Occhio mio dio. Il new american cinema 8849120583, 9788849120585

Questo testo, pubblicato per la prima volta nel 1971, costituisce una delle pochissime opere generali pubblicate in Ital

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Occhio mio dio. Il new american cinema
 8849120583, 9788849120585

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Premessa

Non ha destato meraviglia constatare recentemente che an­ che la neovanguardia cinematografica, cioè una articolazione specifica dell’Avanguardia rivisitata, è finita nel mirino della sempre più aggressiva critica revisionista. Dopo aver inquadra­ to le Avanguardie dei primi anni del Novecento, e in particola­ re quel loro superamento dialettico che è stato il Surrealismo, F interesse critico, almeno in Italia, si è volto verso lo sperimen­ talismo avanguardisti co che caratterizzò gli anni cinquanta e sessanta ed ebbe un rilevantissimo aspetto concernente il cine­ ma. Questo rinnovato interesse non è espressione di gruppi in­ tellettuali alla ricerca di antecedenti storici su cui fondare nuo­ vi sperimentalismi e neppure del movimento espresso dalla dia­ lettica fra Avanguardia e Restaurazione, movimento che ha ca­ ratterizzato gran parte del secolo scorso. Da un lato, infatti, la ricerca sperimentale avviene oggi prevalentemente sul piano delle nuove tecnologie, in particolare di quelle digitali, ed ha un interesse specificamente tecnico, molto importante certa­ mente, ma senza alcun rapporto con lo spirito polemico che caratterizzò le Avanguardie nella prima e nella seconda metà del Novecento. Dall’altro, la dialettica fra Avanguardia e Re­ staurazione, che aveva dato vita fra le due guerre alla “Tradizio­ ne del Nuovo”, sembra essersi estenuata, dopo l’esplosione del Sessantotto, in un nuovo richiamo all’ordine che potremmo definire, con un ossimoro, come l’instaurazione di un “ordine sociale eversivo”.

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Linteresse per le Avanguardie vecchie e nuove sembra invece oggi appartenere soprattutto a quelle correnti revisioniste, che hanno dominato il nostro orizzonte culturale a partire dagli an­ ni ottanta, caratterizzate dalla ricerca ossessiva di giudizi storici consolidati da capovolgere o, comunque, da ridimensionare drasticamente, sia in relazione alla vicenda storica che connota il ventesimo secolo sia, per quanto qui interessa particolarmen­ te, alla sua vita culturale e artistica. Vale la pena soffermarsi, sia pure sinteticamente, sulla di­ stinzione fra restaurazione e revisionismo per le implicazioni che essa comporta. La restaurazione che segue storicamente i movimenti avanguardistici tende a superarli “in positivo” rove­ sciando la loro polemicità verso tutta la cultura che li ha prece­ duti in sperimentazione di nuove forme espressive. Il cinema costituisce di questo processo un elemento molto significativo. Infatti, è proprio con il richiamo all’ordine, segui­ to alla prima guerra mondiale, nel cui crogiolo si è esaurita la furia negativa delle Avanguardie storiche, che il cinema si costi­ tuisce positivamente come linguaggio autonomo, capace di una propria autentica comunicazione culturale e artistica (la scuola sovietica e l’espressionismo critico ne sono esempi illuminanti). Allo stesso modo, la reazione all’ Underground americano, sicu­ ramente la più radicale delle neovanguardie cinematografiche, non si è limitata a dar vita all’Expanded Cinema e al Cinema della Trasgressione, ma ha contribuito sostanzialmente a rinno­ vare anche il linguaggio di quel cinema hollywoodiano che i filmakers sotterranei avevano destrutturato impietosamente. La critica revisionista, viceversa, non si pone come antitesi alle avanguardie (per essa la dialettica è “orrore e scandalo”), bensì vi si contrappone antinomicamente, cioè tende a negarle, a rimuoverle, banalizzandole e riducendole a fenomeni poco si­ gnificativi sopravvalutati dagli storici per ragioni ideologiche. In realtà si tende ad esorcizzare tutto ciò che può essere identifica­ to con un “movimento che nega lo stato di cose esistente”, cioè

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ogni espressione della “forza del negativo”, perché non si tollera che sia messo in discussione il mondo com’è. Ciò che contrad­ dice Ì1 “migliore dei mondi possibili” deve essere ridotto a feno­ meno trascurabile o privato di senso. Anche per questo sembra estremamente opportuno riaprire un confronto critico sulle avanguardie, la loro incidenza sulla cultura del Novecento e la loro eventuale influenza sulla condizione delfArte contempo­ ranea. In questo senso va intesa la riproposta del testo, mai più ri­ edito dalla sua apparizione nel 1971, che costituisce una delle pochissime opere generali pubblicate in Italia sul cinema under­ ground americano; probabilmente quella che offre il panorama più completo di questa straordinaria stagione del cinema statu­ nitense per quanto riguarda le opere. Accanto ad essa vanno certamente citate e II New American Cinema, curato da Adriano Aprà per la Ubu libri nel 1984, e II grande occhio della notte, che Paolo Berretto ha curato per Lindau nel 1990, opere più tarde, quindi maggiormente controllate criticamente e con un certo spazio lasciato opportunatamente alla riflessione teorica. Il testo di Alfredo Leonardi, fìlmaker egli stesso, conserva però l’imme­ diatezza con cui fu scritto dopo il soggiorno di circa un anno del suo autore negli States e, anche se mantiene i limiti di tale immediatezza, fornisce un quadro della produzione under­ ground sulle due coste pressoché esauriente. Certo, alcuni giudizi sembrano oggi datati, è naturale, co­ m’è naturale che vi siano alcune discontinuità nel ritmo esposi­ tivo e qualche caduta di tensione critica, ma l’opera mantiene il valore di un affresco eseguito con l’entusiasmo e la passione di chi vive direttamente, a contatto con opere e autori, una grande esperienza culturale. Sicuramente si tratta di un testo molto si­ gnificativo al fine di riaprire un discorso sulla neoavanguardia cinematografica colta nella sua punta più alta, cioè in quell’ Un­ derground americano che è teoricamente e storicamente un rife­ rimento obbligato per tutta le Neoavanguardia. Esso esprime

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nel modo più compiuto la tendenza neoavanguardistica alla translinguisticità, cioè all’assunzione di un linguaggio universale costituito da segni separati dai referenti e ridotti a significanti scissi dai significati, vale a dire un linguaggio sottratto alla se­

manticità comune. In piena sintonia con tutti i movimenti neovanguardistici, il cinema underground sviluppa un linguaggio che costituisce la negazione anarchica della totalità alienata dei rapporti socia­ li comunicativi (nella fattispecie, tutto il cinema esistente) e l’instaurazione di una comunicazione altra, come rovescia­ mento della comunicazione esistente in quanto comunica, se­ condo la celebre formula di Marcuse, la rottura della comunica­ zione. Questa critica della comunicazione, in quanto critica della lingua attraverso cui il sistema dei rapporti sociali alienati si ri­ produce manipolando le coscienze, si esprime come reinvenzio­ ne del linguaggio cinematografico in forme contestative del ci­ nema stesso. L’ambito in cui opera la neovanguardia è infatti un contesto sociale in cui l’immaginario cinematografico si è iden­ tificato con la realtà, con la vita (si pensi al cinema classico hollywoodiano), una identificazione per cui il cinema appare e si presenta come lingua comune, lingua naturale, immediata­ mente fruibile perché aderente alle cose, unita al mondo senza mediazioni, cioè senza uno spazio critico che riveli la forma ideologica in cui si realizza concretamente l’unità di lingua e realtà. Ecco che il cinema underground americano, in forma più radicale delle neovanguardie cinematografiche europee, si pone come una critica del vedere, del cinema inteso come finestra sul mondo, del cinema come rappresentazione della realtà. La sin­ tassi visuale viene destrutturata, la semantica frantumata, le im­ magini (i segni linguistici) strappate alla loro referenzialità costi­ tuita e assunte come significanti dei quali è soppresso il signifi­ cato. Questa operazione costituisce sostanzialmente il tentativo di instaurare, come si è detto, una comunicazione altra, una co­

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municazione al di là o al di fuori o al di sotto {underground ap­ punto) di quella esistente che viene così negata. Queste premesse, sintetiche fino a rischiare la schematicità, sono parse le necessarie “istruzioni per l’uso” da fornire al letto­ re che si appresta a riconsiderare un fenomeno il quale, da un lato, è storicamente concluso e filologicamente sistemato, dal­ l’altro, è ancora la straordinaria rivelazione che un altro mondo è possibile come apparve ad Alfredo Leonardi alla fine degli an­ ni sessanta.

Vittorio Boarini

Introduzione

A più di trentanni dalla sua nascita, il cinema americano d’avanguardia, sperimentale, indipendente, underground - co­ me è stato variamente definito — è più sotterraneo che mai. Questa è la netta impressione che ci si forma vivendo a New York e che il passare dei mesi non fa che confermare. La Film­ makers Cinematheque, vetrina dei nuovi film voluta e creata a prezzo di infinita pena da Jonas Mekas, con l’aiuto soprattutto di Shirley Clarke, non ha mai ricevuto l’agibilità delle autorità cittadine a causa di ridicoli cavilli burocratici e si trascina in in­ cessante esilio da un posto all’altro, ospite di musei, gallerie d’arte, sale cinematografiche, portata a spalle dall’indefettibile e misericordioso Jonas. Ed egli resta il motore primo, oltre che promotore, di un movimento i cui rami prolificano in estensio­ ne ma che è difficile cogliere in tutta la sua evidenza in un luo­ go sia pur calamitante e ‘centrale’’ come New York. Gli autori che ci vivono spariscono ovviamente nel magma colossale e brulicante della città e, come tutti, si barricano nelle loro case e studi, si vedono a piccoli gruppetti di amici, non tutti necessariamente film-makers, cosicché rarissimamente si può assistere a una loro grossa riunione, e contattarli uno per uno è faticoso e dispersivo. Sembra non fosse così negli anni attorno al 1962-63, perio­ do di fervida ed effìmera attività creativa, ma ora la situazione si è tanto radicalizzata che o si fa parte dell’establishment o lo si combatte apertamente su di un piano politico; terreno per gli

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artisti borghesi che resistono all’integrazione totale e sono votati all’arte per l’arte ce n’è sempre meno, e la vita è sempre più gra­ ma, così fra 1 due fuochi: il perdurante disinteresse della bor­ ghesia e le rudi critiche della sinistra che non concepisce come ci si possa ancora occupare della propria autoespressione quan­ do tanti squilibri e ingiustizie minacciano la vita dei più. Anche qui gli studenti hanno affrettato questo processo di chiarifica­ zione, e io che per anni ho nuotato le acque profonde del mio io capisco ora, nello stesso tempo la autenticità e anche la ne­ cessità iniziale dell’opera e delle scelte di tanti film-makers, e il progressivo isolamento e la crescente minaccia di sterilità, oltre che — alla lunga — di inconsapevole opportunismo, che grava su tanti buoni e sinceri artisti. A furia di guardarsi in uno specchio dimenticano che il vasto mondo si muove e progredisce senza di loro e si trovano alla fine soli, con l’unica compagnia dei loro tesori e sventure, destinati a una lenta asfissia per mancanza del­ l’ossigeno derivante da un contatto vitale col loro popolo. La società americana è in questo senso implacabile ed è questo il suo premio per lo sfrenato culto dell’individuo che predica: ognuno — gelosissimo della propria peculiarità e irripetibilità — crea alte barriere intorno a sé e deperisce lentamente nel timore del prossimo e nella sfiducia di un generale miglioramento. I migliori artisti oggi languiscono preda di una crescente nevrosi e cercano di resistere isolandosi sempre più, vittime spesso con­ senzienti di un malessere che pian piano diventa l’unica sorgen­ te di creazione. Jack Smith, assediato in uno studio che mima masochisticamente nel suo disordine, squallore e sporca decre­ pitezza, la distruzione del quartiere ottocentesco in cui vive, operata giorno per giorno da speculatori senza scrupoli che di­ ventano sempre più attivi sotto la spinta espansionale del centro finanziario di Wall Street. Stan Brakhage, fuggito dalla città per tema di impazzire e asserragliato sulle montagne del Colorado ammantate per otto mesi l’anno di neve. Ron Rice, morto di stenti, prima ancora che di polmonite, in Messico, senza aver

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potuto ritirare dal laboratorio 1 ultimo materiale mandato allo sviluppo. Gregory Markopoulos, espatriato in Europa. I giova­ ni, isolatissimi e nevrotici in grado diverso dal molto al tollera­ bile. Le persone più vitali sembrano oggi unicamente quelle che si rivolgono sempre più a un attivo impegno politico e, almeno intenzionalmente, rivoluzionario. Non tutto il quadro è così nero: la cooperativa dei film-makers americani, fondata nel 61 da Jonas Mekas, distribuisce ora i film di più di 250 autori e dispone di uffici e di alcuni impie­ gati pagati con il 25% sul ricavato dal noleggio dei film, che circolano soprattutto nel grande circuito di migliaia di colleges e università. Qui si trovano gli spettatori più attenti e entusiasti, e il serbatoio più cospicuo di cineasti potenziali. Solo pochi anni prima, proprio nell’estate del 1961, Stan Brakhage scriveva tristemente a Mekas di avere completato più di venti film, per nessuno dei quali aveva trovato un distributo­ re che non fosse se stesso, a causa della loro “natura controver­ sa”, e che stava iniziando un grande film a colon che avrebbe certamente incontrato le stesse abissali difficoltà di circolazione. Sapeva di qualche via d’uscita?... Questa si aprì molto prima di quanto Brakhage di sicuro si aspettasse e fu determinante nel creare le condizioni di fiducia e speranza nel futuro che permi­ sero al new american cinema di conoscere la straordinaria fiori­ tura di capolavori che caratterizzò i primi anni sessanta, ad ope­ ra di Markopoulos, Brakhage, Jack Smith, Ron Rice, Warhol. Per la sua fondamentale importanza in America e il grande influsso che sta esercitando sulle cooperative di film-makers in via di costituzione in tutto il mondo, Europa, Australia, Estre­ mo Oriente, tutte più o meno modellate su di essa, vale la pena di illustrare più in dettaglio le caratteristiche e il funzionamento della cooperativa di New York. Essa è retta da un consiglio di film-makers, eletti annualmente da tutti i soci, che determina le linee direttive della sua azione e controlla l’operato degli impie­ gati. L’unico requisito richiesto per diventare soci è avere un

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film di cui si desidera la distribuzione. Non vi è alcuna preclu­ sione o giudizio di qualità per l’ammissione dei film alla coope­ rativa, quindi mai, durante questi anni, film e autori — che di regola sono anche i produttori e i proprietari — sono stati rifiu­ tati. Una volta entrate nella cooperativa, le pellicole vengono normalmente presentate al pubblico almeno una volta, dopo di che, a seconda del loro valore e dell’interesse che suscitano, ini­ ziano la loro vita, si aprono la loro strada nel mondo, che può essere facilitata dall’opera di pubblicizzazione che l’autore stesso è utile compia in loro favore. Il guadagno derivante dall’affitto dei film, che negli Stati Uniti oscilla fra uno e due dollari al minuto , * va per il 25% alla cooperativa, per coprire le spese di gestione, e per il 75% all’au­ tore, costituendo la percentuale di gran lunga più alta percepita dal film-maker, che dai distributori commerciali non ottiene mai più del 50%, avendo inoltre, in confronto alla cooperativa, una ben minore possibilità di controllo sugli incassi. Altro gran­ de vantaggio offerto dalla cooperativa è l’assenza di una clausola di esclusività, il che consente all’autore una maggiore capacità di movimento e sfruttamento dei suoi film e stimola la compe­ titività dei centri di distribuzione che da qualche anno stanno cominciando a proliferare. Regina della West Coast e la Canyon Cinema Cooperative, con sede a Sausalito (San Francisco), fondata cinque anni fa da Bruce Baillie. Essa pubblica un bollettino periodico, Canyon Ci­ nema News, ricco di informazioni sui nuovi film, festival, equi­ paggiamento, possibili sorgenti di finanziamento o proiezioni, ecc. Recente è l’annuncio della nascita di nuove cooperative a Milwaukee e a Chicago. L’unità degli autori nelle cooperative da essi gestite e con­ trollate ha prodotto effetti molto positivi nella circolazione dei * Tutti questi dati sono riferiti al 1971, data della prima pubblicazione del libro. [N.d.R.]

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loro film e ha provato che si può in questo modo fare a meno dei contratti capestro dei distributori commerciali, tanto che es­ si, una buona parte almeno, stanno rivedendo le loro percen­ tuali e pian piano rinunciando alle pretese di esclusiva. Ma la battaglia è ancora lontana dalfessere vinta e la parola d’ordine di Jonas Mekas è ancora e sempre “stick together”, stiamo uniti, e l’esperienza di anni ha dimostrato che questo, per il cinema indipendente, è l’unico modo di sopravvivere e progredire.

Capitolo primo

La prima persona negli Stati Uniti che descrisse con chiarez­ za e perspicuità la natura, le caratteristiche e gli scopi del cine­ ma indipendente e sperimentale, fu Maya Deren, di origine russa, che dopo aver esordito come poetessa trovò nel cinema il suo autentico mezzo d’espressione. Comincio a dedicarvisi all’i­ nizio degli anni quaranta con l’aiuto dell’allora marito Sasha Hammid che le insegnò i primi rudimenti tecnici, e produsse nell’arco di sedici anni, dal 1943 al ’59, sei film completi, oltre ad alcuni incompiuti, che testimoniano la serietà e continuità di una ricerca schiva di qualsiasi esteriorità e tesa al raggiungimen­ to di tersi valori ritmici e formali, ciò che Maya Deren arrivò a chiamare il suo classicismo. Ma parallelamente alla sua opera creativa, fondamentale e l’apporto di questa tenacissima e uma­ namente affascinante artista allo sviluppo del cinema sperimen­ tale in America mediante l’esempio, gli scritti teorici, la propa­ ganda diretta e l’organizzazione a New York, alla Provincetown Playhouse, delle prime proiezioni pubbliche di film sperimenta­ li sulla costa orientale. Essa cominciò con il dare al cineasta indipendente, al cinea­ matore, il senso della propria identità facendogli capire, anche etimologicamente, la bellezza insostituibile di poter fare una co­ sa per amore di essa piuttosto che per ragioni o necessità di ca­ rattere economico. Gli diede l’orgoglio della propria indipen­ denza, localizzando in essa la forza che consente al cineamatore di non sacrificare l’incanto e la drammaticità delle immagini ai

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fiumi di parole dei film narrativi convenzionali, all’incessante necessità di spiegare una trama e all’artificiosa valorizzazione di una “stella”. Esaltò la mobilità fisica del cineamatore che col suo piccolo, leggero equipaggiamento può ben suscitare l’invidia dei professionisti normalmente schiavi delle loro pesanti macchine, degli intrichi di cavi e delle troupes numerose, senza dimentica­ re — per scendere nei dettagli — che nessun treppiede ha la versa­ tilità del complesso sistema di supporti, giunture, muscoli e nervi del corpo umano. E concludeva: “La parte più importante del vostro equipaggiamento siete voi: il vostro mobile corpo, la vostra mente immaginativa e la vostra libertà di usare l’uno e l’altra.”1 Dando forza alle proprie asserzioni, Maya Deren diceva di esservi arrivata dal punto di partenza di ogni cineamatore, i li­ mitati mezzi a disposizione. La sua preoccupazione per il mon­ taggio era nata dall’avere una cinepresa a molla che trasportava solo 30 secondi di pellicola 16mm per ogni carica, e la necessità di dare una definita impostazione visuale al film conseguiva dal non disporre di una macchina sonora sincrona.12 In realtà le cose non sono cosi semplici e meccaniche. Nel caso di Maya Deren, come di ogni autentico artista, vi era un aggiustamento automatico, una profonda necessità interna fra programma espressivo e mezzi scelti per realizzarlo. Anche per gli attori valeva lo stesso principio di sottomissio­ ne e subordine a un superiore e globale disegno registico. “Non sono le persone (gli attori) nel film a determinarne il senso: essi sono elementi in un campo totale, per cui possono anche deri­ vare il loro significato e impatto dalla posizione che hannio in relazione al complesso.”3 Questa prassi, condivisa da molti altri 1 Maya Deren, Amateur versus professional, in “Film Culture”, n. 39, inverno 1965. 2 Maya Deren, Planning by eye. Notes on “individual"and “industrial"film, ivi. 3 Maya Deren, Plannins by eye. ..., cit.

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film-makers, da Harrington a Anger a Markopoulos, e l’opposta — ma naturalmente non meno valida dal punto di vista del ri­ sultato artistico — di quella “esistenzialista” per cui il film non esisterebbe al di fuori della concreta e insostituibile presenza del suo o dei suoi interpreti, tendenza rappresentata da Jack Smith, Ron Rice e Warhol. Ma sto molto anticipando gli eventi ed è meglio tornare alle origini del discorso.

Le origini Il cinema sperimentale americano, come diretta filiazione di quello europeo, era nato molto prima della predicazione di Ma­ ya Deren. L’arrivo negli Stati Uniti dei film espressionisti tede­ schi, delle opere dei dadaisti e del cinema rivoluzionario russo ne avevano preparato il terreno. L’influsso ideologico, oltre che artistico, piu determinante era forse stato quello esercitato da DzigaVertov. In Rivoluzione del cineocchio egli proclamava: “Fino ad oggi abbiamo violentato la cinepresa e l’abbiamo costretta a copiare ciò che vedono i nostri occhi. Da oggi scuoteremo la macchina e la faremo lavorare nella direzione opposta. Rotti i limiti di tempo e di spazio io coordino tutti i punti dell’universo, do­ vunque possa rilevarli. La mia strada va verso la creazione di una fresca percezione del mondo. Così io decifro in modo nuo­ vo il mondo a voi sconosciuto. ”4 Fondamentale era anche la riscoperta e valorizzazione espressiva che Dziga Vertov aveva fatto di quelli che fino ad al­ lora erano stati prevalentemente trucchi illusionistici del cine­ ma. “Il cineocchio si avvale di tutte le attuali tecniche di ripresa ultrarapida, di microfotografia, di ripresa a marcia indietro, di

4 DZIGA Vertov, Kinoks revolution, in “Film Culture”, n. 25, p. 50.

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esposizioni multiple, ecc., e non li considera trucchi ma prati­ che normali di cui va fatto largo uso.”5 Il rigetto della convenzione teatrale e un atteggiamento in­ genuo e immaginativo nei confronti della realtà condusse come primo apprezzabile risultato, a Mannahatta (1921) del pittore Charles Sheelers e del fotografo Paul Strand, un cortometraggio su New York e le sue tipiche caratteristiche di vitalità e inces­ sante movimento. Più maturo è Twenty-four dollar island (1925), dedicato da Robert Flaherty alla città e al porto della stessa metropoli e distinto da un uso accurato e lirico del teleo­ biettivo. Nel clima del cinema espressionista tedesco si situò The life and death of 9413 — a Hollywood extra (1928), sceneggiato e di­ retto da Robert Florey, con la scenografia e la sapiente fotogra­ fia del multanime Slavko Vorkapich che nella sua cucina fece uso ingegnoso di latta e cartone per ricreare l’allucinante am­ biente in cui una comparsa hollywoodiana vive una breve sta­ gione fra illusione e morte. Contemporaneamente Paul Fejos, regista e produttore, gira­ va un racconto in soggettiva che ha per protagonista un uomo in procinto di annegare, basato sulla credenza che in punto di morte si rivivono istantaneamente gfi avvenimenti più impor­ tanti della propria vita. Il film faceva largo uso del repertorio di trucchi ed effetti speciali propri delFespressionismo cinemato­ grafico. Eguale se non maggiore sfoggio di tali soluzioni formali faceva James Watson, regista e operatore di The fall of the House ofHusher, dal racconto di Edgar Allan Poe. Ritornando alle origini del cinema e stimolato dall’esempio di Cavalcanti e Léger, il fotografo Ralph Steiner si volse all’os­ servazione e registrazione di semplici effetti naturali, del tutto astenendosi da manipolazioni in fase di ripresa, e produsse

5 Dziga Vektov, ivi.

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EfO, giudicato uno dei migliori film sperimentali del 1929, che ha per soggetto i riflessi prodotti dall’acqua. L’ormai internazionalmente affermata scuola del realismo russo trovava un echeggiamento in The spy di King Vidor. Co­ me The last moment, ma con stile asciuttamente realistico, pre­ sentava le speranze di salvezza di un morituro, travolte dall’im­ placabile corso della realtà. L’avvento del sonoro mette in crisi molti autori, non solo per ragioni estetiche ma anche per il molto accresciuto costo delle lavorazioni ad esso connesse. Il primo film di certe pretese ad emergere da questo periodo è Lot in Sodom (1933-34) di Watson e Webber, che si valeva di una colonna musicale apposi­ tamente scritta da Louis Siegei. Ma il peso e, ormai, la decrepi­ tezza della tradizione espressionista, permanevano e il film non brillava certo di nerbo e originalità. Nel 1935 la crisi economica iniziata nel ’29 raggiunge una gravità tale da incanalare l’attenzione e l’interesse della grande maggioranza dei cineasti indipendenti verso la drammatica si­ tuazione sociale americana. Solo pochi proseguono le loro per­ sonali ricerche cinematografiche; fra essi primeggiano Mary El­ len Bute e Ted Nemeth che, sotto l’influenza di Oskar Fischinger, impiegano luce, suono e movimento per creare “sinfonie vi­ sive’’ che si sviluppano in stretta relazione e reciproco contrap­ punto con il processo tematico e i ritmi delle colonne musicali prescelte. Tra i loro film in bianco e nero vanno citati Anitra} dance (1936), Evening star (1937), Parabola (1938); fra quelli a colori, Toccata e fuga (1940), Tarantella (1941) e Sport-pools (1941). Allievo di Ruttmann e ben consapevole della lezione di Eggeling e Richter, Oskar Fischinger già da alcuni anni era attivo in America, e utilizzando forme geometriche elementari come il quadrato, il circolo e il triangolo, animate con grande abilità e varietà di movimenti e com binazioni, aveva prodotto Allegretto, basato su un brano di musica jazz, Optical poem, avente per co­

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lonna sonora la seconda rapsodia ungherese di Listz ed eseguito per la MGM, A/z american march, che sviluppava una versione visuale della famosa marcia di Sousa Stars and stripes forever. Alla fine della seconda guerra mondiale, superata l’emergen­ za bellica e grazie alla preziosa opera di informazione nel frat­ tempo spiegata dalla Cineteca del Museo d’Arte Moderna di New York, il cinema sperimentale ritorna a nuova vita, e questa volta comincia a sviluppare caratteristiche tipicamente america­ ne che lo porteranno cogli anni ad una statura e importanza ora riconosciute in tutto il mondo e tutf altro che spente, come cer­ cherò di mostrare più avanti.6

Maya Deren In principio era Jean Cocteau, e questo vale almeno inizial­ mente non solo per Maya Deren, capofila del secondo venten­ nio di cinema indipendente americano, ma anche per Kenneth Anger e Gregory Markopoulos. Cocteau, in particolare con Sang d'un poète, è il nome che domina in America negli anni quaranta, così come Vertov aveva improntato di sé gli anni ven­ ti. Quanto scrisse a proposito del suo primo film, che di colpo lo impose come uno dei più creativi e controversi talenti del ci­ nema d’avanguardia, potrebbe essere sottoscritto da molti film­ makers americani del secondo dopoguerra, senza per questo vo­ lerli privare dei diversi e peculiari meriti delle loro opere. In La difficulté d’etre, pubblicato in Francia nel 1947, Cocteau affer­ mava: “Sang d’un poète non è altro che una discesa in sé stessi, un modo di impiegare il meccanismo dei sogni senza dormire

6 Per la breve illustrazione della storia, o protostoria, del cinema sperimentale americano dal ’20 al ’40, mi sono giovato dell’opera di Lewis Jacobs, L’avventurosa storia del cinema americano, Einaudi, Torino 1961, e in particolare della sua appendi­ ce dedicata interamente al cinema sperimentale di quel paese.

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... una candela ... trasportata attraverso la notte del corpo uma­ no. Là gli atti si legano a loro piacere, con controlli così deboli da non poter affatto attribuirne la responsabilità alla mente, ma piuttosto a una specie di stato sonnambolico che incoraggia la combinazione, il collegamento e la deformazione del libero flus­ so di ricordi, finché essi assumono una forma a noi estranea e diventano un enigma.” Sull’onda possente di questo esempio, Maya Deren concepi­ sce e gira nel 1943 Meshes of the afternoon, in cui l’esperienza intima di una persona si riversa sul mondo esterno fino ad amalgamarvisi quasi indistinguibilmente, riproducendo il modo in cui il subconscio elabora, trasforma e interpreta un avveni­ mento apparentemente semplice e casuale. Una ragazza, incamminata verso la casa di una persona ami­ ca, trova per strada un flore e lo porta con sé. Arrivata a destina­ zione tenta di entrare ma, trovando la porta chiusa, trae di tasca una chiave che le cade di mano. Girandosi intravede da lontano una figura femminile che sparisce dietro l’angolo della strada, recupera la chiave ed entra finalmente in casa. Nonostante che da molti segni, il giradischi ancora in moto, il ricevitore del te­ lefono staccato, si capisca che qualcuno doveva essere fino a qualche momento prima in casa, ora essa sembra vuota. Nell’at­ tesa di questo qualcuno la ragazza si addormenta e rivive in so­ gno ciò che le è appena accaduto, sia pur in modo deformato e vagamente inquietante. La donna che aveva girato l’angolo ha ora uno specchio al posto del viso e tiene in mano il fiore trova­ to prima dalla ragazza; nonostante sembri camminare lenta­ mente la giovane che la rincorre non riesce a raggiungerla ma ri­ sulta anzi sempre più distaccata. Essa sale ora nella camera da letto della casa solitaria e scopre sul cuscino del letto il coltello che qualche secondo prima era conficcato in un pezzo di pane nella sala da pranzo. Quello stesso coltello brilla improvvisa­ mente nelle mani di un uomo che si china su di lei con l’appa­ rente scopo di baciarla. La si vede da ultimo tornare nella casa

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per tre volte, cosicché sono ora quattro immagini della stessa ra­ gazza ad aggirarsi nella stanza, con tale credibilità e naturalezza da rendere problematica la linea che separa il sogno dalla realtà. E evidente, in questo primo film di Maya Deren, il forte pe­ daggio dovuto a Cocteau, non solo per la carica simbolica attri­ buita agli oggetti e la loro libera interrelazione con la protagoni­ sta — oltre alla identificazione fra essa e fautrice che fimpersona — ma anche per il marcatissimo risvolto narcisistico, rivelato dallo specchio che riflette il viso della sconosciuta e dal gioco fi­ nale con le molte “alter ego”. Il consistente debito verso il surrealismo si attenuerà note­ volmente nei successivi film di Maya Deren; infatti, mentre il puro metodo surrealista, portato al suo più coerente e convin­ cente estremo da Bunuel-Dali in Un chien andalou, richiedeva l’abbandono totale dell’autore al flusso incontrollato di immagi­ ni affioranti dal subconscio, Maya Deren tendeva a vedere la so­ stanza del film in un armonico disegno visuale e coreografico, nella creazione di un nuovo mondo di forme ottenuto facendo lievitare le riprese dal vero mediante una ben consapevole vo­ lontà ordinatrice da parte del film-maker. In questo senso è giu­ stificata la definizione di “classicisti” data più tardi dalla cinea­ sta americana ai suoi film, quando ormai le scorie di psicologi­ smo delle prime opere erano state definitivamente eliminate. Esse sono in Meshes molto patenti, ma già compaiono in questo film soluzioni formali, modi di associazione visuale e scansioni spazio-temporali che costituiscono insieme la cifra più autentica dello stile di Maya Deren e il suo più originale apporto all’arte cinematografica. Ciò avviene per esempio quando la ragazza si alza dalla sedia del soggiorno della casa e comincia a cammina­ re. Il primo piano dei suoi piedi è seguito dal primo passo com­ piuto su una spiaggia, dal secondo che avviene sull’erba, dal ter­ zo su una strada e dal quarto che si posa su un tappeto. La se­ quenza è conclusa da un campo medio della ragazza che arriva all’altro capo della stanza, per raggiungere il quale ha viaggiato

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un mondo di distanza. Questo procedimento sintetico e sugge­ stivo raggiungerà due anni dopo, in Choreography for camera, la sua più unitaria e concisa espressione. At land, del 1944, ha già molto meno a che fare col mondo interiore della protagonista; in esso comincia a prevalere l’inte­ resse per le segrete, possibili leggi dinamiche del mondo ester­ no, viste secondo le scelte e volontà della cinepresa e dell’occhio di Maya che, agendo analogamente all’omonimo concetto in­ diano, ha della realtà una visione nello stesso tempo irripetibile, convincente e illusoria. La vicenda consiste nell’approdo sulla riva del mare del corpo inanimato della protagonista (Maya De­ ren), che rinviene e intraprende una complessa peregrinazione. Attraverso la spiaggia e le rocce prospicienti la costa, foreste e paesaggi naturali, essa giunge a spuntare da sotto un tavolo in una stanza affollata di persone raccolte in una rumorosa riunio­ ne mondana. Striscia imbarazzatissima sul tavolo, sotto gli sguardi ghignanti e pieni di disprezzo dei presenti, per riprende­ re la via degli spazi naturali fino a sparire là donde era venuta. Tipica della poetica della Deren è la sequenza, continuamente citata, della spiaggia, in cui l’arresto della macchina con­ sente alla protagonista di camminare avanti prima che la ripresa ricominci: essa appare in questo modo continua, dato che l’in­ quadratura è la stessa, mentre l’improvviso rimpicciolimento e allontanamento del personaggio comportano un forte effetto emotivo di incertezza e mistero. Nella sequenza finale la giovane donna ripercorre rapidamente il passato fino a ciò che sta acca­ dendo. Questa insistenza per i continui cambi di tempo e am­ bientazione, lungi dall’essere superficialmente effettistica, offre la soluzione più adeguata per mostrare l’incapacità della prota­ gonista di acquisire una relazione stabile e soddisfacente con se stessa e l’ambiente che la circonda. Gradualmente però questa tecnica tende a imporsi come autonoma scelta espressiva, pre­ scindendo dalle sue origini psicologiche. Questo arco d’anni, per Maya Deren eccezionalmente fe­

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condo, raggiunge forse il suo apice nel 1945 con il breve ma potente e armonicamente composto Choreography for camera. Concepito come celebrazione del principio del movimento, il film sviluppa le movenze individuali del ballerino in relazione alla mutevole area spaziale in cui queste avwengono. Il sostan­ ziale interesse formale di Maya Deren si è questa volta rivelato senza reticenze, perfino nel titolo, e la coreografia dello spazio che essa compone rimane il testamento più alto delle sue capa­ cità formatrici. Per raggiungere questo risultato Maya Deren cercò e trovò in Talley Beattie il collaboratore che, oltre a posse­ dere una solida preparazione professionale, si sarebbe prestato ad abbandonare le limitazioni della tradizione teatrale per svi­ luppare le potenzialità proprie del cinema. Maya Deren inten­ deva questo film “principalmente come esempio di danza fìlmi­ ca, talmente dipendente cioè dalla ripresa e dal montaggio da non poter essere nella sua unità ‘rappresentata’ altrove che in quel particolare film.”7 La sequenza iniziale mostra un modo di sfruttamento di un campo visivo in movimento con aggiunte interruzioni della ri­ presa - già sperimentate in At land - per ottenere particolari ef­ fetti di illusione ottica. Partendo da destra la cinepresa compie un lento, continuo giro verso sinistra scoprendo per quattro volte lo stesso ballerino in diversi stadi del suo movimento. Questo effetto è ottenuto interrompendo la ripresa dopo che la cinepresa ha inquadrato la prima volta il protagonista; quando egli ha preso la posizione seguente, la macchina riprende pano­ ramica e ripresa rifotografandolo, poi si interrompe per il terzo movimento e così via anche per il quarto. La sequenza del Me­ tropolitan Museum fa un appropriato uso dell’obbiettivo gran­ dangolare, che ha la caratteristica di esagerare la profondità di

7 Maya Deren, Program notes: Choreography for camera, in “Film Culture”, n. 39, inverno 1965. Mi sono molto servito per la compilazione di questo capitolo, di queste note che riguardano tutti i film di Maya Deren.

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campo. In tal modo il ballerino che percorre l’atrio egizio del museo sembra coprire con irrisoria facilità e velocità una di­ stanza che in realtà è assai minore di quella che appare in proie­ zione. La piroetta, nel trattamento di Maya Deren, diventa una sintetica e fulminea avventura antigravitazionale. Il ballerino comincia un’estensione in esterno: l’inquadratura si interrompe nel momento in cui la sua gamba comincia a ricadere ed è se­ guita da un dettaglio della stessa, a quello stesso punto, solo che ora lo sfondo è un appartamento. L’impressione che se ne ricava e che d’un balzo il ballerino sia saltato da un bosco in casa. Usando la marcia indietro il danzatore, fotografato mentre ca­ deva a terra dall’alto, sembra lanciarsi in aria con insolita legge­ rezza. Un salto, mediante la combinazione di varie inquadratu­ re, dura improbabilmente più di mezzo minuto. L’uso di queste tecniche non era naturalmente nuovo neppure ai tempi di Ma­ ya Deren, ma ciò non ha nessuna importanza. Come dirà più tardi Markopoulos,8 il film-maker non impiega le tecniche spe­ rimentali per se stesse, e se per caso ne scopre di nuove dovreb­ be essere acquisito che ciò non ha di per se stesso alcun interes­ se. L’essenziale è che alla luce della tradizione haiku, che a Maya Deren era particolarmente congeniale, fosse creato un armonico e sapientemente scandito poemetto visivo. Ormai il preponderante interesse della cineasta è quello di creare un’autonoma coreografìa di movimenti ed elementi spa­ ziali, e dopo alcuni film essenzialmente imperniati su di un solo personaggio, questa aspirazione necessita di una dimensione per l’appunto più “corale”. A questa tendenza si aggiunge un inte­ resse che si va progressivamente affermando nei pensieri della regista, quello dei rituali sociali, per studiare le radici dei quali

8 Gregory J. Markopoulos, Towards a constructive complex in projection, in “Ombre elettriche", n. 1, dicembre, Torino 1968.

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ella trascorrerà parecchio tempo a Haiti, di cui diventerà una profonda conoscitrice. Con Ritual in transfigured time (1946), essa sviluppa ulte­ riormente Ì1 tentativo di creare una danza fìlmica, usando pre­ valentemente movimenti naturali, non coreografici. Nessuno degli interpreti di questo film, tranne Rita Christian! e Frank Westbrook, è ballerino e, salvo una breve sequenza, i movimen­ ti non sono di danza. Ciò che lo fa diventare un film-balletto è il trattamento coreografico del materiale girato, tessuto sull’ap­ parente allegrìa di un’occasione sociale che nasconde in realtà solitudine e angoscia. Si tratta di un “party” cui un giovane va, sperando in una serata divertente. Appena arrivato nota una ra­ gazza che sembra ricambiare il suo interesse per lei. Mentre cer­ ca di avvicinarla, il giovane è travolto dalla confusione degli in­ vitati e subisce brevemente la corte di una sconosciuta. Al cul­ mine della riunione, quando le scelte istintive vanno ormai con­ cretandosi, egli finalmente raggiunge la ragazza, ma solo per la­ sciarla poco dopo in quella stessa indeterminatezza dalla quale era affiorata all’inizio. Estrapolando liberamente i gesti degli intervenuti e ricom­ ponendoli secondo un personale disegno ritmico, Maya Deren tesse una trama di gesti che, trascendendo le intenzioni dei sin­ goli individui, diventa un autentico “rituale” in cui i singoli ap­ porti si fondono con la coralità di una cerimonia tribale. Due anni dopo, nel 1948, vede la luce Meditation on vio­ lence, che di Ritual sviluppa il principio di un movimento in continuo mutamento, qui portato su di un piano più astratto e sintetizzato, consentito dall’osservazione che il film fa della bo­ xe cinese. La scuola di pugilato “wu-tang” trae i suoi principi basilari dal Libro dei mutamenti commentato da Confucio e dal Libro del Tao di Lao-tse. Nel primo la vita è concepita come continuo cambiamento e alternarsi di fasi positive e negative, il secondo sviluppa il concetto di difesa non aggressiva mediante l’impiego contro l’avversario della sua stessa forza e l’idea che

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un’estrema estensione può trasformarsi nel suo opposto. I movi­ menti della boxe “wu-tang” sono quindi caratterizzati da un continuo, dinamico flusso in cui ogni movimento introduce il movimento seguente. Essa è anche definita boxe interiore poiché è governata dal ritmo del respiro, che cinematograficamente è stato reso mediante l’alternato avvicinamento e allontanamento dell’interprete dalla macchina da presa. Il montaggio in questa sezione è volutamente fluido, in modo da conformarsi all’armo­ nica circolarità dei gesti. Ad essa segue, come naturale sviluppo, una parte dedicata alla boxe esteriore detta shao-lin, esercizio ag­ gressivo basato su forza, grinta e ritmi scattanti e nervosi, per culminare nella temibile fioritura in mano all’attore di una spa­ da, logica conclusione di un crescendo di aggressività. Al punto di massima concitazione del film vi è un congelamento, al verti­ ce di un altissimo salto l’uomo rimane sospeso qualche secondo per aria in un fotogramma fìsso. Da quando ricade in poi è una regressione continua verso il punto di partenza, coi movimenti realmente proiettati all’indietro. Nonostante la sapiente inquadratura ideologica data da Ma­ ya Deren al film e la cura, compostezza e raffinatezza delle ri­ prese e del montaggio, Meditation on violence appare piuttosto freddo e testimonia il declino di una vitalità creativa che il film seguente, l’ultimo girato da Maya Deren, non farà che confer­ mare. La geniale, drammatica, irrazionale avventura spazio-psi­ cologica dei primi film si è ormai acquietata in una sia pur clas­ sica compostezza che troppo si approssima al rigore della morte. The very eye of night giunge dopo una pausa di 11 anni, nel 1959, ma non accresce il peso della filmografìa di Maya De­ ren, che morirà due anni dopo di emorragia cerebrale. Il pregio maggiore del film — ahimè, brutto segno — è forse la colonna so­ nora di Teiji Ito, collaboratore costante di Maya Deren e molto rispettato compositore residente a New York, per la quale egli ha scelto e suonato personalmente flauto, clarinetto, gamelon balinese di legno e metallo, e tamburi haitiani. Per il resto si

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tratta di un balletto celeste dalla mediocre coreografia che i mo­ vimenti di macchina riescono solo parzialmente a salvare, foto­ grafato in negativo su un fondo di stelle per evitare il più possi­ bile riferimenti gravitazionali. Ma quale differenza dall’inven­ zione di Choreographyfor camera).

Marie Menken Con Maya Deren inizia a New York, nella prima metà degli anni quaranta, la sua attività cinematografica una coppia di ar­ tisti recentemente scomparsi, Marie Menken e Willard Maas. Comincerò con Marie Menken, che fra i due è la personalità più ricca di talento. Pittrice astratta e poi per anni esperta grafi­ ca, era sempre stata affascinata dall’evoluzione delle forme per mezzo di sorgenti luminose. La macchina da presa era quindi uno strumento destinato a diventarle immediatamente conge­ niale, soprattutto per l’esempio di Norman McLaren e Francis Lee. Il suo primo film, Visual variations on Noguchi (1945), girato dopo una prima esperienza cinematografica come colla­ boratrice di Willard Maas in Geography of the body, la pone di colpo fra i più originali film-makers americani, per il trattamen­ to travolgentemente dinamico con cui riprende le sculture di Isamu Noguchi. Il film è talmente vitale e libero da preoccupa­ zioni e pregiudizi narrativi che Stan Brakhage lo citerà più tardi come una delle opere per lui più importanti, sia per liberarsi dal pervasivo e capillare influsso di Hollywood, sia per dimostrare l’efficacia e la sottigliezza consentite da un impiego creativo del­ la macchina a mano. Dopo questa prima grande promessa passa un lungo perio­ do senza che nulla esca dalla camera di montaggio di Marie Menken, finché, verso la fine degli anni cinquanta, viene messo in circolazione Hurry! Hurry! In esso una schiera fremente di spermatozoi, sullo sfondo di un falò, parte alla ricerca di un uo­

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vo da fecondare, mentre sulla colonna sonora risuonano cupi echi di un bombardamento aereo. Siamo ancora vicini a un gio­ chetto, spiritoso se vogliamo, ma non molto eccitante. Con Dwightiana arriviamo invece dritti dritti a un piccolo capolavo­ ro. In una danza allegra e vibrante, perline multicolori, matite, serpenti di sassolini, meduse fatte di collane e strass si animano, ballano, si aprono la strada in sabbie bianche e nere, formano cuori e scompaiono con grazia, inventiva, semplicità e serena al­ legria. L’elementarità e la povertà degli elementi compositivi è incredibile eppure, grazie a un sagace e molto fantasioso uso della ripresa a scatto singolo, questi umili oggetti si animano di straordinaria bellezza e vitalità. Questo occhio puro, affettuoso e arguto nello stesso tempo, si rivela ancora nel delicato e tenero Notebook, che raccoglie vari, e diversi, brevi sketches. Il primo, Raindrops, è in un mor­ bido, antico bianco e nero che ricorda i tempi del muto: due bianche anatroccole, che nuotano tranquillamente in un canale, aprono e chiudono una sequenza di pioggia, prima rada, poi fit­ ta, su di un laghetto e su fiori e foglie. Moonplay è un gioco a rimpiattino tra fronde d’albero con la luna a scatto uno. In Pa­ percuts forme tra vegetali e marine si trasformano, organizzano, marciano e disperdono in mezzo a occasionali polveri d’oro. Lights e Nightwriting rappresentano forse due fra i migliori esempi di elaborazione a scopo estetico di luci notturne al neon. Il primo è una pioggia battente di lampi di indefinita natura, il secondo una vivacissima scrittura automatica che trasforma completamente forma e aspetto dei materiali originari. Etc. etc. etc., anche nella struttura del titolo, è un riuscito preannuncio del più ambizioso, esteso e articolato Go go go. Una buffa signo­ ra salta su un’altana con due cani che si muovono come fulmi­ nei robot grazie alla ripresa a scatto singolo, tecnica favorita di Marie Menken, in ciò maestra e precorritrice di Jonas Mekas, Taylor Mead e tanti altri film-makers americani. Go go go, (1962-1964) è considerato dall’autrice “il mio

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film più impegnativo, che mostra l’irrequietezza della natura umana e ciò per cui si batte, insieme alla ridicolaggine delle sue aspirazioni.” Implicazioni filosofiche a parte, questo film con­ tiene alcune delle più felici ed esilaranti sequenze dell’intero ci­ nema sperimentale americano, e anche la mistura di genialità e sciatteria, sensibilità e distrazione che cosi spesso appare nelle opere di Marie Menken. Questo strano miscuglio di oro e detri­ ti si mostra in tutta la sua inconsequenzialità in Go go go, che è però riscattato, come ho già premesso, da alcuni brani assolutamente affascinanti. Fra essi primeggiano il pezzo sul traffico nel porto di New York che, sempre in virtù della ripresa a scatto uno, diventa una vorticosa e impressionante gimcana di agilissi­ mi scafi di ogni forma, mole e colore; la sequenza, in realtà una lunga inquadratura fissa, all’incrocio di due strade del centro, riprese dall’alto di un grattacielo, con l’alternarsi a perdifiato di guizzanti fiumi di macchine e l’intermittente sgranarsi dei pic­ coli puntini frenetici che sono diventati i passanti; il ritratto del marito Willard Maas alla macchina da scrivere sul terrazzo di casa con lo sfondo dei grattacieli di Manhattan, in un concen­ tratissimo campionario di mille atteggiamenti che denotano successivamente pigrizia, distrazione, incertezza, nervosismo, ispirazione, raptus, stanchezza e tanti altri umori distillati nel­ l’arco di pochi, penetrantissimi fotogrammi. Altri passaggi sa­ rebbero anche del tutto meritevoli di menzione, in particolare la sfilata di fusti in un teatro, il cantiere di costruzione, l’escava­ trice folle in fantastiche evoluzioni, che nulla hanno da invidia­ re ad un balletto classico, e ancora il bellissimo tramonto sull’a­ mato porto.

Willard Maas Nonostante il prestigio, la maggiore seriosità delle sue im­ prese, l’opera di Willard Maas interessa e tocca molto meno del­

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l’arguzia sottile e senza pretese, ma tanto pia efficace, di Maria

Menken. Dopo un primo tentativo che ha la funzione di familiarizza­ re il film-maker con la sintassi e la tecnica cinematografica, Maas gira nel 1943, con la collaborazione di Marie Menken, quello che è generalmente considerato il suo film migliore, Geography of the body. La bellezza delle immagini isolatamen­ te considerate e l’accuratezza del montaggio non riescono però a sottrarlo a un freddo accademismo che non farà purtroppo che accentuarsi nei film seguenti, “rigor mortis”, come lo chiama Kelman che ha scritto una delle più penetranti e impietose va­ lutazioni dell’opera del film-maker.9 Dopo Geography, che è tendenzialmente astratto nella sua concezione formale, Maas scivola sempre più inesorabilmente sul piano inclinato di un’ispirazione letteraria di netta derivazio­ ne cocteauiana. Gira allora Images in the snow, fotografato d’inverno nella desolazione di aree demolite e ingombre di ri­ fiuti di Brooklyn, che rappresentano l’isolamento e la paura che attanagliano il protagonista di questa “biografia interiore”, co­ me la definisce l’autore. Essa è costellata di oggetti tritamente simbolici che testimoniano l’esteriorità dell’ispirazione di Wil­ lard Maas, tanto inferiore in questo agli analoghi procedimenti di Gregory Markopoulos. Molto deludente è anche Narcissus (1956), prodotto in col­ laborazione con Ben Moore, responsabile soprattutto della ca­ ratterizzazione del protagonista che egli impersona, opera che soccombe totalmente sotto il peso del confronto con la matrice cocteauiana cui palesemente si ricollega.

9 Ken Kelman, The mechanics ofMaas. in “Filmwise”, n. 5 e 6, p. 26.

Capitolo secondo

Il risveglio della West Coast Contemporaneamente al periodo di maggiore attività di Maya Deren in favore del cinema sperimentale, comprendente anche forganizzazione di proiezioni il cui successo fu stimolo determinante alla fondazione a New York di Cinema 16, la pri­ ma società di distribuzione di questa nuova razza di film ameri­ cani, iniziava sulla West Coast una rigogliosa fioritura di autori. Il più geniale di essi, creativamente torreggiante negli anni quaranta, è Kenneth Anger, attivo come Curtis Harrington a Los Angeles, mentre a San Francisco iniziavano le loro prove Sidney Peterson e James Broughton. Crogiolo e luogo di incon­ tri di questi spesso giovanissimi fìlm-makers erano le proiezioni organizzate a San Francisco da Frank Stauffacher, documentari­ sta di merito, sotto l’etichetta Art in cinema series. Qui i nuovi poeti del cinema, accomunati oltre che da analoghe suggestioni culturali anche dalla scoperta e dall’uso del formato ridotto 16 mm, maneggevole e relativamente a buon mercato, potevano veder proiettati i loro film di fronte a pubblici attenti e abba­ stanza numerosi. I primi a passare il vaglio dellAbv in cinema se­ ries furono Curtis Harrington e Sidney Peterson, ambedue trop­ po presto inghiottiti dal cinema hollywoodiano o da quello più o meno piattamente documentaristico, fine che i “grandi” del cinema sperimentale sono sempre riusciti a evitare.

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Curtis Harrington Il miglior film di Curtis Harrington rimane probabilmente Fragment of seeking girato in 16 mm nel 1946 dopo alcune prove a 8 mm. Seguendo la pratica inaugurata da Cocteau e continuata in America da Maya Deren, Kenneth Anger e Gre­ gory Markopoulos, anche Curtis Harrington agisce come prota­ gonista del proprio film, imperniato sull’attrazione-repulsione per una misteriosa giovane e la finale presa di coscienza del pro­ prio narcisismo. Il cortometraggio consiste largamente di un cauto inseguimento da parte di un ragazzo, attraverso scuri cor­ ridoi dedalici, di una donna sempre appena intravista finché, scoraggiato, il protagonista si abbatte su di un letto, appena in tempo per vedere la bella inseguita sedersi accanto a lui. Quan­ do fa per abbracciarla, si accorge con orrore di avere fra le brac­ cia uno scheletro ghignante e imparruccato. Fugge con fincubo continuo di questa visione e alla fine della corsa, davanti a uno specchio, ha la rivelazione della propria vera natura. E interes­ sante notare come base comune di questi film, a parte le identi­ che matrici culturali e le analoghe, non uguali, ricerche espressi­ ve, sia Ì1 narcisismo e l’omosessualità, vissute normalmente co­ me esperienza traumatica e dilacerante. Nonostante la cura con cui è costruito e la “suspense” che gradualmente aumenta di in­ tensità, il film ha un tono scolastico che raramente riesce a far lievitare le immagini in una dimensione convincentemente ori­ ginale, ciò che riuscirà invece ad Anger con il bellissimo e revul­ sivo Fireworks.

James Broughton James Broughton, ancor oggi uno dei punti di riferimento obbligati del paesaggio cinematografico di San Francisco e noto poeta e commediografo oltre che film-maker, dopo la collabora-

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zione con Sidney Peterson in The potted psalm, esordisce da solo con Mother’s day (1948). Molto apprezzato soprattutto in Francia per i ben assimilati richiami culturali all’opera di Bunuel, prima ancora che a Cocteau, il film illustra i sinistri e paradossali giochi di adulti improvvisamente incapsulati in una situazione infantile. Ma la chiave seria non è quella più autentica di Broughton che difatti supera d’un balzo l’intellettualistica farraginosità del film precedente in Loony Tom, the happy lover (1950), una garbatissima e divertita rielaborazione delle vecchie comiche del cinema muto, da Ridolini a Sennett, in cui il personaggio prin­ cipale, efficacemente interpretato dall’autore, vola di fiore in fiore femminile, rubando baci, combinando guai e suscitando ovunque tenerezza e simpatia. Sullo stesso tono, anche se molto più diseguale, è Four in the afternoon (1951), che presenta quattro figure di diversa età ma tutte accomunate dalla loro ricerca d’amore. L’episodio di gran lunga più riuscito è quello in cui per la prima volta nei film di Broughton appare quella straordinaria donna e non me­ no geniale e intelligente ballerina che è Ann Halprin. Essa dà vita alla comicissima caratterizzazione di una dami­ gella settecentesca un po’ goffa, toccata e timida che, fuggendo, muore dalla voglia di essere catturata dal suo non meno mal­ destro amatore il quale alla fine, come dio vuole, riesce nell’in­ tento. Ann, affascinante e sensibilissima guida da anni di uno dei più avanzati gruppi di danza moderna del mondo — con sede a San Francisco —, è anche la stella incontrastata del nuovo film di Broughton, una celebrazione dei diversi atteggiamenti del corpo umano nei suoi tre stati, in piedi, seduto, disteso. Essa vi figura, unico personaggio vestito, in una breve fulminante scena che fa letteralmente morir dal ridere, nelle vesti di un buffo clown che non sa stare in piedi; nonostante gli sforzi più ostina­ ti, casca a terra nelle posizioni più assurde finché, disperato per

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il pregiudizio evidente che abiti e scarpe di misura esagerata ar­ recano al suo equilibrio, si spoglia (e lo fa con una tale scientifi­ ca coordinazione di movimenti che mai per un secondo è possi­ bile vedere le parti distintive del suo sesso) e si trova alla fine to­ talmente acquattato dietro la pila di indumenti piegati a terra.

Sidney Peterson Sidney Peterson, anche lui di San Francisco, dopo l’interes­ sante anche se rozzo The potted psalm, girato nei 1946 in colla­ borazione con James Broughton, raggiunge il meglio di sé in The lead shoes (1949), in cui la sua inclinazione per la mesco­ lanza di effetti comici con tocchi demoniaci e terrificanti1 si fonde con la costante passione per l’uso di effetti speciali e lenti deformanti in sede di ripresa. Ma si tratta comunque di una vo­ ce minore in cui prevale un approccio intellettualistico al mez­ zo, anche se di gusto, rispetto a una reale, profonda ispirazione.

Kenneth Anger L’ispirazione non mancava certo a Kenneth Anger, era anzi lancinante e disperata, come si vide fin dall’inizio. Era stata molto precoce, se fin da undici anni aveva cominciato a girare film, prima prevalentemente documentaristici, sia pur con una forte carica pessimistica e distruttiva [( Who has been rocking my dream boat (1941), Tinsel tree (1941/1942)], poi progressiva­ mente proiettati verso elaborazioni plumbee e sanguinarie di miti già abbastanza orripilanti, come quello di Andromeda e il Minotauro, Prisoners ofMars (1942), Escape episode (1944). E 1 SIDNEY Peterson, A note on comedy in experimentalfilm, in “Film Culture”, n. 29, p. 27.

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appunto quest’ultimo film a costituire il primo considerevole ri­ sultato artistico di Anger, anche se non cela forti discontinuità stilistiche e una sostanziale farraginosità. Inizia con una giovane coppia che si separa in riva al mare: dall’alto di un castello neo­ gotico di stucco, la ragazza e spiata dalla zia, medium di un tempio di spiritualisti che dominano e opprimono la giovane. Sfidando i suoi aguzzini, essa invita l’amico al castello, provo­ cando così l’ira della diabolica zia che, informata dagli spiriti suoi soggetti, minaccia tremende vendette. Disperata, la ragazza decide di fuggire. La nevrosi omosessuale, pur bollendo con violenza nell’ani­ mo dell’autore, serpeggia ancora con fuorvianti travestimenti in Escape episode, ma esplode con inaudita violenza e straordinaria potenza rappresentativa l’anno seguente, 1947, in Fireworks, quando l’autore non è che diciassettenne. Il film ha una com­ pattezza, densità, violenza febbrile da lasciare ancor oggi senza flato, e da giustificare largamente l’ammirazione immediata­ mente guadagnatagli in Francia da Cocteau e dagli ambienti ci­ nematografici vicini e memori dei migliori risultati surrealisti. Con la differenza che in questo film di Anger il sogno - lungi dall’essere un’oscura fantasia su timori e desideri profondamen­ te sepolti nel subconscio — rassomiglia molto di più a quelle vi­ sioni del mattino quando le immagini del dormiveglia hanno la verità e lucidità di pensieri consapevoli e coerenti. Un giovane si alza nel cuore della notte e sogna, o forse no, dopo aver vagato per bui angiporti, di essere assalito, picchiato e violentato da un nugolo di nerboruti marinai; al colmo dell’eccitazione e del do­ lore, il pene gli si incendia come una farandola natalizia. Pare che quando un inviato dell’Ar^ in cinema series andò a trovare Anger a Los Angeles per vedere il film in vista di un’eventuale presentazione a San Francisco, il giovane Kenneth si vergognas­ se molto e fosse per tutto il tempo della proiezione con il cuore in gola, nel timore dell’improvviso arrivo della madre, uscita per una provvidenziale passeggiata.

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Un grande artista, nonostante gli inevitabili e augurabili in­ flussi, percorre sempre un misterioso e personalissimo cammi­ no, e questo è particolarmente vero per Anger, che diede l’onore nel 1953 all’Italia di fornire l’ambientazione di un bellissimo lied visivo, melanconico, lieve, musicalissimo, che molti, fra cui Jonas Mekas e P. Adams Sitney, ritengono l’opera più alta di Kenneth Anger. Non sarebbe diffìcile essere d’accordo se, per vie molto diverse, Fireworks e il posteriore Scorpio rising non fa­ cessero valere ragioni molto perentorie e cospicue. Si tratta di Eaux d’artifìce, non più fuoco ma acqua, ele­ mento del segno ascendente di Anger, lo scorpione, a sua volta protagonista di un altro magistrale film. Una graziosa e aerea creatura androgina, avvolta in un ampio mantello e sormontata da un alto copricapo che culmina con una piuma, fugge gioco­ samente, quasi senza toccar terra, per terrazze e fontane della vil­ la d’Este a Tivoli; e l’obbiettivo come affascinato non sa decidere se buttarsi a capofitto alla sua ricerca o se indugiare sui ciuffi ba­ rocchi e sensuali di cascate e giochi d’acqua. Alla fine il dubbio è salomonicamente sciolto dal dileguare della figurina nella più ri­ gogliosa e a lungo rimirata fra le sorgenti. La tersa, iridescente metafora è accompagnata da uno spartito di Vivaldi che ne scandisce splendidamente il ritmo, e inquadra culturalmente con piena perspicuità il gusto stilistico della mirabile operina. Quasi subito dopo Anger comincia a girare il film che per la prima volta nella sua filmografia mette chiaramente in luce il crescente interesse e coinvolgimento dell’autore nella cabala e nella magia nera, soprattutto secondo l’insegnamento dell’oc­ cultista inglese Aleister Crowley, di cui diventa un fervente di­ scepolo. La gestazione di Inauguration of the pleasure dome (19541966) è lunga e complicata, anche per motivi strettamente tec­ nici, derivanti dall’iniziale tentativo di creare un film da proiet­ tare su due o tre schermi, fino alla recente decisione di unificare tutte le immagini su una sola pellicola. Essa è un rituale di cele-

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brazione dellapprossimarsi dell’Era dell’Acquario, periodo di grandi evoluzioni e rivoluzioni dopo la fine della bimillenaria epoca dei Pesci, dominata, nell’interpretazione degli astrologi, dal cristianesimo e dalla mortificazione degli istinti più vitali dell'individuo. In una festa sempre più scatenata e frenetica, il Mago, travestito da dio Siva, e la Donna Scarlatta come dea Ca­ li — impersonata dal pittore Cameron - invocano, circondati dai loro ospiti in guisa di personaggi mitologici, Horus, l’infan­ te coronato e conquistatore, dio supremo dell’età dell’Acquario. A dispetto della consumata abilità compositiva e del raffinatissi­ mo uso del colore, il film lascia però sostanzialmente freddi e distaccati perché la simbologia impiegata da Anger rimane mi­ steriosa e troppo privata per acquistare un significato universale. All’identificazione dei personaggi io non sarei personalmente mai arrivato se non avessi letto la nota esplicativa, e inoltre il puro brillìo delle immagini non è sufficiente a suggerire una comprensiva interpretazione dellopera. Infinitamente più maturo e perfettamente convincente è in­ vece Scorpio rising (1963) in cui i simboli, pur abbondante­ mente usati, sono così strettamente agganciati ai personaggi e alle loro vicende da non ingenerare alcun dubbio sulla loro por­ tata, ma anzi da amplificare, come è giusto, le dimensioni e la profondità dell’intero messaggio fìlmico. Tornato negli Stati Uniti dopo otto anni di permanenza in Europa, venne ad Anger il desiderio di ritrovare un contatto con la cultura popolare americana; egli vide immediatamente nelle bande di giovani motociclisti gli ultimi romantici eroi di questa cultura, l’equivalente dei cow-boys ottocenteschi. A New York, dove il film fu girato, essi sono prevalentemente camioni­ sti, meccanici e scaricatori di pesce al Fulton Market, di origine italiana, e vivono intensamente la loro breve stagione di avven­ turoso vitalismo prima che l’accrescersi della famiglia li convin­ ca a vendere la moto e comprare una macchina, mutamento che segna la fine della loro appartenenza alla rombante confraterni­

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ta. Sono infatti, nonostante abbiano in media poco più di ven­ tanni, generalmente sposati e già con figli in tenera età. Il film si apre con la lenta, sacrale sequenza della ritualistica vestizione del motociclista, che indossa i neri paramenti di cuoio, gli stivali brillanti di borchie e le scintillanti catene che vengono avvolte intorno alla vita. Contemporaneamente una gigantesca motocicletta sprizzante barbagli vivissimi dalle cro­ mature, viene adorata e strofinata con intenso affetto. La consa­ crazione del protagonista, lo Scorpione come Anger stesso, av­ viene in una sacrilega, solitaria cerimonia in chiesa, mentre la banda di motociclisti si scatena in un’orgia buffonesca che cul­ mina nella goliardica unzione, con senape, del sedere della vitti­ ma sacrificale. In un culminare parossistico di citazioni e me­ morie, lo schermo si riempie dei miti spesso inconsci cui si ri­ fanno 1 motociclisti, un contraddittorio ma intenso “pastiche” in cui la violenza istituzionalizzata del nazismo viene associata, per via dell’ormai proverbiale personaggio “selvaggio” di Marion Brando come proto-motociclista, a Cristo con l’altra sua “ban­ da” di discepoli, galvanizzata dall’intenso fascino della sua grazia carismatica. Il finale, come ogni sogno di violenza presuppone, culmina col fracassarsi della motocicletta fuori strada, e il tardi­ vo, inutile, sinistro lampeggiare della rossa luce di un’autoam­ bulanza accorsa a raccogliere le spoglie dell’eroe luciferino. Lo straordinario valore di questo film discende dalla capaci­ tà dimostrata dal suo autore di amalgamare materiali eterogenei in un “climax” sempre più implacabilmente lacerante, fino alla sanguinosa catarsi scandita dall’intermittente faro rosso dell’am­ bulanza alla fine del film. Una parte molto importante nel pro­ cesso di assemblaggio di questo mito satanico del ventesimo se­ colo è giocata dall’efficacissima ed estremamente funzionale co­ lonna sonora, composta di popolarissime canzoni rock’n’roll dell’epoca, che Anger aveva ascoltato e riascoltato sulla spiaggia di Coney Island, nell’estate del ’62, dalle migliaia di transistor degli adolescenti newyorkesi in cerca di refrigerio.

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Del successivo progetto, che avrebbe dovuto intitolarsi Lucifer rising, non resta, a causa del furto di tutto il materiale girato, che una specie di breve “prossimamente” intitolato Kustom Kar Kommandos. Protagonisti sono stavolta i giovani che in America costruiscono con pezzi di varia provenienza quelle buffe, lun­ ghissime macchine da corsa dalle enormi ruote posteriori. In un momento di scoraggiamento seguito all’episodio, Anger decretò la propria morte cinematografica in un annuncio apparso sul The Village Voice nell’ottobre 1967, dichiarazione che non pote­ va essere vera, conoscendo l’autore e l’importanza esistenziale che aveva per lui il cinema. A questo proposito egli ha una volta affermato che “la ragione per cui faccio film non ha nulla a che fare col cinema’; è una scusa evidente per catturare la gente, lo stesso che dire ‘salga a vedere i miei disegni’”... Non meraviglia, quindi, che gli sia uscito dalla manica, nel 1969, Invocation of my demon brother, un frenetico cerimo­ niale satanico, visualmente saturo e intricatissimo, che riassume i temi inizialmente svolti in Inauguration of the pleasure dome e culminati nello straordinario, masochistico vitalismo di Scorpio rising. Questo concentrato sommario di pratiche e simboli ma­ gici manca però, malgrado la scaltrissima abilità illusionistica, del forte afflato umano che è sempre necessario in ogni opera d’arte e che brilla di cosi fulgida luce in Fireworks, Eaux d’artifice e Scorpio. Ma nonostante la sofferenza di esistere, che è gran­ de in Anger, egli è ancora giovane e più che capace di nuove, al­ te rivelazioni cinematografiche.

I Whitney Bros. Torniamo ora agli anni intorno al 1947 per completare bre­ vemente il quadro delle forze emergenti in seno al cinema indi­ pendente americano. Sulla scia di Fischinger, nel dominio dell’arte astratta, si in­

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camminano John e James Whitney che, riprendendone i princi­ pi di coordinazione fra colonna sonora e immagine, fanno un passo avanti e si propongono di realizzarle contemporaneamen­ te usando procedimenti creativi analoghi. Dopo aver preparato una serie di schizzi base in bianco e nero, mediante una stampatrice ottica, un pantografo e filtri co­ lorati, essi li sviluppano animandoli, colorandoli e trasforman­ doli attraverso ingrandimenti, riduzioni e inversioni. Il suono, interamente sintetico, è prodotto da dodici pendoli di varie di­ mensioni, collegati da fili d’acciaio a un cuneo ottico contenuto da un apparecchio di registrazione: oscillando su di una piccola fessura il cuneo segue il movimento dei pendoli, che possono essere azionati a piacere. Il loro movimento, che può produrre variatissime serie di frequenze uditive, viene registrato sulla pel­ licola e serve da colonna sonora. Con questo ingegnoso sistema, i fratelli Whitney completarono nei primi anni della loro attivi­ tà i noti e interessanti Esercizi, numerati da uno a cinque. Diversi anni dopo, all’inizio degli anni sessanta, quando or­ mai si stavano aggregando all’équipe, uno dopo l’altro, i tre figli di John, i Whitney, consci della necessità di automatizzare i loro procedimenti, acquistarono un calcolatore elettronico originaria­ mente utilizzato per puntare le armi di bordo di un bombardiere M-5, e lo adibirono ad elaboratore di immagini. I Whitney sono attualmente interessati a film proiettati contemporaneamente su molti schermi, dieci, sei, con pellicole ad anello combinate con azioni dal vivo. Ora stanno limitando il numero degli schermi a tre, e cercando di migliorare la coordinazione. “I proiettori sono macchine così cattive”, dicono, ed è proprio vero.

L’illusionista internazionale: Hans Richter Non si può dimenticare, qualunque sia il significato e la por­ tata effettiva di questo fatto, che già dagli anni della seconda

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guerra mondiale si aggirava in America quell’immaginoso e atti­ vissimo uomo di spettacolo che era Hans Richter. Trovando a New York Léger, Max Ernst, Man Ray e Duchamp, come lui transfughi dall’Europa, gli nacque l’idea di un film girato in col­ laborazione con loro, una ghirlanda di episodi che Richter si sa­ rebbe curato di organizzare e armonizzare. Dreams that money can buy viene girato dal 1944 al 1946, col contributo di Léger che suggerisce di riprendere i manichini di spose a Grand Street, con una “lei” che se ne parte in bicicletta: l’episodio si intitolerà The girl with the prefabricated heart. Duchamp propone di usare i roto-reliefs che aveva costruito fra il 1935 e il 1936. Venivano montati su di un piatto di grammofono, secondo un procedi­ mento già impiegato da Man Ray diversi anni prima, e col mo­ vimento apparivano tridimensionali. Essi vennero fotografati con lenti deformanti, a colori e in bianco e nero, e rivelarono in­ sospettate qualità ipnotiche, per attenuare le quali Duchamp e Richter pensarono di inframmezzarli col concreto contributo di una donna nuda che scende le scale, stampata su una caduta di antracite che esce da un tubo di scarico per mascherare un poco la nudità. L’episodio si avvale dell’apporto in sede di colonna so­ nora di John Cage, che del resto non aveva grande stima del film nel suo complesso. Di Ernst si concorda di utilizzare alcune idee contenute nel suo libro La semaine de bonté. Calder insiste per partecipare e si gira una sequenza coi suoi “mobiles”; Man Ray sottopone una sceneggiatura completa che viene realizzata in forma piuttosto abbreviata. Richter gira poi il suo pezzo vero e proprio, imperniato sull’esperienza di un uomo che improvvisa­ mente si scopre diverse da quello che crede d’essere: specchian­ dosi un giorno, si vede blu. Quest’uomo blu, colore forse simbo­ lico della spiritualità, segue un filo blu, quello della sua vita, qualunque cosa gli accade. Soccombe alle difficoltà che incontra ma ciò nonostante sempre rinasce. Il film, globalmente conside­ rato, è piuttosto pasticciato e goffo, e non ha certo lo scatto e l’arguzia del capolavoro di Richter, Ghosts before breakfast.

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Neppure 8x8, del resto, girato nel 1957 con lo stesso proce­ dimento di collaborazione a mosaico di Dreams, riuscirà a rag­ giungere una convincente e autonoma dimensione estetica. Ma forse alfetà di Richter sarebbe stata eccessiva richiesta e 8x8 ri­ mane un multicolore gioco di società, nobilitato da tanti nomi famosi deir arte moderna.

Capitolo terzo

Gregory Markopoulos Con Anger, l’altro grande debuttante del ’47 è Gregory Markopoulos, che dopo anni di precocissima pratica con 1’8 mm e la testa piena di sogni derivanti dalla lettura della Picto­ rial history of the movies di Taylor, viene dalla natia Toledo, Ohio, a Los Angeles, all’University of Southern California. Li conobbe e divenne amico di Curtis Harrington, che aiutò nella fotografìa di Fragment of seeking, girato nello stesso edificio in cui vivevano, visionando il materiale a colori per il film Rena­ scence rimase incantato e si convinse a non girare altro che in colore. Lo stesso Harrington ce lo descrive in modo icastico e penetrante, che credo mantenga ancor oggi tutto il suo valore: “Nel periodo in cui fungeva da mio assistente, Gregory era sem­ pre molto gentile e servizievole, cosa di cui gli ero molto grato. Spendeva quasi tutti i suoi soldi in tutto all’infuori che in cibo, principalmente in libri e in pellicola ... Aveva un gran desiderio di lusso e di eleganza ... se non spendeva in libri e in film anda­ va, abbastanza ironicamente, a pranzo da Chasen’s o da Roma­ noff’s o in qualche altro epicureo locale alla moda. Non credo fosse il cibo ad attrarlo, era la gente.”1 Markopoulos studiò all’University of Southern California un solo anno, ma questo gli

1 Curtis Harrington, A slender memory, in “Filmwise”, n. 3 e 4, p. 19.

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bastò per impregnarsi di quell’atmosfera artistica che stava fa­ cendo rivivere le immagini disseminate da Bunuel e Cocteau at­ traverso le nuove sensibilità di Maya Deren, Curtis Harrington e Kenneth Anger. Coi soldi che i genitori gli avevano mandato per l’iscrizione al secondo anno d’università, Markopoulos realizzò il primo film della trilogia denominata, con scoperto omaggio a Coc­ teau, Du sang de la volupté et de la mort. Ispirandosi all’omoni­ mo racconto incompiuto di Pierre Louys, Markopoulos scrisse una propria versione di Psyche in cui, quale punto forte e per­ manente segno di riferimento, mantenne e accentuò il valore simbolico del colore. Esso vi gioca, come poi nei film successivi, un ruolo fondamentale, riflettendo la più profonda natura dei personaggi e formando la basilare unità compositiva del film. “Colore è Eros”, dice Markopoulos, ed Eros era il primo dio uscito dalla notte del Caos primordiale, quello da cui sarebbero derivate tutte le cose viventi. Ed era ermafrodito. Psyche inizia con una porta che si apre, immediatamente se­ guita dall’apparire di una figura velata, forse la protagonista. La stessa porta, suggellando un compiuto ciclo di esperienza, si chiuderà alla fine del film. Due persone sono frattanto apparse sullo schermo: le parole che dicono sono inintelligibili e vengo­ no lasciate all’immaginazione dello spettatore. Il passaggio di una donna in nero turba visibilmente Psyche che si ritrova poco dopo sulla riva soleggiata del mare. Ora Psyche inizia la ricerca dell’“erba dell’invulnerabilità”, per trovare la quale deve andare lontano, in un altro paese. Così abbandona il suo corpo e viag­ gia audacemente verso l’ignoto. Si risveglia nella sua camera e prende dei fiori dal busto di se stessa. Un uccello-mosca intro­ duce l’ingresso di due figure in un esotico giardino ricco di fio­ ri. La coppia giunge su una catena di montagne, sotto la quale si stende una valle rigogliosa, dove sarà possibile trovare l’erba dell’invulnerabilità. Un’indefinita tensione erotica si sviluppa, scontrandosi con i timori inconsci di Psyche, che infine si ab­

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bandona fra le braccia del compagno. Rapidamente, verso la fi­ ne, il film ricapitola le immagini che si sono succedute sullo schermo e la porta si chiude.2 E triste e doveroso notare come la descrizione di questo film, analogamente a quanto succede ad ogni film che si rispet­ ti, sia inadeguata e lontanissima dal dare una sia pur vaga idea dell'intraducibile mondo visuale e cromo-dinamico di Marko­ poulos il quale, insieme all’aspirazione a un ideale di classica e tragica bellezza, cominciava con questo film a sviluppare una inedita ed efficacissima tecnica di montaggio che avrebbe rag­ giunto il suo primo eccellente e indiscutibile risultato con Twice a man. In effetti vi è già in Psyche, nella sequenza dell’estasi fra la protagonista e il suo amante, un preannuncio dell’impiego che si farà più tardi intensivo del fotogramma singolo, soluzio­ ne ancora più ampiamente usata nel finale di questo film. Se Psyche è, come scrisse una volta l’autore, “uno studio di racconto a flusso di coscienza di un’anima lesbica”, Lysis, secon­ do film della trilogia, trae il suo titolo dal dialogo platonico che tratta dell’amico ideale. Girato subito dopo il ritorno a casa dal­ la California, inizia con una rapida successione di immagini sta­ tiche, accompagnate dalla Danza di morte di Honnegger: si sus­ seguono un arazzo orientale, una candela, foto di madre e bam­ bino. Alla fine di questa sequenza, che fa ovviamente riferimen­ to a oggetti e memorie dell’infanzia dell’autore, vediamo lo stes­ so Markopoulos inquadrato solo in riva a un fiume. Le scene successive si avvicinano più decisamente al nucleo di frustrazio­ ne sessuale e di amore incestuoso che comincia a affiorare e che sarà meglio illustrato dai film successivi: un coltello trapassa una pera, uno spillo viene piantato in un cuscino ricamato, ma­ ni fìngono un lavacro rituale su un piatto tenuto dalle mani della madre. Il resto di Lysis è costituito da scene indipendenti 2 Per accennare la trama di Psyche mi ha aiutato lo scritto di GREGORY J. MAR­ KOPOULOS, Psyches search for the herb ofinvulnerability, in “Filmwise”, n. 3 e 4.

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che riassumono visioni e ossessioni omosessuali; una brutta donna salta come una scimmia da un albero all’altro mediante un trucco fotografico di ripresa interrotta, un giovane disteso su un letto si massaggia i piedi, un uomo nudo appeso per i polsi è pugnalato nella schiena, una negra gioca con un cigno. Il mon­ taggio, operato direttamente in macchina, con tanta minore esperienza degli ultimi film in cui questa prassi è estensivamen­ te impiegata, è in parte responsabile della minore coerenza e tensione di Lysis nei confronti di Psyche. Charmides, ultimo della trilogia, è a giudizio di molti il più debole visualmente, anche se forse ideologicamente il più ambi­ zioso. Basato anch’esso, molto alla lontana, su un dialogo plato­ nico in cui Socrate, dopo aver chiesto chi fosse il ragazzo più bello di Atene, dà una sua definizione della temperanza, cerca di aggiungere una prospettiva sociale al tema omosessuale pre­ sentato dai due film precedenti, e si nutre dell’idea di tempe­ ranza che Markopoulos aveva a diciott’anni. All’inizio del film il protagonista osserva una miniatura di un cavallo dalla zampa simbolicamente rotta: girovagando vede intorno a sé degenera­ zione e decadenza, sintetizzate nell’immagine finale di un uovo marcio sovrapposto a un paesaggio, caratterizzato da una diffici­ le leggibilità derivante da una eccessiva esposizione alla luce. L’i­ dea generatrice di Markopoulos, sintetizzata nel principio che “ciò che una data società accetta è considerato sano, e ciò che essa non accetta è ritenuto malsano ”, è forse, a questo stadio del suo sviluppo, troppo complessa e astratta da esprimere, data an­ che la costante cecità o disinteresse del film-maker per le più ampie dimensioni sociali in cui si muovono i suoi personaggi, mentre le immagini prescelte sono al tempo stesso troppo esote­ riche e sintetiche.3

3 Per la compilazione di questa sezione riguardante la trilogia Du sang de la volupté et de la mort, mi sono servito dello scritto di P. A. SlTNEY, G. J. Markopoulos: from trance to epic, in “Filmwise”, n. 3 e 4, p. 61.

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Il successive progetto, Rain black, my love (1950), che si chiamerà poi Swain, trae la sua ispirazione dal primo romanzo di Hawthorne, Fanshawe. In esso ciò che aveva maggiormente colpito Markopoulos era la descrizione del personaggio dello “straniero”: “... dominatore in un mondo suo proprio e indi­ pendente dagli esseri che lo circondavano”.4 Questa citazione, così illuminante e scoperta, mi stimola ad aprire una breve pa­ rentesi sull’ideologia che traspare dai film di Markopoulos. Essa si nutre di un’inflessibile, sovrumana esaltazione dell’individuo, del tutto isolato, o apparentemente intoccato, dall’ambiente so­ ciale da cui proviene. Ciò ne sottolinea le caratteristiche di nar­ cisismo e snobismo, nega la possibilità di solidarietà e di apertu­ ra verso la generalità degli individui, e porta inevitabilmente al­ l’istituzione di una categoria di super uomini, contrapposti alla massa anonima dei comuni mortali. Vi è in questo una specie di contaminazione fra una concezione nietzchiana dell’uomo e la perpetua esaltazione delle capacità e delle vocazioni indivi­ duali (conficcata nella testa degli americani fin dalla nascita) e, insieme, la costante aspirazione propria della borghesia di mimare, e in ultima istanza raggiungere, la squisitezza ed esclusivi­ tà della detronizzata e segretamente invidiata classe feudale. Questo appare anche da piccoli dettagli del comportamento di Markopoulos e spiega la concezione aristocratica e reazionaria della sua visione sociale, che egli ha adattato, con una compren­ sibile operazione di transfert, alla sua scelta e alla sua funzione di artista. Essa, sublimate le origini economiche e di classe che la condizionano e determinano, diventa per Markopoulos una sacra investitura che la pone al disopra dei contrasti umani, in posizione di imparziale magistero. “Mi domando”, egli scrive “quanti di noi autori di film si rendono conto che ciò che stia­ mo creando è il futuro linguaggio di una fantastica era. Le no­ 4 Gregory J. Markopoulos, From “Fanshawe" to Swain, In “Film Culture”, n. 41, estate 1966.

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stre meschine preoccupazioni per la bomba atomica e per i pro­ blemi sociali diventano al confronto ridicole. Quanti film-ma­ kers comprendono di lavorare alla creazione di un nuovo lin­ guaggio del genere umano, e cioè a una nuova religione?”5 Questo è naturalmente un limite molto forte alla portata e validità globale della comunicazione markopoulosiana, non suo soltanto ma proprio anche di diversi altri artisti dotati, che non cancella però le qualità positive di dedizione, spirito di sacrifi­ cio, grande accuratezza, oltre all’acuta sensibilità nell’uso del proprio mezzo, che sono le ragioni per cui la sua opera è ricca di stimolanti e convincenti soluzioni stilistiche e merita lo spa­ zio che qui le sto dedicando. Per tornare al Fanshawe di Hawthorne, ben poco ne rimane nel film tranne lo stimolo dichiarato, che si riduce in pratica a una superficiale somiglianza fra i protagonisti, ambedue eroi ro­ mantici alla ricerca di una diffìcile affermazione delle proprie imperiose necessità esistenziali. Si tratta essenzialmente di una fuga e del rifiuto del tradizionale rapporto maschio-femmina in cui la società tende a canonizzare la vita amorosa del suoi com­ ponenti. All’inizio del film il protagonista, impersonato da Marko­ poulos, si guarda in uno specchio, poi calpesta coi piedi nudi due piccoli buddha di giada, abbandonati su un tappeto di fian­ co al letto. Li incontrerà ancora, senza degnarli di maggiore at­ tenzione, su un sentiero sotto la pioggia, mentre noterà e salute­ rà con entusiasmo un manoscritto, che era in realtà la sua sce­ neggiatura per un progettato Prometeo, realizzato poi col titolo di The Illiac Passion. Inframmezzano la corsa del giovane alcune immagini di rapporti sessuali non proprio invitanti, una donna che striscia fra le ali di un uccello — accoppiamento chiaramente riferito al mito di Leda e il cigno — e un gruppo di coccodrilli in 5 Da una lettera di G. J. Markopoulos a S. Brakhage, in “Film Culture”, n. 29, p. 95.

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procinto dì allacciarsi nella melma. Recandosi verso una casa, il personaggio si ferma a osservare con occhio innamorato il rilie­ vo di un nudo classico. In casa egli giace, vestito da cadetto, at­ traverso un letto, cui si approssima qualche istante dopo una ra­ gazza vestita di un bianco abito da sposa, che si inclina sul gio­ vane per baciarlo. Alf inquadratura del viso di lui ad occhi chiu­ si ne segue una di un nero insetto che scende alf interno di un fiore bianco. Continuamente inseguito dalla ragazza, il protago­ nista fugge per un corridoio in fondo al quale leva le mani verso la luce del sole che filtra attraverso una vetrata, in simbolico la­ vacro. Si ritrova qui un ricorrente omaggio al sole che Marko­ poulos associa strettamente alla sua persona, identificata spesso con Giacinto, l’amante del Sole. In una nicchia fra colonne di marmo egli trova una calza da donna, che fa cadere vicino a un ruscello; poi cerca di liberare un fiore di giacinto da un viluppo di muschio. Aprendo un ampio tendaggio, in un’evidente ricer­ ca di spazio e di liberazione, il giovane si trova davanti un muro nero. Il finale, che vede l’esterno di un manicomio con le fine­ stre sbarrate, fornisce la chiave di questa che è la fantasia di un giovane lì rinchiuso, e la conferma del fallimento del suo tenta­ tivo di evitare la contaminazione di una sessualità che lo repelle. Il film rappresenta la prima forte affermazione del mito di Giacinto, uno dei personaggi più cari a Markopoulos, origina­ riamente un giovane amato contemporaneamente da Apollo e da Zefiro, che quest’ultimo aveva ucciso in un impeto di gelosia essendogli stato preferito il dio solare. L’immagine che il filmmaker ne dà è quella di un eroe romantico, omosessuale e narci­ so, in urto perpetuo con le norme consuetudinarie della società. L’Ippolito di Twice a man e il Prometeo di The IIliac Passion ne costituiranno una continuazione e uno sviluppo. Dal 1954 al I960 Markopoulos e totalmente assorbito dal­ l’incessante calvario di Serenity, il film che lo vede tornare alla terra d’origine dei genitori, ambedue nati in Grecia, e che di­ pinge come più emblematicamente non si potrebbe la condan­

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na, dannazione e morte di un progetto che non poteva, come nulla può, servire due padroni: l’urgenza creativa dell’artista e l’implacabile meccanismo del profitto. Markopoulos, che oltre al resto è uno straordinario public-relations-man di se stesso, si era forse illuso di potersi riservare un margine di manovra fra esigenze così eterogenee, e questa presunzione gli fruttò la per­ dita di set anni di attività, attraverso inenarrabili peregrinazioni da un possibile finanziatore all’altro, e quel che è peggio la per­ dita, anche se temporanea, del film, ancor oggi non distribuito per una irrisolta lite legale coi produttori.6 Basato su di un romanzo dello scrittore greco Elia Venezis, il film ha per sfondo storico il tragico scambio di popolazioni se­ guito al trattato di pace del 1921 fra Grecia e Turchia: in forza di esso grandi masse di greci che fin dall’antichità erano vissuti in Asia Minore, furono costretti a lasciare i luoghi d’origine e a raggiungere la penisola greca come profughi. Questa migrazio­ ne però non è mai più di uno sfondo, anche se opprimente e ineliminabile, sul quale si muovono in primo piano alcuni per­ sonaggi, fra cui primeggia il medico idealista Dimitri Veni, che cerca disperatamente di ritrovare un rapporto, di ristabilire gli interrotti canali di comunicazione con la sua terra nel nuovo luogo di residenza, l’isola di Mitilene. Questo caparbio tentati­ vo è rappresentato visualmente dal suo proposito di coltivare rose su di un suolo particolarmente aspro e ostile. Il dialogo con la terra, insieme agli altri principali elementi naturali, è una del­ le caratteristiche vitali e risolte del film e si ripete in molte va­ riazioni, dalle mani del dottore affondate in quelle zolle così re­ stie a dare frutti, alla scena del ratto in cui i corpi dei due giova­ ni si divincolano sul terreno, intervallata da inquadrature in cui

6 Per un giovane artista che voglia purgarsi anche soltanto del pensiero di un possibile compromesso col capitale, valga la lettura della parte finale delle disavventu­ re di Markopoulos, in relazione alla realizzazione di Serenity, in “Quest for Serenity, Journal of a film-maker”, Edizioni di “Film Culture”.

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le mani coperte di melma del giovane accarezzano i piedi infan­ gati della ragazza. Su questa diffìcile e precaria presa di contatto, giganteggia la quasi costante presenza dell’elemento acqua, pro­ prio del segno solare di Markopoulos, che agisce come un coesi­ vo elemento amniotico in cui fluttuano, sospese nel tempo e re­ ciprocamente isolate, le presenze persistenti e illusorie dei per­ sonaggi corali e individuali, prima di tutti il dottor Veni, alla fi­ ne sconfitto ed escluso dal così fortemente voluto accordo e ac­ quietamento in un ambiente che mai avrebbe potuto rassomi­ gliare all’antico. Girato in trenta giorni nel 1958, il film riecheggia nella composizione delle inquadrature e nel loro ritmo interno lo sti­ le epico-tragico dei film muti degli anni venti, e anche il colore è utilizzato in modo da accordarsi al sapore e all’effetto della pellicola virata come si usava in quel periodo. In Serenity, non­ ostante il compromesso alla base dell’impresa, Markopoulos co­ mincia a formulare con maggiore consapevolezza e maturità dei film precedenti i principi di montaggio che porterà a tanto ri­ gorosa eccellenza in Twice a man. Uno dei più importanti con­ siste nella ripetizione, come segnale intermittente di una sotter­ ranea continuità, di un’immagine chiave, che si pone come il principale accordo armonico su cui si edificano le susseguenti variazioni. Più il discorso formale si arricchisce e si articola, più crescono in numero e in interrelazioni questi accordi fonda­ mentali, col parallelo geometrico moltiplicarsi dei loro sviluppi tematici. Anche la colonna sonora inaugura un processo portato alla sua naturale e rigorosa conclusione in Twice a man. Essa consi­ ste di quattro commenti parlati in quattro diverse lingue: il te­ sto inglese fornisce una semplice narrazione, quello greco dà il necessario colore ambientale, il tedesco informa sulla vita dei profughi prima dell’esilio, e il russo compone un quadro storico generale sugli avvenimenti sociali correlati a quello particolare del film. Come la scena, anche, e ancor più, la colonna sonora è

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lontana dalla sua forma definitiva. Ciò giustifica almeno in par­ te l’imperfetto equilibrio fra visione e suono, e lo sgradevole ef­ fetto di distrazione che quest’ultimo talvolta genera. Ma tutto Serenity è ancora una specie di enigma che speriamo il futuro possa presto aiutare Markopoulos a chiarire. Nel 1961, dopo la pesante prostrazione seguita al fallimento dell’impresa di Serenity, Markopoulos comincia a lavorare al progetto di Twice a man. Ispirato alla leggenda di Ippolito, esso ha per tema l’amore incestuoso del protagonista per la madre Fedra e, parallelamente, il rapporto che lo lega al suo mentore, aggiunta originale di Markopoulos. E un ritorno alle origini che non potrà portare che bene. Nella prima versione della sceneggiatura i personaggi erano chiamati Costantino (ovvero Ippolito), Afrodite (Fedra) e Chi­ tone, il nuovo ruolo che doveva rappresentare l’artista come medico, coerentemente con la concezione taumaturgica che Markopoulos gli assegna nella società. Twice a man vede il trionfo della peculiare concezione duali­ stica che Markopoulos legge prima di tutto in se stesso, la coesi­ stenza nella stessa persona delle due nature, maschile e femmi­ nile. Egli la estende ancora in un triangolo, comprendente Ip­ polito, la madre e il mentore, che si espande fino a diventare un quadrato quando uno degli angoli, la madre, si sdoppia molto eloquentemente in due complementari presenze, quella della giovane madre in veste di amante ideale, e quella della madre anziana, depositaria dell’affetto e della protezione materna. Anche la coppia Ippolito-mentore è in realtà l’espressione bifronte di un’unica essenza, e rappresenta la doppia funzione che ognuno di noi a turno assolve di amato-amante, protettoprotettore, alunno-maestro. Più ancora questo dualismo è una presentazione dinamica, una finzione visiva di un sostanziale narcisismo, caratteristica dell’omosessualità. In Twice a man, un Ippolito dei nostri giorni visita la casa della madre a Staten Island (New York) e girovagandovi ricorda

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fatti recenti che hanno progressivamente addolorato la madre, relativi all’amicizia di Paul, nome definitivo dell’originario Ip­ polito, con il suo più anziano compagno e mentore. Non vi è altra azione rimarchevole nel film, eccetto le due morti del pro­ tagonista, la prima in mare e la seconda dopo essere risuscitato ad opera di Albert, l’amico medico. Tutto il film si svolge in realtà nell’intreccio di memorie e di pensieri dei tre personaggi principali, in un multicolore lampeggiare di immagini che è im­ possibile fissare e riferire con sicurezza a ciascuno di essi. Que­ sto procedimento altera completamente l’ordine cronologico dei fatti e una normale concatenazione di causa ed effetto, per cui ad esempio all’arrivo di Paul nella casa della madre, i dolenti già siedono piangendo la sua morte. A parte lo sdoppiamento dei personaggi, Twice a man sfog­ gia una completa ed esauriente trattazione del tema dualistico nelle immagini stesse, molto spesso raddoppiate dal riflesso che persone e cose proiettano su specchi, superfici liquide e lucide. E anche il colore si piega docilmente a questa scelta espressiva in un’instancabile altalena, che perciò stesso annichilisce la di­ mensione del tempo psicologico del film in una eternità priva di sviluppi cronologici, fra chiari e scuri, fra luce e ombra, fra vita e morte. Il lungo cammino dal primo impiego dei fotogrammi singo­ li in Psyche alla complessa armonizzazione di inquadrature-base, su cui si innestano, attraverso sfolgoranti istantanee, le variatis­ sime interferenze psicologiche e temporali di tutte le compo­ nenti il corpo fìlmico, si conclude in un trionfo, e Twice a man resta e resterà uno dei capolavori incontestati della cinematogra­ fia, come insisteva a dire Cocteau, molto diffidente verso la pa­ rola cinema così reminiscente di svago a basso livello, di visione distratta, di facile grossolanità. Resta da accennare, a proposito di Twice a man, a quella che fu una prolungata, amichevole, multilaterale “querelle” sulla co­ lonna sonora del film, sviluppatasi inizialmente fra Markopou-

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los e Stan Brakhage, e continuata con la partecipazione di Jane Brakhage e la cooptazione del compositore Jim Tenney.7 Ero stato per un certo tempo affascinato dal dibattito pro e contro la possibilità e fopportunità di aggiungere una colonna sonora a un film visualmente così complesso, singolare e riusci­ to come Twice a man, quando rileggendo una delle lettere di Markopoulos a Brakhage ho trovato la risposta teorica ai timori espressi da quest’ultimo: “gli amici contestano, consigliano e ammoniscono in base a ragioni personali — a seconda di come le cose appaiono loro — non per come esse toccano il cuore del film-maker”.8 La soluzione fu alla fine quella per lungo tempo rimuginata da Markopoulos, affinando un procedimento di montaggio al­ l’interno di una o più colonne parlate, già sperimentato in Sere­ nity, e consistette nell’intessere sapientemente le parole della madre con quelle del figlio, e queste con quelle dell’amico, com­ ponendo una musica fonetica analoga, nelle sue modalità di svi­ luppo, a quella delle immagini. Con possibilità di infinite varia­ zioni. Abbastanza curiosamente, l’inclinazione verso la letteratu­ ra che Markopoulos — poeta nell’adolescenza, come Maya De­ ren — accuratamente sopprime nel processo creativo delle imma­ gini fìlmiche, nonostante la grande maggioranza dei suoi film tragga la sua origine da sorgenti letterarie, riaffiora nella insolita importanza che le parole hanno nelle sue colonne sonore, caso abbastanza raro nell’ambito del cinema sperimentale americano. Con Twice a man Markopoulos mette a punto un efficacis­ simo ed originale stile di montaggio di cui dà anche una formu­ lazione teorica9 che mette fra il resto in guardia contro i pericoli

7 Per una diretta conoscenza del carteggio Markopoulos-Brakhage-Tenney, si rinvia al n. 29 di “Film-Culture” che lo pubblica per esteso. 8 Cfr. “Film Culture”, n. 29, p. 83. 9 Gregory J. Markopoulos, Towards a new narrative film form, in “Film Cul­ ture”, n. 31, p. H.

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di discontinuità che la tecnica del fotogramma singolo compor­ ta, inconveniente superabile mediante la messa a punto di una specifica programmazione delle adiacenze, variabile a seconda delle necessità espressive. Questo film apre un periodo di ecce­ zionale creatività e fecondità per l’artista, la sua grande maturi­ tà, ribollente di film che in parte continuano con alti e bassi qualitativi fino alla virtuale estinzione, l’esperienza artistica di Twice a man: e che in parte rinascono sotto nuove e affascinanti forme che testimoniano l’incessante ricerca di Markopoulos per soluzioni espressive progressivamente consone alle sue mutanti necessità rappresentative. Poiché in questa selva di nuove opere diventa diffìcile orientarsi, e un puro criterio cronologico può rivelarsi troppo meccanico, mi permetterò qualche licenza nel­ l’ordine con cui ne parlerò. Mi sembra che il film che con maggior forza e densità di immagini segue il traguardo posto da Twice a man sia The IIliac Passion, un’idea e un personaggio che hanno una storia straordinariamente lunga nella vita e attività di Markopoulos. La prima sceneggiatura per Prometeo legato risale addirittura a quell’anno trascorso all’Università della California meridionale che vide nascere il primo film dell’autore. Ma solo nel ’64, coi soldi del premio vinto al Festival di Knokke-Le-Zoute da Twice a man, Markopoulos riesce a licenziarsi dalla libreria dove la­ vorava come commesso e a dedicarsi completamente alla rea­ lizzazione di questo progetto. La sorgente principale d’ispira­ zione era il Prometeo legato di Eschilo, che Markopoulos ave­ va letto nella traduzione inglese di Thoreau, ma solo tre sui ventotto personaggi impiegati dal film-maker appartengono al­ la tragedia greca: essi sono Prometeo, che secondo la tradizione iconografica appare nudo, impersonato da Richard Beauvais, conosciuto casualmente nella libreria dove Markopoulos lavo­ rava; Poseidone, che non arrivava più in una vasca da bagno, come previsto dalla prima sceneggiatura, ma cavalcando una bicicletta da palestra, senza ruote, rappresentato da Andy War-

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hol; e una Io vagamente asiatica, per l’interpretazione di Clara Hoover. Si fondono nel film, insieme al fondamentale apporto eschi­ leo, molti altri miti, quelli di Eco e Narciso, Dedalo e Icaro, Gia­ cinto e Apollo, Venere e Adone, Orfeo e Euridice, Giove e Gani­ mede, e altri. Un composito panteon, un carosello di reminiscen­ ze mitologiche che è il più comprensivo tributo pagato da Marko­ poulos alla propria ascendenza greca e a quella che fu, fino alle ele­ mentari, la sua cultura e la sua lingua madre. Oltre a ciò, per inci­ so, The Illiac Passion è un prezioso documento, una galleria icono­ grafica che raccoglie i volti di molti fra gli artisti attivi in un mo­ mento di grande felicità creativa a New York, anni trascorsi ormai, di cui non restano che rare, disperse e piuttosto grigie vestigia. Nel corso delle ricerche precedenti le riprese di The Illiac Passion, Markopoulos trova nell’opera La tragedia greca di Kitto una citazione che lo conferma nelle sue scelte espressive, relative al film, e che è una straordinaria chiave alla comprensione di tutta l’opera markopoulosiana: “La storia di Prometeo, non­ ostante possa dare l’illusione dell’azione, non era destinata a ciò. E un dramma della rivelazione, non dell’azione, di una tensione crescente in una situazione che non muta”.1011 In effetti il motore principale delle opere di Markopoulos è il montaggio, che agisce su personaggi, luoghi e, soprattutto, colori, mescolandoli in intricati accordi ritmici e cromatici, co­ me eloquentemente il film-maker dichiarava in una lettera a Brakhage qualche anno prima: “Che bisogno c’è degli attori, col nuovo metodo di montaggio astratto il film-maker diventa attore; ... è alla moviola che nasce il miracolo. Le inquadrature diventano come parole, e più grandi delle parole”.11 The Illiac

10 Gregory J. Markopoulos, lettera datata New York, 5 giugno 1963, in “Film Culture”, n. 29, p. 83. 11 Da Ein Edelweiss, estratto dai diari di G. J. Markopoulos, in “Filmwise”, n. 3 e 4, primavera 1963.

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Passion non fa eccezione, naturalmente, ne è anzi un’ennesima, convincente dimostrazione, allargata in una scansione che ha perso la nervosità di Twice a man per acquistare una quasi ele­ giaca grandiosità che ben si attaglia alla superna razza dei suoi personaggi. Stessa analogia con Twice a man ritroviamo nella colonna sonora, e questa volta è l’autore che legge il dramma eschileo con pause e ripetizioni di parole e frasi a seconda delle emozioni che ne ricava, generando uno straordinario e sottile, prevalentemente indiretto gioco di risonanze fra immagini e pa­ role, legate da una comune matrice culturale ed emotiva: il cor­ po dei miti più significativi e icastici della civiltà occidentale. La tecnica della dizione ricalca il distacco e la classica com­ postezza delle immagini, e valgono per essa le stesse istruzioni che già Markopoulos aveva dato in analoga situazione a Paul Kilb, l’Ippolito di Twice a man\ “Per favore, Paul, ricorda di pronunciare ogni parola distintamente. In nessun caso cerca di interpretarla. Pronuncia ogni parola come faresti nella vita di ogni giorno. Ricorda che ti ho scelto per interpretare il ruolo del Figlio a causa di peculiari qualità inscindibilmente assom­ mate nel tuo essere. Non ho intenzione di mandarle a pezzi, ciò che succederebbe se tu cercassi di recitare, di ricreare ogni paro­ la al di là della sua semplicità”.12 Non è un caso che questa vol­ ta, per dar voce a un eroe da così gran tempo custodito e va­ gheggiato nella propria mente, un’immagine di se stesso segnata da un destino di creatività raggiunta attraverso una continua, dolorosa e caparbia dedizione, sia lo stesso autore a farsi avanti, rendendo evidente una identificazione che, sotto variate spoglie, non fa che riprodursi attraverso tutta la sua opera. Per giungere alla realizzazione della tecnica di montaggio impiegata in Twice a man, erano occorse a Markopoulos diverse prove, iniziate usando il sistema del fotogramma singolo già in

12 In “Film Culture”, n. 29, p. 93-

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sede di ripresa. Ciò comportava un’enorme fatica di spostamen­ ti e ridefmizione dell’inquadratura, in rapporto alla qualità mi­ nima di materiale girato, e soprattutto l’impossibilità di ritrova­ re l’esatta composizione del fotogramma nel caso, frequente, di una sua ripetizione. Questi tentativi convinsero il film-maker a girare normalmente il materiale desiderato e ad usare poi il si­ stema di stampa conosciuto col nome di “A e B”, che consiste di un film scomposto in due originali da stampare alternativamente. Tutte le volte che sul rullo A vi è una giunta, da questa fino alla giunta seguente vi è una coda nera e la macchina, per stampare, deve passare al rullo B che contiene le inquadrature corrispondenti alle code nere sul primo rullo. Questo procedi­ mento consente la massima flessibilità nella composizione delle inquadrature, e inoltre di mascherare le giunte che altrimenti sarebbero fastidiosamente visibili nel formato 16 mm usato da Markopoulos per i suoi film. Con Galaxie l’autore, diventato ormai - tutt’uno con la macchina - un sensibilissimo strumento in cui immediata è la rispondenza fra effetto desiderato e sua realizzazione, supera la complessità del procedimento di stampa “A e B”, e inaugura un sistema di montaggio in macchina, sommando tutte le sue tec­ niche tradizionali, sovrimpressioni, fotogrammi singoli, dissol­ venze, ecc., che, a parte la grande fatica in sede di ripresa, darà alla fine un risultato compiuto e perfetto, soggetto solo a mini­ me correzioni. Nasce così nel 1966 il film-galleria di ritratti Galaxie, con la partecipazione di Parker Tyier, Storm de Hirsch, Amy Taubin, Donald Droll, Harry Koursaros e Gordon Herzig, Ben Weber, George e Mike Kuchar, Eric Hawkins, Louise Grady, Frances Steloff, Charles Boultenhouse, Alfonso Ossorio, Jasper Johns, Jonas Mekas, W. Auden, Jerome Hill, Allen Ginsberg e Peter Orlowsky, Robert Ossorio, Maurice Sendak, Paul Thek, Susan Sontag, Tom Chomont, Giancarlo Menotti, Ed Emshwiller, Robert Scull, Gregory Battcock, Hendrik Ruttenbeek, Shirley

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Clarke, Jan Cremer e Ken Kelman. Sono di solito ritratti indivi­ duali, salvo i cast in cui due persone sono trattate come un uni­ co essere composito, i fratelli Kuchar, ad esempio, e la coppia Ginsberg-Orlowsky. Si aprono al suono di un campanello indù, che li numera progressivamente, e con i rispettivi nomi, e si chiudono con una dissolvenza. L’occhio del film-maker insiste soprattutto nell’osservazione del volto e dei suoi dettagli, e delle mani, ma si attarda talvolta, nel caso di due amabili giovanotti, anche su gambe e membra che testimoniano excursus non gratuiti. Una prima osservazione dell’oggetto del ritratto si spezza in tanti rivoli accavallati e con­ fluenti, in ricorrenti sovrimpressioni che possono essere anche dieci alla volta e dare l’effetto cubista di tanti diversi “io” in pre­ da a umori diversi ed esprimenti opposte sensazioni. In questo modo è opinione di Markopoulos che l’incidenza del montag­ gio mantiene, se non accresce, la sua importanza, ciò su cui non si può che essere d’accordo”.1314 Mi sembra illuminante, per spiegare la tecnica e l’approccio di Markopoulos nei confronti dei suoi soggetti, citare le im­ pressioni che Mark Turbyfill, vecchio poeta e pittore residente a Chicago, pubblicò dopo la realizzazione da parte di Marko­ poulos di un suo lungo ritratto (Through a lens brightly: Mark Turbyfill), girato con tecnica del tutto analoga a quella di Galaxie. “L’invito ad apparire in un film di Markopoulos”, ricorda Turbyfill, “giunse alquanto inatteso... ma immaginarmi cinto dei radiosi colori che si dice usi questo sensibile artista mi diede un immediato fremito di benessere. Presumevo che non avesse visto alcuno dei miei dipinti e letto poco o nulla delle mie poe­ sie. Certamente non aveva visto i balletti in cui avevo danzato con Ruth Page perché essi erano nati e morti prima del suo 13 Cfr. intervista di Jonas Mekas a G. J. Markopoulos in “The Village Voice”, del 14 aprile 1966.

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tempo. D’altro canto io non conoscevo i suoi film. Eravamo pari, per così dire... Senza ulteriori discussioni, la data delle ri­ prese fu stabilita. Doveva trattarsi di un film biografico girato nel mio appartamento, dove Markopoulos avrebbe trovato gran parte dei muri coperti di miei quadri... Ciò che aveva chiesto era semplicemente un non specificato numero di foto vecchie e recenti, di programmi dei balletti, riviste che avevano pubblica­ to mie poesie e copie dei miei libri. Accumulata su un grande tavolo, la mescolanza delle mie scoperte sembrava un poco invi­ tante guazzabuglio, ma grazie alla rapida valutazione dei mate­ riali da parte di Markopoulos, la confusione si trasformò in luce e ordine, e un significativo arco della mia vita sembrò evocato e illuminato in una specie di mosaico che questo artista estremamente intuitivo stava organizzando con frammenti casuali e for­ tuiti”.14 Markopoulos ha sempre avuto uno straordinario sesto senso nel volgere a suo profitto le situazioni e gli oggetti che il caso gli offre nel corso delle riprese, e questo fin dai tempi di Swain, quando simboli importanti come i fiori, l’uccello morto, il pe­ sce, erano stati casualmente trovati e assunti immediatamente fra il materiale da montare. Quando Markopoulos ha iniziato a girare un film, procede implacabilmente fino alla fine, senza che nulla possa fermarlo. Richiede la massima puntualità agli attori e gira con pioggia o bel tempo, qualunque siano le condizioni atmosferiche, accettando l'inevitabile realtà della luce e dei luo­ ghi e traendo da essi nuovi e insperati motivi di ispirazione. Nel caso di Mark Turbyfill, questa collaborazione con una non preordinata realtà ha prodotto una deliziosa, musicalissima so­ nata, agile e soffusa di una lieve melanconia, nei suoi toni verdi e prevalentemente freddi, ricreando l’aura di una vecchiaia sere­ na e ancora vivace dopo una vita densa di creatività.14 14 Mark Turbyfill, Being myselfin a Markopoulos biography, in “Film Culture”, n. 46, p. 18.

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Legato a questo procedimento espressivo è anche Bliss, un breve film girato nel 1967 nell’isola greca di Hydra, quasi inte­ ramente all’interno di una chiesa ricca di bellissimi affreschi bi­ zantini, dai caldi toni rossi e viola che la povertà di illuminazio­ ne fa ancor più risaltare. Anche qui la grande sensibilità e capa­ cità tecnica di Markopoulos nel dominare il suo mezzo produce un affettuoso e rispettoso omaggio a una storica reliquia della fantasia e dell’operosità umana. La produzione di film di Markopoulos e continuata a ritmo serrato in questi ultimi anni, e alcuni di essi non si sono ancor visti, date le spese necessarie alla stampa. Del 1966 è Eros, O Basileus, girato in un appartamento della Bowery, a New York, protagonista il film-maker Robert Beavers. Dopo anni di va­ gheggiamento si realizza finalmente il proposito di utilizzare il suggestivo castello di Rocca Sinibalda, nei pressi di Rieti, e na­ sce, sotto il segno di incredibili limitazioni, Gammelion. Questi limiti, consistenti nella disponibilità di due sole bobine di tre minuti l’una di pellicola a colori 16 mm per un film di circa un’ora, suggeriscono a Markopoulos l’idea di percorrere tutto il castello, dall’ingresso agli spalti, impressionando per ogni in­ quadratura unicamente dai cinque ai dieci fotogrammi, da in­ frammezzare in sede di montaggio con frasi di coda neutra. E da poco in circolazione The Mysteries, lungometraggio girato in Germania. Pare insomma che la permanenza europea di Marko­ poulos, da qualche anno residente nel vecchio continente, sia fruttuosa per il film-maker e lo porti avanti per la strada intra­ presa vent’anni fa, che lo ha confermato uno dei grandi maestri di stile del new american cinema.

Capitolo quarto

Harry Smith Solamente nel 1965 uno dei maggiori autori di cinema d’a­ nimazione dell’underground americano se ne uscì all’aperto mostrando in pubblico chilometri di pellicola sprizzante ritmo, vivacità e allegria, e raccontando stranissime, affascinanti e in­ quietanti storie di uomini e oggetti che si battono, integrano e trasformano nei modi più improbabili. Ma erano quasi tren­ tanni che Harry Smith, vissuto lungo tempo a San Francisco e amico di Fischinger e dei fratelli Whitney, lavorava all’oscuro e in silenzio a film e più ancora a dipinti, la maggior parte dei quali oggi non esiste più. Trascorsa l’infanzia in una solitudine animata di mistero e introdotto dal padre all’interesse e allo studio dell’occultismo e dell’alchimia, Harry Smith cominciò a mettere a frutto la sua inclinazione per la manipolazione di forme e sostanze con una serie di film d’animazione, numerati progressivamente, e otte­ nuti disegnando, colorando e trattando con tecniche svariate e spesso appositamente concepite la pellicola 35 mm. Ciò com­ portava l’uso di carte adesive, vernici liquide e a spruzzo, vaseli­ na, solventi vari, con procedimenti del tutto insoliti rispetto alle normali tecniche. Il risultato è un indiavolato, esilarante scate­ namento di forme elementari, per lo più cerchi, quadrati e ret­ tangoli, nella tradizione di Richter e Fischinger, ma del tutto americanizzati nel loro variatissimo comporsi e scomporsi che

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toglie il respiro, con in più uno strano colore granuloso, materi­ co, quasi tridimensionale, in una gamma anche questa terrosa, composita, di tinte reminiscent! umidi sottoboschi mescolati a detriti industriali. Il tutto in un incessante trascolorare, in un’i­ narrestabile valanga di instabili tinte accompagnate, per recente decisione dell’autore, dalle care e spensierate note dei primi di­ schi dei Beatles, quelli più sbarazzini e giocherelloni. L’effetto sul pubblico, specialmente se giovane, è di scatenare la sala in un’incontenibile danza tribale in cui tutto, dallo schermo alle persone all’aria, vibra all’unisono e si abbandona a ritmi interio­ ri lungamente dormienti in ognuno di noi. La preoccupazione di trovare un soddisfacente accoppia­ mento con la colonna sonora, comune a tutti gli “animatori’’ — e già si e accennato alla radicale soluzione escogitata dai fratelli Whitney — ha in Harry Smith una storia antica e molto partico­ lare, in tutto degna del personaggio. Fin da ragazzo era rimasto affascinato dalla vita e dai costumi delle sopravvissute tribù in­ diane, con cui usava passare lunghi periodi in coincidenza con le vacanze; nel corso di essi aveva sviluppato una particolare tec­ nica di trascrizione delle loro danze in cui il problema del rap­ porto con la musica e soprattutto il ritmo dell’accompagnamen­ to musicale era di primaria importanza. Il film n. 10 delle Early abstractions è uno studio per l’opera che Jonas Mekas, superando la barriera dei numeri in cui si era asserragliato l’autore, chiamerà The magic feature. II processo preparatorio per i due film era stato quello di raccogliere ogni genere di immagini e materiali iconografici in buste classificate in un apposito schedario. Nella costruzione del film tutte le schede relative a un certo soggetto venivano estratte e messe in relazione, prima secondo una più o meno ragionevole catena di consequenzialità, poi cercando di rendere il procedimento il più possibile automatico e indipendente da eccessivi interventi ra­ zionali del film-maker, e ciò mediante operazioni puramente manuali.

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The magic feature, che secondo l’incerta cronologia dell’au­ tore potrebbe risalire al 1947 ma è forse di alcuni anni dopo, è uno straordinario limbo prevalentemente bidimensionale ed es­ senzialmente mentale in cui la rappresentazione, sanzionata dal­ la danzante presenza del dio Siva, dalla cosmologia indiana do­ minata dalla condanna a un’infinita, eterna e non finalizzata ri­ produzione e trasformazione della realtà, diventa un quieto ma irrimediabile incubo americano, in cui l’umanità soccombe continuamente alla macchina fino a mimarla completamente, nel caso improbabile riesca a sfuggirle. Si assiste quindi a una continua e dissennata sequela di metamorfosi imprevedibili e ingiustificate, come se il mondo — trasformatosi in una gigante­ sca fabbrica sfuggita a ogni possibile controllo — inghiottisse la sua umanità prigioniera per restituirla elaborata negli utensili e nelle creature più varie e casuali. L’effetto, nella sua fredda, non emotiva inevitabilità, è piuttosto agghiacciante e — a prima vista — abbastanza revulsivo ma poi, per uno strano effetto d’assuefa­ zione che deriva dall’insolito fascino delle immagini e dal loro apparente nitore, ci si adatta, ci si abitua, si comincia ad accet­ tare, così come ogni giorno accettiamo quasi senza battere ciglio realtà ben più intollerabili, sanguinarie e abominevoli. L’ultimo film di pubblico dominio di Harry Smith è Late superimpositions in cui l’autore, ritornato in contatto con i pellerossa della sua infanzia, ne registra atteggiamenti e costumi in sovrimpressioni sbiancate e fantomatiche che nulla aggiungo­ no ai raggiungimenti delle sue opere precedenti.

Ian Hugo Sarà molto soggettivo ma non è troppo fuorviarne ricordare come ideale introduzione all’opera di Stan Brakhage l’attività di un cineasta che diede col suo primo film un sensibile e convin­ centissimo esempio di una visione personale e formalmente

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musicalissima della realtà. Ai-yé, realizzato nel 1950 da lan Hu­ go, ha per protagonisti alcuni nativi delle Indie Occidentali visti nel loro ambiente dominate dall’acqua, emblema della nascita dell’uomo come essere pensante e socievole. Il film ha nello stesso tempo il carattere di sogno remotissimo e una toccante, immediata concretezza che infrange e sottomette il disegno in­ tellettuale che lo origina. E sfoggia oltre a ciò una qualità melo­ dica e dolcemente ritmica della forma che lo situa fra i più ri­ usciti esempi di sogno ad occhi aperti alla ricerca della propria lontana origine. Questa stessa inclinazione a cogliere le tenui tessiture emoti­ ve e fantastiche nascoste sotto la sottile crosta oggettiva della realtà, si manifesta ancora potentemente in The gondola eye (1963) in cui la risaputissima e iperfotografata immagine di Ve­ nezia si frammenta e dissolve in una cangiante e illusoria visio­ ne di sogno che risuscita gli stinti e polverosi fantasmi di un passato fastoso, danzanti in un tenue e tremulo brillìo di fuochi fatui.

Capitolo quinto

Stan Brakhage Rivedere tutti i film di Brakhage, dai primi fino ai più re­ centi, è una straordinaria esperienza che permette di constatare come sia stata lunga e complessa la via per giungere a toccare quel particolare terreno della visione cinematografica proprio di Brakhage e da lui si può dire inventato. In effetti forse nessun altro fra i grandi film-makers americani è approdato a spiagge così peculiari quali quelle che hanno reso inseparabile il nome di Brakhage dal suo modo di percepire e “raccontare” la realtà. E chiaro e ovvio che ogni autore, sia pur attraverso le storie più fantasiose e artificiali, non fa che raccontare se stesso, e la via corrente scelta dalla grande maggioranza dei cineasti è sem­ pre stata quella di oggettivare se stessi e i propri sentimenti e problemi, incarnandoli in attori che agiscono da docili trans­ fert, marionette obbedienti mosse da una volontà a loro esterna. Questa era stata la scelta iniziale e virtualmente istintiva di Bra­ khage, un giovane molto insicuro e sensibile che cercava di esprimere con la macchina da presa la propria solitudine e l’in­ capacità a superarla mediante l’apertura e la fiducia negli altri. In Interim, girato nel 1952, un ragazzo solo sotto un ponte incontra per caso una ragazza con cui stabilisce una precaria ma immediata comunicazione di sguardi timidi e indifesi. Colti da un’improvvisa pioggia i due giovani si riparano in un capanno, e la forzata contiguità sembra possa evolvere in una più stretta

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amicizia, chiaramente desiderata se si deve dedurre dall’espres­ sione triste e abbattuta dei loro volti. Ma l’inerzia e l’abitudine alla disperazione è tale che, passato il temporale, i due si rialza­ no senza esser stati capaci di cogliere questa occasione, eviden­ temente così rara nella loro vita, e si separano senza essersi detti una parola, senza esser riusciti a infrangere la cortina di isola­ mento che li circonda. Se da un lato il film è quasi neorealista nel suo impianto, vi sono d’altra parte embrionalmente conte­ nuti elementi che diventeranno basilari nella susseguente evolu­ zione di Brakhage, in particolare l’osservazione in soggettiva di dettagli del paesaggio e di particolari manifestazioni della natu­ ra, come discorso interiore che prescinde e trascende la mecca­ nica essenziale della narrazione, e il persistente silenzio fra i pro­ tagonisti che mostra fin dall’inizio la sfiducia e la ritrosia di Bra­ khage per la parola, nonostante le sue precoci esperienze di poe­ ta e la mai sopita grafomania, testimoniata dall’amplissimo epi­ stolario e dalla collezione di scritti sul cinema pubblicata col ti­ tolo di Metaphors on vision.1 Questo stesso sentimento di disadattamento, di isolamento e di disperazione fornisce il tessuto connettivo per alcuni film girati nell’arco di due o tre anni, in particolare The way to sha­ dow garden (1955), sugli incubi di un ragazzo chiuso in una casa squallida e opprimente che fugge solo per entrare in un giardino d’angosce ancor più indefinite, e Reflections on black, sui terrorizzanti conflitti di una coppia il cui solo carattere in comune sembra essere un irrimediabile e funebre sado-masochismo, un film che rivela gli aspetti paurosi e traumatici che, spe­ cialmente da giovane, Brakhage associava con la sessualità. Già in questi film, progressivamente, la macchina-occhio del film-maker precede verso lo scardinamento di un più o me­ no oggettivo arco di narrazione e si impone come testimone

1 Trad. it. di M. Bacigalupo, Metafore della visione, Feltrinelli, Milano 1970.

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sempre più personale e pieno di preferenze e idiosincrasie, final­ mente sempre più interessato agli strani giochi di luci e ombre che gli inconsulti movimenti della cinepresa producono sulla pellicola, che alla realtà stessa, travolta ormai dalle convulsioni liberatorie dell’autore. Questa tendenza è particolarmente evi­ dente in Desistfilm (1954), forse il più bello e risolto dei film di questo periodo, in cui una festa piuttosto esaltata, eccitata e sensuale diventa l’occasione per un rapido e pulsante ritmo di montaggio che tende a incidere pro fondamente nel tessuto co­ stitutivo della percezione per estraine e ricombinarne in una trama altamente soggettiva e smaterializzata le linee di forza. The wonder ring (1955), a colori non più espressionistici e fortemente carichi di intenzionali implicazioni psicologiche co­ me nel coetaneo In between ma strettamente coerenti e consu­ stanziali con l’oggetto dell’occhio di Brakhage, sta a un punto che mi sembra molto critico nella sua evoluzione e ne segna una lenta ma decisa svolta che lo porterà con ritmo sempre più rapi­ do e accelerato ai numerosi eccellenti traguardi segnati nel corso di una carriera oggi ancora nel pieno del suo vigore creativo. E una carola e una danza senza inizio e senza fine, come un anel­ lo, incantata nell’osservazione semplice e senza secondi fini o si­ gnificati della quotidiana realtà del suburbio, specchiata e spez­ zata attraverso e sopra vetri e metalli di una metropolitana so­ praelevata. Ma Nightcats (1956) e già un capolavoro, il primo a pieno titolo nella filmografia di Brakhage, splendente di bellissimi co­ lori e di risonanti contrasti, fra il cauto e flessuoso andare e ve­ nire di lucenti, nerissimi gatti, il brillìo smeraldino dei loro oc­ chi e le fronde stagliate sull’oscurità della notte in un intreccio di immagini che giustificano il frequente richiamo che Brakha­ ge, parlando dei suoi film, fa con la musica. Finora Brakhage, giustamente abbandonati gli sketch psico­ logici, si è provato con successo, come testimoniano The wonder ring e Nightcats, con singoli, unitari soggetti e occasioni, e vi ha

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esercitato il suo occhio ormai vigile e attento nel cogliere le ra­ diazioni luminose nel loro istantaneo ed equivoco momento di maggior scintillio, per riannodarle in una nuova unità che igno­ ra le leggi di gravitazione e prospettiva e segue invece una traiet­ toria emozionale che non si sovrappone più agli oggetti ma vi si cala delicatamente, mescolandovisi senza forzarli. Anticipation of the night (1958) è il primo tentativo di articolare queste uni­ tà rappresentative in un discorso cinematografico di maggior re­ spiro e ambizione, che meglio renda la complessità e varietà del­ le aspirazioni espressive dell'autore. Questo film, che al suo ap­ parire provocò una tempesta di opposte reazioni, fu respinto perché apparentemente incomunicabile e caotico dalla maggio­ re e più antica casa di distribuzione di film sperimentali — Cine­ ma 16— che testimoniava così di essere superata dai tempi. E fu questa la lontana origine e giustificazione di una cooperativa di autori che affrancasse finalmente i propri film da censure e da estrinseche considerazioni di opportunità commerciale. Anticipation of the night è nello stesso tempo un film fonda­ mentale e imperfetto, come è destino siano le vere opere precor­ ritrici. Giungeva in un momento estremamente critico per la vi­ ta dell artista, isolato e deluso più che mai nella sua ricerca di comunicazione con gli altri, che solo riusciva a stabilirsi nei suoi film; e anche questi erano giunti a un drammatico punto di svolta dopo raccertato collasso delle strutture narrative del pri­ mo periodo dell'attività di Brakhage. Il film dipana un lungo sogno o memoria crepuscolare di visioni mescolate a ricordi in­ fantili, percepiti come presenti, immediatamente reali nell’i­ stante precedente il suicidio dell’autore di cui, nell’ultima in­ quadratura del film, si vede l’ombra immobile appesa a una cor­ da. Vi appaiono sia alcuni fra i personaggi fondamentali dei maggiori film successivi — lo stesso Brakhage più tardi eroe di Dog star man, i bambini in seguito elementi così dominanti dei Songs e di Scenes from under childhood — sia, ben più importante aspetto, un trattamento della narrazione visuale che per la pii­

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ma volta su scala così vasta volge decisamente le spalle ai model­ li letterari. Essa si sviluppa mediante associazioni ritmiche e cromatiche evidentemente giustificate da scelte formali ma spie­ gabili a un livello ancor più profondo da private ragioni affetti­ ve e irrazionali, origine della linfa vitale che percorre impetuosa quelle strutture così audaci e soggettive. Nonostante l’ardire che, col suo cospicuo salto in avanti rispetto al passato, pone le basi per il magnifico risultato di Dog star man, Anticipation sof­ fre di un’insufficiente e incostante tensione e amalgama fra le diverse parti e, anche alfinterno dei singoli episodi, manca tal­ volta di quella stringatezza e perspicuità espressiva che già era apparsa sfolgorante nel breve Nightcats. Ma questi sono rilievi di secondaria portata di fronte all’importanza, nella filmografia di Brakhage e nella storia del cinema sperimentale americano, di questo film, che per la prima volta offre l’esempio di una narrazione del tutto libera da reminiscenze letterarie sia nella “trama” che nel trattamento visivo, e travalica i limiti posti dalla tradizione surrealista e simbolista. Già da qualche tempo del resto Brakhage era diventato acu­ tamente cosciente delle possibilità del mezzo cinematografico come forma d’arte autonoma e, riallacciandosi all’incitamento di Maya Deren, che aveva conosciuto a New York, aveva ribadi­ to la necessità per il film-maker di rimanere indipendente da condizionamenti di carattere economico ed espressivo. Aveva anche spezzato una lancia e offerto una chiave di comprensione alla definizione di “cinema sperimentale” affermando che, es­ sendo il cinema ai suoi inizi come mezzo di espressione indivi­ duale, i film più nuovi e intensamente personali dovevano ap­ parire agli occhi di spettatori superficiali, disattenti o solo dis­ abituati, come puri “esperimenti”, mentre avevano in realtà la stessa carica innovativa e la stessa importanza per il progresso umano degli esperimenti scientifici.2 2 Stan Brakhage, In answer to a questionnaire, in “Film Culture”, n. 25, 1957.

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D’ora in avanti la filmografìa di Brakhage, così densa di ti­ toli, segue strettamente la vita e le esperienze della coppia Stan e Jane Brakhage di fresco formata — il loro matrimonio essendo avvenuto sul finire delle riprese di Anticipation of the night — e coincide con un diario intimo che registra con grande sensibili­ tà e fedeltà, ed altrettanta creatività e fantasia, le vicende private della coppia, e insieme i progressi espressivi di Brakhage verso l’irraggiungibile meta della conquista della luce e della com­ prensione dei misteri della visione. La peculiarità dell’arte di Brakhage (contrariamente ad esempio all’ispirata e alla metodi­ ca prassi scenografica e rappresentativa di Markopoulos che è in questo così originale allievo del venerato von Sternberg), è sem­ pre più quella di caricarsi, in un dato momento e in una data occasione non predeterminata, di ogni possibile concentrazione e disponibilità emotiva, da scaricare — attraverso il minor possi­ bile controllo cosciente e razionale delle proprie motivazioni — in un gesto che non rappresenti altro che la continuazione mec­ canica e automatica di stimoli e reazioni chimico-emotive origi­ natesi nel subconscio dell’artista. Per questo egli potrà in segui­ to formulare l’ipotesi che — nella prassi artistica — “necessaria­ mente divento lo strumento del passaggio di una visione inte­ riore nella sua forma esterna, attraverso tutte le mie sensibili­ tà”,3 in questo non solo riallacciandosi all’antica concezione greca per cui l’artista altro non era che il veicolo attraverso cui si esprimeva la divinità, ma anche fornendo il corrispettivo fìlmi­ co della contemporanea corrente artistica &AVaction-painting. “A un certo momento la tela cominciò ad apparire a un pittore americano dopo l’altro come un’arena nella quale agire piutto­ sto che come uno spazio nel quale riprodurre, ridisegnare, ana­ lizzare o esprimere’ un oggetto, reale o immaginario”. “Un di-

3 Da una lettera di S. Brakhage a P. Adams Sitney, datata 19 giugno 1963, pub­ blicata in “Film Culture”, n. 29, p. 97.

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pinto che è un atto e inseparabile dalla biografia dell’artista”.4 Queste citazioni di uno del più autorevoli critici della pittura contemporanea americana a proposito dei pittori deduction­ painting, chiariscono un atteggiamento di fronte alla prassi arti­ stica che Brakhage, nel suo campo, condivide perfettamente. Primo film dopo Anticipation è quindi Wedlock house: an intercourse (1959), in cui lo psicodramma vissuto in soggettiva di Brakhage che si impicca, inquadratura finale del film prece­ dente, diventa una scena a due nel momento in cui nel corso di una lite con la moglie, da poco conosciuta e da pochissimo spo­ sata, il film-maker sente la necessità di prendere cinepresa e lampada ed iniziare intorno ad essa una danza esoreistica e pro­ piziatoria, passando alterne pennellate di luce sul suo volto e of­ frendole a turno, con gesto di pacificazione, luce e macchina, perché esegua essa stessa il medesimo cerimoniale. La natura magica di questo comportamento diventa ancora più chiara se si pensa che in un secondo tempo Brakhage inframmezzerà a questo materiale una ripresa di se stesso in unione con la mo­ glie, come a controbilanciare e a scaricare la tensione del mate­ riale originario, che avrebbe altrimenti avuto una violenza trop­ po distruttiva, in un rapporto più armonico e comunicante. Nonostante fosse stato girato poco dopo Wedlock house, nel corso di una visita nel Vermont alla coppia di amici James Ten­ ney e Carolee Schneeman, Cat’s cradle (1959) viene, per diffi­ coltà di carattere psicologico, montato dopo il primo film di Brakhage che ha per soggetto una nascita, quella della figlia Myrrena. Window water baby moving, girato prima e durante il parto nella casa di Brakhage, è un film complesso, umano, toccante, che esplora con tenera e stupita concentrazione la ro­ tondità delle forme femminili, specialmente quelle proprie dello stato di gravidanza, e l’acqua, elemento primordiale associato 4 Harold Rosenberg, The american action-painters, in “Art new”, a. 8, dicem­ bre 1952, voi. 51.

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con l'inizio e l’evoluzione della vita. L’acqua in cui si bagna Jane prima del sopravvenire delle doglie, e poi l’erompere a fiotti del­ le acque attraverso la vagina che progressivamente si apre sotto la spinta dei neri capelli della neonata. Nonostante il processo del parto non sia mai tralasciato, non si perde mai una circolari­ tà di visione che compone attraverso brevi, secche, nervose in­ quadrature un impegno creativo che cerca di mantenersi, se non altro a livello di intenzione, all’altezza di quello ben più co­ smico e drammatico che si compie di fronte alla cinepresa. Questo non sarà che il primo di una serie di film dedicati alla nascita di alcuni fra i molti figli di Brakhage, caratterizzati ognuno da un diverse approccio psicologico, che determina una sempre variata modalità espressiva. Nel corso della prima gravidanza di Jane, Brakhage aveva compiuto un viaggio in Europa per partecipare al Festival del Cinema Sperimentale di Knok-ke-Le-Zoute, organizzato dal­ l’attivissimo Jacques Ledoux. In quell’occasione, scortato da Kenneth Anger e in compagnia di Marie Menken, aveva girato del materiale nel cimitero di Pére Lachaise a Parigi, per quello che sarebbe state il suo forse più scoperto, musicale, melanconicamente manieristico flirt con la ricorrente idea della Morte, la quale doveva nel frattempo farsi concretamente viva col deces­ so, causato da un incidente automobilistico, dell’amato cane Si­ rius, da cui nacque Sirius remembered. Secondo il volere di Jane, esperta conoscitrice di cani, il cor­ po dell’animale non era stato sepolto, ma deposto sotto un al­ bero sul terreno già indurito dall’autunno avanzato. Là restò fi­ no alla decomposizione che si compi nella primavera seguente, e durante questo periodo, a varie riprese, Brakhage lo filmò con schemi di movimenti simili, solo variati dal cambio degli ob­ biettivi usati nelle riprese e dal mutare della stagione che aveva ammantato il cadavere di neve, poi scioltasi con l’aumentare della temperatura sulle membra sempre più corrose dell’anima­ le. Jane aveva rilevato a suo tempo che i gesti e i movimenti di

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Brakhage mentre fotografava Sirius ricordavano quelli che i cani compiono, in una specie di danza cerimoniale, intorno ai corpi di cani o altri animali senza vita. Si possono paragonare a quelli dominanti nel precedente Loving (1956), con in più, in que­ st’ultimo film, un sentimento di vergogna o imbarazzo o dis­ agio, che ricorre ogni volta che Brakhage affronta le manifesta­ zioni della sessualità. Vi è in Sirius remembered il premonitore apparire di simboli visuali, o veri e propri “personaggi”, che troveranno qualche tempo dopo in Dog star man il loro più pieno svolgimento. Essi sono prima di tutto il cane, che risorgerà a nuova vita in una reincarnazione piena di gioiosa furia e attivismo, e la relazione con l’uomo non sarà come allora solo passiva ma sarà un parite­ tico rapporto di mutua protezione e compagnia. Poi, non se­ condario nella scala di valori iconografici, l’albero, morta sep­ pure incombente presenza in Dog star man, e viva, rigogliosa al­ ternativa all’immobilità del cane in Sirius, via lungo la quale si arrampica la macchina da presa dopo che ha accarezzato il cane, saldando in un solo movimento la continuità cosmica del prin­ cipio vitale che, esauritosi in una delle sue manifestazioni, si ri­ afferma nella sua più prossima espressione, l’albero appunto che dal cadavere del cane trarrà alimento per una crescita ulteriore. Erano cominciate intanto sulle pendici, per due terzi dell’an­ no nevose, delle Montagne Rocciose in Colorado, nuova residen­ za dei Brakhage dopo il periodo trascorso in New Jersey, le ripre­ se del materiale per quello che sarebbe stato Dog star man. Esse comprendono, oltre all’ascesa sul monte e la distruzione dell’al­ bero bianco da parte del boscaiolo, impersonato da Stan Brakha­ ge e fotografato dalla moglie Jane, anche materiale relativo alla nascita della seconda figlia. Era quello un periodo particolarmen­ te difficile per Brakhage, precipitato in una delle ricorrenti crisi di asma che ridestavano fantasmi di autodistruzione e morte, lungamente esorcizzati ma riaffioranti ogni volta che si verificava un’incrinatura nella corazza di persistenza e caparbio impegno

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che Ì1 film-maker si era costruito in anni di sofferenza e solitudi­ ne. Erano manifestazioni di insicurezza che si scontravano con la resistenza di Jane ad assumere una funzione troppo dichiaratamente materna. Questo conflitto, se alla lunga avrebbe contri­ buito a un miglior equilibrio affettivo della coppia, nel momento del bisogno e dello sbandamento più doloroso non poteva certo lenire la depressione emotiva e psichica di Brakhage.5 In questo clima di abbattimento e di non ancor sufficiente maturazione del materiale di Dog star man, riaffiora l’attualità di quanto Brakhage aveva girato a Parigi che, montato, avrebbe formato il film The Dead. Ideale transfert catalizzatore di questa ritrovata urgenza era la presenza (all’origine casuale) fra il mate­ riale parigino di alcune immagini di Kenneth Anger, che in quel momento toccava il fondo di una crisi apparentemente in­ solubile, derivante dal ripetuto fallimento di diversi progetti ci­ nematografici e in particolare del lungamente vagheggiato, e mai realizzato, Maldoror. Anger diventa quindi l’incarnazione di Brakhage, e fantoccio su cui scaricare la malia che lo stregava, con un’operazione quanto mai consona alle inclinazioni e agli interessi di Anger, studioso di astrologia e seguace del famoso occultista Aleister Crowley. Anima sensibile e gemella di Bra­ khage, Anger affonda nelle nebbie azzurrine e immateriali di al­ beri e tombe e nicchie e mausolei, che diventano una specie di illusoria città di un remoto eppur vicinissimo e stranamente fa­ miliare aldilà, attraversato in silenzio da una scialuppa stigia che ha deviato la Senna in un Limbo senza tempo, quietamente vi­ brante di pallide intonazioni, fredde e monocromatiche. “Pére Lachaise” era anche, nelle intenzioni di Brakhage, il pesante e irrigidito retaggio di un’arte troppo vecchia per con­

5 Per queste notizie, come per molte altre relative al periodo intercorrente fra An­ ticipation of the night e Dog star man, mi sono soprattutto servito dell’intervista di P. Adams Sitney a Brakhage, contenuta in Metaphors on vision di Brakhage a cura di P. Adams Sitney, edizioni di “Film Culture”, 1963, trad. it. cit.

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servare qualche vitalità, e nel complesso l’Europa era qualcosa di troppo lontano e ostile, troppo raffinato e decadente, per questo rude uomo del west che considerava e considera New York co­ me la culla e il pozzo senza fondo delle più mortifere e diaboli­ che dannazioni. Era quindi naturale che dalle ceneri spirituali di questa elegia al trapasso di se stesso come vaso di un sapere e di un gusto giudicato ormai mummificato, nascesse l’uomo nuovo americano orgogliosamente e senza speranza solo, in una infini­ ta lotta con se stesso, oggettivato non più nel consciamente iro­ nico e civile mulino a vento donchisciottesco, ma nel sinistro e ben più impotente tronco d’albero da tempo senza vita. Pare che questo albero bianco, insieme alla lotta con bestie di varia natura, mentre una o più donne stanno a guardare, sia un sim­ bolo ricorrente nei sogni di persone affette da asma, epilessia e simili malattie, ma il complesso discorso iconografico del film supera ristretti confini clinici per spaziare in un suo proprio e affascinante universo di forme in continua evoluzione. Il film, inizialmente concepito per durare 4 ore e mezzo — la durata di The art of vision che dipana fino alle ultime conse­ guenze il materiale costitutivo di Dog star man — avrà alla fine la durata di circa 80 minuti, e si articola fin dal momento dell ideazioni in quattro parti, precedute da un preludio, che avreb­ bero dovuto scandire l’ascesa del boscaiolo sul monte, la distru­ zione dell’albero, e la successiva discesa, sullo sfondo di una suc­ cessione di stagioni, dall’inverno all’autunno attraverso prima­ vera e estate, che risulta dal film di ardua e incerta lettura. Ciò che si capisce benissimo è il compimento nell’arco di un giorno di un ciclo creativo che va dal concepimento e inizio di un’im­ presa alla sua conclusione e al ritorno, in un progressivo decli­ nare di luce e forze, alla propria casa d’origine, presentando nel­ lo stesso tempo il giorno come cellula fondamentale e autosuffìciente di esperienza e il suo simulare le tappe di sviluppo del­ l’intera vita di un uomo, modello a sua volta unico e uguale per tutti i membri della specie.

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Prelude, che introduce le quattro parti di Dog star man, fu anche il primo ad essere compiuto e fu formato secondo due esigenze parallele; inizialmente Brakhage ne montò una versio­ ne-base operando una scelta del materiale che aveva girato per il film mediante un criterio di massima casualità possibile, secon­ do il sistema seguito da Bunuel e Dall nello stendere la sceneg­ giatura di Un chien andalou. Compiuta questa prima fase, il film-maker cominciò a lavorare a un secondo “strato” di Prelu­ de, che avrebbe dovuto essere stampato otticamente sul primo e che veniva questa volta concepito con un estremo controllo dei materiali e una continua analisi intellettuale e critica su di essi. Una stretta e incessante interrelazione si stabilì così fra i due strati perché mentre il secondo, quello “consapevole”, nasceva dagli stimoli generati da quello originario e “caotico”, restituiva — grazie a una severa razionalizzazione — indicazioni e giustifica­ zioni per il mutamento di intere sezioni della prima versione. Il criterio di scelta delle inquadrature specialmente prevalente per il secondo strato era che si trattasse di materiale relativo alla creazione umana quale è rappresentata in antiche monete crete­ si che, come i sogni di epilettici e asmatici, abbondano di uomi­ ni associati ad alberi e animali, specialmente rettili, con remini­ scenza della prima tentazione operata dal serpente per far preci­ pitare Adamo ed Èva dal paradiso terrestre. Come ogni preludio degno di questo nome, anche quello di Dog star man ricapitola e preannuncia i temi e i nodi fonda­ mentali che troveranno il debito posto e sviluppo nelle parti se­ guenti, e si presenta come un magmatico, complesso, fantasma­ gorico ma armonioso processo che sembra accadere in epoche lontanissime, quando l’universo usciva dal caos della notte e il firmamento cominciava a darsi una parvenza di ordinata pro­ cessione, mentre sulla terra le forze della creazione iniziavano a moltiplicarsi in infinite ma ancora incompiute forme. Prelude inizia da un nero nulla, attraversato solo da tenui lampi. Pian piano forme indistinte appaiono sullo schermo e

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progressivamente vengono messe a fuoco. Come esse raggiun­ gono una sufficiente definizione, le cateratte di immagini si aprono e cominciano ad accavallarsi vorticosamente. Dominan­ ti sono certe inquadrature di panorami con montagne e alberi ripresi attraverso una lente anamorfica che ne provoca una rota­ toria deformazione, poi sole, luna e cellule umane fortemente ingrandite. A questa successione di visioni, si contrappongono tasselli colorati che accrescono la drammaticità e vitalità del processo di creazione cui stiamo assistendo. Concorrono a dare un terrestre e concreto senso di amalgama in via di trasforma­ zione vari brani dipinti a mano o raschiati con tecniche partico­ lari, ispirati alle forme, ai colori e ai movimenti che si possono vedere chiudendo gli occhi di fronte a una fonte luminosa. La prima parte di Dog star man è caratterizzata da un’esigen­ za opposta rispetto a Prelude-, mentre quest’ultimo era un piro­ tecnico “résumé”, un’abbagliante mescolanza di tutti i materiali costitutivi del film, essa doveva essere, ispirata com’era dal com­ mento di Ezra Pound su Gaudier-Brzeska, una lunga e lenta, il più possibile estesa trattazione e variazione su di una singola, predeterminata quantità di materiale, una specie di “no al ral­ lentatore”, come Brakhage lo definiva, sempre risalendo alla fonte di Pound. Tutta questa prima parte è in effetti una specie di riprova-dimostrazione del concetto, espresso da Pound, nel famoso scritto sopraccitato, che l’immagine è un “nodo radian­ te”, una specie di vortice visivo da cui e attraverso cui le idee corrono e si dipartono. Questo vortice o questo nodo è, nell’o­ pinione del poeta, così sostanziale e autosufficiente da giustifica­ re un’intera poesia, un completo lungo dramma, come può esse­ re il nò o, per quanto concerne Brakhage, un film o una parte di film, qual era il caso di Dog star man: part I.G Essa si dipana

6 Una molto eloquente trattazione dell’influenza, consapevole o no, esercitata da Ezra Pound su alcuni fdm-makers d’avanguardia americani è contenuta nell’articolo Imagism in 4 avant-gardefilms di P. Adams Sitney, in “Film Culture”, n. 31, p- 15.

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in onde luminose di predominante chiarità, scandite da un nu­ mero insolitamente alto di dissolvenze che introducono il luogo deputato della rappresentazione, la montagna inquadrata dalla cornice cosmologica dei pianeti e altri astri, che svaporano poi in nubi dilaganti torrenzialmente dalle montagne. Il fuoco si ri­ tira fino ad estinguersi e congelarsi nel ghiaccio rappreso su una finestra, per esplodere nel sole. Al centro di questa scenografia interplanetaria si erge la montagna, banco di prova e trampoli­ no per ogni alta impresa, spezzata e ricomposta secondo le for­ me elementari enucleate dalle avanguardie ormai classiche del ’900, il cerchio, il triangolo, il quadrato. Procedendo in questo graduale avvicinamento dal generale al particolare, appare ora il perno del dramma, l’uomo, anzi l’Uomo, barbuto e dai lunghi capelli, attraverso cui si scambieranno le energie e gli impulsi di macrocosmo e microcosmo, fusi in una reazione che prende vita dalla determinazione del protagonista di dare una direzione, co­ agulare in un’azione l’imperturbabile e immutabile ricorrere di cicli e stagioni. L’intervento diretto dell’uomo, l’affermarsi della sua libera scelta divengono evidenti in una serie di frementi sog­ gettive che testimoniano insieme la volontà e lo sforzo nella lot­ ta con la montagna, confronto vissuto fin nelle più intime fibre dell’uomo e visualmente reso con grande icastica immagine dal flusso sanguigno fotografato mentre scorre nei tessuti periferici, anch’esso lungi da un tranquillo e facile corso, ma costretto a un tortuoso e incerto cammino, che lo vede procedere ardimento­ samente, per così dire, con due passi avanti e uno indietro. La seconda parte di Dog star man ha per tema fondamentale il bambino, uno dei figli di Brakhage, visto come simbolo di vi­ talità e capacità di una visione fresca e creativa, non sottomessa alle consuetudini culturali della società cui più tardi si dovrà adattare e integrare. E questo un punto fondamentale nella con­ cezione poetica del film-maker, su cui mi soffermerò maggior­ mente alla fine di queste considerazioni sul film. Sulle riprese del bambino, le cui scoperte e i cui tentativi sono paragonabili

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alla scalata della montagna da parte del protagonista che appare e scompare a tratti, sono sovrimpressi minerali della montagna, che significano le conoscenze segrete e nello stesso tempo con­ crete che progressivamente il bambino accumula con l’ausilio dei suoi occhi e delle sue mani. Tutta questa parte ha la divo­ rante rapidità di ritmo che corrisponde alla velocità con cui le impressioni più diverse possono colpire la mente ingenua e i sensi aperti del fanciullo. Essa si chiude con una visione di Bra­ khage che sogna la moglie, ritratta nuda in sovrimpressione, introducente il tema centrale della terza parte. Suo soggetto è l’amore, visto principalmente nella sua espressione sessuale, an­ che se, seguendo il principio formativo costante del film, la vi­ sione è sempre estremamente composita, parcellare ed equivoca. I corpi sono scomposti in mille parti che si sommano secondo rispondenze emotive raramente coincidenti con un principio gestaltico oggettivo, normalmente deformate in modo abba­ stanza strano e inquietante, simile alle riprese della “creazione” iniziale, che testimoniano insieme all’attrazione vagamente per­ versa dell’atto sessuale anche un suo profondo e inconscio ri­ brezzo o rifiuto, l’incapacità di accettarlo e viverlo senza sovrap­ porvi paure e ripulse che derivano da antichi traumi. Questa ca­ ratteristica che ritornerà vivissima nel recente Scenes from under childhood, e accresciuta dall’uso, accoppiato alla lente defor­ mante, di filtri verdi, blu e viola, che danno alle membra allun­ gate e distorte l’aspetto di strani rettili primordiali, come sala­ mandre e tritoni, che non accrescono certo l’attrattiva degli atti intuibili dallo spettatore ma che sottolineano il loro aspetto di riti dannati, dolorosi e quasi forzati. Questa terza parte consiste di tre strati sovrapposti, il primo dei quali comprende per lo più riprese del corpo di Brakhage, deformato in modo da assumere un aspetto abbastanza femmi­ nile, corrispondente a un lato del suo carattere, ipersensibile e creativamente fecondo; il secondo strato è soprattutto dedicato alla moglie, il cui corpo è spesso associato con organi sessuali

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maschili, significativi della funzione di equilibrio psicologico e umano di Jane, cui Brakhage fa frequente ricorso e che gli è confessatamente indispensabile. Il terzo strato mostra esclusivamente organi interni quali cuore, fegato, ecc., che danno il parametro fisiologico e oggettivo di corpi che per questa via so­ no ricollegati a una più generale anche se non meno personale visione del cosmo. Sulla ripetuta immagine di Brakhage addormentato, come al termine del sogno sessuale che costituisce l’argomento della parte precedente, sfolgorano all’inizio della quarta e ultima par­ te del film lampi e tracce di oggetti misteriosi che introducono il parossismo distruttivo del protagonista alle prese con l’albero morto e ormai abbattuto. L’infuriare dell’ascia non ha tregua, e l’atto continua a ripetersi con pazzesca fissazione senza uno sco­ po apparente. Sembra il culmine di una crisi liberatoria e gra­ tuita che celebra, scaricandole su un tronco inerte, le forze di­ struttive annidate nel vandalico boscaiolo, energie che altrimen­ ti si volgerebbero contro di lui annientandolo.7 Nel suo complesso Dog star man, a parte le caratteristiche mitopoietiche, simboliche cioè di una eterna lotta dell’uomo con se stesso e con l’ambiente che lo circonda8, è un autentico, torreggiarne capolavoro che porta a un livello di estrema co­ scienza, controllo, efficacia e raffinatezza le tecniche espressive che, vividamente apparse in Nightcats, avevano cominciato a elaborarsi in un più articolato e comprensivo contesto in Antici­ pation of the night. Esse giungono, mediante una straordinaria capacità analitica, sintetica e formatrice dell’occhio dell’artista, a superare non solo la tradizione letteraria così spesso incombente

7 Per la descrizione di Dog star man mi sono valso, tra l’altro, dello scrupoloso articolo di Fred Camper, The art of vision, a film by Stan Brakhage, pubblicato in “Film Culture”, n. 46, p. 40. 8 Sagacemente descritte e messe in valore da P. Adams Sitney nel già citato arti­ colo Imagism in 4 avant-garde films, in “Film Culture”, n. 31, p. 15.

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sul cinema in generale, ma anche il retaggio surrealista e la per­ sonale orma di Cocteau, per così lungo tempo leggibile nelle opere del new american cinema. Con Twice a man di Gregory Markopoulos, Scorpio rising di Kenneth Anger e Flaming Crea­ tures di Jack Smith, di cui parlerò più avanti, e qualche altro ca­ polavoro — fare classifiche e graduatorie di merito è sempre ab­ bastanza assurdo — Dog star man è una di quelle gemme che, ol­ tre a costituire l’imperituro vanto del cinema sperimentale e d’avanguardia americano, rappresentano alcune fra le più alte e indiscutibili opere nell’arco di tutta la breve storia del cinema. La miglior base teorica per meglio comprendere l’opera del­ l’artista ci è fornita, come sempre accade, dall’autore stesso che, nella sua collezione di scritti intitolata Metaphors on vision, scri­ ve: “Immaginate un occhio non governato dalle leggi prospetti­ che create dall’uomo, e senza il pregiudizio della logica composi­ tiva, un occhio che non risponde al nome di ogni cosa ma che deve conoscere ogni singolo oggetto incontrato nella vita attra­ verso un’avventura della percezione. Quanti colori vi sono nel prato in cui il bimbo, ignaro del Verde, ruzza? Quanti arcobaleni può creare la luce per l’occhio ingenuo? Quanto consapevole può essere quest’occhio delle variazioni delle onde di calore? Im­ maginate un mondo animato da oggetti incomprensibili e vi­ brante di un’infinita varietà di movimenti e di innumerevoli gra­ dazioni di colore. Immaginate un mondo prima di ‘in principio era il verbo’”. E continua: “Fate entrare le cosiddette allucinazio­ ni nel dominio della percezione... accettate le visioni di sogno, sogni notturni e ad occhi aperti, come se fossero avvenimenti reali, facendo anche in modo che le astrazioni, in così dinamico movimento quando si premono le palpebre, siano veramente percepite. Rendetevi conto del fatto che non siete influenzati so­ lamente dai fenomeni visuali sui quali siete focalizzati, e cercate di sondare le profondità di tutto ciò che condiziona la vista.” Scendendo più nel dettaglio del mezzo tecnico, Brakhage ri­ corda le sue origini e i relativi, storici limiti: “E poi abbiamo

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l’occhio della cinepresa, coi suoi obbiettivi molati che, per ren­ dere la prospettiva occidentale del diciannovesimo secolo, pie­ gano la luce e limitano la cornice dell’immagine giusto così, la velocità standard di ripresa e proiezione, fatta per registrare mo­ vimenti legati al sentimento dell’ideale valzer lento viennese, e persino la testata del cavalletto, che è il collo sul quale si gira la macchina, montata su cuscinetti a sfere che permettono un mo­ vimento alla Les Sylphides (ideale per la contemplazione roman­ tica) e virtualmente limitato a movimenti orizzontali e verticali (colonne e orizzonti), tanto che una diagonale richiede una complessa operazione, i suoi obbiettivi azzurrati o provvisti di filtri, i suoi esposimetri tarati, e la sua pellicola a colori concepi­ ta per produrre quell’effetto da cartolina illustrata (pittura da ‘saloon’) con quei cieli oh, così blu e gli incarnati di pesca. “Sputando di proposito sugli obbiettivi o manipolandone la messa a fuoco, si possono ottenere i primi stadi dell’impressio­ nismo. Si possono rendere goffi i movimenti di una prima don­ na accelerando la velocità del motore o si può sintetizzarli, in modo da avvicinare una più diretta ispirazione nella percezione del movimento da parte dell’occhio dell’uomo moderno, me­ diante un rallentamento del motore in fase di ripresa. Si può te­ nere la macchina in mano ed ereditare mondi di spazio. Si può sovra o sotto esporre la pellicola. Si possono usare i filtri del mondo, la nebbia, le piogge, luci estreme, il neon dalle nevroti­ che temperature di colore, pezzi di vetro mai concepiti per una cinepresa, o anche lenti regolari impiegate trasgredendo le pre­ scrizioni, o si può fotografare un’ora dopo il levar del sole o un’ora prima del tramonto, queste meravigliose ore tabù per cui i laboratori non garantiscono nulla, o si può girare di notte con una pellicola per luce diurna e viceversa.”9

9 La traduzione del brani di Metaphors on vision qui riportati è di Alfredo Leo­ nardi. [TV.