Non c'è giustizia senza conflitto. Democrazia come confronto di idee 8807470349, 9788807470349

Tutte le società sono obbligate a distinguere tra i gruppi con opinioni e interessi divergenti e le procedure istituzion

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Non c'è giustizia senza conflitto. Democrazia come confronto di idee
 8807470349, 9788807470349

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Filosofia

Stuart Hampshire Non cè giustizia senza conflitto Democrazia come confronto di idee

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Elementi / Riltrinelli

Stuart , Hampshire Non cè giustizia senza conflitto Democrazia come confronto di idee

Traduzione di Giovanna Bettini

Feltrinelli

Titolo originale dell’opera JUSTICE IS CONFLICT © 2000 by Princeton University Press

All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording or by any information storage and retrieval system, without permission in writing from the publisher.

Traduzione dall'inglese GIOVANNA BETTINI

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Elementi” aprile 2001 ISBN 88-07-47034-9

Occorre sapere [...] che la giustizia è conflitto. [Eraclito, Frammento 80]

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/noncegiustiziase0000hamp

Prefazione

Sono passati almeno trent'anni da che mi convinsi che fosse un errore ricercare una teoria morale, o un insieme di proposizioni, che servisse da giustificazione o fondamento alle mie fedeltà e opinioni politiche, le quali erano e rimangono le opinioni di un socialista

democratico.

Come

molti

altri, pensavo

che gli avvenimenti politici degli ultimi cinquant’anni avessero minato la fiducia in ogni orientamento percepibile del mutamento storico, o in ogni percorso conosciuto del progresso umano,

e mi sembrava

evidente che i miei valori morali, nonché gli atteggiamenti politici che ne derivavano, dovessero veni-

re ridiretti e indirizzati verso uno scetticismo e un negativismo totali. Maturai la convinzione che le mie simpatie socialiste e la mia fedeltà alla Sinistra fossero tutt'altro che irragionevoli, e per nulla difficili da difendere, nella misura in cui potevano essere ricondotte ai sentimenti generati dai mali persistenti della vita umana: e la povertà, in tutte le sue forme moderne, è certamente uno di questi. Le mie opinioni e fedeltà politiche, se analizzate criticamente, non

comprendevano o non implicavano più la descrizione generalizzabile di una futura società ideale o di virtù umane essenziali. Al contrario, si riferivano alla possibile eliminazione dei mali particolari propri

di società particolari in epoche particolari, e non a principi universalizzabili di giustizia sociale. E necessario volgersi al caso particolare, anche negativo: solo così si troveranno le ragioni per l’azione politica. Gli argomenti a favore dei principi generali di giustizia sociale sembravano intrappolati nella circolarità, perché le conclusioni che ne traevano i loro sostenitori — tradizionalisti e conservatori, liberali e

riformisti — rispondevano al solo criterio di razionalità e accettabilità che essi fossero disposti a riconoscere. Un altro stimolo a riconsiderare i miei sentimenti politici, anche pubblicamente, è rappresentato dal concetto di immaginazione. Passo dopo passo, a par-

tire sia dalla Scienza nuova di Vico sia dalla Critica del giudizio di Kant, nonché

dalla mia stessa espe-

rienza, sono giunto alla conclusione che le due funzioni e forme di pensiero distinte e complementari, immaginazione

e intelletto, dovrebbero essere sem-

pre considerate uguali nel contesto dell'etica e della politica. Questo potrebbe sembrare semplice senso comune, sennonché contrasta con le tradizioni prin-

cipali della filosofia politica. Le due funzioni di pensiero, con le forme che sono loro proprie, possono essere viste come l'immaginazione creativa e non me-

todica contrapposta all’intelletto critico e metodico. Le concezioni del bene, gli ideali di vita sociale, i mo-

delli di virtù individuale e di eccellenza sono differenti e molteplici, sono fonti di divisione e sono radi-

cati sia nell'immaginazione e nella memoria degli individui sia nelle storie preservate di città e stati. Ma il compito proprio della politica, come intuì Hobbes, è

proteggere dai mali perenni della vita umana: la sofferenza

fisica, le distruzioni

e le mutilazioni

della

guerra, la povertà e la denutrizione, la schiavitù e l’u10

miliazione. Tale protezione consiste necessariamente

nel ricorso a procedure razionali di negoziazione universalmente accettabili e a procedure intellettuali di valutazione comparata delle alternative e di compromesso. I grandi mali sono in effetti perenni, tanto che possiamo leggere i resoconti antichi sulle devastazioni della guerra, sulle tirannie, sui massacri e sulle ca-

restie come stessimo leggendo un giornale del ventesimo secolo. Simili mali, diversamente dai modelli di un ordine sociale migliore, non dipendono dalla cultura. Sono avvertiti come

mali direttamente,

senza

riferimento alle norme di un modo di vita particolare o a un insieme specifico di idee morali. La parola “sentimento”, nonché il concetto di sentimento, sono

indispensabili qui. Esistono molti mali — per esempio, il male dell’ingiustizia nella distribuzione dei beni — che occorre svelare e dimostrare tali prima che possano essere avvertiti come

mali. D'altro canto, i

mali rappresentati dalla grande povertà, dalla malattia, dalla sofferenza fisica e dallo strazio della perdita

sono avvertiti immediatamente come tali da qualsiasi persona dotata di una sensibilità normale, a meno che non sia stata distolta dai sentimenti naturali da qualche teoria capace di giustificarli in modo soddisfacente: per esempio, come parti necessarie del disegno di Dio. Gradualmente, e in una serie di libri, ho imparato a riconoscere e apprezzare la forza piena dell’affermazione di Hume: “La Ragione è, e dovrebbe sempre essere, schiava delle passioni”. Tradotta nel linguaggio della filosofia contemporanea, quest’affermazione diventa: “Nella filosofia morale e politica si ricercano le premesse idonee da cui dedurre conclusioni già accettate esclusivamente in virtù dei propri senti11

menti e delle proprie simpatie”. È difficile ammettere la pura contingenza

del sentimento

personale come

punto d'arrivo del ragionamento, tra sé e sé o con altri, sui requisiti fondamentali della giustizia sociale.

Ma ormai sono abbastanza sicuro che questo sia il vero punto d'arrivo. Questo libro è il risultato, e il proseguimento, di tali riflessioni.

Ringrazio per l'incoraggiamento

e l’aiuto T. M.

Scanlon, Nancy Cartwright, Bernard Williams, Joshua Cohen, Dennis Thompson, Stephen de Witze,

Debra Satz, Avishai Margalit, Giorgio Giorgini e i funzionari della Western Division dell'American Philosophical Association. Ringrazio anche gli amministratori fiduciari della Tanner Foundation, che hanno istituito le Tanner Lectures

on Human

Values, e

l'università di Harvard, che mi ha invitato a tenere le

due conferenze in questa serie per l’anno 1996-97. Questo libro è una versione molto ampliata di quelle conferenze.

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1. L'anima e la città

Il libro prende il titolo da Eraclito,* ma nel libro Iv

della Repubblica (439e, 440a) Platone fa raccontare a Socrate questa storia: Un certo Leonzio

di Aglaione, tornando

in città dal Pireo,

camminava per la via che costeggia la parte esterna del muro settentrionale; a un tratto scorse dei cadaveri che giacevano presso il luogo delle esecuzioni, e fu assalito contemporaneamente da due impulsi contrastanti: da una parte, fu preso da un forte desiderio di avvicinarsi e di guardare, dall'altra, sentì un violento senso di ripugnanza che lo spingeva ad allontanarsi da quel luogo. Per un certo tempo, lottò con se stesso e chiuse gli occhi inorridito, poi, vinto da un desiderio irrefre-

nabile, si lanciò di corsa verso quei cadaveri gridando: “Eccovi soddisfatti, miserabili, godetevi questo bello spettacolo!”.

Questa è una storia comune di conflitto e ambivalenza nella mente di un individuo. Il conflitto e il suo controllo sono i temi principali di questo libro. Nella Repubblica Platone sosteneva che esiste una chiara analogia tra conflitto e giustizia nelle menti scisse degli individui e conflitto e giustizia nella città divisa in classi. In entrambi i casi, la giustizia consiste in un'armonia delle parti o degli elementi, un'armonia * Il titolo originale è Justice is conflict. Si veda la citazione in esergo. [N.d.T.]

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imposta dalla ragione. Dimostrerò che Platone non si sbagliava sull'esistenza di un’analogia tra l’anima e la città, e nemmeno sul fatto che il concetto di giustizia sia spiegato nel modo migliore da questa analogia; ma dimostrerò anche che la giustizia non può consi-

stere in alcun genere di armonia o di consenso né nell'anima né nella città, perché non esisterà mai una

tale armonia, né nell'anima né nella città. Per convincervi di questo dovrò innanzitutto convincervi a pen-

sare alla ragione e alla razionalità in modo un po' diverso da Platone, quindi dovrò convincervi a distin-

guere tra giustizia ed equità nelle questioni sostanziali e giustizia ed equità nelle questioni procedurali: essenzialmente, la mia conclusione. Cercherò di convincervi che l'equità nelle procedure di risoluzione dei conflitti è il genere fondamentale di equità, e che viene riconosciuta come valore nella maggior parte delle culture, dei luoghi e delle epoche: l'equità nelle procedure è un valore invariabile, una costante nella natura umana. La giustizia e

l'equità nelle questioni sostanziali, per esempio nella distribuzione dei beni o nella comminazione delle pene, varieranno sempre con il variare dei punti di vista morali e delle concezioni del bene. Poiché esisteranno sempre conflitti tra concezioni del bene — conflitti morali — sia nell'anima sia nella città, nell’una e nell'altra occorrono palesemente procedure di risoluzione dei conflitti, le quali possono sostituire la forza bruta, il dominio e la tirannia. È qui che un me-

todo razionale condiviso può tenere insieme sia l’io diviso e disgregatore sia lo stato diviso e disgregatore. Nell'anima e nello stato la razionalità e la giustizia sostanziali non consistono in un consenso e in un’ar-

monia di opinioni da cui sia stato completamente eliminato il conflitto, come nel quadro dell'anima e del14

lo stato dipinto da Platone. Nel quadro opposto di Eraclito ogni anima è sempre la scena di tendenze in conflitto, di obiettivi in contrasto e di ambivalenze e,

corrispondentemente, i nostri sentimenti di ostilità politica nella città o nello stato non si esauriranno mai finché avremo storie di vita diverse e immaginazioni diverse. Platone e Aristotele avevano i loro motivi, sia politici sia filosofici, per distinguere tra differenti parti dell'anima situate a livelli diversi, secondo un ordine gerarchico. Avevano i loro motivi per individuare nella facoltà dell’intelletto l'elemento più autorevole, e l'elemento dominante, dell'anima (Aristotele, Etica nicomachea, 1169a 2). Qui Aristotele stabilisce in modo

esplicito la connessione politica: “Come infatti lo stato e ogni altro sistema organizzato sembrano esser costituiti soprattutto dalla loro parte più elevata, così è anche per l’uomo”. Per la nostra realizzazione personale e per la nostra stabilità mentale dobbiamo fare in modo che l'elemento naturalmente dominante nell’anima domini effettivamente. Se non assecondiamo la natura nella sfera interiore ne pagheremo le conseguenze. Non abbiamo scelta se vogliamo riuscire nella vita. Per quanto attiene alla sfera pubblica, esterna, possiamo fare una scelta politica, che dev'essere guidata dall’analogia con la gerarchia naturale individuata nell'anima. È grazie a quest'analogia che la città può dirsi felice o infelice secondo le scelte politiche fatte, con il risultato che viene posta in essere una

struttura sociale armonica o disarmonica. Ora, capovolgendo questa tradizione, propongo di partire dall'altro estremo dell’analogia e di procedere nella direzione opposta: di prendere cioè le mosse dalle procedure e dalle istituzioni pubbliche universali che possono essere individuate in tutti, 0 quasi tutti,

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gli stati e le città. Spiegheremo quindi l'attribuzione di certi processi all'anima scissa di una persona istituendo un’analogia con le procedure naturali tipiche delle città o degli stati. Le procedure necessarie all’attuazione di un ordine sociale, quale che sia, saranno

viste come fondamentali. I processi mentali nelle menti degli individui saranno visti come le ombre o le procedure pubblicamente identificabili di cui sono permeate culture tra loro diverse. Qui ci verrà in aiuto il linguaggio quotidiano. L'uso delle parole con cui siamo soliti distinguere i processi mentali — “deliberazione”, “giudizio”, “decisione”, “esame”, “verifica” e molte altre — è sia pubblico sia mentale, interno. Gli usi di questo secondo tipo si spiegano in primo luogo

con il riferimento alle attività pubbliche osservabili. Le relazioni tra le attività pubbliche della deliberazione e della decisione possono essere osservate da tutti, e le loro ombre, le attività mentali private corrispondenti, sono supposte riprodurre queste relazioni. Quasi tutte le società organizzate esigono un'isti-

tuzione e una procedura per decidere tra le diverse pretese morali avanzate da gruppi e individui. Tipica-

mente, queste comprendono pretese relative alla proprietà e allo status, ma anche conflitti di ideali e credenze morali saldamente radicati, che occorre ascoltare e giudicare, soprattutto in società non omogenee quanto a religione, razza, costumi e cultura.

In secondo luogo, in ogni società o stato deve esistere un consiglio o gabinetto, anche se è solo un organo consultivo della Corona deputato a discutere le varie opzioni politiche tra cui dev'essere fatta una scelta. Il caso politico tipico è una scelta tra guerra e pace compiuta dopo una discussione, come nell’Iliade di Omero. In terzo luogo, società e stati possono subire even16

ti disastrosi e tuttavia sopravvivere: per esempio, una

sconfitta in guerra, raccolti insufficienti, un’epidemia, sommosse

e tumulti popolari. Sarà necessario

istituire una commissione d’inchiesta o un comitato che prenda in esame le diverse versioni dei fatti e accerti le responsabilità nel modo più ragionevole possibile. Questa è una breve lista di procedure e istituzioni indispensabili che comportano la valutazione equanime e il bilanciamento di argomenti contrapposti in relazione a una questione ineludibile e controversa. Tutte sono soggette al precetto audi alteram partem (“ascolta l’altra parte”). Herbert Hart ha attirato la mia attenzione sulla centralità di questa frase, che definisce il principio del contraddittorio quando si tratta di amministrare la giustizia e quando la giustizia si realizza. In entrambi i casi, l'equità della procedura pubblica presuppone quale sua condizione necessaria che sia seguito questo precetto molto generale. Le discussioni portate avanti nel foro interno della mente individuale riproducono naturalmente, nel-

la forma e nella struttura, le discussioni pubbliche. “Naturalmente” perché avvocati, giudici e diplomatici provano quello che devono dire prima di presentarsi sulla scena pubblica. Chiunque partecipi a una riunione di gabinetto, alla discussione di una causa, a una trattativa diplomatica acquista l'abitudine di prepararsi alle obiezioni degli oppositori. Acquista l'abitudine di bilanciare le ragioni a favore e contro. Le situazioni pubbliche citate innescano processi mentali corrispondenti che sono modellati sulle procedure pubbliche, proprio come il movimento di un'ombra su un soffitto è modellato sul movimento originario di un oggetto sul pavimento. I conflitti 17

morali sono parte dell'esperienza di ognuno. Nei casi frequenti di conflitto tra princìpi è necessaria la valutazione comparata degli argomenti a favore e contro,

e quindi una forma interna di discrezionalità e deliberazione giurisdizionali. Nella deliberazione privata, l'individuo assume

il

principio che impone di ascoltare entrambe le parti come principio di razionalità. “Ascoltare” diviene qui una metafora. La maggior parte dei verbi che rappresentano il pensare è contaminata da queste metafore:

osservare, soppesare, rivedere e molte altre. La stessa nozione di procedura, quella che seguo nella mia mente,

è, in un certo senso,

metaforica.

“Prima di

prendere la decisione è stata seguita la procedura corretta?” è una domanda precisa, cioè tale da ammettere una chiara risposta empirica se rivolta a un

organo collegiale. La domanda “Nelle tue riflessioni su questo punto hai seguito una procedura corretta, cioè esaminato le ragioni di entrambe le parti, prima di prendere una decisione?”, se rivolta a una persona, è meno chiara e meno precisa. Non si può pretendere

che la risposta sveli l'ordine dei processi mentali; e neppure si può contare sull’osservazione della procedura seguita. Ma l’idea che un individuo, quando ri-

flette, possa essere imparziale, privo di pregiudizi e razionale ha senso per noi perché sappiamo riconoscere una procedura pubblica di discussione caratterizzata da imparzialità, assenza di pregiudizi e razionalità. Immagino me stesso nell’atto di ascoltare due o più tesi contrapposte: presiedo la discussione, invitando ciascuna delle parti ad ascoltare le ragioni dell'altra; alla fine, e non prima, potrò trarre una conclusione. Questo è il processo della riflessione. Si potrebbe affermare che, indipendentemente dalla que-

stione in esame, questo “ascoltare l’altra parte / aude18

re alteram partem” sia precisamente ciò che costitui-

sce il pensare nel senso stretto cartesiano di pensare metodico, che identifica il pensare con l'esercizio dell'intelletto, in contrasto

con l’esercizio dell’immagi-

nazione. Con la maestria del letterato che punta all’effetto, Cartesio ha presentato il paradigma del pensiero come processo interno alla coscienza del pensatore solitario, seduto davanti alla stufa, animato dal-

la speranza di ricostruire da solo il mondo intero, come fosse l'artefice della propria realtà. Propongo di capovolgere il paradigma cartesiano,

identificando la scena e la circostanza paradigmatiche del pensiero intellettuale non già con la meditazione solitaria accanto alla stufa ma con gli argomenti pubblici a favore e contro certe rivendicazioni avanzate pubblicamente: l'ipotesi è che noi impariamo a trasferire, grazie a una specie di arte mimica, il modello conflittuale della vita pubblica e interpersonale in uno scenario muto chiamato mente. I dialoghi sono interiorizzati, ma non perdono ancora i segni della loro origine nell'argomentazione e controargomentazione interpersonale. Così concepita, la mente è il foro non visto e immaginato all’interno del quale impariamo a proiettare i processi sociali visibili e udibili che sperimentiamo per la prima volta nell’infanzia: le pratiche dell’asserzione, della contraddizione, della decisione, della previsione, della ramme-

morazione, dell’approvazione e della disapprovazione, dell'’ammirazione,

dell'accusa,

del rifiuto e del-

l'accettazione e molte altre. Un bambino osserva le scene famigliari, i conflitti nel corso dei quali gli adulti che lo circondano discutono e decidono, si so-

stengono e si contraddicono l'un l’altro, e presto si cimenta senza difficoltà in un’imitazione solitaria di questi scambi. Ognuno di noi ascolta i diversi tipi di 19

dialogo come fossero forme normali di comportamento e riconosce subito le piccole e grandi differenze tra i tipi di dialogo pubblico che si svolgono in situazioni sociali tipiche. La razionalità, il pensiero argomentativo, pubbli-

co e privato, è l'esatto contrario del pensiero immaginativo. Evidentemente, sono molte le situazioni in cui una riflessione seria non deve necessariamente procedere per argomentazioni. Un pittore, un musicista o un poeta possono anche ignorare gli argomen-

ti pro e contro un certo modo di realizzare un’opera particolare. Se ci si sente profondamente emozionati ed eccitati davanti a uno scorcio di paesaggio campestre, e lo si trova bello, di solito non si è disposti a ri-

battere le ragioni avversarie riguardo alla sua bellezza. Si ritiene che non sia di alcun vantaggio difendere in modo corretto, obiettivo e razionale la propria posizione o insistere su una giustificazione se qual-

cuno non è d'accordo e trova cupo quel paesaggio. L'accettabilità di una pretesa estetica è indipendente da qualunque procedura di contraddittorio associata alla pretesa stessa, e normalmente non richiede una negoziazione o un arbitraggio.

Si pensi alle istituzioni che hanno dato senso al concetto tradizionale di ragione e intelletto in quanto opposto a quello di immaginazione. In primo luogo, sono gli studi teorici: lo studio della matematica e della logica; in secondo luogo, sono le scienze naturali; infine, gli studi pratici: il diritto e lo sviluppo dei sistemi giuridici. L'ordinamento platonico delle discipline fa della prova matematica il paradigma del ragionamento e della razionalità. Il concetto platonico di ragione non è il solo possibile e, rispetto a certi obiettivi, per esempio la comprensione della natura 20

della giustizia e della morale, è stato profondamente fuorviante. Capovolgiamo i termini della questione. Che cosa si guadagna a derivare il concetto di razionalità dal ragionamento argomentativo tipico delle dispute legali e morali e delle dispute sull’evidenza, invece che dalle deduzioni e dalle prove formali caratteristiche della logica e della matematica? Il primo vantaggio è la possibilità di mostrare come una norma comune di razionalità si sviluppi naturalmente dalle necessità della vita sociale, cioè dai conflitti inevitabilmente ri-

correnti che devono essere risolti se si vuole che le comunità sopravvivano. D'altro canto, la nozione di

ragione pura, la parte dell'anima eterna e dominante, è una teoria senza valore esplicativo. In secondo luogo, assumendo l’inferenza deduttiva (la norma di ra-

zionalità applicata al ragionamento prudenziale e storico nonché al ragionamento giuridico e morale) come paradigma della razionalità, non si troverà alcun nesso tra tale razionalità e la ragione, a conferma

di quanto gli scettici hanno

sempre

sostenuto.

Sembra dunque che non vi sia alcun legame tra la forma di ragionamento che sfocia nelle verità necessarie della matematica e le forme di ragionamento che sfociano nei giudizi morali, nei giudizi legali o nei giudizi relativi alla sfera della prudenza, pubblica o privata. Il legame è costituito dalle nozioni comuni di razionalità e argomentazione. Nella storia, il concetto di giustizia è sempre stato connesso ai concetti di razionalità e ragionevolezza. Molti filosofi e teologi, nella tradizione del diritto naturale, hanno attribuito alla presunta facoltà della ragione pura la capacità di distinguere le relazioni che sono sostanzialmente giuste e ragionevoli, e confor-

mi ai principi di equità, dalle relazioni che non lo so21

no. Secondo questa tradizione, la ragione, da sola, riconosce che la connessione tra giustizia e protezione della proprietà è una connessione necessaria, come

quella tra una figura piana con tre lati e una figura piana con tre angoli. Eppure, i teorici del diritto naturale non hanno mai smesso, nel loro intimo, di prestare ascolto ai mormorii sovversivi degli scettici, i

quali insinuano che siano sempre esistiti, e probabilmente continueranno a esistere, ordini sociali in cui

queste presunte

connessioni

universali

non

hanno

presa sulla mente delle persone intelligenti, e in cui i diritti di proprietà sono considerati non già necessari e universali ma contingenti e dipendenti da condizioni sociali e circostanze locali particolari. Da questo antico, ma sempre vivo, conflitto filosofico può essere tratta una conclusione certa: è inutile

e controproducente condurre la discussione in termini psicologici, cioè in termini di parti dell'anima o di facoltà della mente. È inutile perché non porta mai a nulla. Quando elabora i propri argomenti, ciascuna delle parti inventa una filosofia della mente, una divisione degli elementi dell'anima, destinata a sostenere

la sua tesi sulla giustizia; di conseguenza, l’argomentazione assume un andamento circolare. Se viene trasferita dalla sfera mentale ombrosa al mondo aperto delle istituzioni e delle pratiche, così come sono studiate dagli storici e dagli antropologi, diventa possibile una risposta precisa 0, quantomeno,

una

chiarificazione della disputa. Adesso cominciamo a capire perché la concezione assoluta della giustizia sia sempre sembrata indispensabile e perché la concezione relativistica della giustizia sia sempre sembrata inevitabile. Istituzioni particolari, ciascuna con

proprie specifiche procedure di decisione tra concezioni antagonistiche di ciò che è sostanzialmente giu22

sto ed equo, vanno e vengono nella storia. Un’unica caratteristica generale del processo decisorio è preservata come condizione necessaria per definire un processo, qualunque esso sia, sostanzialmente giusto

ed equo: che le opposte rivendicazioni siano ascoltate. Una procedura ingiusta, che violi questa condizione necessaria dell'equità procedurale, è ingiusta in ogni tempo e in ogni luogo, ed è slegata da qualunque concezione del bene. Normalmente, chi accetta la procedura di contraddittorio è la persona che fin dall’inizio della sua vita adulta ha fatto parte di un gruppo etnico, di un gruppo sociale, di un certo ambiente, forse di un gruppo religioso o morale, ciascuno dei quali in competizione con altri gruppi per la conquista di una posizione di preminenza, per quanto relativa, in una certa società. In simili condizioni di competizione,

una persona o un gruppo hanno due strade per cercare di perseguire i propri obiettivi: possono esercita-

re il dominio, il che comporta l’uso della forza e la minaccia al ricorso della forza, oppure possono seguire una procedura argomentativa all'interno di un'istituzione (parlamento, tribunale, assemblea) na-

ta con proprie regole procedurali unanimemente accettate. L'esistenza di un'istituzione destinata al contraddittorio è la seconda condizione necessaria di una procedura giusta. L'esistenza di una tale istituzione, nonché la for-

ma particolare delle sue regole e convenzioni procedurali, sono questioni di contingenza storica. Non esiste una necessità razionale circa le regole e le convenzioni più specifiche che definiscono i criteri del successo nel contraddittorio che si svolge all'interno di un'istituzione particolare, fatta eccezione per la 23

necessità prioritaria che ciascuna delle parti in conflitto sia ascoltata mentre sostiene la propria tesi. A un livello più banale, e in cui manca l'aspetto civile dell'’argomentazione, un duello sostenuto per ri-

solvere una disputa può essere equo in virtù delle sue procedure, mentre un'imboscata o un tafferuglio non hanno alcuna pretesa di equità. Non c'è una procedura da seguire. L'idea dell’uguale opportunità per entrambe le parti, cioè l’idea della giustizia procedurale, governa i rituali del duello tradizionale con spade o pistole e di molti altri generi di combattimento e di sfida tradizionali. Nel duello nessuna delle parti può godere di un vantaggio iniquo: la sola ineguaglianza dev'essere quella tra il temperamento e l’abilità dei contendenti. Com'è ovvio, il duello presenta un'analogia soltanto parziale con lo scontro di opinioni in un’aula di tribunale o in parlamento, ma è un esem-

pio molto chiaro di istituto preposto alla risoluzione dei conflitti, governato da regole e rituali tradizionali oltre che da un ideale di equità procedurale. Essere uccisi in duello, come Pu$kin e Lassalle, è diverso, ed

è sempre stato considerato diverso, dall'essere uccisi durante una rissa in un bar, come Christopher Mar-

lowe. Nel silenzio del pensiero individuale, lità assume il carattere di una riflessione te. Quando gli elementi da esaminare e oggetti della riflessione, sono i desideri e in conflitto del soggetto, essa non può

la razionaambivalenvalutare, gli i sentimenti contare sul controllo efficace del proprio giudizio finale da parte di una procedura chiara e consolidata. Desideri, opinioni, atteggiamenti e intenzioni formano generalmente nelle nostre menti uno scenario mutevole e confuso, con tutte le ambivalenze e le contraddizioni che la storia di Leonzio illustra. 24

Noi non sappiamo nulla della ragione come facoltà, a parte ciò che filosofi, teologi e altri hanno

scelto di esprimere con questo concetto. Le parti dell'anima, diversamente da braccia e gambe, sono un'invenzione filosofica. Pensiamo a una serie di attività tipiche raggruppate sotto la voce attività del pensiero argomentativo e dell'intelletto contrapposto all'immaginazione: la valutazione delle prove favorevoli e contrarie a un'ipotesi elaborata nell’ambito delle scienze sociali; la valutazione delle prove in un’indagine storica o criminale, o in una causa civile; l’intera

sfera della prudenza e della deliberazione pubbliche. Ognuna di queste attività richiede capacità differenti, ma

possono

essere tutte comprese

sotto la voce

ra-

gionamento in condizioni di incertezza. Adesso pensiamo a una lista, completamente diversa, di attività di pensiero naturali che ci aspetteremmo di trovare,

in una forma o nell’altra, in ogni società: sono le attività dell'immaginazione (la prosa, la poesia, la musica, il teatro, l’arte visiva, le celebrazioni pubbliche, la descrizione delle società ideali, delle persone ideali e dei modi di vita ideali, nonché l'immaginazione mo-

rale). Si tratta di attività che immaginiamo variare ampiamente nella forma e nel contenuto secondo i luoghi, i gruppi sociali, i periodi storici e le culture. Ma non ci limitiamo a presupporne la diversità: la esigiamo addirittura. La loro diversità, come quella delle lingue naturali, aiuta a definire l'identità di po-

polazioni e culture differenti. Alla prima serie di attività è stata erroneamente assegnata una posizione superiore, in base al fatto che distingue gli esseri umani dagli animali nell’anima organizzata a più livelli. Entrambe le liste di attività distinguono gli esseri umani dagli animali. La differenza risiede altrove. Le attività della ragione 25

contenute nella prima lista uniscono l'umanità in virtù di procedure e obiettivi condivisi e identici. Il pensiero richiesto è convergente. La seconda lista consiste di attività che tendono a dividere l'umanità in gruppi distinti, ciascuno con la propria lingua, i propri costumi, i propri riti, le proprie arti e le pro-

prie idee morali. Il pensiero è divergente e particolarizzato. Le attività contenute nella prima lista non cambiano forma quando si estendono al di là delle frontiere. Il ragionamento logico e matematico è convergente in modo

persino più rigoroso, giacché

attraversa tutte le frontiere. Ma quanto ai costumi so-

ciali, agli ideali morali, ai riti, alle liturgie, alle celebrazioni, alla musica, alla poesia e all'arte visiva, non pretendiamo criteri di valutazione universali; al con-

trario, sono tutti elementi utili per distinguere modi di vita diversi. Inoltre, dividono le persone secondo il temperamento e il gusto: la musica giavanese può essere gradita in Germania, ma nessuno si aspetta che

abbia le caratteristiche della musica tedesca. Beethoven può essere gradito in Cina, ma le sue procedure compositive, vale a dire il suo stile, non sono quelle della musica cinese; in questo caso non ci si aspetta

né si desidera alcuna convergenza. All’interno della stessa popolazione le insofferenze e le avversioni sono estremamente diverse. Il conflitto, sociale e psicologico, era il male principale per Platone e Aristotele. Dalla stratificazione delle classi nella città, ciascuna delle quali svolge il proprio ruolo, deve originare un'armonia soddisfacente e quell’armonia definisce la giustizia sociale. Lo stesso può dirsi del governo di un'anima individuale. Gli individui possono evitare l’esperienza dolorosa del conflitto interno se in ognuna delle loro idee, aspirazioni, emozioni e opinioni personali sono 26

governati da una conoscenza certa delle norme e dei principi consolidati. Questo quadro di una possibile armonia sotto il governo della ragione regge per tutti i secoli cristiani, persiste nella filosofia dell’Illuminismo e sopravvive anche nel liberalismo contemporaneo. Quali che siano le differenze contingenti tra noi — le differenze originate dalla nostra storia personale: dai nostri ricordi e dalla nostra immaginazione —, il

re nel suo castello e il contadino nella sua casupola sono uniti, nella loro comune umanità, in virtù del-

l'indiscussa superiorità dei principi morali razionali che l’uno e l’altro potrebbero tacitamente accettare. John Rawls ha vivificato lo studio della filosofia politica prendendo

le distanze, com'era necessario,

da questa ricerca tradizionale dell'armonia. Nel suo libro Una teoria della giustizia egli ha dichiarato che i suoi princìpi di giustizia razionalmente scelti devono essere indipendenti dalle concezioni del bene. Ma ha dichiarato anche che i suoi princìpi devono essere razionalmente scelti, in modo specifico, da coloro che vivono in una società liberale e democratica, nella

quale potrebbero rappresentare un consenso politico per sovrapposizione ai princìpi della giustizia sostanziale. Ancora una volta c'è armonia, ma è un'armonia

relegata all’interno dello steccato liberale. Nessuno la cui concezione del bene e del male sia fondata su un'autorità soprannaturale che presenti la tolleranza di una visione morale opposta come un male accetterà, per esempio, la supremazia della libertà. La presenza di simili persone illiberali dev'essere data per scontata in ogni società veramente liberale. Questa relegazione dei princìpi di giustizia ragionevolmente accettabili nelle società liberali e democratiche aggira il problema politico irrisolto del nostro tempo, ov-

vero la relazione tra due tipi di società: da un lato, le 27

società e i governi consapevolmente tradizionali in cui preti, rabbini, imam o mullah e altri esperti del

volere divino mantengono

un'unica concezione del

bene, la quale determina il modo di vivere della società nel suo insieme; dall’altro lato, le società e i go-

verni democratici e liberali che permettono, o favoriscono, una pluralità di concezioni del bene. La du-

rezza di questa prova di forza è stata occultata a lungo dalla fede in una teoria positivistica della modernizzazione. I positivisti credevano che tutte le società del mondo avrebbero gradualmente spezzato i propri legami con le forze soprannaturali a causa della crescente necessità dei metodi razionali, scientifici ed

empirici di pensiero che una moderna economia industriale comporta. Si tratta dell'antica fede, diffusa nel diciannovesimo secolo, nel fatto che debba esiste-

re una convergenza progressiva sui valori liberali: i “nostri valori”. Noi ora sappiamo che non esiste alcun “deve” in relazione a ciò, e che il valore predittivo di simili teorie generali della storia umana è quasi nullo. Sono solo versioni diacroniche della fede platonica e marxista in un'armonia razionale finale. Alla luce della situazione attuale, non è soltanto possibile ma

anche probabile che la maggior parte delle concezioni del bene e dei modi di vita tipici delle società commerciali, liberali e industrializzate apparirà spesso odiosa alle consistenti minoranze presenti all’interno di queste società, e ancora più odiosa alla maggioranza delle popolazioni presenti all’interno delle società tradizionali. Come liberale, penso che dovrei aspettarmi di essere considerato superficiale da buona parte del genere umano, in patria e all’estero. Occorre avere ben chiaro che il proprio modo di vivere, di parlare e di pensare non solo sembra sbagliato a 28

molti, ma può essere ripugnante esattamente nello stesso modo in cui possono esserlo le abitudini alimentari o i costumi sessuali altrui. I liberali, come

Rawls e me, credono che non si

possa attribuire alcun significato morale importante all'accidente del proprio luogo di nascita e del proprio retaggio. I nostri oppositori morali, che i liberali definiscono talvolta fanatici, vedono nel proprio retaggio un destino, un senso o un disegno, e dalla loro ascendenza inferiscono una precisa missione, un in-

sieme preciso di doveri e un chiaro piano di vita. Forse questa opposizione, la più importante in politica, nasce dagli atteggiamenti contrastanti nei confronti del tempo, il tempo storico. Quando un cattolico scrive su un muro di Belfast “Remember 1689” — un episodio famoso —- per richiamare alla mente gli insediamenti protestanti di Guglielmo mM, non è certamente utile reagire dicendo: “Dovete essere equi e ragionevoli: dimenticate quelle che per voi sono le ingiustizie del passato, perché il passato non si può cambiare; è più equo e ragionevole partire dal presente e cercare di costruire una società pacifica per il futuro”. La risposta sarebbe: “Ci state chiedendo di dimenticare chi siamo. Come chiunque altro, noi ci autodefiniamo in base a ciò che rifiutiamo. Cesseremmo di esistere come comunità se pensassimo solo al futuro e a ciò che voi chiamate ragionevolezza. Vorrebbe dire la nostra distruzione, la perdita dell'integrità, sia come

individui sia come comunità”. L'autodefinizione per opposizione è l'equivalente morale del vecchio principio logico: Omnis determinatio est negatio. All’interno dello stato, le procedure di risoluzione dei conflitti sono sempre giudicate negativamente, mutano in continuazione e non sono mai eque e im-

parziali come in teoria potrebbero essere. Ma se sono 29

conosciute a fondo e fanno parte di una storia ininterrotta sono accettabili per le ragioni che Hume ha spiegato nel suo saggio The Ideal Commonwealth. Le istituzioni e i loro rituali tengono insieme la società nella misura in cui traggono la loro forza dalla capacità di risolvere i conflitti morali e politici in conformità con le particolari convenzioni locali e nazionali: “Questa è la forma di governo che ci è congeniale e noi non l’abbandoneremo”. Ecco che cosa si deve intendere per giustizia ed equità nelle procedure, qualunque sia il contesto: nei duelli, negli sport, nei giochi, nelle aule di tribunale, nei parlamenti, in ogni genere di argomentazione e

nei processi dialettici in cui una delle parti vince e l’altra perde, che sia equo o no. Politica e vita sociale procedono perlopiù in questo modo (quantomeno nei conflitti controllati e riconosciuti), talvolta serenamente, talvolta faticosamente.

Guardando indietro, possiamo giudicare sostanzialmente ingiuste, da un punto di vista morale, istituzioni storiche come la schiavitù negli stati americani del Sud, la sottomissione delle donne nell’Inghil-

terra vittoriana e il sistema delle caste in India, mentre possiamo spiegare e difendere la concezione liberale della giustizia sostanziale emersa gradualmente in Europa e in America come il risultato di antichi conflitti. Possiamo anche giudicare insopportabilmente e sostanzialmente ingiusta l’attuale distribuzione della ricchezza e del reddito in America o in Gran Bretagna,

anche

alla luce di una

particolare

concezione della giustizia distributiva, che è parte di una visione morale complessiva e di un'idea del bene particolare. In questo caso ci aspetteremmo l’opposizione dei conservatori dotati di una diversa concezione della giustizia, concezione che possono difendere 30

— e ciò è parte della loro idea del bene - ponendo l’accento sui diritti di proprietà e sull’autonomia degli individui. Il tema della giustizia distributiva resta fin qui astratto, teorico e indeterminato. Quando i conservatori e i riformisti liberali ingaggiano una battaglia politica sul terreno dell'economia, l’argomentazione che ne consegue presuppone l’esistenza di alcune delle istituzioni e dei costumi prevalenti in quel momen-

to e in quel luogo. I partecipanti al conflitto rinunciano a discutere in astratto sull’equità o meno della distribuzione attuale della ricchezza, senza tener conto, cioè, delle altre istituzioni del tempo e del luogo,

come se si riferissero a un mondo sociale ideale e immaginario, nato dal nulla: la posizione di Shelley. Sto ipotizzando che ciascun contendente difenda la propria tesi nel mondo reale della politica necessaria, se-

guendo le procedure consuete e governate da regole dell’argomentazione pubblica e del processo decisorio appropriate a queste circostanze in questa società

particolare. Le forme specifiche di argomentazione e negoziazione (nonché le arene in cui si svolgono i conflitti) sono spesso, a loro volta, oggetto di controversia,

esattamente

come

le concezioni

sostanziali

della giustizia che implicano. Come queste, anche gli strumenti del contendere, in quanto rappresentano l’'incerto risultato di conflitti politici costanti, sono destinati a mutare. Le questioni secondarie e pro-

cedurali non possono che diventare oggetto di scontro e trattativa politici. La cornice di una simile controversia politica, se viene gestita con giustizia ed equità, resta il principio universale del contraddittorio.

Qualunque sia la prospettiva morale e la concezione del bene di una persona, e quali che siano le sue 31

convinzioni in tema di giustizia sostanziale, quella persona sa che talvolta si scontrerà con altre di parere contrario. A meno che non viva isolata, essa subirà

in qualche misura le costrizioni di certe abitudini di comportamento

argomentativo pressoché universali,

le quali possono essere complessivamente chiamate abitudine di giocare il gioco dell’argomentazione in conformità delle regole localmente appropriate. Durante l'infanzia essa ha imparato a prendere parte ai giochi e ai contesti istituzionalizzati messi in scena dai suoi coetanei, e ad accettare durante il processo le regole storicamente contingenti che definivano quei giochi. Raggiunta la maturità si è resa conto, com'era naturale, che se fosse nata altrove e in un altro secolo avrebbe avuto a che fare con istituzioni e contesti diversi. Ma la natura dell'interazione e della disposizione innata alla partecipazione sarebbe stata la stessa. A causa di quest'alternanza tra necessità e contingenza, la teoria filosofica ha sempre seguito un percorso incerto e oscillante tra relativismo etico da un lato e assolutismo etico dall'altro. Nei tempi e nei luoghi in cui esisteva la schiavitù, il trattamento equo

e giusto degli schiavi era governato da regole e convenzioni. In alcuni di questi tempi e luoghi c’era chi pensava che tali regole e convenzioni fossero totalmente inappropriate, dal punto di vista della giustizia sostanziale, all'interazione tra esseri umani, e che

arrivava a denunciare la stessa istituzione della schiavitù come sempre sostanzialmente ingiusta. Analogamente, nell’Imghilterra degli anni venti, cioè ai tempi della mia infanzia, i domestici di casa erano impotenti se, dopo un contrasto, i datori di lavoro si

rifiutavano di dare referenze su di loro: erano condannati alla disoccupazione. Oggi la maggioranza 32

delle persone giudicherebbe questa dipendenza e questa impotenza profondamente ingiuste, ma l’opinione comune, a quell'epoca, non riconosceva questa ingiustizia. Nell'arco di tempo della mia vita, il conflitto di classe, fomentato da un movimento operaio coscien-

te di sé, ha prodotto nuove idee di giustizia sostanziale. I critici delle concezioni consolidate della giustizia sostanziale, forti della loro immaginativa e del loro radicalismo, ampliano costantemente il dibatti-

to e sollevano casi di ingiustizia mai affrontati prima. Così è stato per la critica del lavoro operaio non regolamentato, dell’ineguaglianza tra i sessi, delle limi. tazioni al diritto di voto, dell'accesso ineguale all’assistenza sanitaria, all'istruzione, all'assistenza legale. L'immaginazione morale, quando coincide con una

certa inquietudine sociale, suscettibile di essere incanalata e diretta, genera nuovi conflitti oltre che nuove concezioni del bene. Tutte le società moderne sono, in misura maggiore o minore,

moralmente

eterogenee,

caratterizzate

dalla presenza di concezioni della giustizia antitetiche (conservatrici e radicali), le quali sfociano

nel

conflitto aperto e necessitano di arbitraggio. Nel caso estremo, ovviamente, il conflitto supera tutti gli sbarramenti procedurali e si trasforma in violenza. Nessuno stato potrà mai rappresentare in modo perfettamente equo le diverse prospettive morali esistenti al suo interno. Al massimo si può sperare in un conti-

nuo avvicinamento agli ideali contemporanei dell’equità nella risoluzione dei conflitti è in nuove istituzioni tese a correggere le ineguaglianze più evidenti. La giustizia procedurale tende per sua natura a essere imperfetta e non ideale, giacché rappresenta il risultato incerto di passati compromessi politici. Quel33

lo che emerge da un confronto politico equo sarà spesso descritto come “un misero compromesso” da chi ha in mente soltanto un'unica forma specifica di giustizia sostanziale. Anche per l'individuo, come per la società, il compromesso, misero o brillante che sia, è certamente la

condizione normale (e spesso la più desiderabile) dell'anima per una creatura i cui desideri e sentimenti siano generalmente ambivalenti e sempre in conflitto tra loro. Un compromesso brillante è quello in cui la tensione tra forze e impulsi contrari, che si respingono a vicenda, è percepibile e vivida, e in cui l'intensità di tali forze e impulsi resta massima (penso all'arco di Eraclito). Un esempio potrebbe essere lo sforzo di un cantante per mantenere il controllo totale della tecnica senza compromettere minimamente la spontaneità dell'espressione. Questa tensione irrisolta tra opposti può essere percepita nelle grandi esecuzioni musicali e nei capolavori dell’arte e della letteratura. Normalmente noi non viviamo in questo stato di tensione massima e continua, né come individui né come comunità. Le nostre vite non sono

capolavori,

e le vite delle comunità

non

sono

corsi avanzati di musica. Noi cerchiamo di attenuare la tensione ma, finché abbiamo vita, non ci aspettia-

mo la scomparsa totale della tensione e del conflitto, nell'anima come

nella società. Guardando

indietro,

le nostre vite individuali si rivelano un compromesso continuo e imperfetto tra ambizioni contrapposte, e

le istituzioni che sopravvivono nello stato sono state generalmente messe insieme alla meglio durante le trattative seguite a lunghi conflitti del passato, oggi probabilmente dimenticati insieme all’indignazione morale del tempo. In un ordine sociale e nell’esperienza di un indivi34

duo, uno stato di conflitto non è il segno di un vizio,

di un difetto o di un malfunzionamento. Non è una deviazione dallo stato normale di una città o di una nazione, e non è una deviazione dal corso normale dell'esperienza personale. Per analizzare le implicazioni etiche di queste proposizioni sulla normalità del conflitto, di queste verità eraclitee, è necessaria

una sorta di conversione morale, un nuovo modo di

guardare a tutte le virtù, compresa la virtù della giustizia. Dobbiamo voltare lo specchio della teoria, così da poterci vedere sia come siamo sia come eravamo. Alcuni filosofi morali contemporanei hanno sostenuto che esisterà sempre una pluralità di concezioni ‘del bene diverse e incompatibili, e che non può esistere un'unica teoria, compiuta e coerente, della virtù

umana: per esempio, Isaiah Berlin ha difeso questa

tesi in un saggio su Machiavelli, che aveva insistito

sull'incompatibilità dell'innocenza cristiana con il successo e la sicurezza di sé in politica. Ma io vorrei avanzare una tesi più forte, riassunta nel detto “Ogni determinazione è una negazione”: la superiore potenza del negativo. Le concezioni del bene più potenti si sono autodefinite le espressioni di un rifiuto delle concezioni antagonistiche: per esempio, alcuni degli ideali del monacato rappresentavano un rifiuto della magnificenza e delle gerarchie della Chiesa, e

questo rifiuto era parte del senso e dello scopo originari dell'ideale monastico. Certe forme di fondamentalismo, sia cristiane sia di altro tipo, si autodefini-

scono un rifiuto per principio delle morali secolari, liberali e permissive. Il fondamentalismo è la negazione di qualsiasi devianza nell'opinione morale e della stessa nozione di opinione nell’etica. L'essenza di una morale liberale è il rifiuto di qualunque autorità ultima ed esclusiva, naturale o so35

prannaturale, nonché della coercizione e della censura che l’accompagnano. In questo contesto, la libertà stessa è percepita, e preservata, come nozione negativa: nessun muro d’intransigenza, nessuna regola in-

discutibile da parte di religiosi e politici; il futuro dev'essere un ambito aperto all'esplorazione. Apertura è un concetto negativo,e in quanto tale un concet-

to indeterminato. L'avversario del liberale è disgustato, o innervosito, da questa negatività, dall'apertura e dal vuoto, dalla deriva di una vita senza guida. Il con-

flitto che segue è aspro e spesso amaro. Nelle comunità fiorite prima che nascessero i mezzi di comunicazione moderni, i cittadini potevano anche ignorare

i sistemi di credenze morali riflessive che detestavano. Oggi potrebbero ragionevolmente (cioè senza ignorare il conflitto) decidere concordemente di collocare le attività politiche, la gestione esperta dei conflitti, tra le capacità umane più elevate. D'altro canto, dal fatto che la giustizia procedurale sia definita in base a un principio universale, un principio di

razionalità, non discende che essa debba trascurare tutte le diverse considerazioni morali che occupano la mente

degli individui.

Generalmente,

uomini

e

donne riconoscono che in circostanze eccezionali potrebbero pensare che si dovrebbe passar sopra alle considerazioni di giustizia procedurale allo scopo di proteggere qualche altro valore essenziale, dominante nella loro morale: per esempio, l'impegno contro il dilagare della povertà o la difesa della vita. Di norma, in ogni società moderna c’è un caos di opinioni e di atteggiamenti morali. Una persona ra-

gionevole sa che c'è questo caos, e tutti coloro che credono fermamente nelle proprie idee o che nutrono sentimenti integralisti deplorano il caos e sperano nel consenso: di solito un consenso in cui prevalgano 36

le loro opinioni e i loro atteggiamenti. Come socialista convinto, io considero la povertà affiancata alla

grande ricchezza un male grave e non necessario nonché un'ingiustizia sostanziale, e mi aspetto una lotta politica incessante

contro

coloro la cui conce-

zione del bene e la cui idea di equità sono incompatibili. È questa la vera sfera della politica. Vi sarà, da un lato, la retorica ben allenata del pensiero conservatore e, dall'altro, la retorica della riforma radicale e della redistribuzione. Sotto molti aspetti essenziali, la teoria metaetica che ho delineato è vicina a quella di Hume: le opinioni sulla giustizia sostanziale e le altre virtù derivano, e sono spiegate, da sentimenti umani naturali e am-

piamente diffusi, modificati in profondità da costumi e storie sociali estremamente variabili. Sennonché, conformemente alla tradizione classica, Hume cre-

deva ancora che l'umanità tendesse alla concordia dei propri sentimenti morali. Dopo aver respinto le pretese della ragione di garantire una morale basata sull’accordo generale, Hume introdusse nuovamente l’obiettivo dell'armonia e del consenso avanzando l’idea di una natura umana invariabile che governa i nostri sentimenti e le nostre simpatie. Ho sostenuto che la diversità e la separatezza delle lingue, delle

culture e delle fedeltà locali non sono caratteristiche superficiali della natura umana, bensì le sue caratteristiche essenziali e profonde (tanto inevitabili quanto desiderabili) radicate nelle nostre diverse immaginazioni

e memorie, Ancora più importante, i nostri

sentimenti più forti sono esclusivi e portano immediatamente alla competizione e al conflitto, perché la nostra memoria, e con essa la nostra immaginazione,

si concentrano su persone particolari, lingue partico-

lari (che abbiamo ereditato), luoghi particolari, grup37

pi sociali particolari, riti e religioni particolari e particolari toni di voce. Di conseguenza, anche le nostre

fedeltà più forti si concentrano su questi elementi. Noi vogliamo servire e rafforzare le particolari istituzioni che ci proteggono, e vogliamo ampliare il loro potere e la loro influenza.a spese delle istituzioni rivali. Questa filosofia del conflitto può assumere in modo ancora più marcato il carattere della metafisica. L'individualità di ogni cosa attiva dipende dalla sua capacità di resistere all'invasione e al dominio delle cose attive tutt'intorno. Questo è il principio metafisico che Spinoza pensava di dover applicare a tutte le cose che costituiscono

l'ordine naturale,

e dunque

anche a tutte le persone e ai gruppi identificabili che costituiscono l'ordine civile. Uomini e donne si oppongono per natura a qualsiasi forza esterna che tenda a reprimere le loro attività tipiche o a limitare la loro libertà. Ciò vale per gli individui, per le famiglie, per le classi sociali, per i gruppi religiosi, per i gruppi etnici, per le nazioni. Questo è l'ordine comune della

natura. Tutte queste diverse unità combattono, consapevolmente o meno, per proteggere il proprio carattere individuale e i propri tratti distintivi dall’intrusione e dall’assorbimento nel loro ambiente di altre cose che tendono a imporsi. In questo quadro dell'ordine naturale, la diversità, contrariamente alla conformità, non è un precetto morale, come pensava

Mill, un'opzione tra tante. È una necessità naturale per ogni singola entità: la necessità di preservare il più a lungo possibile il proprio carattere distinto. Per questa ragione, tutte le volte che nella storia degli individui, dei gruppi sociali e delle nazioni le loro strade s'intersecano, potrebbero nascere conflitti. Il con38

flitto non ha mai fine all’interno e nell’ambito dell’ordine civile. Questa è una concezione metafisica, una specula-

zione. Il quadro di Spinoza si riferisce all’ineluttabilità dei conflitti di interessi nella lotta per la sopravvivenza. Ma può essere usato anche in relazione ai con-

flitti tra concezioni del bene con le quali la gente si identifica profondamente. L'esperienza personale e la

storia politica forniscono prove convincenti a sostegno di questo quadro. Ognuno riconosce il carattere

esclusivo di molti dei propri sentimenti, i quali lo riportano ad altri sentimenti e interessi che sa di non poter ignorare. La condizione normale di una persona capace di nutrire abitualmente sentimenti profondi assomiglia alla condizione mentale di Leonzio, dal quale sono partito. Nel contesto degli affari internazionali è ormai evidente che la razza umana non ha molte probabilità di sopravvivere a lungo se non saranno elaborate e adottate procedure ragionevolmente eque di negoziazione e arbitraggio nella composizione dei conflitti internazionali che minacciano di trasformarsi in guerre.

La mia tesi è importante

perché, in primo

luogo, sostiene che la creazione di istituzioni e procedure unanimemente accettate dovrebbe avere la priorità sull’enunciazione di princìpi universali; in secondo luogo, perché sostiene che il rispetto per le istituzioni

è soprattutto

una

conseguenza

del loro

uso ordinario e della loro graduale acquisizione di un carattere familiare. Esiste la possibilità che, piano piano, si affermi nell’ambito delle trattative per il disarmo una sorta di diritto giurisprudenziale e che, durante tali trattative, un seppur vago senso dell’equità governi le decisioni relative ai conflitti, sempre che le opportunità di accesso siano uguali: non un'e39

quità perfetta ma il genere di equità imperfetta che può emergere da procedure che sono a loro volta compromessi, dalle vestigia della storia. Non ci si può aspettare niente di più ragionevole.

La razionalità, prudenziale e morale, in quanto patrimonio o potenzialità comune a tutti gli esseri umani, si identifica verosimilmente, essendo argomentazione

e contro-argomentazione,

con la valuta-

zione giusta ed equa degli elementi e dei desideri in contrasto. Ogni individuo si serve di procedure per decidere tra sollecitazioni e impulsi contrari: i con-

flitti politici e la loro risoluzione sono molto simili.

Nell’arena politica difenderò quelle istituzioni che contribuiscono alla realizzazione della mia concezione del bene e che proteggono la mia concezione della giustizia sostanziale dai suoi nemici. Dai miei nemici morali esigo ciò che impongo a me stesso: che prestino ascolto con imparzialità alle diverse idee di ciò che è giusto ed equo, che garantiscano a tutte uguale accesso nella città o nello stato e che non permettano

ad alcuno di imporre una certa concezione della giustizia sostanziale nella società con l'esercizio del dominio o la minaccia della violenza. Come mi comporto quando una concezione del bene diversa dalla mia non lascia spazio alla giustizia procedurale e quando non riconosce la virtù dell'equità nella composizione delle dispute? Tipicamente, questo è il problema che deve affrontare la morale liberale e non autoritaria: se una concezione particolare del bene non comprende già la virtù del rispetto per l’equità nella procedura, e per la razionalità in questo senso procedurale, dove trova la propria autorità e giustificazione que-

sta virtù indipendente e indispensabile? L'autorità e la giustificazione vanno cercate nella struttura della stessa ragione pratica. Questa è la mia 40

tesi: una specie di argomento trascendentale. Quando elabora la propria concezione del bene, ciascuno soppesa i pro e i contro nella propria mente; quando definisce i propri interessi, soppesa i pro e i contro nei termini della prudenza comune. Le nostre diverse concezioni del bene sono formate, in modo decisivo e alla fine di tutte le prove di coerenza, dalle nostre percezioni e dalla nostra immaginazione, che a turno determinano i nostri senti-

menti. Nell'era cristiana abbiamo permesso alla nostra immaginazione di procedere in due direzioni opposte, e questo ci ha disorientato. La prima direzione è quella presa dai monoteisti: un solo Dio, creatore e arbitro. Ovviamente, se esiste un solo Dio esiste una sola morale: la Sua legge e la conseguente menzogna del pluralismo morale. La seconda direzione è quella presa da Erodoto: la coscienza storica, che si gloria della varietà dei modi di vita e della capacità di immaginarli. Questa gloria è stata associata al politeismo pagano, fondato sul rispetto di molte divinità tutelari, ciascuna delle quali stava a salvaguardia di qualcosa. La sacralità e la venerazione erano diffuse,

e il contrasto tra gli ateniesi e gli spartani, gli uni e gli altri votati a propri ideali di umanità, andava a gloria di entrambi. Guardando indietro a Erodoto e a Platone, e alle

economie schiavistiche del mondo antico, si dovrebbe evitare di insistere sulle differenze morali tra quel tempo e il nostro tanto da trascurare le analogie, che sono più evidenti. Permangono, immutati, gli orrori della vita umana, mali terribili e tuttavia normali,

pressoché gli stessi in ogni cultura ed epoca storica: il massacro, la denutrizione, la prigionia, la tortura,

la morte e la mutilazione in guerra, la tirannia e l’u-

miliazione... in pratica, le notizie della sera e del

41

mattino. Quali che siano le differenze nelle concezioni del bene, questi mali estremi sono sempre e innegabilmente mali da evitare a tutti i costi, o quasi a

tutti i costi. Uno strumento per combatterli costantemente e proficuamente è la comune razionalità quotidiana, la forza dell’argomentazione: una protezione debole, dirà qualcuno, ed è per questo che io sono pessimista.

Un motivo di speranza è il pensiero che la sfera dell'agire politico possa essere gradualmente estesa e che un numero sempre maggiore di grandi mali, co-

me la fame e la povertà, possa essere spostato dalla categoria delle “sventure naturali” a quella dei “fallimenti politici”. Questo è successo regolarmente in passato, per esempio nel caso della riduzione in schiavitù

e della sottomissione

delle donne,

e può

succedere ancora con la povertà e la fame. Il conflitto perenne

tra pensiero conservatore,

in tutte le sue

varianti, e le ambizioni dei riformisti, dei socialisti e dei liberali deriva, in ultima analisi, da questo dilem-

ma: dovremmo cercare di accrescere continuamente la nostra consapevolezza delle possibilità politiche o dovremmo accettare i limiti dell'agire politico, che, guarda caso, la nostra storia ha fin qui lasciato immutati? In ogni periodo, la retorica della libertà glorifica l'agire umano, anche se è solo l’agire di un principe del Rinascimento: l’opposta retorica del conservatorismo glorifica la stabilità e la continuità delle pratiche sociali e delle vecchie forme di vita. In ogni conflitto particolare di valori questo confronto può sfumare in una vera e propria opposizione di sentimenti spinti all'eccesso, giacché sono in gioco concezioni incompatibili del bene. Concezioni incompatibili del male sarebbe un'espressione più realistica in relazione a valori morali incompatibili, perché una 42

prospettiva o una teoria morale si definisce di solito in base a ciò che esclude e proibisce. La presenza di tradizioni morali in conflitto all’interno di una società non significa che non possa esistere al tempo stesso una politica culturale condivisa all’interno di istituzioni condivise. Coloro che operano all’interno delle diverse istituzioni cercando di perseguire i propri obiettivi particolari finiscono inevitabilmente per condividere determinati atteggiamenti e consuetudini professionali, nonché una comune moralità professionale. La parola “comunità” è molto usata nella filosofia politica. Ritengo che le vere comunità, nella vita moderna, debbano essere cer-

cate nelle professioni e negli interessi condivisi, nei gruppi di persone che lavorano insieme. Nella maggioranza dei casi, avvocati, attori, soldati

e marinai,

atleti, medici e diplomatici si sentono in qualche modo solidali davanti a chi non fa parte del loro ambiente e, nonostante le differenze, condividono fram-

menti di un'etica comune nella propria vita professionale, stabilendo una sorta di complicità morale.

Lo stesso può dirsi dei politici all'interno di uno stato democratico o quasi democratico, il quale tenderà a generare un gruppo di politici di professione capaci di riconoscere, al di là delle rivalità, i propri tratti comuni. È del tutto normale che questo trasversalismo morale sia fortemente avvertito: si può detestare una categoria di persone per la loro apparente indifferenza nei confronti della giustizia sociale e della normale equità comunemente concepite, e al tempo stesso condividere con loro una politica culturale e un certo rispetto per le procedure che consentono di mantenere il difficile controllo di queste rivalità. Gli esseri umani non sono coerenti quando si tratta di sentimenti, di alleanze e di inimicizie; non agiscono in 43

conformità con un modello semplice di coerenza. Questo è il lato positivo delle ambivalenze e delle ambiguità del sentire. Per noi è naturale essere coinvolti in conflitti di ogni tipo, che sono ciò in cui consiste la nostra espe-

rienza quotidiana. Si dirà che sto presentando la giustizia procedurale unicamente nei termini della nozione inglese di fair play, in cui la politica assume la

forma di gioco. Ma questo è sbagliato e antistorico. L'idea di conflitto equo risale a tempi antichissimi e affonda le sue radici nelle epoche pre-cristiane, in particolare nelle culture pagane classiche. Dobbiamo sbarazzarci di un modello di mente umana troppo

semplificato e di tutte le opposizioni di sentimenti che comprende. Il rispetto per un processo può coesistere abitualmente con l'avversione per l'esito del processo, e ciò soprattutto nelle democrazie. La mia argomentazione riguardo ai due generi di

giustizia dev'essere considerata assolutamente generale, e la democrazia fondata su libere elezioni un ge-

nere di governo tra i tanti. La democrazia viene solitamente esaltata come la forma di governo in grado di assicurare la rappresentanza più completa e più

equa possibile di tutti i cittadini dello stato. Di conseguenza, più lo stato è democratico in questo senso meglio è, perché è un bene che prevalga la politica più popolare, la politica sostenuta con maggior forza. Questa è un'affermazione morale sostanziale, ma-

gari suscettibile di essere ulteriormente difesa da qualche specifica teoria della libertà o dei diritti naturali. Sennonché, per quanto mi riguarda, non ho motivi per accettarla. Quando una maggioranza, se-

guendo una tendenza naturale, sostiene politiche sbagliate — per esempio, nella punizione del crimine, nel modo di trattare le minoranze etniche, nella poli-

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tica dell'immigrazione, nella politica estera e in altri campi - la popolarità delle politiche (per me, data la mia concezione del bene) non può attenuare gli errori e il male. Al contrario, il valore di una costituzione

democratica risiede nella difesa delle minoranze e non delle maggioranze. Occorre fare in modo, nel nome della giustizia, che le minoranze siano ascoltate come si deve e che svolgano nel processo il loro ruolo necessario. Io e i miei alleati politici saremo spesso dalla parte dei perdenti. Se in una democrazia ci capitasse di avere il potere di vanificare la volontà, stabilita in modo giusto, della maggioranza, sarebbe evidentemente iniquo e ingiusto che lo facessimo, a

meno che non fossimo convinti che la politica scelta è un male così annichilente e rovinoso da non tenere in nessun conto le esigenze di giustizia procedurale. In caso contrario seguiremo tristemente le regole de-

mocratiche, nella speranza che i nostri avversari dimostrino di possedere un senso della razionalità e delle giuste procedure altrettanto forte quando capiterà a noi di vincere e a loro di perdere. Il conflitto è perenne: perché dunque la nostra speranza dovrebbe andare delusa?

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2. Contro il monoteismo

Esistono altre ragioni, oltre a quelle illustrate nel capitolo precedente, per escludere che i conflitti morali fondamentali possano essere eliminati dalle società moderne. Una morale vigorosamente laica e liberale, appartenente alla tradizione fondata da John Stuart Mill, rifiuta in primo luogo tutte le fonti soprannaturali di autorità e conoscenza morali e in secondo luogo nega, più specificamente, che esista un Dio, il Creatore, Colui il quale ha comunicato all’u-

manità i propri disegni per essa e fornito una serie di prescrizioni morali originate da questi disegni. Almeno in Occidente, non c’è stata una tradizione che abbia imposto di accettare una giustificazione o garanzia della legittimità delle distinzioni morali pur negando l’esistenza di un Dio, comunque lo concepiscano i cristiani, gli ebrei o

imusulmani.

Coloro che accettano la tesi del monoteismo credono che tutti gli esseri umani siano soggetti agli stessi vincoli morali e che solo una concezione del bene sia alla fine accettabile. Anche se svolgere opera di proselitismo (come fanno i missionari cristiani) e impegnarsi politicamente a sostegno dell’unica concezione vincolante del bene non è sentito come un vero e proprio dovere, questi credenti non possono coerentemente accettare che molte concezioni diver46

se del bene siano, o possano essere in linea di principio, difendibili. Evidentemente, io rifiuto il monoteismo e un'autorità soprannaturale nell’etica. Sono convinto che, se proprio dovessimo fare proseliti, saremmo tenuti a farlo con l’obiettivo di negare la pretesa all'universalità di tutti i credi sostanziali e di difendere l’equità nella gestione dei conflitti tra i credi. Il nemico principale, dal mio punto di vista, è il monoteismo, seguito dall’universalismo morale espresso, per esempio, dalla filosofia utilitaristica, che, nella sua forma classica, ha sfumato le differenze rilevanti nelle aspirazioni degli individui e delle società in un unico, altamente astratto principio d'azione e nella coltivazione di un unico valore: la ricerca del

piacere e la fuga dal dolore. Il contrario del monoteismo e di questo monomoralismo è l'accettazione della molteplicità di ideali e concezioni del bene, temperata dal rispetto per le convenzioni locali e per le regole della risoluzione dei conflitti. È ragionevole essere universalisti per difendere la ragionevolezza nella regolazione dei conflitti (“ascolta l’altra parte”), ma non per difendere i risultati particolari di conflitti particolari tra opinioni morali.

Lequità e la giustizia nelle procedure sono le sole virtù che possano essere ragionevolmente considerate norme direttive valide universalmente. La loro pretesa al rispetto universale si fonda sulla pretesa antecedente della razionalità al rispetto universale; e questa pretesa si fonda a sua volta su una caratteristica

universale del comportamento umano, dalla quale trae anche la sua forza: l'abitudine al ragionamento argomentativo in condizioni di incertezza, l’uguale attenzione agli argomenti pro e contro prima di ac-

cettare una conclusione. Le norme dell'equità e della giustizia nella risoluzione dei conflitti sociali discen47

dono direttamente dalla valutazione degli elementi a disposizione,

necessaria

alla conoscenza

storica

e

scientifica nonché al senso comune pratico. Ma questo appello a una norma universale, la norma della razionalità nell’argomentazione, è del tutto astratto e generale finché non entra in gioco un’altra norma,

anch'essa costitutiva dell'idea di una giusta procedura di risoluzione dei conflitti: in nessun tempo e luogo una procedura particolare è considerata equa e giusta se non è o non deve diventare, nelle intenzioni

di chi l'ha scelta, la procedura regolarmente adottata. Questa condizione necessaria dell'equità nella risoluzione dei conflitti può pretendere di essere universalmente riconosciuta perché anch'essa può essere fatta discendere da una caratteristica universale, o quasi

universale, del comportamento umano. Gli esseri umani imparano a riconoscere le regole e le convenzioni delle istituzioni al cui interno vengono educati, comprese le convenzioni della loro vita famigliare. Le istituzioni sono

contesti necessari

di procedure

giuste di risoluzione dei conflitti e sono formate da consuetudini e da abitudini riconosciute, le quali si consolidano nella forma di regole procedurali specifiche all'interno

delle diverse

istituzioni:

tribunali,

parlamenti, consigli, partiti politici e così via. In ogni tempo e luogo i membri di una società e i cittadini di uno stato si aspettano che i conflitti nei quali sono coinvolti siano risolti in conformità con le regole riconosciute all'interno di quella società o di quello stato particolari. Evidentemente esistono in ogni tempo, all’interno di una società o di uno stato, molte forme diverse di

istituzione adatte a risolvere i diversi tipi di conflitto. L'equità nella perorazione di una causa o di un’idea è diversa dall’equità nella deliberazione di una senten48

za: l'equità in parlamento e nella politica dei partiti è diversa dall’equità in un'aula di tribunale e in un arbitrato. Le istituzioni locali, ciascuna con la propria storia, le proprie consuetudini e le proprie convenzioni particolari, definiranno le forme tipiche di equità e imparzialità vigenti all’interno delle istituzioni particolari. La pluralità delle forme di istituzione abbraccia la pluralità dei tipi di conflitto. Pertanto, i requisiti della giustizia procedurale variano enormemente secondo il tempo e il luogo a causa delle consuetudini e delle regole locali. Si riconosce la subordinazione di tutte le diverse consuetudini e «convenzioni a uno scopo comune e molto generale: la valutazione giusta ed equa delle politiche, delle proposte o delle opinioni in contrasto. Nell'ambito della giustizia

procedurale

possiamo

eccezionalmente

combinare i vantaggi di un elemento di universalità con quelli di un elemento di diversità: le procedure devono prevedere, quale requisito universale, che le parti in conflitto siano ascoltate imparzialmente, e al

tempo stesso le istituzioni coinvolte nella risoluzione dei conflitti devono essersi guadagnate o devono guadagnarsi rispetto e riconoscimento in uno stato o in

una società particolari. La giustizia procedurale, pertanto, possiede almeno una caratteristica in comune

con la giustizia sostanziale: la necessità di riferirsi alla situazione sociale, alle credenze e alle tradizioni

della società particolare nel momento particolare per poter stabilire se la risoluzione di un conflitto particolare sia, o sia stata, giusta o equa. Potrebbe accade-

re che le procedure adottate si rivelino meno eque e imparziali di quanto fossero sembrate, perché rappresentano un compromesso seguito a una controversia sorta in passato, quando ebbe inizio la discus49

sione sulle questioni procedurali; ma potrebbero essere abbastanza eque secondo i criteri comuni. Se si comincia col valutare le istituzioni politiche, le consuetudini e le convenzioni sociali, le istituzioni

giuridiche e le concezioni

comuni

dell'equità con

questo spirito storico, prestando attenzione ai con-

flitti da cui hanno tratto origine, si sarà meno inclini ad attribuire la loro sopravvivenza a quell’entità astratta e sfuggente che chiamiamo “natura umana”. Hume riteneva che la stabilità e la sopravvivenza di un'istituzione o di una consuetudine, oppure di un complesso di atteggiamenti morali, fosse una prova sufficiente del fatto che si conformano alla natura umana e riteneva altresì che una loro critica a priori

dal punto di vista di un qualche ideale morale fosse generalmente fuori luogo e inutile. Egli lasciava intuire un parallelo tra le caratteristiche costanti che prevalgono nella natura umana - il modo di ragionare — e le leggi della fisica newtoniana. Questa visione non tiene conto abbastanza della semplice contingenza, addirittura dell’accidentalità, di atteggiamenti morali, istituzioni e consuetudini ampiamente diffusi e ben consolidati. Consuetudini anomale si dimostrano spesso permanenti. Si direbbe che Hume annetta una sorta di necessità alle nostre istituzioni, alle nostre convenzioni e ai nostri atteggiamenti mo-

rali più saldi e diffusi: non una necessità razionale ma la necessità del diritto naturale, delle leggi che governano la psicologia umana. Ma uno storico, che

si interessa di luoghi e tempi particolari, ha una storia diversa da raccontare quando spiega le ragioni degli atteggiamenti diffusi e durevoli, in un paese particolare, verso la giustizia sociale, le leggi sui poveri, la Chiesa, la religione in generale, il parlamento e la monarchia, 50

i costumi

sessuali e famigliari, le

guerre con altri paesi, La sua narrazione si battaglia nelle guerre le singole espressioni

le forme specifiche di cortesia. spingerà oltre gli episodi della di religione e di ideologia, oltre del temperamento e della pas-

sione individuali, fino alla relativa stabilità e all’ap-

parente inazione del presente. Poiché nel volgersi indietro ha guardato oltre le contingenze, egli non sarà propenso a interpretare la politica contemporanea e le istituzioni sociali (in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati Uniti) come “naturali” in qualche senso profondo e importante. L'impressione di stabilità offerta dalle istituzioni, dalle consuetudini e dalle convenzioni ereditate non confonde del tutto le tracce ‘ dei molti, sparsi conflitti e controversie ormai placati e, almeno

temporaneamente,

risolti.

La persona

dotata di senso storico, pertanto, non sarà colta di sorpresa dal venir meno della stabilità apparente delle istituzioni a causa

di un mutamento

imprevisto

nella realtà circostante. Molte contingenze future consentiranno di modificare il futuro con l’azione politica a prescindere dai limiti posti dalla “natura umana”. La subordinazione delle donne, nella vita sociale e politica e nell’occupazione, era considerata la più naturale delle consuetudini per il fatto che sembrava soddisfare le ovvie esigenze della natura umana, finché altri mutamenti nelle relazioni sociali, e forse anche un certo sostegno attivo dell’imma-

ginazione, non hanno incrinato il generale consenso rispetto a tali questioni. L'errore, la trappola fondamentale è proiettare in un modello astratto le abitudini e le convenzioni più stabili e diffuse in un luogo e in un tempo particolari, e chiamare questo modello “natura umana”. Se ap| plicato nel presente, questo modello astratto della natura umana può essere più o meno adeguato ai fini 51

della pianificazione ordinaria, giacché rappresenta comunque l’orientamento generale degli atteggiamenti morali condivisi fino al momento attuale, con

l'esclusione delle eccezioni e delle deviazioni meno significative. L'errore è assumere il modello astratto come verità completa ed esatta, ovvero presumere che corrisponda ai molti e diversi sentimenti, atteggiamenti e convenzioni reali presenti nel mondo os-

servato. La sua omogeneità, e il fatto che possa essere inserito in una sola prospettiva, dimostrano che non esiste una tale corrispondenza. Consideriamo il caso opposto: le leggi del moto di Newton

spiegavano e anticipavano le interrelazioni

dei corpi celesti osservati in modo così preciso e completo da impressionare il mondo colto. Era come se la natura si fosse resa osservabile nella forma di un modello astratto. Lo schema concettuale chiaro, adeguatamente sorretto dalla matematica, e i dati ottenuti dall’osservazione astronomica corrispondevano in maniera soddisfacente. Si trattò di un momento particolare nella storia di una delle branche più importanti delle scienze naturali: la fase in cui furono fissati i criteri per l'interpretazione delle scienze naturali complessivamente intese nei due secoli successivi. La concezione del diritto naturale in Kant e Laplace, e il relativo determinismo, derivarono la lo-

ro plausibilità e la loro profonda influenza e autorevolezza da questo successo straordinario, il quale fe-

ce sembrare plausibile che uno schema esplicativo tanto astratto potesse davvero coincidere alla perfezione con le particolarità osservate. Potremmo

con-

cludere, senza preoccuparci oltre, che “la Natura si adatta alle nostre capacità cognitive”, per dirla con Kant. Evidentemente, questa fiducia nel governo della legge, rafforzata dallo studio moderno della fisica, 52

era anche associata a una certa fiducia nel monoteismo. Così Kant poté sottolineare il parallelo tra la legge cui si conformano i cieli stellati sopra di noi e la legge morale dentro di noi. Il pensiero scaturito dalla rivoluzione copernica-

na di Kant potrebbe svilupparsi in un altro senso ancora, rendendo più problematiche le pretese degli

uomini all’intelligibilità della natura e, in concomi-

tanza, la legge morale universale. Supponiamo che l'attenzione si sposti sui vasti e inesplorati disordini e incertezze dischiusi dalla moderna astrofisica (con il

contributo delle nuove tecnologie di osservazione) e sulle evidenti anomalie della meccanica quantistica. ‘ Al tempo stesso, altre scienze naturali, oltre alla fisica, nonché nuovi ambiti della fisica presentano una varietà straordinaria di strutture teoriche che sembrano impedire ogni facile visione d’insieme della conoscenza attuale della natura. Diventa quindi naturale guardare con sospetto all’etica universalistica e a qualsiasi teoria molto generale della giustizia, e dubitare che la grande diversità di forme e generi di giustizia sostanziale e di equità possa essere colta pienamente soltanto mediante un complesso di principi generali. A quanto sembra, sentiamo piuttosto il bisogno di estendere la nostra attenzione a un’ampia gamma di consuetudini e atteggiamenti diversi nonché di tradizioni morali e politiche diverse: nello stile della storia di Erodoto. Questa visione più ampia delle società e dei linguaggi umani è anche il metodo, e l'approccio, di un certo tipo di biologo, che potremmo chiamare naturalista. Il suo interesse e il suo modo di ragionare sono quelli di uno studioso intento a compilare un dizionario di greco antico. E uno studioso della natura, e come tale vorrebbe contrapporsi a quei biologi che studiano le strutture dei proces53

si biochimici. Evidentemente la differenza tra i due tipi di interesse, particolare e generale, non dev'esse-

re identificata con una distinzione tra discipline: per esempio, tra le scienze naturali e la storia umana.

La differenza tra i due tipi di indagine discende piuttosto dalla differenza tra gli usi e le applicazioni dei due tipi di conoscenza perseguita. Un catalogo o una mappa completi, o quasi completi, delle specie naturali degli animali e dei vegetali possono essere usati in molti modi come fonti di sapere cui attingere per fini pratici e teorici. Allo stesso modo, la scoperta delle leggi generali che governano i meccanismi dell'eredità nella biosfera può essere usata in molti modi al fine di rendere possibili interventi attivi nei processi naturali. I due tipi di indagine sono complementari. Non esistono buone ragioni per considerare la scoperta di leggi naturali universali, o molto generali, costitutiva del solo paradigma, o del paradigma principale, del pensiero morale. Anche l'esempio rappresentato dal modo di ragionare dei sistematici, dei lessicografi e dei cartografi può influenzare coloro che riflettono sulla giustizia e la morale: non quando porta alla scoperta degli strumenti per intervenire, sottoponendoli a controllo, nei processi naturali, ma

quando abitua a osservare e registrare ognuno dei casi particolari in cui consistono i fenomeni naturali, con tutte le loro molteplici differenze e particolarità. Nel mondo d'oggi, chiunque partecipasse a un conflitto politico argomentativo sull’ingiustizia sostanziale nella distribuzione della ricchezza, nell’ac-

cesso all'assistenza legale o nei diritti degli immigrati farebbe sicuramente riferimento non solo ai principi generali insiti nelle idee correnti di uguaglianza ed equità, ma anche all’incarnazione reale o possibile di questi principi in sistemi sociali reali noti, compreso 54

il proprio, e in sistemi sociali facilmente immaginati, giacché non del tutto diversi dal proprio. In una società pre-industriale, in cui dominavano i grandi proprietari terrieri e in cui l’esazione delle tasse poteva costituire un problema, il modo di vita abituale rendeva irrealizzabili molti dei principi di equità fiscale oggi comunemente

accettati. I principi non avevano

alcuna presa sulle pratiche concrete di riscossione delle tasse. In qualunque processo politico teso ad abolire o ad attenuare una particolare ingiustizia, l'argomentazione pubblica verterà sulle analogie plausibili tra il caso in discussione e i casi di ingiustizia già riconosciuti nello stesso ambito o in un ambi‘to analogo. Evidentemente gli argomenti avanzati non avranno nulla della dimostrazione logica e non mostreranno

il rigore

di una

prova

matematica.

Com'è tipico degli argomenti morali, politici e giuridici, essi citeranno prove e ragioni che fanno prendere posizione senza costringere.

È chiaro che le conclusioni tratte da argomenti del genere sono tipicamente “questioni di opinione”, in un contesto in cui le questioni di opinione si contrappongono alle questioni di conoscenza certa e in-

discussa. Questo non si può negare, se non altro perché è indiscutibile, in quanto fatto osservabile e storico, che tali dispute sulla giustizia sostanziale si succedono in modo continuo e generano argomenti del tipo descritto. Non è facile raggiungere un consenso, per quanto temporaneo e locale. Le dispute sono inevitabili non solo tra persone e gruppi in un'arena

pubblica, ma anche nella mente di persone che riflettono sulla giustizia sostanziale e che devono prendere una decisione in casi difficili: difficili a causa delle loro teorie e prospettive morali. Per quanto integralista possa sembrare un gruppo di persone, e per quanSS

to saldamente i suoi membri siano legati a una prospettiva morale particolare, essi dovranno affrontare di tanto in tanto situazioni capaci di insinuare il conflitto tra loro. A quel punto saranno costretti a soppesare le ragioni pro e contro, a meno che non decidano di smettere del tutto di pensare. Anche se rinunceranno a riflettere in modo autonomo su questioni morali e politiche complesse, appellandosi semplicemente a qualche autorità ultima, nel corso normale degli eventi ricorreranno al ragionamento argomentativo, valutando i pro e i contro di una strategia d’azione particolare nei casi difficili in cui operare con prudenza e pensando soltanto a proteggere se stessi. L'esperienza dei dati discordanti, nelle loro menti co-

me nelle discussioni con altri, è universalmente condivisa e non può essere evitata. Persino il fanatico,

colui che crede di saper distinguere con certezza la giustizia dall’ingiustizia, sa di dover preparare gli argomenti con cui ribattere agli avversari. Il termine peggiorativo “fanatico” lascia intuire che può esistere, o che dovrebbe esistere, un’abitudine a interrogarsi sulle questioni morali e politiche controverse, e che quest'abitudine dovrebbe essere parte integrante, e una parte decisiva, nella cultura di ogni società moderna. In realtà quest’abitudine, e la sua ampia diffusione, potrebbe essere considerata la caratteristica distintiva della società liberale. Accanto ai mali innegabili rappresentati dalla sopraffazione e dal mancato riconoscimento della giustizia procedurale,

altri valori morali

rischiano

in teoria di

scomparire nelle società liberali, anche quelli fortemente sostenuti dall'opinione pubblica. Il dibattito aperto sul conflitto dei valori è in sé un valore. Machiavelli

e Hobbes

sostenevano,

com'è

noto,

che i conflitti politici non possono essere risolti defi56

nitivamente a un livello razionale mediante il contraddittorio, perché sono generalmente accompagnati da una lotta per il potere, nello stato come nella società, che soppianta spesso le procedure razionali. Anche coloro la cui concezione del bene richiede che le procedure razionali di risoluzione dei conflitti siano estese a quanti più casi possibile devono riconoscere che, nella realtà, esse raramente determinano il

risultato: non solo per ragioni hobbesiane, cioè a causa delle lotte concomitanti per la sovranità e il potere, ma anche a causa della natura del ragionamen-

to stesso. Nella matematica e nelle scienze naturali, nella maggior parte degli studi storici e in tutto il sa| pere erudito, la valutazione comparata di prove e teorie in contrasto è considerata una tappa necessaria

nel cammino verso un consenso finale, anche se questo consenso sarà ripensato o reinterpretato alla luce di nuovi elementi. La nostra concezione condivisa della verità nelle scienze naturali, e nelle indagini fat-

tuali relative agli eventi del passato, presuppone questa convergenza necessaria. Una volta raggiunto il consenso, l’argomentazione termina. Questo è il punto del contrasto tra tipi diversi di ragionamento,

quello convergente e il suo contrario, il ragionamento intrinsecamente disputabile (nel senso che può da-

re adito a dispute). La mia concezione del bene e del male non è un patrimonio sociale e pubblico, accumulato dalla collettività, e non si pone come obiettivo la risoluzione definitiva di tutti i conflitti. Nel corso della mia vita,

com'è naturale e normale, la mia concezione del bene e del male si modifica e si arricchisce per effetto della mia esperienza e della mia riflessione. Proprio perché i miei valori e obiettivi guidano le mie attività e i miei sentimenti via via che la vita procede, se sono DI

una persona riflessiva le mie riflessioni sulle virtù e sui valori si rinnovano tutte le volte che l’esperienza fornisce nuovi elementi su cui riflettere. Ma esiste

un’altra ragione, forse anche più importante, per pensare che le concezioni del bene non siano elaborate e sorrette dal ragionamento convergente. I valori

e le virtù che noi riconsideriamo nella nostra mente e di cui discutiamo con altri, compresa la virtù della giustizia sostanziale, sono correttamente visti come

valori comparativi che sono stati inseriti in un ordine di priorità tra molteplici valori possibili. Noi definiamo i valori e le virtù, e determiniamo la loro priorità,

facendo riferimento al male comparativo rappresentato dalla loro negazione. Nel pensiero e nell’azione quotidiani, e soprattutto nella politica, noi dobbiamo costruire un ordine di priorità tra i mali da evitare, per esempio accettando ingiustizie sostanziali mino-

ri per evitare mali peggiori di altro tipo, quale una maggiore infelicità. La mia concezione del bene è l'ordine di priorità che abitualmente assegno ai mali da evitare quando devo prendere una decisione. La nostra immaginazione morale è di gran lunga superiore alla nostra capacità di concretizzarla, tant'è che possiamo facilmente immaginare una vita migliore in un sistema sociale migliore, capace di sollecitare il nostro impegno contro l’ingiustizia. Forse potremmo riuscire, insieme ai nostri alleati politici e affini morali, a riconoscere i mali peggiori qui e

ora e ad accertare il costo esatto e definitivo delle strategie per evitarli. Questo a condizione di lasciare che le nostre riflessioni si sviluppino liberamente in più direzioni, secondo lo stile dei politici e degli storici: uno stile di pensiero che ogni uomo ragionevole usa anche per elaborare le proprie strategie di difesa 58

dell'interesse personale. È un calcolo di limitazione del male entro i limiti delle possibilità pratiche. Quando si adotta questo stile di pensiero, riconoscendone e accettandone il carattere frammentario, non sì può pensare di utilizzare un’unica teoria onnicomprensiva del bene e del male, come fece Aristote-

le nell’Etica nicomachea. La teoria aristotelica era sottile e flessibile, giacché teneva conto dell’ampia varietà di casi specifici e particolarità nei quali Aristotele riconosceva i fatti della vita come noi ne abbiamo

esperienza.

Nondimeno

restava

una

teoria

della felicità completa e della virtù completa in una vita completa, che temperava l'accettazione della di‘ versità tra i tipi di virtù e le forme di successo e conquista. L'antica tensione platonica verso il bene unico era ancora viva, perché in caso contrario le aspirazio-

ni umane sarebbero state “vuote e vane”, cioè non legittimate e realizzate da un'armonia ultima. L'esigenza di completa intelligibilità e di coerenza razionale era fortissima, tanto da spazzare via tutte le altre considerazioni. Lo stesso avvenne più tardi, nei Seco-

li della Fede e dopo il crollo del paganesimo in Occidente. Una spiegazione intelligibile e coerente del Creatore e della sua Creazione sottintende che nella natura, se intesa correttamente, non possono esistere

balzi e vuoti inspiegabili. Analogamente, la teoria morale di una persona razionale, compresa la nozione di giustizia sostanziale, dovrebbe essere omogenea e completa, spiegare in maniera esaustiva la relazione tra le virtù e fornire un'immagine coerente del bene umano. La teoria opposta della razionalità come riflessione ambivalente sottintende una metafisica opposta. Si presume che un individuo, quando eredita e costruisce a propria misura un modo di vita, comprese 59

certe nozioni di giustizia e di equità, possa contare su

esperienze e sentimenti di portata molto limitata e su una conoscenza del mondo che lui stesso riconosce incompleta e lacunosa. La sola cosa che può rassicurarlo è scoprire che altre persone, alle quali parla e che usano lo stesso suo linguaggio, si trovano rispetto a ciò nella stessa situazione. Alcune di loro riconoscono e accettano la drammaticità della propria situazione — la scarsa esperienza, la povertà di spirito, la poca conoscenza del mondo - ma altre non lo fanno e, cosa ancor più drammatica,

sono

convinte

di

aver trasceso quei limiti perché immaginano di conoscere la giustizia perfetta. La razionalità in politica, e quindi la giustizia procedurale, richiede come condizione della propria esistenza la convergenza di più menti che svolgano insieme pratiche condivise. Le procedure giuste devono essere pratiche fondate sulla collaborazione, benché nel corso del processo i collaboratori assumano ruoli diversi e spesso contraddittori. Dal punto di vista di un individuo, la razionalità e l'equità procedurali consistono nell’abitudine a esaminare conflitti particolari e i loro precedenti senza distorcere la pro-

pria visione di quei conflitti immaginando di cambiare ruolo nel corso del processo. Dal punto di vista della società e dei meccanismi necessari della società, cioè di istituzioni quali i parlamenti e i tribunali, la razionalità e l'equità procedurali consistono nella prassi di assicurare a entrambe le parti eguali opportunità di argomentare in relazione a tutte le questioni importanti. I processi circolari di razionalità, i quali esigono che ogni proposta inneschi una riflessione sulle conseguenze del suo rifiuto, sono essenzialmente lo stesso processo nell’arena sociale e nella mente individuale. L'intuizione platonica dell’analo60

gia tra giustizia nei meccanismi di una mente umana

e giustizia nella città fa pensare a una base comune e incontestabile della morale, la quale fa da ponte tra tutte le differenze morali che rendono l’umanità incline al conflitto: l'abitudine di argomentare nella solitudine dell'anima modellata sull’abitudine di argomentare nelle assemblee, nei comitati e nelle aule di tribunale. Noi siamo cittadini dotati di senso della giustizia negli affari pubblici perché le nostre anime sono lacerate dal conflitto tra impulsi contrari, e siamo persone normalmente in lotta con se stesse. Abbiamo un'esperienza diretta della valutazione riflessiva dei pro e dei contro necessaria per garantire una certa coerenza alle nostre azioni e ai nostri atteggiamenti, ed è per questa ragione che sappiamo ricono-

scere e affrontare le contraddizioni del dibattito politico e dell'argomentazione pubblica. Benché un certo senso della razionalità e della giustizia ed equità procedurali appartenga alla natura umana, e alla natura del pensiero umano, non va dimenticato che la giustizia non è mai stata considerata la sola virtù, anche se è forse la virtù principale nelle questioni pratiche e nella politica. È una caratteristica di tutta l’esperienza politica che le procedure razionali, e le convinzioni morali in genere, spieghino solo in parte, nella migliore delle ipotesi, gli atteggiamenti e le azioni di coloro che prendono parte attiva ai grandi eventi pubblici, perché è noto che l’e‘sito delle dispute politiche dipende anche da elementi casuali fuori controllo, e perché il potere politico e l'influenza politica non sono misurabili, e neppure facilmente prevedibili. L'incertezza e l’imprevedibilità, e quindi la difficoltà nel prendere decisioni, sono normalmente maggiori nei conflitti politici che nella vita privata di una persona. Nell'esercizio del potere 61

su vasta scala capita continuamente di far fronte a emergenze dovute al numero e alla diversità delle persone ignote e delle popolazioni coinvolte. L'esperienza del potere politico è l’esperienza delle reazioni non pianificate al susseguirsi costante delle emergenze. È questo che Machiavelli intende quando pone l'accento sulla “Fortuna” come parte dell'essenza dell'agire politico e, conseguentemente, sul potere di decidere come virtù principale e peculiare della politica. In questo senso, la responsabilità politica è diversa dalla responsabilità morale. Chiunque sia un leader nella sua società, chiunque abbia dei seguaci, deve dimostrarsi deciso e vincente, anche a spese della propria integrità e rispettabilità morale. I suoi seguaci e simpatizzanti si affidano a lui per proteggere la propria vita e la propria libertà con tutti i mezzi leciti disponibili,

e diventa un suo dovere non esitare,

non perdere di vista il suo obiettivo e non lasciarsi indebolire dai conflitti che lacerano la sua mente. I politici e gli uomini di stato agiscono naturalmente con l'obbligo di sostenere il proprio partito nelle controversie con i partiti rivali. Se si ostinano a seguire la propria concezione del bene ogni volta che insorge una nuova questione, non tenendo in alcun conto i desideri e le opinioni di coloro che sono stati loro alleati in passato e di coloro con cui avranno bisogno di allearsi in futuro, essi finiranno per non contare più nulla e spariranno del tutto dalla scena. Evidentemente, essi sacrificano spesso parte dei propri ideali e principi morali per cercare di salvare le proprie alleanze. Talvolta lasceranno che la propria concezione del bene informi solo parzialmente le decisioni pratiche perché i loro indispensabili amici politici non condividono interamente quella concezione. Per esempio, potrei appartenere a un partito poli62

tico che permette o favorisce procedure di assegnazione della cittadinanza che io considero sostanzialmente ingiuste e inique. Posso ragionevolmente decidere di accettare

senza protestare l'ingiustizia, allo

scopo di proteggere altri valori che, secondo la mia concezione del bene, sono più importanti. Affrontare dilemmi morali nella vita politica è generalmente più complesso di quanto lo sia nella vita privata. Machiavelli insiste anche troppo sulla priorità della responsabilità politica rispetto all’integrità morale dell’individuo, perché la concezione del bene di Machiavelli

considera il patriottismo, il comando e l'impresa storica le principali virtù umane. La maggioranza dei cristiani e la maggioranza delle persone di tendenza liberale non accettano questa concezione del bene e le sue priorità. Ma tutti e tre i gruppi — i machiavelliani, i cristiani seri e i liberali laici — si ritroveranno inevitabilmente coinvolti in conflitti che non potranno mai sfociare in una perfetta armonia di valori.

63

3. Conflitto e risoluzione del conflitto

In ogni nazione esisteranno sempre controversie generate non solo dal conflitto di interessi, soprattutto economici, ma anche dalla concorrenza tra prospettive morali e credenze radicate. C'è un solo, fondamentale principio morale che tutti i cittadini farebbero bene ad accettare e rispettare nella pratica: il principio dell'equità istituzionalizzata nelle procedure per la risoluzione di questi conflitti. Queste procedure eque, politiche e giuridiche, costituiscono il cemento che tiene insieme lo stato, forniscono una ragione comune per condividere un comportamento

leale ai cittadini che riconoscono questo legame istituzionale tra loro: un legame solitamente meno vincolante di quello creato da una prospettiva morale condivisa, o dalla consanguineità, ma comunque un legame che si fa sentire quando c'è un conflitto di lealtà e quando lo stato perviene mediante processi equi a una decisione moralmente condannata da singoli cittadini. Il dominio, la repressione dei conflitti con la forza o con la minaccia del ricorso alla forza, è

un grande male politico che ogni cittadino dovrebbe sentire come tale, anche se non condivide la posizione di altri cittadini che riconoscono a esso una particolare priorità rispetto ai grandi mali. Persino quegli uomini di fede che sono disgustati dalla compiacente

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tolleranza dei liberali laici devono avere un motivo razionale per rispettare le istituzioni che permettono a simili atteggiamenti e pratiche liberali di sopravvivere insieme alle proprie. Il motivo razionale di tale rispetto è la razionalità stessa, l'abitudine di valutare gli argomenti a favore e contrari, una norma cui non

possono rinunciare se non vogliono che le loro riflessioni producano effetti disastrosi. Se affermo che la povertà, come la malattia, i dan-

ni della guerra, la prigionia o l'umiliazione pubblica, è uno dei grandi mali che affliggono l'umanità, quest'affermazione morale sarà suffragata dal riferimento all'esperienza concreta della povertà e a sentimenti di partecipazione e di immedesimazione. Chiaramente, l’alta priorità accordata alla povertà tra tutti i mali da evitare può anche non essere accettata universalmente, a differenza dei canoni di procedura ra-

zionale. Poiché fa parte di una prospettiva morale particolare, molte altre persone dotate di convinzioni morali diverse la rifiuteranno. Se mi rivolgo a qualcuno che non ha mai sperimentato la povertà e non riesce a immaginare questo tipo di esperienza, o che non si sente coinvolto emotivamente, negherà che la mia affermazione sia vera oppure la liquiderà come

politicamente irrilevante. Costui sarà d'accordo con me che la povertà è qualcosa da evitare ed è pertanto un male, ma dirà anche che, considerato nel contesto dell'agire politico, il fatto di evitarla non ha un'alta priorità, in parte perché la difesa dello stato e delle libertà individuali dovrebbe avere una priorità assai maggiore e in parte perché la povertà è essenzialmente un male naturale, e non provocato dall'uomo,

perciò ampiamente al di fuori del campo d'azione proprio della politica. La politica è l'ambito della scelta pubblica e responsabile, tipicamente della 65

scelta tra pace e guerra. Ma si potrebbe sostenere che noi non scegliamo tra scarsità e abbondanza, o tra malattia e salute, o tra sanità mentale e follia. Nei secoli dell’era cristiana, prima del 1848 e del Manifesto del partito comunista, queste forme di opposizione

tra bene e male nell'esperienza umana erano considerate al di fuori o, al massimo,

ai margini di un'a-

zione statale efficace o della pianificazione sociale, e quindi estranee all’argomentazione politica. Ovviamente,

possiamo

anche

cogliere

qualche

fugace,

compassionevole riferimento ai poveri, alla fame e alla malattia, nonché alle questioni morali e teologi-

che che tali riferimenti suggerivano: in A Modest Proposal di Swift o, sorprendentemente, in Les Caractères di La Bruyère nel diciassettesimo secolo, o più tardi nella descrizione dei sentimenti nutriti da Samuel Johnson per i poveri, c'è un senso vivido del grande male della povertà, ma un senso solo vago del male come realtà politica, quali possono essere i mali della tirannia e dell'anarchia. Poi, con il giacobini-

smo e le politiche sociali di Napoleone, e con la filosofia utilitaristica di Bentham, iniziò l’era della politica propositiva: l'ambito dell’argomentazione politica continuò gradualmente ad ampliarsi per tutto il diciannovesimo secolo. L'obiettivo del movimento socialista, prima e dopo il Manifesto del partito comunista del 1848, fu quello di estendere la sfera riconosciuta dell’azione politica fino a comprendere l’intera “condizione del popolo”, come si diceva in Gran Bretagna: la povertà e la deprivazione degli svantaggiati, le condizioni di lavoro nelle fabbriche e nei campi, il lavoro infantile, la sa-

lute pubblica e l'alimentazione, la situazione abitativa e l'istruzione. Nel corso degli anni questi fattori attinenti alla qualità della vita dei lavoratori sarebbero 66

stati spostati nella sfera pubblica e resi un terreno di scontro politico. L'essenza del socialismo come teoria morale e politica, nelle sue molte versioni, è l'impegno a estendere il campo d'azione della politica ben oltre i limiti riconosciuti nei secoli precedenti e in altre filosofie politiche. Le istituzioni e le azioni politiche devono diventare nel mondo moderno la prima risorsa per combattere i grandi mali, sostituendosi alle istituzioni religiose e alle loro opere di carità. L'appello originario del socialismo nelle opere di Karl Marx era un appello a un umanesimo aggressivo e più pratico, te-

so a ridisegnare il confine tra mali naturali e mali provocati dall'uomo e a trasferire nella sfera politica un maggior numero di elementi all'origine della sofferenza e della frustrazione umane. Le forze politiche che si oppongono al socialismo hanno già tentato di difendere il confine precedentemente riconosciuto tra mali naturali e mali provocati dall'uomo, utilizzando a sostegno dei propri argomenti un’ideologia che pone l'accento sulla libertà dell'individuo e sulla minaccia alla libertà costituita dall’attribuzione di maggiori poteri allo stato. Espressioni come “lo stato balia” sono attualmente usate da coloro che difendono una morale che assegna la priorità all'autonomia dell'individuo, e alle virtù della fiducia in sé e dell’in-

traprendenza, a spese di una benevolenza pubblica organizzata.

In questo scontro di morali, in corso da lungo tempo nel mondo sviluppato, entrambe le parti ricorrono al sostegno di un’ideologia, ciascuna invocando concezioni della libertà diverse. Nel ventesimo seco-

lo, la valutazione razionale delle alternative offerte

da queste morali in competizione, e dalle ideologie connesse, è stata al cuore della politica democratica.

67

Dal punto di vista di presenta un motivo cui sono preservate Nella morale di una

un democratico di soddisfazione le procedure di persona mossa

liberale, ciò rapnella misura in contraddittorio. da ideali tipica-

mente liberali, piuttosto che conservatori o socialisti,

il fatto che un insieme particolare di politiche — per esempio quelle che istituiscono il welfare state — sia uscito vittorioso da una battaglia politica equa è un motivo sufficiente per affermare l’accettabilità di queste politiche. Per un democratico liberale tipico, come lo vedo io, il fatto che una politica particolare sia il risultato di un confronto democratico equo è una condizione necessaria e sufficiente della sua accettabilità. Per un socialista democratico, e per un tipico conservatore inglese, che una politica sia il risultato di una procedura di risoluzione dei conflitti equa e consolidata è una condizione necessaria della sua accettabilità, ma certamente non una condizione sufficiente. Se la politica scelta mi sembra estremamente ed evidentemente ingiusta nella sostanza, sarà

a mio parere inaccettabile. Quando una politica mi sembra inaccettabile, la forma che dovrebbe assumere la mia opposizione a essa è una questione morale

a parte, che andrà definita nel contesto delle circostanze particolari e in considerazione della misura del male. Gli argomenti relativi al ruolo esteso dello stato, e alla portata dell’azione collettiva e politica, sollevano questioni che sono, in ultima analisi, propriamente filosofiche. Probabilmente, coloro che assegnano la priorità all'autonomia degli individui, e al loro totale

controllo sulla propria vita, non pensano alle persone come oggetti interamente naturali le cui attività devono essere spiegate esclusivamente in termini di cause naturali. Per loro, il valore assoluto della vita 68

umana,

peculiare di questa specie soltanto, risiede

nella capacità di una persona di prendere decisioni

autonome. Se noi non mettiamo al primo posto la libera espressione di questa capacità, essi ne dedurranno che non esistono più per noi valori assoluti e che perciò dobbiamo ripiegare sui diversi valori che culture e persone differenti, soggette a influenze accertabili, accettano passivamente. Questo

è un

argomento

coerente,

sostenuto

con

particolare efficacia da Kant, ma anche ampiamente diffuso e accettato, in forme diverse e con molte modificazioni, nelle opinioni prefilosofiche. I paladini della morale cristiana e gli altri monoteisti insistono sulla responsabilità degli esseri umani per il male che infliggono e conseguentemente subiscono: una responsabilità unica, che li eleva al di sopra e li separa dalle altre creature nell'ordine naturale. Questa è una filosofia che accorda una priorità morale assoluta agli individui e all'autorità del loro ragionamento pratico. Le decisioni collettive delle istituzioni e dei gruppi sociali sono meno prioritarie

rispetto a quelle degli individui, così come i sentimenti, i desideri e gli interessi individuali sono meno

prioritari rispetto ai principi morali (che si presumono universali) dai quali ogni persona veramente razionale dev'essere guidata. Questo appello a principi universali è stato uno dei background filosofici degli atteggiamenti liberali in politica e discende direttamente dall’enfasi protestante sulla coscienza del singolo cittadino come arbitro principale, dopo Dio, in tutte le questioni morali, private o pubbliche. Una filosofia antagonistica della mente e della personalità (una delle tante) presuppone che i sentimenti e i desideri (riflessivi e non riflessivi) delle persone decidano la loro condotta insieme alle valutazioni scaturite 69

dal loro ragionamento pratico. I loro sentimenti e desideri possono essere considerati degni d'ammirazione o meno da un certo punto di vista morale, e le valutazioni scaturite dal loro ragionamento pratico possono essere ragionevoli o irragionevoli. Ma non si

parla mai dell'autonomia del volere individuale come qualcosa di esterno all'ordine naturale, con un pro-

prio valore unico e assoluto. Questa filosofia asserisce che nessun aspetto della personalità è al di fuori dell'ordine naturale e che i sentimenti e le emozioni naturali, affinati sia dalla riflessione sia dalle consue-

tudini particolari, sono la fonte e il fondamento dei valori morali sostanziali. Soltanto il principio di equità nella risoluzione dei conflitti può rivendicare una validità universale come principio di razionalità condivisa, indispensabile in ogni processo decisorio e in ogni azione deliberata. Da questo punto di vista naturalistico le interferenze di uno stato socialista nella vita dei suoi cittadini e la conseguente riduzione della loro capacità di decidere autonomamente,

di per sé negative, devono

essere valutate in relazione a un aumento del benessere e del senso di sicurezza. Noi naturalisti sostenia-

mo che nessun valore assoluto è coinvolto in questo conflitto e che il compito del ragionamento pratico è valutare i diversi mali da evitare. La linea che separa i mali provocati dall'uomo dai mali che traggono origine dalla natura delle cose non è una linea rigida, in quanto a tracciarla sono tanto le nostre azioni quanto le nostre possibilità d'azione immaginate e le nostre osservazioni. Nella misura in cui una carestia può essere attribuita all'imperfezione rimediabile delle pratiche sociali e delle tecnologie che dovrebbero consentirci di prevedere e prevenire le carestie, se riusciremo a mettere a punto tali pratiche e tecnolo70

gie, la fame sarà inclusa tra i mali provocati dall’uomo. Se esiste un Servizio d'assistenza sanitaria, e se

la chirurgia estetica è tra le sue specialità, il labbro leporino e lo strabismo, comuni in passato, sono più che disgrazie naturali alle quali rassegnarsi. Se non vengono corretti, sono il prezzo politicamente accet-

tato della preferenza accordata a una certa allocazione delle risorse. Il programma socialista, nel diciottesimo secolo, s'incentrava sull’esigenza che i lavoratori sviluppassero una nuova e aggressiva coscienza politica e che

istituzioni adeguate, in primo luogo i sindacati, incorporassero questa nuova forza e ne assumessero la guida. Diversamente dai principali pensatori dell'Illuminismo, i socialisti non si proponevano di risolve-

re i problemi sociali oggettivi, dei quali la condizione del popolo era l’espressione concreta, quanto piuttosto di creare per i lavoratori le condizioni di vita e di lavoro migliori possibili mediante il consolidamento del loro controllo sui processi politici. Come socialisti, era loro dovere far sì che la povertà urbana e rurale fosse considerata un problema immediato per i politici

e non una sventura naturale, come il tempo

cattivo. Probabilmente ritenevano che il loro compito fosse organizzare i propri sostenitori in vista di un

conflitto, giacché questi non avrebbero mai potuto ottenere condizioni di vita e di lavoro più sopportabili senza un conflitto politico. Il fine ultimo del conflitto, l’emancipazione dei lavoratori, sarebbe emerso dal conflitto stesso. Era un'illusione, pensavano, sup-

porre che fosse utile invocare certi principi generali della giustizia distributiva per ottenere salari equi e condizioni di lavoro decenti. Questa era la speranza liberale, al tempo stesso falsa e dannosa: falsa perché non esistono premesse universalmente accettabili da e}!

cui possano essere dedotti i principi asseriti; dannosa perché una tale speranza attenua il bisogno di un’'organizzazione

politica

aggressiva

che

prepari

al conflitto nel caso in cui il consenso appaia irraggiungibile. L'inevitabilità del conflitto politico per l’applicazione della giustizia distributiva e l'introduzione di condizioni di lavoro eque è presupposta fin dall’inizio nella teoria socialista. In ogni scambio e qualunque sia la merce scambiata, compratori e venditori concordano il prezzo in base a interessi contrapposti.

Lo stesso accade quando la merce scambiata è il lavoro, e quando i compratori sono coloro che hanno accesso al capitale mentre coloro che offrono il proprio lavoro non l'hanno. Il conseguente conflitto sui costi del lavoro trova espressione al livello politico nel processo di argomentazione e contro-argomenta-

zione relativo ai princìpi di giustizia ed equità del compenso. Le opposte nozioni di giustizia e di equità non sono a priori condizioni essenziali: gli argomen-

ti prodotti dalle due parti sono vincolati alle nozioni di giustizia distributiva fondate sulla consuetudine e precedentemente acquisite, anche se discutibili, giacché ciascuna delle due parti cita selettivamente nel dibattito quelle nozioni già accettate che rafforzano la sua tesi. Al livello dell’argomentazione politica, se svolta nelle istituzioni appropriate, ciascuna delle parti avanza la sua pretesa nel nome

e nei termini

dell'equità piuttosto che dell'interesse personale nudo e crudo. Per esempio, i capitalisti faranno leva sull’iniquità di una compensazione inadeguata del rischio finanziario e i lavoratori sull’iniquità di una compensazione inadeguata della durezza e della monotonia del lavoro. Coloro che hanno accesso al capitale e alla ric72

chezza al di là del soddisfacimento dei bisogni immediati tenderanno a sostenere le concezioni della giustizia distributiva già prevalenti nella loro società. Tenderanno

a vedere queste concezioni come verità

eterne o principi di giustizia evidenti di per sé, anche se le verità eterne emergono in effetti da precedenti controversie e da accordi temporanei. Di conseguenza, la perorazione

dei conservatori

s’incentrerà sul

valore della stabilità e sull’autorità delle idee morali generalmente accettate, compresa l’idea di giustizia distributiva,

mentre

la perorazione

dei riformisti

s'incentrerà sulla storia contingente di queste idee. I riformisti sosterranno che la distribuzione dei vantaggi in conformità con le nozioni prevalenti di giustizia dev'essere continuamente rivista e sottoposta a esame critico, se non altro perché la percezione dei

ruoli sociali delle diverse classi e dei diversi gruppi sociali muta continuamente. Semplifichiamo con un esempio: quando la sopravvivenza di una società o di uno stato sembra dipendere dai successi e dagli sforzi di una classe di guerrieri, sarà accettato come equo che i membri di questa classe siano ricompensati con

vantaggi e privilegi eccezionali. Quando questo servizio diviene solo un ricordo, i privilegi finiscono per sembrare iniqui e ingiustificabili. Sennonché, nessun principio generale di equità può essere formulato collegando i tipi estremamente vari di servizio ai tipi estremamente vari di ricompensa accettabile. Nella storia si può soltanto osservare come i privilegi finiscano spesso per essere considerati scandalosi e ingiustificabili quando il ruolo sociale cui sono associati scompare, o quando per altre ragioni non è più

rispettato. A quel punto l’ineguaglianza è sentita come iniqua. Questa è una tendenza naturale osserva-

bile del modo di sentire riflessivo, che influisce sul 73

destino delle monarchie, delle aristocrazie e delle éli-

te di altro genere, compresi gli agenti delle potenze coloniali. L'equità nella giustizia distributiva si riconosce quando esiste una convergenza (seppur vaga) del modo di sentire riflessivo, una convergenza che non è mai perfetta, e mai priva di eccezioni e incertezze. Questo è il motivo per cui le questioni di

equità nella distribuzione dei beni e delle punizioni sono sempre questioni di opinione e danno spes-

so origine a conflitti. Ma il fatto che tali conflitti debbano essere risolti o con l’argomentazione o con la forza è una necessità e non una questione di opinione. Rispetto a questa necessità non possono esistere due opinioni in un gruppo di persone che

ragionano in termini pratici e che, consapevoli di essere mosse da impulsi contrari, sono abituate a soppesare i pro e i contro con la massima equidi-

stanza possibile. A questo punto l’equità e l’ambivalenza nella valutazione ponderata tendono a conciliarsi con la razionalità. Per questa ragione c'è un momento in cui i gruppi politici conservatori e quelli riformisti o progressisti si sovrappongono e si mettono d'accordo: precisamente quando i membri di ciascuno presentano l'argomento a sostegno delle sue politiche nella forma conflittuale caratteristica della loro riflessione interiore. Da entrambe le parti della barricata, quella conservatrice e quella riformista, ognuno ha elaborato nel proprio intimo gli argomenti a favore e contrari, per cui è già preparato a comparire sulla scena po-

litica o giuridica e a difendere le proprie ragioni. Ha già provato nella propria mente la sequenza costituita dall'esposizione di una tesi, dalla sua confutazione e dalla riaffermazione della sua corret-

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tezza. Tutti i contendenti sanno che, se si asterran-

no dall'uso della forza, prevarrà la procedura razionale. La razionalità è un legame tra le persone, ma non

è un legame molto forte e può spezzarsi quando le parti in conflitto sono animate da forti passioni. Quale sentimento può rinsaldarlo in un conflitto nel quale entrambe le parti sono mosse da passione e fedeltà? Quale potrebbe essere la fedeltà prioritaria capace di preservare le istituzioni del contraddittorio quando vengono messe alla prova in un aspro conflitto di valori? A me sembra che ogni filosofia politica dovrebbe avere una risposta a questa domanda, specie una filosofia che sostenga l’inevitabilità e desiderabilità del conflitto politico. Nei limiti della mia argomentazione, la risposta può essere trovata soltanto nelle fedeltà istituzionali e nelle abitudini radicate del vivere e del ragionare insieme. È noto che le convenzioni, lo scambio abituale di ve-

dute e le intese del vivere famigliare possono spesso sopravvivere a conflitti spaventosi, per cui le fami-

glie sono il modello al quale dovrebbero avvicinarsi altre istituzioni basate su rapporti poco meno che intimi: le chiese, i circoli, i college, le scuole, le tribù, le parrocchie, ciascuna con le proprie consuetudini

e fedeltà tradizionali. Quanto allo stato-nazione moderno, l'equivalente più prossimo, ma ancora molto lontano, è la costituzione ereditata, insieme con le

istituzioni più importanti e più antiche che ne costituiscono le parti durature. Negli Stati Uniti, conflitti molto aspri di principi morali che implicano concezioni essenzialmente diverse della giustizia sostanziale sono stati risolti dalla Corte suprema federale mediante

procedure

di contraddittorio,

e la Corte

suprema ha rappresentato sia il contesto sia il mec75

canismo della risoluzione dei conflitti. La Corte e le sue procedure hanno di fatto acquistato autorità e hanno fondato una tradizione di rispetto reciproco tra giudici attestati su posizioni opposte rispetto a questioni di giustizia sostanziali. Nessuno si aspetta

che le sue decisioni siano-infallibilmente giuste nelle questioni sostanziali; ma tutti si aspettano che almeno le sue procedure siano. giuste, perché sono conformi al principio basilare che governa il contraddittorio: il fatto che le parti contendenti siano ascoltate su un piano di parità. Le procedure mediante le quali i giudici sono originariamente nominati sono le procedure ordinarie mediante le quali, in una democrazia, sono solitamente nominati i funzionari pubblici, e non pretendono di essere più giuste di quelle. Ma le convenzioni che governano il patrocinio svolto da entrambe le parti in una causa celebrata davanti alla Corte suprema derivano da una precisa concezione della giustizia, secondo cui gli argomenti, per essere persuasivi, devono fare appello non solo alle idee comunemente e consuetudinariamente accettate di giustizia sostanziale rilevanti per il caso in discussione, ma anche ai precedenti rilevanti nella giurisprudenza della Corte. La forza di persuasione di questo appello al precedente è una conseguenza naturale di uno dei due elementi di cui si compone la nozione di giustizia procedurale; l’altro elemento, la partecipazione al contraddittorio su un piano di parità, è garantita dall’istituzione della Corte stessa in quanto organo deliberativo. Nei parlamenti, nei consigli e nei diversi organi governativi i due elementi della giustizia procedurale sono presenti in proporzione diversa. La necessità che entrambi i contendenti siano ascoltati su un piano di parità dev'essere continuamente sottolineata, 76

perché, ovviamente, nulla garantisce che sia soddi-

sfatta, come invece avviene nell'aula di tribunale. Ai conflitti che sono risolti nei parlamenti e negli orga-

ni governativi

partecipano

generalmente

avversari

politici e ideologici che dibattono, e non avvocati di professione consapevoli della comune, rispettosa osservanza della legge del paese. In una disputa politica di natura procedurale ogni appello al precedente e all'eguaglianza di accesso può diventare oggetto di controversia se la legge indiscussa del paese non ne garantisce la legittimità. Pertanto, le dispute relative alle procedure e alle istituzioni politiche giuste ed eque continueranno all'infinito, punteggiate di occasionali compromessi. In questo processo storico non

ci si deve aspettare alcunché di decisivo o conclusivo. Anche se molte delle procedure di risoluzione dei conflitti politici sono stabilite per legge nella costituzione scritta americana, è evidente che alcune cam-

biano profondamente da un decennio all’altro in conseguenza dei conflitti politici e delle mutate circostanze.

Questo

è vero

anche

per la costituzione

non scritta della Gran Bretagna, benché incarni ancora metodi parlamentari di risoluzione dei conflitti che sono mutati assai lentamente negli ultimi cinquant’anni. I due elementi della giustizia procedurale — la necessità razionale e universale di apertura e rispetto nei confronti delle regole procedurali localmente stabilite e consuete — sono le due forze naturali che alimentano il ragionamento pratico e politico. Se la necessità razionale o il rispetto per le consuetudini venissero

a mancare,

rendendo

impossibile

questo

tipo di ragionamento, ci attenderebbe il disastro: i conflitti non sarebbero più risolti con lo strumento della politica, ma con la violenza o la minaccia del TIT)

ricorso alla violenza, e la vita diventerebbe sgradevo-

le, disumana e breve. Qualunque sia la propria concezione del bene, una tale anarchia dev'essere considerata un grande male, insieme con la fame e la deprivazione, la malattia, la prigionia, la schiavitù e l'umiliazione. £

78

Indice

Pag.

9 Prefazione 13 1.Lanima e la città 46 2. Contro il monoteismo

64 3. Conflitto e risoluzione del conflitto

Stampa Grafica Sipiel Milano, aprile 2001

ID; Ii

Stuart Hampshire Non c'è giustizia senza conflitto Democrazia come confronto di idee Traduzione di Giovanna Bettini

Per regolare i conflitti tutte le società, comunque siano organizzate, sono obbligate a distinguere tra gruppi (con opinioni e interessi divergenti) e procedure istituzionali e giuridiche. La regolamentazione tende, nel migliore dei casi, alla ricerca di un’utopica unanimità di valori morali universali e, nel peggiore, alla riduzione al silenzio di una delle parti. Ma la natura umana non si lascia facilmente imbrigliare dalle regole. La giustizia dovrebbe essere un mezzo per consentire la coesistenza nella società civile di ruoli e funzioni sociali diversi, con obblighi e virtù particolari, senza che si cerchi a tutti i costi la sostanziale armonia

e senza l’artificiosa ricerca del terreno comune. Sul filo di questo ragionamento, Hampshire propone una tesi provocatoria: la giustizia e la democrazia non si nutrono soltanto di mediazione, ma di una continua tensione generata dal confronto e dal conflitto. Accettando questa consapevolezza è possibile aprire la strada a compromessi temporanei tra visioni incompatibili di una migliore maniera di vivere. Stuart Hampshire (1914) ha insegnato filosofia a Oxford, Londra, Princeton e Stanford. È uno degli esponenti più prestigiosi della filosofia analitica contemporanea. In italiano è apparso il volume Innocenza ed esperienza (Feltrinelli 1995).

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