Niccolò Machiavelli in Cancelleria. Cinquecento anni dopo 9788849126402

Relazione tenuta da uno dei maggiori esperti di Machiavelli in occasione del convegno per i cinquecento anni dall'e

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Niccolò Machiavelli in Cancelleria. Cinquecento anni dopo
 9788849126402

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

NICCOLÒ MACHIAVELLI IN CANCELLERIA: CINQUECENTO ANNI DOPO

Relazione svolta dal Professor Gennaro Sasso

Alma Mater Studiorum

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

NICCOLÒ MACHIAVELLI IN CANCELLERIA: CINQUECENTO ANNI DOPO

Relazione svolta dal Professor Gennaro Sasso

© 1999 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

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Premessa

Non io dovevo premettere una, ed una sola, pagina a questa splendida, densa ed ispirata conferenza di Ateneo, tenuta da Gennaro Sasso, nella sala delle Armi di Palazzo Malvezzi dell’Alma Mater, il 16 giugno 1998, nell’occorrenza del V° Centenario della designazione di Nicolò Machiavelli a «Segretario fiorentino», non io dovevo, ma Fabio Alberto Roversi Monaco. Ma la sensibilità del Magnifico ha voluto che questa brevissima Einladung alla riflessione su queste pagine fosse lasciata a chi, di Gennaro Sasso, era stato quasi collega alla Sapienza, mezzo secolo fa e, da sempre, grandemente ammiratore, per gli studi su Machiavelli, certo, ed anche per tante altre cose. Ringrazio, allora, il Magnifico per l’onore: e ringrazio ancora Gennaro Sasso, che è occasione nuova di rileggere e riflettere, come detto, questa «testimonianza» di un’esperienza di studio unica circa i molteplici significati che, in una dimensione di assoluta ed esclusiva eticità umana, assume la vita e l’opera di Machiavelli. Una testimonianza quale solo il suo più grande e acuto e miglior conoscitore poteva rendere, preziosa per sé, ancor più preziosa per «questi nostri tempi», ora come allora, pur se in una prospettiva di profondo e consapevole scetticismo. Testimonianza unica e forse irripetibile, quella ricavata da Sasso, non solo per il «caso» Machiavelli – il contrappunto sa5

vonaroliano, al di là delle banali «emblematiche confessionali», per altro dure a morire, come ognun vede!, offre un invito drammaticamente attuale e globale a ripensare ai «motivi originari della storia d’Italia», in un momento in cui, se ha un senso, il problema dell’Europa pone più che mai il problema della ricognizione di identità etico/politica, e non quello, ovviamente contingente, di consonanze o dissonanze mercantesche – non solo per il «caso» Machiavelli, si diceva, ma per la necessità del recupero del senso di un concreto umanesimo civile, da individuarsi nel confronto tra statuto culturale e occorrenze prammatiche. Il chiedersi come si fosse costituito per Machiavelli quello statuto culturale negli «oscuri Lehrjahre» precedenti l’assunzione della carica, che si risolve in congettura necessaria di non scarse conoscenze dell’antico, significa puntare sulla proposizione di una interezza della personalità di Machiavelli, che è già tutta virtualmente compiuta, per quel suo trasfondersi del pensare ed operare di politica, che si sarebbe attuato, per una successione cronologica ininfluente, nelle sue opere solo «post res perditas». Non un Machiavelli, prima politico, poi pensatore, ma, come ricorda Sasso, «c’è un solo Machiavelli, che pensava, rifletteva, connetteva esperienze, anche quando, in Cancelleria e fuori, badava come scrisse in una nota occasione, a non ‘giocare’ o ‘dormire’ gli anni che gli era stato dato in sorte di trascorrere a studio dell’arte dello stato». E non certo, nella lezione di Sasso, una prevaricazione del presupposto, dell’amor di tesi circa la compattezza della personalità di Machiavelli, sulla reale varietà delle occasioni da affrontare, si sovrappone alla coscienza della molteplicità di quelle occasioni e del continuo travaglio delle dialettiche delle parti. Basterebbero a fugare ogni sospetto in proposito le pagine dedicate all’impegno – e alle motivazioni di quell’impegno – per la costituzione 6

delle milizie cittadine, espressione di un governo opposto a quello «stretto», difeso dagli ottimati, che in quelle milizie riuscivano a vedere solo uno strumento di repressione interna, cioè della loro propria, posizione, non una garanzia per tutta Firenze. E non che Machiavelli non s’avvedesse degli impliciti rischi di quello strumento! Ma questa di Sasso è anche implicitamente una lezione di metodo, in quanto proponendosi come vera e propria sintesi, lascia, nella sicurezza dei giudizi, nella valutazione delle cronologie, nel vaglio delle ipotesi, intravedere il larghissimo – e per altro notissimo, per la sua opera – substrato di capillare informazione, di discussione, di eventuali ripensamenti: ovvia considerazione, per chi ripensi al suo ultimo Machiavelli. La proposta di sintesi, in questo caso, non è una brillante scorciatoia: nel richiamo, peraltro, a cogliere nelle opere del Segretario la sostanza, che è ricchissima, e che è fatta per chi abbia il gusto di quella, non per coloro che non riescono a nutrire altro che le «esangui passioni» della pedanteria. E significativa, tra le significative lezioni contenute in queste pagine, è quella che proviene dalle notazioni circa il valore che assume il senso retrospettivo dell’esperienza di Machiavelli, negli anni successivi alla perdita dell’ufficio, alla prigionia. Si direbbe la storia di «farsene una ragione» delle illusioni e delusioni: ma sarebbe un errore. Non che non si avverta, nelle pagine finali di questa lezione, l’individuazione di un progressivo disporsi a quella che viene definita la «dissimulazione sentimentale» di Machiavelli: che però non par si appaghi mai nell’inerzia di una totale disperazione. Anche Chabod, com’è noto, ha scritto pagine bellissime, nel suo Del «Principe» di Niccolò Machiavelli, a proposito del dramma umano «post res perditas» e dei tumulti dell’animo nel non volersi dar per vinto e però 7

aveva scritto «Onde il Principe, che, se era per l’innanzi criterio di interpretazione degli avvenimenti, si trasfigura in un ideale, si stilizza...nella storia». Sasso, se non mi inganno, compie un passo ulteriore: «come nessun altro ha colto il nesso che stringe insieme la fortuna e la politica, il rischio della rovina e la necessità, perciò di avere un animo disposto a piegarsi, per resistere, ai venti della fortuna; e a sapere perciò, se necessitato, entrare nel male. Alla radice della grande costruzione politica...ha perciò sotteso questa intuizione tragica dell’agire politico». Ma senza che questa tragicità fosse, come dire?, autoappagante e si mutasse in letteratura o in profetismo inane. Machiavelli, ci ricorda Sasso, ci ha additato una interpretazione della storia d’Italia, in cui le vicende si siano svolte più con l’assenza, che con la presenza della virtù. Leggiamola tutti, questa lezione, ricordandoci quell’interpretazione: studiosi, storici, filosofi, politici; con quella impietosa disposizione a entrare, se necessitati, nel male dell’agire politico, che non si vuole avere per sprovvedutezza, per meschinità, per inconfessata e inconfessabile paura di guardare alla realtà. Perciò alla fine della conferenza di Sasso, mi permisi di dire che simili sentimenti avevo tratto solo dalle lezioni di Chabod: e forse lo stesso Maestro avrebbe tratto – magari senza ammetterlo – un insegnamento dal Suo miglior discepolo. Ovidio Capitani

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Cinquecento anni fa, fra il 15 e il 19 giugno 1498, dopo che il 29 maggio il Consiglio degli Ottanta aveva designato il ventinovenne Niccolò di messer Bernardo Machiavelli come segretario della seconda Cancelleria della repubblica di Firenze, l’elezione fu messa «a partito» nel Consiglio Maggiore, e quindi ratificata. Così, prima di essere quello che solo in seguito, e cioè dopo il 1512, sarebbe stato, Machiavelli divenne il segretario fìorentino; e, a pochi giorni dalla ratifica di questa carica, anche il segretario dei Dieci di libertà e di pratica, il magistrato preposto alla politica estera. Sarà un caso, ma che lo sia è poco probabile, soltanto due giorni prima che gli Ottanta proponessero il suo nome, il rogo acceso in piazza della Signoria aveva posto fine all’esistenza terrena, e politica, di Girolamo Savonarola. E fu dunque con ogni probabilità la scomparsa del frate dalla scena politica che a lungo, e in profondità, ne era stata dominata a rendere possibile quel che tale non era stato qualche tempo prima quando, fra il 19 e il 20 febbraio, il nome di Machiavelli era risultato soccombente nei confronti di quello di ser Antonio della Valle. Così, quasi a confermare, attraverso l’evidenza del dato biografico, la verità della rappresentazione che Francesco de Sanctis e Giosue Carducci avevano data dell’incompatibilità dei due, 9

l’uscita di scena del Savonarola coincise con l’entrata, in essa, di Niccolò Machiavelli. Non era, come il De Sanctis e il Carducci avevano preteso, il Medioevo che cedeva al Rinascimento, la trascendenza che lasciava il posto all’immanenza, l’amore della vita che prevaleva su una cupa disposizione alla penitenza e alla morte. E se, certo, già allora Machiavelli non era savonaroliano, e all’aver avuto amici nel partito degli avversari del frate doveva forse la sua elezione in Cancelleria, è anche vero che l’insistenza sulla necessità che le coscienze rientrassero in sé stesse e si rinnovassero e, per certi aspetti, anche la scelta democratica, che aveva caratterizzata e accesa la parola apocalittica del predicatore di San Marco, tutto questo anche in lui lasciò un segno profondo. Lo dispose alla radicalità, o, nella sua disposizione alla radicalità, trovò un terreno propizio. Lo indusse a guardare giù, nel profondo, a scavare dentro le coscienze, a rendere visibile quel che visibile, immediatamente, non è. Per qualche aspetto non secondario, determinò e segnò il suo destino di riformatore non religioso, ma laico, non credente, ma ateo, e, bene al di là della sua ironia tagliente e terribile, appassionato tuttavia, fermo nelle sue convinzioni fino al rischio della solitudine e dell’isolamento, nel presente e, sopra tutto, per il futuro. Chi, in questi nostri (per dirla alla sua maniera) «presenti tempi» si fermi a riflettere sullo svolgimento della storia d’Italia, può, nel corso di queste sue riflessioni, ricavare motivi di conforto o di sconforto, di speranza o, invece, di disperazione. Dipenderà, com’è chiaro, dalla qualità dell’attesa. Ma se poi in quello svolgimento cerchi, per Savonarola e per Machiavelli, un posto, se a sé stesso chieda in che senso e in quale misura essi abbiano parlato alla «nazione» italiana, con o senza sorpresa deve constatare che per l’uno e per l’altro un posto, nella storia italiana, non c’è. Deve constatare che in loro 10

la «nazione» italiana non ha riconosciuto ed eletto altrettanti maestri. Alla schietta comprensione ha preferito il pregiudizio; e quindi l’indifferenza e, all’interno di questa, l’ostilità. Entrambi restarono, post mortem, fra gli isolati, tanto noti quanto mal conosciuti. E se, dopo aver risuonato per qualche decennio, dopo il rogo del 1498, nella coscienza fiorentina, la voce di Savonarola accennò a far sentire il suo suono nell’età di Gino Capponi e di Raffaello Lambruschini, per poi spegnersi di nuovo, quella autentica di Machiavelli non fu ascoltata se non da pochi, anzi, francamente, da pochissimi. Per i più egli rimase il personaggio costruito dal vario e mai spento antimachiavellismo di ieri e, dunque, anche di oggi: un deteriore maestro di astuzie e di intrighi, un mariuolo, come l’aveva definito Don Ferrante, ma senza la «profondità» che questi gli riconosceva, un cinico adoratore dell’intrigo e, quando occorresse, del delitto. Ossia, la negazione più, paradossalmente, compiuta che potesse darsi della sua autentica natura, non solo intellettuale, ma anche morale: un personaggio da commedia, un uomo, si vuol dire, dell’universo mandragolesco, considerato dalla parte dell’oggetto, non da quella del soggetto. Non, dunque, il grande scrittore tragico che, anche quando compose commedie, Machiavelli fu. Non il geniale indagatore della politica, del potere, e della loro ambigua, abissale, natura. Non il pensatore che, nel divinare il senso della storia romana, seppe cogliere quello intrinseco alle istituzioni politiche, indagando le «cagioni» della loro grandezza e cogliendo quelle della loro decadenza. Non l’autore delle Istorie fiorentine: uno dei libri più straordinari della nostra letteratura storica, caduto per tempo nelle mani di gente proba e onesta, che per quattro date sbagliate e quattro errori di fatto non esitò a gettarlo nelle fiamme dell’oblio: uno dei pochi libri in cui se, se si decidesse a guardarvi dentro, l’I11

talia potrebbe cominciare a scoprire qualcosa di sé, e a meglio conoscersi. La Cancelleria nella quale Machiavelli entrava nel giugno 1498, non era soltanto il centro del governo fiorentino, la sua struttura burocratica e amministrativa, il luogo degli «uffici». Era anche un centro vivo di cultura, nel quale singolarmente, e in modo che richiederebbe di esser meglio indagato e conosciuto, il sapere «politico» si intrecciava a quello letterario. Dai tempi di Coluccio Salutati e di Leonardo Bruni a quelli recenti di Bartolomeo Scala, questo intreccio si era prolungato in una serie di azioni virtuose, in una tradizione, nella quale non è soltanto esercizio di retorica dire che la «filosofia» si faceva politica, ma questa cercava poi di ripensare sé stessa nella luce di quella, in un nesso che costituisce il quid proprium di quello che fu detto l’umanesimo civile. È difficile stabilire con che occhi un uomo paradossale, caustico e poco disposto alla «storia sacra», quale fin dagli esordi Machiavelli era, guardasse all’aurea catena dei cancellieri umanisti e se, sopra tutto, di questo loro umanesimo possedesse il concetto. Certo è comunque che, chiamato a capo della seconda, nella prima Cancelleria poteva incontrare Marcello Virgilio di Adriano Berti: un cancelliere, anche lui, umanista. Un cancelliere che certo non era Leonardo Bruni, anche se nelle cose del greco e del latino avesse il suo grado e meritasse perciò rispetto. Se non sorprende che la Cancelleria fiorentina attenda ancora, pur dopo i molti lavori che sono stati dedicati a suoi aspetti particolari, un libro che sostituisca quello, pubblicato nel 1910, di Demetrio Marzi, potrebbe invece recare ragione di meraviglia la notizia del poco, pochissimo, quasi niente che si 12

sa del giovane personaggio che il Consiglio degli Ottanta aveva designato alla carica di segretario. Il primo documento, a noi noto, che rechi il suo nome è quello che registra la sua vittoria del maggio/giugno. I ventinove anni trascorsi dal giorno della sua nascita fino a queste date sono infatti, e per intero, avvolti nelle tenebre, nelle quali soltanto qualche congettura permette di far filtrare un poco di luce. Che cosa, divenuto adulto, Machiavelli facesse, a Firenze o altrove, e che cosa sopra tutto avesse fatto per diventare adulto, non si sa; ed è soltanto il presentimento del futuro, di cui sono testimonianza i suoi primi scritti, che ci dà la certezza del molto che, per conseguire quel traguardo, egli dovette fare nei suoi oscuri Lehrjahre. Queste per altro sono congetture; che tengono il posto di notizie certe. A parte le scarne informazioni che il Diario di messer Bernardo suo padre fornisce su di lui fanciullo e sui suoi primi studi, non si sa come e con chi li proseguisse, quali libri leggesse, in quale modo li leggesse e quali cose cercandovi. Non si sa quali rapporti intrattenesse, e se intrattenesse rapporti con i circoli umanistici fiorentini, con il concetto dell’antico che vi si coltivava e che non era certo quello che poi egli ne ebbe. Nemmeno sappiamo come guardasse alla politica della sua città, e da quali prospettive: chi fossero i suoi amici, chi i suoi avversari. E se non fosse per il fatto dell’assunzione in Cancelleria e dei legami politici che ne sono presupposti, potrebbe persino darsi credito, tale è il desolante silenzio dei documenti, all’ipotesi che quei suoi primi anni egli li trascorresse in solitudine, intento a leggere, a riflettere, a fare la sua esperienza, in attesa di quella moderna, dell’antico. È improbabile, per altro, che Machiavelli trascorresse in solitudine i suoi anni di formazione. Se, come tutto lascia suppore, è un lavoro di gioventù, anteriore all’assunzione in Cancel13

leria, la trascrizione che egli fece dell’intero poema di Lucrezio, occorrerà supporre che qualcuno avesse provveduto a commissionarglielo; e questo sta a significare che di rapporti doveva averne e anche che altri sapesse della sua attitudine a imprese del genere. Non si trascrive Lucrezio se non si conosce il latino. Chi conosce il latino non può non averlo appreso leggendo i testi degli antichi scrittori. E, per quanto ovvio, questo è un punto importante, che occorrerebbe non dimenticare. Non può credersi infatti che le conoscenze dell’antico che le opere della maturità rivelano egli le acquistasse tutte (è stato supposto anche questo!) negli anni post res perditas, dopo cioè che la caduta della repubblica democratica di Pier Soderini e il ritorno dei Medici lo ebbero per sempre privato e del suo grado e del suo ufficio. Quando, fra il luglio e il dicembre del 1502, fu a Imola, presso la corte di Cesare Borgia, mise letteralmente in croce il suo «coadiutore» in Cancelleria, Biagio Buonaccorsi, e gli impose di trovargli un Plutarco, sul cui testo aveva necessità di riflettere perché, di sull’esempio di qualche antico, il comportamento del principe di oggi di fronte ai pericoli incombenti gli svelasse, bene o male ispirato che poi lo giudicasse, il suo segreto. Due anni prima, dalla Corte di Francia, aveva scritto a Firenze di aver spiegato a Georges d’Amboise, cardinale di Rouen e ministro di Luigi XII, come assai meglio dei Francesi i Romani si fossero comportati nelle cose politiche. E la battuta tornerá nel terzo capitolo del Principe: «dicendomi el cardinale di Roano, che gli Italiani non si intendevano della guerra, io gli risposi che li Franzesi non si intendevano dello stato: perché, s’e’ se ne ’ntendessino, non lascerebbono venire in tanta grandezza la Chiesa». Non che il rilievo di Georges d’Amboise non fosse andato a colpire un punto delicato e dolente della sua coscienza. Anche per questo, com’è 14

ovvio, la sua replica suonò orgogliosa, oltre il limite della prudenza. Ma come è noto fino a che punto, e con quanta drammatica passione, a partire dal 1505, Machiavelli s’impegnasse nel lavoro volto al reclutamento e all’organizzazione di un esercito cittadino e non mercenario, così è facile capire che egli non attendesse gli anni che videro la composizione dell’Arte della guerra per acquisire le conoscenze che la resero possibile. Ai testi antichi, e in primo luogo a Livio, egli dovette volgersi per tempo, sia per lo «stato» sia per la «milizia». Il che naturalmente dev’essere inteso nel senso che il loro studio non cominciò di necessità negli anni della Cancelleria, quando l’esperienza delle cose moderne lo spingeva ad andare indietro, verso la grande fonte classica, ma già in quelli anteriori all’assunzione, quando era l’esperienza dell’antico a fargli avvertire la necessità dell’altra e a dargli la speranza che presto il circolo delle due avesse a saldarsi. È indiscutibile, infatti, che per poter essere presente nei punti nevralgici del pensiero che emerge dagli scritti appartenenti al periodo della Cancelleria l’esperienza dell’antico doveva essersi formata in Machiavelli ben prima che quella moderna incominciasse. Già nel 1503, quando, fra il giugno e l’agosto, scrisse il breve discorso Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellata, la necessità che il moderno fosse posto a riscontro dell’antico, e giudicato nella prospettiva di questo, era affermata con la più grande energia. E come questo precoce anticipo del «metodo» dei Discorsi lascia supporre una familiarità già da parecchio tempo acquisita con il testo di Livio, così il capitolo Di Fortuna, che fra i Capitoli machiavelliani è quasi certamente il più antico, già svela che questioni come quelle che si legano alla successione degli imperi non erano, a quella data, estranee allo scrittore che sarebbe tornato a parlarne nei Discorsi. Ma, al di là del topos, la con15

suetudine con la storia antica, e non con quella dei Romani soltanto, è presente nell’altro capitolo, quello Di Ingratitudine, mentre il successivo Di Ambizione, a chi lo osservi con occhio non distratto svela un modo di riferirsi al testo biblico, nel quale è presente qualcosa di ben più radicale che non sia una semplice vocazione eterodossa. Che l’esperienza delle cose moderne, alla quale il lavoro svolto in Cancelleria e quindi presso le Corti italiane e straniere (il regno di Francia, l’Impero) offrì un’occasione unica e irripetibile, già allora si legasse a quella degli antichi e ne fosse, addirittura, stata anticipata, è, direi, evidente. E se ne deve ricavare, per quanto concerne la cronologia delle grandi opere e, prima ancora, la maturazione delle idee che le resero possibile, qualche non insignificante corollario. C’è infatti cronologia e cronologia, data e data: ossia c’è un diverso modo di intendere queste e quella. Se il Principe sappiamo che fu composto a partire dalla metà circa del 1513 per essere concluso all’inizio dell’anno successivo; se sappiamo che i Discorsi, a proposito dei quali niente di altrettanto certo possiamo mettere insieme, appartengono comunque al periodo post res perditas, è pur vero che la stesura di opere come queste incomincia nel momento stesso in cui, per un altro verso, la loro maturazione e la stessa loro ideazione hanno toccato il traguardo. Opere come queste, nelle quali si condensa l’esperienza di una vita, cominciano a prendere forma sulla carta quando già quella, la forma, ha trovata nella mente la sua prima espressione. E questo rende difficile, e persino vano, il tentativo che si compia di stabilire inizi astrattamente rigorosi nell’ordine della successione temporale. Ma contribuisce tuttavia a far comprendere che alla radice della storia che coincide con la stesura agisce una storia 16

più profonda, che pur si congiunge con la prima e di tanto, perciò, la rende più complessa e sinuosa. Può ben darsi che quando osservava il duca Valentino, nella sua rapida ascesa e nella sua fulminea caduta, le idee del Principe fossero, nella mente di Machiavelli, non più che un debole preannunzio. E può darsi che fossero molto di più, un nucleo compatto, anche se incompleto, un’intrinseca capacità formatrice di quel che occorreva alla sua completezza. E lo stesso, a proposito di altre esperienze, dev’essere detto dei Discorsi. In ogni caso è chiaro che anche il preannunzio fa parte di un’opera; e che con la storia di questa forma un’unica storia. Ecco perché non è vero che, in Machiavelli, prima si dà il politico, il diplomatico, l’uomo di governo, e poi il pensatore. È vero, invece, che c’è un solo Machiavelli; che pensava, rifletteva, connetteva esperienze anche quando, in Cancelleria e fuori, badava, come scrisse in una nota occasione, a non «giocare» e «dormire» gli anni che gli era stato dato in sorte di trascorrere «a studio dell’arte dello stato». Poco dopo che era entrato in Cancelleria, quanti erano tenuti a lavorare con lui, e già non l’avessero frequentato per l’innanzi, impararono presto a conoscere il personaggio. Del quale due caratteri subito apparvero evidenti. Da una parte, la straordinaria capacità di lavoro, una sorta di incontenibile frenesia pragmatica, l’impeto che lo conduceva in un luogo e poi, subito dopo, in un altro. Cursitandi avidus, scrisse di lui, il 14 ottobre 1502, Agostino Vespucci, uno dei suoi collaboratori in Cancelleria; e vien fatto di pensare al giovinetto di cui si parla nel primo capitolo dell’Asino, che non poteva fare a meno di correre, correva sempre, e nessun medico, fra quanti il ricco padre ne avesse consultati, riuscì a guarire del suo strano male. 17

Da un’altra parte, la straordinaria qualità dell’ingegno, che tanto da fare dava alle risorgenti invidiosità di Biagio Buonaccorsi e, con altrettanta forza, accendeva l’ammirazione di chi questo sentimento era generoso abbastanza da riconoscerlo per quel che era, concedendogli spazio ed espressione. Filippo Casavecchia, per esempio, un altro uomo della Cancelleria, scherzava certo quando, cercando di stare al passo con il temibile motteggiare machiavelliano, subito dopo la caduta di Pisa confessava di provare invidia nei suoi riguardi, ma anche ammirazione, schietta ammirazione. Il Casavecchia parlava sul serio; e se vera era l’invidia, vera, altrettanto vera, era l’ammirazione. Vero era altresì, sebbene il tono qui tendesse al «comico», quel che subito dopo gli confidava: «Nicolò, questo è un tempo, che se mai si fu savio, bisongnia esere ora. La vostra filosofia non credo che abbi a eser mai capacie a’ pazzi, e’ savj non son tanti che bastino: voi m’intendete, benché non abbi sì bello porgere. Ongni in dì vi scopro el maggiore profeta che avessino mai li Ebrei o altra generatione. Nicolò, Nicolò, in verità vi dico che io non posso dire quello vorrei». Una battuta, senza dubbio; e che tuttavia, nelle ore tristi della giornata, si vorrebbe che fosse meditata e presa sul serio da certi studiosi che circondano Machiavelli di varie cure, e in realtà tanto lo detestano quanto, oscuramente, lo temono, e perciò se ne vendicano, imputando a lui che spesso citava a memoria i suoi autori di non citarli secondo le regole di qualche filologica accademia, e sollevando dubbi perciò sul suo «sapere». Una volta (ma è un prodigio che di tempo in tempo si rinnova) lo si definiva figlio del demonio, spirito perverso e malvagio, corruttore del genere umano. Ora che, anche in questo campo, i guasti sembrano essersi secolarizzati, in modo conforme a più esangui passioni l’antimachiavellismo ha assunto il volto di un precettore pe18

dante, che non tollera le inesattezze (e per questo si permette, anzi si fa un merito, di non volgere lo sguardo alla sostanza). Stretto fu, durante gli anni seguìti all’istituzione del gonfalonierato perpetuo, il rapporto con l’uomo, Pier Soderini, che, battendo la concorrenza ottimatizia e quella in particolare di Alamanno Salviati, a questa carica era asceso. E forte, aspra, implacabile fu l’ostilità che per questa ragione, resa di tanto più seria e irresistibile quanto più ad alimentarla fossero di volta in volta la sua scarsa prudenza, il gusto della battuta tagliente e saettante, la convinzione della sua superiorità intellettuale, per tutto il periodo del segretariato e, in particolare, negli anni centrali di questo, gli ottimati gli dimostrarono. L’ostilità: e anche, nascendo da questa e dal timore che la rendeva più forte, i tentativi volti a colpirne la persona, a ricoprirla di vario discredito, a dimostrare la sua indegnità a esercitare la carica alla quale era stato innalzato nel 1498. Questa ostilità ebbe forse la sua origine nella provocazione, sottile e insidiosa, che nel primo Decennale, dunque nel 1504, Machiavelli aveva come sottesa all’elogio che vi aveva delineato di Alamanno Salviati. E si rafforzò, questa ostilità, quando apparve chiaro che all’ascesa di Pier Soderini alla «suprema insegna» presto avrebbe fatto seguito il progetto della milizia cittadina: un progetto al quale Machiavelli affidava l’avvenire stesso di Firenze e che gli ottimati consideravano invece come la causa prima della loro prossima rovina. Era opinione ben salda, infatti, nelle loro teste, e saldissima fino all’ossessione in quella di Bernardo Rucellai, che, con lo strumento fornito dalla nuova milizia, Soderini e con lui Machiavelli intendessero vincere, non i nemici esterni, ma quelli interni, e cioè gli ottimati, al cui pensiero, alle cui ansie, ai cui timori avrebbe di lì a non molto dato voce, nelle 19

giovanili Storie fiorentine, uno che era nato fra loro e, come ingegno, li sovrastava tutti, Francesco Guicciardini. In realtà, come lo stesso Guicciardini ebbe più tardi ad ammettere, l’idea della milizia cittadina era bensì, per varie ragioni, rischiosa (e di questo, come si vede bene nei suoi discorsi sulla milizia e, più tardi, nella stessa Arte della guerra, il primo a rendersi conto era proprio colui che la propugnava, Machiavelli), ma non perché di necessità costituisse il volto nascosto di un progetto tirannico e liberticida. Machiavelli, che era democratico, era repubblicano, era fautore autentico della libertà, era per contro convinto che non le truppe cittadine costituissero per la libertà un pericolo, ma proprio gli ottimati che, fautori com’erano del governo «stretto, accanitamente si opponevano alla loro introduzione. Si sa che la dura battaglia che li oppose, su questa materia, agli ottimati, fu alla fine vinta dal gonfaloniere e da lui, il segretario della seconda Cancelleria. Ma come le milizie cittadine non seppero, nel 1512, contrastare e impedire il ritorno dei Medici a Firenze, così anche la vittoria politica conseguente da Machiavelli sugli ottimati fu da lui pagata a caro prezzo, ad un prezzo altissimo e, se non fosse stato per l’impagabile risorsa offertagli dal suo genio, altrimenti insostenibile. L’avversione che il nome di Machiavelli suscitava nei gruppi ottimatizi si era fatta in effetti così forte che quando la repubblica cadde e i Medici tornarono, dopo diciotto anni, in Firenze, non ci fu sforzo che, allora e in seguito, si compisse che bastasse a rendere meno aspra la condanna, e non definitivo l’allontanamento dagli uffici. Non fu possibile, allora e in seguito, che le sue idee fossero perdonate; e con qualche ragione, occorre riconoscere, perché le idee sono, per natura loro, ostinate, si avvolgono su sé medesime e ritornano, e, nel condividerle, nel sostenerle, nel difenderle, Machiavelli era ostinatissi20

mo. Non fu possibile che gli si perdonasse l’ingegno, e la ostinata e convinta devozione con la quale, presunto amico dei principi e dei tiranni, aveva, per quindici anni, servito la repubblica. Non fu possibile che il segretario della seconda Cancelleria, il «mannerino», come gli avversari lo avevano definito, del gonfaloniere perpetuo, rientrasse nel Palazzo e riprendesse in mano il filo della politica. Così, inesorabilmente, la sua vita politica ebbe termine. Ebbe termine il tempo dell’azione, il tempo dei segreti colloqui con i re e con i principi, il tempo in cui, prima di essere un’idea, la politica era stata una passione e un’esperienza. Ma poiché, come il 10 dicembre 1513, citando Dante, scrisse al Vettori, «non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso», al tempo della politica seguì quello della riflessione sulla politica. Cominciò il tempo delle opere, scritte nelle lunghe sere di Sant’Andrea, lontano, per quattro ore di tempo, il pensiero della morte, e mentre tuttavia giù, nel profondo, il basso continuo della passione delusa rendeva percepibile il suo tema, dolente e ostinato. Al di là del limite segnato dalla «cassazione» di Niccolò di messer Bernardo Machiavelli dall’ufficio di segretario della seconda Cancelleria e dalle cariche che a questa prima si connettevano, si distende dunque la stagione delle opere. Fu il tempo delle grandi speranze e delle fulminee delusioni, dell’indomabile rinascere delle prime, dell’implacabile ritorno delle seconde. Quando fu liberato dalla prigione nella quale era stato rinchiuso e sottoposto a tortura, nel darne notizia, il 13 marzo 1513, a Francesco Vettori, disse di non voler «replicargli» la «lunga historia» di questa sua disgrazia, ma soltanto avvertirlo, ora che il peggio era passato, che sarebbe stato, per l’avvenire, più cauto di quanto per il passato non fosse stato. Gli diceva 21

anche di confidare che i tempi sarebbero stati, di lì in poi, «più liberali, et non tanto sospettosi»; e che qualcosa da fare ci sarebbe stata anche per lui, che avrebbe cercato di rendersi utile a chi della sua esperienza avesse voluto servirsi. Si illudeva, naturalmente; e non tardò a prenderne atto. Si confortava con Dante, con Petrarca, con gli altri poeti che gli erano familiari; e intanto, mentre esercitava il suo incomparabile ingegno nell’analisi della politica contemporanea e dei dubbi che, in proposito, il Vettori gli comunicava, nella sua mente urgeva il progetto del Principe, si delineavano le questioni dei Discorsi, non senza che al principale suo corrispondente di questi mesi e anni Machiavelli si dilettasse a raccontare le terrestri vicende dei suoi amici, o, per fare un altro esempio, quelle del frate di San Francesco, «che è mezzo romito» e che, «per avere più credito nel predicare, fa professione di profeta», con quel che segue fino alla fine di questa lettera, che certo è, insieme a molte altre di questo periodo, fra i capolavori della nostra epistolografia. Così, il piccolo mondo, nel quale era costretto a vivere e a contenere la sua sete di esperienze e di analisi, all’improvviso si illuminava con la luce dell’arte e con quella della speranza, mentre, nel fondo dell’anima, il dolore e la disperazione erano allontanati e, se non vinti, resi domestici e sopportabili e miti. Ma poi, a un tratto, anche questo grande artista della dissimulazione sentimentale cedeva alla presa della disperazione: «quanto ad me», scriveva il 15 febbraio 1516 al nipote Giovanni Vernacci, «io sono diventato inutile ad me, a’ parenti et alli amici, perché ha voluto così la mia dolorosa sorte. Et non ho, o, a dire meglo, non mi è rimaso altro di buono sed non la sanità ad me et ad tucti e mia. Vo temporeggiando per essere ad tempo a potere piglare la buona fortuna, quando la venissi, et, 22

quando la non venga, havere patienza». Andava «temporeggiando» per non farsi trovare impreparato dalla fortuna, questa grande e terribile potenza del mondo degli uomini e degli stati; e come il suo pensiero, in quelle tristi traversie, delineava le teorie del Principe, dei Discorsi, dell’Arte della guerra, così, dopo l’interruzione dell’Asino, la sua fantasia dava vita alla bellissima Mandragola. Questo era Machiavelli. Era, ho detto, un artista della dissimulazione sentimentale. Ma anche intellettuale. Grande animatore di «brigate», raccontatore ineguagliabile di favole, ricco di invenzioni e di giochi. Ma come, nel fondo, l’animo chiudeva un’idea tragica del mondo, così tendeva a dissimularla, a non esibirla, al modo stesso che talvolta addirittura i pensieri dissimulava e le «fonti» a contatto con le quali li aveva maturati e definiti. Perché questo accadesse, non è facile a dirsi; e occorrerebbe più spazio e più tempo per cercar di venire a capo di questo sottile gioco intellettuale. Occorrerebbe comunque anche considerare che, come la dissimulazione è un’arte del rivelare nascondendo e un pensiero dissimulato è, per questa medesima ragione, un pensiero più forte, più interno alla coscienza, più intensamente posseduto, e con altrettanta intensità, perciò, comunicato a chi abbia compiuta la fatica di scendere alla sua radice, così l’esercizio di quest’arte apre il campo, presso chi non sia in grado di intenderlo, alle ovvietà, alle banalizzazioni, agli irresponsabili rovesciamenti di senso. Che è quanto, così spesso, è avvenuto con Machiavelli; e con facilità tanto maggiore in quanto non c’è incomprensione che, per qualche aspetto, non si nutra del suo contrario e, con il suo oggetto, non riesca a stabilire un obliquo rapporto. Si aggiunga la rischiosità dei pensieri che Machiavelli ricavava dal sondaggio da lui eseguito nelle pro23

fondità dell’universo politico. Si pensi a quel che scrisse nel Principe sulla «fede», sui patti, sulle crudeltà. Si pensi a quel che altresì disse, e confermò, nei Discorsi. E, almeno per un aspetto, si arriverà a comprendere la genesi psicologica di tanta parte dell’antimachiavellismo, di ieri e, ripeto, di oggi. A chi abbia l’imprudenza di guardare dentro l’anima degli uomini e dentro il cuore di bronzo dei grandi Leviatani politici, di guardarvi dentro e di render noto quel che vi si trovi, l’umanità risponde imputando a colui che guarda la responsabilità di quel che vede. E con uno scrittore come Machiavelli, con questo singolare moralista che da ogni moralismo era alieno e di quel che vedeva non intendeva dare la colpa al diavolo, il gioco del trasferimento era fin troppo facile. Come soltanto Tucidide, forse, seppe fare nell’antichità classica, Machiavelli ha guardato con spietatezza e senza infingimenti nel mondo precario e rischioso della politica. Come nessun altro ha colto il nesso che stringe insieme la fortuna e la politica, il rischio della rovina e la necessità, perciò, di avere un animo disposto a piegarsi, per resistere, ai venti della fortuna; e a sapere perciò, se necessitato, entrare nel male. Alla radice della grande costruzione politica e costituzionale innalzata, per scorci possenti, nel primo libro dei Discorsi, ha perciò sotteso questa intuizione tragica dell’agire politico. Ne ha avuto in cambio, come si è detto, odio, e non riconoscenza: perché gli uomini sono pur sempre quelli che dimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio, ma proprio per questo detestano usque ad sanguinem chi si permetta di metterli di fronte a questa semplice verità. Una politica tragica, dunque; presentata senza che mai la tragicità ne fosse dichiarata e divenisse perciò oggetto di letteratura, pretesto per narcisistici compiacimenti. E alla radice di questa, un’interpretazione della storia d’Italia dura e sconsola24

ta, profonda e unilaterale, degna di essere meditata e non rimossa, perché è pur vero che è piuttosto con l’assenza che non con la presenza della virtù che la vicenda italiana ha intessuto nei secoli la sua trama politica. E qui sia consentita una modesta considerazione. Alla vigilia di un nuovo, possibile svolgimento di questa storia, in un momento per altro di crisi e di incertezze profonde, la cultura italiana dovrebbe meditare sul serio le pagine di uno scrittore che, più di ogni altro, ha raccontato verità amare. Si deve sperare che il tempo della lunga rimozione sia finito, che al Principe non si guardi con gli occhi astuti di Ligurio, ai Discorsi con quelli stolti di messer Nicia, alle Istorie con quelli corrotti di frate Timoteo: di questi tre protagonisti del mondo degradato della Mandragola. Machiavelli, per la verità, merita ben altro. Gennaro Sasso

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Finito di stampare dalla LIPE S. Giovanni in Persiceto (BO) Via Einstein 28/A Aprile 1999