Idee di letteratura 9788860815682

Come e quando nasce l’idea di letteratura? Qual è la relazione fra la concezione attuale di letteratura e quella diffusa

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Idee di letteratura
 9788860815682

Table of contents :
Nota dei curatori 7

Prefazione di MAURIZIO VIRDIS 9

PARTE I (a cura di DUILIO CAOCCI) 13

Autore e testo nella letteratura greca 15
PATRIZIA MUREDDU

Da Stonehenge a Salisbury. Dalla cronaca al romanzo 37
RICHARD TRACHSLER

Idee di letteratura. Medioevo e dintorni 56
MAURIZIO VIRDIS

La letteratura come realtà 70
PAOLO MANINCHEDDA

La mule sans frein tra percorsi mitici e ricerca della verità 82
PATRIZIA SERRA

In pasto alla tradizione. Bono Giamboni e il suo trattato Della miseria dell’uomo 108
DUILIO CAOCCI

La letteratura “consegnata al popolo”: le vite dei santi nel Medioevo romanzo 120
MAURO BADAS

Produzione e ricezione della prosa medievale castigliana: il manoscritto esc. h-I-13 e il Libro del Cavallero Zifar 132
MARCO MAULU

Una letteratura Da huomini nobili, et da signori. Le miscellanee burlesche dei Giunti e dei Navò nel Cinquecento 153
IGNAZIO SIDDI

PARTE II (a cura di MARINA GUGLIELMI) 173

«Quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura». Svevo, Montale e l’istituzione letteraria 175
SANDRO MAXIA

La critica del villaggio. Letteratura e critica dell’ideologia, a partire da due citazioni decisive, tratte dall’antropologia e rilette dalla teoria 201
FRANCESCO MUZZIOLI

La littérature et ses banquets 223
RADHOUAN BEN AMARA

Su alcuni possibili criteri per distinguere le verità della scienza e le verità della letteratura 238
STEFANO BRUGNOLO

A che cosa serve la letteratura? 262
JACQUELINE RISSET

Dalla critica letteraria ai Cultural Studies: deriva o derivazione? 268
MAURO PALA

Narrazioni contemporanee nei nuovi media: la fan fiction 286
MARINA GUGLIELMI

Indice dei nomi 307

Citation preview

TRAME a cura di Marina Guglielmi

Collana Trame Culler, Jonathan, Teoria della letteratura Deidier, Roberto, La poesia. Lettura e comprensione Guglielmi, Marina, Virginia, ti rammenti… Le riscritture di Paul et Virginie Krysinski, Wladimir, Il romanzo e la modernità Montandon, Alain, Le forme brevi Mossé, Claude, Il cittadino nella Grecia antica Proietti, Paolo, Crocevia letterari Reuter, Yves, Il romanzo poliziesco Sangsue, Daniel, La parodia Sorrentino, Flavio, Lo spazio del sotterraneo nella narrativa francese dell’Ottocento Valette, Bernard, Il romanzo. Introduzione ai metodi e alle tecniche moderne di analisi letteraria Westphal, Bertrand, Geocritica. Reale Finzione Spazio Zampetti, A., Marchitelli, A. (a cura di), La tragedia greca. Metodologie a confronto

Duilio Caocci – Marina Guglielmi (a cura di)

IDEE DI LETTERATURA

ARMANDO EDITORE

CAOCCI, Duilio – GUGLIELMI, Marina (a cura di) Idee di letteratura ; Pref. di Maurizio Virdis Roma : Armando, © 2010 320 p. ; 22 cm. (Trame) ISBN: 978-88-6081-568-2 I Patrizia Mureddu II Richard Trachsler II Maurizio Virdis 1. Idee di letteratura nel tempo 2. Antichità / Medioevo 3. Modernità / Contemporaneità CDD 800

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filologie e Letterature Moderne – Università di Cagliari. In copertina: foto di M. Guglielmi, Finland. © 2010 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 36-13-013 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i Paesi. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall’accordo stipulato tra SIAE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni a uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume/fascicolo, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Via delle Erbe, n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail [email protected]

Sommario

Nota dei curatori

7

Prefazione di MAURIZIO VIRDIS

9

PARTE I (a cura di DUILIO CAOCCI)

13

Autore e testo nella letteratura greca PATRIZIA MUREDDU

15

Da Stonehenge a Salisbury. Dalla cronaca al romanzo RICHARD TRACHSLER

37

Idee di letteratura. Medioevo e dintorni MAURIZIO VIRDIS

56

La letteratura come realtà PAOLO MANINCHEDDA

70

La mule sans frein tra percorsi mitici e ricerca della verità PATRIZIA SERRA

82

In pasto alla tradizione. Bono Giamboni e il suo trattato Della miseria dell’uomo DUILIO CAOCCI

108

La letteratura “consegnata al popolo”: le vite dei santi nel Medioevo romanzo MAURO BADAS

120

Produzione e ricezione della prosa medievale castigliana: il manoscritto esc. h-I-13 e il Libro del Cavallero Zifar MARCO MAULU

132

Una letteratura Da huomini nobili, et da signori. Le miscellanee burlesche dei Giunti e dei Navò nel Cinquecento IGNAZIO SIDDI

153

PARTE II (a cura di MARINA GUGLIELMI)

173

«Quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura». Svevo, Montale e l’istituzione letteraria SANDRO MAXIA

175

La critica del villaggio. Letteratura e critica dell’ideologia, a partire da due citazioni decisive, tratte dall’antropologia e rilette dalla teoria FRANCESCO MUZZIOLI La littérature et ses banquets RADHOUAN BEN AMARA Su alcuni possibili criteri per distinguere le verità della scienza e le verità della letteratura STEFANO BRUGNOLO

201

223

238

A che cosa serve la letteratura? JACQUELINE RISSET

262

Dalla critica letteraria ai Cultural Studies: deriva o derivazione? MAURO PALA

268

Narrazioni contemporanee nei nuovi media: la fan fiction MARINA GUGLIELMI

286

Indice dei nomi

307

Nota dei curatori

Questo volume nasce dai lavori di un seminario del Dipartimento di Filologie e Letterature Moderne dell’Università di Cagliari, dedicato alle Idee di letteratura nel tempo. La prima scintilla di discussione scaturì nel 2008 dal libero e proficuo confronto sulle pubblicazioni antiche e moderne dedicate all’argomento, a partire dal sempre imprescindibile Zumthor. A dare l’avvio al seminario è stata la gradita conferenza di Gabriele Frasca, non a caso citato qui più volte, il quale però non ha lasciato traccia scritta del suo passaggio. Fra il novembre 2008 e il marzo 2009 si sono svolte le due giornate di lavori, la prima dedicata all’antichità e al medioevo, riunita nella prima parte del volume, la seconda concentrata su modernità e contemporaneità, raccolta nella seconda parte. La ricchezza di visioni e di angolazioni dalle quali è possibile oggi leggere il fenomeno letteratura è scaturita vieppiù durante gli incontri animando le discussioni e dando vita, impercettibilmente ma solidamente, ad un “sentire comune” che ci ha confermati nella nostra meta, come docenti, di trasmettitori del valore della letteratura. Ci auguriamo di suscitare nei lettori un simile sentire, un’urgenza del fatto letterario e della sua necessità, pur nelle immancabili e imperdonabili lacune storiche di questo libro. Ospitiamo con piacere nella prefazione le riflessioni di Maurizio Virdis, direttore del Dipartimento, che ha condiviso con partecipazione l’entusiasmo comune. Un ringraziamento a Giovanni Pirodda per aver generosamente partecipato al seminario. DUILIO CAOCCI, MARINA GUGLIELMI Cagliari, marzo 2010

7

Prefazione

Si è voluto, con i saggi raccolti in questo volume, dare inizio a una ricerca, in seno al Dipartimento di Filologie e Letterature moderne, sulle diverse realtà che stanno a monte di quella produzione che oggi siamo soliti chiamare letteratura. È difficile dire quanto un’idea modernissima di letteratura – cementata tra Sette e Ottocento – condizioni il nostro approccio alle diverse culture e alle epoche più remote, o, ancora, ci dia conto dell’attualità. Per quanto si raccomandi un’applicazione elastica della categoria, tale condizionamento traspare dalla stessa organizzazione dei saperi, dagli ambiti disciplinari scolastici e universitari, dalla selezione dei contenuti all’interno degli insegnamenti delle letterature. La necessità che avvertiamo di mettere ordine e di ridurre la complessità ci induce a costringere all’interno di tassonomie familiari un passato per il quale quelle tassonomie appaiono, almeno a livello teorico, “impertinenti”. Data dunque tale acritica assunzione, o nei fatti scarsamente critica, relativamente all’idea di letteratura, ci troviamo di fronte non solo a qualcosa che, è ben ovvio, sfugge ad ogni definizione stringente, ma a qualcosa che è pure stata fonte e determinazione dell’indirizzo della scrittura; e pure di diverse esclusioni, anche dolorose, tanto dal lato della produzione quanto da quello della ricezione. Il giudizio e la classificazione delle scritture che si vogliono letterarie, sono riportate ad una idea estetica – più o meno esplicitata ma comunque soggiacente – dell’attualità contemporanea, più che non all’estetica (o non-estetica) relativa al tempo in cui le “opere letterarie” venivano composte, proposte e recepite. Indagare sistematicamente le tappe dei diversi assestamenti attraverso le quali prende forma il corpus che nel nostro immaginario è “letteratura” eccede tuttavia le ambizioni del progetto che, sottraendo l’articolo al sostantivo e rendendo quest’ultimo plurale, più modestamente si è, almeno per il momento, proposto di compiere alcuni sondaggi finalizzati a verificare la funzione e il valore attribuito a certe strategie testuali (dal punto di vista della scrittura e dal punto di vista della ricezione), all’in9

terno di contesti storico culturali ben definiti e con i quali i redattori del progetto hanno maggiore consuetudine. Un’indagine come quella che si vuole qui prospettare e intraprendere, assume oggi significato e valore, io credo, da una serie di motivi: dalla tante volte conclamata, ma mai – heureusement! – accertata “crisi della letteratura”; dal venir meno – questo sì a tutti presente e verificabilissimo – della letteratura quale disciplina centrale tanto nella formazione civile e morale del cittadino, quanto nell’insegnamento linguistico e stilistico della Scuola, per la quale il modello linguistico viene affiancato, quando non sostituito, dai registri più tipici del (buon?) giornalismo o della saggistica, mentre il modello didattico della lingua tende, nei casi migliori almeno, a far acquisizione e a render consapevoli i discenti della diversità dei registri e degli stili, sullo sfondo della multifunzionalità del linguaggio. Altre forme di comunicazione paiono poi ormai tenere il posto che prima – fino a tempi non lontani sul calendario, ma sempre più remoti nella generale consapevolezza, e non solo giovanile – era tenuto dalla letteratura; si tratta di fenomeni ben noti a quanti si occupano di teoria e di sociologia della comunicazione, fenomeni sui quali non si vuole certo insistere in queste pagine iniziali, ma che ricorderemo almeno, un po’ en passant: giornalismo, saggistica anche divulgativa, cinema, televisione, creazioni composite di musica e testi (produzione ‘cantautoriale’, rap, ecc.); a voler tacere del web: fenomeni che hanno mutato le fonti e le forme della creazione e della percezione dell’immaginario, sia soggettivo che collettivo. Nuove “einfache Formen” sono oggi sullo scenario e premono per un riconoscimento, anche su quello della scrittura (letteraria?), mentre la letteratura (anzi la Letteratura) diventa oggetto di teoria, e v’è chi dice vi sia un nesso – non si sa se di causa-effetto, e in quale direzione di marcia – fra teoretica letteraria e crisi della letteratura; una teoresi che comunque prescinde dall’estetica, salvo poi ripescarla in maniera sottaciuta. Comunque, di questa situazione – che non amerei denominare di crisi, ma che è quella determinata da una nuova e specifica configurazione storico-culturale – si può e si deve approfittare. Tanto da un punto di vista storico-filologico, ma allargato e non già ristretto a un discorso di mera erudizione, quanto dal punto di vista operativo e, se vogliamo, militante. È a partire da queste considerazioni che si è voluta avviare una ricerca della quale questi saggi sono allo stesso tempo il primo scandaglio e la messa a punto per un’auspicabile prosecuzione. 10

A tutta prima potrebbe rivelarsi produttiva un’analisi condotta su una serie di testi medievali organizzati secondo disegni testuali simili che orientino in una determinata direzione la fruizione del pubblico o che rappresentino in maniera implicita o esplicita il lettore (reale o ideale). Si aprirebbe un campo di indagine assai ampio (dalla definizione in progress) che va dall’ambito della tradizione epica (es. la Chanson de geste: veicolo di idealità mitizzate e luogo di fusione tra l’etica guerriera e i valori cristiani), alla trattatistica (luogo di costituzione-selezione, interpretazione e trasmissione del sapere medioevale e delle sue concezioni della storia); dal romanzo (genere d’intrattenimento, basato sulla ripetizionevariazione di elementi topici, e/o dotato di una sua riconosciuta funzione didattico-pedagogica com’è – ma certo non soltanto – il Roman de la Rose, vera e propria summa delle conoscenze dell’epoca), all’agiografia (luogo di proposizione di modelli etico-sociali, più vicina di quanto oggi non si pensi, al romanzo). Ciascuna di queste tradizioni può essere osservata in senso diacronico, come manifestazione di visioni del mondo (e di produzione di discorsi sul mondo) di lunga durata, oppure in senso sincronico come strategia particolare di un discorso culturale che si realizza con strumenti diversi e, a certe altezze cronologiche, in una compresenza (culturale e testuale) di tradizioni “eterogenee”, che sarebbe più economico, ma anche più insidioso, definire servendosi del termine “genere”. Ambiti di indagine assai fecondi, per i secoli del dopo Gutenberg, saranno la critica e l’estetica, produzioni considerate, entro certi limiti cronologici (sui quali naturalmente non ci esponiamo), appunto “letterarie” e, poi (ma anche questo “poi” non sarà considerato come un luogo omogeneo), semplicemente “parassitarie” e “servili”. Tali tipi di testo – insieme con la trattatistica che intrattiene interessanti commerci con altre forme del discorso – consentono di osservare da un lato un’ansia di sistematizzazione che funziona «miticamente, come universalità se non come umanesimo» (Zumthor 1987) e, dall’altro, l’affermazione di un rapporto diverso tra poeta e pubblico (già innescato, secondo alcuni, nel XII secolo): un rapporto differito che, in certi casi, può giungere fino all’obliterazione della dimensione pubblica dello scrivere (valga l’esempio dell’idea di Flaubert di un livre sur rien). Il tipo di rapporto che si stabilisce tra poeta e pubblico ha importanti conseguenze sull’autorappresentazione della letteratura, sulle “funzioni” del letterato e della letteratura e, dunque, sulla costituzione di modi “letterari” (specifici?). 11

Da un tempo – che si colloca nella tarda antichità sulla via della cristianizzazione e che sta alle radici della modernità – in cui le lettere erano guardate con sospetto, quale lenocinio che deprime lo spirito (salvo poi far ben uso e buon uso della retorica, nonché dell’antiretorica), fino alla contemporaneità in cui la Letteratura ha assunto l’ambizione di sostituire il raffreddato o annullato senso religioso, e fino alla più recente filosofia che trova del filosofico perfino fra letterati e poeti, molti atteggiamenti, riflessioni, mode, proposizioni, interdetti la letteratura ha attraversato. Sarà quindi necessario indagare sui diversi atteggiamenti e significati che le parole “lettere”, “letterato”, “letteratura” hanno assunto nei vari momenti storici sia per gli operatori e produttori, sia per i diversi tipi di ricezione. Come era considerata nei diversi momenti e tempi quella produzione che noi oggi chiamiamo “letteraria”, e quali funzioni essa aveva? A che cosa era preposto o come si (auto)definiva di volta in volta l’uomo di “lettere”? In tali diversi momenti entravano nel concetto di “letteratura” – quale che esso fosse; o non (ve ne) fosse uno – scritture e produzioni che oggi non sono più considerate letterarie? Dobbiamo oggi ancora considerare “letteratura” ciò che Croce ci ha detto essere Letteratura, visto che nessuno oggi può evitare di dirsi, al fondo del fondo, crociano? O dobbiamo allargarne il concetto verso altri generi “extraletterari”? Dobbiamo considerare il “letterario” come produzione che si connoti in quanto “disinteressata”, o andranno recuperati – tanto nella considerazione del passato quanto nella prospettiva del presente e del futuro – funzioni e valori (anche) pragmatici, quali intrattenimento, divertimento, didattica, erudizione, e – perché no? – critica letteraria? Oggi due fenomeni ci indicano come sia in corso una radicale trasformazione nel mondo della letteratura: il primo è il riassestamento dell’immaginario nel sistema dei media con la conseguente ricollocazione e trasformazione della letteratura, visibile particolarmente attraverso il sistema dei generi; il secondo è il divario, crescente in tempi recentissimi, tra la crisi sempre più marcata dell’insegnamento della letteratura, in tutte le sue forme, e il successo evidente della letteratura, sempre più letta e ricercata. All’interno di questa cornice generale le linee di ricerca possono estendersi dalla scrittura performativa, ovvero la scrittura concepita per essere rappresentata e i relativi generi letterari; alla relazione fra letteratura e altri linguaggi (televisione, radio, cinema) fino a includere i grandi fenomeni editoriali, dalla carta stampata fino al mondo del web. Una collaborazione fra filologia, storia e teoria letteraria dovrebbe essere proficua in questo senso. Maurizio Virdis 12

PARTE PRIMA a cura di Duilio Caocci

Autore e testo nella letteratura greca Patrizia Mureddu

Premessa Il mio intervento, inteso come una sorta di preambolo per un incontro che entrerà molto più nel dettaglio di casi particolari, non ha e non potrebbe avere alcuna pretesa di completezza o di originalità. Il tempo a disposizione non mi consentirà se non qualche sporadico flash su una storia (quella dei rapporti tra autore e testo) che nella letteratura greca appare assai complessa e non sempre lineare; ed i fatti ed i problemi che qui riassumerò sono ben noti agli specialisti. Ma i temi che intendo affrontare hanno costituito argomento privilegiato di ricerca per le ultime generazioni di grecisti che si sono succedute nell’Università di Cagliari1: e se questa mia sintesi non ambisce a prospettare soluzioni originali o risolutive, dipende tuttavia, almeno in parte, da quelle indagini, molte delle quali hanno dato luogo ad importanti risultati. Un abisso incolmabile separa l’atteggiamento con cui si guarda oggi ai testi della letteratura greca da quello con cui venivano letti e studiati appena cinquant’anni fa. La filologia tradizionale proiettava semplicemente nella grecità arcaica e classica la propria “idea di letteratura”: non veniva messo in dubbio (se non forse per Omero) che l’autore leggesse, scrivesse, pubblicasse libri, con modalità non molto dissimili dalle no1

Lo specifico tema del “testo”, inteso come prodotto finale di un lungo processo di elaborazione orale o scritta, ha variamente interessato le nostre ricerche: dalla poesia di tradizione orale (P. Mureddu), alla lirica arcaica (G. Burzacchini e T. Gargiulo), alla diffusione della scrittura ed alla circolazione del libro (G.F. Nieddu), al costituirsi della prosa scientifica e filosofica (G.F. Nieddu e P. Mureddu), al testo teatrale tragico e comico (V. Citti, P. Mureddu, G.F. Nieddu, L. Leurini, S. Novelli), al poeta-filologo alessandrino (G. Serrao e L. Leurini). A molti di questi contributi (che verranno singolarmente elencati nella Nota bibliografica finale) farò un riferimento soltanto implicito nel corso della mia esposizione.

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stre. Soltanto l’irruzione, negli studi sul mondo antico, delle “discipline dell’uomo” (ad opera, dopo la prima fase anglosassone, soprattutto di studiosi francesi, come L. Gernet, J.-P. Vernant, M. Detienne, P. VidalNaquet, N. Loraux) indusse ad una profonda revisione della prospettiva fin allora adottata. Cominciò a diffondersi la consapevolezza che una civiltà di forte impianto tradizionale potesse esprimere prodotti di altissimo valore culturale e formale anche senza un completo accesso alla scrittura; e per la prima volta ci si interrogò seriamente sulla fisionomia da attribuire, sotto questo particolare punto di vista, alla letteratura greca nel suo complesso. Vi furono degli eccessi, com’è naturale in un periodo di svolta e di crisi: dagli anni Sessanta fino agli anni Novanta, fazioni contrapposte ed agguerrite di “oralisti” ed “antioralisti” si affrontarono senza esclusione di colpi dalle pagine delle più accreditate riviste scientifiche2. Nel tempo, tuttavia, i contorni di quell’antica cultura sono andati precisandosi, e molte delle aspre contrapposizioni di allora si sono stemperate. Ci troviamo oggi, forse, nel momento più favorevole per un’equilibrata e ragionevole composizione dei dati emersi in modo tumultuoso e talvolta contraddittorio nella seconda metà del secolo scorso. Come accennavo, quella che presenterò sarà comunque solo un’arbitraria selezione di “esempi notevoli”: e non potrò dare qui conto se non per sommi capi della sterminata letteratura scientifica. Per ciascuno dei generi o dei prodotti letterari che verranno presi in considerazione, sarà inoltre indispensabile percorrere quel ponte ideale che, partendo dalla loro prima “pubblicazione”, li depositò nella biblioteca di Alessandria. Gli antichi filologi, che si preoccuparono di allestire un’edizione critica delle opere poetiche, storiche, filosofiche, scientifiche della cultura che li precedette, lasciarono infatti la loro impronta su tutti i testi che passarono per le loro mani, prima di consegnarli nelle nostre.

2 Al

centro delle polemiche si è trovato soprattutto il volume di E.A. Havelock, Preface to Plato, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1963, trad. it., Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Roma-Bari, Laterza, 19832, che avanzava l’ipotesi, più volte riaffermata dall’autore (e nella sostanza difesa ancora da W.V. Harris, Ancient Literacy, Harvard, University Press, 1989, trad. it., Lettura e istruzione nel mondo antico, Roma-Bari, Laterza, 1991), di una quasi totale illiteracy delle classi privilegiate fino all’ultimo quarto del V sec. a.C. Le sue teorie, molto discusse ed in gran parte ora ridimensionate, hanno avuto tuttavia il merito di aprire un provvidenziale dibattito tra gli studiosi del mondo antico.

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Autori e testi tra epica e lirica arcaica Per riprendere una fortunata definizione di Luigi Enrico Rossi3, si guarda senza quasi più riserve all’Iliade ed all’Odissea come ad una «testimonianza di poesia orale». Dal momento in cui M. Parry4 si avventurò ad interpretare la presenza massiccia della ripetizione nell’epica greca arcaica come la spia di una prassi di composizione estemporanea – introducendo concetti come formula ed oral composition – trovarono infatti soddisfacente soluzione le questioni che, fin dalla tarda antichità, avevano tormentato la critica omerica: la compresenza di fenomeni linguistici ascrivibili a dialetti ed a periodi diversi, i vari anacronismi, le incoerenze narrative, la problematica disponibilità della scrittura, divennero altrettante “prove a favore” per la teoria oralista. In questa prospettiva poterono trovare finalmente una spiegazione anche fenomeni come l’anonimato dell’autore ed il convenzionale ricorso alla Musa, la divina suggeritrice, figlia di Mnemosine5. Il quasi contemporaneo sviluppo della scienza papirologica portava intanto alla luce un numero sempre maggiore di frammenti di “edizioni omeriche” anteriori al costituirsi della tradizione manoscritta medievale; e fu così possibile verificare l’esistenza di significative varianti (con l’inserzione o l’omissione di interi di gruppi di versi), a riprova di una certa fluidità del testo fin oltre l’attività ecdotica della scuola di Alessandria. Leggere i grandi poemi epici come il risultato di una lunga fase di elaborazione e trasmissione orale ha dunque definitivamente obliterato la figura di Omero, il Genio che i nostri padri ponevano a fondamento di tutta la letteraria occidentale? Contro questa ipotesi si è combattuta la più aspra delle battaglie: le teorie del Parry sono state violentemente contestate, schernite, rimosse6 – prima di trovare definitiva accoglienza in tutti i manuali di letteratura greca. Sono oramai pochi coloro che ne 3

I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in R. Bianchi Bandinelli (a cura di), Storia e Civiltà dei Greci/I, Milano, Bompiani, 1978, pp. 73-147. 4 Nella sua rivoluzionaria dissertazione dottorale, M. Parry, L’épithète traditionnelle dans Homère. Essai sur un problème de style homérique, Paris, 1928, pubblicata poi in A. Parry (a cura di), The Making of Homeric Verse, Oxford, Clarendon Press, 1971, pp. 1-190. 5 Con essa, secondo un procedimento di ipostatizzazione tipico di una mentalità primitiva, verrebbe simboleggiata la qualità tradizionale del testo, già presente nella memoria dell’aedo all’atto della performance. 6 Was Homer an Illiterate Improviser? chiedeva ad esempio ironicamente D. Young, dalle pagine del «Minnesota Review» (V, 1965, pp. 65-77), riproponendo due anni dopo la stessa questione in Never Blotted a Line? Formula and Premeditation in Homer and Hesiod, «AION», VI, 1967, pp. 279-324.

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mettono in dubbio la fondatezza. Eppure, quella che si è soliti chiamare la “questione omerica” non può dirsi risolta: resta un importante nodo da sciogliere, quello delle modalità e dei tempi della fissazione dei poemi, quel delicato passaggio tra la parola recitata o cantata ed i libri concreti giunti fino a noi. Tutte le ipotesi restano ancora aperte: dalla raccolta e trascrizione dei testi per iniziativa di uno dei grandi capi di stato o tiranni di VII e VI secolo7 (le antiche fonti attribuiscono a Solone o ad uno dei figli di Pisistrato un’edizione “ateniese” dei poemi, che si sarebbe imposta sulle altre), alla fissazione progressiva per via prima mnemonica e poi scritta di singoli canti, da parte di una consorteria di rapsodi, gli Omeridi di Chio8 – fino al pieno ricupero della figura di un grande cantore (Omero, appunto)9 che, pur avvalendosi di tutta la sua competenza di compositore orale, si sarebbe trovato per un insieme di fattori nelle condizioni ideali per affidare alla scrittura una propria versione dell’uno o dell’altro poema. In qualunque caso, non ci si può oggi confrontare con queste opere straordinarie senza tenere nella debita considerazione la loro origine orale-formulare: e questo vuol dire in primo luogo fare i conti con i particolari automatismi di una composizione estemporanea, portata a selezionare epiteti o intere espressioni in funzione della loro struttura metrica, piuttosto che per la puntuale aderenza ad uno specifico contesto; nonché con la qualità casuale di una lingua letteraria prodottasi nel tempo per il concorso di aedi provenienti da aree dialettali diverse, ed artificiosamente adattata alla rigidità metrica del verso standard della poesia epica, 7 Tale

ipotesi è stata ampiamente dibattuta da M. Skafte Jensen, The Homeric Question and the Oral-Formulaic Theory, Copenhagen, Museum Tusculanum Press, 1980. Cfr. anche R. Janko, I poemi omerici come testi orali dettati, in F. Montanari (a cura di), Omero. Gli aedi, i poemi, gli interpreti, Firenze, La Nuova Italia, 1998; A. Aloni, Da Pilo al Sigeo. Poemi, cantori e scrivani al tempo dei Tiranni, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006. 8 Si tratta della soluzione indicata come la più probabile da L.E. Rossi, op. cit., pp. 79-83. Cfr. anche J. Portulas, Omeridi e Creofilei, «Lexis», XVIII, 2000, pp. 39-53; A.C. Cassio, Epica greca e scrittura tra VIII e VII secolo a. C.: madrepatria e colonie d’Occidente, in G. Bagnasco Gianni, E. Cordano (a cura di), Scritture mediterranee tra il IX e il VII secolo a.C., Atti del seminario (Milano, 23-24 febbraio 1998), Milano, Edizioni Et, 1999, pp. 67-84; Id., Early Editions of the Greek Epics and the Homeric Textual Criticism in the Sixt and Fifth Centuries B.C., in F. Montanari (a cura di), Omero tremila anni dopo, Atti del congresso di Genova (6-8 luglio 2000), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2002, pp. 105-136. 9 È questa attualmente, ad esempio, la posizione di J. Latacz, Homer. Der erste Dichter des Abendlands, München und Zurich, Artemis Verlag, 1989, trad. it., Omero. Il primo poeta dell’Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1990 e, in Italia, di V. Di Benedetto, Nel laboratorio di Omero, Torino, Einaudi, 19982.

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l’esametro dattilico10. Queste osservazioni hanno costretto negli ultimi anni gli studiosi ad approntare un nuovo modello di analisi formale, una “estetica orale” che tenesse nel debito conto la peculiare qualità tradizionale e quindi collettiva della produzione aedo-rapsodica11. La situazione deve considerarsi solo in parte mutata con Esiodo, autore coevo, se non anteriore, al periodo in cui si tende ora a collocare la fissazione dei due poemi omerici (metà del VII sec. a.C.)12: la presenza, per la prima volta, di una “firma”, accompagnata da un gran numero di riferimenti autobiografici, non impedisce infatti di individuare nei testi pervenuti sotto il suo nome soltanto il punto d’arrivo di un lungo processo di rielaborazione di preesistenti materiali mitografici e catalogici. Stanno ad indicarlo, nella Teogonia, da un lato la forma dell’espressione, ancora formulare, anche a costo di gravi incoerenze13, l’impasto dialettale dalla forte impronta ionico-omerica (un’evidente contraddizione con la provenienza geografica dell’autore), la persistenza di relitti di cosmogonie primitive e forse pre-greche (i famosi «miti di successione»)14 – 10 Sull’adattamento della lingua omerica (ed in parte della lingua greca tout-court) al ritmo dattilico mi sembrano ancora fondamentali le riflessioni di P. Chantraine, Grammaire homérique, Paris, Klincksieck, 1958, pp. 94-112 (Cap. VII: «L’adaptation des mots au mètre»). 11 La strada, aperta dai lavori di narratologia omerica di I.J.F. De Jong, Narrators and Focalizers. The Presentation of the Story in the Iliad, Amsterdam, Grüner, 1987 (cui farà seguito, della stessa autrice, A Narratological Commentary on the Odyssey, Cambridge, University Press, 2001), e di S. Richardson, The Homeric Narrator, Nashville, Vanderbilt University Press, 1990, si è poi indirizzata all’analisi di vari aspetti formali e compositivi del testo epico. Cfr. C. Nagy, Poetry as Performance. Homer and Beyond, Cambridge, University Press, 1996; M.W. Edwards, Homeric Style and Oral Poetics, in L. Morris, B. Powell (a cura di), A New Companion to Homer, Leiden, Brill, 1997, pp. 261-283; E.J. Bakker, Poetry in Speech. Orality and Homeric Discourse, Ithaca and London, Cornell University Press, 1997; e da ultimo A. Camerotto, Fare gli eroi. Le storie, le imprese, le virtù: composizione e racconto nell’epica greca arcaica, Padova, Il Poligrafo, 2009, con ampia bibliografia. 12 Una datazione per la Teogonia tra il 680 ed il 670, anteriore alla fissazione dell’Iliade, viene ad esempio ultimamente proposta da M.L. West, The Date of the Iliad, «Mus. Helv.», 52, 1995, pp. 203-219. 13 Condizionati dalla struttura metrica dei due nomi propri, e dal più consueto sistema di aggettivazione, sono ad esempio i nessi formulari «Medusa dai bei riccioli» e «le Graie dalle belle guance», che non tengono conto della scarsa avvenenza dei personaggi in questione: la Gorgone, ben nota per la chioma anguiforme, e le Graie, tre vecchie megere che secondo la mitologia condividevano fraternamente un solo occhio e un solo dente. 14 I problemi legati alla complessità e alla diversa provenienza dei materiali raccolti nella Teogonia sono discussi nella tuttora insuperata analisi di M. West, Hesiod. Theogony, Oxford, University Press, 1966, pp. 1-39.

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cui fa riscontro, dall’altro lato, la sostanziale funzionalità della “struttura profonda” dell’esposizione genealogica; ne Le opere e i giorni (poema didascalico indirizzato allo sfaticato fratello Perse)15 la forte presenza di elementi di matrice proverbiale e l’ampio spettro degli argomenti trattati: dal lavoro nei campi all’economia domestica, all’astronomia, alla navigazione. Tutti indizi che inducono ad ipotizzare anche per Esiodo un training aedico, preliminare alla vera e propria attività compositiva; del resto, apprendiamo dalle sue stesse parole che partecipò ad una gara poetica a Calcide, in Eubea, dove, ci informa, conseguì il primo premio. Nessuno tuttavia mette in dubbio la storicità del personaggio o dei fatti di cui riferisce: e la presenza di dati autobiografici all’interno delle opere tramandate sotto il suo nome dovette preservare, almeno in parte, la forma definitiva di quel testo, costituendo un ostacolo perché altri rapsodi dopo di lui potessero ricantare, facendoli propri, versi dalla natura così fortemente individualizzata16. Questa considerazione impone di collocare la trascrizione dei due poemi nell’arco della stessa vita di Esiodo; la testimonianza del geografo-viaggiatore Pausania (IX 31, 4), che vide sull’Elicona uno scritto su piombo, antico e molto danneggiato, contenente Le opere e i giorni, fa pensare ad una dedica alle Muse di una copia della sua produzione poetica: e fu forse questo il tramite che la consegnò ai posteri. Automatismi espressivi e formule persistono ben oltre la fase di composizione aedo-rapsodica, soprattutto in quei generi lirici, come l’elegia, in cui il ritmo dattilico continua ad avere un ruolo predominante17. Il ricorso alla lingua ed alle movenze espressive dell’epica, subita dapprima come una necessità dai poeti arcaici (che, nella creazione ancora probabilmente orale del canto, facevano ampio ricorso a formulazioni preconfezionate, sfruttando solo in parte le potenzialità offerte dal nuovo mezzo scrittorio)18, resterà comunque tratto distintivo del genere: e questo vale tanto per gli autori che si avvarranno dell’elegia come strumento di propaganda politica (come Teognide e Solone) quanto per Parmenide ed Empedocle, che ricorreranno al linguaggio alto e profetico della 15 La dedica ad un familiare rientra in un ben noto cliché della “wisdom literature”: cfr. M. West, Hesiod. Works and Days, Oxford, University Press, 1978, pp. 3-40. 16 Verrebbe da dire, il primo caso di uso privato di un mezzo pubblico: al fratello egli contestava infatti l’assegnazione di un’eredità. 17 Nel distico elegiaco, destinato ad una lunga e fortunata sopravvivenza nelle letterature classiche posteriori. 18 Cfr. per tutti P. Giannini, Espressioni formulari nell’elegia arcaica, «QUCC», XVI, 1973, pp. 7-78.

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poesia per imprimere alla loro speculazione filosofica il carattere della parola rivelata. In questi due ultimi autori può tuttavia cogliersi lo sforzo intellettuale di chi tenta di emancipare la propria dizione dalle strettoie della formularità, con un’audace risemantizzazione dei più triti segmenti espressivi, piegati ad incarnare concetti e teorie del tutto nuovi19. Con la poesia lirica si apre un altro scenario, destinato anch’esso negli ultimi quarant’anni a catalizzare l’attenzione di sociologi ed antropologi del mondo antico: il simposio, momento d’incontro tra aristocratici appartenenti ad uno stesso gruppo politico o familiare, diviene lo spazio privilegiato per la composizione, la pubblicazione, la diffusione e la trasmissione dei testi, in una cultura ancora dalla forte fisionomia «aurale»20. In questo ambiente, che costituisce il giusto humus per citazioni e rivisitazioni, si registrano i primi casi di dialogo tra poeti: il più noto, fin dall’antichità, è l’elegante schermaglia tra Solone e Mimnermo, che aveva ripreso e modificato un passo di Omero21. Negli ultimi decenni è stato però posto l’accento su un particolare fenomeno della composizione lirico-elegiaca, quello del «riuso»22, con19 Un’interessante ricognizione delle modalità e degli effetti di un tale procedimento è stata portata a termine da una nostra allieva, C. Bordigoni, Empedocle e la dizione omerica, in L. Rossetti, C. Santaniello (a cura di), Studi sul pensiero e la lingua di Empedocle, Bari, Levante, 2004, pp. 199-289. 20 Il termine, introdotto da L.E. Rossi, ha avuto particolare fortuna tra gli studiosi italiani, tra i più sensibili alle problematiche della comunicazione simposiale. Cfr. M. Vetta (a cura di), Poesia e simposio nella Grecia antica, Roma-Bari, Laterza, 1983; Id., Il simposio: la monodia e il giambo, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza (a cura di), Lo spazio letterario della Grecia antica I/1, Roma, Salerno, 1992, pp. 177-218; B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Roma-Bari, Laterza, 19953; A. Aloni, Cantare glorie di eroi: comunicazione e performance poetica nella Grecia arcaica, Torino, Scriptorium, 1998; A. Aloni, A. Iannucci, L’elegia greca e l’epigramma dalle origini al V secolo, Firenze, Le Monnier Università, 2007. 21 La similitudine con cui si apre la risposta di Glauco a Diomede (Iliade VI 145148: «Magnanimo Tidìde, perché vuoi sapere la mia stirpe? Come le stirpi delle foglie, così quelle dell’uomo. Le foglie, le getta a terra il vento, ed altre il bosco, all’arrivo della primavera, rifiorendo ne crea. Tali le stirpi dell’uomo: una nasce, l’altra si estingue») era stata ricondotta da Mimnermo al topos elegiaco del rapido fuggire della vita (fr. 8 Gent.-Pr.): «E noi, quali foglie che genera la stagione dei fiori, la primavera, nate d’un tratto sotto i raggi del sole, noi, ad esse simili, per poco godiamo del fiore della giovinezza… Ma, passata la soglia di questa stagione, meglio morire che vivere ancora». Solone gli rispose contrapponendogli, secondo la propria visione ideale, i piaceri di un’onorata vecchiaia (fr. 26 Gent.-Pr.): «Dammi retta, leva quel verso, non prendertela se te lo consiglio, cambialo, canta così: “mi colga il destino di morte a ottant’anni”…». 22 Cfr. F. Ferrari, Teognide. Elegie, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 5-45, che al problema dedica un ampio capitolo («Uso e riuso del canto simposiale: Teognide e l’elegia greca arcaica»).

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sistente nel ricupero e nel trasferimento da autore ad autore non solo di nessi formulari, ma di interi gruppi di versi: un procedimento che dà la misura di quanto la produzione poetica, “messa in comune” nell’occasione del simposio, potesse essere sentita in certo senso come un patrimonio collettivo, disponibile per riprese integrali o per parziali modifiche. Se all’incontro simposiale deve riconoscersi un ruolo centrale nelle fasi di divulgazione e trasmissione della produzione lirica, resta oggi da stabilire in che modo i testi dei poeti arcaici poterono conservarsi oltre quella specialissima temperie culturale. I numerosi vasi attici che raffigurano simposiasti o ragazzi nell’atto di cantare da un rotolo o da tavolette23 forniscono la prova di una certa circolazione, fin dalla fine del VI secolo a.C., di copie stilate per uso privato e scolastico, che poterono così corroborare e sostenere il percorso orale/mnemonico/aurale di riuso dei componimenti. Per parte loro, i filologi alessandrini si preoccuparono di allestire raccolte il più possibile complete dell’intera produzione lirica – monodica o corale – dell’età arcaica e classica: eppure, la maggior parte di essa non raggiunse gli scriptoria medievali. Soltanto citazioni occasionali di autori contemporanei o posteriori, e, nell’ultimo secolo, i sempre più numerosi ritrovamenti di papiri, ci hanno consentito di avere un’idea (per quanto frammentaria) della varietà e della luminosa qualità poetica della lirica greca arcaica. Un caso a sé è rappresentato da Teognide, le cui elegie, nella forma di un corpus di una certa consistenza, ci sono pervenute per tradizione diretta. Si è creduto recentemente di trovarne la ragione nella decisione dell’autore di preservare la propria opera mediante trascrizione su rotolo di papiro, il “libro”, all’interno o all’inizio del quale la caratteristica sphreghìs (il “sigillo”, con il nome dell’autore) avrebbe costituito il principale strumento di salvaguardia24. 23 La raccolta più sistematica è quella di F.A.G. Beck, Album of Greek Education. The Greeks at School and at Play, Sidney, Cheiron Press, 1975. Cfr. anche H.R. Immerwahr, Book Rolls on Attic Vases, in Ch. Henderson (a cura di), Classical Mediaeval and Renaissance Studies in Honour of B.L. Ullman, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1964, pp. 17-48; Id., More Books on Attic Vases, «AK», 16, 1973, pp. 143-147; E. Pöhlmann, Oralità e scrittura ieri e oggi, in F. Berti e D. Restani (a cura di), Lo specchio della musica, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1988, pp. 19-28. 24 I versi 19-23 del primo libro delle Elegie, che contengono la “firma” dell’autore («Cirno, ho escogitato l’idea di porre un sigillo su questi versi: nessuno potrà così rubarli di nascosto, né, in presenza del meglio, qualcuno li volgerà al peggio. Si dirà allora così: “Son questi i versi di Teognide, del Megarese!” e sarò tra tutti famoso») sono stati oggetto di dibattiti e riletture fin dalla tarda antichità. Dopo W. Rösler, Dichter und Gruppe. Eine Untersuchung zu den Bedingungen und zur historischen Funktion früher griechischer Lyrik: am Beispiel Alkaios, München, Fink, 1980, e M. Vetta, Poe-

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La conseguenza fu comunque in qualche modo imprevedibile: sotto il nome di Teognide si trovarono a confluire distici della più varia provenienza. E se tra questi possiamo riconoscerne un buon numero di sicura origine simposiale, non mancano veri e propri falsi, di età molto più tarda25.

Rappresentazione drammatica e testo teatrale La situazione appena descritta evidenzia, per l’età arcaica, nel rapporto autore-testo un doppio fattore di crisi: per un verso (in modo maggiore o minore, a seconda del genere e dei tempi) il testo finisce per così dire con il preesistere all’autore, che ereditava dalla tradizione contenuti e moduli espressivi; per l’altro, nella pubblicazione, per lo più aurale, in esecuzioni non necessariamente identiche l’una all’altra, l’autore appare raramente interessato a mettere in atto misure di tutela e conservazione del proprio testo in una forma definita e conclusiva. La situazione sembra a prima vista assai diversa per quanto riguarda le opere teatrali. Gli autori di cui oggi possediamo drammi interi, Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane, dovevano, loro sì, misurarsi con l’allestimento di un testo definitivo, quello da produrre in pubblico nella circostanza del festival e dell’agone teatrale26. Ma quelle che possediasia e simposio, «RFIC», CIX, 1981, lega strettamente le parole di Teognide a modalità scritte di trasmissione del testo G. Cerri, Il significato di sphreghìs in Teognide e la salvaguardia dell’autenticità testuale, «AION», XII, 1990, pp. 25-43. L’argomento è stato ripreso di recente ancora da W. Rösler, La raccolta di Teognide: «il più antico libro dimostrabilmente edito dall’autore stesso». Considerazioni su una tesi di Richard Reitzenstein, in F. Roscalla (a cura di), L’autore e l’opera. Attribuzioni, appropriazioni, apocrifi nella Grecia antica, Atti del Convegno internazionale (Pavia, 27-28 maggio 2005), Pavia, Edizioni ETS, 2006, pp. 55-67. 25 Un’esaustiva discussione del problema in M. Vetta, Theognis. Elegiarum liber secundus, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1980, pp. XI-LVII. La specifica qualità della silloge teognidea impone tuttavia un nuovo approccio critico-testuale, che tenga conto anche di possibili “autocorrezioni” d’autore o di “duetti”: cfr. ad esempio F. Condello, Sisifo, la ricchezza, la morte. Osservazioni e ipotesi sui vv. 499-730 dei Teognidea, «Lexis», XXI, 2003, pp. 117-128; Id., Teogn. 1123-1128, «Eikasmòs», XVII, 2006, pp. 49-68. 26 Chi fosse interessato ad approfondire i meccanismi della selezione dei drammi e della loro rappresentazione agonale troverà ancora molto utile il celebre saggio di A. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford University Press, 1968, soprattutto nella traduzione italiana: A. Pickard-Cambridge, Le feste drammatiche di Atene, Firenze, La Nuova Italia, 1996, con introduzione, appendici ai singoli capitoli ed un ampio aggiornamento bibliografico (pp. 459-528) a cura di A. Blasina e N. Narsi.

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mo sono davvero copie fedeli delle stesure originali? Le cose non sono affatto così semplici. Com’è noto, il drammaturgo ateniese era nello stesso tempo estensore del testo, compositore delle musiche, coreografo, regista, maestro dei cori e, almeno fino ad Eschilo, attore. Questo stato di cose poteva rendere superfluo l’approntamento di un “copione” o di una “sceneggiatura” da distribuire agli interpreti: dopo il cosiddetto «proagone» e l’ammissione al concorso, l’autore era sempre in condizione di introdurre modifiche anche sensibili nell’impostazione del dramma, fino al momento della rappresentazione27. Non solo: gli era consentito di predisporre nuove versioni di una stessa opera, successive alla prima pubblicazione ufficiale. L’Ippolito di Euripide, per citare soltanto un caso, ci è pervenuto nella seconda edizione28, che, nel “canone” stilato dai filologi alessandrini (e che ha determinato in modo consistente la storia della tradizione), dovette soppiantare la precedente, ritenuta inferiore. Ma esistono situazioni ancora più complesse: difficile è per noi comprendere, ad esempio, per quale strano accidente ci sia giunta una versione delle Nuvole (bocciate dal pubblico nel 423 a.C.) successiva di forse cinque anni alla prima messa in scena, parzialmente riveduta dallo stesso Aristofane29 e, a quanto dimostrerebbe la documentazione epigrafica e scoliastica in nostro possesso, mai rappresentata30. 27 Nella chiusa delle Ecclesiazuse, riferendosi al sorteggio che aveva determinato l’ordine di rappresentazione (e che doveva avere avuto luogo non molte ore prima), Aristofane si rivolge, per bocca del Coro, alla giuria (vv. 1157-1158): «Chiedo a tutti voi di votare per me, e se la sorte mi ha sfavorito, e mi tocca presentarmi per primo, ricordatevi che siete sotto giuramento. Non fate come quelle cattive etère, che si ricordano soltanto degli ultimi clienti!». Aggiustamenti dell’ultimo minuto dovevano essere abbastanza frequenti: molto si è scritto, ad esempio, sulla probabilità che Aristofane abbia dovuto riprendere in mano le Rane (di cui è parte preponderante l’agone nell’Ade tra Eschilo ed Euripide) a pochi giorni dalla loro messa in scena, per introdurvi qualche riferimento alla recentissima morte di Sofocle. 28 Il primo, noto come l’Ippolito velato, avrebbe suscitato le reazioni scandalizzate dei benpensanti, colpiti dalla scena in cui Fedra dichiarava personalmente il proprio amore al figliastro. Per una messa a punto della questione, cfr. G. Avezzù, Annali della tragedia antica, in I. Lana, E.V. Maltese, Storia della civiltà letteraria greca e latina, I, Torino, UTET, 1998, pp. 365-368 (Cap. 17: «432 (?)-428. Euripide: dall’Ippolito velato all’Ippolito coronato»). 29 Nell’evidentemente nuova parabasi, ai vv. 518-527, Aristofane si lamenta della precedente sconfitta: «Possa io vincere ed avere fama, com’è vero che, ritenendovi persone ammodo, ho deciso di farvi riassaggiare questa commedia, la più sapiente di tutte le mie, e che mi ha dato tanto da fare. Eppure, l’altra volta ho dovuto cedere il passo a persone volgari, e non lo meritavo…». 30 Cfr. ad esempio K.J. Dover, Aristophanes. Clouds, Oxford, Clarendon Press, 1968, pp. LXXX-XCVIII; Th.K. Hubbard, Parabatic Self-criticism and the two Versions of Aristophanes’ Clouds, «CA», V, 1986, pp. 182-197.

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Ma l’effimera occasione degli agoni dionisiaci non restò a lungo l’unica via per la pubblicazione e la diffusione delle pièces teatrali: l’attenzione che il dramma attico riuscì ad attirare su di sé fin dall’inizio provocò ben presto un’ampia circolazione di testi tragici e comici che, ormai emancipati e fuori dalla portata dell’autore-regista, andarono in giro per i demi in varie occasioni festive31, furono oggetto di riprese ufficiali nella stessa Atene32, vennero trascritti per uso individuale33, furono destinati a letture pubbliche o simposiali34: vicende, come può vedersi, della più varia natura, che ebbero come ovvia conseguenza corruttele e mutilazioni, ma che portarono in qualche circostanza anche ad interpolazioni da parte di attori o registi, desiderosi di “impreziosire” il dramma 31 Su probabili rappresentazioni “fuori città” di testi tragici o comici ha posto recentemente l’accento G. Mastromarco, La paratragodia, il libro, la memoria, in E. Medda, M.S. Mirto, M.P. Pattoni (a cura di), Komodotragodia. Intersezioni del tragico e del comico nel teatro del V sec. a.C., Pisa, Edizioni della Normale, 2006, pp. 137192. 32 Fin dalla metà del V secolo, poco dopo la morte dell’autore, venne accordato alle tragedie di Eschilo l’onore di concorrere in gara con quelle di poeti viventi. Successivamente, l’uso delle riprese di opere dei grandi tragici all’interno degli agoni dionisiaci fu esteso anche a Sofocle ed Euripide e probabilmente ad altri autori di V secolo. Cfr. A. Pickard-Cambridge, Le feste…, cit., pp. 101-103 (e le pp. 147, 174 della relativa «Appendice»). 33 Nella sua commedia Le Rane, rappresentata nell’ultimo scorcio del V secolo, Aristofane allude in più occasioni alla circolazione di copie di testi teatrali: ai vv. 52-54 Dioniso dichiara di essere stato colto da un desiderio improvviso per l’appena scomparso Euripide mentre «leggeva per conto suo l’Andromeda»; al v. 151, tra i condannati a stare immersi nel fango eterno dell’Ade è annoverato anche «chi si è fatto una copia di una rhesis di Morsimo» (poeta tragico su cui Aristofane non manca anche in altre occasioni di dirigere i suoi strali); ed infine, prima dell’agone negli Inferi tra i due grandi tragici, Aristofane solletica abilmente l’amor proprio del suo pubblico, affermando di non aver dubbi sul livello culturale dei cittadini ateniesi (v. 1113 ss.): «Se poi temete che tra gli spettatori regni l’ignoranza, e che non capiscano le vostre sottigliezze, nessuna paura, le cose non stanno più così. Sono ormai scafati: ciascuno, con in mano il suo libro, saprà ben cogliere il senso di ogni trovata». A che tipo di libro fa riferimento qui Aristofane? Impossibile dare conto di tutte le possibili risposte. C’è chi ne ha dedotto l’esistenza di un vero e proprio libretto, come quello che viene oggi messo a disposizione degli spettatori dell’opera lirica, e chi al contrario ha creduto di ravvisare in questi versi nulla più che un infastidito riferimento al recente imporsi di una “cultura libresca”. Per una sintetica disamina delle possibili interpretazioni cfr. D. Del Corno, Aristofane. Le Rane, Milano, Mondadori (Valla), 1985, p. 224; K. Dover, Aristophanes. Frogs, Oxford, Clarendon Press, 1993, p. 34 ss. 34 Sezioni liriche ed intere rhesis entrarono presto a far parte, come testimoniano fonti contemporanee, del riuso simposiale, affidate alla recitazione di semplici convitati o di attori professionisti: cfr. G. Mastromarco, La paratragodia, il libro, la memoria, cit., p. 152 ss.; M. Vetta, Il simposio, la monodia, il giambo, cit., p. 216 ss.

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introducendovi spunti più marcatamente patetici, o sentenze improntate a spicciola filosofia popolare35. Non sappiamo fino a che punto questi passaggi giunsero a snaturare la fisionomia del testo originale36: è comunque un fatto che, tutte le volte che abbiamo la ventura di imbatterci in citazioni da parte di contemporanei (e questo vale soprattutto per le parodie e gli spunti critici che costellano la commedia aristofanea), ci troviamo nelle condizioni di procedere all’integrazione o all’espunzione di singoli versi o di brevi sezioni. Si tratta per noi, nella maggior parte dei casi, di veri e propri colpi di fortuna, che ci permettono di ricuperare il testo teatrale in una forma assai prossima all’originale, scavalcando oltre due millenni di tradizione manoscritta. Ma siamo a volte costretti a subire sconcertanti spiazzamenti, di cui è più difficile farci una ragione. Voglio citare, solo perché lo conosco meglio di altri, un caso dalle Rane, là dove il Coro, manifestando il proprio apprezzamento per i Persiani di Eschilo dichiara (v. 1028): «Come mi è piaciuta la scena in cui, per la morte di Dario, il coro pianse e gridò iauoi!». Non siamo oggi in grado di ritrovare con certezza il passo a cui si fa qui riferimento37. La situazione degenerò probabilmente al punto che nel 330 a.C. per rimettere (almeno in parte) le cose a posto fu necessario un apposito decreto. L’oratore Licurgo diede disposizioni perché una copia canonica della produzione drammatica dei tre tragici maggiori venisse depositata negli archivi ufficiali della polis, e che ad essa dovessero attenersi gli 35 Dopo il notissimo libro di D.L. Page, Actors’ Interpolations in Greek Tragedy, Oxford, 1934, si possono richiamare sull’argomento R. Hamilton, Objective Evidence for Actors’ Interpolation in Greek Tragedy, «GRBS», XV, 1974, pp. 387-402; K.J. Dover, Ancient Interpolations in Aristophanes, «Ill. Class.Studies», II, 1977, pp. 136-162; G. Basta Donzelli, Sulle interpolazioni nell’Elettra di Euripide, «Eikasmòs», 1991, pp. 107-122. 36 Un dubbio programmatico è ad esempio quello che si pone C. Miralles, Il testo di Eschilo?, in V. Citti (a cura di), Il testo di Eschilo e le sue interpretazioni, Atti del seminario di studi, Cagliari 21-23 maggio 1998, «Lexis», XVII, 1999, pp. 5-16. Più positivo M. Fassino, Avventure del testo di Euripide nei papiri tolemaici, in L. Battezzato (a cura di), Tradizione testuale e ricezione letteraria antica della tragedia greca, Atti del convegno. Scuola Normale Superiore, Pisa 14-15 giugno 2002, Amsterdam, Hakkert, 2003, pp. 33-56. Ma per Euripide le cose dovevano già essere diverse: possiamo ben credere che nella sua “biblioteca”, sbeffeggiata dai concittadini per l’inopinata ampiezza (cfr. ad es. Aristoph. Ran. v. 1409), l’autore non abbia mancato di conservare qualche copia delle proprie tragedie. 37 Il passo, che si è tentato variamente di correggere, ha dato motivo di pensare che Eschilo potesse avere prodotto due edizioni della stessa tragedia. Diverse proposte di emendamento ed esegesi più o meno convincenti sono raccolte da K. Dover, Aristophanes. Frogs, cit., p. 320 ss.

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attori nella recitazione38. Quella stessa copia, a quanto sappiamo, fu poi requisita da Tolomeo Filadelfo per la biblioteca di Alessandria; e dobbiamo presumere che da essa dipenda tutta la nostra tradizione39. Qualche residua traccia di quella mentalità orale/aurale che aveva così fortemente segnato i secoli precedenti può ancora scorgersi nella produzione drammatica di pieno V secolo: in primo luogo, com’era da attendersi, in Eschilo, dove è ancora notevole il ricorso alla ripetizione, sia nella ripresa di formulazioni epico-omeriche, sia nella creazione di nuovi sintagmi, adattati alla versificazione giambica40; ma, in modo abbastanza sorprendente, anche in Euripide: il più giovane ed il più innovativo dei tre grandi tragici, che prende spesso, anche polemicamente, le distanze dal suo grande predecessore41, non si perita di attingere alle sue tragedie ardite neoformazioni42 e nessi espressivi, se non addirittura versi interi43. Lungo tutto l’arco dell’età arcaica e classica non sembra infatti sia esistito qualcosa di paragonabile al nostro “reato di plagio”: il primo indizio di una mutata attenzione al problema può forse riconoscersi, nell’ultimo ventennio del V secolo, in una polemica tra Aristofane ed 38 [Plut.] Vitae dec. orat. 841f-842a. Un ampio riesame della documentazione e delle testimonianze in L. Battezzato, I viaggi dei testi, in Id. (a cura di), Tradizione testuale e ricezione letteraria…, cit., pp. 7-25. 39 Cfr. da ultimo D. Kovacs, Text and Trasmission, in J. Gregory (a cura di), A Companion to Greek Tragedy, Malden & Oxford, Blackwell, 2005, pp. 379-393. Più in generale, sulla storia dei testi poetici tra VII e IV secolo a.C., L. Lomiento, Da Sparta ad Alessandria. La trasmissione dei testi nella Grecia antica, in M. Vetta (a cura di), La civiltà dei Greci, Roma, Carocci, 2001, pp. 297-355. 40 Un’indagine puntuale dei fenomeni in C. Bordigoni, Per un’analisi della versificazione eschilea. Automatismi compositivi e rielaborazione formale, Tesi dottorale in “Filologia e storia dei testi”, Trento, 2006. Una parte dei risultati è stata pubblicata in C. Bordigoni, Localizzazione in ‘explicit’, paradigmi morfologici e ‘patterns’ strutturali nel trimetro eschileo, «Lexis», XXIII, 2005, pp. 31-62. 41 Una polemica che percorre, in una dimensione palesemente metaletteraria, il testo delle sue tragedie: gli spunti più eclatanti sono nei versi 523-546 dell’Elettra (dove l’eroina sottopone a severa e puntigliosa critica i “segni di riconoscimento” che consentivano al suo alter ego delle Coefore di divinare il ritorno del fratello), e le assai poco velate allusioni alla celebre rassegna degli eroi dei Sette contro Tebe (Cfr. Phoen. 751 s.: «Sarebbe un’enorme perdita di tempo, mentre i nemici sono ormai sotto le porte, elencare il nome di ciascuno!» e Suppl. 846-856). 42 Cfr. V. Citti, La reincarnazione dei mostri, in E. Corsini (a cura di), La polis e il suo teatro/2, Padova, Editoriale Programma, 1988, pp. 49-109, rielaborato ed aggiornato in V. Citti, Eschilo e la lexis tragica, Amsterdam, Hakkert, 1994, pp. 197-158 (Cap. V: “Le neoformazioni eschilee in Euripide”). 43 Tra i lavori più recenti, cfr. R. Aèlion, Euripide héritier d’Eschyle, Paris, Les Belles Lettres, 1983.

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il collega Eupoli. L’autore delle Nuvole afferma, nella parabasi, che il rivale gli avrebbe scopiazzato malamente i Cavalieri; e nel contempo si rammarica del fatto che la sua «similitudine delle anguille» sia diventata ormai cosa di tutti44. Aristofane si riferisce sicuramente all’immagine con cui, nella stessa commedia, descriveva la tendenza del demagogo Cleone a “pescare nel torbido”45; in tempi in cui (come vedremo anche più avanti) i contorni di quella che siamo oggi soliti indicare come proprietà intellettuale appaiono straordinariamente sfumati, una simile rivendicazione di paternità – nei confronti di una metafora destinata a diventare ben presto uno dei più triti luoghi comuni – acquista un singolare risalto.

La pubblicazione del testo in prosa Diversamente da quanto avviene per le opere in versi, la produzione in prosa (a partire da quella scientifico-filosofica) appare fin dall’inizio indissolubilmente legata alla scrittura: e questo non soltanto perché l’assenza di un sostegno musicale o ritmico ne rende poco plausibile una trasmissione per via esclusivamente mnemonica, ma soprattutto perché il libro diverrà presto esso stesso uno strumento insostituibile nel processo di accumulazione e trasmissione del sapere. Anche se in modo molto sintetico, mi sembra utile ripercorrere alcuni passaggi cruciali della storia del testo scientifico, quale può ricostruirsi attraverso frammentarie ma coerenti testimonianze antiche. Un’importante conquista degli ultimi decenni è infatti la constatazione che anche le prime opere in prosa dovettero configurarsi come la trascrizione di performances orali, intese in questo caso come “lezioni” o “conferenze”. Furono dapprincipio probabilmente gli allievi a mettere per iscritto gli insegnamenti del maestro; ma ben presto, già nella seconda metà del VI secolo, possiamo fare risalire allo stesso autore 44 Vv. 553-558: «Per primo Eupoli, tirando in scena il Maricante, ha rivoltato alla bell’e meglio i miei Cavalieri, dopo averci ficcato dentro una vecchia ubriaca, solo per farle ballare il cordace (…). Poi Ermippo fa un’altra commedia su Iperbolo, ed ecco tutti a dare addosso ad Iperbolo, copiando la mia immagine delle anguille». A questa accusa Eupoli ribatté (fr. 89 K.-A.) rivendicando una sua precedente collaborazione con il rivale (proverbialmente noto per la precoce calvizie): «Assieme a lui, assieme al Calvo, avevo composto i Cavalieri, e gliene ho fatto omaggio!». 45 «Ti capita come a chi va a caccia di anguille. Quando la laguna è ferma, non si prende nulla; ma se si rimescola il fango, subito si pesca. Così, per guadagnarci qualcosa, tu metti sottosopra la città» (Eq. 864-67).

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la preoccupazione di dare la forma concreta di un biblion alle proprie teorie ed alle proprie ricerche, dopo una prima diffusione mediante comunicazioni orali46. D’altra parte, solo la piena rivalutazione delle fonti antiche, che evocano la figura di un Erodoto in giro per la Grecia nelle vesti di acclamato affabulatore47, può fornire una soluzione plausibile a quella che, agli inizi del secolo scorso, era annoverata tra le più spinose «questioni» della letteratura greca: la complessità e la ricchezza di excursus, miti, narrazioni, descrizioni di terre e popoli, che sembrano sviare costantemente il lettore dall’argomento principale dell’opera – ma fanno ancor oggi delle Storie una lettura appassionante – si comprendono perfettamente se si pensa che le esperienze di viaggiatore e ricercatore di Erodoto dovettero essere state oggetto di diverse “conferenze”, prima di venire raccolte e rielaborate in una stesura complessiva, interrotta (come può intuirsi dalla 46

Di molti scritti scientifici o filosofici sono sopravvissute le prime righe che, per la conformazione dell’antico rotolo di papiro, fungevano in certo modo da titolo. Il solo scorrere di seguito alcuni di questi incipit può dare l’idea di come via via lo scritto sia andato assumendo un ruolo sempre più marcato di intermediazione tra autore e pubblico. Se il medico Alcmeone si raffigura nell’atto di parlare ai propri discepoli (fr. 24 B1 D.-K.: «Tali cose disse Alcmeone di Crotone, il figlio di Peirito, a Brontino, Leonte e Batillo»), ed Ecateo di Mileto presenta, quasi sovrapponendoli, i due momenti della performance e della scrittura (FGrHist 1 F1: «Così parla Ecateo di Mileto: “queste cose io scrivo…”»), il testo, inteso come oggetto concreto che si trova ora sotto gli occhi dell’autore e si troverà poi nelle mani del lettore, è evocato da Diogene di Apollonia (fr. 64 B4 D.-K.: «Come si dimostrerà chiaramente in questo scritto…»), e in misura più sfumata da Erodoto (I 1,1: «Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perché le vicende umane non svaniscano nel tempo…». Il processo si completa con Tucidide, che, nell’affidare alla scrittura il compito di tramandare ai posteri la metodologia storica da lui messa a punto (un «risorsa perenne» per gli uomini che verranno) adotta la prospettiva del suo futuro lettore (I 1, 1: «Tucidide Ateniese scrisse sulla guerra tra Ateniesi e Peloponnesiaci…»). Cfr. L. Edmunds, Thucydides in the Act of Writing, in R. Pretagostini (a cura di), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di B. Gentili, Roma, GEI, 1993, pp. 831-852 e, più in generale, L. Porciani, La forma proemiale. Storiografia e pubblico nel mondo antico, Pisa, Edizioni della Normale, 1997; A. Lacks, Ecriture, prose et les debuts de la philosophie grecque, «Methodos», I, 2001, pp. 135-151. 47 Cfr. ad es. Lucian. Herod. 1. Anche l’orgogliosa affermazione programmatica di Tucidide di non avere avuto in mente – nell’accingersi a comporre le sue Storie – «l’uditorio del momento» (I 22, 4) viene generalmente letta come una presa di distanza dal predecessore. I riflessi di un’abitudine all’esposizione orale sulla conformazione del testo erodoteo sono stati messi in evidenza ad esempio da R. Thomas, Performance and Written Pubblication in Herodotus, in W. Kullmann, J. Althoff (a cura di), Vermittlung und Tradierung von Wissen in der griechischen Kultur, Tübingen, Günter Narr Verlag, 1993, pp. 225-244.

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presenza di un certo numero di probabili aggiunte o integrazioni di data più tarda)48 solo dalla morte. Il grande impegno profuso dallo storico di Alicarnasso nella costruzione della sua opera monumentale49 tradisce comunque l’importanza che la stesura di un testo e la sua conservazione andavano progressivamente assumendo nella seconda metà del V secolo50. Se ne ha la migliore riprova nella letteratura medica, che, a partire dal celebre enunciato ippocratico «breve è la vita – lunga la scienza», testimonia la volontà del ricercatore di travalicare i limiti dell’esistenza di un solo medico, o di un’intera generazione di medici, per conseguire risultati validi e durevoli: i libri, su cui vengono depositate esperienze, teorie, polemiche, e che saranno consultati e citati, diventano allora un sussidio irrinunciabile per l’evoluzione del sapere. La grande raccolta di testi di medicina greca giunta ai nostri giorni sotto il nome di Ippocrate, comunque, è improntata ad un sostanziale anonimato: la presenza frequente dei pronomi di prima persona, la costante rivendicazione della preminenza scientifica di chi scrive, la polemica tra scuole, non ne inficiano la qualità di prodotto collettivo, frutto di esperienze fatte in momenti e luoghi diversi. Ma studi recenti51 ne hanno messo in luce una duplice destinazione: alcune opere del Corpus, indirizzate da medici a medici, si segnalano per una prosa ruvida, incurante di ripetizioni, a tratti pedante e involuta, tutta tesa all’unico obiettivo di fornire informazioni e prescrizioni; altre, dall’elocuzione più agile, impostata retoricamente, rivelano un intento divulgativo. Esse, progettate per una circolazione più ampia, rivolta alla promozione di una scuola di pensiero – e in qualche caso di un singolo medico – dovettero trovare ancora una volta in primo luogo la strada della performance orale. Per un lungo periodo – fino alla metà del IV secolo – resterà infatti 48 Le Storie contengono infatti sporadici riferimenti ad episodi della guerra del Peloponneso, successivi alla partenza di Erodoto da Atene per la fondazione di Turi. 49 Alla ricostruzione delle varie fasi del progetto delle Storie, e della strategia seguita nell’organizzazione del materiale, era stato dedicato da W. Rösler nel 1993 a Cagliari un indimenticabile “corso integrativo”, i cui risultati sono stati pubblicati solo in parte: cfr. W. Rösler, The Histories and Writing, in E.J. Bakker, I.J.F. de Jong, H. van Wees, Brill’s Companion to Herodotus, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2002, pp. 79-94. 50 Un sintetico quadro dello status quaestionis in G. Cambiano, La nascita dei trattati e dei manuali, in G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza (a cura di), Lo spazio letterario della Grecia antica I/1, cit., pp. 525-554. 51 Rinvio agli importanti contributi di J. Jouanna sull’argomento: cfr. soprattutto J.J., Rhétorique et médecine dans la Collection hippocratique. Contribution à l’histoire de la rhétorique au Ve siècle, «REG», XCVII, 1984, pp. 26-44; Id., Hippocrate, Paris, Librairie Artème Fayard, 1992, trad. it., Ippocrate, Torino, SEI, 1994.

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complesso e sfuggente il concetto di pubblicazione di un’opera; e questo stato di cose potrà influenzarne addirittura la precisa attribuzione di paternità, come può desumersi dal caso, a suo modo emblematico, dell’edizione degli scritti di Tucidide. Lo storico ateniese, a quanto dichiara nel proemio, comprese subito la «esemplare» portata della guerra del Peloponneso, e si dedicò immediatamente a registrarne gli eventi, secondo modalità che non dovettero essere molto dissimili da quelle di un attuale “corrispondente di guerra” – facilitato in questo anche dai suoi incarichi militari. La stipula, nel 421, della «cinquantennale» Pace di Nicia, segnando un momentaneo arresto delle ostilità, gli offrì probabilmente il tempo per una prima elaborazione dei materiali; ma dopo la rottura della tregua Tucidide poté subito rendersi conto che il conflitto si sarebbe concluso soltanto con l’annientamento di una delle due potenze, e riprese a seguirne gli sviluppi, prendendo nota di dati ed eventi man mano che si presentavano alla sua attenzione. Nel frattempo, dovette dare l’avvio ad una completa revisione dell’opera, impostando ex novo la narrazione secondo una scansione rigidamente annalistica, e mettendo in bocca ai protagonisti i celebri discorsi, veri e propri cammei, con cui vengono vividamente tratteggiate le situazioni e le personalità che avrebbero determinato l’esito della guerra. La sua morte improvvisa – conseguenza forse delle violente lotte tra fazioni che insanguinarono Atene nell’ultimo decennio del V secolo – interruppe questa complessa attività, determinando un sensibile dislivello di impostazione tra i primi quattro libri ed i successivi. Ma non è tutto. Un biografo di età imperiale, Diogene Laerzio, annotava, in margine all’elenco delle opere di Senofonte (Vite dei filosofi II 57): «Tra l’altro, a quanto dicono, Senofonte avrebbe avuto la possibilità di appropriarsi dei libri di Tucidide, senza che nessuno se ne accorgesse. Ma fu proprio lui, invece, a portarli alla fama (es doxan)». Nell’ultimo quarto del secolo scorso questa informazione è stata attentamente ripresa in considerazione52 e messa in relazione con una serie di indizi che, notati da diversi studiosi, concorrevano fin dai primi del Novecento a dare consistenza alla «questione tucididea» (ancora una questione!): il problema del cosiddetto «secondo proemio», che apre il quinto libro delle Storie, e contiene riferimenti autobiografici apparentemente in contrasto 52

Nel formarsi e nell’imporsi di quella che è attualmente l’opinione prevalente tra gli studiosi, è stato determinante il contributo di L. Canfora, Tucidide continuato, Padova, Antenore, 1970; cfr. anche: Id., Storia della letteratura greca, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 260-267; Id., Tucidide. La guerra del Peloponneso Libri I-III, Bari, Laterza, 1986, pp. VII-XVIII («Introduzione»).

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con la storia personale di Tucidide; l’assenza, sempre a partire dal quinto libro, della “firma” con cui lo storico concludeva ritualmente la trattazione di ogni anno di guerra; alcune osservazioni di Dionigi di Alicarnasso, che inducono ad immaginare che, almeno nella sezione finale, alla morte dell’autore l’opera non avesse ancora raggiunto una forma definitiva53; il sapore marcatamente tucidideo dei primi libri delle Elleniche di Senofonte. La conclusione oggi più accreditata è che quest’ultimo dovette assumere un ruolo attivo nel determinare la fisionomia degli ultimi quattro libri delle Storie; ma appare altrettanto verosimile che gli appunti, più o meno elaborati, che non vennero da lui utilizzati nell’edizione dell’opera del più illustre predecessore, siano stati incorporati nella parte iniziale delle sue Elleniche, che di quell’opera avevano l’ambizione di presentarsi come naturale continuazione.

Conclusioni Dalla situazione appena delineata risulta evidente come, in assenza di una figura tecnicamente assimilabile a quella di un moderno editore, nella Grecia di V e IV secolo il processo di composizione di un’opera – il legame che vincolava l’autore al proprio prodotto artistico o culturale – tendesse a non interrompersi durante tutto l’arco della vita. Ma nelle vicende editoriali degli scritti di Tucidide possiamo riconoscere qualche elemento a noi familiare: alla morte di un autore, le sue “carte”, in parte inedite, vengono scoperte, raccolte, riviste da amici o familiari; gli appunti diventano un testo, che verrà pubblicato a nome dell’autore o, come può capitare ancor oggi, potrà essere più o meno lecitamente acquisito da chi ha avuto l’occasione di metterci sopra le mani. Ci troviamo insomma, si potrebbe pensare, di fronte alla compiuta affermazione del libro, con tutte le conseguenze che essa comporterà nella produzione di un testo o nella rivendicazione della sua paternità. Per strano che possa sembrare, ancora per buona parte del quarto secolo deve registrarsi una fiera opposizione a questa eventualità. Platone, è cosa nota, guardava con preoccupazione all’imporsi del nuovo medium culturale54: a suo parere, lo scritto costituiva uno strumento inadeguato 53 Dion. Halic. Thuc. VII 16, 2: «Probabilmente per questo motivo egli non portò a compimento la sua storia, come dice Cratippo, suo contemporaneo, che raccolse e mise per iscritto tutti i passi da lui lasciati da parte». 54 Una delle analisi più compiute del rapporto di Platone con la scrittura è contenuta

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per la trasmissione del sapere, fissando su un supporto materiale, come in un’immagine muta ed immobile, una ed una sola delle tante sfaccettature dell’espressione verbale: C’è qualcosa di sinistro, o Fedro, nella scrittura, esattamente come nella pittura. I suoi prodotti, quella, li presenta come esseri viventi; ma se li si interroga, tacciono solennemente. Così anche i discorsi: ti aspetteresti che ti parlassero, come dotati di ragione: ma se gli farai qualche domanda, per comprendere ciò che dicono, ripeteranno sempre una ed una sola cosa. Una volta scritto, il testo va in giro dappertutto, nelle mani di chi è in grado di comprenderlo come di chi non ci ha niente a che fare: non può scegliere a chi parlare e a chi no. Se viene attaccato o insultato senza ragione, ha sempre bisogno che il padre lo soccorra – perché non sa soccorrersi o difendersi da solo55.

Soltanto in un diuturno rapporto tra maestro e allievo, nel flusso ininterrotto e cangiante delle parole, dei gesti, dei fatti, egli afferma, potrà avere luogo il fenomeno ineffabile e magico del trasferimento della vera conoscenza da un’anima ad un’altra: Costoro non riusciranno in questo modo a conoscere la verità di concetti come la perfezione o il difetto morale. Per apprendere questi concetti, e per apprendere insieme ad essi il vero ed il falso dell’intera esistenza, infatti, ci vuole molta esperienza, e molto tempo. A fatica, nel continuo logorarsi di tutte queste cose – parole, discorsi, immagini, sensazioni – affrontando discussioni franche, sottoponendoli uno per uno senza malanimo a domande ed a risposte, ecco che d’un tratto per ciascuno di essi si accende comprensione ed intelligenza, in una tensione verso il limite delle possibilità umane. Perciò, qualunque persona seria deve guardarsi bene dallo scrivere su argomenti seri, se non vuole gettarli in pasto all’invidia ed all’incomprensione degli uomini. Bisogna capire che le cose che uno ha messo per iscritto – siano esse leggi, se si tratta di un legislatore, o siano qualunque altra cosa – chi le ha scritte, se è una persona seria, non le nel giustamente celebre volumetto di G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, ripubblicato recentemente con il titolo La poetica di Platone. Una teoria della comunicazione, Lecce, Argo, 2007, a cui rinvio anche per l’ampia ed aggiornata bibliografia. Cfr. anche F. Trabattoni, La verità nascosta. Oralità e scrittura in Platone e nella Grecia classica, Roma, Carocci, 2005; F.M. Giuliano, Platone e la poesia. Teoria della composizione e prassi della ricezione, Sankt Augustin, Accademia Verlag, 2005. 55 Plat. Phaedr. 275d.

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considera certo le più importanti, perchè quelle le ha riposte nella parte migliore di sé56.

Eppure Platone scrisse, e scrisse senza risparmio di tempo e di energie, e con un’innegabile attenzione ai più minuti aspetti formali. Dionigi di Alicarnasso (Comp. verb. 25, 32-33), commentandone la philoponia, cita a riprova «quella tavoletta che dicono sia stata rinvenuta alla sua morte, che riportava in varie forme, con una diversa disposizione delle parole, l’inizio della Repubblica: “Scendevo ieri al Pireo con Glaucone, il figlio di Aristone…”». Egli si trovò insomma ad impersonare nei fatti proprio quel genere di scrittore che nel Fedro (278d-e) ridicolizza, prendendone le distanze: «Ma colui che non ha prodotto cose più valide di ciò che ha messo per iscritto, rigirandole in su e in giù, e incollando e cancellando, non potrai certo chiamarlo filosofo, ma poeta, o scribacchino…». Come risolvere questa contraddizione? Anche su tale «questione» si è dibattuto lungamente. Si tende oggi a ritenere che Platone intendesse occupare, con i suoi Dialoghi, «il posto che i poeti tragici sono invitati a lasciare libero»57, offrendo al vasto pubblico un nuovo modello di composizione letteraria, una sorta di teatro filosofico, in cui la forza seduttiva della mimesi viene usata per diffondere e favorire l’interesse per la filosofia58 – mentre il vero e proprio insegnamento aveva luogo in presenza di pochi e selezionati discepoli, all’interno dell’Accademia59. La storia dei testi, spesso capricciosa, ha rispettato i suoi intendimenti, ed i Dialoghi hanno svolto per molti secoli il ruolo che l’autore aveva 56

Epist. VII, 344a-c. Cfr. P. Friedländer, Platon I, Berlin, 19572, trad. it., Platone. Eidos – Paideia – Dialogos, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 160-165. 58 Osserva G. Cambiano, La letteratura filosofica e scientifica, in F. Montanari (a cura di), Da Omero agli Alessandrini. Problemi e figure della letteratura greca, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1988, p. 267: «È chiaro che il modello è qui dato dalla comunità filosofica, capace di perpetuare se stessa attraverso questo uso interpersonale della parola. Ma all’interno di una città ingiusta, che trova la sua espressione culturale nei poeti, nei sofisti e nei discorsi lunghi dei tribunali e dell’assemblea, lo scritto filosofico può assumere una funzione antagonista e critica, ed essere un veicolo di esortazione alla filosofia». Cfr. anche M. Vegetti, La letteratura socratica e la competizione fra generi letterari, in F. Roscalla (a cura di), L’autore e l’opera, cit., pp. 119-131: «La posta in palio consiste nello sforzo, non dichiarato ma rappresentato in atto con la forza della mimesis, di aprire e garantire uno spazio, una legittimità, un’autorevolezza pubblica per una nuova forma di sapere e di pratica culturale…» (p. 127). 59 Non intendo certo affrontare qui lo spinoso problema delle cosiddette “dottrine non scritte” di Platone. Le testimonianze antiche, e la vastissima letteratura sull’argomento, sono state raccolte da M.D. Richard, L’enseignement oral de Platon, Paris, Editions du Cerf, 1986. 57

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voluto loro assegnare. Anche Aristotele aveva destinato al pubblico soltanto una parte della propria produzione, impostata per lo più in forma dialogica; ma un più positivo rapporto con la scrittura lo indusse a conservare per memoria personale, e per i suoi scolari, copia delle trattazioni oggetto dei vari e più impegnativi “corsi d’insegnamento”. Forse anche a causa delle disavventure politiche che caratterizzarono gli ultimi anni della sua vita, gran parte delle opere divulgative andarono progressivamente perdute; ma, quasi tre secoli dopo la sua morte, il casuale ritrovamento della biblioteca, e l’acquisto dell’intero “patrimonio librario” da parte di un bibliofilo romano dell’età di Silla (tale Apelliconte) portarono alla provvidenziale pubblicazione di tutti gli scritti in essa conservati60. È per questa via, appunto, che si è salvata la Poetica, nella forma in fieri (si direbbe oggi di “work in progress”) in cui l’autore l’aveva prodotta: con le oscure frasi ellittiche, le oscillazioni terminologiche, i ripensamenti, le aggiunte, le sconcertanti contraddizioni, che hanno costituito fino ad oggi il costante rovello dei suoi interpreti. Con tutto ciò, senza la fortunata serie di circostanze che – al di là delle intenzioni dell’autore – ci hanno consegnato questo prezioso biblion, le nostre «idee di letteratura» (e persino molte delle nostre letterature) avrebbero probabilmente preso una diversa strada61.

Nota bibliografica Poesia epica orale Mureddu, P., Formula e tradizione nella poesia di Esiodo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1983; Mureddu, P., Radiografia di un poema arcaico. La struttura della Teogonia, «SemRom», VII, 2004, pp. 7-21; Mureddu, P., Epiteti femminili nel Catalogo, in Bastianini, G., Casanova, A. (a cura di), Esiodo. Cent’anni di papiri, Atti del convegno internazionale di studi, Firenze, 7-8 giugno 2007, Firenze, Istituto Papirologico «G. Vitelli», 2008, pp. 97-112.

60 La fortunosa vicenda degli scritti aristotelici può essere ricostruita in modo affidabile attraverso le testimonianze di Strabone (XIII 68-69) e di Plutarco (Silla, 26). Un’efficace sintesi dell’intera questione può leggersi in L. Canfora, Storia della letteratura greca, cit., pp. 446-451; cfr. anche Id., La biblioteca scomparsa, Palermo, Sellerio, 1986, pp. 34-66, 181-190. 61 Alla “fortuna” dell’operetta aristotelica è dedicato il volume di D. Lanza (a cura di), La poetica di Aristotele e la sua storia. Atti della giornata internazionale di studio. Pavia, 22 febbraio 2002, Pisa, Edizioni ETS, 2002.

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Diffusione del libro e della scrittura Nieddu, G.F., La scrittura ‘madre delle Muse’: agli esordi di un nuovo modello di comunicazione culturale, Amsterdam, Hakkert, 2004. Il testo del dramma attico Novelli, S., Studi sul testo dei Sette contro Tebe, Amsterdam, Hakkert, 2005; Citti, V., Studi sul testo delle Coefore, Amsterdam, Hakkert, 2006. Nascita e caratteristiche del “libro” scientifico e filosofico Nieddu, G.F., Il Ginnasio e la Scuola: scrittura e mimesi del parlato, in Cambiano, G., Canfora, L., Lanza, D., Lo spazio letterario della Grecia antica, Roma, Salerno Editrice, 1992, pp. 555-585; Nieddu G.F., Neue Wissensformen, Kommunikationstechniken und schriftliche Ausdruckformen in Griechenland im sechsten und fünften Jh. v.Chr.: Einige Beobachtungen, in Kullmann, W., Althoff, J. (a cura di), Vermittlung und Tradierung von Wissen in der griechischen Kultur, Tübingen, Gunter Narr, 1993, pp. 157-165. Filologia e poesia alessandrina Serrao, G., Problemi di poesia alessandrina I. Studi su Teocrito, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1971; Serrao, G., La cultura ellenistica. Letteratura, in Bianchi Bandinelli, R. (a cura di), Storia e Civiltà dei Greci/9, Milano, Bompiani, 1977, pp. 171-253; Leurini, L. L’edizione omerica di Riano di Creta, Roma, Edizioni Quasar, 2007.

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Da Stonehenge a Salisbury. Dalla cronaca al romanzo1 Richard Trachsler

Nella piana di Salisbury, circa dodici chilometri a nord della città, si trova il celeberrimo monumento neolitico di Stonehenge, verso il quale dal XVI sec. affluiscono i primi eruditi e storici, che in inglese sono chiamati antiquarians, contemporaneamente storici dell’arte, filologi e semplici viaggiatori colti, curiosi del passato del loro Paese. Proprio come oggi, il monumento intrigava anche allora: tanto che il re d’Inghilterra, Giacomo I, ordinò nel 1620 al celebre architetto Inigo Jones di esaminarne i resti. Quest’ultimo, che non era semplicemente l’architetto reale, surveyor of the kings works, ma si occupava anche della scenografia degli spettacoli di corte, redasse un resoconto dettagliato dove rilevava le dimensioni del sito e proponeva un tentativo di ricostituzione dello stato originale, tenendo conto delle pietre cadute o mancanti2. Soprattutto, Inigo Jones propose una teoria sull’origine del monumento che spiegava e appoggiava il suo tentativo di ricostituzione. Per lui, Stonehenge era un tempio romano, costruito su un modello toscano e dedicato a Coelus, dio del Cielo. È difficile oggi dire perché Inigo Jones scartasse la spiegazione di un’origine autoctona – insulare e celtica – del monumento a favore di un’ascendenza continentale e classica. Tuttavia, è sicuro che una tale ipotesi fosse in sintonia con i suoi progetti di costruzione neoclassica in 1 Vorrei ringraziare Francesco Montorsi per il suo prezioso aiuto nella traduzione dal francese all’italiano. 2 The most notable antiquity of Great Britain, vulgarly called Stone-Heng on Salisbury plain, restored by Inigo Jones Esquire, architect generall to the late King, London, Printed by James Flesher for Daniel Pakeman at the sign of the Rainbow in Fleetstreet, and Laurence Chapman next door to the Fountain Tavern in the Strand, 1655.

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Inghilterra e che Stonehenge, reinterpretata in tempio toscano, li dotasse del sostegno di una tradizione antica3. Sono così diversi secoli che il monumento di Stonehenge invita a congetture relative alla sua funzione e alla sua origine e che attira le speranze e i timori dei visitatori che proiettano su di lui i fantasmi della loro epoca. Qui, sarà fatto un tentativo di risalire ancora più indietro nel tempo rispetto a Inigo Jones, fino all’epoca medievale, per vedere come la presenza di queste pietre nella piana di Salisbury sia stata spiegata. Nei testi storiografici di lingua latina, si vedrà apparire un racconto eziologico dove Merlino interpreta un ruolo di primo piano e il monumento si trova legato alla nascente monarchia bretone. Ma si vedrà anche come, con il passaggio ad un contesto romanzesco vernacolare, tutto cambi: se l’importanza di Merlino è ancora accresciuta, il monumento si dissolve oramai nel campo di battaglia dove deve svolgersi l’ultima battaglia di Artù. I testi vernacolari non parlano più di Stonehenge dove la monarchia bretone è fiorita, bensì della piana di Salisbury dove essa si spegnerà. *** Prima di entrare direttamente nella leggenda, può essere utile fare il punto su ciò che sappiamo oggi del monumento di Stonehenge. Ci si accorda in generale nel distinguere tre grandi fasi nella costruzione, di cui la più antica è di difficile datazione, ma potrebbe risalire al 2000 a.C. Per quanto riguarda l’ultima, la più complessa e movimentata, questa si situerebbe verso il 1500 a.C. Oggi, il monumento si presenta come un grande cerchio di un diametro di 33 metri, formato da ciò che originariamente erano 30 blocchi di pietra arenaria, di circa 4 metri d’altezza. Questa fila di pietre verticali è sovrastata da altre pietre, collocate orizzontalmente a mo’ di architrave e affiancate affinché il tutto possa formare, “al primo piano”, un cerchio perfettamente chiuso. Questo perimetro accoglie inoltre cinque gruppi di pietre – dei triliti, composti da due pilastri e da una pietra trasversale – ordinati a forma di ferro di cavallo aperto in direzione nord-est. Questo grande cerchio esterno andava a circondare una prima costruzione, meno spettacolare, parzialmente smantellata e riorganizzata, composta da circa 80 rocce ignee, chiamate bluestones a causa del loro colore. Queste pietre blu pesano 3

Su Inigo Jones e Stonehenge si veda C. Anderson, Inigo Jones and the Classical Tradition, Cambridge-New York- Melbourne-Madrid-Cape Town-Singapore-São Paulo, Cambridge University Press, 2007.

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quattro tonnellate ciascuna e provengono dal Pembrokeshire, nella punta occidentale del Galles, ovvero a più di 300 kilometri da Stonehenge, percorsi senza dubbio grazie ad un elaborato sistema di trasporto transitante per via terrestre e marittima. Per quanto riguarda le grandi pietre, queste vengono da Marlbourough Downs, località situata solamente a una trentina di chilometri a nord da Stonehenge, e tuttavia queste pesano approssimativamente quaranta tonnellate ciascuna, tanto che il loro trasporto ha dovuto mobilitare diverse centinaia di uomini nel momento del passaggio di Redhorn Hill, che si trova sulla traiettoria verso Salisbury. Incontestabilmente, la costruzione del monumento di Stonehenge deve essere considerata come l’opera di una cultura molto avanzata. Non siamo in possesso di testimonianze molto antiche sul monumento, poiché l’Inghilterra, per quanto riguarda sia la geografia che la storia, non ha richiamato l’attenzione degli autori greci e romani come altre regioni, culturalmente e geograficamente più vicine al mondo mediterraneo. Pertanto si cercano invano, nei testi di storia e geografia greco-latini, allusioni a Stonehenge nelle sezioni dedicate alle isole britanniche4. Inoltre, Stonehenge non compare né nelle prime cronache e annali medievali consacrati all’isola né nelle collezioni di mirabilia pur così ghiotte di ogni sorta di curiosità. Il primo a evocare e dare un nome alla costruzione è dunque Enrico di Huntingdon che, verso il 1130, scrive così: Quatuor autem sunt que mira uidentur in Anglia […]. Secundum est apud Stanhenges ubi lapides mire magnitudinis in modum portarum eleuati sunt, ita ut porte portis superposite uideantur. Nec potest aliquis excogitare qua arte tanti lapides adeo in altum eleuati sunt uel quare ibi constructi sunt5. «Vi sono in Inghilterra quattro meraviglie […]. La seconda si trova vicino a Stonehenge, dove delle pietre di mirabile grandezza sono state innalzate in maniera di porte, tanto che si direbbe delle porte poggiate su delle porte. E nessuno potrebbe immaginarsi con quale espediente si è potuto innalzare tante pietre in altezza e per quale motivo esse sono state collocate lì». 4 Al di fuori di un passaggio, d’altronde molto dubbio, di Diodoro Siculo, che scrive nel I sec. avanti Cristo, nessuna opera sembra menzionare l’enorme monumento nella piana di Salisbury. Si veda Diodoro Siculo, Biblioteca storica, Libro II, Cap. XLVII, dove si parla di un’isola in cui si trova un tempio di forma sferica. 5 Henry of Huntingdon, Historia Anglorum, ed. and translated by Diana Greenaway, Oxford, Clarendon Press, 1996, p. 22.

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È precisamente alla questione del “come” e del “perché” che risponderà Goffredo di Monmouth nella sua Historia regum Britanniae, redatta in latino verso il 1135. È Merlino che sarà associato all’erezione di Stonehenge nell’episodio inventato dal chierico gallese: durante un periodo di grande confusione politica, in cui il paese è costantemente in preda alle invasioni sassoni e si trova dilaniato dalle discordie interne, Merlino aiuta Aurelio Ambrogio e Uter, due fratelli della stirpe reale, a ritornare sul trono e preparare il ritorno del domino bretone sull’isola. Dopo una campagna cruenta, lunga ma vittoriosa, contro Hengist, capo dei Sassoni, Aurelio Ambrogio, re dei Bretoni, desidera risanare il suo paese. Lo vediamo percorrere in lungo e in largo il suo reame, ordinare il ripristino di chiese, monasteri, città. Egli ordina la ricostruzione della chiesa di Winchester, poi si reca ad un monastero vicino a Kaerradoc “ora chiamato Salisbury” (§ 127, p. 183), sito sul monte di Ambrius, in cui si riconosce senza difficoltà la località oggi chiamata Amesbury. Là sono sepolti i principi e conti bretoni a suo tempo uccisi a tradimento da Hengist. Commosso da questo pensiero e ansioso di perpetuare la memoria di tutti coloro che sono morti per il paese, il re desidera far costruire un monumento. Di fronte alla mancanza d’ispirazione di artigiani e architetti, gli si consiglia di far venir Merlino che ha poc’anzi predetto l’avvenire dell’anziano re Vortigerio. Merlino è condotto davanti ad Aurelio Ambrogio, che gli annuncia allora il suo progetto di monumento funerario. Invitato a concepire una tale costruzione, Merlino propone una soluzione precisa: Si perpetuo opere sepulturam uirorum decorare uolueris, mitte pro chorea gigantum quae est in Killarao monte Hiberniae. Est etenim ibi structura lapidum quam nemo huius aetatis construeret nisi ingenium artem subuectaret. Grandes sunt lapides, nec est aliquis cuius uirtuti cedant. Qui si eo modo quo ibidem positi sunt circa plateam locabuntur stabunt in aeternum6. «Se tu desideri onorare la sepoltura di quegli uomini con un monumento eterno, manda a cercare il Cerchio dei Giganti che si trova sul monte Killara in Irlanda. Là, si trova una costruzione di pietre che nessuno nella nostra epoca potrebbe innalzare a meno che il genio non si associasse all’arte. Le pietre sono imponenti e nessun uomo ha abbastanza forza 6 Geoffrey of Monmouth, The History of the Kings of Britain. An Edition and Translation of De gestis Britonum. Historia regum Britanniae, edition by Michael D. Reeve, translation by Neil Wright, Woodbridge, The Boydell Press, 2007 (Arthurian Studies LXIX), § 128, p. 173.

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per spostarle. Se le si dispone in cerchio in questo luogo rispettando la loro posizione iniziale, esse ci resteranno per sempre».

Queste pietre, continua Merlino, hanno inoltre delle proprietà curative. Esse sono state portate in Irlanda da dei giganti che le avevano prese in Africa. Occorre una spedizione militare di quindicimila uomini sotto la doppia guida di Merlino e di Uterpendragon, fratello d’Aurelio, per strappare agli Irlandesi queste pietre e, soprattutto, per trasportarle in Bretagna. Il racconto del trasporto delle pietre dall’Irlanda al Sud dell’Inghilterra è uno degli elementi essenziali di questo episodio eziologico, dal momento che risponde alla domanda che ogni visitatore del sito, ieri come oggi, si pone: come si è potuto spostare i megaliti? La risposta è semplice: in maniera soprannaturale. Dopo il fallimento degli uomini di Uterpendragon che cercano in vano, servendosi di corde e scale, di spostare le enormi pietre, è Merlino che se ne incarica. Ridendo davanti i loro pietosi sforzi, suasque machinaciones confecit (§ 130), “costruì i suoi apparecchi”, grazie ai quali le pietre sono trasportate verso la nave. Una volta ritornato in Bretagna, Merlino erige dunque le pietre intorno alle tombe, rispettando esattamente la disposizione originale, e inaugura così, nella loro attuale ubicazione, una sorta di cimitero reale dove riposeranno Aurelio Ambrogio (§ 134), Uterpendragon (§ 142) e Costantino (§ 180), il successore d’Artù che, invece, si sottrae ad una così convenzionale sepoltura visto che sarà condotto ad Avalon. Questo racconto eziologico presentato da Goffredo risponde, alla sua maniera, a qualcuna delle grandi questioni sollevate da Stonehenge. Per lui, si tratta di un monumento funerario e le pietre provengono da un altro luogo. Nonostante il rinvenimento di ossa nel sito, il primo punto non è sicuro; per contro, il secondo è confermato da delle analisi petrologiche moderne. Goffredo ha dunque visto giusto, le pietre vengono da lontano e provengono da Ovest, sebbene non si tratti dell’Irlanda, ma “solamente” dalla punta occidentale del Galles. Non è possibile sapere come Goffredo sia venuto a conoscenza della provenienza dei blocchi di pietra e su questo punto non si può far altro che congetturare7. È senza dubbio più interessante interrogarsi su ciò che ha potuto spiegare unicamente ricorrendo ad una sorta di metafora per designare il cervello ideatore che 7

Per S. Piggot, The Sources of Geoffrey of Monmouth. II. The Stonehenge Story, «Antiquity», 15 (1941), pp. 305-319, questa coincidenza si spiega con una fonte celtica orale.

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sta dietro il monumento e la forza che ha reso possibile il trasporto delle pietre verso il Sud dell’Inghilterra: Merlino. Questo personaggio, ripreso dalle tradizioni celtiche, ma che lo stesso Goffredo dota per primo di una biografia completa scritta, dove è presentato come il figlio di un incubo e di una principessa, occupa, in effetti, un posto centrale nel racconto eziologico. Col passare del tempo, si rivelerà contemporaneamente la carta vincente e l’anello debole della spiegazione proposta da Goffredo, visto che certi autori saranno infastiditi dalla presenza manifestamente soprannaturale nel cuore del racconto fondatore, mentre altri, al contrario, ne sfrutteranno il potenziale meraviglioso. È quello che adesso dovrà essere esaminato. Innanzitutto, si deve notare che il successo folgorante de l’Historia regum Britanniae nel Medioevo fa sì che il racconto eziologico relativo a Stonehenge sarà volentieri ripreso da altri autori contemporanei o posteriori. Forte di più di 220 manoscritti che conservano il testo dell’Historia, il racconto di Goffredo s’impone come una specie di vulgata durante tutta l’epoca medievale. Matteo Paris, per esempio, lo integra nella sua Chronica Maior, così come Goffredo da Viterbo, che lo cita nel suo Pantheon, e Gervasio di Tilbury, che lo riecheggia nei suoi Otia imperialia8. Altri autori conservano anch’essi l’elemento della provenienza irlandese delle pietre proposta da Goffredo di Monmouth, ma nel contempo vi apportano una modifica consistente: semplicemente escludono Merlino. Così Enrico di Huntingdon, che adotta la spiegazione di Goffredo, una volta venutone a conoscenza, per integrarla in una redazione successiva della sua Historia Anglorum, non cita più Merlino e attribuisce al solo Uterpendragon il trasporto delle pietre dall’Irlanda9. E Alessandro Neckam definisce apertamente l’intervento di Merlino garrula fama, una “petulante diceria”, per relegare, anch’egli, nel reame della fantasia l’erezione per via sopranaturale ed attribuirla esclusivamente a Uterpendragon. 8 Gervase of Tilbury, Otia imperialia: recreation for an emperor, ed. and trans. by S.E. Banks and J.W. Binns, Oxford, Clarendon press, 2002 (Oxford medieval texts), p. 152. Matthaei Parisiensis, monachi Sancti Albani, Chronica majora, ed. by H.R. Luard, London, Longman et al., 1872-1884, 7 vol. (Rerum britannicarum medii aevi scriptores, or chronicles and memorials of Great Britain and Ireland during the Middle Ages 57), vol. I, p. 223. Per Goffredo di Viterbo, si veda L. Meyer, Les Légendes des Matières de Rome, de France et de Bretagne dans le «Pantheon» de Godefroi de Viterbe, Paris, De Boccard, 1933, p. 200, che sostiene che Goffredo segue i §§ 127-130 dell’Historia regum Britanniae. 9 Interea Vter Pendragun, id est caput draconis, iuuenis prestantissimus filius scilicet Aurelii, coream gigantum attulit ab Hibernia, que nunc uocatur Stanhenges, Henry of Huntingdon, ed. Greenaway, p. 576.

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Nobilis est lapidum structura Chorea Gigantum, Ars experta suum posse peregit opus, Quod ne prodiret in lucem segnius artem, Se viresque suas consuluisse reor. Hoc opus ascribit Merlino garrula fama, Filia figmenti fabula vana refert. […] […] Uterpendragon hanc molem transvexit ad Ambri Fines, devicto victor ab hoste means10. «Nobile è la costruzione di pietre, la ronda dei Giganti Le arti, mettendo alla prova la loro destrezza, là hanno completato la loro opera; Affinché essa non si riveli troppo lentamente alla luce, L’arte ha impegnato se stessa così come le proprie forze, io credo. La petulante diceria attribuisce quest’opera a Merlino, La finzione, figlia dell’invenzione, riferisce cose vane […] Uterpendragon ha trasportato questa mole verso i confini Del monte di Amber, ritornando vincitore del nemico disfatto».

Attraverso questi testimoni dissidenti, che prendono le distanze dall’opinio communis rappresentata da Goffredo di Monmouth, si coglie la tensione tra due attitudini contrarie davanti al monumento di Stonehenge: quella della spiegazione razionale, che elimina Merlino e privilegia l’abilità tecnica degli uomini, e un’altra, che apre, attraverso Merlino, le porte al soprannaturale. Perciò, non sorprende incontrare versioni che amplifichino ancora l’aspetto soprannaturale rispetto a Goffredo. Questa tradizione è, anch’essa, abbastanza antica poiché la si coglie in una parte della tradizione testuale dell’Historia regum Britanniae. Nella versione più antica della Historia, come si è visto, Merlino si serve, per trasportare le pietre, di machinaciones, di “apparecchi”. Certamente questi apparecchi sono inconcepibili da un comune mortale poiché permettono di realizzare con impensabile facilità il trasporto che poneva problemi insormontabili agli uomini di Uterpendragon, ma tutto questo resta nell’ordine della tecnica. Tecnica assolutamente sconosciuta, incredibilmente evoluta, totalmente inspiegabile, in una parola “merliniana”, eppure tecnica. 10 A. Neckam, De naturis rerum libri duo with the poem of the same author De Laudibus divinae sapientiae, ed. by Thomas Wright, London, Longman, Green, Longman, Roberts, and Green, 1803 (Rerum britannicarum Medii aevi scriptores, or Chronicles and memorials of Great Britain and Ireland during the Middle ages 34), vv. 728-740.

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Ebbene, in certi manoscritti dell’Historia, testimoni di quella che si chiama la Variant Version, questo cambia. Merlino, nel momento di trasportare le pietre, sembra pronunciare un incantesimo laddove Goffredo gli faceva semplicemente disporre gli apparecchi. Et paulisper insusurrans motu labiorum tanquam ad oracionem precepit ut adhiberent manus et asportarent quo uellent11. «E sussurrando un poco muovendo le labbra, come per una preghiera, gli ordina di mettervi la mano e trasportare le pietre dove vorranno».

Lo stesso dettaglio si trova anche nella Gesta rerum Britanniae, una riscrittura in versi del testo goffrediano e, soprattutto, presso il chierico anglonormanno Wace che traduce, verso il 1155, l’Historia in francese12. Nel suo Roman de Brut che è il primo adattamento vernacolare dell’Historia, egli riprende fedelmente il testo della Variant Version13. Dunc ala avant si s’estut, Entur guarda, les levres mut Comë huem ki dit oreisun; Ne sai s’il dist preiere u nun14. «Si avvicina [alle pietre] e si fermò davanti, Guardò intorno muovendo le labbra Come qualcuno che facesse una preghiera. Non so se pronunciò o no una preghiera».

Si vede perfettamente come il passaggio dalle machinaciones di Goffredo all’oreisun inudibile accentui l’aspetto soprannaturale della scena. Si vede anche, com’è frequentemente il caso nel Medio Evo, un certo malessere di fronte alla manifestazione del soprannaturale: davanti a queste pietre enormi che si muovono per la semplice forza della parola 11 The Historia regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth, II, The First Variant Version, ed. by N. Wright, Cambridge, D.S. Brewer, 1988, § 130. 12 «Dicit uates sine murmure carmen», The Historia regum Britanniae of Geoffrey of Monmouth, V, Gesta regum Britannie, ed. by N. Wright, Cambridge, D.S. Brewer, 1991, Lib. VI, v. 345. Gervasio di Tilbury tiene anch’egli in considerazione gli incantesimi di Merlino (Gervase of Tilbury, éd. Banks, p. 610). 13 La relazione tra Wace et la First Variant Version è discussa nell’introduzione dell’edizione Wright, pp. LV-LXII. 14 Wace’s Roman de Brut, text and translation J. Weiss, Exeter, University of Exeter Press, 1999 (Exeter Medieval English Texts and Studies), vv. 8147-8150.

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merliniana, ci si domanda qual è l’origine di questo potere. Il fenomeno strano, che trascende l’intelletto umano e sospende le leggi della fisica che legano i mortali, può, in effetti, rimontare a Dio o al diavolo, o, anche, costituire una meraviglia, di cui l’origine non è determinata. In questo passaggio, c’è ugualmente esitazione: è possibile, dice il narratore, che la formula pronunciata sia una preghiera nel senso cristiano del termine, nel qual caso la meraviglia rientra nel campo dell’ortodossia, ma è possibile allo stesso modo che Merlino si rivolga a delle potenze più oscure. La constatazione ambigua che emerge da questo episodio si spiega con lo statuto di Merlino. Nell’insieme della tradizione storiografica erede di Goffredo, Merlino resta un essere inquietante indelebilmente condizionato dalle sue origini diaboliche. Le tensioni intorno al personaggio di Merlino che riflettono le variazioni del racconto fondatore del monumento di Stonehenge mostrano bene le due grandi opzioni davanti alla presenza di queste enormi pietre verticali nella piana di Salisbury: la prima, espressa da Alessandro Neckam o Enrico di Huntingdon, è scettica, quasi razionale e dunque respinge la versione di Goffredo; l’altra è più aperta alla meraviglia e accentua, attraverso l’aggiunta di una formula magica, il carattere soprannaturale dell’episodio goffrediano in una sorta di fuga in avanti. È nel Merlin di Robert de Boron, romanzo in prosa scritto all’inizio del XIII sec., che questa fuga in avanti è più visibile. In questo romanzo, che riprende in parte la trama dell’Historia regum Britanniae, ma allacciandosi alla storia spirituale del Graal e a quella dei cavalieri della Tavola Rotonda, il personaggio di Merlino perde completamente la sua aura diabolica. Concepito, è vero, da un incubo in una mortale, come in Goffredo di Monmouth, Merlino si vede accordata da Dio la possibilità di scegliere la sua strada, ascoltare il suo genitore diabolico, o, al contrario, Dio Padre, come qualsiasi uomo. Merlino opta per l’ortodossia e tutte le sue azioni si inscrivono ormai in un vasto piano dove opera per l’avvento e la salvezza della cavalleria arturiana. Prima della creazione della Tavola Rotonda e del progetto della ricerca del Graal, che risalgono ugualmente all’iniziativa di Merlino, l’episodio di Stonehenge è una delle tappe di questo piano. Il quadro generale strutturato da Goffredo è certamente rispettato: infatti, è dopo la vittoria contro Hengist che ha luogo la costruzione e anche qui le pietre vengono dall’Irlanda, grazie alla sagacia di Merlino. Eppure, diversi cambiamenti si verificano: innanzitutto, il monumento non è più, come in Goffredo, destinato a commemorare tutti i guerrieri caduti dall’inizio della campagna contro i Sassoni, ma deve perpetuare, molto più specificamente, il 45

ricordo di coloro che hanno trovato la morte nello scontro più recente, nella piana di Salisbury, nello stesso luogo dove si erigerà il monumento. C’è dunque una specie di enfasi su una battaglia in particolare a discapito di tutte le altre. Si nota anche un’accentuazione della sola persona reale poiché è per il re che quest’enorme costruzione è creata. In Robert de Boron, Pandragon – così nel Merlino si nomina colui che in Goffredo si chiamava Aurelio – cade sul campo di battaglia contro Hengist, laddove nell’Historia moriva solamente più tardi. Stonehenge, o piuttosto il cimentire de Salesbieres, diventa il suo personale monumento e cessa di essere un mausoleo collettivo per guerrieri anonimi. È significativo anche che l’iniziativa del monumento, in Robert de Boron, non spetti al fratello sopravvissuto, ma allo stesso Merlino che domanda al re di onorare il fratello defunto. Non è il re che va a cercare il suo architetto, è il contrario. Merlino va a trovare il re per dirgli che occorre un monumento per perpetuare il ricordo di suo fratello. Stonehenge è il suo progetto, non quello del re. Anche la maniera in cui le pietre arrivano in Inghilterra è assai differente rispetto alle fonti, anche se il punto di partenza e il punto di arrivo sono identici: come in Goffredo, i megaliti provengono dall’Irlanda e, come pure nella tradizione storiografica, è Merlino che li trasporta nella piana di Salisbury. Quello che non si sa è come le pietre arrivino in Inghilterra. Il racconto di Robert de Boron comporta in questo luogo un’ellissi che custodisce il segreto su questo punto. In effetti, come nella tradizione storiografica, Merlino accompagna un importante contingente di guerrieri sui luoghi per indicargli le pietre. Ma mentre questi sono ricevuti, nelle fonti, dall’esercito irlandese intenzionato a difendere i megaliti, il campo, in Robert de Boron, è libero. Nessuno è lì per impedirgli di impadronirsene. E, pour cause, visto che è impossibile. Quando Merlino invita gli uomini di Uter a metterle nelle loro navi, gli rispondono che tutti insieme non riuscirebbero a muoverne una sola e che, in ogni caso, non acconsentirebbero a caricare le navi di un simile peso. Merlino allora gli risponde che hanno fatto il viaggio per niente e li lascia ritornare presso il re. Di ritorno a Logres, essi mettono al corrente Uter che chiede spiegazioni a Merlino. Laconicamente, questo risponde Des que il me sont tuit failli, j’aquiterai mon covenant, “Poiché mi hanno tutti abbandonato, sono io che manterrò la promessa” (§ 47, ll. 57-58) e fa venire par force d’art le pietre senza che nessuno sappia come. Il re e il popolo le scoprono più tardi e possono solo prendere atto della meraviglia: impossibili da sollevare, troppo pesanti perfino per essere trasportate in barca, nonostante tutto esse sono là. 46

La modificazione apportata da Robert de Boron alla tradizione anteriore sottolinea dunque l’impotenza dell’uomo perfino a comprendere il segreto che circonda l’essenza del monumento. Solo Merlino sa e, come è sua abitudine, intende rivelare ai mortali solo quello che gli è utile, contentandosi di lasciar intravedere, occasionalmente, l’immensità del suo potere. È cosi senza dubbio che si spiega quella che è forse la modificazione più importante. Et Merlins lor dist que il les feissent drecier, car eles seroient molt plus beles que gisanz. Et Uitiers respont: «Ce ne porroit pas hom faire fors Dieu, se tu nou faisoies.» Et Merlins dist: «Or vos en alez, quar je les ferai drecier, si avrai mon covent aquité vers Pandragon, quar j’avrai por li comenciee tel chose qui ne porra estre acomplie». Einsi fist Merlins les pierres drecier qui encor sont au cimentire de Salesbires et i seront tant come crestienez durra15. «Merlino gli ordina di innalzarle, poiché saranno più belle erette che distese sul suolo. “Nessuno”, dice Uter “ne sarebbe capace, salvo Dio e te stesso”. “Andatevene”, dice Merlino, “me ne incaricherò io e avrò mantenuto la promessa fatta a Pendragon, avrò compiuto per lui un’opera che nessuno potrebbe portare a termine”. È così che Merlino eresse le pietre d’Irlanda che sono nel cimitero di Salisbury e che vi resteranno quanto durerà la cristianità».

Dalla riproduzione à l’identique, si passa alla creazione. Invece di dire che le pietre erano erette già in Irlanda, come fanno le sue fonti, Robert de Boron imputa la meraviglia di Stonehenge a Merlino. In precedenza, in Irlanda, non vi era nulla, né la Carole aus Gaians, la “Ronda dei Giganti”, spettacolarmente, inesplicabilmente eretta sul monte Killara, né le proprietà curative attribuite alle pietre. Da qui deriva l’assenza del dettaglio dell’esercito degli Irlandesi che, nelle fonti, tentavano di proteggere le pietre dagli invasori bretoni. Prima di Merlino, senza Merlino, i megaliti non erano che una massa informe, distesa per terra, senza scopo, senza utilità, senza destinazione. È Merlino che ha saputo sollevare le pietre, sfidando le leggi della gravità, facendo trionfare l’arte sulla natura, lo spirito sulla forza e creando l’immagine di una nuova era di cui Pandragon, il re morto, sarà stato il primo rappresentante. Le pietre nella piana non sono un luogo di culto dove i 15 R. de Boron, Merlin, éd. A. Micha, Genève, Droz, 1979 (TLF 281), § 47, p. 181. Il testo è stato tradotto da Alexandre Micha, Paris, GF, 1994, § 47, p. 113.

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malati verrebbero a cercare guarigione grazie alle proprietà curative delle pietre. Ormai, è un monumento funerario per il re Pandragon. Si vede come la modificazione dell’eredità goffrediana obbedisce, in Robert de Boron, al suo progetto letterario. Il ricentrare il monumento sul re è essenziale perché, oramai, la storia di Bretagna è scandita in regni che vanno sempre per tre. Dopo Pandragon, commemorato dai megaliti, la corona passa al fratello sopravvissuto Uter, e l’apogeo della storia bretone sarà raggiunto sotto il regno del figlio: Artù, terzo nella serie dei re “buoni”. Il monumento nella piana di Salisbury segna l’inizio del conto alla rovescia. Rispetto alle fonti, l’origine del sito è dunque trasportata dal tempo pagano verso l’epoca di Merlino perfettamente cristiana e rispettabile. Al racconto eziologico della tradizione storiografica, Robert de Boron contrappone così una versione addomesticata, con delle pietre dal passato immacolato e un Merlino meno sulfureo, che non vediamo né pronunciare incantesimi ne fare quello che fa. Lo si vede solo quando lo ha già fatto, e si ammira la prodezza, impossibile per l’uomo e realizzabile unicamente da Merlino e Dio. Si vede in questo episodio la medesima progressione che Merlino conosce nell’insieme del romanzo. In Robert de Boron, Merlino, il figlio dell’incubo, è riscattato. Egli esegue un piano divino, istituisce la Tavola Rotonda, la famosa terza tavola, dopo di quella dell’Ultima Cena e quella del Graal, permette il concepimento d’Artù, l’erede indispensabile, il terzo re, e annuncia infine la venuta dell’eroe del Graal, tutto questo grazie ad una perfetta conoscenza che gli ha accordato Dio. Tutte le modificazioni che mostra il racconto fondatore sono dunque perfettamente conformi al progetto narrativo di Robert de Boron. Rimane, tuttavia, un punto da spiegare. Quello che colpisce è, in effetti, la scomparsa del riferimento a Stonehenge e l’apparizione di una designazione concorrente, che comporta un altro toponimo che, salvo errori, fa qui il suo ingresso nella letteratura vernacolare dall’entrata principale: Salisbury, o, come dicono i testi medievali, Salesbieres. Stonehenge non è più Stonehenge, ma si chiama oramai il cimitero di Salisbury. E anche il luogo dove si svolgerà, molto più tardi, l’ultima battaglia tra Artù e Mordred, non si chiama Stonehenge, ma la piana di Salisbury, il luogo dove si erge una roche haute et dure, che porta un iscrizione della mano di Merlino16. Occorre dunque interrogarsi sulle ragioni della rimozione di Stonehenge a beneficio di Salisbury. Il nome Stonehenge appare in Goffredo di 16 La Mort le Roi Artu, roman du XIIIe siècle, éd. par Jean Frappier, Genève-Paris, Droz-Minard, 19642 (TLF 58), p. 228.

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Monmouth e anche nella Variant Version. Più precisamente, è più tardi, al momento del funerale di Costantino, che si trova la sola ed unica occorrenza del nome del monumento, ma con un’importante aggiunta: […] iuxta Utherpendragon infra lapidum structuram sepultus fuit que haut longe Salesberia mira arte composita Anglorum lingua Stanhenge nuncupatur. (Geoffroy de Monmouth, Historia regum Britaniae, ed. Wright, § 180, p. 132)17. «[Costantino] fu sotterrato accanto ad Uterpendragon, in questo insieme di pietre mirabilmente innalzato non lontano da Salisbury e che porta il nome di Stonehenge in lingua inglese».

Si apprende dunque che esiste verso il 1135, nel momento in cui scrive Goffredo di Monmouth, un nome vernacolare per designare il sito, un nome che senza dubbio non è d’invenzione del cronachista latino, ma riflette la realtà locale, Anglorum lingua. Con Wace, questa designazione originale oltrepassa in seguito la barriera linguistica. Nel suo Brut, nel momento di evocare il monumento, non fa che riprendere il termine inglese, ma lo traduce inoltre in francese e ricorda perfino il toponimo celtico: Bretun les suelent en bretanz Apeler carole as gaianz, Stanhenges unt nun en engleis, Pieres pendues en franceis. (vv. 8175-78) «I Bretoni le chiamano in bretone / La Ronda dei Giganti / In Inglese, queste si chiamano Stonehenge / In francese le “Pierre suspendues”».

La traduzione che fornisce Wace è perfettamente esatta: Stonehenge “hanging stones”. Nonostante i 220 manoscritti dell’Historia regum Britanniae e il supporto del Brut di Wace che, con più di venti manoscritti, è la cronaca vernacolare più diffusa nel XII secolo, il nome non penetrerà nella tradizione più tardiva, poiché Stonehenge è rapidamente eclissato da Salisbury, come se tutto il monumento fosse stato assorbito dalla città. È quello che mostra un passaggio preso dal Roman du Hem dovuto, dunque, ad un autore continentale del XIII secolo, che indica chiaramente che il punto di riferimento geografico è la città. 17 Geoffroy de Monmouth, Historia regum Brittaniae, éd. Wright, § 180, p. 132; Histoire des rois de Bretagne, trad. Mathey-Maille, § 180, p. 260.

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Encore i a en Salebire Pieres que Merlin de sen tans I assist par engiens pendans Et autres mervelles pluisours18. «Si vedono ancora a Salisbury / Delle pietre che Merlino nel suo tempo / Vi sospese per artificio / E molte altre meraviglie».

Stonehenge è così un annesso di Salisbury e, di fatto, non si trova più nessuna menzione del nome di Stonehenge nei romanzi arturiani francesi che tuttavia evocano tutti il monumento megalitico. Ma per situarlo si parla unicamente delle pietre nella piana di Salisbury. Questa ascensione di Salisbury si fa, con ogni evidenza, inizialmente col favore della vicinanza geografica. La città di Salisbury è situata nel county di Wiltshire nel Sud dell’Inghilterra, sull’Avon, tra Bristol a nord e Southampton a sud, e Stonehenge si trova, di fatto, a una dozzina di chilometri dalla città. Occorre notare, tuttavia, che i romanzieri francesi, contrariamente a Goffredo, che conosceva perfettamente la regione poiché era la sua, avevano una conoscenza totalmente libresca di questa geografia: per Robert de Boron e l’autore de la Mort Artu, Salisbury è situata vicina al mare e per Robert addirittura sul Tamigi19. Avremmo dunque torto a privilegiare qui la sola pista “realista” e occorre guardare, soprattutto, i testi che parlano di Salisbury. Nel ciclo Lancelot-Graal la promozione della città è estremamente visibile e riposa precisamente sulla sua prossimità con Stonehenge poiché la battaglia finale tra Artù e Mordred, che originariamente nulla collegava a Salisbury, si troverà attratta nell’orbita della costruzione megalitica. Questo monumento identificava l’ubicazione della prima delle grandi battaglie bretoni, era dunque normale che anche l’ultima vi avesse luogo. Questo è, in una frase, quello che risalta dall’esame dei testi. In effetti, la battaglia finale tra Artù e Mordred è localizzata, negli annali latini, anteriori perfino a Goffredo, vicino a Camblan, senza dubbio il fiume Camel in Cornovaglia, e Goffredo riprende questo dato. Egli trasforma tuttavia questo scontro unico in una serie di tre battaglie che hanno luogo vicino a Richborough, Winchester e poi in Cornovaglia, sul fiume Camel, per la precisione. I tre luoghi formano dunque una linea più o meno 18 Sarrasin, Roman du Hem, éd. Albert Henry, Paris, Les Belles Lettres, [1939] (Travaux de la Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de Bruxelles, IX), vv. 326-329. 19 Merlin, cit., § 45, r. 54.

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orizzontale che attraversa il Sud dell’Inghilterra da Est a Ovest, passando anche in vicinanza di Salisbury (Historia regum Britanniae, §§ 127-30). Anche se la magnifica “battaglia di Salisbury” che i romanzi vernacolari celebreranno non esiste dunque in Goffredo, la configurazione dei luoghi strutturata nell’Historia invita letteralmente a situare l’ultima battaglia di Artù nel luogo dove i suoi antenati, all’epoca di Merlino, hanno voluto commemorare le prime vittime: nel Somerset, nella piana di Salisbury, all’ombra di Stonehenge, a metà strada tra Richborough e il Camel. È ancora una volta Robert de Boron che farà il primo passo in direzione della bataile de Salesbires. Nel suo Merlin, che si interrompe quando il giovane Artù sale sul trono del reame di Logres, il massacro finale che contrappone Artù e Mordred non è naturalmente raccontato e nemmeno menzionato. E tuttavia c’è una battaglia di Salesbires: è quella dove si affrontano i re fratelli e Hengist, l’invasore, quella, precisamente dove morirà Pandragon e che porterà alla creazione del monumento. Quella che era nel cronachista Goffredo una campagna militare composta di diverse battaglie, è ridotta, nel romanziere Robert de Boron, a una battaglia unica, la più grande che si sia mai svolta, più precisamente la più grande de voz tans (§ 45, l. 25) come dice Merlino ai suoi due protetti, quella che sarà superata solo dall’altra grande battaglia, che avrà luogo sotto il regno del figlio. Questo “innesco” dato da Robert de Boron sarà utilizzato nel ciclo del Lancelot-Graal. In questo vasto insieme, che reintegra, per raccontare la giovinezza di Artù, il Merlino, la battaglia di Salisbury, dove Artù affronterà quello che sarà ormai il figlio incestuoso e non più suo nipote, è annunciata a diverse riprese. L’annientamento reciproco del padre e del figlio è significato, sotto la forma di un combattimento tra un serpent (“dragon”) e dei serpentiaus, da una pittura premonitrice sui muri del moustier a Camelot, ma l’immagine assilla in maniera ossessiva i sogni dei protagonisti. Svelata e tuttavia incomprensibile ai sognatori, la lotta tra padre e figlio è predisposta da una sorta di fatalità. Almeno due volte è esplicitamente localizzata dal narratore a Salisbury, verso cui tutto ora converge20. Le tre battaglie di Goffredo sono ormai sostituite da una sola, che fa pendant a quella che condussero i re fratelli guidati da Merlino contro gli invasori germanici. L’eco è evidente. È in questa ultima parte del ciclo, la Mort Artu, appunto, che sarà lungamente narrato il massacro che vedrà scomparire, in una giornata, tutto il fiore della cavalleria artu20

Cfr. Lancelot. Roman en prose du XIIle siècle, éd. critique avec introduction et notes par A. Micha, Genève, Droz, 1978, t. VI, chap. CI, 15 e 1980, t. II, chap. LX, 12.

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riana. Nella piana di Salisbury, dove tutto è cominciato, si uccideranno il padre e il figlio e periranno i compagni della Tavola Rotonda. Tutto si conclude a Stonehenge che commemora ormai non solamente la prima ma anche l’ultima grande battaglia ingaggiata dai cavalieri bretoni. Il cerchio si chiude, e d’altronde così era scritto, poiché Artù vede, quando arriva nella piana, una roche haute et dure, che porta un’iscrizione della mano di Merlino: En ceste plaigne doit estre la batailler mortel par quoi li roiaumes de Logres remeindra orphelins21. Se si ammette che la roche haute et dure è una delle pietre innalzate di Stonehenge, la battaglia finale era attesa fin dalla creazione del monumento dedicato alla cavalleria bretone. Tutti gli avvenimenti raccontati dal ciclo del Lancelot-Graal hanno solo tracciato un lungo e ineluttabile movimento circolare intorno a questi cerchi di pietre. Col susseguirsi dei testi, passando dall’Historia di Goffredo alla Mort Artu dello Pseudo-Map, si assiste a un rafforzamento del ruolo di Salisbury: nei romanzi, il toponimo eclissa Stonehenge, che non è mai nominato, e richiama due volte l’“invenzione” di una battaglia unica laddove la fonte ne comportava diverse: una prima volta all’epoca di Merlino, quando è creato il monumento funerario per i re di Bretagna, una seconda volta all’epoca di Artù, quando il re deve combattere il figlio incestuoso. Evidentemente, questa constatazione non spiega assolutamente la rimozione del nome di Stonehenge e la promozione di Salisbury. Occorre esaminare anche la seconda funzione attribuita dai romanzi a Salisbury. Nel ciclo Lancelot-Graal, Salisbury è il grande centro della scrittura arturiana, è la che sono conservate le pergamene contenenti i resoconti fatti dai cavalieri erranti quando ritornano a corte, secondo quanto è detto nell’epilogo della Queste del Saint Graal che fornisce la prima menzione di questa usanza: […] li rois fist avant venir les clers qui metoient en escrit les aventures aus chevaliers de laienz. Et quant Boorz ot contees les aventures del Seint Graal telles come il les avoit veues, si furent mises en escrit et gardees en l’almiere de Salebieres, dont mestre Gautier Map les trest a fere son livre del Seint Graal por l’amor del roi Henri son seignor, qui fist l’estoire translater de latin en françois22. 21

Mort Artu, cit., p. 228, Dans cette plaine doit avoir lieu la bataille mortelle par laquelle le royaume de Logres restera orphelin, «In questa piana si svolgerà la battaglia mortale a causa della quale il reame di Logres resterà orfano». 22 La Queste del Saint Graal, roman du XIIIe siècle, éd. par A. Pauphilet, Paris, Champion, 1949 (CFMA 33), pp. 279-280.

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«[…] il re fece venire i chierici che mettevano per iscritto le avventure dei cavalieri del suo casato. Quando Bohort ebbe raccontato le avventure del Santo Graal così come le aveva viste, queste furono messe per iscritto e collocate nella biblioteca di Salisbury. È la che il maestro Gautier Map le raccolse per scrivere il suo libro sul Santo Graal per il re Enrico, suo signore e il re fece in seguito tradurre la storia dal latino in francese».

Occorre sottolineare, in questo contesto, che Salisbury, nei romanzi arturiani, non è ordinariamente una residenza reale. Artù soggiorna a Camelot o a Londra, a volte anche altrove, ma non a Salisbury. Salisbury non è dunque un luogo di residenza, ma il luogo dove si conservano gli archivi del reame, il luogo di memoria, appunto, designato, su un altro piano, dal monumento di Stonehenge. È proprio in questo che occorre senza dubbio vedere i legami con le pietre nella piana. La biblioteca di Salisbury è la custode dei racconti dei cavalieri arturiani e la fonte dei romanzieri francesi. È così che deve spiegarsi la migrazione del topos del manoscritto trovato a Salisbury attraverso un piccolo numero di testi, tra cui la Continuation del Perceval, dovuta a Manessier, che scrive all’inizio del XIII secolo, dopo il Lancelot-Graal. [Et] li rois fist metre en escrit, / Si com raisons ert et droiture, / Les nons de ceus et l’aventure / Tele conme chascuns la sit ; / Et a Saleberes la fist / Li bons roi Artus en memoire / Seeler dedanz une aumaire (Continuation Manessier, éd. W. Roach, vv. 42422-42428). «[E] il re fece mettere per iscritto, come era giusto e appropriato, i nomi e le avventure di tutti, secondo il racconto di ognuno; poi, dopo aver fatto sigillare lo scritto, il buon re Artù lo fece mettere nella biblioteca di Salisbury».

L’espansione di Salibsury all’interno della letteratura arturiana deve certamente essere messa in rapporto con l’importanza che prende la città nel contesto culturale del XIII secolo. A partire dal 1058 sede episcopale delle due diocesi riunite di Sherborne e Ramsbury, Salibsury – anticamente Old Sarum – riceve allora la sua prima cattedrale sulla collina affianco al castello e un nuovo capitolo nel 1091. È a quest’epoca che devono risalire la creazione di una biblioteca e l’attività scrittoria dei canonici, che copiano soprattutto testi patristici23. Ma è all’inizio del XIII secolo che la 23 T. Webber, Scribes and Scholars at Salisbury, c. 1075-c. 1125, Oxford, Clarendon Press, 1992.

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reputazione di Salisbury supera il livello regionale. Divenuti insufficienti gli edifici, è necessario ingrandirsi. Ma, a causa dello spazio che occupa il castello a partire dai lavori di modernizzazione intrapresi sotto Enrico I, l’ingrandimento degli edifici capitolari sulla collina stessa è impossibile, e si deve abbandonare Old Sarum per un terreno situato a un livello inferiore, chiamato Salisbury o New Salisbury. Con questa decisione di occupare un terreno vergine, gli architetti si creavano un’occasione per così dire unica per costruire una cattedrale gotica in una sola volta, senza dover tenere conto delle costruzioni anteriori. Inoltre, la nuova cattedrale di Salisbury, edificata tra 1220 e 1226 è meritatamente considerata come un monumento architettonico eccezionale. Ma l’importanza di Salisbury si misura soprattutto nel campo della liturgia poiché qui si è sviluppato, sotto l’impulso del vescovo Richard Poore, il rito di Sarum che si sarebbe imposto su un gran numero di vescovadi d’Inghilterra24. Verso la medesima epoca vi si crea anche, sul modello parigino, una scuola cattedrale, che sarà nel 1226, con 52 membri, il terzo monastero più importante su suolo inglese. C’è dunque tutta una serie di fattori storici che spiegano, nella letteratura arturiana, la promozione di Salisbury a scapito di Stonehenge, che finisce per sparire, assorbito dalla città vicina. Si noterà tuttavia che questa promozione non è fatta in tutte le direzioni e non la si osserva in qualunque tipo di testi, poiché le occorrenze del toponimo Salisbury restano confinate, nel campo della letteratura in lingua francese, ai soli romanzi arturiani. L’avanzamento di Salisbury dunque è senza dubbio stato favorito dalla volontà dei romanzieri arturiani di corredare la corte arturiana di un pendant di quello che possedevano i re di Francia nell’abbazia di Saint-Denis: un luogo di memoria produttore di cronache del regno dove riposavano inoltre i re defunti. È senza dubbio per questo che la scelta dei romanzieri francesi si è portata su Salisbury e non su Winchester, Londra, o qualunque altra città del reame di Logres. Si trattava di appropriarsi dell’essenza del monumento di Stonehenge trasmessa dalle cronache e dalla sua prestigiosa antichità. La sovrapposizione di Stonehenge e di Salisbury – ma bisognerebbe dire la cancellazione di Stonehenge per opera di Salisbury – permette di risalire dal XIII sec. ai tempi arcaici della monarchia bretone e di spiegare il passato con il presente e viceversa, come in un antico racconto di fondazione. Radicando Salisbury nella preistoria di 24 Su questi punti, si vedano i primi capitoli dello studio di M.M. Reeve, Thirteenth-

Century Wall Painting of Salisbury Cathedral. Art, Liturgy, and Reform, Cambridge, Boydell and Brewer, 2008.

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Stonehenge, i romanzieri francesi conferiscono al luogo, che si riteneva custodisse le fonti da loro utilizzate, una forte legittimità, poiché è là, nel cerchio tracciato un tempo da Merlino, che è nata la monarchia bretone ed è sempre là che è scomparsa. Non sembra necessario supporre che Salisbury abbia orchestrato la propria promozione, come l’ha fatto l’abbazia di Glastonbury in altri momenti attraverso un abile sfruttamento della leggenda arturiana. Sembra, al contrario, più verosimile che la vivacità di Salisbury sul piano culturale in questo inizio di XIII secolo abbia incoraggiato i romanzieri a servirsi del toponimo per impreziosire le loro opere, conferendogli un’apparenza più clericale. Ne consegue l’interesse di far passare le pietre sospese della Ronda dei Giganti per il cimitero di Salisbury dove nasce, e muore, la monarchia bretone e dove si scrivono e si conservano le cronache arturiane.

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Idee di letteratura. Medioevo e dintorni Maurizio Virdis

È cosa ben assodata ormai che, nel Medioevo, la letteratura aveva una funzione, una ricezione, una maniera di essere percepita: insomma un senso certamente diverso da quello con cui noi oggi individuiamo quella “cosa” che chiamiamo “Letteratura”; che anzi ci si può chiedere, come illustri medievisti si son chiesti, se si possa parlare, in termini propri, di una letteratura medievale, almeno per quanto riguarda la produzione in volgare. Tale produzione infatti non ha certo il significato, tutto odierno e moderno-contemporaneo, che consiste da un lato nella manifestazione di una cultura nazionale (o comunque di una cultura peculiare e identificabile, o in cerca di identificazione) e del suo spirito: e non è certo un caso se l’idea che oggi noi abbiamo della letteratura nasca col formarsi, moderno-contemporaneo, a fine Settecento, dell’idea di nazione, congiuntamente con la nozione di lingua nazionale e in prossimità della laicizzazione e secolarizzazione della politica, della società e della loro cultura. D’altro canto è poi difficile dire quale funzione svolgesse la letteratura medievale nella formazione e nella educazione dei suoi fruitori, nella elaborazione del loro gusto estetico e morale; o meglio, resta problematico determinare in quali maniere e in quale cornice semiotica fosse svolta questa funzione. Perché se è vero che tali funzioni erano intrinseche anche alla produzione letteraria del medioevo, questa però non operava nella medesima maniera dei tempi a noi più vicini. E soprattutto quel che è assente in epoca medievale è l’idea della letteratura, e più in genere dell’arte, come espressione del genio soggettivo e originale. E tuttavia la letteratura medievale resta, proprio per questo, una sfida seducente e fascinosa, perché in essa troviamo, in nuce se non altro, i prodromi della nostra modernità. Troviamo, non dico il travaglio – che sarebbe parola e idea teleologica, oltre che abusata ed insensata – ma troviamo quanto meno uno svolgimento e un processo dinamico che da un lato mostra i germi non deterministici di ciò che sarebbe stata la let56

teratura nel senso per noi più attuale; mentre dall’altro propone forse possibili e auspicabili soluzioni a ciò che noi oggi chiamiamo più o meno appropriatamente “crisi della letteratura”: ci indica una qualche possibile risposta e re-azione alle “notizie dalla crisi”. Dice H.R. Jauss che la letteratura medievale è prossima, più di quanto non sia oggi (e più che non in epoca antico-classica), alla pragmatica della vita sociale, e che pertanto non esiste nel medioevo il concetto di autonomia dell’arte, ivi compresa quella letteraria1. La produzione letteraria sarebbe dunque funzionale alle ritualità d’ogni tipo, non solo religioso, ma pure sociale; funzionale alla sfera didattico pedagogica, alla dimensione ludica o di intrattenimento. E lo stesso elemento del meraviglioso (come nel lai o nel romanzo arturiano) sta, almeno in prima istanza, in funzione più di una necessità primaria immediata e originaria (per esempio, l’immaginario del desiderio realizzato)2 che non di una “libera creazione”. Né va dimenticato l’insegnamento di Paul Zumthor3, e cioè quello relativo alla dimensione eminentemente orale della Letteratura dell’età di mezzo, soprattutto, ma non solo, dal punto della ricezione; infatti la ricezione condiziona ovviamente anche il coté della produzione: e non soltanto come maniera e stile scrittorio, ma anche nella stessa sua semiotica. Lasciando per il momento da parte le Chansons de geste (su cui si tornerà), lo stesso romanzo medievale ci appare più su una dimensione – se posso osare dirlo, e con virgolette d’obbligo – “cinematografica” piuttosto che non “letteraria”. Una scrittura narrativa dove l’azione soverchia la meditazione, lo scavo dell’interiorità, la descrizione psicologica o l’analisi sociale. Non che tutto questo sia assente, anzi: e Köhler ben ci insegna. Ma tutto ciò è affidato – dalla parte del ricevente – alla percezione in presa diretta dei comportamenti dei personaggi in scena e della loro azione; le loro motivazioni interiori vengono captate attraverso il loro dialogare o, magari, attraverso il loro monologare, o ancora e ancor più attraverso il loro agire. Come nel romanzo contemporaneo, si dirà; e sì, certo: come nel romanzo post-cinematografico, si potrebbe azzardare. Non è un caso infatti che, insieme a tutto quanto appena detto (e cioè il 1 Cfr. H.R. Jauss, Alterität und Modernität der mittelaltlichen Literatur. Gesammelte Aufsätze 1956-1976, München, Wilhelm Fink Verlag, 1977; trad. it., Alterità e modernità della Letteratura medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, cap. 7, «Teoria dei generi e letteratura del Medioevo», pp. 218-256. 2 Ibidem. 3 Cfr. P. Zumthor, La lettre et la voix. De la «littérature» médiévale, Paris, Seuil, 1987; trad. it., La lettera e la voce. Sulla «letteratura» medievale, Bologna, il Mulino, 1990.

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prevalere dell’azione diretta dei protagonisti e della loro parola), non è un caso, dico, che nell’organizzazione del discorso narrativo, il cosiddetto “punto di vista mobile” rimanga modalità narrativa principale, sotto l’apparente neutralità di una distaccata voce narrante, che mira a catturare, assorbendolo, lo sguardo “auricolare” dell’ascoltatore/“spettatore” e a sostituirsi ad esso. Infanzia del romanzo, aurora dell’arte narrativa? Forse pure. Ma è sostanzialmente un’altra funzione e un’altra modalità di comunicazione del narrato quella che si rivela nel romanzo medievale. Un narrato che deve primariamente intrattenere; e in cui la riflessione, la percezione della problematica, la rappresentazione, tanto spesso raffinata, della psicologia è mediata e veicolata da una rappresentazione immediata in cui il suddetto punto di vista mobile funge quasi da macchina da presa in movimento e incarnata nella voce narrante. E dunque la scrittura è in funzione di una “visione” suggerita attraverso l’orecchio e la voce. La scrittura è finalizzata alla ricezione e al consumo immediati. Ciò tuttavia non toglie una funzione anche pedagogico-sociale e magari finanche ideologica: penso alla costruzione di un’etica condivisa e orientata verso una soggettività che deve però essere disciplinata, di un’etica coniugale che fa leva sull’idea del cortese amore e sulla edificazione del “soggetto nella società” che deve fondarsi sul (proprio?) desiderio. Ma – e dico nel genere romanzo nel suo complesso, e a prescindere dalla problematica specifica di ogni singolo romanzo – l’aspetto di una produzione destinata al consumo resta. Come può testimoniarci certa produzione, appartenente sempre a tale genere, e che potremmo pure chiamare di tipo (sottogenere?) metaromanzesco, perché tale è a mio avviso. Ma tale “scrittura meta-” non pare certo nascere da una riflessione teorica sulla scrittura e sulla narrazione, anche se ve n’è certa più che l’intuizione. La metanarrazione nasce più che altro come satira che ha di mira l’abuso di consumo “letterario” di romanzo, abuso che genera l’effetto di realtà sul lettore/fruitore. Su un fruitore-spettatore che scambia la rappresentazione romanzesca per realtà e pretende di vivere la propria vita come un romanzo, e/o che agisce atteggiandosi a personaggio di romanzo o si dà pose di amante lirico: e tutto ciò con effetti di umorismo, sottolineato dal controcanto del realismo che vi si giustappone. Penso al Guillaume de Dole, a L’atre périlleux, alla Vengeance Raguidel, al Roman de l’épée, al Bel Inconnu. Una tale produzione metanarrativa nasce insomma dalla consapevolezza di un fenomeno di costume ingenerato dalla letteratura stessa e dal suo consumo, dal riuso e dall’usura più che non dalla valutata considerazione del romanzo come 58

sistema e come funzione autonoma. E se anche tale narrazione “meta-” scopre la letteratura come generatrice di immaginario e di mondi virtuali, tale scoperta non è quella della capacità e del valore autosufficiente della letteratura, ma è la coscienza che la letteratura può distorcere la realtà medesima e indurre in errore se ne abusa o la si usa in modo errato, e può portare al travisamento del vero scopo che alla letteratura doveva essere assegnato. Quale sia poi questo scopo non è facile dirlo, né la risposta può/deve essere univoca. Ma certo, oltre allo scopo dell’intrattenimento e del consumo ludico di cui si accennava, ve ne è uno pedagogico-ideologico, che è quello, ormai ben risaputo, di creare un immaginario della e per la soggettività, di dar luogo a una rappresentazione del “piccolo” cavaliere che deve essere educato ad una eticità positiva della vita a partire dalla precarietà (del senso) della sua esistenza; ed è inoltre quello di costruire e introiettare nella società medievale, specie quella aristocratica, il senso morale e sociale dell’amore fra coniugi, per una società che deve fondarsi primariamente sulla famiglia nucleare e non più sul lignaggio e sul clan. Quanto questo scopo fosse forte può essere provato dalla evoluzione del genere epico. Questa produzione più tarda mantiene certo le caratteristiche semiotiche dell’epica, come la strutturazione del testo in lasse, l’uso dalla formularità, la polarizzazione semplice dei valori in gioco, la comunicazione di tali valori attraverso un’evidenza non problematica e senza grovigli narrativi, come invece tanto spesso accade al/nel romanzo, tuttavia l’epica tarda innesta su questa base di “genere” epico, molto materiale ideologico proprio del romanzo, portando in primo piano la coniugalità e acconciando l’azione epica sul cliché dell’avventura, deprivata però della problematicità dell’esistenza, così creando dei veri e propri “romanzi familiari”: qui infatti gli eroi generano dei figli, cosa che non capita al romanzo cortese; mentre è la donna a catturare l’uomo, troppo epicamente impegnato nella guerra per poter pensare all’amore, che rimane questione esclusivamente femminile. Il romanzo mantiene comunque un legame non secondario con la scrittura e inizia, almeno inizia, ad avviarsi nel percorso che porterà all’autonomia della creazione letteraria, nonostante il forte legame che intrattiene ancora con la vocalità e con la ricezione orale; e tale autonomia si genera in quanto il romanzo è legato alla costruzione di mondi virtuali, anche laddove si carica di funzioni didattiche, allegoriche e morali: il romanzo è “vano e piacevole”, si diceva da parte dei chierici, con un 59

mal celato disprezzo, un disprezzo che rivela però il timore e l’incapacità di governare una scrittura e una produzione che loro sfuggiva. Non così l’epica che è canto del ricordo, della memoria e dell’emozione; che è storia rivissuta e nuovamente partecipata, riattualizzata nella commozione, nella concezione di un tempo immoto, ciclico e non lineare. All’epica non fa difetto un atteggiamento critico, ma la critica non è il suo senso, né il suo obiettivo primario, né la sua intenzione. L’epica ripropone il passato nella chiave del presente: non però nel senso dell’esemplarità, bensì in quello di una (ri)significazione perenne del fatto storico: di esso non si cercano cause e determinazioni; né nella storia e dalla storia si ricava un insegnamento: nell’epica la storia è un vivaio di riferimenti validi per l’attuale, è l’implicarsi del passato nell’hic et nunc, è l’attualità quale continuazione (e non conseguenza) del passato. La connessione che fa coincidere tempi diversi, il passato e il presente, è attivata per mezzo di una performance che genera il coinvolgimento partecipato dell’audience, per mezzo di un’azione drammatica. Questa la semiosi: ma non mancano all’epica né effetti di fine problematica morale né orientamenti o addirittura propaganda di tipo politico a sostegno di una causa particolare. Problemi peraltro lasciati spesso irrisolti. Anche perché non è volontà di questo genere letterario risolverli: dentro una morale condivisa si affacciano problemi specifici che non mettono però in crisi questa moralità, ma la drammatizzano e allo stesso tempo la esaltano pur nelle contraddizioni che l’esistenza contingente suscita ed implica. È da questa contraddizione che emana il fascino di questa poesia narrativa e la sua originale valenza e dimensione estetica. L’epica è immissione della storia nella vita e della vita nella storia. Tutto questo in un rituale o in uno psicodramma che aveva funzioni plurime: dallo spirito di crociata alla propaganda politica, dal rinforzo della fede, all’orgoglio di casta, al percorso “fantastico” nell’avventura e nell’azione (anche se non col senso romanzesco). Intrattenimento mirato dunque. L’epica più ancora del romanzo si propone e si fruisce, si ascolta e si recita mediante la rappresentazione e l’azione drammatica, in cui la dimensione narrativa deve condividere, almeno alla pari, il proprio spazio testuale con la dimensione dell’esaltazione e della commozione poetico-lirica: perché in tale commozione partecipativa, la comunità doveva trovare i propri vincoli e il proprio fondamento sociale e morale, che veniva sì problematizzato, ma allo stesso tempo rafforzato e confermato. Il discorso epico è dunque la riproposizione drammatizzata ed emozionale di quanto è già “storicamente” noto a tutti, nella quale l’audience 60

percepisce (o, più tardi, le vien fatto percepire) il proprio principio fondante, mentre l’emittente è il medium di una tale emozione collettiva che genera il transfert. È, tra l’altro, a partire da tali considerazioni che si comprende il prolungarsi di questo genere letterario anche quando il romanzo gli faceva concorrenza. Anzi forse quel dato ideologico che il romanzo conteneva e veicolava, pur insieme a istanze d’altro tipo e per altri orizzonti d’attesa – il “messaggio” ideologico romanzesco di una individualità soggettiva fino ad allora assente e di un nuovo modello erotico-familiare – riusciva, credo, ad essere meglio diffuso proprio attraverso il medium epico, che aveva più ampia e immediata capacità di diffusione. Il che generava il fenomeno di “commistione”, cui sopra accennavo, fra generi letterari, fra romanzo ed epica, almeno a livello tematico; commistione che, per altro, stravolgeva la semiotica tipica del romanzo. Si pensi anche, a tal proposito, al ribaltamento dei ruoli tradizionali, come quando Carlo diventa complice dei traditori della schiatta di Gano e da questi corrotto per denaro: maniera di rappresentare il reale e crescente conflitto storico fra nobiltà feudale da un lato e una regalità che si fa, almeno strategicamente, alleata della borghesia mercantile e del denaro che essa produce: che è il medesimo conflitto rappresentato nel romanzo cortese, ma in forme più sfumate e celate, mentre l’epica romanzata lo rappresenta tramite i mezzi e i modi suoi propri: la semplicità e la polarizzazione evidente a priori del positivo e del negativo, la performance drammatizzata. Ed altre commistioni l’epica ne aveva già realizzate; quanto meno col discorso agiografico: si pensi all’eroe come santo e come vittima sacrificale. Insomma la dimensione orale, è cosa ormai accertata, è il tratto distintivo primario della “letteratura medievale” e ad essa non ci si può sottrarre: pena non soltanto lo sfuggirci delle sue reali dimensioni e modalità nel generale contesto della cultura dell’età di mezzo, ma pena anche, come tante volte è successo, la non comprensione di singoli testi: penso, per esempio, al Guillaume de Dole e al Guillaume d’Angleterre, per citarne due. Nel primo, il Guillaume de Dole, la non considerazione del coté orale (oltre che di una modalità scrittoria che non conosce la punteggiatura) ha portato al fraintendimento totale di questo romanzo, perché la trasmissione appunto scritta non può tener conto dei tratti della performance, delle cadenze ironiche, dello sguardo ammiccante, del dire a mezza bocca all’ascoltatore scaltrito e scantato, dell’indiretto libero che qui non è soltanto un fatto di stile letterario, ma proprio, appunto 61

e primariamente, una modalità di eseguire la performance. Quanto al Guillaume d’Angleterre, è la commistione dei generi che ha portato alla misinterpretazione, la mistura di agiografia e di romanzo: commistione affidata soprattutto all’impasto di differenti vocalità intrise di variazioni. Grado zero della polifonia romanzesca, messa al servizio di una causa politica, a sua volta imperniata su una problematica morale: il riscatto del mercante e la sua immissione in positivo nella società. Dati, tutti questi, che solo un modo tutto moderno di percepire la letteratura, sovrapposto e proiettato su quello medievale, poteva disconoscere e non comprendere. E tuttavia la “letteratura” medievale, questa letteratura immersa nell’oralità, ci è trasmessa per iscritto, e con la scrittura dobbiamo fare i conti. Quindi se è dovere della filologia tener conto di questa dimensione vocale/orale, e tentare quindi almeno di intravedere e di restituire il contesto e la dimensione di una performance a noi schermata e celata dalla e nella scrittura, la filologia con la scrittura non può tuttavia non fare i conti: la scrittura, la trasposizione in scrittura non è solo un medium di trasmissione, una mera trascrizione, non è solo la trasposizione della dinamica mutabilità della voce nella fissità immobile di un codice. È qualcosa di più. Il fatto stesso che un testo orale venga trascritto è indice di valori storico-culturali-letterari che vanno presi in considerazione. Presuppone un programma culturale magari non sempre definito e dettagliato, ma comunque almeno intuito e prefigurato. I generi minori della letteratura medievale (saga, favola, fiaba, parabola, exemplum, indovinello, proverbio) sono – per citare ancora Jauss4 – forme semplici del discorso esemplare già elaborate letterariamente, ma che ancora non hanno superato la soglia dell’autonomia dell’arte (l’arte della parola naturalmente, l’arte letteraria): per dirla con Jolles, su cui Jauss riflette, tali forme semplici sono arte senza “ancora” essere “opere d’arte”. Hanno cioè una valenza estetica ben chiara e definita, ma non ancora una dimensione “monumentale”5. Questi generi minori, queste “forme semplici” sono formalizzate in maniera tale da rendere «possibile la tematizzazione e l’elaborazione di diverse richieste della realtà, in modo che l’uomo possa prendere sempre più distanza dalle sue sollecitazioni, sottraendosi alle necessità della prassi quotidiana». Affinché questa soglia possa essere superata, affinché si operi insomma il passaggio di tali generi minori nella sfera dell’opera 4 5

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H.R. Jauss, op. cit. A. Jolles, Einfache Formen, Halle, 1929, Darmstadt, Niemeyer, 19583.

d’arte, è necessaria quella che sempre Jauss chiama secolarizzazione e problematizzazione dei “generi” medievali. Ciò significa che questi generi minori devono prendere le distanze dalla vita pratica e dalla pratica della vita, anche se non devono certo separarsene totalmente. A partire da queste proposizioni e suggestioni jaussiane, dobbiamo dire che, finché ciò non avviene, finché cioè la parola poetica non si conquista una sfera autonoma di riflessione, finché la parola poetica non acquisisce la coscienza del rapporto fra i mezzi e i modi suoi propri e i mondi che essa stessa genera e che vanno poi a inserirsi nel pensiero e nella vita, finché insomma tutto ciò non è, non si può dire che si abbia una cosciente opera d’arte letteraria. Non che nell’esercizio effettivo della produzione “letteraria” del medioevo non si siano raggiunti dei risultati siffatti, o non si siano costruiti, attraverso la parola, mondi possibili che abbiano influito (e continuino a influire) sul comportamento e sul pensiero degli uomini, o che non si sia avuta coscienza del potere dell’arte; mancava però una sistematizzazione teorica di tutto ciò: il medioevo ha certo una retorica, ma manca di un’estetica speculativa, un’estetica dell’arte quanto meno, un’estetica non solo intuita ma pure riflessa. E manca pure di una poetica esplicita. Da qui si comprendono diversi fenomeni e aspetti che caratterizzano in grandissima parte la letteratura medievale: per esempio il fatto che in pratica ogni testo faccia manifestamente riferimento a una fonte: il che significa la ricerca di un’autorità (magari fino alla finzione di essa), di un’autorità che sostenga e giustifichi il discorso letterario; per esempio l’attività di glossa di testi preesistenti o della fonte stessa; o, per esempio ancora l’allegoresi diretta o latentemente disseminata; oppure il riuso e la rielaborazione di materiale tràdito o folclorico, sia nel senso che, ancora una volta, di tale materiale fa la glossa, sia nel senso che esso viene adattato alle esigenze specifiche della ricezione e del tempo in cui essa vive. L’artista medievale è allora, tanto spesso, latore, tramite e interprete di una parola altrui. Ma tale attività di traslazione non è mai ancillare rispetto alla parola fonte originaria. Da qui hanno origine quei fenomeni la cui esistenza, fino a non poi tanto tempo fa, nell’errata e fuorviante concezione di un medioevo primitivo ed ingenuo, non si sarebbe neppure sospettata, fenomeni che pertanto sono passati inosservati e hanno generato più di un abbaglio interpretativo e valutativo. Fenomeni che si avvicinano stranamente alla nostra modernità: e che sono non soltanto la metatestualità ma anche la metaletterarietà e lo sperimentalismo formale. Fatto che si può invece spiegare proprio con quello che è il dato basi63

lare e iniziale del procedere dell’attività letteraria, e cioè la procedura di rilettura e di rielaborazione. Negli autori più scaltri e di maggiore e profonda capacità, proprio l’attenzione impiegata nel dover rielaborare e glossare un testo preesistente mette in moto la consapevolezza di questa operazione: per cui, più d’una volta, quel che, almeno in filigrana, viene rappresentato è, insieme alla storia o al contenuto del testo, proprio questo processo di (ri)costituzione di esso, viene rappresentato proprio l’iter che riattiva un testo precedente secondo le nuove modalità e finalità di ricezione; oppure, assai celatamente ed anche con sottile seduzione, sono dette e rappresentate le “istruzioni per l’uso”, le chiavi di lettura (Marie de France, Chrétien de Troyes). Il mixing di generi letterari d’altra parte corrisponde anch’esso a una tale prospettiva pragmatica. I modi e i mezzi letterari, e dunque gli stili e i generi, sono strumenti al servizio di una comunicazione che è, di caso in caso, educativa, ideologica, morale, ludica, salvifica, (auto)critica; non vi è alcun progetto di significato intrinseco dell’arte letteraria: è appunto retorica e non poetica; o seppure una poetica può ravvisarsi, essa è intrinseca e non meditata o riflessa. E tuttavia la fusione simultanea di generi costituisce più d’una volta la consapevolezza delle capacità e del potere dell’arte della parola: si veda per esempio il Guillame de Dole, dove l’ironia a spese di un lettore “ingenuo”, rappresentato en abyme, non si districa da una “realtà” che è fabbricata dalla rappresentazione medesima attraverso una ambiguità volutamente insoluta: «c’est quoi la rose / c’est quoi, enfin, cette rose, cette chose? Est ce qu’elle existe, enfin?». O ancora, nel Bel Inconnu, una analoga voluta irrisoluzione narrativa è al servizio di una coscienza secondo la quale generi letterari diversi creano mondi virtuali diversi soddisfacendo differenti orizzonti d’attesa reciprocamente irriducibili e inconciliabili. Oppure, e al contrario, la mescolanza è il segno e la manifestazione consapevole di uno sperimentalismo non soltanto retorico ma anche sostanziale, come nel Guillaume d’Angleterre, dove la mescolanza di generi corrisponde a un’esigenza concreta di compenetrazione reciproca fra istanze politiche e sociali da un lato e istanze morali dall’altro: e ciò in quanto la revisione dell’idea/ideologia politica del reggimento e dell’ordine statuale delle classi sociali deve fondarsi su di un ordo radicato sulla sacralità, a sua volta esplicitantesi mediante modelli agiografici, per cui il re deve farsi santo senza poter rinunciare ad essere re; perché solo un re santo, fattosi immagine cristologica, può salvare e integrare la razza dannata dei mercanti: i modelli agiografici vengono così “deviati” e adattati in vista di una tale finalità di ideologia politica. O si pensi ancora al Tornoiement Antecrist di Huon 64

de Mery, dove il modello della psycomachia allegorica si impernia sulle istanze più proprie del romanzo, in quanto le attese didascalico-morali intrinseche nell’allegoresi più tradizionale, che in questo testo vengono soddisfatte e saturate, devono, allo stesso tempo, rappresentare quelle esigenze di soggettività, quei problemi esistenziali dell’individuo soggettivo che il romanzo ha sprigionate. È la lirica provenzale comunque che manifesta ed esprime oggettivamente una maggior consapevolezza delle ragioni di una “poetica”. Non è un caso se i capitoli del volume Storia delle poetiche occidentali6 dedicati al medioevo trattano o delle testimonianze prodotte in latino e della produzione della latinità medioevale, oppure della produzione lirica di Provenza. È ben noto infatti come alcune delle parole chiave della lirica d’amore occitanica si riferiscono tanto al contenuto morale-erotico quanto alla costruzione poetica, alla ricerca della “parola” che esprima questo contenuto. Penso a termini quali joi e mezura che servono il secondo a definire e a dire il primo, mentre il primo funge da generatore necessitante del secondo: la mezura è la via per poter dire l’ineffabile del joi, dell’entusiasmo, della gioia d’amore, mentre quest’ultima cerca a sua volta una parola a sua misura. E d’altronde conosciamo ben tutti le canzoni Farai un vers de dreit nient di Guglielmo IX di Poitiers e Escutaz mas no say que s’es di Raimbaut d’Aurenga, dove la creatività e, diciamo pure, la “ispirazione” stessa sono fatte oggetto di canto e soggetto di canzone. Tutto ciò senza che vengano meno le caratteristiche essenziali della letterarietà medievale: quali innanzitutto la ricezione per la via dell’oralità/auralità, e dunque la messa in scena del testo poetico, corredato e sottolineato dalla musica; il tono più o meno marcato di psicodramma; il formalismo lavorato sulla e con la variazione in un virtuosismo non certo sterile ma generatore di forme semantiche e retoriche; la gara e il dialogo reciproco e a rimando fra poeti; le allusioni, anch’esse reciproche, che generano un dibattito interno offerto alla ricezione, insieme col testo, un dibattito a cui gli ascoltatori sono chiamati più o meno implicitamente a partecipare. «La performance lirica – dice M.L. Meneghetti – viene dunque a caratterizzarsi come il momento di un rito fra uguali, un rito, cioè, nel 6

J. Bessière, E. Kushner, R. Mortier, J. Weisgerber, Histoire des poètiques, Paris, Presses Universitaires de France, 1997; trad. it., Storia delle poetiche occidentali, Roma, Meltemi, 2001, segnatamente si veda la Parte seconda «Poetiche del medioevo», sotto la direzione di D.R. Bohler, e all’interno di essa, il cap. 2 «Trovatori e trovieri» di Marie Françoise Notz, pp. 66-80.

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quale tutti i partecipanti sentono di essere protagonisti allo stesso modo e con gli stessi “diritti” all’illusione che il canto d’amore genera col suo potere evocativo», in una sorta di Io collettivo che converge in una esperienza compartita. Una ritualità che trarrebbe origine «nel rito magico primitivo, che riflette una situazione socio-economica indifferenziata»7. Questa identificazione collettiva avviene per mezzo di una performance di tipo “teatrale” – dice ancora la Meneghetti – sia pure senza scena o travestimenti, in cui «il vissuto (l’atto sociale) si confonde con l’atto rappresentato (l’atto figurativo), dal momento che l’attore – talora, magari, l’autore-attore – altri non è che uno dei membri della corte e il luogo della rappresentazione è la stessa sala in cui si svolgono tutte le manifestazioni fondamentali della vita nobiliare associata»8. Per cui non è il testo singolo che conta, né il canzoniere che ancora non esiste, ma l’in fieri di un dibattito sempre rinnovato ad ogni performance, e che rigenera lo stimolo alla presa di posizione. Ogni performance è una provocazione e una sfida che rilancia la risposta e il lavorio poetico in un fermento inquieto. Sfida e provocazione già intrinseca a quello che può dirsi l’enzima stesso di questa poesia e che consiste nel paradosso: la vera forma a-priori che plasma e nutre il trobar. Paradosso che non è solo quel più che noto paradosso erotico-cortese per cui si nega la soddisfazione relativamente a ciò che più si afferma di desiderare, ma un paradosso che anche traspone nella metafora feudale, irrealizzabile nella sua essenza, un fatto che non è sociale ma che è un dato intimo e soggettivo, come è infatti l’amore e il desiderio; parimenti però denunciando, almeno implicitamente, questa metaforica trasposizione come impossibile. E paradosso è anche la trasposizione in lingua profana di un ineffabile mistico religioso: quest’ultimo già ribaltato nel profano della poesia goliardica, viene riportato, senza cessare di essere profano, alla sua radice di provenienza, al punto di partenza, alla mistica così rivisitata e ripercorsa. Capovolgimento che si acquieterà infine e pienamente nella Beatrice dantesca, ma che per ora ama restare sul bilico dell’assurdità e dell’esibita incongruenza: ciò ha una efficacia non da poco per uno spettacolo da offrire a corte per la corte, alla quale si domanda e si sollecita un/il transfert, per il tramite di una provocata e provocatoria vertigine. Tutto ciò può dirci qualcosa sulla modernità e sulla odierna crisi della letteratura, ammesso che poi vi sia veramente questa crisi: ma comunque 7 8

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M.L. Meneghetti, Il pubblico dei Trovatori, Torino, Einaudi, 1992, pp. 62-63. Ibidem.

se ne parla. Sembrerebbe comunque certo che la letteratura abbia oggi perso quel ruolo centrale nella educazione al gusto estetico e alla sensibilità linguistica nei confronti dello stile o addirittura della grammatica stessa, nella formazione del senso morale, del senso nazionale; nella costruzione della soggettività e del giusto ed equilibrato rapporto fra io e mondo. Sembrerebbe insomma che la letteratura abbia, più in generale, perso quel ruolo di accesso all’esperienza: come infatti dice C. Ginzburg, a partire dal XVIII secolo «il romanzo fornì alla borghesia un sostituto e una riformulazione dei riti d’iniziazione – ossia, l’accesso all’esperienza in generale»; ma un ruolo altrettanto centrale, potremmo aggiungere, lo aveva, oltre che il romanzo, la poesia lirica, comunque declinata. Oggi più difficilmente potremmo dire altrettanto, e per diverse ragioni; d’altronde la letteratura è stata negli ultimi decenni oggetto di più di una contestazione, riguardo al suo diritto a una tale pretesa centralità. In primo luogo potremmo metterci la crisi del paradigma pedagogico nella sua totalità; e, in parte legato ad esso, soprattutto come causa o concausa, il fatto che la letteratura si trova concorrenziata da altri media e da altre semiotiche. Da più di ottant’anni il cinema le ha fatto una spietata concorrenza nel suo ruolo educativo-formativo, suggendo da lei molti succhi e molti generi: dall’epica al romanzo, dall’analisi psicologico soggettiva, o a quella sociale e politica. Un cinema nondimeno anch’esso oggi in crisi, a vantaggio della televisione e dei suoi svariati generi e sottogeneri nonché delle sue semiotiche, che si fanno carico di molte di quelle funzioni sociali e perfino – si scandalizzi pure chi vuole – di quelle funzioni pedagogiche che già furono della letteratura e della cinematografia. E d’altra parte la lirica nelle sue svariate dimensioni trova oggi residenza, se rivolta a un pubblico non più elitario, nella produzione musicale e cantautoriale, che ristabilisce il sinolo interrotto poesia-musica, cui oggi si aggiunge anche l’immagine in movimento dei videoclip, e che, sia pure in modi e in contesti storico culturali assai diversi, se non altro perché si trova di fronte a un audience di massa e non più a un’élite di corte, riproduce almeno alcuni di quei fenomeni che già furono della lirica medievale: la performance, lo psicodramma collettivo, la provocazione che lo genera, la citazione indiretta, l’istrionismo: fenomeni mai invero venuti meno, ma rigettati ed emarginati e quindi tenuti celati nel ghetto del folclore o della cultura popolare. Una produzione che comunque giunge, nei casi migliori almeno, a risultati che una filologia e una semiotica letteraria non potranno ignorare a lungo. Comunque, a mio avviso, sarebbe oggi impossibile un cinema senza letteratura e una televisione senza cinema e senza letteratura: e non dico letteratura come 67

deposito e tesoro sedimentato nel passato, sia pur prossimo, ma dico la letteratura come attualità e come, magari, militanza; così come sarebbe altrettanto impossibile l’odierna canzone senza la pratica e la produzione rinnovata di una poesia più tradizionalmente e “letterariamente” intesa. E comunque gli scambi fra media diversi, e fra le loro semiotiche, sono salutari per ciascuno di essi, né il meglio di queste produzioni extraletterarie può essere compreso e gustato appieno prescindendo da una previa educazione letteraria. Ma torniamo allo specifico della letteratura medioevale e alle sue affinità con quella a noi prossima, affinità che dopo Jauss non possono né devono più stupire. Alcune di queste analogie le abbiamo già evocate sopra: lo sperimentalismo, la metaletterarietà, la mescolanza dei generi, e potremmo aggiungere pure la decostruzione. Tuttavia queste similarità obiettive nascono da input, da stimoli e da molle differenti. Lo sperimentalismo medievale delle letterature volgari nasce dalla necessità di affrancarsi dall’abbraccio troppo costrittivo della letteratura latino-medievale e della cultura clericale, affrancamento che non significa tuttavia divorzio, anche se i legami tendono ad allentarsi progressivamente. Ma la necessità medesima di rivolgersi a un pubblico, anche, quando lo è, di alto rango, ma comunque illetterato, indirizza a nuove forme e a nuove maniere di catturare l’audience proprio magari per attualizzare quelle finalità che emanavano dai chierici e per farle recepire dalla ricezione illetterata: si pensi allo slittamento della narrazione agiografica verso la novella o addirittura il romanzo, e alla sua assunzione e assimilazione di materiali folclorici e pagani; o, magari, di movenze e di stilemi epici, se è vero che sono i poemetti agiografici delle origini a modellarsi sul discorso epico e non viceversa. Si pensi alla mistura di epica, folclore e romanzo allorché la “purezza” epica viene superata, nella fruizione, nei tempi nuovi, mentre non viene superata la sua semiotica e il suo ideologema. D’altra parte gli effetti di metaletterarietà nascono, già lo dicevo, non tanto da una teoresi letteraria e dalla rivendicazione dell’autonomia del letterario, come nella modernità, ma nascono ora dalla necessità effettiva di far comprendere a un lettore, di già bovariano o chisciottesco, l’intervallo frapposto fra letteratura e vita, sì da ricondurlo alla giusta ricezione e fruizione della letteratura e alla sua funzione didattica e morale; ora dalla necessità di far comprendere l’operazione di glossa che l’autore medievale compiva a partire dal testo di partenza. D’altra parte fenomeni che potremmo chiamare di decostruzione (il Guillaume de Dole di Jean Renart, o l’anonimo Atre Périlleux) ubbidiscono certo alla consapevolezza, più che alla rivendicazione, che la letteratura non è imitazione della 68

realtà, ma ha la sua autonomia e i suoi effetti, tuttavia tale decostruire non scavalca i limiti dell’amusant, del ludico, dell’ironia indubbiamente raffinata che mette in burla il credulo lettore, e si risolve in un gioco cortese. Perché seppure il romanzo medievale poteva o almeno voleva essere e fungere, come nella modernità, quale “accesso all’esperienza in generale” o quale rito di iniziazione, poteva anche capitare che il lettore, o meglio il ricettore aurale, fruisse di esso con le categorie dell’epica e dunque dell’immedesimazione emozionale negli eroi: il romanzo insomma anticipava qualcosa per cui il pubblico non era ancora maturo e pronto. Oppure, nel caso della sezione di Galvano del Conte du Graal di Chrétien de Troyes, la decostruzione dell’aventure è la specularità inversa della Bildung dell’eroe e del modello di iter morale che egli deve incarnare: in questo caso la decostruzione è l’oggetto stesso e non il mezzo della rappresentazione, oltre che modalità di un racconto parabola, in cui all’eroe eletto che si costruisce con travaglio si giustappone un eroe negativo che si decostruisce. Lo sperimentalismo moderno e contemporaneo nasce invece da motivazioni diverse, quali la riflessione sui mezzi, i fini e i modi della letteratura; o quali la coscienza del letterato moderno di essere ormai superfluo in un mondo che ha eretto a paradigma cognitivo la scienza e a finalità pragmatica l’utile economico: donde la chiusura autoriflessiva in sé dell’operare letterario, in una sorta di aristocratico sdegno del letterato che rende intransitiva la sua parola ed elitaria la sua ricezione. Queste affinità asimmetriche fra medioevo e modernità pongono allora in luce altre asimmetriche affinità; come quelle che corrono fra la produzione letteraria del medioevo, viaggiante sulle onde dell’oralità, e le odierne produzioni “a-letterarie”, di cui sopra si diceva, che hanno preso in proprio il potere sull’audience, senza la mediazione, l’autorizzazione o l’imprimatur clericale. Mentre lo sdegnoso ritrarsi del letterato e dell’artista nella torre d’avorio del suo elitarismo neo-clericale, che ha perso però tale potere, genera per reazione la necessità di forme di comunicazione più diretta e più diffusa per le nuove masse neo-illetterate. Ed allora nuove alleanze sembrano profilarsi e comunque dovrebbero essere concepite, come nel Medioevo, fra chierici e giullari. Perché i nuovi giullari non potranno disconoscere la lettera se vogliono giungere alla soglia dell’essere, mentre i nuovi chierici dovranno pur sporcarsi le mani di oralità e di nuove “medialità”, se non vogliono scomparire o restare superflui e residuali. Il coma in cui versa la letteratura, il coma in cui versa la lettera non è, io credo, irreversibile. Hablamos con ella! 69

La letteratura come realtà Paolo Maninchedda

Vorrei iniziare citando Eliot: «Il genere umano non può sopportare troppa realtà»1. È una frase dal profondo spirito medievale, ma anche intensamente moderna, giacché tutti i politologi affermano che nelle società di massa non conta l’episteme ma la doxa, non la conoscenza e la verità, ma l’opinione. Ma è sul Medioevo che dobbiamo concentrare la nostra attenzione e il riferimento inevitabilmente va a San Paolo 1 Cor 13,12: «Videmus nunc per speculum et in aenigmate tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum»2. Per dire e cogliere la verità, dunque, bisogna parlar d’altro. D’altra parte i fisici, che sono i filologi della materia, sono passati dalla concezione linguistica delle teorie scientifiche (la realtà è un insieme di enunciati determinati da un contesto finito di informazioni), alla concezione strutturale che individua due componenti fondamentali in una teoria scientifica: «le generalizzazioni simboliche (le formule, le leggi) e gli esemplari (i problemi risolti)»3. Quale medievista non sente in questi enunciati echeggiare l’impostazione medievale che affidava a complessi simboli e allegorie la spiegazione della realtà e agli exempla le istruzioni pratiche per cavarsela nella vita? Per tornare a noi, va detto che il quadro medievale non può essere eccessivamente semplificato. Perché per l’uomo del Medioevo la realtà, mai coglibile direttamente, è soprattutto quella descritta dalla Bibbia. 1 T.S. Eliot, Murder in the Cathedral, Faber, London, 1935, trad. it., Assassinio nella cattedrale, Rizzoli, Milano, 20033, pp. 114-115: «Human kind cannot bear very much reality». 2 Ora vediamo come in uno specchio e in modo confuso; allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte, allora invece conoscerò così come anch’io sono conosciuto. 3 S. Tagliagambe, Lo spazio intermedio. Rete, individuo, comunità, Milano, Università Bocconi, 2008, pp. 73-75.

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Esasperando si potrebbe dire che la realtà è la Bibbia, ma non lo è allo stesso modo per tutto il Medioevo. L’Alto Medioevo si apre con i Moralia in Job di Gregorio Magno, con la sua ossessione dell’imminenza della fine (e in verità il mondo romano stava finendo). Quegli anni e quei secoli trascorrono caratterizzati dai monaci (ii qui lugent, quelli che piangono per i peccati propri e altrui), da una visione del lavoro come condanna, da una visione dell’uomo in pena e del mondo sotto minaccia (perché la Bibbia afferma che l’uomo è, per il peccato originale, decaduto e deve fare penitenza). La guerra, il disordine, l’indigenza, sono le piaghe storiche annunciate dalle piaghe di Giobbe. La distinzione che tutti i grandi maestri della ricerca storica di questi ultimi decenni hanno insegnato – e cioè quella che individua come fattori delle trasformazioni più profonde, non solo le strutture economiche e sociali, ma anche le rappresentazioni della realtà, cioè la cultura che ha interpretato quelle strutture – non era certamente nelle coscienze medievali: l’interpretazione, mediata dalla Bibbia, era la vera realtà. A tal punto stavano così le cose che quando la realtà, con le sue tragedie, smentiva la salvezza, era la realtà a venire rimossa a favore della Parola di Dio che la spiegava. Questa rappresentazione, o sostituzione, del reale aveva nei chierici i suoi gestori e nella Chiesa il potere che la legittimava. Però, come tutti sappiamo, nel Medioevo, età per eccellenza dei vincoli di dipendenza, accadde che coll’affermarsi del feudalesimo, l’élite dei chierici si sia trovata progressivamente subordinata alle élite dei milites, al punto che, intorno al Mille, è proprio la Chiesa di Gregorio VII a riformarsi e riformare l’Europa parlando di Libertas ecclesiae. Il concetto di libertas è una potentissima interpretazione che irrompe nell’Europa, inizialmente, appunto con un marchio clericale e con un valore, come ha ben detto Le Goff, plurale: è la libertà di soggetti plurimi (quale la Chiesa) quella di cui si parla, non la libertà dei singoli4. Ciò che la Chiesa gregoriana fa, è una rivendicazione di libertà tra istituzioni, ma lo fa usando argomentazioni di cui non prevede gli sviluppi futuri, non tutti per lei favorevoli. Il primo principio enunciato dal Dictatus Papae è: «Quod Romana Ecclesia a solo Domino sit fundata»5. La Chiesa afferma di essere libera perché il suo potere è originario e non delegato e giunge ad affermarlo perché, nei secoli precedenti, il superamento dell’antica distinzione tra 4

J. Le Goff (a cura di), L’uomo medievale, Bari, Laterza, 1993, p. 38. Dictatus Papae, Gregorius VII Registrum, in J.P. Migne (a cura di), Patrologiae Latinae, voll. 1-221, Migne-Garnier, Paris, 1844-1866, vol. 148, col. 407. 5

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liberi e servi (distinzione, ricordava Cardini anni fa, ben più antica della civiltà ebraica, romana e greca di cui l’Europa cristiana era erede)6 verso quella più pratica e significativa tra milites e rustici, aveva insegnato che era libero colui che aveva il potere reale di esserlo. La distinzione moderna tra titolarità di un diritto e suo reale esercizio era inesistente nel Medioevo, a favore del solo esercizio. L’esercizio della libertà, come è noto, è stato largamente legato all’uso della spada al punto che la Chiesa, priva della spada, comincia, dopo il Mille, a far valere il tema della legittimità (titolarità) dei suoi diritti a prescindere dalla forza, in modo da proiettare l’egemonia del sacro sul terreno politico, il terreno proprio della spada. Sappiamo che la querelle sulla legittimità del potere giunge fino al 1792 e poi cambia forma e ragioni. Ciò che a noi interessa ricordare, per il momento, è che la Chiesa non si limita a contrastare l’Impero, i re e i baroni, sul terreno della legittimità del potere e della libertà (sempre da intendersi come libertà delle istituzioni), ma agisce anche per riplasmare la visione del reale che i milites possedevano e che non era, se non superficialmente, e formalmente, quella religiosa e clericale derivata dalla Bibbia. Senza entrare in questa sede nel merito dell’annoso e irrisolvibile problema delle origini dell’epica e della lirica occitanica, un dato è comunque certo: la cristianizzazione delle armi, sul tipo della Chanson de Roland, non si è mai compiuta. Se la Chiesa è in parte riuscita a cristianizzare una parte delle spade della storia dopo aver fatto nascere le spade cristiane nella letteratura, non può dirsi che allo stesso modo sia riuscita a cristianizzare la corte, joi e joven, il desiderio, il piacere. E non ci è riuscita perché l’aristocrazia delle corti, cioè delle sedi e della destinazione della poesia, prima, e dei romanzi poi, ha prodotto un orizzonte letterario ed estetico autonomo rispetto a quello clericale e lo ha fatto perché legittimata a farlo dal potere di poterlo fare, quasi che rispondesse al primo principio di un ipotetico, eppure realistico, Dictatus militum: «Quod Militia a se sit fundata». Ovviamente, per far questo, si è servita di tutti gli strumenti che il mondo monastico aveva prodotto, cambiandoli di segno. Ma il dato rilevante per ciò che trattiamo oggi, è che il mondo cortese, per essere realistico, cioè per avere una visione del reale, ha prodotto una letteratura, cioè ha spiegato se stesso per speculum. Sarà un caso, ma Auerbach nel suo Mimesis non riesce a trovare una visione realistica della realtà complessivamente intesa prima di Montaigne, prima cioè del XVI 6

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F. Cardini, Il guerriero e il cavaliere, in J. Le Goff, L’uomo medievale, cit., p.

secolo7. Anche le corti, per parlare di sé, hanno parlato d’altro, hanno fondato una letteratura capace di costituire concettualmente ed emotivamente la realtà perché ne svelava le strutture profonde. La differenza strutturale con l’approccio clericale sta nel fatto che i chierici ereditano la Bibbia e il suo prestigio, invece i re, i signori, i conti e i baroni, non possiedono un libro che li riguardi e non avendolo, giusto il dictatus militum, se lo fanno nella forma di un repertorio di testi tenuto insieme da un’unitaria visione estetica e ideologica. Tutti gli importantissimi studi fatti per dimostrare una traditio che saldamente leghi il mondo antico e quello mediolatino alla letteratura cortese dei primi tempi, riescono sì a dar conto dell’esistenza di una tradizione, ma non riescono a dimostrare che la lirica cortese e l’epica nascano necessariamente da quel repertorio, cioè sorgano come conclusioni mature e soprattutto inevitabili di quel processo. Se questo, appunto, non accade, è perché alla base c’è una rottura che consiste nel non parlare del reale parlando di Dio, dei santi, della Bibbia e dei Padri; ma nel parlarne parlando di sé, non biograficamente o realisticamente in senso moderno, ma ideologicamente, retoricamente e quindi esteticamente, cioè a partire da un modello di sé (sentito e vissuto come bello e giusto grazie ad un forte sapere retorico rubato ai rivali chierici) che viene assunto come realtà. Il cuore, dunque, del “come” la letteratura diviene realtà sta tutto nell’analizzare i fondamenti ideologici e retorici di questo processo. Qualsiasi ideologia spiega sempre il passato. L’ideologia come progetto d’azione capace di trasformare il reale orientandolo verso la perfezione razionale o etica di un’architettura concettuale, inizia con Marx. Le ideologie medievali sono spiegazioni del passato e del presente, non progetti di azione. Il ceto cavalleresco non produce l’ideologia cortese come un programma politico da realizzare, ma come legittimazione estetica e quindi etica del proprio agire. La Bibbia come chiave della realtà non viene rinnegata, ma certamente viene trasformata in una cornice molto larga di riferimento generale, direi del mondo intero, all’interno della quale, però, la corte si costruisce artisticamente es eticamente una sorta di zona franca. Il repertorio simbolico, retorico e musicale della poesia provenzale e dell’epica, ma poi anche del romanzo, diviene lo speculum nel quale la nobiltà lesse la realtà. E come era accaduto alla Chiesa, la quale da una parte aveva legitti7

E. Auerbach, Mimesis: Dargestellte Wirklichkeit in der abendlandischen Literatur, Bern, Francke, 1946, trad. it., Mimesis: il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956.

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mato la lettura giusta delle Sacre scritture e dall’altro era stata legittimata dalla giusta lettura come custode della tradizione in grado di produrla, così il mondo cortese ha prodotto la cortesia, il codice che lo legittimava e che a sua volta veniva legittimato dall’essere il codice proprio del ceto egemone. Sono circoli ermeneutici fondati non sulla forza delle loro ragioni, ma sulla forza storica e sociale dei propri interpreti. Ovviamente, anche il codice cortese per dare senso alla realtà, non parte dalla realtà, ma dalla letteratura. Se nella storia Guglielmo IX d’Aquitania imprigionò ed esiliò il vescovo Pietro II e si scontrò in diritto e in facezie col legato pontificio Giraldo, che lo invitava a separarsi dal legame adultero con la viscontessa di Chatellerault8; in poesia egli pregava Dio di poter ancora una volta tener le mani sotto il mantello dell’amata9, iscrivendo Dio nel partito di chi cerca joi e joven. Così egli rendeva normale in arte ciò che veniva dichiarato immorale in factis. Il risultato fu che nacque una nuova morale. Il mondo cortese pretese di poter desiderare, godere, gioire, perché ebbe il potere di farlo e volle poter affermare che tutto questo è giusto perché è bello, perché allieta la vita. Questo è il codice, e quindi il mondo, del potere e del piacere d’amore, ma anche del piacere di uccidere; questo è il codice del piacere dell’abbondanza, della ricchezza e delle liberalità, ma anche il mondo del saccheggio. Se Guglielmo può pregare Dio per i suoi desideri verso l’amata, Bertran de Born potrà legittimamente esaltare il gusto predatorio del saccheggio: Trompas, tabors, senheras e penos Et entresenhs e chevals blancs e niers Veirem en brieu, que.l segles sera bos, que hom tolra l’aver als usuriers e per chamis non anara saumiers jorn afiatz ni borges ses doptanza ni merchadiers qui venha de ves Franza; anz sera rics qui tolra volontiers10. 8

Cfr. R. Antonelli, Politica e volgare: Guglielmo IX, Enrico II, Federico II, in AA.VV., Seminario romanzo, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 14-17. 9 Guglielmo IX d’Aquitania, Ab la douzor del temps novel, in Vers, a cura di Mario Eusebi, Parma, Pratiche, 1995: Anqar mi lais Dieus viure tan / Q’aia mas manz sotz son mantel, vv. 23-24, p. 77. 10 Bertran de Born, Die Lieder, herausgegeben von Carl Appel, Nyemeyer, Halle, 1932; Miei sirventes vuolh far, vv. 17-24, p. 88. «Trombe, tamburi, bandiere e pennoni e insegne e cavalli bianchi e neri vedremo a breve e il tempo sarà propizio: si toglierà l’avere agli usurai e per le strade più non andrà sicura né bestia da soma né borghese

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Le Monge de Montaudon è infastidito non dall’uccidere, ma dal troppo uccidere: «Be m’enueia […] hom que vol trop autr’aucire»11. Qui sta un punto decisivo della storia della cultura europea e della storiografia medievale. È già un dato acquisito che con la nascita della letteratura volgare, in generale, e cortese in particolare, sia stato fondato un percorso per niente semplice né, forse, concluso, che vorrebbe portare a sintesi il potere delle armi e quello del sapere, come pure la purezza emotiva e spirituale dell’amore e l’ambigua e forte radice del piacere e di tutti i piaceri, unici anticipi tangibili della felicità che tutti ci auguriamo eterna. Ma come dai due temi ideologici principali, le dame e l’amore da un lato, le armi e i cavalieri dall’altro, nasca una cultura diversa da quella monastica, ancora non è stato colto a tutte le latitudini con la stessa profondità. Alcuni tratti di questo percorso, mi paiono però oggi sintetizzabili: partiamo dall’amore e dalle dame. Guglielmo IX d’Aquitania afferma un concetto dimenticato fino ai principi del Settecento: la felicità è piacere e tra il piacere, il sesso e l’amore c’è un legame fortissimo: «Ben deu cascus lo joi jauzir don es jauzens»12. Per cui dichiara, scherzosamente, ma non tanto, che i garanti delle restrizioni sessuali frapposti dalle convenzioni legali o sociali tra le libertà degli amanti, dovrebbero essere sterminati da Dio: Senher Dieus, quez es del mon capdels e reis Qui anc premiers gardet con, com non esteis? C’anc no fo mestiers ni garda c’a sidons estes sordeis13.

Bernart Marti, un trovatore attivo alla metà del XII secolo, proietta nella concretezza dei rapporti sociali questa pretesa di libertà:

senza timore né mercante che venga dalla Francia; e sarà ricco chi prenderà a piacimento». 11 Moine de Montaudon, Les poesies du Moine de Montaudon, édition critique par M.J. Routledge, Montpellier, Centre d’études occitanes de l’Université Paul Valéry, 1977; Enueg XI, v. 3. 12 Guglielmo IX d’Aquitania, Vers, cit., Pos vezem de novel florir, vv. 5-6, p. 62, «Ben deve ciascuno godere della gioia di cui gioisce». 13 Ivi, Companho, tant ai agutz d’avols conres, vv. 7-9, p. 32 «Domine Dio, che sei del mondo signore e re come mai non schiattò chi per primo pose guardia alla fica? Perché mai ci fu servizio e guardia che a madonna fosse peggiore».

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Dona es vas drut trefana De s’amor pos tres n’apana; estra lei n’i son trei mas ab son marit l’autrei un amic cortes prezant. E si plus n’i va sercant Es desleialada E puta provada14.

E non manca l’io femminile a cantare questa libertà. Scrive la Contessa de Dia: Ben volria mon cavallier Tener un ser en mos bratz nut Q’el s’en tengra per ereubut Sol qu’a lui fezes cosseiller Car plus m’en sui abellida No fetz Floris del Blancheflor: ieu l’autrei mon cor e m’amor mon sen, mos huoills e ma vida. Bels amics, avinens e bos, cora.us tenrai en mon poder? E que jagues ab vos un ser E qu’ie.us des un bais amoros! Sapchatz, gran talan n’auria Qu’ie.us tengues en luoc de marit, ab so que m’aguessetz plevit de far tot so qu’ieu volria15. 14 F. Beggiato, Il trovatore Bernat Marti, Modena, Mucchi, 1984, Bel m’es lai latz la fontana, vv. 10-18, p. 83. «Una donna è perfida nei confronti del suo amante se con il suo amore ne soddisfa tre: fuori legge sono tre, ma insieme con il marito le concedo un amico cortese e di valore. E se di più ne va cercando è senza onore e puttana provata»; trad. it., di C. Di Girolamo, I trovatori, Torino, Boringhieri, 20002, p. 81. 15 G. Sansone, La poesia dell’antica Provenza. Testi e storia dei trovatori, Parma, Guanda, 1984, Estat ai en greu cossirier, vv. 9-24, pp. 340-342. «Vorrei stringere nudo, una sera, il mio cavaliere tra le mie braccia, e che lui si sentisse felice solo che io gli facessi da cuscino, perché mi piace più di quanto a Florio piaceva Biancofiore: io gli concedo il mio cuore e il mio amore, il mio senno, i miei occhi e la mia vita. Bell’amico, gentile e valoroso, quando vi avrò in mio potere? Potessi giacere con voi una sera e darvi un bacio d’amore! Sappiate che avrei grande desiderio di avervi in luogo di

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Ovviamente a questa impostazione, fortemente legata ad una libertas che nasce da una potestas, non manca chi contrappone un tentativo, quanto si vuole moralistico, ma non stupido, di conciliazione tra amore, piacere, gioia e rapporti sociali non clandestini; chi insomma volendo coniugare ordine e felicità, cerca una libertas non prodotta da una potestas, ma da una nobilitas diffusa e condivisa. Inevitabilmente il discorso si fa politico. Si inizia con toni che oscillano tra la pedagogia della paura, la misoginia e l’invettiva contro i cornuti. Alegret valga per tutta la schiera dei moralisti: Pells maritz drutz vei tornat sec Donnei, qar l’uns l’autre consen. Qi.ll sieu con laiss’ e l’autrui pren, el fron ll’en sors un’estruma, qe lli er jase, mentre viva, parventz; e coven se q’ab l’enap ab qe.ll bec sai le cogos, beva lai le sufrentz16.

Il risultato dello scontro fu che dal numero degli amanti si passò a parlare del valore dell’amante e alla domanda, politicamente rilevante, se una donna che ami un ricco o un povero si pregi col ricco e si spregi col povero, domanda che Giraut de Bornelh gira forse al giovane re Alfonso II d’Aragona, nel 1170. Giraut dice che una donna che ami un re o un imperatore sbaglia, perché i potenti cercano solo il piacere e non l’amore; viceversa, colui che ama le grandi dame pensa che la condizione dell’amante sincero valga più del giacere17. Al di là delle menzogne, è chiaro che il discorso sta scivolando verso il tema del chi sia realmente marito, a condizione che mi promettiate di fare tutto ciò che io vorrei»; trad. it., di C. Di Girolamo, I trovatori, cit., p. 45. 16 R. Viel, Per l’edizione critica di Alegret: nodi stilistici e intertestuali, in «Critica del testo», VIII/3 (2005), pp. 803-839; Ara pareisson ll’aubre sec, vv. 43-49, «A causa dei mariti-amanti vedo rinsecchirsi, / Galanteria, perché l’uno è d’accordo con l’altro: / a chi lascia la sua vagina per prendere quella altrui / spunta sulla fronte un bitorzolo / che gli rimarrà, finché vivrà, ben in vista; / e ben si conviene che nella stessa coppa dove ha messo il becco / il cornuto, beva anche chi lo ha sopportato»; trad. it., di C. Di Girolamo, I trovatori, cit., p. 80. 17 A. Pillet, Bibliographie der Troubadours, Erganzt, Weitergefuhrt und Herausg. von Henry Carstens, Halle, Niemeyer, 1933, 242.22; C. Di Girolamo, I trovatori, cit., pp. 91-93. «Si.m sal Deus, senher, me pareis / de domna qu’enten en valer / que ja no.n falha per aver / ni de rei ni d’emperador /no.n fassa ja son amador; so m’es vis, ni no l’a mester, / car vos, ric ome sobranser, / no.n voletz mas lo jauzimen».

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nobile e del che cosa sia realmente la nobiltà18. Certo c’è quella dei lombi, ma la letteratura, che con i trovatori ha iniziato parlando d’amore e di piacere, ha poi proseguito col voler descrivere che cosa sia realmente nobile e chi sia l’uomo giusto e valoroso; lentamente i lombi sono andati in ombra. La letteratura cominciò a discutere su quale fosse il migliore dei baroni, se quello che meglio combatteva o quello che più donava o che più era esperto e potente; la letteratura riprese a dire agli uomini come diventare uomini veramente e lo fece, in nome della propria potestas di dare senso e rifare la realtà. La sovranità del senso del reale fu sottratta sia ai chierici che ai prìncipi della realtà. Vi è un passo di Gramsci che illumina perfettamente quanto la cultura, ossia l’intelligenza del reale, sia capace di innovare i percorsi della storia, purché rispetti il suo dovere di esprimere un giudizio sul proprio tempo e non solo e non tanto di rappresentarne la struttura. Dopo aver contestato la teoria fatalistica di quei gruppi che giustificano ogni comportamento umano e ogni espressione artistica e culturale come prodotti inevitabili della struttura dei rapporti economici e politici, Gramsci ricorda che «la storia invece è una continua lotta di individui e di gruppi per cambiare ciò che esiste in ogni momento dato, ma perché la lotta sia efficiente questi individui e gruppi dovranno sentirsi superiori all’esistente, educatori della società»19. Al termine del percorso, diciamo all’altezza di Petrarca e con una parentesi importante come Dante, di cui per ragioni di spazio non posso parlare, la libertas laicorum innescata dalla libertas militum strappa ai chierici i temi della felicità, del desiderio, dell’amore e del piacere e ci costruisce sopra la sfera dell’interiorità, una zona franca dall’autorità; come pure sottrae ai chierici, ma con molta più fatica la sfera della socialità, della concordia civile e dell’ordine, temi che la Chiesa difende come propri ma sotto la cifra del precetto e dell’utopia, mentre i laici li trattano sotto l’egida dell’autonomia conquistata dai poeti di ragionar del mondo come esperti dall’interno del mondo. Può tracciarsi un percorso analogo per l’altra libertas, tipicamente aristocratica, che seppe proteggere la nascita della poesia cortese e della cultura laica, cioè la libertà di rubare, di uccidere, di saccheggiare, di vendicarsi dei nemici, di muover guerra agli avversari? Non è una domanda banale se a distanza di seicento anni dall’età 18

Sull’origine del dibattito sulla nobiltà di sangue e d’animo cfr. L. Lazzerini, Letteratura medievale in lingua d’oc, Modena, Mucchi, 2001, p. 104 ss., in particolare nota 46, p. 105. 19 A. Gramsci, Quaderni dal carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1878.

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trobadorica Alexis de Toqueville scriveva: «Dans tout ce que nous nommons les institutions germaines, je suis donc tenté de ne voir que des habitudes de barbares, et des opinions de sauvages dans ce que nous appelons les idées féodales»20. Questa violenza rivestita di sacralità nelle crociate o di valore nei tornei, trovò una composizione letteraria tale da fondarla su nuove basi? A me pare che il maggior risultato della Chiesa e, dopo, dei trovatori moralisti e dello stesso maestro del romanzo cortese, Chrétien, sia stata ciò che Andrea Fassò ha chiamato “la civilizzazione del guerriero”21 nel titolo di uno dei suoi studi, ora raccolti in volume, e dei quali approfitto per le citazioni che seguono. I cavalieri erano l’ipostasi della contraddizione e lo sapevano: campioni del disordine e della violenza, erano gli unici a cui ci si potesse appellare per mettere ordine; campioni del saccheggio e dello stupro, venivano richiesti nelle corti di essere generosi, cortesi e leali amanti. Campioni di forza e di ardimento, avevano anche necessità di intelletto, di astuzia e di saggezza, come esemplarmente insegna la coppia Roland – Olivier. Per Chrétien, Lancelot era Cil cui Amors fet riche Et puissant et hardi partot22.

Siamo già a una sintesi di equilibrio, già raccomandata dal campione dei moralisti, Marcabru, che affermava: De cortesia .s pot vanar Qui sap mesura esgardar23.

20 Alexis de Toqueville, De la démocratie en Amérique, Paris, Gosselin, vol. 2, p. 150, cit. in epigrafe da Andrea Fassò, Gioie cavalleresche. Barbarie e civiltà fra epica e lirica medievale, Roma, Carocci, 2005. 21 A. Fassò, Gioie cavalleresche, cit., Marcabru e la civilizzazione del guerriero, pp. 155-174. 22 Chrétien de Troyes, Le chevalier de la charrete, a cura di Mario Roques, Paris, Champion, 1958, vv. 630-631, cit. in A. Fassò, Gioie cavalleresche, cit., La cortesia di Dante, p. 184, «Colui che Amore rende ricco, potente e ardito in sommo grado». 23 Marcabru, Poésies complètes du troubadour Marcabru, éd. par Jean Marie Lucien Dejeanne, Toulouse, Privat, 1909, Di cortesemen vuoill comensar, XV, vv. 13-18; cit. da Andrea Fassò, Gioie cavalleresche, cit., Marcabru e la civilizzazione del guerriero, p. 155, «Di cortesia può vantarsi chi ben sa serbar misura».

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La censura non è sulla violenza, ma sul sapere che la governa. La Chiesa ha avuto, come è noto, un ruolo preminente nell’istituzionalizzazione della forza. “Misura” è certamente una virtù individuale, ma dai forti contenuti sociali, perché è richiesta soprattutto al signore per garantire l’ordine. Essa si configura come la madre del principio che, negli stati moderni, riserva allo Stato l’utilizzo della forza secondo regole condivise e non secondo l’arbitrio di chi governa. È da questo punto di partenza che le virtù del cavaliere progressivamente divengono quelle del signore che deve governare ed essere sapiente, forte, non avido ma generoso. La Vida di Albert Marques (Alberto Malaspina) è un perfetto programma ideologico: «Albertz Marques si fo dels marques Malaspina. Valenz hom fo e larcs e cortes e enseignatz» 24. Dante dirà dei Malaspina: e io vi giuro, s’io di sopra vado che vostra gente onrata non si sfregia del pregio de la borsa e de la spada (Purgatorio, VIII, 127-129).

Dall’urgenza di governare la violenza si è giunti, dunque, a produrre un’etica e un sapere del governo che è anche un’etica civile, è cortesia. Dante nel De vulgari eloquentia cristallizza il concetto nella celebre formula: «Est etiam merito curiale dicendum, quia curialitas nihil aliud est quam librata regula eorum quae peragenda sunt». Que peragenda sunt è un’etica di governo, non un galateo ante litteram, ma proprio Dante esplicita come quest’auspicata etica dei signori potenti diviene, per tramite letterario, etica di tutti i liberi: «Et quia statera huiusmodi liberationis tantum in excellentissimis curiis esse solet, hinc est quod quicquid in actibus nostris bene libratum est, curiale dicatur»25. 24

J. Boutiere et A.H. Schutz (éd. par), Biographies des troubadours: textes provencaux des 13ème et 14ème siècles, éd. refondue par Jean Boutiere avec la collaboration d’I.M. Cluzel, Paris, Nizet, 1964; cit. da Andrea Fassò, Gioie cavalleresche, cit., La cortesia di Dante, p. 185, «Il marchese Laberto fu dei marchesi Malaspina. Fu uomo di valore, generoso, cortese e istruito». 25 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P.V. Mengaldo, in Dante Alighieri, Opere minori, t. II, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, pp. 3-237, I xviii 4-5, «Infine è bene definito cortese (il volgare), perché la cortesia non è altro che una norma ponderata delle azioni da compiere; e siccome la bilancia capace di questo genere di

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Una volta che la letteratura fonda principi educativi, pubblici e privati, di questa portata, essa non è più lo specchio della realtà (se mai lo è stata, e personalmente credo non lo sia mai), è semmai l’introduzione totale alla realtà. Così è accaduto all’etica cortese, nata per incivilire nobili ladroni e tramutata a fondamento dei valori civili su cui si basa una parte della civiltà europea. Come i poeti riescano poi ad imporsi come coloro qui dicunt quae peragenda sunt è un’altra storia, perché è storia dell’estetica e della retorica, la recta ratio factibilium: oggi lasciamo la scena solo ai nostri violenti e selvaggi cavalieri dai cui vezzi è nata un pezzo della nostra libertà.

soluzioni si trova ordinariamente solo nelle corti più eccelse, ne consegue che tutto ciò che nelle nostre azioni è ben ponderato, può dirsi cortese».

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La mule sans frein tra percorsi mitici e ricerca della verità Patrizia Serra

Breve roman del cosiddetto “ciclo di Galvano”, La mule sans frein, tradizionalmente accostato dalla critica a Le Chevalier à l’épée, che lo precede nell’unico testimone che entrambi tramandano, ha finora dovuto ingiustamente scontare il suo status – forse semplicemente dovuto agli “accidenti” della tradizione manoscritta – di testo “parallelo”, se non addirittura “gemello”, del ben più prosaico Chevalier. Tale contiguità, a dire il vero più “fisica”, “materiale” e, aggiungo, “casuale” piuttosto che ideale, ha portato all’inscrizione dei due romans in un unico orizzonte critico-interpretativo. Se già Gabriele Frasca ha sottolineato il ruolo determinante che il supporto fisico, materiale, di un testo riveste per la tipologia del testo stesso1, va posto in evidenza come tale influenza possa estendersi anche all’ambito della riflessione critica, che tende in questo caso ad omologare due produzioni testuali in verità assai disomogenee, in virtù del dato contingente che le consegna alla tradizione di seguito nello stesso volume, pur essendo ben noto il carattere di “supporto” del volumen medioevale rispetto a composizioni dalle tipologie più disparate. Dunque la nostra abitudine alla lettura “in successione”, applicata anche a produzioni medioevali la cui collocazione probabilmente non rispondeva a qualche esigenza particolare, ha finora indotto ad interpretare due romans autonomi destinati a performance del tutto differenti, come due capitoli dello stesso, ideale, “romanzo di Galvano”. È necessario invece interrogarsi su quale funzione ciascuno di questi due brevi romans dovesse rivestire per il proprio pubblico, e soprattutto tenere conto dell’aspetto performativo che non solo caratterizzava ma addirittura determinava la pratica della loro scrittura, dal momento che, 1

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G. Frasca, La lettera che muore, Roma, Meltemi, 2005, p. 11.

per citare Paul Zumthor, il discorso va a tessere delle trame che, intrecciandosi, «disegnano un geroglifico sempre incompleto, di cui solo il tono della voce, il gesto, lo scenario completano il disegno durante la performance»2. Dunque da un lato il linguaggio e le modalità espressive, ma dall’altro anche la simbologia utilizzata e i meccanismi della narrazione, devono essere immediatamente riconoscibili come appartenenti «ad una tradizione nota»3, sia essa la tradizione scritta precedente o la consuetudine legata alle trasmissioni orali. Se Zumthor utilizza la significativa espressione di «glossa mobile»4 – che si riferisce appunto a questa circolazione, continua e sempre mutevole, tra il singolo testo e quanto lo circonda – è proprio la ricostruzione di tale “glossa” che, a prescindere dalle apparenti affinità e connessioni che legano La Mule e Le Chevalier, può contribuire a invalidare la stretta relazione finora arbitrariamente istituita tra i due romanzi. Tale relazione, appunto più postulata che dimostrata5, ha condotto spesso all’assimilazione di un percorso narrativo dotato di una notevole pregnanza semantica – qual è appunto quello della Mule6 – ai clichés più 2 P. Zumthor, La lettre et la voix. De la «littérature» médiévale, Paris, Editions du Seuil, 1987, trad. it., La lettera e la voce, Bologna, il Mulino, 1990, p. 292. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 293. 5 L’istituzione di tale rapporto si è fondata principalmente sull’ipotesi attributiva comune formulata dai primi editori. Sulla questione della paternità dei due romans, ritenuti in passato, da una parte della critica, opera di Chrétien de Troyes, cfr. D.D.R. Owen, Paien de Maisières. A Joke That Went Wrong, «Forum for Modern Language Studies», II (1966), pp. 192-196; D.D.R. Owen, Two more Romances by Chrétien de Troyes?, «Romania», XCII (1971), pp. 246-260; l’Introduzione all’edizione di R.C. Johnston e D.D.R. Owen, Two Old French Gauvain Romances, Edinburgh-London, Scottish Academic Press, 1972, pp. 1-26; S. Bianchini, Due brevi romanzi di Chrétien de Troyes?, «Cultura Neolatina», XXXIII (1973), pp. 55-68; R.C. Johnston, The Authorship of the Chevalier à l’épée and the Mule sans Frein, «The Modern Language Review», LXXIII (1978), pp. 496-498; L. Jillings, The Rival Sisters dispute in Diu Crône and its French Antecedents, in An Arthurian Tapestry. Essays in Memory of Lewis Thorpe, a cura di K. Varty, Glasgow, University of Glasgow, 1981, pp. 248-259; C.E. Pickford, The Good Name of Chrétien de Troyes, pp. 389-401; H.F. Williams, The Authorship of Two Arthurian Romances, «The French Review», LXI (1987), pp. 163-169. 6 Ecco in breve i punti salienti dell’intreccio: alla corte di Artù, riunita il giorno di Pentecoste, si presenta una misteriosa damigella che cavalca una mula; ella si è recata a corte per domandare al re e ai suoi cavalieri di recuperare per lei una briglia che le è stata sottratta; in cambio la damigella promette, per il cavaliere che condurrà a termine tale impresa, non solo il bacio ma anche un’allettante “autre chose”, peraltro non meglio definita. L’impresa viene allora tentata da Keu, il malvagio siniscalco, che, salito immediatamente sul dorso della mula, viene condotto prima in una foresta popolata da fiere, poi in una valle piena di scorpioni e serpenti, finché giunge ad un fiume nero e impetuoso, attraversato da una strettissima trave di ferro. Keu, terrorizzato da questo

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triti del “ciclo galvaniano”, che mirerebbero, come è noto, ad una sorta di “decostruzione” ironica e parodica del personaggio di Galvano7. Questa condivisione di sorti tra i due romanzi, sia nella prospettiva critica che in passato li riteneva appunto opere dello stesso autore, sia nella forzata inscrizione in una sorta di disegno di demitizzazione di Galvano – “sole della cavalleria” ormai giunto al tramonto –, ha portato ad una svalutazione del ruolo rivestito dall’eroe nella Mule e ad una lettura banalizzante dell’epilogo – in realtà vera e propria chiave di volta per comprendere l’architettura narrativa del testo – incentrato sulla mancata “ricompensa amorosa” concessa dalla misteriosa damoisele ad un irreprensibile Galvano. E in questa “irreprensibilità”, che non si può certamente, in questo percorso narrativo, non attribuire al protagonista, va individuata la prima ostacolo, preferisce rinunciare e ritornare a corte. Ritenta allora la medesima impresa il valoroso Galvano che, dopo aver brillantemente superato tutti gli ostacoli, compreso il fiume, giunge ad un castello, circondato da una palizzata terrificante: in ogni palo, ad esclusione dell’ultimo, è confitta la testa di un cavaliere. Il castello inoltre gira vorticosamente su se stesso per cui risulta impossibile penetrare all’interno. Galvano tuttavia sprona la mula che riesce a centrare l’apertura ma ci rimette l’estremità della coda. Seguono l’incontro con un nano e con un villano, quest’ultimo moro e con connotazioni diaboliche. Galvano deve poi sottomettersi ad uno strano jeu parti: accetta di tagliare subito la testa al villano ma deve promettere che l’indomani si farà decapitare a sua volta. Dopo la decapitazione però, il villano raccoglie la propria testa e la riattacca al collo, per cui Galvano è costretto a sottomettersi allo stesso “gioco”. Per non tradire la parola data, l’eroe si offre comunque come vittima al villano, ma viene inaspettatamente graziato in virtù dell’eroismo di cui ha dato prova. Dopo altre avventure, avviene l’incontro con la misteriosa sorella della damigella, che è la signora del castello, nonché colei che detiene il freno che è stato sottratto. La dama offre all’eroe prima un lauto pasto, e poi se stessa assieme alla signoria sul castello. Galvano rifiuta le profferte della dama e ottiene comunque il freno perduto. Tornato a corte rende la briglia alla prima damigella che, dopo aver ribadito la promessa iniziale, inaspettatamente va via dalla corte, da sola. 7 Emblematico, in questa prospettiva, l’articolo di L. Morin, Étude du personnage de Gauvain dans six récits médiévaux, «Le Moyen Âge: revue d’historie et de philologie», C, 3-4 (1994), pp. 333-351, che rileva unicamente le “incongruenze” che paiono caratterizzare il tessuto narrativo della Mule, quali l’esagerato dolore della damoisele per la perdita subita (p. 336) o l’assoluta sproporzione tra l’oggetto della quête di Galvano, il freno appunto, e la difficoltà delle imprese compiute dall’eroe: «Malgré la médiocrité de l’objet de la quête, Gauvain joue son rôle avec un sérieux inébranlable, ce qui met en doute la qualité de son jugement. Les actions qu’il accomplit paraissent exorbitantes en regard de la faiblesse des manipulations, d’autant que le narrateur met beaucoup de soin à souligner la difficulté des prouesses réalisées par Gauvain. De même, un écart se dessine entre l’importance de la phase de la compétence, où s’inscrivent les exploits de Gauvain, et la petitesse de la performance principale: l’obtention du frein. Ces décalages prêtent au récit des allures de fabliau et font de Gauvain un personnage entaché de ridicule» (pp. 336-337).

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fondamentale differenza tra il perfetto cavaliere della Mule e lo stereotipato e vacuo dandy della tradizione anti-galvaniana: il Galvano della Mule è infatti nuovamente un eroe nel senso tradizionale del termine, che pare riscattare, con la dignità della propria impresa, le “voci malevole” che certi romans – si pensi appunto al malizioso Chevalier à l’épée – facevano circolare sul suo conto. Tuttavia, l’inatteso finale del roman, anche secondo la critica più recente, mirerebbe unicamente a ridicolizzare Galvano8, sia per la sproporzione esistente fin dall’inizio tra l’oggetto della queste e le imprese affrontate, sia per il fatto che l’eroe non ottiene l’autre chose, ovvero la ricompensa erotica che la dama avrebbe promesso. Tale lettura risulta chiaramente falsata dalla diffusa tendenza a interpretare anacronisticamente il romanzo medioevale mediante le categorie che, nell’accezione moderna, vanno a identificare “ciò che per noi è letterario”, ovvero fanno coincidere la creazione artistico-letteraria con quel solo tipo di produzione che ha in sé il proprio fine, e che va a costituire una realtà autonoma, spesso irrelata rispetto al mondo reale. Tale lettura risulta invece banalizzante e riduttiva se applicata a questo tipo di produzione poetica medioevale, da intendersi come aspetto di una “cultura di massa”9, e che verrebbe invece oggi ascritta, a dispetto della sua appartenenza al genere “romanzo”, alle categorie oggi non più “letterarie” del didattico-moraleggiante, dell’edificante, di ciò che dunque trova 8 L’equivoco nasce assieme all’edizione del 1974 di R.C. Johnston e D.D.R. Owen, Two Old French Gauvain Romances, cit., che pongono l’accento sul tono “burlesco” dei due componimenti. Riserve su tale interpretazione vengono però mosse già in una recensione alla stessa edizione da parte di J.A. Burrow, «Medium Aevum», XLIII (1974), pp. 168-172: «I do not think that Johnston and Owen succeed very well in isolating a ‘burlesque’ tone in their text. […] they rely too much on relating the queer things that go on in the old poems in a flat academic prose which automatically makes them sound funny» (p. 170). Tuttavia la linea interpretativa della Mule in chiave esclusivamente parodica continua ad essere la più seguita; si veda in proposito L. Morin, op. cit., p. 337: «Le comportement du héros, dicté par l’idéal courtois, ne traduit aucun souci de discernement et paraît un peu saugrenu dans le contexte: Gauvain agit comme un pur automate dressé pour le service des demoiselles en détresse». Su posizioni analoghe anche N.J. Lacy, Chivalry in Le Chevalier à l’épée and La Mule sans frein, «Vox Romanica», XLV (1986), pp. 150-156, che pone l’accento sul «costancy motif»: Galvano si impegnerebbe infatti con particolare costanza in una queste totalmente futile, ed enfatizzata con intenti comico-parodistici. L’ironia della Mule – e in generale la svalutazione della cavalleria – risiederebbe appunto nel fatto che Galvano compie una missione messianica senza averne la minima coscienza, pur assumendo qui il ruolo di cavaliere fedele e ligio al proprio compito immediato. 9 Cfr. G. Frasca, op. cit., p. 10.

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fuori di sé la ragione e il fine del suo esistere e del suo riflettere la realtà. Dunque un iter narrativo, come quello della Mule, che pare uniformarsi ai clichés più usurati del romanzo arturiano – nel suo proporre l’ennesima e apparentemente immotivata queste del cavaliere – verrebbe, in tale riduttiva interpretazione, privato del suo tessuto di rinvii a quella realtà, tutta spirituale e trascendente, che esso cerca di riflettere attraverso l’uso, non poetico e arbitrario, ma significativo e rivelatorio dell’allegoresi, intesa appunto non come mera tecnica compositiva, ma come scoperta del linguaggio divino sotteso alle cose; il testo della Mule verrebbe quindi privato della sua “glossa mobile”, in questo caso particolare, costituita e determinata da immagini e simboli in cui le relazioni di significato sono preesistenti e radicate nella cultura coeva. E se il roman è appunto quel genere che «procede a un’iniziazione critica del suo ascoltatore, che lo coinvolge in una ricerca di senso, in un’inchiesta»10 è in questa direzione che vanno ricercati i segnali che aiutano alla ricostruzione del senso, sotteso, ma continuamente offerto alla lettura. Se dunque il Galvano della Mule è un eroe tout-court, ben lontano dal vacuo e inconcludente protagonista del Chevalier à l’épée, egli dovrà muoversi all’interno di una degna dimensione narrativa, in cui sarà proprio la pregnanza semantica dei topoi evocati a chiarire il valore paradigmatico dell’impresa. Niente di meglio allora di quello che, alla luce del ricchissimo saggio di Carlo Donà11, può essere definito un «canovaccio narrativo fisso e rigorosamente tradizionale»12, costruito appunto sull’associazione tra il mitico tema del viaggio nell’Oltremondo, difeso da “porte” precluse all’uomo comune, e quello dell’animale-guida che, a prezzo della perdita della propria coda, conduce l’eroe oltre la soglia oltremondana13. Notevole dunque, nella Mule, la ripresa di motivi desunti dal patrimonio mitico-folklorico: il tema del viaggio oltremondano, costellato da insidie e pericoli, intrapreso dall’eroe per conquistare un oggetto magico ivi custodito, risale già al mito degli Argonauti14, così come il motivo delle porte che precludono l’accesso all’Altro mondo15 – nella 10

P. Zumthor, op. cit., p. 362. C. Donà, Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del viaggio, Soveria Mannelli (Catanzaro), Rubbettino, 2003, pp. 220-226. 12 Ivi, p. 224. 13 Ibidem. 14 Ivi, p. 218. 15 «L’immagine delle porte cozzanti che chiudono l’accesso a un mondo proibito non appartiene esclusivamente al mito greco, ma, al pari di alcuni grandi temi, quali il diluvio, il furto del fuoco o l’invenzione della morte, affiora con una straordinaria 11

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variante del “castello girevole”16 offerta dalla Mule – rinvia ancora alle “rupi cianee” varcate da Giasone, a rischio della propria vita. L’ingresso nell’Altro mondo non può inoltre avvenire senza danno: il tributo da pagare consiste nel cosiddetto «sacrificio dell’ultima parte»17 a cui non può sottrarsi nemmeno la mule, che vede appunto tranciato, nel fulmineo momento del passaggio, un pezzo della propria coda. Ma se è vero che la letteratura, e ancora di più quella medievale, nasce dall’incontro fra tradizione e innovazione, fra ri-uso e risignificazione, è pur vero che tale canovaccio, mitico e tradizionale, è percorso da trame che ne rivitalizzano e sostanziano il senso, e che solo da tale intreccio ha origine il tessuto, e cioè, in ultima analisi, il vero significato del testo. Resta dunque da chiedersi a quali finalità risponda la scelta di uno scenario mitico così pregnante di significati, ma soprattutto quale valore allegorico rivesta l’iter percorso da Galvano, ma prima ancora da Keu, o il recupero della briglia, o ancora l’inserimento del motivo della specularità, mediante il personaggio della “sorella-rivale” della protagonista. Appare comunque evidente che la missione salvifica affidata a Galvano non possa ridursi al semplice recupero di un oggetto, un freno appunto, seppur dotato di un qualche imprecisato potere magico, e che la misteriosa damoisele che irrompe a corte, pur nel suggerire la sua probabile connessione con il mondo feerico, non assolva alla mera funzione di deludere le aspettative dell’eroe – e quindi di “ridicolizzarlo” – mediante il proprio allontanamento, tanto inatteso quanto apparentemente immotivato, dalla corte arturiana. stabilità di tratti nelle tradizioni di moltissimi popoli diversi, rivelandosi con ciò parte del più antico patrimonio mitico dell’umanità. La forma e l’aspetto di queste porte perigliose mutano incessantemente. Possono apparire come rocce che si scontrano, come fauci, come tagliole, come foglie o canne affilate, e assumere ancora altre forme strane e bizzarre, ma comunque mantengono inalterata sia la loro fondamentale funzione di porte dell’altro mondo, sia la meccanica del loro funzionamento: comunque, avvicinandosi di scatto l’una all’altra, schiacciano o tagliano in due chi tenta di superarle». Ivi, p. 219. 16 «Sebbene il contesto sia relativamente razionalizzato rispetto a quello del mito classico o della fiaba tahur, e un castello prenda il posto della favolosa Colchide o dell’occidente non meno favoloso verso cui si dirige il cacciatore Ku Chu Ni, è chiaro che il racconto medievale [La Mule] conserva una schietta ambientazione oltremondana: non per nulla il castello è un castello girevole, e quindi una dimora uranica, un castello cosmico; è circondato dalle solite barriere terrifiche che compaiono nei viaggi verso il tartaro, la valle piena di fiere mostruose e la palizzata di teste, ed è preceduto da un pons subtilis, quel “ponte delle anime” che, dagli antichi miti persiani ai Dialogi di Gregorio Magno e al Lancelot di Chrétien de Troyes, è rimasto una delle più riconoscibili costanti del viaggio oltremondano». Ivi, p. 222. 17 Ivi, pp. 223-226.

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Se dunque, all’interno del già citato “canovaccio mitico” vengono introdotte variazioni significative, è proprio in tali “scarti” rispetto ai tradizionali clichés narrativi, che va ricercata la chiave interpretativa dell’intero romanzo; non può sfuggire allora la prima macroscopica variazione: appunto quel misterioso finale che non soddisfa certo le attese del lettore, quell’happy end mancato – che oblitera il suo corrispettivo mitico della “conquista della principessa oltremondana”18 – e che inaspettatamente, proprio nei versi finali, anziché chiarire il senso lo fa avvolgere su se stesso, lo complica ma al tempo stesso lo rilancia in direzione di una rilettura di metafore e simboli disseminati nella rappresentazione testuale, forse sfuggiti al “lettore comune”. Il valore iniziatico dell’iter galvaniano si chiarisce immediatamente grazie al parallelismo istituito dal narratore tra l’impresa fallimentare di Keu e la reduplicazione e il compimento che di essa solo Galvano può realizzare: parallelismo che si configura come marcata opposizione tra Keu, l’indegno, e Galvano, l’eletto, e che non trova la sua unica giustificazione nella pessima fama che la tradizione letteraria ha quasi sempre attribuito al siniscalco. Il Viaggio oltremondano, le prove iniziatiche che coinvolgono anche potenze demoniache, la prova suprema del “pons subtilis” che solo l’anima eletta può attraversare, nel loro rinvio all’esperienza dell’iniziazione sciamanica19, proiettano sulla vicenda di Galvano la propria valenza escatologica. Vicenda esemplare dunque, che innesta su un tessuto narrativo già consolidato dalla tradizione precedente una riflessione sul percorso che conduce l’anima a Dio, attraverso l’abile commistione di elementi desunti dalla tradizione mitica e stimoli provenienti dalla coeva riflessione cristiana sui temi del peccato e della salvazione delle anime. E infatti, in modo inequivocabile, così come l’impresa di Galvano appare destinata, fin dall’inizio, al successo, quella di Keu, marcata dalla bramosia di gloria e dalla lussuria, porta in sé i germi del proprio fallimento: A cest mot s’est Keus avant tres Et dit qu’il ira lo frain querre, Ja n’iert en si estrange terre. Mes il vialt qu’ele lou besast 18

Ivi, p. 218. Cfr. M. Mancini, Chrétien de Troyes e il romanzo, in M. Mancini (a cura di), La letteratura francese medioevale, Bologna, il Mulino, 1997, p. 175 e ss. 19

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Primes ançois qu’il i alast, Et baisier la vost maintenant. “Ha”, sire, fet el, “jusq’a tant Que lou freinc aiez, lo beisier Ne vos voil je mie otroier; Mes quant li frains sera renduz, Lors vos iert li chastiaus renduz Et li baisiers et l’autre chose”. (vv. 96-107)

La negazione del bacio, che Keu va prontamente ad esigere, pare tuttavia compensata da una promessa ben più allettante: l’autre chose (v. 107), alla quale la damoisele accenna con voluta ambiguità è dunque, per Keu, come per i lettori, una maliziosa allusione a quella ricompensa erotica che saprà ben gratificare l’eroe vittorioso. Ma proprio sull’equivoco innescato da tali parole si gioca il fallimento del siniscalco; se il soddisfacimento del desiderio diviene l’unico movente per le proprie azioni – così come la premura di Keu di partire per l’impresa tradisce palesemente20 – il recupero del freno sarà impossibile: La pucele remest plorant Por ce que bien voit, et creant, Que de son frainc ne ravra mie A ceste foiz, que que il die, Qui a l’aler desor la mure Qui s’en vet courant l’anbleüre. (vv. 121-125).

L’errore fondamentale del siniscalco consiste dunque nell’interpretazione meramente superficiale dei segnali che ne costellano il cammino, nella stolta incapacità di cogliere i rapporti tra tali segni e quelle verità di fede alle quali essi rinviano: in sostanza, nel misconoscere il valore esemplare della missione che si accinge frettolosamente ad intraprendere. Non a caso, se le tappe del viaggio di Keu ripercorrono gli scenari topici della visione oltremondana21, chiarendo in questo modo l’alta di20

Cfr. vv. 112-120. La foresta popolata da fiere (vv. 129-159), la valle tenebrosa, maleodorante e percorsa da venti gelidi, abitata da scorpioni e serpenti che gettano fuoco (vv. 168-207), la sosta in una pianura verdeggiante presso le acque di una fonte (vv. 214-226), il fiume 21

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gnità dell’impresa da compiere, gli atti di omaggio delle fiere escludono esplicitamente colui che, indegnamente appunto, cavalca la mula: Mes les bestes, par conoissance De la dame et par enorance De la mule que eles voient, Les deus genouz a terre ploient: Ensi por l’anor de la dame S’agenoilloient de la jame, Et por ce a seür se tienent Qu’en la forest gisent et vienent. (vv. 147-154)

Se, dinanzi a Keu, l’atto di omaggio delle fiere, che rivelano qui una chiara funzione oracolare, si rivolge unicamente all’animale-guida e alla dame assente, intese qui nella loro dimensione allegorica, esso investirà invece anche Galvano, con nuova senefiance, nella reduplicazione del viaggio: Tot maintenant que il revoient La mul[e] que il conoissoient, Les deus genouz a terre plïent; Vers lou chevalier s’umelïent Par amor et par conoissance. Et ce est la senefiance: Que a force lou frainc ravra, Ja en si fort leu ne sera. (vv. 365-372)

Dunque la metaforica queste intrapresa da Galvano attraverso mille insidie e pericoli, e in cui ciascun elemento della narrazione è dotato di una propria e peculiare valenza allegorica, si rivela chiaramente come percorso cifrato offerto all’interpretazione: percorso del miles Christi, questa volta provvisto delle armi adeguate per condurre vittoriosamente la propria esemplare battaglia contro il Male. La concessione del bacio, prima negato a Keu, costituisce l’atto di investitura del cavaliere destinato alla vittoria, la cui impresa è, fin dall’inizio, benedetta da Dio: oscuro e profondo attraversato da uno strettissimo ponte di ferro (vv. 232-247), la cui pericolosità induce Keu a ritornare sui propri passi.

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Mes Gauvains la vialt acoler Primes ançois qu’il s’en alast: Il fu bien droiz qu’il la besast. Ele mout volontiers lo bese. Or est la pucele mout aise, Car ele set bien, tot sanz faille, Qu’el lou ravra, conment qu’il aille. (vv. 342-348) Plus de trente beneïçons Li a la damoisele oré, Et tuit l’ont a Dieu conmandé. (vv. 352-354)

Da questo momento in poi, la narrazione appare costruita su un triplice livello di significato: la letteralità, con la topica descrizione della queste dell’eroe, tramata di motivi mitico-folklorici, l’allegoria, nel continuo rinvio alla valenza morale che ogni elemento della narrazione riveste, e l’anagogia, che adombra nei fatti narrati quelle realtà sovrannaturali a cui l’anima del cristiano deve tendere. L’ingresso nella foresta e l’immediato incontro con le fiere pongono il cavaliere di fronte al primo ostacolo da superare. La vittoria contro la superbia – colpa topicamente simboleggiata da li lïon et li liepart22 (v. 361) –, primo dei vizi capitali23 ad irrompere sulla scena, si manifesta attraverso la virtù ad essa opposta: l’umiltà24, già dimostrata da Galvano nell’accettare docilmente la guida della mula, e di cui Keu si era dimostrato invece del tutto privo, accomuna ora il miles alla sua guida salvifica e ai suoi iniziali oppositori (vv. 362-368). La ripresa del viaggio, attraverso il petit sentier (v. 378) che conduce alla valee envenimee (vv. 379-380), infestata da vipere e scorpioni25, è segnata da un momento di serenità: la pianura e la fontainne bele (385), che ristorano eroe e cavalcatura, simboleggiano, attraverso la nota meta22 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, p. 188 e ss. 23 Ivi, pp. 210-211. 24 È questa infatti «la concezione tradizionale che per secoli ha dominato l’etica medioevale: l’idea che a ciascun vizio si contrapponga una virtù e che la superbia trovi la sua alternativa virtuosa nell’umiltà. Nello schema decisamente dualistico della morale elaborata dai Padri e dai monaci infatti il male non era che il riflesso capovolto del bene, e se alla superbia spettava il gravoso compito di riassumere ed alimentare tutti i vizi, l’umiltà era senz’altro la prima e la capostipite di tutte le virtù». Ivi, p. 14. 25 Cfr. vv. 168-207.

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fora della sorgente salvifica, il necessario apporto divino per la prosecuzione dell’impresa, e preludono al contempo alla difficoltà dell’ostacolo che Galvano è chiamato a superare. Gli scenari topici delle visioni oltremondane di matrice cristiana sono dunque collocati in una successione che allude alla strutturazione che il sistema dei peccati viene ad assumere nella cultura e nella predicazione medioevali. A fianco alla gerarchizzazione della complessa realtà dei peccati nel settenario dei vizi capitali, «“inventato” da Evagrio, messo a punto da Cassiano, perfezionato e diffuso da Gregorio Magno»26, si afferma anche un’altra classificazione, questa volta ternaria, che fa risalire la sua origine direttamente ad alcuni passi scritturali. Questa tripartizione, basata innanzitutto su un versetto di San Giovanni (I Io. 2,16) che distingue tra “concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita”, identifica in tre specifici peccati le principali colpe dell’uomo: superbia, avarizia e lussuria divengono dunque i tre vizi più importanti e diffusi e sono in grado di spiegare ogni possibile tipo di peccato. Proprio la compresenza di tali colpe nell’animo di Keu e la sua conseguente indegnità morale costituiscono le cause del fallimento; il miles spiritualis dovrà essere dotato di metaforiche armi per condurre efficacemente la propria battaglia contro il peccato, armi di cui Keu si rivela invece del tutto sprovvisto: Ne il n’i a arme portee Fors que tant seulement s’espee. (vv. 119-120) La superbia connessa al desiderio di una gloria mondana ed effimera, conseguente all’indubitato successo dell’impresa (vv. 96-98), la bramosia di beni materiali (li chastiaus, v. 106) e la concupiscenza della carne (li baisiers et l’autre chose, v. 107), ascrivono dunque Keu alla tipologia del peccatore dominato dalla triade superbia, avarizia e lussuria, il cui percorso non può che arrestarsi dinanzi alle minacciose raffigurazioni del Male. Lo spazio narrativo, particolarmente ampio (vv. 168-207) che viene riservato alla descrizione della valee parfonde et lee (vv. 169-160), soltanto nella sezione relativa al viaggio di Keu, suggerisce la stretta connessione tra questo scenario, dominato da animali ed elementi naturali che turbano tutti i sensi, e la colpa principale del siniscalco, che tale quadro infernale mira appunto a stigmatizzare: 26

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C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., p. 194.

A quelque poinne i est entrez, Mes mout i est espoëntez, Que il veoit el fons dedenz Mout granz coluevres et sarpenz, Escorpïons et autres bestes, Qui feu gitoient par les testes, De coi il ot mout grant paor. Et pis li faisoit la puor; Que des cele ore qu’il pot nestre, Ne fu mes en si puant estre, Et bien se va qu’il n’est chaüz. (vv. 179-189) Ja ne fera si grant esté Ne de chaut si tres grant ardure Que laienz n’ait toz jorz froidure Con o plus mestre cuer d’iver, Tant la mauvestié de l’iver, Qui, laienz adés est assise; Et tot adés i vente bise Qui la grant froidure i apent; Si reventent li autre vent Qui la dedenz sont ahurté. (vv. 194-203)

Se infatti la lussuria appare come il principale movente per l’impresa tentata da Keu, proprio gli animali che connotano simbolicamente tale vizio – serpenti, scorpioni27 e bestie che gettano fuoco dalla testa (vv. 182-184) – costituiscono la terrificante fauna della valle perillouse, certamente luogo di tenebre e peccato, da intendersi in senso generale, ma anche dimensione minuziosamente caratterizzata, oltre che dall’inquietante oscurità (v. 172) e dalla terrificante vista dei mostri, anche da un terribile fetore (v. 188) che colpisce l’olfatto, e dal perenne gelo che, unito al soffio di terribili venti gelidi, offende il tatto. La volontà di punire dunque la fisicità è chiaramente connessa alla natura corporea di tale vizio, ritenuto appunto, secondo le parole di San Paolo (I Cor. 6,19-20) un peccato «contro il proprio corpo»28, la cui presenza, nella tradizione medioevale, risulta «diffusa nei vari organi che presiedono all’attività 27 28

Ivi, p. 188. Ivi, p. 152.

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sensoriale: negli occhi, sempre pronti a guardare con desiderio possibili oggetti di piacere, nelle orecchie, tese all’ascolto di suoni e parole dolci e soavi, nelle narici, intente a odorare profumi inebrianti, nella bocca, avida di cibi e bevande eccitanti, e infine nelle mani, protagoniste di toccamenti e atti impudichi»29. Se tuttavia Keu riesce ad attraversare incolume tale scenario infernale, resta da chiedersi perché gli venga negata comunque ogni possibilità di redenzione, e per quale motivo la fontaine clere et sainne (vv. 217218), alla quale anche Galvano attingerà più tardi, non si riveli anche per lui sorgente dispensatrice di beni spirituali. Ancora il peccato di superbia – da intendersi quale eccessiva stima di sé, quale desiderio di eccellenza che non rimanda alla gloria di Dio30 – qui ben evidenziata dal contrasto con la reale pusillanimità del personaggio, sembra segnare definitivamente il destino di Keu davanti alla tappa cruciale del fiume di eve noire: Et dit bien que dahez ait il Se il se met en tel peril Por tel noient, por tel oiseuse. Trop li sanble estre perilleuse La voie que venuz estoit, Mes li passages li sanbloit Estre plus perilleus assez. (vv. 251-257)

Il timore di mettere in gioco se stesso, dovuto all’incapacità di lettura, in chiave morale ed esemplare, dei “segni” che costellano il cammino, il ridurre a noient l’impresa salvifica di redenzione dal peccato che solo l’attraversamento del fiume potrà garantire, inscrivono il percorso di Keu in una dimensione di cecità tutta mondana, di chiusura alla trascendenza che segna definitivamente il fallimento dell’impresa. Keu incarna appunto l’uomo “animale” della Prima Epistola paolina (1 Cor 2,14-15) «che non comprende le cose divine poiché di esse coglie soltanto l’apparenza esteriore. L’uomo spirituale invece comprende tutto, e non è giudicato da nessuno». Se infatti anche Galvano, nel ripercorrere le tappe del viaggio di Keu, si arresterà comunque dinanzi al fiume ribollente, fiume infernale31 che 29

Ivi, pp. 152-153. Ivi, p. 24. 31 Cfr. vv. 391-405. 30

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segna chiaramente il momento del “passaggio” nell’Altro mondo – mitico e cristiano – egli sarà tuttavia in grado di superare tale ostacolo liminare mediante la totale fiducia umilmente accordata all’animale-guida, e dunque il fiducioso abbandono all’aiuto divino: Gauvain s’est a Dieu conmandez, Si fiert la mule; et ele saut Sor la planche, qui pas ne faut. (vv. 410-412) Passez est outre a quelque painne, Mes ice est chose certainne Que, se la mule ne seüst La voie, que cheoiz i fust; A ceste foiz s’en est gardez. (vv. 419-423)

Se il pons subtilis ed il castello rotante circondato dai lugubri pali immettono in un Altro mondo di matrice mitica, ogni elemento di questo Aldilà viene caricato di valenze allegoriche e la narrazione tramata di richiami scritturali. Le figure del nano e del villano, così familiari al romanzo arturiano, assumono qui chiara valenza demoniaca: quasi partoriti da una cave parfonde et lee, Qui mout estoit basse soz terre (vv. 498-499), celano appunto, l’uno mediante un enigmatico silenzio, l’altro attraverso una loquacità tutta “cortese” ma finalizzata all’inganno, la propria ascendenza diabolica. Se il nains, che già conosce il nome di Gauvain (v. 483), creatura già connotata topicamente da tratti che rinviano alla lussuria e all’innata propensione alla frode, immette l’eroe nella dimensione oscura e minacciosa dell’Oltremondo, sarà il gigantesco vilains a costituire l’inquietante guida dell’eroe. Il vilain trestot herupé (v. 506), discendente dell’uomo selvaggio, mitica creatura abitatrice delle foreste, appartenente al folklore del mondo precristiano, che Mor resamble de Moretagne (v. 515) – strettamente imparentato con il villano dell’Yvain – con la sua insinuante abilità retorica va a ricoprire qui il chiaro ruolo di demone tentatore incaricato di sviare l’eroe dal proprio percorso salvifico. La lauta cena offerta a Galvano (vv. 542-553), così come il comodo letto (vv. 554-557) che pare preludere al meritato riposo dell’eroe, si rivelano ben presto come strumenti necessari per perpetrare l’inganno: 95

l’enigmatico jeu parti (vv. 564-567) proposto dal vilain, jeu del quale è stato messo in rilievo il carattere “anomalo”32, appare invero come una trappola finalizzata ad ottenere la decapitazione33 dell’avversario. Se da un lato la lusinga costituita dal cibo rinvia all’episodio evangelico delle tentazioni di Cristo nel deserto (Mt. 4,1-10), dall’altro risultano assolutamente ligie al codice “cortese” le modalità con cui tale pasto viene servito all’ospite: Une blanche toaille lee A deus bacins prent li vilains Si li done a laver ses mains, Que laienz n’a plus de maisniee. Ja estoit la table dreciee O Gauvains assist au mengier, Si menja, qu’il en ot mestier. Et cil l’en done a grant plenté Si lo sert a sa volenté. Tot maintenant que mengié a, Et li vilains la table osta Et si li a l’eve aportee. (vv. 542-553)

Il ricorrere quasi ossessivo del verbo menjer, così come la grant plenté di cibo che viene offerta a Galvano, paiono sottolineare qui il pericolo connesso a tale tentazione; la minaccia incombente sull’eroe è dunque 32 In realtà privo di qualunque altra alternativa e riducibile dunque a una mera costrizione operata sull’eroe grazie al potere vincolante della parola. Cfr. P. Remy, Jeu parti et roman breton, in Mélanges de Linguistique romane et de Philologie médiévale offerts à Maurice Delbouille, Gembloux, J. Duculot, 1964, pp. 545-561. 33 Il motivo della decapitazione appartiene al patrimonio mitico folklorico di varie culture, in cui costituisce una prova iniziatica rituale finalizzata a confermare l’elezione dell’eroe. Sulla valenza del tema cfr. A.K. Coomaraswamy, Sir Gawain and the Green Knight: Indr and Namuci, «Speculum», XIX (1944), pp. 104-125; C. Donà, op. cit., pp. 450-457. Si veda anche. G.A. Ross, Forget the Grail: Quests for Insignificant Objects with No Earthly Value, «In Parentheses: Papers in Medieval Studies» (1999), pp. 84-102, che rileva l’importanza strutturale dell’episodio nel percorso, topico in un gruppo compatto di testi medioevali, che conduce il protagonista all’acquisizione, o riacquisizione, del potere dominante: «The important thing about the beheading game is its placement, between the tests which he passes by simply enduring and the tests he passes by dominating. After he has submitted willingly to the threat of certain death, he is allowed to move to a higher level of knightly activity, to display his martial talents in battles against others: only after he has been disempowered can he be empowered» (p. 89).

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qui prefigurata mediante quel peccato di gola che nella teologia medioevale pare aprire la strada a tutti gli altri vizi34. Dunque la tentazione diabolica prende il via attraverso la concupiscenza del cibo, alla quale ad un certo punto Galvano pare cedere, e si dispiega pienamente attraverso l’ambiguo jeu proposto all’eroe: “gioco di morte” che rischia di “decapitare” l’impresa di Galvano e al quale il protagonista potrà sfuggire grazie ad una prova di lealtà e fedeltà alla parola data. La virtù si è rivelata dunque capace di sconfiggere le lusinghe del Male, e tale opposizione si ripeterà nel corso di tutto il romanzo: i continui e ossessivi inviti a mengier, prima delle prove più impegnative, paiono finalizzati a deprivare l’eroe delle sue “armi” spirituali: ‘Si t’estuet ainz un poi mengier Que tu voises a la bataille, Por ce que li cuers ne te faille, Ne que ne soies plus pesanz’. ‘De mengier seroit il noianz’, Fet Gauvains, ‘en nule maniere, Mes porchacë une armeüre35 Don’t je me puisse aparrellier’. (vv. 650-656)

Se Galvano, prima di affrontare il primo dei due leoni – che orgoil, forsen e rage (v. 680-681) collegano topicamente al peccato di Superbia36 – rinuncia totalmente al cibo e domanda invece le armi necessarie al combattimento, tale rifiuto si configura come momento iniziale nel progressivo percorso di difesa e opposizione contro l’attacco sferrato dai vizi capitali. 34 «La gola occupa il primo posto nel sistema dei vizi elaborato da Cassiano. Questo non significa che si tratti del vizio più importante o del più grave, ma segnala una sorta di primogenitura, indica che l’inarrestabile proliferazione delle colpe si inaugura proprio con la gola. […] che alla gola spetti il compito di aprire la strada a tutti gli altri vizi sembra scontato, se si pensa alla strategia diabolica messa in atto contro Adamo e poi contro il Cristo stesso; il desiderio di cibo, naturale per l’uomo, costituisce la via maestra della tentazione e l’accesso privilegiato all’universo del peccato». C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., p. 127. 35 Come rilevano gli editori, la mancata rima tra maniere e armeüre porta ad ipotizzare un guasto nel manoscritto, sanabile mediante l’inversione maniere nule che originerebbe comunque una rima imperfetta, fenomeno peraltro non isolato all’interno del componimento. Cfr. R.C. Johnston e D.D.R. Owen, Two Old French Gauvain Romances cit., p. 110. 36 C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., pp. 187-188.

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L’esito vittorioso della contesa, per l’eroe che ha “chiuso la porta” al primo dei peccati, dovrebbe permettere il recupero del freno: ‘De cestui est finé la guerre’, Fet Gauvains, ‘et fete la pes. Or me rent’, fet il, ‘desormés Lou frainc, foi que tu doiz ton pere’. (vv. 742-745)

Ma il percorso spirituale di Galvano, ancora ben lontano dalla meta, deve continuamente sperimentare su di sé la minaccia della tentazione e il pericolo della caduta: ‘N’ira mie issi, par saint Pere’, Fait cil, ‘n’i avra mestier ganche. Je verré ainz tote ta manche De ton hauberc de sanc vermel. Se tu viaus croire mon consel, Desarme toi et si menjue Tant que force te soit venue’. Mes il ne vialt por nule peine. (vv. 746-753)

Il rifiuto ad abbandonare le armi, la capacità di respingere gli attacchi sferrati dal vizio della Gola37, condurranno Galvano verso la tappa successiva, il combattimento con il cavaliere Qui parmi lou cors ert feruz (v. 759), erede del Re Pescatore del Perceval, segnato nel corpo da una misteriosa ferita rituale e tuttavia costretto a combattere per contendere il freno a Galvano. Colui che navrez se levoit (v. 773) porta dunque su di sé le stimmate del peccato che Galvano si appresta a combattere: schiavo della costume che lo lega al castello circondato da lugubri pali, in attesa di uno sfidante che, come già Maboagrain nell’Erec, pur in grado di ucciderlo ne decreterà invece la liberazione, il “cavaliere prigioniero” non pare qui tanto 37

Si veda la sezione iniziale di Gerardo di Zutphen, De pugna spirituali contra septem vitia capitalia (in S. Bonaventurae Opera, vol. VII, Lyon, 1668) del XIV secolo, che attesta la vitalità di tale tema: «Orsù soldati di Cristo che state per affrontare la guerra spirituale, vestitevi dell’armatura di Dio, afferrate la spada e lo scudo, la spada del valore virile, lo scudo della pazienza, per riuscire a sostenere l’assalto e il dolore. La battaglia deve iniziare dapprima contro la gola» (C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., p. 187).

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la vittima del potere incantatore di una fata38 – quale potrebbe essere la damigella che abita il castello – quanto un colpevole in attesa del proprio riscatto. Le parole di benvenuto con le quali accoglie Galvano suggeriscono infatti la connessione tra la sua metaforica guarigione e l’arrivo dell’eroe predestinato di cui egli conosce già il nome: ‘Gauvains, bien soiez tu venuz’, Fait il, tantost con veü l’a; ‘Fortune t’a envoié ça! Por ce que je sui ja gariz, Et si es tu assez hardiz, Mes conbatrë o moi t’estuet’. (vv. 760-765)

La terribile costume delle teste degli avversari uccisi conficcate sui pali, che il cavaliere continua ad evocare dopo la sconfitta (vv. 837-845), viene annullata dall’atto di pietà di Galvano: Gauvains lou sache par grant ire Et fait sanblant de lui ocirre. Et cil maintenant li escrie: ‘Gauvains, ne m’ocirre tu mie’. (vv. 827-830) Gauvains lo let, et il s’en va. (v. 846)

Se l’Ira è stata sconfitta dalla Pietà, la successiva lotta contro deus serpens39 Qui sanc gietent de leus en leus, Et par la boche lor salt feus (vv. 852-854), che si conclude ainz que midis fust passez40 (v. 889), con il topico taglio della testa dei due draghi, va a collocarsi ancora nel solco di quella tradizione, inaugurata agli inizi del V secolo dalla Psy38

Su tale motivo si veda M. Mancini, Chrétien de Troyes e il romanzo, in Id. (a cura di), op. cit., pp. 167-168. 39 Le simbologie animalesche connesse alla rappresentazione dei vizi capitali non sono univoche; il serpente e il drago compaiono infatti frequentemente associati anche all’invidia. Cfr. C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., pp. 187-188. 40 Tale indicazione temporale, relativa al momento in cui si svolgono i combattimenti di Galvano, è già presente ai vv. 637, 871-872. Il riferimento è stato ricondotto al carattere originario di eroe solare proprio del personaggio di Galvano: a mezzogiorno si manifesterebbe infatti il massimo della sua forza.

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chomachia di Prudenzio41, in cui le personificazioni dei vizi e delle virtù si affrontano in sanguinose battaglie. Se nel poemetto prudenziano la Superbia ha la testa mozzata dall’Umiltà42, al successo conseguito dalla Virtù in tale impresa segue inatteso e improvviso il pericolo di un totale fallimento43: tutte le virtù paiono infatti «sedotte dal fascino insinuante della Sensualità»44, rappresentata da una figura femminile Delibuta comas, oculis vaga, languida voce45, distesa davanti ad una tavola ben imbandita46. E similmente Galvano, indotto dalle parole del nano, pare a questo punto indulgere alla medesima tentazione: ‘Gauvains’, fet il, ‘je vos present De par ma dame lo servise, Mes que il soit par tel devise Que avecques li mengeras, Et a ton voloir en feras Tot sanz contredit et sanz guerre Do frain que tu iés venuz querre’. (vv. 902-908)

La conquista del freno deve passare dunque attraverso l’ultima prova, l’incontro con la dame che en un lit gisoit (v. 916): l’indulgere ai piaceri della tavola da parte di quell’eroe (vv. 930-960) che ha fino a quel momento rifiutato il cibo pare preludere al cedimento dinanzi alle lusinghe della Concupiscenza47. Non solo i vizi della Gola e della Lus41 Prudence, Psychomachie contre Symmaque, a cura di M. Lavarenne, Paris, Les Belles Lettres, 19632 (19481). 42 Ivi, 280-283, p. 60. 43 «Et iam cuncta acies in deditionis amorem Sponte sua versis transibat perfida signis, Luxuriae servire volens, dominaeque fluentis Iura pati, et laxa ganearum lege teneri». Ivi, 340-343. 44 C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., p. 186. 45 Prudence, op. cit., 312, p. 61. 46 Ivi, 317. 47 L’idea che esista un modello di generazione spontanea dei vizi appare costante nella riflessione medioevale sul sistema dei peccati capitali, e investe in maniera particolare il rapporto esistente tra Gola e Lussuria: «Per Evagrio e Cassiano la distinzione tra peccati spirituali e peccati carnali non fissa solo un principio gerarchico fondamentale nella gravità delle colpe, ma stabilisce un percorso obbligato: se non si lascia attrarre dalla tentazione della gola, il monaco non cadrà mai nelle colpe più gravi; il primo dei peccati è certo il più lieve, ma anche in qualche senso il più insidioso perché testa di serie dell’intero ottonario […]. In un processo ininterrotto l’eccesso della gola genera

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suria tentano qui Galvano, ma appaiono sullo sfondo sia la minaccia della Superbia48, con la dame che mout lo loe et mout lo prise (v. 955), sia la tentazione dell’Avarizia (Et tot cest chastel vos rendroie, Dont j’è ancore trente et huit, vv. 974-975) in una sorta di “danza” finale dei peccati capitali che si snoda, non a caso, nel castello in cui l’immagine reduplicata della prima damigella (Je sui sa suer et ele est moie, v. 970) trattiene presso di sé il “freno” della Continenza. Una simile opposizione speculare, chiaramente riconducibile al più generale contrasto tra Voluptas et Virtus, compare nell’immagine delle due mulieres che abitano, in rivalità e discordia, la dimora dell’anima, utilizzata da S. Ambrogio in Cain et Abel (1, 4-5): Duae enim mulieres unicuique nostrum cohabitant, inimicitiis ac discordiis dissidentes, velut quibusdam zelotypiae contentionibus nostrae replentes animae domum. Una earum nobis suavitati et amori est, blanda conciliatrix gratiae, quae vocatur voluptas. Hanc nobis opinamur sociam ac domesticam: illam alteram immitem, asperam, feram credimus, cui nomen virtus est49.

Respinte le insidie della Voluptas nella dimora dell’anima, eterno teatro dell’intima lotta tra tentazione e capacità di rinuncia, Galvano può conquistare l’oggetto simbolico della propria queste spirituale: quel freno che, abbandonato il bon destrier necessario per la battaglia, ora potrà restituire alla mule, provvista finalmente di frainc e di sele50 (v. 990), e dunque chiamata a ripercorrere, questa volta sotto la guida dell’eroe vittorioso, la strada che la ricondurrà verso la Corte arturiana. la lussuria, questa a sua volta produce l’avarizia […]». C. Casagrande, S. Vecchio, op. cit., p. 182. Si veda in proposito il rapporto istituito, nello schema gregoriano (Gregorio Magno, Moralia, XXXI, XLV, 89), fra quelli che sono considerati due vizi contigui per la vicinanza anatomica degli organi che li generano: «Ma è noto a tutti che la lussuria nasce dalla gola, dal momento che nella stessa disposizione delle membra gli organi genitali sono collocati al di sotto del ventre. Perciò mentre quest’ultimo si riempie in maniera sregolata, quelli si eccitano alla libidine». Ivi, p. 183. 48 Cfr. vv. 928-929. 49 S. Ambrosius, De Cain et Abel (1, 4-5), in Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, éd. J.-P. Migne, Paris, 1878-1904, t. 14, col. 340. 50 Cfr. Eadmeri Monachi, Liber de Sancti Anselmi similitudinibus, PL, t. 159, coll. 605-708. «Debet autem miles iste super equum suum sellam habere. Ejus sellam credimus esse mansuetudinem; hanc enim debet interior homo super exteriorem ponere, ut super eum firmius sedere et eum decentius possit regere, videlicet ut nullum membrum huc vel illuc inordinate moveat, sed omnia decenter et mansuete contineat, ut nihil agat superbe, sed omnia cum tranquillitate», Ivi, col. 704.

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Soltanto dopo l’acquisizione della propria perfezione spirituale, l’eroe liberatore uccide le bestie-simbolo dei vizi, viene acclamato dalla folla festante e può ricevere il riconoscimento per la propria impresa: Dieus les a par vos delivrez, Et de toz biens enluminez La gent qui en tenebre estoient. (vv. 1031-1033)

Il ricorso alle citazioni bibliche (Isaia 9-2; Luca, 1-79)51 sancisce la portata della missione affidata a Galvano, il cui cammino si configura dunque come un percorso di ricerca della voie, di svelamento del vero significato dell’impresa. La costruzione del senso del romanzo può allora avvenire, ancora, grazie alla chiave di lettura che il Prologo ci offre: Li vilains dist en reprovier Que la chose a puis grant mestier Que ele est viez et ariez mise. Por ce par sens et par devise Doit chascuns lou suen chier tenir, Qu’il en puet mout tost biens venir A chose qui mestier avroit. Mains sont prisiees orendroit Les viez voies que les novelles Por ce qu’en les tient a plus belesEt si sont miaudres par sanblant; Mes il avient assez sovent Que les viez en sont les plus chieres. Por ce dist Paiens de Maisieres Qu’en se doit tenir totes voies Plus as viés q’as noveles voies. (vv. 1-16)

Quasi obbligata la lettura in senso meta-letterario: se, secondo il ricorso alla saggezza popolare, la chose, quanto più est viez et ariez mise (v. 3) tanto più rivela invece la propria utilità52, analogo è ciò che avvie51

Cfr. R.C. Johnston e D.D.R. Owen, Two Old French Gauvain Romances, cit., p.

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Il Prologo della Mule, modellato su quello dell’Erec di Chrétien de Troyes, come

ne nella coscienza autoriale di chi il testo si appresta a produrre: anche lì è necessario lou suen chier tenir (v. 5), ovvero non rinunciare, da una parte, all’uso di quel patrimonio tradizionale di motivi che tende ormai ad essere trascurato in nome delle nuove tendenze letterarie (vv. 8-9) – ritenute appunto a plus beles (v. 10) – ma soprattutto non perdere di vista l’obiettivo principale del roman, inteso non come genere di puro intrattenimento, ma come inequivoco latore di Verità, come ingranaggio che, nel continuo rinvio ad un tessuto simbolico ben familiare agli ascoltatori, diviene al contempo se stesso e altro-da-sé, messaggio compiuto e incompiuto, riserva di senso che, per dispiegarsi pienamente, esige la coincidenza tra parola e verità. Se dunque l’autore afferma programmaticamente Qu’en se doit tenir totes voies Plus as viés q’as noveles voies (vv. 15-16), proprio attraverso tali viés voies la mule condurrà Galvano verso il recupero di un “freno” che pare ormai perduto, verso la riconquista di quel peculiare valore morale e pedagogico che il “discorso” del roman deve ancora veicolare, per assolvere a quella funzione stabilizzante, coesiva, che la memoria collettiva sa riconoscere nelle trame simboliche che lo percorrono. Recuperare la funzione morale del “discorso” significa dare vita ad una creazione artistica che non esaurisca il proprio fine nella mera letteralità, ma sia in grado di fornire al lettore l’autre chose (del v. 107) a cui la dama aveva enigmaticamente alluso, cioé il vero significato del roman, al quale non tutti i fruitori, come appunto Keu, possono pervenire. Il valore pregnante del “freno”, non certo circoscrivibile a quello di un qualunque altro “oggetto magico da recuperare”, si dispiega allora soltanto se posto in rapporto con un tessuto allegorico di matrice cristiana – di certo ben familiare al pubblico coevo – basato sulla condanna dei vizi capitali e sulla istituzione di precise corrispondenze tra la dotazione necessaria al cavaliere mondano e quella, tutta interiore, richiesta al migià rilevato nell’edizione di R.C. Johnston e D.D.R. Owen (cfr. ivi, p. 101) si ispira a un noto proverbio: «Meauz valent les vielles voies que les noveles» (J. Morawski, Proverbes Français, Paris, 1925, No. 1237). Heinz Klüppelholz, Die idealisierung und ironisierung des protagonisten in den altfranzösischen Gauvain-romanen, in GRM, XLIV (1994), pp. 18-36, vi ravvisa un riferimento al valore del testo, che cresce nella misura in cui esso si rivela in grado di invecchiare. Dunque il successo di un’opera, nonostante il favore tributato alle nuove tendenze letterarie, è legato in realtà alla sua capacità di sfidare il tempo, unico giudice che sarà in grado di decretarne la fama e il successo. Da qui deriverebbe la scelta dell’autore di inserirsi nella tradizione del romanzo arturiano, con l’intento di riportare in vita le idealità, ormai in declino, del ceto cavalleresco. La Damoisele a la Mule, attraverso l’utilizzo di tale genere letterario, ne mostrerebbe però al contempo la vacuità, portando sulla scena un eroe che significativamente brilla più per proesce che per sens.

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les spiritualis: il freno, già nel Liber similitudinum dettato da S. Anselmo d’Aosta53, simboleggia la quantità di astinenza necessaria all’uomo spirituale per sottomettere il corpo, rappresentato dal cavallo, e condurre vittoriosamente la propria battaglia contro il peccato: Valde itaque est necessarius nostro militi suus equus, id est interiori homini, corpus exterius. Sciendum vero quia proprium est militis praeesse, equi autem subesse; militis imperare, equi obtemperare; nequaquam nacque miles contra adversarium decenter pugnare poterit, nisi equus suus sibi subjectus fuerit, et nisi sibi per omnia obedierit; sed quia est animal mutum et non habet intellectum, miles capiti ejus frenum imponit quo eum huc et illuc, cum etiam noluerit, secundum propriam voluntatem flectere possit. Neque enim expedite adversus suum pugnare poterit adversarium, nisi in equo suo habuerit frenum. Nam quomodo ipsi hosti fortiter resisteret, cum sibi proprius equus multoties repugnaret. Decet itaque ut in equo suo habeat frenum, si vult expedite pugnare contra adversarium. Debet autem secundum equi qualitatem freni providere quantitatem. Si enim obedientem equum habuerit et quietum, in eo parvum et suave debet ponere frenum; si vero rebellem et indomitum, magnum in eo et asperum nocesse est ut imponat frenum; si autem mediocrem, et in freno debet providere mediocritaem. Similiter si miles Christi vult legittime certare contra diabolum, debet in suo equo habere frenum; frenum autem quo hujusmodi regitur equus, abstinentia dicitur; per abstinentiam nacque debet interior homo exterioris lasciviam refrenare, et eum secundum propriam voluntatem huc atque illuc flectere. Nam sine hujusmodi freni regimine nullatenus expedite poterit adversus diabolum pugnare. Sed ipsa abstinentia debet esse discreta; secundum enim corporis sui qualitatem decet qui interior homo provideat abstinentiam quantitatem; alioquin sibi non erit ad ullum adjumentum, imo ad maximum impedimentum […]54.

Quindi la Mule sans frein, il “romanzetto” d’intrattenimento destinato a dilettare il pubblico delle corti o delle fiere, si rivela invece discorso sui vizi e sulle virtù – e riflessione serrata su un sistema che domina la 53 Il Liber similitudinum o De Similitudinibus (cfr. nota 50) non è in realtà attribuibile né a S. Anselmo, né al suo segretario Edmero, ma al monaco Alessandro di Canterbury, che compose verso il 1115 una prima raccolta di similitudini per l’abate Anselmo, nipote dell’arcivescovo. Il testo che Migne attribuisce ad Edmero ne costituirebbe invece soltanto la mise en forme. 54 Eadmeri Monachi, op. cit., col. 703-704 (corsivo nostro).

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pastorale medioevale – veicolato da un genere, appunto il roman, che è stato ritenuto a torto unicamente come “luogo letterario” dell’intrattenimento, come teatro del ripetersi, ormai senza senso, delle imprese degli eroi arturiani. Se dunque, all’inizio del roman (vv. 75-95) la damoisele dichiara che non potrà più trovare gioia se non riavrà il proprio freno e che, se ci sarà un cavaliere Qu’il vousist ceste voie enprendre, ella sarà trestote soe… sanz chalonge et sanz contredit (v. 87 e v. 89), è proprio alla luce di tale valore allegorico attribuito al freno che va letta una simile richiesta di soccorso: soltanto colui che sarà in grado di compiere, e dunque di indicare all’ascoltatore, il percorso dell’anima verso la salvezza spirituale, potrà veramente possedere lei: non certo di possesso reale e carnale si tratta, ma di quella riacquisizione di senso, di verità, di moralità che il percorso di riflessione tracciato dal roman può ancora innescare. Polemica velata, questa, contro quella che oggi definiremmo una “volontà di consumo” di un certo prodotto letterario senza andare “oltre le righe” di ciò che viene detto: ciò rischia di trasformare il roman in vuota “letteratura di cassetta” privandolo della sua funzione principale di guida per le coscienze, di propositore di modelli da imitare, di genere che trova la propria legittimazione etica nella coincidenza tra segno e cosa significata. Sull’equivoco valore attribuito dal pubblico al vero senso del roman si gioca infatti l’altro equivoco su cui è costruito l’intero congegno narrativo: la promessa della damoisele, quell’autre chose volutamente ambigua, costituisce appunto il vuoto di senso che il “lettore” deve colmare: intesa maliziosamente da Keu e dai fruitori superficiali come rinvio alla sfera sessuale, conduce al fallimento l’impresa salvifica della conquista del senso, esplicitando così il fallimento a cui è destinato il testo medesimo qualora riduca al grossolano doppio-senso, o alla banale love-story con soddisfacimento finale, l’intera portata del proprio messaggio. Il percorso di Galvano, scandito da scenari e incontri che rinviano allo schema del viaggio allegorico-didattico, ripropone dunque le veies voies, le vie consuete al roman inteso quale genere didattico ancora in grado di proporre, mediante la magia del racconto, modelli di comportamento e verità di fede. Tale iter salvifico, sia per l’individuo che riesca a coglierne il senso, sia per lo stesso “genere” letterario qui implicato, richiede, non a caso, una “cavalcatura” affidabile: la fanciulla ha infatti affidato la sua mula (v. 92) – che nella simbologia cristiana rinvia alla mansuetudine – al 105

cavaliere, come guida capace di condurlo al castello dove è custodito il metaforico “freno”. La mula introdurrà prima Keu e poi Galvano in una dimensione dotata dei tratti tipici dell’Oltremondo, e che prelude al raggiungimento del castello in cui il “doppio” della prima damigella detiene il “freno”: per entrare degnamente in questo mondo “iperuranico”, in questa dimensione che è anche tutta psicologica e interiore e in cui è appunto custodito quel “fantasma erotico”, di cui la prima damigella è il risvolto moralizzato – e moralizzatore – è necessario un tributo: forse un atto simbolico di castrazione (appunto “il taglio della coda” della mula) che permetterà all’eroe-Galvano di concludere l’impresa soltanto dopo aver rifiutato le profferte amorose della signora del castello, dopo avere cioè negato l’amore come soddisfacimento immediato (nella lettera del testo) e dunque aver riconquistato quella capacità di discernimento, quel “freno” ideale che può ricostruire nella sua interezza il senso “vero” e appunto ideale dell’amore e, in ultima analisi, del testo stesso. Se Galvano è l’eroe “moralizzato”, eletto anche dall’esito del jeu parti con il mor – simbolo di deviazione morale e religiosa – il suo rientro a corte deve chiarire il senso dell’intera vicenda: la prima damoisele, che ha svelato il proprio carattere di istanza moralizzatrice della letteratura, annullando così quella letteralità che la poneva come donna reale, ha infatti ora posto il proprio metaforico cors al servizio di Galvano (vv. 1082-1084). Egli può così raccontare Les aventures qu’ot trovees (v. 1092), può dunque divenire narratore-lettore consapevole della propria aventure, i cui punti salienti corrispondono ai segni dotati di valenza allegorica offerti all’interpretazione55 di quel lettore che voglia veramente comprendere il significato del roman. Esaurita la propria funzione, la damoisele, che ha in realtà concesso se stessa – in quanto chiave di lettura del testo – sia a quel Galvano che, proprio per tale acquisita capacità di discernimento, non ha motivo di reclamare ulteriori ricompense, sia al “lettore ideale”, alle cui istanze egli chiaramente rinvia, deve andare via tote seule: ‘Sire, Damedieus me confonde’, Fet ele, ‘se j’onques osasse, Se volentiers ne demorasse, Mes je ne puis por nule painne’. 55 E si noti ancora il voluto rilievo qui accordato al momento della tentazione finale: Et conment mengier lo covint En la chanbre a la damoisele Qui suer estoit a la pucele (vv. 1104-1106), in cui il vero senso del mengier pare finalmente svelarsi allo stesso Galvano.

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Sa mule demande, on li mainne, Si est montee par l’estrier. Et li rois la vet convoier, Mes ele dit que nul conduit Ne vialt avoir, ne lor anuit, Et si estoit il auques tart. Congié prent et si s’en depart, Si se remist en l’anbleüre. (vv. 1122-1133)

La familiarità che la mula rivela rispetto a tutti gli scenari narrativi che attraversa, testimonia allora “l’efficacia della consuetudine”, ovvero le garanzie di riuscita di un testo che non soltanto percorra a l’anbleüre56 le vie tradizionali, ma nel rivendicare anche una “misura”, una scelta di moralità, garantisca per sé il mantenimento di quella funzione primaria che, sola, può legittimarne realmente l’esistenza. La parola del roman deve essere dunque da un lato «capace di sostenere e nutrire l’immaginario, di diffondere e di confermare i miti»57 ma anche di fornire dei modelli comportamentali utili al mantenimento dei legami sociali, parola utile ad educare, a correggere i costumi e a preservare così il poeta dallo scadimento alla mera funzione del “giullare”. Se dunque, «i poeti sono stati espropriati della loro funzione di educatori e consegnati al “sottovuoto” dell’intrattenimento estetico»58, è proprio a tale ineluttabile processo che il nostro roman consapevolmente si oppone. Il “peccato” da sconfiggere è allora quello di un mondo – letterario e non – senza freno, in cui il fruitore, narcotizzato dal prevalere di inutilitas e scurrilitas, si arresti ad una lettura della mera superficie del messaggio narrativo, o comunque non sia più in grado di scorgere il vero senso ad esso veicolato; colpa attribuibile in primo luogo a quegli autori che, deprivandosi della propria funzione di educatori, preferiscono le voies novelles, in realtà miaudres soltanto par sanblant (v. 11), e dunque assimilabili a belle forme prive di sostanza. A Galvano è affidato dunque il compito di recuperare una moralità nuova, per un roman che non sia soltanto fabula vana, e per ogni individuo, ascoltatore-lettore posto di fronte ad una serie di doppi binari, di cui l’uno oblitera l’altro, nel gioco continuo di ricerca della verità. 56

Cfr. vv. 126, 228, 1133. P. Zumthor, op. cit., p. 90. 58 G. Frasca, op. cit., p. 25. 57

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In pasto alla tradizione. Bono Giamboni e il suo trattato Della miseria dell’uomo Duilio Caocci

Altrove abbiamo provato a interrogarci sulla specialità del rapporto che lega il volgarizzamento Della miseria dell’uomo1 di Bono Giamboni al precedente De miseria humanae conditionis2 di Lotario da Segni, partendo dalla considerazione che, pure nel contesto culturale duecentesco, l’azione intensa di addomesticamento dei contenuti innocentini compiuta da Bono non potesse essere spiegata semplicemente ricorrendo alla categoria dell’alterità medievale in fatto di circolazione delle idee e di riconoscimento della paternità autoriale. In particolare ci spingevano a un’indagine in tal senso l’evidente dislivello tra il prestigio del compilatore del trattato latino e quello del volgarizzatore, l’apparente improntitudine di Bono nel sostituirsi, con nome e cognome, fin dal principio, all’autorevole scrittore e Papa, il forzato incastonamento dei capitoli dedicati alla descrizione della beatitudine oltremondana e una serie di altri fatti, forse meno clamorosi, ma altrettanto interessanti sul piano della storia letteraria e della storia culturale. Si trattava di comprendere in che modo Bono avesse deciso di affrontare il testo di Lotario, cioè se avesse potuto o voluto distinguere Lotario da Innocenzo III, il cardinale dal Papa e, dunque, la scrittura del testo del trattato dagli eventi cruciali “provocati” dalle scelte “etiche” e politiche del rettore della chiesa. Abbiamo sostenuto che Bono, con il suo libro, intendeva partire proprio dagli ammonimenti contenuti nell’opera di Lotario, ma, poiché considerava l’azione del Papa come un “adempimento” e una continuazione del De miseria – come Innocenzo adempie e continua Lotario – riteneva 1 Della miseria dell’uomo; Giardino di consolazione; Introduzione alle virtù di Bono Giamboni; aggiuntavi La scala dei claustrali; testi inediti, tranne il terzo trattato, pubblicati ed illustrati con note dal dottor Francesco Tassi, Firenze, presso Guglielmo Piatti, 1836. D’ora in poi indicato come Della miseria. 2 Lotharii cardinalis (Innocentii III) de miseria humane conditionis, edidit M. Maccarone, Verona, Lucani, 1955. D’ora in poi indicato come De miseria.

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di avere a che fare con un testo assai più ampio, nel quale anche la storia – quella, soprattutto, della riforma della Chiesa e delle crociate contro l’eresia – assumeva valenze “letterarie”3. Dal punto di vista dello scrittore toscano, se è vero che nel trattato latino non c’è spazio per la salvezza, è altrettanto vero che il pontificato di Innocenzo III è tutto orientato alla preparazione delle migliori condizioni per guadagnare all’uomo il paradiso. Ciò che viene affermato con argomenti netti, cioè l’irrimediabile squallore dell’uomo in ogni fase della sua esistenza, non può e non deve essere letto in senso assoluto. Essendo finalizzato «ad reprimendam superbiam» (De miseria, p. 3), il discorso sulla miserabile condizione dell’uomo, secondo strategie retoriche note a Bono, deve colpire “di punta” il destinatario al fine di innescare un virtuoso ravvedimento, ma non può pretendere di escludere la possibilità di un risarcimento destinato agli uomini probi. La deriva relativista della Miseria volgare rispetto all’impostazione del trattato latino – secondo quanto vorremmo giungere a mostrare con una serie di considerazioni testuali – sarebbe allora già prevista, in absentia, dal testo di partenza e non dovrebbe essere valutata come una spia dell’insubordinazione di Bono nei confronti di Lotario. A ulteriore supporto della nostra tesi gioverà ora una rilettura della prima rubrica e del Prolago, luogo nel quale, istituzionalmente, si programmano prossimità e scostamenti4. Bono conosce bene l’importanza dei cominciamenti, la funzione che svolgono da un punto di vista retorico ed etico, l’effetto che sortiscono nei confronti delle altre porzioni di testo e, fuori dal testo, nei confronti del pubblico cui sono rivolti. Sa, insomma, quanto incida una buona introduzione e, nei capp. 54-57 del Fiore di rettorica, si propone di divulgare la precettistica «data da’ savi in quella parte della diceria che s’appella proemio». L’oratore che ambisca ad ottenere risultati efficaci deve costruire un esordio di buona qualità, «per lo quale s’acconcia l’animo dell’uditore a meglio udire», oppure aprire il suo discorso con «alcuno bello essem3 Cfr. D. Caocci, La Storia nel testo. Dal De miseria di Lotario alla Miseria di Bono Giamboni, «Portales», n. 10 (2008), pp. 23-31. 4 Ai prologhi di quest’epoca e al prologo del Libro de’ vizi e delle virtudi Guido Baldassarri ha dedicato pagine assai importanti. Cfr. G. Baldassarri, Prologo e Accessus ad auctores nella Rettorica di Brunetto Latini, «Studi e problemi di critica testuale», XII (1976), pp. 102-116 e Id., Sull’incipit del Libro de’ vizi e delle virtudi di Bono Giamboni, in Miscellanea in onore di Vittore Branca, Firenze, Olschki, 1983, vol. I, pp. 117-127.

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plo, […] alcuna piacevole similitudine», […] alcuna autorità di savio uomo, […] alcuna ferma allegazione». Chi «viene incontanente al fatto che vuole dire», sarà ritenuto inurbano come «colui che viene lotoso a mangiare, e ponsi al desco, e non si lava le mani»5. La comparazione, estremamente icastica, rivela l’ampiezza della platea di destinatari cui l’opera intende rivolgersi e, dunque, le ragioni della semplificazione accentuata della materia. Non si tratta ovviamente di una mera questione formale, perché il prologo è il luogo deputato all’incontro tra l’autore e il lettore, figure ormai indistinguibili, nell’avanzato processo di dilatazione del campo di applicazione della retorica medievale, dalla coppia orator-auditor della causa giudiziaria. La letteratura, mossa da profonde istanze etiche, segue i protocolli della controversia: anche i prologhi letterari devono rendere l’uditore-lettore «più atteso» o «più benivolo» o «più ammaestrato». Nel caso della Miseria, si tratta di stabilire un contatto tra un’opera assai diffusa, tradotta e commentata, il De miseria, e un pubblico poco incline alla meditazione penitenziale, attraverso la mediazione di uno «sponitore» abile e tendenzioso. Accade insomma ciò che accadeva, in campo diverso e con diverse finalità, nella Rettorica di Brunetto Latini: Tulio Cicero, «il più sapientissimo de’ Romani», viene testualmente evocato in zone specifiche del trattato e costretto al ruolo di coautore6 accanto a Brunetto che, in quanto «sponitore», potrà serenamente adattarne i contenuti sulla base della sensibilità del suo uditore – anch’egli presente nel testo e più volte chiamato in causa. L’adattamento e la correzione della parola del retore latino si realizzano per il tramite di autorevoli fonti7 tra le quali, analogamente a quanto vedremo nel caso di Bono, Boezio ha ampia parte e il testo nuovo si colloca a mezza via tra il commento e l’opera originale, insinuando nel lettore la sensazione della corresponsabilità. Il vantaggio del commentatore è quello di essere promosso al più alto e autorevole livello di auctor e di trovarsi in eccellente compagnia. 5

Bono Giamboni, Fiore di rettorica, edizione critica a cura di G. Speroni, Università di Pavia 1994, p. 60 ss. 6 «L’autore di questa opera è doppio: uno che di tutti i detti de’ filosofi che fuoro davanti a lui e dalla viva fonte del suo ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicero, il più sapientissimo de’ Romani. Il secondo è Brunetto Latino, cittadino di Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e chiarire ciò che Tulio avea detto», Brunetto Latini, La rettorica, testo critico a cura di Francesco Maggini, Firenze, 1915, p. 5. 7 Il commentatore si prefigge il compito di «isponere e chiarire ciò che Tulio aveva detto», non solo attraverso «lo suo proprio detto», ma anche per mezzo «de’ filosofi e maestri che sono passati», ibidem.

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Uno dei fatti che ha orientato la critica a considerare la Miseria dell’uomo come un’opera ormai «di original dettatura» o comunque un trattato che prende programmaticamente le distanze dall’opera di partenza è, come si diceva, la totale obliterazione del nome dell’auctor, Lotario, da cui il volgarizzamento giamboniano, per dirla eufemisticamente, prende spunto. Siamo dunque, almeno in superficie, a un grado più avanzato rispetto a quanto accade nella Rettorica: Brunetto si giova della convivenza sincronica con Cicerone, mentre Bono – nel Fiore di rettorica come nella Miseria – appare ormai emancipato dai precedenti latini e ritiene di poter procedere in solitaria, essendosi appropriato della materia. Si tratta tuttavia di una solitudine assai rumorosa. Già la rubrica che precede il Prolago realizza una fusione straordinaria tra due opere notissime appartenenti al medesimo “genere” del contemptus mundi, il De miseria e il De consolatione philosophiae, componendo un palinsesto al fondo del quale sta l’opera più recente di Lotario e, più in superficie, e meglio visibile, il capolavoro di Boezio. Dal punto di vista di Bono Giamboni, si trattava di due contemptus mundi, ma orientati a differenti risultati. Il contemptus carnis di Lotario, avvertito come una preziosa eccezione per la sua attenzione esclusiva all’uomo – anzi alla materia corruttibile di cui l’uomo è fatto, alla carne, al corpo in quanto gravame e gabbia contaminante per lo spirito – viene come ricondotto al genere di cui rappresentava una specializzazione: Questo Libro dà conoscimento perché si possano consolare coloro, che dalle tribolazioni del mondo si sentono gravati. E dà inviamento a coloro, che sono rei, di umiliarsi e convertirsi, considerando il loro malvagio stato e pessima condizione, a che sono dati in questo mondo e nell’altro. E dà conforto e vigore a coloro, che sono buoni, di megliorare, per la speranza che mostra del loro guiderdone (Della miseria, p. 3).

La parenesi severissima e senza scampo del De miseria si attenua nella formula pietosa dell’invito – si tratta di dare «inviamento», di soccorrere e non di ammonire e spaventare – ed è come diluita, tra l’obiettivo di «consolare coloro, che dalle tribolazioni del mondo si sentono gravati» e quello di incoraggiare chi sia già incamminato sulla retta via. L’evocazione del De consolatione si realizza in due momenti e su due piani: anzitutto con la citazione quasi letterale dell’incipit del trattato boeziano e, successivamente, con la messa in scena della boce, personaggio senza nome ricavato dalla efficace e complessa personificazione della Filosofia, ma sottoposto a uno spericolato processo di semplificazione. 111

Il segmento introduttivo del prologo, inoltre, mentre sortisce l’effetto di amplificare l’evidenza del debito intertestuale nei confronti dello sventurato filosofo romano, risulta anche utile all’autore nel perseguimento dell’obiettivo retorico di catturare la concentrazione e la benevolenza dell’uditorio (del lettore): Pensando duramente sopra certe cose, laonde mi pareva in questo mondo dalla ventura essere gravato, sì s’infiammava d’ira e di mal talento spesse volte il cuore mio, e tutta la persona ne stava turbata: onde una notte, fortemente pensando, udii una boce, che mi chiamò, e disse: Che fai Bono Giamboni? Di che pensi cotanto, e combatti te medesimo con tanti pensieri?

La splendida apertura – l’esordio dell’esordio – che precede l’apparizione della boce esibisce tutta la fabbrilità retorica di Bono e ripercorre l’efficace via boeziana di incominciare il discorso con la messa a nudo di un evento personale8. In tal caso lo scrittore, nell’assumere il segmento narrativo “personale” tra due sintagmi semanticamente equivalenti, ma chiasticamente disposti («pensando duramente»/«fortemente pensando»), mette in chiara evidenza che il trattato affronterà questioni relative alla percezione individuale dei casi della vita e proverà ad indicare vie d’uscita di carattere filosofico: l’immagine disperante di un uomo gravato dalla sorte e paralizzato dal suo stesso pensiero, così costruita, esalta la funzione salvifica della boce9. Quest’ultimo personaggio, come dicevamo, somiglia molto alla Filosofia del trattato di Boezio – soprattutto perché abbiamo presente la dilatazione della funzione narrativa della boce nel Libro10 – ma ha un peso 8

Uno dei modi più efficaci per rendere «l’uditore più benivolo», già secondo la retorica antica, consiste nella confessione al pubblico di sventure personali: «Da la sua persona si fa colui che favella benivolo l’uditore […] se […] dirà alcuna cosa di sue miserie, sì come povertà, o che sia stato in prigione, o dirà di sue avversitadi», Bono Giamboni, Fiore di Rettorica, cit., p. 62. 9 Anche qui, a convincerci che il “palinsesto intertestuale” dell’incipit della Miseria del Giamboni ha un ulteriore terzo strato ciceroniano, sono presenti alcuni fenomeni sintattico-retorici osservati da Guido Baldassarri per sostenere la derivazione – diretta o indiretta – dell’incipit del Libro de’ vizi e delle virtudi dal De oratore di Cicerone. Cfr. G. Baldassarri, Sull’incipit del Libro…, cit. 10 Bono Giamboni, Il libro de’ vizi e delle virtudi e Il Trattato di virtù e di vizi, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1968. Sulla rappresentazione e sulla funzione narrativa di Filosofia nel Libro de’ vizi e delle virtudi, si veda J. Bartuschat, Visage et fonctions de la Philosophie dans l’allégorie de Bono Giamboni, «Revue d’études italiennes», t. XLIII, 1-2 (1997), pp. 5-21.

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nettamente inferiore. Tra la donna di venerabile aspetto, dallo sguardo splendido e lungimirante, coperta da vesti decorate da simboli eloquenti e questa boce che irrompe invisibile e repentina, dispensando brani ricavati da molte fonti ed eterogenee, lo scarto è notevole. E non solo perché Filosofia, nel capolavoro boeziano, approccia il suo discepolo mostrandosi, parlandogli e persino toccandolo e si costituisce essa stessa, fin dal suo primo apparire, come un percorso di conoscenza allegorico; ma anche, e soprattutto, perché tra la guida e Boezio-personaggio si stabilisce un sodalizio di grande importanza nell’acquisizione dello strumentario etico minimo da parte del protagonista. Il modesto ruolo giocato dalla voce – e dunque la paradossale sopravvalutazione della capacità dell’uomo di compiere un percorso di verità e scienza senza il soccorso di una guida specifica – risulta evidente dal seguente passaggio del Prolago in cui si narra il suo congedo: E nel partire che si fece la boce fui desto, e guarda’mi d’intorno e non viddi nulla. Allora mi segnai, e umilemente orai, e dissi: Boce di sapienza e di beatitudine, che a me per consolarmi se’ venuta, dammi forza e vigore di trovare quello, onde tu m’hai ammaestrato. E quando hei così detto, mi levai ritto in piede del tenebroso luogo, ove pensando giacea doloroso, e cominciai a cercare la Scrittura, e a vedere i detti de’ Savi sopra la miseria della vita dell’uomo. E quando hei assai cercato e veduto e diligentemente considerato, sì si mosse il cuore mio a pietade, e cominciai dirottamente a piagnere, pensando tanta miseria, quanta nella creatura dell’uomo e della femmina avea trovata (Della miseria, p. 8, corsivi nostri).

Avendo un intento meramente consolatorio e avendo evidentemente a che fare con un allievo assai maturo e già istruito, la voce si limita a risvegliare il discepolo. La contritio cordis, inoltre, non è provocata dalla severità dell’insegnamento o degli ammonimenti della magistra, ma da una lunga operazione di ricerca, lettura e riflessione: il discepolo piange solo dopo aver «cercato», «veduto» e «diligentemente considerato». Proprio quella scientia che Lotario, nel cap. XII del primo Libro del De miseria considerava non solo inutile ma anche dannosa11, pare qui un prerequisito necessario al conseguimento della salvezza. 11

«Deficiant ergo scrutantes scrutinio, quoniam accedet homo ad cor altum et exaltabitur Deus. “Perscrutator maiestatis opprimetur a gloria”. Qui magis intelligit, magis dubitat, et ille videtur plus sapere, qui plus desipit. Pars ergo scientie est scire quod nesciat. “Fecit autem Deus hominem rectum, et ipse se infinitis miscuit questionibus”», De diverso studio sapientum, in De miseria, lib. I, cap. XII, pp. 17-18.

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E anche quando si tratterà di valutare le pulsioni più insidiose per l’uomo, laddove il futuro Papa individuava nelle ricchezze, nei piaceri e negli onori l’origine delle colpe più gravi12, il traduttore, recuperando i contenuti del capitolo De diverso studio sapientum, proporrà un modello che include la fame di sapere: sono le fatiche dell’uomo tante, che non si potrebbe dire ora sopra tutte. Ma dirotti sopra quattro principali, per le quali l’uomo maggiormente s’affatica. L’una si è per divenire savio delle cose; la seconda, per ragunare ricchezze; la terza, per li desideri della carne; la quarta, per le signorie e per gli onori (Della miseria, p. 35).

Tra le quattro tendenze della natura umana, secondo Bono, il desiderio di «divenire savio delle cose» è tuttavia l’unica innocua e priva di conseguenze peccaminose13 ed anzi – per via dell’orientamento imposto dal prologo e proprio perché la ricerca del sapere fa ora corpo unico con altre disposizioni scellerate14 – può addirittura essere considerata una tendenza positiva e salutare. Ancora una volta è una particolare e antica tradizione interpretativa della Consolatio che interviene a misurare una distanza dal De miseria. Fin dall’epoca carolingia, attraverso commenti, raffigurazioni e riscritture, si era associata l’immagine della Filosofia boeziana con quella della Sapienza biblica, a rappresentare un 12

«Opes generant cupiditates et avaritiam, voluptates pariunt gulam et luxuriam, honores nutriunt superbiam et iactantiam», De culpabili humane conditionis progressu, in De miseria, lib. II, cap. I, p. 39. 13 «La prima, cioè per essere savio delle cose, avvegna che sia fatica vana, si è molto vaga e naturale all’uomo, e ciascheduno vi si affatica volentieri… Le altre sono fatiche di peccato, perché delle ricchezze nascono cose ree, cioè cupiditate ed avarizia; e de’ desiderj nascono cose sozze, cioè ghiottoneria e lussuria; e degli onori nascono cose vane, cioè vanagloria e superbia», Della miseria, p. 35. 14 Nel De Miseria, il cap. De diverso studio sapientum si trovava nel I libro, a notevole distanza da quello nel quale si introducono le tre tendenze peccaminose. Johannes Bartuschat, mentre sostiene che l’allegoria di Filosofia nel Libro «traduit une conception de la sagesse où s’unissent le savoir profane de la Philosophie, le savoir sacré de la théologie, et le savoir pratique de la morale», individua, su tale questione, un conflitto irrisolto nel trattato Della miseria: «d’un côté Bono y condamne, en conformité avec la pensée d’Innocent III, tout le savoir humain comme vain, de l’autre il considère l’aspiration au savoir comme un don naturel de l’homme. Il en arrive au paradoxe de condamner, en un même phrase, cette aspiration et de la célébrer avec les mots d’Aristote qui ouvriront le Convivio», Johannes Bartuschat, Visage et fonctions de la Philosophie…, cit., p. 11. A noi pare che qui il sapere – un certo tipo di sapere – sia considerato un utile strumento per affrontare il breve transito terreno, ma inutile e “vano” in una prospettiva oltremondana.

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sapere funzionale al tormentato percorso della vita, un sapere «empirico, pratico, diffidente verso le lusinghe del mondo e la “vanità” del creato rispetto al mistero divino»15. L’opera filosofica del raffinato pensatore neoplatonico, per ampi settori della società medievale e per lungo tempo, è ritenuta una narrazione esistenziale ricca di suggerimenti morali16 assai utili all’impresa traduttiva di Bono. Non stupirà allora che la prima sententia pronunciata dalla voce, con efficace escamotage narrativo, sia ricavata proprio dalla Consolatio e attribuita dalla creatura boeziana, allo stesso Boezio: Bene ti dovresti ricordare di quello che disse Boezio: Neuna cosa è misera all’uomo, se non quanto egli pensa che misera sia; perché ogni ventura è a lui beata, secondamente ch’egli in pace la porta (Della miseria, pp. 3-4).

Tale segmento, di ordine ora più psicologico che etico, proposto all’innesco della serie di affermazioni della soccorritrice di Bono, genera nel lettore la netta impressione che il narratore si serva dell’autorità del filosofo romano per poter superare senza troppa difficoltà l’impostazione del contemptus di Lotario: una virata relativista, capace da sola, di smentire tutto il contenuto del De miseria. L’intensità dei colpi con cui la sorte infierisce sugli uomini, si dice nella sentenza boeziana, dipende dallo spirito con cui viene affrontata e, dunque, il grado di prostrazione conseguente alle sventure è misurabile diversamente da individuo a individuo. Quale scarto potrebbe apparire maggiore rispetto alle implicazioni egualitarie e paralizzanti implicite nell’organizzazione del De miseria? La voce non pare, inoltre, capace di particolari ambizioni teoretiche e imbocca la via dell’insegnamento pragmatico, disponendo l’intera batteria delle autorità normalmente associate alla Consolatio: Seneca, Salomone, Giobbe, San Paolo, generici Savi e poeti pagani. Uno schieramento estremamente eterogeneo assunto come un coro di note convergenti in un accordo perfetto: Seneca e Boezio, entrambi sono filosofi duramente colpiti dalla sventura, stanno uno accanto all’altro perché latori di strumenti letterari consolatori ed edificanti, esattamente come i libri sapienziali del 15 F. Troncarelli, Boezio, in Lo spazio letterario del medioevo, 2. Il medioevo volgare, diretto da P. Boitani, M. Mancini, A. Varvaro, La ricezione del testo, vol. III, Roma, Salerno, 2003, p. 306. 16 Troncarelli nota che l’ultima opera dello sventurato senatore romano nella tradizione manoscritta compare molto frequentemente accanto ad autori “morali” (Persio, Seneca, Prudenzio, Giovenale), piuttosto che a testi filosofici. Ivi, p. 305.

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Vecchio Testamento e le Epistole di Paolo. C’è da supporre che il percorso di erudizione «sopra la miseria dell’uomo», compiuto dal protagonista dopo l’allontanamento della sua guida minima, attraversi tale reticolo di tradizioni per individuare il più importante strumento che possa soccorrere l’uomo durante il suo breve transito terreno: la virtù della Pazienza, quella che «tutte le avversitadi vince» (Della miseria, p. 6). Nella parte del capitolo IV del secondo Libro, dedicata ai rimedi alle tribolazioni – qualora non le si possa «schifare, o schencire» – risulta più chiaro il peso della virtù alla cui corte possono ritrovarsi a proprio agio il filosofo istruito alla scuola stoica, il suo collega neoplatonico, Salomone e Paolo, tutti assorti a contemplare l’emblematico esempio di Giobbe: e se fuggire non le puote [scil. le tribulazioni], dicono i Savi, che non le dee l’uomo colpare, né biasimare, perché colperebbe colui, i cui giudizj sono segreti appo noi, e tutte le cose fa per lo meglio; ma deesi guernire e armare di pazienza, perché ella è verace rimedio di tutti i dolori, e porto sicuro al quale chi ricorre non teme tempesta d’alcuna avversità, che gli avvenga. Per la qual cosa dicono i Savi, che la pazienza passa tutte le altre virtudi; e sono dette vedove se non sono di pazienza fermate. E chi le tribolazioni porta e soffera in pace, se glie ne se seguitano molti beni; e chi in pace non le porta, se gli conviene sofferirle al postutto, e da Dio non è meritato17.

La virtù della Pazienza garantisce la continuità tra il pensiero stoico, con il suo strumentario ‘psicoterapeutico’ e morale, e il pensiero cristiano. Si dovrà però notare, nel procedimento sfrenato di divulgazione in chiave pragmatica e terragna della materia, la sopravvalutazione di una virtù normalmente considerata “secondaria” rispetto alla Fortitudo18. E non si tratta di una promozione isolata, se si considera che anche nel Libro de’ vizi e delle virtudi – dove Pazienza appare, tra altre virtù minori, regolarmente intruppata nelle schiere di Fortezza19 – c’è un momento nel 17 De’ rimedj, che dee pigliare l’uomo in su le tribulazioni, e de’ beni che ne incontra a colui, che i rimedj serva, in Della miseria, cap. IV, p. 29. 18 Cfr. M. Spanneut, s.v. “Patience”, Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, Paris, Beauchesne, 1990. 19 All’origine della sistemazione c’è, evidentemente, il De inventione ciceroniano: «Fortitudo est considerata periculorum susceptio et laborum perpressio. Eius partes magnificentia, fedentia, patientia, perseverantia […]; patientia est, honestatis et utilitatis causa, rerum arduarum ac difficilium voluntaria ac diuturna perpessio», De inventione, lib. II, 54, 163-164. Bono seguiva la lezione di Cicerone quando, nel descrivere le schiere delle virtù, incarica Filosofia di spiegare cosa sia la Fortezza: «Fortezza è una

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quale la virtù prende il sopravvento sulle altre: dopo la goffa caduta di Superbia, terminata la breve psicomachia, pronuncia il discorso funebre per la boriosa rivale, si assume il compito di cremarla e spargere le ceneri al vento. È l’unica virtù a parlare in quel frangente e la sua prolusione è il perfetto controcanto a quella del principio di tutti i mali20. Questa Pazienza sembra – come l’aveva definita Gregorio Magno – «radix omnium custosque virtutum»21 perché conduce al controllo della propria anima attraverso la pratica di una disciplina consapevole, attraverso la «voluntaria ac diuturna perpessio» indicata nel De inventione. E essendo volontaria, non può che essere frutto della conoscenza. Infatti «ognuno – spiega ancora l’Omelia di Gregorio, in un passaggio ispirato a Prov., 19, 11 – si mostra tanto meno dotto, quanto più si vede che è sprovvisto di tale virtù»22. L’inconsueta dilatazione del valore della Pazienza – rispetto a un’ampia e prestigiosa tradizione, ma anche rispetto alle esplicite sistemazioni dello stesso autore nelle sue altre opere – si può spiegare come ulteriore tassello di una precisa strategia di “appropriazione” dei contenuti del trattato di Lotario e di tutte le altre fonti.

virtú d’animo per la quale l’uomo né per tribulazioni del mondo si fiacca, né per lusinghe de la Ventura monta in altura. E cosí vedi che Fortezza è virtú per la quale l’animo dell’uomo stae fermo contra l’aversità a sostenere i pericoli e le fatiche de le tribulazioni del mondo. E però si riferiscono a costei tutte le Virtú che nell’aversità fanno l’uomo fermo e costante, e son queste: Magnificenzia, Fidanza, Sicurtà, Fermezza, Pazienzia, Perseveranzia, Longanimità, Umiltà, Mansuetudine […]. Pazienzia è fortezza d’animo per la quale l’uomo soffera in pace le fatiche e i pericoli de le tribulazioni del mondo», Delle schiere della Fortezza e de’ suoi capitani, in Bono Giamboni, Il libro…, cit., cap. XXXIV, pp. 59-60; il medesimo schema verrà ripetuto dalla viva voce di Fortezza che confermerà: «Per pazienzia èe l’animo forte, quando soffera l’uomo in pace i pericoli e le fatiche delle tribulazioni e angosce del mondo», De li ammonimenti della Fortezza, ivi, cap. LXXII, p. 114. Il contenuto del cap. XIX del Trattato, Della terza virtù cardinale, cioè di Fortezza, e di sue vie, come già notato da Segre (C. Segre, Introduzione, in Bono Giamboni, Il Libro…, cit., pp. XVI-XVII), differisce lievemente, ma, per ciò che riguarda il nostro discorso, propone già la subordinazione della Pazienza alla Fortezza. Cfr. anche Come si può consigliare per via di fortezza, in Bono Giamboni, Fiore di rettorica, cit., cap. 78, pp. 92-93. 20 De’ rimproveri della Pazienza, che fa sopra ’l corpo della Superbia, in Bono Giamboni, Il libro…, cit., cap. LX, pp. 98-99. 21 Homilia XXXV, 4, in Gregorius Magnus, Homiliae in Evangelia, cura et studio Raymond Étaix, Turnhout, Brepols, 1999, p. 324. 22 «Tanto ergo quisque minus ostenditur doctus, quanto convincitur minus patiens», ivi, p. 325.

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Dicevamo che il Prolago descrive un percorso tortuoso di apprendimento libresco23 – a monte del quale c’è già una notevole conoscenza – favorito da una serie di suggerimenti “bibliografici” della boce e, lungo tale via, indica l’argomento che intende trattare, le finalità che si propone, il pubblico cui si rivolge e, ciò che qui ci interessa di più, le ragioni che lo hanno persuaso a compilare il libro24. La parte finale è dedicata proprio all’esplicitazione di tali dati. L’«operetta» vuole mostrare ordinatamente «tutta la misera condizione dell’umana generazione» a vantaggio «degli uomini e delle femmine, sì come degli alletterati, come dei laici» (Della miseria, pp. 9-10). Costoro, «leggendo o udendo leggere altrui», dovranno prendere atto della propria debolezza e, quindi, umiliarsi e convertirsi. Si tratterebbe, dunque, di un’azione divulgatrice ed edificante rivolta anche alle donne e agli illetterati, se non fosse per la giustificazione modernissima proposta in coda: E avvegna che conosca bene, che io non sono di tanto senno, ch’io sia sofficiente da potere pienamente dire quello che nuovamente ho trovato, e che si converrebbe a così utile Trattato, impertanto io non mi rimarrò di sforzarmi di dire quello che ho ritrovato, per dare inviamento a coloro, che sono più savi di me, di compiere ed amendare quello che male, o meno per me fosse detto. Ed io ne starò volentieri al loro compimento, considerando che così sono trovate tutte le scienze, che l’uomo hae cominciate: e l’altro vedendo il detto di colui, sopra quella materia ha trovate cose nuove, laonde tutte le scienze in questo mondo sono avanzate.

Bono Giamboni, senza false modestie, inserisce questa sua opera nel più ampio contesto delle altre opere più o meno autorevoli dello stesso genere e rivendica esplicitamente la sua originalità rispetto a una precisa letteratura. Come autore ritiene così di poter stare non solo “accanto” agli altri, spesso decisamente più prestigiosi, ma, avendo trovato qualcosa di nuovo, addirittura “oltre” gli altri. Se il suo trattato, nella prospettiva futura, è affidato serenamente alla cura emendatrice e migliorativa di intelligenze migliori, allora anche dal passato si pretende la medesima 23

In questo sta la differenza principale tra il trattato Della miseria e il Libro, nel quale l’apprendimento si giova non solo dell’insegnamento teorico impartito da Filosofia e dalle altre virtù, ma anche di un altrettanto importante tirocinio pragmatico, cfr. C. Segre, Il viaggio allegorico-didattico: un mondo modello, in Id., Fuori del mondo. I modelli della follia nelle immagini dell’aldilà, Torino, Einaudi, 1990, pp. 49-66. 24 Nel caso di un semplice volgarizzamento o di un commento Bono avrebbe introdotto un accessus al testo di partenza.

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mitezza e serenità dinanzi alla fatica di Bono. La scienza progredisce per un accumulo di sapere e alle nuove acquisizioni si giunge solo «vedendo il detto» degli scrittori del passato sul medesimo argomento. Poco sopra, nel commentare la prima battuta della “boce” che richiamava una sentenza boeziana, notavamo un intenzionale scarto rispetto all’impostazione di Lotario. La citazione dal De consolatione è una spia importante dell’atteggiamento giamboniano alle prese con un tentativo di rifunzionalizzazione di una serie di argomenti già proposti dalla trattatistica morale precedente. Si trattava, fin dal principio, di spostare l’attenzione del lettore dalla “miseria assoluta” dell’umanità dopo la caduta verso la “miseria percepita” da ciascun uomo a seconda della sua capacità di reggere i colpi della sorte. Le “due” miserie non sono, agli occhi del compilatore del trattato volgare, né incompatibili, né alternative. Proprio perché ciò che aveva affermato Lotario è profondamente vero, Bono avverte la necessità di presentare, con il soccorso di molta letteratura e di una parte assai ampia del De miseria, un nuovo strumento consolatorio più attento a evidenziare le diverse possibilità degli individui dinanzi a una medesima sorte25.

25 Gioverà in seguito un’indagine sul peso delle opere di Albertano da Brescia nei testi di Bono Giamboni e, per ciò che qui più ci interessa, sulle ragioni del continuo ricorso alle sententiae utilizzate dal causidico bresciano nel De amore et dilectione Dei et proximi.

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La letteratura “consegnata al popolo”: le vite dei santi nel Medioevo romanzo Mauro Badas

È ormai fatto acquisito che la letteratura agiografica si ponga nel variegato panorama romanzo del basso Medioevo come un “osservatorio privilegiato”1 non soltanto per comprendere le dinamiche religiose, ma anche per avere un disegno preciso della società e della cultura del tempo. I motivi di questa trasparenza sono molteplici e gli studiosi stanno con sempre maggior precisione definendo i contorni e chiarendo le prospettive di questo settore della letteratura, che negli ultimi decenni comincia finalmente a ricevere l’attenzione che merita2. Anzitutto vi è da registrare il legame a doppio filo che tale produzione ha da sempre con il culto. La scrittura agiografica non è mai fine a se stessa, ma ha sempre un qualche rapporto con la festa del santo, con la 1

L’espressione è di S. Boesch Gajano, in Premessa a Raccolte di vite di santi dal XIII al XVIII secolo: strutture, messaggi, fruizioni, a cura di S. Boesch Gajano, Fasano, Schena, 1990, p. 9. 2 Impulso fondamentale a questo genere di studi è stato dato dal 1978 dalla Società Internazionale per lo Studio del Medioevo latino (S.I.S.M.E.L.), con la presidenza (oggi onoraria) di Claudio Leonardi, tra le cui iniziative si segnala la rivista «Hagiographica» (pubblicata dal 1994). Nel 1987 è nata anche la Fondazione Ezio Franceschini, che nel 2003 ha pubblicato in due volumi e un CD-ROM, in collaborazione con l’École française de Rome, grazie a un lavoro di équipe diretto da Jacques Dalarun e Lino Leonardi, la Biblioteca Agiografica Italiana. Repertorio dei testi agiografici in volgare (secoli XIII-XV). Risulta prezioso inoltre il lavoro, iniziato a metà degli anni ’90, dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia (AISSCA), diretta da Sofia Boesch Gajano, che con diverse iniziative editoriali, come la rivista «Sanctorum», e una serie di convegni a cadenza annuale, ha fatto progredire la disciplina facendola diventare campo privilegiato di ricerche pluridisciplinari. Il primo numero di «Sanctorum» risulta particolarmente interessante per il tema scelto: l’edizione critica delle fonti agiografiche.

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liturgia: si registra comunque un uso dei testi per fini edificanti e didattici e, come di recente ha ribadito Umberto Longo, «tale legame contribuisce anche a conferire all’agiografia una dimensione attualizzante; il fatto che essa sia un prodotto con una continuità di utilizzo comporta che i testi siano in osmosi costante con gli orientamenti religiosi della società e degli ambienti che li utilizzano»3. Forse in misura maggiore rispetto ad altri generi letterari il testo agiografico travalica il tempo della scrittura per orientarsi decisamente verso quello della fruizione, forzando i limiti temporali per riattualizzarsi dialetticamente nel presente, rielaborando continuamente la memoria della vicenda narrata. È come se le vite dei santi, anche con tutto quanto vi è spesso di posticcio e a volte perfino di trasgressivo, paradossalmente riescano a gettare una luce più penetrante su quanto vi è sottostante la vita di una comunità, facendone intuire i movimenti, le dinamiche e le contraddizioni, proprio perché la storia esemplare è cucita su misura e adattata continuamente alle esigenze dei fedeli di quella determinata situazione e di quel preciso tempo. Un’efficace immagine di Corrado Bologna spiega bene la preziosa ricchezza di testi di questo tipo: «lungo l’intero corpus agiografico è sempre ‘un altro’ discorso che attraversa il filtro della codificazione, e […] la superficie testuale cela ed insieme lascia intuire, come nei palinsesti sottoposti alla lampada, gli scavi, le rimozioni, i riporti, le sovrastrutture profonde, che (quelle sì, davvero!) non sono ‘soltanto’ letterarie»4. Il paragone con l’utilizzo della lampada di Wood non può essere più adatto, in quanto così come materialmente chi si trova di fronte a un palinsesto deve cercare di recuperare una scrittura svanita, che non appare a occhio nudo sulla superficie testuale, così il filologo ha anche il compito di far emergere le indicazioni, celate nella storia esemplare, rivelative dell’intenzione dell’agiografo e della sua strategia nei confronti di un pubblico ben preciso, a sua volta da caratterizzare nella sua fisionomia. Come osserva Ovidio Capitani: «Applicata al testo agiografico, la filologia ne accerta la tradizione, le infiltrazioni, le sedimentazioni, le fruizioni; e può determinare, in tal modo, non solo quello che originariamente 3 U. Longo, La santità medievale, con un saggio introduttivo di G. Barone, Roma, Jouvence, 2006, p. 41. 4 C. Bologna, Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune metamorfosi nelle categorie letterarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medievali, in Culto dei santi, istituzioni e classi sociali in età preindustriale, a cura di S. Boesch Gajano e L. Sebastiani, L’Aquila-Roma, Japadre, 1984, pp. 264-265. La frase è stata già citata per altri aspetti in M. Badas, Fedeltà ed eversione nella letteratura agiografica dopo il Mille, in «Portales», VIII, dic. 2006, p. 19.

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“non c’era” ed è stato aggiunto o quello che “c’era” ed è stato soppresso, ma testimoniare una “storia” del tutto autonoma, che, pur non corrispondendo ai dati esistenziali del personaggio, segna le varie fasi della storia di un modello»5. E così, proprio applicando questo metodo, si è osservato che specie a partire dal XII secolo, e in generale con l’avvento degli idiomi romanzi, le vite dei santi non risultano essere soltanto il resoconto di una esistenza esemplare destinato magari alla cerchia ristretta di un monastero per la meditazione dei monaci, ma vanno a disegnare quella che Andrè Vauchez chiama religion civique6: si tratta di quel fenomeno per cui i laici esprimono per la prima volta nella società medievale con forza i valori della vita religiosa appropriandosene in prima persona e utilizzando proprio tale istanza per autodefinirsi come gruppo ben preciso all’interno della comunità, in maniera non più subalterna rispetto ai chierici7. Tale processo si verificò nella nostra Penisola con un certo anticipo, in quanto, come ha messo in evidenza Auerbach: In Italia, molto prima che altrove, la vita politica ed economica si svolgeva in comuni cittadini indipendenti, così che vi prendevano parte molte più persone. […] C’era per esempio a Bologna, Firenze, Arezzo, Siena, un patriziato cittadino relativamente numeroso, la cui composizione spesso si rinnovava, che aveva parte dirigente nella vita pubblica e aveva bisogno di istruzione. Per conseguenza in queste città sorse prestissimo una specie di sistema di istruzione cittadino che produceva un gruppo relativamente numeroso di laici colti8.

Questo patriziato istruito in varie città entra in prima persona nella scrittura di testi religiosi, utilizzando dapprima il latino, e poi con l’av5 O. Capitani, Premessa a Emore Paoli, Agiografia e strategie politico-religiose. Alcuni esempi da Gregorio Magno al Concilio di Trento, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1997, p. IX. 6 Cfr. A. Vauchez, Introduction, in La religion civique à l’epoque médiévale et moderne (Chrétienté et Islam), Actes du Colloque organisé par le Centre de recherche «Histoire sociale et culturelle de l’Occident. 12.-13. siècle» de l’Université de Paris 10 Nanterre et l’Institut universitaire de France (Nanterre, 21-23 jui 1993), sous la direction d’A. Vauchez, Rome, Ecole française de Rome, 1995, pp. 1-5, cit. in E. Burgio, Il volto santo di Lucca e una «fabula» agiografica, in Religiosità e culture. Segni e percorsi della devozione popolare, Giornata di studio (Ovada, Loggia di San Sebastiano, 22 giugno 2002), a cura di S.M. Barillari, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004, p. 46, n. 1. 7 Cfr. E. Burgio, Il volto santo, cit., pp. 45-46. 8 E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 267.

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vento del volgare riadattando i componimenti agiografici al nuovo idioma, in modo autonomo rispetto ai grandi centri ecclesiastici che in precedenza avevano il monopolio della composizione e della diffusione9. Vale anche e soprattutto nel campo agiografico quanto bene descrive Cesare Segre quando afferma: «Democrazia comunale e intensità di lotte politiche sono fattori extraletterari che ebbero effetti decisivi sulla letteratura, strappandola alle scuole per consegnarla al popolo, caricandola di una partecipazione civile»10. La situazione a Venezia esemplifica bene quanto detto: il culto di san Marco viene introdotto nella città lagunare a metà del IX secolo, ma sopravvive per diversi decenni nel disinteresse generale della popolazione, che lo reputava estraneo a sé ed espressione della classe dominante. Soltanto alla fine del X sec. si ha un documento scritto, la Translatio sancti Marci11, che racconta l’arrivo a Venezia del corpo del santo, ma per la prima volta emerge dal testo una religione dei veneziani distinta da quella del doge e delle famiglie ducali dominanti12: contestualmente all’erezione della nuova basilica nel 1096, san Marco viene ora assunto come patrono ufficiale dei lagunari, fulcro di una devozione, strettamente legata, com’era ovvio, al ceto mercantile in ascesa, dotato peraltro di una certa cultura. La storia si ripete per altri culti importati a Venezia nei decenni successivi: a san Marco si aggiungono san Nicola, santo Stefano Protonotaro e altri, definendo uno scenario variegato in cui alla pluralità dei culti si accompagna la volontà, da parte della comunità urbana suddivisa in contrade, di rendere esplicita la propria identità attraverso l’accostamento alla figura dei vari santi13. «Era infatti segno visibile», osserva Giorgio Cracco, «di una società sempre più composita, che nutriva in sé la 9

Cfr. G. Baldassarri, Letteratura devota, edificante e morale, in Storia della Letteratura Italiana, vol. II, Roma, Salerno, 1995, p. 212. 10 C. Segre, I volgarizzamenti, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, a cura di G. Cavallo, C. Leonardi, E. Menestò, vol. III. La ricezione del testo, Roma, Salerno, 1995, p. 278. 11 Cfr. N. McCleary, Note storiche ed archeologiche sul testo della «Translatio Sancti Marci», «Memorie storiche forogiuliesi», XXVII-XXIX (1931-1933), pp. 238264. 12 Cfr. G. Cracco, I testi agiografici: religione e politica nella Venezia del Mille, in Storia di Venezia, vol. I, Origini - Età ducale, a cura di L. Cracco Ruggini, M. Pavan, G. Cracco, G. Ortalli, Roma, Istituto dell’enciclopedia italiana, 1992, pp. 935-40; S. Tramontin, Culto e Liturgia, in Storia di Venezia, vol. I, cit., pp. 900-908. 13 Cfr. G. Cracco, op. cit., pp. 947-949; S. Tramontin, op. cit., pp. 909-912. Cfr. anche F. Grioni, La Legenda di santo Stadi, a cura di M. Badas, Roma-Padova, Antenore, 2009, pp. LIV-LVI.

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necessità di ridiscutere dalle radici i fondamenti stessi dell’essere città, e trovare eventualmente nuovi modelli di santità. Di conseguenza ciascuno dei luoghi di culto cercò di differenziarsi con un suo proprio santo, una sua reliquia, una sua specifica leggenda agiografica, con cui mettersi in concorrenza con altri luoghi»14. Occorre sottolineare che proprio a partire da un testo agiografico, la Translatio sancti Marci, si sono potuti recuperare dati relativi al mutamento sociale di una città in fermento, com’è la Venezia dei primi secoli del secondo millennio, proprio perché la storia del santo, o meglio il racconto dell’arrivo in città del suo corpo miracoloso, è il dato più luminoso della presa di coscienza del sentimento religioso di un gruppo cittadino particolare. Una dinamica simile, per citare solo un altro caso, è stata messa in luce di recente da Eugenio Burgio il quale ci testimonia, a proposito del Volto Santo di Lucca, il celebre e veneratissimo crocifisso oggi conservato nel duomo della cittadina toscana, come «alla pratica religiosa si accompagnò una testualizzazione agiografica: la composizione di una fabula la cui funzione era – secondo una modalità tipica nei processi culturali del Medioevo – giustificare mitograficamente la pratica»15. Appare abbastanza chiaro come una testualità religiosa di questo tipo non può che avere un rapporto privilegiato e speciale con la comunità a cui si rivolge. Come già si accennava pocanzi, è noto che chi componeva testi agiografici aveva il compito non solo di delectare ma anche di docere e movere, e questo rientrava peraltro nell’attesa di chi ascoltava o leggeva questo tipo di letteratura. Una vita di santo che non avesse anche il compito di fungere da modello concreto di cristianità da imitare nella vita quotidiana sarebbe stata inconcepibile nella società medievale. Tutto questo si interseca negli ultimi secoli del Medioevo con la reazione pastorale dei chierici di fronte a questa società in fermento. Il fiorire delle attività commerciali, l’urbanesimo crescente, lo stesso bisogno espresso dai laici di una presa di coscienza precisa della propria identità religiosa, protagonisti come appena visto fino ad essere loro stessi promotori dei culti dei santi ed estensori dei racconti della loro vita, spinsero a sua volta l’istituzione ecclesiastica a utilizzare una maggiore varietà di strumenti per guidare le istanze religiose: quasi di rimbalzo ecco che assistiamo specie dal ’200 in buona parte del Medioevo romanzo a un 14 15

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Cfr. G. Cracco, op. cit., pp. 950-955. Cfr. E. Burgio, Il volto santo, cit., p. 46.

proliferare di testualità religiosa in una sempre più ampia varietà di toni e forme16. Cominciano così a comparire numerosi volgarizzamenti della celebre Legenda Aurea di Jacopo di Varazze, insieme alla composizione di opere specificamente rivolte all’istruzione non solo dei laici, ma anche del clero meno acculturato («trattati e manuali di teologia, parafrasi commentate delle principali preghiere, compilazione degli elementi fondamentali della dottrina»)17, assieme a una fioritura in tutte le lingue neolatine di vite di santi in versi e in prosa. L’intensità di questo rapporto tra scrittore e destinatario viene rafforzata dal fatto che, se è vero che a partire dal XII secolo la scrittura prende mano a mano sempre più importanza, non si può dimenticare che tutta la letteratura medievale, compresa quella del periodo autunnale dell’età di mezzo, è fortemente permeata di oralità. Occorre ricordare quanto afferma Hans Robert Jauss: «Il carattere orale della tradizione letteraria è senza dubbio un aspetto dell’alterità del Medioevo che oggi nessuno sforzo ermeneutico può pienamente ricostruire»18. Si aprono a proposito questioni, ampiamente studiate e dibattute, relative a quale filone della tradizione abbia preso il sopravvento nella messa per iscritto di un testo: l’eterno contrasto tra i sostenitori della tradizione classica o colta e quelli della tradizione folklorica o popolare coinvolge anche gli studiosi di agiografia19. Appaiono però particolarmente descrittive di un dato di fatto, specie nel campo della letteratura religiosa, le parole di Carlo Donà quando sostiene che «almeno per l’epoca medievale, [dunque], le due tradizioni, lungi dal mostrarsi contrapposte, ci appaiono al contrario quasi sempre intrecciate e intimamente commiste: è sempre difficile districare il loro groviglio, e non è comunque produttivo praticare distinzioni troppo nette e recise»20, specie nel momento in cui i testi agiografici venivano recitati 16

Cfr. E. Burgio, Il pubblico della letteratura religiosa nella Francia settentrionale, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, a cura di P. Boitani, M. Mancini, A. Varvaro, vol. III. La ricezione del testo, Roma, Salerno, 2003, p. 67. 17 Ivi, p. 68. 18 H.R. Jauss, Alterità e modernità della letteratura medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 11. 19 Cfr. C. Giunta, Sulla ricezione e sull’interpretazione della poesia delle origini, in Comunicazione e propaganda nei secoli XII e XIII, a cura di R. Castano, F. Latella e T. Sorrenti, Roma, Viella, 2007, pp. 31-48. 20 C. Donà, Tradizioni etniche e testo letterario, in Lo spazio letterario del Medioevo, 2. Il Medioevo volgare, cit., vol. I. La produzione del testo, t. I, Roma, Salerno, 1999, pp. 319-320.

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al popolo dei fedeli non più soltanto dai chierici, ma diventavano oggetto delle performances dei giullari. Donà sottolinea che i testi recitati dai giullari erano di estrazione sfaccettata e complessa e gli stessi ioculatores vengono a ragione considerati portatori di una tradizione mista. A partire da san Bernardo (il primo a paragonarsi a un giullare, prima dei celebri esempi della spiritualità francescana) si registra, come sottolinea Auerbach, una sorta di riconoscimento ufficiale da parte dei chierici della dignità lavorativa e della liceità del guadagno di chi si dedicava senza eccessi o provocazione all’arte giullaresca21. I giullari, e non soltanto loro, non si ponevano problemi a revisionare i testi con aggiunte di interi episodi, tagli, modifiche e altre alterazioni formali, come mostra il proliferare di clausole e ripetizioni formulari: tali operazioni avvenivano non solo per migliorare linguisticamente o stilisticamente il testo, ma per motivi «più propriamente religiosi con una rappresentazione delle caratteristiche della santità del protagonista più consona alle concezioni religiose dell’epoca o dell’ambiente all’interno del quale si produce la nuova scrittura»22. Massimo Oldoni precisa a proposito almeno una direzione di lavoro per chi si occupa oggi di testi agiografici: Consideriamo il caso, fortunatissimo, d’un testo che abbia, nel tempo, più redazioni. Confrontando le varianti con i contenuti, le cadute e le aggiunte, è facilmente possibile avere un quadro preciso di come la tradizione orale abbia lavorato su scrittura e, soprattutto, riscrittura dell’opera: dalla diversità delle redazioni si potrà connotare l’intervento e la consistenza del contributo orale. Ma siamo in presenza di una concomitanza davvero fortunata. Attraverso le successive redazioni d’una vita di santo, ad esempio, noi possiamo misurare l’importo orale che interviene nella formazione del testo23.

Segno più evidente di questo sforzo da parte dello scrittore-esecutore di rendere appetibile e coinvolgente il proprio racconto con un’attenzione crescente verso gli ascoltatori è ovviamente il dialogo con il destinatario. Il pubblico entra cioè in modo massiccio nella costruzione del testo. All’interno della tradizione agiografica romanza si potrebbero individuare numerosi esempi, specie in quello che Burgio giustamente consi21

Cfr. Auerbach, op. cit., pp. 259-260. U. Longo, op. cit., p. 41. 23 M. Oldoni, La tradizione orale e folclorica, in Lo spazio letterario del Medioevo, 1. Il Medioevo latino, cit., vol. I, La produzione del testo, t. I, Roma, Salerno, 1992, p. 633. 22

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dera come «il luogo in cui il Narratore fissa, per così dire, le “regole del gioco” dell’esemplarità della sua narrazione»24: il prologo. Ed è proprio all’inizio della vie de Saint Grégoire, risalente al 1160 circa, dallo stesso Burgio proposta in edizione critica, che l’Autore, dopo essersi rivolto al pubblico, annunciando l’intenzione di raccontare la vita del santo, ne sottolinea il suo carattere esemplare: Icil pechié dont parler vuel Ne fait a dire par orguel, Mais por exemple d’autre gent, Qu’il i prendent castïement.

«Il termine exemple» dice Burgio «non rimanda a una definizione di genere, ma a una qualificazione funzionale: esso qualifica immediatamente il testo come un “racconto a tesi”, un racconto cioè che si fa leggere in un certo modo»25. In questa esplicitazione dell’intenzione didattico-edificante il recitante avvicina in maniera diretta e trasparente i suoi interlocutori, facendo appello ai valori religiosi che insieme condividono26. Non a caso lo studioso cita in nota un’acuta osservazione di Zumthor: «Il voler-cantare, il voler-dire nascono da un accordo profondo e da una unità d’intenzione con il voler-sentire del gruppo umano. Solidali con la collettività che li fa vivere, con la sua cultura e la sua storia, l’autore e il dicitore (distanti o identici che siano) partecipano intensamente all’ideologia comune, condividono i gusti di quelli ai quali si rivolgono»27. Avvisaglie di questo nuovo atteggiamento di attenzione appassionata verso i destinatari si erano già avute: si pensi soltanto alle Parabolae di Bernardo di Clairvaux, dove, come osserva Duilio Caocci, vi è una strategia didattica ben precisa: Bernardo «non è mai un semplice espositore, non è mai solo la voce prestata alla diretta parola di Dio, ma anche un ‘interlocutore’ del testo»28. Questa comunanza di intenti lo rende parte 24

La vie de Saint Grégoire, edizione critica a cura di E. Burgio, Venezia, Cafoscarina, 1993, p. CCXVI. «Il prologo svolge nei testi di genere didattico un ruolo fondamentale; in esso vengono distribuite le coordinate di lettura del materiale narrativo, le valenze ideologiche che ne assicurano la corretta interpretazione» (ivi, p. CCXV). 25 Ivi, pp. CCXV-CCXVI. 26 Cfr. ivi, p. CCXVIII. 27 P. Zumthor, Semiologia e poetica medievale, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 43. 28 D. Caocci, Parabolice Loqui. La fortuna romanza delle Parabolae di San Bernardo, Cagliari, Cuec, 2005, p. 11.

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integrante del processo di comunicazione, fino a diminuire la sua importanza per mettersi al servizio del pubblico divenendo, alla stessa stregua, un interlocutore. Anche in area italiana si possono rintracciare fenomeni simili: nella Legenda de misier Sento Alban, volgarizzamento veneziano del XIV secolo, edito per ultimo dallo stesso Burgio, si assiste a una serie di tagli, interventi metadiegetici del narratore, adattamenti che rivelano la preoccupazione di rendere il testo più chiaro rispetto alla redazione latina29; sempre in ambito trecentesco, La leggenda di santo Giosafà, riuscitissimo volgarizzamento a opera di Neri Pagliaresi, collaboratore di Caterina da Siena, della leggenda, assai popolare nel Medioevo, del figlio del sovrano d’India Iosafat e del monaco Barlaam, attesta l’utilizzo dell’«exemplum edificante e della favola istruttiva», gli strumenti principali della predicazione tardomedievale30. Non è da dimenticare a proposito un dato importantissimo: le vite dei santi costituiscono, specie a partire dal XIV secolo, il pezzo forte dell’attività predicatoria degli ordini mendicanti, in particolare quello domenicano, impegnato tra l’altro attraverso l’attività di Domenico Cavalca a volgarizzare numerosi testi agiografici latini in un’ottima prosa trecentesca. Attorno a questa importantissima figura di frate domenicano si radunerà quella che viene chiamata una vera e propria “officina” per il volgarizzamento di una quantità imponente di testi patristici e agiografici31. «Elli bisogna che’l nostro dire sia inteso. Sai come? Dirlo chiarozzo chiarozzo, acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e none imbarbagliato»32. Queste parole di Bernardino da Siena, frate minore del primo Quattrocento, testimoniano bene nella coscienza dell’epoca l’importanza crescente dell’attività omiletica in lingua volgare nelle città di tutta Europa33. E si assiste anche all’ingresso trionfale del materia29

Cfr. Legenda de misier Sento Alban. Volgarizzamento veneziano in prosa del XIV secolo, edizione critica a cura di E. Burgio, Venezia, Marsilio, 1995. 30 G. Baldassarri, op. cit., p. 281. 31 Cfr. ivi, p. 229. 32 Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena 1427, a cura di C. Delcorno, Milano, Rusconi, 1989, predica III, p. 164, cit. in M.G. Muzzarelli, Pescatori di uomini. Predicatori e piazze alla fine del Medioevo, Bologna, il Mulino, 2005, p. 18. 33 M.G. Muzzarelli ha svolto un’accurata indagine storico-culturale sull’arte della predicazione, ponendo particolare interesse alla relazione con il pubblico e a tutti gli espedienti che, attraverso un accurato uso della parola, miravano a creare consenso e mutare il cuore e i comportamenti dei fedeli in ascolto (cfr. M.G. Muzzarelli, op. cit). Si vedano anche gli Atti del XII Symposium della Medieval Sermon Studies International Society (Padova, 14-18 luglio 2000), pubblicati col titolo Predicazione e società nel

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le agiografico nella predicazione, con un ritorno dell’oralità in nuove e sorprendenti forme. La narrazione agiografica viene spesso accompagnata, specie in occasione delle festività dedicate al santo in questione, alla visione di cicli figurativi presenti nei conventi e nelle chiese, con una «formidabile possibilità di incrocio e di sovrapposizione»34 tra due canali comunicativi. Dato costante di tutti gli aspetti fin qui trattati è dunque la centralità dei destinatari. Torna alla mente in questo senso la frase di Jauss scelta come quarta di copertina nell’edizione italiana di Alterità e modernità della Letteratura medievale: «La produzione culturale del Medioevo vive, e può essere compresa, solo entro l’orizzonte di attesa del pubblico»35. Il discorso è ampiamente sviluppato dallo stesso Jauss, che insiste proprio sulla sorprendente alterità della letteratura medievale per rendersi conto della quale «è necessario riflettere e rilevare i suoi aspetti singolari, e da un punto di vista metodologico questo può essere attuato come ricostruzione dell’orizzonte d’attesa dei destinatari per i quali il testo fu originariamente composto»36. L’alterità di questa letteratura costituisce per Jauss una nuova prospettiva per la comprensione del Medioevo, contro l’illusione di pensare che vi sia un rapporto di ininterrotta continuità con la tradizione classica o al contrario, illusione opposta, che vi sia un’origine storica delle varie letterature nazionali che si sviluppano indipendentemente l’una dall’altra. Di questo illuminante sguardo sulla letteratura del Medioevo Jauss è debitore anzitutto a Clive Staples Lewis, grande medievista inglese, noto al grande pubblico più per le sue opere di narrativa per ragazzi: oltre ad aver scritto i Narnia Books era stretto amico di Tolkien, l’autore del Signore degli anelli, con cui aveva fondato un circolo letterario. In un saggio del 1964, dal significativo titolo The discarded image, Lewis aveva affermato l’inafferrabilità dell’uomo del Medioevo: discarded è da intendere proprio come “altra”, scartata in quanto il modello di riferimento del Medioevo viene rifiutato, scartato dalla modernità in quanto altro. L’uomo medievale è per Lewis fortemente condizionato da una «natura spaventosamente libresca e dotta» della sua cultura, e allo stesso tempo risulta essere «organizzatore, codificatore, fabbricatore di sistemi»: medioevo. Riflessione etica, valori e modelli di comportamento, a cura di L. Gaffuri e R. Quinto, Padova, Centro Studi Antoniani, 2002. 34 G. Baldassarri, op. cit., pp. 269-70. 35 Cfr. H.R. Jauss, op. cit. 36 Cfr. ivi, p. 4.

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Questo medesimo impulso è presente tanto nelle più sciocche pedanterie quanto nelle conquiste più sublimi, le quali stanno da sole a testimoniare l’entusiasmo e l’energia della loro mente così appassionatamente sistematica, il quieto, instancabile lavoro con cui riunificarono enormi masse di materiale eterogeneo. Gli esempi più perfetti sono la Summa di Tommaso d’Aquino e la Divina Commedia di Dante: compatti e ordinari come il Partenone o l’Edipo re, affollati e varii come un capolinea d’autobus in un giorno di festa […]. L’uomo del Medioevo è libresco, anzi, quando ci sono di mezzo i libri diventa persino ingenuo. Gli riesce difficile credere che una qualsiasi affermazione di un antico auctour sia semplicemente falsa37.

Si spiega così il successo di tanta letteratura esemplare e il proliferare di inserti di pura invenzione nelle stesse vite di santi. Lo sforzo dell’agiografo sarà allora quello di ricomporre, ordinare, mettere insieme quanto è contenuto nei libri e che nella sua varietà non poteva che apparire eterogeneo. «Tutte le apparenti contraddizioni vanno armonizzate: si deve realizzare un Modello che tutto comprenda senza contrasti». La mancanza di tensione rintracciabile nella scrittura limpida e fluida di buona parte della migliore letteratura medievale sarebbe collegata proprio a questo fenomeno38. Eppure in tutto questo Lewis, come afferma Piero Boitani, «apre nell’immaginario medievale, un varco di mistero, di paradosso, di contraddizione»39, costituito da quelli che vengono chiamati Longaevi, «gli esseri che vivono “a lungo”, abitando tra l’aria e la Terra: insomma gli elfi, gli gnomi, i demoni, le ninfe, le ondine, le fate dei romanzi e dei laïs bretoni. E come poteva dimenticarli» si chiede Boitani «chi era amico del Tolkien e degli hobbits?»40. Tali entità popolano i testi medievali dei più svariati generi, soprattutto cantari e fiabe popolari41, e arrivano anche alle vite dei santi. Ci limitiamo a un solo esempio, riguardante un testo veneziano dell’inizio del Trecento, la Legenda de santo Stadi di Franceschino Grioni42: al v. 204 viene fatto 37

C.S. Lewis, L’immagine scartata: il modello della cultura medievale, postfazione di P. Boitani, Genova, Marietti, 1990, pp. 15-16. 38 Ivi, p. 164. 39 P. Boitani, Postfazione a C.S. Lewis, op. cit., p. 190. 40 Ivi, p. 189. 41 Cfr. F. Benozzo, La tradizione smarrita. Le origini non scritte delle letterature romanze, Roma, Viella, 2007. Lo stimolante studio di Benozzo si sofferma in modo particolare sui motivi mitologici e leggendari presenti in una nuova forma soprattutto nelle chansons de geste e nei canti trobadorici. 42 Cfr. F. Grioni, La legenda de santo Stadi, edizione critica a cura di M. Badas, Roma-Padova, Antenore, 2009.

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un paragone tra santa Teopista, la moglie di Eustachio, e una di queste divinità, le anguane dalla bella voce, ninfe o fate presenti nelle tradizioni popolari delle Alpi e del Veneto, relitto di istanze religiose antichissime43. La presenza di elementi così eterogenei nel genere che più da vicino doveva esprimere valori e modelli di vita cristiani conferma perciò l’idea di Lewis dell’esistenza anche nell’agiografia medievale di un Modello capace di unire insieme gli elementi più discordanti. La ricomposizione del contraddittorio, mediante l’utilizzo di elementi provenienti da tradizioni “altre” per adattare il discorso agiografico sull’esperienza religiosa di quella determinata comunità in quel particolare momento storico, trova linfa proprio nell’intenso rapporto proprio tra autore/esecutore e fruitore. È tra l’altro tipico del processo comunicativo medievale il far leva sul conosciuto, di qualsiasi provenienza questo sia, per rendere più familiare al destinatario quanto di nuovo si vuole trasmettere per l’altrui edificazione. Tali inserti risultano tanto più efficaci se si accetta quanto sostiene lo stesso Jauss quando ricorda che «la distinzione tra finzione e realtà, così ovvia per l’intelligenza moderna, non era esistita da sempre nel mondo della letteratura medievale e del suo pubblico», quella ingenuità dell’uomo medievale davanti al libro ricordata poco fa nelle parole di Lewis. Appaiono in questo quadro assai calzanti anche per le vite di santi le parole conclusive del già citato articolo di Massimo Oldoni: «Il Medioevo custodisce nell’ordine della pagina una pullulante vitalità che ci ritorna tutta loquace, tutta espressiva allorché la nostra lettura fa rivivere quell’inconfondibile tensione al mondo, quell’oralità intrecciata su folclore e fedi che fanno davvero della letteratura medievale un tutto “parlante”»44. È la vivacità di una esperienza di fede permeante profondamente la vita degli individui, capace di metabolizzare, innestandoli dentro sé, materiali estranei e dei più vari in quella che Corrado Bologna chiama «lunga, segreta “cattività babilonese” delle lettere “profane” e “volgari” entro il carcere severo del poema agiografico»45. Un’esperienza di fede consegnata attraverso il racconto esemplare della vita del santo, colui che «riesce a raggiungere la pienezza della sua personalità»46 e diventa così imitabile, fino a rafforzare il vincolo comune e fungere da fattore identificativo della vita di un popolo. 43

Cfr. F. Grioni, op. cit., p. 11. M. Oldoni, op. cit., p. 655. 45 C. Bologna, op. cit., p. 267. 46 C. Leonardi, La santità in Occidente, in I santi patroni. Modelli di santità, culti e patronati in Occidente, a cura di C. Leonardi e A. Degl’Innocenti, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, 1999, p. 9. 44

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Produzione e ricezione della prosa medievale castigliana: il manoscritto esc. h-I-13 e il Libro del Cavallero Zifar Marco Maulu

Al mio primo maestro, Maurizio Virdis

La produzione Quel che si definisce convenzionalmente comunicazione, verrà da me inteso in maniera letterale, in quanto cercherò di esporre alcuni dei risultati frutto delle mie ricerche sul dominio letterario iberoromanzo condotte durante il dottorato e che, nel corso del tempo, hanno trovato spazio su rivista, altre comunicazioni e, finalmente, in una monografia di recentissima pubblicazione1: è quindi tempo di provare a condensare alcuni concetti e di proporre un’esposizione unitaria degli stessi. Premetto che l’argomento scelto è probabilmente troppo ambizioso per poter essere oggetto di una breve relazione qual è la presente, tuttavia esso è motivato da alcuni fattori oggettivi che potranno forse giustificare in parte la mia audacia: non sono difatti pochi i rapporti, alcuni di tipo culturale e di contiguità storica, altri di natura, almeno così parrebbe, intertestuale, che consentono di legittimare un simile azzardo. In breve, sia il ms. esc. h-I13 (= E), sia il primo romanzo cavalleresco in prosa castigliana, il Libro del Cavallero Zifar (= LCZ)2 condividono un’epoca, il XIV secolo, un contesto storico – i conflitti di potere all’interno della Castiglia di Sancho IV e della vedova di costui, María de Molina – e un genere, la prosa di 1

M. Maulu, Tradurre nel Medioevo: le origini del ms. esc. h-I-13, «Romania», 126 (2008), pp. 174-234; Id., Tradurre nel Medioevo: il ms. escorialense h-I-13, Bologna, Pàtron, 2009 («Biblioteca di Filologia Romanza, 13»). 2 Cfr. l’ed. di Ch.Ph. Wagner (a cura di), El Libro del Cavallero Zifar, Ann Arbor, University of Michigan, 1929 (rist. New York, Kraus Reprint, 1980).

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finzione con forti incursioni nell’agiografia; ancora, la compresenza di schemi narrativi identici, su tutti quello dell’uomo messo alla prova dal destino e della fanciulla ingiustamente perseguitata, l’influsso di alcuni personaggi presenti nel codice miscellaneo su altri propri del romanzo, e la condivisione della struttura generale dell’antologia e del LCZ come sovrapposizione di blocchi narrativi potenzialmente autonomi sono fra le questioni che certamente, chi volesse cimentarsi con la produzione letteraria castigliana del Trecento, dovrebbe inevitabilmente affrontare. Inoltre, è possibile a mio avviso ipotizzare che vi sia un trait d’union che unisce E, il LCZ e molte delle crónicas castigliane le quali, nell’ordito propriamente storiografico, atto a fornire l’auctoritas necessaria all’opera in volgare, intercalavano ampi inserti di finzione tratti da fonti sovente francesi e comunque disparate. Allo stesso modo, si potrà pensare che il codice escorialense, che assembla cinque agiografie e quattro romanzi, e il LCZ, che a un iniziale spunto agiografico fa seguire una parte didascalica e una propriamente “fantastica”, si muovano nella stessa direzione delle crónicas. Per poter dimostrare quanto anticipato sopra, è necessario a questo punto spendere qualche parola sui due prodotti letterari dei quali ci si occuperà: il ms. E è un esemplare pergamenaceo di 152 cc. scritto su doppia colonna, conservato presso la biblioteca di San Lorenzo del Escorial; esso è databile, non senza problemi, alla seconda metà circa del XIV secolo, e con ogni probabilità rappresenta la copia di un codice di non molto anteriore andato perduto, almeno stando alla tipologia d’errori di copiatura in esso presenti3. L’individuazione linguistica è ugualmente problematica, trattandosi di una scripta di base castigliana con numerosi tratti dialettali riconducibili all’area gallega e specialmente leonese. Si entrerà ora nel merito dell’allestimento di E, che tramanda le seguenti opere, tutte traduzioni da testi francesi: 1. De Santa María Madalena (= María Madalena), cc. 1ra-2vb, framm.; 2. (= Santa Marta), cc. 3ra-7rb, framm.4; 3. Aqui comiença la estoria de santa María Egiçiaca (= EME), cc. 7rb-14va; 4. De Santa Catalina (= Santa Catalina), cc. 14va-23va; 3

C. Zubillaga (a cura di), Antología castellana de relatos medievales (Ms. Esc. h-I13), Buenos Aires, SECRIT, 2008, p. XVIII. 4 Il titolo è ricostruito, essendo il testo acefalo.

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5. De un cavallero Pláçidas que fue después cristiano e ovo nonbre Eustaçio (= Pláçidas), cc. 23va-32ra; 6. Aqui comiença la estoria del rey Guillelme (= EG), cc. 32ra48ra; 7. Aqui comiença el cuento muy fermoso del enperador Otas de Roma e de la infanta Florençia su fija e del buen cavallero Esmero (= Otas de Roma), cc. 48rb-99va; 8. Aqui comiença un muy fermoso cuento de una santa enperatrís que ovo en Roma e de su castidat (= Santa enperatrís), cc. 99va124rb; 9. Aqui comiença un noble cuento del enperador Carlos Maynes de Roma e de la buena enperatrís Sevilla su mugier (= Carlos Maynes), cc. 124ra-152ra5. Si tratta di un miscellaneo per certi versi straordinario nel panorama letterario spagnolo, poiché accanto a cinque agiografie, si trovano quattro opere di finzione che l’allestitore scelse con cura affinché il canone presente all’interno del manoscritto risultasse il più possibile coeso. Straordinario anche perché, generalmente, in questa tipologia di manoscritti, almeno in area castigliana, ci si sarebbe attesi, accanto alle agiografie, delle opere di altro genere, principalmente didascaliche e sapienziali, e il fatto stesso che così non sia, induce a collegare la fattura di E a quella di alcuni miscellanei francesi nei quali, invece, la convivenza di testi agiografici e romanzeschi, esattamente in questa successione, era più comune. Si pensi, ad esempio, al ms. BNF, a.f. fr. 1374, risalente al XIII sec., che tramanda, nell’ordine: Li romanz de Paris la Duchece; Le roman de Cliges (f. 21); Placidas (f. 65); Li romanz de la Price de Jherusalem (f. 75); Li romanz de Girard de Vianne (f. 91); Li romans de la Violete (f. 133); Le roman de Florimont (f. 173).

Come si può osservare, la vita di sant’Eustachio, o Placidas, non trova difficoltà a essere collocata all’interno di un volume che accoglie invece 5 Si fa riferimento alla recente edizione del ms. escorialense a cura di C. Zubillaga, op. cit.

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numerose opere d’avventura6; si può ipotizzare così un rapporto che lega E alle sue fonti d’Oltralpe non solo dal punto di vista della traduzione, ma anche dell’allestimento, sebbene tale eventualità risulti del tutto indimostrabile: resta però il fatto, non epidermico, per cui le traduzioni dal francese possono implicare la conoscenza da parte dell’allestitore spagnolo di manoscritti d’Oltralpe del tipo succitato, nei quali il confine fra agiografia e finzione letteraria era ormai molto labile. Lascio però cadere questo spunto, che ci trascinerebbe su un campo più marcatamente codicologico e che in questa sede non sarebbe possibile affrontare. Ancora, credo di aver dimostrato a sufficienza nei miei lavori citati in precedenza come, a livello di fonti, le opere tràdite da E siano il frutto, per quanto riguarda le agiografie, di un processo di traduzione che parte da testi prosastici, mentre per i romanzi, contrariamente a quanto la critica ha sostenuto finora, si ha piuttosto a che fare con prosificazioni di poemi francesi i cui modelli, però, risultano di difficile individuazione a causa dell’insieme di trasformazioni necessarie affinché il processo di trasposizione possa avere luogo, oltre ai normali fattori legati alla trasmissione del testo medievale, sui quali non è certo il caso d’insistere. Ciò basta per far intravedere il grandissimo numero di questioni legate al codice escorialense, che si presenta quindi come un collettore di testi agiografici e romanzeschi à la page in Francia durante il XIII secolo, un contesto la cui influenza si può riscontrare nello stesso LCZ. Quest’ultimo è noto come la prima opera cavalleresca in prosa originariamente castigliana, ovvero non frutto di un volgarizzamento, nonostante alcune obiezioni in tal senso, e anche la sua datazione pone non pochi problemi, nei quali però non ci potremo qui addentrare. In generale, la critica propende per far risalire l’opera al 1330 circa, sebbene si sia ipotizzata una redazione prolungata, che avrebbe avuto inizio attorno al 1300, per proseguire sino all’epoca di Alfonso XI7. Si tratta così di 6

Su questo importante codice miscellaneo cfr. I. Garreau, Eustache et Guillaume ou les mutations littéraires d’une vie et d’un roman, «Médiévales: Langue, Textes, Histoire», 35 (1998), pp. 105-123 e P. Gehrke, Saints and Scribes. Medieval Hagiography in Manuscript Context, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1993, in particolare alle pp. 61-66. 7 Ad es. F. Gómez Redondo, Los públicos del ‘Zifar’, in L. Funes, J.L. Moure (a cura di), Studia in honorem Germán Orduna, Alcalá de Henares, Universidad de Alcalá, 2001, p. 297, ritiene che «el Zifar (…) fue fruto una composición progresiva, requerida por los hechos que afectaban profundamente al entramado cortesano que había impulsado la composición de este libro y que urgía a su continuación para seguir dando respuestas a la serie de situaciones que amenazaban con destruirlo (…) en la primera estoria, el oyente no participa, se encuentra fuera y el recitador le explica una a una todas las circunstancias narrativas; en la segunda estoria, el público se asoma con mayor

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un’opera relativamente unitaria, nella quale le avventure del protagonista Zifar e dei familiari sono chiaramente ispirate alla vita di sant’Eustachio, a sua volta attestata in Spagna in epoca medievale nel solo E, il cui schema narrativo è il seguente: un uomo e la sua famiglia cadono in disgrazia e sono costretti a lasciare la propria terra e, in seguito a numerose disavventure, la famiglia è dispersa e poi riunita; a ciò nell’agiografia segue il martirio, mentre nelle opere d’avventura che a essa più o meno s’ispirano o sono in qualche modo riconducibili, la conclusione è data dal ritorno dei protagonisti alla condizione primeva o, come accade per Zifar, da un innalzamento del proprio status, in quanto costui passa dalla condizione di hidalgo pobre, sostanzialmente un cavaliere senza terra, a quella di re. Prima di procedere oltre, è necessario collocare il nostro corpus all’interno di un contesto storico comune e piuttosto turbolento, che soprattutto nel LCZ lascia fortissime tracce: difatti, una volta assegnata a Sancho IV la Corona di Castiglia in seguito a un aspro conflitto fra costui e il proprio padre, Alfonso X, il nuovo sovrano si trovò in una posizione di grave debolezza nei confronti di un’aristocrazia che ambiva alla propria indipendenza e che, per giunta, perpetrava numerose malfetrías nei confronti della popolazione e, di conseguenza, contribuiva all’instabilità del regno. Nel 1295 Sancho morì e il regno restò nelle mani della regina, María de Molina, che dovette preservare l’infante e unico erede Fernando dalle mire dei parenti, i quali miravano a sottrarlo alla tutela materna. Nell’importante figura di María de Molina è stata individuata l’origine di un movimento culturale denominato “molinismo”, che faceva capo alla colta scuola della Cattedrale di Toledo, che protesse anche ideologicamente la regina dagli assalti dell’aristocrazia ed entro la quale, probabilmente, come ha argomentato solidamente Germán Orduna, si diede vita al LCZ8. Non è possibile scendere ulteriormente nel dettaglio, tuttavia basti qui dire che mentre nel romanzo castigliano sono innumerevoli i riferimenti libertad al interior de la ficción, por cuanto en él hay un orden cortesano amenazado; en la tercera estoria, en fin, los oidores, movidos con habilidad por el recitador, forman parte de ese mundo que ayudan a construir con una presencia que llega a hacerse real, en la misma medida en que ya no lo era la propia realidad en la que se encontraban. Por ello se escribió el Zifar y sufrió esa serie de amplificaciones, porque progresivamente el molinismo tuvo que irse encerrando en los linderos de la ficción narrativa». 8 G. Orduna, La élite intelectual de la escuela catedralicia de Toledo y la literatura en la época de Sancho IV, in C. Alvar, J.M. Lucía Megías (a cura di), La literatura en la época de Sancho IV: Actas del Congreso internacional “La literatura en la época de Sancho IV”, Alcalá de Henares, 21-24 de febrero de 1994, Alcalá de Henares, Universidad de Alcalá, 1996, pp. 53-62.

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alla realtà cogente, soprattutto nella scelta di fare di Zifar un hidalgo pobre che, grazie ai suoi meriti, diventa re e salvatore di un regno governato da un sovrano ormai debole, vecchio e perciò assediato da malfechores vicini, probabilmente in E si trova un riflesso di tale situazione nella fortissima presenza di eroine di nobile stirpe ingiustamente perseguitate, oltre che in figure come il villano Barroquer che, nel Carlos Maynes, compie una scalata sociale determinata esclusivamente dal merito e non dalla nascita. Soprattutto i personaggi femminili potrebbero ricollegarsi a María de Molina, circondata da parenti desiderosi di estrometterla dal potere e che, come le eroine dei cuentos escorialensi, patisce ingiustamente una situazione di cui non ha colpe, trovandosi per giunta nel pieno diritto di attendere alle sorti della Corona di Castiglia in seguito alla morte del consorte Sancho IV. Invece, secondo Krauss, il villano Barroquer potrebbe rappresentare un contromodello neo-aristocratico fondato sul merito e non sulla nascita, da affiancare all’ormai inetto re Carlos, la cui corte è colma di traditori e cattivi consiglieri provenienti dal tradizionale ceto nobiliare, i quali attraverso la loro nefasta influenza convincono il loro signore a bandire dal regno la propria moglie innocente e incinta, accusata di aver giaciuto con un orrendo nano9. Circa i rapporti che legano E e il LCZ, Francisco Rico, afferma: Tengo la impresión de que la bibliografía reciente no ha querido encarar el problema de las conexiones directas entre el Zifar y el escorialense: ¿pudo ser el propio autor del Zifar quien lo compilara, lo pasara al castellano o lo transcribiera? (…) por otra parte ¿acaso el autor (o refundidor) frecuentó el curioso florilegio en cuestión o alguno de sus antecedentes? Uno o varios estudios monográficos quizá consigan proporcionarnos la luz que ahora nos falta10.

Rico prende spunto dal fatto che il LCZ potrebbe essere stato concepito come un insieme di fonti disparate ma rese omogenee da tratti a esse comuni, anche grazie all’influsso esercitato dal codice miscellaneo in generale nel quale solitamente, quando il disegno è antolo9

H. Krauss, Epica feudale e pubblico borghese. Per la storia poetica di Carlomagno in Italia, a cura di A. Fassò, Padova, Liviana, 1980, p. 189 ss. In proposito, cfr. E. Köhler, Ritterliche Welt und villano: Bemerkungen zum ‘Cuento del enperador Carlos Maynes e la enperatris Seuilla’, in Esprit und arkadische Freiheit, Frankfurt, Athenäum Verlag, 1966, pp. 287-301. 10 F. Rico, Epílogo. Entre el códice y el libro, in Id. (a cura di), Libro del Cavallero Zifar. Códice de Paris, Barcelona, Moleiro, 1996, vol. II, p. 158.

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gico, si presenta un’unità di fondo che lega le singole opere fra loro in base a diversi fattori, che vanno dall’estensione alla compresenza di personaggi in due o più testi, ad associazioni di qualsiasi tipo e genere. In particolare, per Rico l’influsso della mentalità soggiacente al codice miscellaneo sul LCZ sarebbe stato esercitato da E, col quale il romanzo condivide non solo una costruzione a “bassa coesione”, appunto, ma anche tutta una serie di tematiche, situazioni narrative e personaggi, che qui non è possibile analizzare. Sebbene tale spunto abbia un notevole interesse, a mio avviso non si va oltre la giusta interpretazione di E quale unità testuale a tutti gli effetti, un fatto che porta a includere il codice nell’insieme di studi dedicati a questo peculiare settore, come quello condotto in àmbito francese da Keith Busby sui manoscritti di Chrétien de Troyes11 ad esempio: difatti, mi pare sostenibile che la struttura del manoscritto escorialense abbia influenzato profondamente la concezione di opere “disomogenee” come il LCZ, tuttavia ciò dev’essere considerato un fatto ordinario e che, soprattutto, non spiega i rapporti fra le due unità, rapporti che talora fanno pensare a vere e proprie intertestualità. A mio avviso, il discorso dev’essere affrontato partendo dall’insieme di testi veicolati da E, i quali soprattutto nella parte “romanzesca”, cui si giunge attraverso una frontiera “fluida”, formata dall’agiografia di sant’Eustachio e dalla prosificazione del Guillaume d’Angleterre (= GdA), che rappresenta una sorta di variante laica della prima, riflettono larga parte degli schemi narrativi utilizzati dall’autore del romanzo spagnolo nella costruzione della sua opera. Come mise in chiaro già Gerould, tali patterns si associarono nel tempo a testi dalle valenze più libere nei quali, però, l’impronta agiografica permane costante12. Fra le opere menzionate da Gerould ritroviamo i celebri cicli di Crescenzia e Sibilla, non a caso presenti in E insieme alle vicende della Santa enperatríz e Carlos Maynes; questi ultimi, bene o male, rientravano in un contesto comune nel quale agiografia e finzione si univano per raccontare la dolorosa vicenda di un uomo o una donna nobili che, dopo aver perso i privilegi legati a tale condizione ed essere passati attraverso innumerevoli sofferenze, vengono risarciti di tutto con l’aiuto divino. Così, pur prescindendo dalla peraltro impossibile dimostrazione di una filiazione del romanzo 11

K. Busby (a cura di), Codex and Context. Reading Old French Verse Narrative in Manuscript, Amsterdam-New York, Rodopi, 2002. 12 G.H. Gerould, Forerunners, Congeners, and Derivatives of the Eustace Legend, «Modern Language Association of America», XIX, 3 (n.s. XII, 3) (1904), pp. 342343.

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dal codice o, eventualmente, viceversa, si può affermare che il nucleo agiografico-romanzesco utilizzato dall’autore del LCZ nella costruzione della prima parte della sua opera fosse ben più composito di quanto la critica finora abbia saputo dire: non si tratta, insomma, di un unico testo di partenza, ma di un corpus sviluppatosi enormemente e che diede i suoi migliori risultati letterari in Francia, un corpus nel quale gli schemi narrativi della donna ingiustamente accusata ed esiliata e dell’uomo messo alla prova dal destino convissero e si sovrapposero. Così, non sarà la sola vita di sant’Eustachio ad aver ispirato le avventure di Zifar e della sua famiglia, ma anche l’insieme di opere tradizionalmente associate all’agiografia.

La regalità Sul contesto di produzione, bisogna dire che non risulta secondaria la questione della regalità, a più riprese affrontata nel LCZ: qui basterà dire che il protagonista è sicuro fin da bambino di diventare re, come fu un suo avo, Tared, che però, a causa del proprio comportamento sconsiderato, condannò tutta la stirpe a una modesta condizione, almeno sino a quando un hidalgo appartenente a quest’ultima non avesse recuperato, con una condotta irreprensibile sotto ogni aspetto, la condizione perduta. A ciò si associa, lo si è anticipato, il problema della forte instabilità politica della Corona castigliana, la cui autorità risulta indebolita da conflitti interni quasi insanabili fra sovrano e nobiltà; così Zifar, che grazie alla propria prodezza diverrà re di Mentón, unendosi in matrimonio con l’unica figlia ed erede del vecchio re ormai inadatto a governare, rappresenta il sovrano mandato da Dio, secondo una tradizione regalista troppo nota perché la si debba rievocare in questa sede. Tuttavia, la vicenda che caratterizza la parabola dell’eroe è modellata sulla vita di sant’Eustachio, che dal canto suo riveste un ruolo fondamentale all’interno di E, assieme alla sua variante laica, la EG, che difatti risulta ad essa immediatamente successiva nel codice (testi 5 e 6). Orbene, è da chiarire come la vita di questo santo avesse raggiunto in Francia un alto livello di politicizzazione, essendo stata presto associata alla vita di Saint Denis, patrono della casa reale: nell’elaborazione dell’ideologia regalista in Francia le due vite, quella di Denis e quella di Eustachio appunto, iniziarono ad essere associate all’interno di un importante programma culturale sostenuto dalla cattedrale parigina e dal suo più celebre abate, Suger: costui diede così avvio alla progressiva politicizzazione di entrambi i testi, con la 139

funzione di sostenere, tramite il modello agiografico, la casa reale13. Un siffatto processo di appropriazione “politica” di un’agiografia non è affatto nuovo, né peculiare della sola realtà francese, come dimostra Bosl, in relazione alla concezione germanica basso-medievale di santo, che fu programmaticamente adattata dal mondo nobiliare merovingio del VII secolo al progetto di una nuova cultura da costruire con tale dinastia al suo vertice: Il nuovo “santo nobiliare” vive nel suo mondo e contribuisce a formarlo nei suoi meriti e nelle sue colpe, lo sperimenta e lo sommuove, nella sua fede semplice nella legittimità e nella sanzione divina (…) non si può certo parlare dell’astuzia dei governanti nei confronti dei governati, di una sovrastruttura ideologica, dato che la fede germanico-pagana e cristiana che ne costituisce il fondamento è comune ad entrambi, al ceto superiore come al vasto ceto inferiore (…) la nuova nobiltà cristiana trovò nel “santo” di concezione germanica, ma di esperienza cristiana, il suo nuovo modello e il suo ideale14.

Non sarà quindi un caso se il GdA racconta proprio la vicenda di un monarca che, perduta la propria famiglia, la ritrova recuperando con essa, dopo diverse prove, la condizione di re. Tale vicenda, nel tempo, andò legandosi sempre più strettamente all’agiografia, al punto che, come ha argomentato solidamente Silvia Buzzetti Gallarati, si crearono delle sovrapposizioni, comprovabili attraverso lo studio di una redazione del sec. XIV della Vita che mostra forti somiglianze con una versione trecentesca della leggenda di Guillaume, il Dit de Guillaume d’Engleterre (= DGE)15, tali da far ipotizzare una inconsapevole fusione da parte dell’autore della Vie in alessandrini con lo stesso DGE, «forse rifacendosi a una 13

A. Boureau, Placido Tramite. La légende d’Eustache, empreinte fossile d’un mythe carolingien?, «Annales. Économies. Sociétés. Civilizations», 37, 4 (1982), pp. 682-699. 14 K. Bosl, Il santo nobile, in S. Boesch Gajano (a cura di), Agiografia altomedievale, Bologna, il Mulino, 1976, p. 161, trad. it., di Der Adelsheilige. Idealtypus und Wirchlichkeit, Gesellschaft und Kultur im Merowingerzitlichen Iagern des 7 und 8 Pahliunderts, in C. Bauer et al. (a cura di), Speculum Historiale. Festschrift für Johannes Spörl, Freiburg-München, Alber, 1965, pp. 167-187. 15 Cfr. l’ed. curata da S. Buzzetti Gallarati, Dit de Guillaume d’Angleterre, edizione critica e commento linguistico-letterario, Pubblicazioni dell’Istituto di Lingue e Letterature straniere moderne – Sezione di Filologia romanza – Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, Torino, Giappichelli, 1978 (rist. riv. e corr. Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1990).

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sorta di archivio della memoria (…) ovvero capta le forti analogie tra le due leggende [di Guillaume ed Eustachio] e intuisce in esse la realizzazione di un unico pattern o schema narrativo»16. Inoltre, a partire dal XIII secolo era in atto, sempre in Francia, un passaggio dell’agiografia di sant’Eustachio da vie a roman, come testimonia ad esempio la succitata Vie della prima metà del XIII secolo tràdita dal ms. BNF, a.f. fr. 1374, dove Placidas (f. 65) è collocato fra Cligès (f. 21) e Price de Jherusalem (f. 75), due opere d’avventura. Così la vita di Eustachio giunse sulla soglia del XIV secolo carica di un’ideologia filo-regalista che fu in qualche modo trasferita al volgarizzamento escorialense della stessa, associato perciò alla EG e, in maniera similare, all’interno del LCZ, nel quale il modello agiografico serve a giustificare l’operato del protagonista sia nel modo in cui egli conquista il trono, sia nel modo in cui egli esercita il proprio potere. A rafforzare ulteriormente l’ipotesi per cui il LCZ potrebbe aver tratto ispirazione da un modello composito formato dall’agiografia e dal GdA, si può ricordare, ad esempio, che lo stesso Zifar, marito di Grima, nello sposare la principessa di Mentón per poter ereditare il trono alla morte del vecchio sovrano una volta perduta la sua famiglia segue, a parte poche differenze nei dettagli, gli accadimenti propri dell’avventura di Gratienne, la moglie di Guillaume, nel GdA, la quale sposa il vecchio Gleolais e alla morte di costui ne eredita il regno. Entrambi, difatti, escogitano una scusa per poter evitare di consumare l’unione e, nel frattempo, sopraggiunge la scomparsa dei nuovi coniugi che rende possibile il conseguimento del proposito di ottenere i feudi e consente inoltre loro di poter ritrovare i rispettivi consorti. Resterebbero da trattare ancora numerose questioni legate principalmente al rapporto fra la fonte agiografica e la vicenda del LCZ, tuttavia è ora necessario trarre alcune parziali conclusioni: oltre all’ovvia ma insufficiente condivisione di temi folclorici comuni, per spiegare i legami intertestuali fra E e LCZ dev’essere richiamato perlomeno il fatto che la compresenza della vita di sant’Eustachio in entrambe le unità comporta l’allusione a testi, temi e personaggi che ruotavano costantemente attorno al nucleo agiografico, sia che essi fossero direttamente ispirati alla Vita, sia che, come nel caso dei tre cuentos che chiudono il codice escorialense, si riallacciassero in qualche modo, talvolta esplicitamente, alla celeberrima vicenda che si racconta nella vita di Placida. Questo aspetto, 16 S. Buzzetti Gallarati, Sulla genesi di una redazione in versi francese della vita di S. Eustachio, «Medioevo Romanzo», VI (1979), p. 337.

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più che un rapporto diretto o di filiazione, può contribuire a spargere un po’ di luce sulla questione sollevata da Rico, e non solo da costui, in merito agli intertesti fra il codice e il romanzo.

La ricezione Va detto, anzitutto, che un’indagine sul o sui possibili pubblici del LCZ conduce con certa sicurezza verso il mondo aristocratico, visto lo spazio che si dedica nell’opera alle guerre e al tema del buon governo, con la proposta di un sovrano ispirato direttamente da Dio, el cavallero de Dios, la denominazione che il protagonista assume da un certo punto della vicenda in avanti. Al ceto cavalleresco e nobiliare riporta, inoltre, la trafila manoscritta dell’opera, come evidenziato da Lucía Megías, secondo il quale, A mediados del siglo XIV, el caballero Zifar se presenta como modelo de conducta caballeresca (…) y la historia de los códices conservados apoya esta ipótesis. Códices que siempre estuvieron en las estanterías de nobles caballeros; así, sabemos que el códice de Madrid perteneció al Marqués de Santillana, siendo su último posesor el Duque de Osuna,

mentre, per il manoscritto parigino, Su itinerario antes de llegar a la Bibliothèque du Roi, no pudo ser más aristocrático. El códice aparece citado por primera vez en el inventario de los manuscritos pertenecientes a Margarita de Austria en 1526 (…) de esta última pasaría a la de su sobrina María de Hungría, hermana de Carlos V17.

Si può quindi asserire che al LCZ soggiaccia un’istanza filo-regalista e latamente anti-nobiliare, e che si tratti di un’opera destinata a propugnare un rinnovamento degli strati alti, passante però attraverso una rigida ripartizione medievale della società, nella quale il rinnovamento è possibile a partire dalla classe degli hidalgos, pur sempre nobili anch’essi, di cui Zifar e la sua famiglia sono rappresentanti. Così, la corruzione di certa parte dell’aristocrazia viene ad attenuarsi attraverso una più attiva partecipazione di coloro che sono normalmente esclusi dall’eredità dei 17 J.M. Lucía Megías, Los testimonios del ‘Zifar’, in F. Rico (a cura di), Libro del Caballero Zifar, cit., vol. II, pp. 104-105.

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feudi e che, pertanto, debbono dimostrare sul campo il loro valore per ottenere un miglioramento della propria condizione, come Zifar, appunto, o come il suo aiutante El Ribaldo, villano anch’egli come Barroquer nel Carlos Maynes, il testo conclusivo di E. Perciò, il modello di Eustachio propugnato nella versione escorialense pare conciliarsi bene con una simile tipologia d’eroe, in quanto il santo vi è descritto come un Fidalgo (…) buen cavallero d’armas (…) sabidor de guerra (…) sabidor de aves e de canes, e de caça e de monte e de ribera (Pláçidas, p. 81).

Ciò non deve però indurre a concentrarsi solo sui mancebos, gli jeunes insomma, quale pubblico cui il romanzo era destinato, com’è stato proposto da Harney (1990), mentre sarà più opportuno rifarsi a un’alta committenza, règia o cavalleresca ad esempio, che avrebbe tratto diletto dalle avventure dei protagonisti e insegnamento dalle abbondanti parti didascaliche in esso presenti, su tutti i lunghi castigos che Zifar, diventato re, impartisce ai propri figli circa i modi attraverso i quali si può gestire al meglio un regno. Dal canto suo, nonostante E venga catalogato come flos sanctorum, secondo un’indicazione di mano tarda presente nello stesso manoscritto, la fattura di codice antologico che riserva non poco spazio a opere di finzione pone il problema di quale committente potesse aver richiesto un simile manufatto. In proposito, le ipotesi sono state numerose, e se oggi la critica pare concorde sulla provenienza monastica di E, è però meno facilmente dimostrabile che quest’ultimo fosse destinato a un uditorio anch’esso ecclesiastico, come si è ipotizzato più volte in passato. Difatti, la questione della committenza è stata quella che ha maggiormente assorbito l’interesse nei confronti della silloge e, più che dell’individuazione di un contesto storico all’interno del quale fosse possibile la realizzazione di un simile prodotto culturale, una serie di studi si è occupata di collegare le unità tematiche del manoscritto a una sua precisa “funzione” e a un dato pubblico. Fra gli studiosi moderni, il primo in assoluto ad aver rilevato una concreta unità tematica estesa a tutta la raccolta è stato Roger M. Walker, soprattutto per quanto riguarda la preponderanza delle figure femminili nei vari testi, «la cui fede e virtù resta salda, nonostante le costanti afflizioni e tentazioni»18. Si è quindi pensato che la silloge escorialense fosse destinata a un pubblico femminile, appunto, 18 R.M. Walker (a cura di), El cavallero Pláçidas, London, Exeter Hispanic Texts, 1982 («EHT, 18»), pp. XX-XXI.

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poiché delle donne, soprattutto nobili, avrebbero potuto facilmente identificarsi con le eroine rappresentate nelle nove pièces, quasi tutte nobili anch’esse, e trarre così insegnamento e diletto dalle loro vicende. Su tale conclusione, buona parte della critica si è mostrata concorde, fornendo successivamente precisazioni che, in generale, si sono mantenute su questa linea: il problema, però, consiste nel fatto che l’esemplarità dei personaggi rappresentati in ciascun testo, massimamente nelle agiografie, è da ritenersi universale: se non si parte da questo assunto, si corre il rischio di far prevalere il dato esteriore sul senso profondo che la cultura medievale attribuiva alle vite dei santi e ai romanzi a queste ispirati, a prescindere da una distinzione di tipo maschile/femminile. Risulta così difficile legare la galleria di figure che popolano il nostro manoscritto a un pubblico preciso; in tal senso, non è di grande aiuto neppure la compresenza di agiografie e romanzi i quali, pur essendo generi rapportabili fra loro sotto diversi aspetti, a livello di fonti presentano difformità di epoca, genere, tipologia di personaggi e situazioni raffigurate che non sono sufficienti a far individuare i probabili committenti dell’intero progetto di volgarizzamento. Quindi, la concezione della silloge come testo unitario e la questione della sua committenza sono andate sovrapponendosi, con il risultato che sovente uno dei due termini della discussione ha influenzato l’altro, coinvolgendo il contesto di produzione di E. Ciò è accaduto anche perché le informazioni codicologiche offerte dal testimone non ci dicono molto: non si trovano indicazioni sui possessori o dediche di alcun genere, né la fattura è tale da far pensare con qualche sicurezza a una committenza règia. Ancora, è pur vero che il manoscritto è in parte un flos sanctorum, il che potrebbe anche far pensare a una ricezione monastica, ma il dato certo è che le opere di finzione prosificate superano di gran lunga per estensione le agiografie (cc. 32ra-152ra = 120 cc. vs. 32 cc. delle agiografie), il che indurrebbe piuttosto a credere che il pubblico fosse quello di lettori, tipico cioè dei romanzi in prosa: queste concise contrapposizioni sono bastevoli a dimostrare la debolezza di simili argomenti e, conseguentemente, di conclusioni “apodittiche” fondate su di essi. Riepilogando, l’organizzazione dei testi escorialensi è quella che normalmente si riscontra in un manoscritto antologico all’interno del quale le pièces sono state disposte secondo una precisa selezione tematica che, nel nostro caso, ruota attorno a due sezioni nettamente distinguibili, una agiografica e una romanzesca, e a due motivi narrativi principali, che ripeto: il primo è rappresentato principalmente dalla vita di sant’Eustachio ed è noto ai folcloristi come The man tried by fate; il secondo è quello 144

della moglie calunniata e condannata all’esilio19. Questi due patterns vengono sviluppati più o meno diffusamente in tutti i volgarizzamenti, il che ha indotto la critica a sottolineare con sempre maggior frequenza la necessità di rapportarsi a E come a un’unità codicologica da concepire in toto. Un’interpretazione di questo tipo ha determinato la proliferazione di teorie sul possibile pubblico cui E sarebbe stato destinato, in quanto libro volto a una fruizione privata, silenziosa e colta o a una lettura ad alta voce, a mo’ di strumento liturgico, diretta a un uditorio popolare. Un’ipotesi alternativa a quella dell’antologia di figure femminili è stata sostenuta da Thomas D. Spaccarelli, il quale ricorda che si sono alternati due filoni seguiti dai ricercatori nel tentativo di trovare un principio unificatore che giustifichi l’antologia nel suo insieme. Il primo (oggettivo) riguarda la presenza dominante di personaggi muliebri ingiustamente perseguitati, dalle sante-màrtiri alle regine o imperatrici-màrtiri; il secondo (soggettivo) vede la composizione del codice come libro che accompagnava il viaggio dei pellegrini lungo il cammino di Santiago: da esso giullari o monaci leggevano ad alta voce le vicende edificanti dei nostri personaggi20. Pare, difatti, che durante il Medioevo, in particolare 19 Un rapido ma efficacissimo panorama sulla derivazione folclorica del motivo della donna ingiustamente accusata è tracciato da C. Fahlin, La femme innocente exilée dans une forêt. Motif folklorique de la littérature médiévale, in Mélanges offerts à M.K. Michaëlsson, Göteborg, Bergendahls Boktryckeri, 1952, pp. 133-148, ma cfr. anche D. Stith Thompson, Motif-Index of Folk Literature. A Classification of narrative Elements in FolkTales, Ballads, Myths, Fables, mediaeval Romances, Exempla, Fabliaux, Jest-Books and local Legends, Helsinki, Suomalainen Tiedakademia/Academia Scientiarum Fennica, 1936, motivo K2110,1 e il lavoro datato, ma sempre valido, di M. Schlauch, Chaucer’s Constance and Accused Queens, New York, Columbia University Press, 1934. 20 Scrive Th.D. Spaccarelli, A Medieval Pilgrim’s Companion, Chapel Hill, North Carolina Studies in the Romance Languages and Literatures, U.N.C. Department of Romance Languages, 1998, p. 23: «Such may have been the purpose of our MS, a volume for Spanish pilgrims, with stories of favourite saints of the epoch – as SS. Mary Magdalene and Martha, hostesses of Our Lord (…) St. Mary of Egypt, whose life would inspire hope of salvation to the most degraded of human beings – and its tales of virtuous men and women whose lives of abnegation and patient endurance – often of trials borne while exiled from their native land – served as encouragement as well entertainment for the medieval traveller». Dello stesso avviso è anche J. Rees Smith, (a cura di), The Lives of St. Mary Magdalene and St. Martha (MS Esc. h-I-13), Exeter, University of Exeter Press, 1989, pp. XVI-XVII: «The fact that all the contents of MS Escorialense h-I-13 are translation of French material, and the fact that all the texts contain a number of Western linguistic features, suggest that the legend entered in Spain along the pilgrim route to Santiago de Compostela. We may speculate that they were intended to be read aloud to bands of pilgrims at overnight stops (…) the movement between France and northwest Spain of such clerics as Berengarius de Landorre and Bernard Guy, author of the Speculum Sanctorale, must also have been a factor in their dissemination».

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presso le posadas di Roncesvalles e Burgos, fosse costume abituale dei monaci, oltre all’offerta ai pellegrini dei normali “servizi” di ospitalità e preghiera, la lettura di testi edificanti durante la refezione21. Spaccarelli fornisce quindi un’interpretazione dei testi nell’ottica del “book for pilgrims” zeppa di forzature, e interpreta ogni testo come una metafora del passaggio sulla terra cui l’uomo è destinato, un fatto che avrebbe dovuto incoraggiare i pellegrini che si avventuravano lungo il camino, spesso irto di pericoli. Così, invece del titolo Flos sanctorum assegnato dalla critica sulla base di una scritta di mano tarda presente nel codice, lo studioso preferisce la denominazione di Libro de los huéspedes, poiché il manoscritto sarebbe una sorta di Liber Sancti Jacobi in volgare che tiene conto della vita di Cristo e del santo come principali modelli di peregrinatio22. Altre supposizioni sono state formulate nel tempo, come quella proposta da Cristina González, secondo la quale E sarebbe piuttosto un libro destinato all’educazione delle donne, il cui insegnamento principale era quello della castità e che, attraverso gli esempi offerti dalle malmaritate, doveva invogliare le giovani a prendere il velo23. In tale direzione si muove Francoromano, che vede però in E un “household manuscript”, ovvero un “manoscritto didattico multiuso” che i nobili commissionavano abitualmente per l’educazione dei membri della famiglia, nel quale si facevano convivere il modello monastico e quello sponsale, contemperandoli con equilibrio24. Più in generale, Gómez Redondo riconduce E, al pari del LCZ, all’àmbito culturale di matrice femminile sorto attorno a María de Molina, dove la rappresentazione di eroine perseguitate da uomini e, soprattutto, da nobili ingiusti avrebbe potuto sostenere la causa della regina25. 21

«Cuatro sacerdotes seculares, que fuesen bien instruídos en el canto y la lectura, tenían a su cargo el bautizar en el hospital, predicar cuando fuese necesario, confesar, dar las comuniones, enterrar a los muertos e “in mensa legere peregrinis”» (L. Vázquez de Parga, J.M. Lacarra, J. Uria Ríu, Las peregrinaciones a Santiago de Compostela, Madrid, C.S.I.C., 1949, vol. I, p. 341). 22 C. González, ‘Vna Santa Enperatriz’: novela esquizofrénica, in Homenatge a Joseph Roca-Pons: Estudis de llengua i lliteratura, Barcelona, Publicacions de l’Abadia de Montserrat and Indiana University, 1991, p. 294. 23 C. González, recensione a Th.D. Spaccarelli, A Medieval Pilgrim’s Companion, «La Corónica», 29, 2 (2001), pp. 294-296. 24 E.C. Francoromano, Manuscript Matrix and Meaning in Castilian and Catalan Anthologies of Saint’s Lives and Pious Romance, «Bulletin of Hispanic Studies», 81, 2 (2004), p. 145. 25 F. Gómez Redondo, Historia de la prosa medieval castellana, Madrid, Cátedra, 1999-2007, vol. II, p. 1342.

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Su questa scia si muove infine Carina Zubillaga, secondo la quale tanto il LCZ quanto il ms. escorialense «remiten a un mismo ámbito de producción textual con un criterio programático de reunión del material literario»26, spingendosi ad affermare quanto segue: Fue hecho el Ms. H-I-13 o algún antecedente suyo para la reina castellana? Puede haber sido así, teniendo en cuenta el cuidadoso proceso de selección, traducción y diseño de materiales franceses que llevó a cabo el compilador. Sin embargo, la textualidad resultante sin dudas trascendió enseguida cualquier particularidad o personalismo, para abarcar a un público más amplio (…) cada texto se dirige a una posible lectora regia, presentando una imagen idealizada de sí misma (ivi, pp. XXXVXXXVI).

Oralità e scrittura Come si è visto, Spaccarelli appunta la propria attenzione sulla lettura ad alta voce delle prose escorialensi: su tale aspetto si è espresso anche Romero Tobar in un importante intervento, nel quale osserva anzitutto che Los relatos breves recogidos en compilaciones hagiográficas proceden de la Legenda Aurea; los relatos de mayor extensión tienen otro origen, individualizado en cada caso, y que se remonta a la tradición antigua o a los textos latinos medievales que surgieron en torno a la devoción profesada a un santo local o a los cultos de un lugar de peregrinación (…) la peculiar ordenación de los textos contenidos en el citado manuscrito escurialense h-I-13 nos sitúa en la zona intermedia que delímita las extensas compilaciones de los relatos individualizados27.

Quindi egli opera una suddivisione fra le agiografie in versi e quelle in prosa: come noto, mentre le prime erano diffuse attraverso performances giullaresche, le seconde erano probabilmente da ricondurre a una «circulación restringida a grupos de laicos cultos y, especialmente, a núcleos clericales que persiguen una finalidad profesional como reunir 26

C. Zubillaga, op. cit., p. XXXII. L. Romero Tobar, La prosa narrativa religiosa, in W. Mettmann (a cura di), Grundriss der Romanischen Literaturen des Mittelalters, IX/1, 4, La littérature dans la Péninsule Ibérique aux XIVe et XVe siècles, Heidelberg, Carl Winter - Universitätsverlag, 1985, pp. 45-46, 48. 27

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materiales para la predicación o para las lecturas comunitarias de los conventos» (ivi, pp. 50-51). Romero Tobar parte dal presupposto per cui, sebbene la prosa fosse destinata prevalentemente al silenzio della lettura, tuttavia nel Medioevo era abituale che quest’ultima fosse anche collettiva, quindi eseguita ad alta voce; tale esecuzione, secondo lo studioso, si sposa bene con la tipologia di testi in cui rientrano le pièces escorialensi, tanto più che gli stessi romanzi si sarebbero potuti leggere come repertori funzionali all’omiletica (cfr. ivi, p. 51). L’argomento è potenzialmente sconfinato, e una sua trattazione esaustiva esulerebbe dai confini qui imposti, tuttavia merita di essere preso in esame e precisato meglio. L’utilizzo predicatorio delle agiografie, già in nuce nella celeberrima Legenda Aurea, tanto che pare che lo stesso Iacopo da Varazze incoraggiasse i predicatori a far tale uso della sua raccolta28, non tralasciava certo l’esperienza della letteratura profana in volgare, al fine di raggiungere un uditorio il più possibile vasto29. Nello specifico di E, il rapporto fra le prose escorialensi, la “lettura comunitaria” e l’omiletica si confà, ad esempio, alla vita di santa Marta, che si conclude con un invito alla devozione nei confronti della santa («ora pues, buenos hermanos, nós que avemos oída la vida de la bendita santa Marta (…)» (Santa Marta, p. 35), alla preghiera e all’emulazione della «bendita huéspeda de Jhesu Christo, que nos mostró las buenas fazañas de la vida activa» (ibidem). D’altra parte, è bene sottolineare che non si tratta di una caratteristica esclusiva della sola redazione spagnola, la quale segue fedelmente la fonte francese anche sotto questo aspetto: ciò induce a credere che la redazione in prosa della vita di santa Marta fosse originariamente legata all’ars praedicandi, senza però dirci se così fosse anche nel ms. escorialense30. 28

Secondo S. Bertini Guidetti, Scrittura, oralità, memoria, in B. Fleith, F. Morenzoni (a cura di), De la sainteté à l’hagiographie. Genèse et usage de la ‘Légende Dorée’, Genève, Droz, 2001, p. 126, «è così presumibile che lo stesso Iacopo (…) non soltanto conoscesse perfettamente il grado di penetrazione della Legenda nel bagaglio formativo dei Predicatori, ma che non esitasse a incoraggiarne un’appropriata utilizzazione a fine didattico e pedagogico da parte dei lectores negli studia». 29 Cfr. in proposito il bel contributo di C. Bologna, «Fra devozione e tentazione. Appunti su alcune metamorfosi nelle categorie letterarie dall’agiografia mediolatina ai testi romanzi medievali», in S. Boesch Gajano, L. Sebastiani (a cura di), Culto dei santi e istituzioni sociali in età preindustriale, L’Aquila-Roma, Japadre, 1984, pp. 263-363, in particolare a p. 319 ss. 30 Quanto ai materiali utilizzati dai predicatori nella fase della inventio, essi erano generalmente le sacre scritture, le raccolte di exempla o simili, liste alfabetiche, collezioni di sermoni, artes praedicandi, in ossequio alle finalità eminentemente pratiche e persuasive che avevano i sermoni (T. Albadelejo, A. Calvo Revilla, Aspectos de la comunicación retórica en las ‘artes praedicandi’, in «La Corónica», 34, 2 [2006], p. 194).

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Romero Tobar osserva che talora nei testi spagnoli vengono aggiunte formule quali «ora vos dexaremos de fablar de sant Estaçio e de su pérdida, e tornarvos hemos a sus fijos» (Pláçidas, c. 26vb) o «ora vos dexaremos a fablar del padre e de los fijos, e tornarvos hemos a la dueña» (ivi, c. 27rb), là dove nei testi francesi esse non si trovano31. In un ulteriore lavoro Romero Tobar rimarca l’intensificazione, rispetto alle fonti, dei tratti stilistici che implicano l’atto di comunicazione del narratore col proprio pubblico, riferendosi in particolare a Santa enperatrís32. Nondimeno, egli chiarisce che la lettura di carattere privato delle agiografie, intesa però come pur sempre destinata a una ristretta comunità, monastica o di colti laici, non viene annullata da formule di comunicazione (apparentemente) dirette a un largo uditorio, le quali debbono essere considerate «meros clichés expresivos tomados, sin otras consecuencias, de la literatura de circulación oral» (ivi, p. 51). Effettivamente, riguardo all’ipotesi di una lettura comunitaria e conventuale delle prose escorialensi, a me pare che le aggiunte di E in tal senso rispetto ai modelli non provino granché, potendo rientrare benissimo nella ristrutturazione del discorso che avveniva durante i volgarizzamenti e le prosificazioni, anche tramite l’adozione di formule di transizione sotto forma di apostrofi al lettore/auditore, così da tenerne alto il livello di attenzione33. Inoltre, come ben osserva Doutrepont: 31

L. Romero Tobar, art. cit., p. 53. L. Romero Tobar, ‘Fermoso Cuento de una Enperatriz que ovo en Roma’: entre hagiografía y relato caballeresco, in Y.R. Fonquerne, A. Egido (a cura di), Formas breves del relato (Coloquio. Febrero de 1985), Zaragoza, Secretariado de Publicaciones de la Universidad de Zaragoza, 1986, pp. 9-10, nota 11. Lo studioso segnala i seguenti casi di formule metanarrative aggiuntive in Santa enperatrís, rispetto a quanto si trova nella presunta fonte (il miracle di Gautier de Coinci intitolato De la bonne enpereris qui garda loiaument sen mariage – cfr. l’ed. curata da E.V. Kræmer, De la bonne enpereris qui garda loiaument sen mariage: miracle mis en vers par Gautier de Coinci, Helsinki, Imprimerie de la Société de Littérature Finnoise, 1953, vv. 21-22, poi edito da V. F. Koenig [a cura di], Gautier de Coinci, Les miracles de Nostre Dame, Genève, Droz, 1966, pp. 303-459): «E desto vos quiero retraer fermosos miraglos (f. 99vb): un bel miracle weil retraire / et en rommans de latin traire (vv. 21-22); que vos diré (c. 102ra)» assente nel miracle. Ancora, «assý commo esta enperatriz de que vos cuento (c. 102rb): ne ne sont pas tout d’un acort / l’empeeris dont je recort» (vv. 393-394); «e buscóle tal mal commo agora oyredes (c. 104ra): en tel estat et en tel point / la metera sanz demouree (vv. 678-679); assý fue la dueña libre de tan grant peligro commo oýdes (c. 106va): ainsi la dame est delivree / qui a grant honte estoit livree» (vv. 1079-1080) (ibidem). 33 Già R.M. Walker, op. cit., pp. XXVII-XXVIII, aveva segnalato le amplificazioni di cui sopra alle cc. 26vb, 27rb e 27va di E, ascrivendole non tanto a un accrescimento del tasso di oralità, quanto piuttosto all’insieme di interventi ordinari del volgarizzatore sul testo di partenza, fra cui l’inserimento di brevi passaggi fra le avventure dei membri della famiglia del santo atti a rendere la narrazione più chiara e semplice da seguire (cfr. ivi, p. XXVII). 32

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A la question des rubriques [inserite nelle mises en prose] est liée celle des formules de transition qui rappellent ce qui s’est passé, et qui annoncent ce qui va venir (…) bien avant les proses, les formules de transition, les résumés se remarquent chez les prosateurs, comme aussi chez les poètes français34.

Quindi, il fatto che in Santa enperatrís o in Pláçidas si accentuino i tratti stilistici di cui sopra, può essere spiegato ipotizzando che, quando il traduttore sentiva la necessità di razionalizzare ulteriormente il succedersi degli eventi, egli ricorresse alle suddette formule, sebbene con moderazione, enfatizzando inoltre i passaggi che gli parevano importanti e richiamandovi l’attenzione del lettore35. Anche nel LCZ, un’opera certamente concepita per una fruizione quantomeno ristretta a un pubblico scelto, si legge: El trasladador de la estoria que adelante oyredes36, que fue trasladada de caldeo en latin e de latin en romance, puso e ordeno (…) (LCZ, p. 70).

A ciò si aggiunga il fatto che nel Medioevo la lettura avveniva sovente ad alta voce, ma trattandosi nel nostro caso di opere piuttosto lunghe, talvolta complesse e intrecciate fra loro tramite fitti richiami intertestuali, è più economico, come fa Alvar, nel confronto fra le redazioni spagnole della vita di María Egipçiaca, parlare per la redazione in prosa di lettura privata o, al più, vòlta a un «uditorio de iniciados, que poco necesitaban de embellecimientos ajenos al argumento»37. Resta perciò sempre valido il parere di Paul Meyer, che assegnava le redazioni prosastiche delle vite di santi a persone desiderose d’istruirsi, senza dubbio laiche ma in possesso di una certa cultura e del gusto per l’istruzione38, una tipologia 34 G. Doutrepont, Les mises en prose des épopees et des romans chevaleresques du XIV au XV siecle, Bruxelles 1939 (rist. Genève, Slatkine, 1969), p. 473. 35 C. Zubillaga, op. cit., p. CXLIX, osserva in proposito: «Estos recursos, en tanto marcas narrativas, no suponen una audiencia presente fisicamente o una situación de transmisión textual oral, sino que testimonian una convencionalidad de la fórmula que se privilegia como medio de organizar el material disponible». 36 Mio il corsivo. 37 J.M. Alvar, Prosa y verso en antiguos textos hagiográficos, in Id. (a cura di), Miscelánea de estudios medievales, Zaragoza, Diputación General de Aragón, Departamiento de Cultura y Educación, 1990, vol. I, pp. 127-139, poi in E.M. Gerli, H.L. Sharrer (a cura di), Hispanic Medieval Studies in Honour of Samuel G. Armistead, Madison, Hispanic Seminary of Medieval Studies, 1992, p. 46. 38 P. Meyer, Légendes hagiographiques en français, in AA.VV., Histoire littéraire de la France, Paris, Imprimerie Nationale, 1906, vol. XXXIII, p. 378.

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di pubblico alla quale si può guardare anche per i cuentos. Semmai, tornando al problema delle formule metanarrative, il desiderio d’insegnare e dilettare che soggiace al codice nel suo insieme e che, sotto diversi aspetti, rappresentava la finalità perseguita dai predicatori, potrebbe aver favorito l’utilizzo di espedienti che mimano l’oralità e che erano effettivamente frequenti nell’omiletica, espedienti la cui funzione, però, ricondurrei all’educazione di un lettore mediamente colto, il quale potenzialmente condivideva i contenuti veicolati da E con un uditorio, che non vedrei necessariamente conventuale. In conclusione, eviterei d’individuare un preciso committente di E sulla base della funzione pratica svolta dal codice (pubblico femminile, monastico, di pellegrini ecc.), e direi che vista la fattura dell’esemplare e la tipologia di testi in esso raccolta si potrà parlare di un pubblico laico, cui era destinato un genere di produzione francese tutto sommato abbastanza popolare e che non richedeva necessariamente una lettura comunitaria. Pertanto, più che poter realmente specificare se il pubblico di E fosse prevalentemente femminile a causa della preponderanza di eroine, oppure monastico se si vuole dare maggior importanza alle agiografie, potremo ora precisare meglio la voga che tramite il manoscritto escorialense si è voluta importare la quale, in larga parte, concerne varianti della fanciulla perseguitata in differenti generi, con l’aggiunta di testi come Pláçidas e EG che, se non sono prioritariamente incentrati su questo motivo, erano già strettamente collegati a cicli come quelli di Florence e Sebille. Ciò mi porta a ritenere che difficilmente, sulla base delle tematiche comuni individuate dalla critica, i volgarizzamenti in questione possano essere ricondotti a una particolare “funzione”, che non sia quella ordinariamente medievale di insegnare e dilettare insieme sfruttando, nel particolare caso di E, materiali e mode d’importazione. Di queste mode risente nettamente il LCZ, il quale sotto molteplici aspetti sembrerebbe vivere un rapporto simbiotico con E; le ragioni di ciò sono state già esposte, sebbene non in toto, per cui si potrà concludere con l’affermare che la simbiosi di cui sopra parte da molto lontano, ovvero dalle evoluzioni ideologiche e letterarie presenti all’interno del vasto corpus, ma anche dalla comune tendenza a iscrivere più eventi finzionali all’interno di una medesima cornice: se nel caso di E tale cornice è quella agiografica, che dota di auctoritas i cuentos nell’interpretazione del reale, nelle crónicas storiografiche due- e trecentesche era la storia a legittimare l’introduzione di testi epici, generalmente di origine francese, ivi prosificati e acclusi. Difatti, secondo Pattison, «en el siglo trece, se hacía borrosa la 151

frontera entre lo histórico y lo fictício, y los equipos cronísticos alfonsíes – como algunos otros anteriores – tenían tendencia a aceptar la veracidad de los relatos poéticos y a tratar de armonizarlos con otras versiones más tradicionales y razonadas»39. Anche nel LCZ matura la tendenza propria della letteratura castigliana a far convivere materiali di diversa origine, tendenza che, nella prima parte del romanzo, dove si raccontano le avventure del protagonista, si riflette ancora nel tradizionale specchio agiografico mentre nella seconda parte, che narra l’ascesa al trono imperiale del figlio cadetto Roboán, la cornice iniziale cede del tutto il posto alla finzione. Si tratta, però, di una finzione ormai pienamente in grado di interpretare il mondo attraverso un racconto fantastico che si sdoppia fra padre e figlio, ovvero Zifar e Roboán, e che, contemporaneamente, si rinnova, ormai libero da ogni necessità che non sia quella, appunto, narrativa: a questo punto, l’autorità della letteratura basta a legittimare la creazione di mondi possibili e “possibilmente” migliori dei precedenti. Nasce così la prima opera di finzione castigliana propriamente detta.

39

G.D. Pattison, Leyendas épicas en las crónicas alfonsíes: enfoque de la cuestion, in J.-Ph. Genet (a cura di), L’histoire et les nouveaux publics dans l’Europe médiévale (XIIIe-XVe siècles), Actes du colloque international organisé par la Fondation européenne de la Science, Madrid, 23-24 avril 1993, Paris, Publications de la Sorbonne, 1997, p. 79.

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Una letteratura Da huomini nobili, et da signori. Le miscellanee burlesche dei Giunti e dei Navò nel Cinquecento Ignazio Siddi

Nell’Europa del Cinquecento, percorsa da guerre religiose e da lotte per la supremazia, la voce dei Rerum vulgarium fragmenta rappresenta un elemento unificatore, accettato dalla Spagna all’Inghilterra e capace di superare potere secolare e temporale1. La posizione di monsignor Pietro Bembo, esposta nella Prose, indica i Rerum vulgarium fragmenta quale esempio di stile per eccellenza, si inserisce a suo modo nel lungo dibattito umanistico sull’imitatio; e sancisce così un riconoscimento che diverrà unanime in tutto il Continente, in virtù dell’indiscutibile prestigio culturale goduto dalla penisola italiana. In particolare, la reductio ad unum dei possibili modelli lirici trova così grande accoglienza che non solo la voce, ma perfino la dispositio del Canzoniere assurgeranno a paradigma2. Talvolta, però, la riproduzione di quegli stilemi sfiora l’inaspettato, come dimostra Gerolamo Malipiero, che si cimenta nella creazione di centoni petrarcheschi epurati di qualsivoglia offesa alla morale. Pubbli1

Appaiono al riguardo esemplari le posizioni espresse nel saggio di M. Lefèvre, Una poesia per l’Impero. Lingua, editoria e tipologie del petrarchismo tra Spagna e Italia nell’epoca di Carlo V, Manziana (Rm), Vecchiarelli, 2006, p. 12: «Dalla Gran Bretagna alla Spagna, dalla Francia ai Principati tedeschi e allo Stato pontificio, insomma in tutta l’Europa di Antico Regime, specialmente in seguito alla dolorosa e insanabile cesura costituita dalla redazione della confessio fidei tridentina, l’unica icona credibile e condivisibile a livello internazionale non è più quella del Papa o dell’Imperatore, bensì quella di Francesco Petrarca. E di conseguenza, di fronte alla barbarie delle devastazioni belliche e al fondamentalismo dei Cattolici e Riformati, l’unico “catechismo” riconosciuto dagli intellettuali europei rimane quello dei Rerum Vulgarium Fragmenta». 2 Rimando ai vari studi sulle sillogi petrarchiste, date alle stampe: A. Quondam, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma ‘antologia’, Roma, Bulzoni, 1974.

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cati dall’editore Marcolini nel 1536, i componimenti, meglio conosciuti come il Petrarca spirituale, appaiono maldestramente concepiti e al limite del ridicolo. L’estraneità della raccolta rispetto alle logiche editoriali dello stampatore Marcolini e il risultato ottenuto fanno dubitare che l’avvallo alla pubblicazione giungesse, in verità, da Pietro Aretino. Le sue posizioni apertamente polemiche verso il petrarchismo e il suo spirito dissacratore aleggerebbero sul prodotto finito e additerebbero al lettore più attento l’estremo ed esilarante risultato della venerazione petrarchista3. A dirla con Bergson la rigidezza applicativa degli stilemi petrarchisti si mostra suscettibile di essere stravolta secondo una modalità straniante, per cui il nuovo contesto segna la svolta comica del testo. Chi, nel Cinquecento, è capace di ridicolizzare la temperie culturale egemone con altrettanta vis comica è Francesco Berni, i suoi amici e i suoi emuli. In lunghi capitoli ternari, costoro accolgono una congerie di argomenti e, in special modo, la lode di oggetti quotidiani o persino di aspetti vituperati dai più, rivendicando l’adesione a una particolare idea di letteratura, della quale si analizzeranno qui i principali supporti di diffusione, e cioè le principali miscellanee, la definizione, le fonti e alcune logiche interne ai componimenti burleschi. Al pari di certo petrarchismo, anche la produzione burlesca conosce, inizialmente, una discreta diffusione, grazie alle miscellanee, nella fattispecie grazie a quelle approntate dalla stamperia veneziana di Curzio Troiano Navò. La loro prima antologia risale al 1537 e, come recita il frontespizio, essa si proponeva di accogliere le rime del poeta Francesco Berni, dell’amico Giovanni Mauro, di Monsignor Giovanni Della Casa e di Giovan Francesco Bini. Di ciascun componimento, però, non veniva indicato l’autore, mentre, sempre nel frontespizio, i testi erano genericamente definiti, per via del genere metrico usato, capitoli 4. 3

A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Ferrara, Franco Cosimo Panini, 1990. 4 I CAPITOLI DEL MAV- | RO ET DEL BERNIA ET ALTRI | AVTHORI NUOVAMEN | TE CON OGNI DI= |LIGENTIA ET | CORRETIO= | NE STAMPATI. [disegno] PER CVRTIO NAVO MDXXVII. Congiuntamente a quest’edizione Silvia Longhi, studiosa della letteratura burlesca del Cinquecento, offre la notizia di due particolari esemplari, pubblicati dalla Navò nel 1537, che, da una collazione, mostrano qualche differenza di lezione rispetto alla sopracitata edizione e che se ne discostano anche per il frontespizio. Essi recano, infatti, la dicitura di Terze rime. Cfr. Poeti del Cinquecento, a cura di M. Danzi, G. Gorni, S. Longhi, Milano-Napoli, Ricciardi, 2001, t. 1, pp. 633-634.

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Il loro successo editoriale dovette essere notevole, visto che, appena un anno dopo, nel 1538, la stessa antologia rivedeva la luce, sia pur con qualche ritocco. Lo stampatore, infatti, indicò il nome dell’autore di ciascun testo e separò materialmente la raccolta in tre sezioni, ciascuna provvista del suo frontespizio e dedicata, rispettivamente, alle opere di Francesco Berni, di Giovanni Mauro nonché a quello di un piccolo gruppo di autori composto da Giovanni Della Casa e Giovan Francesco Bini, a cui si aggiungevano un componimento anonimo ed uno del pittore Bronzino5. Con l’augurio «state sani pur attendendo cose belle», rivolto ai lettori e posto a conclusione della lettera introduttiva, Curzio segnalava cautamente un possibile seguito editoriale della raccolta, che di fatto arrivò appena un anno più tardi, nel 15396. Qui la novità più rilevante, oltre all’introduzione di opere inedite del Berni, è costituita dall’ampliamento della rosa di poeti burleschi fino ad allora noti e quasi tutti residenti a Venezia. Nella Repubblica della Serenissima, i nomi di questi autori, Ludovico Dolce, Benedetto Varchi, Sansedonio e Francesco Maria Molza, erano tanto conosciuti da far pensare che la miscellanea fosse in verità una risposta, tutta veneziana, ai componimenti delle antologie precedenti, le quali accoglievano testi scritti a Roma tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30. Ora, proprio a Venezia, gli autori pubblicati nell’antologia del ’39 potevano vantare un’amicizia con lo scomodo ma anche influente Pietro Aretino, figura che potrebbe spiegare alcune coincidenze. In primo luogo, la data di pubblicazione della prima antologia è di appena un anno posteriore all’esperimento malipieriano del ’36. Ciò avvallerebbe l’ipotesi di una possibile relazione tra le due operazioni letterarie, al punto da non escludere che dietro la curatela delle antologie Navò si celasse una figura vicina a Pietro Aretino. Stando ai frontespizi, infatti, il rilievo accordato a Francesco Berni, acerrimo nemico di Are5

TUTTE LE OPERE DEL | BERNIA IN TERZA RIMA, | NUOVAMENTE CON | SOMMA DILIGENTIA | STAMPATE. [disegno]| PER CURTIO NAVO E FRATELLI. | MDXXXVIII. Iniziava pertanto la miscellanea una parte relativa alle opere del Berni, al termine della quale si inaugurava una nuova sezione provvista di un frontespizio originale: TUTTE LE TERZE RIME | DEL MAURO, NUOVAMEN- | TE RACCOLTE ET | STAMPATE. | PER CURTIO NAVO, ET FRA- | TELLI MDXXXVIII. Seguiva quindi, sempre nella stessa miscellanea, un’ulteriore sezione: LE TERZE RIME DE | MESSER GIOVANNI DAL- | LA CASA DI MESSER | BINO ET D’ALTRI | PER CURTIO NAVO, ET FRA- | TELLI MDXXXVIII. 6 LE TERZE RIME DEL | MOLZA, DEL VAR- | CHI, DEL DOLCE. | ET D’ALTRI. [disegno] PER CVRTIO NAVO ET FRA | TELLI MDXXXIX. La stamperia si cimentò anche in un’ultima operazione letteraria, pubblicando, nel 1540, un’edizione di alcuni sonetti di Berni, in precedenza stampati a Ferrara.

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tino ma notissimo autore di opere burlesche, non è mai decisivo, poiché condiviso con quello di Giovanni Mauro. Fin dal frontespizio della prima raccolta, il nome di Berni segue quello di Mauro e questo nonostante le opere del primo fossero di gran lunga numericamente superiori a quelle del secondo, 18 contro 5. Nella seconda miscellanea, poi, l’editore non lascia emergere un poeta tra i due, anzi riserva a ciascuno una sezione ad hoc, oltretutto accompagnata dalla medesima introduzione. In secondo luogo, l’influenza di Aretino potrebbe trovare conferma nelle strette relazioni tra questi e l’editore Navò, che, nel 1539, pubblicherà il suo primo libro delle Lettere7. In generale, il successo arriso alle varie raccolte Navò fu notevole, tanto che si contano almeno tre reimpressioni (1540, 1542 e 1545)8. Ciononostante, anche un’altra stamperia, quella dei Giunti di Firenze, risulta cimentarsi nella pubblicazione delle rime di Berni e degli altri burleschi, riproponendo più o meno gli stessi autori e le stesse opere accolti nelle sillogi veneziane. Nel 1548, vede la luce Il Primo libro dell’Opere burlesche di M. Francesco Berni, di M. Gio. della Casa, del Varchi, del Mauro, di M. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola, una miscellanea che conoscerà due reimpressioni, nel 1552 e nel 1555. La curatela è affidata ad Anton Francesco Grazzini, ovvero il Lasca, il quale si mostra così scrupoloso, da dare modo alla filologa Silvia Longhi di osservare come: «testi che nelle precedenti edizioni erano afflitti da gravi scorrettezze si presentano in una lezione ineccepibile nella stampa giuntina»9. Il titolo di Primo libro lasciava intendere che, nei piani dello stampatore, la proposta di opere burlesche fosse destinata ad aumentare. Nel 1555, infatti, in concomitanza con la reimpressione del Primo libro, vedeva la luce Il secondo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni, del Molza, di M. Bino, di M. Lodovico Martelli. di Mattio Franzesi, dell’Aretino e di diversi autori10. Il nome del curatore è ignoto e l’antologia, introdotta da una lettera dell’editore Filippo Giunti, acco7 Le ‘Carte messaggiere’. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, p. 319. 8 S. Longhi, op. cit., p. 24. 9 Ivi, p. 27. 10 IL SECONDO LIBRO | DELL’OPERE BUR- | LESCHE | Di M. Francesco Berni, del Molza, di | M. Bino, di M. Lodovico Martelli. | di Mattio Franzesi, dell’Aretino, | e di diversi Autori. | Nuovamente posto in luce, Et con | diligenza Stampato. | IN FIORENZA, MDLV. | [in fine:] IN FIORENZA | Appresso li Heredi di | Bernardo Giunti | MDLV.

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glie alcune opere inedite del Berni, accostate ad altre di autori assai meno conosciuti nell’Italia del tempo. Sempre a giudizio di Silvia Longhi, Il primo libro del 1548 e, più precisamente, la curatela del Lasca consacrano il nome del genere, tanto che i poeti «ricevono la loro qualificazione caratterizzante» di burleschi; qualificazione già sancita nel frontespizio, in cui i componimenti berniani e berneschi, chiamati, fino ad allora, dalla Navò, capitoli o terze rime, sono definiti opere burlesche11. In realtà, l’aggettivo burlesco, in riferimento a questo genere di poesia, potrebbe essere anteriore al 1548, e la storia del suo uso sembra offrire qualche elemento di rilievo. Nel 1539, a Roma, l’editore Blado pubblicava il Commento di Ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata del Padre Siceo12, una vera e propria interpretazione, ridicolmente esegetica, del Capitolo in lode dei fichi di Francesco Maria Molza. L’autore, Annibal Caro, utilizza la locuzione di burlesca poesia riferendosi alla lirica bernesca e a quella degli altri poeti “baioni”13. Dunque, nove anni prima rispetto a quando fu usato dal Lasca, l’aggettivo adottato dal Caro già definisce un’idea di letteratura ben precisa. Per comprendere perché la poesia sia così apostrofata, occorrerà rivolgersi al celeberrimo Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione, il quale introduce il sostantivo spagnolo burla nel nostro idioma14: È parmi che la burla non sia altro che un inganno amichevole di cose che non offendano, o almen poco; e sì come nelle facezie il dir contra l’aspettazione, così nelle burle il far contra l’aspettazione induce il riso. E queste più piacciono e sono laudate quanto più hanno dello ingenioso e modesto; perché chi vol burlar senza rispetto offende e poi ne nascono disordini e gravi inimicizie. Ma i lochi donde cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie. Però, per non replicargli, dico sola11

In riferimento all’attestazione dell’aggettivo burlesco, si rimanda anche alla voce del Grande Dizionario della Lingua Italiana, a cura di S. Battaglia et al., Torino, UTET, 19812-2004, v. II, p. 457, voce la cui prima attestazione è individuata proprio nella locuzione opere burlesche del Lasca. 12 S. Longhi, op. cit., p. 29. 13 Rimando ad Annibal Caro, Commento di ser Agresto da Ficaruolo sopra la prima ficata del padre Siceo, Bologna, Gaetano Romagnoli, 1861, pp. 26-27. 14 Baldassar Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di C. Cordiè, Milano, Mondadori, 1999, II, 85, p. 187.

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mente che di due sorti burle si trovano, ciascuna delle quali in più parti poi divider si poria. L’una è, quando s’inganna ingeniosamente con bel modo e piacevolezza chi si sia; l’altra, quando si tende quasi una rete e mostra un poco d’esca, talché l’omo corre ad ingannarsi da se stesso15.

Le parole del Cortegiano sembrano corrispondere, in certo senso, a quelle che Lasca utilizza per introdurre la raccolta dei Giunti. Per lui, infatti, le rime godono di «tanta stima» e son tenute «in tanta riputazione, et non mica da’ plebei, ma da’ huomini nobili, et da’ signori». Tanto più che coloro i quali poterono comporre in questo genere di opere furono «ingegnosi compositori». Francesco Berni, aggiunge il Lasca, «è stato uno dei più begli ingegni de più rari spiriti». E, infine, lo spirito burlesco è «giocoso, lieto, amorevole, et per dir così buono compagno, il quale giova, piace, diletta et conforta altrui». Se, come ha notato da Margherita Morreale, è indubbia l’origine spagnola del sostantivo burla16, qui si vuole sottolineare che la locuzione simile a opere burlesche è attestata nella penisola iberica, ben prima che il Lasca vi ricorresse per riferirsi ai componimenti berniani e berneschi. Nel Cancionero general de muchos y diversos autores, pubblicato a Valencia nel 1511 e destinato a molteplici reimpressioni17, un’intera sezione reca il titolo di Obras de burlas; essa designa un gruppo di satire – inclusa una contro il futuro papa Alessandro VI – e di poesie smaccatamente ironiche ed erotiche, come El pleyto del manto, un vero e proprio dibattimento tra l’organo maschile e quello femminile, sulla falsa riga del De rosa et viola. 15

Il corsivo è mio. Da questa definizione di burla si originerà il nuovo concetto di burla nella letteratura iberica e sarà anche patrimonio di Cervantes che farà dire al suo don Quixote [LXII] che «no son burlas las que duelen ni hay pasatiempos que valgan si son con daños al tersero» (non sono burle quelle che provocano danno, né esistono passatempi che siano giusti se si accaniranno contro il prossimo) (cfr. J.G. Fucilla, Relaciones hispanoitalianas, Madrid, Revista de Filología española, 1953, p. 21). Il rapporto tra la definizione di burla del Castiglione e la sua diffusione nella letteratura spagnola del Siglo de Oro è ripreso anche da M. Joly, La bourle et son interprétation: recherches sur le passage de la facetie au roman (Espagne XVIe-XVIIe siecles), Lille, Atelier de reproduction des théses Université de Lille III, 1982, pp. 23-24. 16 M. Morreale, ‘Cortigiano faceto’ y ‘Burlas cortesanas’. Expresión italianas y españolas para el análisis y descripción de la risa, «Buletín de la Real Academia Española», 1955 (XXXV), pp. 57-83. 17 Cancio(n)e= | ro gene | ral de mu= | chos y diver | sos autores. | Cum pre | vilegio. Per un’analisi sulle edizioni del Cancionero general, si rimanda a J. González Cuenca, Prólogo di H. del Castillo, Cancionero general, edición de J. González Cuenca, Madrid, Castalia, 2004, v. I, p. 64.

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Dunque, è dalla Spagna che muoverebbe la definizione di una certa produzione letteraria, che, comunque, nella nostra penisola sarà infine delineata in maniera univoca. Di conseguenza, può essere lecito ipotizzare che, dietro la definizione di Caro, si celi tutta una fitta rete di relazioni e di scambi culturali che coinvolge Italia e Spagna, legate per via di rapporti diplomatici intessuti a Roma, città in cui, non a caso, risiedono e poetano numerosi autori burleschi. A fronte di una probabile e univoca ascendenza spagnola dell’idea e della definizione di letteratura burlesca, diverse sono le fonti a cui essa si ispira. Nelle lettere dedicatorie delle miscellanee, infatti, è introdotta una sintetica esegesi letteraria, che, inoltre, spiega la ragion d’essere delle opere burlesche, come bene illustrano le introduzioni alle antologie di Curzio Navò, del 1539, e dei Giunti, rispettivamente del 1548 e del 1555. In apertura alla poco studiata miscellanea veneziana, l’editore autorizza, ad esempio, quella particolare idea di poesia, vista alla stregua di un divertissement per l’uomo colto: Se i buoni intelletti degli studiosi di lettere […] non agevolassero alcuna volta il peso delle fatiche con la piacevolezza delle inventioni giucose e festevoli; essi certamente non potrebbono durare nel travaglio d’i sudori. Di qui Homero scrisse la battaglia delle Rane, Virgilio illustrò il Pulice, Luciano non tacque del Pidocchio, et chi d’uno et chi d’altro ridicolo soggetto trattò scherzando.

Curzio individua e illustra le possibili fonti classiche, citando tutta una serie di autori cimentatisi nella produzione di testi di lode paradossale, nonostante l’errata corrispondenza tra titoli e nomi, fatta eccezione per la Batracomiomachia, tradizionalmente attribuita a Omero. La disattenzione, però, suona a tributo della trasandatezza spesso millantata nei testi dei poeti alla Berni e, al contempo, rimarca la natura scanzonata e ironica su cui si fonda il genere burlesco, capace di sottrarsi a qualsiasi esegesi pedantesca, propria della letteratura ‘seria’. Di quest’ultima, resta in ogni caso il principio, quasi classicista, di autorità fondato su esempi indiscussi, quali Virgilio, Omero e Luciano. L’introduzione veneziana ricalca, poi, una fonte ben precisa e decisiva per il genere dell’elogio paradossale, Erasmo da Rotterdam. Nel suo Encomium moriae, infatti, egli legittima un elogio paradossale quale 159

quello della follia enumerando, come farà poi Curzio, quanti e quali autori possano essere ritenuti i precursori di siffatto genere: Verum quos argumenti levitas, et ludicrum offendit, cogitent velim, non meum hoc exemplum esse, sed idem iam olim a magnis autori bus facitatum. Cum ante tot secula Βατραχομυομαχίαν luserit Homerus, Maro culicem et moretum, nucem Ovidius. Cum Busirides laudarit Polycrates et huius castigatur Isocrates, iniusticiam Glauco, Thersite et quartanam frebris favorinus, calvicium Synesius, muscam et parasiticam Lucianus. Cum Seneca Claudii luserit αποτέωσιν, Plutharcus Gryllicum Ulysse dialogum, Lucianus et Apuleius asinum, et nescio quis Grunnii Corocotta porcelli testamentum, cuius et divus meminit Hyeronymus18. Chi però si sente infastidito dalla leggerezza e festevolezza del tema pensi di grazia che non sono io il primo. Fin dalle epoche più remote grandi scrittori hanno fatto altrettanto. Secoli e secoli fa, Omero si è divertito con la Batracomiomachia, Marone con la Zanzara col Moreto, Ovidio con la Noce. Policrate scrisse un elogio di Busiride e Isocrate lo corresse. Glaucone esaltò l’ingiustizia, Favorino Tersite e la febbre quartana, Sinesio la calvizie, Luciano la mosca e il parassitismo. Seneca si divertì con l’apoteosi di Claudio, Plutarco con un dialogo fra il Porco e Ulisse, Luciano e Apuleio con l’asino, un tale a scrivere il testamento del porcello Grunnio Corocotta citato persino da san Gerolamo.

Per Curzio, come per Erasmo, la pratica letteraria implica un intelletto sopraffino, tale da riconoscersi anche negli otia. Esiste dunque un legame profondo tra poesia seria e poesia burlesca, perché sarà quest’ultima a ricreare i «buoni intelletti degli studiosi di lettere», che poi potranno giovarsi di una più fervida inventiva. In questo senso, l’avvertenza dello stampatore recepisce chiaramente una lezione della favolistica classica. Nel De lusu et severitate di Fedro, Esopo, protagonista del racconto, risponde ad un attico, che ne derideva il gioco tra i fanciulli, ricordando l’importanza dello svago. In conclusione alla favoletta, la metafora dell’arco, che si spezza se tenuto troppo teso, ricorda come una mente troppo intenta agli studi perderà di flessibilità; e, più in generale, dimostrerà l’imprescindibile utilità del gioco al fine del miglioramento psicologico: 18 Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di C. Carena, Torino, Einaudi, 20022, p. 11.

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Sic ludus animo debet aliquando dari, ad cogitandum melior ut redeat tibi. (vv. 12-13) Così di quando in quando si dia svago / alla mente affinché torni migliore / al tempo del pensare.

Ma la poesia “alla Berni” e l’elogio paradossale non sono solo lusus. Come sottolinea Curzio, che cita i vari autori presenti nella raccolta e gli altri «chiari pellegrini ingegni», il poeta burlesco è chiamato a mettersi in gioco, profondendo tutto il suo ingenium, nel comporre le rime. Il rilievo è sancito nel principale testo classico che si occupa dell’elogio paradossale, le Laudes fumi et pulveris dis paratae e le Laudes neglegentiae di Marco Cornelio Frontone. L’autore accorda all’ingegno un’importanza basilare per la comprensione del testo di lode paradossale, poiché la celebrazione risulterà incomprensibile per una parte dei lettori e, viceversa, sarà apprezzata da un’altra particolare cerchia, alla quale, evidentemente, Frontone si dirige: Plerique legentium forsan rem de titulo contemnant: nihil serium potuisse fieri de fumo et pulvere. Tu pro tuo excellenti ingenio profecto existimabis lusa sit opera ista an locata19. La maggior parte dei lettori, dal titolo, disprezzerà forse questo scritto, pensando che dal fumo e dalla polvere non possa venire nulla di serio; tu, col tuo ingegno eccellente, certo giudicherai se questo sia un passatempo o un’opera ben spesa.

In definitiva, i diversi rimandi finora proposti suggeriscono come il letterato attenda al suo completamento, scrivendo o gustando componimenti dedicati a soggetti bislacchi, così che egli divenga cum omnibus omnium horarum homo, ossia un uomo a tutto tondo, capace di apprezzare la facezia come il discorso dei più seri. Anche la già citata antologia fiorentina, del 1548, dei Giunti vanta un’interessante presentazione ai lettori, sia pur parzialmente allineata all’introduzione di Curzio Navò. I punti di contatto si ritroveranno nell’alta considerazione goduta dallo stile burlesco:

19 Frontone, Laudes fumi et pulveris dis paratae. Laudes negligentiae, in Opere, a cura di F. Portalupi, Torino, UTET, 1974, v. I, p. 499.

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è fatto tanto conto, havuto in tanta stima, et tenuto in tanta riputazione, et non mica da’ plebei, ma da huomini nobili, et da signori.

Laddove Curzio si riferisce alla diffusione della pratica burlesca tra i letterati, Lasca fa riferimento ai reali fruitori del componimento burlesco, lusingando, sia pur indirettamente, i lettori del libro che vanta la sua curatela. Nel contempo, insiste sulla natura ‘altra’ delle opere berniane e bernesche rispetto al petrarchismo. Questo aspetto acquista una cifra distintiva della sua Lettera a Lorenzo Scala, poiché Lasca denuncia lo stacco delle opere ‘alla Berni’ rispetto alla lirica più in voga, «havendo le Petrarcherie, le squisitezze et le Bemberie anche che nò, mezzo ristucco, e’nfastidito il mondo, per ciò che ogn cosa è quasi ripieno di Fior, frond’herb’ombre, antri, ond’aure soavi». La poesia burlesca nascerebbe con il precipuo compito di opporsi ad un costume letterario contemporaneo, tanto diffuso quanto logoro, e perciò intollerabile. Non a caso, in estrema contrapposizione alle logiche poetiche dominanti, a seguito della lettera, il Lasca pone un sonetto caudato dedicato a Francesco Berni, il cui incipit suona a dura condanna e sberleffo verso il modello lirico per eccellenza del Rinascimento: Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono Di quei capricci, che ’l Berni divino Scrisse cantando in volgar fiorentino Udite nella fin quel ch’io ragiono: Quanti mai fur poeti al mondo e sono, Volete in greco, in ebreo, o ’n latino, A petto a lui non vaglion un lupino, Tant’è dotto, faceto, bello e buono; E con un stil senz’arte, puro e piano, Apre i concetti suoi sì gentilmente, Che vegli par toccar proprio con mano; Non offende gli orecchi della gente Colle lascivie del parlar toscano: Unquanco, guari, maisempre e sovente. Che più? da lui si sente, Anzi s’impara, con gioia infinita, Come viver si debbe in questa vita.

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Il curatore della raccolta, Giunti, propone un suo modello eccellente, quasi eponimo, per l’idea di letteratura burlesca, Francesco Berni, mo162

dello che, certo, si era già andato affermando nelle antologie precedenti, ma che nel Primo libro assurge a definito e indiscusso baluardo stilistico. Ciò induce a pensare a un’operazione quasi di marketing letterario, atta a creare, attorno ad un preciso autore, Berni, appunto, un genere specifico dai confini, linguistici e tematici, specifici. Tale operazione pare confermata da due elementi. In primo luogo, al di là della professione di fede anti-petrarchista, il Lasca non ripudia il modello della lirica amorosa, dal momento che, al pari di altri burleschi, quali Molza, Varchi, Dolce e Della Casa, si dedica alla produzione di poesie ispirate allo stile di Petrarca. In secondo luogo, il Lasca, quale membro dell’Accademia degli Humidi, poi divenuta Accademia fiorentina, organizza il Primo libro conferendo preminenza alla scuola toscana, quasi a rimarcare la fiorentinità del genere. Rispetto alle edizioni di Navò, infatti, il Mauro è subordinato al Berni, ed è persino superato dal Della Casa e dal Varchi. Per contro, i rappresentanti dell’area veneta, Dolce, in special modo, sono posti a conclusione dell’edizione dei Giunti, mentre scompaiono alcuni autori ‘minori’, ma pur noti, che erano presenti con due testi nell’antologia della Navò del 1539. La pleiade degli epigoni è destinata all’incremento proprio con il Secondo libro, nella cui introduzione, ancora una volta, si ravvisa il tentativo di offrire un ulteriore apporto all’‘idea’ di letteratura burlesca. Interrogata in tal senso, la lettera, dedicata da Filippo Giunti ad Alessandro De’ Medici, si mostra allineata alle introduzioni, rispettivamente, di Navò e di Giunti: Altri poeti poi, come ho detto, ci sono, che altro non disegnano se non recar piacere e diletto alle genti: e di questi tali ce ne sono stati molti tra gli antichi, e pur de grandi, sì come fu Homero nel suo piacevole Mergitte, e nella guerra delle Rane, e de Topi, e Virgilio, che scrisse della Zanzara, e d’altri dilettevoli e ingegnosi poemi, che sono per la mani di ogniuno. Di questa maniera di faceti e sollazzevoli scrittori e poeti molti e molto eccellenti n’ha avuto, e ha tuttavia il secol nostro, il qual (dirò liberamente) non cede in cosa alcuna all’antico. Et fra primi, e forse primo, che in tal maniera di scriver in burla lodevolmente poetasse, fu il nostro Messer Francesco Berni, il quale e per piacere altri, e per esercitar se stesso, cotante belle e argute poesie ci lasciò di suo, quanto hoggi si veggon pubblicamente al mondo per nostre e per l’altrui stampe.

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Vero specchio dei tempi, il passo qui proposto rappresenta l’approdo di un discorso ben più ampio e imbastito sulle disquisizioni teoriche della Poetica di Aristotele. La nuova antologia termina, in vantaggio, il paragone, tutto umanistico, con i classici e gli antichi e si colloca in un più vasto panorama di stampe di burleschi. Nel contempo, quando Filippo Giunti segnala come la letteratura burlesca sia diffusa «per nostre e per l’altrui stampe», si riferisce alle pubblicazioni, certo note, della sua stamperia, ossia al Primo libro e alle Rime del Firenzuola (1549), e all’insieme dei testi, compresi quelli di Navò, i quali favorirono la diffusione dell’idea di letteratura burlesca nella penisola italiana20. La ridefinizione e l’incremento del numero di autori del Parnaso burlesco non sono, però, gli unici elementi di rilievo che emergono nel passaggio dalle prime antologie veneziane a quelle fiorentine, poiché, in generale, è la tipologia letteraria a specializzarsi. Nei testi della prima collettanea della Navò, ferma restando la tipologia dei versi utilizzata, il capitolo ternario, i temi affrontati sono eterogenei. Anche la seconda antologia, del ’38, accoglie componimenti dagli argomenti disparati, mentre la terza silloge veneziana, del 1539, sembra restringere le possibili tipologie testuali all’elogio paradossale, a cui è riconducibile la maggioranza dei componimenti. Viceversa, solo due capitoli presenteranno le caratteristiche del così detto capitolo-epistola, che subiranno un subitaneo declino, nonostante i favori incontrati da Berni e da Mauro. Questo repentino cambiamento è da imputare ancora una volta alla natura dell’antologia del ’39; poiché, come accennato, essa nascerebbe quasi a mo’ di manifesto veneziano, in risposta alle rime pubblicate a Venezia nel ’37 e nel ’38. Di fatto, i componimenti presenti in queste ultime sarebbero certamente anteriori ai testi pubblicati nel ’39 e, soprattutto, sarebbero il risultato di quei momenti di aggregazione che sono le accademie e che prendono il nome di Accademia dei vignaioli, nata nel 1532, e, nella fattispecie, della più strutturata Accademia dei virtuosi, sorta nel 153521. 20 Per una panoramica più ampia, relativa alle raccolte burlesche a stampa del Cinquecento, si rimanda a S. Longhi, op. cit., pp. 247-250. 21 In riferimento all’accademia dei vignaiuoli Danilo Romei scrive che la definizione sarà da intendersi come «un’etichetta di comodo, convenzionale ed inesatta» (D. Romei, Berni e berneschi del Cinquecento, Firenze, Centro 2 P, 1984, p. 55). Per ulteriori ragguagli circa la storia delle accademie dei Vignaiuoli e della Virtù, si rimanda al sito internet, curato da D. Romei: http://www.nuovorinascimento.org/n-rinasc/ipertest/ html/orlando/vignaiuoli.htm. Relativamente all’Accademia della Virtù, si rimanda al

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Al fine della definizione dell’idea di letteratura burlesca, non è secondario l’apporto dei “minori”, poiché, in qualche modo, questi utilizzano un sistema espressivo specifico autorizzato da un principio di imitazione non dissimile da quello idealistico del Petrarca sul versante della lirica amorosa. In questo caso, si estremizzano i temi e i procedimenti comici introdotti nei testi di Berni e di Mauro, propensi a usare un linguaggio metaforico, che rimanda, spesso in maniera intermittente e controversa, alla sfera sessuale22. Della Casa, Varchi e Dolce, come anche il Bronzino e Mario Confuso, introiettano tali temi e procedimenti, fino a divenire i campioni di questo spregiudicato uso della metafora, che, nei loro versi, assume quasi un sapore manieristico. Così le descrizioni divengono smaccate, mentre il dettato erotico conosce una trasparenza indubitabile, tanto che gli stessi capitoli di Giovanni Della Casa saranno posti all’indice per il loro contenuto palesemente osceno23. Il progressivo allineamento su un’unica forma testuale, quella dell’elogio paradossale, è giustificato spesso attraverso una serie di citazioni, che esaltano la poesia burlesca, conferendole un valore gnoseologico degno della migliore filosofia. Bartolomeo Carli Piccolomini, presente con un suo testo nell’antologia Navò del 1539, propone al riguardo riflessioni esemplari. Un acquazzone romano, l’imbrattarsi per le malagevoli strade ispirano a questo autore un capitolo interamente dedicato al fango24. In apertura, egli si rivolgerà, presumibilmente, a Claudio Tolomei25, lasciando emergecontributo di P. Cosentino, L’Accademia della Virtù: dicerie e altre cicalate di Annibal Caro e di altri virtuosi, in Cum notibusse et comentaribusse. L’esegesi parodistica e giocosa del Cinquecento, Manziana (RM), Vecchiarelli, 2002, pp. 177-192. 22 Mi riferisco qui ai risultati e alle spesso controverse posizioni dell’opera di J. Toscan, Le ‘Carnaval du langage’. Le lexique érotique des poètes de l’équivoque de Burchiello a Marino (XVe-XVIIe siècle), Lille, Atelier de reproduction des théses Université de Lille III, 1981, 4 v. 23 L. Barletta, Riforma e Controriforma in Europa e in Italia, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, Roma, Salerno, 1997, vol. V, pp. 70-71. A. Corsaro, La regola e la licenza. Studi sulla poesia satirica e burlesca fra Cinque e Seicento, Manziana (RM), Vecchiarelli, 1999, pp. 73-113. 24 B. Carli Piccolomini, Capitolo de misser Bartolomeo Carli del Fango, in Terze rime, cit., c. s. n. 25 Il possibile riferimento di Piccolomini a Claudio Tolomei è suffragato proprio dall’amicizia tra i due e dalla partecipazione di entrambi alle attività dell’Accademia senese. Riferimenti all’accademia senese e all’appartenenza di Bartolomeo Carli Piccolomini alla stessa si ritrovano nel lavoro di R. Belladonna, Echi aretiniani nell’Accademia senese in Pietro Aretino nel cinquecentenario dalla nascita. Atti del convegno di Roma-Viterbo-Arezzo (28 settembre-1 ottobre 1992), Toronto (23-24 ottobre 1992), Los Angeles (27-29 ottobre 1992), Roma, Salerno, 1995, t. II, pp. 859-874 (passim).

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re una dichiarazione relativa alla “missione” della poesia bernesca e, di conseguenza, della sua poesia: Spesso avien che le cose paion triste, Se si miran sol di sopra sopra, Che sotto poi riescon meglio viste. Da cotal sottigliezza è nata l’opra Del nostro Bernia, misser Claudio mio, Et per farsi galante ogn’un s’adopra. (vv. 1-6)

Tali versi potrebbero essere accostati a quelli di Fedro, là dove, in apertura al quarto libro delle Favole, esortava i lettori a volgere l’attenzione ai suoi scritti, latori di verità indiscutibili: Ioculare tibi videtur, et sane leve, dum nihil habemus maius, calamo ludimus. Sed diligenter intuere has nenias: quantam sub illis utilitatem reperies! (vv. 1-4)26 [Una cosa da scherzo e assai leggera / ti sembra il divertirci con la penna / ora che niente abbiamo / di più grande, ma tu / coteste nenie pensa accortamente: / in loro, sotto sotto, / oh quanta utilità ritroverai].

Entrambi i poeti rivendicano l’uso di strumenti atti ad andare oltre la superficie del testo. Per Fedro basterà diligenter intuere; per Carli, la sottigliezza assolverà il compito di garantire che le cose non paian triste. Il poeta burlesco si proporrà di descrivere il mondo reale in maniera inusuale, così da coglierlo interamente. Dato l’argomento eletto, la lode del fango, è plausibile che, quando Piccolomini accenna genericamente alle opre berniane, si riferisca, rispettivamente, alle due celebrazioni della peste e a quella del debito di Francesco Berni. Nei tre elogi, dunque, Berni riverserebbe tutta la sua sottigliezza, che è, in primo luogo, ironia. Quest’ultima si sviluppa a partire dal contrasto tra l’opinione comune e quanto l’autore dimostrerà, spesso ricorrendo a una collocazione del soggetto in una categoria che non è quella attesa, o attestata nel pensare comune. Sono le parole nella parte definita del De risu di Quintiliano a lasciar emergere la portentosa natura del riso: 26 Fedro,

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Favole, trad. di A. Richelmy, lib. IV, 2.

Rerum autem saepe, ut dixi, maximarum momenta vertit, ut cum odium iramque frequentissime frangat27. Inoltre modifica totalmente, come ho detto, il valore di cose importantissime, poiché in molti casi arriva a smontare l’odio e l’ira.

Perciò quanto più scomodo e degradante diviene elemento superno, degno di essere lodato non solo in sé e per sé, ma soprattutto per la possibilità che esso offre di illuminare diversamente la realtà, così da invertire qualsiasi gioco chiaroscurale, secondo una prospettiva che si pone sulla falsariga di quella socratica e che diverrà, in qualche modo, connaturata all’idea stessa di letteratura burlesca. Difatti, nel capitolo primo dedicato alla peste, tanto più emblematico per il richiamo al Boccaccio, Berni definisce il momento del divampare dell’infermità come «il miglior tempo e la più bella / Stagion» (vv. 5-6), ossia coerentemente con il sistema del ribaltamento illustrato. Ma, in fondo, l’autore ha ben chiaro come «tutto è baia / A paragon del tempo della peste» (vv. 80-81). Citando corrivamente il contenuto del testo, basterà dire che l’infermità, lungi dal gettare chiunque nello sconforto, potrà vantare tre virtù fuori dal comune. Sarà dono provvidenziale per garantire folgoranti conversioni. Garantirà, grazie allo spopolamento, un surplus alimentare, e dunque la beatitudine berniana per eccellenza: il desinare. Faciliterà passaggi di eredità, secondo il sempre efficace detto, brutale quanto illuminante, del mors tua, vita mea. La linea beffarda continua anche con il capitolo In lode del debito28, che fa eco ai versi di Orazio sullo stesso tema. Esser gravati di debiti, più che di scudi aver le casse piene (v. 7), rappresenta una condizione spensierata, così che far il debito è fare il proprio bene (v. 76): Più bella vita al mondo un debitore, Fallito, rovinato e disperato, Ha che’l Gran Turco e che l’Imperadore. (vv. 64-66)

A conclusione della sintetica illustrazione, sarà sufficiente una terzina tanto emblematica, quanto ironica, come quella in cui si augurerà al debitore una lunga vita, acché possa rendere al creditore fino all’ultimo centesimo. 27

Quintiliano, Institutiones oratoriae, VI 3. F. Berni, In lode del debito a M. Alessandro del Caccia [XXVI], in Poeti del Cinquecento, cit., pp. 784-792. 28

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Nelle antologie, il numero di argomenti affini a questi berniani sembra destinato all’incremento. L’ispirazione è recepita da diversi autori, i quali dedicano solenni e strampalati ternari alle malattie. Aretino, ad esempio, scrive una lode della quartana, altri lodano il malfranzese, le bugie, la pruzza, il martel d’amore e, quindi, lo sputo e la stizza. Non da ultimo, in questa mostra del grottesco, Francesco Maria Molza metterà in versi l’elogio di un provvedimento tanto emblematico per il Cinquecento, la scomunica29: Se sei scomunicato, in ogni loco Ciascun per non parlarti si ritira, Et guardasi da te come dal foco. O beneficio grande a chi ben mira, Non essere fastidito da persona, Che ti faccia a sentirla angoscia, od ira (vv. 85-90).

Per Molza, il mirar bene, quasi traduzione di quel diligenter intuere di Fedro, permetterà di intravedere la paradisiaca condizione di cui godrà lo scomunicato; poiché il provvedimento farà fuggire a gambe levate qualsiasi pusillanime e garantirà a chi ne è colpito una vita solitaria e serena quanto quella agognata da Orazio. Se la lode paradossale è in fondo un capovolgimento ironico, quasi dispettoso nella sua realizzazione, allora i contenuti nuovi dovranno essere proposti in maniera altrettanto inusuale. Al momento di creare la poesia, il poeta burlesco avoca a sé una funzione particolare; a lui spetta il ruolo quasi iniziatico, tale per cui le rime si arrogano il diritto di infrangere pregiudizi e tabù dell’umano consorzio, in virtù di una nobiltà sconvolgente dei soggetti prescelti. Questa primaria finalità si propone, ad esempio, il Sansedonio, il quale, lodando la pruzza, ossia la rogna, affronta un tema relativo allo stato attuale dei suoi tempi: contro l’infermità, infatti, non solo si accanisce il pregiudizio ma anche il male, che qualsiasi autore di satire che si rispetti vede serpeggiare tra i più30: 29

F.M. Molza, Capitolo della scomunica al medesimo (Trifone Benci), in Il primo libro, cit., p. 239. 30 F. Sansedoni, Capitolo della pruzza del Sansedonio, in Terze rime, cit., c. s. n.

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La gente è oggidì tanto invidiosa Che biasiman chi merita più lode. (vv. 16-17)

Un argomento differente, ma una stoccata simile, proviene dal Bronzino, secondo il quale è il pregiudizio oramai diffuso, ad aver svilito la piacevolezza dell’esser galeotti e dello star tra galeotti: Quasi ogni gente o nobile o plebea, Senza saper perché, giudica et tiene Per una mala cosa la Galea. (vv. 1-3)

Su una linea affine si muove anche l’amico del Bronzino, Benedetto Varchi, nel suo capitolo dedicato alle Ricotte31: Se Plinio e Dioscoride tra tanti Miracol non ce ferno menzione, Fu per non insegnarlo a gli ignoranti. (vv. 97-99)

È l’ennesimo segreto mirabolante, inesistente, e, soprattutto, è l’ennesima epifania quotidiana dei poeti; epifania del risibile che si irradia da un’opera all’altra, divenendo un tema fondante per l’idea di letteratura burlesca. Più nello specifico, la presunta grandiosità si accompagna al lamento per la mancanza di ingenium dei poeti, anche se, nell’atto stesso di evocare questo aspetto della retorica, costoro riannodano un filo solido e preciso con la tradizione dell’elogio paradossale, e, nella fattispecie, con quell’excellenti ingenio, ricordato da Frontone nella sua lettera dedicatoria per la celebrazione del fumo. Da un poeta all’altro, infatti, rimbalza un continuo misurarsi con l’ingegno, secondo modalità che sono quelle solite, ridondanti, mai concluse, dei burleschi, in base a un percorso già tracciato da Francesco Berni. Al riguardo questi offre una lezione esemplare, che testimonia di uno spirito filologico e di un affondo stratigrafico preciso: S’i’ avessi l’ingegno del Burchiello, Io vi farei volentieri un sonetto; Ché non ebbi già mai tema e subbietto Più dolce, più piacevol, né più bello. (vv. 1-3) 31 B. Varchi, Capitolo sopra le ricotte, a M. Guarnucci, in Il primo libro, cit., c. s. n. Dioscordie al v. 97 dell’edizione Terze rime, cit., c. s. n.

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In verità, l’incidenza del topos nell’intera produzione berniana è abbastanza ridotto, eppure destinato ad avere una notevole accoglienza nel resto degli autori. Agnolo Firenzuola, nel suo capitolo del Legno santo, si confronta a sua volta con un ingenium non a caso percepito come supremo, tanto quanto lo era quello burchiellesco per Berni. Ciò testimonia della nuova assunzione di modelli e del confronto costante con una tradizione essenzialmente rifondata a partire proprio da Berni stesso: Duolmi ben ch’io non ho quel bello ingegno C’hebbe in lodar le Pesche un sozio mio Tal ch’ognun v’ha poi fatto su disegno Et duolmi che non son sì dotto anch’io Com’era il Tibaldeo quando compose Non aspettò giamai con tal desio. (vv. 13-18)

L’ingegno del Firenzuola non è certamente quello del Berni, che alle pèsche dedica un capitolo; né tanto meno è paragonabile a quello del Tebaldeo; eppure, egli non disdegna la sfida poetica, anzi, vi annuncia novità straordinarie e inaudite. Così pure, il Molza mostra l’ambizione a possedere un ingegno di un altro autore, distintosi per la grande perizia burlesca; il soggetto prescelto, altissimo, potrebbe essere degnamente cantato solo da un altro poeta, come dimostra il Capitolo della Insalata, a messer Triphone32: Un poeta valente mi promesse Lodar già l’insalata: e non so come L’ingegno altrove poi et l’opra messe. Et era egli ben tal, che sol col nome, Fatto le avrebbe certo un grand’onore, S’ei sommettea le spalle a cotai some. (vv. 1-6)

Similmente, Dolce inanella oltre trecento versi di lode alla serratura, salvo sentire un piccolo senso di inadeguatezza dopo averne sciorinati ben duecento:

32 F.M.

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Molza, Capitolo dell’insalata, in Il primo libro, cit., c. 223.

sarebbe mestier di mille stili A trattar di materia sì profonda: E d’ingegni più alti e sottili. (vv. 199-201)

Infine, nel capitolo di Francesco Beccuti, detto il Coppetta, e nel suo soggetto burlesco, l’osteria33, è profuso un tale orgoglio per aver eletto quest’ultima ad argomento di lode da renderlo Degno soggetto da stancar il Berna, Il Mauro, il Dolce e gl’altri semidei. (vv. 32-33)

Così Berni, Dolce e Mauro sono consacrati a sempiterna fama perché non più uomini, ma membri di un Olimpo burlesco, che conferisce ormai alla letteratura burlesca l’idea di una letteratura “da huomini nobili, et da segnori”.

33 F.

Beccuti, Capitolo in lode dell’osteria, in Il secondo libro, cit., c. 26 r.

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PARTE SECONDA a cura di Marina Guglielmi

«Quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura». Svevo, Montale e l’istituzione letteraria Sandro Maxia

Che ci si salvi l’anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa. Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cap. VII

«La letteratura – scriveva Maurice Blanchot in un saggio del 19491 – comincia nel momento in cui diventa un problema», non è più, cioè, qualcosa che “va da sé”, ma viene sottoposta a indagine, esaltata o, con altrettanta facilità, denigrata2. Secondo Blanchot, denigrarla è per essa salutare, il solo modo di capirla, e forse alla fin fine di esaltarla. La modernità abbonda di processi alla letteratura, e di altrettante sentenze di condanna (più raramente di assoluzione). Ma già nell’antichità essa è portata alla sbarra: basta pensare allo scandalo costituito dall’arte all’interno della polis platonica. Nell’ancièn régime la repressione è affidata alla Chiesa e al suo Indice dei libri proibiti. Nella società alto-borghese, quella rappresentata da Thomas Mann nei Buddenbrook, l’arte (letteratura e musica) è tollerata come svago dalle preminenti fatiche del costruire, ma irrisa quando si ostina a rappresentare la negatività dell’umana condizione, a contestare e rovesciare il senso comune e la morale corrente (proprio per questo definita dai poeti romantici “filistea”), la quale mal sopporta (e infatti porta in tribunale) l’artista che, quasi emulo dell’an1 M. Blanchot, La littérature et le droit à la mort, in La part du feu, Gallimard, Paris, 1949, p. 305. La traduzione dei passi in seguito citati è mia. 2 Tra queste denigrazioni ironiche una delle più brillanti mi pare quella di Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Milano, Feltrinelli, 1967.

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gelo ribelle Lucifero davanti a Dio, oppone il suo “non serviam!” nei confronti della società di cui pure fa parte; e quando al contrario si piega alle richieste di engagement a favore di una causa politica (ciò che per Vittorini era “suonare il piffero per la rivoluzione”), la stessa società, tramite i suoi critici letterari, ne condanna l’operato come atto di servilismo (o più delicatamente, come “arte parenetica”)3. Nell’età contemporanea, ai roghi che mandarono in cenere Giordano Bruno o Jan Hus si sono sostituiti quelli di quadri e libri “degenerati” nella Germania hitleriana, mentre gli autori scappavano all’estero o finivano nei lager4. Più che un concetto, la letteratura – ha scritto Maria Corti – è un campo di tensioni, nel cui spazio si scontrano definizioni opposte della sua essenza e contrastanti opinioni sulle sue finalità. Nel saggio sopra ricordato, Blanchot offre in proposito un’efficace sintesi, mettendosi dal punto di vista degli scrittori e delle divaricate richieste che si riversano su di loro. Scrive Blanchot: Lo scrittore deve allo stesso tempo rispondere a molti imperativi assoluti e assolutamente differenti tra loro. La sua moralità è fatta consistere nello scontro tra regole reciprocamente ostili. Una di queste regole recita: tu non scriverai nulla, starai in silenzio, ignorerai le parole. L’altra: non ti occuperai che delle parole. E ancora: Scrivi per non dire niente/ Scrivi per dire qualche cosa. – Niente opere, parla della tua esperienza di vita/Niente autobiografie, dacci un’opera, riconosciuta come tale e interessante per i lettori – Infischiatene dei lettori/Cancellati davanti ad essi – Scrivi per essere vero/Niente affatto, sii mendace, giacché scrivere in vista della verità significa rappresentare ciò che non è ancora vero e forse non lo sarà mai – Fa niente, scrivi per agire/Scrivi, tu che hai paura di agire – Permetti alla libertà di parlare con la tua bocca/Per carità, non permettere che la libertà diventi una vuota parola. E allora, quale regola seguire? È ovvio, lo scrittore deve seguirle tutte. In tal caso, quale confusione! Ma la chiarezza non è anch’essa una regola della scrittura? Sì, certo, anche la chiarezza. Ed ecco che lo scrittore è costretto a opporsi a se stesso a negarsi affermandosi, a scoprire nella luce del giorno il buio profondo della notte; a salvare il mondo ed esserne l’abisso in cui precipiterà5. 3

È sempre attuale in proposito il volume di L. Anceschi, Autonomia e eteronomia dell’arte, Milano, Garzanti, 1976. 4 Gli stessi quadri e libri che causavano il ricovero dei loro autori nei manicomi o la loro detenzione nei gulag dell’Unione sovietica, da Stalin a Breznev. 5 M. Blanchot, La part du feu, cit., pp. 315-316.

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Ho citato ampiamente dal saggio di Blanchot, che precede di poco il più noto (in Italia) L’espace littéraire del 1955, perché anticipa genialmente molte delle posizioni che negli anni Sessanta diventeranno i punti di forza dello strutturalismo e della semiotica letteraria, in particolare francese, non senza qualche iniziale cedimento, magari contrastato da uno stile critico alquanto oracolare, al canto delle sirene scientiste, che poi aduggeranno le teorie e molte delle analisi testuali di quella scuola critica. Certamente Blanchot mette a frutto la lezione di Paul Valéry («I poeti hanno di mira la realtà della lingua e non delle cose. Essi si affidano alla letteratura come a un potere impersonale»)6; accetta la nozione elaborata da T.S. Eliot di sistema letterario e anzi ne amplifica la portata («Lo scrittore scrive a partire da un certo stato della lingua, da una certa forma della cultura, per operare una loro trasformazione. Per scrivere, egli ha necessità di distruggere la lingua che trova per farne altra cosa; deve negare i libri esistenti mentre ne fa uno con ciò che essi non sono […]. Il libro entra nel mondo, e lì realizza la sua opera di trasformazione e negazione. Provoca anche l’avvento di molte altre cose, diviene sorgente infinita di nuove realtà, a partire dalle quali l’esistenza sarà ciò che prima non era»)7. Ma Blanchot prende anche le distanze dal paradosso, sempre di Valéry, secondo il quale la scrittura letteraria è il regno dell’arbitrario e al limite della malafede8. Dice Blanchot, introducendo il tema della polisemia sistematica della lingua letteraria: In letteratura la mistificazione e l’inganno non solo sono inevitabili, ma costituiscono l’onestà dello scrittore, quel tanto di speranza e di verità che c’è in lui. Oggi si parla della malattia delle parole. Il fatto è che questa “malattia” è anche la loro salute. L’equivoco le strazia? Felice equivoco, senza il quale non ci sarebbe dialogo. Il malinteso le insidia? Ma è esso che ci dà la possibilità di spiegarci e alla fine di intenderci.

Trascuro altri aspetti di questo importante saggio per venire alla tesi che ne costituisce l’aspetto di maggiore forza e originalità, sia pure sotto l’egida evidente di Bergson e di Heidegger, e cioè il rapporto tra la lingua come strumento di conoscenza del mondo e la morte. Blanchot parte dalla pagina di Hegel in cui il filosofo parla della biblica nominatio 6

Ivi, p. 335. Ivi, pp. 317-318. 8 Alla citatissima (un tempo) «marchesa che esce alle cinque» di Valéry, Blanchot oppone la frase «Guardò dalla finestra», della quale Kafka dice che è già perfetta in sé e come tale insostituibile, perché, commenta Blanchot (ivi, p. 310) «ciò che è scritto non è né giusto né sbagliato: è un gesto perfetto, tramite il quale ciò che prima non c’era è approdato alla realtà monumentale del dopo come qualcosa di necessario». 7

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rerum, con la quale la lingua dà all’uomo il dominio su tutte le cose, ma così facendo le priva dell’esistenza, le consegna alla morte nell’essere. Certo, dice Blanchot, le mie parole non uccidono nessuno, tuttavia quando io dico “questa donna” sto preannunciandone la morte reale, che è già presente nel mio linguaggio, in quanto quella persona, che è davanti a me ora e qui può essere staccata da se stessa, sottratta alla sua esistenza e immersa di colpo in un vuoto di esistenza e di presenza. «Se questa donna non fosse realmente mortale – conclude Blanchot – io non potrei compiere questa ideale negazione, cioè questo assassinio differito che è la mia lingua. È dunque giusto dire che quando io parlo la morte parla attraverso le mie parole. Ciò riguarda anche la mia soggettività: io mi nomino e con ciò stesso pronunzio il mio canto funebre, separandomi da me stesso e consegnandomi a una presenza impersonale, quella del mio nome»9. La letteratura chiama Lazzaro alla luce del giorno, senza però cancellare il Lazzaro della tomba: li vuole entrambi, il Lazzaro perduto e quello salvato. Secondo Blanchot, dunque, la lingua è intrinsecamente abitata dalla morte. In quanto cristallizza la vita, costringendola nella gabbia delle sue strutture, essa è morte, e anzi “seconda morte” nel sepolcro gelido dei segni. Ma in quanto sottrae il passato all’inconsistenza della memoria essa conferisce una tragica immortalità, ossia toglie il diritto alla morte. Il protagonismo assoluto della Parola, l’azione per la quale sottrae l’esistenza alle cose, unita al potere che possiede di afferrarne una volta per tutte l’essenza, è il tratto dominante del pensiero estetico di Blanchot10. In lui, e dapprima nel saggio di cui sto parlando, sono già presenti gli sviluppi che prenderà la Teoria della letteratura negli anni Sessanta del Novecento, specie in Francia. Elencando un po’ alla rinfusa, citerò la crisi della funzione Autore, il Lettore come effettivo creatore dell’opera, la critica di quella che da Barthes a Genette a Riffaterre si chiamerà “l’illusione referenziale”, sostituita con abili sofismi dalla tesi dell’autoreferenzialità dei testi letterari, il prevalere del significante sul significato e della sincronia sulla diacronia, il carattere puramente convenzionale degli stili letterari11. 9 Ivi, pp. 326-327. Al contrario, secondo il grande linguista Émile Benveniste, De la

subjectivité dans le langage, in Problèmes de linguistique général, è la lingua che crea la soggettività, con la possibilità data a ciascuno di dire “io”. 10 «Le mot agit non pas comme une force idéale, mais comme une puissance oscure, comme une incantation qui contraint les choses, les rende reellement présentes hors d’elles mêmes», La part du feu, cit., p. 330. Si ricordi il verso di Montale: «Mi dissi ‘Buffalo’ – e il nome agì». 11 Che la bestia nera dello strutturalismo “alla francese” sia la mimesi lo dimostra ad abundantiam la teoria dell’intertestualità, formulata da Julia Kristeva nel 1966, nell’am-

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Ciò non significa disconoscere il grande apporto dato dal metodo strutturale e dalla semiotica alla conoscenza della testualità letteraria. Ma mettere in discussione il dogma dell’autoreferenzialità della letteratura non ha certo questo intento. Vediamo bene quanto sia ampia la distanza tra la totale svalutazione delle tecniche compositive, della retorica, dei generi letterari, centrale nel pensiero estetico di Croce, e l’accento pressoché esclusivo posto su di essi dalla nouvelle critique (new criticism nella cultura anglosassone). Ma il paradosso di Valéry, che si diceva a lungo abitato dal sospetto che molte pagine di letteratura avessero come solo significato: «Io sono una pagina di letteratura» ha davvero fatto il suo tempo e lo riponiamo volentieri magari con reverenza, nello scaffale di un’ideale biblioteca, accanto al racconto di Borges, Tlön Uqbar Orbis Tertius (in Finzioni), dove si sospetta che «tutte le opere siano opera di un solo autore, atemporale e anonimo». Sicché gli scrittori di Tlön non firmano i loro libri, non possiedono la nozione di plagio, non sanno nulla dell’influsso, dell’imitazione, dell’apocrifo, ecc. Ma è un fatto che Borges fu più colpito di altri dall’utopia di Valéry, che, come è arcinoto, vagheggiava una storia della letteratura come «storia dello spirito in quanto produttore o consumatore di “letteratura”, una storia che potrebbe essere fatta senza che venisse mai pronunciato il nome di un autore». Mettiamo tutto ciò nel conto delle denigrazioni parodiche della letteratura di cui parla Blanchot. Ha scritto Alberto Savinio che «anche la poesia un giorno fu stanca di essere immortale, e scese dall’Olimpo per poter morire». bito di un seminario di Barthes dedicato ai lavori di Bachtin appena scoperti in Occidente. L’intento della Kristeva era rivolto a spostare l’ottica della teoria letteraria verso la “produttività” del testo, fino ad allora percepito in maniera statica dagli strutturalisti: «Tout texte – è la formulazione della studiosa – se construit comme mosaïque de citations, tout texte est absorption et transformation d’un autre texte». Secondo la Kristeva interprete di Bachtin, l’intertestualità designerebbe il dialogo tra i testi, essendo l’insieme della società un insieme testuale. Dal che si vede come la nozione di intertestualità nasca già malata in radice. Infatti l’opera di Bachtin, come poi si vide bene, reintroduceva la realtà, la storia e la società nei testi, visti come una struttura complessa di voci e un conflitto dinamico di linguaggi e stili eterogenei. La lettura intertestuale è ottima cosa, purché non pretenda di trasformare il testo in esame in un coacervo di citazioni. Le parole possono certo passare da un testo all’altro, ma nel passaggio cambiano senso, ovvero vengono risemantizzate secondo l’intento espressivo dell’autore che le riceve: il dialogo c’è, ma per essere vero non può essere ripetizione del già detto (su questa visione dell’intertestualità si è abbattuta l’ironia di Borges con l’invenzione di Menard-Cervantes). Da notare l’avvertimento di Montale, quasi una premonizione, contenuto in un articolo del ’47: «L’originalità buona non è quella di chi non somiglia ad alcuno; è ciò che resta irriducibile alle somiglianze e che è da esse garantito e condizionato». Rinvio su questi argomenti al volume di A. Compagnon, Le Démon de la thèorie, Paris, Éditions du Seuil, 1998, magari rinforzato dalla palinodia di T. Todorov, La littérature en péril, Paris, Flammarion, 2007.

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Mi addentro ora, sia pure di sbieco, nel tema del seminario, ricostruendo per sommi capi il rapporto con la letteratura – intesa come oggetto di riflessione ma anche come istituzione – intrattenuto da due scrittori di lingua italiana, entrambi di statura sovranazionale, diversissimi tra loro, eppure legati da un’affinità spirituale profonda. Questi due autori sono il triestino Italo Svevo (fino al 1918 cittadino dell’impero absburgico) e il genovese Eugenio Montale12. La loro carriera artistica non poteva essere più diversa. Anzi, per Svevo non è neppure il caso di parlare di carriera, essendo egli, che aveva esordito nel 1892, rimasto un perfetto sconosciuto all’anagrafe della letteratura italiana fino al 1925, anno nel quale la rivista milanese «L’esame» pubblicò l’Omaggio a Italo Svevo di Montale, allora ventottenne ma già poeta conclamato e promettente critico letterario13. Fino ad allora Svevo era stato esclusivamente il signor Hector Aron Schmitz, appartenente a una famiglia di ebrei “assimilati”, impiegato di banca da scapolo e poi col matrimonio divenuto socio dell’assai redditizia fabbrica di colori e di vernici antiruggine del suocero Gioacchino Veneziani. Aveva, sì, fatto parte in gioventù dell’ambiente letterario cittadino e pubblicato (sotto lo pseudonimo che l’avrebbe reso celebre) due romanzi, usciti a sue spese presso una tipografia della sua città, rispettivamente nel 1892 e nel 1896, ma l’insuccesso, specie del secondo14, era 12 Tra i due c’erano trentacinque anni di differenza, essendo Svevo nato nel 1861 e Montale nel 1896. 13 Seguirà due mesi dopo, febbraio 1926, il fascicolo della rivista parigina «Le Navire d’argent» interamente dedicato a Svevo, propiziato da James Joyce, che aveva conosciuto Svevo durante l’esilio triestino, ne aveva letto i romanzi giovanili e poi la Coscienza di Zeno, giudicandoli veri capolavori e ora, giunto alla fama internazionale con l’Ulysses, li aveva raccomandati all’attenzione dei letterati italianisants Benjamin Crémieux e Valéry Larbaud. Con l’uscita della rivista francese ebbe propriamente inizio il così detto Caso Svevo, ma resta a Montale il primato della “scoperta”. 14 «Mi rassegnai al giudizio tanto unanime – non esiste unanimità più perfetta di quella del silenzio – e per venticinque anni m’astenni dallo scrivere», prefazione alla seconda edizione di Senilità, 1927. La frase suona anche come un omaggio al filosofo preferito, Schopenhauer, che nella prefazione alla seconda edizione del Mondo come volontà e come rappresentazione scriveva: «Ancora una parola per i professori di filosofia. La sagacità, il gusto e fine tatto con cui essi hanno, al suo primo apparire, riconosciuta la mia filosofia per qualcosa di affatto eterogeneo alle loro aspirazioni, nonché la sicura e acuta politica in virtù della quale hanno immediatamente scoperto il solo contegno giusto da tenere davanti ad essa, la piena unanimità con cui l’hanno posto in pratica: tutto questo ho sempre dovuto ammirare. Tale contegno consiste notoriamente nell’assoluto ignorare, e quindi nell’‘insegretire’, secondo la maliziosa espressione di Goethe; che propriamente indica la soffocazione di tutto ciò che è importante e significativo».

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stato tale che egli aveva deciso di separare il suo destino da quello della fino ad allora amata letteratura, per la quale, già da studente in Germania, sentiva di avere un’autentica vocazione. La solenne abiura, affidata a un diario sotto la data “2 dicembre 1902”, è molto citata nella critica sveviana, ma la riproduco ugualmente per comodità del cortese lettore: Noto questo diario della mia vita di questi ultimi anni senza propormi assolutamente di pubblicarlo. Io, a quest’ora e definitivamente ho eliminato dalla mia vita quella ridicola e dannosa cosa che si chiama letteratura. Io voglio soltanto attraverso a queste pagine arrivare a capirmi meglio. L’abitudine mia e di tutti gli impotenti di non saper pensare che con la penna alla mano (come se il pensiero non fosse più utile e necessario al momento dell’azione) mi obbliga a questo sacrificio. Dunque ancora una volta, grezzo e rigido strumento, la penna m’aiuterà ad arrivare al fondo tanto complesso dei mio essere. Poi la getterò per sempre e voglio saper abituarmi a pensare nell’attitudine stessa dell’azione: in corsa, fuggendo da un nemico o perseguitandolo, il pugno alzato per colpire o per parare.

Deluso dunque dai due consecutivi fallimenti, illeggibile nell’Impero del quale era suddito, non letto nel Regno di cui aveva adottato la lingua, il futuro principe dei romanzieri affida la sua non esausta voglia di scrittura a un “diario della sua vita”, con lo scopo esplicito di “capirsi meglio”, anzi, di “giungere al fondo tanto complesso del suo essere”. Possiamo forse scorgere un secondo scopo, implicito in questa decisione, quello di trovare un sostegno al proposito, evidentemente non troppo fermo, di estirpare da sé il vizio della letteratura (è da rilevare che l’antidoto prescelto, la scrittura diaristica, introduce una distinzione destinata a futura fortuna negli anni Cinquanta del Novecento, dal Blanchot dell’Espace littéraire al Barthes del Grado zero della scrittura). Dallo scavo nella propria interiorità Svevo si aspetta anche un’altra guarigione, quella dalla propria sperimentata impotenza ad agire, una malattia della volontà di cui si sentiva affetto, una sindrome diagnosticata con assoluta precisione dal suo filosofo prediletto, Arthur Schopenhauer; un’affezione che un altro dei suoi numi tutelari all’epoca della sua formazione, avvenuta in Germania, Friedrich Nietzsche, aveva condannato col nome di nichilismo. Non so se Svevo conoscesse allora l’opinione di Flaubert, secondo cui “è possibile pensare e scrivere solo stando seduti”, né se avesse presente lo sferzante commento pronunziato contro il grande francese da Nietzsche: «Ti ho colto, nichilista! Restare seduti è esatta181

mente il peccato contro lo spirito santo. Solo i pensieri che vi vengono camminando hanno valore»15. Ma che conoscesse o meno questi aforismi non ha molta importanza. Per nostra fortuna, le auspicate guarigioni non ci saranno. La malattia della volontà, le mal du siècle, col nome clinico di nevrosi ossessiva, accompagnerà Svevo per tutta la vita, finendo per diventare un punto di forza della sua visione delle cose («Solo noi malati – dirà il suo alter ego letterario, Zeno – sappiamo qualcosa di noi stessi»). E quanto al resto, Svevo si accorgerà subito della contraddizione in cui si è cacciato, se è vero che capirsi meglio per guarire dallo scrivere richiede altra scrittura. Né ci metterà molto a concludere che neppure scrivendo di sé si esce dalla letteratura, ci si limita soltanto a coltivare un altro genere letterario, sia pure spurio o ibrido com’è il diario, dai francesi detto journal intime, per distinguerlo dalle altre scritture autobiografiche; non letteratura nel senso pieno della parola, secondo Maurice Blanchot, ma un mezzo ambiguo per sfuggirle e contemporaneamente restarne intrappolato. Quando Svevo inizia a scrivere “a chiarezza di sé” (uso un’espressione che non appartiene a lui, ma al D’Annunzio del Libro segreto), l’idea unitaria del soggetto, sostanza semplice e indivisibile quale era stata concepita per millenni dal pensiero occidentale, è già uscita dall’orizzonte della cultura europea. Sta nascendo una nuova psicologia, sviluppo di quella positivista che indagava da tempo sulle personalità multiple o alternanti, che già aveva ispirato lo Stevenson dello Straordinario caso del dottor Jekill e di Mister Hyde. Mi riferisco alla psicologia del “flusso di coscienza”, per la quale l’io non appare più un’entità coerente e compatta, ma un aggregato di relazioni psichiche irriducibile ad un’evoluzione unitaria della personalità. In relazione a questo mutamento epistemologico, la scrittura letteraria vira verso la centralità della prima persona, nell’intento di catturare il proteiforme fluire delle sue manifestazioni. Si capisce come in questo clima culturale possa prendere vigore il culto, o la moda, del journal intime, che alcuni vogliono inaugurato dai frammenti di diario di Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo. Ma c’è chi si spinge più indietro, fino alle Confessioni di Rousseau e ai Souvenir d’egotisme di Stendhal (genealogia che potrebbe risalire allora alle Confessioni di Sant’Agostino, al Secretum di Petrarca, agli Essais di Montaigne e all’Ecce Homo di Nietzsche). Per il Novecento, molto letti sono stati a suo tempo i Cahiers di 15

F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, afor. 43; da collegare con l’afor. 93 della Gaia scienza: «Io non sono uno di quelli che pensano con la penna in mano […]. Scrivere mi fa rabbia o vergogna; scrivere è per me una necessità».

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André Gide e i Cahiers di Paul Valéry, meno il Diario di Virgina Woolf, pubblicato solo nel 1977 (ma i Cahiers di Valéry, in sette volumi, non appartengono propriamente al genere del journal intime, semmai possono essere accostati allo Zibaldone di Leopardi). In Italia il genere diaristico non offre altrettanta abbondanza, salvo il D’Annunzio dei Taccuini e soprattutto del Libro Segreto, posto dall’autore sotto l’insegna dello “scrivere a chiarezza di sé”, ma anche, se capita, “a lode di sé”, come si legge nelle Faville del maglio: «Tutte queste mie ardue prose furono scritte a chiarezza di me, con la volontà costante di acuire sempre più la mia attenzione sopra la mia vita profonda […]. Più d’una volta, scrivendo a chiarezza di me, ho anche scritto a lode di me, senza timidità alcuna, e m’è parso di aggiungere alla Laus vitæ una Laus mei non meno mirabile di ricchezza ritmica e di potenza figuratrice». Così parla D’Annunzio, che si definiva “il postero di se stesso”. Dicevo della penuria in Italia di diari intimi. Possiamo però ancora ricordare il Giornale di bordo di Soffici, le scritture diaristiche di Landolfi, Alvaro, Zavattini ecc. Ma è forse col Mestiere di vivere di Pavese che possiamo sconfiggere il pregiudizio secondo il quale il diario intimo non sarebbe confacente alla forma mentis del letterato italiano. Sotto l’etichetta di questo culto egotistico cadono anche opere a carattere narrativo, quali la trilogia di Barrès, intitolata Le culte du moi; À rebours di Huysmans, quasi tutta la produzione romanzesca di D’Annunzio, mentre parzialmente se ne distanziano opere quali i Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke, L’impiego del tempo di Michel Butor, Il libro dell’inquietudine di Pessoa. Forse un paragrafo in questo vasto capitolo potrebbe intitolarsi al Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce. Ci rientrerebbero, citando alla rinfusa, Un uomo finito di Papini, L’esame di coscienza di un letterato di Renato Serra, Novale di Federigo Tozzi, Ragazzo di Jahier. Nel 1921 Paul Bourget, il capostipite del romanzo psicologico e acuto osservatore del costume contemporaneo, nel fare un primo bilancio di queste scritture in Francia, sceglierà un titolo molto eloquente, La malattia del ‘Journal intime’, volendo collocare questa produzione sotto l’insegna della patologia narcisistica. Un grande malato si riteneva lo svizzero francofono Henri-Frédéric Amiel (Ginevra, 1821-1881), il cui prodotto è ritenuto il journal intime per antonomasia. Si tratta infatti di un’impresa unica nel suo genere, con le sue 16.000 pagine, portato avanti con un’incredibile perseveranza per 42 anni, dal 1839 al 1881. Uno dei problemi affrontati da Amiel riguarda il rapporto tra la vita e la scrittura che la insegue, ma raggiuntala la uccide. L’8 ottobre del 1840, Amiel 183

annota: «Tutto svanisce attorno a noi, figure, parenti, concittadini; generazioni fluiscono silenziose, tutto cade e se ne va, il mondo ci sfugge, le illusioni si dissipano, assistiamo alla perdita di tutte le cose, e se non basta, noi perdiamo noi stessi». È il problema che assillerà Svevo fino alla vecchiaia. Il 10 ottobre del 1906 annota: Perché diavolo parlo tanto della mia vecchiaia? Non certo per paura della morte che non mi desta né curiosità né paura. Io penso che effettivamente la mia vita sia stata troppo corta. Fu molto piena di sogni che io non notai né ritenni. […] Tutto a me d’intorno muore giornalmente nell’oblio perché io sto estatico a vedere, frastornato da un mondo di gente che mi grida nelle orecchie. Siora Livia aveva vent’anni ed ora ne ha 31 passati. A me pare come se essa avesse avuto sempre questa età. E se arriverà all’età cadente tutti noi saremo stati sempre vecchi.

E il 13 giugno 1917: Con piena fiducia di condurlo a termine ricomincio oggi il mio libro di ricordi. […] Morirono definitivamente tante cose e persone che furono sì importanti per me, che me ne rammarico intensamente. Come sono pallide quelle cose e quelle persone! Son ridotte a concetti astratti e forse sbagliati. Io stesso finirei col credere di essere stato sempre come sono oggi, mentre pur ricordo degli odii e degli amori che non ho più […]. Ma avendo annotato tanto poco, non posso verificarlo.

Ma il diario di Svevo, peraltro caratterizzato da vuoti anche di anni, non rientra propriamente nella storia del journal intime, che ha in se stesso il suo scopo, sia destinato o meno alla pubblicazione. Il brano del 1902 sopra riportato può essere stato lo sfogo di una giornata di malumore. Del resto, solo tre anni prima, sotto la data 2 ottobre 1899, Svevo aveva affidato allo stesso diario un attestato di fedeltà alla letteratura, proponendosi nell’immagine della “formica letteraria”, che deve imporsi di “scribacchiare giornalmente per arrivare a scrivere sul serio”. «Si deve tentare – scrive – di portare a galla dall’imo del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che sia o non sia puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più»; bisogna però lasciare queste annotazioni allo stato per così dire fluido, perché restino disponibili ad ogni futuro svolgimento. La scrittura diaristica appare qui a Svevo come un deposito sommerso, 184

una riserva di energie torbide che fermenteranno in funzione dell’opera futura; insomma, una via privilegiata al romanzo16. Svevo suggella il patto con la letteratura con un’affermazione solenne: «Fuori della penna non c’è salvezza», e si tratta di una formula particolarmente impegnativa, ricalcata com’è su quella della liturgia cattolica (lui che era ebreo e agnostico): nulla salus extra ecclesiam. Tre anni dopo, l’abbiamo appena letto, la penna diviene una protesi da usare obtorto collo per capirsi meglio, ossia per trovare in se stesso quella “radice malata” – secondo l’espressione di Kant – che lo costringe a scrivere. E la letteratura è divenuta per lui una cosa “ridicola e dannosa”, da abbandonare a favore della vita “vera”17. Nonostante la fiera abiura, Svevo continuò a scrivere, per venti anni, clandestinamente («Deve esserci nel mio cervello – scrive in una lettera alla moglie, datata Londra, 6 giugno 1900 – qualche ruota che non sa cessare di fare quei romanzi che nessuno volle leggere e si ribella e gira vertiginosamente…»), e finalmente, dopo la “scoperta”, avvenuta per merito di James Joyce, in modo pubblico. Un lieto fine che egli stesso definirà “un dorato tramonto”, e altrove una ripetizione del miracolo evangelico della resurrezione di Lazzaro. Un cenno va anche fatto al rapporto di Svevo con l’istituzione letteraria, cioè alle iniziative da lui prese per “promuovere” la sua figura di scrittore presso la critica e l’opinione pubblica. Tra queste iniziative si segnala per singolare goffagine il Profilo autobiografico, steso nel 1926; un testo nel quale Svevo costringe i fatti della sua vita in uno schema romanzesco, il cui protagonista è la vocazione letteraria, dolorosamente abbandonata e tradita a causa di costrizioni esterne e alla fine, sempre per casuali circo16 Proust sarà di opinione opposta: le annotazioni momentanee, quelle per esempio relative al paesaggio visto dal finestrino di un treno, sono inutili. Decisivo invece, «per la piena resurrezione poetica» di quella giornata, il suono di un cucchiaino che urta un piatto, identico a quello prodotto dai ferrovieri che percuotevano le ruote del treno ad ogni fermata: ed ecco che – scrive Proust – «rivisse per me l’ora bruciante e accecata in cui quel rumore era risuonato per me». Questo è Proust, e sarebbe inutile obbiettargli che per comunicare il tutto a noi lettori deve ricorrere alla scrittura. Il passo di Proust si legge in uno degli Abbozzi di prefazione al Contre Sainte- Beuve. Io l’ho tolto dal bellissimo saggio di G. Mazzacurati, Dentro il silenzio di Svevo, in Stagioni dell’Apocalisse. Verga Pirandello Svevo, Torino, Einaudi, 1998. 17 È un atteggiamento mentale destinato a durare nella cultura triestina. Gli scrittori della città giuliana noti alle storie letterarie come i “moralisti della «Voce»” rifiutarono la letteratura intesa come produzione meramente estetica e proclamarono una loro “anti-letterarietà” in quanto esigenza non di bellezza ma di “verità”: la letteratura è “menzogna” per Saba, “triste e secco mestiere” per Slataper, il quale rivendica di voler essere prima uomo e poi poeta, ma mai letterato.

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stanze, ritrovata e riconosciuta come l’unico vero scopo della vita. Nasceva così una leggenda destinata a durare a lungo non solo nell’aneddotica, ma anche nella critica sveviana, alimentata dal fatto obbiettivo del lungo intervallo tra il secondo e il terzo romanzo e dal persistente equivoco tra rinunzia a scrivere e rinunzia a pubblicare. In realtà l’ampia produzione di novelle, apologhi, pagine saggistiche, opere teatrali, per non parlare del vasto Epistolario, anch’esso attestante un quasi quotidiano esercizio di scrittura dal 1886 al 1922, dice a chiare lettere che la “rinunzia” di cui Svevo parla nel Profilo citato non fu che un’invenzione da romanziere, ordinata al lancio dei vecchi romanzi ingialliti nella cantina della lussuosa Villa Veneziani in cui viveva con la famiglia, ma soprattutto all’immagine che Svevo intendeva dare di sé, come “l’uomo dalla doppia vita”, diviso tra la prepotente vocazione letteraria e i doveri inerenti all’attività di industriale. Fu dunque lui per primo ad insistere sulla sua qualità di “irregolare della letteratura”, di riche amateur, come lo definì Crémieux, introdottosi abusivamente in un ambiente estraneo, «un pezzo d’aglio – scrisse nella prefazione alla seconda edizione di Senilità – nella cucina di gente che non può soffrirlo». Per Crémieux è questo un ulteriore indizio dell’originalità di Svevo: «il se presente – scrisse il critico francese – en isolé dans la littérature italienne d’aujourd’hui, un peu à la façon dont Proust est apparu en 1913 dans la littérature française». Purtroppo, un biglietto da visita di questo tenore non poteva che mettere maggiormente in allarme la già diffidente corporazione dei letterati italiani. Eravamo ai tempi della «Ronda», col suo appello al rigore della professionalità e il suo disprezzo per il mito vociano dell’autodidatta anarcoide. Bisognava dunque chiedere a Svevo delle credenziali migliori, e lui, absburgico ed ebreo, ne risultò privo. Soprattutto la sua lingua, con i suoi calchi dal tedesco e le stridenti voci dialettali, il suo ritmo monotono, quasi un’onomatopea dell’idioletto intimo dei suoi personaggi, come disse Debenedetti, diede facile esca alle stroncature dei cultori della prosa d’arte allora in auge. Solo l’esigua minoranza di scrittori raccolta intorno alla rivista fiorentina «Solaria» lo additò come modello ai giovani, ma Svevo continuò per tutto il Ventennio e oltre a restare uno scrittore senza pubblico18. 18 Di questa strategia “promozionale” fa parte anche il colloquio epistolare intrattenuto da Svevo con critici ed editori. Per esempio, egli cercò di scoraggiare le letture in chiave autobiografica dei suoi romanzi, specie della Coscienza di Zeno, che si prestava più facilmente all’equivoco. In una lettera a Montale del 17 febbraio 1926 scrive: «È vero che la Coscienza è tutt’altra cosa dei romanzi precedenti. Ma pensi ch’è un’autobiografia e non la mia. Ci misi tre anni a scriverlo nei ritagli di tempo. E procedetti così. Quand’ero lasciato solo cercavo di convincermi d’essere io stesso Zeno. Camminavo come lui, come lui fumavo, e cacciavo nel mio passato tutte le sue avventure che

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La riconciliazione con la letteratura è talmente completa, in quei suoi tardi anni, da essere perlomeno sospetta. La Musa di Svevo, si sa, è l’ironia, e ironica suona la profezia di una “letteraturizzazione” della vita come scotto da pagare all’insignificanza della medesima; profezia che egli affida allo Zeno vegliardo in una celebre pagina dell’incompiuto “quarto romanzo”, ascrivibile al 1927: L’unica parte importante della vita è il raccoglimento. Quando tutti lo comprenderanno con la chiarezza ch’io ho, tutti scriveranno. La vita sarà letteraturizzata. Metà dell’umanità sarà dedicata a leggere e studiare quello che l’altra metà avrà notato. E il raccoglimento occuperà il massimo tempo, che così sarà sottratto alla vita orrida vera. E se una parte dell’umanità si ribellerà e rifiuterà di leggere le elucubrazioni dell’altra, tanto meglio. Ognuno leggerà se stesso. E la propria vita risulterà più chiara o più oscura, ma si ripeterà, si correggerà, si cristallizzerà. Almeno non resterà quale è, priva di rilievo, sepolta non appena nata, con quei giorni che vanno via e s’accumulano uno eguale all’altro a formare gli anni, i decenni, la vita tanto vuota, capace soltanto di figurare quale un numero di una tabella statistica del movimento demografico.

Nonostante, dunque, le cautele a cui ho fatto riferimento, continuo a ritenere che lo sfogo dello Svevo quarantenne possa almeno considerarsi sintomatico di un clima diffuso di diffidenza rispetto alla pratica letteraria, spinto fino a sinistre profezie di estinzione. Il poligrafo ungherese Max Nordau, che fu fra le letture giovanili di Svevo, un divulgatore dello scientismo positivista e teorico della decadenza borghese, in un libro molto letto a suo tempo, Degenerazione, tradotto in italiano nel 1907, si spingeva a questa previsione: Per ciò che riguarda l’avvenire dell’arte e della letteratura […] lo si può prevedere abbastanza chiaramente […]. Ciò che era in origine la più importante occupazione delle persone perfettamente sviluppate nell’intelligenza […] diventerà man mano un passatempo di indole subordinata e finirà col diventare un gioco puerile […]. Da molti esempi è lecito desumere che di qui a qualche secolo l’arte e la letteratura diventeranno puri atavismi e saranno coltivati unicamente dalle parti più emozionali dell’umanità, dalle donne, dai giovani e forse anche dai ragazzi. possono somigliare alle mie solo perché la rievocazione di una propria avventura è una ricostruzione […]. Sapevo la difficoltà di far parlare il mio eroe direttamente al lettore in prima persona ma non la credevo insormontabile», Montale-Svevo, Lettere, Bari, De Donato, 1966, p. 12.

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La profezia (che profezia non è, ma un topos letterario) non si avvererà, come tutti abbiamo potuto constatare. Perfino quella di T.W. Adorno, sull’impossibilità della poesia dopo Auschwitz, che pure aveva qualche fondamento in più, resterà inevasa. Che in Svevo la diffidenza non abbia mai ceduto il passo a una piena accoglienza degli istituti letterari, risulta anche da una più tarda pagina di diario, datata 25 ottobre 1917, dalla quale stralcio questo passo: Dev’essere l’abitudine della tutela nella quale perennemente viviamo che ci fa sentire meglio tra le persone con cui trattiamo da più anni. Le altre sono da noi designate come “non conosciute”, mentre delle prime diciamo di conoscerle […]. Forse, quando usciremo dal tempo e dallo spazio ci conosceremo tutti tanto intimamente che sarà quella la via alla sincerità. Ci daremo subito del “tu” e c’irrideremo a vicenda come meritiamo. Morirà finalmente la letteratura, che fa purtroppo tanta intima parte del nostro animo e ci vedremo tutti fino in fondo. Prospettiva macabra.

A commento di questo passo si può richiamare l’aforisma, riportato da Lavagetto19, di Balzac, secondo il quale «rien ne forme l’âme comme une dissimulation constante au sein de la famille». Su quella “tutela” infatti Svevo, per bocca di Zeno, ha ironizzato pesantemente (anche la mirabile novella Vino generoso ce ne dà ampi ragguagli). In realtà non ci conosciamo, né tra estranei né tra parenti. Forse la morte permetterà, prospettiva macabra, una reciproca conoscenza intima che in vita non ci è permesso conseguire, tanto meno quanto più ci siamo avvolti in quel lenzuolo di parole che è la letteratura. Dunque, in questa prova generale dell’apocalisse che chiuderà La coscienza di Zeno, il primo decesso auspicato è proprio quello della letteratura, ostacolo estremo alla conoscenza diretta di sé e degli altri. La lunga parabola fin qui sommariamente descritta, tra quella lontana pagina del 1899 e questo 1917 (ultimo, non lo si dimentichi, di quella carneficina che è stata la Grande Guerra) ha contenuto in sé anche un sotterraneo processo alla letteratura, al suo mito, al suo mercato, alla sua opacità di filtro tra la coscienza e la sua verità20. Qui sta il paradosso sveviano, il gioco che mentre afferma, nega il raggiungimento di ogni certezza. La morte della letteratura è insieme auspicata e temuta: in quanto filtro è menzogna, schermo all’aspetto meno presentabile di sé, ma in quanto espressione della coscienza rappresenta 19

M. Lavagetto, Confessarsi è mentire, in La cicatrice di Montaigne, Torino, Einaudi, 1992, p. 195. 20 G. Mazzacurati, Stagioni dell’Apocalisse, cit., pp. 239-240.

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una difesa da una verità che potrebbe essere orrenda. «Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo», dirà Zeno allo psicanalista che lo accusa di mendacio, invocando l’alibi offertogli dall’adozione di una lingua solo scritta, «per noi [triestini] che parliamo solo il dialetto». Torniamo ora, per concludere, a Svevo e al suo fermo proposito, mai attuato, di astenersi dalla letteratura. Valéry espresse la convinzione, che sarà poi anche di Montale, che ogni opera letteraria nasce casualmente, e quanto alla sua, soleva dire che essa scaturisce dalla decisone seria e definitiva di non scrivere più. Per Svevo si può dire lo stesso. Quando riprese a scrivere, alcuni anni dopo la pubblicazione del più fortunato tra i suoi romanzi, non si fece mancare gli alibi, ma risultarono troppi per essere singolarmente credibili. Disse che lo faceva per dare una continuazione a Zeno, ma anche come misura di igiene quotidiana, e per aggirare i divieti inflitti dai familiari a quel vecchio che era. Affidò la perorazione allo stesso Zeno, nelle tarde pagine dell’incompiuto Vecchione («Io voglio scrivere ancora. In queste carte metterò tutto me stesso, la mia vicenda. In casa mi danno del brontolone. Li sorprenderò. Non aprirò più la bocca e brontolerò su questa carta»). Da tempo Svevo ha scoperto, grazie alla psicanalisi, i poteri scaramantici della scrittura letteraria, e in particolare della “scrittura di sé”, e lo fa dire a Zeno: 4 aprile 1928. Con questa data comincia per me un’era novella. Di questi giorni scopersi nella mia vita qualche cosa d’importante, anzi la sola cosa importante che mi sia avvenuta: la descrizione da me fatta di una sua parte, accatastata e messa da parte per un medico che la prescrisse. La leggo e rileggo e m’è facile di completarla, mettendo tutte le cose al posto dove appartenevano e che la mia imperizia non seppe trovare. Com’è viva quella vita e com’è definitivamente morta la parte che non raccontai. Vado a cercarla talvolta con ansia sentendomi monco, ma non si ritrova. E so anche che quella parte che raccontai non è la più importante. Si fece la più importante perché la fissai. E ora che cosa sono io? Non colui che visse ma colui che descrissi21.

Lotman ha designato la lingua letteraria «un sistema di simulazione secondario», in quanto dotata di regole proprie ma costruita coi mate21

Vi è qui un’eco del topos secondo il quale, come disse Pirandello, la vita o si vive o si scrive. L’affermazione del primato della letteratura sulla vita (opposto al primum vivere dei filosofi) è diffusa nella letteratura del Novecento. Un solo esempio, il Proust di Le Temps retrouvé: «La vraie vie, la vie enfin découverte et èclaircie la seule vie par conséquent pleinement vecue, c’est la littérature».

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riali di quello primario che è la lingua della comunicazione quotidiana. A parte il tecnicismo della formulazione, credo che Svevo sarebbe stato d’accordo, salvo una “leggera” modifica: dis-simulazione (magari onesta, come recita il celebre titolo di Torquato Accetto), al posto del troppo asettico simulazione. Svevo ha passato la vita a nascondere la sua “vera” identità, occupato a costruire quella di un certo Schmitz, da esibire in famiglia e in società. La sua opera, ha detto benissimo Mazzacurati, può, forse deve, essere letta anche all’interno di questa oscillazione tra scrittura come terapia e letteratura come via di fuga dall’immagine (forse mostruosa) del proprio io: È l’ora in cui Mefistofele potrebbe apparirmi e propormi di ridiventare giovane. Rifiuterei sdegnosamente, lo giuro. Ma che cosa gli domanderei allora io che non vorrei neppure essere vecchio e che non desidero morire? Dio mio! Com’è difficile domandare qualche cosa quando non si è più bambini. È una fortuna che Mefistofele per me non si scomoderà […]. Non verrà. Io lo vedo seduto nel suo inferno che si gratta la barba imbarazzato. Ma ecco che debbo a queste annotazioni il conforto di ridere al momento di mettermi a letto. E Augusta borbotterà, destata solo a mezzo: Ridi sempre tu, anche a quest’ora. Beato te.

Questa pagina, probabilmente l’ultima di Svevo, è stata rinvenuta sul retro dell’ultimo foglio del manoscritto del Vecchione. Mefistofele non verrà, ma Zeno non perde il «conforto di ridere», compenso alle sue estreme «annotazioni». Il discorso sullo scrivere apre e chiude la scrittura di Svevo. La prima volta che Montale e Svevo si incontrarono di persona fu per caso. Avvenne sul finire dell’inverno del 1926, a Milano. Montale stesso raccontò l’episodio, in un articolo del ’4622, uno dei tanti da lui dedicati al grande triestino. Ne riporto un passo: Sul finire dell’inverno del ’26, in un mattino già quasi primaverile, un signore piuttosto anziano, alquanto corpulento ma elegante, si era fermato dinanzi all’ingresso del Teatro alla Scala, per leggere il manifesto del Lohengrin. […] Somigliava stranamente a un ritratto dell’industriale triestino Ettore Schmitz, da me visto poco prima sulle Nouvelles 22

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Poesia e società (1946), in Montale-Svevo, Lettere, cit., p. 130.

littéraires. Mi feci coraggio e arrischiai la domanda: «Il signor Schmitz?». Non mi ero sbagliato. Avevo davanti a me il romanziere Italo Svevo, l’uomo che mi aveva scritto due mesi prima, da Londra, per ringraziarmi di un articolo con cui avevo precorso (modesta staffetta) lo scoppio della sua improvvisa celebrità. Il signor Schmitz (tale restò per me sino alla morte) ci invitò a sedere con lui a un caffè e mi tempestò di domande non precisamente letterarie. Il mio nome aveva destato la sua curiosità. Un importatore genovese di resine e d’acquaragia che si chiamava come me gli aveva venduto merce per anni e anni, con molta sua soddisfazione; era forse un mio parente? Ammisi che si trattava di mio padre, senza supporre che acquistavo un titolo di benemerenza ai suoi occhi, come avvenne in realtà. E da allora un sentore di trementina restò sempre nei nostri rapporti, che non riuscii mai a portare a lungo sul piano della letteratura.

A parte l’understatement, caratteristico del Montale autobiografico, l’allusione all’attività commerciale del padre, il signor Domingo, ci rinvia ancora una volta, come già abbiamo visto per Svevo, ai rapporti difficili sempre intercorrenti tra l’agiata borghesia produttiva e le vocazioni artistiche nate al suo interno e vissute con imbarazzo e molta incomprensione dalla famiglia. Montale ebbe in comune con Svevo anche una maturazione da autodidatta, nutrita dalla sola guida della sorella Marianna, studentessa di Filosofia, la sola che in famiglia avesse presagito il destino di quell’introverso ragazzo. Per il resto, il rapporto di Montale con la letteratura fu del tutto diverso da quello di Svevo, scrittore “sommerso” e clandestino per circa un trentennio. All’uscita degli Ossi di seppia (pubblicati a Torino nel gennaio del ’25 dalla casa editrice di Piero Gobetti) la critica non fece mancare il suo (cauto) apprezzamento, che poi andò crescendo e consolidandosi per tutta la vita del poeta, fino al premio Nobel. Molti suoi versi, dei suoi folgoranti attacchi (Meriggiare pallido e assorto, Spesso il male di vivere, Bastano pochi tocchi d’erba spada, Il viaggio finisce qui) andarono ad affiancarsi, nella memoria poetica degli studenti e delle persone colte, alle chiare fresche e dolci acque, all’albero cui tendevi, a tanto gentile e tanto onesta, a Zacinto mia, a Silvia rimembri ancora, stabile presenza nella memoria poetica degli italiani d’antan. È risaputo che molti ufficiali di complemento partiti per le campagne d’Africa, di Russia, ecc. nella sciagurata guerra scatenata dal nazifascismo, portavano nello zaino le Occasioni appena uscite. Abbandonata la sua città natale, Eugenio scelse come seconda patria Firenze, allora più di oggi una delle capitali della cultura nazionale. Ben 191

consapevole che non avrebbe potuto campare di sola poesia, anche lui, come tanti altri scrittori, specie poeti, di tutti i tempi e di tutti i Paesi, dovette fare ricorso ad altri lavori, ma a differenza di Svevo, furono lavori sempre interni all’istituzione letteraria, l’editoria, la critica letteraria e musicale, l’intensa attività di traduttore. Egli stesso parlò in proposito di un “secondo mestiere”, e questo fu il titolo scelto dai curatori del “Meridiano” Mondadori in tre volumi che raccoglie tutte le sue prose critiche, per un totale di 4800 pagine23. Tornerò più avanti su questo argomento. Ora mi preme soffermarmi sulla riflessione del giovane Montale intorno alla letteratura, e soprattutto all’idea che ha di sé come letterato. «Vi sono autori – ha osservato T.S. Eliot in uno scritto del 1933 – che non sarebbero in sé più grandi di altri, ma lo divengono perché sanno guardare alla propria creazione in atto col distacco di un estraneo». Maria Corti, dal cui libro sui principi della comunicazione letteraria ho tratto la citazione che precede, aggiunge che della stessa, o assai simile, opinione furono anche scrittori quali Poe, Baudelaire e Valéry. Quanto a Montale, non sappiamo se avrebbe condiviso o meno la citata tesi di Eliot, all’epoca della “scoperta” di Svevo non ancora formulata (per quanto si sentisse legato a lui da una sorta di fratellanza artistica); ma certo appartenne a quella specie di autori di cui parla il poeta anglo-americano, autori cioè dotati di spiccatissime doti critiche e autocritiche. In una famosa lettera a Svevo del 3 dicembre 1926, all’amico che lo invitava a dedicarsi oltre che ai versi alla prosa narrativa, rispondeva: Non si meravigli che possa esistere un temperamento polarizzato nel senso della lirica e della critica letteraria: da Baudelaire a Eliot e a Valéry, a quanti è toccata la stessa sorte? […] Con l’esperienza di vita che ho io, tutta esclusivamente interna, che potrei dare nel campo narrativo? Sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo e tutto quel che potevo dare in fatto di grida mozze e di sussulti è tutto negli Ossi di seppia […].

In una lettera a Contini del maggio 1939 asserirà di comporre di solito le sue liriche «in condizioni di cinico autocontrollo». Forse esagerava, ma fu sempre convinto che la poesia non esiste senza la compresenza nell’atto creativo di un impulso autocritico, ovvero, per usare ancora le 23 E. Montale, Il secondo mestiere, voll. I e II, Prose, vol. III, Arte Musica Società, Milano, Mondadori, 1996.

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parole di Eliot, «senza un lavoro di cernita, combinazione, costruzione, cancellazione, correzione e verifica». Su questo punto – che costituisce l’aspetto di maggior distacco suo dall’estetica di Benedetto Croce – Montale ha particolarmente insistito, fino a uscirsene, in uno scritto del ’31, nella perentoria affermazione che «non si dà poesia senza artificio»24. Uno degli scritti di Montale che meglio dimostrano la sua lucidità autocritica è Intenzioni. Intervista immaginaria, del ’46, nella quale, rispondendo alle domande, peraltro non formulate, di un interlocutore dal nome scespirano di Marforio, il poeta ripercorre le principali tappe di quella che era stata fino ad allora la sua carriera artistica. Non so se qualcuno l’abbia già osservato, ma a me pare che questo testo costituisca una involontaria conferma dell’aforisma di Blanchot, secondo il quale la letteratura non si capisce se non denigrandola, spogliandola cioè dell’aura sacrale da cui tradizionalmente è stata circondata e riducendola per così dire in miseria, quale che sia il punto di vista da cui lo si fa. Io dico Blanchot, ma potrei dire Valéry, con la sua ossessione dell’arbitrarietà che rende aleatoria e dunque infida la scrittura letteraria, e potrei anche richiamare Walter Benjamin e la sua tesi sul destino incerto dell’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica. Ma in realtà, alle spalle di tutto questo e prima di esso, c’è il poemetto XLVI dello Spleen di Parigi di Baudelaire, Perdita d’aureola, breve parabola in forma di dialogo nella quale, ad un ammiratore che lo sorprende in un postribolo e se ne stupisce («Voi qui? Voi in un posto malfamato? Voi, il degustatore di quintessenze? Voi, il divoratore d’ambrosia?») il poeta spiega di aver perso poco prima, per un movimento brusco del corpo, l’aureola che gli adornava il capo di sacerdote delle Muse: «Non ho avuto il coraggio di raccoglierla dalla fanghiglia […]. Ma non tutto il male vien per nuocere. Ora posso 24

Si tratta della risposta a un’inchiesta su La poesia d’oggi, promossa dalla «Gazzetta del popolo» di Torino, 4.11.1931: «Tutte le buone liriche obbediscono a una legge, anche se invisibile […]. L’architettura prestabilita, la rima, ecc. […] sono sostanzialmente ostacoli e artifizi. Ma non si dà poesia senza artifizio. Il poeta non deve soltanto effondere il proprio sentimento, ma deve altresì lavorare una sua materia verbale, dare della propria intuizione quello che Eliot chiama un ‘correlativo obbiettivo’». Sempre a proposito della distanza da Croce si può citare, ancora dall’Intervista del ’46: «Non occorre che un poeta passi il tempo a leggere versi altrui, ma neppure si concepirebbe una sua ignoranza di quanto s’è fatto, dal punto di vista tecnico, nell’arte sua. Il linguaggio di un poeta è un linguaggio storicizzato, un rapporto. Vale in quanto si oppone o si differenzia da altri linguaggi». Significativo anche il fatto che già nel ’61 Montale possedesse la nozione di sistema letterario: «Un’opera d’arte – si legge nella conferenza tenuta quell’anno a Trieste nel centenario della nascita di Svevo – non modifica solo, in epoca successiva, l’ambiente culturale in cui è sorta, ma agisce anche retrospettivamente su tutte le opere d’arte che l’hanno preceduta».

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andarmene in giro in incognito, compiere le azioni più vili, asservirmi alla crapula come i semplici mortali. E come vedete, eccomi qui, in tutto uguale a voi». Il senso della parabola, che la letteratura è alla fin fine prostituzione, è stato declinato variamente lungo tutto il Novecento, da Jarry a Tzara, da Marinetti a Govoni, da Palazzeschi a Sanguineti. Montale è uomo d’ordine, rifugge dagli estremismi, tuttavia, pur se perpetrata con gesto più discreto, la dissacrazione parodica del vate redimito di aureola gli fu tutt’altro che estranea: basta pensare all’ironia sui «poeti laureati» che apre i Limoni25. Nella citata Intervista, rispondendo al fantomatico Marforio, afferma: La poesia è una delle tante positività della vita. Non credo che il poeta stia più in alto di un altr’uomo che veramente esista, che sia qualcuno. Mi procurai anch’io, a suo tempo, un’infarinatura di psicanalisi, ma pur senza ricorrere a quei lumi, pensai presto, e ancora penso, che l’arte sia la forma di vita di chi veramente non vive: un compenso o un surrogato. Ciò peraltro non giustifica alcuna deliberata turris eburnea: un poeta non deve rinunziare alla vita. È la vita che s’incarica di sfuggirgli.

E circa le intenzioni ancora confuse dei suoi esordi, facendo suo un celebre verso dell’Art poétique di Verlaine, dichiara: «All’eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza». Gli Ossi di seppia dichiarano fin dal titolo la loro appartenenza ad una concezione per così dire laica, desacralizzata, della letteratura26; un titolo affine a quelli di altri poeti della così detta linea ligure: penso a Trucioli o Rimanenze di Sbarbaro, a Frantumi di Boine ecc., che sembrano inventati in contrasto con Le faville del maglio di D’Annunzio; non lontano dalle immagini dissacranti di Palazzeschi (il saltimbanco, il clown, l’incendiario), contiguo anche al topos della vergogna di essere poeti, 25 Nella stagione inaugurata da Satura, la “carnevalizzazione” dell’esperienza poetica, caratteristica delle Avanguardie, verrà portata molto più oltre: «La poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti», Dopo una fuga, VI, vv. 16-17. 26 La candida leggerezza con la quale asseconda il moto delle onde e della risacca, e insieme la sua essenza di scoria che lo accomuna alle altre «inutili macerie» di cui il mare si libera autorigenerandosi, fanno dell’osso di seppia un “correlativo oggettivo” perfetto, a significare la natura residuale del linguaggio poetico in un’età refrattaria al messaggio artistico, anch’esso scarto, nel doppio senso di estraneo alla lingua della comunicazione quotidiana e di rifiuto; un prodotto dunque, se lo è, inservibile rispetto ai manufatti che davvero alleviano le pene della vita, tanto è vero che le persone pratiche, i cosiddetti uomini del fare non la prendono sul serio (“Tutto ciò non è che letteratura!”).

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fittamente presente nella poesia tardo-simbolista franco-fiamminga, nel Crepuscolarismo, nello stesso Montale. Ma ciò che desidero in questa sede rilevare è l’inestricabile intreccio negli Ossi tra letteratura e discorso sulla letteratura, la presenza costante, seppure implicita, della polemica letteraria contro quella che era stata pur sempre una grande stagione della poesia europea, il Simbolismo, con le sue propaggini italiane, paniche e orfiche. L’augurio, di assai improbabile realizzazione, che Montale, nella poesia Riviere che conclude gli Ossi di seppia, fa a se stesso, di potere un giorno lasciarsi alle spalle la poesia elegiaca per attingere il canto spiegato dell’inno allude, secondo me, alla celebre distinzione di Schiller tra la poesia “ingenua” degli antichi e quella “sentimentale”, vale a dire riflessiva, dei moderni, una poesia che si fa espressione di una perdita e del lutto che tale perdita provoca. Ciò che i vati del passato possedevano e i moderni poeti hanno smarrito è appunto la Parola, quella capace della formula definitiva «che mondi possa aprirti» e di conferire una realtà formale all’«animo nostro informe». La poesia moderna non può che essere poesia della negazione e delle rovine, nell’attesa che su di esse sia possibile in futuro riprendere a costruire. La condizione drammatica del poeta moderno risiede nel fatto che il linguaggio capace di rappresentare la forza assertiva che la negazione contiene non è per ora che un balbettio, una sillabazione faticosa e spasmodica, mentre la lingua collaudata delle “formule” (estetiche, filosofiche, ecc.) appare ormai svuotata di ogni autentica significazione. È questo un tema che percorre tutta la poesia di Montale, ben oltre gli Ossi, e che io, con parola montaliana ma prima ancora dantesca, definirei “del balbo parlare”; una designazione del proprio linguaggio che ci introduce in una zona del libro dove più spiccata si fa la riflessione metaletteraria, vale a dire il poemetto Mediterraneo, nel quale il bilancio esistenziale si mescola con quello riguardante il mestiere di poeta, finendo per registrare uno scacco ancora più doloroso27. 27

Quella che Montale ingaggia col mare perduto della sua infanzia e adolescenza è stata definita da Glauco Cambon una lotta con Proteo, la divinità inafferrabile per la sua infinità capacità mimetica e metamorfica. Ma bisogna stare attenti. Quando a proposito del rapporto agonistico tra l’uomo e il mare ci si riferisce a Baudelaire, col quale anche Mediterraneo ha contratto un qualche debito, non sempre, o quasi mai, si tiene conto di una differenza fondamentale, e cioè che in Baudelaire l’amore-odio tra l’uomo e il mare è un affare tra fratelli, cioè tra pari («Et cependant voilà des siècles innombrables / Que vous vous combattez sans pitié ni remord, / […] Ô lutteurs èternels, ô fréres implacables! »), mentre in Montale il mare si erge con l’autorità del Padre davanti ad un figlio ingiustamente scacciato di casa, annichilito, frustrato e sempre diviso tra la resa a discrezione («a te mi rendo in umiltà») e il rancore. La terra sarà ormai per sempre il luogo del suo esilio, aggravato dalla persistente nostalgia per la patria perduta. La sconfitta investe dunque tutti gli aspetti della vita, ma si dà il caso che il derelitto, el desdi-

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Tra i nove movimenti della suite, l’VIII28 è quello nel quale il poeta, nel breve spazio di 24 versi, esprime con un di più di eloquenza la sua frustrazione per l’abisso tra le smisurate ambizioni adolescenziali di rinnovamento del linguaggio poetico e i deludenti risultati che pensa di aver raggiunto; la distanza, cioè, tra il novello Prometeo che sognava di rapire alla divinità marina la lingua della Totalità, ignara di limiti e di confini (la lingua in cui «natura e arte si confondono») e il «fanciullo invecchiato», il puer condannato ad una perenne, piagnucolosa, elegia (qui definita «lamentosa letteratura») la cui senescenza è allegoria della senescenza di un mondo ormai privo di miti. Il «fanciullo antico» di Riviere, che sogna, con una “guarigione” che lo stesso poeta giudicò in seguito prematura, di ricomporre in unità «l’anima sua divisa», si accontenterebbe ora di un furto minimale: qualche accordo rubacchiato di straforo alla liquida polifonia marina, non negli inarrivabili momenti epici della tempesta, ma nel parlottare della risacca tra gli scogli29. Ma in questo VIII movimento nulla è lasciato trapelare della pur piccola felicità provocata dalla musica sommessa, smorzata, di certi versi ispirati pur sempre alla «lezione» del mare. L’esperienza poetica realizzata con gli Ossi viene colpita da un crescendo di epiteti negativi (ritmo stento, balbo parlare, lettere fruste [dei dizionari]30, lamentosa letteratura, parole come meretrici, frasi stancate), tanto che il loro addensarsi in così poco spazio trova il suo “naturale” compimento nell’immagine un po’ forte ma non priva, come abbiamo visto, di precedenti, del dizionario come postribolo e delle parole-prostitute, che «s’offrono a chi le richiede»31. Montale in questi chado, sia un poeta, e che anche in questa veste egli senta di essere se non fallito certo gravemente inadempiente rispetto all’ideale poetico che si era prefisso di perseguire. 28 «Potessi almeno costringere / in questo mio ritmo stento / qualche poco del tuo vaneggiamento; / dato mi fosse accordare / alle tue voci il mio balbo parlare: / io che sognava rapirti / le salmastre parole / in cui natura e arte si confondono, / per gridar meglio la mia malinconia / di fanciullo invecchiato che non doveva pensare. / E invece non ho che le lettere fruste / dei dizionari, e l’oscura / voce che amore detta s’affioca, / si fa lamentosa letteratura. / Non ho che queste parole / che come donne pubblicate / s’offrono a chi le richiede: / non ho che queste frasi stancate / che potranno rubarmi anche domani / gli studenti canaglie in versi veri. / E il tuo rombo cresce, e si dilata / azzurra l’ombra nuova. / M’abbandonano a prova i miei pensieri: / sensi non ho; né senso. Non ho limite». 29 «Presa la mia lezione / più che dalla tua gloria / aperta, dall’ansare / che quasi non dà suono / di qualche tuo meriggio desolato / a te mi rendo in umiltà» (Medit. IX, vv. 16-21). 30 Venti anni dopo, Umberto Saba si vanterà invece di aver fatto della poesia servendosi di parole comuni: «Amai – dice in una poesia del 1944 – Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore / la più antica difficile del mondo». 31 Ha del paradossale il riferimento alle «lettere fruste dei dizionari» da parte di un

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pochi versi condensa un problema centrale nella cultura della modernità, quello dell’usura a cui la lingua, come tutti i prodotti umani, è sottoposta. Sembra quasi che egli preconizzi la poetica del riuso del già scritto, della citazione, della variazione sul tema, dello scrivere “alla maniera di”; in una parola, preconizzi l’avvento del postmoderno32. È in questo ottavo movimento che si fa più esplicita la presa di distanza dalla poetica simbolista, con la sua illusione di “voler restituire un senso più puro alle parole della tribù”, secondo l’idea che Mallarmé e i suoi sodali avevano della parola poetica. E quanto all’immagine, anch’essa mallarmeana, della parola come moneta che passa di mano in mano inosservata, finché non interviene l’artista a salvarla da quella circolazione anonima e clandestina? In realtà, dice Montale, non disponiamo di una circolazione alternativa; le parole del lessico poetico sono in vendita, la separazione del linguaggio dal suo produttore è definitiva. «L’oscura voce che amore detta», la voce del padre Dante, si è come svuotata della sua forza primigenia, è scaduta a letteratura. All’inizio del 1948 Montale viene assunto quale redattore al «Corriere della Sera» e trasferisce definitivamente la sua residenza a Milano. Il lavoro è gravoso, anche per i numeroso viaggi all’estero come inviato del giornale, ma egli lo concilierà sempre con la critica militante, letteraria e musicale, e la saggistica, anche di costume, attività queste che mise sotto l’insegna del “secondo mestiere”, restando in primo piano la poesia e la prosa narrativa. Fin dall’immediato dopoguerra la voce tanto più autorevole quanto meno ascoltata di Montale interviene nella discussione aperta dalla crisi dell’egemonia crociana, a salvaguardia del bene supremo della libertà della ricerca artistica, che egli vede minacciata dalla politica culturale del partito comunista. Dico inascoltata perché Montale è in anticipo sulla coeva critica letteraria, in parte ancora legata all’estetica idealistica dell’intuizione lirica e in parte alla poetica pseudomarxista (in realtà sovietica) del rispecchiamento, di cui in quegli anni si fece divulgatore il filosofo ungherese György Lukàcs. Dico in anticipo perché la frequentazione fiorentina con Gianfranco Contini, col linguista Giacomo Devoto, con lo slavista Leone Traverso e l’anglista Mario Praz ne favorirono l’apertura poeta il cui lessico raro è tra i più ricchi del nostro Novecento: basta pensare che nel suo vocabolario il numero degli hapax sfiora il 50%. Non si può d’altra parte fare a meno di notare che, rispetto all’asciutta essenzialità degli “ossi brevi”, la sezione Mediterraneo è afflitta da un di più di eloquenza ore rotundo. 32 C’è al contrario chi appare convinto che solo facendo il verso allo stile di un altro si possa raggiungere la propria voce autentica: è il caso di Tommaso Landolfi.

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alle posizioni più avanzate in fatto di metodi critici. Per non dilungarmi ricorderò solo l’anticipatrice polemica contro l’uso della categoria critica di Decadentismo, su cui è da vedere l’articolo Esiste un decadentismo in Italia?, apparso su «La Lettura» di Milano nel giugno del ’4633. Si tratta di uno scritto molto duro nei confronti della critica letteraria nazionale, accusata di attardarsi nell’uso di un termine, decadentismo appunto, che non ha più corso in nessun Paese europeo e men che meno dovrebbe averlo in Italia, in cui un vero decadentismo, a suo tempo, non c’era stato. Per cui capita di veder applicata l’anacronistica etichetta (o la sua «sottospecie nostrana» detta ermetismo, «parola coniata in casa nostra da pochi anni per colpire quei recenti poeti italiani […] che prestino il fianco all’accusa di una più o meno voluta oscurità») a qualcosa e anche al suo contrario, e cioè sia al filone della «poesia pura o alogica», (quella dei «lirici del puro lampeggiamento intuitivo», il Coleridge di Kubla Khan, il Rimbaud delle Illuminazioni e l’Ungaretti di molte poesie); sia a quell’altro e assai diverso filone di poesia «impura» (e qui Montale fa gli esempi del Foscolo dei Sepolcri, di Hopkins «delle liriche più pensate», del Valéry del Cimitero marino e dell’Eliot dei Quartetti» – e ovviamente, a questo secondo elenco va aggiunto da parte del lettore il nome di Montale stesso) che non rinunzia ad un’impalcatura «strutturale-razionale», pur tentando di giustificarla «attraverso l’approfondimento dei valori musicali»; mentre il vero elemento comune alla poesia moderna è di essere un’arte riflessa, caratterizzata da un elevato, e forse eccessivo, grado di autocoscienza. Queste difese della poesia moderna rappresentano anche altrettanti capitoli (o paragrafi) della lunga polemica di Montale contro le idee estetiche di Croce, in particolare contro la sottovalutazione della tecnica (degradata a mera esecuzione pratica) che è esplicita nella poetica crociana. La polemica, pur restando nel quadro concettuale dell’idealismo, investe i temi di fondo dell’estetica crociana, la distinzione tra poesia e letteratura34 e la svalutazione dei generi letterari e della retorica (conseguenza tra 33

Ora in Eugenio Montale, Il secondo mestiere, cit., vol. III, pp. 557-558. «L’espressione letteraria – cito dal vol. La poesia, del 1936 – costituisce una delle parti della civiltà e dell’educazione, simile alla cortesia e al galateo, consistente nell’attuata armonia tra le espressioni non poetiche e quelle poetiche, in modo che le prime, nel loro corso, non offendano la coscienza poetica e artistica. E perciò, se la poesia è la lingua materna del genere umano, la letteratura è la sua istitutrice nella civiltà. In tempi ruvidi e agresti pur si leva il canto della poesia, e anzi c’è chi, esagerando (l’allusione a Gianbattista Vico è evidente) ha voluto che la poesia non abbia altra propizia condizione sociale che la barbarie; ma non vi fiorisce la letteratura, perché se vi fiorisse quei tempi avrebbero raggiunto l’opposta condizione di civili». Curiosamente, 34

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le più nefaste dell’aver ridotto la linguistica ad una branca dell’estetica). Croce ha rivalutato la “letteratura” rispetto alla condanna romantica, ma di che rivalutazione si tratta se poi ci viene a dire che «la genuina poesia è rara e la buona letteratura assai frequente»? Giustamente i poeti non abboccano e continuano a tentare di «passare per la porta stretta» della poesia. Del rapporto di Montale con l’istituzione letteraria fa parte, ovviamente, anche la sua lunga attività di traduttore, in particolare dall’inglese, che egli svolse con grande consapevolezza di cosa significhi una traduzione. Ne accenna anche nell’Intervista immaginaria del ’46, dove parla della sua «lunga lotta per scavare un’altra dimensione nel nostro pesante linguaggio polisillabico», aggiungendo: «Forse mi ha assistito la mia forzata e sgradita attività di traduttore. Ho maledetto spesso la nostra lingua, ma in essa e per essa sono giunto a riconoscermi inguaribilmente italiano: e senza rimpianti». L’altra (per noi conclusiva) tappa del lungo viaggio di Montale attraverso i molteplici istituti del mestiere letterario è il discorso tenuto a Stoccolma il 12 dicembre 1975, nel corso della cerimonia per l’assegnazione ufficiale del premio Nobel. Ne riporto uno stralcio: Ho scritto poesie e per questo sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare. Pochi giorni fa è venuta a trovarmi una giornalista straniera e mi ha chiesto: come ha distribuito tante attività così diverse? Ho cercato di spiegarle che non si può pianificare una vita come si fa con un progetto industriale. Nel mondo c’è un largo spazio per l’inutile, e anzi uno dei pericoli del nostro tempo è quella mercificazione dell’inutile alla quale sono sensibili particolarmente i giovanissimi. Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia un prodotto o una malattia assolutamente endemica e incurabile.

anche il marxista critico Sartre, nel saggio Che cos’è la letteratura?, apparso su «Temps Modernes» nel 1947, separa nettamente la poesia dalla letteratura, e lo fa con concetti simili a quelli di Croce, anche se non lo cita mai. Infatti, egli pensa che per il prosatore le parole sono utili strumenti che si logorano a poco a poco e che si gettano via quando non servono più; per il poeta invece (e qui si sente il lettore di Mallarmé) le parole e le cose che designano sono tutt’uno. Mentre ai prosatori (ai letterati) si deve chiedere l’engagement, i poeti devono restarne immuni.

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Montale è alle soglie dell’ottantesimo compleanno, e il suo piglio autoironico si è fatto sorridente e benevolo. Non così dieci anni prima, quando, in uno degli xenion in morte di Drusilla, detta Mosca, la compagna della sua vita, si lasciò andare a un soprassalto di umor nero: Non hai pensato di lasciar traccia di te scrivendo prosa o versi. E fu il tuo incanto – e dopo la mia nausea di me. Fu pure il mio terrore: di essere poi ricacciato da te nel gracidante limo dei neòteroi.

Neòteroi, cioè poeti nuovi, si ricorderà, furono definiti da Cicerone (polemicamente, nel senso di “poeti alla moda”) Catullo e i suoi sodali. Ovviamente Montale non ce l’ha con quegli antichi colleghi. La frecciata va alla famosa antologia Lirici nuovi (Milano, Hoepli, 1943) dedicata da Luciano Anceschi alla corrente ermetica, nella quale egli si ritrovò in sgradita compagnia, e l’incubo di essere “ricacciato” in quello stagno ancora lo terrorizza.

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La critica del villaggio. Letteratura e critica dell’ideologia, a partire da due citazioni decisive, tratte dall’antropologia e rilette dalla teoria Francesco Muzzioli

Questo intervento nasce da alcuni spunti, in apparenza casuali. Mi sono sorpreso trovando un paio di citazioni da Lévi-Strauss negli scritti dei teorici letterari più interessati alla ripresa della critica dell’ideologia, Jameson e Žižek. Cosa c’è di strano? La competenza dei due autori (vere e proprie star internazionali) è sterminata, quindi ci può ben stare il riferimento al padre dell’antropologia strutturale. Forse l’unica cosa strana, penserà qualcuno, è che ci si ostini a pensare alla letteratura sotto il segno di quella vecchia cosa chiamata “ideologia”. Certamente il termine ha bisogno di molte precisazioni su “di che cosa si sta parlando” – Terry Eagleton, altro protagonista del dibattito attuale, nel suo studio riassuntivo (Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa) comincia proprio enumerando sedici diverse definizioni possibili di questo termine – e ha bisogno di sicuro di un congruo aggiornamento per essere utilizzato nell’analisi dell’immaginario collettivo odierno. Ma un conto è rielaborare la nozione come fanno gli autori che considererò tra poco, e un conto è evitarla accuratamente come avviene nelle varie direzioni della critica attuale, sia dal lato del ritorno all’estetica che da quello del culturalismo, sia nell’ambito filologico-erudito che ormai si prende la maggior parte degli studi accademici, sia infine dalle parti dalla critica tematica, che è andata conquistandosi il luogo “medio” per eccellenza del residuale campo metodologico (a metà strada com’è tra archetipi psicoanalitici, contenutismo impegnato, smontaggio del testo). Sebbene, nel suo percorso evolutivo il decostruzionismo, dopo aver sparso a piene mani scetticismo postmoderno, sia poi pervenuto nolens volens proprio dalle parti della questione-ideologia1, questo non è stato 1

Alludo all’ultimo Paul de Man, in particolare The Resistance to Theory, Minne-

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notato più di tanto e non ha cambiato la conventio ad excludendum: prova eloquente ne è proprio la sorte italiana del libro-manuale di Eagleton che, uscito in Gran Bretagna nel 1991, è stato tradotto una prima volta in Italia nel 1993 in una edizione presto resasi introvabile, per essere ripubblicato di recente (2007), senza destare comunque alcuno scalpore. Nella prefazione alla nuova edizione italiana2, Eagleton sottolinea che di ideologia si parla poco nel campo della teoria, ma che essa è attivissima nel campo della pratica, se si pensa al ritorno delle grandi “visioni del mondo” nei fondamentalismi contrapposti: dal nostro osservatorio italiota forse siamo in grado di vederla alacremente al lavoro anche nella “decerebrazione” massmediale. Per quanto riguarda la letteratura, riprendere l’interrogativo dell’ideologia è essenziale, a mio parere, per sfuggire da un lato alla chiusura nella rivendicazione del valore incommensurabile dei grandi classici, dall’altro al descrittivismo neutrale di talune impostazioni da studi culturali. Critica dell’ideologia significa interpellare il testo nella sua strategia, il che vuol dire valutarlo sì in relazione ai grandi problemi del mondo, ma anche addentrarsi nelle pieghe microscopiche e nei dettagli dei procedimenti linguistici. Quindi non un semplice contenutismo che finirebbe per portar acqua alla mera lettura letterale, oggi dilagante, ma una analisi del testo capace di passare dal piccolo al grande, “oggettiva” ma senza assolutezza parascientifica (la strategia è “oggettiva” solo in senso relativo). Una analisi semiotico-politica, quell’occasione che sia il marxismo da un lato che lo strutturalismo dall’altro hanno mancato, nei loro anni d’oro. Urgono approfondimenti. Ma, in attesa che la crisi «della teoria culturale postmoderna» (per dirla con Eagleton) faccia il suo corso, torniamo per adesso alle due citazioni da Lévi-Strauss. Se le ho notate tra tante altre è per due motivi: 1) perché si tratta non di semplici menzioni a latere, ma di esempi determinanti per gli autori che le ripropongono; quindi, 2) perché con esse il punto più avanzato della criticità moderna si appoggia apolis, University of Minnesota Press, 1986. Questo libro si chiude con una intervista di Renzo Rosso, la cui ultima domanda riguarda proprio il recupero della nozione di ideologia, e de Man gli risponde, con una sia pur cauta ammissione, di avere sviluppato la sua prospettiva «from purely linguistic analysis to questions which are really already of a poltical and ideological nature», p. 121; ma, guarda un po’, la versione italiana pubblicata da «Alfabeta», 1994, n. 58, finiva prima di questa domanda. E si veda anche l’ultimo Jacques Derrida di Spettri di Marx, Milano, Raffaello Cortina, 1994. Dal canto suo, Gayatri Spivak apre così il saggio The Politics of Interpretation: «It is difficult to speak of a politics of interpretation without a working notion of ideology», in In Other Worlds, New York-London, Routledge, 1988, p. 118. 2 Cfr. T. Eagleton, Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa, trad. it., Roma, Fazi, 2007.

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su modelli tratti dalle usanze tribali degli indiani e questo è una sorta di testa-coda, tanto più interessante nell’epoca degli “studi culturali”. Che nello stesso tempo ne conferma e nega la prospettiva. Ma prima di addentrarmi in tale paradosso, una breve premessa: nel dibattito recente è stato proprio lo spostamento verso la nozione di cultura a mettere in non cale l’ideologia. Se il problema di ciascuno è il salvataggio della propria identità messa a rischio dalla cattiva globalizzazione (o globalizzazione dall’alto), allora una critica dall’esterno apparirà una indebita intromissione, se non un colonialismo in nuova veste. Nell’“ognuno padrone a casa propria”, dove la cultura si configura come emanazione di una specifica comunità, di ideologia non si può e non si deve parlare in nessun caso. Su questo punto, su questo slittamento dall’ideologia alla cultura, andrebbero interrogati in particolare teorici come Clifford Geertz o Michel de Certeau, cosa che riprometto di fare, prima o poi. Ma, in questa sede, basta il rilevamento della opposizione, che è stata fatta risaltare di recente da un altro dei teorici parteggianti per l’ideologia, lo spagnolo Juan Carlos Rodríguez, quando ha messo in drastico contrasto l’ottica che chiama “antropologica” e quella che chiama “storicità radicale”3. Ma, allora, come sarebbe? Ricorrendo a Lévi-Strauss il teorico dell’ideologia verrebbe a chiedere aiuto proprio al suo mortale nemico? In realtà, la cosa si presenta double face, come accennavo prima: è vero che, prendendo ispirazione dal villaggio (la “critica del villaggio”, come dice il mio titolo, ironicamente leopardiano), la critica paga un considerevole tributo al “pensiero selvaggio” e, nel mentre lo costituisce a modello del moderno, lo sottrae così a qualsiasi riduzione e sottostima del primitivo. Nessuna arretratezza: gli indiani, come vedremo, avrebbero già 3

Scrive J.C. Rodríguez: «a) o l’umanità e i suoi discorsi vengono considerati da un punto di vista, come dire, antropologico, cioè come uno spirito umano in fondo sempre uguale a se stesso, in tutti i tempi e i luoghi, che si andrebbe evolvendo dall’oscurità alla ragione, dal seme all’albero – questo è lo storicismo – o che avrebbe attraversato diversi strati culturali, al modo di strati geologici, conformandosi e modificandosi, fino a raggiungere la pienezza attuale (in cui non esisterebbero più società senza storia), ma insomma andando sempre dal medesimo al medesimo, più o meno modificato o elaborato, ma sempre indiscutibile, sempre sostanzialmente identico: lo spirito umano essenziale (una sola domanda: se in questa prospettiva si va sempre dal medesimo al medesimo, allora perché parlare di storia?). b) oppure ci si fonda su un punto di vista radicalmente storico (quella che ho chiamato la storicità radicale della letteratura) e allora gli individui, gli esseri umani, sarebbero in realtà effetti della storia, prodotti da determinate relazioni sociali – e non da altre –; sarebbero (saremmo) insomma animali ideologici, effetti di determinati modi di produzione – e non di altri – e metterebbero in atto vivendo, in accordo con le sue linee invisibili, l’inconscio ideologico determinante di tali ragioni sociali» (Lezioni di scrittura, in AA.VV., Costellazioni, Roma, Lithos, 2006, p. 16).

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chiarito i nostri problemi… Ma, nello stesso tempo, ciò non stravolge la loro cultura, applicandola alla nostra e attualizzandola senza riguardi, cioè distraendola dalle funzioni originarie? Certamente lo straniamento di queste citazioni si configura insieme, molto ambiguamente, come un omaggio e come un uso. Non resta che procedere. La prima citazione è quella che fa Jameson della ricerca lévi-straussiana sulle pitture facciali delle donne caduveo. La fonte è in Tristi tropici (1955), precisamente nel V capitolo dedicato ai Caduvei, una popolazione brasiliana del Mato Grosso, e in particolare il paragrafo 20, intitolato Una società indigena e il suo stile dove si tratta delle pitture facciali delle donne. Il percorso di Lévi-Strauss meriterebbe di essere seguito passo passo (ma, lo dice anche Jameson, «l’analisi completa è troppo ricca per essere descritta qui interamente»)4 anche per vedere come, un passo alla volta, l’antropologo strutturale arrivi a mettere un piede fuori dell’ortodossia strutturalista. E non sarebbe male tenere accanto le illustrazioni del fenomeno che vengono accluse, sia i volti dipinti (fig. 1), che i disegni trasferiti sulla carta a beneficio del ricercatore (fig. 2). Il primo sguardo dell’antropologo è di tipo descrittivo: «In questa tribù gli uomini sono scultori e le donne pittrici. (…) Alle donne sono riservate la decorazione della ceramica e delle pelli, e le pitture corporali che vengono eseguite da alcune con raro virtuosismo. Il loro viso, e a volte il loro intero corpo, è coperto da una rete di arabeschi asimmetrici alternati a motivi di una sottile geometria»5; ma ben presto si fa analitico e scopre nel fatto empirico una serie di opposizioni: le pitture facciali sono riservate alle donne, quindi maschile vs. femminile; la tecnica decorativa si basa su due stili, quindi geometrico vs. curvilineo; infine i disegni mostrano una forte squadratura (la faccia è «divisa in quarti o sezioni») però appoggiata su un asse trasversale, quindi la decisiva opposizione è simmetrico vs. asimmetrico. Dentro alla semplicità dei motivi si inserisce un dualismo “diffuso” e costitutivo: C’è anzitutto un dualismo che si proietta su piani successivi, come in una sala di specchi: uomini e donne, pittura e scultura, rappresentazione e astrazione, angoli e curve, geometria e arabesco, collo e pancia, simmetria e asimmetria, linea e superficie, bordura e motivo centrale, campo e contorno, figura e fondo. Ma queste opposizioni si percepiscono in ritardo; esse hanno un carattere statico; la dinamica dell’arte, 4

F. Jameson, La prigione del linguaggio, trad. it., Bologna, Cappelli, 1982, p.

134.

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C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 177.

cioè il modo in cui i motivi vengono immaginati ed eseguiti, mescola questo dualismo fondamentale su tutti i piani: poiché i temi primitivi sono prima disarticolati e quindi rielaborati in temi secondari che introducono, in una unità provvisoria, frammenti derivati dai precedenti, e questi vengono sovrapposti in modo tale che la primitiva unità riappare come in un giuoco di prestigio6.

Lungi dal considerare i Caduveo degli ingenui tradizionalisti, si scopre invece una cultura sorprendentemente complessa, che spinge alla ricerca di una spiegazione. La funzione attuale dell’interesse immediato, per esempio la valenza erotica-esotica (le pitture facciali «dànno alla donna qualcosa di deliziosamente provocante»), come pure una possibile genesi per rielaborazione originale del barocco introdotto dagli europei (si tratterebbe allora di «uno stile ingenuamente copiato dai conquistatori») non appaiono sufficienti. Sono ragioni troppo estrinseche: l’analisi strutturale ritiene che il suo oggetto non possa «essere spiegato che da ragioni insite in esso». Occorre quindi partire dalla sua forma, quella connessione di simmetria/asimmetria. Con un ultima suggestione analogica, Lévi-Strauss trova una somiglianza, nelle nostra cultura, con le carte da gioco, anch’esse dotate di simmetria trasversale. Ma ecco allora insinuarsi una considerazione strategica, perché ogni carta fa sistema con le altre, ma costituisce anche, giocata singolarmente, una mossa competitiva. Leggiamo di un duplicarsi di “ruolo” e “funzione”: Ogni figura di carte obbedisce a due necessità. Essa deve in primo luogo assumere una funzione, che è doppia, essere un oggetto e servire al dialogo – o al duello – fra due competitori che stanno di fronte; e deve anche sostenere un ruolo, assegnato a ogni carta in quanto parte di un insieme: il giuoco. Da questa complessa destinazione derivano diverse esigenze: quella della simmetria che è legata alla funzione, e quella della asimmetria che risponde al ruolo. Il problema è risolto con l’adozione di una composizione simmetrica, ma secondo un asse obliquo, che sfugge così alla formula completamente asimmetrica, che avrebbe soddisfatto al ruolo ma avrebbe contraddetto la funzione; e alla formula inversa, completamente simmetrica, che avrebbe prodotto l’effetto contrario. Anche qui si tratta di una situazione complessa corrispondente a due forme contraddittorie di dualismo, che si risolve in un compromesso, realizzato da una opposizione secondaria fra l’asse ideale dell’og6

Ivi, pp. 182-183.

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getto e quello della figura che rappresenta. Ma, per arrivare a questa conclusione, siamo stati obbligati a oltrepassare il piano dell’analisi stilistica. Non basta, per capire lo stile delle carte da giuoco, considerare il loro disegno, bisogna anche domandarsi a che cosa servono. A che cosa, dunque, serve l’arte caduvea?7.

La struttura figurale, insomma, rimanda alla struttura situazionale in cui la figura è utilizzata. Ma, nel caso, delle pitture facciali dove sta il “duello” e dove sono i “competitori”? L’analisi deve passare dall’oggetto artistico alla struttura sociale. E a quel livello Lévi-Strauss scoprirà che la società dei Caduveo è organizzata gerarchicamente in tre caste fortemente differenziate; mentre in altre popolazioni vicine la rigidezza delle caste veniva compensata da una ulteriore suddivisione a metà che le risuddivideva in modo interclassista (un due sul tre: simmetria e asimmetria), i Caduveo non hanno potuto (o voluto) trovare questa soluzione e quindi non è rimasta loro che una via di compensazione artistica: Essi non hanno dunque avuto la possibilità di risolvere le loro contraddizioni, o almeno di potersele dissimulare grazie a delle istituzioni artificiose. Ma questo rimedio che è loro mancato sul piano sociale, o che non hanno creduto bene di considerare, non poteva tuttavia sfuggir loro del tutto. Insidiosamente ha continuato a turbarli. E poiché non potevano prenderne coscienza e viverlo, si sono messi a sognarlo. Non sotto una forma diretta che avrebbe urtato contro i loro pregiudizi; ma sotto una forma trasposta e in apparenza inoffensiva: nella loro arte. Se questa analisi è esatta, bisognerà in definitiva interpretare l’arte grafica delle donne caduveo, e spiegare la sua misteriosa seduzione e complicazione a prima vista gratuita, come il fantasma di una società che cerca, con una passione inesausta, il modo di esprimere simbolicamente le istituzioni che avrebbe potuto avere, se i suoi interessi e le sue superstizioni non glielo avessero impedito8.

L’interesse del passo è molteplice: mi limito per ora a sottolineare la sovrastruttura artistica vista come sogno («si sono messi a sognarlo»), quindi l’ideologia non più come falsificazione ma come espressione, che avvicina qui Lévi-Strauss a Benjamin, un Benjamin che egli forse a quell’epoca non conosceva – in uno degli appunti sparsi del suo libro non-finito su Parigi, Benjamin correggeva il marxismo ortodosso affer7 8

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Ivi, p. 183. Ivi, p. 185.

mando che «la sovrastruttura è l’espressione della struttura» e che «il collettivo esprime innanzitutto le proprie condizioni di vita, che trovano nel sogno la loro espressione e nel risveglio la loro interpretazione»9. Personalmente, mi impressiona il modo con cui Lévi-Strauss scopre “l’extratesto nel testo” (come a me piace dire, in contrasto con la formula di Derrida): là dove l’extratesto non è per nulla rappresentato, è introvabile nella lettera, ma deve essere dedotto da una incongruenza (o non-coincidenza) testuale. Siamo certamente in uno strutturalismo aperto, pronto ad abbandonare l’indipendenza e l’autonomia dell’oggetto analizzato, mettendolo in relazione con il “fuori”. Ciò non poteva sfuggire a un lettore attento come Fredric Jameson: nella sua ricerca sullo strutturalismo, La prigione del linguaggio (1972; il libro che, insieme a quello di Culler10, ha introdotto la teoria francese nel panorama americano), Jameson riporta il brano di Lévi-Strauss sui Caduveo come traccia di una fase avanzata dello strutturalismo, in cui si compie «un passo importante nella liberazione del significato dal significante», nel senso che le opposizioni sulla superficie del significante vengono ad articolarsi sul livello profondo di un significato sociale, considerato come intrinsecamente contraddittorio. Non a caso, nella parte subito seguente, viene descritto il “quadrato semiotico” di Greimas, massimo tentativo in ambito strutturalista di articolare opposizione e contraddizione. Scrive dunque qui Jameson come glossa al “sogno” dei Caduveo: L’arte, insieme con il racconto mitico, può così essere vista come un’elaborazione in termini formali di ciò che una cultura [non] può risolvere 9

Vale la pena di leggere l’intero frammento: «Sulla teoria della sovrastruttura ideologica. Si ha a prima vista l’impressione che Marx abbia voluto qui solo stabilire un rapporto causale tra struttura e sovrastruttura. Ma già l’affermazione che le ideologie della sovrastruttura rispecchiano i rapporti reali in modo falso e deformato, va al di là di questo schema. La questione è infatti: se la struttura determina in un certo senso nel materiale empirico e intellettuale la sovrastruttura, e se però questa determinazione non ha la forma del semplice rispecchiamento, come va allora concepito – prescindendo completamente dalla questione delle sue cause genetiche – il suo vero carattere? Come espressione: la sovrastruttura è l’espressione della struttura. Le condizioni economiche che determinano l’esistenza della società giungono ad espressione nella sovrastruttura; proprio come, nel caso del dormiente, un imbarazzo di stomaco trova nel contenuto del sogno – per quanto possa determinarlo in senso causale – non il proprio rispecchiamento ma la propria espressione. Il collettivo esprime innanzitutto le proprie condizioni di vita, che trovano nel sogno la loro espressione e nel risveglio la loro interpretazione», W. Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo, trad. it., Torino, Einaudi, 1986, p. 51. 10 Di poco successivo: cfr. J. Culler, Structuralist Poetics, Ithaca-New York, Cornell U.P., 1975.

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concretamente; oppure, nella terminologia attuale, possiamo dire che secondo questa opinione l’arte è un sistema di segni, un’articolazione a livello del significante, di un significato che è essenzialmente sentito come antinomia e contraddizione11.

Ma ricordo che il passo lévi-straussiano era stato utilizzato da Jameson già in Marxismo e forma (1971), nel saggio che costituisce il suo primo tentativo di teoria a largo raggio, Verso una critica dialettica, nel passaggio dove si cerca di uscire dal piatto sociologismo della attribuzione dell’autore – e con esso del testo – a uno specifico gruppo sociale (arte borghese, arte proletaria, e via dicendo). La lettura di Flaubert compiuta da Sartre (Sartre è il riferimento iniziale di Jameson in area francese) è impostata proprio in vista di una convergenza con il LéviStrauss esploratore del Brasile: «È così che per Sartre l’opera di Flaubert può darsi come riflesso delle contraddizioni sociali del suo periodo, ma a patto di aver capito che questo riflesso è come un tentativo di risolvere nell’attività immaginaria, ciò che è socialmente inconciliabile», scrive Jameson, applicando subito la “maschera” delle pitture indiane e riportando immediatamente dopo la sua fonte: «Troviamo una simile considerazione dell’arte come soluzione immaginaria, questa volta in un contesto che è quello della società primitiva o preclassista, nelle notevoli pagine consacrate da Lévi-Strauss alla specifica arte decorativa degli indiani Caduveo»12. Sono riferimenti abbastanza episodici, che attestano però una certa “fissazione”. Sarà soprattutto ne L’inconscio politico (1981), massimo impegno di Jameson nel campo della teoria sistematica, che Lévi-Strauss e le donne Caduveo verranno trattati più ampiamente e riceveranno un ruolo di primo piano, tra i richiami di Althusser e di Lacan, proprio là dove l’autore affronta il problema nodale della ideologia della forma. Insomma, se il problema è di stabilire la valenza sociale di ciò che sembra più astratto e indiretto (le scelte stilistiche e linguistiche), allora «le analisi di Lévi-Strauss» fanno davvero all’uopo, perché non trovano pace in una struttura autosufficiente, anzi la forma diventa significativa proprio per un tratto non riducibile, per uno squilibrio o scarto interno (questo aspetto è vicino alla decostruzione); e nello stesso tempo perché la spiegazione sociale non è scontata in partenza (tale società-tale espressione artistica), ma si lascia leggere precisamente all’interno della discrepanza formale (extratesto nel testo, come dicevo). Secondo Jameson: 11 12

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F. Jameson, La prigione del linguaggio, cit., pp. 135-136. F. Jameson, Marxismo e forma, trad. it., Napoli, Liguori, 1975, pp. 423-424.

il punto di partenza è costituito da una descrizione interna delle peculiarità formali e strutturali di quest’arte corporale; questa dev’essere però una descrizione già pre-preparata e orientata verso il trascendimento del puramente formalistico, un movimento che viene realizzato non abbandonando il livello formale a vantaggio di qualcosa di estrinseco a esso – come un qualche «contenuto» piattamente sociale –, ma piuttosto in modo immanente, costruendo schemi puramente formali come una rappresentazione simbolica del sociale all’interno del formale e dell’estetico. […] la nostra scoperta dell’efficacia simbolica di un testo dev’essere orientata per mezzo di una descrizione formale che cerchi di comprenderla come una struttura determinata di contraddizioni ancora propriamente formali. Così, Lévi-Strauss orienta la sua analisi puramente visiva delle decorazioni facciali dei Caduveo verso questa incalzante descrizione della loro contraddittoria dinamica […]13.

Sintetizzata a dovere, l’antropologia strutturale serve a una ridefinizione dell’ideologia come “atto simbolico” che deve essere riferito a una base che non è più considerata nella staticità delle singole classi, ma nella dinamica della contraddizione sociale: In questo modo, quindi, il testo visuale dell’arte facciale dei Caduveo costituisce un atto simbolico, mentre contraddizioni sociali reali, insuperabili nei loro propri termini, trovano una risoluzione puramente formale nell’ambito estetico. Questo modello interpretativo ci consente quindi una prima specificazione del rapporto fra ideologia e testi o artefatti culturali […]. Possiamo affermare che, da questo punto di vista, l’ideologia non è qualcosa che informi o investa la produzione simbolica; è piuttosto l’atto estetico a essere in sé ideologico, e la produzione di una forma estetica o narrativa dev’essere vista come un atto in sé ideologico, la cui funzione è di inventare «soluzioni» immaginarie o formali a contraddizioni sociali insolubili14.

Che l’esempio sia tratto da società tradizionali e quindi apparentemente meno articolate delle nostre, non fa problema. Anzi, secondo Jameson, se il modello dell’ideologia si presenta già in «forme ancora relativamente semplici di organizzazione tribale», a maggior ragione varrà 13 14

F. Jameson, L’inconscio politico, Milano, Garzanti, 1990, p. 84. Ivi, p. 86.

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per la nostra società moderna: la quale del resto, non per nulla è detta del “villaggio globale”, in quanto in essa si sviluppano, proprio per reazione alla complessità, emersioni di pensée sauvage15. Del resto, prendiamo le pitture facciali delle donne Caduveo e riflettiamo sulle nostre (maquillage di fondo tinta, rimmel, rossetto e quant’altro): è la stessa cosa in altro modo. Per restare a Jameson, il passo lévi-straussiano gli serve egregiamente a chiarire il suo ri-uso dello strutturalismo francese. Invece di abbandonare l’analisi del testo verso qualche ripresa dell’impressionismo critico, oppure della mera datità sociologica, Jameson parla di «coordinazione fra metodo semiotico e metodo dialettico», che consiste nell’assumere la modellizzazione strutturalista precisamente come il rilevamento di una «chiusura ideologica»: le squadrature della semiotica (ad esempio il quadrato di Greimas) sono allora la prima fase, la norma sistemica, la superficie, che deve essere poi ricondotta alla profondità e considerata come sintomo: «una ripresa dialettica dei risultati della semiotica interviene […] nel momento in cui tutto questo sistema di chiusura ideologica è assunto come la proiezione sintomatica di qualcosa di completamente diverso, ossia della contraddizione sociale»16. Ci sarebbero anche altri punti da discutere (quei volti dipinti trascinano davvero conseguenze inesauribili…), che enumero rapidamente. 1) il problema del contenuto. La realtà sociale non è immediatamente evocata dalle pitture facciali, che sono astrattamente decorative: è, quindi una althusseriana «causa assente, non concettualizzabile direttamente o immediatamente dal testo». Questo con buona pace della lettura letterale oggi dominante. 2) l’analisi di Jameson vuole arrivare a un sottotesto ultimo che è il luogo della contraddizione sociale, un sottotesto secondario, che è più propriamente il luogo dell’ideologia e che assume la forma dell’aporia o dell’antinomia: ciò che nel primo sottotesto può essere risolto solo attraverso l’intervento della prassi, appare qui dinanzi alla mente puramente contemplativa come scandalo logico o doppio vicolo cieco, l’impensabile e il concettualmente paradossa15 Scrive Jameson, arrivando a individuare l’allegoria: «In queste circostanze, l’opera di Lévi-Strauss sostiene che la proposta di leggere tutti gli artefatti culturali come risoluzioni simboliche di reali contraddizioni politiche e sociali meriti una seria esplorazione e una verifica sperimentale sistematica. In altri capitoli di questo libro diventerà chiaro che la più facilmente accessibile articolazione formale delle operazioni di tale pensée sauvage politica si trova in quella che noi chiamiamo la struttura di un’allegoria propriamente politica […]», ivi, p. 87. 16 Ivi, p. 91.

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le, ciò che non può essere risolto dall’attività del pensiero puro, e che perciò deve generare un intero apparato più propriamente narrativo – il testo stesso – per quadrare i suoi cerchi e dissolvere, attraverso il movimento narrativo, la sua intollerabile chiusura17.

Ora, un termine come aporia avvicina alla decostruzione; e già notavo come proto-decostruttivo il procedimento di Lévi-Strauss quando, invece di ottenere la struttura come insieme coerente, andava a trovare, nelle pitture facciali, il punto in cui la struttura non tiene per effetto del contrasto dei procedimenti. Solo che i decostruzionisti “duri e puri” non se ne servirebbero per passare alla base sociale, piuttosto metterebbero il “disfunzionamento” tutto a carico del codice stesso. Un decostruzionista direbbe, probabilmente, che nelle decorazioni caduvee il contrasto simmetria/asimmetria è dovuto al fatto che il codice pittorico contiene queste due possibilità, linea geometrizzante e curvatura libera, che non possono essere mai del tutto sintetizzate senza scompensi. Dove si può notare la maggiore “larghezza” di vedute del rimando alla contraddizione storico-sociale in Lévi-Strauss e Jameson. Ma, qui il punto di discussione: 3) in che senso la contraddizione è irrisolvibile? Certamente non nella prassi: nella prassi qualunque contraddizione viene sempre risolta, magari con mediazioni posticce, con soluzioni di compromesso (termine che compare anche in Lévi-Strauss, termine interessante: si veda la teorizzazione di Orlando)18. Allora: irrisolvibile in quanto non esprimibile semioticamente in immagini compiute e in piena consapevolezza. Per le donne Caduveo la questione delle caste è relegata nell’inconscio collettivo. Ora, domando: ci può essere il momento di una contraddizione consapevole? Ci può essere il caso in cui l’emergenza sociale spezzi il compromesso semiotico? Ci può essere la produzione di contraddizione nel testo, come risposta alla contraddizione sociale? La modernità, e in essa le punte dell’avanguardia, ci farebbe rispondere di sì, anzi sarebbe esattamente questa “riscrittura della contraddizione” nella cultura e nell’arte. Curiosamente, mentre abbiamo visto che la società avanzata fa, nel trucco, le stesse cose in modo diverso, si dà il caso che, se le facesse nello stesso modo, esse assumerebbero una tutt’altra funzione. Le pitture facciali esibite come tali diventano una provocazione futurista. Prendiamo gli artisti russi come Larionov e Bur17

Ivi, p. 90. Cfr. F. Orlando, Letteratura e psicanalisi: alla ricerca dei modelli freudiani, in AA.VV., Letteratura italiana, vol. IV, L’interpretazione, Torino, Einaudi, 1985. 18

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ljuk, e il loro Perché ci dipingiamo19: l’asimmetria chiaramente scelta e voluta (figg. 3 e 4) non ha più un valore di appartenenza (per le donne Caduveo dipingersi è normale e si è sempre fatto così), ma al contrario è una dichiarazione di anomalia e un attacco disgregante al corpo sociale. Si impone qui il problema, che abbiamo visto in Benjamin accanto all’idea dell’ideologia come sogno: la dialettica del risveglio. Comprese, naturalmente, le difficoltà della strategia del risveglio (per rimanere nel tema antropologico, nella nostra epoca la pittura del viso è ancora esibizionistica, però non più come opposizione culturale, piuttosto come segnale di una appartenenza identitaria ancora più conformista di quella degli indios: vedi i tifosi della fig. 5, con i loro colori scontati e poco elaborati, uguali per tutti). L’arte-letteratura può diventare il campo di una conflittualità intenzionale? Qualcosa in proposito potrebbe dirci la seconda citazione tratta da Lévi-Strauss: questa proviene da Antropologia strutturale (1958), dal capitolo Esistono le organizzazioni dualiste? (data di prima uscita come saggio 1956). E adesso siamo davvero di fronte ad una “critica del villaggio”, alla lettera, perché è in questione la pianta del villaggio dei Winnebago, una tribù indiana dei grandi laghi nordamericani. Qui LéviStrauss riprende una testimonianza precedente, di Paul Radin, pubblicata all’inizio del Novecento. Radin notava che i Winnebago erano un tempo divisi in due metà, rispettivamente chiamate wangeregi o “quelli che stanno in alto” e manegi o “quelli che stanno sulla terra” (e che d’ora in poi chiameremo, per maggior comodità, “quelli di sopra” e “quelli di sotto”). […] Quando esamina l’influenza della divisione in metà sulla struttura del villaggio, Radin nota un curioso disaccordo fra le persone anziane che gli servono da informatori. In maggioranza, essi descrivono un villaggio di pianta circolare, in cui le due metà sono separate da un diametro teorico Nord-Ovest Sud-Est […]. Parecchi tuttavia contestano energicamente questa distribuzione del villaggio e ne riproducono un’altra, in cui le capanne dei capi delle metà sono al centro, e non più alla 19 Il manifesto Perché ci dipingiamo, firmato da Zdanevič e Larionov, apparve nel 1913 sulla rivista «Argus». In esso si legge: «come un quadro divora un altro quadro, come da dietro il finestrino di un’automobile si vedono balenare vetrine che penetrano una dentro l’altra – così è il nostro volto. […] I nostri volti dipinti sono strilloni. […] Noi ci dipingiamo perché il volto pulito è ripugnante, perché vogliamo essere gli araldi dell’ignoto, riorganizzare la vita e portare alle vette dell’essere l’anima multipla dell’uomo», in AA.VV., Per conoscere l’avanguardia russa, Milano, Mondadori, 1978, p. 121.

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periferia […]. Secondo il nostro autore, sembra infine che la prima disposizione sia stata sempre descritta da informatori della metà di sopra, e la seconda, da informatori della metà di sotto […]. Così dunque, per taluni indigeni, il villaggio aveva una forma circo­lare e le capanne erano distribuite su tutta l’estensione del cerchio diviso in due metà. Per gli altri, c’è sempre bipartizione di un villaggio circo­lare, ma con due differenze fondamentali: non più diametro determi­nante due semicerchi, ma cerchio più piccolo inscritto in uno più grande; e al posto di una divisione interna al villaggio agglomerato, il cerchio inscritto contrappone l’insieme delle capanne al terreno dissodato, il quale a sua volta si contrappone alla foresta che è tutt’intorno20.

Le due tipologie riprodotte da Radin sono nella fig. 6. «Radin non insiste su questo disaccordo; si limita a dolersi dell’insufficienza delle sue informazioni che non permettono di pronunciarsi in favore dell’una o dell’altra disposizione», nota Lévi-Strauss. Ma in fondo neppure lui fa molta strada in più, non tenta quasi neanche di collegare le diverse prospettive degli informatori alla discrepanza di una società che gli sembra «simmetrica (almeno in apparenza)». Si limita a definire le due strutture, rispettivamente, «struttura diametrale» e «struttura concentrica»21, e a riscontrare come questi due modelli siano effettivamente diffusissimi nella conformazione dei villaggi di tutto il mondo, dall’America alla Melanesia, all’Indonesia, quasi da essere due costanti universali dell’abitare umano. Solo en passant escono altre precisazioni sulla struttura sociale Winnebago, da cui si ricava che «l’opposizione tra le metà esprime una dialettica più sottile»22. Ma la suggestione del “caso” è indubbiamente forte, al di là dei dati dell’antropologo: la tribù non è certamente così omogenea, se alcuni vedono il loro ambiente in contrasto con l’esterno (noi/altri) mentre altri lo vedono attraversato da un contrasto interno (noi/ noi). Coloro che vedono il contrasto interno sono quelli che hanno interesse a vederlo, “quelli di sotto”, gli svantaggiati. Confesso che, guardando quella figura non ho resistito ad applicarla all’idea di letteratura: da un lato quella neotradizionale che distingue il letterario dal non letterario, vuoi per valore estetico (l’esempio recente di Bloom), vuoi per caratteri formali (Jakobson e i formalisti), e il problema consiste nel sapere chi c’è e chi non c’è, il ruolo decisivo della critica è quello di ammettere o no 20 C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1966, pp. 154-155. 21 Ivi, p. 156. 22 Ivi, p. 174.

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all’interno dello steccato e in particolare nella parte più interna e centrale, il sacrario dei capolavori; dall’altro lato la concezione, portata all’estremo dalle avanguardie, dello scontro tra tendenze (in una società solcata dal conflitto, non si vede perché la letteratura dovrebbe esserne esente). Ho sviluppato questa lettura nel mio libretto Quelli a cui non piace (2008); devo ammettere che l’amore di polemica mi ha portato a fare un uso un po’ grezzo (spero nel senso brechtiano del termine) del modello lévi-straussiano, certo meno raffinato del testo da cui avevo ricevuto lo spunto per andarmelo a rivedere, vale a dire il saggio di Slavoj Žižek, The Matrix, or the Two Sides of Perversion (2001)23. Per capire l’interpretazione di Žižek è necessario un minimo di contestualizzazione: il suo saggio riguarda il film di fantascienza Matrix, che sembra rappresentare esattamente il problema dell’alienazione ideologica, facendo vivere gli umani in una realtà artificiale illusoria che non corrisponde alla verità catastrofica. Ma Žižek rovescia la prospettiva e critica il film come ideologico (mettendolo insieme al coevo Truman show) proprio perché esprime la fiducia ingenua che esista comunque una realtà vera al di là delle apparenze24. Il torto del film non risiede nell’insistere sull’esistenza di un Reale sotto la simulazione della realtà virtuale, come fa Morfeo [sic] con Neo quando gli mostra le rovine di Chicago dicendogli: “Benvenuto nel deserto del reale”. Il film sbaglia invece nella misura in cui il Reale non è la “realtà vera” dietro alla simulazione virtuale, bensì il vuoto che rende la realtà incompleta e incoerente: la funzione di ogni Matrice è quella di nascondere questa incoerenza25.

Servendosi soprattutto di Lacan (suo riferimento privilegiato), Žižek spiega che il «Reale» (diverso dalla realtà) è costituito dallo «schermo che ostacola e distorce la nostra percezione del referente, della realtà esterna, non [è] il referente ultimo che lo schermo del fantasma deve coprire, ingentilire o addomesticare»26. È qui che chiama in aiuto gli indiani di Lévi-Strauss con le loro visioni opposte del medesimo villaggio (che anche Žižek riassume un po’ pro domo sua): 23

S. Žižek, The Matrix, or the Two Sides of Perversion, in Id., Enjoy your Symptom, London, Routledge, 2001. 24 «L’ideologia sta proprio nella convinzione che, fuori dai confini dell’universo, esista una “realtà vera” da raggiungere», S. Žižek, Matrix: le due facce della perversione, in Dello sguardo e altri oggetti, Udine, Campanotto, 2004, p. 181. 25 Ivi, p. 186. 26 Ivi, p. 191.

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Può essere d’aiuto un riferimento all’analisi esemplare della disposizione degli edifici tra i Winnebago, una delle tribù dei Grandi Laghi, contenuta in Antropologia strutturale di Lévi­-Strauss. La tribù è divisa in due sottogruppi (metà), “quelli che vengono da sopra” e “quelli che vengono da sotto”; quando si chiede a un Winnebago di disegnare la mappa del suo villaggio, si ottengono due risposte piuttosto diverse a seconda dell’appartenenza a uno o all’altro sottogruppo. Entrambi i gruppi percepiscono il villaggio come un cerchio, ma mentre uno di essi vede un cerchio all’interno di un altro, ottenendo due cerchi concentrici, per l’altro il cerchio è sezionato da una linea divisoria molto chiara. In altre parole, un componente del primo sottogruppo, che possiamo chiamare “conservatore-cor­porativo”, percepisce la mappa del villaggio come un anello di case disposte più o meno simmetricamente attorno al tempio centrale, mentre un componente del secondo (“rivoluzionario-antagonistico”) percepisce il suo villaggio come due insiemi distinti di case separati da una frontiera invisibile27.

Fin qui Žižek espande quel passaggio dalla discrepanza di superficie alla profondità sociale che Lévi-Strauss aveva sviluppato maggiormente a proposito dei Caduveo. Il “trauma”, l’“antagonismo” sottostanno alla differenza di prospettiva: La divisione tra due percezioni relative comporta un riferimento nascosto a una costante, che non è la disposizione oggettiva degli edifici ma un cuore traumatico, un antagonismo di fondo che gli abitanti del villaggio sono stati incapaci di sim­bolizzare, spiegare, “interiorizzare” e accettare, uno sbilancia­mento nelle relazioni sociali che ha impedito alla comunità di stabilizzarsi in un tutto armonioso. Le due percezioni della mappa sono semplicemente due tentativi opposti di venire a patti con questo antagonismo traumatico, di curare la ferita attraverso l’imposizione di una struttura simbolica equilibrata28.

Ancora una volta, il nostro comportamento di animali civilizzati non risulta poi tanto diverso. La linea divisoria che attraversa il cerchio nella ricostruzione di “quelli di sotto” non è altro che la linea del dissidio politico: 27 28

Ivi, p. 192. Ivi, pp. 192-193.

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Per sfatare l’illusione che il nostro universo “progredito” sia dominato da una logica diversa, basta ricordare la divisione del nostro spazio politico in Destra e Sinistra: un uomo di sinistra e uno di destra si comportano esattamente come i componenti dei sottogruppi del villaggio. Non solo occupano posizioni differenti all’interno dello spazio politico, ma ognuno di essi percepisce diversamente la disposizione dello spazio politico stesso: quello di sinistra come un campo diviso da un antagonismo di base, quello di destra come una comunità organica disturbata da qualche intruso straniero29.

La mia ripresa e la mia applicazione al campo letterario si fermava qui. Invece Žižek va avanti e sottolinea il fatto che, pur nella diversità delle mappe, tutti i Winnebago sono convinti di disegnare il vero villaggio, lo stesso villaggio. Nessuno nega che un villaggio ci sia. Il villaggio, quindi la comunità, in quanto forma vuota che poi ciascuno riempie con i propri contenuti e interessi, è quella che Lévi-Strauss chiamerebbe “istituzione zero”. Scrive ancora Žižek: È il riferimento a una tale “istituzione zero” che permette a tutti i componenti della tribù di sentirsi tali. L’istituzione zero è dunque ideologia allo stato puro, la concretizzazione diretta della funzione ideologica che consiste nel fornire uno spazio neutrale onnicomprensivo in cui l’antagonismo sociale viene annullato e in cui tutti gli appartenenti a una data società possono riconoscersi. La lotta per l’egemonia non diventa quindi la lotta per come l’istituzione zero verrà sovradeterminata, marcata da qualche significato particolare? Per fare un esempio pratico: la concezione moderna di nazione è un’istituzione zero emersa dopo la disgregazione dei legami sociali fondati sulle matrici simboliche dirette, familiari o tradizionali, vale a dire quando, con l’avvento della modernità, le istituzioni sociali persero sempre più le loro radici nella tradizione naturalizzata e cominciarono a essere vissute in termini di “contratto”. È particolarmente importante il fatto che l’identità 29 Ivi, p. 193. Recentemente una interessante analisi della logica politica come logica del “disaccordo” è stata formulata da Jacques Rancière, che scrive, tra l’altro: «Il conflitto politico si distingue da ogni conflitto di interessi tra parti costituite della popolazione in quanto è un conflitto sul conto stesso delle parti», Il disaccordo (1995), Roma, Meltemi, 2007. Rancière ha scritto anche una Politique de la littérature, Paris, Galilée, 2007.

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nazionale venga solitamente sentita come almeno un po’ “naturale”, un patrimonio fondato “nella terra e nel sangue” e, in quanto tale, in contrasto con l’appartenenza “artificiale” alle istituzioni sociali (lo stato, la professione…); […]. Quando le istituzioni cominciarono a essere considerate artefatti sociali, nacque il bisogno di un’istituzione zero “naturalizzata” che servisse da terreno comune neutrale30.

Se volessimo applicare il ragionamento alla letteratura, la letteratura è appunto una tale “istituzione zero”, ciò che resta uguale (e neutro) nel conflitto tra tradizionalisti e modernisti: gli uni e gli altri si battono per la letteratura, convinti che la letteratura esista e che valga la pena di conquistarne l’egemonia. La riflessione che potremmo fare (ma qui soltanto accennare) è proprio la crisi attuale di una simile “istituzione zero”, in un’epoca in cui la letteratura per il mercato e il consumo sembra abitare un altro villaggio rispetto alla residua e clandestina scrittura di ricerca (non c’è più conflitto perché le due letterature hanno ormai, oltre che dimensioni imparagonabili, anche canali quasi completamente diversi, come avveniva del resto già nell’ambito della musica, classica/leggera). Ma torniamo a Žižek perché il suo commento non è finito. Le discrepanze tra gli informatori potrebbero essere risolte semplicemente andando a vedere com’è fatto realmente il villaggio. Perché questa soluzione non è convincente? Perché non otterremmo altro che una ulteriore versione, una deformazione in più. Non la realtà – che è comunque costruita, prodotta – ma quello che è da cercare è il “reale” situato esattamente nella ragione profonda (il trauma dell’antagonismo, lo chiama Žižek) che conduce alle diverse deformazioni: Prima abbiamo la “vera” sistemazione “oggettiva” delle case, poi due differenti simbolizzazioni che la distorcono in modo anamorfico. Tuttavia, il “reale” non corrisponde alla sistemazione vera, ma al nucleo traumatico di un antagonismo sociale che distorce il modo in cui i componenti della tribù considerano il vero antagonismo. Il Reale diventa così l’X rimossa a causa della quale la nostra visione della realtà è anamorficamente distorta31.

A questo punto, nemmeno Žižek vince la tentazione di esemplificare il caso in sede artistica: l’arte è quella pratica che ripercorre le tracce della deformazione al di là del senso comune, la problematizza e prova a 30 31

S. Žižek , Dello sguardo e altri oggetti, cit., p. 194. Ivi, pp. 195-196.

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far riemergere il reale. Ma con diverse opportunità, precisamente tre (in ossequio alla tripartizione lacaniana), che sono: l’irruzione dell’oggetto bruto, la contro-deformazione anamorfica, l’esibizione del mero spazio (astratto) che rende possibile la rappresentazione: il Reale nell’arte contemporanea possiede tre dimensioni che in un certo modo ripetono nel Reale la triade composta da Immaginario, Simbolico e Reale. Il Reale è innanzitutto una macchia anamorfica, una distorsione anamorfica dell’immagine diretta della realtà: immagine distorta, pura sembianza che “soggettiva” la realtà oggettiva. In secondo luogo, il Reale esiste come spazio vuoto, struttura, costruzione che non è mai presente ma viene solo costruita retroattivamente, e deve essere presupposta come tale, come costruzione simbolica. Infine, il Reale è l’Oggetto osceno escrementizio fuori posto, il Reale “vero e proprio”. […] Le tre dimensioni del Reale sono il risultato di tre diversi modi di acquisire una certa distanza dalla realtà “ordinaria”: si sottopone la realtà alla distorsione anamorfica; si introduce un oggetto che non ha posto in essa; si sottraggono o si cancellano tutti i contenuti (oggetti) della realtà, cosicché rimane solo lo spazio vuoto in cui stavano questi oggetti32.

Anche Žižek, con le tre linee dell’arte contemporanea, arriva a sottolineare una valenza oppositiva, seppure, nel suo discorso, la divisione diametrale si riarticola in una pluralità di tendenze sperimentabili (ancora una dialettica tra il due e il tre). Insomma, alla fine la critica dell’ideologia ha imparato molto dal “villaggio”. La critica si è vista reinsegnare la contraddizione proprio da coloro che, nel nostro “mito”, avevano ricevuto la parte dei “semplici”… Ma è chiaro che avere l’idea di un problema non significa essere vicini alla soluzione. La critica dovrebbe avere il potere di risvegliare dal sogno: e però si accorge oggi che dialettica del sogno e del risveglio non può che essere pronunciata “sotto cancellatura”, tanto più contorta e tesa quanto più la contraddizione si presenta terribilmente “irrisolvibile”.

32

218

Ivi, p. 197.

Fig. 1

219

Fig. 2

220

Fig. 3

Fig. 4 221

Fig. 5

Fig. 6

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La littérature et ses banquets Radhouan Ben Amara

La littérature arabe et musulmane fut certainement d’un apport considérable pour la littérature mondiale et surtout européenne – je pense à Dante, Goethe, Sterne, Chateaubriand, Baudelaire, Jacques Berque, Michel Foucault, Derrida, Deleuze, Genet, et autres. Mais il serait toujours intéressant de pouvoir comparer la marche des idées, les normes de l’esthétique littéraire et en passant, montrer le jeu des influences. On pourrait dire qu’il est impossible d’imaginer la préhistoire de cette littérature, pas plus que son passage à l’alphabet usité à l’époque du prophète Mohammad. Comme partout, dans l’univers, la civilisation arabe naît, avant l’éclosion de la prose, avec une magnifique floraison de poèmes lyriques récités, qui ne furent pas écrits. Il s’agit d’oeuvres savantes, bourrées de vocables obscurs, qui conservent un rythme puissant. Ce que nous traductions ne rendent pas, c’est l’incomparable richesse du verbe, qui caractérise les grands artistes, et elles laissent dans l’ombre les sonorités graves ou la grâce chantante de la langue arabe. C’est la magie du verbe qui est la vraie magie de la poésie et de la littérature arabes. Et si, comme l’énonce grosso modo Roland Barthes, le texte est pluriel, il n’est pas toujours et seulement l’entre-texte d’un autre texte dans l’adab, la littérature arabe. La notion d’intertextualité au sens classique et arabe se traduit par iqtibas, entendu comme un emprunt. En d’autres termes, quand elle n’est pas explicite, et prétexte à une information, elle fait plus figure d’hypotexte. Nous pensons notamment au texte poétique qui pouvait être effacé par la mémoire et servir de support à la fabrication d’un nouveau poème, sorte de palimpseste né de l’oubli et émergeant de bribes de souvenirs. C’est pour cette raison que l’oubli est nécessaire à l’entreprise poétique et on ne saurait trop le recommander à l’apprenti poète. La création poétique sera alors une réorganisation des matériaux épars, une nouvelle «mise en forme». A partir des fragments qui résultent d’un bris, le poète mène son travail de démiurge; il détruit une forme antérieure et 223

recrée une autre forme avec les éléments chaotiques de la matière. Tout poème a une mémoire, et il importe que, au moment de la réception, cette mémoire soit pervertie, voilée, en sorte que l’auditeur ne reconnaisse que vaguement les mille et un poèmes qui soutiennent le poème qu’on lui récite. En d’autres termes, le poète doit savoir oublier; à son tour, l’auditeur doit être dans l’incapacité de retrouver le passé du poème proposé à son écoute. La poésie est le lieu d’une réincarnation continuelle, d’une métempsycose subtile; tout poème a des vies antérieures dont le souvenir se perd, si bien que l’effort d’anamnèse ne ramène au jour que des bribes de matière qui ne rendent pas compte de la forme unique, irremplaçable et glorieuse du poème considéré. En arabe, littérature se dit adab. Certains ont pu suggérer que le mot était une dérivation de la racine dab, laquelle exprime l’idée de norme héréditaire de conduite rivalisant ainsi avec le terme sunna, tradition, ou conduite prophétique. Suivant la même orientation, on relève un usage du pluriel de adab dans le sens de mœurs. La forme simple adaba désignait inviter à un festin et la forme en maaduba, un banquet. Enfin, le verbe de deuxième forme, addaba, signifiait alors former l’esprit, éduquer, corriger. Il faut aussi entendre le mot adab dans le sens de discipline. L’adab désigne tout exercice louable par lequel un être humain se distinguerait. Récapitulant, nous disons qu’adab signifie éducation, marche, cheminement, flânerie, érudition, éducation civile et sociale. On l’appelle Adab, parce que la littérature est censée éduquer, discipliner et surveiller. En d’autres termes, l’adab suppose des lois et des règles qui le fondent comme une discipline générale de l’esprit. S’il est envisageable de l’appréhender comme un système, il est nécessaire de considérer, comme Saussure l’a fait pour la langue, que ce système n’est pas constitué uniquement de lois mais aussi de faits. L’adab, la littérature est aussi appel et rappel (dhikr), récitation, et mémoire. Les Arabes parlent aussi de “littérature de l’âme et du corps”, comme étude psychologique. A partir de la parole Adab, on associe aussi une série de connotations: banquet (Maadoba), qui signifie célébration, cérémonie, buffet. A ce point, le texte Coranique est considéré comme le grand banquet de Dieu sur terre, le plus grand texte littéraire et poétique. Une place spéciale est réservée à la poésie préislamique, atout irremplaçable pour l’établissement de la grammaire de l’arabe et la compréhension du Coran. Mais Littérature signifie aussi hospitalité, invitation à diviser un repas. Le littéraire est donc celui qui invite; c’est l’hôte qui sert la nourriture. On parle aussi de Adabu Al bahri, texto “la littérature de la mer”, pour se référer à l’abondance de ses eaux et de ses richesses. 224

Adab c’est aussi le merveilleux, le sublime et la plénitude. Quoi qu’il en soit, la définition générale du mot Adab, peut-être donnée par la formule des règles pour une conduite, que celle-ci concerne tel ou tel secteur de la vie personnelle ou sociale, l’art de vivre en général, les comportements du coeur comme, enfin, ceux de l’esprit. Avec Al Jaahidh (776-868), un des plus grands noms de la littérature arabe, l’adab devient véritablement synonyme d’édifice total de la connaissance, éthique ou non. Le propos fondamental d’Al Jaahidh, est de réconcilier les exigences d’une foi musulmane sincère et les données de la tradition arabe en général avec les découvertes de son temps, c’està-dire, pour l’essentiel, la science grecque. Immense et culminant avec le Livre des animaux (Kitaab al hayawaan), fresque raisonnée de la création animée, l’oeuvre d’Al Jaahidh vise ainsi à embrasser la Révélation et la recherche, l’Islam et la Grèce, le tout dans l’éclairage d’une nouvelle civilisation dont l’arabe, sa langue et sa tradition, sublimée par la religion musulmane, restent la clé de voûte. Il faut bien signaler à ce point que si l’adab au siècle d’Al Jaahidh a pu désigner aussi une production essentiellement écrite, ce n’est pas une distinction parole/écriture qui a véritablement pu définir l’adab. La parole et le dire font encore référence soit à un objet d’étude rationnelle tel que le poète, soit à un savoir scientifique véhiculé par une pratique de transmission orale. Pour pouvoir encadrer ces propos, je partirais de Roland Barthes. Pour Barthes, la «science se parle, la littérature s’écrit» plus encore, Barthes propose une définition de la littérature délimitée par le rapport écriture-lecture. Pour lui, la littérature est un système de significations ‘déceptif’ dans lequel le sens est à la fois ‘posé et déçu’1. La littérature serait constituée, d’une part, par une écriture intransitive et, d’autre part, d’une lecture qui «imprime une certaine posture au texte, et c’est pour cela qu’il est vivant; mais cette posture, qui est notre invention, elle n’est possible que parce qu’il y a entre les éléments du texte un rapport réglé, bref, une proportion»2. Face à ce système de signes qu’est une œuvre littéraire, le critique a pour objectif de le reconstituer. En d’autres termes, l’adab selon Al Jaahidh, n’est pas autre chose que «l’esprit des autres que tu ajoutes au tien». En littérature, l’adab se caractérise d’abord par le recours à la prose dans une civilisation dominée par la poésie considérée comme la forme la plus achevée de la langue. Donc, on assigne clairement à l’adab la fonction d’être le miroir du sujet et du monde. 1

R. Barthes, Littérature et signification, in Id., Essais critiques, Paris, Seuil, 1985, p. 274. 2 Ivi, p. 36.

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C’est avant tout une culture élitiste. Dans son livre De la différence entre l’hostilité et l’envie, Al Jaahidh écrit au sujet de ses ouvrages – je traduis – «ces livres sont nobles. Beaux, illustres et éclipsent les autres, car grâce aux histoires curieuses et aux récits qui incitent aux vertus et aux nobles actions, durables et mémorables… Ils sont conformes à la noblesse des Grands». Chez cet auteur et grand sémiologue, très souvent, la littérature – surtout la littérature didactique et moraliste – contient des remarques précieuses sur ce qu’on pourrait appeler la «sémiotique naturelle». La tâche du sémioticien consiste à extraire ces remarques et à leur conférer un caractère plus systématique. Mais il faut bien signaler que l’intention sémiotique d’Al Jaahidh est exprimée clairement dans l’introduction de son ouvrage Le livre des avares. Ce livre est présenté comme une suite à l’opuscule (perdu) sur «le Classement des ruses et le détail des ruses» employées par les malfaiteurs nocturnes. Le but de l’écrit perdu était d’amener le lecteur d’une bonne connaissance des fourberies les plus subtiles, afin qu’il puisse déjouer les machinations et les subterfuges les plus adroits. L’auteur présente entre autres les ruses des avares et surtout «les arguments qu’ils emploient pour se défendre»3. La propriété du langage humain qui permet les abus étudiés par Al Jaahidh se rattache à ce qu’on a appelé «la porosité» (open texture) de ce langage4. Il n’y a pas de critère logique comparable à la vérifiabilité, qui puisse distinguer l’usage correct de deux termes comme par exemple “avarice” et “parcimonie”. En d’autres termes, la signification d’un mot est donnée par son usage. Seulement, comme Al Jaahidh le remarque, cet usage n’est pas uniforme à l’intérieur d’une communauté linguistique. Dans ce cas il n’est pas sans intérêt de savoir si les différences dans l’usage des signes obéissent à des régularités et, si oui, d’établir quelles sont ces régularités. Mais sans entrer dans les détails, disons qu’un signe n’a pas, pour ainsi dire, de référent fixe. On peut même comparer cette situation sémiotique à sa contrepartie phonologique telle que discutée par André Martinet5. Selon Martinet, les réalisations phonétiques d’un phonème constituent un «champ de dispersion» organisé autour d’un «centre de gravité». Les champs de dispersion de deux phonèmes différents sont en général bien séparés par une «marge de sécurité», de sorte que dans des conditions normales, il n’y a pas de confusion possible entre une variante du pho3

Cfr. Le livres des avares, trad. di Ch. Pellat, Paris, Seuil, 1951. Cfr. F. Waissman, Verifiability, in A. Flew (ed.), Logic and Language, New York, Doubleday, 1965. 5 Cfr. A. Martinet, Economie des changements phonétiques, Berne, Francke, 1955. 4

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nème /p/ et une variante du phonème /b/. Dans certains cas cependant, dus aux changements des habitudes articulatoires, le centre de gravité d’un phonème peut se déplacer entrainant avec lui tout le champ de dispersion, de sorte que la marge de sécurité se rétrécisse dangereusement. Des confusions phonologiques peuvent s’ensuivre. Dans la plupart des cas, on peut raisonnablement supposer que les champs de dispersion de deux signes sont séparés par une marge de sécurité qui devrait empêcher les confusions. La signification, tout comme le plan sonore, n’est pas continue; c’est une vérité acceptée depuis Saussure. Le procès sémiotique remarqué par Al Jaahidh peut être décrit comme un déplacement du champ de dispersion et du centre de gravité d’un signe x, si bien que la marge de sécurité qui sépare ce signe x d’un autre signe y avec lequel il se trouve en opposition se rétrécit graduellement, jusqu’à ce que l’usage d’un des signes se superpose entièrement sur l’usage de l’autre. L’opposition s’efface: l’avarice devient parcimonie et la ladrerie – économie6. A ce propos, on pourrait se poser la question suivante: quelle est la cause de cette distorsion dans le système de signes, distorsion matérialisée dans la perte de la marge de sécurité entre signes et dans la dissolution des oppositions? Selon Al Jaahidh, il existe un système sémiotique «normal», un langage transparent et persuasif, le langage vrai, reconnaissable par tout honnête homme en vertu d’une intuition sémiotique qui précisément rend possible la communication entre humains. Les forces qui provoquent les distorsions sont appelées les passions. Les passions – par exemple, l’avarice – déclenchent des troubles sémiotiques, on dirait même une sorte d’aphasie sémiotique menant à la perte des distinctions en force dans le système normal. Mais la distorsion du système ne touche pas que le signifié7. Dans un passage qui parodie les étymologies souvent fantaisistes des grammairiens de l’époque, Al Jaahidh construit un fragment de système dans lequel le signifiant même prend le côté de l’avare et justifie ses raisonnements. Les Mille et Une Nuits à titre d’exemple, sont construites à partir de l’exaltation du savoir-dire. Savoir conter, par exemple, signifie «sauver sa vie». Dans ce conte qui représente la contribution de la littérature populaire à la civilisation islamique, il n’existe pas d’échec du discours. Par rapport à cette attitude sémiotique naive, la prose savante d’Al Jaahidh, son effort de saisir et de caractériser les distorsions des systèmes de signes, leurs causes et leurs régularités représente le passage à la conscience sémiotique. 6

Cfr. S. Pavel, Le livre des avares et la sémiotique naturelle, «Journal Canadien de sémiotique», hiver 1976-1977, vol. 4, n. 2. 7 Ibidem.

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Il n’y a pas seulement Al Jaahidh: Abou Hayyaan Attawheedi, AlMasudi et ses Prairies d’Or (Muruj adhahabb), et autres. Retenons seulement le fait que l’adab a bien évolué rapidement vers un système de culture à la fois ouvert et clos. Il est ouvert en ce sens que, loin de renoncer à l’un quelconque de ses éléments, il absorbe, digère à peu près tout ce qu’on lui présente comme pouvant relever du bagage intellectuel de l’honnête homme. Il est clos parce qu’il oublie peu à peu l’esprit de recherche et d’investigation, pour constituer une sorte de répertoire de la connaissance profane, qu’il s’agit d’acquérir plus que de méditer. Tradition et histoire, philologie et poésie, cosmographie et géographie, sciences naturelles, astronomie et astrologie composent, avec d’autres disciplines, la panoplie de ce savoir rassemblé qui se présente, dans l’histoire de l’humanité, comme une des tentatives les plus grandioses pour constituer une connaissance aussi vaste que possible en même temps qu’accordée aux idéaux de la civilisation qui le sécrète: un humanisme ou, comme on tend à le dire aujoud’hui, une humanistique à quoi se reconnaissent les membres d’un corps social. Ici encore, le diptyque du clos et de l’ouvert peut se reprendre en ce sens que, si cette société entend se définir par une aristocratie, cette aristocratie elle-même admet le savoir à égalité de rang avec la position sociale, la richesse ou le pouvoir politique. La science du spécialiste, du savant (al aalim) ou la culture du lettré (al adeeb: celui qui détient l’adab, la littérature), qui sont alors les deux volets de la connaissance, jouent incontestablement le rôle de passeports sociaux, permettant à volonté la gloire jusque dans les milieux populaires. En d’autres termes, l’adab n’a pas seulement modelé un genre spécifique de connaissance; débordant le cadre de sa propre littérature, il a touché peu ou prou, surtout à partir du X siècle, l’ensemble de la littérature arabe, réserve faite de celle qui se définit par la pure technicité. Pour caractériser l’intrusion de l’adab dans certains domaines particuliers de la littérature, on pourrait dire que l’esprit qu’il a mis à la mode consiste à mettre un peu de tout dans tout. Ainsi la critique littéraire peut-elle s’ouvrir à l’histoire, l’histoire à l’astrologie ou la géographie à l’histoire. Certes, tous les auteurs ne paient pas tribut à une telle façon d’écrire, et un même auteur n’y sacrifie pas toujours. Il reste néanmoins que la place prise par elle dans la prose arabe est bien à la mesure de l’influence croissante des goûts et des méthodes de cette culture générale du temps qui s’appelle adab. Faut-il signaler aussi que le vocabulaire de la critique arabe est de l’ordre de la valeur: un texte est beau parce qu’il est beau. Je vous épargne toute une série de considérations sur la littérature, la poésie, l’encyclopédisme, les divers goûts de la littérature et ses divers 228

voyages et déplacements de Ibn Battuta jusqu’à Ibn Khaldoun, Darwish et tout le reste. Littérature comme banquet ou comme gala; littérature comme diptyque du clos et de l’ouvert! Littérature comme hospitalité, accueil de tout ce qui est étranger dans l’histoire et les cultures. Dans la littérature arabe et surtout classique, le territoire de l’autre est toujours l’objet d’une sensibilité scrupuleuse. C’est le mythe littéraire de l’hospitalité. Mais l’hospitalité appelle à son tour l’outis, l’étranger. Littérature comme impersonnelle ou littérature de l’Impersonnel, sans nom, sans auteur! Qui a écrit les Mille et Une Nuits, le conte par excellence, immense morceau de littérature et maqaamaat, élaboré sur sept siècles (VIII-XV), et qui concilie vie quotidienne, scènes de moeurs, “merveilles” rapportées par les voyageurs et les marchands, et histoire – plus ou moins légendaire – du monde préislamique et de la civilisation musulmanes? Qui a écrit cet ouvrage dans une civilisation où la dichotomie entre langue littéraire et langue(s) parlée(s) est profonde, où la littérature populaire est également consignée par écrit, mais anonymement, car doctes et lettrés ne la prisent guère? Aucun auteur des Mille et une nuits donc! C’est l’anonymat par excellence: une oeuvre, un mythe aveuglant comme tous les mythes; une oeuvre sans écrivain, sans visage apparent, une oeuvre et rien d’autre qu’une oeuvre! Aucune confusion! Et Don Quichotte? Fautil rappeler que Cervantes dans son roman nous explique que le manuscrit des aventures de son héros a été écrit par un maure, Cid Hamet Bengeli? Quelle ironie fabuleuse! Le plus grand roman espagnol est présenté par son auteur comme une traduction de l’arabe, la langue qui avait dominé dans la péninsule pendant des siècles! En littérature, c’est l’impersonnel qui règne, et c’est là la grande question; la question de l’activisme infini! Donc impersonnelle est la création, irrécusable, rebelle à toute catégorie comme à tout apparentement ou appartenance. Impersonnelle, neutre, orpheline est la littérature arabe, comme est neutre la “part du feu” – pour citer Maurice Blanchot – qui, de Nietzsche à Bataille, alimente l’énergie et le risque de la création littéraire. Gilles Deleuze, vient à mon secours qui en ouverture à Critique et clinique nous rappelle bien que: «La littérature ne commence que lorsque naît en nous une troisième personne qui nous dessaisit du pouvoir de dire «Je». Une troisième personne imperceptible et créatrice, figurante, défigurante, traçant toutes formes de devenirs»8. D’ailleurs, les poéticiens arabes distinguent trois types d’idées poétiques. Le premier type 8 Cfr. G. Deleuze, Essays Critical and Clinical (1993), trans. D.W. Smith and M.A. Greco, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1997.

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est constitué par les idées «orphelines», anonymes, qui n’ont pas de père ou dont le père est oublié: ce sont les lieux communs, les motifs fréquemment employés et que tout le monde trouve à sa portée. Les idées «orphelines» perdent leur anonymat lorsqu’elles sont adoptées (et adaptées) par un poète qui, les présentant sous un costume nouveau, en devient le père. Le deuxième type sont les idées inventées, procréées (tawlîd). L’invention (ikhtirâ) est assimilée à une opération érotique: le poète est un étalon (fahl); il ouvre un chemin, une voie; «il déflore l’idée» comme dirait Ibn Rachiq. L’idée inventée subira l’assaut d’autres poètes qui chercheront à la posséder en l’imitant; l’imitation est perçue comme une «fécondation» qui fait naître une nouvelle idée, que l’on comparera à l’idée mère pour déterminer laquelle est supérieure. Parfois, l’imitation se révèle impossible: cela se produit (ici nous passons au troisième type) quand l’idée ne se prête pas à la fécondation, autrement dit quand elle est stérile. L’idée stérile – comme disait al Jurjani – fait le désespoir des imitateurs parce qu’elle est parfaite; «tous ceux qui essaient de l’approcher récoltent la déception, car elle est un bel arbre qui ne donne pas de fruit». Dire que la littérature arabe – surtout classique – est impersonnelle ne signifie pas qu’elle est anonyme. En effet, dans la culture arabe classique, il ne suffit pas qu’un énoncé présente les indices d’une organisation particulière pour être considéré comme un texte; il faut en outre – comme dirait Abdelfattah Kilito – qu’il émane de, ou qu’on le fasse remonter à un locuteur reconnu par le consensus comme faisant autorité. Le texte est ainsi un énoncé autorisé et autoritaire, un énoncé solidement amarré à un auteur. L’anonymat était pour ainsi dire inconcevable; dans cet ordre d’idées, l’expression «texte anonyme» pourrait illustrer la figure de l’oxymore. Dans la littérature arabe, le mouvement de création est ainsi à la fois impersonnel, neutre et singulier: il y a toujours cette part de l’impersonnel dans chaque création singulière; dans les récits, la poésie, il y a toujours ce mouvement anonyme par où l’épreuve singulière se dissout dans une expérience indéfinie. Mais c’est surtout la poésie qui compte le plus. En effet, l’importance et la valeur de la poésie arabe réside dans la forme, définie comme “une danse de l’esprit à travers les paroles”. Làdessus, tous les critiques littéraires de langue arabe sont d’accord, et le grand penseur Ibn Khaldoun (1406) ne sera pas le moins net: L’art de discourir en vers ne s’applique pas aux pensées mais aux paroles; celles-ci en constituent l’objectif principal, tandis que les pensées sont de simples accessoires. Les poètes doivent rivaliser dans la beauté de l’expression, dans la force imaginaire, dans l’élégance ou la puissance de la phrase, 230

dans le rythme, la sonorité, ou encore dans la splendeur des vêtements qu’ils donnent aux lieux communs. Dans la littérature arabe, l’impersonnel semble fixer la condition même de la littérature, de son exercice, de sa possibilité, de son commencement, de ce mouvement incessant qui défait la moindre identité, trace des lignes de force, de tact, de courbure, d’écart, d’attraction, de répulsion aussi. L’impersonnel, grand signe de l’hospitalité langagière, est l’étau invisible qui permet de construire ou de figurer un espace esthétique sans repère ni boussole. C’est cela la force de l’écriture, la force de l’hospitalité, la force impersonnelle de l’écriture. Mais ce qui doit nous intéresser est que la littérature dans l’imaginaire arabe est un grand banquet, un banquet en même temps ouvert et clos. On sait bien comment le verre d’eau, la tasse de thé ou de café est, dans les pays méditerranéens, au Moyen Orient, le geste de l’hospitalité le plus spontané et le plus immédiat, et combien la table et le banquet sont le centre, le foyer principal autour duquel s’organise l’hospitalité. Mais l’hospitalité ne se réduit pas à la seule offre d’une restauration et d’un hébergement librement consentis: la relation interpersonnelle instaurée implique une relation, un lien social, des valeurs de solidarité et de sociabilité. Si la littérature a été toujours considérée par les arabes comme l’ouvert et en même temps le clos, cela signifie que toute littérature commence sur un seuil, à cette porte où l’on frappe et qui va s’ouvrir sur une figure inconnue, étrangère. La littérature est cette limite entre deux mondes, entre l’extérieur (l’ouvert) et l’intérieur (le clos), entre le dehors et le dedans: le seuil est étape décisive semblable à une initiation. Le seuil est aussi cette ligne de démarcation d’une intrusion, car l’hospitalité est intrusive, elle comporte nolens volens une face de violence, de rupture, de transgression, voire d’hostilité. Le seuil marque une frontière, un passage, et son franchissement implique tacitement pour l’invité l’acceptation des règles de l’autre. La littérature est le vrai geste de toute hospitalité: le geste de l’hospitalité est d’abord de mettre à l’écart l’hostilité latente de tout acte d’hospitalité; qu’il soit pauvre, marginal, errant, sans domicile fixe, qu’il soit le fou ou le vagabond, il recèle une menace. Sa position d’extériorité en marque la différence. Le banquet n’est pas seulement un argument littéraire, mais c’est aussi un argument politique, et en tout cas une forme privilégiée du lien social. Brillat Savarin arrive jusqu’à dire que la gourmandise est l’un des principaux liens de la société; c’est elle qui étend graduellement cet esprit de convivialité qui réunit chaque jour les divers états, les fond en un seul tout, anime la conversation et adoucit les angles de l’inégalité 231

conventionnelle. Les banquets ont été toujours considérés comme des réseaux de sociabilité, des écoles de civilité, et des ponts entre l’univers domestique et l’univers culturel, politique, le privé et le public, le profane et le sacré. Dans tout l’Orient on plaçait les banquets au centre de la cité. A Carthage par exemple, le lien entre banquet et culte était explicite. Toutefois, banqueter n’est pas sans risque: il arrive que des repas d’inauguration culturelle ou littéraire, de réconciliation entre rivaux ou adversaires tournent mal. La littérature arabe est surtout une littérature de désir, un désir jusqu’à l’épuisement. Le désir est précisément derrière chaque syllabe, vocale, derrière chaque action linguistique; il prend mille figures, de l’amour à la soif de connaître, de la pulsion au manque, du désir de Dieu à celui de la chair, de l’amour du pouvoir à celui des belles choses et des belles Lettres. Toute la littérature arabe ou presque, tourne autour du problème de l’Autre, qui rejoint celui de l’interdit et de son rôle dans le fonctionnement du désir. Je dirais qu’à chaque fois que je lise un poème arabe, un texte, un conte, je me rends compte que le désir est surtout celui de la non-satisfaction du désir, le désir de lecture, le désir de rester ouvert! Plus tu lis, plus tu désires lire et relire encore! Devant tout texte de littérature arabe, je sens cette forte envie de déshabiller mieux, au-delà. Je sais fort bien que Gargantua ne serait pas d’accord, lui qui disait qu’il faut “outrepasser” son désir: désirer le désir lui-même, car la connaissance réside tout d’abord dans le mouvement sans terme de désir. Montaigne quant à lui, maintient le désir vivant, en lui imposant un suspens indéfini: l’assouvissement n’est pas son lieu. Chez Du Bellay, le désir peut encore exprimer le rêve d’une participation. Mais il n’ y a pas seulement le désir, mais le regard, l’oeil, et surtout le corps. «On lave le visage, les mains, les avant-bras jusqu’aux coudes, on se passe la main droite mouillée sur la tête, enfin on se lave les pieds». Ainsi commence légèrement la prière musulmane. L’eau est la première sépération; l’opposition pur/impur hiérarchise le corps et les parties du corps. Cette «eau» me fait penser à Hèlène Cixous, qui disait approximativement– si je me rappelle bien - «J’ai soif, et l’écriture jaillit». Nous tous, dans l’écriture, nous sommes comme ces poissons dans l’eau, comme les sens dans nos langues et la transformation dans nos inconscients. Dans la littérature arabe, le corps est la mesure de toute chose. Il est unité de poids, unité de mesure, unité de densité. Ses liens avec l’espace vont au-delà des éléments observables, favorisant ainsi l’instauration d’une mythologie corporelle dans laquelle les ésotéristes ont pu allier, terme à terme, diverses symboliques: tellurgique, aquatique, cosmologique, as232

trale, etc. Dans le Coran, certains parties du corps (mains, yeux, jambes) sont personnalisées; elles y jouent un rôle de témoin ou de justicier (Sourate xxiv, 24). Il y a toute une philosophie du corps dans l’adab:le corps en mouvement, celui qui va vers la prière et l’appel à la prière qui est un appel du physique; l’eau, le corps, le sacré; le corps et sa relation avec l’humide, le bain maure, labyrinthe morphologique de l’espace; le corps et sa relation avec l’eau, valeur transcendantale; le règne de l’eau et sa marque culturelle; la cité charnelle et sa dynamique corporelle, à savoir l’équation de la corporalité et de la spatialité dans les écrits d’Ibn Arabi et de sa bien-aimée. Cette relation étroite entre l’écriture et le corps est un phénomène inhérent à la littérature arabe depuis sa naissance. Aujourd’hui, elle représente une particularité distinctive des textes de beaucoup d’auteurs femmes. Il s’agirait de cerner cette chair linguistique et la rattacher à la vie de l’écriture, à sa respiration, parce que nous écrivons au-dessus de nous-mêmes, hors de nous-mêmes, et c’est cela qui est épuisant. La respiration est une véritable nutrition; respiration comme assimilation primordiale qui vitalise; respiration comme souffle qui désigne symboliquement la vie du corps et de l’esprit. Mais à part la respiration et le souffle, il faut suivre le cours du sang d’encre, collaborer magiquement avec le chant du graphique de la langue, découvrir comment la langue fait et se fait chair, mais surtout suivre la ligne des corps de ces écrivains arabes. Leurs textes sont évidemment engagés dans le corporel, mais ils ne se situent pas dans le sacré, ou mieux, dans une tentative de sacralisation du procédé scriptural ou de la vie en tant que telle. Dans la symbologie arabo-musulmane, le sang est symbole de vie et de mort; il est à la fois une marque et une contre-marque: en tant que marque, il a pour fonction de signifier l’entrée de la jeune femme dans sa vie de femme menstruée et rappelle sa fécondabilité. Le sang est un document social, et peut être contre-marque: l’écoulement d’un peu de sang corrélé à la naissance d’un bébé signifie que la naissance n’est pas virginale. Philosophiquement, le sang a sa propre éloquence, puisqu’il nous enseigne combien le langage symbolique ne dit pas la réalité mais sa propriété ou ses effets. Le sang comme l’avant-pays, le prétexte de toute écriture, la musique des viscères et le secret du corps. Parce que la pensée et l’écriture n’ont pas d’autre lieu de naissance, ni d’autre espace pour se déployer, il faut donc réinvestir le corps, le rappeler, lui donner une dignité, l’installer au centre, au coeur de chaque phrase et le placer derrière chaque mot écrit. Une idée se forge toujours dans l’ombre et les plis du corps; elle se nourrit de lui, de ses forces, de ses faiblesses, de ses énergies, de ses défaillances. 233

Dans la poésie arabe, l’amour fusionne presque toujours avec la langue, devenant parfois «exercices de prononciation», de rythme, de phrasé ou encore des «mots mouillés» des langues inconnues. La langue devient ce mouvement de l’inconnu, la dispersion de l’être-souffle; les phonèmes se métamorphosent souvent en phèmes, pour obtenir ce rouge tant désiré, un rouge qui n’a aucune envie de posséder, d’acheter, ou de payer. C’est là que la langue devient désir, abri magique, lieu où on expédie tout texte pour le faire recommencer. Mais ce projet de faire signifier le corps et de le rendre le protagoniste d’histoires et de la scène des histoires, n’est pas encore fini, et ne finira jamais. Quand le corps manque, nous ne voyons que ses vêtements. La littérature arabe éloge sans cesse la répétition, bien avant Deleuze et Guattari. Il ne sert à rien de composer par exemple des vers qui ne feraient que répéter d’autres vers. Que seraient des vers qui se désolidariseraient et se dissocieraient des vers anciens? Que serait une parole non répétitive? L’invention absolue, qui ne comporterait aucune dose de répétition, n’enfanterait-elle pas une parole étrangère? Ne serait-elle pas enfin de compte, un mirage mortel, la ruine de toute parole? La parole n’est nulle part sinon dans sa répétition, dans la continuelle usure de sa répétition. Pour que la source tarisse – comme disait le grand poète Antara – il faut qu’elle coule, qu’elle gaspille ses eaux, qu’elle se sacrifie et s’épuise. Une parole qui ne se répéterait pas s’appauvrirait, se rétrécirait, mourrait d’inanition et d’abandon. La répétition est garante de la vie de la parole, elle en est l’essence. Plus on répète la parole et plus elle se dilate et s’épanouit; la profération qui la tue est celle qui la ressuscite. A l’origine, il y a la répétition; aussi loin que l’on remonte dans le passé, on observe une reprise continuelle de la parole. De ce point de vue, ancêtres et héritiers logent à la même enseigne; l’héritier ne doit donc pas se sentir à la charge de ceux qui l’ont précédé: il ne leur doit que ce qu’ils doivent eux-mêmes à d’autres prédécesseurs. La littérature arabe c’est surtout la cure de la langue, le soin et le choix des mots. Les poètes arabes se réfèrent par exemple aux lettres comme à des formes humaines: la lettre bê représente le grain de beauté de la bien-aimée; la lettre mê fait penser parfois à la bouche, parfois à l’oeil. Les lettres et les combinaisons de lettres suggèrent différentes images non seulement par leur forme, mais aussi par la position qu’elles occupent – à l’initiale des mots clés (ce furent les mystiques surtout qui développèrent ce type de symbolique). Dans l’histoire de la littérature arabe, l’Espagne maure offre les plus ingénieuses et les plus nombreuses métaphores ayant comme source l’écriture. D’ici, elles passent en Europe où 234

elles deviennent, selon Curtius, un modèle d’inventivité métaphorique9. Comme l’écriture doit immortaliser ce qui est à immortaliser, il n’est pas donc étonnant que l’amour suggère au poète andalou des métaphores d’inspiration graphique: il écrit ses vers d’amour sur les couches de l’air, de peur de voir brûler son papier et sa plume. C’est toujours l’Espagne maure qui nous offre une métaphore significative de l’écriture, censée condenser l’idée même de symbole, car elle relève et dissimule en même temps. Certes, toute écriture a, dans une certaine mesure, ce caractère symbolique, mais c’est surtout l’écriture arabe qui participe à la création de l’idée de symbole: en notant seulement les consonnes qui forment la racine, et en laissant le choix des voyelles au gré du lecteur, elle dévoile et masque à la fois, et ouvre ainsi la voie à l’intuition issue de la connaissance. Pour Louis Massignon, cette “vie vocale” qu’a la langue chez les Sémites est d’une grande beauté, mais elle est difficilement comprises par les non-Sémites10. Ce type d’écriture est parfaitement adéquat non seulement au moule de la langue, mais aussi à l’esprit arabe – et sémite en général –, lequel ferait preuve d’une grande capacité d’abstraction: ce n’est pas par hasard – ajoute Massignon – si le X algébrique nous vient des Arabes, plus exactement de la notation andalouse du mot sh(ay) “chose”, “objet”, “quelque chose”, ou “rien” dans les propositions négatives. Toute une perspective culturelle se rattache à cette façon d’écrire, chose que ne peuvent pas comprendre ceux qui, étrangers à la culture arabe, prônent avec désinvolture l’introduction de l’alphabet latin. Mais c’est surtout le mot qui importe le plus. Le mot, qui sonne comme “mout” (“mort”) n’est jamais lancé en l’air; ses compositions lyriques ont eu dans le monde arabe le même retentissement que les vers d’Homère dans la civilisation grecque. Le mot qui en vint à désigner en arabe «l’écriture» (Kitaaba) provient d’une racine qui signifie, à l’origine, «rassembler», «joindre», «agencer». A une date qu’il est difficile d’établir avec exactitude, mais qu’il n’est probablement pas antérieure au VIII siècle, ce mot acquiert aussi le sens spécialisé de «composition en prose». Corrélativement, le participe actif dérivé du radical respectif, kaatib, qui désignait le «scribe», le «secrétaire», commence à désigner aussi «l’écrivain», «le prosateur», en s’opposant, pour ainsi dire, au «poète». Ce qui est vraiment frappant dans la littérature arabe est que l’écriture est un devoir: 9 Cfr. E.R. Curtius, La littérature européenne et le Moyen Age latin, Paris, Seuil, 1956. 10 L. Massignon, in N. Anghelescu, Langage et culture dans la civilisation arabe, Paris, l’Harmattan, 1995, p. 50.

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Notre devoir est de faire pour ceux qui viendront après nous ce que nos prédécesseurs firent pour nous. Car nous trouvâmes plus de science qu’ils en trouvèrent, tout comme ceux qui viendront après nous en trouveront davantage par rapport à nous. Qu’attend donc l’érudit pour étaler au grand jour son savoir, qu’est-ce qui empêche le serviteur de la vérité de s’adonner sans crainte à la tâche qui lui incombe, maintenant que le mot est devenu possible, que les temps sont doux, que l’étoile de la prudence et de la peur s’est éteinte, que souffle un vent favorable à l’étude, que le bafouillage et l’ignorance n’ont plus cours et que l’éloquence et la science circulent librement sur le marché11.

La littérature est surtout collaboration, transmission, investiture, appel et rappel. Collaborer c’est communiquer par l’intermédiaire d’au moins quatre canaux principaux: la parole proférée (lafdh), l’écriture (khatt), le nœud (aqd) et le geste indicateur (ichaara). A ceux-ci il faudrait ajouter un cinquième qu’on pourrait surnommer «le langage des objets»: les objets sont apparemment des corps «muets», mais ils fournissent des témoignages, des preuves, à ceux qui savent «les faire parler». Chacun de ces moyens de communication s’adressent à un de nos sens: la parole à l’ouïe, le geste à la vue et au toucher; l’écriture est un «signe» (daleel) qui indique les «choses nécessaires non présentes»; elle est le lien qui unit l’homme à ses semblables, elle est la dépositaire de ce que nous voulons arracher l’oubli. Ainsi, la science du «calcul» (al hisaab), si nécessaire à l’homme, se serait-elle perdue s’il n’y avait pas eu l’écriture des indiens; de même, d’autres sciences auraient connu un sort identique. La mémoire de l’homme est courte, dit Al-Jaahidh, et, si la parole, le mot proféré, servent à ses besoins immédiats, c’est l’écriture qui répond à ses besoins éloignés. Pourtant, ce n’est pas l’écriture que l’on met au premier plan, car le besoin de parler est permanent, stable, certain, tandis que la plume ne devient nécessaire que «pour l’absence et pour remplacement». Cependant, la plume a plus d’indépendance, elle «se suffit à elle-même, alors que la parole doit souvent être accompagnée du geste indicateur, surtout quand elle se réfère au «particulier le plus particulier». Comme la parole, l’écriture produit des «signes»: la signification, dans les deux cas, se déduit de la répétition – les paroles prononcées s’adressent d’une manière répétée à l’ouïe, et les paroles écrites à la vue. Elles ont été traitées comme signes, «tout comme le rire fut pris pour le signe de la joie et les larmes pour celui de la douleur»12. 11 Al 12

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Jaahidh, Le Livre des animaux, Textes choisis, Damas, 1979, pp. 197-366. N. Anghelescu, op. cit., pp. 56-57.

La littérature est surtout savoir narrer et résister en narrant; dans un de mes derniers articles, je parlais du fait que Les Mille et Une Nuits sont construites à partir de l’exaltation du savoir-faire. Savoir conter, par exemple, signifie «sauver sa vie». Dans Les Mille et Une Nuits qui représentent la contribution de la littérature populaire à la civilisation islamique, il n’existe pas d’échec du discours. Savoir parler entraîne automatiquement le succès. Dans tout discours littéraire, la lettre demeure un élément important lors de la réception des discours, aussi bien les discours prononcés, que les discours transcrits. Eviter une lettre, c’est éviter tous les mots qui la contiennent. La clef du déchiffrage des discours réside dans une lettre absente et omniprésente. Eliminer une lettre de son écriture est une chose relativement aisée, l’éliminer de la parole est une tentative vouée d’avance à l’échec. On ne châtre pas impunément la langue. J’aurais bien voulu insister sur la relation langue-littérature, la place des études linguistiques et leur cadre scientifique, la force mythique dans la langue et dans la parole sur la langue, et enfin la pensée linguistique arabe face aux contraintes de l’histoire et la nécessaire évolution culturelle. J’aurais voulu analyser aussi la place de la langue dans la société, sa valorisation dans la littérature et son interprétation “par la masse des sujets parlants et des grammairiens!” Ce travail est encore un projet.

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Su alcuni possibili criteri per distinguere le verità della scienza e le verità della letteratura Stefano Brugnolo

Il primo assunto da cui parto è il seguente: la letteratura parla del mondo, di noi e non di se stessa, come pretenderebbero certi teorici dell’intertestualità e dell’autoreferenzialità. Per spiegarmi meglio voglio citare la risposta che Stefano Agosti ha dato alla domanda A Che cosa serve la letteratura?: «apparentemente non serve a nulla, se non a soddisfare il narcisismo del Soggetto che la pratica […]. In realtà essa adempie a un compito ben preciso: quello di saggiare la somma di virtualità immanenti al linguaggio, nell’ambito della lingua in cui questo si incarna […]. È il luogo perenne di sperimentazione delle possibilità di una lingua naturale, a volte portata sino al limite del sistema e anche al di là»1. All’opposto di Agosti io penso che la letteratura sia una forma di conoscenza del mondo reale. Va da sé che la letteratura lavora con il linguaggio e ne fa un uso “sperimentale”, ma tale uso non è il suo fine ultimo, non può essere il fine in sé di quello che resta pur sempre un atto comunicativo teso a mediarci un messaggio che si riferisce a qualcosa d’altro. In altre parole, credo sia più giusto dire che la letteratura attraverso un uso speciale del linguaggio ci comunica immagini originali e perspicue del mondo. Per spiegarmi cito Proust, che, reagendo alle critiche che Albert Thibaudet aveva rivolto a Flaubert, sostiene: «Fui stupefatto, lo confesso, di vedere trattare di poco dotato per scrivere un uomo che, per l’uso interamente nuovo e personale che ha fatto del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, ha rinnovato la nostra visione delle cose quasi quanto Kant, con le sue Categorie, le teorie della Conoscenza e della Realtà del mondo esterno»2. Come si vede Proust non nega che lo specifico del testo 1 2

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F. Fiorentino (a cura di), A che cosa serve la letteratura?, Taranto, Lisi, 2007, p. 7. M. Proust, À propos du style de Flaubert, in Contre Sainte-Beuve. Pastiches et

letterario sia proprio un certo uso speciale della lingua, tuttavia egli ci dice anche che tale uso ci permette di «rinnovare la nostra visione delle cose». Perciò, quando noi diciamo che un’opera è bella non ci stiamo mai riferendo a valori solo formali, estetici, linguistici bensì alla sua forza cognitiva, alla sua capacità di farci vedere e sentire parti e aspetti del nostro mondo che altrimenti non avremmo saputo e potuto vedere e sentire. Tanto vale qui citare ancora Proust che nel Temps retrouvé ha scritto cose memorabili sulla verità dell’arte: «Invece, la grandezza dell’arte vera […] era di ritrovare, di riafferrare e di farci conoscere quella realtà lontani dalla quale viviamo, rispetto alla quale deviamo sempre di più a mano a mano che prende spessore e impermeabilità la conoscenza convenzionale con cui la sostituiamo – quella realtà che rischieremo di morire senza aver conosciuta e che, molto semplicemente, è la nostra vita»3. In effetti, nessuno scrittore ha mai insistito tanto come Proust sul valore cognitivo dell’arte: per lui tutta la grandezza della letteratura sta nella sua capacità di penetrare strati opachi («spessi e impermeabili») della realtà. Ecco perché quando noi diciamo che un’opera è bella stiamo allo stesso tempo dicendo che essa è vera. E il valore di questa “verità” dipende dal suo essere normalmente inosservata, trascurata. Attraverso la letteratura infatti noi possiamo accedere, magari per squarci, a zone dimenticate, negate, tradite e rimosse, che corrispondono a quella che sempre Proust chiama «la vera vita». C’è dunque una conoscenza falsata se non falsa, e comunque di seconda mano, della vita, che potremmo fare coincidere con l’ideologia, intesa qui nel senso più ampio del termine come quel discorso che gli uomini tengono a se stessi per difendersi da verità sgradevoli e pericolose per la stabilità individuale e collettiva; e c’è una conoscenza autentica, che è quella permessa dall’arte: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura»4. E si badi bene: la verità a cui allude Proust non ha niente di esoterico, di oracolare, di metafisico, è una verità tutta e solo umana, terrena, essa coincide infatti con la «nostra vita». L’arte però non deve essere confrontata solo all’ideologia ma anche ai discorsi scientifici e cioè a quei discorsi rigorosi e logici che mirano anch’essi a dire la verità sugli uomini. Ora, se tra ideologia e arte c’è conmélanges suivi de Essais et articles, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1971, p. 586. 3 M. Proust, Il tempo ritrovato, trad. it., di G. Raboni, Milano, Mondadori, 1995, p. 249. 4 Ibidem.

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trapposizione, tra scienza e arte c’è complementarità. Certo, la conoscenza a cui giunge una poesia o un romanzo non è di tipo proposizionale, e cioè non viene esposta alla maniera di una dimostrazione logica, non è di tipo argomentativo e sistematico. Essa si avvale di altre modalità. Quali? Intanto per cominciare diremo che, se è vero che parla del mondo, ne parla sempre in forma indiretta, trasposta. Voglio qui citare Mario Vargas Llosa che ha scritto un saggio che si intitola significativamente La verdad de las mentiras. Lo scrittore sostiene che i romanzi sono menzogne che dicono la verità. Sono menzogne perché sono finzioni ma sono finzioni che ci permettono di accedere a verità che altrimenti non riusciremmo ad «afferrare» in modo altrettanto intenso e pregnante: «Una finzione riuscita incarna la soggettività di un’epoca e perciò i romanzi, anche se, confrontati con la storia, mentono, ci comunicano alcune verità elusive ed evanescenti che sfuggono sempre a coloro che descrivono scientificamente la realtà»5. Per esempio la Metamorfosi di Kafka è certamente una «menzogna» (sappiamo che gli uomini non si trasformano in immondi insetti da un momento all’altro), eppure tale menzogna ci racconta alcune verità decisive su certe esperienze e zone limite dell’umano. Dobbiamo anzi dire che ci sono fenomenologie che ci sfuggirebbero del tutto, che non sapremmo nemmeno nominare se non ci fossero gli scrittori. Auerbach a sua volta ha dimostrato che le grandi opere d’arte ci fanno vedere aspetti della realtà di cui prima non eravamo coscienti. Per esempio: «Ma è innegabile che l’opera di Dante ha posato per la prima volta lo sguardo all’universale e molteplice realtà umana»6; oppure, a proposito di Zola: «quanti prima di lui hanno veduto un caseggiato popolare come l’ha veduto lui nel capitolo 2 dell’Assommoir? Pochi, direi: forse nessuno»7. Dove il vedere significa appunto dare una forma e dunque un senso a percezioni che prima erano vaghe, imprecise, sparse: il grande condominio popolare c’era già come pura cosa in sé, ma solo grazie a Zola lo realizziamo come una dimensione specifica e speciale del mondo moderno. Ma citiamo ancora Vargas Llosa: senza il romanzo «vi sarebbero pazzi, vittime di paranoie e di deliri di persecuzione, e persone dall’appetito smodato e dagli eccessi smisurati, e bipedi che godrebbero nel soffrire o nell’infliggere dolore, è certo. Ma non avremmo imparato a vedere dietro quei comportamenti estremi, in contrasto con la nostra normalità, aspetti 5

M. Vargas Llosa, La verdad de las mentiras, Madrid, Punto de Lectura, 2007, p. 26. 6 E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. it., Torino, Einaudi, 1956, vol. I, p. 239. Il corsivo è mio. 7 Ivi, vol. II, p. 293. I corsivi sono miei.

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essenziali della condizione umana, vale a dire di noi stessi, che soltanto il talento creatore di Cervantes, di Kafka, di Rabelais o di Sacher-Masoch ci ha rivelato»8. Perciò, invece di vedere un pulviscolo di fenomeni ed eventi grazie a questi scrittori possiamo ora cogliere dei nessi stringenti, delle totalità significative. Diciamolo in un altro modo: prima di Kafka esistevano certo situazioni kafkiane ma esse ci sfuggivano, è solo dopo Kafka e grazie a Kafka che possiamo e sappiamo ri-conoscerle, e addirittura qualificarle con un singolo aggettivo. E cioè riconoscerle in noi, nella nostra comune esperienza del mondo. Io però, diversamente da Vargas Llosa, preferirei, invece che di menzogne, parlare di figure. È questo uno dei punti fermi delle ipotesi teoriche sulla letteratura avanzate da Francesco Orlando: «dubito della possibilità di definire la letteratura su basi qualitative, proprio perché credo che il criterio pertinente non possa che essere il tasso di figuralità (analizzabile); e non per esempio la destinazione, puramente letteraria o magari del tutto eterogenea, di un testo»9. Mentre i discorsi referenziali, e tra essi massimamente il discorso scientifico, descrivono il mondo in termini tendenzialmente neutri, oggettivi, trasparenti, ciò che in termini approssimativi chiamiamo discorso letterario (e che non equivale unicamente alla letteratura finzionale) è quel discorso che si caratterizza per essere evidentemente, significativamente figurale. E cioè quel discorso che altera la relazione di trasparenza tra significante e significato. Secondo tale approccio è da considerare letterario quel testo che non può, non deve e non vuole essere preso troppo alla lettera, che significa qualcosa d’altro, qualcosa di diverso e perfino qualcosa d’opposto da quel che apparentemente e immediatamente afferma. Quando noi leggiamo o ascoltiamo tali discorsi automaticamente li riduciamo al loro grado zero, e cioè li portiamo da un piano figurale e denso a un piano proposizionale (di proposizioni chiare e distinte). Ripeto, lo facciamo automaticamente e intuitivamente, senza necessariamente portare a coscienza tali operazioni mentali. Anzi spesso tali traduzioni sono inconsce e non del tutto definite e definibili. Per esempio, la metamorfosi in insetto di Gregor Samsa con tutto ciò che ne consegue è una macrofigura che sta per qualcosa d’altro; si tratta infatti di una vicenda che ci tocca a livelli molto profondi e suscita in noi reazioni di identificazione, che ci dice qualcosa. 8 M. Vargas Llosa, È pensabile il mondo moderno senza il romanzo?, in Il romanzo, a cura di F. Moretti, vol. I, Torino, Einaudi, 2001, p. 12. 9 F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1987, p. 65.

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In questo caso però la traduzione può risultare difficile o anche impossibile da stabilire in modo univoco, esplicito. Se a un gruppo di persone venisse chiesto che cosa rappresenta per ognuno di loro quella vicenda otterremmo certo risposte diverse ma in qualche modo analoghe, in qualche modo congruenti. In altre parole, anche se ci è impossibile stabilire cosa veramente ha voluto dire Kafka ciò non toglie che noi sentiamo che ha illuminato lati importanti della condizione umana che evidentemente riguardano, interessano tutti, che a qualche livello sono le stesse per tutti. Anche in questo caso controverso vale perciò la pena concludere che de te fabula narratur. Ma non è solo nei libri che noi ci imbattiamo in queste altre verità. La vita quotidiana è piena di figure, e cioè di immagini, di metafore, di giochi di parola, di battute e motti, di narrazioni, e perciò dobbiamo dire che la nostra vita è piena di letteratura, talvolta buona, talvolta cattiva, ma comunque letteratura. Se si adotta questa prospettiva non si può non concludere «che in pratica ci sarebbe più letteratura che non-letteratura nella massa totale dei discorsi umani»10. Giungere a questa conclusione ci fa forse sentire simili al borghese gentiluomo di Molière, a quel Monsieur Jourdain che quasi non credeva alle sue orecchie allorché gli fu detto che parlava in prosa: «Par ma foi! il y a plus de quarante ans que je dis de la prose sans que j’en susse rien, et je vous suis le plus obligé du monde de m’avoir appris cela»11. Anche noi “facciamo” da sempre letteratura «senza che ne sapessimo niente». E credo che sia importante diventare coscienti di ciò. Penso infatti che dovremmo liberarci di un’idea ristretta di letteratura per adottarne una più larga, che comprenda anche l’oralità (o anche quelle dimensioni tra lo scritto e l’orale rese possibili dall’elettronica). Se lo facciamo, capiremo che anche attraverso questa letteratura diffusa noi cerchiamo di comunicarci l’un l’altro pezzi di verità altrimenti «elusivi ed evanescenti». Capiremmo cioè che la letteratura riguarda tutti, e che abbiamo bisogno di “fare letteratura” così come abbiamo bisogno di respirare. Francesco Orlando, per esempio, ha potuto vedere nell’opera freudiana dedicata ai motti di spirito un modello esemplare di interpretazione letteraria proprio perché Freud ci ha mostrato come attraverso quei “giochi di parola” apparentemente tanto comuni noi afferriamo e illuminiamo quasi per caso, quasi senza rendercene conto, certe contraddizioni profonde della nostra condizione sociale ed esistenziale. Proprio come fanno a livelli più eminenti e meno labili le grandi opere scritte. 10

Ivi, p. 120. «Senti un po’! Sono più di quarant’anni che dico della prosa senza che ne sapessi niente, e io vi sono gratissimo di avermelo insegnato». 11

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Ad un certo punto per esempio Freud analizza alcuni motti di cui sono protagonisti i sensali di matrimonio. Sono motti in cui il sensale si lascia scappare la verità che invece dovrebbe nascondere per portare a compimento l’affare. Per esempio: «Quando gli presentano la fidanzata, il promesso sposo è sgradevolmente sorpreso. Tira da parte il sensale e gli fa le sue rimostranze a bassa voce. “Perché mai mi ha fatto venire qui? – lo rimbrotta – È brutta, vecchia, guercia, ha i denti storti e gli occhi cisposi…” – “Parli pure a voce alta – lo interrompe il sensale – è anche sorda”»12. Per Freud esiste una «facciata comica» del motto per cui noi ridiamo della stupidità del sensale, dei suoi automatismi verbali, che lo portano a dire cose contrarie ai suoi interessi. Egli però si domanda subito come mai il motto se la prenda con individui immeritevoli di tali attacchi: «sono avversari degni del motto, questi? Non accade piuttosto che il motto prenda di mira i sensali soltanto per colpire qualcosa di più importante?»13. In effetti, continua Freud, i sensali fungono da «capri espiatori» di un attacco che in realtà si rivolge «a istituzioni, [ai] personaggi [che] ne sono i portatori, [a] proposizioni della morale o della religione, [a] concezioni della vita»14. Intesi così, i motti sui sensali mirano a criticare l’istituzione del matrimonio combinato e tutti coloro che ne sono complici: «Tutto il ridicolo ricade sui genitori che la storia aveva appena sfiorato e che giudicano lecito un simile imbroglio soltanto per dare marito alla figlia, sulla pochezza miseranda delle ragazze che si lasciano sposare con tali maneggi, sull’indegnità di matrimoni conclusi dopo tali preliminari»15; e naturalmente ricade anche sul pretendente che si dimentica che «l’unica qualità che renderebbe sopportabile il matrimonio […] sarebbe la reciproca simpatia e la volontà di trovare un reciproco adattamento»16. Come si vede esiste un effetto di espansione semantica del motto che, mentre apparentemente colpisce obiettivi limitati, mette in causa ordini costituiti e credenze vigenti di più grande portata. Sia chi conia il motto che chi lo ascolta può anche non esserne del tutto cosciente ma è certo che solo questo meccanismo spiega il successo di un buon motto, la sua capacità di fare echeggiare il senso dentro di noi. E questa “regola” può essere estesa a tutte le opere letterarie valide: esse in prima istanza riguardano, si riferiscono, parlano di oggetti specifici 12 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Opere complete, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, vol. V, p. 56. 13 Ivi, p. 94. 14 Ivi, p. 97. 15 Ivi, p. 93. 16 Ivi, p. 96.

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e limitati ma in definitiva sempre evocano, sollevano questioni di più grande portata. Ma tornando al nostro motto sul sensale ecco come Freud ne espande ulteriormente il senso e ci mostra come, al di là dell’attacco contro i matrimoni combinati, esso evochi anche una meta-verità, per così dire; questa: «chiunque in un momento di disattenzione si lascia sfuggire la verità, in realtà è contento di porre termine alla finzione. È un concetto psicologico giusto e profondo. Senza un tale consenso interiore nessuno si lascerebbe sopraffare dall’automatismo che porta alla luce la verità. In tal modo però il personaggio ridicolo dello Schadchen si trasforma in una figura simpatica e degna di commiserazione. Come dev’essere contento quest’uomo di poter finalmente liberarsi del peso della finzione, sfruttando la prima occasione che gli si offre per poter proclamare fin l’ultimo lembo della verità»17. In un certo senso dunque questi motti mettono in scena il meccanismo del ritorno del represso allo stato puro e ci dicono come e quanto sia importante nella vita liberarsi «dal peso delle finzioni» e delle ipocrisie, e dire finalmente la verità negata. Insomma, quel che qui Freud sottolinea è che non solo il motto attacca una istituzione e ne svela le miserie (si tratterebbe in questo caso di una verità importante ma ancora “parziale”), esso ci fa anche accedere a una verità “assoluta” che riguarda cioè la condizione umana in generale. Come si vede, il piacere che ricaviamo da questi motti non ha mai solo a che fare con lo sfogo, l’affermazione, l’espressione fine a se stessa di un contenuto tendenzioso, ma anche con la comprensione, con l’intelligenza, con un «portare alla luce la verità». Quel che Freud ci fa comprendere è che parte importante del piacere del motto consiste proprio in ciò: nel poter rischiarare zone in ombra della nostra vita (che è poi quel che fa tutta l’arte valida, scritta o orale che sia). E ci dice anche che lo fa sempre in modo indiretto, astuto, figurato. Se infatti le cose che il motto esprime in modo obliquo le esplicitasse non ci farebbe più ridere e anzi forse ci farebbe indignare. E anche in questo è simile alla grande arte che può proporre modi di vedere e pensare alternativi a quelli cosiddetti normali solo perché li traspone e trasfigura sempre, li “gira e li volta”, fino al punto che certe volte non ci accorgiamo che ci sono state comunicate immagini del mondo tanto scandalose e opposte alle nostre convinzioni coscienti. E spesso non se ne accorge nemmeno l’artista. Solo così, infatti, è stato possibile sopportare e far sopportare quelle visioni scandalose, quelle contro-verità enunciate sotto traccia dai grandi capolavori: essen17

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Ivi, p. 95.

do solo parzialmente consapevoli di esse. Naturalmente c’è sempre un margine di pericolo, c’è sempre la possibilità che chi ascolta o legge porti a coscienza tutta la portata di quelle contro-verità e s’irrigidisca e protesti. Nella vita quotidiana ciò accade quando, dopo aver detto una battuta, ci accorgiamo o temiamo che qualcuno se la prenda a male, e allora dobbiamo aggiungere un commento, qualcosa come «scherzavo» (che equivale a espressioni quali «in fondo è soltanto un romanzo», «in fondo è soltanto un film»). In effetti scherzavamo, ma forse il nostro interlocutore non ha tutti i torti nel sentire che dietro la “facciata” scherzosa colpivamo un obiettivo delicato (ecco perché bloccherà il riso sul nascere: perché ridere significherebbe rendersi complici delle intenzioni più o meno occulte del motto). Così come non hanno tutti i torti i censori allorché imputano all’arte intenzioni pericolose: i censori prendono (troppo) sul serio l’arte, la trattano come un qualsiasi altro discorso affermativo sul mondo, mentre di solito chi legge o ascolta mantiene la consapevolezza che comunque gli artisti, siano essi coniatori di motti o romanzieri, mentono e cioè “scherzano” e cioè giocano, dicono-e-nondicono. E perciò di solito non sono ritenuti responsabili di quanto affermano e “non pagano pegno”. E tuttavia, sia pur giocando, sia pur dicendo il falso… dicono il vero. In questo senso un’immagine icastica, una battuta azzeccata, un romanzo appassionante, un poema, una tragedia ci procurano anche e sempre un piacere cognitivo, diverso ma simile a quello che ci procura un testo scientifico allorché ci espone in termini chiari, distesi, logici una immagine del mondo che finora non avevamo preso in considerazione ma sulla quale da quel momento in poi dovremo prendere posizione in modo univoco. Il motto invece, e l’arte in genere, ci comunica sì “immagini vere” del mondo ma sono immagini cifrate che intendiamo solo in parte e come immersi in uno stato di semicoscienza, che è poi quello che caratterizza la ricezione dei testi letterari in genere: noi non siamo mai pienamente consapevoli di quelle verità che pure non possiamo non cogliere a livello intuitivo (da qualche parte in noi sentiamo che sì, è vero, gli uomini, tutti gli uomini possono subire metamorfosi simili a quella che subisce Gregor Samsa, anche se sappiamo che tutto ciò su un piano di realtà è del tutto inverosimile). E che noi possiamo accedere a queste verità solo in una condizione di semiconsapevolezza si spiega anche e perché si tratta di verità in sé contraddittorie e ambivalenti, che sfuggono alla logica e al principio di non contraddizione a cui invece si attengono i discorsi rigorosi; si tratta 245

perciò di verità che possono ben difficilmente essere espresse in termini «chiari e distinti». Faccio un esempio classico e facile, cito i famosi versi di Catullo: «Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. / Nescio, sed fieri sentio et excrucior»18. Per noi questi versi sono diventati proverbiali e risaputi e così non ci accorgiamo che essi violano in modo patente il principio di non contraddizione che è alla base di qualsiasi argomentazione. Certo, noi possiamo tradurre questa poesia nel linguaggio chiaro e distinto della psicologia scientifica, ma nessuna traduzione potrà restituirci il cortocircuito logico potentemente veicolato dall’ossimoro iniziale. Ed è proprio grazie e attraverso questa figura che noi di colpo intravediamo una verità che non riguarda solo Catullo ma tutti noi. Lo dico con un altro esempio meno circoscritto: il chisciottismo come modalità di pensiero e tipo di approccio alla realtà è certo suscettibile di una descrizione in termini distesamente scientifici, per esempio in termini di sociologia, storia della cultura, o psicopatologia, e tuttavia nessuna descrizione sistematica del fenomeno avrà mai lo stesso impatto potente che esercita su noi il romanzo cervantino. Riformuliamo dunque così l’assunto da cui siamo partiti: la letteratura ci fa scoprire verità sfuggenti o evanescenti che non potrebbero essere dette altrimenti. O meglio: che potrebbero essere dette altrimenti ma allora solo traducendole, riducendole, scomponendole, sciogliendole in una serie di proposizioni sequenziali e logiche. A quel punto esse però sarebbero ancora e non sarebbero già più quelle stesse verità. Il punto è che, mentre il contenuto di pensiero di un discorso scientifico è estrapolabile dalla sua forma, il contenuto di pensiero dell’arte fa tutt’uno con la sua forma, e non se ne può dare una estrapolazione in altre parole che non comporti perdite di senso irreparabili. E così, come Freud ha ragione di dire che ogni riduzione-traduzione del motto lo rovina in quanto motto (per esempio non ridiamo più), ogni riduzione-traduzione dell’opera d’arte ce ne fa perdere l’effetto originario (nessuna parafrasi dell’Infinito potrà mai produrre in noi l’effetto che ci fanno quegli specifici versi, quelle specifiche parole in quella specifica sequenza…). Ma allora che verità sono queste strane verità comunicate dalla letteratura? Come già dicevo, esse non sono certo metafisiche bensì tutte e solo umane, relative a quelle contraddizioni di cui è fatto l’uomo e il suo mondo, se noi assumiamo che l’uomo è in sé una contraddizione vivente, una vivente e precaria formazione di compromesso tra tendenze opposte, un essere che 18 «Ti odio e ti amo. Come possa fare ciò, forse ti chiedi. / Non lo so, ma sento che così avviene e me ne tormento».

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appunto ama e odia nello stesso tempo, che trova paradossalmente dolce affogare nell’infinito, che è contemporaneamente A e non A. Questa contraddizione che siamo è molto difficile da accettare pienamente, da sopportare, da dire. All’arte è principalmente delegato questo compito, che è da una parte conservativo (in definitiva serve al mantenimento della specie che ci siano manifestazioni e istituzioni linguistiche che esprimono e alleviano la nostra innata contraddittorietà o illogicità), ma dall’altra potenzialmente eversivo proprio perché l’arte dà voce alla contraddizione irriducibile nello stesso momento in cui mira a limitarla e contenerla. In questo senso l’arte svolge la stessa funzione “conservativa” ma anche “compensativa” del sogno, che per Freud esprime e soddisfa i nostri desideri impossibili ma lo può fare solo deformandoli, riuscendo così ad alleviare le tensioni che le repressioni e le inibizioni ci impongono durante il giorno e nello stesso tempo a proteggere e conservare il nostro sonno: se i sogni lasciassero trasparire troppo il desiderio rimosso che veicolano, il dormiente si sveglierebbe spaventato per la contraddizione che nol consente: «l’angoscia è l’indizio che il desiderio rimosso si è mostrato più forte della censura, che il desiderio ha imposto, o era in procinto di imporre, il proprio appagamento contro la censura. […] Comunemente il sogno d’angoscia è anche un sogno di risveglio; noi siamo soliti interrompere il sonno prima che il desiderio rimosso che è nel sogno abbia imposto il suo pieno appagamento contro la censura. […] Tuttavia talvolta riusciamo a preservare il sonno, anche se il sogno comincia a diventare precario e a volgersi in angoscia. Ci diciamo nel sonno: “in fondo è soltanto un sogno”, e continuiamo a dormire»19. Così fa l’arte che appunto esprime in modo velato, trasfigurato e spostato le nostre contraddizioni, permettendoci di confrontarci con esse senza però svegliarci mai del tutto, senza costringerci ad affrontarle e risolverle nella prassi vitale, poiché «in fondo è solo letteratura». Certo, anche la psicologia, l’antropologia, la storia possono affrontare e trattare quelle stesse contraddizioni e aporie. Anche le scienze umane in genere cercano di raccontarci quel che veramente siamo al di là e al di sotto delle ideologie e dei luoghi comuni. Solo che non tutte le contraddizioni di cui siamo fatti si lasciano trattare nei modi e nelle forme “geometriche” che sono proprie della scienza. O meglio ancora la letteratura ci propone immagini sintetiche e suggestive di quelle realtà intricate e paradossali che il discorso scientifico può affrontare solo cartesianamente e cioè prima scomponendole in parti semplici e poi ordinandole secondo relazioni logiche e univoche. 19

S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere complete, cit., vol. VIII, p.

385.

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Prima di procedere e approfondire quest’ultimo punto vorrei riportare l’opinione di un filosofo della scienza, e cioè citare alcuni passaggi tratti da un saggio di Hilary Putnam che si intitola Literature, Science, and Reflection. Va detto intanto che per Putnam la letteratura e soprattutto il romanzo se producono conoscenza producono conoscenza pratica, cioè morale. In altre parole ancora, secondo lui i romanzi ci aiutano a rispondere alla domanda «come vivere» o, ancor meglio, come sarebbe giusto vivere. Attraverso le vicende immaginarie vissute dai personaggi romanzeschi noi possiamo infatti prendere contatto e confrontarci con certe nostre parti morali (o immorali) e immaginare cosa faremmo noi al loro posto. Si tratta di un modo diversissimo di affrontare le questioni morali ma non incommensurabile con l’approccio che adottiamo quando per esempio leggiamo La critica della ragion pura o altri simili trattati “scientifici”. Cito un passaggio: Mi sembra sbagliato sia dire che i romanzi ci fanno conoscere l’uomo sia dire che essi non lo fanno. La situazione è più complicata di quanto una singola semplice affermazione proveniente dall’una o dall’altra parte non possa suggerire. Per quanto profonde possano essere le conoscenze di un romanziere, esse non possono essere chiamate conoscenza se non possono essere testate. Dire che il lettore sensibile può vedere che le intuizioni psicologiche di un romanziere non sono solo plausibili, ma che esse possiedono un tipo di verità universale, significa ritornare all’idea di una conoscenza ottenuta per via d’intuizione di questioni di fatto empiriche, al Metodo di Ciò che è Piacevole alla Ragione […]. Se leggo Viaggio al termine della notte di Céline, io non imparo che l’amore non esiste, che tutti gli esseri umani sono odiosi e pieni d’odio (nemmeno se – e io sono sicuro che non è così – queste proposizioni fossero vere). Ciò che imparo è a vedere il mondo così come appare a qualcuno che è certo che tale ipotesi risulta vera; come sarebbero le cose se essa fosse vera; come eventualmente qualcuno potrebbe pensare che è vera. Tuttavia, non è corretto dire che non è affatto conoscenza; perché essere coscienti di una nuova interpretazione dei fatti, per quanto repellente essa possa essere, di una costruzione che può essere sovrapposta ai fatti, anche se in modo perverso, è una forma di conoscenza. È la conoscenza di una possibilità. È una conoscenza concettuale20.

20 H. Putnam, Meaning and the Moral Sciences, London, Henley, Boston, Routledge & Kegan Paul, 1978, pp. 88-89.

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Teniamo presenti due punti qui: il primo riguarda la questione della possibilità che abbiamo (o no) di testare le conoscenze morali veicolate dai romanzi; su questo ritorneremo più avanti. Il secondo punto riguarda invece il tipo di conoscenza che possiamo acquisire da testi che ci appaiono parziali, idiosincratici, profondamente pessimisti se non nichilisti. Soffermandomi su quest’ultima questione avrò modo di affrontare subito di seguito la prima. È evidente che Putnam ha scelto un caso limite, ma è altresì evidente che i casi limite sono proprio quelli che ci aiutano a mettere meglio a fuoco i problemi. Per rispondere prendiamo in esame questa volta le obiezioni che Orwell ha posto in una intervista immaginaria a colui che può essere considerato il capostipite degli scrittori misantropi e cioè Swift. Orwell prende in considerazione un passo in cui il virtuoso re Brobdingnag reagisce a quanto Gulliver gli ha appena detto circa il funzionamento della vita pubblica nella sua Inghilterra: Da quanto avete esposto non risulta che da voi per raggiungere una qualsiasi carica sia necessario possedere qualche virtù; e tanto meno che i vostri nobili siano dichiarati tali in base alle loro qualità. I vostri preti non vengono promossi per la la loro pietà o dottrina né i militari per la loro condotta o il valore; né i giudici per la loro integrità, i deputati per l’amore nei confronti del Paese, i consiglieri per la saggezza […] per quel che posso desumere dal vostro racconto, e dalle risposte che con fatica sono riuscito a cavarvi di bocca, non posso fare a meno di concludere che gli inglesi siano la più pericolosa razza di schifosi vermi cui la natura abbia concesso di strisciare sulla faccia della Terra21.

Dopo di che Orwell muove queste obiezioni a Swift: «Le passo il “pericoloso”, lo “schifosi” e il “vermiciattoli”, dottor Swift, però avrei da ridire su quel “più”. “La più pericolosa”. Forse in quell’isola siamo davvero peggiori che nel resto del mondo?»22. Va da sé che la risposta non può che essere negativa: non tutti gli inglesi erano del tipo descritto da Swift, e non sempre, e comunque non più di tutti gli altri popoli e nazioni. Certo. Ma queste obiezioni varrebbero allora anche per le maledizioni che Dante scaglia contro i fiorentini. Se prendiamo alla lettera tali affermazioni e le confrontiamo con quel che sappiamo della realtà 21

J. Swift, I viaggi di Gulliver, trad. it., di C. Formichi, riveduta da E. Krumm e M. Mancuso, in Id., Opere scelte, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1995, p. 150. 22 G. Orwell, Troppo severo con l’umanità. Intervista immaginaria a Jonathan Swift, trad. di G. Bulla in Id., Romanzi e saggi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2000, pp. 1404-1405.

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storica non possiamo che verificarne la parzialità e dunque l’inattendibilità. Non è così però che si leggono Swift (o Dante): è infatti evidente che quando Swift parla genericamente di inglesi in fondo sta parlando di loro ma anche di qualcos’altro e di qualcun altro. All’ingrosso diciamo che sta parlando soprattutto delle nuove classi dirigenti inglesi che lui ritiene essere le principali responsabili dell’ideologia e del sistema politico che attacca: in questo caso allora gli Inglesi intesi come popolo sono il tutto che sta per la parte. Ma io direi anche che parlando di inglesi Swift sta parlando di tutti quegli individui potenti che si arrogano il diritto di decidere per gli altri, e che in nome della loro presunta eccellenza e avvalendosi di nobili e ipocrite giustificazioni agiscono in modo arbitrario e ispirati dal puro interesse: sono loro gli esseri «più pericolosi», e solo casualmente “oggi” sono gli inglesi. In questa seconda accezione gli inglesi ci appaiono come la parte per il tutto, e le affermazioni swiftiane su di loro valgono e possono essere applicate ad altri popoli. Comunque sia, ciò che intendo sottolineare è che la verità di queste e altre proposizioni non è di tipo storiografico o antropologico. Tali proposizioni non possono certo pretendere di essere immediatamente e puntualmente testate. Si tratta sempre di immagini, di figure e cioè di proposizioni che si riferiscono sì al mondo ma in modo indiretto, trasposto. D’altra parte, la letteratura non parla mai (solo) di qualcosa o qualcuno in particolare, come fanno altri discorsi e testi, ma (anche e) sempre di classi di significati che si danno a partire da quel singolo caso preso in considerazione (ricordiamoci quanto scriveva Freud sui sensali di matrimonio come oggetto di un attacco che aveva ben altri obiettivi e portata). In questo senso vale la pena riferirsi alle ricerche dello psicoanalista Ignacio Matte Blanco secondo cui il pensiero inconscio procede proprio così, e cioè mobilita quelle che lui chiama classi logiche a partire però sempre da fatti, eventi ed enti specifici. Matte Blanco ha definito questo meccanismo principio di generalizzazione e lo ha formulato così: «Il sistema inconscio tratta una cosa individuale (persona, oggetto, concetto) come se fosse un membro o un elemento di un insieme o classe che contiene altri membri; tratta questa classe come sottoclasse di una classe più generale e questa classe più generale come sottoclasse o sottoinsieme di una classe ancor più generale e così via»23. In altre parole ancora, dietro o attraverso gli individui che abbiamo davanti vediamo, o meglio sentiamo inconsciamente, «classi logiche» o «insiemi infiniti» 23 I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, trad. it., Torino, Einaudi, 1981, p. 43.

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individuati da una certa caratteristica o «funzione proposizionale»: se per Swift “alcuni” inglesi del suo tempo diventano “tutti” gli inglesi, e se questi ultimi vengono a loro volta definiti gli esseri più schifosi e pericolosi che mai siano esistiti, è perché Swift li sente e ce li fa sentire come «membri» di una «classe più generale», e cioè quella definita da una funzione proposizionale che potremmo esplicitare così: «individui arroganti e prepotenti che fanno i loro interessi mascherandoli con nobili giustificazioni». Va da sé che nel corso del testo questi inglesi swiftiani possono incarnare altre classi generali diverse e simili a quella che ho appena cercato di descrivere (essendo questi inglesi i rappresentanti più (s)qualificati di tutte quelle cattive qualità che per Swift caratterizzavano gli uomini in genere). Ciò che per adesso voglio sottolineare è che nella rappresentazione che ce ne dà Swift gli inglesi perdono la loro specificità e individualità storico-culturale-nazionale – ciò che non accadrebbe mai in un discorso scientifico – e vengono equiparati a tutti gli altri membri che possono entrare a far parte di quella classe o insieme infinito. Ma è poi vero che la perdono del tutto? Va da sé che no, va da sé che se è vero che noi sentiamo che Swift mira ben al di là di un ristretto gruppo nazionale, sentiamo altresì che la sua maledizione ha la forza che ha perché lo spunto glielo avevano dato loro, proprio loro, quegli specifici individui appartenenti alle classi dominanti della sua nazione. È questa combinazione del particolare con il generale che sortisce quell’effetto. Torniamo ancora a Matte Blanco per provare a definire in termini di pensiero inconscio questa combinazione: «Nella scelta di classi e di classi sempre più ampie il sistema inconscio preferisce quelle funzioni proposizionali che in un aspetto esprimono una generalità crescente e in altri conservano alcune caratteristiche particolari della cosa individuale da cui sono partito»24. Per spiegarci meglio e uscendo dalla letteratura diremo che ogni uomo che ama intensamente una donna la vive a livello di emozione profonda come la donna che è tutte le donne, essa acquisisce infatti per lui tutti i valori della femminilità in massimo grado, smette perciò di essere una donna e diventa la donna, o se si preferisce la DONNITÀ, diventa cioè e anzi è la classe generale definita dalla funzione proposizionale “donne desiderabili e amabili”; d’altra parte però ogni amante colorerà poi in modo peculiare questa sua emozione, e lo farà proprio a partire dalla donna specifica che ama. Francesco Orlando ha applicato per primo questi principi allo studio della letteratura, per lui infatti «nell’efficacia di un testo letterario, dunque al momento 24

Ivi, p. 44. Il corsivo è mio.

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della lettura, […] è in gioco la continua formazione di classi, definite da funzioni proposizionali più ampie di quelle che il testo stesso mobilita letteralmente»25. Sempre seguendo questa linea di pensiero lo stesso teorico ha potuto scrivere che un lettore che legga il Gattopardo realizzerà una «espansione del significato» «non necessariamente portata a coscienza», e cioè «una espansione di significato […] dalla individualità della condizione periferica siciliana all’universalità di tutte le condizioni periferiche; da una periferia (se la parola può sintetizzarne altre: provincia, meridione, terra arretrata…) a ciò che, pur restando vivamente individuato, tende a diventare la periferia»26. Se però, come suggeriva Matte Blanco, la nuova classe «conserva alcune caratteristiche particolari della cosa individuale da cui siamo partiti», allora diremo che «una Sicilia assurta a categoria, la Sicilia del Gattopardo, preserva individualità singole e non solo per la loro combinazione»27. Il lettore (giapponese, canadese, statunitense…) che ha dentro di sé, da qualche parte, esperienza e nozione di una propria e specifica condizione periferica, potrà volta per volta appropriarsi immaginativamente della Sicilia del Gattopardo, sentire come simile (e diverso) quel suo proprio specifico vissuto periferico rispetto a quello rappresentato dalla “sicilianitudine” di Tomasi di Lampedusa. A mia volta in un mio libro ho cercato di dimostrare che Salvatore Satta ha proposto nel suo romanzo di ambientazione sarda, Il giorno del Giudizio, una sua immagine della condizione periferica moderna che, pur ambendo allo stesso statuto di generalità che caratterizza la Sicilia letterariamente ricreata di Lampedusa, incarnerà una generalità diversamente «colorata» proprio perché ricavata da «impressioni» o «caratteristiche individuali» diverse: «Nuoro, la vecchia Nuoro ricordata da Satta, antieconomica per eccellenza nel nuovo sistema-mondo, può ben esemplificare altre e anche recentissime realtà dissolte nel nulla, essere una specie di antonomasia di tutte le realtà antieconomiche “schiacciate distrutte polverizzate” (Marshal Berman) dal Progresso. […] In altre parole, è come se raccontando quell’universo trapassato Satta raccontasse di, e si rivolgesse a tutti i dimenticati della Storia, passati presenti futuri. Tutti coloro che a causa di un qualche “progresso” economico o tecnologico si scoprono improvvisamente inattuali, superati, arretrati, vinti, 25 F. Orlando, Reminiscenze letterarie e “classi”: una autoanalisi, in L’emozione come esperienza infinita. Matte Blanco e la psicoanalisi contemporanea, a cura di A. Ginzburg e R. Lombardi, Milano, Franco Angeli, 2007, p. 215. 26 F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1996, p. 121. 27 Ivi, p. 122.

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dimenticati, vecchi, possono riconoscere come proprio il vissuto di quei poveri nuoresi che sentivano che ormai “erano al mondo solo perché c’era posto”»28. Insomma, sia Satta che Tomasi evocano nei lettori la categoria astratta “condizione periferica”, poi però tale categoria risulta nell’uno e nell’altro caso vividamente colorata di un certa Sardegna o di una certa Sicilia (ciò che renderà diverse anche le due idee di periferia che i rispettivi lettori formeranno dentro di sé). Su questa base ci si renderà conto che ogni testo letterario eminente non parla mai solo di qualcosa o qualcuno, ma parlando di qualcosa o qualcuno parla d’altro, evoca appunto sensi ulteriori in chi legge, rendendogli possibili identificazioni profonde e immediate che non sarebbero possibili se davvero la Sicilia di Tomasi di Lampedusa fosse solo e soltanto la sua Sicilia, una Sicilia univocamente situabile nello spazio e nel tempo. Con quanto appena detto ho cercato di porre in termini nuovi il paradosso secondo cui, diversamente dalla scienza, che mira sì a verità generali ma le ottiene mantenendo pur sempre le distinzioni tra gli enti, la letteratura, che lavora soprattutto su casi unici, su individualità, su esempi specifici, le riconduce sempre a dimensioni universali. Sempre Proust scrive che l’artista è costretto a «rivivere la [sua] sofferenza particolare» ma deve «nello stesso tempo, pensarla in una forma più generale, che in qualche misura [gli] consente di sfuggire alla sua morsa, che fa condividere con tutti la [sua] pena, e che non è nemmeno esente da una certa gioia»29. Ma evidentemente si tratta di “generalità” diverse da quelle prodotte dalla scienza, le quali non vengono certo spregiate da Proust, bensì distinte da quelle prodotte dalla letteratura: «Quanto alle verità che l’intelligenza – anche quella degli ingegni più alti – coglie allo scoperto davanti a sé, in piena luce, possono avere un grandissimo valore; ma hanno contorni più secchi e sono piatte, e senza profondità»30. Ora è interessante notare che per Proust la grandezza dell’arte consiste proprio nella capacità dello scrittore di estrarre «belle generalità» dai singoli casi, anche dai più umili: infatti, anche «in una persona ridicola l’artista vede una bella generalità»31. Si direbbe anzi che proprio questa concretezza e umiltà della vicenda umana di cui ci si occupa garantisce della verità “sperimentale” e “scientifica” che da essa si intende «estrarre»: 28

S. Brugnolo, L’ idillio ansioso. «Il giorno del giudizio» di Salvatore Satta e la letteratura delle periferie, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2005, p. 56. 29 M. Proust, Il tempo ritrovato, cit., p. 261. 30 Ivi, p. 253. 31 Ivi, pp. 256-257.

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Di qualsiasi idea lasciataci dalla vita si tratti, la sua figura materiale, traccia dell’impressione che essa ha prodotta in noi, è comunque il pegno della sua verità necessaria. Le idee formate dall’intelligenza pura non hanno che una verità logica, una verità possibile, la loro elezione è arbitraria. […] Solo l’impressione, per misera che ne sembri la materia e inafferrabile la traccia, è un criterio di verità […] perché lei sola è capace – a patto ch’esso [l’artista] sappia estrarne quella verità – di condurlo a una perfezione maggiore e di dargli una gioia pura. L’impressione è per lo scrittore ciò che la sperimentazione è per lo scienziato32.

Vale la pena insistere su questo punto cercando di estrapolare una sorta di regola generale valida per tutti gli scrittori. Se infatti è vero che l’arte in definitiva ci comunica «verità», «leggi», «generalità», e cioè matteblanchianamente ci mette in contatto con «classi logiche» capienti dentro cui possiamo far rientrare le nostre esperienze, è altresì vero che essa ce le comunica sempre attraverso «figure», «tracce», «impressioni», che si mescolano inestricabilmente con quelle «generalità», che non le rendono mai «piatte e senza profondità» come invece ci appaiono le evidenti, autoconsistenti e pure verità scientifiche. Si tratta dunque sì di generalità, ma di generalità che sempre «conservano alcune caratteristiche particolari della cosa individuale» da cui le abbiamo estratte. Per esempio, a partire dal caso assolutamente specifico del cavaliere Alonso Quijano detto Don Quijote noi possiamo sicuramente estrarre alcune considerazioni astratte su quel tipo di comportamento e di atteggiamento verso il mondo che chiamiamo appunto chisciottismo, ma tali astrazioni non potranno mai disgiungersi nella nostra mente dalle vicende e dalla personalità del protagonista così come ci sono state raccontate da Cervantes. La «traccia dell’impressione che tali vicende hanno prodotto in noi, sono comunque il pegno della verità necessaria» di quella sorta di costellazione psicologica che grazie a Cervantes chiamiamo chisciottismo, potendola da allora scoprire tante volte dentro e fuori di noi. Se noi non passassimo attraverso questa fase individualizzante, e saltassimo subito alla classe generale, avremmo allora la tipologia astratta, la «verità logica» quale possiamo incontrare in un saggio sociologico o psicologico, invece che situazioni e individui pregnanti e saturi di senso, raccontati con grande evidenza, e dunque capaci di produrre in noi una forte empatia e identificazione. In un romanzo sono quelle vicende particolari di quell’individuo particolare a costituire l’appiglio, il punto di partenza 32

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Ivi, p. 251.

per una espansione di significato che continuerà a prodursi nel tempo, sono quelle vicende che donano alla classe evocata in noi dalla lettura del testo il suo colore, la sua fisionomia storica inconfondibile, e si direbbe la infinita spinta propulsiva su cui si basa l’attualità persistente del testo, la sua capacità di impressionarci, di imporsi a noi al di là del tempo. Erich Auerbach diceva la stessa cosa quando scriveva: «perché l’umano o il poetico più universale, che è comune alle opere più perfette delle singole epoche […] può essere colto soltanto nelle sue particolari forme storiche, ma non può essere espresso con pregnanza nella sua universalità»33. È proprio questa compresenza del particolare con il generale che ci permette di adattare ogni volta al nostro caso specifico e a quello dei nostri amici e contemporanei quei casi specifici che sono raccontati nelle grandi opere, di sentire che Don Chisciotte, Amleto, Madame Bovary, Oblomov, Anna Karenina c’est nous. Ma questo vale anche per quelle proposizioni letterarie che almeno apparentemente si presentano come simili a quelle scientifiche, in quanto enunciano una verità generale senza passare attraverso casi individuali. Per spiegarci prendiamo la notissima massima (la numero 26) di La Rochefoucauld: «Le soleil ni la mort ne se peuvent regarder fixement»34. Certo, essa può essere tradotta o ridotta in una formula più oggettiva secondo cui «l’uomo non tollera il pensiero della propria morte», o qualcosa del genere. E va anche aggiunto che se la traduciamo così risulta più facile testare tale massima, verificarne l’attendibilità. Ma appunto, anche in questo caso «il pegno della verità necessaria» della massima è data dalla «traccia» costituita dalla sua effettiva formulazione, dall’«impressione» vivida che ne ricaviamo leggendola, e cioè da quel paragone con un sole che acceca e che non può essere fissato a lungo. In questa formulazione viene posta un’improvvisa e rivelatrice equivalenza semantica tra morte e sole che nessuna proposizione neutra e oggettiva potrebbe concedersi. L’idea di morte che lo scrittore ci consegna resta insomma «impregnata» «saturata» per sempre di quel sole accecante. È anche e soprattutto questo cortocircuito semantico a rendere la massima memorabile. Non solo, attraverso questa massima La Rochefoucauld non ci sta parlando unicamente dell’attitudine dell’uomo verso la morte, ma della sua attitudine verso tutte quelle realtà che come la morte (e come, per altri aspetti, il sole) non può «fissare» perché altrimenti ne sarebbe 33

E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Milano, Feltrinelli, 1960, p. 20. 34 «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente».

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accecato. Ci sta insomma parlando dell’uomo come di un essere incapace di affrontare fino in fondo la contraddizione rappresentata dalla sua stessa condizione. In questo senso la morte e il sole non sono altro che casi specifici di una classe logica la cui funzione proposizionale è quella degli «oggetti mentali e fisici la cui contemplazione non siamo in grado di sostenere a lungo». È questa la meta-conoscenza a cui la sentenza ci fa pervenire. Tutte le considerazioni freudiane sui meccanismi di negazione e rimozione messi in atto dalla psiche sono in qualche modo implicate da questa massima, la cui portata trascende perciò la paura della morte. Come si vede anche in questo caso la verità di una tale proposizione è solo apparentemente simile a quella delle proposizioni scientifiche, perché essa implica un sovrappiù di senso, che è trasmesso dalla sua forma, dalla sua figura. Queste considerazioni relative al sovrappiù di senso che riscontriamo in ogni opera eminente, questa infinita possibilità di applicare alcune immagini e trame a tanti altri casi e situazioni ci aiutano a confutare coloro che imputano agli scrittori versioni infedeli, prevenute, inesatte degli enti o situazioni che hanno rappresentato. Questi critici trattano le scritture poetiche alla stessa stregua con cui trattano le scritture che si pretendono oggettive o scientifiche: richiedono cioè alle prime che non trasfigurino e sfigurino i fatti, che siano rispettose di tali fatti. E chiedono conto della loro eventuale inesattezza o falsità rispetto a tali fatti. Come spero si sarà capito io non nego affatto che si possa e debba pretendere dai testi letterari di essere veri, penso però che non si debba chiedere a essi il tipo di verità che pretendiamo da geografi, antropologi, sociologi, storici e anche giornalisti. La domanda che più utilmente dovremmo sempre porci quando parliamo di letteratura e arte in genere è semmai la seguente: di cosa parlano gli scrittori quando parlano (per esempio) di inglesi (come Swift), di austriaci (come Bernhard), di siciliani (come Tomasi di Lampedusa), di sardi (come Satta), oppure di persiani (come Eschilo), di italiani (come Stendhal), di indiani (come Kipling), di africani (come Conrad), di egiziani (come Verdi), di taithiani (come Gauguin)? E la risposta che dovremmo dare è che essi non parlano mai solo ed esclusivamente di quei certi popoli e territori e culture, bensì che parlano di quei popoli e di quelle culture prestando loro altri sensi, altri significati, trattandoli come figure, cifre, potenti sineddochi di realtà e verità più generali. Le impostazioni postcoloniali o di genere oggi molto diffuse partono invece spesso dal presupposto che quando uno scrittore parla di una certa realtà, di un certo popolo, di una certa classe, di una certa nazione, di un 256

certo genere sessuale parla davvero e proprio e solo di questo, e deve perciò rispondere dell’attendibilità o correttezza politica e morale delle rappresentazioni che produce. Va da sé che tali rappresentazioni vengono spesso giudicate false e irricevibili in quanto ci proporrebbero immagini stereotipiche di classi, nazioni, etnie, generi, culture rappresentate come inferiori. Per esempio Patrick Williams denuncia così i pregiudizi orientalisti di Kipling, citando alcuni passaggi da Kim che lo dimostrerebbero: «Secondo le categorie dell’Orientalismo, uno dei principali attributi degli Orientali è che sono manchevoli o anormali rispetto agli Inglesi, in qualsiasi contesto. In Kim ci viene per esempio detto che gli Indiani mancano di un appropriato senso del tempo: “All hours of the twenty four are alike to Oriental” […]; del movimento: “Swiftly – as Orientals under stand speed”; dell’ordine: “the happy Asiatic disorder” ecc.»35. Certo, quelle di Kipling sono generalizzazioni e perciò anche in questo caso valgono le obiezioni che Orwell muoveva a Swift: non tutti gli orientali, non dovunque e non sempre sono così. Tuttavia anche in questo caso diremo che le proposizioni citate e altre simili vano lette e comprese per contrasto e quasi per antitesi con le corrispettive modalità di vita occidentali: qui degli orientali vengono selezionati ed enfatizzati certi modi di intendere il tempo, i movimenti, l’organizzazione del lavoro che contrastano con il “nostro” modo di intenderli. E non è affatto vero che le affermazioni di Kipling vadano prese solo in senso negativo e dispregiativo. A me pare invece che il loro statuto sia ambivalente: una certa lentezza e un certo disordine attribuibili agli orientali possono essere sia dei disvalori che dei valori; così come l’ordine e la velocità occidentali possono essere sia valori che disvalori. Ora, è evidente che nel caso di Kipling sono contemporaneamente l’uno e l’altro. Si tratta di un modo di vedere le cose che procede per opposizioni nette e drastiche e perciò non può che risultare poco scientifico e sfumato (i critici postcoloniali hanno spesso rimproverato la visione manichea tipica degli scrittori orientalisti). Ma intanto, come abbiamo visto, queste opposizioni vengono sempre “smontate” dentro il testo. E poi la verità a cui mirano queste antitesi è di un altro tipo rispetto a quella a cui mirano i discorsi scientifici. Gli orientali qui valgono come un’alternativa possibile negativa/positiva al modo occidentale di concepire il tempo, di muoversi, di organizzarsi e di produrre. Un po’ come gli italiani di Stendhal erano un’alternativa immaginaria al grigio modo di vivere dei parigini. Insomma, l’India di Kipling corrisponde a un’altra possibilità di esistere, fare, pensare che 35 P. Williams, Kim and Orientalism, in Id., Kipling Considered, ed. Ph. Mallet, London, Macmillan, 1989, p. 37.

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solo in parte e solo accidentalmente coincide con la way of life cosiddetta orientale. Diciamo che Kipling quella possibilità l’aveva intravista in India e che poi l’aveva ricreata a suo modo. E cioè alla maniera di un poeta e non alla maniera di un antropologo o di un geografo. Certo, gli indiani di Kipling sono il punto di partenza, lo spunto reale: se davvero Kipling avesse solo contraffatto o occultato la realtà la sua opera ci apparirebbe come meramente ideologica e falsa, e l’avremmo dimenticata (non è necessario essere stati in Oriente per sentire che certe rappresentazioni dell’Oriente sono patentemente false, kitsch, posticce). Anche se non siamo stati in India con Kipling, noi sentiamo che lui ha davvero individuato e afferrato alcuni tratti di una certa India che deve essere esistita – così come sentiamo che deve essere esistita la Sicilia di Tomasi, la Sardegna di Satta anche se non ci siamo mai stati –, ma sentiamo anche che quell’India lui l’ha manipolata e trasfigurata per potercela proporre come l’immagine di un’altra modalità di esistenza che per contraccolpo ci fa conoscere meglio la nostra poiché la relativizza e la problematizza. D’altra parte le obiezioni che Orwell ha rivolto alle critiche “fondamentaliste” di Swift contro gli inglesi, possono a maggior ragione essere rivolte anche all’immagine che Swift propone degli yahoo e cioè degli uomini tutti: se testassimo davvero, come suggerisce Putnam, questa descrizione, per esempio confrontandola con altre descrizioni scientifiche o oggettive della specie umana, non potremmo che verificarne ancora una volta l’implausibilità: non sempre, non dappertutto, e non tutti gli esseri umani sono moralmente tanto sporchi, inaffidabili, meschini e repellenti. Perciò ha ragione Orwell a concludere così la sua intervista immaginaria: «Era un grand’uomo ma parzialmente cieco. Riusciva a vedere solo una cosa per volta. La sua visione della società è molto penetrante, ma in ultima analisi falsa. Non è stato in grado di capire ciò che capiscono le persone più semplici: che la vita vale la pena di essere vissuta, e che gli esseri umani, per sporchi e ridicoli che siano, sono in massima parte onesti e decorosi. Dopotutto, però, credo che se lo avesse capito non avrebbe potuto scrivere I viaggi di Gulliver»36. Sono in fondo le obiezioni che Putnam rivolgeva a Céline. Il filosofo americano scarta infatti l’ipotesi che tali visioni del mondo possano ambire a essere vere: a lui certo paiono essere false, ma comunque esse non sono testabili! Sono troppo estreme e idiosincratiche. Semmai quel che veniamo a conoscere positivamente è la possibilità che esistano persone che prendono per vere 36

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G. Orwell, op. cit., pp. 1410-1411.

quelle visioni del mondo, che sentono e giudicano il mondo secondo quella prospettiva. Ripeto, il caso di Swift e Céline è estremo ma naturalmente l’obiezione di parzialità può essere rivolta a qualsiasi scrittore, poiché qualsiasi scrittore ricrea la realtà e non mira certo a descrivere com’è. La risposta a tale obiezione però non può che essere sempre la stessa: noi non possiamo comparare questi discorsi ai discorsi scientifici che si propongono invece di essere imparziali (non importa se e quanto essi ci riescano). I discorsi letterari, soprattutto quando si propongono come finzionali, sono per loro statuto parziali, cioè appunto figurali e perciò trasfiguranti, o, per dirla con Vargas Llosa, menzogneri, vale a dire in varia misura e secondo varie dosi e modalità non corrispondenti ai fatti empirici a cui pure si riferiscono. Si tratta nel caso di Swift, come in quello di Céline, o di Gadda o di Bernhard di iperboli e di sineddochi. Non solo: si tratta quasi sempre di proposizioni emesse con l’attitudine esplicita di chi sceglie di essere deliberatamente esagerato, di essere ingiusto verso i suoi simili. L’esagerazione fa cioè parte del gioco; solo esagerando infatti Swift può costringerci a prendere in considerazione certe sue ipotesi estreme sulla natura umana che tutti noi preferiremmo non considerare. La domanda che ci dobbiamo porre piuttosto è se attraverso queste iperboli ed esagerazioni Swift e gli altri autori ci dicono qualcosa di essenziale, di importante e di vero sull’uomo. Non, naturalmente, una verità ultima, definitiva e assoluta, che non è di questo mondo, e alla quale nemmeno la scienza ambisce. Se consideriamo le cose da questo punto di vista allora noi dovremmo stabilire che la portata e la durata dell’opera di Swift hanno certo a che fare con una verità che ci riguarda e che in modo approssimativo potremmo riassumere così: gli uomini sono anche e sempre, chi più e chi meno, degli yahoo, e cioè sono invidiosi, interessati, egoisti, meschini, crudeli. E la verità di Swift può essere tanto meglio apprezzata se la si coglie in contrasto con quelle che Proust chiamava le «conoscenze convenzionali», per esempio quelle che già all’epoca di Swift e più che mai oggi tendono a illudere gli uomini (o le nazioni che volta per volta si propongono come guida dell’umanità) circa una loro superiore eccellenza. E se ci si rende conto che essa non è detta con soddisfazione e compiacimento ma con la rabbia e l’amarezza di chi vorrebbe che le cose fossero diverse. In altre parole, non si tratta di una verità pura, logica, astratta, isolabile, ma di una verità colta in opposizione, per contrasto con le “verità” correnti. Insomma, solo se cogliamo il valore negativo delle proposizioni swiftiane possiamo apprezzare anche il loro speciale valore di verità. E tale valore “antitetico” risulta e risalta 259

tanto più se pensiamo che parlandoci in modo tanto parziale ed esagerato del mondo-com’è Swift ci parla anche del mondo-come-dovrebbeessere. E in fondo questo fanno anche Céline, Gadda, Bernhard e gli altri grandi misantropi della letteratura: ci descrivono insistentemente le miserie della condizione umana sulla base di parametri che contrastano con quelli del conformismo, dell’adattamento, del giusto mezzo, della neutralità. D’altra parte non è in genere concepibile un’opera eminente che si limiti a registrare passivamente, indifferentemente, conformisticamente le cose come sono. E questo non per estrinseche ragioni morali. Se pensiamo infatti alla letteratura come a una istituzione preposta a un ritorno del represso socialmente condivisibile, allora dobbiamo pensare che essa sia caratterizzata dallo scarto, dalla problematicità, dallo sperimentalismo, dalla presa di distanza da modi di fare ed essere di puro adattamento alla routine e ai luoghi comuni. Solo così essa ci permette di vedere altre cose, solo così essa costruisce le sue ipotetiche anti-verità. Se dunque Swift è ingiusto è perché aspira a una giustizia impossibile. E anche questo ha a che fare con la sua capacità di andare fino in fondo nella rappresentazione di certe verità dell’umano. Certo, quella di Swift è una immagine del mondo, come quella di Céline, come quella di qualsiasi altro, e perciò non ambisce a essere l’unica. Altre immagini sono possibili, diverse e anche opposte ma non tali da invalidare mai del tutto quella proposta da quei due grandi scrittori; chiunque li abbia letti sa che l’umanità è anche questo, è anche ciò che di essa ci hanno raccontato Swift e Céline. Ecco perché dovremmo concludere contra Putnam che no, noi non leggiamo Swift o Céline perché così prendiamo in considerazione l’ipotesi astratta che esistano misantropi come loro, modi di vedere il mondo come il loro, ma perché essi ci fanno penetrare in zone sgradevoli di noi stessi; perché ci mettono in questione; perché ci fanno sentire che anche in questo caso de nobis fabula narratur. D’altra parte se la visione di Swift (e di altri come lui) ci colpisce e impressiona così tanto ciò significa che essa può e deve essere compatibile o congruente con approcci propriamente oggettivi alle stesse questioni. E questo deve valere per qualsiasi scrittore eminente: presto o tardi le sue formulazioni dovranno apparire illuminanti, profetiche, capaci di rappresentare stati del mondo che poi le scienze umane indagheranno e chiariranno secondo un linguaggio proposizionale e dimostrativo. Basti pensare a quanto spesso psicologi, sociologi, antropologi, filosofi, storici hanno utilizzato la letteratura per districare e comprendere questioni che risultavano complesse e anche sfuggenti. Così per esempio si dirà che la 260

visione swiftiana è compatibile con quelle antropologie materialistiche di ispirazione freudiana, darwiniana e marxiana che intendono l’uomo come un essere fondamentalmente e irrimediabilmente egoista, sospinto da pulsioni di sopravvivenza e prevalenza37. Certo, queste antropologie mirano a essere “complete” e perciò ci mostrano come per esempio sia poi possibile educare, correggere e sublimare quelle pulsioni primarie. Come l’uomo non sia sempre e solo così38. Come per esempio sia possibile che certi individui siano buoni e generosi, pur essendo anch’essi originariamente e fondamentalmente interessati ed egoisti. In questo tali teorie arrivano in fondo alle stesse conclusioni di Orwell, e cioè che gli uomini sono mediamente e per lo più «onesti e decorosi». Swift e Céline e tanti altri no, hanno deciso di restituirci una immagine fortemente tagliata ed esagerata dell’uomo, ma solo grazie a questa scelta sono riusciti a farci considerare una verità dura e tonificante da cui avremmo preferito distogliere gli occhi.

37 «Che altro fa la psicoanalisi se non confermare l’antico detto di Platone secondo il quale i buoni sono coloro che si accontentano di sognare ciò che gli altri, i cattivi, fanno realmente?», S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, cit., p. 318. 38 Subito dopo infatti Freud prosegue così: «non rendetevi complici dell’ingiustizia che si è commessa così spesso nei riguardi della psicoanalisi, rimproverandole di rinnegare una cosa perché ne afferma un’altra. Ci soffermiamo con maggior insistenza sulla malvagità dell’uomo solo perché gli altri non vogliono ammetterla […]. Se rinunceremo alla valutazione unilateralmente etica, potremo certo trovare una formula più corretta per quanto riguarda il rapporto tra il bene e il male nella natura umana», ivi, p. 319.

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A che cosa serve la letteratura? Jacqueline Risset

Alla domanda “A che cosa serve la letteratura?” che ci si pone in questo momento storico, si può tentare di rispondere evocando altri momenti nei quali la questione è stata affrontata in altro modo. Si potrebbe cominciare col dire che la letteratura non serve a niente e che, proprio per questo, è preziosa. Laddove come ai nostri tempi, si privilegia l’utile e in particolare l’utile immediato, si dimentica l’esistenza di tutto ciò che ci consente di considerare bella la scoperta del mondo; e la letteratura potrebbe costituire in questo senso una riserva particolarmente preziosa. Assistiamo perplessi all’eliminazione del termine stesso di letteratura. Nelle università, nei luoghi del sapere, viene sostituito con “cultura”, non esattamente un sinonimo. Invece di “lingua e letteratura”, si dice “lingua e cultura”. Quasi ci si vergogna nominare un termine ormai desueto, che non si dovrebbe più usare, anche se in realtà racchiude risorse profonde, necessarie, un aspetto vitale del pensiero umano. Vorrei dare un prova di ciò che dico citando uno scrittore cinese contemporaneo, Mah Yang, che affermava recentemente: «L’arte in generale, e la letteratura in particolare, hanno un potere che può piegare le tirannie». Spiegava questa frase raccontando dei suoi quindici anni nella Cina di Mao Tse Tung, tempo di sorveglianza integrale e di terrore di cui percepiva ogni giorno l’effetto sui suoi genitori. Un amico della sua età gli aveva portato, per leggerlo con lui, uno dei grandi classici della letteratura cinese del XVI secolo, Viaggio in Oriente. «Scoprii allora il potere della letteratura sullo spirito della gente, vedendo l’emozione sul viso del mio amico». Una tale scoperta lo farà divenire egli stesso scrittore, e approfondire la sua prima intuizione. Egli dice oggi: La letteratura può far piegare le tirannie participando al processo di riconnessione con il passato. Grazie alla letteratura, il passato può far irruzione nel presente e legarci agli altri e alle nostre stesse emozioni.

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Poi aggiunge questa frase, che riguarda l’attualità: La letteratura mostra il contrasto tra la realtà e l’assurdità di certi artifizi come, ad esempio, i recenti Giochi Olimpici.

Si percepiscono in queste parole il principio di verità dell’esperienza e la potenza della letteratura. Ma la nostra concezione della letteratura – andrà ricordato – è recente. Fino alla fine del Settecento la letteratura era tutt’altro; il suo opposto non era la scienza, ma l’ignoranza. Un conoscere che riguardava generi molto diversi fra di loro: teorie, memorie (in senso molto vasto), filosofia, poesia, storia, degli antichi generi della retorica e attraverso il trivio e il quadrivio del medioevo, si era venuto sviluppando un conversare per iscritto tra “honnête gens”; qualcosa di riservato, che apparteneva a un genere di persone che si distinguevano per formazione culturale. Ma sul volgere del Settecento tutto ciò venne meno; vennero meno la società elitaria e la letteratura che nasceva all’interno di una determinata classe sociale. Alla fine del secolo successivo, oltre a quella che è stata definita “la rivoluzione poetica” (Julia Kristeva), si sono verificati i capovolgimenti filosofici e concettuali più grandi, dovuti soprattutto a Freud, a Marx, a Nietzsche, i cui linguaggi hanno modificato potentemente ciò che oggi chiamiamo interpretazione. Un cambiamento che ha coinvolto e modificato a fondo anche la letteratura. Basti riflettere su Freud, sulla sua invenzione della psicoanalisi e della cosiddetta talking cure, il curare attraverso il linguaggio. Ma Freud in questo suo inventare la psicoanalisi ha utilizzato modelli che non appartenevano tanto alla sfera degli psicologi che lo avevano preceduto, quanto invece a quella dei grandi scrittori del passato, i tragici greci, Shakespeare, Goethe… Dunque un’interazione possibile, perché la letteratura stessa non è altro che una pratica profonda del linguaggio… Il fatto che il linguaggio sia usato universalmente può aver fatto pensare che la letteratura fosse un piccolo territorio situato all’interno di esso. Tuttavia negli studi che si sono sviluppati a partire dalla psicoanalisi e dalla linguistica, da Saussure in poi, la letteratura non ha assunto sembianze di orticello nel grande campo del linguaggio ma piuttosto, all’interno delle lingue nazionali, il senso di un accesso chiave, insostituibile, all’infinità del codice del comunicare. Mallarmé sostiene che la poesia è una compensazione ai limiti delle lingue, in altri termini che la poesia ha la capacità di varcare le distanze che le lingue tracciano fra chi parla. 263

Già nel Romanticismo tedesco ci fu il momento dell’absolu littéraire, che Jean-Luc Nancy e Philippe Lacoue-Labarthe hanno illustrato, ovvero un momento storico nel quale la letteratura è stata inclusa nel campo dell’assoluto. Per quanto riguarda poi la traduzione poetica, Novalis e Schelling sostengono che solo i grandi poeti possono essere pienamente tradotti; solo i poeti meno grandi si trovano a proprio agio nella loro lingua, mentre i grandi avvertono invece l’esigenza di scardinarla, perché vi si sentono costretti come Gulliver legato dai lillipuziani. La traduzione fatta in Francia nel 1930 da Pierre-Jean Jouve et Pierre Klossowski dell’ultimo Holderlin ne offre un esempio: i traduttori forzano la lingua d’arrivo introducendovi il genere neutro che trovano nella poesia in tedesco che non esiste nella loro lingua. Ma così facendo hanno aperto nuove possibilità all’uso della lingua francese. In effetti accade che il tradurre possa spostare i limiti di una lingua, renderli più dinamici, e mostrare in che cosa consiste la natura esplorativa e innovativa della creatività letteraria. Me ne sono resa conto io stessa con la mia traduzione in francese della Divina Commedia al cui seguito si sono aperti nei francofoni una serie di nuovi rapporti col testo di Dante (anche da parte di pittori come Garouste e Barcelo, di poeti, di musicisti); ma anche con la traduzioneadattamento de Il Principe di Machiavelli per il Teatro des Amandiers a Parigi nel 2000. Il primo decennio del XX secolo resta tuttavia quello fondamentale per l’espansione dell’idea di letteratura; tra il 1905 e il 1910, Marcel Proust, James Joyce, Franz Kafka, Robert Musil lavorano al grande libro della loro vita. Sono romanzi di formazione ma rappresentano anche qualcosa di più della narrazione dell’esperienza di crescita nel mondo. Proust afferma che i primi lettori della Recherche lo hanno frainteso, definendolo un “fouilleur de détails”, un cacciatore di dettagli, mentre egli afferma «Je cherche les grandes lois». È in quel periodo che la letteratura si affranca dall’invasività della filosofia; lo attesta anche il carattere ancora filosofico del primo titolo che Proust, riprendendolo da Malebranche, dà alla sua opera, la Recherche de la vérité. In seguito lo modificherà svincolandolo dalla filosofia1. La sua ricerca (della verità) affonda nell’ignoto, nel linguaggio e nelle radici inconsce del linguaggio, prova che chi scrive affronta ciò che ancora non sa, e la narrazione non attiene più ad un sistema retorico prestabilito. La grande letteratura del XX secolo segue inevitabilmente queste orme, ma dopo la Seconda guerra mondiale e l’esperienza terribile della 1

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J. Risset, Une certain joie. Essais sur Proust, Parigi, Hermann, 2009.

Shoah, a partire da Sartre e dalla sua fondazione nel 1945 de Les Temps Modernes, la letteratura si fa necessariamente engagée. «Nous sommes embarqués», afferma Sartre, non abbiamo scelta. Tuttavia spesso l’idea d’engagement ha chiuso delle strade alla letteratura, costringendola a ubbidire a un programma prestabilito, a valori prefissati. La ribellione che ne è scaturita è bene esemplificata da Georges Bataille, che scrive in proposito nel 1950 un testo fondamentale sulla rivista romana «Botteghe Oscure» diretta da Marguerite Caetani. Intorno a questa rivista come intorno a «Commerce», fondata in Francia negli anni ’20, sempre dalla Caetani, si raccolgono scrittori che cercavano strade diverse e nuove in diversi Paesi, in lingue diverse. Questa rivista, come nessuna altra dello stesso periodo, pubblica poesia e testi di autori innovatori di tutto il mondo, da Celan a Eliot, a Blanchot, a Ponge, a Maria Zambrano, a Dylan Thomas. In Lettre à René Char sur les incompatibilités de l’écrivain, Bataille affermava dunque che l’idea di letteratura è opposta a quella di impegno e si schierava a favore di una letteratura non engagée, senza padroni. «Non serviam», motto del diavolo, è anche quello delle letteratura. E in questo, aggiungeva Bataille, la letteratura può dirsi diabolica. Nel 1960, dopo la chiusura di «Botteghe oscure», sorge in Francia «Tel Quel», rivista fondata da giovani scrittori che sostengono che critica e teoria letteraria devono nascere dagli scrittori più che dai critici, in altri termini che la letteratura include anche il pensiero sulla letteratura. Ricordo (in quegli anni facevo parte del comitato di redazione) che nel piccolo ufficio di «Tel Quel» presso l’editore Seuil, arrivavano i testi di Derrida, di Foucault, di Deleuze e di molti altri, e che la rivista era divenuta un crogiuolo di esperienze e di confronti appassionanti. Ma vorrei chiudere questa carrellata con un esempio a ritroso, con Dante e la sua idea ambiziosa di letteratura. Nella lettera a Cangrande della Scala con la quale gli invia il Paradiso, Dante parla della materia letteraria della Commedia, materia che «da orribile e fetida nella prima cantica si fa attraente e felice nell’ultima». L’esito felice della Commedia è reso possibile dal pensiero cristiano che la sottende. Dante ha un obiettivo morale e religioso, ma anche di conoscenza che fa di lui un trasgressore. Il De Monarchia, com’è noto, venne bruciato dopo la sua morte perché definiva la separazione dei poteri fra papa e imperatore. Dante la sosteneva in base alle due diverse felicità che il papa e l’imperatore perseguivano per gli uomini, quella celeste e quella terrena. E non è certo un caso che nella Commedia essi siano nominati «due soli», due poteri che si affiancano senza che l’uno possa dirsi subordinato all’altro. Nell’Inferno 265

Dante incontra Ulisse, punito per aver inventato il cavallo di Troia, ma afferma, da eroe rinascimentale, il valore fondamentale della conoscenza. Questo Ulisse dantesco, che proviene da fonti medievali sconosciute, è raffigurato nell’atto di trasgressione che consiste nel varcare le colonne d’Ercole. Ulisse, come Dante lo rappresenta, non vuole limiti alla conoscenza. Appare anche nel Paradiso attraverso altre allusioni, ed è chiaro che Dante si identifica con lui. Ma Dante si identifica anche con una figura ovidiana, Glaucus, il pastore che dopo aver mangiato un’erba misteriosa si trasforma in una divinità marina; Dante e la sua Commedia sono quell’erba, in quanto Dante, per giungere alla visione, deve subire una metamorfosi interiore totale, metamorfosi che egli richiede anche al suo lettore, e la letteratura è allora l’agente della metamorfosi iniziatica. Borges, grande ammiratore di Dante, diceva che l’autore della Commedia poteva recarsi nell’altro mondo e interrogare le ombre perché aveva capito che la vita è legata a un istante o ad alcuni istanti decisivi che avevano formato e diretto la sua vita. L’idea di istante è in questo senso centrale in letteratura: lo scrittore vive e scrive in base a istanti decisivi, a esperienze che lo toccano profondamente, immediatamente e definitivamente. La Recherche non è altro che una serie di epifanie, di apparizioni improvvise che sollecitano la decifrazione della realtà, come nell’episodio della madeleine. Proust non smette di decifrare le emozioni provate; scavando nell’esperienza trova istanti che sono insieme dentro e fuori del tempo ma che portano alla conoscenza, ad una conoscenza senza dogmi né limiti. Nel libro I sogni di mio padre (Dreams from my father), Barak Obama racconta la sua vita proprio a partire da istanti decisivi, descritti con precisione e acutezza estrema, rivelandosi in questo un uomo politico che possiede una dimensione di vero scrittore. Nel Contre Sainte-Beuve, Proust evoca Chateaubriand, definendolo un poeta: Amo leggere Chateaubriand perché egli, facendo intendere ogni due o tre pagine (come nelle notti d’estate, quando dopo un intervallo di silenzio, si sentono due note, sempre le stesse, quelle che compongono il canto della civetta) il suo grido, tanto monotono quanto inimitabile, ci fa comprendere che egli è un poeta. Ci dice che sulla terra non vi è nulla, che ben presto morirà, che l’oblio lo porterà via; sentiamo che egli dice il vero, perché è un uomo tra gli uomini; ma d’un tratto, in quegli eventi, in quelle idee, attraverso il mistero della sua natura, egli ha scoperto quella poesia che sola cerca, ed ecco che quel pensiero che doveva rattristarci invece ci incanta […]. E quando Chateaubriand, 266

mentre si lamenta, dà vita a quell’essere meraviglioso e trascendente che egli è, noi sorridiamo, perché nel momento stesso in cui si dice annientato, evade, e vive una vita dove non si muore mai2.

L’idea di felicità qui trascende l’idea della morte, come in Solzhenitsyn: ricordare durante la prigionia gli istanti di felicità rende liberi, è una forma di libertà imparentata con la libertà della letteratura. L’esperienza solitaria della letteratura è in realtà anche un’esperienza di comunicazione forte, come diceva Bataille, un tipo di comunicazione inaccessibile alla comunicazione banale odierna. Se si conviene che la poesia è la letteratura portata al suo grado massimo di intensità e di intransigenza («la letteratura non è nulla se non è poesia», ancora Bataille), allora, là dove sembrava ormai venuto meno l’uso della parola letteratura, vediamo che il suo modello conoscitivo – denominato in questi anni «pensiero della complessità» – viene già assunto dalle scienze più avanzate. Letteratura è campo di realizzazione dell’inesauribile…

2

«J’aime lire Chateaubriand parce qu’en faisant entendre toutes les deux ou trois pages (comme après un intervalle de silence dans les nuits d’été on entend les deux notes, toujours les mêmes, qui composent le chant de la chouette) ce qui est son cri à lui, aussi monotone mais aussi inimitable, on sent bien ce que c’est qu’un poète. Il nous dit que rien n’est sur la terre, bientôt il mourra, l’oubli l’emportera; nous sentons qu’il dit vrai, car il est un homme parmi les hommes; mais tout d’un coup parmi ces événements, ces idées, par le mystère de sa nature il a découvert cette poésie qu’il cherche uniquement, et voici que cette pensée qui devait nous attrister nous enchante […]. Et quand Chateaubriand, tandis qu’il se lamente, donne son essor à cette personne merveilleuse et transcendante qu’il est, nous sourions, car, au moment même où il se dit anéanti, il s’évade, il vit d’une vie où l’on ne meurt point». M. Proust, Contre SainteBeuve précédé de Pastiches et mélanges, Paris, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, 1971, p. 652.

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Dalla critica letteraria ai Cultural Studies: deriva o derivazione? Mauro Pala

1. Critica letteraria e Cultural Studies: una genealogia strutturalista? La disciplina dei Cultural Studies si sviluppa da una costola della critica letteraria, e più precisamente nell’ambito di quella riflessione, interna alla critica stessa, che, nel corso del Novecento, mette in dubbio la validità dello schema classico idealista ancorato alle nozioni di autore e di espressione; la prassi dei Cultural Studies rifiuta così anche una concezione fortemente ideologizzata della storiografia letteraria. L’elenco dei precursori è dunque lungo e complesso perché abbraccia un campo di analisi molto ampio: va da Sklovskij, con le sue intuizioni sulla trasmissione indiretta, “per rami cadetti”, della tradizione letteraria, a Tynianov e Jakobson quando questi sottolinearono le discontinuità interne al testo letterario, per arrivare a quel gran tentativo di sintesi fra le aree dell’esperienza letteraria ed estetica e quelle della società che troviamo ne La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali di Mukarovsky: «È sempre più chiaro che la struttura della coscienza individuale è data fino ai più intimi strati da contenuti che appartengono alla coscienza collettiva»1. In questo stesso spirito di ricerca “collettiva” sui registri linguistici come qualificanti rispetto al testo letterario opereranno inoltre Bachtin e Lotman, né bisogna dimenticare la solida base letteraria che accomuna i Francofortesi e Benjamin nell’esplorazione del concetto di cultura di massa, pur con esiti talvolta contraddittori, come l’esclusione di forme di arte popolare – sintomatico il caso di Adorno sul jazz – da una fruizione di tipo estetico. 1 Cfr. J. Mukarovsky, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali (1936), Torino, Einaudi, 1971, p. 155.

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Anche per motivi di spazio, mi concentrerò su quel filone dei Cultural Studies che si sviluppa storicamente in Gran Bretagna nel secondo dopoguerra, proprio a partire da questa decisiva cesura fra scrittura “highbrow” e “lowbrow”: quando si verifica storicamente questa distinzione, con un inevitabile corollario di implicazioni sociali, secondo quanto chiarito da Bourdieu? La risposta a questa domanda è imprescindibile dall’avvento dei Cultural Studies, uno sviluppo che, pur partendo spesso dall’analisi di testi letterari, finisce per allontanarsi da questi per interessare un ambito sempre più vasto ed eterogeneo. Si può affermare in questo senso che i Cultural Studies per loro natura prendono forma attraverso una ricerca centrifuga, e proprio questo tratto caratterizzante fa in modo che sia estremamente difficile, anche a distanza di oltre mezzo secolo dal loro esordio riconosciuto sulla scena critica, definire un campo di azione specifico e, tanto meno, stabilire una chiara linea di demarcazione rispetto alla letteratura. Né, infine, è possibile indicare una metodologia che li contraddistingua. Si dovrebbe piuttosto parlare di una serie di istanze relative alla letteratura e alla storia letteraria sulle quali gli studi culturali si interrogano parallelamente e contemporaneamente alla sociologia, alla storia – intesa prevalentemente come storia sociale – all’antropologia o, più di recente, agli studi sui media, tutti filoni di ricerca che possono, a loro volta, essere considerati una specializzazione degli studi culturali. Fatte queste premesse, più che immaginare una genealogia o un’evoluzione lineare dalla letteratura ai Cultural Studies, è più appropriato parlare – anche in questo caso, come già fecero i formalisti rispetto alle problematiche della tradizione letteraria – di una crescita interna, con esiti destabilizzanti, della critica letteraria stessa, che, costretta dalla portata crescente di istanze ad essa pertinenti ad ampliare il campo d’indagine, lo ha esteso a tal punto da approdare, come prevedibile, a conclusioni diverse rispetto alla propria progenitrice di matrice storicista. Una mutazione irreversibile, insomma. Ecco che dunque attraverso i Cultural Studies sia la letteratura che la critica cambiano non solo metodi ma oggetto di studio: da una centralità dell’opera vista come espressione del genio di un autore, da esplicitare ed eventualmente celebrare nel canone, si passa ad analizzare le implicazioni di tale opera in relazione ai fruitori, nonché le conseguenze che la sua ricezione2 comporta rispetto al gusto di un certo periodo storico. 2

Cfr. R. Holub (a cura di), Teoria della ricezione, trad. it., Torino, Einaudi, 1989.

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L’ampio spettro compreso fra le condizioni della scrittura e la ricaduta sul gusto e sui generi – ovvero, in altri termini, le relazioni fra una certa produzione e la sua epoca, in una nuova dialettica in cui si recupera il legame interrotto con l’orientamento marxista – prendono il sopravvento rispetto a una classificazione o a un apprezzamento estetico. Si tratta di un cambio radicale di orizzonte e di indirizzi rispetto alla critica tradizionale, una definitiva rottura col passato dovuta, almeno in parte, all’impatto dello strutturalismo. Fu in quell’ambiente e in quella sensibilità che si rielaborarono e si rifondarono i presupposti della critica, tanto da spingere Barthes ad interrogarsi sulla possibilità di estendere la letteratura nella storia: «È press’a poco impossibile accostarsi alla creazione letteraria senza postulare l’esistenza di un rapporto fra l’opera e qualcosa di altro dell’opera […]. Attualmente è Lucien Goldmann che ha dato la teoria più sviluppata di quella che si potrebbe chiamare la critica di significazione, almeno quando si applica a un significato storico […]. La storia letteraria vera e propria è possibile solo se si fa sociologica, se si volge alle attività e alle istituzioni, non agli individui». L’eclisse o irrilevanza dell’autore auspicata da Barthes si tradusse in un interesse per «gli abiti di pensiero, i tabù impliciti, i valori naturali, gli interessi naturali di un gruppo di uomini realmente associati da funzioni identiche o complementari, insomma come una porzione di classe sociale»3. Un approccio che fonde semantica – ben presente anche nella prima espressione dei Cultural Studies inglesi – ed antropologia sociale costringe a un diverso atteggiamento anche il critico: «il quale deve considerare che nell’opera tutto è significante […]. Tu non puoi, si dice al critico, trattare come “generali” certe situazioni che troviamo solo in due o tre tragedie di Racine. Occorre ricordare nuovamente che, da un punto di vista strutturale, il senso non nasce per ripetizione ma per differenza (corsivo mio), cosicché un termine raro, non appena è colto in un sistema di esclusioni e di relazioni, è altrettanto significante di un termine frequente»4. L’accento è posto sulla differenza, e qui si colloca anche il fulcro di una valutazione che non può più essere esplicativa, se non nel senso di individuare una macrostruttura in cui inserire un determinato testo e verificarne il funzionamento: «Non si tratta di individuare una spiegazione del testo, un “risultato positivo” (un significato ultimo che risulterebbe essere la verità dell’opera o la sua determinazione), ma al contrario, attraverso l’analisi (o attraverso ciò che assomiglia a un’analisi), si tratta di 3

R. Barthes, Storia o letteratura?, in Id. Saggi critici, trad. it., Torino, Einaudi, 1972, pp. 104-105. 4 R. Barthes, Critica e verità, Torino, Einaudi, 1969, pp. 54-55.

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entrare nel gioco del significante, nella scrittura: in altre parole, si tratta di realizzare mediante il suo lavoro il plurale del testo»5. Lo strutturalismo sovverte ogni distinzione fra “opera” – vista come unificata, autentica, letteraria e canonica in quanto espressione del suo autore – e “testo”, riconosciuto come organizzazione di significanti da cui il lettore trae o riconosce significati desumibili da un’organizzazione di segni. Sia che esista una letterarietà distintiva, legata ad artifici linguistici, come ipotizzato da Jakobson6, sia che, al contrario, non vi sia differenza sostanziale fra vari registri di letteratura alta o popolare7, la costituzione di un apparato semiologico spiana la via a quell’ampio spettro di indagine che corrisponderà alla prassi dei Cultural Studies. In tal modo, attraverso la crescente attenzione all’elemento collettivo, l’oggetto e la prassi dell’analisi letteraria vanno incontro ad importanti cambiamenti: mentre nell’approccio critico tradizionale si preservava l’autonomia del testo, stabilendo così una gerarchia piuttosto chiara tra un primo piano, nel quale si collocava l’opera letteraria, e lo sfondo – inteso come contesto sociale nelle sue numerose sfaccettature, dal gusto artistico del tempo alle convenzioni di una certa classe o gruppo, fino all’orientamento sessuale dell’autore – i Cultural Studies finiscono, al contrario, per porre l’accento su quest’ambito, a lungo ignorato, e farne il perno dell’esegesi. Con l’obsolescenza delle categorie di giudizio legate allo storicismo e alla sua malcelata teleologia, vengono così meno i giudizi di valore sull’opera, surclassati, in una generale revisione di tutti di testi letterari, in primo luogo quelli considerati classici, sulla base di un loro più ampio inquadramento in circostanze produttive e di ricezione fino ad allora inesplorate. 5 R. Barthes, Da dove incominciare?, in Id., Il grado zero della scrittura, Torino, Einaudi, 1982, p. 141. 6 «Quando tratti e sequenze fonemiche, unità morfologiche e lessicali, sintattiche e fraseologiche, compaiono in posizioni corrispondenti nel verso o nella strofa, siamo indotti a domandarci, consciamente o subconsciamente, se, in qualche misura e sotto quale aspetto le entità corrispondenti per posizione fra loro siano tra loro simili. Quegli schemi poetici in cui certe similarità fra sequenze verbali sono obbligatorie o godono di un’alta preferenza appaiono assai diffusi nelle lingue del mondo, e si prestano particolarmente bene sia allo studio del linguaggio poetico sia all’analisi linguistica in generale», R. Jakobson, Poetica e poesia, Questioni di teoria e analisi testuali, Torino, Einaudi, 1985, p. 256. 7 Si tratta infatti di una distinzione extraletteraria, perché, come spiega Umberto Eco, «sta di fatto che, rapportati ai valori su cui si esercita il discorso culturale in atto, questi valori possono essere collocati in un ambito di relazioni tale che, situandoli in una prospettiva, implicitamente li giudichi», U. Eco, Apocalittici e integrati (1964), Milano, Bompiani, 1982, p. 175.

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2. La battaglia d’Inghilterra: da F.R. Leavis a Stuart Hall Ancora prima che lo strutturalismo riformasse lo status dell’autore e del testo, in Gran Bretagna la letteratura divenne il terreno di un confronto che interessava prevalentemente le categorie di “popolare” e “di massa” contrapposte a “elitario” o “canonico”. I Cultural Studies fornirono una serie di risposte a quesiti che varie generazioni di critici, a partire da Matthew Arnold non avevano mai voluto porre, sulla referenzialità dell’autore, sul suo ruolo in un sistema comunicativo, sulla sua posizione rispetto a un mercato editoriale, sull’esistenza e sul funzionamento della letteratura rivisitata come fenomeno non solo sociale ma di classe, spesso antagonista rispetto ad una cultura sommersa, alternativa nei confronti del registro highbrow. In un quadro di confronto generazionale, Stuart Hall8 descrive la storia dei Cultural Studies inglesi nei termini di uno “sviluppo ineguale”, che vide la critica rifondarsi su nuove basi a partire da tre testi: Culture and Society, di Raymond Williams, del 19589, il contemporaneo The Uses of Literacy di Richard Hoggart e, infine, The Making of the English Working Class, di E.P. Thompson, del 1963. Una solida formazione letteraria alla scuola di Leavis accomunò Williams e Hoggart, mentre Thompson, per la sua indagine storica, partì da un’importante biografia, equivalente a una rilettura critica, di un poliedrico uomo di lettere engagé come William Morris10. Pur non avendo concertato la direzione delle rispettive ricerche, i tre giovani studiosi rappresentano un indirizzo emergente nell’accademia inglese del secondo dopoguerra, quello che dà voce ad una crescente insoddisfazione nei confronti della concezione dominante della cultura. Questa veniva vista, e non solo in ambito accademico, secondo i tratti della Kultur teorizzata da Tönnies, ovvero patrimonio invariabile e intangibile ai più, eredità di cui una classe di intellettuali si deve far carico per impedire ogni forma di contaminazione con la Zivilisation, ovvero la dilagante civiltà di massa. Alle origini di questa concezione si può rintracciare un certo estetismo di fine Ottocento, legato alle formulazioni di Walter Pater, declinato in se8

S. Hall, Two Paradigms, in J. Storey (a cura di), What is Cultural Studies?, London, Arnold, 1996, p. 31 ss. 9 R. Williams, Culture and Society 1780-1950, London, Chatto & Windus, 1958; R. Hoggart, The Uses of Literacy, London, Chatto & Windus, 1957; E.P. Thompson, The Making of the English Working Class, London, Vintage, 1963. 10 Cfr. E.P. Thompson, William Morris: Romantic to Revolutionary, London, Merlin Press, 1955.

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guito, a partire da una sfera spirituale, in termini prettamente politici11 da Julien Benda e Ortega Y Gasset12. È un periodo, quello fra le due guerre, in cui il dibattito su società e cultura di massa si sviluppa su scala europea: i francofortesi controbattono a Spengler e allo stesso Ortega Y Gasset, mentre la genesi di una nuova tipologia di critica letteraria in Gran Bretagna, attenta in primo luogo alle dinamiche sociali, sarà notevolmente influenzata dall’apporto, anche in termini didattici, di quegli “social scientists” sfuggiti alla Germania nazista come Karl Mannheim o Karl Polanyi13. Negli stessi anni, nella sua produzione compresa tra The Waste Land e i Four Quartets, Eliot denigrava la moderna società consumistica, idealizzando implicitamente il ritorno ad una comunità organica preindustriale coesa intorno ad un ideale cristiano condiviso. Non che da Arnold a Eliot si ignorasse l’esistenza di un’arte popolare, perché poi in fondo di questo tema si tratta in Culture and Anarchy o delle Notes Towards a Definition of Culture, ma la tradizione esaltata da questi intellettuali è indiscutibilmente legata a un registro alto, che non accetta revisioni o confronti con altre forme. Già in Matthew Arnold e nei primi esempi di critica letteraria statunitense l’accento cadeva sulla letteratura come ricettacolo di un umanesimo capace di attualizzare valori mutuati dalla tradizione del Romanticismo e, soprattutto, del Rinascimento. Lo studio della letteratura era inteso per migliorare la persona, sviluppare l’immaginazione attraverso la quale comprendere meglio l’esperienza degli altri, e, in tal modo, imparare a rispettare l’altro. Evidentemente però questo insegnamento era rivolto soltanto ai membri di un’élite cosmopolita. 11 L’estetismo e l’individualismo modernista in certi casi si trasformano in esplicito appoggio a regimi autoritari di destra, come nel caso di Windham Lewis e, soprattutto, di Pound, il quale motiva la sua adesione al fascismo italiano, e la sua violenta azione di propaganda antisemita, con un rifiuto della società capitalista fin dalle origini di questa nel Medioevo. 12 Ciò è evidente nell’idea di un’élite selezionata in base a un principio spirituale di Ortega Y Gasset: «Al contrario di quanto si suole credere, è l’essere selezionato, e non la massa, a vivere in essenziale servitù. Non ha per lui senso la vita se non la si fa consistere a servizio di qualcosa di trascendentale. Per questo non ritiene la necessità di servire come un’oppressione», J. Ortega Y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna, il Mulino, 1984, p. 83. 13 «The particular circumstances of Cultural Studies were focused by arguments over the role and status of the ‘literary’ and the ‘sociological’ in adult liberal studies. There is also an examination of the origins of the study of ‘popular culture’ in adult classes in the early 1930s, and the increasing importance of sociology, especially in the work of R.H.Tawney and that of Karl Mannheim and other European émigrés who were involved in adult education in the late 1930s», T. Steele, The Emergence of Cultural Studies, 1945-1965, London, Lawrence & Wishart, 1997, p. 2.

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L’idea di letteratura o di cultura tout court che emerge dalla genealogia Arnold/Eliot è inscindibile da un’avversione nei confronti di qualsiasi forma di democrazia, in quanto questa viene immancabilmente associata con la vituperata massificazione. In Mass Civilization and Minority Culture Leavis articolava questa posizione14, definendo la letteratura “disinteressata” e, come tale, antitetica rispetto alla massificazione dell’arte. Eliot estendeva questa diagnosi alla società nel suo complesso, affermando in The Idea of a Christian Society che: «purtroppo nessun progetto di riforma sociale può mirare direttamente ad uno stato di cose che sia propizio alla fioritura artistica: è probabile, infatti, che le arti siano attività derivate per le quali è impossibile preparare deliberatamente un terreno favorevole. Tuttavia, il loro decadimento può sempre venir preso come sintomo di una infermità sociale che deve essere analizzata»15. Il suo Notes Towards the Definition of Culture approfondisce l’analisi di questa supposta “infermità”. Culture and Society nasce in opposizione proprio a quest’opera, per poi dar l’avvio a un lungo, pluridecennale approfondimento. Capitalizzando sulla propria esperienza biografica – l’essere nato e cresciuto in una famiglia operaia, con un padre militante nel partito laburista d’anteguerra nonché aver svolto attività didattica nei corsi di formazione per adulti all’indomani degli studi a Cambridge –, Williams decostruisce la concezione della modernità che caratterizza il modernismo letterario anglosassone. E lo fa a partire da quell’estetica assoluta, aliena alla dimensione storico politica, che per Eliot dovrebbe ispirare una cultura sotto la tutela di un’élite illuminata16. «Ma le idee [eliotiane] sulla diffusione della cultura sono normalmente state di carattere egemonico, nell’interesse di uno specifico ideale di una classe esistente”. Esse si basano sulla “convinzione che una cultura (in senso specializzato) può essere estesa senza cambiare la cultura (nel senso di ‘un intero sistema di vita’) all’interno della quale è stata prodotta»17. Infine «la libera economia, che è il dogma centrale del conservatori14 Cfr. F.R. Leavis, Mass Civilization and Minority Culture, Cambridge, Gordon Fraser, 1930. 15 T.S. Eliot, The Idea of a Christian Society, London, 1939, p. 52 citato in R. Williams, op. cit., p. 276. 16 «Eliot riconosce la necessità delle élite, anzi di una élite, e pensa che, per assicurarsi la continuità generale, si debbano conservare le classi sociali, anzi una classe sociale governante, con la quale l’élite coinciderà, condizionandosi reciprocamente», R.Williams, Culture and Society (1958), trad. it., Cultura e rivoluzione industriale, Torino, Einaudi, 1969, p. 288. 17 Ivi, p. 285.

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smo contemporaneo, non soltanto contraddice i principi sociali che Eliot espone, ma anche, e qui sta la vera confusione, è l’unico metodo di cui disponiamo per ordinare la società in modo da mantenere quegli interessi e quelle istituzioni dalle quali Eliot crede dipendano i suoi valori»18. Ad Eliot insomma sfugge ciò che Marx aveva colto perfettamente, quando aveva spiegato nel Manifesto che «tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria»19. In altri termini, il primo ostacolo per la conservazione di un’estetica collegata ad un rigido codice di valori risiede proprio in quel sistema economico di cui Eliot vuole servirsi come scudo. Ma, tornando alla relazione fra letteratura e studi culturali, qual è il ruolo della letteratura in questo scontro fra sistemi di vita e ideologie che li informano? L’innovativa sequenza di scrittori in Culture and Society può fornire una risposta in questo senso: senza fare distinzione fra intellettuali e letterati in senso stretto – Marx ad esempio è considerato, a buon diritto, una voce importante del Vittorianesimo, e viene trattato di seguito a Wordsworth e Coleridge – Williams ordina gli autori della sua rassegna secondo una successione cronologica che suggerisce un cambiamento in atto, un andamento dinamico, in chiara opposizione a quel contemporaneo classico della storia letteraria che è Anatomy of Criticism di Northrop Frye: qui infatti il corpus dei testi rientrava in una visione ciclica del mondo – anch’essa evidentemente premoderna – associata ai generi, a loro volta corrispondenti alle stagioni. Non si tratta di una revisione isolata: pochi anni prima Thompson aveva rivisto il romanticismo britannico da Shelley a Morris per rintracciarvi le radici culturali del socialismo sviluppato in seguito da Marx. Culture and Society inaugura così una linea di sviluppo che postula una sostanziale unità fra la dimensione sociale e la produzione letteraria e/o culturale, identificando questo secondo polo come già presente all’interno dell’opera letteraria. Forte anche di suggestioni dall’ambito antropologico, Williams continuò infatti a utilizzare l’attenta prassi del close reading codificata da Leavis, ma non per trovare conferma al già noto, quanto per rintracciare nei classici della modernità come Austen, Wordsworth, Hardy delle macrostrutture significative per un intero periodo storico. Qui si colloca quell’inafferrabile ma stimolante ossimoro 18

Ivi, p. 289.

19 Da questa citazione è tratto il titolo di M. Berman, All That Is Solid Melts Into Air.

The Experience of Modernity, New York, Simon & Schuster, 1982, trad. it., L’esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1990. Berman sostiene che l’esperienza della modernità infatti è un vortice di perpetua disintegrazione e rinnovamento.

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che è la “struttura del sentire”, la “structure of feeling”20 con cui Williams riscontra e segnala l’avvenuto mutamento di prospettiva sui testi letterari, in base alla quale il fulcro dell’analisi si sposta quasi impercettibilmente su un elemento contestuale, più ampio, fatto di idee e pratiche, una sintesi di cui il testo letterario costituisce il punto di partenza ma anche l’illustrazione più efficace. Non si tratta di un antagonismo critico fra opera letteraria intesa come “documento” – spunto cioè a un’indagine esclusivamente sociologica – o “monumento”, ovvero opera da preservare senza concessioni all’attualità, anzi a discapito di questa. Il documento piuttosto avanza le sue pretese nei confronti del monumento, per una nuova fruttuosa sinergia, che coincide con gli esiti testuali dello strutturalismo. Elogiando Lucien Goldmann, Williams sostiene che la relazione fra sociologia e letteratura non vada intesa come un insieme di strumenti teorici contrapposti ad un corpus empirico, quanto come un rapporto che si sviluppa all’interno di una “coscienza totale”: qualcosa che si può “presupporre”, e in seguito “rivelare”, piuttosto che apprenderla e poi trattarne sistematicamente21. Williams mette in luce un intero campo di indagine, la sfera sociale, in cui anche la nozione di testo letterario, nelle sue molteplici varianti, affonda le sue radici; un ambito fino ad allora sistematicamente ignorato da Leavis prima e da Eliot poi. Il critico gallese si rende conto che una cultura – e la sua concezione di cultura continua a essere incentrata su un ricchissimo canone letterario – va studiata da una prospettiva più ampia, rispetto alla scuola di Cambridge, se si vuole apprezzarne proprio la ricchezza semiologica (e qui emerge un’altra affinità con le proposte di Barthes). Un’angolazione testuale, che ripropone l’apertura bachtiniana, cui Williams esplicitamente si rifà nel suo riferimento a Volosinov22. Uno strumento come la structure of feeling si può cogliere come nesso fra idea e prassi proprio nel suo marcato carattere dialogico: «Nella dialogicità della parola il rapporto con la parola altrui, con l’enunciazione altrui rientra nell’obiettivo dello stile. Lo stile comprende organicamente in sé sia le indicazioni puntate verso l’esterno, cioè la correlazione dei 20 Utilizzato per la prima volta da R. Williams in Preface to Film (con Michael Orron, London, Film Drama Limited, 1954), questo strumento critico da lui coniato ricorrerà in tutta la sua opera critica. Per quanto criticato in quanto troppo generico, è stato ripreso e citato da molti altri autori proprio per la sua innegabile versatilità, in una posizione teorica liminale fra critica letteraria e Cultural Studies. 21 R. Williams, Literature and Sociology, in Problems in Materialism and Culture, London, Verso, 1990, p. 22. 22 Cfr. R. Williams, Marxism and Literature, London, Verso, 1977.

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suoi elementi con gli elementi del contesto altrui. La politica interna dello stile (l’unione degli elementi) è determinata dalla sua politica esterna (il rapporto con la parola altrui). La parola sembra vivere al confine del contesto suo e quello altrui»23. Mutuando altri spunti teorici dalla critica marxista eterodossa – Benjamin e Gramsci in particolare –, Williams è inoltre convinto che determinati interessi di classe nella storia della critica letteraria recente abbiano motivato la scelta di ignorare la profonda matrice popolare presente nel testo, riducendo così al silenzio la modernità nel suo insieme: visto come un’insidia per una visione ideologizzata della cultura borghese, l’elemento popolare viene ipostatizzato, come nella pastorale, oppure è idealizzato, come nel caso di Thomas Hardy, all’interno di un affresco nostalgico della civiltà premoderna. In The Country and the City24 il testo letterario si intreccia col vasto ricettacolo di pratiche urbane, in una dicotomia città/campagna proiettata su scala globale, e senza la quale non è comprensibile la storia inglese dalla rivoluzione industriale all’apogeo del potere imperiale. Se, per rifarsi alla suggestiva ipotesi di Bachtin, la parola letteraria “vive al confine”, allora nella genesi degli studi culturali – che poi è una gemmazione rispetto alla critica letteraria – un versante coincide idealmente con un’interfaccia con l’esterno; un versante è cioè retrospettivo, come l’Angelus Novus benjaminiano, sugli sviluppi internazionali dell’idea di Englishness prima e, più in generale, delle forme discorsive dell’Occidente nel mondo poi. Poco più tardi, nel 197825, sfruttando proprio il pensiero foucaultiano per scardinare una tradizione26 costruita come forma di controllo coloniale, Edward Said avrebbe idealmente raccolto il testimone da Williams per una denuncia analoga, ovvero geografica, relativa ad un territorio su cui la letteratura operava specificatamente all’interno di un insieme di rappresentazioni con un fine egemonico. Il culturalismo non nasce come celebrazione di una dimensione organica intatta, come avveniva ad esempio nel sistema letterario di un’autrice come la Austen27, quanto come interrogazione sulle forme di fun23

M. Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, pp. 91-92. R. Williams, The Country and the City, Oxford, Oxford U.P., 1973. 25 Cfr. E.W. Said, Orientalism, New York, Vintage Books, 1978. 26 Cfr. E. Hobsbawm, T. Ranger, The Invention of Tradition, London, Pantheon Books, 1983. 27 Cfr. E. Said, Jane Austen and Empire, in T. Eagleton (a cura di), Raymond Williams. Critical Perspectives, Oxford, Oxford Polity Press, 1989, pp. 150-165. Cfr. Anche F. Moretti, Atlante del romanzo occidentale, Torino, Einaudi, 1997. 24

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zionamento di una certa cultura di cui la letteratura è espressione. Lo schema cultura letteratura viene capovolto a favore della prima, vista però come un luogo di scontro egemonico. Consideriamo ad esempio il senso della ricerca, contemporanea a Williams, di Hoggart, la cui attenzione devia rispetto alla “literature” in sé, per concentrarsi sulla “literacy”, l’alfabetizzazione. Anche in questa scelta è implicita una risposta ai luoghi comuni della critica di Oxbridge: si tralasciano i classici canonizzati ma confinati a percentuali molto esigue di lettori, per scoprire pubblicazioni, circuiti comunicativi e forme di lettura fino a quel momento ignorati dalla critica. In uno spirito pionieristico The Uses of Literacy affronta la letteratura al di fuori della sfera delimitata dalla high literature, rivendicando così l’esistenza di una cultura altra e subordinata, significativa per un’intera classe sociale nata dall’industrialismo. È una presa di posizione contro la definizione di Arnold della cultura come patrimonio esclusivo dei “best and the brightest”, anche perché i “migliori e i più acuti”, cui naturalmente competeva la conduzione politica della Gran Bretagna, rappresentavano una classe antagonista. Non solo la “working class” definiva se stessa in opposizione a quella dominante, ma giustamente riteneva quest’ultima artefice di una cultura dalla quale essa restava esclusa: Holding fast to a world so sharply defined into ‘Us’ and ‘Them’ is, from one aspect, part of a more important general characteristic of the outlook of most working class people. To come to terms with the world of ‘Them’ involves, in the end, all kinds of political and social questions, and leads eventually beyond politics and social philosophy to metaphysics. The question of how we face ‘Them’ (whoever ‘They’ are) is, at last, the question of how we stand in relation to anything not visibly and intimately part of our local universe. The working class splitting of the world into ‘Us’ and ‘Them’ is on this side a symptom of their difficulty in meeting abstract or general questions28.

Dove gli studi letterari tradizionali avevano definito la letteratura come una categoria estetica fuori dal tempo, i Cultural Studies avrebbero, fin dall’esordio, esaminato la nozione di valore come storicamente costruita. Ora, se Williams definisce la sua opera una mappa, questa nuova cartografia si riferisce ad un campo diverso dal passato; il suo tormentato 28

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R. Hoggart, The Uses of Literacy (1957), London, Penguin 1992, p. 102.

percorso nell’arco di oltre un trentennio di attività di ricerca si traduce precisamente nel superamento di un terreno di ricerca noto – gli studi letterari tradizionali – per afferrare il senso di nuove problematiche e costruire su di esse un nuovo paradigma.

3. Per un nuovo paradigma: nei labirinti egemonici Partendo dalla “letteratura” Williams approda alla “cultura”, intendendo con questo movimento sia un ampliarsi della prospettiva critica in chiave antropologica, sia un inquadramento, ritenuto necessario per il fenomeno letterario, in una struttura. Rispetto alla semplicistica ripartizione leavisita di alto/basso, la cultura si qualifica così come “un intero sistema di vita”29 (a whole way of life), con un’estensione in orizzontale intesa ad inglobare tutte le manifestazioni finora escluse dal vaglio accademico. E tuttavia i due esiti naturali di questa espansione, cioè l’antropologia e lo strutturalismo non corrispondono alla collocazione finale dei Cultural Studies. Da cosa dipende una natura, che, come già detto, risulta così refrattaria alle classificazioni? Nel porre in relazione la “structure of feeling” con lo strutturalismo genetico di Goldmann, Stuart Hall30 descrive il laborioso tentativo di ricostruire un nesso fra fatti sociali e letterari, in base ad una struttura mentale capace di individuare una serie di categorie che organizzano la coscienza empirica di un particolare gruppo sociale, e il mondo immaginario creato dallo scrittore. Per definizione queste strutture non sono una creazione individuale ma collettiva. Abbiamo già visto come nell’incipiente prassi di ricerca sulle strutture che controllano l’agire sociale, da Barthes a Bachtin fino a Lotman, si poneva l’accento sul carattere plurale di tali pratiche, in un’evidente reazione alla concezione del genio di ascendenza romantica, nonché all’idealismo estraneo alla prassi: in questo senso la dettagliata e densa ricostruzione materiale, da parte di Hoggart, delle condizioni attraverso cui si sviluppa una cultura della “working class” converge con il lavoro di Thompson, incentrato sul periodo tra il 1790 e il 1830 in cui le tradizioni popolari danno vita a una nuova cultura, alternativa e complementare insieme, a quella dei ceti dominanti. Qui evidentemente si dispiega un campo di ricerca vastissimo, 29

«Culture is not only a body of intellectual and imaginative work; it is also essentially a whole way of life», R. Williams, op. cit., p. 311. 30 S. Hall, in J. Storey, op. cit., p. 33 e ss.

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preconizzato da Macherey31 e delimitato a stento da Jauss nel tentativo di preservare uno specifico letterario contro la dissoluzione dell’oggetto letterario in una categoria indistinta, dominata dal pensiero di McLuhan. Contesi fra culturalismo e strutturalismo – due paradigmi difficilmente conciliabili32 –, i Cultural Studies corrono fin dagli esordi un rischio metodologico, ovvero quello di muoversi esclusivamente in una prospettiva empirica. Sono caratterizzati da un’ottica che smentisce diametralmente la precedente teorizzazione, diffusa in ambito anglosassone ma sviluppata originariamente da Croce, imperniata sulla gerarchia del canone, ma non per sostituirla con un nuovo paradigma, quanto per trasformare ogni opera letteraria in un singolo, cioè significativo in sé, “case study”. Quella che era originariamente una caratteristica positiva, l’accento sulla dinamica del processo sociale interno all’opera, la mutabilità contrapposta all’immobilità del canone, potrebbe rivelarsi un punto debole, fatale rispetto a qualsiasi tentativo di teorizzazione. Un altro aspetto controverso è la compresenza di opere e di autori diversi che non vengono più selezionati per una revisione delle antologie vigenti, come avveniva con Williams o Thompson, ma solo in quanto partecipi della stessa cultura in divenire. Si rischia così una tautologia che, anche in questo caso, elimina la possibilità di capitalizzare su un confronto. Ciò spiega la ricorrenza della parola “crisi” nella diagnosi di Lidia Curti33 sulla gemmazione o deriva, a seconda delle prospettive, dei Cultural Studies rispetto agli studi letterari tradizionali. Certo occorre riconoscere alla disciplina l’apertura di un nuovo orizzonte e di un’area di studi oltre all’uso di strumenti para antropologici per scopi diversi dall’antropologia. Quest’ultima infatti si concentrava su società “altre” per una localizzazione geografica e temporale, in una concezione delle società in esame come insiemi conchiusi, campioni eventualmente da tenere in considerazione per future comparazioni, ma comunque in un’indagine esaustiva in sé. Con i Cultural Studies invece il campione letterario si inquadra in un contesto che è antropologico, ma resta aperto. Semmai il problema sorge quando il contesto rinvia continuamente a qualcosa d’altro, seppure pertinente, perché l’analisi è appropriata ma non risulta mai conclusiva. 31

Cfr. P. Macherey, Per una teoria della produzione letteraria, Bari, Laterza,

1969.

32 33

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Cfr. A. Easthope, Literary into Cultural Studies, London, Routledge, 1991. Cfr. L. Curti, Marxism and Culture, «Screen», 1977, 18.

La letteratura diviene scienza del testo, nel senso che letteratura e filologia prestano alla cultura la propria strumentazione ermeneutica34. Ovviamente in tal modo l’analisi letteraria allarga di molto le proprie competenze e il proprio campo d’azione, ma il prezzo da pagare consiste proprio nella perdita della specificità dell’opera letteraria. In tal senso, i Cultural Studies realizzano nel modo più completo la prospettiva auspicata da Mukarovsky nella celebre diatriba di quest’ultimo con Wellek negli anni trenta, sulla natura e gli scopi della critica letteraria. Sosteneva Mukarovsky: Solo il punto di vista semiologico permetterà ai teorici di riconoscere l’esistenza autonoma e il dinamismo essenziale della struttura dell’arte e di intenderne l’evoluzione come un movimento immanente ma in rapporto dialettico costante con l’evoluzione degli altri campi della cultura35.

Si è già detto che i Cultural Studies rappresentano dunque il punto d’arrivo di una prospettiva radicalmente differente sulla letteratura, in cui il giudizio estetico scompare, o almeno passa in secondo piano rispetto ad una comprensione globale della natura testuale del fenomeno letterario. In tal modo però gli studi culturali annullano la distinzione fra cultura e tecnica, dando per scontato che la cultura si diffonda attraverso la tecnica e finisca per coincidere con quest’ultima. Da quest’ultimo aspetto nasce, parallelamente ai Cultural Studies, una scienza della comunicazione, che si occupa della distribuzione e della circolazione del testo letterario, e, con questo, anche del difficile equilibrio fra globale e locale. Quanto detto va inquadrato in un contesto, quello degli anni Sessanta, in cui questa attenzione alla circolazione e alla ricezione (anche sulla scia di Jauss, il cui manifesto risale al 1966) rimetteva in discussione categorie radicate. Con la nascita prima del Centre for the Study of Contemporary Culture (CSCC) di Birmingham nel 1964, e poi con la diffusione nei curricula universitari delle nuove pratiche di analisi su tematiche sempre più distanti dalla letteratura, si innesta un processo per cui la critica letteraria, luogo di origine dei Cultural Studies, rischia di naufragare fra un diffuso disinteresse e la perdita di una funzione istituzionale. 34 C. Lutter, M. Reisenleitner, Cultural Studies, a cura di M. Cometa, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. XV. 35 J. Mukarovsky, La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali, Torino, Einaudi, 1973, p. 146.

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Obliterando le radici e le motivazioni dell’impegno sociale dei pionieri, incentrato sulle implicazioni mondane dei testi letterari, si intravede oggi un appiattimento sulla descrizione dei meccanismi di funzionamento del testo. Questa tendenza rischia di sfociare evidentemente in una infinita autoreferenzialità o in un tecnicismo alieno rispetto allo spirito con cui si analizzava – sempre a partire dal testo letterario – la fase in cui le convenzioni venivano smentite e superate. Se esiste una risposta a tale impasse, è probabilmente da rintracciare in quelle forme di analisi che rivalutano in chiave testuale la componente sociale. Una formulazione in tal senso, radicata nei francofortesi ma collegata a Benjamin, si deve a Jameson: Ciò che ho in mente, tuttavia, è la fase in cui una disciplina specializzata trascende se stessa concentrandosi sulla realtà, il punto in cui, – e questo avviene senza che la disciplina venga meno alle proprie tematiche e alla propria logica –, la critica letteraria abolisce se stessa e, esattamente in questa fase lascia intravedere un lampo di coscienza che è tutt’uno con il piano sociale, con quell’elemento cui Hegel si riferisce quando parla del ‘concreto’. […] [I lavori che si richiamano a un’interpretazione freudiana] riflettono una forma di disintegrazione psichica, ma, allo stesso tempo, fanno uno sforzo per superare quello stato proprio rendendolo presente a noi come un processo integrale […]. La critica allegorica di questo genere corrisponde perciò alla struttura di un mondo post individualistico nel quale non sono più disponibili né la vecchia unità della Gemeinschaft né la più recente unità di un soggetto borghese autonomo e individualista egli stesso36.

L’allegoria di Benjamin costituisce uno strumento per un approccio alla critica letteraria che inglobi le acquisizioni dei Cultural Studies a livello di rappresentazione, ma li proietti su un’analisi che riattiva, de36

«What I have in mind, however, is the point at which a specialized discipline is transcended towards reality itself, the point at which – and this under its own momentum, under its own logic, literary criticism abolishes itself as such and yields a glimpse of consciousness momentarily at one with its social ground, of what Hegel calls the concrete. […] They reflect psychic disintegration, to be sure, but at the same time they mark an effort at overcoming that state by the very fact of making it present to us as a complete process. […] Allegorical criticism of this kind thus corresponds to the structure of a post individualistic world one in which neither the older unity of the Gemeinschaft nor the newer unity of the autonomous and individualistic bourgeois subject is available», F. Jameson, Criticism in History (1976), in The Ideologies of Theories. Essays 1971-1986, Minneapolis, Minnesota U.P., 1988, pp. 120, 129.

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stabilizzandola, la nostra percezione del passato e della storia. L’allegoria ripresa dalla tradizione medioevale diviene strumento di lettura di un fenomeno che condensa in sé un intero sistema di segni – da cui la concentrazione auspicata da Jameson, nonché la ricchezza semiologica fortemente voluta da Mukarovsky – e che, come mezzo di conoscenza, nasce cosciente dei propri limiti epistemologici. Non rischia cioè di porsi come cifra generica, o di sfociare in definizioni assiomatiche, né tanto meno di avere un esito deterministico. Ogni fatto cioè viene ricondotto a un sistema interpretativo ad hoc, ma questo non pregiudica che la propria qualifica di esemplare possa dar luogo, più che a un giudizio, a una presa di coscienza. Come ha osservato lo stesso Jameson, i Cultural Studies non hanno un esito immediatamente politico, ma si collocano pur sempre all’interno di un più generale progetto politico non nel senso dell’azione diretta, ma della consapevolezza delle condizioni della modernità. La concentrazione di Benjamin su situazioni testuali arricchisce la prospettiva culturalista di suggestioni freudiane filtrate attraverso la grande esperienza del surrealismo. Nell’antica Grecia venivano indicati i luoghi attraverso i quali si scendeva agli inferi. Anche la nostra esistenza desta è una regione in cui in punti nascosti si discende agli inferi; sono luoghi per niente appariscenti in cui sfociano i sogni […]. Gli edifici della città sono un labirinto che alla luce del giorno assomiglia alla coscienza; di giorno i passages (queste sono le gallerie che conducono alla loro esistenza dimenticata) sfociano inavvertiti nelle strade. Ma di notte il loro buio compatto esce fuori spaventoso fra le masse di case37.

Si consideri come questo frammento tratto dal Passagenwerk si collochi al centro di una rete di relazioni che tematizza e rende tangibile l’idea di modernità. Il Passage, luogo fisico reale, segno architettonico, allude ad una tradizione letteraria classica che parla il linguaggio della psicanalisi. Il moderno è percezione onirica ma allo stesso tempo reale e contingente, e, come tale, anche riflessione e stimolo all’agire politico. Si può parlare in questo contesto in fieri di una “fisiognomica degli attanti” che stabilisce chi agisce e in quali condizioni. Emerge così l’importanza del luogo e delle tattiche. 37 W. Benjamin, Parigi arcaica, catacombe, demolitions, declino, in Id., Parigi, capitale del XIX secolo, Torino, Einaudi, 1986, p. 130.

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I Cultural Studies non utilizzano la teoria come metafora di processi sociali e testuali, né applicano processi sociali e testuali come metafora per la teoria. I Cultural Studies non si occupano della riscoperta di ciò che già sappiamo – delle strutture di potere o delle possibilità di resistenza. I Cultural Studies non si occupano dei rapporti fra il testo e il soggetto o tra il soggetto e il sociale. Per i Cultural Studies non si tratta di comunicazione, di ideologia, di desideri o dei divertimenti, seppure anche questi possano essere parte dei Cultural Studies. Non si tratta neppure della documentazione etnografica del locale. Per i Cultural Studies si tratta della registrazione dell’instaurazione e degli effetti di pratiche discorsive e di alleanze nel contesto di uno specifico spazio o milieu38. Pratiche e alleanze definiscono un nuovo contesto in cui la stesso nozione di società – un solido appiglio per l’esegesi al tempo di Williams appare frammentaria, controversa, stratificata: It seems to me that the latent function of sub cultures is this-to express and resolve, albeit magically, the contradictions which remain hidden or unresolved in the parent culture. The succession of sub-cultures which this parent culture generated can thus all be considered as so many variations on a central theme the contradiction, at an ideological level, between traditional working class Puritanism, and the new hedonism of consumption; at the economic level between a future as part of the socially mobile élite, or as part of the new lumpen. Mods, Parkers, skinheads, crombies, all represent, in their different ways, an attempt to retrieve some of the socially cohesive elements destroyed in their parent culture, and to combine these with elements selected from other class fractions symbolising one or other of the options confronting it39.

Questa miriade di gruppi, corrispondente anche all’esplosione dei registri letterari contemporanei, si specchia in una «modernità basata su questa frattura, che la divide in insularità scientifiche predominanti su uno sfondo di resistenze, pratiche e simbolizzazioni irriducibili al pensiero»40. 38

L. Grossberg, Cultural Studies als Herausforderung, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, p. 11. 39 J. Clarke, S. Hall, T. Jefferson, Subcultures, culture and class: A Theoretical Overview, in S. Hall, T. Jefferson (a cura di), Resistance through Rituals: Youth Subcultures in Postwar Britain, Hutchinson, /OU, 1976, cit. in J. Storey, op. cit., p. 21. 40 M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it., Roma, Edizioni Lavoro, 2001, p. 33.

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Il luogo, la sua importanza nello strutturare il testo riportano in auge una geografia letteraria attiva dove le suggestioni postcoloniali di Bhabha e Spivak si innestano su un richiamo etico e, soprattutto, civico, che attraversa l’opera tarda di Said. Un tentativo di coordinare una politica che deve qualificarsi come culturale all’interno di gruppi effimeri e composti di individui sradicati; una cultura che procede attraverso tattiche e negoziazioni continue, dove «tattica [si definisce] l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio. Nessuna delimitazione di esteriorità le conferisce un’autonomia. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. (…) Non ha dunque la possibilità di darsi un progetto complessivo né di totalizzare l’avversario in uno spazio distinto, visibile, oggettivabile»41. E tuttavia, in un quadro così composito e aperto al confronto egemonico si ripropone la priorità della letteratura come gesto simbolico fondante: «Ogni nuova civiltà, in quanto tale, anche compressa, combattuta, in tutti i modi impastoiata, si sia precisamente espressa letterariamente prima che nella vita statale, anzi la sua espressione letteraria sia stata il modo di creare le condizioni intellettuali e morali per l’espressione legislativa e statale»42.

41

Ivi, p. 73. A. Gramsci, (Quaderno 15) Caratteri non nazionali popolari della letteratura italiana, in I Quaderni del carcere, Torino, Einaudi, 1975, p. 1777. 42

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Narrazioni contemporanee nei nuovi media: la fan fiction Marina Guglielmi

Se lo studio della letteratura nasce dal nostro rapporto con i testi, non si può negare l’importanza di ciò che ci accade mediante i testi stessi. Wolfgang Iser, L’atto della lettura

L’idea di letteratura che si è venuta disegnando nei lavori di questo seminario ha attraversato i secoli, dalle origini a oggi. Il mio sguardo conclusivo si pone a ridosso del presente, è uno sguardo sull’esistenza e sulla fruizione della letteratura nel mondo globale, informatico e partecipativo1. Farò riferimento all’idea di cultura convergente e all’uso che ne hanno fatto gli studiosi della cultura di massa, a partire da Pierre Lévy e Henry Jenkins, per interpretare una forma di narrazione contemporanea nota come fan fiction, fan novel, fanfic, più in generale detta fandom.

1

L’interesse per il rapporto tra la letteratura e l’età ipertestuale, periferico nell’accademia italiana ma non altrove, è testimoniato ad esempio dal Congresso dell’Associazione Internazionale di Letteratura Comparata (AILC/ICLA) che si terrà a Seoul nell’agosto 2010. La sessione intitolata Locating Literature in the Hypertextual Age/Situare la letteratura nell’età ipertestuale è dedicata alla necessità di elaborare una nuova prospettiva di ricerca: «La Letteratura comparata deve formulare un nuovo metodo di coesistenza con la cultura complessa dell’età ipertestuale. Con la comparsa dell’ipertesto, la tecnologia innovativa sembra sull’orlo di rimpiazzare la nozione classica di cultura testuale. Dunque i testi letterari devono scovare un mezzo per sopravvivere all’età dei media multipli che superano il testo stesso. In questo avvento dell’età dell’ipertesto la Letteratura comparata deve essere in grado di presentare una visione e un progetto concreti sul valore esistenziale e sulla direzione del testo letterario»; www.icla2010. org/download/ICLA2010_2nd_Circular.pdf.

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La partecipazione Henry Jenkins, direttore del Comparative Media Studies Program del MIT, conia nel 2006 l’idea di Convergence culture2, cultura convergente, per denominare il fenomeno di compresenza collaborativa di vecchi e nuovi media in epoca contemporanea e di diffusione di una modalità di interazione, non prevedibile in passato, fra il potere dei produttori e quello dei consumatori. I concetti basilari che Jenkins utilizza per parlare della sinergia contemporanea sono: convergenza mediatica, cultura partecipativa e intelligenza collettiva. L’idea di convergenza mediatica riguarda il flusso di contenuti su più piattaforme: La diffusione di tali contenuti – attraverso diversi sistemi ed economie concorrenziali dei media, e oltre i confini nazionali – si deve molto alla partecipazione attiva dei consumatori. In questa sede voglio contestare l’idea secondo la quale la convergenza sarebbe essenzialmente un processo tecnologico che unisce varie funzioni all’interno degli stessi dispositivi. Piuttosto, essa rappresenta un cambiamento culturale, dal momento che i consumatori sono stimolati a ricercare nuove informazioni e ad attivare connessioni tra contenuti mediatici differenti. Questo libro tratta del lavoro – e del gioco – che gli spettatori mettono in opera nel nuovo sistema dei media3.

La partecipazione degli spettatori/lettori è parte centrale del pensiero sulla cultura convergente: per creare i nessi non bastano i processi tecnologici, serve invece la reazione o la “risposta estetica” del fruitore. L’idea dinamica del rapporto tra produttore e consumatore scardina la fissità di ruoli a lungo considerati divergenti e propone invece la centralità della risposta, della reazione. Il consumo individuale di un contenuto 2

Nel 2006 Henry Jenkins descrive nel suo blog, www.henryjenkins.org, il mondo mediatico attuale mediante otto aggettivi: Innovativo, Convergente, Quotidiano, Interattivo, Partecipativo, Globale, Generazionale, Ineguale. I Wu Ming hanno commentato le otto qualità nella Prefazione al volume di riferimento per l’idea di cultura convergente, H. Jenkins, Convergence Culture, New York, New York University, 2006, trad. it., Cultura convergente, Milano, Apogeo, 2007. Fra gli altri scritti di H. Jenkins sull’argomento si veda anche H. Jenkins, From Barbie to Mortal Kombat: Gender and Computer Games, Cambridge - Mass., MIT Press, 2001; D. Thornburn, H. Jenkins (a cura di), Rethinking Media Change: The Aestetics of Transition, Cambridge-Mass., MIT Press, 2003; H. Jenkins, Fans, Bloggers, and Gamers: Exploring Participatory Culture, New York, New York University Press, 2006, trad. it., Fan, Blogger e Videogamers. L’emergere delle culture partecipative nell’era digitale, Milano, Franco Angeli, 2008. 3 H. Jenkins, Cultura convergente, cit., p. XXV.

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crea una risposta individuale che attraverso i media si organizza in terreno di interazione sociale e in risposta collettiva: quando il consumo si trasforma in un processo collettivo si dà vita a quella che Pierre Lévy ha chiamato “intelligenza collettiva” 4. Jenkins applica l’idea di cultura convergente a varie forme di narrazione contemporanea, da quella della reality tv alla narrazione “transmediale” prodotta dai fan della trilogia di Matrix o da quelli di Star Wars: si tratta cioè di narrazioni e risposte estetiche prodotte dalla partecipazione dei consumatori che si trasformano in produttori e autori di narrazioni, filmati e giochi nei quali rivisitano e riscrivono i testi più amati. Per la letteratura contemporanea l’esempio più studiato è senza dubbio quello dei bestseller di Harry Potter scritti da J.K. Rowling. Jenkins si occupa della posizione dei fan nella produzione contemporanea di contenuti definendone sia il valore di “capitale emozionale” sia l’aspetto di minaccia che i fan rappresentano per le corporazioni dei media. Da una parte sono gli stessi autori contemporanei (e qui Jenkins si riferisce alla produzione letteraria anglosassone e nordamericana) a concepire oggi nel loro lavoro uno spazio di relazione aperta al pubblico, un varco o un link per lasciare accedere e partecipare i consumatori, dall’altra gli utenti si servono delle nuove tecnologie «per accedere ai contenuti dei vecchi media, vedendo Internet come strumento per il problem solving collettivo, il dibattito pubblico e la creatività cosiddetta grassroots»5, vale a dire la creatività informale e non autorizzata. Jenkins in questo modo marca la distinzione fra il diverso uso dei media da parte dello scrittore (che mette a disposizione del pubblico un’apertura mediatica personale per interagire) e del pubblico (che massivamente irrompe sui media). Applicando questo discorso alla letteratura e alla sua presenza sulla rete è altrettanto importante sottolineare la distinzione tra literature on the net da una parte e net literature dall’altra. Con la literature on the net la rete ha la funzione di espositore virtuale della letteratura esistente dentro e fuori la rete: il termine include una varietà di prodotti virtuali che spazia da riviste accademiche on line, ebook e repertori di vario tipo, 4 P. Lévy, L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1999. Si veda anche l’interessante volume di S. Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene. Perché la televisione, i videogiochi e il cinema ci rendono intelligenti, trad. it., Milano, Mondadori, 2006 e la relativa recensione di Wu Ming 2, Create nuovi mondi, nutrirete il cervello, in “l’Unità”, 13 gennaio 2007. 5 H. Jenkins, Cultura convergente, cit., p. 179.

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alle vetrine degli editori o dei singoli autori6. La letteratura in questo caso è sulla rete, è uno dei tanti oggetti o “temi” che possiamo visualizzare nell’immenso mare mediatico. La literature on the net è ancora una “civiltà della scrittura”, ha la staticità che emula quella della carta stampata. La net literature, invece, è una “cultura dell’oralità”, ha la rapidità e la mutevolezza del discorso orale7. Comprende i blog, i siti dei fan, le riviste aperte, la letteratura condivisa, vale a dire la produzione a flusso continuo in cui più persone interagiscono creando le connessioni molti/ molti ma anche io/noi. Le due diverse forme di espressione – literature on the net e net literature – convivono oggi e si integrano tanto quanto hanno fatto la forma tipografica e la forma orale, in base allo stesso principio per il quale, ricorda Gabriele Frasca, i mezzi di comunicazione non si sostituiscono l’un l’altro ma si sovrappongono: Fra “cultura orale” e “civiltà della scrittura”, allora, nelle fasi via via più avanzate di alfabetizzazione, occorrerà intravedere piuttosto che uno scontro una sorta di alleanza, appunto una connessione mediale, atta da un lato a decontestualizzare e dunque gerarchizzare il sapere (è la grande distinzione aristotelica fra “scienze” poetiche, pratiche e teoretiche) e dall’altro a creare un ambiente, come direbbero gli attuali entusiasti teorici dei new media, d’“intelligenza collettiva”8.

Che tutto questo abbia molto a che fare con l’alfabetizzazione si è accorto anche Jenkins mettendo in rilievo, nei suoi studi sulla cultura convergente, il valore formativo della partecipazione soprattutto per quanto riguarda i suoi primi fruitori, i giovani. Poter valutare la forma di apprendimento che si realizza in questi spazi di creatività corrisponde a riconoscere un’equazione cognitiva: se non può esistere nel mondo alfabetizzato la figura dell’alfabeta, che sa leggere ma non scrivere, è altrettanto inconcepibile la figura del medialfabeta, che sapendo utilizzare i new media non possa poi esprimersi a sua volta. Una volta identificati i punti di riferimento essenziali per delineare l’idea di partecipazione, il passo ulteriore che il critico letterario e com6

Cfr. G. Boccia Altieri, Letteratura e costruzione dell’individuo moderno. Net literature e il futuro del “farsi media”, in A. Abruzzese, G. Ragone (a cura di), Letteratura fluida, Napoli, Liguori, 2007, pp. 211-230. 7 Per una prima sintesi sull’oralità e performatività dei nuovi media cfr. M. Fusillo, Estetica della letteratura, Bologna, il Mulino, 2009, p. 171 ss. 8 G. Frasca, La lettera che muore. La “letteratura” nel reticolo mediale, Roma, Meltemi, 2005, p. 54.

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paratista alle prese con il nuovo mondo mediatico può compiere è quello di considerare l’antenato della partecipazione: l’intertestualità. E di capire quali nessi esistano fra i due elementi.

Dall’intertestualità alla partecipazione Le fan fiction sono definibili, dal nostro punto di vista di studiosi di letteratura (e talvolta di new media) come il passaggio mediatico dall’idea di intertestualità a quella di partecipazione. L’intertestualità è una prassi narrativa alla quale ci siamo avvicinati per decenni tramite strumenti critici elaborati appositamente per decodificarla (basti pensare a Bachtin, Kristeva, Barthes, Riffaterre o a Genette). La partecipazione prevede una prassi narrativa dirompente e dilagante, provvista di regole interne al proprio sistema narrativo e acerba per quanto riguarda gli strumenti di comprensione che la interpretino come oggetto culturale di massa in relazione alla letteratura. Oggi appare necessario comprendere il passaggio fra l’idea dell’intertestualità che domina la seconda metà del secolo scorso e l’idea di partecipazione che avanza in questo secolo. Partecipazione che, nel caso che ci interessa, riguarda in primo luogo la riscrittura collettiva di opere dell’immediato presente ma anche, e in grande parte, di opere del passato, a partire dalla Bibbia e da Omero. Riguardo il problema dell’attualità del passato può esserci d’aiuto ricordare che nel 1948 Curtius in Letteratura europea e medioevo latino affermava che «per la letteratura ogni passato è presente, o può esserlo. […] Posso mettermi a studiare Omero e Platone in ogni momento, ed in quel momento lo “posseggo”, di un possesso pieno»9. Curtius, lo sappiamo, scriveva queste parole immerso nella preoccupazione di poter salvare la tradizione e la cultura occidentale che rischiavano di essere travolte da ciò che gli appariva allora come il «caos spirituale contemporaneo»10. Jauss, per smontare l’illusione dell’attualità atemporale del classico, cioè l’illusione di Curtius, rivendicava invece l’essenza storica del fenomeno che prevede che l’arte del passato diventi «per noi esperienza di 9

E.R. Curtius, Letteratura europea e medioevo latino, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 22. 10 Ivi, prefazione alla II edizione del 1954.

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nuovo attuale»11. Non basta parlare di classico sovratemporale che tesaurizza il ricordo e ci fa acquisire l’eredità. Piuttosto, affermava Jauss, l’opera classica astratta temporalmente ci risponde e ci dice qualcosa soltanto se noi prendiamo a interrogarla. Non si tratta affatto di una sostanza più originale dotata di un senso che rimane identico: l’arte raggiunge la pienezza del suo significato solo attraverso il suo effetto storico12.

Jauss faceva questa affermazione nel 1978 fissando già i termini del problema in maniera nuova. Si tratta della questione della “ricezione che rinnova”, certamente, ma anche del «rinnovamento del processo di ricezione, che sta tra il passato di un’opera e la sua comprensione attuale»13. È proprio considerando il rinnovamento del processo di ricezione del testo di cui parla Jauss e, aggiungo, di fruizione del testo, che riconosciamo la centralità dell’istanza mediatrice del pubblico nella riattualizzazione del passato. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti dell’intertestualità ma gioverà ricordare almeno che nel 1998 un altro grande teorico della ricezione, Lubomír Doležel, chiudeva il suo libro Heterocosmica affermando che «il gioco [della riscrittura postmoderna] non è più divertente, ed è tempo di inventarne uno nuovo»14. Sono trascorsi più di dieci anni e nel frattempo sembra essersi veramente prodotto un nuovo gioco. Il pubblico è diventato parte attiva della trasformazione dell’opera letteraria e dell’idea stessa di opera. Il noto discorso sull’inesauribilità delle opere va oggi ripensato allora anche a partire dalla loro fruizione contemporanea, nel nesso esistente fra autore e pubblico, nella relazione con uno statuto di narrazione che oltrepassa l’idea a noi nota di testo. Non si tratta più tanto di confermare uno statuto autocelebrativo dell’opera che si autoalimenta e si autorigenera internamente al sistema letterario (alla maniera della Kristeva) ma di interrogarsi piuttosto sia sulle diverse possibilità di esistenza del testo stesso, sia sullo statuto che il testo letterario assume in un nuovo medium. 11

H.R. Jauss, I classici sono di nuovo moderni?, «Belfagor», XXXIII, 1978, p. 2. Ivi, p. 4. 13 Ivi, p. 6. 14 L. Doležel, Heterocosmica. Fiction e mondi possibili, trad. it., Milano, Bompiani, 1999, p. 228. 12

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La fan fiction La fan fiction è una forma di narrazione pubblicata esclusivamente sul web e in cui ogni testo presenta un disclaimer, un avvertimento: «Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di (nome dell’autore dell’opera di riferimento)…; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro». In questo modo ogni fan fiction pubblicata sul web dichiara la propria fonte, l’opera che l’ha ispirata. Dal disclaimer deduciamo le prime caratteristiche fondative della fan fiction: sono testi che derivano da altri testi; sono narrazioni che non cercano la pubblicazione cartacea, dunque non sono mercificabili. In questo modo si trasformano radicalmente sia il principio di autorialità, sia l’idea di canone tradizionalmente intesa, sia il supporto fisico del testo. Oltre a ciò, sono dei testi condivisi. Non a caso uno dei concetti che sostengono la cosiddetta “collaborazione di massa” è la condivisione, vale a dire la condivisione delle proprietà intellettuali e l’abbandono tanto dell’idea di autore quanto dell’idea di copyright (si pensi a Wikipedia). Le gerarchie di controllo della produzione ma anche della cultura sono sovvertite dall’emergere di «nuovi modelli di produzione basati sulla collettività, la collaborazione e l’organizzazione autonoma»15. Si collabora alla «creazione di beni e servizi invece di limitarsi a consumare il prodotto finito»16 e questo riguarda anche la produzione narrativa. L’Enciclopedia Britannica alla voce “Fan fiction” riporta l’origine di questa produzione alla partecipazione degli spettatori alle produzioni sia televisive che cinematografiche, basate sul gioco del What if: che cosa sarebbe successo se in Star Treck il capitano Kirk non avesse mai incontrato Spock? Fan fiction designa una partecipazione orale e collettiva alle narrazioni esistenti, nata negli anni Sessanta per distinguere i lavori di fantascienza scritti da fan di una storia o di un personaggio e pubblicati su riviste (Fanzines) dai testi di scrittori pubblicati in volume. La prima rivista di Science Fiction Fandom, «Spockanalia», si ispira nel 1967 a Star Treck; il fenomeno si diffonde negli stessi anni in Giappone ispirandosi soprattutto ai fumetti Manga e alle cosiddette Anime, i prodotti di animazione originariamente giapponesi. A partire dagli anni Novanta, con la diffusione di Internet, la fan fiction assume il suo aspetto globale attuale. 15

D. Tapscott, A.D. Williams, Wikinomics 2.0. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, trad. it., Milano, Rizzoli, 2009, p. XV. 16 Ibidem.

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La riflessione critica sulla fan fiction, già piuttosto nutrita nella produzione critica sia accademica che amatoriale nordamericana17, ha trovato spazio anche nei più evoluti ed organizzati siti fandom, quali il Symposium presente nel sito www.trickster.org. Qui si attribuisce, ad esempio, la nascita della prima fan fic non solo ad un’era pre-televisiva (e dunque pre-capitan Spock), non solo al periodo precedente Jane Austen (identificando gran parte dei sequel novecenteschi di Pride and Prejudice come delle fan fiction), ma addirittura in epoca medievale, con una post-storia da Chaucer18. La realtà nordamericana dei fan è certamente più estesa di quella europea, dove non si formano comunità altrettanto forti intorno ad un prodotto, come è successo ad esempio per la serie Star Trek che ha dato vita negli USA a intere comunità di Trekkers che organizzano convention, travestimenti, imitazioni e iniziative di vario genere, rappresentando quei fan che Jenkins stesso (fan in prima persona) definisce provocatoriamente «una categoria scandalosa nella cultura dell’America contemporanea»19. Il sito www.fanfiction.net, uno dei più frequentati dai fan, ospita ogni mese un milione e duecentomila utenti che pubblicano o leggono storie basate su personaggi e trame preesistenti. Qui le fan fiction sono basate su fonti di vario genere: Books, Anime/Manga, Plays/Musicals, Carto17 Fra gli ormai numerosi testi critici sulla fan fiction segnalo C. Sandvoss, Fans: the Mirror of Consumption, Cambridge, Polity Press, 2005, con un interesse specifico sul carattere performativo della fan fiction e sul suo legame con la psicanalisi; C. Lankshear, M. Knobel, New Literacies: Everyday Practices & Classroom Learning, London, Open University Press, 2006. Sul rapporto fra scrittura erotico-omosessuale, scrittura femminile e slash fiction si veda V. Sabucco, Shonen Ai: il nuovo immaginario erotico femminile fra Oriente e Occidente, Roma, Castelvecchi, 2000. 18 Cfr. Super Cat, A (very) Brief History of Fanfic (7.02.1999): «Who wrote the first fanfic? […] It turns out that in our search for a first piece fanfic, we must go even further back, to around 1421, the (gu)estimated date that Englishman John Lydgate completed his awful but incredibly fannish work The Siege of Thebes. The Siege of Thebes is a poem written as a “continuation” of Chaucer’s The Canterbury Tales. […] Unfortunate for our dream of auspicious beginnings, Lydgate was no great wordsmith. He was in fact much closer to the BADFIC archetype» («Chi scrisse la prima fanfic? […] Si scopre che nella nostra ricerca del primo pezzo di fanfic dobbiamo retrocedere ancora, fino a circa il 1421, la data stimata in cui l’inglese John Lydgate completò il suo lavoro terribile ma incredibilmente simile alla scrittura dei fan, The Siege of Thebes. The Siege of Thebes è un poema scritto come “continuazione” dei Canterbury Tales di Chaucer. […] Sfortunatamente per il nostro sogno di inizi auspicabili, Lydgate non fu un abile scrittore. Egli in effetti si avvicina di più ad un archetipo di pessima fiction», http://www.trickster.org/symposium/symp5.htm. 19 H. Jenkins, Fan, Blogger e Videogamers, cit., p. 35. Cfr. anche il precedente volume dello stesso autore, Textual Poachers: television fans and participatory culture, London, Routledge, 1992.

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ons, Movies, TV Shows, Games, Comics. Aprendo il sito e selezionando le fiction tratte da opere letterarie (Books) ci troviamo di fronte ad elenchi di testi, di autori o di personaggi. Le grandi cifre delle fan fiction riguardano la letteratura adolescenziale e di cassetta: le fan fic da Harry Potter sono 449.48520, 43.064 fan fic da Lord of the Rings, 5.342 da Percy Jackson and the Olympians, 1.631 da Vampire Academy e così via. Ma stupiranno forse le cifre da opere della tradizione: ci sono (il 30 marzo 2010) 2.847 fan fiction dalla Bibbia, 2.043 da Sherlock Holmes, 1.830 da Les Miserables, 343 da Charles Dickens e 182 da Edgar Allan Poe, 118 dall’Odissea, 73 da Wuthering Heights, 7 dal Don Quixote… Selezionando un testo presente nel menu, ad esempio Jane Eyre di Charlotte Brontë (http://www.fanfiction.net/book/Jane_Eyre/), appare l’elenco delle 205 fan fiction tratte dal romanzo. Di ogni testo sono presenti il Titolo, l’Autore (pseudonimo o username), il Soggetto che spiega di cosa si tratta. Seguono le indicazioni specifiche: • il Fiction Rated: una graduatoria di accesso alla lettura che va dalla sigla B per bambini alla MA per solo adulti passando dalla K, per tutti, con distinzione delle età (K+ dai 9 anni; T dai 13; M dai 16); • la lingua: include le lingue in cui sono scritte le fan fiction presenti in quella sezione (per Jane Eyre sono inglese, francese, finlandese, tedesco e italiano); • il genere: su fanfiction.net i generi sono 21, da Adventure a Western, ma su questo tornerò più avanti; • l’estensione in capitoli e in numero di parole: si va da un modello di 90-110 parole (Drabble) ad uno di 110-500 (flashfic) fino al capitolo unico, di qualunque estensione superiore alle 500 parole (Oneshot); • le recensioni ricevute; • la data di pubblicazione e di revisione. Ecco un esempio dello specchietto iniziale di una fan fic tratta da Jane Eyre:

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In fanfiction.net, come in altri siti generali di fan fiction, Harry Potter è considerato una categoria dei Books ma esiste una grande quantità di siti dedicati esclusivamente ai fan del piccolo mago.

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3. Love in Human Hands by RedRightHand94 A short poem revolving around Jane’s reaction to the high romantic ideals that threaten to delude Rochester sorry if not very good, and for the rather pompous sounding title Rated: K - English - Angst - Chapters: 1 - Words: 215 - Reviews: 1 Published: 3-27-10 www.fanfiction.net/book/Jane_Eyre/

In base alle diverse sezioni si può fare una ricerca e ottenere, ad esempio, tutte le fanfic genere fantasy di Jane Eyre scritte in lingua francese, per tredicenni, in non più di mille parole. Le informazioni paratestuali sono dettagliate e mettono subito il lettore, se in grado di decifrare i numerosi acronimi, di fronte al suo orizzonte d’attesa. Ad esempio una fan fic AU/AT (Alternative Universe/Alternate Timeline) prevede ambientazioni (geografiche e/o storiche) diverse rispetto a quelle dell’opera originale oltre a grandi cambiamenti della fabula o dell’intreccio di partenza mediante espedienti narrativi quali l’uccisione di un protagonista, la modificazione sostanziale del tipo di relazione fra i personaggi, ecc. Per quanto riguarda il sistema dei personaggi le fan fic IC (In Character) presentano personaggi conformi a quelli delle opere originali mentre nelle OC (Original Character) ne viene introdotto uno nuovo, fino al caso delle OOC (Out of Character), fan fic con personaggi dissimili dagli originali nel comportamento e nel modo di relazionarsi agli altri. Fra le infinite varianti di rinarrazione dell’opera non mancano le possibilità combinatorie, affidate alle fan fic Crossover in cui interagiscono personaggi appartenenti ad opere e a generi differenti. Una larga parte delle fan fic è a contenuto sessuale, prevedendo un’ampia gamma di possibilità: dalle più note Lemon/lime, storie ad alto contenuto sessuale (le lemon sono più esplicite e dettagliate delle lime) alle Yaoi, storie d’amore omosessuale maschile con scene di sesso, passando per le Slash, fan fiction su relazioni omosessuali maschili (Femslah se con personaggi femminili). Se i personaggi sono tratti dalla realtà (in genere divi della musica o del cinema), si hanno le RPS (Real person slash). Le pagine di regolamento presenti sui siti di fan fiction dedicano in genere molti paragrafi ai contenuti sessuali, che hanno costituito uno dei richiami più allettanti per i fan: numerosi studi dedicati all’argomento hanno sottolineato infatti l’importanza del margine di libertà erotico-pornografica, sia etero che omosessuale, offerto dal nuovo spazio letterario delle fan fiction evidenziando al tempo stesso l’uso di tale possibilità 295

soprattutto da parte del pubblico femminile21. Nelle fan fiction a sfondo sessuale in genere non sono consentiti personaggi storici, minorenni, coppie formate da minorenni e adulti, così come sono bandite le tematiche sadomasochistiche e le scene di sesso fra umani e animali. La catalogazione cui sono sottoposte le fan fiction per essere incluse nei siti corrisponde ad un intento generale di organizzazione dei testi. Una parte dei siti delle fan fiction è infatti dedicata all’aspetto prescrittivo di queste forme narrative, con indicazioni rigorose sia per quanto riguarda l’estensione del testo sia i contenuti. Per quanto riguarda gli altri elementi narrativi consentiti e tassonomizzati, prendendo come esempio il sito italiano www.efpfanfic.net – EFP Il tuo sito di fan fiction22, il Regolamento prevede delle “Regole generali per l’uso consapevole di EFP” (per la creazione, gestione e mantenimento di un account), seguite da regole che riguardano i contenuti, la forma e le modalità di pubblicazione. Per i contenuti sono vietati la pedopornografia, il razzismo, l’incesto, i plagi, i testi non considerati creativi (“storie/racconti/poesie”), le storie eccessivamente volgari, le storie che possano turbare la sensibilità etico/religiosa in maniera oggettiva, le storie su persone reali non famose ma anche su celebrità (italiane), su atleti e sportivi. Nella categoria Libri di EFP le fan fiction sono catalogate in ordine alfabetico secondo vari criteri: storico (Classici dell’Ottocento; Classici del Novecento), cicli (Leggende arturiane); genere (Fiabe); titolo o autore. Twilight di S. Meyer domina con 4.148 fanfic, Tolkien e Il Signore degli anelli ne hanno 417, Cronache del mondo emerso di Laura Trosi ne ha 69, Tre metri sopra il cielo di F. Moccia ne ha 29, I promessi sposi 17. Le cifre totali sono considerevoli: 93.503 storie, scritte da 18.038 autori compresi fra i 67.329 utenti registrati al sito, per un totale di più di un milione di contatti annuali. Ogni fanfic è catalogata per genere, ma cosa si intende qui con genere? Se nel sito a dominanza anglofona, fanfiction.net, i generi sono 21, in quello italiano, EFP, la tassonomia ne prevede 30: Avventura, Azione, 21

Cfr. F. Coppa, A Brief History of Media Fandom, in K. Hellekson, K. Busse (a cura di), Fan fiction and fan communities in the age of Internet: new essays, Jefferson, Mc Farland, 2006. Cfr. anche K. Busse, A. Lothian, Bending Gender: Feminist and (Trans)Gender Discourses in the Changing Bodies of Slash Fan Fiction, in I. HotzDavies, A. Kirchhofer, S. Leppänen (a cura di), Internet Fictions, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholars, 2009, pp. 105-126. 22 Alcuni altri siti italiani di fan fiction sono www.immaginifico.com/fanfic: Immaginaria; www.fanworld.it: Fanworld.it; www.scrignodeisogni.it/IM-FA: Italian Multi-FanFiction Archive.

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Comico, Commedia, Dark, Demenziale, Drammatico, Erotico, Fantasy, Fluff, Generale, Guerra, Horror, Introspettivo, Malinconico, Mistero, Parodia, Poesia, Romantico, Satirico, Science-Fiction, Sentimentale, Slice of Life, Song-Fic, Sovrannaturale, Sportivo, Storico, Suspence (sic!), Thriller, Triste. È interessante la presenza di generi riconosciuti dalla tradizione (Commedia, Fantasy, Poesia, Science-Fiction, Storico, Suspense, Thriller) associati a generi che combinano elementi tematici con stati d’animo riscontrabili nei personaggi e/o nel lettore: il genere Romantico e il Sentimentale, indistinguibili, sono collegati a tematiche d’amore e di coppia, mentre il Fluff si definisce per contrapposizione al Drammatico o Angst e per le modalità di ricezione essendo un genere teso a provocare serenità e piacere nel lettore. Il Demenziale è quasi sempre collegato al comico. Ecco un esempio di genere Triste: Nuovo finale di Renzo e Lucia [ Autore: giulfy ] [ Rating: Verde ] [ Genere: Romantico, Triste, Suspence ] [ Capitoli: 1 ] [ Pubblicata: 28/05/08 ] [ Aggiornata: 28/05/08 ] [ Completa? - Sì ] [ Categoria: Libri > I promessi sposi (Manzoni) ] [ Nota: What if? (E se …) ] […] Renzo, malmenato dai bravi e deluso dall’esito del colloquio avuto con don Rodrigo, si reca a casa di Lucia, portandole l’ennesima cattiva notizia. Ella, apprendendo queste ultime pessime notizie, cade in uno sconforto totale. Quando la madre di lei si allontana per accompagnare a casa il povero Renzo tutto tumefatto, in preda ad una tremenda depressione, afferra un coltello e se lo conficca nel petto. Prima del rientro di Agnese, arriva don Rodrigo, il quale sentendo dei rantoli provenire dalla casa, si reca all’interno per vedere chi sta male e scorge il corpo di Lucia per terra coperto di sangue, con a lato il coltello. Egli, ancora innamorato di lei, non resiste a questa visione e si getta su di lei per cercare di salvarla. Quando capisce che non c’è più nulla da fare, accecato dall’amore e dalla disperazione, prende il coltello che giace di fianco alla giovane e si toglie la vita a sua volta. www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=238823&i=1

Il finale drammatico inferto a Lucia e a Don Rodrigo non fa altro che esplorare, sotto l’ingenua dicitura del genere Triste annodato al Romantico e al Suspense, un “mondo possibile” alla Doležel, in cui sarebbero 297

vissuti Renzo e Lucia, sotto la costrizione della sintesi estrema tipica della scrittura fandom.

Soggetto, performer e ritorno Assumendo a questo punto come inevitabile e reale la «generale metamorfosi delle piattaforme estetiche dei nuovi media e di Internet» non possiamo non chiederci in che modo le forme letterarie che abbiamo intravisto partecipino a questo movimento. Giovanni Ragone afferma che la «questione non investe solo l’evoluzione delle forme (naturalmente più o meno ibridate con i processi estetici e culturali della rete), ma anche e soprattutto la soggettività che viene implicata e trova espressione nelle forme (e nel consumo letterario)»23. Interrogarsi sul rapporto con la storia, sul fenomeno di lettura e riuso del passato corrisponde a individuare le diverse forme di soggettività e i diversi tipi di bisogni che spingono la produzione digitale contemporanea a rivolgersi al passato (secondo Ragone a partire però più da un’idea di cesura che di appartenenza). In pratica, il riuso della tradizione alimenterebbe nel linguaggio di moda, spettacolo, pubblicità, letteratura digitale, una «nuova e imponente riserva di immaginari»24 basata su necessità identitarie e creative individuali/collettive diverse da quelle che le hanno precedute. La fagocitazione della tradizione è stata segnalata da Osvaldo de Andrade25 quando ha teorizzato la traduzione come antropofagia dell’altro: assimilazione dei monumenti della tradizione occidentale, loro “masticazione” da parte di culture marginali, coloniali, minoritarie, e ri-produzione tradotta dell’occidente nel margine. La teoria dell’antropofagia culturale si basa sul divario fra il desiderio di possesso del modello dominante e la sua distanza incolmabile. Distanza che viene superata dal passo fagocitante che ingloba, possiede con forza, ricrea, con lo stesso impulso divorante di una certa performatività contemporanea, quella di cui parlano Jameson e Žižek26. 23

G. Ragone, op. cit., pp. 8-9. Ivi, p. 15. 25 O. de Andrade, Manifesto antropofago, in E. Finazzi-Agrò, M.C. Pincherle (a cura di), La cultura cannibale, Roma, Meltemi, 1999, pp. 30-37. 26 F. Jameson, Postmodernismo ovvero La logica culturale del tardo capitalismo, trad. it., Roma, Fazi, 2007; S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, trad. it., Roma, Meltemi, 2004. Sulla vitalità della letteratura in relazione alla digitalità cfr. A. Mazzarella, La grande rete della scrittura. La letteratura dopo la rivoluzione digitale, Torino, Bollati Boringhieri, 2008. 24

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La mano collettiva che abusa tanto dei monumenti letterari (le fanfic dall’Odissea) quanto dei bestseller della cultura giovanile (le fanfic dalle Cronache del mondo emerso di Laura Troisi) conserva il senso dell’appropriazione che colma e supera la distanza produttore/consumatore. La configurazione dell’identità autoriale muta e la forma della narrazione la asseconda. La dicotomia soggetto/comunità trova nuova espressione nella nuova forma: scrivere in comunità non solo è esperienza creativa differente ma costruisce – nel collettivo – una scrittura differente. Non conta solamente mettere in evidenza la forma condivisa che il collettivo produce ma l’esperienza soggettiva che con la comunità si confronta. È la cosiddetta identità multipla distribuita27 o, più sinteticamente, il multividuo28, che produce scrittura partecipativa o connettiva. Lo sweding è una della pratiche possibili della creatività condivisa, come spiega Michel Gondry nel film Be kind rewind (2008): «How to swede. You take what you like and mixe it with some other thing you like and make a new thing, your thing, which put you into the things you like»29. Realizzando lo sweding di film quali Block Buster e Star Wars, i protagonisti rimpiazzano le videocassette danneggiate di un negozio di videonoleggio riscuotendo un grande successo. Gondry mette in scena la capacità creativa di riciclare opere preesistenti (in questo caso dei film) e di condividerle: i due improvvisati registi realizzano, con mezzi di fortuna, la loro esilarante versione personale dei film di cassetta e il successo popolare è tale da spingerli a condividere l’esperienza con il loro pubblico, già trasformato in una comunità di aspiranti autori sweding. I fan che consumano il prodotto culturale o subculturale e contestualmente producono una cult-testualità dal basso vengono identificati come performer testuali: L’attività di gioco e costruzione di immaginario che imbastiscono intorno ai testi originari del mainstream verso cui si rivolge la loro passione crea un’esperienza immersiva/affettiva e performativa, in cui le testualità e i prodotti “secondari” (fan-fiction, cos-play, giochi di ruolo o di carte, forum di discussione) diventano la fruizione primaria; e, nella 27

G. Ragone, op. cit., p. 169. Cfr. la definizione di M. Canevacci: «un multi-viduo esprime istanze conflittuali e molteplici basate sulla coesistenza all’interno del medesimo soggetto di una molteplicità di “ii” dalle potenziali identità fluttuanti»; www.ecn.org/aha/camper/doku. php?id=un_intervento_di_massimo_canevacci_per_questo_seminario. 29 «Come fare sweding. Prendi ciò che ti piace e lo amalgami con qualche altra cosa che ti piace e fai una cosa nuova, la tua cosa, che ti fa stare dentro le cose che ti piacciono»; Be kind rewind – How to swede, in www.youtube.com. 28

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condivisione con altri fan, loro stessi ridefiniscono da protagonisti la testualità originaria. Performer, certo30.

L’esperienza immersiva/affettiva e performativa di cui parla la Valeriani facendo del performer un’unica massa complessa e creativa di ritorno va distinta con attenzione: performer, sì, ma con coscienza della stratificazione del soggetto e dell’apporto di ciascuno “strato” al prodotto finale, in questo caso al fandom. In altre parole, attenzione a come convivono il performer (sul versante collettivo) e il fan (sul versante individuale) nello stesso soggetto creativo.

Tassellazione ed empatia Per comprendere il nesso fra carattere performativo/collettivo e attitudine creativo/individuale può essere utile dare uno sguardo più ravvicinato, nonostante la permanente estensibilità e mutevolezza dell’oggetto fan fic, al tipo di relazione esistente tra fandom e fonte di ispirazione. Le fan fiction sono costituite da preistorie e post storie, certamente, da mondi paralleli e da personaggi migranti. A questo si aggiunge un intento di esplorazione dei testi finalizzata a coprire le strade aperte dal testo ma non percorse dall’autore. In genere i modelli di lavoro sull’opera riguardano l’uso di altri punti di vista, del what if, cosa sarebbe successo se, dei “momenti perduti” vale a dire il riempimento delle analessi o prolessi, l’inserimento della vita interiore del personaggio, le pre-storie e le poststorie, i seguiti. Vengono proposte potenzialità inespresse, possibilità non sperimentate, ucronie potenziali, interstizi rimpolpati o affettività disattese dall’opera di partenza31. Come afferma un fan, «non scrivo fan fiction per “aggiustare” le cose, scrivo per esplorare gli angoli in cui [Harry Potter] non ha potuto sbirciare»32. L’intenzione sembrerebbe quella della copertura di tutti gli spazi vuoti del testo, di tutti gli interstizi che possono ancora essere narrati. Potremmo definirla un tassellazione del testo ispirandoci all’idea di Keplero di tassellazione del piano, ricoprire cioè l’intero piano mediante tasselli, la stessa idea ispiratrice dei disegni di Escher. 30

L. Valeriani, Performers. Figure del mutamento nell’estetica diffusa, Roma, Meltemi, 2010, p. 15. 31 Cfr. Wu Ming, Storie alternative, ucronie potenziali, in Id. New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi, 2009, pp. 34-37. 32 H. Jenkins, Cultura convergente, cit., p. 193.

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M.C. Escher, Plane Filling I, 1951

Lo scrittore di fan fiction riempie gli spazi, esprime il non detto dei personaggi, come nei due esempi che seguono, in cui le fan fiction si incuneano nei pensieri di Ofelia, uno dei personaggi femminili di cui meno conosciamo l’intimità, per aggiungere materiale alla motivazione della morte per acqua: Le parole che non ti ho detto [ Autore: Aika_chan ] [ Rating: Verde ] [ Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo ] [ Capitoli: 1 ] [ Pubblicata: 16/06/08 ] [ Aggiornata: 16/06/08 ] [ Completa? - Sì ] [ Categoria: Libri > Amleto (W.Shakespeare) ] [ Nota: One-shot ] […] Ofelia: Monsignore, ho dei vostri ricordi che da parecchio desideravo restituirvi. Vi prego, ora, di riprenderli. Non rendetemi ancor più doloroso l’addio che vi devo. Non una parola, solo un gesto a voi chiedo. Non costringetemi ad ammirare ancora la vostra bellezza e a struggermi d’amore per voi. Solo un addio. Amleto : Io? No, no. Non vi ho mai dato niente. Niente se non il mio amore e la mia devozione. Perché il destino mi rende così crudele nei confronti dell’unica persona che abbia mai amato? Ofelia : Sì, mio onorato signore, lo sapete benissimo, e con essi m’avete 301

dato parole formate di sospiri così dolci che li rendevano più preziosi. Ma il profumo è andato, dunque riprendeteveli. Per un animo nobile i doni più ricchi perdono tutto il loro valore se i donatori non gli sono più amici. Eccoli, monsignore. Non dite nulla: lasciate che vada via da questa immensa e vuota stanza Prima che i miei occhi si riempiano di lacrime e mi impediscano di essere risoluta… www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=245235&i=1 Drowning lesson [ Autore: Nemesis_Of_Cruel_Rose ] [ Rating: Verde ] [ Genere: Romantico, Triste, Malinconico ] [ Capitoli: 1 ] [ Pubblicata: 08/02/09 ] [ Aggiornata: 08/02/09 ] [ Completa? - Sì ] [ Categoria: Libri > Amleto (W. Shakespeare) ] [ Nota: One-shot ] Non preoccuparti non cadrò nel fiume. Non scivolerò in esso. Lui non mi porterà via. […] Il tuo volto era stranamente delineato in quel liquido incolore. Ogni tratto del tuo volto, che pensavo aver dimenticato, era ora ricomparso come d’incanto. La grande fronte ampia. La bocca irregolare. Gli occhi sognanti. Avrei voluto riaverti tra le mie braccia ancora una volta. Una sola. Ma sapevo che era impossibile. Fu per questo che decisi di baciarti. Ma appena le mie labbra toccarono le tue, l’immagine che aleggiava nel fiume scomparve ed io caddi impaurita e inerte nel ruscello. La lunga veste mi fasciò il viso e non vidi più nessun colore se non il buio che da tanto tempo la mia anima celava. Tutti mi credevano pazza, ma era solo desiderio d’amore. www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=325734&i=1

La rappresentazione fandom dell’intimità dei pensieri di Ofelia, “trascurata” da Shakespeare, è un esempio del fenomeno di risposta estetica. L’esperienza immersiva del fan nell’oggetto di ammirazione in seguito alla lettura individuale convive con la performatività della convergenza. Prima di entrare a far parte della tribù (dei fan di Ofelia, ad esempio), il fan/iper/lettore attraversa l’esperienza di lettura che possiamo riconoscere in quella dell’identificazione empatica33. Quando la componente cognitiva e la componente emotiva presenti nell’atto della lettura si sovrappongono danno vita ad una identificazione 33

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M.C. Levorato, Le emozioni della lettura, Bologna, il Mulino, 2000, p. 200.

empatica con i personaggi del testo in lettura, là dove per empatia si intende uno stato emotivo vissuto attraverso un rispecchiamento dello stato emotivo di qualcun altro, sia esso persona o personaggio. Si tratta di un fenomeno appartenente alla categoria delle risposte emotive. Che danno vita poi, in alcuni casi, a risposte estetiche. Nel caso della lettura l’empatia non si basa sulla reazione automatica ad uno stato d’animo che “accade” di fronte al soggetto (un amico che esprime sofferenza) ma si basa sulla mediazione del linguaggio, provocando quello che gli specialisti chiamano un role taking, un’assunzione di ruolo. L’assunzione di ruolo consiste nell’emozione di sostituirsi, di trovarsi al posto del personaggio narrato. Si tratta di un livello molto elaborato di empatia in quanto mediato dal livello simbolico del linguaggio (privo di espressioni di linguaggio corporeo), e sulla distanza/assenza del personaggio con cui avviene l’identificazione. La differenza di medium che veicola l’emozione è decisiva per distinguere l’empatia suscitata dalla percezione visiva del volto dell’altro (nella realtà o nella finzione cinematografica)34, e quella suscitata dalla descrizione linguistica dell’emozione (nella scrittura). Nel primo caso l’empatia produce risposte emotive semplici, mentre nel secondo l’attivazione riguarda sia i processi immaginativi sia la memoria di esperienze vissute. Nonostante il carattere puramente mentale dell’esperienza del role taking con un personaggio finzionale, l’empatia può in questo caso allargarsi a includere non solo il sentimento singolo ma l’intera condizione esistenziale del personaggio, le modalità della sua esistenza, trasformandolo in paradigma di un gruppo. È lì che si forma la tribù di fan e di autori fandom. Se da una parte l’identificazione empatica nella lettura produce un circolo virtuoso e apre la possibilità di una migliore comprensione del testo, dall’altra l’empatia e la comprensione permettono al lettore di sostenere la sospensione dell’incredulità35, producendo quella prassi di intervento sul testo che si estende dalla riscrittura alla parodia alla fan fiction. In tutti questi casi c’è dietro un lettore che spera che Biancaneve non accetti 34 Cfr. D. Zillmann, Emphaty: Affect from Bearing Witness to the Emotion of Others, in J. Bryant, D. Zillmann, Responding to the screen. Reception and Reaction Processes, Hillsdale, N.J., Erlbaum, 1991. 35 Cfr. R.J. Gerrig, Partecipatory Aspects on Narrative Understanding, in R.J. Kreuz, M.S. MacNealy (a cura di), Empirical Approaches to Literature and Aesthetics, Norwood, Ablex, 1996, pp. 127-142.

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la mela stregata e cerca di intervenire sulla fiaba e sui personaggi perché non accada (o perché accada qualcos’altro). Lì opera il fan che ha scoperto di non dover più chiedere all’autore di intervenire sui suoi personaggi ma che può egli stesso modificare o perfezionare i loro destini narrativi. Se da una parte dunque la performatività del fan si fonda sulla condivisione con altri fan, sulla convergenza di scrittura, dall’altra la sua esperienza immersiva nell’oggetto di ammirazione produce la peculiarità individuale della sua risposta estetica. Questo è l’oggetto di indagine del fan’s turn, vale a dire del passaggio dallo studio della condivisione e dell’autore collettivo a quello della relazione esistente fra il fan e il suo oggetto prescelto come investimento personale e costruzione di una identità culturale specifica. In questo modo i Fan Studies si allontanano oggi dalle prime letture critiche femministe che privilegiavano la dominante femminile ed erotica delle scritture o da quelle centrate sul fenomeno di cultura giovanile di massa. Al tempo stesso riabilitano il soggetto, negando l’aspetto nichilista presente in Pierre Lévy quando identifica nelle “comunità immaginative”, nuove comunità della conoscenza, volontarie e temporanee, basate su affinità elettive e su comuni investimenti emozionali, l’idea di un’intelligenza collettiva che punta non tanto al dominio di sé da parte delle comunità umane quanto a una rinuncia essenziale riguardo all’idea stessa di identità36.

Abuso o valore? L’uso della letteratura attraverso l’idea della partecipazione dà vita, tra le tante cose, anche a questo tipo di produzione che suscita aspettative diverse per quanto riguarda i consumatori e le aziende. Le aziende e le corporazioni favoriscono un tipo di partecipazione ai contenuti da loro prodotti – ad esempio la saga di Harry Potter – purché sia un prodotto a sua volta mercificabile. I consumatori, sul fronte opposto, «rivendicano il diritto di partecipare alla definizione della loro cultura nei loro termini e nelle loro modalità»37. Nel caso del bestseller della Rowling, per esempio, la Warner Bros ha tentato di impedire ai fan di Henry Potter di controllare l’uso del personaggio letterario realizzato dai fan accusandoli di abuso. 36 37

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P. Lévy, op. cit., p. 20. H. Jenkins, Cultura convergente, cit., p. 179.

Il rinnovamento del processo di ricezione di cui parlavamo prima deve tenere conto allora anche dei limiti della partecipazione del lettore. Se intendiamo questa istanza dinamica della narrazione contemporanea come il più macroscopico superamento dell’idea di confine e di nazione non siamo troppo lontani da quanto afferma James Clifford: nel movimento culturale, sia pure virtuale, si crea l’opposizione fra l’idea di purezza che appartiene all’immobile, alla tradizione, e l’idea di impurità e di contaminazione che appartiene al movimento. Sovvertendo la staticità della tradizione non può che presentarsi il pericolo del contagio, l’idea che il testo venga corrotto dall’uso o dall’abuso. È questo che alcuni temono. Weinrich nel 198538 segnalava la situazione preoccupante del lettore odierno, sommerso da una quantità eccessiva di informazioni editoriali. Di fronte a tale spaesamento il lettore estensivo diviene un lettore sulla difensiva che adotta varie strategie di difesa. Se una di queste strategie, nota Weinrich, è comprare i libri per non leggerli, l’altra, potremmo aggiungere, è leggere, o eleggere, un libro per riscriverlo. Creare una tribù, una comunità trasversale di scrittori intorno ad un testo finché questo non sia stato spolpato, non abbia dato vita a tutte le sue possibilità narrative. Che cosa fare allora con le fan fiction? Osservarle, certamente, come fenomeno di cultura di massa, ma porsi anche nella prospettiva che suggerisce Franco Moretti quando dice che «l’idea di “conoscenza” che è stata tipica della critica letteraria – e che al fondo è un’idea teologica: lettura attentissima di pochissimi testi; possibilmente, uno solo; “canone”, del resto, è un termine rivelatore – quest’idea di conoscenza dovrà cambiare parecchio; imparare la statistica, lavorare sulle serie, sui campioni, su spezzoni di testo (titoli, incipit, prelievi stilistici)»39. Quel che possiamo fare, insomma, è affiancare al giudizio di valore della storiografia letteraria il giudizio di fatto. Questo vuol dire accompagnare allo studio delle opere consacrate da canone, critica e insegnamento, una prospettiva che tenga conto anche dei verdetti emessi dal nuovo pubblico partecipante (in questo caso gli autori di fan fiction), se ne interroghi, li spieghi (o almeno tenti di farlo), per iniziare a iscrivere nel panorama culturale una delle nuove modalità estetiche che ci circondano. 38 H. Weinrich, I lettori del Don Chisciotte, in Il polso del tempo, trad. it., Firenze, La Nuova Italia, 1999, p. 91. 39 F. Moretti, Il giudizio di disvalore, in L. Innocenti (a cura di), Il giudizio di valore e il canone letterario, Roma, Bulzoni, 2000, p. 75.

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Indice dei nomi

Abruzzese, A., 289 Accetto, T., 190 Adorno, T.W., 188, 268 Aèlion, R., 27n. Agosti, S., 238 Al Jaahidh, 225-228, 236 Albadelejo, T., 148n. Albano, santo, 42n., 128 Albert Marques, 80 Alberto Malaspina vd. Albert Marques Alcmeone, 29n. Alegret, 77 Alessandro di Canterbury, 104n. Alessandro Neckam, 42, 45 Alessandro VI, papa, 158 Alfonso II d’Aragona, 77 Al-Masudi, 228 Aloni, A., 18n., 21n. Althoff, J., 29n. 36 Althusser, L., 208, 210 Alvar, C., 136n. Alvar, J.M., 150 Alvaro, C., 183 Ambrogio, santo, 101 Amiel, H.-F., 183 Anceschi, L., 176n., 200 Anderson, C., 38n. Anghelescu, N., 235n., 236n. Anselmo d’Aosta, 104, 101n. Antonelli, R., 74n.

Apelliconte, 35 Appel, C., 74n. Apuleio, 160 Aretino, P., 154, 155, 156, 165n., 168 Aristofane, 23-28 Aristotele, 35, 114n., 164, 289 Arnold, M., 272-274, 278 Auerbach, E., 72, 73n., 122, 126, 240, 255 Austen, J., 275, 277, 293 Avezzù, G., 24n. Bachtin, M., 179n., 268, 276, 277, 279, 290 Badas, M., 121n., 123n., 130n. Bagnasco Gianni G., 18n. Bakker, E.J., 19n., 30n. Baldassarri, G., 109n., 112n., 123n., 128n., 129n. Balzac, H. de, 188 Banks, S.E., 42n., 44n. Barcelo, M., 264 Barillari, S.M., 122n. Barlaam, santo, 128 Barletta, L., 165n. Berman, M., 275n. Barone, G., 121n. Barrès, M., 183 Barthes, R., 178, 179n., 181 Bartuschat, J., 112n., 114n. Basta Donzelli, G., 26n. 307

Bastianini, G., 35 Bataille, G., 229, 265, 267 Batillo, 29n. Battaglia, S., 157n. Battezzato, L., 26n., 27n. Battuta, I., 229 Baudelaire, Ch., 182, 192, 193, 195n., 223 Bauer, C., 140n. Beccuti, F., 171 Beck, F.A.G., 22n. Beggiato, F., 76n. Belladonna, R., 165n. Bembo, P., 153 Benci, T., 168n. Benda, J., 273 Benjamin, W., 180n., 193, 206, 207n., 212, 268, 277, 282, 283 Benozzo, F., 130n. Benveniste, È., 178n. Bergson, H., 154, 177 Berman, M., 252, 275n. Bernardino da Siena,128 Bernardo di Chiaravalle, santo, 126, 127 Bernart Marti, 75 Bernhard, Th., 256, 259, 260 Berni, F., 154-171 Berque, J., 223 Berti, F., 22n. Bertini Guidetti, S., 148n. Bertran de Born, 74 Bessière, J., 65n. Bhabha, H.K., 285 Bianchi Bandinelli, R., 17n., 37 Bianchini, S., 83n. Bini, G.F., 154, 155, 156 Binns, J.W., 42n. Bino, messer vd. Bini, G.F. Blado, editore, 157 308

Blanchot, M., 175-179, 181, 182, 193, 229, 265 Blasina, A., 23n. Bloom, H., 213 Boccaccio, 167 Boccia Altieri, G., 289n. Boesch Gajano, S., 120n., 121n., 140n., 148n. Boezio, 110-115 Boine, G., 194 Boitani, P., 115n., 125n., 130 Bologna, C., 121, 131, 148 Bono Giamboni, 108-119 Bordigoni, C., 21n, 27n. Borges, J. L., 179, 266 Bosl, K., 140 Bourdieu, P., 269 Boureau, A., 140 Bourget, P., 183 Boutiere, J., 80n. Branca, V., 109n. Brontë, Ch., 294 Brontino, 29n. Bronzino, A. (Agnolo di Cosimo di Mariano), 155, 165, 169 Brunetto Latini, 109n., 110, 111 Bruno, G., 176 Bryant, J., 303n. Burchiello (Domenico di Giovanni), 165n., 169 Burgio, E., 122n., 124, 125n., 126, 127, 128 Burljuk, D., 211 Burrow, J.A., 85n. Burzacchini G., 15n. Busby, K., 138 Busse, K., 296n. Butor, M., 183 Buzzetti Gallarati, S., 140, 141n.

Caccia, A. del, 167n. Caetani, M., 265 Calvino, I., 175 Calvo Revilla, A., 148n. Cambiano, G., 21n., 30n., 34n., 36 Cambon, G., 195n. Camerotto, A., 19n. Canevacci, M., 299n. Canfora, L., 21n., 30n., 31n., 35n., 36 Caocci, D., 109n., 127 Capitani, O., 121, 122n. Cardini, F., 72 Carli Piccolomini B., 165, 166 Caro, A., 157, 165n. Casa, G. della, 154, 155, 156, 163, 165 Casagrande, C., 91, 92, 97-101 Casanova, A., 35 Cassiano, 92, 97, 100 Cassio, A.C., 18 Castano, R., 125 Castiglione, B., 157, 158 Castillo, H. del, 158 Caterina da Siena, 128 Catullo, 200, 246 Cavallo, G., 123n. Celan, P., 265 Céline, L.-F., 248, 258-261 Cerri, G., 23, 33 Cervantes, M. De, 158n., 179n., 229, 241, 254 Chantraine, P., 19n. Chapman, L., 37n. Chateaubriand, F.-R. de, 223, 266, 267n. Chaucer, G., 145n., 293 Chrétien de Troyes, 64, 79n., 83n., 87n., 88n., 99n., 102, 138 Cicerone, 111, 112n., 116n., 200

Citti, V., 15n., 26n., 27n., 36 Cixous, H., 232 Cleone, 28 Clifford, J., 305 Cluzel, I.M., 80n. Coleridge, S.T., 198, 275 Compagnon, A., 179n. Condello, F., 23n. Confuso, M., 165 Conrad, J., 256 Contessa de Dia, 76 Contini, G., 192, 197 Coomaraswamy, A.K., 96n. Coppa, F., 296n. Coppetta, il, vd. Beccuti, F. Cordano, E., 18n. Corsaro, A., 165n. Corsini, E., 27n. Corti, M., 176, 192 Cosentino, P., 165n. Cracco Ruggini, L., 123n. Cracco, G., 123 Crémieux, B., 180n., 186 Croce, B., 179, 193, 198, 199, 280 Cuenca, J.G., 158n. Culler, J., 207 Curti, L., 280 Curtius, E.R., 235, 290 D’Annunzio, G., 182, 183, 194 Dalarun, J., 120n. Dante, 78, 79n., 80, 130, 197, 223, 240, 249, 250, 264, 265, 266 Danzi, M.,154n. Darwish, M., 229 De Andrade, O., 298 De Certeau, M., 203, 284n. De Jong, I.J.F., 19n., 30n. De Man, P., 201n., 202n. Debenedetti, A., 186 309

Degl’Innocenti, A., 131n. Dejeanne, J.M.L., 79n. Del Corno, D., 25n. Delcorno, C., 128 Deleuze, J., 223, 229, 234, 265 Della Scala, C., 265 Derrida, J., 202n., 207, 223, 265 Detienne, M., 16 Devoto, G., 197 Di Benedetto, V., 18n. Di Girolamo, C., 76n., 77n. Dickens, C., 294 Diodoro Siculo, 39n. Diogene di Apollonia, 29n. Diogene Laerzio, 31 Dionigi di Alicarnasso, 32, 34 Dolce, L., 155, 156, 163, 165, 170, 171 Doležel, L., 291, 297 Domenico Cavalca, 128 Donà, C., 86, 96n., 125, 126 Doutrepont, G., 149, 150n. Dover, K., 25n., 26n. Dover, K.J., 24n., 26n. Eagleton, T., 201, 202, 277n. Ecateo di Mileto, 29n. Eco, U., 271n. Edmero, 101n., 104n. Edmunds, L., 29n. Edwards, M.W., 19n. Egido, A., 149n. Eliot, T.S., 70, 177, 192, 193, 198, 265, 273-276 Empedocle, 20, 21n. Enrico I, 54 Enrico II, 74n. Enrico di Huntingdon, 39, 42, 45 Erasmo da Rotterdam, 159, 160 Ermippo, 28n. 310

Erodoto, 29, 30n. Escher, M.C., 300, 301 Eschilo, 23-27, 256 Esiodo, 19, 20, 35 Esopo, 160 Étaix, R., 117n. Eupoli, 28 Euripide, 23-27 Eusebi, M., 74n. Evagrio, 92, 100 Fahlin, C., 145n. Fango, B.C. del, 165n. Fassino, M., 26n. Fassò, A., 79, 80n., 137n. Federico II, 74n. Fedro, 33, 160, 166, 168 Ferrari, F., 21n. Ficaruolo, Ser Agresto da, vd. Caro, A. Finazzi-Agrò, E., 298n. Fiorentino, F., 238n. Firenzuola, A., 156, 164, 170 Flaubert, G., 181 Fleith, B., 148n. Flesher, J., 37n. Fonquerne, Y.R., 149n. Foscolo, U., 198 Foucault, M., 223, 265, 277 Franceschini, E., 120n. Franceschino Grioni, 123n., 130, 131n. Francoromano, E.C., 146 Franzesi, M., 156 Frappier, J., 48n. Frasca, G., 7, 82, 85n., 107n., 288, 289 Freud, S., 242-247, 250, 256, 261, 263, 282, 283 Friedländer, P., 34n.

Frontone, 161, 169 Frye, N., 275 Fucilla, J.G., 158n. Funes L., 139n. Fusillo, M., 289n. Gadda, C.E., 259, 260 Gaffuri, L., 129n. Gargiulo, T., 15n. Garouste, G., 264 Garreau, I., 135n. Gauguin, P., 256 Geertz, C., 203 Gehrke, P., 135n. Genet, J., 223 Genet, J.-Ph.,152n. Genette, G., 178, 290 Gentili, B., 21n., 29n. Gerardo di Zupthen, 98n. Gerli, E.M., 150n. Gerolamo, santo, 160 Gerould, G.H., 138 Gerratana, V., 78n. Gerrig, R.J., 303n. Gervasio di Tilbury, 42, 44n. Giacomo I, 37 Giannini, P.,20n. Gide, A., 183 Ginzburg, A., 252n. Ginzburg, C., 67 Giobbe, 71, 115, 116 Giosafà, santo vd. Iosafat, santo Giovanni, santo, 92 Giovenale, 115n. Giraut de Bornelh, 77 Giuliano, F.M., 33n. Giunta, C., 125n. Giunti, B., 156n. Giunti, F., 153, 158-163 Glaucone, 34, 160

Gobetti, P., 191 Goethe, W., 180n., 223, 263 Goffredo di Monmouth, 40-52 Goffredo di Viterbo, 42 Goldmann, L., 270, 279 Gómez Redondo, F., 135n., 146 Gondry, M., 299 González, C., 146 Gorni, G., 154n. Govoni, C., 194 Gramsci, A., 78, 277, 285n. Grazzini, A.F., 156, 157, 158, 162, 163 Greco, M.A., 229n. Greenaway, D., 39n., 42n., Gregorio Magno, 71, 87n., 92, 101n., 117, 122n. Gregorio VII, 71 Gregorio, santo, 127 Gregory, J., 27n. Greimas, A.J., 207, 210 Grossberg, L., 284n. Guarnucci, M., 169n. Guglielmo IX d’Aquitania, 74, 75 Guglielmo IX di Poitiers,65 Hall, S., 272, 279, 284n. Hamilton, R., 26n. Hardy, T., 277 Harney, M., 143 Harris, W.V., 16 Havelock, E.A., 16n. Hayyaan Attawheedi, A., 228 Hegel, F., 177, 282 Heidegger, M., 177 Hellekson, K., 296n. Henderson, Ch., 22n. Henry, A., 50n. Hobsbawm, E., 277n. Hoggart, R., 272, 278, 279 311

Hölderlin, F., 264 Holub, R., 269n. Hopkins, G.M., 198 Hotz-Davies, I., 296n. Hubbard, Th.K., 24n. Huon de Mery, 65 Hus, J., 176 Huysmans, J.K., 183 Iannucci, A., 21n. Immerwahr, H.R., 22n. Innocenzo III, papa, 108-119 Iosafat, santo, 128 Iperbolo, 28n. Ippocrate, 30 Isaia, 102 Isocrate, 160 Jacopo da Varazze, 125 Jahier, P., 183 Jakobson, R., 213, 268, 271 Jameson, F., 201, 204, 207-211, 282, 283, 298, Janko, R., 18n. Jarry, A., 194 Jauss, H.R., 57, 62, 63, 68, 125, 129, 131, 280, 281, 290, 291 Jean Renart, 68 Jenkins, H., 286-289, 293, 300n., 304n. Jillings, L., 83n. Johnson, S., 288n. Johnston, R.C., 83n., 85n., 97n., 102n., 103n. Jolles, A., 62 Joly, M., 158n. Jones, I., 37, 38 Jouanna, J., 30n. Jouve, P.-J., 264 Joyce, J., 180n., 183, 185, 264 312

Kafka, F., 177n., 240-242, 264 Kant, I., 185, 238 Keplero, G., 300 Khaldoun, I., 229, 230 Kipling, R., 256-258 Kirchhofer, A., 296n. Klossowski, P., 264 Klüppelholz, H., 103n. Knobel, M., 293n. Koenig, V.F., 149n. Köhler, E., 57, 137n. Kovacs, D., 27n. Kræmer, E.V., 149n. Krauss, H., 137 Kreuz, R.J., 303n. Kristeva, J., 178-179n., 263, 290, 291 Kullmann, W., 29n., 36 Kushner, E., 65n. La Rochefoucauld, F. de, 255 Lacan, J., 208, 214, 217 Lacarra, J.M., 146n. Lacks, A., 29n. Lacoue-Labarthe, Ph., 264 Lacy, N. J., 85n. Lana, I., 24n. Landolfi, T., 183, 197n. Lankshear, C., 293n. Lanza, D., 21n., 30n., 35n., 36 Larbaud, V., 180n. Larionov, M., 211 Lasca vd. Grazzini, A.F. Latacz, J., 18n. Latella, F., 125n. Lavagetto, M., 188 Lavarenne, M., 100n. Lazzaro, 178, 185 Lazzerini, L., 78n. Le Goff, J., 71, 72n.

Leavis, F.R., 272-276, 279 Lefèvre, M., 153n. Leonardi, C., 120n., 123n., 131n. Leonardi, L., 120n. Leonte, 29n. Leopardi, G., 183 Leppänen, A., 296n. Leurini, L., 15n., 36 Lévi-Strauss, C., 201-216 Levorato, M.C., 302 Lévy, P., 286, 288, 304 Lewis, C.S., 129, 130, 131 Lewis, W., 273 Licurgo, 26 Lombardi, R., 252n. Lomiento, L., 27n. Longhi, S., 154n., 156, 157, 164n. Longo, U., 121, 126n. Loraux, N., 16 Lotario da Segni vd. Innocenzo III Lothian, A., 296n. Lotman, J.M., 189, 268, 279 Luard, H.R., 42n. Luca, evangelista, 102 Lucía Megías, J.M., 136n., 142 Luciano di Samosata, 159, 160 Lukàcs, G., 197 Lydgate, J., 293n. Maccarone, M., 108n. Macherey, P., 280 Machiavelli, N., 264 McLuhan, M., 280 MacNealy, M.S., 303n. Maggini, F., 110n. Mah Yang, 262 Malato, E.,165n. Malebranche, N., 264 Malipiero, G., 153 Mallarmé, S., 197, 199n., 263

Maltese, E.V., 24n. Mancini, M., 88n., 99n., 115n., 125n. Manessier, 53 Manganelli, G., 175n. Mann, Th., 175 Mannheim, K., 273 Manzoni, A., 297 Mao Tse Tung, 262 Marcabru, 79 Marco, santo, 123, 124 Marcolini, stampatore (Marcolini, F.), 154 Marie de France, 64 Marinetti, F.T., 194 Martelli, L., 156 Martinet, A., 226 Marx, K., 73, 202n., 207n., 263, 275 Massignon, L., 235 Mastromarco, G., 25n. Mathey-Maille, L., 49n. Matte Blanco, I., 250-252 Matteo di Parigi, monaco, 42n. Maulu, M., 132n. Mauro, G., 154, 155, 156, 163, 164, 165, 171 Mazzacurati, G., 185n., 188n., 190 Mazzarella, A., 298n. McCleary, N., 123n. Medda, E., 25n. Medici, A. de’, 163 Meneghetti, M.L., 65, 66 Menestò, E., 123n. Mengaldo, P.V., 80n. Mettmann, W., 147n. Meyer, L., 42n. Meyer, P., 150 Meyer, S., 296 Micha, A., 47n., 51n. Michaëlsson, M.K., 145n. Migne, J.P., 71n., 101n., 104n. 313

Mimnermo, 21 Miralles, C., 26n. Mirto, M.S., 25n. Moccia, F., 296 Moine de Montaudon, 75n. Molière, 242 Molza, F.M., 155, 156, 157, 163, 168 Montaigne, M. de, 72, 182, 232 Montale, D., 191 Montale, E., 178n., 179n., 180, 186200 Montale, M., 191 Montanari, F., 18n., 34n. Montorsi, F., 37n. Morawski, J., 103n. Morenzoni, F., 148n. Moretti, F., 241n., 277n., 305 Morin, L., 84n., 85n. Morreale, M., 158 Morris, L., 19n. Morris, W., 272, 275 Morsimo, 25n. Mortier, R., 65n. Moure, J.L., 135n. Mukarovsky, J., 268, 281, 283 Mureddu, P., 15n., 36 Musil, R., 264 Muzzarelli, M.G., 128n. Nagy, C., 19n. Nancy, J-L., 264 Narsi, N., 23n. Navò, C. e T., 154-165 Nicola, santo, 123 Nieddu G.F., 15n., 36 Nietzsche, F., 181, 182, 229, 263 Nordau, M., 187 Notz, M.F., 65n. Novalis, 264 Novelli, S., 15n., 36 314

Obama, B., 266 Oldoni, M., 126, 131 Omero, 15, 16n., 17, 18, 21, 29n., 34n., 159, 160, 163, 290 Orazio, 167, 168 Orduna, G., 135n., 136 Orlando, F., 211, 241, 242, 251, 252n. Ortalli, G., 123n. Ortega Y Gasset, J., 273 Orwell, G., 249, 257, 258, 261 Ovidio, 160 Owen, D.D.R., 83n., 85n., 97n., 102n., 103n. Page, D.L., 26n. Pagliaresi, N., 128 Pakeman, D., 37n. Palazzeschi, A., 194 Paoli, E., 122n. Paolo, san, 70, 93, 94, 115, 116 Papini, G., 183 Parmenide, 20 Parry, A., 17n. Parry, M., 17 Pater, W., 272 Pattison, G.D., 151, 152n. Pattoni, M.P., 25n. Pauphilet, A., 52n. Pausania, 20 Pavan, M., 123n. Pavel, S., 227 Pavese, C., 183 Peirito, 29n. Pellat, Ch., 226n. Persio, 115n. Pessoa, F., 183 Petrarca, F., 78, 153n., 154, 163, 165, 182 Piatti, G., 108n.

Pickard-Cambridge, A., 23n., 25n. Pickford, C.E., 83n. Pietro II, 74 Piggot, S., 41n. Pillet, A., 77n. Pincherle, M.C., 298 Pirandello, L., 185n., 189n. Pisistrato, 18 Platone, 16n., 32, 33n., 34, 261n., 290 Plutarco, 35n., 160 Poe, E.A., 192, 294 Pöhlmann, E., 22n. Policrate, 160 Ponge, F., 265 Poore, R., 54 Porciani, L., 29n. Portalupi, F., 161n. Portulas, J., 18n. Pound, E., 273n. Powell, B., 19n. Praz, M., 197 Pretagostini, R., 29n. Proust, M., 185n., 186, 189n., 238, 239, 253, 259, 264, 266, 267n. Prudenzio, 100, 115 Pseudo-Map, 52 Putnam, H., 248, 249, 258, 260 Quintiliano, 166, 167n. Quinto, R., 129n. Quondam, A., 153n., 154n., 156n. Rabelais, F., 241 Raboni, G., 239n. Racine, J., 270 Radin, P., 212, 213 Ragone, G., 289n., 298, 299n. Raimbaut d’Aurenga, 65 Rancière, J., 216n.

Ranger, T., 277n. Rees Smith, J., 145n. Reeve, M.D., 40n. Reeve, M.M., 54n. Régnier Bohler, D., 65n. Remy, P., 96n. Restani, D., 22n. Richard, M.D., 34n. Richardson, S., 19n. Rico, F., 137, 138, 142 Riffaterre, M., 178, 290 Rilke, R.M., 183 Rimbaud, A., 198 Risset, J., 264n. Roach, W., 53 Robert de Boron, 45-51 Rodríguez, J.C., 203 Romei, D., 164n. Romero Tobar, L., 147, 148, 149 Roques, M., 79n. Roscalla, F., 23n., 34n. Rösler, W., 22n., 23n., 30n. Ross, G.A., 96n. Rossetti, L., 21n. Rossi, L.E., 17, 18n., 21n. Rosso, R., 202 Rousseau, J.J., 182 Routledge, M.J., 75n. Rowling, J.K., 288, 304 Saba, U., 185n., 196n. Sabucco, V., 293n. Sacher-Masoch, L. von, 241 Said, E.W., 277, 285 Salomone, 115, 116 Sandvoss, C., 293n. Sanguineti, E., 194 Sansedonio A., 155, 168 Sansone, G., 76n. Sant’Agostino, 182 315

Santaniello, C., 21n. Sarrasin, 50n. Sartre, J.-P., 199n., 208, 265 Satta, S., 252, 253, 256, 258 Saussure, F. de, 224, 227, 263 Savinio, A., 179 Sbarbaro, C., 194 Scala, L., 162 Schelling, F., 264 Schiller, F., 195 Schlauch, M., 145n. Schmitz, H.A. (Ettore), 180, 190, 191 Schopenhauer, A., 180n., 181 Schutz, A.H., 80n. Sebastiani, L., 121n., 148n. Segre, C., 112n., 117n., 118n., 123 Seneca, 115, 160 Senofonte, 31, 32 Serra, R., 183 Serrao, G., 15n., 36 Shakespeare, W., 263, 301, 302 Sharrer, H.L., 150n. Shelley, P.B., 275 Siceo, padre vd. Molza F.M. Silla, 35 Sinesio di Cirene, 160 Skafte Jensen, M., 18n. Sklovskij, V., 268 Slataper, S., 185n. Smith, D.W., 229 Soffici, A., 183 Sofocle, 23, 24n., 25n. Solone, 18, 20, 21 Sorrenti, T., 125n. Spaccarelli, Th. D., 145, 146, 147 Spanneut, M., 116 Spengler, O., 273 Speroni, G., 110n. Spivak, G., 202n., 285 316

Steele, T., 273n. Stefano Protonotaro, santo, 123 Stendhal, 182, 256, 257 Sterne, L., 223 Stevenson, L., 182 Stith Thompson, D., 145n. Storey, J., 272n., 279n., 284n. Strabone, 35n. Super Cat, 293n. Svevo, I., 175, 180-193 Swift, J., 249-251, 256-261 Tagliagambe, S., 70n. Tapscott, D., 292 Tassi, F., 108n. Tebaldeo, A., 170 Teognide, 20-23 Teopista, santa, 131 Thibaudet, A., 238 Thomas, D., 265 Thomas, R., 29n. Thompson, E.P., 272, 275, 279, 280 Thornburn, D., 287n. Todorov, T., 179n. Tolkien, J.R.R., 129, 130, 296 Tolomei, C., 165 Tolomeo Filadelfo, 27 Tomasi di Lampedusa, 252, 253, 256 Tommaso d’Aquino, 130 Tönnies, F., 272 Toqueville, A. De, 79 Toscan, J., 165n. Tozzi, F., 183 Trabattoni, F., 33n. Tramontin, S., 123n. Traverso, L., 197 Troisi, L., 299 Troncarelli, F., 115n. Tucidide, 29n., 31, 32

Tynianov, I., 268 Tzara, T., 194 Ungaretti, G., 198 Uria Ríu, J., 146n. Valeriani, L., 300 Valéry, P., 75, 177, 179, 180, 183, 189, 192, 193, 198 van Wees, H., 30n. Varchi, B., 155, 156, 163, 165, 169 Vargas Llosa, M., 240, 241, 259 Varty, K., 83n. Varvaro, A.,115n., 125n. Vauchez, A., 122 Vázquez de Parga, L., 146n. Vecchio, S., 91n., 92n., 97-101, Vegetti, M., 34n. Veneziani, G., 180 Verdi, G., 256 Verlaine, P., 194 Vernant, J.P., 16 Vetta, M., 21n., 22n., 23n., 25n., 27n. Vico, G., 198n. Vidal-Naquet, P., 16 Viel, R., 77n. Vittorini, E., 176 Volosinov, V.N., 276 Wace, 44, 49

Wagner, Ch.Ph., 132n. Waissman, F., 226n. Walker, R.M., 143, 149n. Webber, T., 53n. Weinrich, H., 305 Weisgerber, J., 65n. Weiss, J., 44n. Wellek, R., 281 West, M.L., 19n., 20n. Williams, A.D., 292n. Williams, H.F., 83n. Williams, P., 257 Williams, R., 272, 274-280, 284 Woolf, V., 183 Wordsworth, W., 275 Wright, N., 40n., 44n., 49 Wright, T., 43n. Wu Ming, 287n., 288, 300n. Young, D., 17n. Zambrano, M., 265 Zavattini, C., 183 Zdanevič, I., 211n. Žižek, S., 201, 214-218, 298n. Zola, E., 240 Zubillaga, C., 133n., 134n., 147, 150n. Zumthor, P., 7, 11, 57, 83, 86n., 107n., 127n.

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