589 4,64% 8.201 5,01% 163.620 100,00%

N.

Legenda: 1° Decile: dieci per cento più povero della popolazione; 2° decile: secondo dieci per cento più povero della popolazione…

N. oss.

10° Decile

9° Decile

8° Decile

7° Decile

6° Decile

5° Decile

4° Decile

3° Decile

2° Decile

1° Decile

CLASSI

Disponibilità a pagare più tasse per prevenire l’inquinamento

TABELLA 3. 2A

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192 Oltre l’homo oeconomicus

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DI REDDITO

DISACCORDO

773 13,38% 914 12,28% 1.072 11,99% 897 10,19% 719 8,33% 484 7,59% 404 7,31% 269 6,78% 209 7,35% 153 5,56% 5894 9,65%

IN

Legenda: vedi TABELLA 3. 2A.

N. oss.

10° Decile

9° Decile

8° Decile

7° Decile

6° Decile

5° Decile

4° Decile

3° Decile

2° Decile

1° Decile

CLASSI FORTE

1.456 25,20% 1.971 26,47% 2.435 27,23% 2.173 24,68% 1.959 22,71% 1.506 23,60% 1.229 22,23% 906 22,85% 537 18,88% 569 20,69% 14741 24,14%

DISACCORDO

IN 2.434 42,13% 3.323 44,63% 3.979 44,49% 4.189 47,58% 4.328 50,16% 3.259 51,07% 2.874 51,99% 2.018 50,90% 1.493 52,50% 1.446 52,58% 29343 48,05%

D’ACCORDO 1.115 19,30% 1.237 16,62% 1.457 16,29% 1.546 17,56% 1.622 18,80% 1.132 17,74% 1.021 18,47% 772 19,47% 605 21,27% 582 21,16% 11089 18,16%

FORTEMENTE D’ACCORDO

Disponibilità a dare parte del reddito per prevenire l’inquinamento

TABELLA 3. 2B

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OSS.

5.778 9,46% 7.445 12,19% 8.943 14,64% 8.805 14,42% 8.628 14,13% 6.381 10,45% 5.528 9,05% 3.965 6,49% 2.844 4,66% 2.750 4,50% 61.067 100,00%

N.

III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus 193

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Oltre l’homo oeconomicus

tal caso la quota di coloro che si dichiarano d’accordo passa dal 42, 13 percento, per il dieci percento della popolazione con redditi più bassi, al 52, 58 percento per il dieci percento della popolazione con reddito più elevato (Tabella 3. 2B). La semplice analisi descrittiva non è però sufficiente ad individuare correlazioni significative o nessi di causalità tra potenziali determinanti e disponibilità a pagare per la qualità ambientale. La correlazione che abbiamo individuato tra livelli di reddito e disponibilità a pagare a livello descrittivo può infatti nascondere degli effetti composizione. In altri termini, il rapporto tra queste due variabili può non dipendere dall’impatto del reddito ma dal fatto che il reddito è, in realtà, correlato con un altro fattore che rappresenta la vera determinante della disponibilità a pagare. Per fare qualche esempio, è ben nota la correlazione tra livello di istruzione e livello di reddito. Dunque, la vera variabile correlata con la disponibilità a pagare per l’ambiente potrebbe essere il livello d’istruzione e non il reddito. Lo stesso ragionamento potrebbe farsi per molti altri fattori. Uno tra i principali è rappresentato dalle differenze culturali tra paesi che possono incidere fortemente sia sulla disponibilità a pagare effettiva sia su quella dichiarata (ad esempio, in alcuni contesti può essere culturalmente disdicevole dichiararsi contrari). Il dato descrittivo sulla disponibilità a pagare più tasse per la prevenzione dell’inquinamento presentato nella Tabella 3. 3 appare da questo punto di vista interessante. Troviamo in cima alla classifica alcuni paesi asiatici e, in fondo ad essa, paesi dell’Est Europa. Se confrontiamo questi dati con quelli della risposta generale al fatto se sia disdicevole o no non pagare le tasse (Figura 3. 1), vediamo che anche in questo caso i paesi dell’Est Europa sono quelli con minore morale fiscale mentre alcuni tra quelli asiatici risultano essere i più disciplinati. C’è una certa corrispondenza pertanto con le posizioni della Tabella 3. 3 e dunque, nella risposta sulla di-

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus

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FIGURA 3. 1

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“Morale fiscale” nei paesi dell’Indagine Mondiale sui Valori

Legenda: la domanda dell’Indagine Mondiale sui Valori chiede di “indicare su una scala da 1 a 10 la giustificabilità dell’evadere il fisco ove possibile” (10 mai giustificabile, 1 sempre giustificabile). Paesi in rosso (media di risposte tra 2 e 4); paesi in giallo (media di risposte tra 4-6); paesi in verde (media di risposte tra 6 e 8); paesi in blu (media di risposte tra 8 e 10); paesi in grigio (non coperti dall’indagine).

sponibilità a pagare più tasse per l’ambiente c’è un effetto significativo della cultura fiscale complessiva del paese (o almeno del suo effetto sulla disponibilità a pagare dichiarata). Lo strumento necessario per evitare gli effetti composizione e calcolare il contributo netto di una determinata variabile (il livello di reddito) su di una variabile “dipendente” oggetto di analisi (nel nostro caso la disponibilità a pagare per l’ambiente), è quello della stima econometrica multivariata (nel nostro caso stima di tipo logit o ordered logit a seconda della costruzione scelta per la variabile dipendente). Da questa stima è possibile ricavare la significatività della correlazione tra tutte le

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Vietnam Repubblica Dominicana El Salvador Bangladesh Cina Ghana Svezia Porto Rico Tanzania Norvegia Brasile Turchia Corea Serbia - Montenegro Georgia Australia Bosnia-Erzegovina Cile Repubblica Ceca

PAESE

FORTE DISACCORDO

89 56 193 478 737 19 627 406 290 600 812 1.161 1.074 1.035 600 630 735 1.173 895

9,55% 13,76% 16,00% 17,57% 18,57% 20,88% 20,90% 22,01% 25,44% 25,73% 28,12% 29,09% 30,09% 30,27% 31,12% 31,30% 31,96% 32,43% 32,47%

O D’ACCORDO

IN 843 351 1.013 2.243 3.231 72 2.373 1.439 850 1.732 2.076 2.830 2.495 2.384 1.328 1.383 1.565 2.444 1.861

90,45% 86,24% 84,00% 82,43% 81,43% 79,12% 79,10% 77,99% 74,56% 74,27% 71,88% 70,91% 69,91% 69,73% 68,88% 68,70% 68,04% 67,57% 67,53%

O FORTEMENTE D’ACCORDO

D’ACCORDO

Sarei d’accordo per un aumento delle tasse se tale aumento fosse destinato a prevenire l’inquinamento ambientale.

Disponibilità a pagare più tasse per prevenire l’inquinamento

TABELLA 3. 3

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OSS.

932 407 1206 2721 3968 91 3000 1845 1140 2332 2888 3991 3569 3419 1928 2013 2300 3617 2756

N.

196 Oltre l’homo oeconomicus

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Colombia Danimarca Slovenia Grecia Venezuela Macedonia Spagna Croazia Albania Federazione Russa Paesi Bassi Bielorussia Canada Nigeria Giappone Stati Uniti Filippine Bulgaria Messico Uruguay Perù India Islanda Armenia

PAESE

FORTE DISACCORDO

970 650 979 390 409 692 4.741 784 341 2.774 763 1.457 1.392 1.443 1.147 1.773 948 1.116 1.750 392 1.060 2.228 682 821

32,61% 32,68% 34,31% 35,20% 35,53% 36,54% 37,05% 37,28% 37,39% 37,81% 38,17% 38,28% 38,68% 39,30% 39,66% 39,82% 39,98% 40,13% 40,31% 40,37% 40,61% 40,74% 41,59% 43,07%

O D’ACCORDO

IN 2.005 1.339 1.874 718 742 1.202 8.056 1.319 571 4.563 1.236 2.349 2.207 2.229 1.745 2.680 1.423 1.665 2.591 579 1.550 3.241 958 1.085

67,39% 67,32% 65,69% 64,80% 64,47% 63,46% 62,95% 62,72% 62,61% 62,19% 61,83% 61,72% 61,32% 60,70% 60,34% 60,18% 60,02% 59,87% 59,69% 59,63% 59,39% 59,26% 58,41% 56,93%

O FORTEMENTE D’ACCORDO

D’ACCORDO

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OSS.

2975 1989 2853 1108 1151 1894 12797 2103 912 7337 1999 3806 3599 3672 2892 4453 2371 2781 4341 971 2610 5469 1640 1906

N.

III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus 197

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Regno Unito Portogallo Lussemburgo Azerbaigian Nuova Zelanda Lettonia Ucraina Finlandia Moldavia Poland Estonia Germania Italia Malta Lituania Romania Zimbawe Argentina Irlanda

PAESE

FORTE DISACCORDO

1.533 886 517 842 488 1.295 1.514 1.175 830 995 1.413 3.579 1.964 515 1.465 518 500 1.754 1.068

43,33% 43,88% 44,96% 45,12% 45,14% 45,71% 45,98% 46,37% 46,42% 47,65% 49,23% 50,03% 50,53% 52,13% 53,53% 53,57% 53,82% 54,34% 54,66%

O D’ACCORDO

IN 2.005 1.133 633 1.024 593 1.538 1.779 1.359 958 1.093 1.457 3.575 1.923 473 1.272 449 429 1.474 886

56,67% 56,12% 55,04% 54,88% 54,86% 54,29% 54,02% 53,63% 53,58% 52,35% 50,77% 49,97% 49,47% 47,87% 46,47% 46,43% 46,18% 45,66% 45,34%

O FORTEMENTE D’ACCORDO

D’ACCORDO

OSS.

3538 2019 1150 1866 1081 2833 3293 2534 1788 2088 2870 7154 3887 988 2737 967 929 3228 1954

N.

Sarei d’accordo per un aumento delle tasse se tale aumento fosse destinato a prevenire l’inquinamento ambientale.

Disponibilità a pagare più tasse per prevenire l’inquinamento (segue)

TABELLA 3. 3

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198 Oltre l’homo oeconomicus

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FORTE DISACCORDO

816 1.553 963 556 1.425 660 2.621 3.111 1.266

77.134

N. oss.

40,34%

54,95% 55,21% 55,47% 56,05% 56,30% 56,99% 57,82% 57,83% 65,73%

O D’ACCORDO

IN

Singapore Austria Slovacchia Uganda Francia Svizzera Belgio Sud Africa Ungheria

PAESE

114.076

669 1.260 773 436 1.106 498 1.912 2.269 660 59,66%

45,05% 44,79% 44,53% 43,95% 43,70% 43,01% 42,18% 42,17% 34,27%

O FORTEMENTE D’ACCORDO

D’ACCORDO

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OSS.

191210

1485 2813 1736 992 2531 1158 4533 5380 1926

N.

III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus 199

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Redd. Assoluto in PPP equincomesq Redd. Relativo (primo quintile) _Ireddito5_2 _Ireddito5_4 _Ireddito5_5 Età Maschi Istruzione N. figli Disoccupazione -*** -*** +*** +*** -*** +***

DEMOGRAFICHE

VARIABILI + VALORI

-*** -*** +*** +*** -***

+*** -*

VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE

DEMOGRAFICHE

VARIABILI

-*** -*** +*** +*** -*** -*** +***

VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE +***

-*** -*** +*** +*** -***

-***

+*** -*** -***

-*** -*** +*** +*** -***

DEMOGRAFICHE

VARIABILI -*** -*** +*** +*** -*** -*** +***

DEMOGRAFICHE

VARIABILI + VALORI

Disponibilità a dare parte del proprio reddito per prevenire l’inquinamento

+*** -*** -**

-*** -*** +*** +*** -***

VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE

Disponibilità a pagare più tasse per prevenire l’inquinamento

Analisi econometrica delle determinanti della disponibilità a pagare per l’ambiente

TABELLA 3. 4

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+*** -*** -**

-*** -*** +*** +*** -***

VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE

200 Oltre l’homo oeconomicus

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VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE +* +*** +*** +*** -** -*** -*** +***

VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE

+* +*** +*** +*** -** -*** -*** -*** +*** +* -*** 52469 29922 24721 24721

DEMOGRAFICHE

VARIABILI

+*** +*** +***

DEMOGRAFICHE

VARIABILI + VALORI

+**

+*** +*** +*** +*** -* -***

-***

+*** +*** +*** +*** -* -*** +**

45456 25314 20641 20641

+*** +*** +*** +*** -* -***

DEMOGRAFICHE

VARIABILI +***

DEMOGRAFICHE

VARIABILI + VALORI

Effetto negativo e significativo; + effetto positivo e significativo; * significatività al 90 percento; ** significatività al 95 percento; *** significatività al 99 percento.

Dim. Città Pratica religiosa Capitale sociale Orgoglio nazionale Politideol Morale fiscale Livello di corruzione Qualità istituzioni CO2 pro capite Pressione fiscale Osservazioni

VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE

Disponibilità a dare parte del proprio reddito per prevenire l’inquinamento VARIABILI DEMOGRAFICHE + VALORI + DUMMY PAESE

Disponibilità a pagare più tasse per prevenire l’inquinamento

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III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus 201

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potenziali determinanti, che decidiamo di misurare e inserire nella stima, e la nostra variabile dipendente. La stima, infatti, ci consente di ottenere l’effetto di un fattore (come il livello del reddito) sulla disponibilità a pagare al netto di tutte le altre determinanti (età, sesso, livello d’istruzione, sistema di valori, effetti della cultura del paese, ecc.) incluse nella stima. I risultati ottenuti (Tabella 3. 4) indicano relazioni piuttosto interessanti. In primo luogo osserviamo che, sia il reddito relativo che quello assoluto, sono fortemente significativi. In altri termini sia il livello assoluto del reddito percepito (reso comparabile tra paesi in termini di parità di potere di acquisto e tra individui tenendo conto della dimensione del nucleo familiare) che quello del reddito relativo, che misura la posizione nella scala dei redditi del proprio paese, influenzano significativamente la disponibilità a pagare per la qualità ambientale. Un aumento del livello assoluto e della posizione relativa all’interno della scala dei redditi del proprio paese risultano pertanto associati ad una maggiore disponibilità a pagare per l’ambiente. Questo risultato è, in fondo, coerente con la cosiddetta legge di Maslow che suggerisce come, una volta risolti i bisogni materiali più immediati, gli individui aspirino al raggiungimento di beni superiori. Esso suggerisce anche che non esiste necessariamente una contraddizione tra benessere economico e comportamenti non “miopemente” autointeressati, ma piuttosto, in questo caso specifico, una relazione di complementarità. Dal punto di vista dei desideri questo rapporto di complementarità e non di antinomia non era in fondo escluso, in principio neanche nel caso del rapporto tra felicità e beni relazionali (cap. I: 3. 2. Al cuore del paradosso: il rapporto tra beni relazionali, reddito e felicità, p. 47). Si riconosceva, infatti, la possibilità dell’individuo “più produttivo” di scegliere di lavorare di meno, nonostante il maggior costo di un’ora di tempo sottratta al lavoro, approfittando del fatto che la sua maggiore produttività gli consentisse di guadagnare di più a

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parità di ore lavorate. Il problema dello spiazzamento tra reddito e beni relazionali sorgeva in realtà dal “fallimento del coordinamento” con altri individui e, dunque, dal rischio che la propria scelta lungimirante non fosse condivisa da coloro che cooperano nella produzione di un determinato bene relazionale, ovvero da coloro senza i quali il bene relazionale non sarebbe potuto essere prodotto. La dimostrazione che la crescita del reddito è correlata a una maggiore disponibilità a pagare per la qualità ambientale, potrebbe indurre a facili ottimismi. La stessa teoria della curva di Kutznetz ambientale si fonda sull’ipotesi che il rapporto tra reddito pro capite e inquinamento pro capite abbia la forma di una U rovesciata. Ovvero che, al crescere del reddito, l’intensità d’inquinamento aumenti in un primo momento per poi, dopo aver raggiunto un picco, iniziare a declinare. Una delle spiegazioni di questa relazione ad U rovesciata è appunto quella incentrata sul comportamento del consumatore che considererebbe la tutela ambientale un bene di lusso e comincerebbe a preoccuparsi dell’ambiente solo al di sopra di un certo livello di reddito. Accanto ad essa ci sono però altre spiegazioni dal lato dell’offerta che sottolineano la progressiva evoluzione del sistema industriale verso i servizi e dunque verso modalità “più leggere” di produzione della ricchezza. Con il crescere del reddito pro capite di un paese si verifica contemporaneamente una modifica della composizione produttiva con una riduzione del peso dei settori agricolo e industriale; e un aumento del peso del settore dei servizi nei quali la creazione di valore economico avviene generalmente in modo ambientalmente più sostenibile (vedasi la spiegazione della stessa natura dei beni non rivali nel cap. I: 3. 1. Beni relazionali: sintetica definizione e loro caratteristiche, p. 42). L’ottimismo che sembra scaturire dalla relazione ad U rovesciata è però temperato da tre considerazioni fondamentali.

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Studi empirici recenti che testano direttamente queste ipotesi dimostrano che il picco è in realtà molto lontano (ovvero si situa in corrispondenza di livelli di reddito molto elevati) e il declino dell’intensità di inquinamento successivo al picco, molto lento. Inoltre non dobbiamo mai dimenticare che il problema ambientale è un problema di quantità assolute e non di intensità relativa e dunque non è detto che, se l’intensità di inquinamento pro capite diminuisce, il totale del volume di inquinamento prodotto necessariamente debba ridursi. Se, infatti, la popolazione aumenta in maniera consistente, e se i paesi a più alta densità abitativa si trovano nella fase ascendente della curva (pensiamo a Cina e India), dovremo aspettarci un aumento e non una diminuzione dell’inquinamento. Infine, la relazione ad U rovesciata sembra valere in parte solo per gli inquinanti dell’aria globali (anidride carbonica) e locali (biossido di zolfo, polveri sottili, monossido di carbonio e ossido d’azoto) e non per altri tipi di attività in contrasto con la tutela ambientale come la produzione di rifiuti solidi urbani. Per analizzare quali altri fattori incidono sulla nostra variabile osservata, possiamo dividere le rimanenti variabili di cui testiamo l’impatto sulla disponibilità a pagare per l’ambiente in tre categorie: i) variabili sociodemografiche relative al singolo individuo; ii) variabili relative ai valori dell’individuo (orgoglio nazionale, senso di appartenenza a una comunità più vasta di quella locale, morale fiscale); iii) variabili paese relative al grado di corruzione, alla pressione fiscale e all’intensità d’inquinamento. Nella prima categoria includiamo il livello d’istruzione, l’età, il sesso, lo status occupazionale, quello familiare e, infine, la dimensione della città in cui si risiede. Nella seconda la pratica religiosa, la propensione a pagare le tasse, l’orgoglio che si prova nei confronti della propria identità nazionale e la sensibilità dichiarata nei confronti dei problemi globali. Nella terza categoria il livello di corruzione del paese, la pressione fiscale, l’intensità d’inquinamento.

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Prima di inserire le variabili relative ai valori personali e le variabili paese all’interno delle stime (limitandoci dunque all’utilizzo di quelle sociodemografiche), riscontriamo un effetto positivo e significativo del livello di istruzione ed uno negativo dell’età e dell’appartenenza al sesso maschile sulla disponibilità a pagare per l’ambiente. Dopo l’inserimento delle variabili individuali sui valori, gli effetti di genere scompaiono. L’interpretazione più probabile è dunque che le donne siano più sensibili all’ambiente per via della loro maggiore attenzione a quei valori (orgoglio nazionale, senso di appartenenza a una comunità più vasta di quella locale, morale fiscale) che sembrano incidere positivamente sulla disponibilità a pagare per l’ambiente. Più in generale, l’attenzione all’ambiente implica una maggiore cura per le conseguenze delle proprie azioni sui propri simili (effetto contemporaneo) e sulle generazioni future (effetto ritardato). Molto spesso infatti i dilemmi tra ambiente e sviluppo implicano, o possono implicare, l’alternativa tra più sviluppo oggi e minore disponibilità di risorse e di qualità ambientale domani. In questa prospettiva ci si attende che le donne (per la maggiore attenzione ai problemi dei figli) e i giovani (per il loro orizzonte di vita più esteso) siano più attenti ai danni che un deterioramento dell’ambiente oggi potrebbe generare in futuro. Tra le variabili relative ai valori dichiarati dagli intervistati si conferma, come atteso, l’impatto positivo e significativo della pratica religiosa. Il risultato appare coerente con studi paralleli di Guiso et al. (2003) 3, che dimostrano la correlazione positiva e significativa tra pratica religiosa e senso civico 4.

3 Guiso L. - Sapienza P. - Zingales L. (2003), People’s opium? Religion and economic attitudes, in «Journal of Monetary Economics», January, 50 (1), pp. 225-282. 4 I nostri studi e quelli di Guiso in fondo non fanno che dare una base empirica solida alla storica linea di difesa dell’apologetica cristiana di fronte

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Tra le variabili paese risultano fortemente significative sia quella del livello di corruzione, della qualità delle istituzioni e della morale fiscale. La significatività di queste variabili ci conferma che la disponibilità a pagare più tasse per la riduzione dell’inquinamento è, ovviamente, condizionata dalla fiducia dei cittadini nel sistema pubblico (più alto il livello di corruzione, minore la disponibilità a pagare), dalla loro “morale fiscale” (maggiore la morale fiscale maggiore la disponibilità a pagare tasse per l’ambiente), dalla qualità delle istituzioni (correlazione positiva). Più controversi i risultati del rapporto tra disponibilità a pagare, da una parte, e livello d’inquinamento e pressione fiscale, dall’altra. Da un punto di vista teorico infatti sono in principio possibili sia una correlazione negativa che una positiva. Se il livello di inquinamento è il frutto di scelte di politica che riflettono le preferenze dei cittadini, dovremmo osservare una correlazione negativa (paesi con livelli di inquinamento più elevati sono il risultato di scelte di governo che riflettono la scarsa attenzione verso l’ambiente dei cittadini e, dunque, tali livelli di inquinamento sono associati a una minore disponibilità a pagare), se invece consideriamo la disponibilità a pagare come la domanda relativa di qualità ambientale, al netto dell’azione del governo, dovremmo, al contrario, registrare maggiore disponibilità a pagare laddove la situazione ambientale è peggiore e viceversa. Un ragionamento simile, con spiegazioni possibili per entrambi i segni, potrebbe esser fatto per il ruolo della pressione fiscale. I risultati meno chiari relativamente all’impatto di queste ultime due variabili sulla disponibilità a pagare sembrano riflettere questa mescolanza di effetti potenziali. alle persecuzioni imperiali dell’epoca precostantiniana, quando Tertulliano difendeva i cristiani davanti all’imperatore, sostenendo che essi avevano notevole senso civico e che i principi della formazione cristiana fornivano le premesse necessarie per la formazione di buoni cittadini.

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Un ultimo risultato interessante dell’analisi empirica è l’individuazione di “effetti paese” significativi, ottenuti dalla stima dopo aver corretto i medesimi per l’impatto di tutte le altre variabili rilevanti. In sostanza, una volta considerate tutte le variabili sociodemografiche, i valori dichiarati dall’individuo e alcuni fattori paese cruciali – che incidono sulla disponibilità a pagare – persistono alcune differenze significative tra paesi che non sono spiegate da nessun altro dei fattori inclusi nella stima. Tali differenze evidentemente dipendono o da variabili nascoste non identificate o da fattori culturali tipici di quel determinato paese. Tra i paesi che presentano una significativa maggiore disponibilità a pagare, dopo aver considerato tutti i fattori precedentemente discussi, troviamo Cile, Danimarca, Spagna, Regno Unito, Islanda e Svezia. Tra quelli con una disponibilità a pagare significativamente inferiore alla media, sempre al netto degli altri fattori già considerati, abbiamo invece Germania, Italia, Polonia, Romania, Slovacchia e Ucraina. Questi risultati sembrano abbastanza coerenti con il senso comune che identifica i cittadini dei paesi nordici come quelli generalmente più attenti ai problemi ambientali. Anche la minore sensibilità ambientale di alcuni paesi in transizione appare non in contraddizione con gli studi sulle determinanti della felicità, i quali riscontrano in questi paesi una riduzione della stessa, determinata dalla fine del sistema comunista e dal confronto maggiore con gli stili di vita occidentali. Un’interpretazione possibile è dunque che tale confronto ha effetti negativi sulla felicità dichiarata e spinge i cittadini di questi paesi a una rincorsa degli stili di vita occidentali nella quale la preoccupazione ambientale viene per il momento accantonata. Più difficile spiegare casi anomali come quelli di paesi come l’Italia e la Germania, nei quali i cittadini intervistati rivelano una disponibilità a pagare per l’ambiente significativa-

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mente inferiore alla media al netto dei fattori sociodemografici, dei valori personali e delle variabili paese.

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1. 2. Disponibilità a pagare del consumatore socialmente responsabile: proposta politica Un altro campo fondamentale nel quale possiamo valutare quanto contano le preferenze non autointeressate è quello dei consumi socialmente responsabili. Tra i numerosi studi su questo tema alcuni hanno il vantaggio, rispetto all’analisi sulla disponibilità a pagare per la qualità ambientale descritta sopra, di non fondarsi soltanto sull’intenzione astratta rilevata a mezzo intervista ma sulle scelte concrete che, dunque, rivelano le preferenze degli individui attraverso le loro decisioni di consumo. Nel caso dei consumi socialmente responsabili, dunque, disponiamo sia di indagini sulla disponibilità a pagare, sia di quote di mercato concrete conquistate dai produttori della filiera del commercio equo e solidale che vendono prodotti che incorporano gradi diversi di responsabilità sociale. Se guardiamo al primo tipo di evidenza riscontriamo livelli elevati di disponibilità a pagare in molti paesi europei. In uno studio effettuato nel Regno Unito, Bird e Hughes (1997) classificano i consumatori come etici (23%), semi-etici (56%) ed egoisti (17%). Il 18% dei consumatori dichiara, in questa indagine, di essere disposto a pagare un premio per i prodotti socialmente responsabili. In Belgio De Pelsmacker, Driesen e Rayp (2003) identificano su un campione rappresentativo della popolazione un 10 per cento di consumatori disposti a pagare una differenza positiva di prezzo tra un caffè del commercio equo e solidale e un caffè

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tradizionale 5. Nel febbraio del 2004 una ricerca di mercato condotta dalla TNS Emnid, in Germania, su un campione rappresentativo della popolazione riscontra che il 2, 9% degli intervistati compra regolarmente i prodotti del commercio equo e solidale, il 19% raramente e il 6% quasi mai. Un altro 35% degli intervistati afferma inoltre di essere favorevole all’idea ma di non acquistare i prodotti (www.fairtrade.net/sites/aboutflo/aboutflo). In Italia l’indagine Demos & Pi / Coop (2004) dimostra che il 30 percento della popolazione dichiara di aver acquistato almeno una volta nell’anno un prodotto equosolidale e che un 20 percento ha abitudini più frequenti di acquisto di tali prodotti. Dunque gli studi più recenti sull’economia socialmente responsabile identificano quote di mercato potenziali ragguardevoli per i prodotti socialmente responsabili. Sia gli studi sulla disponibilità a pagare per l’ambiente ampiamente descritti in questo III capitolo (1. 1. Disponibilità a pagare per l’ambiente, p. 182), che quelli realizzati in diversi paesi europei sulla disponibilità a pagare per i prodotti equosolidali, identificano una quota variabile dal 30 al 40 percento dei consumatori propensa a scegliere questi prodotti rispetto a prodotti analoghi ma senza le caratteristiche di responsabilità sociale e/o ambientale pagando lo stesso o leggermente di più. Le problematiche della misurazione della responsabilità a pagare e le distorsioni tipiche delle indagini, a mezzo intervista, ci suggeriscono cautela nell’interpretare queste cifre. Anche in questo caso, errando per eccesso di prudenza possiamo 5 Si consideri che l’opinione tradizionale che il prodotto equosolidale sia necessariamente più costoso di quello tradizionale equivalente, non è sempre corrispondente all’evidenza dei fatti. Se effettuiamo correttamente il confronto tra il prodotto equosolidale e il prodotto tradizionale per settori – come quelli del caffè e della cioccolata – scopriamo solitamente che il prodotto equosolidale è più caro del prodotto di bassa qualità tipo hard discount, meno caro del prodotto di marca e, sicuramente, meno caro del prodotto biologico con il quale il confronto dovrebbe essere effettuato.

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scendere sino al 20 percento della quota di mercato. Si tratta comunque di una cifra assai rilevante che, se diventasse da teorica effettiva, potrebbe cambiare significativamente in direzione di una maggiore responsabilità sociale e ambientale il sistema economico generando considerevoli effetti di imitazione e contagio. Questa soglia è stata raggiunta soltanto in pochissimi casi nel corso della forte crescita delle vendite di questi prodotti nel corso degli ultimi anni (20 percento del mercato del caffè macinato nel Regno Unito e 49 percento delle banane in Svizzera). Perché, dunque, se la disponibilità a pagare prodotti socialmente ed ecologicamente responsabili è così elevata (tra il 20 e il 30 percento), le quote di mercato effettive di tali prodotti sono generalmente così basse (attorno all’1-3 percento)? La risposta è che in questo caso, come in quello sulla responsabilità a pagare per l’ambiente, la scelta virtuale presentata nelle domande dei questionari non corrisponde alla scelta reale. Nei questionari i consumatori scelgono idealmente tra due prodotti vicini nello stesso scaffale (non si tiene conto in sostanza del fatto che i prodotti equosolidali hanno costi di fatto superiori se consideriamo i costi di ricerca del prodotto dovuti alla più difficile reperibilità e minore capillarità di diffusione), non hanno dubbi sulla responsabilità sociale del prodotto e sono perfettamente informati sulle caratteristiche dello stesso. Nella realtà dei fatti tutte queste condizioni non si realizzano in quanto il consumatore, oltre ai costi addizionali nel reperire i prodotti socialmente responsabili, nutre sempre qualche ragionevole dubbio sulle loro esatte caratteristiche o, in molti casi, è totalmente all’oscuro della loro esistenza. Tutti questi elementi suggeriscono che la riduzione di questi tre problemi (scarsa diffusione e capillarità dei prodotti, carenza di informazioni e problemi reputazionali) potrebbe avvicinare la quota di mercato effettiva a quella potenziale e molto superiore, desumibile dalle indagini a mezzo intervista.

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Il sogno alla Martin Luther King, che ci sentiamo di formulare in questo caso, è che un giorno questo sia possibile consentendo ai cittadini di esercitare l’importante strumento democratico del voto con il portafoglio, senza costi aggiuntivi di distanza dal prodotto, difficoltà di reperibilità dello stesso o incertezza relativa all’effettivo grado di responsabilità sociale. Anche se questo traguardo è probabilmente impossibile da raggiungere in modo pieno, possiamo avvicinarci di molto. Esiste infatti uno strumento molto semplice che potrebbe essere utilizzato per perseguire concretamente l’obiettivo: una legge che rende obbligatorio allestire nei principali punti di vendita uno spazio espositivo nel quale rendere accessibile l’informazione, già ampiamente esistente, sulla valutazione sociale e ambientale dei comportamenti delle imprese che vendono i prodotti in quel negozio o supermercato. È ovviamente da evitare il rischio che siano i governi a fare la lista dei buoni e cattivi. È evidente, infatti, il limite connesso con questa scelta per il pesante ruolo di condizionamento che in tal caso essi potrebbero esercitare nei confronti dei produttori. Per evitare ciò basta dare spazio alle valutazioni delle numerose agenzie private di rating (Ethibel, Domini, Eiris) sulla responsabilità sociale d’impresa che già esistono. È auspicabile che esista una competizione tra valutatori e che la valutazione sintetica richiami a una valutazione più articolata (disponibile su un sito web liberamente consultabile, o in un opuscolo cartaceo distribuibile nel punto vendita) attraverso la quale il consumatore potrà più facilmente formarsi un’opinione e dissentire o approvare. È evidente che lo spazio disponibile, comunque limitato, non consentirebbe di fornire un numero eccessivo di informazioni e, dunque, non tutti gli enti di garanzia in competizione tra di loro potrebbero avere spazio. Il rischio ulteriore è che il potere dei certificatori ammessi diventi enorme. D’altronde il sistema democratico e il mercato possiedono i necessari anticorpi per evitare esiti para-

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dossali o perversi. Le valutazioni genererebbero dibattiti accesi, indagini da parte dei media. Il crescente interesse alla questione stimolerebbe un maggior vaglio da parte di organi indipendenti sull’affidabilità della valutazione stessa. Non dobbiamo dimenticare che il problema dell’informazione incompleta o asimmetrica, che esiste nel campo della responsabilità sociale, affligge ogni tipo di relazione economica come quella tra banca e cliente, tra datore di lavoro e lavoratore o tra venditore e acquirente di un prodotto. Non ci sarebbe nulla di nuovo da questo punto di vista se gli strumenti, che si adottano per cercare di superare i problemi di asimmetrie informative in questi altri settori della vita economica, potessero essere applicati anche nel campo della responsabilità sociale. A chi pensa che questa iniziativa sia utopica o irrealizzabile si può controbattere che non si capisce perché (lodevolmente) dovremmo sapere tutto sulla vasca nel quale il merluzzo che mangiamo è stato allevato, grazie alla regolamentazione che impone la “tracciabilità della filiera”, e non dovremmo sapere nulla sul comportamento sociale e ambientale dell’impresa o, in altri termini, non dovremmo avere informazioni sulla tracciabilità e sulla dignità del lavoro che è stato necessario per produrre un determinato bene. La riflessione sul ruolo dello stato relativamente al fenomeno della responsabilità sociale richiede ulteriore approfondimento. Se, dunque, lo stato non può e non deve direttamente diventare ente certificatore o valutatore della responsabilità sociale d’impresa, quale può essere il suo ruolo nel promuovere la cultura e gli strumenti di valutazione della responsabilità sociale? Esso potrebbe, come arbitro e ideatore delle regole del gioco, stabilire l’obbligatorietà della valutazione e agevolarne i costi facendo in modo che essi non ricadano sulle imprese divenendo dunque degli handicap insopportabili per quelle di

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piccole dimensioni. Con un’iniziativa di questo genere il sistema della responsabilità sociale potrebbe rapidamente colmare il gap tra quota potenziale e quota effettiva e l’economia della responsabilità sociale potrebbe esercitare appieno il proprio ruolo di fermento nel sistema economico. Non dimentichiamo che questa integrazione di informazione non imporrebbe alcuna costrizione ma fornirebbe soltanto ulteriori strumenti di valutazione ai consumatori ampliando le loro capacità di scelta. Ognuno è libero di scegliere, come vuole e crede, sulla base dei propri valori, ma ciò che è auspicabile in questo periodo di moda della responsabilità sociale d’impresa è che i consumatori possano conoscere in modo sempre più accurato le caratteristiche delle imprese e dei prodotti che hanno di fronte.

1. 3. L’economia della responsabilità sociale e dei tre pilastri come passo in avanti nella democrazia economica I risultati riportati nei paragrafi precedenti sulla disponibilità a pagare dei consumatori per le caratteristiche di qualità sociale ed ambientale dei prodotti, sottolineano una novità fondamentale dei nostri tempi, rappresentata dalla nascita dell’economia della responsabilità sociale. Si tratta di un approccio “a tre pilastri” che estende in maniera significativa la democrazia economica e capovolge l’impostazione tradizionale fondata su due soli pilastri. La vecchia logica è quella secondo la quale il perseguimento del benessere sociale è demandato al rapporto tra imprese for profit e istituzioni. Le prime massimizzano i profitti contribuendo, in questo modo, alla creazione di valore economico per l’intero sistema. Perseguendo questo obiettivo, come è ben noto, esse possono però creare delle conseguenze negative (esternalità) sul benessere collettivo. Aumentando, ad esempio, l’inquina-

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mento complessivo o realizzando una politica di riduzione dei costi che le porta a chiudere un occhio sulle condizioni sociali del lavoro al loro interno o nelle aziende che forniscono loro componenti utilizzate per il prodotto finale. A questo punto intervengono le istituzioni che, con un sistema di regole e misure fiscali, correggono queste distorsioni, imbrigliando, per così dire, l’energia delle imprese e incanalandola nei binari che conducono alla realizzazione del bene della collettività. Questo modo tradizionale di impostare il problema si rivela non più praticabile in questa prima fase della globalizzazione dei mercati. Con la creazione di filiere internazionali di prodotto, infatti, illudersi che le esternalità negative delle imprese possano essere contrastate dalle regole forti delle istituzioni significa chiudere gli occhi di fronte alla realtà. È infatti del tutto evidente che la capacità delle imprese di attraversare i confini nazionali riduce significativamente il potere coercitivo delle regole nazionali e impedisce spesso ogni forma di correttivo e di controllo per via della debolezza o dell’assenza di istituzioni e regole di carattere transnazionale. Per fare solo un esempio, mentre esistono “autorità antitrust nazionali” che cercano di combattere rendite e potere di mercato all’interno dei principali paesi più industrializzati, non esiste alcuna istituzione di “antitrust internazionale” in grado di contrastare il potere di mercato degli intermediari (nazionali o transnazionali) che acquistano le materie prime o i semilavorati agricoli da una miriade di piccoli produttori marginalizzati nei paesi del Sud del mondo. Non esistono “autorità antitrust” in grado di ridurre rendite e potere di mercato dei local moneylenders, ovvero dei prestatori di credito informale che, sempre nei paesi del Sud del mondo, impongono spesso condizioni capestro a chi chiede prestito, sfruttando l’esistenza di una doppia relazione con i loro debitori. In moltissimi casi, infatti, i prestatori informali sono anche i datori di lavoro dei prestatari, oppure sono gli stessi in-

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termediari che acquistano il prodotto e lo trasportano nei mercati di sbocco. In presenza di questa doppia relazione (interlinkage) i prestatori informali hanno un grado di libertà in più per fissare condizioni vessatorie sui debitori, rivalendosi non solo sui tassi d’interesse ma anche sul secondo rapporto in essere e, ad esempio, riducendo significativamente il prezzo di acquisto della materia prima o dei prodotti semilavorati o imponendo a debitori insolventi, o parzialmente solventi, lavoro a condizioni di semi-schiavitù come forma alternativa di ripagamento del debito (Ray, 1998). Confidare dunque nel ruolo di istituzioni deboli o ancora inesistenti vuol dire chiudere gli occhi di fronte alla realtà o creare alibi per il mantenimento dello status quo. Di fronte a questi problemi l’economia dei tre pilastri propone un’alternativa che estende, in maniera decisiva, i meccanismi di democrazia economica. È la società civile che, con la sua azione decentralizzata (le decisioni di consumo e di risparmio) e con quella organizzata (le associazioni non governative o di terzo settore, le imprese sociali di mercato), si propone di dare un’impulso decisivo nella direzione di uno sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile, svolgendo un ruolo di supplenza, con l’obiettivo di non essere però un sostituto permanente di un nuovo sistema di regole ma, al contrario, di svolgere un ruolo di advocacy attiva e, dunque, di creare consenso per la definizione stessa di queste nuove regole. Il principio dell’azione dal basso rappresenta un passo avanti nella democrazia economica. Il sistema dei due pilastri è profondamente paternalista e finisce per riportarci alla filosofia del “sovrano illuminato” dove quest’ultimo è sostituito dai funzionari delle istituzioni internazionali. Il legame tra questi ultimi e i cittadini è molto tenue. Tutte queste istituzioni sono di secondo livello e, dunque, non direttamente eleggibili. I loro rappresentanti sono designati dai governi nazionali a loro volta eletti dai cittadini. Nel sistema a tre pilastri la

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partecipazione dal basso è molto maggiore; i cittadini, votando con il loro portafoglio attraverso le scelte quotidiane di consumo e di risparmio, o autorganizzando la propria attività nell’associazionismo, partecipano direttamente alla costruzione di una “felicità sostenibile”. L’economia dei tre pilastri e della responsabilità sociale arricchisce, dunque, gli strumenti d’intervento e di partecipazione politica dei cittadini. Non più soltanto il voto alle elezioni che resta uno strumento fondamentale ma insufficiente ad incidere sulle scelte economiche delle imprese e delle istituzioni. Con il voto, infatti, siamo costretti a scegliere tra coalizioni eterogenee ciascuna delle quali formula programmi complessi che comprendono azioni in molti campi diversi. Questo costringe necessariamente, come affermava Montanelli, a «votare turandosi il naso», ovvero a fare comunque una scelta che non può soddisfare interamente tutte le istanze o esigenze. L’economia dei tre pilastri aggiunge al voto elettorale il voto con il portafoglio. Quest’ultimo strumento è assai più preciso del primo. Scegliendo di premiare un’impresa piuttosto che un’altra, attribuiamo un consenso a una politica aziendale ben determinata incidendo in maniera efficace sulle scelte delle imprese. Grazie alla centralità del ruolo dei consumi e dei risparmi nel nostro sistema economico riusciamo in questo modo ad avere un’influenza molto importante sul comportamento delle imprese stesse che, per mantenere inalterati i loro profitti e le loro quote di mercato, presteranno molta attenzione al voto con il portafoglio dei loro clienti.

1. 4. La rilevanza dell’economia della responsabilità sociale La tipica obiezione di fronte all’azione socialmente responsabile è quella della sua irrilevanza. Questa obiezione è ben riassunta dall’affermazione di Jean Pierre Boris (in: Com-

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mercio iniquo), il quale sostiene, a proposito del commercio equo e solidale, che esso rappresenta «un’idea buona per gente buona in un mondo buono». Una prima risposta a questa obiezione vogliamo fornirla attraverso la famosa storia del colibrì e dell’elefante. Brucia la foresta tropicale e gli elefanti scappano terrorizzati. Durante il loro cammino incontrano un colibrì che, portando dell’acqua nel becco si muove in direzione opposta e si dirige verso la foresta in fiamme. Gli elefanti domandano perplessi al colibrì: «Cosa stai facendo?». La risposta del colibrì è: «Sto andando nella direzione giusta». Questo brevissimo racconto, se può esprimere la soddisfazione individuale di dare un contributo a una giusta causa, non risolve, anzi conferma il dubbio dell’irrilevanza. Ritengo che, tenendo conto dello stato attuale dello sviluppo dell’economia socialmente responsabile, che motiverò dettagliatamente nelle pagine che seguono, possiamo aggiungere una seconda parte a questa storiella. Nel secondo atto gli elefanti procedono “intruppati” e tristi nella loro fuga dalla foresta in fiamme, mentre nel frattempo al colibrì si è aggiunta una robusta squadra di intervento con uomini e mezzi che sta cercando di spegnere l’incendio… Cosa spinge ad affermare che l’intervento nella direzione giusta stia diventando sempre più rilevante? Ripartiamo intanto da quella quota potenziale di disponibilità a pagare, rilevata e commentata in precedenza. Su quel bacino potenziale di cittadini socialmente responsabili ammettiamo, per le ragioni già illustrate, che soltanto una parte molto minore sta realmente votando in questo momento con il proprio portafoglio per i prodotti delle imprese leader nella responsabilità sociale. E vediamo come, attraverso alcuni esempi che ci spiegano perché, anche da quote così basse, si determina un effetto leva assai significativo, che ci lascia intuire l’enorme potenziale di contagio socialmente responsabile, che un incremento delle quote attuali effettive verso quelle potenziali potrebbe generare.

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1. 4. 1. La rilevanza e la capacità di contagio del consumo socialmente responsabile Nel campo del consumo socialmente responsabile focalizziamo per un attimo l’attenzione sul commercio equo e solidale. Questa filiera particolare di prodotti alimentari e di artigianato taglia i costi d’intermediazione locale, assicura ai produttori marginalizzati del Sud un nuovo canale di sbocco, svolge una concreta azione di supplenza in mancanza di istituzioni di antitrust. Rompendo il monopolio degli intermediari locali del credito e del trasporto, essa garantisce assistenza tecnica e stabilizzazione del prezzo, promuovendo l’investimento del margine aggiuntivo garantito ai produttori in beni pubblici locali che possono favorire l’autosviluppo. In sintesi si tratta di un modello interessante di etica della responsabilità che supera lo stadio della filantropia e dell’azione caritatevole. Fornendo uno stimolo all’inclusione che sollecita un’azione responsabile della controparte 6. Redfern e Snedker (2002) in un quaderno di ricerca dell’ILO riassumono efficacemente gli elementi di successo del commercio equo e solidale considerando che lo stesso: i) ha creato un giro di affari in costante crescita che si propone di trasmettere i benefici del commercio ai più poveri; ii) ha fornito un insieme di servizi incorporati nella relazione commerciale che i produttori non sarebbero riusciti a ottenere localmente; iii) ha garantito l’accesso al mercato a gruppi che ne erano esclusi; iv) ha generato effetti indiretti favorendo la diffusione capillare dei prodotti anche sui banchi dei supermercati; v) ha svolto con successo azioni di lobby per la promozione di riforme legislative in favore dei più poveri; vi) ha sti6 Per un approfondimento delle caratteristiche e dell’impatto del com-

mercio equo e solidale sul sistema economico vedasi: Becchetti - Paganetto, 2003 e Becchetti, 2005.

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molato il dibattito attorno alla questione dei rapporti commerciali modificando l’atteggiamento nei confronti dello sviluppo in milioni di consumatori e in moltissime imprese; vii) ha svolto un ruolo fondamentale di stimolo e di fermento della responsabilità sociale d’impresa. Aggiungiamo, a queste considerazioni, alcuni dati sintetici. Secondo un’indagine di Geoff Moore 7, il commercio equo e solidale lavora attualmente con circa 1, 5 milioni di famiglie nel Sud del mondo. A questo che è l’effetto diretto della sua azione dobbiamo sommare l’effetto indiretto. Tale effetto si determina quando un “pioniere” della responsabilità sociale (in questo caso il commercio equo e solidale) entra sul mercato e rivela, attraverso le proprie quote di mercato, la presenza di consumatori socialmente responsabili disposti concretamente a votare con il loro portafoglio, preferendo prodotti con caratteristiche di responsabilità sociale rispetto a prodotti equivalenti che non possiedono tali caratteristiche. Quando questo accade i produttori tradizionali del settore, orientati alla massimizzazione del profitto, cercano di conquistare la quota di mercato rappresentata dai consumatori socialmente responsabili, concorrendo con il pioniere, non solo attraverso i prezzi, ma anche attraverso le scelte di responsabilità sociale. È possibile a questo punto dimostrare rigorosamente che tali imprese, in misura proporzionale alla sensibilità dei consumatori e dei costi della responsabilità sociale, decideranno di imitare parzialmente i pionieri (Becchetti et al., 2003a - b). L’imitazione parziale, dunque, estende in maniera fondamentale gli effetti del commercio equo e solidale in quanto, anche se parziale, è posta in atto da produttori di dimensioni ben maggiori di quelle del pioniere. Gli esempi di

7 Moore G. (2004), The Fair Trade Movement: parameters, issues and future research, in «Journal of Business Ethics», 53, pp. 73-86.

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questa imitazione sono molteplici. Solo per restare nel campo dei prodotti alimentari, dopo la nascita del commercio equo e solidale abbiamo assistito alla decisione della Coop di certificare tutta la propria filiera come equosolidale. Alla reinterpretazione della politica di attenzione ai produttori di caffè di base e di ricerca della qualità promossa dalla Illy, alla luce dei principi del commercio equo e solidale con il coinvolgimento di testimonial di eccezione come il fotografo Salgado. E ancora alla decisione di molte altre catene di supermercati di inserire i prodotti equosolidali sui loro scaffali, alla scelta della catena Starbucks di introdurre in alcuni dei suoi punti vendita il caffè equosolidale, sino alla clamorosa decisione di Nestlè di produrre caffè equosolidale solubile, giustificata nel comunicato stampa sulla base del fatto che «il commercio equosolidale ha, in Gran Bretagna, il 3 percento della quota di questo particolare prodotto e che la sua crescita annua, in termini di volumi di prodotti consumati, è a due cifre». Nel corso del 2008 i due fatti salienti che hanno testimoniato la crescita del fenomeno sono stati la scelta delle due principali catene di supermercati inglesi (Tesco e Sainsbury) di vendere solo banane equosolidali (che ha portato la quota di mercato equosolidale per questo prodotto al 25 percento) e la scelta di Ebay di aprire una piattaforma online dedicata agli acquisti di prodotti artigianali equosolidali con un fatturato previsto di più di 400 miliardi di dollari entro il 2010. Al di là dell’esigenza di valutare effettivamente il grado di coinvolgimento degli “imitatori parziali” nei principi dell’equosolidale, questa dichiarazione di un gigante del settore appare la prova più inconfutabile della non irrilevanza del fenomeno. Ricordo come, negli incontri di circa dieci anni fa su questo tema, molti si domandassero preoccupati quale sarebbe stata la reazione delle grandi imprese transnazionali all’ingresso dei concorrenti equosolidali. La mia risposta era che le grandi imprese transnazionali avrebbero imitato il fenomeno

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qualora questo si fosse dimostrato di qualche rilevanza. Ciò è puntualmente accaduto. La natura di questa competizione tra pionieri e imitatori parziali testimonia, dunque, il ruolo fondamentale dei pionieri in termini di lievito e di fermento del sistema economico in direzione di una maggiore responsabilità sociale. In questa prospettiva il voto per i pionieri appare lo strumento più efficace per far sì che il processo in atto prosegua e generi effetti significativi sulla responsabilità sociale d’impresa e sull’intero sistema economico. 1. 4. 2. La rilevanza e la capacità di contagio del risparmio socialmente responsabile Un discorso analogo su rilevanza dei pionieri, effetto diretto ed effetti indiretti si può fare per il risparmio socialmente responsabile. In questo settore pionieri come la Banca Popolare Etica, o organizzazioni che raccolgono fondi per la microfinanza come Etimos, hanno avuto il compito importante di stimolare la competizione sulla responsabilità sociale nel campo della finanza. La Banca Popolare Etica ha deciso di dare priorità nella sua azione alla valutazione dell’utilità sociale degli investimenti accanto alla tradizionale analisi della loro sostenibilità economica. Ha avviato una linea di fondi etici che non prevedono commissioni di entrata ma il pagamento di una quota dell’1, 5 per mille destinata a fondi di garanzia per interventi di microcredito. E il microcredito, anche grazie al sostegno dei risparmiatori o donatori socialmente responsabili che hanno rinunciato a una parte o a tutto il rendimento delle somme prestate, è riuscito ad estendere il credito a più di 130 milioni di soggetti poveri non bancabili in tutto il mondo. Ha consentito ai propri risparmiatori di scegliere la destinazione dei loro risparmi tra diverse opportunità alternative (investimenti nel sociale in Italia, sostegno al microcredito nel

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Sud del mondo, investimenti nel commercio equo e solidale) offrendo loro la possibilità di accettare un tasso più basso di quello di mercato per finanziare tali iniziative. Attraverso questa iniziativa, riassunta dallo slogan efficace: «L’interesse più alto è quello di tutti», e grazie al successo che essa ha ottenuto in termini di quote di risparmiatori conquistati, la Banca Etica ha completamente capovolto la logica dell’homo oeconomicus (il famoso individuo che massimizza il proprio utile in modo miopemente autointeressato), secondo la quale, sempre e comunque la scelta va all’attività finanziaria che assicura un miglior rendimento corretto per il rischio. Ancora una volta dunque le “imprese sociali di mercato” e i risparmiatori socialmente responsabili dimostrano che scelte lungimiranti che incorporano il valore sociale all’interno dei tradizionali criteri di valutazione sono praticabili e praticate. Queste iniziative, e il favore che i risparmiatori hanno dimostrato di accordagli, contribuiscono in maniera significativa a un impegno in direzione di una maggiore responsabilità sociale delle banche tradizionali. Le iniziative in questo campo sono numerosissime, a partire dalla robusta promozione in favore della responsabilità sociale d’impresa, portata avanti dalla stessa ABI e dalle tante iniziative realizzate dalle banche di credito cooperativo e dai principali istituti bancari italiani in tema di solidarietà e di responsabilità sociale. Se usciamo dal mercato italiano e guardiamo ad alcuni dati d’insieme del mercato mondiale, la diffusione della finanza socialmente responsabile e della responsabilità sociale d’impresa appare ragguardevole. Secondo dati della KMPG, una delle principali società di consulenza e certificazione americane, nel 2005 il 52 percento delle prime 100 imprese nei 18 paesi più industrializzati ha pubblicato un bilancio sociale. I dati del Report on Socially Responsible Investing Trends in the United States del 2003 indicavano che lo stock dei fondi etici ha raggiunto la cifra ragguardevole di 2, 16 trilioni (milioni di miliardi) di

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dollari in quell’anno includendo il contributo di tutti i fondi istituzionali e fondi pensione che seguono tali criteri. Secondo queste cifre un dollaro su nove negli Stati Uniti è investito in fondi etici. Per quanto riguarda i tassi di crescita lo stesso rapporto rileva che, dal 1995 al 2003, il tasso di crescita di questo tipo di fondi è stato del 40 percento più elevato di quello dei fondi pensione tradizionali (240 contro 174 percento). In Europa il numero dei fondi etici è pressoché raddoppiato tra il 1999 e il 2002 (da 159 a 300 fondi), secondo il rapporto sulla responsabilità sociale redatto dalla Cerulli Associate. La crescita è stata più sostenuta nel Regno Unito, in Svezia, in Francia e in Belgio dove sono concentrati quasi il 70 percento dei fondi etici europei. Il segmento dei fondi etici è quello a più alta crescita tra tutti i tipi di fondi nel Regno Unito, dove è divenuto un’industria di circa 6 miliardi di dollari con più di 20 nuovi fondi avviati negli ultimi tre anni. Per fare alcuni esempi più specifici e per capire quali attori si muovono dietro queste cifre aggregate, il principale investitore istituzionale “socialmente responsabile”, il fondo pensione californiano Callpers, vanta 1, 4 milioni di azionisti e un patrimonio investito di 177 miliardi di dollari. Il fondo ha condotto numerose campagne durante le assemblee dei soci delle grandi imprese americane per sollecitare una maggiore responsabilità sociale in tema di corporate governance, responsabilità ambientale e attenzione alle condizioni dei lavoratori. Un impegno analogo è stato portato avanti dall’ICCR (il centro interreligioso per la responsabilità sociale d’impresa) che raccoglie 275 investitori istituzionali religiosi e un patrimonio di circa 100 miliardi di dollari. Un ulteriore interessante esempio in Europa è quello del fondo pensione degli statali norvegesi con un patrimonio di circa 190 miliardi di euro che, in molte occasioni, applicando i criteri di responsabilità sociale cui fa riferimento, ha disinvestito da imprese che non rispettano i criteri di responsabilità

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sociale ed ambientale, con effetti non irrilevanti sulla dinamica azionaria delle stesse. Questi dati d’insieme positivi non devono ovviamente far dimenticare i limiti del fenomeno e alcune sue deformazioni. La pressione dal basso dei risparmiatori e dei consumatori socialmente responsabili e i costi derivanti dall’assunzione di un’autentica responsabilità sociale e ambientale spingono molto spesso le imprese ad adottare comportamenti opportunistici, dichiarando formalmente l’accettazione dei principi di responsabilità sociale e comportandosi di fatto in modo opposto. Una delle strade più comode da questo punto di vista è quella della redazione del bilancio sociale (anche la Parmalat lo faceva!). Redigere un bilancio sociale non è certo garanzia di comportamento socialmente responsabile e, troppo spesso, il mondo della responsabilità sociale, e le stesse valutazioni delle società di rating della responsabilità sociale, si fermano agli aspetti formali dando peso eccessivo nelle loro valutazioni alle dichiarazioni di principio o ai codici etici, invece che alla condotta effettiva delle imprese. Fondamentale appare dunque, proprio in questo momento di apparente moda del fenomeno, il vaglio dei comportamenti effettivi e lo stimolo a una maggiore coerenza tra principi dichiarati e azioni di fatto. Dunque, concludendo questa breve carrellata sulla dinamica e i parziali successi dell’economia della responsabilità sociale, ci sentiamo di rigettare decisamente l’accusa di irrilevanza del fenomeno. Innanzitutto esiste un famoso detto rabbinico che afferma che “quando si salva una persona si salva tutto il mondo”. Ma il salvare una sola persona non si applica affatto all’economia della responsabilità sociale. Non credo che si possano ritenere irrilevanti i cinque milioni di persone che hanno avuto, anche grazie all’inserimento all’interno della filiera equosolidale, chances di inclusione, più tutto l’indotto generato dal-

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l’imitazione dei grandi giocatori del mercato, oppure i 2, 16 trilioni di dollari dei fondi etici americani o i più di 130 milioni di soggetti non bancabili che hanno una chance di inclusione grazie al microcredito! Il colibrì non è affatto un colibrì e con la felicità che gli deriva dall’agire in una direzione di grande utilità sociale contribuisce, in maniera decisiva, al cammino verso il traguardo di una felicità economicamente sostenibile. La critica dell’assenza di una presunta soluzione globale nelle iniziative di responsabilità sociale, oggi in campo, è un alibi alla nostra pigrizia e la presunta soluzione globale soltanto un mito. La trasformazione del sistema in direzione di una maggiore sostenibilità che metta finalmente al centro l’uomo e le sue istanze non è e non sarà mai determinata da un cambiamento improvviso e radicale ma è, piuttosto, il traguardo, già visibile, raggiungibile attraverso la crescita quantitativa di qualcosa che già esiste, ovvero del peso dell’economia della responsabilità sociale.

1. 5. Perché tanta attenzione alle imprese? Come già sviluppato (in cap. III: 1. 3. L’economia della responsabilità sociale e dei tre pilastri…, p. 211), una caratteristica originale dell’economia della responsabilità sociale è dunque la sua capacità di creare un canale di dialogo tra cittadini e imprese superando i tradizionali circuiti impostati, prevalentemente, su due rapporti separati tra lavoratori e istituzioni e tra istituzioni e imprese. In sostanza, nell’approccio tradizionale dei due pilastri, i cittadini esercitano i loro diritti eleggendo i membri delle istituzioni, mentre sono le istituzioni a regolamentare i comportamenti delle imprese direttamente o attraverso autorità appositamente create (ad esempio, l’antitrust).

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È del tutto evidente che il passaggio al modello dei tre pilastri, con un rapporto diretto tra imprese e cittadini, è coerente con i cambiamenti dello scenario macroeconomico. Basti considerare alcuni dati impressionanti. Nel 2005 la Exxon ha registrato un utile di 36 miliardi di dollari, mentre il governo italiano deve ogni anno racimolare faticosamente 10/20 miliardi di euro per coprire il fabbisogno primario (disavanzo più spesa per interessi sul debito pregresso) del bilancio pubblico. La fondazione creata da Bill Gates ha un bilancio di spesa nel settore sanità (vaccini per le popolazioni africane, lotta alle malattie tropicali, ecc.) cinque volte superiore a quello dell’organizzazione mondiale della sanità. Se pure questo scenario può non piacerci – perché riteniamo che il controllo e la decisione di spesa su risorse così rilevanti non possono essere concentrati nelle mani di poche persone o di imprese private, ma dovrebbero essere frutto delle scelte politiche di istituzioni elette dai cittadini –, dobbiamo prendere atto che la realtà di oggi è questa e partire dalla partnership, il dialogo o la pressione sulle imprese per realizzare l’obiettivo dello sviluppo socialmente ed ecologicamente sostenibile o quello della felicità economicamente sostenibile.

1. 6. Perché le imprese dovrebbero essere sensibili all’impulso dei risparmiatori e consumatori socialmente responsabili? «Lose money for the firm, I will be very understanding; lose a shred of reputation for the firm, I will be ruthless». (Perdete denaro dell’azienda e sarò molto comprensivo; perdete un briciolo della sua reputazione e sarò spietato). (Warren Buffet)

Un altro assunto fondamentale su cui poggia la tesi dell’irrilevanza dell’azione dei consumatori e dei risparmiatori

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socialmente responsabili è che le imprese, immerse nel duro agone competitivo e sottoposte continuamente al pungolo del mercato, debbano poi nella realtà dei fatti abbandonare ogni buona intenzione per preoccuparsi unicamente della propria sopravvivenza. Dunque la responsabilità sociale apparterrebbe al mondo delle idee nobili ma non avrebbe, né potrebbe avere, alcun impatto sulla realtà economica. La risposta che proveremo ad articolare in questo paragrafo si sviluppa su due piani. Il primo dimostra che le ragioni per una scelta di responsabilità sociale, da parte delle imprese nell’attuale contesto globalizzato, non dipendono solo dall’azione dei consumatori e risparmiatori, socialmente responsabili, ma anche da una serie di altre motivazioni che prescindono da questo fattore. Dunque, pur constatando che la responsabilità sociale non è un “pasto gratis” ed ha dei costi, è possibile rilevare che essa presenta anche benefici tangibili per l’impresa che vanno oltre quelli del favore dei cittadini, preoccupati per la sostenibilità sociale e ambientale delle scelte economiche. Il secondo piano è quello che sottolinea come il compito degli studiosi è sempre stato non solo quello di descrivere la realtà così come essa si presenta in un determinato periodo storico, ma anche quello di indicare il percorso di “utopie possibili”, ovvero di sentieri non ancora percorsi ma praticabili. In questo senso possiamo sicuramente affermare che, mentre una parte del percorso della responsabilità sociale d’impresa è già realizzata sul campo, è sicuramente possibile, a partire dalle potenzialità e dai vincoli del sistema economico, prefigurare un percorso di grande impatto futuro, anche se non ancora realizzato. Per sviluppare il primo piano di analisi e dimostrare che la scelta di responsabilità sociale d’impresa può essere per la stessa un’opzione realistica e lungimirante, dobbiamo necessariamente partire dalla riflessione sui costi e sui benefici di tale scelta, accompagnando le nostre considerazioni con i risul-

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tati empirici che le documentano. Se partiamo dai costi dobbiamo realisticamente ammettere che una scelta di responsabilità sociale, se non soltanto dichiarata ma effettivamente praticata, comporta, quasi per definizione, un aggravio di alcune voci di costo dell’impresa. Se andiamo a guardare i diversi criteri che le agenzie di rating sociale applicano per la valutazione del grado di responsabilità sociale d’impresa (Avanzi, Ethibel, Domini), riscontriamo immediatamente che essa implica una modifica dell’obiettivo strategico e un passaggio dalla massimizzazione del ritorno degli azionisti alla massimizzazione degli interessi della più vasta platea degli stakeholders (non solo azionisti ma anche lavoratori, fornitori, comunità locale, generazioni future attraverso la tutela ambientale, ecc.), pesati secondo determinati criteri. Per realizzare quest’obiettivo è evidente che l’impresa SR si proporrà di generare dei benefici – monetari e non – agli stakeholders superiori a quelli generati dall’impresa tradizionale. Per i lavoratori questo potrà concretizzarsi in una serie di condizioni relative non solo ai salari ma anche alla sicurezza sul lavoro, ai benefici pensionistici, alla partecipazione attiva alla vita economica dell’impresa, al profit sharing. Per i fornitori ciò implicherà un’attenzione maggiore alle condizioni di lavoro nelle imprese delocalizzate che forniscono componenti del prodotto finale. Per la comunità locale si tratterà di realizzare una serie di iniziative no profit o filantropiche sul territorio. Per le generazioni future l’implicazione sarà quella dell’adozione di processi produttivi ambientalmente più sostenibili, adozione che può, soprattutto in principio, comportare costi maggiori per l’impresa. Rimandando ai criteri delle agenzie di rating, sopra citate per una disamina analitica e più approfondita, possiamo dunque concludere che la RSI non è un “pasto gratis” anche se, dato il contesto di asimmetria informativa (i consumatori hanno necessariamente meno informazioni dell’impresa sul suo comportamento socialmente re-

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sponsabile), anche in questo settore sarà forte la tentazione di realizzare soltanto un’operazione di facciata, per ottenerne i benefici e non pagarne i costi. Il disincentivo a una tale strategia è ovviamente rappresentato dalla perdita reputazionale che un’impresa può subire nel momento in cui si verifica lo scarto tra le promesse e le realizzazioni concrete. Perché ciò avvenga, però, la vigilanza e il grado di informazione dei controllori e dei certificatori devono necessariamente essere elevati. A fronte di queste potenziali voci di costo, devono necessariamente sussistere dei benefici affinché l’opzione di responsabilità sociale sia effettivamente praticabile. Da questo punto di vista chiariamo subito che l’analisi del rapporto tra scelta di responsabilità sociale e performance d’impresa non vuol implicare che una scelta etica debba essere realizzata soltanto se conveniente, ma vuole realisticamente considerare che tale scelta deve essere perlomeno praticabile, ovvero deve consentire all’impresa di sopravvivere e di poter competere nell’attuale sistema di mercato. Se vogliamo utilizzare un’immagine più colorita, possiamo pensare ad un ecosistema nel quale vengono inseriti dei nuovi organismi animali (le imprese socialmente responsabili) e si intende verificare se questi, a contatto con le specie preesistenti (le imprese tradizionali), sopravvivono, coesistono o sono destinati a soccombere. Pertanto, per la praticabilità della scelta di RSI devono necessariamente sussistere benefici potenziali in grado di controbilanciare i costi sopra descritti. La riflessione sugli studi sul campo ci consente da questo punto di vista di identificare per lo meno quattro filoni di benefici possibili. Il primo, già sviluppato in precedenza, è quello del favore dei cittadini socialmente responsabili: la sua consistenza e rilevanza dipende dunque dal grado di sensibilità dei consumatori ai temi della RS. Le imprese SR possono dunque ottenere dei vantaggi dalla loro scelta conquistando quella quota di consumatori che

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danno, accanto al tradizionale discorso qualità-prezzo, un peso significativo al valore sociale e ambientale del prodotto. Abbiamo già approfondito il tema rilevando che questa quota di cittadini è molto elevata nelle dichiarazioni d’intenzione (attorno al 30 percento) in quasi tutti i paesi sviluppati, ma si riduce in maniera sensibile nelle scelte concrete (vedi in questo cap. III: 1, 1. Disponibilità a pagare per l’ambiente, p. 182; 1. 2. Disponibilità a pagare del consumatore socialmente responsabile: proposta politica, p. 206). Abbiamo discusso questo scarto interpretandolo alla luce dei limiti di sviluppo dell’economia socialmente responsabile e, in particolare, del problema della gamma limitata dei prodotti, della scarsa capillarità, dei limiti di informazione e di affidabilità dell’informazione stessa in materia di responsabilità sociale. Difficilmente dunque, almeno al momento attuale, le imprese sceglierebbero l’opzione di RSI se il beneficio potenziale si limitasse soltanto a questo. Diverso il discorso se consideriamo altri quattro elementi fondamentali. Il primo è rappresentato dal cosiddetto argomento di Freeman (1984) 8 il quale afferma che la scelta della responsabilità sociale consente efficacemente all’impresa di minimizzare i costi di transazione con gli stakeholders. In altri termini l’impresa socialmente responsabile, attraverso questa opzione, ridurrebbe il rischio di conflitti con gli stakeholders, conflitti che possono generare costi assai significativi. Per fornire una cifra basti considerare che nel 2005 le principali imprese americane hanno pagato 9 miliardi di dollari per patteggiamenti al fine di evitare cause relative a scandali finanziari. Questa cifra ingente è relativa soltanto ad una piccola parte dei potenziali costi di transazione con gli stakeholders, ovvero alla voce scandali finanziari, e riguarda solamente i costi di patteggiamento, 8 Freeman R.E. (1984), Strategic Management: a Stakeholder approach, Pitman, Boston.

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ovvero quelle cause che non sono andate avanti per il raggiungimento di un accordo previo tra impresa e cittadini ricorrenti in giudizio. Ad ulteriore riprova della rilevanza sempre maggiore di questo secondo argomento pro RSI, si consideri che le grandi imprese introducono abitualmente nelle loro valutazioni di rischio, accanto ai tradizionali rischi finanziario-economici, il rischio etico o reputazionale come uno dei più rilevanti. È sempre più evidente pertanto che la reputazione è una risorsa intangibile fondamentale per l’impresa e che la RSI può evitare che tale risorsa accumulata nel tempo vada perduta. Il terzo potenziale vantaggio, derivante da una scelta di responsabilità sociale, è legato al tema della qualità del prodotto. È fondamentale, da questo punto di vista, comprendere che qualità del prodotto e responsabilità sociale sono intimamente collegate. Innanzitutto, in quasi tutti i criteri di valutazione della RSI la qualità del prodotto è uno degli elementi integranti. Ma seppure escludessimo tale elemento dalla RSI – limitando la stessa ai temi del rapporto con i lavoratori, con i fornitori, con le comunità locali e le generazioni future (trascurando quello con i consumatori) –, scopriremmo comunque che la RSI intesa in quest’accezione ristretta continuerebbe ad avere importanti connessioni con la qualità del prodotto, “percepita” dai consumatori. Per spiegare questo punto partiamo dal problema dell’asimmetria informativa tra produttore e consumatore. Il produttore ha informazioni superiori rispetto a quelle possedute dall’acquirente relativamente al proprio prodotto e alla sua qualità. Quest’ultimo pertanto ha sempre il sospetto e il dubbio che la controparte possa vendergli un prodotto di cattiva qualità quando questo comporti per la medesima un risparmio sui costi. In alcuni casi il problema della cattiva qualità può avere conseguenze particolarmente negative per il consumatore (pensiamo, ad esempio, al problema delle sofisticazioni ali-

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mentari, alla sicurezza dei voli aerei, alla qualità dei prodotti e servizi finanziari offerti da una banca). Nella nebbia dell’asimmetria informativa la scelta di RSI di un’impresa può essere dunque percepita dal consumatore come un segnale della qualità del prodotto anche quando la RS riguarda altro. In sostanza il consumatore che acquista un prodotto alimentare o finanziario sarà portato, a parità di altri fattori, a preferire quello di un’impresa che ha una reputazione consolidata di attenzione agli stakeholders. Il ragionamento sarà quello che, se l’impresa in questione si prodiga relativamente di più per i lavoratori e ha a cuore la sostenibilità sociale e ambientale del proprio processo produttivo, essa dà allo stesso tempo maggiori garanzie di fiducia sulla qualità del proprio prodotto. Il quarto e ultimo argomento relativo ai possibili legami positivi tra scelta di RS e performance d’impresa è quello che concerne gli effetti sulla produttività dei dipendenti. Nei capitoli precedenti abbiamo ampiamente spiegato come gli studi sulla produttività degli economisti vadano ampliati e inquadrati nella nuova e promettente prospettiva della motivazione intrinseca. I nuovi filoni di ricerca dimostrano come qualità delle relazioni nell’ambiente di lavoro e motivazione intrinseca hanno un peso fondamentale sulla produttività individuale, e si riconciliano in questo con i principali risultati della parallela ricerca condotta dagli psicologi su questo tema che sottolinea come componenti fondamentali della felicità individuale i concetti di relatedness (qualità della vita relazionale), purposedness (avere uno scopo nella propria attività) e sense of achievement (poter compiere almeno dei piccoli passi verso il proprio obiettivo). Gli studi sul volontariato, ampiamente discussi in precedenza (vedi nel cap. II: 1. 3. 4. «Lavorare per nulla»: il paradosso dei volontari e l’homo oeconomicus, p. 126), sottolineano come il paradosso del “lavorare per niente” implichi che la motivazione intrinseca è una spinta così forte all’operosità individuale da poter sostituire parzialmente il salario.

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Lungo questa strada dunque si aprono prospettive e potenzialità molto interessanti per il rapporto tra RSI e performance d’impresa. Se l’impresa con la scelta di responsabilità sociale sarà in grado di rendere progressivamente più “nobile” lo scopo complessivo della propria attività e il proprio ruolo nel sistema economico, essa potrà parzialmente attingere a quella fonte fondamentale di motivazione produttiva rappresentata dalle motivazioni intrinseche dei propri dipendenti. Una maggiore consonanza tra obiettivi ideali della persona e obiettivi strategici dell’impresa potrà infatti consentire a quest’ultima di usufruire della sostituibilità tra salario e motivazione intrinseca (nel rispetto ovviamente delle garanzie salariali per i propri dipendenti) generando produttività aggiuntiva a parità di salario. Sembra si stia parlando di alta filosofia ma chi vive la realtà dell’impresa occupandosi del personale sa benissimo che il problema della motivazione dei lavoratori è assolutamente cruciale. Non per niente gli studi e le iniziative sull’etica aziendale fioriscono. Il problema è che spesso il tema della motivazione viene affrontato in maniera del tutto strumentale, mentre esso può generare effetti positivi soltanto se sviluppato in maniera autentica. Non si tratta dunque di convincere i dipendenti che l’impresa “socialmente irresponsabile” in realtà sta svolgendo una missione fondamentale per l’umanità (i dipendenti non ci crederanno mai sino in fondo). È importante invece rendere l’impresa sempre più socialmente responsabile per far constatare al proprio personale come il loro lavoro contribuisca non solo allo scopo specifico di esistenza dell’impresa, ma anche a finalità di carattere sociale ed ambientale più estese. Evidenziando e irrobustendo in questa prospettiva il legame tra scopo particolare dell’impresa e obiettivi più ampi di carattere sociale. Proprio recentemente rileviamo esperimenti molto interessanti in tal senso. Alcune grandi imprese fondano delle onlus aziendali, altre consentono ai propri lavoratori di utilizza-

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re una piccola parte del loro orario di lavoro per attività a scopo sociale o benefico. Se non ci immettiamo nella prospettiva sopra descritta queste strategie d’impresa potrebbero sembrare assolutamente irrazionali e nocive per la sua sopravvivenza sui mercati. Se osserviamo invece la questione nella prospettiva delle motivazioni intrinseche e della qualità relazionale nell’ambiente di lavoro ne capiamo invece scopo e significato. 1. 6. 1. La partita tra responsabilità sociale d’impresa e performance è aperta: evidenza empirica Dunque la partita competitiva tra imprese socialmente responsabili e imprese che non si pongono il problema è in realtà aperta. I quattro potenziali effetti positivi della responsabilità sociale d’impresa sulla performance descritti in precedenza possono controbilanciare l’effetto diretto di aumento di costo generato dalla maggiore cura per gli stakeholders diversi dagli azionisti. Le evidenze empiriche a questo proposito confermano questo assunto con risultati molto interessanti. In un lavoro con Stefania Di Giacomo e Damiano Pennacchio (2005) abbiamo seguito per 13 anni un campione di circa 1000 imprese americane suddiviso tra imprese classificate come socialmente responsabili dal Domini index e campione di controllo di imprese tradizionali. L’analisi econometrica su dati panel (osservazione ripetuta delle stesse imprese in diversi momenti nel tempo), ha dimostrato che le imprese socialmente responsabili hanno avuto, nell’intervallo di tempo considerato, un ROE (rendimento del capitale azionario) uguale o inferiore a quello delle imprese del campione di controllo, ma un valore aggiunto significativamente superiore e una maggiore efficienza produttiva. Queste evidenze appaiono profondamente coerenti con il ragionamento sugli effetti della scelta di responsabilità sociale sopra enucleato. Se infatti la scelta di responsabilità sociale

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comporta uno spostamento di strategia dall’obiettivo unico della massimizzazione della ricchezza degli azionisti a quello della soddisfazione dell’interesse di una più variegata platea di portatori d’interesse, è evidente che il rendimento del capitale azionario può risentirne. Allo stesso tempo però, le nostre considerazioni sulla capacità potenziale di aumentare la motivazione dei dipendenti, di segnalare efficacemente la propria reputazione e la qualità del prodotto in un contesto di imperfezione informativa, e di ridurre i rischi di conflitto con gli stakeholders, sottolineano che le imprese con maggiore responsabilità sociale hanno le potenzialità per essere più produttive. Il risultato sul maggior valore aggiunto sembra confermare che questo genere d’impresa crea più valore, ovvero produce “torte” più grandi, ma distribuisce “fette” minori agli shareholders. Si consideri che lo studio analizza un campione di imprese profit e dunque non valuta le differenze di produttività tra imprese profit e la vasta platea di imprese con diversa natura (cooperative, imprese sociali di mercato). I suoi risultati si riferiscono agli effetti che un movimento dell’impresa profit verso una maggiore responsabilità sociale è in grado di generare. Se i risultati di questo lavoro, e di molti altri simili 9 sottolineano il nesso positivo tra responsabilità sociale e performance in termini di fatturato e valore aggiunto, e quello potenzialmente negativo tra responsabilità sociale e rendimento del capitale azionario, possiamo per questo concludere che la scelta di investire in una società socialmente responsabile è un cattivo affare per gli azionisti? La risposta è no! Per motivare la stessa dobbiamo osservare il comportamento dei due tipi di imprese attraverso la lente dei mercati azionari. Becchetti e 9

Tra i lavori che identificano una relazione positiva tra RS e performance si vedano Soloman and Hansen (1985); Pava and Krausz (1996); Preston and O’Bannon (1997); Ruf et al. (2001).

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Ciciretti (2006) 10 si pongono nella logica degli investitori finanziari seguendo lo stesso campione di imprese descritto in precedenza, per valutarne la performance borsistica. Tale performance va osservata sotto due dimensioni fondamentali, quella del rendimento dei portafogli e del loro rischio. Costruendo dunque due portafogli (uno contenente le imprese socialmente responsabili e uno quelle appartenenti al campione di controllo), la ricerca analizza la performance relativa di semplici strategie di gestione passiva, ovvero di strategie che acquistano il portafoglio e lo tengono per l’intero periodo oggetto di osservazione. Le prime evidenze di carattere descrittivo confermano i risultati dell’indagine precedente sulla produttività effettuata attraverso i dati di bilancio. I rendimenti del portafoglio delle imprese socialmente responsabili sono inferiori, ma anche la volatilità di tali rendimenti è inferiore. Ad una più accurata valutazione econometrica gli autori scoprono che, una volta corretti per il rischio, i rendimenti del portafoglio socialmente responsabili non sono più significativamente diversi da quelli del campione di controllo. Al contrario, è il rischio del portafoglio del campione di controllo ad essere significativamente più elevato. Il risultato è confermato sotto diverse metodologie di valutazione del rischio stesso. Le imprese del campione di controllo risultano più rischiose in termini di esposizione a i) shock sistematici non diversificabili (il classico coefficiente beta del modello di mercato che misura la sensitività dei rendimenti del portafoglio ai movimenti di un indice di mercato) e ii) shock di volatilità condizionata (all’interno di un modello stimato che tiene conto di due caratteristiche fondamentali della volatilità dei mercati azionari, ovvero della persistenza e dell’autocorrelazione).

10 Becchetti L. - Ciciretti R. (2006), Corporate Social Responsibility and Stock Market Performance, CEIS-SSRN Working Paper 79.

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Per quale motivo il portafoglio contenente i titoli delle imprese socialmente responsabili dovrebbe essere relativamente meno rischioso di quello del campione di controllo contenente imprese tradizionali? Esistono due interpretazioni possibili: una dal lato dell’offerta (relativa ai comportamenti delle imprese presenti nel portafoglio) e una dal lato della domanda (relativa ai comportamenti degli investitori finanziari). Dal lato dell’offerta, se il ragionamento alla Freeman riguardante la maggiore capacità delle imprese socialmente responsabili di ridurre i costi di transazione con gli stakeholders è valido, la scelta di responsabilità sociale ha evidentemente il vantaggio di ridurre una importante fonte di rischio per l’impresa e questo vantaggio si rifletterebbe sui corsi dei titoli azionari. Dal lato dalla domanda invece, i titoli potrebbero essere meno volatili per la diversa natura e il diverso comportamento degli investitori finanziari nei due portafogli. È, infatti, ragionevole supporre che nel capitale azionario dei titoli delle aziende socialmente responsabili la quota di investitori istituzionali “pazienti” sia significativamente più elevata (pensiamo al ruolo e al peso di investitori istituzionali come Callpers, ICCR ed altri citati in questo cap.: 1. 4. 2. La rilevanza e la capacità di contagio del risparmio socialmente responsabile, p. 219) e quella di investitori attenti al rendimento a breve, significativamente inferiore. Questa diversa natura degli investitori potrebbe spiegare, di per sé, il fenomeno osservato della minore volatilità dei corsi dei titoli. Per illustrare questa ipotesi con qualche evidenza empirica si osservi la Figura 3. 1 che descrive l’andamento della volatilità condizionata (quella che tiene conto dei fenomeni della persistenza e dell’autocorrelazione della volatilità, tipici dei mercati azionari) in un arco di tempo esteso. La volatilità condizionata del portafoglio dei titoli SR (linea continua) è significativamente inferiore a quella del portafoglio dei titoli del campione di controllo (linea tratteggiata). Inoltre, la differen-

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za sembra acuirsi attorno a due fasi critiche del mercato, quella dello scoppio della bolla speculativa sul Nasdaq del marzo 2000 e quella del periodo immediatamente successivo all’11 settembre 2001. La stessa natura dei due investitori (interessati soltanto al rapporto rendimento/rischio gli investitori nel portafoglio tradizionale, attenti anche al profilo della responsabilità sociale delle imprese e, quindi, meno sensibili alle sole variazioni di rendimento dei titoli, gli investitori nel portafoglio delle imprese socialmente responsabili) sembra suggerire comportamenti dal lato della domanda in grado di spiegare le dinamiche osservate nel grafico. FIGURA 3. 1 Dinamica della varianza condizionata (campione delle imprese socialmente responsabili e campione di controllo)

Legenda: ht_sr_trend2: varianza condizionata del portafoglio delle imprese socialmente responsabili sulla base della classificazione del Domini; ht_ca_trend2: varianza condizionata del portafoglio delle imprese appartenenti al campione di controllo

Fonte: Becchetti et al., 2004.

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Conclusioni

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Conclusioni

Le scienze sociali sono particolarmente complesse perché il fenomeno oggetto di studio (l’uomo) non ha comportamenti ripetitivi e, in larga parte, prevedibili come accade per molti dei fenomeni osservati nelle scienze fisiche. L’ulteriore complicazione nasce dal fatto che il “soggetto” osservato sviluppa processi di apprendimento e reazioni ottimali alle soluzioni politiche e sociali che le autorità decidono di adottare per perseguire degli obiettivi di benessere. Pertanto, il cambiamento dei suoi comportamenti può rendere inefficaci quegli interventi che erano stati pensati sulla base di quanto si era storicamente osservato avere una certa costanza nel tempo. Uno dei brani più magistrali – che mette in evidenza le difficoltà del compito degli studiosi di scienze sociali – è sicuramente quello nel quale Pascal confronta i due ben noti principi dello spirito matematico (esprit de geometrie) e dell’intuizione (esprit de finesse). In questo confronto Pascal sottolinea come «nell’uno [spirito matematico] i principi sono evidenti, ma lontani dall’uso comune, di modo che si ha difficoltà a volgere la mente verso di essi per mancanza di abitudine; ma – per poco che la si volga ad essi –, i principi si scorgono appieno; e solo una mente del tutto guasta può ragionare malamente su dei principi così evidenti, che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito d’intuizione, i principi sono invece nell’uso comune e davanti agli occhi di tutti. Non occorre volger la testa o farsi violenza; basta avere buona vista, ma buona davvero, perché i principi sono così delicati e in così gran numero, che è qua-

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si impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, l’omissione anche di un solo principio induce in errore; e così occorre una vista molto limpida per scorgerli tutti, e una mente retta per non ragionare in modo errato su dei principi conosciuti». Keynes riassumeva efficacemente la difficoltà di mettere d’accordo “spirito matematico” e “intuizione” dicendo che il dilemma degli economisti è nella scelta tra lo sviluppare proposizioni “esattamente sbagliate” (privilegiando lo spirito matematico a scapito dell’intuizione) o “vagamente vere” (privilegiando l’intuizione a scapito dello spirito matematico). La tesi sviluppata in questo libro è che parte di questo scarto può essere colmato rifondando l’oggetto di osservazione dell’economia (l’homo oeconomicus) e le sue preferenze sulla base dei nuovi risultati empirici degli studi sulla felicità e attingendo al tesoro dei risultati che provengono dalle altre discipline sociali. Superando pertanto quella “specializzazione funzionale” che ha fatto sviluppare le diverse discipline a compartimenti stagni, finendo spesso per condurre i loro diversi esponenti a proporre soluzioni paradossali e, tra loro, incompatibili. Per superare il problema della “Torre di Babele” e dell’incomunicabilità dei diversi linguaggi, la scienza economica deve colmare oggi un significativo ritardo che le deriva dall’essersi sviluppata rigorosamente con “spirito matematico” su di un fondamento parziale e limitato, ovvero su un modello antropologico di persona, centrato quasi unicamente sul principio del self interest (autointeresse miope) trascurando del tutto altri aspetti fondamentali della persona come la symphaty (l’attenzione e la cura per i propri simili) e il commitment (il dovere morale), nonché tutti i più recenti sviluppi dell’antropologia, che sottolineano come la dimensione relazionale dell’individuo complementi in maniera fondamentale il principio costitutivo dell’«individua sostanza razionale». I numerosi dati empirici commentati in questo libro evidenziano una serie di paradossi che rendono impossibile conti-

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Conclusioni

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nuare a rappresentare l’uomo unicamente attraverso la camicia di forza dell’autointeresse miope. Il ruolo dei beni relazionali nella felicità, la presenza di una quota consistente di consumatori disposti a pagare per il valore sociale e ambientale dei prodotti, il paradosso di una quota ragguardevole di individui disposti a “lavorare per nulla”, impegnandosi nel volontariato, il ruolo preponderante delle motivazioni intrinseche nelle determinanti della produttività sono tutte sfide alla concezione parziale e limitata di persona fondata sull’autointeresse miope. Questo “sguardo avvilente” sull’uomo produce danni molteplici. Ignorando il valore fondamentale della legge di moto della virtù e il ruolo fondamentale della stessa e delle relazioni nello sviluppo del senso civico degli individui – e dunque di tutte quelle qualità sociali che li rendono buoni cittadini, favorendo il funzionamento del sistema economico – esso finisce per generare politiche miopi che, oltre a incidere negativamente sulla felicità individuale, hanno effetti controproducenti sugli stessi obiettivi di sviluppo socioeconomico, che si vogliono perseguire. Ci rifacciamo ancora una volta a Pascal per evidenziare il dramma dell’“incomunicabilità” che può sorgere tra economisti tradizionali, che sviluppano rigorosamente i loro modelli sulla base di una visione parziale dell’uomo, e non economisti, dotati di un buon spirito d’intuizione ma sprovvisti delle qualità matematiche e, quindi, incapaci di dialogare in maniera dialettica con i primi. Pascal ricorda che «i matematici, che sono soltanto tali, hanno dunque una mente retta, purché si spieghino loro bene tutte le cose con definizioni e principi; altrimenti sono falsi e insopportabili, perché non sanno ragionare rettamente che su principi ben chiariti. E gli spiriti intuitivi che sono soltanto tali non possono avere la pazienza di scendere fino ai primi principi delle cose speculative e d’immaginazione, che non hanno mai incontrato nel mondo, e che sono del tutto fuori dell’uso comune».

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La sfida dello scienziato sociale, oggi, è quella di riuscire a mettere sempre più assieme questi due principi per evitare i due estremi nei quali si deve scegliere tra l’essere “esattamente sbagliati” o “vagamente corretti”. Per fortuna, la prassi della vita economica e sociale talvolta precede le sistematizzazioni teoriche perché le intuizioni degli individui e i loro desideri insopprimibili di costruire spazi sociali più vivibili per fortuna non possono attendere la definizione di nuovi contesti teorici e paradigmi culturali. Nell’ultima parte del nostro volume abbiamo dedicato spazio all’analisi sul campo di alcuni segni di speranza che evidenziano un modo nuovo e integrato di fare economia nel quale le diverse dimensioni della persona sono presenti e si dimostra concretamente come le potenzialità del mettere al centro l’uomo in tutta la sua ricchezza possano avere effetti significativi sulla felicità individuale e sul funzionamento dei sistemi socioeconomici. In questo ambito conclusivo speriamo di aver evitato il rischio di “partigianeria” che potrebbe indurci a sopravvalutare il peso e il ruolo di queste iniziative nell’attuale contesto. Quello che rivendichiamo a questo proposito è, però, uno dei fondamentali ruoli della cultura e della scienza sociale che è quello di indicare sentieri non ancora battuti ma possibili! La neutralità dello scienziato sociale è un’assoluta chimera in quanto uno dei suoi più grandi poteri è quello di scegliere l’oggetto del proprio studio e la parte di realtà da fotografare. Una scelta che è sempre una pietra gettata nello stagno e che può avere conseguenze importanti sulla propensione degli individui a soffermarsi sui limiti che appaiono insuperabili o sulle potenzialità di sviluppo che potrebbero consentire loro di superare tali limiti.

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Postfazione

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Postfazione

La speranza di costruire mondi sempre migliori ci impedisce di accontentarci delle conquiste di ogni umano penultimo. Il realismo e l’attenzione alle compatibilità strutturali del sistema socioeconomico ci consente di evitare la tentazione che il desiderio di costruire città dell’uomo sempre più abitabili produca in realtà dei mostri… (L’autore)

Viviamo animati dall’intuizione di un amore assoluto, dall’esperienza, talora fugace, di un abbraccio profondo tra noi e qualcosa di radicalmente “Altro” (ricevuto in qualche momento della nostra vita), che in questa vita è promessa di una pienezza che resta sempre incompiuta. La creatività e costruttività della vita sta nel ripetere la dinamica di questo abbraccio nei confronti dei nostri simili trasmettendo quel dono e quella fiducia che a loro volta li animerà. Questa esperienza è evidente nel sorriso e nella carezza del genitore al figlio (o in una qualche relazione sostitutiva del medesimo genere), che alimenta la voglia di crescere di quest’ultimo e che il genitore stesso scopre così eguale a quel sorriso e carezza, ricevuti a sua volta nell’infanzia. Il nostro stesso fare produttivo si fonda ed è alimentato dalla profondità di quell’abbraccio e di quella fiducia ricevuta. La qualità relazionale sul piano dell’essere – realizzata attraverso il canale fondamentale del dono e della trasmissione di fiducia –, si traduce e determina conseguenze sulla dimensione del fare!

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Dov’è questa scintilla profonda nella cultura contemporanea e nell’uomo la cui felicità è raccontata dipendere dalla massimizzazione dei beni consumati? Dov’è la consapevolezza dell’importanza della profondità delle relazioni e del donare e ricevere fiducia sulla nostra operosità e capacità di fare? L’homo oeconomicus, caricatura della persona, disegnato nella prospettiva unidimensionale dell’accumulo, è capace di fondare relazioni profonde che, a loro volta, creano uomini in grado di dare e ricevere fiducia (alimentando produttività e operosità)? Se questa linea fondamentale dell’identità della persona viene meno, la dimensione del fare non scompare certo del tutto, ma può essere illuminata soltanto da una luce inferiore, quella della necessità e del bisogno, che alimenta solo parzialmente la produttività dell’uomo non pienamente libero. Se viene meno la necessità e il bisogno, la motivazione all’agire scompare e resta il consumatore interstiziale che vive dimensioni relazionali “liquide” (proprio come sono liquide le attività finanziarie) e non è in grado di fondare relazioni profonde e di creare motivazioni profonde all’operosità e all’agire. E il consumatore interstiziale, non più stimolato dalla dura legge del bisogno né alimentato dalla fiducia dell’abbraccio ricevuto, non ha più alcuna motivazione profonda per creare valore economico e sociale. Se teniamo conto di questa prospettiva fondamentale ci accorgiamo che la nostra cultura ha sviluppato e approfondito due dimensioni che rappresentano altrettanti presupposti necessari ma non sufficienti a dare pienezza alla vita umana. Quelli della libertà e della giustizia. Restando afasica sulla terza dimensione – quella della fraternità e della relazione –, essa diviene incapace di narrare la dimensione del dono reciprocato che rappresenta l’essenza di quell’abbraccio fondamentale e costitutivo della nostra esperienza umana di cui abbiamo parlato sopra.

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Postfazione

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È come se nell’organizzare una partita di calcio si sia riusciti a portare gli atleti fino alla soglia del campo (la libertà di fare), siano state scritte dettagliate regole del gioco per risolvere ogni tipo di controversie (la giustizia), ma nessun allenatore abbia suggerito alcuna tattica o strategia di gioco e, dunque, i giocatori non sappiano in realtà cosa fare una volta sul terreno. Insomma la terza fondamentale dimensione, quella del dono e della reciprocità, resta confinata nel privato o, al massimo, nel vissuto e nelle esperienze delle associazioni della società civile, ma da un punto di vista culturale resta figlia di un dio minore e dunque fatica a far sentire la sua voce. È evidente che questo accade in parte perché lo spazio della fraternità e del dono non può essere normato e imposto dall’alto, ma la questione diventa allora se il sistema socioeconomico e le sue regole fanno abbastanza per dare spazio ed esaltare le potenzialità di questa dimensione. Uno dei compiti fondamentali della cultura contemporanea è dunque oggi quello di integrare la dimensione dell’essere con quella del fare, approfondendo l’importanza dello scambio di doni e dell’accordare fiducia quali strumenti che collegano il piano delle relazioni a quello dell’operosità individuale e sociale. La dicotomia tra il mondo del sociale (fatto di relazioni secondarie fondate su libertà e giustizia e su rapporti contrattuali) e quello del privato (fatto di relazioni primarie fondate sullo scambio di doni e sulla capacità di dare e ricevere fiducia) produce seri danni e ci impedisce di realizzare il nostro potenziale nella dimensione economico-sociale perché non tiene conto che è sempre tutto l’uomo, e non una sua parte, ad agire sia nel sociale che nel privato. Solo su questa linea è possibile comprendere alcuni famosi paradossi empirici come quello di Akerlof nel quale un dono ricevuto da un gruppo di lavoratori viene reciprocato e contraccambiato attraverso il dono di una maggiore produtti-

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vità, o quello di Andreoni dove gli individui non considerano il prelievo fiscale, destinato alla realizzazione di un’opera sociale, un sostituto imperfetto di una loro donazione diretta a favore di questa opera. Questi paradossi appaiono incomprensibili nella prospettiva monodimensionale dell’individuo isolato che massimizza consumi ed è animato prevalentemente da incentivi monetari. Sono incomprensibili persino nella dimensione della giustizia e della redistribuzione sociale. Essi possono essere decifrati solo tenendo in considerazione la prospettiva delle relazioni che si suggerisce come la nostra identità essenziale, e dunque la nostra felicità, sia determinata dalla qualità della relazione che ha come fattore di alimento la caratteristica fondamentale della prossimità a colui con il quale ci si pone in relazione. Questo volume rappresenta un piccolo tentativo di sviluppare la dimensione trascurata, in una prospettiva di integrazione di saperi tra diverse discipline. Nella prima parte del volume si è partiti dagli studi sulla felicità per estrarre dalla verifica empirica gli elementi essenziali che fondano la felicità umana e che dovrebbero pertanto essere argomenti essenziali in ogni funzione di utilità adottata come punto di partenza per descrivere l’individuo da parte degli scienziati sociali. Nella seconda parte si è inteso evidenziare i paradossi e gli infortuni in cui la cultura incorre quando parte da una visione parziale dell’uomo che non integra tutti i suoi elementi costitutivi, con effetti controproducenti rispetto allo stesso obiettivo di incrementare la produttività individuale in una società affrancata dai bisogni primari. Nella terza parte si è riflettuto su alcune esperienze dell’economia socialmente responsabile che, cercando di riportare la dimensione del dono “reciprocante” e dell’abbraccio che trasmette fiducia, rappresentano esperimenti e tentativi di in-

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Postfazione

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tegrare il piano dell’essere e quello del fare, collegando operosità sociale e realizzazione della persona. C’è ancora molto da fare per scoprire tutti i segreti della più importante fonte di energia a nostra disposizione, quella delle relazioni interpersonali!

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Oltre l’uomo economico

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Ringraziamenti

Come per le tappe precedenti (Finanza etica. Commercio equo e solidale con Luigi Paganetto e Felicità sostenibile) la realizzazione di questo volume non sarebbe stata possibile senza i tanti incontri avuti in giro per l’Italia su questi temi e senza gli stimoli, i commenti e suggerimenti ricevuti nelle diverse tappe. Per questo motivo ringrazio tutti i colleghi con cui ho discusso questi temi e, in particolare – oltre ai colleghi di Econometica – scusandomi sin d’ora per le inevitabili omissioni: Fabrizio Adriani, Simon Anderson, Tony Atkinson, Stefano Bartolini, Kaushik Basu, Luigi Borzaga, Françoise Bourguignon, Michele Bagella, Luigino Bruni, Roberto Cellini, Subal Kumbakhar, Francesco Daveri, Luca Debenedictis, Matteo Della Posta, Stefania Di Giacomo, Jerry Dwyer, Hernan Fitte, Pierluigi Grasselli, Iftekhar Hasan, Mark Hayes, Luciano Hinna, Luca Lambertini, Robert Lensink, Jim Lothian, Giuseppe Mastromatteo, Giancarlo Marini, Fabrizio Mattesini, Marcello Messori, Geoff Moore, Carlo Pietrobelli, Luigi Paganetto, Laura Pelloni, Gianfranco Pennacchio, Rosetta Pepe, Federico Perali, Gustavo Piga, Marco Porta, Pier Luigi Porta, Furio Rosati, Nicola Rossi, Lorenzo Sacconi, Neri Salvadori, Pasquale Scaramozzino, Stefano Semplici, Francesco Silva, Nazaria Solferino, Robert Sugden, Patrizio Tirelli, Gianni Toniolo, Giovanni Tria, Clas Whilborg, Stefano Zamagni, Luca Zarri, Marco Zupi. Non posso dimenticare – tra gli esponenti del mondo politico e delle associazioni – tutti coloro più attenti a queste te-

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Ringraziamenti

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matiche con i quali ho discusso i temi trattati e tra essi: Helen Alford, Paola Binetti, Luigi Bobba, Francesco Compagnoni, Vittorio Emanuele Falsitta, Paolo Foglizzo, Alberto Monticone, Riccardo Moro, Luigi Nieri, Gianni Notari, Edoardo Patriarca, Savino Pezzotta, Ermete Realacci, Paolo Tarchi. Un ringraziamento va, inoltre, agli studenti dei Master e a coloro che hanno partecipato ai seminari sui temi del libro nelle Università di Bari, Bologna, Catania, Copenhagen, Forlì, Macerata, Milano Bicocca, Newcastle, Palermo, Parma, Perugia, Pisa, Roma - Tor Vergata, Roma - La Sapienza, Trento e Verona. Un arricchimento fondamentale per la stesura del libro è nato dagli scambi intercorsi con tutti gli amici della Banca Popolare Etica e del Comitato Etico della Banca, di Etimos e del Commercio equo e solidale la cui preziosa azione sul campo ha rappresentato una delle principali fonti di ispirazione che hanno condotto alla stesura di questo libro.

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Oltre l’uomo economico

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Indice dei nomi

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Indice dei nomi

Acemoglu D.: 65 Agostino, sant’: 13, 111 Akerlof G.: 42, 142, 143, 247 Alesina A.: 61, 99 Alford H.: 251 Alighieri D.: 107 Anderson S.: 250 Andreoni: 247 Andriani F.: 250 Argyle: 61 Ashenfelter O.: 99 Atkinson T.: 250 Auci S.: 149, 153, 189 Baccarini E.: 40 Bagella M.: 250 Bandyopadhyay S.: 189, 239 Bartolini S.: 250 Basu K.: 99, 109, 250 Becchetti L.: 34, 99, 121, 149, 153, 178, 216, 217, 234, 237 Becker G.: 35 Bénabou R.: 146, 178 Binetti P.: 251 Bird K.: 206, 237 Blanchflower: 61 Bobba L.: 251 Boezio: 13, 40, 111, 176 Boris J.P.: 214

Borzaga L.: 250 Bourguignon F.: 250 Brown R.M.: 239 Bruni L.: 36, 46, 99, 100, 250 Buber M.: 40, 176 Buckley G.: 99 Buffet W.: 224 Caiazza S.: 99, 153 Camargo J.: 99 Card D.: 35, 99 Carneiro F.: 100 Carson R.T.: 183, 238 Casper: 40 Cellini R.: 250 Cicchese G.: 41 Ciciretti R.: 234 Clark: 61 Compagnoni F.: 251 Confucio: 135 Conley T.G.: 100 Copeland B.R.: 189, 237 Costa: 80 Costantino M.: 34 Cummins: 80 Dalai Lama: 19 Daveri F.: 250 Davidson R.: 100 De Pelsmacker P.: 206, 237

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Indice dei nomi

Debenedictis L.: 250 Deci E.L.: 118, 178 Delacroix J.: 100 Della Posta M.: 250 Di Giacomo S.: 232, 237, 250 Di Tella R.: 26, 99, 100 Diamond P.: 183, 238 Diener E.: 29 Diener R.: 29 Driesen L.: 206, 237 Durlauf S.N.: 35, 100 Dusenberry: 19 Dwyer J.: 250 Easterlin R.A.: 26, 32, 33, 35, 36, 63, 100 Ebner F.: 40 Edgeworth: 135 Ekman P.: 23, 100 El-Hamidi F.: 100 Esfahani H.S.: 100 Falk A.: 117 Falsitta V.E.: 251 Fehr E.: 117 Fitte H.: 250 Foglizzo P.: 251 Freeman R.B.: 127, 129, 228, 237 Frey B.S.: 26, 56, 61, 101, 118, 147, 148, 178, 237 Friedman M.: 238 Friesen W.: 100 Gallie: 61 Galor O.: 101 Gandhi: 47 Gates B.: 224

Gneezy U.: 145, 147, 178 Graham C.L.: 29 Grasselli P.: 250 Grossman G.: 189, 238 Gui B.: 44 Guiso L.: 203, 238 Hansen K.: 233, 240 Hasan I.: 250 Hausman J.: 183, 238 Hayes M.: 238, 250 Heikkilä K.: 101 Hinna L.: 250 Hirsch: 19, 31 Hobbes Th.: 176 Holbrook M.B.: 132, 178 Honkanen R.: 101 Hughes D.: 206, 237 Hulme: 99 Hume D.: 176 Janney J.J.: 239 Johnson S.: 65 Kanheman D.: 39, 70, 74 Kant E.: 140 Kaprio J.: 101 Katz: 127, 149 Keynes J.M.: 55, 81, 88, 242 King M.L.: 209 Koivumaa-Honkanen H.: 23, 101 Koskenvuo M.: 101 Krausz J.: 233, 239 Kreps D.M.: 118, 178, 238 Krueger A.B.: 99, 189, 238 Kumbakhar S.: 250 Kutznetz: 189, 201

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Lamacchia A.: 40 Lambertini L.: 250 Layard R.: 36 Leclair M.S.: 101, 238 Lemos S.: 101 Lensink R.: 250 Levinas E.: 13, 40, 176 Lothian J.: 250 Luhmann: 10, 138 MacCulloch R.: 26, 99, 100 Maddison D.: 66 Malthus: 19 Manis M.: 23, 101 Marini G.: 250 Marshall: 19 Martini M.: 40 Marx K.: 68, 69 Maslow: 200 Mastromatteo G.: 250 Mattesini F.: 250 Mayman M.: 23, 101 Messori M.: 250 Michelutti M.: 129 Mitchell R.C.: 183, 238 Moav O.: 101 Mondadori B.: 34 Montanelli I.: 214 Monticone A.: 251 Moore G.: 101, 217, 239, 250 Morduck J.: 101 Moro R.: 251 Mosley: 99 Mounier E.: 13, 40, 176 Muralidhar K.: 239 Nieri L.: 251 Nietzche F.: 66, 69, 103

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Notari G.: 251 Oberholzer-Gee F.: 238 Osterloh M.: 147, 148 Oswald A.: 26, 61, 100 O’Bannon: 233, 239 Pace N.: 121, 178 Paganetto L.: 216, 237, 250 Panayotou T.: 189, 239 Paolo, san: 140, 141 Pascal B.: 241, 243 Pasolini P.: 37 Patriarca E.: 251 Paul K.: 239 Pava L.: 233, 239 Pavot W.: 23, 101 Pelloni L.: 250 Pennacchio D.: 232 Pennacchio G.: 250 Pepe R.: 250 Perali F.: 250 Pettinato S.: 29 Pezzotta S.: 251 Pietrobelli C.: 250 Piga G.: 250 Pigou: 26 Pinnacchio D.: 237 Porta M.: 250 Porta P.L.: 99, 100, 250 Post S.G.: 23, 73 Preston L.: 233, 239 Psacharopoulos G.: 35, 101 Quah D.T.: 35, 100 Ramirez M.T.: 100 Rando L.: 149, 153, 189

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Ray D.: 213, 239 Rayp G.: 206, 237 Realacci E.: 251 Redfern A.: 216, 239 Rehdanz K.: 66 Ricoeur P.: 13, 40, 46, 176 Rigobello A.: 40 Robinson J.: 65 Rosati F.: 250 Rose A.: 143 Rosenberg: 127, 149 Rosenzweig F.: 13, 40, 176 Rossi N.: 250 Ruf B.M.: 233, 239 Russel: 61 Rustichini A.: 145, 147, 178 Ryan R.M.: 118, 178 Sacconi L.: 250 Salgado S.: 218 Salop S.: 115, 178 Salvadori N.: 99, 250 Sapienza P.: 203, 238 Scaramozzino P.: 250 Schindler R.M.: 132, 178 Schweitzer A.: 19 Scitovsky: 38 Selden T.M.: 189, 239 Semplici S.: 250 Sen A.: 13, 68, 69, 76, 77, 86, 89, 136, 140, 178, 180, 239 Shafik N.: 189, 239 Shapiro C.: 115, 178 Shedler J.: 101 Silva F.: 250 Simeone (re di Bulgaria): 85 Smith A.: 19, 45 Snedker P.: 216, 239

Sobel J.: 117, 149 Solferino N.: 237, 250 Soloman R.: 233, 240 Song D.: 189, 239 Spector B.: 147 Stanca L.: 36, 46 Stern D.: 189, 240 Stiglitz J.E.: 115, 178 Stutzer A.: 26, 32, 56, 61, 101 Sugden R.: 136, 250 Tarchi P.: 251 Taylor M.: 189, 237 Temple J.: 35, 101 Terrell K.: 100 Tertulliano: 204 Tirelli P.: 250 Tirole J.: 146, 178 Toniolo G.: 250 Tremonti G.: 161 Tria G.: 250 Tversky A.: 70, 74 Udry C.R.: 100 Uhlaner C.J.: 44 Van P.H.: 99, 109 Veblen: 19 Viinamäki H.: 101 Whilborg C.: 250 Yellen J.L.: 115, 143, 179 Zamagni S.: 250 Zarri L.: 250 Zingales L.: 203, 238 Zupi M.: 250

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Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.

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I. L’economia della felicità . . . . . . . . . . . . . 1. I nuovi studi sulla felicità: perché siamo tornati ad occuparcene? . . . . . . . . . . . . . . . . .

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2. Il rapporto tra reddito e felicità . . . . . . . . .

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2. 1. Tenere il passo dei Jones (e di tutti i lontani che la globalizzazione rende “vicini”) . . . . . 2. 2. Il paradosso di Easterlin e i contadini keniani. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. 3. Felicità e ore di televisione . . . . . . . . . 2. 4. Sazi e disperati? La lezione di Scitowsky sul rapporto tra comfort e stimoli . . . . . . . . . . 3. Felicità e vita di relazioni: alcuni paradossi introduttivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. 1. Beni relazionali: sintetica definizione e loro caratteristiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. 2. Al cuore del paradosso: il rapporto tra beni relazionali, reddito e felicità . . . . . . . . . . . 3. 2. 1. Il tassista di Recife . . . . . . . . . . 3. 2. 2. Il ritorno di padre John in Congo . . 4. I dati su felicità e relazioni . . . . . . . . . . . . 4. 1. Il puzzle del rapporto tra felicità ed età . . . 4. 2. Felicità e clima . . . . . . . . . . . . . . .

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4. 3. Il rapporto tra felicità e religione . . . . . . pag. 66 4. 4. Felicità come assenza di dolore? Un paradosso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 69 4. 5. Prima l’uovo o la gallina? Il problema del nesso di causalità tra la felicità e le sue determinanti » 72 5. La felicità come criterio per le scelte di politici ed economisti? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. 1. La polemica tra felicità e capabilities . . . . 5. 2. La critica della set point theory (tutti gli shock si riassorbono completamente). . . . . . . 5. 3. La miopia dell’europeismo degli ultimi decenni che ignora i risultati degli studi sulla felicità . 5. 4. Quale politico ha letto gli studi sulla felicità?. 5. 5. Cosa abbiamo imparato dagli studi della felicità: avvertenze per l’uso . . . . . . . . . . . . Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

II. Le sfide poste dall’economia della felicità: ridefinire l’homo oeconomicus . . . . . . . . . . 1. La torre di Babele e la sfida della complessità . . 1. 1. Economisti contro ambientalisti . . . . . . 1. 2. Economisti contro giuristi . . . . . . . . . . 1. 3. Economisti contro antropologi ed altri scienziati sociali . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. 3. 1. Avvitare bulloni o produrre idee? . . 1. 3. 2. Perché i sistemi di incentivazione tradizionale funzionano poco nell’azienda moderna? Motivazioni intrinseche e qualità delle relazioni nell’impresa postfordista . . . 1. 3. 3. Produttività e cura delle relazioni: un esempio viruoso . . . . . . . . . . . . . . . .

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1. 3. 4. «Lavorare per nulla»: il paradosso dei volontari e l’homo oeconomicus . . . . . pag. 120 1. 4. Una sintesi del problema della complessità e dei conflitti tra discipline . . . . . . . . . . . . » 132 2. Accettare la sfida della complessità . . . . . . . 2. 1. Il conflitto tra i “tolemaici” e gli eclettici . . 2. 2. Simpatia o dovere morale? Sen, Kant e san Paolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. 3. Il vantaggio dell’approccio eclettico: l’integrazione con le altre discipline . . . . . . . . . . 2. 4. Gli scandali societari e l’inasprimento delle regole: una controricetta paradossale . . . . . . . 2. 5. Un’obiezione ragionevole dei tolemaici . . . 2. 6. L’economia di zio Paperone e la “legge di moto della virtù” . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. 7. Le virtù sociali favoriscono l’attività economica: un esempio concreto . . . . . . . . . . . . 2. 8. Virtù, libertà e capacità («La libertà è nulla senza la capacità») . . . . . . . . . . . . . . . . 2. 9. La sostanza e l’accidente . . . . . . . . . . 2. 10. Il riduzionismo e la retorica del mercato. . 2. 11. Pari opportunità e crescita vanno di pari passo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. 12. Il venditore di lavatrici. . . . . . . . . . .

» 137 » 137 » 142 » 144 » 149 » 150 » 152 » 156 » 158 » 160 » 163 » 166 » 170

3. Un confronto finale riassuntivo tra il paradigma riduzionista e quello eclettico . . . . . . . . . .

» 173

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 181

III. Elementi per la rifondazione della teoria dell’homo oeconomicus e dell’impresa: cosa im-

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pariamo dagli studi dell’economia della responsabilità sociale? . . . . . . . . . . . . . . pag. 182 1. Agli antipodi dell’homo oeconomicus. Quanto conta il mondo delle preferenze non autointeressate (o non autointeressate in maniera miope)? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 182 1. 1. Disponibilità a pagare per l’ambiente . . . . » 184 1. 2. Disponibilità a pagare del consumatore socialmente responsabile: proposta di politica . . . » 208 1. 3. L’economia della responsabilità sociale e dei tre pilastri come passo in avanti nella democrazia economica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 213 1. 4. La rilevanza dell’economia della responsabilità sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 216 1. 4. 1. La rilevanza e la capacità di contagio del consumo socialmente responsabile . . . » 218 1. 4. 2. La rilevanza e la capacità di contagio del risparmio socialmente responsabile . . . » 221 1. 5. Perché tanta attenzione alle imprese?. . . . » 225 1. 6. Perché le imprese dovrebbero essere sensibili all’impulso dei risparmiatori e consumatori socialmente responsabili? . . . . . . . . . . » 226 1. 6. 1. La partita tra responsabilità sociale d’impresa e performance è aperta: evidenza empirica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 234 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 239

Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 243

Postfazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 247

Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 252

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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