Nella penombra

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Juan Benet

Nella penombra

ADELPHI

SN

Due donne, una anziana e una giovane, zia e nipote, siedono nella penombra di uno studio spazioso, e parlano. Di che cosa? Di un messaggero che dovrebbe arrivare, del suo messaggio che dovrebbe chiudere una ferita aperta molto tempo prima. «Nemme­ no per un istante ... ho dubitato della ve­ racità di quel che veniva a comunicarmi il messaggero, e sempre mi sono comporta­ ta come,se lo considerassi il tramite di un inganno» dice la vecchia. Ma chi sono la zia e la nipote? Innanzitutto due imponenti presenze romanzesche, che esistono nel momento stesso in cui aprono bocca. Ma anche: sono due temerarie teologhe, l’una (la zia) dedita per anni ad alte acrobazie speculative; l’altra (la nipote), testarda e aforistica, vibrante di passione « non smor­ zata» e insieme lucida e fredda, capace di rintuzzare l’interlocutrice con battute acu­ minate. Nella conversazione veemente e ipotattica fra le due donne, a tratti fosca, a tratti anche insolente e comica, si svela a poco a poco qualcosa del passato, un fatto che deve essere smascherato, ma al tempo stesso deve restare nascosto, ed è l’oggetto innominabile del messaggio, forse una «barbara usanza» che si manifestò il gior­ no delle nozze della vecchia, quando ven­ ne accolta nella tribù degli Amat. Ma qual è il nesso fra quell’oltraggio immemorabi­ le e il messaggio che dovrebbe sanarlo? Tutto in questo romanzo è al tempo stes­ so fisico e metafisico, articolato in una pro­ sa possente, folta, innervata. E il lettore è tenuto in sospeso fino all’ultimo da un bu­ rattinaio che opera «nella penombra» con vertiginosa maestria, « mentre intorno ru­ moreggia il destino». Juan Benet è considerato il maggior scrittore spagnolo vivente. Nato nel 1927, vive a Madrid. E ingegnere - e questo, unito alla complessi­ tà e difficoltà della sua opera, ha spinto qual­ cuno ad avvicinarlo a Gadda. Ma gli scrittori a lui più affini potrebbero essere, semmai, Faulkner e Conrad. Nella penombra, pubblicato in Spagna nel 1989, fu salutato con grande fa­ vore da critica e pubblico.

«Perché in realtà io non so che cosa sin cesse, e credo non lo sappia nessuno, nean­ che i protagonisti, che non si accorsero di quello che era successo. La verità è che sic­ come non si sa mai bene quello che è suc­ cesso, niente si può considerare come successo, e tutto quello che è successo de­ ve continuare a succedere. Sarebbe diver­ so se si sapesse bene come sono successe le cose, allora non ci sarebbe proprio nes­ sun bisogno che tornassero a succedere. Una volta che sono successe, basta. Ma sic­ come niente è successo del tutto, o perlo­ meno nessuno sa come è successo e se è successo del tutto, non esiste nemmeno quella volta. Mi spiego?».

In copertina: Frank V su tela, 1906, Gift of Art Institute of Chicag © 1991 The Art Institute

°nson, Rainy Day, olio ' American Art, The

Jo.

FABULA 53

Juan Benet

NELLA PENOMBRA Traduzione di Carlo Brera

ADELPHI EDIZIONI

TITOLO ORIGINALE

En la penumbra

© 1989

BY JUAN BENET

FIRST PUBLISHED IN SPAIN 1989 BY ALTEA, TAURUS, ALFAGUARA, S.A.

© 1991

ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO ISBN 88-459-0838-0

INDICE

Ottobre Giugno

27

Giugno

35

Ottobre Maggio Ottobre

43 57 73

Giugno

90

Giugno Ottobre

Agosto Giugno Ottobre Agosto Ottobre Settembre

102 111 128 141 147 162 180 188

Ottobre

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NELLA PENOMBRA

OTTOBRE

« Puoi andare » disse la signora, e di nuovo inforcò gli occhiali e di nuovo impugnò la penna per ripren­ dere le sue annotazioni sul registro di cassa, largo e aperto sul libro mastro rilegato in cartone nero, col dorso e gli angoli rossi, di formato verticale. L’am­ ministratore si alzò dalla sua sedia, accanto allo scrit­ toio ma fuori dal cerchio di luce della lampada. «Continueremo dopodomani» disse la signora e subito aggiunse: « Attento a non mettere i piedi sulla cera scendendo la scala». L’amministratore uscì dallo studio sempre restan­ do immerso nella penombra, e lasciò dietro di sé l’orma della sua discrezione professionale aprendo e richiudendo la porta senza che il saliscendi facesse il minimo rumore. Allora si alzò anche la nipote, posando il lavoro a maglia sul divano, in una piccola borsa ricamata a disegni ingenui dalla quale i ferri spuntavano come due antenne. La signora non ave­ va obiezioni a che la nipote assistesse ai colloqui con l’amministratore, ma poi, una volta che questi erano terminati, gradiva rimuginare un po’ da sola gli 11

affari in corso, mentre la nipote scendeva in cucina a vigilare sui preparativi della cena e a stendere, come ogni sera, la lista della spesa per il giorno dopo. In quell’occasione però la signora si concesse di altera­ re il corso abituale degli eventi. «Tu puoi rimanere» disse la signora. La nipote tornò a sedersi sullo stesso angolo del divano isabellino, in mogano rivestito di stoffa a stri­ sce bianche e grigie, a forma di gondola, con i due braccioli culminanti in due robuste e pompose volu­ te. Con metà del corpo immerso nella penombra, sotto il paralume di pergamena decorato da una liri­ ca medioevale a grandi lettere nere, con le maiusco­ le vermiglie, la nipote non si rimise a sferruzzare né tenne in mano la matassa che aveva preso dalla bor­ sa: la rificcò subito dentro, spingendola più in fon­ do, come per sancire con quel gesto la conclusione del lavoro della giornata. E con un atteggiamento ancora più antiquato della sua occupazione si acco­ modò rigidissima sul divano, si tirò giù la gonna fino a metà polpaccio e incrociò le mani in grembo, con l’aria di chi si disponga a una lunga attesa, e insieme di chi si appresti ad ascoltare un monologo di una certa durata, cui alla fine (qualunque sia l’ar­ gomento) ribatterà con un intervento decisivo. Era una stanza spaziosa, al secondo piano, con due balconi sulla facciata principale della casa che dava sul giardinetto oltre il quale era la strada; ben­ ché arredata con diversi mobili di pregio - lo scrit­ toio, il divano e le sedie isabelline, un camino intar­ siato, un tappeto di Astorga, alcuni quadri a olio di fine secolo, alti e stretti, di paesaggi con nuvole era essenzialmente uno studio, dal carattere marca­ tamente virile, dominato da un paio di armadi a vetri stipati di incartamenti e di fascicoli, e da una voluminosa cassaforte di marca Gruber, il cui colore plumbeo era indifferente alla luce e all’ombra, al giorno e alla notte; dal suo pomo superbo (sempre all’erta, come una perfetta sentinella) poteva dipen­

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dere l’angolo «li rotazione del pianeta. E nonostante alcune concessioni della signora, destinate a conferi­ re al suo studio un tono intimo che lo rendesse un po’ diverso da quello di ogni altro possidente - uno chiffonnier di legno chiaro, la fotografia di suo padre, accanto a un binario ferroviario, in una cor­ nice ovale d’argento, il suo stesso ritratto incompiu­ to su un cavalletto nascosto da un drappo di dama­ sco scuro, un certo numero di ninnoli che non degnava di eccessiva considerazione, consapevole com’era, senza dubbio, della loro funzione simulato­ ria —, saltava agli occhi che si trattava del luogo di lavoro di una persona ad esso interamente dedita, assai poco propensa ad abbandonare i propri ozi all’indolenza e, forse, non molto disposta a effusioni di qualunque genere. « Ti ho detto di restare perché voglio che tu resti » disse la signora, senza interrompere una penultima annotazione sul libro di cassa, nel quale registrava degli appunti presi a matita dal fattore su un pezzo di carta grossa ritagliato da un pacco di grano, con una grafia rozza e leggibile solo da chi vi fosse abi­ tuato, che l’amministratore le aveva portato poco prima. Bastò una pressione delle mani sulle ginocchia perché la nipote fosse colta da un fremito che la fece leggermente sussultare sul divano - tale era la rigi­ dità delle sue articolazioni e la permanente tensione dei suoi muscoli —, per poi tornare subito alla posi­ zione semirilassata di prima. A intervalli regolari la nipote soleva procurarsi una quasi impercettibile scossa — molto diversa dai tic nervosi indipendenti dalla volontà — con cui riusciva a restaurare un tono che poi piano piano svaniva con il trascorrere dei minuti e il peso del silenzio. « Se voglio che tu resti, » disse la signora confron­ tando le sue ultime annotazioni con quelle prese dal fattore sul triangolo di carta spessa «è perché biso­ gna che tu resti».

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Alla fine la signora capì che non poteva badare nello stesso tempo a due cose ugualmente importan­ ti, e per una volta decise che la presenza di sua nipo­ te godeva di una certa priorità sul libro di cassa, che chiuse, dopo essersi liberata degli occhiali e averli posati sul tavolo, non senza introdurre fra l’ultimo foglio scritto e quello precedente il pezzo di carta da imballaggio utilizzato dal fattore per le sue an­ notazioni; spense la lampada, mise entrambi i go­ miti sul piano dello scrittoio e il mento sulle palme delle mani giunte ai polsi, e rivolgendosi verso il fondo della stanza, già quasi immerso nella penom­ bra, dov’era lo chiffonnier, senza guardare la nipo­ te, disse: « Ti avverto, può darsi che tra poco entri in questa stanza un uomo di una quarantina d’anni. L’ultima cosa che desidero è che ti colga alla sprovvista, e che sul suo insolito arrivo in questa casa tu ricami una di quelle favole a cui sei tanto affezionata. O che la interpreti, invece, per alimentare le tue chimere e le false speranze che non so chi ti ha messo in testa. Un paio di volte, negli ultimi dieci anni, e più o meno intorno a questa data, si è spinto fin qui, più o meno a quest’ora del pomeriggio, con l’unico proposito di farmi visita e con il vano intento di consegnarmi un messaggio. Non vuole nient’altro, solo consegnarmi un messaggio, e probabilmente non desidera nep­ pure farsi conoscere, poiché deve supporre (essen­ do io disposta a riceverlo in qualunque momento senza ansie di nessun tipo, dato che la mia sicurezza è tale da non poter degenerare in ossessione) di non aver bisogno di altre credenziali che la sua presenza, dopo un viaggio forse lungo e disseminato di diffi­ coltà. Innanzitutto quelle che egli stesso previamen­ te si impone. Ti dirò anche che so benissimo qual è il messaggio che deve recapitarmi, ed è lì la chiave di tutto. Non posso dirti che ho smesso di credere nel suo contenuto, o che a causa del tempo trascorso esso non rappresenti più niente per me. Anzi, devo 14

ammettere < he pei me il messaggio è tuttora di una importanza vitale e che il mio interesse nei suoi con­ fronti non è affatto diminuito; ma non è neanche aumentato, lo aspetto esattamente come il primo giorno - il giorno in cui ci separammo, uno di qua e l’altro di là dal fiume, divisi dal ponte -, così come costanti sono la mia sicurezza e la mia fiducia nel suo contenuto. La vita mi ha fatto smettere di crede­ re in tante cose, ma in compenso mi ha costretta - e con grande riluttanza — a conservare molte altre convinzioni che, per vari motivi, mi sarebbe conve­ nuto scacciare dal mio spirito. E di tutte, questa è la prima e la più inquietante. Così è la vita... » continuò la signora, e la nipote abbandonò la posizione fron­ tale per guardarla di sbieco. Dopo una rapida occhiata - come quella del rapace distratto per un attimo dal suo punto di osservazione - tornò, un po’ più rigida, nella stessa posa di prima. « Così è la vita, ci insegna quello che non vogliamo imparare e ci costringe a ricordare quello che vorremmo tenere nell’oblio. Ogni volta mi sono detta che non avevo motivo di dar credito al messaggio, che si trattava di un espediente per ingannarmi a chissà quale scopo, ma in definitiva, per essere sincera con me stessa, devo riconoscere che sotto questa cauta diffidenza io gli attribuivo tutta la veracità che le mie segrete convinzioni potevano accordargli. Si può dire, quin­ di, che sono due le persone che aspettano questo messaggio: una che ne diffida, l’altra che lo deside­ ra con tutto il fervore della sua anima; o addirittura tre, con la terza relegata in un futuro nel quale risol­ verà questa dicotomia operando una sintesi con la sua decisione. Sì: benché le mie finanze e il mio decoro mi mostrassero l’opportunità di non farlo, io continuavo a credere nel messaggio, degno di fede come la parola rivelata e altrettanto temibile per l’ordine fondato su norme estranee ai suoi precetti. Insomma, nemmeno per un istante nell’intimo della mia coscienza ho dubitato della veracità di quel che 15

veniva a comunicarmi il messaggero, e sempre mi sono comportata come se lo considerassi il tramite di un inganno. E stato questo per anni il tratto più cospicuo del mio carattere. E bada che dalle poche notizie che di lui mi sono arrivate penso si tratti di un messaggero, niente di più, e che a lui, in linea di principio, prema solo il compimento della sua mis­ sione, e tutt’al più il credito che io potrò concedere alla sua ambasciata; ma non ha niente a che vedere con l’ambasciata in sé, né con l’influsso che potrà avere su di me. No, neppure questo, perché con ogni probabilità è incaricato di consegnarmi il mes­ saggio e basta, e ha l’ordine esplicito di non fermarsi ad aspettare e osservare la mia reazione, che in nes­ sun caso — così deve supporre, conoscendomi, chi lo manda - io farei trapelare davanti a un estraneo. Tuttavia mi sono detta spesso che, per quanto sicura possa sentirmi delle mie risorse, mai avrei dovuto correre il rischio di aprire e leggere il messaggio in sua presenza, poiché, mi chiedo, data l’importanza che ha per me, non fornirebbe forse a quest’anima, di cui mi sento così padrona, l’occasione di denun­ ciare la sua soggezione ad altre servitù, tanto più rigorose quanto più segrete essa le mantiene? No, non potrei correre questo rischio, capisci...». « Capisco perfettamente, zia » interloquì la nipote. «Capisco molto bene. Non hai bisogno di dilungarti in giustificazioni. E perfettamente chiaro». La signora rimase con un gesto incompiuto a mez­ z’aria, alquanto perplessa. Riaccese la lampada, come per cercare la causa della sua sorpresa in qual­ che angolo dello scrittoio, e fissando la nipote le domandò: «Perfettamente, hai detto?». « Ho detto perfettamente. E esattamente ciò che ho detto: perfettamente». La signora ci pensò un po’ sopra. Fece scorrere lo sguardo su tutti gli oggetti che erano sullo scrittoio e, rinunciando a trovare lì il motivo del suo imbaraz­ 76

zo, tornò a spegnere la lampada. Era il primo pome­ riggio, e le sarebbe bastato scostare le tende per dis­ sipare le ombre dello studio. Riassunse la posizione di prima, un po’ più rilassata e più in consonanza col tono disincantato del suo discorso: «Mi offende,» disse «mi offende che tu dica per­ fettamente. Mi sorprende e mi irrita che tu dica di capire perfettamente ciò su cui mi dibatto da una intera vita, senza aver mai trovato una risposta del tutto soddisfacente. Mi preoccupa la tua iattanza, e la tua superbia mi spinge a contraddirti. Non posso credere che, senza cognizione di causa, tu capisca alla perfezione tutto il cumulo di tensioni contrad­ dittorie fra le quali si agita un’anima che, quasi alla cieca, e affidando i suoi slanci a un istinto che non le promette nulla, cerca di trovare l’uscita verso una posizione non minacciata dalla quale osservarsi, per verificare la rettitudine della sua condotta e la com­ plessità del suo dramma. E tu, a sipario appena alza­ to, prima ancora che entrino in scena i personaggi, mi vieni a dire che hai capito perfettamente il dram­ ma. Dimmi, che interesse posso avere a continuare? Quali nuove delusioni mi riservi, ora che con una falsa lusinga sei riuscita a farmi perdere fiducia nel pubblico che avevo scelto come depositario delle mie confidenze? Quale certezza posso avere della tua attenzione, e di che mezzi mi devo valere per espor­ re i miei più intricati - e in qualche misura scono­ sciuti fino al momento dell’esposizione - dubbi, se in pieno prologo mi stai chiedendo, in maniera obli­ qua, di tagliar corto?». « Mi sono espressa male, zia, e riconosco che non avrei dovuto interromperti. Quando ho detto che capivo perfettamente mi riferivo solo al rischio. E soprattutto al rischio di non riuscire ad afferrare in tutta la sua portata la situazione che stavi descri­ vendo». «Ti capisco benissimo» rispose la signora rivol­ gendo alla nipote uno sguardo aguzzo che, trapas­ 17

sando la semioscurità della stanza, ristabilisse la gerarchia. Poi aggiunse: « E questo il guaio delle interruzioni, troncano un discorso che poi non potrà più essere lo stesso. Chis­ sà se in conseguenza della tua insolente pretesa e della necessità di riprendere il filo del mio discorso ciò che ora ti dirò non sarà diverso, o magari oppo­ sto a quello che pensavo di dirti se non fossi stata interrotta. La parola è ambasciatrice della ragione e l’alterazione di una sia pur minima particella verbale può condurre il pensiero in una direzione imprevi­ sta. L’idea più chiara, figlia mia, inizia con tre paro­ le oscure e solamente nell’enigma è racchiuso un momento di felicità, come il seme in un frutto. Stavo dicendoti che non potevo correre quel rischio e per­ ciò dovevo dare importanza al messaggero: non un semplice ambasciatore mercenario, ma direi quasi un momentaneo testimone della mia persona, del mio modo di essere e della mia prima reazione alla lettura del documento. Sì, perché suo compito dove­ va essere non solo portarmi il messaggio, ma anche farmi credere alla sua autenticità e veracità. E io ave­ vo deciso da anni - anzi, fin dalla prima volta che si presentò qui - di costringerlo ad andar via da questa casa con la sensazione di aver fallito. Finora, è ovvio, mi sono accontentata della soluzione più facile, facendolo restare sulla porta senza neanche permet­ tergli di eseguire la prima parte della sua ambascia­ ta: perciò mi sono limitata a negargli l’accesso fino a me, costringendolo a tornare sui suoi passi per comunicare al mittente il suo fallimento. Mi sono comportata così in parte per abitudine, per una sor­ ta di impulso a ripetere il primo gesto di intransi­ genza, un impulso acquisito quand’ero giovane e pensavo non solo di avere molto tempo davanti a me, ma anche di dover esigere da “lui” - mi riferisco al mittente - uno sforzo di avvicinamento più inten­ so e persuasivo, insomma qualcosa di più che l’invio di una lettera tramite uno dei suoi. E quella fiducia 18

nel futuro, qucU’csigeie un gesto di maggiore ampiezza e intensità, si rafforzavano ogni volta che il messaggero arrivava fin qui con un atteggiamento quasi identico alla volta precedente: il che dimostra che anche “lui” pensava di avere molto tempo davanti a sé per ribadire le sue intenzioni e per otte­ nere i suoi scopi senza bisogno di intensificare le suppliche. Ma le cose sono cambiate, non sono più giovane, sento che il tempo incalza e che forse è giunto il momento di permettere al messaggero l’in­ gresso in questa stanza, e anche di consegnarmi il messaggio che magari aprirò in sua presenza, affin­ ché, se sa leggermi in viso, capisca di aver compiuto anche la seconda e più delicata parte della sua mis­ sione. E che se l’ho ricevuto è per dar credito al suo messaggio, invece di rifugiarmi in una finta sornio­ neria con la quale potrei ottenere - dal suo punto di vista - lo stesso risultato che rifiutando di riceverlo. Perché non sto pensando a un cambiamento di tatti­ ca con cui, avendo esaurito i vecchi metodi, mante­ nere immutata una situazione, tutt’altro: sto pensan­ do di raccogliere i benefici della mia politica, per lungo tempo così cauta. Mi chiederai che cosa mi induce a comportarmi così e ti dirò che le ragioni sono antiche, numerose e forti - appartengono al tempo di quella politica -, nessuna però consistente quanto la mia propria condotta. E così: di una certa condotta - umana o animale - si devono cercare, quando tale condotta non si fonda su se stessa, le ragioni che l’hanno motivata; e - analogamente - la sua solidità sarà il principio più razionale delle sue motivazioni. La perseveranza non ha bisogno di essere spiegata, i cambiamenti invece sì, ancorché siano la miglior manifestazione dell’istinto. Si tratta, quindi, né più né meno che della continuità di una sopravvivenza, di uno stile e di un modo di essere non del tutto volontariamente scelti, ma tanto seve­ ramente e profondamente rispettati che, dipenden­ done la pace del mio spirito, in nessun momento mi

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sono decisa a far tabula rasa e a rinunciare ai loro possibili benefici. Non nego che, se la prima volta avessi avuto abbastanza coraggio da respingere sec­ camente ogni sospetto sulla verosimiglianza del mes­ saggio, sarei riuscita a creare un precedente che sen­ za dubbio mi avrebbe indotta a un comportamento ben diverso da quello che scelsi - ma che vuoi che ti dica, quello è forse il mio errore, e senza dubbio la mia croce. E probabile che in tutto ciò vi sia da parte mia un madornale errore di calcolo, sì, sul quale mai mi sono decisa a indagare per paura che tale si rive­ lasse, però mi dico che se anche così fosse avrei potuto, credo, affrontarlo proprio grazie alle risorse accumulate per risolvere un unico problema, qua­ lunque ne sia la soluzione. Questo è il miglior inse­ gnamento della storia di cui ci stiamo occupando: che non esiste contraddizione duratura perché il destino non è intelligente. Chi crede il contrario non fa che perseverare nella sua debolezza. E certamen­ te possibile che io abbia calcolato male la sua prima reazione al mio rifiuto di ricevere il messaggero, e che mi sia ingannata pensando che avrebbe raddop­ piato gli sforzi la volta successiva; ma è anche lecito supporre che, analogamente, io avrei aumentato la mia resistenza: per ritrovarci, alla fine, in una situa­ zione di equilibrio analoga a quella ottenuta con una costante e moderata mobilitazione delle rispettive risorse. Le conseguenze di quella decisione — o di quella debolezza, se così preferisci - si fecero sentire per molti anni e quando ebbe luogo la seconda visita del messaggero (non era lo stesso della prima amba­ sciata: mai ha affidato due volte l’incarico alla stessa persona e questo, benché mai abbia avuto la certezza che tornassero indietro con la mia risposta — o meglio, con la mia mancata risposta -, mi ha indotto a ritenere che il mio atteggiamento sia stato per lui fonte di infinita angoscia e, oltreché motivo di riflessione per aver scelto male il momento o maga­ ri la persona che doveva porgermi il messaggio,

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anche una spini.i a i Considerare tutto il suo atteg­ giamento nei mici confronti e senza dubbio un moti­ vo non solo per rimandare di parecchio l’ambasciata successiva, ma anche per cambiare messaggero, visti gli scarsi risultati ottenuti dal primo), avevo già accu­ mulato nel mio intimo abbastanza ragioni da convin­ cermi della giustezza della mia risposta e acquisire una fiducia sufficiente per ripeterla se si presenta­ va l’occasione. Non posso negare che nella mia pri­ ma reazione vi fosse anche la paura di un gesto irre­ versibile, lo sgomento provocato in me dalla necessi­ tà di dare una risposta immediata che non avevo avuto tempo di meditare e il desiderio - sicura com’ero che l’ambasciata si sarebbe ripetuta - di concedermi un periodo di riflessione; periodo che non utilizzai per cercare la soluzione definitiva ma piuttosto per crogiolarmi nel successo di quella provvisoria, dando origine in tal modo a una tradi­ zione o a un torpore o diciamo piuttosto a un laissez faire tipici di chi considera che il tempo lavori a suo favore. Mi dirai che un simile modo di comportarsi rivela una persona ostinata, che pesa molto diversamente le ragioni che trae dal suo io da quelle addot­ te dal suo prossimo. Questo è un particolare che nel­ la presente storia ha scarsa importanza, perché disponendo di due sole vie di uscita ho consumato molto tempo a riflettere su come sarebbero stati per me questi anni se, in una qualunque di tali occasioni, avessi fatto capire al messaggero che non solo crede­ vo alla veracità dell’ambasciata ma ero anche pronta a prenderla alla lettera, con tutta la forza della mia volontà e tutta l’onestà del mio animo; e sempre sono giunta alla conclusione che anche allora la mia risposta sarebbe rimasta in sospeso, differita al tem­ po in cui un altro messaggero sarebbe venuto, col medesimo messaggio o con uno simile. Per il solo fatto di inviarmi un’ambasciata - che non avevo sol­ lecitato — mi metteva in una situazione di attesa, e chi attende, si sa, resta in buona misura alla mercé

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dell’atteso; talché per il solo fatto che mi fosse invia­ to un messaggero la mia indipendenza era compro­ messa e la mia condizione era meno favorevole di quella che godevo prima delfambasciata. Ma non è ancora tutto: tu ritieni che in un caso del genere ci sia sempre un beneficiario e un danneggiato, oppu­ re, se non proprio questo, una persona che impone la sua volontà e un’altra che — a causa dell’ostinazio­ ne della prima - vede sempre frustrate le sue spe­ ranze. Le cose non sono affatto così semplici. Ti dicevo che, prima di prendere una decisione, mi domandavo in che misura sarebbe stata per lui cagione di malessere. Se mai avessi potuto aver la prova che le conseguenze della mia risposta (o meglio della mia mancata risposta) si esaurivano lì — in un dispiacere, cioè -, molto probabilmente ne avrei data un’altra, più adeguata alla supplica. Per­ ché si tratta di una supplica, non dimenticarlo. Ma non ho mai potuto evitare di pensare che il mio atteggiamento avrebbe dovuto per forza modifica­ re le basi della sua petizione, formulata forse con una qual giovanile precipitazione incapace di preve­ dere le conseguenze che per entrambi avrebbero prodotto le mie eventuali concessioni. Chi chiede scommette solo in parte su un mutamento della sua situazione, e riserva il maggior numero delle sue risorse per il caso, più che probabile, in cui non ven­ ga esaudito; chi concede, invece, deve attenersi al mutamento che con il suo assenso avrà introdotto una volta per sempre. Ma c’è di più: una volta che la sua richiesta sia stata respinta, chi chiede si vede costretto a rifare finventario delle proprie ragioni e persino a ridefinire il limite delle proprie aspira­ zioni - fino a raggiungere quella forza di persuasio­ ne che gli permetta di ottenere l’intero contenuto della petizione. Di conseguenza ogni rifiuto - è palese - lascia inalterata la situazione preesistente, e nello stesso tempo altera lo spirito del postulante; al contrario, ogni concessione rovescia le cose: cambia 22

la situazione ina addormenta lo spirito, che tornerà a svegliarsi solo quando una nuova richiesta venga a denunciare il logorarsi dell’equilibrio raggiunto con la prima concessione. Ecco quindi che la mia rispo­ sta (d’accordo, il mio silenzio) mirava più a un cam­ biamento nella sua attitudine che a una perseveran­ za nella mia, a quell’epoca per altro ancora tutta da dimostrare. Il silenzio è senza dubbio ciò che am­ mette più interpretazioni, e se chi lo riceve riesce a togliersi dagli occhi il velo del dispetto può rag­ giungere una conoscenza dell’altro molto più estesa del campo coperto dalle sue parole. Sicché - pensai - non gli sarebbe stato difficile interpretare la mia ripulsa come sintomo di una insoddisfazione preli­ minare, dovuta più al momento scelto per l’amba­ sciata che alla persona investita della commissione, per costringerlo a riconsiderare un’iniziativa troppo affrettata la quale, per conseguire il fine che si pro­ poneva, doveva invece essere, come minimo, ben maturata; perché essendo ancora talmente recenti i due fatti - la serie di avvenimenti che portò al nostro allontanamento e l’ambasciata con cui egli supplica­ va che consentissi a porvi fine o almeno ad anticipa­ re la promessa senza data di un nuovo incontro, oppure ancora (anche questo è possibile) a mitigarlo con una sensibile riduzione delle dure condizioni in cui si attuava - non poteva non presumere che fra essi sussisteva ancora un’intima relazione; e che l’oblio del primo, per il fatto di non essere totale, non aveva operato il salutare effetto necessario per accettare la seconda come proposta di promuovere fra noi due un’azione che ci coinvolgesse reciproca­ mente, e del tutto sganciata dal nostro passato comune, grazie alla quale ci saremmo incamminati verso una meta diversissima da quella che aveva prodotto i tanti e ben noti disastri. Il lungo periodo di tempo intercorso fra la prima e la seconda amba­ sciata venne a confermare le mie supposizioni e mi indusse a pensare, per un po’, che il mio tacito mes-

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saggio fosse stato ricevuto e capito, e che pertanto egli avesse deciso di mutare la sua richiesta pagando il dovuto pedaggio ai miei desideri. Ti confesserò quindi che la seconda ambasciata fu, di tutte, quella più prossima a vincere la mia resistenza, e che giunsi fino a temere un mio cedimento. Furono ore di angoscia profonda, mentre il messaggero aspettava fuori dal portone — non l’autorizzai a riparare nell’a­ trio, nonostante il maltempo - e io temevo che ogni minuto da me consumato in tentennamenti si tra­ mutasse per lui in un supplemento di sicurezza e, se non di vantare il trionfo della sua missione, gli con­ sentisse almeno di proclamare ai quattro venti l’ef­ fetto devastante della sua presenza sul mio spirito tremebondo. E a un tratto compresi che si trattava di un trucco, di un altro imbroglio, perché pur potendo presumere che il mittente avesse capito il senso del mio rifiuto di ricevere, la prima volta, il messaggero, era evidente che questa seconda volta aveva affidato solo al trascorrere del tempo il muta­ mento della sua supplica, senza affatto modificarne il tenore, quasi a farmi credere che fra le due si sten­ desse l’oblio della prima, mentre era precisamente il ricordo di questa ciò che di nuovo l’aveva spinto a prendere tale iniziativa. Sicché ordinai che il mes­ saggero se ne andasse com’era venuto e mi preparai ad aspettare, nella pace dello spirito e con la soddi­ sfazione del dovere compiuto, la terza ambasciata che senza dubbio si sarebbe fatta attendere anche più della seconda, se tutto fosse andato in maniera conforme alle mie previsioni. La scienza dell’attesa si alimenta di se stessa, né affida alcunché al mondo degli avvenimenti, e tutto quel che accade non è altro che la riproduzione di una matrice mai esistita. Capisci... ». « Capisco ma non tanto bene, zia ». «Non vedo perché. Non capisco cos’è che non capisci, visto che finora ti ho spiegato tutto - mi sembra — con la massima chiarezza». 24

La signora si appoggiò allo schienale della sua alta poltrona a orecchie — un tabernacolo della penom­ bra - e sul suo viso, soprattutto sulla fronte e sulle sopracciglia, si disegnò quell’espressione di malinco­ nica pienezza che non cede mai il passo alla soddi­ sfazione, il peggiore dei mali per le cosiddette perso­ ne di carattere: « Se non capisci ciò che ti ho detto finora, non so a che scopo continuare. Quel che ti dirò in seguito è più difficile da capire, giacché non mi crederai tan­ to ingenua da raccontarti tutto cominciando dalle cose più interessanti. Non è un buon sistema. Ti rac­ conterò solo quello che conviene tu sappia della par­ te che a me conviene raccontare; tra le due conve­ nienze forse resterà fuori la sostanza del racconto — nota soltanto a un terzo immaginario che non rac­ conta e non ascolta — quindi dovrai stare molto attenta a quanto sentirai e completare con una immaginazione adeguata i vuoti che introdurrò a mio arbitrio (così come introdurrò qualche aggiunta personale), per trarre il massimo profitto dalla lezione di una esperienza che le tue limitate attratti­ ve non potranno mai fornirti». La nipote si diede coi gomiti un colpetto alle reni e si procurò così una leggera scossa. « Le mie attrattive, zia, sono come il tuo racconto. Di quelle che mi conviene mostrare mostro solo la parte che a mio giudizio conviene che lo spettatore veda». «Anch’io ero sfacciata in gioventù» rispose la signora «finché non compresi che dovevo servirmi della mia audacia - una gran virtù, non lo nego per raggiungere qualcosa di più che questo o quel fine immediato. Quando il secondo messaggero lasciò la casa era già notte. Poiché tutto restava nuo­ vamente in sospeso preferii mantenermi sicura di me e in certo qual modo soddisfatta per quella vitto­ ria della fiducia sulla tentazione; e giacché per il momento non potevo prevedere né un trionfo su di

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lui né un prossimo risolversi del conflitto (cosa che per me non potrebbe significare nulla di buono), dovevo accontentarmi di uscire indenne dalle picco­ le scaramucce che lo avrebbero scandito. Spero tu capisca». «Capisco perfettamente» rispose la nipote con tono risoluto.

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GIUGNO

Quando suonò il campanello sollevò appena lo sguardo per osservare il cliente, occupato com’era a fare i conti sul piccolo scrittoio in fondo al banco. In una pausa del lavoro si calò gli occhiali sulla punta del naso e constatò soltanto che il cliente gli voltava le spalle, immerso nell’ombra dell’angolo dei vestiti. Era quell’ora del pomeriggio — troppo tardi per le donne, troppo presto per la maggior parte degli uomini, i quali venivano nel suo negozio con l’unico scopo di prendere una bibita e perdere un po’ di tempo prima di rincasare - che lui, per scarsità di clientela, dedicava ai conti. I conti gli occupavano ogni giorno più ore: in altri tempi vi dedicava l’ulti­ ma parte della giornata, dopo la chiusura, ma la cre­ scente tendenza di amici e conoscenti a passare in negozio prima di rientrare, l’aveva spinto un po’ alla volta a modificare il suo orario e a dedicare alla contabilità quello sterile intervallo serale in cui il garzone poteva badare alle vendite da solo senza disturbarlo più che tanto con qualche domanda sul­ la disposizione della roba e i prezzi. Perché nella sua bottega, dove c’era di tutto, l’ordine non regnava.

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I conti gli occupavano ogni giorno più tempo; ogni giorno lo preoccupavano di più, anche se, paradossalmente, l’andamento del negozio lo preoc­ cupava ogni giorno di meno. Perché, quantunque il commercio prosperasse ogni giorno di più, i conti non tornavano mai. Lui sapeva che era così — che prosperava ogni giorno di più - ma non sapeva per­ ché, visto che i conti non quadravano mai. Intuiva che era così perché ogni anno aveva più soldi in ban­ ca e più terra al sole e vendeva più e più disparati articoli, e quelli che non riusciva a vendere - per una sua momentanea debolezza di fronte all’insi­ stenza di rappresentanti e commessi viaggiatori poco scrupolosi, sempre sedotti dall’ultimo prodotto industriale - erano ammucchiati in fondo al nego­ zio, gravati da un tasso di deprezzamento tanto ele­ vato quanto lo era stato il sovrapprezzo della loro ingannevole novità, e più che compensati da articoli di facile e continuo smercio come alimentari e deter­ sivi. Fare i conti di notte non gli era mai piaciuto, poi­ ché obbediva al principio che il lavoro finisce nel momento in cui si abbassa la saracinesca. Poi a quel­ l’ora non aveva più testa per i conti: la notte, a parer suo, era fatta per riposare, e la saracinesca era, più che altro, un modo di dire - in realtà, l’ultimo clien­ te veniva spinto fuori nel momento in cui sua moglie annunciava che la cena era pronta, non prima. La mattina non aveva tempo; per la verità il negozio si reggeva sulle vendite della mattina, a una clientela soprattutto femminile, al cui confronto gli affari del pomeriggio erano minuzie alle quali, per i suoi gusti e per la sua economia, avrebbe ben potuto rinuncia­ re per dedicarsi interamente ai conti. In fondo, era così che si lavorava nelle banche, gli avevano detto. Ma al di sopra dei suoi gusti, dei suoi interessi e delle sue intuizioni esisteva un regolamento che gli impo­ neva di tener aperto il negozio al pomeriggio, quan­ d’anche non si vendesse nemmeno una scopa, solo

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per ottemperare a nonne « lie non gli sarebbe mai venuto in mente «li contestare, benché non ne capis­ se af fatto l’utilità: ei a convinto infatti che se gli fosse stato permesso «li aprire solo al mattino la bottega non solo avrebbe continuato a prosperare, ma avrebbe anche goduto di una contabilità più attendi­ bile e precisa, e sarebbe stata quindi più soddisfa­ cente e tranquillizzante. Perché fino a quando i conti non fossero stati chiari la bottega non avrebbe mai smesso di dargli grattacapi. Al di là della sua vista e della portata della sua ragione si stendeva un futuro in cui si realizzava la doppia condizione del negozio prospero e dei conti giusti; ma un po’ per consolarsi dell’amarezza ine­ rente all’inattingibilità di un tale stato, un po’ per il brutto presentimento che ogni imperfezione sia eterna, non poteva evitare il sospetto che se mai fos­ se riuscito un giorno a raggiungerlo, quello stato, sarebbe affiorato, inesorabilmente, qualche nuovo vizio del sistema commerciale, nascosto per ora dagli errori contabili, ma forse più temibile e compromet­ tente di quello dovuto all’ignoranza e alla goffaggi­ ne con cui egli si muoveva nel campo dei numeri. Tempo prima si era iscritto a un corso di ragioneria per corrispondenza, della durata di trentadue setti­ mane, al termine delle quali (inviando puntualmen­ te i suoi esercizi in abbonamento postale) gli avreb­ bero consegnato un diploma legalmente riconosciu­ to, timbrato e firmato dal Direttore del Centro. Durante le prime quattro settimane le cose andaro­ no bene, non trovò la minima difficoltà a capire le lezioni e a eseguire correttamente gli esercizi, e già cominciava a intravedere (e su un altro timido piano della coscienza a temere) la possibilità di impadro­ nirsi, per la primavera successiva, della pratica con­ tabile, quando alla quinta lezione incappò in uno scoglio, non riuscì in alcun modo a capire la necessi­ tà della partita doppia, e la sesta lo colse ancora vanamente teso a dissipare gli enigmi della prece­

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dente. Nelle settimane successive le lezioni si accu­ mularono con effetto devastante (come una valanga di debiti contratti in pochi giorni di insensatezza), e quando oscuramente intuì che il denaro dell’azienda era il contrario del suo, e che i concetti di attivo e passivo andavano esattamente rovesciati rispetto a quelli che aveva sempre considerato come tali, rinunciò definitivamente al corso, e anche al conso­ lante proposito di riprenderlo in un futuro indefi­ nito, quando avesse avuto più libertà e più tempo, e non come un dovere, ma come un capriccio della sua inquieta ragione. La mattina non aveva un minuto da dedicare ai conti, incalzato com’era da quasi tutte le donne del paese e della vallata. Aveva già fin troppo da fare a mettere i prezzi, controllare le uscite e tenere la cas­ sa. Sicché si dedicava ai conti al ritorno dalla siesta (verso le cinque del pomeriggio), prima di aprire il negozio, del quale spesso prolungava apposta la chiusura dimenticandosi di guardare l’orologio e di togliere il cartello, per cui non era raro che qualche cliente inopportuno gli facesse perdere la concen­ trazione bussando con le nocche sul vetro della por­ ta. In genere si trattava di scocciatori che riceveva di malavoglia, bofonchiando proteste, e provava addi­ rittura una certa soddisfazione se, mancandogli l’ar­ ticolo richiesto, si trovava neH’impossibilità di accon­ tentarli. Era un tipo di cliente per il quale non pro­ vava alcuna simpatia, che gli dava solo fastidi e scarsissimi profitti, e troppo spesso veniva a cercare articoli fuori dal comune che, se pure erano in nego­ zio o in inventario, bisognava scovare in angoli zeppi di roba invenduta, coi prezzi di un’altra epoca sul cartellino. Ecco perché a volte — vuoi per concedersi una piccola gratificazione, vuoi per compiacere se stesso con un gesto che era insieme di sovranità e di ribellione nei confronti del codice professionale non esitava a negarne l’esistenza, pur non ignoran­ do il rischio che correva se si fosse venuto a sape­

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re — sia dalla elicmela sia «lai fornitore — che scarsa importanza egli altrihuisse talora all’atto più sempli­ ce ed essenziale della sua professione. Per questo se 10 concedeva solo in rare occasioni, e quando la sua conoscenza del cliente lo induceva a ritenere che si trattasse di un tipo speciale, il quale non si sarebbe accontentato di succedanei ed era pronto a sprecare 11 suo tempo e quello degli altri pur di soddisfare i propri capricci. Operando connessioni incongrue e piuttosto illogiche associava simili clienti ai conti che non tornavano, ai sacrifici imposti dalla morale del commercio, e alle difficoltà di un esercizio che non si limitava — come credeva la gente — a comprare e a vendere. Da gran tempo era giunto alla conclusione che se gli affari prosperavano era perché la maggior parte della clientela veniva lì disposta a comprare di tutto, senza sottilizzare, e se non trovava quello che cercava comprava subito e volentieri qualcos’altro, o perché sostituiva il primo articolo, o per soddisfare il bisogno di comprare. Questo era tanto più vero nel caso delle donne, soprattutto quando entravano in cerca di vestiti o di detersivi. Ecco perché lui, che aveva ereditato dal padre un negozio di drogheria e ferramenta, con gli anni si era orientato verso gli alimentari, i vestiti e i prodotti per l’igiene: per offri­ re alle donne alternative rapide e quindi abbreviare nella misura del possibile la ricerca del ripiego. Invece il cliente che arrivava a metà del pomerig­ gio, quando lui era più indaffarato con i conti, sape­ va benissimo quello che voleva, un articolo ben pre­ ciso e proprio di drogheria o ferramenta, di quelli ormai travolti dall’invasione dei cosiddetti beni di largo consumo. Altra cosa erano gli amici e i cono­ scenti che venivano verso sera, anche dopo l’ora di chiusura annunciata, non per comprare, ma per chiacchierare un po’, scaldarsi, domandare un prez­ zo, dissipare la noia di un’ora vuota con una bibita fresca o un bicchiere di castillaza. Ma non interferi­ vano con gli affari (anzi, qualcuno l’aveva aiutato a

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risolvere certi piccoli enigmi aritmetici): no, questo era riservato al cliente pomeridiano, vero colpevole dei conti che non tornavano mai. Aveva, quel tipo di cliente, la virtù di bussare, o entrare, proprio quan­ do lui stava per affrontare il punto più arduo del problema, allorché avendo intravisto il metodo per risolverlo si preparava a mobilitare e a concentrare il meglio delle sue facoltà, che il visitatore inopportu­ no disperdeva con un semplice colpetto delle noc­ che, costringendolo a interrompere un ragionamen­ to che poi per tutto il resto del pomeriggio sarebbe stato incapace di condurre a buon fine. Perciò lo riceveva sempre di malavoglia nonché di pessimo umore; quel cliente infatti - a prescindere dal fatto che comprasse o no — lo trasformava in un uomo — per quanto padrone e gestore di un esercizio ben avviato, cui aveva dedicato la vita diventando uno degli uomini più ricchi del paese — incapace di rag­ giungere la meta che quotidianamente si propone­ va: tenere bene i conti. Aveva spesso pensato che il giorno in cui - per puro miracolo — fosse riuscito a tenere bene i conti forse avrebbe avuto una sorpre­ sa, per esempio la dimostrazione matematica che gli affari non andavano bene come pensava; o magari, chissà, qualche dispiacere più serio. E comprensibi­ le, quindi, che finisse per stabilire un’inconfessabile relazione tra prosperità e insipienza contabile, senza mai arrivare a formularla con chiarezza né tanto meno ad accarezzarla come una scoperta del suo spi­ rito; la teneva di riserva, piuttosto, seminascosta nel­ la penombra della sua ragione, come un bene di dubbia legittimità; il che d’altra parte gli consentiva di ricevere il cliente delle cinque del pomeriggio con malagrazia e nella disposizione meno favorevole, perché altrimenti non avrebbe visto il minimo inconveniente a riconoscere in lui l’inviato di un destino benigno, che vigilando sul suo benessere gli negava ogni giorno l’accesso a una conoscenza peri­ colosa. Se così era, se esisteva davvero quella enig32

matita relazione, era preferibile vivere nelle nuvo­ le; anzi, più che nelle nuvole, con la testa al di sopra di esse, nella impossibilità di vedere dove posassero i suoi stessi piedi; e allora - gli sussurrava una voce per mettere a tacere le proteste di una volontà pri­ mordiale, bramosa di dominare la contabilità -, che cosa importava ignorare dove posassero i suoi piedi, se poteva sentirli ben fermi sulla terra? E questa fer­ mezza, era questione di tatto o di vista? Che cosa era preferibile: una sensazione di equilibrio o la cono­ scenza dei fattori che lo avevano prodotto? Non era così cieco da non capire che un tale modo di pensa­ re, insufficiente e incompleto, rispondeva solo alla necessità di adeguarsi all’attuale stato di cose, ma non escludeva affatto la possibilità che ne esistesse un altro più perfetto, il quale unisse il tatto con la vista, una sensazione corporea accompagnata da un assetto di numeri chiaramente stabilito. In fondo, l’eventuale smentita della prosperità del suo eserci­ zio che una contabilità impeccabile avrebbe potuto indurre non era che un’ipotesi, senza dubbio la peg­ giore delle ipotesi, probabile esattamente quanto quella contraria, la cui suggestione era così potente da non scoraggiarlo nei suoi profani tentativi dimenticato ormai il corso per corrispondenza - di chiarire i propri conti, ai quali dedicava le poche ore che il negozio gli lasciava libere e il cliente delle cin­ que gli faceva perdere. Paradossalmente, la possibilità che i conti dimo­ strassero che i suoi affari erano più prosperi di quanto pensasse non gli interessava affatto, né lo spronava quando si metteva a far calcoli. Non che fosse indifferente alla prosperità - essa era anzi al primo posto fra le sue preoccupazioni. Una evidente tranquillità economica era ciò che lo metteva in con­ dizione di svolgere un lavoro supplementare (supe­ riore o diverso o più spirituale), in qualche modo svincolato da quello strettamente necessario per far rendere il negozio. Aveva - per così dire - licenza di

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caccia in una riserva privata, a cui potevano accede­ re solo pochi privilegiati, e vedeva se stesso, qualora tale licenza gli fosse stata un giorno ritirata dalle alte e capricciose potenze che governano la fortuna, nel doloroso frangente di dover abbandonare le sue pratiche più impegnative per gettarsi hno al collo nell’aspra lotta per la sopravvivenza. Quello che ave­ va gli bastava; né il graduale ma costante aumento del suo conto in banca, né i poderi che aveva com­ prato - alcuni dei quali gli avevano offerto la possi­ bilità di unire a un normale affare un’azione filan­ tropica -, e ai quali del resto non dava più valore di quanto sapeva di avere pagato, avrebbero cambiato alcunché di essenziale nella sua condizione o nel suo modo di essere e di vivere. Non avrebbe certo rinun­ ciato, per il fatto di essere più ricco, alla legittima pretesa di riuscire un giorno a tener bene tutti i suoi conti. Pertanto, quella seconda possibilità non costi­ tuiva uno stimolo più forte del naturale e spontaneo appetito di precisione contabile, sorto in un’anima non meno soddisfatta della sua efficienza commer­ ciale che scontenta di una ragione incapace di dimo­ strare la stessa virtù. Quando capì che ancora una volta doveva accan­ tonare il suo impegno perché la scampanellata aveva dissipato la sua concentrazione, lasciò lo scrittoio e andò fino all’altro capo del banco per sbrigare - di malavoglia - il cliente, la cui presenza silenziosa e dimessa nell’angolo dei vestiti gli risultava più oppri­ mente che se fosse entrato gridando.

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GIUGNO

«So benissimo dove voglio andare a parare». Mercedes la osservò con aria sconcertata; per un bel po’ non le rispose, aspettando che l’amica insi­ stesse nel suo ragionamento, ma questa si limitò a ripetere: « Insisto che so benissimo dove voglio andare a parare». «Non credo sia difficile indovinarlo» replicò Mercedes. « E se hai preso una simile decisione non sarà certo per tornare, in capo a qualche giorno o qualche mese, con la coda fra le gambe». All’amica l’espressione parve impropria — riteneva che in circostanze di quel genere vi fosse qualcosa di sconcio, che né poteva né si azzardava a definire, benché desiderasse farlo - e glielo disse. Mercedes non sorvolò sull’osservazione, mentre caricava sul furgoncino le scatole e le pelli, abbastanza indiffe­ rente alla passività dell’amica, che non fece il mini­ mo gesto per aiutarla. « Quando meno te l’aspetti » le disse chiudendo lo sportello posteriore «cambierai idea su tante cose

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che ora conosci solo per sentito dire. Il giorno che ne farai esperienza diretta le giudicherai in un altro modo e non ne parlerai più come ti hanno insegnato in collegio». Ora toccò all’amica tacere, per cercare una rispo­ sta adeguata e insieme per aver l’aria di prendere in considerazione le parole di Mercedes, alle quali non intendeva dar peso, perché era stufa del tono dida­ scalico delle persone che si presumono espertissime, e anche di essere sempre considerata una persona inesperta a cui chiunque era in grado di far la le­ zione. «Penso di sapere a cosa ti riferisci. Ti riferisci sempre alla stessa cosa. Come se io non ne sapessi nulla. Mi pare di saperne quanto te, o almeno quan­ to tu osi confessare di saperne». «Ti sbagli» rispose Mercedes quando si furono sedute nel furgoncino ed ebbe avviato il motore. Ma prima di partire continuò: « Non mi riferivo a niente di preciso, e soprattutto non a quello che stai pen­ sando tu. In primo luogo perché mi pare di cattivo gusto cercar di dare lezioni su cose che non intendo confessare come io sia venuta a sapere». « Scusa un momento » l’interruppe l’amica in tono più concitato e vivace. Mercedes guidava veloce e sicura, nonostante le cattive condizioni della strada, che conosceva alla perfezione, e la vicinanza del pae­ se costringeva la sua amica ad accelerare il ritmo del­ le frasi allo scopo di arrivare al più presto, e attra­ verso perifrasi diverse, al nodo della conversazione, nel quale non si azzardava a entrare, e prima di doverla interrompere per dedicarsi, ciascuna per conto suo, alla spesa della giornata. Era un discorso che voleva tenerle da un pezzo, ossia da quando ave­ va avuto i primi sospetti su Mercedes, e che bisogna­ va fare a quattr’occhi, meglio nel furgoncino, dove l’attenzione concentrata altrove poteva indurla a lasciarsi scappare qualcosa del segreto che intendeva scoprire: « So benissimo dove voglio andare a parare

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e l’unica cosa che ti chiedo è di non metterti di mez­ zo. Non tentare di dissuadermi e non farti venire in mente niente per impedirmelo». Di nuovo Mercedes rimase un po’ perplessa e sen­ za la risposta pronta, frustrando così, involontaria­ mente, i desideri dell’amica. Era un’amica un po’ sconcertante, al tempo stesso sfacciata e pudica; era capace di lanciarsi nelle confidenze più intime per poi subito tirarsi indietro in osservanza dei più rigidi e severi codici morali; mantenendo un’amicizia un po’ distante e intermittente, si permetteva di sup­ porre - e spesso si comportava di conseguenza - che ira loro non potessero esserci segreti; infine - e questo era il lato del suo carattere più difficile da sopportare - agiva come se tutto il mondo fosse in debito con lei, e la prima cosa che le usciva di bocca era sempre un rimprovero. «Sta’ tranquilla,» disse Mercedes dopo qualche attimo di esitazione «non mi è mai passato per la testa di attraversarti la strada. Inoltre non vedo come potrei farlo». «Sciocchezze» disse l’amica in tono autoritario. «Sai perfettamente a cosa mi riferisco». Si avvicinava l’incrocio con la strada rotabile, in fondo al rettilineo, e lei mise la mano sul braccio di Mercedes, con uno scopo indefinito, magari per farla rallentare, o per sollecitare da parte sua una miglior comprensione delle proprie parole. Merce­ des fermò il furgoncino all’incrocio e mise in folle. Poi ingranò la marcia e svoltò a sinistra. Allora l’ami­ ca riprese in tono più suadente: « Sono sicura che tu pensi che sto per commettere uno sproposito. Ma non mi fai paura. Sono anche sicura che, essendo la mia unica amica, » e qui si con­ cesse una sottolineatura « vorrai aiutarmi nel miglior modo possibile. Non sono tanto sicura, invece, e scu­ sa se te lo dico in faccia ma essere amiche serve anche a questo, che mi aiuterai nella maniera in cui io voglio che tu mi aiuti». 37

Mercedes non ebbe altra scelta che quella di domi­ nare l’impazienza, reprimendo la curiosità e il desi­ derio di affrontare apertamente l’argomento con­ creto che l’amica non aveva ancora abbordato, e approfittò del suo turno per rispondere in maniera altrettanto elusiva: «Io sarò sempre dalla tua parte e tu lo sai fin troppo bene». « Questo è il punto » rispose l’amica, un po’ irritata nello scorgere le prime case del paese. «E proprio questo il punto. Non dubito che quando sarà il momento ti comporterai in consonanza con i miei interessi, poiché altrimenti dovrei dubitare della tua amicizia e della tua lealtà. Ma non so se siamo d’ac­ cordo su quelli che sono i miei interessi. In altre parole, è possibile che tu creda sinceramente che i miei interessi vadano in una direzione opposta a quella che intendo prendere. Non per niente sei convinta che sto per commettere uno sproposito». «Sarà difficile» rispose Mercedes con un sospiro di sollievo, imboccando la strada principale del pae­ se in direzione del mercato «che io possa sapere se siamo d’accordo su quelli che sono i tuoi interessi, visto che ancora non hai avuto l’amabilità di spiegar­ mi che sproposito intendi commettere». «Scusa,» la interruppe l’amica prendendo con rinnovata energia l’iniziativa della conversazione mentre Mercedes svoltava a destra verso il mercato « ma non hai nessun diritto di chiedermi spiegazio­ ni. E se ho deciso di obbedire ai miei desideri, pur sapendo di darmi la zappa sui piedi, è perché nessu­ no può opporsi alla mia volontà, nemmeno con la persuasione. Nemmeno cercando di dimostrarmi nel miglior modo possibile» proseguì mentre Mer­ cedes spegneva il motore e tirava il freno a mano, a poca distanza dall’ingresso principale del mercato «che sto andando contro i miei interessi. Ecco per­ ché dobbiamo chiarire bene questa situazione; per­ ché ciascuna sappia come deve regolarsi».

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« Non so di che situazione stai parlando » disse sec­ camente l’amica mentre si avviavano al mercato con le borse di tela cerata, una nera e l’altra a scacchi. «Come faccio a saperlo se non me la spieghi una buona volta?». « Sai benissimo a cosa mi riferisco » replicò l’amica, per poi soggiungere, cambiando improvvisamente discorso, come fanno spesso le donne, soprattutto quando vanno al mercato: « Io vado dal fruttivendo­ lo». « Io vado prima a prendere la carne » disse Merce­ des. Aveva ordinato un arrosto di vitello arrotolato e un paio di capponi, e mentre guardava il macellaio prendere la carne dal frigorifero e metterla sulla bilancia l’amica le si avvicinò da dietro e le disse: «Tu hai avuto a che fare con Ramón». Mercedes voltò appena la testa per assicurarsi del­ la presenza dell’amica accanto a sé. Era così intenta a controllare l’ago della bilancia che non capì se l’ami­ ca aveva pronunciato la frase in tono interrogativo. « Come dici? » domandò allora, ma l’altra si era già allontanata verso il banco del fruttivendolo. « Prepa­ ramelo come al solito» ordinò al macellaio, ben sapendo che si trattava di un’operazione laboriosa, con ostentata noncuranza - come esige il codice del­ le donne al mercato - per le due persone che aspet­ tavano il loro turno alle sue spalle. Il macellaio estrasse un gomitolo di spago da un cassetto sotto il banco, ne tagliò circa due metri, e legò l’arrosto con una serie di anelli trasversali che poi annodò nel senso della lunghezza. Prima che avesse terminato l’operazione, l’amica, con la borsa appesantita da diversi prodotti, si avvicinò da dietro a Mercedes e le sussurrò all’orecchio: «Ho saputo tutto». Quando Mercedes volle rispondere, l’altra si era già allontanata e aspettava il suo turno davanti al banco di un ortolano, lì vicino. Mercedes la osservò con una certa perplessità, e anche un po’ di paura.

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« Desidera altro? » chiese il macellaio, porgendole il pacchetto dell’arrosto. «Un paio di capponi» disse Mercedes distrattamente, fissando l’amica che in quel momento sce­ glieva pomodori da una cassetta e li metteva a uno a uno sul piatto della bilancia dell’ortolano. «Puliscimeli come al solito». Mentre osservava il macellaio che tagliava la testa e le zampe dei capponi, li apriva, gli toglieva le visce­ re e li puliva, l’amica - reggendo a due mani la borsa un po’ più piena di prima - si mise alla sua destra, e guardando fissamente la persona che seguiva nella fila affinché, intimidita dal peso del suo sguardo, fosse costretta a voltar la testa dall’altra parte, le dis­ se con lentezza e scandendo le parole: «E adesso che non sai cosa fare con lui pretendi che venga con me. Credi che non me ne sia resa con­ to». «Tu sei pazza» rispose Mercedes senza perdere la calma, mentre apriva il borsellino e prendeva un mazzetto di banconote arrotolate, una maniera di tenere il denaro che si trova soltanto nelle borse femminili. «Sai benissimo che cosa intendo» disse l’amica senza smettere di fissare la donna in fila dietro a Mercedes. « Ma che dici » disse Mercedes mentre con un cen­ no del mento chiedeva al macellaio l’ammontare dell’acquisto. Poi soggiunse: «Non capisco come tu possa avere in testa tante idee sbagliate». «Tutto gira intorno alla stessa cosa». « Intorno a che? » domandò Mercedes mentre fic­ cava il resto nel borsellino, facendo attenzione ad arrotolare il mazzetto dei biglietti. La donna dopo di lei si preparava a occupare la posizione di Mercedes davanti al banco quando l’amica la fermò con un’occhiata altezzosa e le tagliò la strada, cosa di cui Mercedes approfittò per svi­ gnarsela. 40

«Mi scusi, signora, cero prima io». La donna cominciò a protestare alzando la voce, ma lei le voltò le spalle e si rivolse al macellaio con piglio autoritario, senza la minima voglia di mettere in discussione la propria precedenza: « Dammi un chilo di filetto di prima qualità e fammi il favore di dire a questa signora di stare zitta e di non disturbare». La donna alzò il tono delle proteste e cercando appoggio si rivolse alle altre persone che aspettava­ no alle sue spalle, una delle quali, più moderatamente, prese le sue difese alludendo agli abusi di certa gente che pure si ritiene educata. Quando lei vide che il macellaio, senza badare alla discussione, prendeva il filetto e cominciava ad affettarlo posan­ do le bistecche sulla carta oleata con parsimonia e delicatezza, lasciò per un attimo il suo posto e andò all’altra estremità del banco, dove una ragazza stava servendo a Mercedes un assortimento di pancetta e insaccati. Con l’occhio fisso sulle operazioni del macellaio si avvicinò a Mercedes e le sussurrò all’o­ recchio: «Quell’uomo è soltanto mio». Mercedes si voltò. «E allora?». «Non la spunterai». Mercedes si limitò a restituirle un’occhiata di tra­ verso prima di riprendere il borsellino e tirar fuori il mazzetto di biglietti arrotolati. L’amica tornò al suo posto nell’altra fila nel momento in cui il macellaio depositava il chilo di filetto sul piatto della bilancia. Soprattutto per mortificare le donne della fila, gli chiese se aveva costolette di agnello, e quando il macellaio le rispose che aveva un abbacchio straordi­ nario e dopo averlo preso dal frigorifero glielo fece vedere, ne ordinò mezzo chilo - « possibilmente tut­ te con l’osso, ben tagliate e pulite » - per dargli più lavoro e per avere il tempo di andare dal droghiere,

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dove Mercedes aspettava il suo turno, e sussurrarle all’orecchio: «So che hai avuto a che fare con lui, anche se lo neghi. Ha fatto quello che ha voluto con te » Merce­ des si voltò dall’altra parte « e ora ti lamenti perché ti ha abbandonato. Non puoi sopportare che vada con un’altra. E allora pretendi che venga con me per averlo vicino. Credi che non me ne sia accorta. Ti ha fatto perdere la testa, non negarlo. E non sai che cosa fare per recuperarlo. Ebbene te lo dico io. Devi fare in modo che sposi me, capisci? Che sposi me». Si avvicinò al banco, prese il pacchetto che il macellaio le porgeva e aprendo a sua volta il borselli­ no, senza degnare di uno sguardo le donne che aspettavano nella fila, gli domandò: «Quanto ti devo, Ramón?».

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OTTOBRE

La signora alzò la testa e si mise a braccia conserte, con le mani sui gomiti. La nipote emise un profondo sospiro e di nuovo si tirò giù la gonna fino a metà dei polpacci, abbastanza grossi. La nipote aveva la fronte bombata e portava abiti di lana e stamigna piuttosto scuri; spesso assumeva una posizione di raccoglimento e si gettava all’indietro i capelli - una capigliatura dal colore indefinito, indefinito quan­ to il resto delle sue forme. «Sei ancora una bambina. Hai ancora molto da imparare per diventare una donna». « L’esperienza non mi manca » replicò con fermez­ za la nipote, anche se per farlo si vide costretta a chinare la fronte e ad affondare il mento nel collo. «Per la vita che hai fatto fino ad oggi,» disse la signora «di esperienza ne hai anche troppa. Ma io mi riferisco a un altro genere di vita, sulla quale hai ancora molto da imparare». « Ti riferisci agli uomini zia? » domandò la nipote, alzando il viso e voltandosi. « Non mi riferisco solo agli uomini. Io non mi rife­ risco mai agli uomini. E non mi riferisco agli uomini 43

perché non ne so molto, contrariamente a quanto tu possa pensare. Ho imparato da loro solo quello che mi interessava che mi insegnassero, e per tutta la vita ho dimostrato un notevole disprezzo per quello che loro hanno voluto insegnarmi trascurando i miei desideri e le mie inclinazioni. So poche cose io, ma amo credere che quelle che so, le so benissimo. Poco ma buono, è il mio motto. Ecco perché non mi azzarderò mai a dire che conosco gli uomini, ma in compenso mi permetto di affermare che conosco tutti gli angoli dell’anima di Ramón, tanto per fare un esempio, anche i più nascosti». «Non credo, zia, che occorra molta scienza» disse la nipote « per conoscere gli angoli più nascosti del­ l’anima di Ramón». «Che ne sai tu dell’anima di Ramón?». «Quello che so è che gli uomini danno soltanto dispiaceri » disse la nipote, più che altro per ripren­ dere la posizione di prima, che trovava più comoda. «Non soltanto» disse la signora. « Ti riferisci al piacere, zia? » domandò la nipote, alzando il viso e voltandosi. «In parte, sì. In parte mi riferisco al piacere». «Non mi è estraneo». La signora emise un profondo sospiro e abbassan­ do il tono abituale della voce, come se quella rifles­ sione costituisse solo una nota a piè di pagina del suo discorso, disse: « Ci sono piaceri molto diversi, che non hanno la minima parentela fra di loro. Ci sono piaceri molto dolorosi, così dolorosi che arrivano a rompere la struttura regolare dell’anima fino a portarla alla follia». «Ho conosciuto diversi tipi di piacere» disse la nipote «che a volte, sì, mi hanno portato sull’orlo della follia. O della sfrenatezza». La signora inarcò le sopracciglia con un gesto appena percettibile. Poi accese la lampada e con un’occhiata sommaria controllò il piano dello scrit­ 44

toio, ma dopo aver constatato che tutto era in ordine e niente richiedeva il suo intervento, la spense di nuovo, cercando una penombra più confacente a rimembranze e riflessioni. La signora socchiuse le palpebre e con la nuca all’indietro, in una posizione un po’ forzata, appoggiò il mento sul pugno destro puntato verso il collo. « Non ho mai voluto appurare né sondare la per­ sonalità del messaggero, e neanche i rapporti che ha con “lui” » disse. « Non dubito che ce ne siano, maga­ ri del tutto casuali, perché altrimenti non vedo come potrebbe venir qui a portare un messaggio che così poco lo riguarda, sapendo oltretutto che non ha molte probabilità di farlo arrivare a destinazione ammesso che gli abbiano spiegato in ogni particola­ re le difficoltà della missione e, più gravi ancora, le ragioni di essa e l’origine del dissidio. E possibile che si tratti di un ulteriore intermediario, un uomo al quale è stato affidato questo incarico per interposta persona e che, di conseguenza, può non essere stato in “sua” presenza e non sapere nulla della sua vita e del suo passato. Anche se così fosse non dovrei per questo cambiare una virgola alla mia risposta, per­ ché qualunque cosa egli sappia di me devo convin­ cerlo che la sua persona non condiziona minima­ mente la risposta. D’altra parte, se parto dall’ipotesi che tra lui e il messaggero ci siano una o più persone interposte che dall’una all’altra si sono trasmesse il messaggio - abbastanza semplice da conservare immutate le sue caratteristiche lungo un percorso pieno di peripezie -, devo sforzarmi, ai limiti delle mie possibilità, perché la fermezza del mio atteggia­ mento si imponga a tutte le infedeltà che la narra­ zione dell’incontro finale potrà subire in ognuna delle sue trasmissioni sulla via del ritorno. Sì, il mes­ saggio è semplice, ma non lo è la mia risposta, la quale, avvolta nel silenzio, è aperta a ogni sorta di interpretazioni. E una ragione di più per ostinarmi, anzi per esagerare la mia intransigenza; perché se 45

fossi convinta che la persona che entrerà qui per — diciamo così — trattare con me, sarà la stessa che trat­ ta con lui, e si costituirà quindi come l’unico vincolo che ancora ci unisce, seppure nel campo del pensie­ ro o dello spirito, e che rappresenta, nello stesso tempo, la distanza che ci separa e il futuro che ci avvicina, forse - non dico di no - mi lascerei trasci­ nare in certe controversie e spiegazioni intime, ali­ mentate da un desiderio di persuasione che spesso si impadronisce della mia anima e mi porta a prendere in considerazione decisioni molto diverse da quelle che prendo abitualmente, e sulle quali mi sono posta un veto assoluto. Mi sono permessa di dire “il futuro che ci avvicina” quasi fossi sicura che il dissidio che si aprì un giorno fra noi, separati prima da un muro di cinta, poi da un ponte, uno di qua e l’altro di là dal hume, presto o tardi si risolverà in un nuovo incon­ tro, se non felice almeno pacihco. E non ne sono sicura, non posso esserlo, per le stesse ragioni in vir­ tù delle quali nessuno può garantirmi che il mio sacrifìcio sia valso almeno a estirpare la barbara usanza che in me si alimentò. Se lo fossi, lo sarei sta­ ta anche per tutto questo tempo trascorso, e si potrebbe arguirne che tutta l’attesa sia stata poco più che un capriccio della mia natura indocile e biz­ zarra». «No, certo non mi è estraneo il piacere» interrup­ pe la nipote tirandosi giù la gonna e lasciando ripo­ sare le palme sulle ginocchia. « Si tratta di un uomo di una quarantina d’anni » continuò la signora, senza prestare troppa attenzio­ ne alla nipote « che non ha proprio nulla di partico­ lare, una persona di scarso rilievo. Un uomo qua­ lunque, che non attira l’attenzione, di una quaranti­ na d’anni. Suppongo che la sua scelta non sia casuale ma sia dovuta a tutta una serie di condizioni che ignoro e che solo in parte mi azzardo a ipotizzare. Non deve attirare l’attenzione perché il suo viaggio Hn qui - un viaggio lungo, di diverse giornate, con 46

numerose soste e trasbordi - sia nei limiti del possi­ bile scevro di difficoltà, ostacoli e interruzioni. Per­ ché se pure questo viaggio si ripete ogni volta a distanza di un certo numero di anni, e si può quindi inferire che chi lo ordina non è sicuramente domi­ nato dalla fretta, una volta iniziato esso inoculerà nello spirito del mittente quell’ansia che provoca l’attesa di qualsivoglia risposta. E tanto maggiore sarà quell’ansia, credimi, quanto più lungo sarà stato il termine concesso all’elaborazione della domanda, e più accuratamente scelto il momento di farla. Sic­ ché me lo vedo - intendiamoci, è un modo di dire, perché non lo vedo né ho il minimo desiderio di proiettare la sua immagine sullo schermo delle mie palpebre, giacché per mancanza di dati visivi recenti non riuscirei a formare la sua immagine, ma solo a disturbare i meccanismi destinati a produrre questo fenomeno e magari ad alterare il regime di astinen­ za che mi sono imposta nei riguardi di qualunque impressione corporea della sua persona sopra la mia - intento a contare con impazienza le ore e i giorni dal momento in cui manda il messaggero fino a quello in cui torna con la stessa, prevista, inalterabile e doppiamente deludente risposta. In secondo luo­ go deve essere una persona di una quarantina d’an­ ni, cosa che al principio, quando ero molto più gio­ vane, aveva una certa importanza, data l’impressio­ ne che doveva produrre su di me, una povera ragazza di provincia, di umile estrazione, destinata a occupare uno dei primi posti in seno alla nobiltà locale e a procreare una stirpe di signori, sul punto di perdere definitivamente il senno a causa di un’u­ sanza disumana, una creatura di scarsa esperienza e quasi priva di protezioni, che riceveva la visita di un signore piuttosto perbene, e di una certa età, il quale si era accollato tutti i fastidi di un lungo viaggio sol­ tanto per farle pervenire un messaggio che lei non doveva prendere alla leggera. Alla leggera! Ecco il nodo della questione: che non lo prendessi alla leg-



géra. Corne se dopo quelle barbare nozze io potessi prendere qualcosa alla leggera! Sicché tutto il suo contegno, il suo modo di annunciarsi e le formule che avrebbe adottato per porgermi il suo messaggio dovevano essere stati - ne sono certa - attentamente previsti e studiati perché io lo prendessi in grande considerazione. Senza dubbio ciò che non era stato calcolato era che io non lo prendessi affatto, né con considerazione né senza; che rifiutassi di riceverlo e persino di manifestare la volontà di non riceverlo: un tipo di risposta che non costituiva un diniego alla sua istanza, ma piuttosto un invito a emendare la sua condotta proferito dall’alto tribunale del silenzio». «Il piacere mi attanaglia» interloquì la nipote. « Gli anni passavano » continuò la signora « ed era sempre un uomo sui quarant’anni, sempre diverso, non proprio distinto ma sicuramente cauto, ben consapevole delfimportanza della sua missione e attento a tutti i particolari inerenti alla sua ambascia­ ta e anche, prevedibilmente, a ogni mia reazione. Come ti ho già detto, ben sapendo che il più piccolo movimento della bocca, o un solo tremito di palpe­ bre, può essere molto più eloquente del brutale monosillabo che compendia la controversia e risolve la situazione (e non è altro che questo, il sunto, il saldo verbale di un complicato bilancio, tanto più complesso per il fatto che i conti intermedi non sono condizionati dal risultato finale, variabile in funzio­ ne dell’importanza dell’una o dell’altra voce), per un lungo periodo della mia vita ho proibito a me stessa di esternare tali reazioni e proprio in quel frangente ho deciso di dar libertà ai miei gesti solo quando tut­ to il mio corpo fosse segregato nella solitudine e nel silenzio. E una formula saggia, non credere, nota all’umanità fin dai tempi antichi; con la più rigida legge del corpo si fomenta la maggiore sensualità dell’anima ». «Di’ pure che corpo e anima devono divorziare per vivere ciascuno la propria vita» interruppe la nipote.

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« Perciò non ho inai acconsentito a ricevere il mes­ saggero, il quale, ripeto, doveva avere sempre quarant’anni, ed essere educato e sobrio. Al principio pensai che saremmo invecchiati assieme; voglio dire, mi aspettavo che il messaggero andasse avanti negli anni, se non di pari passo con me, almeno a un rit­ mo tale da incarnare sempre quella età che dal pun­ to di vista della mia risultasse la più degna di credito per condurre a termine una missione del genere; ma cambiai opinione il giorno in cui mi fu annuncia­ to l’arrivo di un signore che mi era quasi coetaneo, eppure sembrava il più idoneo a portarmi il messag­ gio. Allora capii che tutto era previsto perché l’età non prevaricasse il messaggio; entrambi potevamo invecchiare, ma l’ambasciata no, perché questa, al di sopra degli anni, non doveva andare soggetta ad alcun mutamento, trasmessa com’era da un uomo di una quarantina d’anni deputato a compiere il mira­ colo di renderla atemporale, quasi fosse verità rive­ lata, immarcescibile freschezza di una promessa che non avrebbe conosciuto putrefazione. Un uomo così avvertito della necessità di preservare il messaggio, che tanto il mittente quanto il destinatario finivano ai suoi occhi per svolgere un ruolo di secondaria importanza. Mere comparse, fantomatici supporti iniziale e finale - di un vincolo che prevale, di un oggetto che ha perduto il suo oggetto, come quel tratto di catena — un pezzo da museo — che non lega più niente, e non allude neanche più ai due corpi che un giorno tenne avvinti...». « Non sono insensibile alle lusinghe degli uomini » interruppe la nipote, senza tirarsi giù la gonna, solo allungando un po’ il collo e voltando la testa verso la zia. Ebbe anche un moto di curiosità nei confronti delle proprie ginocchia, le quali, ben accostate, spuntavano timidamente dall’orlo della gonna riti­ ratasi a causa dei suoi vari movimenti. «... e che dovevano scomparire senza lasciare altra testimonianza dei loro rispettivi destini, per un atti-

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mo confusi in uno solo. Sì, per quel messaggio gli anni non devono passare anche quando siano passa­ ti, e a che ritmo vertiginoso verso la metà della mia vita, per colui che l’ha mandato e per costei che rifiuta di riceverlo. Non ti ho ancora detto niente dell’uomo che lo invia. Ti dirò solo che di lui non è ancora venuto il momento di parlare e perciò ho preferito soffermarmi un po’ su chi si limita a tra­ smettere il messaggio, per suo ordine espresso, diretto o indiretto che sia; ormai di questo non dubi­ to più. Era un uomo devoto, sinceramente devoto, e aveva orrore del ruolo assegnatogli da una tradizio­ ne che senza dubbio conosceva solo per sentito dire e a cui fino al momento della prova non diede trop­ pa importanza. E se allora capì di aver perduto tut­ to, seppe anche vedere che solo con la devozione poteva portare a termine il lungo e finora infrut­ tuoso processo di recupero. Ti dirò anche che per anni non mi fidai di lui e forse giunsi ad aborrirlo, e addirittura a pensare (parecchio tempo fa, però) che dietro il messaggio non ci fosse nessuno: non era lui a inviarlo, per la semplice ragione che non poteva inviarlo - come del resto nessun’altra cosa -, e si trattava soltanto di una beffa atroce, concepita da uno dei tanti che su questa terra sono incapaci di sopportare la fermezza dimostrata da una donna che ha contato solo sul sostegno della propria mano per vincere tutte le difficoltà cui ha dovuto far fronte nel corso di una vita piuttosto travagliata. Bada che non esito a indicare me stessa come la pri­ ma responsabile, e forse l’unica, dell’esistenza di queste difficoltà, delle quali non posso incolpare nessuno. Non mi è mai piaciuto addossare ad altri le eventuali colpe e responsabilità di una situazione in cui mi trovavo invischiata, perché ciò sarebbe in pra­ tica equivalso a confessare la mia impotenza a uscir­ ne, e se alla fine riuscii a risolverla fu senza dubbio grazie all’energia prodotta dalla convinzione che solo a me stessa potevo chieder conto dello stato del-

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la mia persona. Bare proprio che su questa terra - e te lo dico perché, sebbene tu creda il contrario, sei ancora una bambina, ignorante del mondo che ti circonda e indifesa da tutti i suoi pericoli - se una donna osa dimostrare che sa difendersi da sola, spunta subito l’uomo che crede di meritarla, che si sente obbligato a farla sua perché lasciarla libera è poco meno che un affronto al suo orgoglio virile. Senza dubbio ti avranno infarcito la testa sui pericoli che corre una ragazza come te, e sui princìpi da seguire per resistere all’assalto dei cosiddetti caccia­ tori di dote, però non puoi nemmeno immaginare che specie di assalti è destinata a subire ogni donna, per quanto scarse siano le sue attrattive...». «Non è il mio caso» interruppe la nipote. «... se avrà dedicato la giovinezza a dimostrarsi pronta a tutto pur di preservare la sua indipenden­ za: una indipendenza — sappilo una volta per sem­ pre - che può e sa ignorare il danno che infligge a quanti non riescano a sopportarla. Sono stati tanti, perciò te lo dico, ma di questo danno parleremo un’altra volta. E i più colpiti furono proprio quelli che fin dal primo sguardo che posarono su di me si convinsero di potermi possedere. Uno sguardo, ti avverto, che non bisogna mai ricambiare, un gesto che non sarà mai corrisposto. Come ti dicevo, per anni pensai che potesse trattarsi di una beffa, una beffa tanto più atroce quanto più serio e deferente era l’uomo incaricato di metterla in atto. Tuttavia era mio diritto sospettare che dietro quell’uomo dal­ l’aspetto e dal contegno impeccabili, dalle intenzioni palesemente oneste e limitate, potesse nascondersi una canaglia senza scrupoli cui nulla sarebbe stato più facile che raggirare un onest’uomo per affidar­ gli quell’incarico. A un prezzo ridicolo, o addirittura per niente, a titolo di semplice favore, che un uomo onesto non avrebbe visto alcun inconveniente a fare, incapace di scorgere dietro tale richiesta la torva e sordida intenzione di un buontempone di provincia.

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Perché l’ambasciata sì che era onesta, sì che era ed è seria, la più seria che chiunque possa ricevere. E sarebbe seria e onesta anche se non contasse sulla mia indulgenza verso la terribile offesa che è alla sua origine, l’offesa più grave che si possa infliggere a una donna, per la cui valutazione mancano all’uomo criteri di misura; non al suo orgoglio, né al suo ono­ re, né alla sua virtù, né alla sua innocenza, né al suo amore né a ogni altra baggianata del genere, ma al suo destino, quest’involontaria dimenticanza della futilità del nascere, questa sospensione della ragion d’essere, questo precoce presentimento del pieno uso del tempo che la donna secerne da ogni sua cel­ lula, senza la necessità di filtrarla con la testa, senza neppure la necessità che un uomo pensante e sme­ morato le dica: “Tu sarai questo”. Capirai bene quindi che l’ambasciata non può cambiare, e che la beffa, per raggiungere i suoi fini, non potrà mai mutarne la natura e dovrà accontentarsi di cambiare solo l’origine defl’invio e il tramite per il quale farla arrivare a destinazione. Perché un uomo onesto non avrebbe dovuto assumerne l’incarico, se gli si dava una spiegazione soddisfacente, se gli si faceva inten­ dere che in quel modo avrebbe reso un gran servigio a una persona che ne aveva bisogno? Giunsi perfi­ no a supporre che per arbitrare questa transizione dalla spudoratezza all’onestà, applicate a un solo e medesimo caso, sarebbero stati necessari non uno, ma tutta una serie di intermediari di crescente one­ stà incapaci di valutare nelle giuste proporzioni l’in­ cremento di falsità che ciascuno separatamente doveva introdurre nel copione per passare, attraver­ so piccoli cambiamenti, da uno stato all’altro. A volte - sempre seguendo questa idea - arrivai addirittura a convincermi che il messaggero che bussava a que­ sta casa era l’unico uomo onesto di questa terra, l’unico che meritava il mio credito, e magari anche qualcosa di più del mio riconoscimento: l’innocente designato da una cricca di mascalzoni per portare a

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termine una missione che nessun altro si azzarda a compiere, e dei cui risultati, inoltre, sarà l’ultimo a beneficiare, come il bambino che suona il campa­ nello mentre i compagni aspettano nascosti dietro l’angolo le conseguenze dello scherzo, pronti a scap­ pare a gambe levate e a lasciarlo solo appena comin­ ciano a piovere proteste, minacce e botte. Dovevo forse vivere in quel genere di incertezza, provocata dalla slealtà di tanti, che arriva a confondere nel suo delirio messaggio e messaggero, allorché il latore si trasforma (in quell’istante che è un’eternità davanti a un abisso) nel soggetto dell’ambasciata, il terribile, immortale e immemoriale soggetto che non trasmet­ te il messaggio bensì lo emette fin dall’origine e che, fra altre cose ugualmente gravi, si piazza in questa stanza per dirmi: sono qua. Ma chi o che cosa è arri­ vato fin qui? il messaggio o il messaggero? perché dovevo separarli? Decisa a prendere per buono il primo, perché non avrei dovuto designare il secon­ do come soggetto in esso implicito? Si trattava di un uomo devoto, il più onesto di questa terra, e non poteva essercene più d’uno. Dunque era proprio lui che tormentato dalla colpa aveva affidato la sua imperfetta sopravvivenza a una sorta di precario e incompleto oblio da cui si sforzava di uscire a tento­ ni, alla ricerca della espiazione che gli avrebbe resti­ tuito la memoria, guidato da un unico particolare preciso — forse geografico - che in ogni occasione (irripetibile fino all’oblio del fallimento, fino al ritorno alla normalità del ricordo) si sarebbe dimo­ strato infruttuoso. Capisci, o cerca di capire, perché ancora non so se sarai capace di portare fino in fon­ do al tuo intelletto quel momento, giacché ti sarà impossibile (come lo sarebbe a me, se ci scambiassi­ mo di ruolo)...». La nipote si tirò giù la gonna per eliminare la pie­ ga concava tra le cosce, passò in rivista le gambe, ben accostate, sporgendo un po’ il busto e avvicinò anco­ ra di più le scarpe; dopo aver guardato a destra e a 53

sinistra, tesissima, e aver scrollato via dal grembo qualche inesistente granello di polvere che poi disperse con un breve soffio, tornò a cingersi le ginocchia con le mani e così disse: «Tutto il mio corpo risponde all’unisono alla pri­ ma carezza». Ma la signora non si scompose affatto: «... intravedere gli angoli oscuri dell’anima in una simile situazione, e quale fosse il mio stato d’animo nel decidere di ingannare l’unico uomo onesto che si avvicinasse a questa casa e di persuaderlo con la mia intransigenza del fallimento di una missione il cui successo io dovevo festeggiare in segreto, non solo per riservarlo a me sola e poter continuare a goder­ ne in modo esclusivo anche dopo, ma per non aiu­ tarlo in una ricerca che doveva fare da sé, a partire da un unico dato preciso. Qualche volta sono arriva­ ta a compatire quest’uomo, pensando a quella traiet­ toria di onestà da un’origine fallace a una meta altrettanto falsa, e non posso negare di essere stata tentata di rivoltarmi contro la mia decisione iniziale soltanto per potergli offrire un unico e breve momento di meritato trionfo. Ma che vuoi che ti dica, arrivata a quel punto ci doveva essere qualcosa che bloccava intenzioni così buone, perché, torno a ripeterti, era in gioco la mia sopravvivenza. Qualcu­ no o qualcosa devono sempre bloccare le buone intenzioni perché se così non fosse potrebbero rea­ lizzarsi in qualunque momento, introducendo un esempio nefasto che, nel caso si diffondesse, di­ struggerebbe la nostra società più rapidamente di quanto non faccia l’industria cartaria. Questo qual­ cosa è una decisione saggia — e forse immemoriale che è al di sopra di ogni compassione. Avrei potuto aspirare all’amore, con la consapevolezza di essermi forzata a mantenere un immutabile e sacro proposi­ to, quali che fossero le vicissitudini che la mia anima avrebbe dovuto affrontare. L’avevo giurato. E ciò che un amore non tollererà mai, poiché non può 54

neanche nascere se non è intimamente convinto di essere capace di spazzar via tutto, giacché la moneta con cui l’amore riscuote il prezzo dei suoi servigi è la devastazione. La compassione invece sì. La compas­ sione non esige la consegna di tutti i depositi di cassa e per questo si diffonde, si diffonde molto più di quanto tu non creda. Se il premio che quest’uomo poteva ottenere dall’avermi permesso di convincerlo che il suo messaggio era stato ricevuto e accettato così come egli desiderava accadesse, e di conseguen­ za che lui stesso aveva portato a termine la sua mis­ sione con decoro ed efficacia e con piena soddisfa­ zione del mandante, non poteva essere che effime­ ro e limitato all’interno di un percorso lungo e dagli esiti assai diversi (che io sappia, infatti, solo nella remota Antichità i messaggeri ricevevano onori e castighi non proporzionali alla importanza dei dispacci di cui erano latori, imparentati com’erano con le sibille, gli oracoli e gli àuguri), la mia situazio­ ne, invece, per aver io propiziato una soddisfazione così caduca, poteva aggravarsi tanto da portarmi alla rovina. All’amore è consentito scommettere l’intero patrimonio e giocare con la propria rovina, alla compassione no. E l’amore approfitta, non ci sono dubbi, di tutta la licenza sociale che nel corso dei secoli gli è stata concessa (e cosa sono stati gli scritto­ ri cortesi, mi domando, se non gli agenti di cambio che hanno lanciato sul mercato questi titoli fraudo­ lenti) per spacciare una mercanzia che soffre di tutti i possibili vizi occulti, come quegli appartamenti eco­ nomici, pagabili a rate, che non hanno la minima parentela con gli interni fastosi illustrati dalla pub­ blicità del costruttore. E che rate, mio Dio, che rate; a cui si viene ad aggiungere il conto mensile del riscaldamento, del muratore e dell’idraulico. Cosa posso dirti se non che, a causa di una tradizione cul­ turale incomprensibile, che una volta avviata nessu­ no è più capace di fermare né di smontare, all’amo­ re toccano solo indulgenza e comprensione, e i risul-

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tati del suo intrinseco potere devastante sono ovunque accettati come incidenti trascurabili; che questa compassione non esercitata - in omaggio a un impegno di maggior conseguenza - si alimenta di se stessa, si moltiplica e procrea come la gelosia per spingere lo spirito in uno dei tanti labirinti dove si dibatte, cieco di insoddisfazione, in una pletora di passioni non consumate e di parassiti che usurpano un luogo lasciato vacante dall’inquilino legittimo; come spiegarti che in simili circostanze lo spirito si sdoppia - come la cellula matura - in due metà identiche ma dal diverso destino, una delle quali finirà per stabilirsi entro la cinta dei suoi stessi dazi, mentre l’altra persegue senza scopo impulsi che abortiscono senza trasformarsi in moventi, traccian­ do tutta un’esistenza propria e altrui che si srotolerà nell’ambito deleterio dei desideri non formulati. Osserva come dopo una lunga attesa un piccolo segno basti a far svanire l’ansia, e con la certezza di un incontro immediato risorgano i piccoli fastidi quotidiani a riempire vicariamente un tempo occu­ pato dal messaggero e circoscritto dall’annuncio del suo arrivo, come in Catalogna si risvegliano le bestie alla fine dell’inverno dopo la reclusione forzata a cui le ha sottoposte la promessa primaverile».

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MAGGIO

Era una notte serena, calda e senza luna, una di quelle notti della stagione secca di cui il penitente approfittava per fare tardi. Fare tardi per il peni­ tente significava coricarsi sulla sua branda verso mezzanotte, dopo un paio d’ore trascorse a contem­ plare il fuoco sulla porta della baracca. E anche una di quelle, ancora più rare, in cui cenava al fresco, sulla porta della baracca, seduto sul gradino con un mantello sulle spalle, per poi rimanerci un paio d’ore guardando la fiamma e tutt’al più fumando un sigaro. Non era un gran fumatore, ma era il suo unico vizio, l’unico marchio che gli restava della pas­ sata dissolutezza. Erano vent’anni che cenava all’ingresso della mi­ niera, perfino nelle estati in cui faceva un turno di notte, e ne aveva tratto alcune abitudini che per una ragione occulta non desiderava perdere, benché avesse dovuto rinunciare a buona parte di esse da quando aveva lasciato la vita attiva e si era ritirato in quell’angolo di montagna che non apparteneva a nessuno, o che comunque nessuno sfruttava. Sicché

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parecchie notti all’anno si imponeva il dovere o la necessità di far tardi, come se aspettasse il turno o, meglio ancora, come fosse una notte di paga, deciso a spenderne la metà in bagordi assieme a tutta la brigata. Di quei giorni di grandezza e di follie resta­ va ormai solo quella notte di omaggio, erede rachiti­ co di una antica e maestosa specie falcidiata, se non estinta, da condizioni ambientali avverse. Erano magari due ore di pensieri vacui, nemmeno spesi in rievocazioni ardenti; si coricava sulla branda solo quando si arrendeva al sonno, con gli occhi lustri, caldi ed ebbri dal tanto guardare il fuoco. Forse così, con quel magro nutrimento, alimentava la convin­ zione (o meglio il desiderio) di essere ancora attivo, che semplicemente gli toccava di vivere in un’epoca in cui il lavoro era scarso - come tante altre che ave­ va conosciuto —, che un giorno o l’altro avrebbero aperto nuovi pozzi, e i minatori sarebbero tornati al lavoro e lui sarebbe stato riassunto, come sempre, in qualità di penitente, impiego che non prevede pen­ sionamento; che il monte e il bacino — in quel momento a secco — più che mai esigevano la sua attenzione e vigilanza notturna, benché gli oggetti delle sue cure fossero estinti, o spariti ubbidendo all’appello di una fortuna schiamazzante che, con le facoltà ottenebrate, aveva abbandonato il proprio domicilio familiare per perdersi in altre terre. Rima­ nevano solo rare vestigia, che soltanto uno zelo smi­ surato poteva supporre bisognose di sorveglianza: una catasta di legname che serviva a puntellare le gallerie, ogni giorno più ridotta perché trasformata in combustibile, una pila di traversine per scarta­ mento normale, pezzi di rotaia da dodici chili, ferra­ glie, un mucchio di bulloni, un vagoncino da carico ammaccato di banco a un cumulo di detriti di arde­ sia che dopo un periodo di ruggine sanguigna aveva preso il colore della cenere, e le baracche, tutte — tranne la sua — ridotte alle quattro mura, che sem­ bravano aver attirato nei loro vani sfondati tutti i

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rottami della valle. A parte il suo cane, un cane dalla vita indipendente del tutto inadatto a un sorveglian­ te, un botolo sempre arruffato che rispondeva al nome di Ratonero, di latrato stridulo e pelo corto bianco con macchie color cannella, la sua unica com­ pagnia consisteva in una dozzina di galline (una del­ le quali era una chioccia e non si mischiava alle altre, che la consideravano un disonore per il pollaio ma le permettevano di covare le sue uova) su cui regnava un gallo con il collo nero e il piumaggio di fuoco, piuttosto basso, che un giramondo gli aveva venduto a un prezzo molto ragionevole, nella certezza che si trattasse di un animale d’importazione, nato e cre­ sciuto in Unione Sovietica, con una impeccabile for­ mazione bolscevica che lo rendeva invulnerabile alla stanchezza e sempre avido di raggiungere la massi­ ma produttività; e in un coniglio bianco che pure viveva in libertà - contrariamente all’harem di galli­ ne - e che il penitente chiamava Victor. Nei giorni feriali non era difficile che il penitente avesse visite e perfino ospiti, che approdavano alla sua baracca per chiedere notizie dei pozzi ancora aperti per i quali si poteva assumere personale; e certi sabati qualche turnista o cottimista senza i soldi necessari per scendere in paese, all’osteria o al bar, ricorreva al vecchio forno da pane della miniera per arrostire un capretto e poi passava la notte negli alloggi abbandonati. Il penitente non lasciava la valle da molti anni ed era conosciuto in tutta la zona, anche in paese, da dove spesso gli giungevano delle ordinazioni grazie alla sua incomparabile conoscenza di quella monta­ gna, che solo per lui, in esclusiva si direbbe, produ­ ceva erbe per tisane, decotti e distillati, foglie medi­ camentose, legna aromatica, cristalli di zolfo e di smeriglio, acque ferruginose. Benché fosse conside­ rato un po’ eccentrico e visionario era così rispettato che non solo i suoi prestiti senza interesse venivano scrupolosamente restituiti (e si sa di uno solo che

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non l’aveva fatto, tanti anni addietro, e dopo un po’ ricomparve in terra lontana con la testa immersa in una pozza, una pietra sulla nuca e i piedi nel fango, vera fine da Giuda in una landa priva di vegetazio­ ne) ma di tanto in tanto riceveva anche piccoli regali, e perfino qualche partecipazione agli utili dei cari­ chi. Il bacino era quasi esaurito, però finché il peni­ tente abitava in quelle baracche abbandonate la miniera sarebbe rimasta aperta, sempre in attesa degli investimenti di qualche tedesco voglioso di tro­ vare siderite o magnetite negli strati verticali del siluriano, o di qualche emigrante arricchito, deciso a restituire alla sua terra i risparmi americani. Dava ancora lavoro, vitto e alloggio a un centinaio di uomini sparsi per la montagna, che senza dubbio avevano sperato e meritato di più dalla vita, ma al momento cruciale avevano preferito accontentarsi della propria sorte anziché andare in Germania a spazzare capannoni industriali nel Palatinato; o era­ no troppo vecchi o troppo assimilati alle viscere di una terra brutalmente fuori dal tempo e soavemen­ te agonizzante, beffardamente sospinta verso un prossimo crepuscolo di canne mute, colline spelac­ chiate e brezze sibilline. E non è che fossero saliti alla montagna dopo un attimo di sbigottimento nei con­ fronti della civiltà, per recuperare nella condizione brada una quiete travolta dalle vetrine dei negozi di elettrodomestici; di loro si poteva proprio dire come dei cavalli nani che scendevano dai pascoli alti fra le pietraie e le scarpate del Monje ai prati e alle rive del fiume solo agli auspici novembrini della neve, o dei rapaci fosforescenti che si divoravano a vicenda, quando pasciuto di carogne qualcuno non riusciva più a riprendere il volo nei profondi canalo­ ni del Torce dove precipitavano anche i camosci — che appartenevano a lei, alla montagna, per il vinco­ lo inoppugnabile di uno stanziamento remoto, privo di origine, di storia e di registri. Forse erano Goti, come dicevano alcuni studiosi ed eruditi locali che 60

un giorno avevano letto Ortega, e anche a giudicare dai nomi: Ulfìlas, Vibaldo, Turgis, Abdón, Ulan. Non erano corpulenti ma robusti e tarchiati, di pelo biondo e fibra nerboruta - come i roveri e le querce nane -, di gambe corte e braccia lunghe; una razza secondo gli stessi eruditi, che un giorno avevano let­ to anche Maranón - decaduta a causa di una secola­ re posizione incurvata alla ricerca degli scarsi e nascosti doni della montagna, e di una alimentazio­ ne insufficiente e inadeguata, a base di graminacee povere. Non erano buoni cacciatori e pareva avesse­ ro ereditato l’agricoltura come un’attività rovinosa e impopolare, dopo il suo precoce abbandono da par­ te dell’unico che aveva saputo farla fruttare. Aveva­ no qualcosa dei Nibelunghi e degli Uroni, acquattati com’erano fra i macigni, sempre in attesa di qualche segnale. Prima di mettersi a preparare la cena tese l’orec­ chio ai rumori della baracca. Il nome del vecchio penitente era Adonis Abdón. Lui lo pronunciava Adonis ma in tutta la valle lo conoscevano come Abdón. Era di bassa statura, e zoppo, il suo scarpone destro sembrava una botticella più adatta a contene­ re qualche litro di vino che un piede, ma benché tra­ scinasse la gamba senza quasi poter piegare il ginoc­ chio erano pochissimi quelli che gli tenevano dietro su per la montagna. La maggior parte della sua vita adulta era trascorsa alla miniera, e quantunque come era tipico della categoria - si fosse goduto una gioventù licenziosa dilapidando tutto il denaro gua­ dagnato con il suo lavoro, di lui si diceva in certi ambienti che non avesse conosciuto donna; ma in altri si affermava pure che una terribile delusione fosse stata la causa insieme della sua deformità e del­ la sua misoginia. Aveva deciso di dedicare quella notte alla sua figlia adottiva, ovvero a colei che per varie ragioni continuava a considerare una figlia pur non avendo alcuna prova della propria paterni­ tà. Dopo una lunga stagione errabonda (cioè dopo 61

aver sempre lavorato come avventizio in quasi tutte le miniere della valle), giunta l’età della pensione aveva dovuto accettare l’incarico di penitente e scen­ dere incappucciato, con la lucerna in mano, a boni­ ficare i pozzi dal grisù; dove una volta - per una di quelle esplosioni mattutine che lui stesso provocava, rannicchiato al suolo e protetto da un telone, senza far altro che accostare la fiamma agli angoli dove ristagnava il gas — ebbe di se stesso, proiettata sulla lucida vena scoperta, una visione così sconcertante che da allora decise di moderarsi nel bere e di dedi­ care la maggior parte del suo tempo al risparmio — per garantire il futuro di quella creatura che non era responsabile dei suoi errori giovanili - e al pen­ siero, un certo tipo di pensiero che a quanto pare gli antichi Greci conoscevano sotto il nome di phrónesis. E si diceva pure che in un cofanetto di legno borchiato tenesse una pezza gialla appartenuta a una sua antenata - una che non sapeva perdere, una fattucchiera greca (altri dicevano galiziana) la quale, abbandonata dal marito, aveva ammazzato i figli -, e con quella fosse in grado di mondare da ogni col­ pa, per quanto grave, un uomo onesto. Non mancava neppure, il penitente, di quella conoscenza dell’anima che, sia o non sia patrimonio degli eremiti, sembra sfuggire all’uomo di mondo, versato solo in futilità. Se godeva di tanta considera­ zione nella valle era perché non chiedeva mai niente eppure sapeva quasi tutto di quelli che lavoravano nei pozzi. Non che andassero a raccontargli i loro problemi, ma una notte nella baracca in sua compa­ gnia poteva costituire la miglior medicina per un’an­ goscia passeggera o per un animo taciturno. Aveva vissuto più di tanti altri e benché non avesse studiato molto poteva vantarsi di possedere l’arcano comune e la conoscenza del punto in cui si nasconde il segre­ to più intimo. Conosceva il rovescio della montagna; in compenso ciò che si usa chiamare l’anima latina sfuggiva alla sua intelligenza, e la guardava con 62

occhio diffidente. Delle donne non sapeva né vole­ va sapere alcunché, a eccezione di quella creatura che lui non sapeva esattamente chi fosse ma verso la quale era in debito. L’altro era arrivato il giorno prima a metà del pomeriggio, col sole ancora a mezza altezza sull’oriz­ zonte, e in quelle ventiquattr’ore non aveva quasi flato segni di vita. Il penitente si riteneva un buon fisionomista e nessuno che si avvicinasse alle barac­ che era per lui un perfetto sconosciuto. Un uomo ancora giovane — o non aveva quarantanni o li aveva appena compiuti - ma indubbiamente già battuto da diversi venti e diverse fortune. Non era sicuro di averlo già visto ma i suoi lineamenti non gli erano nuovi, come se, leggermente alterati, fossero sul punto di vincere da un momento all’altro la defor­ mazione facendo scattare la molla del riconoscimen­ to, tanto più lontano quanto più sembrava essere imminente. E la dilazione di tale evento insieme alla durevole pressione di quell’incentivo sprofondaro­ no il penitente nel malessere causato dall’incomprensibilità del tempo trascorso. Tutto indicava che era stato un uomo dai capelli chiari, i quali però col tempo avevano assunto, come gli occhi, un colore indefinito. Un colore che poteva essere il risultato unico e irreversibile di molte priva­ zioni. I suoi vestiti, benché ormai vecchi e laceri, era­ no stati di buona qualità ed egli, pur essendo calzato di tela, portava in spalla un paio di stivali ben con­ servati ma dal cuoio screpolato. Quando gli chiese se poteva passare la notte lì, il penitente non si alzò dal gradino e gli indicò il corridoio col bastone con cui radunava le braci del focolare. L’altro non gli disse nemmeno grazie ma fu la sua domanda - una domanda insolita da parte di chi conoscesse resi­ stenza delle baracche - che con il dubbio avviò l’istanza dell’oblio. L’oblio stimolato dal ricordo di un dramma che non ricordava e che un giorno l’aveva indotto a 63

smettere di bere. Il penitente tendeva l’orecchio ai passi del visitatore in fondo al corridoio. Normal­ mente ascoltava ben poco - e il penitente, per essere sincero con se stesso, si domandò cosa potesse avere quell’uomo per destare in lui una curiosità così fasti­ diosa. Forse aveva qualche rapporto con quell’oblio e aveva smosso una minuscola particella del dram­ ma: un moto quasi impercettibile che la memoria ignorava, o non riusciva a scoprire, ma che il senso del destino — questo tirante che lega tutti i tempi aveva avvertito. Ogni minatore aveva il suo segreto, quasi mai di alcova; perfino quelli che erano arriva­ ti alla valle e ai pozzi passando per le terme e per il casinò avevano perlopiù sovrapposto un presente laborioso a un passato mondano, cosicché quasi tut­ te le loro disgrazie avevano come sfondo immediato una rivalità fra uomini. Delle sventure accadute a causa di donne si parlava poco tra quelle montagne, e quel poco sembrava avere più rapporti con un ciclo di leggende che con persone in carne e ossa. Erano anni che non si commettevano violenze, e per quanto riguardava alcuni costumi semibarbari già all’origine di numerosi drammi, si erano estinti da tanto di quel tempo che nessuno ricordava con pre­ cisione in che cosa consistessero. Poi, per più di un decennio, protagonisti di molte notti furono i disor­ dini della guerra. In seguito fu un’altra cosa: il tem­ po dei lamenti era troppo denso per lasciar spazio alle chiacchiere, e 1’esistenza dell’altro sesso si cominciò a sentire quando per la scarsità di combu­ stibile si aprirono nuovi pozzi, negli anni in cui si bruciava di tutto, purché fosse uscito da una minie­ ra. Ma forse, benché ancora lontano, lo spettro della fame si avvicinava di nuovo; c’era già chi passava la serata nella baracca non per scaricare il suo livore contro un padrone dispotico, ma per riposarsi dalla fatica di coltivare un orto nascosto nella macchia, fecondato da un rivolo d’acqua tornata limpida dopo aver sfiorato le funebri montagne di detriti di 64

schlämm stabilizzato; pareva che, dopo un periodo di incubo industriale, stesse spuntando una sorta di alba contadina, scardinata dalla memoria e stordita da inquietudini che venivano ad aggiungersi alla stanchezza precedente. Questo era il guaio: che la fame, la guerra, la politica e perfino le donne ave­ vano accumulato tanti di quei drammi e tante di quelle colpe che in qualunque momento le vittime sarebbero potute tornare reclamando un risarci­ mento a cui non avevano diritto, o superiore al dovuto, semplicemente a causa dell’oblio. Sicché poco dopo aver abbracciato l’astinenza cominciò a ricordarsi che qualcuno doveva tornare, a reclamare giustizia o anche solo a esigere il suo, ma più di tanto non riuscì a chiarire. Non era in grado di ricordare chi né perché; magari sua figlia, o colei che doveva considerare tale, benché non lo fosse, o quello che ne era il vero padre. Per questo il penitente si vede­ va obbligato a sapere tutto di chi si avvicinava alla baracca, per accertarsi che non venisse a reclamare qualcosa di suo, perduto nell’oblio. Insomma pote­ vano chiedergli ciò che volevano, purché non pre­ tendessero nulla. Eccq perché lo irritò che quello gli chiedesse se poteva dormire lì. Nella valle tutti sapevano che si poteva dormire lì quante notti si volesse. Sembrava venire da quell’epoca così lontana, prima della guer­ ra e dei drammi familiari: intollerabilmente inop­ portuno, e anche un po’ menagramo. Si vedeva che in vita sua non aveva mai speso un soldo in rinfre­ schi e che da molti anni non faceva un pasto decen­ te. L’età dei suoi vestiti lo denunciava, così come una certa alterigia non confacente a chi passava da quel­ le parti per una dormita, una bella chiacchierata col penitente, o un po’ della sua cena. Anche se non l’aveva mai visto, a Abdón bastava un primo esame sommario per capire che cosa poteva portare uno sconosciuto fin lassù: quasi sempre era un piccolo prestito, avallato dal nome di un amico comune, che

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Abdón avrebbe concesso a denti stretti non senza lasciar passare un paio d’ore ad attizzare il fuoco o a rimestare la pietanza per dar tempo allo sconosciuto di offrirgli ogni genere di garanzie, due ore in capo alle quali - quando l’altro già non sperava più e si preparava ad andarsene lamentando la perdita di tempo - gli avrebbe proposto la metà della cifra, per ritirare l’offerta alla prima protesta o arrotondarla di un venti per cento se veniva accettata con buona volontà, sapendo che l’aumento costituiva il miglior modo per assicurarsi una gratitudine che, più del­ l’ammontare del prestito, era garanzia di restituzio­ ne. Ma quell’uomo non presentava nessuno dei trat­ ti a lui noti. Saltava agli occhi che non aveva un soldo in tasca, ma non accennò né al denaro, né ai tempi duri, né alla rovina della valle né alla disoccupazio­ ne. Non aveva mai lavorato in miniera e le sue unghie erano troppo lunghe. Si fermò davanti a tut­ te le stanze della baracca e alla fine ne scelse una in fondo al corridoio, vicina a quella di Abdón, dove si chiuse per tutta la sera, la notte, la mattina e il pomeriggio seguenti. Verso il tramonto il penitente — un po’ incuriosito — si avvicinò a quella stanza e appoggiò l’orecchio sulla porta. Non l’aveva mai fat­ to: almeno, non ricordava di averlo fatto mai, e ancora una volta ebbe paura di aver violato le clau­ sole dell’oblio e di dover quindi affrontare una situazione a cui non era preparato. Perché riguardo alla preparazione il penitente presumeva di sapere tutto. Non sentì niente e cominciò a temere una disgra­ zia. Quella sera il penitente fu visitato da un paio di compagni che gli portarono una lepre appena incappata in una delle sue tagliole. Stava ancora spellandola quando, interrompendo la conversazio­ ne dei tre, il nuovo inquilino comparve nel vano del­ la porta. Uno dei due uomini si alzò subito, senza sapere perché. Anche l’altro si incantò a guardarlo. Lo sconosciuto fece un giretto intorno alla baracca e 66

i due approfittarono di quel momento per conge­ darsi precipitosamente da Abdón, che rimase sul gradino con la lepre in mano, un po’ sconcertato da una decisione così improvvisa. Quando lo sconosciu­ to tornò, Abdón era di nuovo solo, intento a rime­ stare il brodo nella pentola e a ravvivare la brace di carbone vegetale; la lepre spellata era sopra la grati­ cola, con un bel po’ di aglio e rosmarino infilzati nel lombo e nel costato. Poi con un dito ci spalmò sopra un po’ di grasso, la cosparse di aceto e la sistemò meglio sulla graticola. «Lepre alla cacciatora, le piace?» domandò Abdón senza perdere d’occhio la pentola. «No» disse lo sconosciuto. «È troppo fresca» disse Abdón. «Era meglio farla domani». Quando tornò vicino al fuoco, pulendosi un cuc­ chiaio di ottone sui calzoni, l’altro si era impadronito del suo posto e alla luce del fuoco stava leggendo un foglio di giornale vecchio che aveva trovato sul pavi­ mento del corridoio. «Tenga» disse Abdón, offrendogli il cucchiaio di ottone. « Non mi va » rispose l’altro, senza smettere di rigi­ rare fra le mani il foglio spiegazzato e rotto e senza neanche guardare che cosa gli offriva Abdón. Que­ sti prese la pentola proteggendosi le mani con un panno sporco, assaggiò una cucchiaiata a piccoli sor­ si e senza fare commenti la rimise sul fuoco, dopo aver osservato le stelle, impaziente di finire di cuo­ cere la minestra per cominciare ad arrostire la lepre. « Ci vuole ancora qualche minuto. Le patate sono un po’ dure » disse in tono di scusa. L’altro non rispose, si limitò a girare la testa per dare alla pentola un’occhiata di sbieco, come fosse un’intrusa. Era il momento più adatto - un’attesa di alcuni minuti destinati a diventare una buona mez­ z’ora - per chiedergli il motivo che l’aveva condotto da quelle parti, ma Abdón se ne astenne perché

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qualcosa gli faceva sospettare che avrebbe ricevuto una risposta sgarbata. Forse, si disse, la maniera migliore per guadagnarsi la sua fiducia consisteva nell’unire l’ospitalità con la massima discrezione, senza andare a scoperchiare la scatola dei ricordi. L’altro sembrò leggergli nel pensiero perché, del tutto incongruamente, dichiarò: «Un buco sperduto nella montagna». Tipi così non si vedevano da vent’anni, ossia da quando avevano chiuso le terme e la montagna si era svuotata di gitanti, alpinisti e geologi. Era pro­ prio quello che sembrava: un esemplare di venti o quarantanni addietro, formato coi medesimi carat­ teri e attributi di quelli di oggi eppure, come un giornale vecchio, involontariamente e indefinibil­ mente fuori posto, e per giunta ironico, cinico e bugiardo, poco furbo e inattendibile, capace di gal­ leggiare indenne per la leggerezza del suo anacroni­ smo sul turbine di nomi e notizie e vicende attuali, come un manifesto dell’inalterabile e granitica com­ posizione della storia, formata da sostanze semplici in proporzioni invariabili. Cosicché non aveva età, soltanto quella quarantina amorfa, che non è né gio­ vinezza né maturità né vecchiaia ma solo età, priva di qualunque divenire e sprovvista di passato quanto di futuro, sul punto di svanire in un inesplicabile scarto dei giorni eppure dotata di una segreta e degenerata perseveranza estranea ai cambiamenti e immune dalla decadenza. Alla fine Abdón tolse la pentola dal fuoco e ci mise sopra la graticola con la lepre tagliata per il lungo in due parti uguali. «Coraggio! » disse posando la pentola sul gradino in mezzo a loro. Lasciò accanto ad essa il cucchiaio di ottone e introdusse il suo nella pentola per assaggia­ re il brodo con piccoli sorsi rumorosi che l’altro, con evidenti segni di fastidio, disapprovò. «Non c’è male» insisté. 68

Quando Abdón si alzò a girare le due metà della lepre, l’altro prese il cucchiaio, lo riempì di minestra e lo tenne a lungo in aria per farlo raffreddare. Alla fine, come se avesse dovuto vincere una sorta di ripugnanza, accostò le labbra all’orlo del cucchiaio e assaggiò il brodo con un risucchio più fragoroso di quelli di Abdón. Prima fece qualche cenno negativo con la testa, poi vuotò il cucchiaio, assaporò il brodo e per finire sputò tutto quello che aveva in bocca con un gesto di ostentato disgusto. « Mangiare da maiali » disse riprendendo in mano il vecchio foglio di giornale. Abdón tornò a sedersi sul gradino e si mise la pen­ tola fra le ginocchia, proteggendosi dal calore con lo stesso panno sudicio, deciso a non far caso alle paro­ le dell’altro e a ingollarne tutto il contenuto. L’altro lasciò da parte il giornale e si spostò per sedersi ai piedi di Abdón, su un gradino più basso, e di nuovo mise il cucchiaio nella pentola mentre Abdón masti­ cava un pezzo di patata e lo guardava senza irritazio­ ne né stupore e neanche cautela, concentrato unica­ mente sul boccone. «E proprio un mangiare da animali, da porci» insiste quello. I due cucchiai si urtarono sul fondo della pentola, alla ricerca dei pezzi di patata. L’altro spinse via quello di Abdón per rubargli le patate che aveva cat­ turato, e se ne mise una in bocca brontolando. «Non ci sono più princìpi» disse mentre masti­ cava. « Certo che no » confermò Abdón, continuando a masticare. « Gli uomini si comportano come bestie » disse l’al­ tro, facendo fare al cucchiaio un ultimo giro in fon­ do alla pentola. « Non si rispettano le leggi » disse Abdón inclinan­ do la pentola per raccogliere quel che restava del brodo.

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«La terra non riconosce i suoi padroni» sentenziò l’altro immergendo il cucchiaio per l’ultima volta. « La legge del più forte » disse Abdón e strinse le ginocchia, rimettendo la pentola in posizione oriz­ zontale; poi tentò di rimetterci dentro il cucchiaio ma l’altro glielo impedì. « Io preferisco la legge del più debole » disse affer­ randogli il polso per bloccarlo e di nuovo inclinò la pentola per vedere cosa c’era sul fondo. Poi gliela tolse dalle ginocchia e rovesciò il poco che restava lontano dal fuoco. « Bada di non bruciare la carne » ordinò pulendosi la bocca col dorso della mano. «Mangiare da porci» ripetè. «Ti avverto, non sono venuto qui per questo. Sarà l’ultima volta che te lo dico. Non mi piace ripetere gli ordini, aborro la menzogna. Ti avverto, la terra tornerà ai suoi padroni e tu vivrai abbastanza da vederlo, se fai il tuo dovere. Guarda un po’ com’è ’sta lepre». Quando Abdón ne prese una metà per sé, l’altro lo guardò con riprovazione. «Tutto è cambiato» disse «ma ti avverto, tutto tornerà come prima. Me ne incaricherò io» disse divorando la lepre a grandi bocconi. Abdón ebbe un brutto presentimento e cominciò a mangiare, sco­ prendosi di colpo inappetente. Pensò che il momen­ to era venuto, che le particelle di un’emulsione remota e dimenticata andavano precipitando verso un imminente disastro. L’altro rosicchiava la coscia della lepre fino a lasciare l’osso pulito. «La terra si è stancata dei lavoratori, della legge dei deboli » disse, per aggiungere dopo una pausa in cui finì avidamente la lepre: «Guarda me, per esempio». Abdón lo guardò, ma non per ubbidire all’ordine. Gli offrì metà di quanto gli restava della lepre e l’al­ tro se la mangiò in un paio di bocconi. Senza finire 70

la sua porzione Abdón entrò nella baracca e tornò con in mano due mandarini. «Sono buoni. Un po’ aspri ma buoni». L’altro li prese entrambi. «Sono venuto solo per quello che è mio» disse sbucciando il primo mandarino che poi divise in due metà e trangugiò in due bocconi, il secondo prima ancora di aver deglutito il primo: «E tu lo sai. Tutti lo sanno, io aborro la menzogna». A differenza dell’altro, Abdón raccolse gli avanzi della lepre e del mandarino e li mise nella pentola, e solo quando ebbe finito gli domandò: «E cos’è che è tuo?». «Tutto quello che mi appartiene». « E molto? » domandò Abdón. «Molto» disse l’altro. «Tutto questo mi appartie­ ne» soggiunse senza indicare niente di particolare neanche con gli occhi. «E anch’io vi appartengo. Anche tu. La terra è stufa di lavorare». « I tempi non sono buoni » sentenziò Abdón. « I tempi non sono né buoni né cattivi » ribattè l’al­ tro. «Non sono niente. Il tempo non c’è più». «Il paese è una gran cosa» disse Abdón. «Come no» rispose il forestiero. «Troppo gran­ de». « Il nostro paese è grande » disse Abdón guardan­ do il fuoco. « Grandissimo, troppo grande » sottolineò il fore­ stiero. «Non ha bisogno di nessuno, il nostro paese». « Di nessuno, neanche di me » concesse l’altro. « E come Canaan». «Canaan?» domandò Abdón, per la prima volta sorpreso. Poi si riprese, e per fare ammenda della sua ignoranza nonché per evitare mali peggiori dis­ se: «Eh già, Canaan». « A proposito » osservò lo sconosciuto. « Non è che ti è rimasta un po’ di castillazaì ». «Di che cosa?».

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« Castillaza, mi risulta che da queste parti la grap­ pa si chiama così. Voglio dire grappa». «Grappa. Già, castillaza» disse il penitente senza poter celare un certo tremore. «Credo che in una bottiglia ce ne sia rimasta un po’. Chissà quanti anni ha». «Meglio ancora» disse il forestiero. «Vediamo un po’ com’è questo liquore». «Vado a prenderla» disse Abdón alzandosi per cercare la grappa. Ma prima di sparire dentro la baracca si fermò, un po’ tremante, sentendo il fore­ stiero dire quello che aveva tanto temuto: «Sono tornato perché dovevo tornare. Per recu­ perare quello che è mio».

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OTTOBRE

« Da quanto ti ho detto » disse la signora « penserai che in questi anni io non abbia fatto altro che badare a un aspetto dei miei affari per disinteressarmi di tutti quelli che in ogni casa e in ogni famiglia si con­ siderano i principali. Che, insomma, e per via di cer­ ti miei limiti dei quali fin da giovanissima sono stata consapevole, dopo aver compreso l’incompatibilità delle due nature che si annidano in me, abbia deciso di sradicarne una, per evitare il conflitto e godere della pace che il completo dominio dell’altra sulla mia persona poteva procurarmi. E un modo di vedere le cose un po’ osceno, che non discuto possa essere efficace per fare di me un ritratto succinto, ma che non mi serve a un bel niente. Nessuno vede se stesso in maniera oscena e nessuno può acconten­ tarsi del ritratto psicologico che gli viene dall’ester­ no, ancorché sia il più lusinghiero. Se di qualcosa mi sento soddisfatta, è del riserbo con cui ho ricevuto e accettato i non pochi omaggi che mi sono stati tribu­ tati in questi anni, e di aver badato poco, al momen­ to di prendere decisioni, alle opinioni altrui e ai buo­

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ni consigli degli amici. In un mondo in cui analogie e precedenti sono tutto, in cui linguaggio e intelletto non lasciano spazio all’eccezione, l’unica cosa ele­ gante che l’io può fare è tacere di sé e disdegnare nell’intimo le definizioni che sulla sua natura gli vengono dall’esterno. Definire, lessi una volta, è diffidare. Quasi mi azzardo ad andare più in là: definire è disprezzare». « E venire a patti, sospendere la lotta » commentò la nipote. La signora la guardò, si alzò e si avvicinò alla vetrata. Stava calando la sera, una sera fredda di mezzo autunno; gli alberi avevano perduto le foglie e fin da prima del crepuscolo la pianura si era coperta di quelle discrete imbibizioni metalliche (miniati i letti dei torrenti e cromato il fiume, galva­ nizzati i maggesi, l’oriente brunito) con cui sembra proteggersi in anticipo dall’incalzare degli attacchi del vicino inverno. Per un bel po’, stringendo in mano le falde dello scialle di lana cruda, restò a con­ templare la luce calante, fino allo sfumare dei pro­ fili, con quella fissità, richiesta da ogni paesaggio troppo familiare, in cui si esprime una fedeltà che si manifesta solo in brevi e isolati momenti di vuoto. Prima di tornare a sedersi disse: « Anche supponendo che sia così, chi sarà capace di descrivere e affrontare questa lunga lotta di ster­ minio? chi può presumere di badare in ogni momento alle esigenze e alle richieste della propria ragione? chi non brama la pace dello spirito a qua­ lunque costo, anche a costo dell’abbrutimento? Chi possa pretendere di aver scelto questo e scartato quello potrà spiegarmi con la stessa semplicità come si sopporta una mutilazione così drastica? Perché io sto parlando di un membro la cui assenza, dopo l’amputazione, si fa sentire con più insistenza e intensità che la presenza di quello vivo, e il cui vuoto può creare una norma che domina tutto il resto, come quell’idealizzato primogenito perduto nel fio­

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re dell’età il cui esempio informerà l’educazione di tutti i rampolli successivi. La salute è incoscienza e il presente non forma, solo un tempo che non c’è dà da pensare e la parte più sensibile dell’anima si diri­ ge sempre verso ciò che ha perduto. E poi: che forza e che perseveranza non dovrà essere tratta da una supponiamo che tale essa sia - ferma volontà di con­ durre a termine un’operazione così sanguinosa, che occorre ripetere ogni giorno perché quel membro troncato, se davvero è una parte costitutiva dell’ani­ ma, rinasce tutte le notti e nel volgere di un dormi­ veglia è in grado di riassumere la sua piena forma adulta per esigere la reintegrazione nel suo posto legittimo, il quale non fu neanche sconsideratamen­ te occupato da un altro, ma legalmente occupato da un vuoto, in totale dispregio di ogni legge del cor­ po? No, nessuno verrà a raccontarmi la mia storia, e se finora non l’ho scritta è precisamente perché chi so io possa leggerla un giorno in caratteri molto più sottili di quelli che la mia torpida mano sappia scara­ bocchiare: nell’alfabeto non stampabile della conni­ venza, con la lingua muta di un’intesa reciproca che se un giorno fu perfetta imparò una volta per sem­ pre e in un solo istante tutta la grammatica necessa­ ria per capire ed essere capiti al primo sguardo». «E ciò che ho sempre detto, zia» interloquì la nipote. «Non te l’avevo mai sentito dire» replicò la si­ gnora. «E che l’ho sempre detto nella e con la lingua muta di un’intesa reciproca». « E cos’è che hai sempre detto in questa lingua così particolare che non me lo ricordo già più?». « Ho detto: le coeur a son ordre, l’esprit a le sien». «Traduci un po’». «Significa dire pane al pane e vino al vino». «Sei sicura che voglia dire questo?». « Ne sono convinta, zia. Cioè, sono convinta che è la miglior traduzione possibile nella lingua muta dell’intesa reciproca. In altre parole...».

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« Va bene, ho capito» tagliò corto la signora facen­ do scorrere le tende della vetrata. Un sospetto le attraversò la mente - come un fulmine lontano, sen­ za rumore, senza promessa di ripetizione: che sua nipote potesse avere un doppiofondo (dove teneva l’ironia), e si ripromise di non dar credito a una simi­ le possibilità. Accese la lampada e nel passare accan­ to alla nipote le regalò un’occhiata di traverso, come quella che si rivolge a un cane fedele e sempre fasti­ dioso. «Non ho mai preso una decisione contro di lui, questo posso affermarlo con certezza» continuò la signora, adottando una dizione lenta e sincopata per scongiurare nei limiti del possibile le interruzioni della nipote. « Mai. Perciò stesso tenderei a pensare il contrario, timorosa come sono, sempre, di even­ tuali conseguenze le cui ultime ramificazioni sfug­ girebbero alla mia vista, e di certo alle mie intenzio­ ni. Perché ben presto capii, nelle sciagurate circo­ stanze che seguirono la scoperta della barbara usanza che doveva precedere la nostra unione, che essendo io la causa del mio furore, contro di me dovevo dirigerlo se desideravo giovarmene, e non solo per ristabilire la pace (la mia pace, potrei aggiungere) ma piuttosto per escludere lui da un fiume di sentimenti che poteva trascinarci a mali maggiori, e per lasciarlo libero di cercare da sé la strada della soluzione. Perché lui era innocente, continuo a crederlo, benché fosse il primo attore di quella tragica pantomima, e senza dubbio non gli era mai passato per la testa che la messa in scena di una tradizione della quale, naturalmente, aveva sol­ tanto sentito parlare, e a cui non accordava più importanza di quanta se ne può attribuire a un qua­ lunque motto o simbolo brutale che orni il blasone familiare, avrebbe costituito per me la prova del fuoco della nostra unione, fino al punto di costrin­ gerlo a scegliere tra la sua famiglia e me. Ma non la famiglia nel cui seno era vissuto ed era stato educa-

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to, che era suo obbligo perpetuare attraverso la nostra unione: l’alternativa si poneva invece tra me e la famiglia che io stessa ero. Perché a partire da quella notte atroce la sua famiglia ero io, e lo costrin­ gevo a scegliere tra me e me, una scelta così contrad­ dittoria e lacerante che non poteva essere risolta neanche fuggendo come un Caino che porti con sé il marchio e la maledizione di tutta la sua progenie. Sì, era un gioco molto rischioso, così rischioso che anco­ ra oggi temo di aver perduto ed è precisamente que­ sto timore che mi impedisce di rispondere al mes­ saggero nel modo che senza dubbio egli spera e desi­ dera. Dall’esterno si potrebbe interpretare il mio atteggiamento nei riguardi del messaggero come una risposta dell’amor proprio verso - diciamo così — il reiterato tentativo di corruzione mediante il qua­ le si vorrebbe vincere una posizione intransigente con lo specchietto per allodole di un beneficio sostanziale per tutti coloro che sono coinvolti nel dramma. Se così fosse, se questo specchietto per allodole fosse veramente convincente e fosse riuscito a persuadermi che da un mio mutato atteggiamento deriverebbe quel beneficio tanto sperato, avrei ceduto da un pezzo, abdicando alla mia intransigen­ za. Temo invece che in questa vicenda la Provviden­ za mi abbia investito di un molteplice ruolo — prima vittima, poi giudice, e forse carnefice — che mi obbliga a farmi carico delle responsabilità inerenti a un gesto che altri credono possa concludere il dram­ ma mentre, a mio giudizio, ne inaugurerebbe un altro, ancora più doloroso e insolubile. Perché la felicità e la sventura ammettono gradazioni, il dub­ bio invece no. L’incertezza educa lo spirito in modo tale da non permettergli di abbandonarla, abituan­ dolo a temere più l’ipotetico stato che si produrrà dopo l’evento avverso che un’ipnotica miscela che ha come ingrediente la speranza». «Io non credo» interruppe la nipote.

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« Che cosa non credi? » domandò la signora, nuo­ vamente colta alla sprovvista e un po’ mortificata. « Non credo in questo potere sonnifero dell’incer­ tezza mentre intorno rumoreggia il destino» disse con gravità la nipote, senza smettere di guardarsi le ginocchia. « Come hai detto? Com’è l’ultima frase? » doman­ dò di nuovo la signora, costretta a mettere da parte l’irritazione per far posto alla curiosità. «... intorno rumoreggia il destino» ripetè la ni­ pote. La signora respirò tranquillizzata, invasa da quel misto di delusione e di sollievo prodotto in noi dalla rilettura di un verso che alla prima, un po’ affrettata lettura ci aveva fatto sussultare l’animo come per l’impressione di una scoperta di prim’ordine, poco meno che svanita, poi, e relegata nel campo delle volgarità, dopo un esame più approfondito. «Vedo bene che lo dici senza convinzione, e non credi a quello che dici di credere. Non solo, ma lo dici senza altro intento se non quello di interrom­ permi e di irritarmi, per farmi perdere il filo del discorso e allontanare il più possibile la conclusione a cui voglio arrivare. Non so perché lo fai, non so a che cosa attribuire questa politica. Avrai anche delle buone intenzioni — non dico di no -, magari temi di dover condividere certe conclusioni che mi avvilisco­ no ancor prima di esserci arrivata, fino al punto di aver sempre opposto resistenza a imbarcarmi in una confessione tanto grave, nel timore di arrivare a una conclusione ben diversa da quella che desideravo. Ma poiché mi sono decisa a farla non riuscirai a fer­ marmi né a impedirmi, per quante arguzie tu riesca a escogitare, di arrivare alla visione dell’oggetto che per tanto tempo ho preferito mantenere nella penombra. D’altra parte devo dirti, perché tu possa giovartene in altre occasioni se vorrai perseverare in questa brutta abitudine di interrompermi con postil­ le impertinenti, che scegli male le tue obiezioni ai 78

pochi princìpi che ho ben saldi, avendoli dedotti da una osservazione costante e multiforme, e non da un disprezzabile dato della memoria. Qui sì, qui ti permetto ogni sorta di licenze perché me le permet­ to anch’io, convinta come sono più di chiunque che i suoi dati irriverenti vanno falsificati giorno per giorno se si vuole utilizzarla come una facoltà. Per­ ché ciò che accadde non è che l’ombra di ciò che è accaduto». «La memoria è sacra, zia» osservò la nipote. « E dàgli con le tue considerazioni. Ti stavo dicen­ do, quando mi hai interrotta (e nota bene che non perdo il filo del discorso), che mediante l’incertezza il terrore dell’avversità è sostituito dal timore, sensa­ zione più tollerabile, con cui si può venire a patti. Patti abbastanza prolissi e sufficientemente poco definitivi da durare nel tempo, e allontanare per sempre il terrore. Sì, rischioso, molto rischioso: magari anche solo perché, da un altro punto di vista, diverso dal mio, si poteva interpretare — e non si davano interpretazioni più convincenti - che io vol­ tavo le spalle, delusa dal risultato, a quella sciagurata vicenda e invece di cercare consolazione in una rivalsa o in una avventura dello stesso genere o nella disposizione a rifarmi una vita, sceglievo di amputa­ re dalla mia personalità la parte che era stata soggio­ gata da lui, per dedicarmi in seguito ad affari di indole molto diversa e, per così dire, molto meno appassionanti. Di simili casi la nostra terra e la nostra razza sono piene, e perché io dovevo essere diversa? Non mi importava niente di quello che dicevano, nemmeno se lo dicevano senza rancore, o senza dispetto; che cosa poteva mai importarmi che qua e là il mio caso venisse bollato con un’etichetta arcinota, visto che in cambio acquistavo, più che la libertà, l’agio - quasi indisturbato e difeso dal rispet­ to di chi mi attribuiva un carattere la cui debolezza era molto lontano dall’indovinare — necessario per tracciare la mia strada senza curarmi di alcun com­

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promesso sociale. Pur non essendo pienamente cosciente del suo potere, mi resi conto di essere for­ te. Dalla sera alla mattina ero entrata in un chiostro, non difeso da mura o da inferriate, né sanzionato da voto alcuno, ma protetto solo da quella effervescen­ za del vuoto, da quell’assenza di atmosfera che è propria del corpo formato esclusivamente di metalli nobili allorché velocemente si libera dal turbine di polvere che lo generò nel momento di massima incandescenza. Ricordo benissimo il loro sguardo quando mi videro entrare; tutta la loro forza con­ giunta — la più possente allora immaginabile da que­ sta parte delle montagne - non sarebbe bastata a farmi restare in quel luogo né, a maggior ragione, a farlo tornare tra loro. Lo capirono subito tutti e per­ ciò non mossero un muscolo nel vano tentativo di trattenermi. « L’immagine resta impressa nella memoria (con i ritocchi necessari per adeguarla ai sentimenti di oggi), intollerabilmente fissa, padrona e depositaria del valore che costantemente esige riconoscimento, rispetto e sottomissione alla sua superiore gerarchia. E un emblema. Sono tutti raggruppati dietro la tavola - una tavola molto grande, imbandita per il banchetto - come un tribunale al momento di pro­ nunciare la sentenza; certi si sono alzati in piedi qua­ si obbedendo a un rituale confusamente avvertito. Alcuni giovani, altri maturi e un paio di anziani; dei bambini, e in fondo al tavolo una di quelle vecchie che - nei quadri di corte come nelle stampe di scene popolari - guardano dall’altra parte perché, non sapendo esattamente di che cosa si tratti, cercano di ricordare le minute occupazioni da cui sono state distolte, magari la ricerca di una forcina. Alcuni sono alti, altri bassi, alcuni sono in abito di gala, altri sono vestiti alla contadina, con qualche fronzolo fuori dall’ordinario; non si raccolgono intorno a una figura centrale — giacché il capofamiglia non è pre­ sente - e una ragazza in gonna lunga alza gli occhi

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sulla chioma increspata di un patriarca di villaggio. Più che una famiglia si direbbe un plotone di volon­ tari radunato frettolosamente con madri, spose e hglie prima di partire per una caccia sui monti o al ritorno da una guerra contro l’invasore, per celebra­ re l’indipendenza appena conquistata: erano gli Amat. « Sapevo benissimo che da quel momento i nostri conti si sarebbero saldati in silenzio. Non pronuncia­ rono nemmeno la sentenza, perché non gliene diedi il tempo, anticipando la decisione e abbandonando la sala del banchetto nel momento stesso in cui attri­ buivo a lui la responsabilità dell’oltraggio, ma anche perché difettavano della benché minima capacità di considerare le due alternative che persino la giusti­ zia più rozza e corrotta deve presentare al popolo affinché le proprie decisioni abbiano quanto meno l’apparenza di un giudizio. Lasciavo loro una sola possibilità: la mia colpa e la sua fuga, ovvero l’estin­ zione della famiglia qual era stata hno ad allora. Io sapevo — forse meglio di loro, che non sospettavano nulla, e non immaginavano neppure lontanamente un simile epilogo - che tutta la famiglia sarebbe bal­ zata in piedi, soffocando in gola un grido unanime di riprovazione, e che prima ancora di essere accusa­ ta sarei stata condannata senza remissione, né rispo­ sta, né supplica, né appello possibile da parte mia. Non poteva esserci per me nessuna speranza di per­ dono: prima di estinguersi dovevano incolparmi. Perché mi avevano prescelta nella ferma convinzio­ ne che senza una protesta - e senza rassegnazione, orgogliosa dell’onore che mi era stato concesso avrei accettato il ruolo che mi avevano assegnato, di sposa e madre di tutti loro. Ma lo capii solo prima di entrare nel salone per presiedere il banchetto insie­ me a lui, nel momento in cui mettevo in bocca un’o­ liva aspettando che un suo zio, in veste di gran ceri­ moniere, venisse a prenderci per accompagnarci nel salone e dare inizio ai festeggiamenti. Ancora non

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mi ero svegliata da quell’infausta notte, in cui venni portata da un letto all’altro, e la mia mente rifiutava di accogliere e accettare il clamore di protesta che veniva da tutti i miei sensi, turbati da ogni genere di emozioni e vapori, finché non mi portai l’oliva alla bocca. Quanto debbo, mi sono detta molte volte, a quel piccolo frutto preparato secondo una ricetta antica e perenne come il reperto più remoto della nostra civiltà; perché nell’attimo in cui mi dava il meglio del suo sapore acidulo e amarognolo, prima che i denti incontrassero il nocciolo, e già vivendo nell’immaginazione la scena che mi aspettava, la lun­ ga teoria di espressioni compiaciute e festanti, ordi­ nate secondo la rustica architettura gerarchica, sen­ tii tutta la vergogna della condizione appena rag­ giunta, tutta l’ignominia di una scelta che non si poteva rifiutare, e capii che, così come l’oliva riser­ vava al suo interno la parte dura e incommestibile destinata soltanto alla germinazione, il clan mi aveva scelta per occupare lo stesso luogo recondito e svol­ gere la stessa misteriosa e occulta funzione del noc­ ciolo, avvolto, soltanto avvolto in quella che sembra­ va carne appetitosa ed era invece destinata a impu­ tridire e a non vedere altra luce né avere altra voce che quella della progenie assassina che sarebbe nata dalla sua reclusione. Per questo non esitai e (con il nocciolo in bocca) mentre andavamo verso il salone gli dissi che non sarei stata sua finché viveva suo padre e che non avrei più commesso incesto, mentre tutti si alzavano in piedi, e che non avrei più messo piede in quella casa di cui già ero signora, mentre uscivamo dal salone e ci incamminavamo verso il ponte, e ben sapevo che alle mie spalle, con la stessa velocità con cui mi allontanavo da loro, avrebbero costruito con materiali immarcescibili il monumento della mia colpa ed emesso il decreto del mio esilio definitivo. Tu mi dirai che con tutto ciò...». « Io dico soltanto, zia, » interruppe la nipote, e la sua voce sembrava il giusto accompagnamento al 82

miele con cui la penultima luce del pomeriggio inondava la stanza «quello che credo di dover dire: gli uomini... ». «... non faccio altro che ingigantire l’importanza di un fatto sciagurato e insolito cui si sarebbe potuto facilmente rimediare se le parti interessate avessero dimostrato la benché minima volontà di mitigarne le conseguenze. E se così non avvenne fu perché, ina­ spettata fin che vuoi, esso costituiva solo la prima manifestazione della cancrena che ci consuma, o che almeno vorremmo ci consumasse. No, non fu un fatto isolato, e nemmeno il trascurabile, sciagurato accidente da cui si origina una tragedia che viene montando di lontano e che poteva ben essere risolta con procedimenti meno barbari. Ma la barbarie era alla radice del conflitto, celata sotto il sacrosanto nome di una tradizione familiare che risaliva a non so quale secolo, tenuta segreta per generazioni, come le dozzine di lenzuola ricamate usate una volta sola nella vita di ogni Amat e dopo quelfunica volta restituite ai cassetti ombrosi dove lisciva e canfora le avrebbero redente dalle stimmate di una notte lubri­ ca. Non ho mai voluto capire quel che accadde, voglio dire analizzarlo, ripercorrerlo con ordine, un evento dopo l’altro, e dedurre da tutta la catena il risultato che mi (o ci) condusse ad abbandonare la casa e la famiglia (con il nocciolo in bocca), nel momento meno opportuno, e che una volta per tut­ te mi fece diventare ciò che dovevo essere, la circo­ spetta destinataria di un messaggio fallace...». «La scintilla che provocò l’incendio». « No, non la scintilla: fu piuttosto la prova del fuo­ co, una strana ordalia non inflitta stavolta al tra­ sgressore di leggi e di costumi sacri bensì a un inno­ cente, come se il popolo che la praticava avesse per­ duto la fede nei suoi dèi pur conservando quella nei frutti e nei benefici del culto e, davanti al risultato negativo della prova, scegliesse di espellere dai loro templi e altari le vecchie divinità, allo scopo di intro83

durne delle nuove - non screditate dall’aver autoriz­ zato speranze eccessive —, e grazie a queste assicurar­ si un futuro non più fosco del presente. Nota che mutevole è il dio e permanente il tempio. Così accadde anche fra noi, innocenti apprendisti di un culto che promise di condurci verso la divinità ma ci lasciò sempre a metà del cammino, nel culto medesi­ mo; forse è proprio questo il maggior mistero della religione, che così intesa non cela alcun inganno, ma soltanto miseria. E chi mi convincerà che nonostante la rottura io non mantengo lo stesso atteggiamento che in chiesa, il raccoglimento paziente richiesto da ogni attesa messianica, e che se ho rotto tutti i vincoli con la famiglia e con l’etica della donna sposata, nel cui ventre si propaga il clan e si nasconde il taberna­ colo della tradizione, non sia stato per afferrare il laccio che da allora mi unisce a tutto ciò che è spari­ to? Si sono estinti, certo, ma io con loro, finché il messaggero non mi costringa senza muovere un dito a convincere me stessa che devo riceverlo, e allora risorgerò. Ah, che beffa crudele, che scandalosa iro­ nia: la donna più ribelle e intransigente che questa terra abbia partorito si disfa di tutti i suoi compro­ messi per tramutarsi infine nella schiava più osse­ quiosa delle leggi che violò. Si mise a correre ed io uscii dietro di lui (con il nocciolo in bocca), non so bene perché: se per trattenerlo, tentare di seguirlo o fuggire anch’io di lì, mentre la famiglia balzava in piedi. Non so se lo chiamai, lanciando la voce di là dal fiume, ma sono sicura che non mi udì e se ne andò senza udirla mai più. E quasi certo che se ne andò senza sapere che me ne andavo anch’io, e anzi immaginasse che restavo, perché accettando le loro condizioni non solo entravo a far parte della fami­ glia, ma ne diventavo il vero capo: sarei stata, insom­ ma, a capo del clan in qualità di principio germinale del medesimo, la nuova Betsabea il cui figlio avreb­ be occupato il trono di Davide. Arrivata al ponte (avevo ancora il nocciolo in bocca) capii che non 84

potevo seguirlo - benché sapessi benissimo che stra­ da aveva preso, verso la valle — perché sebbene entrambi fuggissimo a causa dello stesso accadimen­ to le ragioni della nostra fuga erano molto diverse, e se nel migliore dei casi la nostra comune intenzione era fare tutto il possibile per cancellarne le conse­ guenze, al fine di tornare un giorno a incontrarci, senza dubbio dovevamo arrivarci ognuno per suo conto, lungo una via che prima che per ogni altro luogo passava dentro ciascuno di noi. Ma è soltanto una supposizione perché quando varcai il muro di cinta (aprendo il cancello con gran delicatezza, deci­ sa a non fare nessun genere di violenza - e certo un tal profetico garbo mi fu ispirato dal nocciolo di oli­ va) intuii che mi allontanavo sospinta non dal furore ma dalla forza, non dal desiderio di vendetta ma dall’ambizione, non dall’orrore per la loro barbarie ma dal disprezzo per la loro debolezza, insomma da tutto quello che dovevo occultare e dissimulare sotto le vesti sempre comode, ben tagliate e confortevoli della virtù offesa. Pertanto dovevo supporre che egli avrebbe voluto un giorno incontrarmi di nuovo, dopo essere stato informato nel suo esilio che anch’io ero sparita da lì pochi minuti dopo; ma era un’ipotesi che nell’intimo della mia coscienza dovevo mettere costantemente in dubbio - quantunque fos­ se l’unica che mi indicasse qual era la mia strada, l’unica che aiutandomi a perseverare nella decisione avrebbe potuto ricondurmi al suo fianco il giorno in cui egli capisse (da solo, assolutamente da solo) la grandezza e l’intenzione di una tale perseveranza —, alla quale però non potevo attribuire, all’infuori che con me stessa, la benché minima validità o verosimi­ glianza, e di cui non mi era quindi permesso lasciar trapelare il benché minimo indizio». «Come ti spieghi bene, zia, e come ti capisco bene » osservò la nipote meditando forse di contrad­ dirla o di infliggerle qualche lungo inciso di ripro­ vazione.

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« Seppi a quell’epoca, » proseguì la signora « o intorno a quell’epoca, che l’individuo realizza la miglior armonia con i propri intenti allorché li con­ cepisce e li mette in atto nel silenzio e nel segreto, e non li comunica a nessuno, nemmeno ai più intimi; e che anche la soddisfazione, per essere completa e coerente con i suoi princìpi, alla fine deve essere taciuta; e questo a volte m’induce a pensare che la storia della nostra razza e del nostro paese potreb­ be essere in realtà molto più invidiabile di quanto si dice e si crede, perché si racconta solo quello che per il fatto di essere insoddisfacente è ammesso in maggiore o minor grado a venir condiviso, mentre un intimo e incomunicabile residuo di pienezza, restio a essere trasmesso mediante la parola e inac­ cessibile a ogni esame, resterà sempre velato da un pudore che si estende perfino ai rapporti con l’esse­ re amato». « Proprio di questo volevo parlare, » interruppe la nipote «perché sull’essere amato ho alcune idee interessanti e, a mio parere, anche abbastanza origi­ nali». «Procura» rispose la signora con calma ma con evidente fastidio, forse causato dal vedersi costretta a introdurre un inciso «di avere sull’essere amato meno idee che puoi; non sono molto portata a dare consigli, tanto meno a te, ma questo è uno che non posso risparmiarti». « Certamente, zia, » ribattè la nipote con un certo ardore, alzando il mento e tendendo il collo e la gon­ na «pure è imprescindibile avere un’idea sintetica dell’essere amato». «Sintetica hai detto?» domandò la signora, mossa ancora una volta da uno stupore che preferiva non manifestare. «Sì, ho detto sintetica. E esattamente quello che ho detto: sintetica». «Già, già» disse la signora. «Forse hai ragione. Non voglio discuterlo. Io non ho mai sintetizzato.

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No, credo proprio di non aver mai sintetizzato e perciò non posso discutere i vantaggi che possono esserci nel sintetizzare l’essere amato». « Io non ho mica detto che bisogna sintetizzare l’essere amato; ho detto soltanto che bisogna averne un’idea sintetica». « Come si fa ad averne un’idea sintetica se prima non lo si sintetizza? Ma ti ripeto che non intendo discutere di questo perché a malapena so cosa vuol dire sintetizzare o avere un’idea sintetica di qualun­ que cosa, sia essa amata o no. Però anche se lo sinte­ tizzi consentimi di dirti una cosa: sintetizzato o non sintetizzato lascia in pace l’essere amato; che tu ce l’abbia o no, lascialo in pace. So già che in un certo qual modo » proseguì la signora con fermezza e con una certa precipitazione, anticipando la risposta che la nipote si era preparata e che restò nell’aria, in uno scorcio ridicolmente araldico della sua testa « mi tro­ vo a fare l’apologià di un riserbo che, per le norme generali della nostra educazione, può facilmente degenerare; perché secondo queste norme, se non usiamo verso il prossimo, sempre e comunque, lo stesso trattamento che riserviamo a noi stessi, stiamo bussando alla porta del male. Ogni norma generale è una semplificazione, e la morale deve partire da un considerevole - e a volte stravagante - disprezzo dell’intimità del pensiero, cosa che (come direbbe quell’inglese che abitò in questa casa diversi anni fa) è quanto meno discutibile. Ma ogni morale è bru­ tale, non può prendere in considerazione i partico­ lari, e toglie sempre qualcosa alfindividuo perché per apparentarlo o affratellarlo al suo simile è necessario prescindere da ciò che non ha in comune con lui. E non è questa precisamente la sua indivi­ dualità? E non è, in fondo, l’unica cosa che ha? Non dico la più preziosa, ma l’unica cosa sua, quella che essendo in guerra permanente con la legge gli per­ mette di accettarla e di obbedire al codice grazie a una sorta di tradimento clandestino, alla vendita 8Ί

simoniaca quotidiana dei suoi più inalienabili princì­ pi. Oh no, non esistono modi di essere della perso­ nalità che possano incanalarsi pienamente nelle nor­ me della morale, questo è solo un arbitrio per elude­ re un’opposizione insanabile e insostenibile. Nei miei momenti di ozio ho frequentato alcuni autori, soprattutto dell’Antichità, che meditarono sulle diverse vie che si offrono all’uomo per raggiungere la felicità - parola già di per sé fastidiosa ed esaspe­ rante, che cessa di far danno soltanto se la si banaliz­ za usandola con una certa frequenza: tutto invita a voltarle le spalle e solo i moralisti sono capaci di sop­ portarla. I moralisti sono come i conciatori e i tinto­ ri, abituati e immunizzati agli acidi e alle aniline più nauseabonde, sempre con le dita macchiate per ven­ dere una mercanzia impeccabile. Ma io mi chiedo: come si può far derivare la felicità dagli atti? e per­ ché? per benedire questo atto e maledire quello? e a che può servire una tale felicità se per conservarla bisogna continuare ad agire? No, preferisco non parlare di questo, ma non vorrei ti mettessi in testa che io - a causa di una esistenza ricca certo di soddi­ sfazioni eppure amareggiata da un dispiacere molto particolare - mi limito a respingere tutte quelle dot­ trine da cui è possibile inferire norme efficaci che seguite alla lettera assicurano la beatitudine: ti dirò dunque che non posso credere in una condizione biologica di felicità che vede nell’atto l’agente semi­ nale capace di fecondare una matrice di per sé insufficiente a generarla; che ogni pienezza prove­ niente dal di fuori ha il suo rovescio e che per me una specie di verginità sconfinata rinasce al mo­ mento deH’acme; che possiedo una concezione an­ drogina del destino; che ogni comportamento rego­ lato da un “fai questo e non fare quello” può porta­ re tanto all’euforia quanto alla malinconia, e che questa armonia con se stessi, che non preserva nem­ meno dal dolore, in se stessi si esaurisce — cascasse

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il mondo -, per cui sarà tanto più capace di conse­ guirla chi — distraendolo, reprimendolo, non con­ cedendogli un momento di attenzione, lasciando che si spenga - sappia mettere a tacere il suo scon­ tento».

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GIUGNO

«In che posso servirla?» domandò, osservandolo da sopra le lenti degli occhiali calati sulla punta del naso. Il cliente non rispose, era di bassa statura. Aveva preso da uno scaffale una camicia avvolta in un foglio di cellophane e cercava l’etichetta cucita nel colletto. Si avvicinò alla porta per avere più luce e poter leggere il prezzo a braccia tese: dopo di che la rimise a posto e ne prese un’altra, celeste a righine bianche. Pensò allora che l’uomo, il quale continua­ va a voltargli le spalle immerso nella penombra, ne avesse per un bel po’ e decise di tornare dietro il banco, con poca speranza di poter riprendere i suoi conti - se non forse in brutta, sopra un foglietto ben sapendo, per esperienza, che a causa di quella visita importuna i suoi piani erano saltati per tutto il pomeriggio. Quando tornò ad alzare gli occhi il cliente si era spostato, e si trovava ora in fondo al negozio, sempre in penombra; quasi invisibile, fru­ gava tra le grucce sulle quali erano appesi parecchi abiti confezionati che lui aveva comprato anni prima 90

e non era mai riuscito a vendere nonostante il modi­ co prezzo. L’uomo scelse un completo color ruggine e di nuovo si avvicinò alla porta, reggendolo con le braccia alzate per studiarlo alla luce del pomeriggio. Allora lo riconobbe, lasciò gli occhiali sul banco, dimenticò i conti e andò a salutarlo. « Abdón, » disse stringendogli la mano « diamine, Abdón, quanto tempo che non ti fai vedere da que­ ste parti. Non ti avevo riconosciuto. Si può sapere cosa ti porta qui?». L’altro non rispose, troppo assorto nel suo esame: rimise a posto il vestito color ruggine e ne prese un altro sul verde oliva, a righine arancioni, che sotto­ pose alla stessa ispezione voltandolo e rivoltandolo davanti alla porta con gli occhi socchiusi. «Stai cercando un vestito? Quello lì non ti va bene» lo avvertì. «Dimmi cosa stai cercando. Sono anni che non ti fai vedere in paese! E come vanno le cose lassù?». Finito l’esame appoggiò il completo sul banco, senza toglierlo dalla gruccia, e di nuovo si avvicinò allo scaffale delle camicie, senza dire una parola. Pensò allora che avrebbe dovuto riconoscerlo non solo dall’incerata gialla gettata su una sedia - in­ dumento dalla lunga storia, che era per lui quasi una bandiera -, ma più ancora dall’inconfondibile rudezza di quell’uomo basso e hero che anche di spalle (o soprattutto di spalle, come la maggior parte dei profeti e dei visionari) imponeva la sua presenza. « Non è la tua taglia, Abdón. Dimmi cosa stai cer­ cando, e te lo do io quello che fa per te». L’altro sembrava non sentirlo neppure. Frugò di nuovo tra le camicie ma non ne trovò nessuna di suo gusto. Tornò al banco, sfilò dalla gruccia la giacca del vestito verde oliva e la contemplò per un pezzo tenendola per le spalle. «E troppo larga per te. Se cerchi un vestito vieni qua che ti faccio vedere io qualcosa che fa per te. E a 91

un prezzo interessante. Ehi, Abdón, ma quanto tem­ po che non scendevi da queste parti! ». L’altro lo interruppe. «Quanto costa questo vestito?» domandò senza smettere di guardare e tastare la stoffa, dopo aver riabbottonato la giacca, apparentemente soddisfatto dell’esame. «Vediamo un po’» rispose Honorio riprendendo in mano gli occhiali e scrutando il cartellino applica­ to sulla gruccia, dubbioso di quanto ci vedeva scritto. « E un po’ caro ma soprattutto non è della tua taglia. Posso indicarti qualcosa di molto più adatto a te». « Caro? Perché? » domandò Abdón. Honorio avvicinò gli occhi al risvolto della giacca, con subitaneo interesse, forse cercando nella memo­ ria una spiegazione al prezzo annotato sul cartellino e alla cattiva accoglienza a suo tempo riservata all’ar­ ticolo dalla clientela. «Vestiti così non se ne fanno più. Adesso è tutta un’altra cosa» avvicinò l’occhio alla manica, carez­ zandola tra le palme. «Bisogna badare alla qualità della stoffa. Così adesso non la fanno più. Oggi si porta roba più andante». «Se non la fanno più sarà perché non è buona» sentenziò Abdón. «Da quanto tempo ce l’hai in negozio? Scommetto che sono almeno cinque anni che sta su quella gruccia». Honorio accusò interiormente il colpo ma seppe non darlo a vedere, grazie ai suoi modi da commer­ ciante onorato. «Ti sbagli, Abdón, ti sbagli. Non la fanno più pro­ prio perché è roba troppo buona. Questo è un vesti­ to che dura una vita, per gente che sa apprezzare la qualità. Ma non interessa più ai fabbricanti di oggi che lavorano solo con la roba andante. Non capisci? Oggi fanno apposta roba che dura poco». « Durerà una vita a non metterlo. Da quanto tem­ po ce l’hai in negozio?». 92

Era la domanda più mortificante, a cui non sape­ va né doveva né voleva rispondere se non con una mezza verità che occultasse il fallimento di un’opera­ zione ormai quasi dimenticata. « Ma cosa vuoi che importi, questo è il meno. E poi non credere che sia tanto. La colpa è del pubblico che non capisce e si lascia ingannare dal prezzo. Comprano solo a buon mercato, senza guardare la qualità». Oscuramente intuì che con Abdón doveva ricor­ rere, prima che alle lodi dell’articolo, ai princìpi eco­ nomici, commerciali e morali che presiedevano ai suoi affari e garantivano la sua onestà. « La gente non pensa al domani. Comprare a poco prezzo è il miglior modo di buttare via i soldi. Chi più spende meno spende. La gente non sa quello che fa». « Neanch’io lo so» disse Abdón. « E a quanto pare neanche tu, visto che non sai né quanto costa ’sto vestito né da quanto tempo sta appeso in quell’an­ golo». « Non più di un paio d’anni, te lo posso assicurare. Nessuno l’ha toccato, è come il primo giorno. Guar­ da la qualità dell’articolo». Spiegazzò con gesto energico l’estremità della manica e lasciò che ripren­ desse forma senza fare una grinza. « Senti che stoffa. Se vuoi un vestito per tutta la vita, prendilo. Però dovrai fartelo stringere da un sarto. Non so se ne vale la pena, Abdón, te lo dico sinceramente. A me interessa vendere ma non voglio imbrogliare un amico. Se però insisti e lo prendi ti faccio il prezzo vecchio, quello del primo giorno». «Quale prezzo vecchio? Quale primo giorno?». « Volevo dire il prezzo segnato sul cartellino. Non fa niente se è aumentato tutto, te lo do al prezzo vecchio perché sei tu e perché dovrai farlo mettere a posto e chissà quanto ti verrà a costare. Vedi che non voglio imbrogliarti, voglio solo che te ne vai contento. Milleduecentosessanta, un articolo così è 93

regalato. Oggi non lo trovi a meno di milleseicento o duemila, se poi lo trovi. Sono vestiti che non si fanno più. Così stanno le cose. La gente non capisce». «Non capisco neanch’io» rispose Abdón e con una cert’aria di rassegnazione allontanò un po’ il vestito sul banco per dare a intendere che ci rinun­ ciava. « L’unica cosa che capisco è che sto perdendo tempo». «Non ti capisco, Abdón, non capisco quello che vuoi dire. Ti posso assicurare che se compri questo vestito non butti via i soldi». « Ho perso tempo. Dovevo comprare questo vesti­ to due anni fa a novecentoventi pesetas». «Perché a novecentoventi pesetas? Francamente, Abdón, non ti capisco». «Se adesso vendi a milleduecentosessanta quello che stando alle tue stesse parole vale milleseicento (per non dire duemila!), allora potevi ben vendermi a novecentoventi quello che allora valeva milledue­ centosessanta. E chiarissimo, basta fare la differen­ za. E questo senza contare gli interessi di quelle trecentoquaranta pesetas che in due anni al dodici per cento semplice verrebbero ottantun pesetas. Capirai che non è giusto che sia io ad accollarmi l’aumento di prezzo quando sei tu che a suo tempo non sei sta­ to capace di venderlo. Quindi sarà meglio lasciarlo qui per questa volta» disse Abdón e dopo avergli lanciato uno sguardo di congedo riprese il vestito per il gancio e andò a rimetterlo a posto nell’angolo in penombra. «Ma di che aumento di prezzo stai parlando? Aspetta un po’ » disse Honorio sconcertato. « Chi ha detto che ho aumentato il prezzo? Aspetta un po’» ripetè in tono implorante sedendosi su una delle sedie riservate alla clientela, davanti al banco. Il ragionamento di Abdón aveva falcidiato le sue idee, e quasi lo lasciò senza fiato nel vano tentativo di seguirlo. Una simile rapidità nel fare i conti non ammetteva repliche da parte sua, sia perché ma­ 94

scherava i possibili sofismi, sia perché li trasferi­ va a un ordine aritmetico di difficilissimo, se non impossibile, accesso per lui. E come se non bastasse rigirava il coltello nella piaga del maggiore dei suoi crucci, l’unico che riuscisse a togliergli il sonno, quello che a nessuno avrebbe mai confessato. Appoggiò il gomito sul ginocchio e si passò la mano sulla fronte, poi la lasciò cadere tra le gambe aperte, sbigottito dalla tranquilla sicurezza di Abdón e deci­ so a prendere un’altra strada per concludere la trat­ tativa. «Aspetta un momento» ripetè dopo una lunga pausa. «Tu quanto sei disposto a dare per il vesti­ to? ». « Ero disposto a pagarlo quello che vale » rispose con calma Abdón dall’ombra in cui stavano appesi i vestiti «ma mi sembra che neanche tu, che avresti l’obbligo di saperlo, mi sai dire quant’è». Pareva inespugnabile. Tutte le sue risposte, teme­ va, erano azzeccate, e apparentemente dominava con sicurezza il campo dei numeri che tanti rompi­ capi causava a Honorio. A Honorio quell’uomo ave­ va sempre ispirato un misto di rispetto e diffidenza. Lo dicevano mezzo matto ma nessuno nella valle osava rispondergli, offenderlo o muovergli accuse non provate. Viveva come un poveraccio ma senza dubbio non solo aveva soldi, ma era il primo ad aiu­ tare chi ne aveva bisogno. Si diceva anche che un giorno o l’altro avrebbe potuto ricevere una dona­ zione considerevole a ricompensa della sua disinte­ ressata adozione, anni addietro, di una creatura destinata a ereditare a suo tempo uno dei maggiori patrimoni della provincia. Dava prestiti, a volte sen­ za interesse, e spesso era circondato da una banda di montanari, tipi poco raccomandabili, ma intorno a lui regnava sempre la pace; e come se non bastasse si diceva che oltre o grazie a un passato più illustre e agiato possedeva una vasta cultura, aveva studiato ed era dotato di poteri medianici: indovinava i mali 95

di certe anime vaganti e dettava rimedi che non venivano mai rifiutati. Per il momento non sembra­ va affatto ignaro delle preoccupazioni di Honorio e pur non avendole penetrate a fondo indubbiamente si era accorto, già da un pezzo, della sua inconfessata incapacità per certe operazioni che pure dovevano costituire il normale bagaglio di ogni commerciante. «Non pensare che voglia imbrogliarti» confessò Honorio. «Ti ho chiesto il prezzo giusto, quello segnato sul cartellino, e non ho affatto parlato di aumenti. Sei tu che ne hai parlato. Ma visto che il vestito ti piace tanto posso farti uno sconto, anche se come sai non è mia abitudine». Era vero, non mercanteggiava mai. Si considerava un commerciante serio, e benché fosse padrone di un negozio che non avendo concorrenza nel raggio di molte leghe gli avrebbe anche potuto permettere di esercitare a suo arbitrio il dispotismo del prezzo, non ne abusava mai. Per lo stesso motivo non accon­ sentiva a mercanteggiare, e presumeva di non aver­ lo mai fatto — un’abitudine per gente d’altra specie. «Vuoi portartelo via per mille?» domandò con cautela. « Per mille? E perché mille? E forse questo il prez­ zo?». Honorio capì subito di aver commesso un errore di cui Abdón poteva approfittare, ma non c’era modo di rimediare, e anzi, quasi contro la sua volon­ tà, si ritrovò irresistibilmente spinto a continuare sulla stessa strada, benché fosse quella che conduce­ va al disastro: «Per novecentoventi?». «Mille? Novecentoventi? Allora come la mettia­ mo? Honorio, credi forse che sia questo il modo di concludere un affare?». «Ho detto novecentoventi perché tu stesso hai riconosciuto che saresti stato disposto a pagarle due anni fa. Non negare che l’hai detto, Abdón, non mi piace che mi diano del bugiardo. Sai benissimo che 96

questa è una ditta seria e che io non mercanteggio mai ». «Non ho detto niente del genere, Honorio, non hai capito. Non ti ho mai dato del bugiardo, però ti trovo un po’ ottuso. Ti ho solo detto che se l’avessi comprato due anni fa per novecentoventi adesso avrei un vestito che può valere — e non dico che le valga, questo lo dici tu - milleduecentosessanta. Ecco tutto quello che ho detto, né più né meno, e neanche a me piace che si dia alle mie parole un senso che non hanno». « Senti, Abdón, » disse Honorio, tornando a seder­ si sulla sedia riservata ai clienti « lasciamo perdere le complicazioni su quello che hai fatto o non hai fatto. Dammi novecentoventi, prenditi il vestito e chiuso l’argomento». « Ma nemmeno per idea, » rispose Abdón « è asso­ lutamente escluso. Capirai che non compro oggi a novecentoventi una cosa che poteva costare tanto due anni fa». «Non vedo perché. Il vestito è lo stesso e i soldi valgono sempre meno». « Allora sì che butterei via il denaro. Anche senza tener conto degli interessi — sulle ottantun pesetas! — questo sarebbe giusto supponendo che il vestito valesse novecentoventi e tutto restasse uguale. Ma i soldi, come tu hai detto, valgono sempre meno, mentre il vestito, parole tue, è sempre quello di pri­ ma. Di conseguenza non è giusto che chi conserva il denaro ci perda, mentre chi conserva un vestito ci guadagni. Lo capisci che non è giusto?». Honorio intuì che quello che diceva Abdón non era giusto, ma capì anche che non sarebbe mai riu­ scito a spiegarlo e dimostrarlo, neanche a se stesso, immerso com’era in un clima di princìpi morali nebulosi, restii a una formulazione logica. «Senti, Abdón,» disse Honorio, con crescente impazienza non tanto di concludere l’affare, quanto di troncare una conversazione che gli dava le vertigi97

ni e poteva avere funeste conseguenze per il suo metodo contabile e le sue poche ma ferme convin­ zioni circa il valore del denaro «non ti posso mica costringere a comprare il vestito se non vuoi com­ prarlo. Quel che fai con i tuoi soldi è affar tuo, oggi come due anni fa, ma non venire a raccontarmi teo­ rie incredibili. E consèrvati le novecentoventi pese­ tas per quando troverai qualcosa che faccia al caso tuo, senza bisogno di far scoppiare la testa alla gen­ te». «E quel che farò. Non comprerò il vestito a nove­ centoventi pesetas, come non l’ho comprato due anni fa, e per la stessa ragione. Se allora ho sbagliato a non comprarlo, oggi non sarò così sciocco da cor­ reggere l’errore facendone uno più grosso. E facilis­ simo da capire e non voglio far scoppiare la testa a nessuno, e ancor meno a te. Non mi spiego come mai non capisci una cosa tanto semplice». «Insomma, quanto lo vuoi pagare ’sto vestito?». «Visto che in due non si riesce a sapere quanto costa, diciamo una cifra che lasci soddisfatti entram­ bi. Tra persone oneste si fa così. Nessuno deve per­ derci. Sta’ tranquillo che ti ho sempre considerato una persona onesta, e tale ti considererò sempre. Il fatto che tu non sappia il prezzo degli articoli che tieni in negozio non vuol dire niente». L’altro sentì una fitta nel costato, e crescenti pal­ pitazioni lo fecero boccheggiare seccandogli la lin­ gua. Dopo qualche istante si riprese e con gli occhi chiusi e la testa china domandò: «Quanto?». «Quanto io possa spendere e ti lasci soddisfatto». «Quanto?» ripete con voce soffocata. «Tu sei disposto a vendermi il vestito, o qualun­ que altra cosa, in questo stesso momento, e se non lo vendi è colpa tua. Questa è la natura del commercio. Mentre io per vivere non posso far altro che tenermi il mio denaro, tu ti vedi costretto a tenerti il vestito contro la tua volontà, e magari a pretendere di ven-

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dello a un prezzo esagerato. Siccome è tua la colpa di non aver saputo venderlo, sei tu responsabile del fatto che in questi due anni io non l’abbia comprato. Di conseguenza sei tu che ci devi rimettere la diffe­ renza. E giusto, la cosa è chiarissima e non so come mai non lo capisci». «Di che differenza a mio carico stai parlando, Abdón? » domandò Honorio alzando un po’ la testa e socchiudendo gli occhi. « Le trecentoquaranta pesetas, il conto è chiarissi­ mo. E ciò senza contare l’interesse semplice del dodici per cento che è quello normale. Farebbero quattrocentoventuno di meno». « Quattrocentoventuno di meno? Su che? Sul prezzo segnato?». « Sulle novecentoventi a cui non ti ho comprato il vestito due anni fa, per colpa esclusivamente tua». « Ossia quanto? » Honorio si avvicinò al banco, si sporse, prese un pezzo di carta da pacchi e con cifre grandi e goffe eseguì una sottrazione che fu costret­ to a ripetere un paio di volte. « Cinquecentottanta? » domandò con stupore e spavento, soffocato da una collera impotente. « Sarebbe più giusto cinquecento per tener conto degli interessi». «Tu sei matto, Abdón, sei completamente matto se credi che io possa darti a cinquecento quello che è segnato milleduecentosessanta. Allora preferirei regalartelo». «Non voglio regali da nessuno. Non c’è motivo di regalarmi niente e sono abituato a pagare sempre il giusto, lo sai benissimo. Sarà meglio che tu me lo venda a cinquecentottanta e lasciamo perdere gli interessi ». Honorio tornò a sedersi vicino al banco, ci appog­ giò il gomito, e poi appoggiò il mento sulla mano. L’altro capì che doveva concedergli un po’ di tempo per decidere, non sapendo che la mente di Honorio - incapace di fare i conti senza carta e matita - non 99

analizzava niente, si limitava ad aspettare invano una piccola spinta da parte di Abdón, e non tanto per i soldi quanto per il puntiglio. Niente avrebbe gradito a questo punto come l’ingresso di un altro cliente, per lasciar lì Abdón a rimuginare l’operazio­ ne, ma poiché ciò non avvenne, e Abdón, fuori dalla sua vista, non modificò la sua offerta né aggiunse alcun commento, dovette limitarsi a un gesto di ras­ segnazione, battendosi le ginocchia con le palme, prima di pronunciare la sentenza: «Va bene, prenditelo». « D’accordo » disse Abdón e da un portafoglio tut­ to gonfio e scucito che teneva nella tasca posteriore dei calzoni, pieno di bigliettini, foglietti e minuzie, estrasse laboriosamente una banconota da cinque­ cento e una da cento, tutt’e due vecchie e spiegazza­ te, che lasciò sul banco non senza averle prima ben lisciate con le dita. « Perché seicento, adesso? » domandò Honorio. «Così mi dai le venti di resto». «Non avevamo detto cinquecento?». « Prendine cinquecentottanta e non pensarci più. Non vai proprio la pena di discutere per queste pic­ colezze». «Non so più come eravamo rimasti d’accordo» dovette riconoscere Honorio prendendo i biglietti con aria afflitta. Li mise in cassa e gli restituì quat­ tro monete da cinque mentre Abdón riprendeva di nuovo il vestito e lo depositava sul banco. Honorio tirò fuori un foglio di carta da pacchi, lo tagliò abil­ mente con un coltello, poi ci mise sopra la giacca e i calzoni. Mentre stava per piegare il foglio sul vestito Abdón aggiunse la camicia celeste a righe bianche avvolta nel cellophane. A Honorio vennero i brividi. «Aspetta,» disse Abdón «non ho ancora finito». Dal fondo del negozio, dopo una sommaria ricer­ ca che a Honorio parve interminabile, tornò con una cravatta color porpora, due paia di calze e mez­ za dozzina di fazzoletti.

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« Adesso non ricomincerai mica a... » si mise a pro­ testare Honorio. «Dimmi quant’è ’sta roba» tagliò corto Abdón. Honorio staccò i cartellini dei prezzi a uno a uno e annotò quello dei fazzoletti, segnato sulla cassa. Su un pezzetto di carta fece la somma con una matita quasi consumata, inumidendo spesso la mina sulla punta della lingua. Rifece la somma tre volte e con una certa timidezza la presentò a Abdón. «Quant’è?». «Quello che c’è scritto qui. Controlla tu la som­ ma». «Dimmi cosa c’è scritto che non ho portato gli occhiali». « Quattrocentotrentotto » disse l’altro, sulle spine. « Guarda un po’ se va bene. La camicia costa trecentoquindici». «Bene, bene» l’interruppe Abdón. «Quattrocen­ totrentotto? Perché non dovrebbe andar bene?». Dalla tasca laterale dei calzoni tirò fuori un grosso rotolo di biglietti, quasi tutti da mille, e gliene diede uno da cinquecento, molto più nuovo di quello di prima. « Eccoti i soldi » gli disse.

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GIUGNO

« Non so dove vuoi andare a parare » disse l’amica portando alle labbra il bicchiere di xeres. In mezz’o­ ra di chiacchiere ne aveva bevuto ben poco, e non aveva voglia di finirlo per paura che Mercedes chie­ desse il conto al cameriere dichiarando sciolta la seduta. Aveva colto in lei qualche lieve gesto di non dissimulata impazienza - delle occhiate alla gente e alla strada, al di là del vetro, per indovinare l’ora senza guardare l’orologio - ma era decisa ad appro­ fittare dell’occasione per indurla a confidarsi e acquistare così, partecipando ai suoi segreti, un cer­ to ascendente su di lei. Ma da un po’ Mercedes evita­ va di rispondere francamente all’interrogatorio, e pressata dalle domande riusciva sempre a trovare il modo di eluderle e a mantenere quindi la sua condi­ zione di indipendenza. Così la vedeva lei: non come una prova di amicizia e solidarietà verso una perso­ na che non aveva nessuno con cui confidarsi e, in tali circostanze, contava solo su se stessa per risolve­ re il dilemma in cui si trovava - ma piuttosto come una lotta per impadronirsi di quel segreto che tanti

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vantaggi poteva concedere a chi lo possedesse, a condizione di non dividerlo con nessuno. Perché se fosse stato condiviso i vantaggi potevano trasfor­ marsi in inconvenienti, i motivi di orgoglio in oggetti di sdegno e l’indipendenza in un vassallaggio verso il beneficiario di tale partecipazione. Aveva tentato con Mercedes diversi espedienti, nessuno dei quali aveva sortito il benché minimo effetto. A un certo momento era anche arrivata a fingere — con quel sistema del do ut des tanto utiliz­ zato dalle donne per valorizzare i propri segreti o scoprire quelli delle amiche, soprattutto quando vanno al mercato - di essere già al corrente dei fatti suoi grazie alle indiscrezioni di una terza persona, il cui nome doveva tacere per servirsene come moneta di scambio; ma subito si era vista costretta a rinun­ ciare allo stratagemma per il disinteresse mostrato da Mercedes per quel nome, e la sua scarsa voglia di pagare a caro prezzo un’informazione superflua. Il che oltre a sorprenderla l’aveva mortificata, poiché confermava il sospetto, abbastanza sgradevole per il suo amor proprio, che Mercedes non desse eccessiva importanza al fatto che certe persone conoscevano i suoi segreti, mentre si mostrava estremamente restia a confidarli a lei: stabilendo così una differenza di rango che la metteva in seconda fila, se non in ter­ za, riguardo ai privilegi della sua intimità; se a ciò si aggiungeva che negli ultimi tempi l’aveva frequenta­ ta di più, trascurando amicizie più antiche, fino al punto di dedicarle la maggior parte del suo tempo libero, poteva ben sospettare di non esser degna, nonostante tali progressi, del credito che nell’animo di Mercedes veniva concesso ad altri meno sollecito, meno attento ai suoi problemi quotidiani, meno devoto alla sua amicizia ma evidentemente più meri­ tevole di fiducia. Un simile modo di fare conferma­ va inoltre le sue diffidenze, in parte dovute a una personalità un tantino eccentrica - cosa piuttosto insolita in una ragazza della sua età — e in parte

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risvegliate dalla propria mancanza di esperienza su argomenti strettamente imparentati con quelli che Mercedes le teneva così segreti. Come se tali espe­ rienze costituissero una frontiera tra due categorie di persone, una delle quali poteva essere al corrente di determinate cose - qualunque fosse poi la capaci­ tà di tenerle avvolte nel riserbo che sembravano assolutamente esigere -, mentre l’altra, per quanta intelligenza e discrezione potesse avere, non era adatta a ricevere un certo genere di informazioni, allo stesso modo in cui alcune fedi o legislazioni sta­ biliscono l’inabilità o l’irresponsabilità dell’individuo che non abbia ricevuto un determinato sacramento o raggiunto una certa età. Tale discriminazione la mortificava, soprattutto perché aveva dedicato buo­ na parte dei suoi sforzi a dimostrare a Mercedes che la sua mancanza di esperienza non poteva essere assimilata a un’incapacità di comprendere il suo dilemma bensì, all’opposto, alla sua comprovata atti­ tudine ad abbordare ogni tipo di problema, anche quelli fuori dalla portata dei suoi sensi, in virtù di un metodo analitico. Con ciò aveva voluto insinuare un rimprovero, in risposta all’implicito disprezzo in cui l’aveva relegata il silenzio di Mercedes: per farle ben capire che l’esperienza da lei tanto strombazzata poteva (da un’anima forte come era la sua) esser considerata solo una degradazione della ragione, in quanto consegnava all’incoerenza dei sensi e alle lusinghe della memoria il dominio su una condotta che doveva reggersi invece sull’intangibile centro della riflessione, quali che fossero i suoi passi sull’o­ scuro e fangoso terreno delle passioni. Aveva cerca­ to in tutti i modi di trattare con lei da pari a pari, o addirittura di mettersi al di sopra, col solito accorgi­ mento di ogni predicatore — vantarsi detentore di una forza incontaminata -, ma ben presto aveva dovuto fermarsi, con le mani che tremavano, davan­ ti al sospetto che sarebbe bastato il suo sguardo (anche senza che lei pronunciasse una sola parola), 104

se appena avesse insistito su quel punto, a far sbadi­ gliare Mercedes. Dovendo scegliere tra virtù e fasci­ no — pensò - sceglierà quest’ultimo. Lì - sospettò - si annidava il male, forma invisibile e molto più miste­ riosa del peccato. Un male sempre vigile, che veniva a sommare le sue ragioni a tutte quelle che già la inducevano a tenere il segreto, e che la costringeva a non rompere il silenzio, e le impediva di prenderla come confidente, e che sempre l’avrebbe guardata con sfiducia e avrebbe frustrato ogni tentativo da lei compiuto per penetrare nella sua intimità. Lo capì in un lampo - con un tremito nelle mani e nelle ginocchia fortunatamente non colto da Mercedes, la quale guardava fuori dalla vetrata -, e vide davanti a sé la trappola in cui sarebbe caduta se avesse persi­ stito in quel comportamento un po’ ingenuo. Decise di cambiare tattica e non senza sforzo ritirò la mano destra dal grembo e la mise su quella di Mercedes. Mercedes sussultò come se sulla mano le fosse caduto un filetto di bue, una massa consistente di materia lasciva e guasta ma non putrefatta, ancora viva eppure senza più legami con l’universo, e alla ricerca della propria rigenerazione attraverso un furtivo contatto avviato allo scopo di perseverare nella perversione. Una massa senza limiti, di fila­ menti umidi e grani secchi e nervi sciolti, con una debolissima ma esasperata palpitazione portata allo stremo da organi in cerca di una improbabile sopravvivenza. « Com’è? » le domandò, aumentando la pressione sulla mano per rendere il contatto più stretto e per armonizzarlo con il tono, suadentissimo, della domanda. Ma Mercedes, un po’ assente, sembrò riflettere a lungo e riuscì a rispondere solo dopo aver sostenuto per qualche istante lo sguardo pieno di agitazione dell’amica, come per sondare attraver­ so i suoi occhi il centro occulto da cui emanava quei­ rimprovviso interesse. 105

«Com’è chi?» domandò a sua volta, per darsi il tempo di eludere la risposta oppure di costruirla nel modo più compromettente. L’amica restò sconcertata. Non aveva domandato di una persona ma di un atto o di uno stato e di nuovo capì, quando il tempo ormai stringeva e la conversazione non poteva più prolungarsi molto, che l’introduzione di quel pronome molesto la costringeva per il momento a rinunciare all’oggetto della sua indagine e a scambiarlo con un altro, per non tradire ancora una volta le intenzioni della sua curiosità. «Com’è lui, voglio dire» domandò di nuovo, al­ leggerendo la pressione della mano. Mercedes non sospirò ma esalò una boccata d’a­ ria, vuotandosi i polmoni mentre guardava fuori dalla vetrata, decisa a scrollarsi di dosso quell’asse­ dio. Tuttavia si prese un po’ di tempo per meditare la risposta e dopo aver finito con un sorso la sua birra, di cui non aveva più voglia, disse: «E un commediante». Capì che per il momento se l’era cavata, perché l’amica ritirò la mano. Ma sapeva anche che sarebbe tornata alla carica, e magari con più audacia, per cui decise di prepararsi alla difesa. « Non ti capisco; non ti capisco » disse, senza azzar­ darsi a continuare, tali erano l’indifferenza e la cal­ ma ostentate da Mercedes. Era vero che non capiva: tutta la conversazione aveva girato, senza menzio­ narlo mai, attorno a quel soggetto, la cui identità per il momento le interessava meno del tipo di rapporti che intratteneva con Mercedes; si era tracciata una linea di indagine ben precisa, che in una prima fase poteva prescindere dai nomi propri, purché l’altra le confidasse lo stato in cui si trovava e il genere di problemi che doveva risolvere. 11 resto sarebbe venuto dopo. Ma quell’opinione rivelava una certa tranquillità di spirito, un regime che pur coabitando con il male viveva nell’ordine, e anche una flemma 106

sufficiente a ritenere secondari i problemi derivanti dai suoi rapporti con lui. E di nuovo tornava a spa­ lancarsi l’insopportabile abisso che la separava dalle persone che vivevano nel peccato. Solo a pensarci ebbe le vertigini, le si seccò la bocca, e quasi le si velarono gli occhi e un tremito irrefrenabile le scos­ se le ginocchia; non senza uno sforzo considerevole si alzò dal tavolo, andò al banco a chiedere un bic­ chier d’acqua e ne bevve la metà in un sorso per poter recuperare l’uso della parola. Uno specchio indiscreto, abbastanza malandato, la mise di fronte alla propria faccia, sopra una fila di bottiglie, nel momento stesso della vertigine, con la mente attra­ versata da una banda nera come da un indecifrabile blasone: neanche un lineamento anormale — si disse - in una faccia coperta dalla patina di un’anacroni­ stica e abietta verginità, un fiore repentinamente appassito per mancanza di irrigazione e forzato all’i­ perbolica alienazione di un sorriso, a stento accetta­ to da uno sguardo smarrito e prigioniero, incapace di comprendere quella reclusione. Allora, confuse con le macchie e con i grumi del mercurio corrotto, vide una lontanissima folla di non-uomini e non­ donne che si trovavano molto al di là dell’abisso, affratellati dal loro segreto e radunati per un giro turistico dall’agente del male, e che tutti insieme vol­ gevano lo sguardo verso di lei come verso una statua nel portico di una cattedrale: non-uomini e non­ donne che avevano gustato il frutto proibito, anima­ ti dalla stolta allegria - pagana e pagata in anticipo dei gitanti in torpedone, che osservavano senza tur­ barsi la statua di pietra di una virtù abolita, incapace di scendere dal suo piedistallo quanto di esprimere la sua vergogna mentre la folla tornava a voltarle le spalle. Quando tornò a sedersi al tavolo ci mise un po’ di tempo per rivederla come la sua amica, irriconosci­ bile com’era dietro il velo della sua confessione segreta. «Ama il male» si disse «e pertanto è dop­ 107

piamente malvagia. E allora io lo sarò tre volte. Domani stesso». «Un commediante, hai detto?». «Un perfetto commediante» disse Mercedes. A un tratto capì che doveva dirlo: riprese le forze, dimenticò la vertigine e superò il tremito, sbottando quasi involontariamente a gran voce: «Sei perduta. Lo disprezzi e lo ami. Compietamente perduta. Lo vedo chiaramente, adesso vedo tutto chiarissimamente». «Tu vedi sempre tutto chiarissimamente» disse Mercedes prendendo il portamonete dalla borsetta per pagare le due consumazioni. Col pretesto di chiamare il cameriere si girò sulla sedia, le voltò le spalle e troncò la conversazione. «Non avrei dovuto dirti questo». « Non avresti dovuto dirlo» disse Mercedes, alzan­ dosi dalla sedia per andare al banco a pagare le con­ sumazioni «però l’hai detto». Si morse il labbro inferiore ma il pentimento durò poco, e le si aprì la bocca come di scatto quando notò la borsetta di Mercedes sul tavolo. Era andata fino in fondo al banco, dove si trovava la cassa, e ora aspettava la cassiera con lo scontrino in mano. Con gesto furtivo fece girare la borsa su se stessa per sco­ prire l’apertura e con due dita estrasse un portafogli di pelle rossa, abbastanza sciupato, che già conosce­ va di vista, da cui sporgeva il bordo inconfondibile di una fotografia. Avvicinò la sedia al tavolo, chinò in avanti il corpo, raddrizzò le spalle e stirò le brac­ cia fino a posare le mani giunte sulla borsa con gesto allegro e spigliato, mentre fissava la schiena di Mercedes e calcolava il tempo di cui poteva disporre prima dell’arrivo della cassiera: e allorché questa si insediò sul suo sgabello e si mise gli occhiali per leg­ gere lo scontrino, estrasse e aprì il portafogli con la sinistra, poi con mano esperta - una mano esercitata all’uncinetto o alle carte o alla tastiera, un organo allenato da un continuo e quasi sempre ozioso eser­

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cizio e che sembrava esigere una totale autonomia e condurre una vita molto diversa da quella del corpo a cui apparteneva - fece scorrere alcune fotografie sistemate in uno scomparto di celluloide rigata, e ne scelse una, e la studiò nel tempo che Mercedes impiegò a pagare le consumazioni e a prendere il resto. Non era un uomo giovane ma neanche maturo. Forse si manteneva in un’età amorfa e inattiva aspet­ tando una fortuna grazie alla quale entrare nella maturità. Ma aveva aspettato troppo, dimentico dei rigori del tempo, asserragliato in una irriducibile iattanza che gli vietava la pur minima incertezza, la più lieve tentazione di cedere a un uso improprio del suo futuro. Si sarebbe detto che maneggiasse il suo orgoglio - e alcune altre virtù minori — come una posta da scommettere tutta su quell’unica opportunità che a suo parere ne valesse la pena. Aveva offerto il viso al fotografo di scorcio per mostrare un sorrisetto a labbra chiuse, disegnato solo da una debole piega della gota, con cui alludeva al segreto della sua anima, gelosamente custodito dietro una facciata di maschia gravità, di riconosciu­ ta solvibilità virile, che avrebbe manifestato solo (promessa perversa di future delizie coniugali) a chi avesse saputo capirlo. Era bello — capelli e baffi curati lo ingentilivano — un bello di paese dai riflessi perlacei, che senza dubbio era riuscito a confondere Mercedes con una miscela di attrazione e di vergo­ gna. « Un commediante» aveva detto lei con un tono di soddisfazione, con l’accento di superiorità ram­ mendata e vulcanizzata della signorina di buona famiglia, affezionata ai suoi modi di dire e sedotta più dal pericolo che dalla minaccia, perché per i suoi - dopo quasi un secolo di ripetizioni del medesimo catechismo — non faceva parte del nemico bensì costituiva la inevitabile e minuscola e vorace escre­ scenza della loro società solida e naturale, uscita da un mondo invisibile e appena udibile e disposta a 109

divorarli soltanto per un fine biologico indipenden­ te dai destini umani. Prima di rimetterla nello scomparto di celluloide capì l’esatta corrispondenza tra la frase e la fotogra­ fia. Non poteva essere altro. «Un commediante». Non ebbe più niente da scoprire né da aspettare, incalzata dalla brevità del tempo che le concedeva il pagamento delle consumazioni, guidata dal sospetto e sostenuta da quell’acutizzarsi dei sensi che lavora­ no per una volontà clandestina; dotata, anche, del dono della chiaroveggenza, che le aveva permesso di trovare subito, quasi alla cieca, la fotografia che cer­ cava in mezzo a un’altra mezza dozzina, e di leggere con una sola occhiata gallinacea il testo muto con­ densato in essa, a caratteri cifrati ma più diretti di quelli dell’alfabeto - senza sillabe né articolazione, come le sigle che riassumono la formula di un pro­ dotto temibile ma dall’aspetto innocuo, racchiuso in un flacone. Un testo semplice ed espressivo ma non pensato per qualcuno in particolare. Lo stesso dono che le aveva permesso di indovinare quel che vi ave­ va letto Mercedes: solo i caratteri stampati, non quelli occulti - avvertibili unicamente da chi non si accontentasse dei primi —, che furono evidenti nel momento in cui rimise la foto nel suo scomparto e il viso fu offuscato dalla celluloide rigata che dissolse la maschera e rivelò l’anima: al posto degli appetiti e dell’ambizione, la sottomissione; la mancanza di scrupoli si trasformò nell’ubbidienza al più forte e la iattanza in debolezza; e la violenza delle sue propo­ ste denunciava soltanto la mansuetudine con cui avrebbe accettato la legge di chiunque avesse saputo conquistarlo.

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OTTOBRE

«Voglio credere di averlo indovinato in quel momento, sul portone della casa, quando senza vederlo compresi (con il nocciolo in bocca) che si era nascosto dietro l’angolo del vialetto d’ingresso e che era ancora alla mia portata, da questo lato del fiu­ me; e quando arrivai al ponte non c’era su questa terra una persona più decisa di me, tanto decisa da avanzare senza un’esitazione su un terreno in cui non vedevo nulla perché nulla c’era, capisci? Nulla. Neanche l’amica d’infanzia (la quale magari ha pure conosciuto l’avversità) che nelle storie romantiche rappresenta il primo rifugio sicuro e il primo soc­ corso delle eroine che, come me, perdono tutto in un sol giorno. Lo capisci? Tutto». «La mia comprensione è grande, zia» commentò la nipote, abbassando la voce per intonarla alla scar­ sa illuminazione della stanza, senza muoversi da dove stava né cambiare posizione; si limitò ad annui­ re diverse volte, per dare alle proprie parole, in mancanza di qualcuno che lo facesse per lei, la forza di un consenso.

Ili

« Ne dubito, ne dubito molto. Ne ho sempre dubi­ tato. Non sono mai stata sicura della tua compren­ sione né di quella di chiunque altro. Non ci ho mai contato e ho saputo cavarmela senza l’aiuto della comprensione e nella certezza che mai ne avrei avu­ to bisogno, né mai l’avrei desiderata come premio postumo e pressoché inutile. Lo riconosco, sono sempre stata diffidente; è il prezzo che la sicurezza di sé deve pagare per rafforzarsi fino al punto di diventare invulnerabile a tutto, anche al tradimento; allora potrà contemplare la tenera età della diffi­ denza come lo stato larvale in cui l’individuo, sprov­ visto di ali, doveva ricoprirsi di lanugine e di spine. E sai perché sono stata diffidente? Semplicemente perché l’analogia è dannosissima. Io ho paura dell’a­ nalogia, e ti do un consiglio: vacci molto cauta e cer­ ca di camminare per questa vita con il minor nume­ ro possibile di parentele. Quando arrivai davanti al ponte (con il nocciolo in bocca) disponevo ancora di un’arma che ben caricata e adoperata doveva per­ mettermi di superare le difficoltà più immediate: ero sola, non avevo nessuno (neanche quella famosa amica d’infanzia) non dovevo niente a nessuno e, soprattutto, non contavo nemmeno su quell’aiuto lontano e problematico che in generale serve solo a prolungare la schiavitù del bisogno; un aiuto che se non riesce a soccorrere indurrà a cercarne un altro ancor più lontano e problematico, il quale usurperà il posto dell’unica persona che deve e può prendersi cura di te con tua piena soddisfazione: te stessa. E se soccorre non sarà certo per risolvere le tue tribola­ zioni ma piuttosto per introdurti in maniera insidio­ sa e corriva nella spregevole setta degli amici della carità. No, non avevo niente e nessuno - neanche la buona amica d’infanzia sempre disposta ad acco­ glierti per qualche giorno sotto il suo tetto in cambio di un’amicizia ipocrita, gravata di obblighi - e di conseguenza, come un animale selvatico, potevo fare un uso pieno e illimitato di me. Quante volte i

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lacci dell’amicizia, della parentela e degli obblighi non sono altro, sotto il travestimento dell’aiuto, che basti e cinghie con cui tenere ben assoggettato un io che quando conta solo su se stesso non deve ubbidi­ re ad alcuna guida né conformarsi ai costumi domi­ nanti né avere altra regola se non quella di una volontà di dominio ortogeneticamente derivata dal­ l’istinto di conservazione». La signora fece una pausa, forse in attesa di un’in­ terruzione della nipote. Ma chissà, la nipote indovi­ nò quel proposito e non la interruppe. «Non era questa la ragione meno forte per pren­ dere la strada opposta alla sua, sulla riva sinistra del hume, con il nocciolo dell’oliva ancora in bocca, varcati i confini della proprietà. Perché fin dal pri­ mo istante dopo il divorzio dovevo far sapere a tutti che per niente al mondo l’avrei inseguito, che mai gli sarei corsa dietro e che se doveva accadere che un giorno ci rincontrassimo sarebbe stato grazie alla coincidenza quasi fortuita di due traiettorie antago­ niste. Sì, in quello stesso momento credo di aver avuto la premonizione di ciò che sarebbe accaduto: un periodo illimitato di solitudine, scandito soltanto dalla convinzione che un giorno o l’altro avrebbe tentato di tornare da me e che, a causa della sua timidezza o della enormità della sua colpa, lo avreb­ be fatto solo quando fosse stato pienamente persua­ so del buon esito dell’iniziativa; perché la colpa era sua, non di suo padre, e glielo dissi. Stando così le cose - e anche questo lo capii subito, prima di arriva­ re al ponte — la strada più difficile era la più pro­ mettente, anche la più lunga ma l’unica che poteva condurre al punto dove inesorabilmente dovevo arrivare, cioè in primo luogo alla mia indipendenza e poi al dominio su quelli che mi avevano umiliata. Ivi compresi i loro predecessori, gli innominati - e magari austeri, forti e virtuosi, attorniati da una popolazione sudicia, ostile e degradata - creatori di quell’odiosa tradizione. Non era desiderio di ven­

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detta, non prendere le mie parole per ciò che non sono. Se volevo dominarli non era per umiliarli a mia volta, e lavare l’affronto con un altro affronto, ma per mettere fine per sempre a tanta umiliazione e vergogna, per bandire da queste terre tutta quella miseria ereditaria. Sicché dovevo abbandonare quanto prima il territorio, anche se per farlo avessi dovuto servire nei posti più umili e degradanti, costretta com’ero a guadagnarmi da vivere lontano da lì, fuori dalla loro sfera di influenza. Ma sapevo che non era quello il più difficile; sto addirittura per dire, anzi, che allora consideravo quella tappa come la più agevole - perché niente è più facile che procedere quando non si hanno vincoli, e ben pochi scrupoli di qualche importanza -, e il tempo si inca­ ricò di dimostrarmelo. Se avevo scelto quella strada senza nessuna esitazione è perché, a coronamento del mio sforzo, avevo posto una sorta di premio la cui assegnazione non rientrava nelle mie facoltà, e in quelle circostanze come avrei fatto a raggiungere quanto era nelle mie possibilità se non fissandomi una meta che le travalicasse? Non ti sto parlando di una distinzione spirituale, come quella che promette la fede... ». «A che cosa ti riferisci, zia?» domandò a questo punto la nipote. « Mi riferisco a un ordine, o se vuoi a uno spazio, di assai ardua definizione, il quale per giunta ha occupato molto a lungo i pensieri dell’umanità, con un risultato più che incerto per non dire dubbio». « Credo di sapere a che cosa ti riferisci, zia » rispo­ se la nipote. « Ne dubito. Ne dubito molto. Penso invece che tu ne abbia sentito parlare, ma senza mai farti un’idea chiara di ciò che quest’ordine significa». «Bah!» obiettò la nipote. « Il che non vuol dir niente a tuo sfavore; non devi vergognartene, se pensi che soltanto pochi eletti 114

possono presumere di aver raggiunto la compren­ sione di quest’ordine». «Ti sbagli, zia» rispose la nipote con caparbietà, approfittando delle ombre che la circondavano per fare uso di un tono di fermezza un po’ offensivo, nei riguardi della zia e forse anche della penombra, che non doveva essere di suo gradimento. «Mi importa poco di sbagliarmi o no» disse la signora. «Ti ripeto che sbagli, perché avendo al riguardo idee chiarissime ho a malapena prestato orecchio a quel che dicono gli uomini, allo scopo di mantenere intatte le mie convinzioni anche a costo di non pie­ garmi ai loro impulsi». «Impulsi spirituali?». «Non sempre, zia. Non sempre. Mi sono accorta che le esortazioni più disinteressate risultano con frequenza le più oscene, e da un pezzo ho imparato a distinguere tra la verità e l’errore. Per questo, oltre a tutto il resto, dico che ti sbagli». « Io invece è un pezzo che ho rinunciato a distin­ guerli, tanto sono bravi ad assumere ciascuno le sembianze dell’altro. Quanto al resto ti dirò che ho sempre anteposto la mia armonia alla mia ragione e quindi non mi è mai importato granché di sbagliar­ mi; con ciò voglio dire che l’attentato alla logica mi è sempre sembrato meno grave di quanto non lo sia il discostarsi da una linea di condotta che include la logica fra le discipline a cui si ispira, ma che in alcun modo può consentire che si eriga (la logica) a suo principio guida, a scapito dell’influenza di altre for­ ze che hanno pari diritto a dirigere le cose dell’ani­ ma. Per fare un esempio, non era precisamente la logica a suggerirmi l’opportunità - in quel momento decisivo, sulla riva sinistra del fiume e sempre con il nocciolo in bocca - di lasciarlo andare per la sua strada, di non attraversare il ponte e di prendere l’altro sentiero, dopo il cippo, in direzione opposta alla sua. La logica ha sempre una portata ridotta, si 115

attiene esclusivamente alla giustezza della proposi­ zione che ha davanti agli occhi e si permette di pro­ nunciare i propri giudizi solo paragrafo per para­ grafo, trascurando la totalità del testo — alla cui com­ prensione totale può giungere solo per iterazione di dimostrazioni puntuali — e, quel che è peggio, è inca­ pace di indovinare la finalità di un discorso la cui intenzione non sia espressa in tutte e in ciascuna del­ le sue clausole. Di conseguenza, se rifiutava come assurdo - e sconnesso da tutti quelli immediatamen­ te precedenti - il mio gesto di indietreggiare davanti al ponte e la mia decisione di imboccare un sentiero, varcati i confini della proprietà, opposto a quello scelto da lui - senza pensarci due volte, spinto dalla confusione che l’aveva invaso dopo i fatti della notte precedente e spronato solo dal desiderio di lasciarsi alle spalle tanta degenerazione, nell’intento di recu­ perare il retto giudizio e la giusta linea di condotta lontano da quell’atmosfera rarefatta -, come poteva indovinare il torbido orizzonte del compiacimento verso il quale, senza che lui lo sapesse, conduceva la celibe determinazione, appena riacquistata, di pren­ dere su di sé la potenza del peccato non prematura­ mente smantellata dall’insufficienza di quello già commesso?». « Quando parli del peccato » azzardò la nipote « ti riferisci, zia, all’indifferenza nei confronti degli altri?». «E che te ne importa?» domandò a sua volta la signora, un po’ seccata per le insolenti interruzioni della nipote e infastidita più dalle digressioni che si vedeva costretta a introdurre — scostandosi così dalla linea che aveva già tracciato per la sua predica - se voleva dare una risposta esauriente alle domande di lei, che dall’aria di impavido disinteresse con cui accoglieva quelle confidenze che la signora poteva ben considerare come il suo segreto più intimo e, di conseguenza, il suo retaggio più prezioso per chi sapesse apprezzarlo come tale. «Che t’importa, mi 116

domando, quale genere di peccato io abbia potuto commettere verso il prossimo, se non ho alcuna intenzione di chiedere la tua assoluzione e se, d’altra parte, in nessun caso sarà il frutto dell’eredità che tu riceverai?». La signora abbandonò il suo posto davanti al bal­ cone e riavvolgendosi nello scialle tornò a sedersi davanti allo scrittoio. Quando accese la lampada il cerchio di luce raggiunse i polpacci della nipote, che con un sussulto involontario si ritrasse, si strìnse nel­ le spalle e protese il collo in un gesto di curiosità e difesa preventiva, come il paziente che dopo un innocuo interrogatorio preliminare veda con stupo­ re il medico estrarre dalfarmadietto degli strumenti un bisturi di proporzioni insolite. «Non era quello che volevo dire, zia» disse la nipote con voce quasi impercettibile. «Non m’importa quello che volevi dire» disse la signora, accomodandosi meglio nella sua alta poltro­ na, rinfrancata dall’aver saputo ridurre la nipote a un atteggiamento di ascolto ubbidiente. «E neppure dovrebbe importarmi» aggiunse « quello che fai, perché sei padrona delle tue azioni come io lo sono delle mie. Dovrebbero importarmi solo nella misura in cui mi danneggiano, perché non sono disposta, ora che il progetto che tanto a lungo ho elaborato e accarezzato sta per realizzarsi, a vederlo andare in malora per colpa della tua incon­ sulta precipitazione. Non dovrebbe importarmi di te, cerca di capirmi, che puoi anche fare il comodo tuo, ma di me, e se hai capito qualcosa di quello che ti ho detto non ti costerà granché intuire quale grave momento sia questo per me. E ormai certo, sono sul punto di condurre in porto questo progetto, a cui per così dire manca soltanto la firma che lo accredi­ ti e lo legalizzi, e sto per decidermi infine a dare udienza al messaggero perché mi comunichi la mis­ sione che lo porta qui, deponendo tutte le riserve che ho sempre nutrito nei confronti di un simile 117

passo. Tali riserve non avrebbero avuto senso se fin dal principio avessi desiderato mostrarmi intransi­ gente: avrei potuto benissimo mandarlo via - fin dalla prima volta — con le pive nel sacco e, se avesse insistito nella sua richiesta, rispondergli con la stessa fermezza e la stessa determinazione fino a fargli perdere ogni speranza di raggiungere il suo scopo, quello di essere ricevuto da me, e quindi lasciar morire la cosa mediante l’estinzione di un interesse privo delle risorse capaci di mantenerlo e ravvivarlo a ogni nuovo tentativo. Ma in nessun momento ho adottato un atteggiamento così risoluto, in primo luogo perché io stessa non ero convinta di dover abolire la cosa - ma soltanto di rimandarla indefini­ tamente finché non mi fosse del tutto chiaro che dovevo prendere una decisione in un senso o nell’al­ tro - e d’altra parte, cosa vuoi che ti dica, non potevo non contemplare con la più grande angoscia che si potesse archiviare una lite per contumacia di ambe­ due le parti e senza che la giustizia si pronunciasse con una sentenza esplicita, con caratteri così inediti da far giurisprudenza, naturalmente a sostegno del­ la mia tesi. Con tutto ciò voglio dire che sono sempre stata persuasa che il tempo lavorava a mio favore; che la barbara usanza a cui fui sottoposta la prima notte di nozze aveva i giorni contati; che il mondo legato a quella tradizione, in cui si esprimevano le abominevoli credenze di una civiltà in disfacimento — la quale per credersi viva manteneva, nessuno sapeva perché, alcuni dei suoi riti nefandi - era finito, e si inaugurava un’altra epoca, che io stessa avevo contribuito a formare. No: ho detto “nessuno sapeva perché” ed è falso: tutti lo sapevano benissi­ mo e perciò avevano taciuto per generazioni, non senza adottare esteriormente le credenze della modernità, eppure perseverando interiormente nel­ le loro pratiche ancestrali; perché se avessero igno­ rato le origini e il significato di quelle tradizioni non avrebbero potuto fare a meno di compararle con le

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forme della vita moderna e di osservarle alla luce della confessione. So già che cosa stai per dirmi...». « No, zia, non lo sai» interruppe la nipote. « Ritie­ ni di saperlo ma non lo sai». «Lo so perfettamente». «Non lo sai, zia. Per quanto tu dica di saperlo, sono convinta che non puoi saperlo». «E io ti dico che posso saperlo e lo so». « E io ti dico che non puoi saperlo per la semplice ragione che non lo so neanch’io. Anzi: non avevo intenzione di dire proprio niente». « Va bene, in tal caso ti dirò quello che avresti det­ to se avessi saputo quello che dovevi dire. Avresti detto che quelle pratiche la cui origine e il cui signi­ ficato si perdono nella notte dei tempi possono benissimo cristallizzarsi in riti innocenti e ripetersi immutate all’occasione propizia, spoglie di ogni con­ notazione trascendente e ridotte a meri residui, poco più che divertimenti e feste periodiche, nel­ l’ampio repertorio delle usanze sociali. Giacché se la loro unica ragion d’essere è la sopravvivenza della tradizione, e non hanno alcun altro supporto causa­ le, per quale motivo devono cambiare? Non doveva­ no cambiare, no, ed era questo che più mi tormenta­ va se cercavo di capirlo dal mio stato di innocenza. Ma ce n’era forse un altro, dimmi, ce n’era un altro?». «Non era questo che avrei dovuto dire, zia, e ancora una volta ti sei sbagliata. Lasciamo stare per ora quello che avrei dovuto dire; quanto alle usanze, zia, e alle tradizioni, ti dirò che il loro scopo prima­ rio, e la loro capitale ragion d’essere, è di smorzare la passione. E inoltre far sì che la passione, smorzata ma inscritta nella tradizione, si senta forte come quella non smorzata ma non inscritta nella tradizio­ ne e nelle usanze» disse la nipote, senza cambiare espressione e dirigendo la voce verso il soffitto, come a un interlocutore che dall’alto dovesse ratifi­ care la sua affermazione con il silenzio.

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«Come?» domandò la signora, improvvisamente inquieta; si alzò in piedi e appoggiando le mani al piano dello scrittoio rivolse alla nipote uno sguardo inquisitorio quanto imprudente. «Come hai detto? Fammi il piacere di ripeterlo». « Ho voluto dire, zia, » e assaporava senza alcun pudore le proprie misurate parole, ostentando la soddisfazione che produceva in lei l’avere in pugno l’iniziativa dialettica che con quella domanda la zia le aveva ceduto «ho soltanto voluto dire che questa vita è un trabocchetto e che ha ragione YEcclesiaste». «Y'Ecclesiaste? Come? Dove?» domandò la signo­ ra, sempre più inquieta. «Capitolo undici, versetto sei». La signora si diresse all’armadio, ne aprì l’anta superiore ed estrasse un volume rilegato in nero, dal dorso consunto. Lo mise sotto il cerchio di luce della lampada e dopo aver consultato l’indice cercò la pagina desiderata, lesse il versetto parecchie volte a giudicare dal movimento degli occhi - e lo richiuse quando - a giudicare dal silenzioso movimento delle labbra — lo ebbe imparato a memoria. Rimise il volu­ me al suo posto, accostò l’anta e con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta appoggiò la schiena contro l’ar­ madio, con gesto un po’ teatrale, fin troppo simile del resto ai precedenti. « “... o se l’una e l’altra cosa sono ugualmente buo­ ne” » ripetè la signora, ma non per se stessa. « Chi lo sa » disse la nipote, strofinando i piedi sul pavimento di legno con gesto infantile, spiegabile solo come espressione di una gioia incontrollata. « O se l’una e l’altra cosa sono ugualmente buone » ripetè la signora con voce appena percettibile, a testa china e marcando i passi del breve tragitto dal­ l’armadio allo scrittoio come se davvero stesse dibat­ tendo nell’intimo della sua coscienza una questione estremamente importante. E aggiunse: 120

« Non ho mai avuto piena fiducia nella legge degli opposti, ma ho sempre pensato che se una cosa era buona l’altra non poteva non essere cattiva. Addirittura potevano essere l’una e l’altra ugual­ mente cattive, ipotesi questa che poteva incoraggiar­ mi alla realizzazione dei miei piani quanto la convin­ zione di aver scelto la via migliore per farla finita con quell’odiosa tradizione costringendolo anche a pagare il debito contratto con il mio amor proprio. Infatti, quando mezzo e fine sono ugualmente plausibili, dove può stare l’errore o, meglio, il dub­ bio? A meno che non si muova l’obiezione ontologi­ ca, ci si interroghi cioè sul fatto stesso che siano mez­ zo e fine, sul fatto che lo siano, in una parola, o pretendano di esserlo all’interno di una realtà (nota: ho detto realtà) svincolata, disinteressata, sprovvista e non bisognosa né di mezzi né di fini. Allora...». Dovette avere un attimo di annebbiamento e la sua mente fu certo offuscata dal passaggio di una nuvola, invasa dallo sgomento provocato da una improvvisa perdita di memoria che senza influire sul corso di un ragionamento la costringe a fare i conti con lo scoglio irrisolto che si è lasciata indietro e sul quale dovrà tornare in un momento più calmo per toglierlo di mezzo, se vorrà portarlo avanti con l’inderogabile fermezza consentita solo dal pieno dominio delle proprie facoltà. La signora intrecciò le mani sulla scrivania e inchiodò lo sguardo sulla fronte della nipote, la quale chinò la testa, si tirò la gonna sulle ginocchia e incrociò le braccia sul busto in segno di raccoglimento. « Se sono riuscita a far sapere a chi mi sta intorno, da vicino o da lontano, che nessuno può ridere di me, non sarà certo perché, ora che sono sul punto di realizzare il mio progetto, quelli che continuano a volermi male si prendano una vendetta tardiva facendosi gioco di te. Per questo ti ho convocata e per questo ho deciso di confidarti ciò che non avevo mai detto a nessuno, anche a costo, temo, di destare 121

i tuoi sospetti e magari qualcosa di più; perché già prevedo quale potrebbe essere la ricompensa ai miei sforzi di aprirti gli occhi, e perché nella tua situazio­ ne niente sarà più spiegabile di una risposta alimen­ tata dalla cocciutaggine e dal dispetto. Eppure, la riuscita di questo progetto passa purtroppo - contro la mia volontà e contro le mie aspettative — per il sacrifìcio di alcune delle tue attuali illusioni (bada bene che altro non sono), per cui se tutto bnirà come mi auguro è molto probabile che tu lo attribui­ rai alle mie male arti, alla mia incoercibile necessità di privarti di quello che io mai potei ottenere e di ripetere nella tua persona la storia triste e crepusco­ lare della mia rinuncia». «A questo, dunque, volevi arrivare, zia! » sbottò la nipote strobnando i piedi sul pavimento con insoli­ ta animazione, sciogliendo le braccia conserte e strobnandosi anche le mani. « A questo, dunque, volevi arrivare! ». La signora tuttavia non perse la sua protervia; con romana alterigia neanche rilevò le parole della nipo­ te e si concesse soltanto di schiarirsi lievemente la gola, come l’attore che sorpreso da una sconsiderata reazione del pubblico faccia un’impercettibile pausa per poi subito ricomporsi e dare alla sala l’impressio­ ne di non essersi accorto di niente - e quindi che niente sia accaduto - che possa alterare il corso del­ l’interpretazione. « Capisco che il sacrificio possa essere difficile da sopportare, soprattutto alfinizio, ma confido anche che grazie all’educazione che hai ricevuto in questa casa saprai dominare la delusione e, superata la pri­ ma crisi, riconquistare la serenità necessaria per capire che quest’uomo più del tuo bene desidera il mio male». « La volontà degli uomini, zia, è composta di infi­ niti propositi, alcuni coerenti e altri antagonisti fra di loro. Ecco perché a volte la loro condotta risulta

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incomprensibile, soprattutto per le persone che con­ cepiscono una fonte unica di motivazioni». « La volontà degli uomini... » concesse la signora a denti stretti, sforzandosi di conservare la sua equa­ nimità e di non sbarrare con troppa veemenza il pas­ so alle affermazioni della nipote, non tanto per il contenuto quanto per l’intenzione di risponderle for the sake of the argument, e subito aggiunse: «... e anche quella delle donne». «Le donne meno,» disse la nipote rivolgendo al soffitto uno sguardo discretamente trionfante « perché le donne hanno dei doveri verso il proprio sesso ». «Questo è quello che pretendono gli uomini; è proprio quello che pretendono gli uomini ed è la trappola in cui quest’uomo vuole farti cadere». «Gli uomini non hanno sesso, zia» disse la nipote. «Altroché se ce l’hanno» ribattè la signora, con più calma. « Non credere; non ce l’hanno. Sembra che l’ab­ biano ma in realtà non ce l’hanno. Sono come i bian­ chi, che non hanno colore». «Altroché se ce l’hanno» ripetè la signora. «Non ce l’hanno, zia, non ce l’hanno. Ti sbagli un’altra volta. Gli unici che hanno colore sono i negri e le uniche che hanno sesso sono le donne; gli uomini fanno solo finta di averlo per poter dare la replica alle donne. Ma se le donne non avessero ses­ so gli uomini potrebbero prescinderne. Le donne invece non possono prescindere dal loro sesso anche se possono prescindere dagli uomini. Voilà la diffé­ rence». «Non voglio crederti; potrei farlo ma non voglio, » disse la signora « e già che ci siamo ti dimo­ strerò ancora una volta che la volontà ubbidisce a ordini non definibili mediante parole e molto supe­ riori a tutti gli imperativi della ragione. La ragione è astuta e orgogliosa, lo sai bene, e per non riconosce­ re la propria sottomissione a forze che non capisce

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né controlla ostenta il suo dominio su quelle piccole passioni che riesce a controllare e a classificare. E come il prestanome di un gran signore, che non compare mai in pubblico e al quale lui ubbidisce cie­ camente, come ciecamente esige di essere ubbidito dai suoi subordinati, ignari che sopra di lui esista un’altra ignota gerarchia. Nella mia giovinezza appresi da uno scrittore satirico - oggi disgraziata­ mente trasformato in un classico per colpa dei com­ mentatori - che definire è diffidare. Ebbene, la mia fiducia in quell’ordine è così cieca che, a costo di non arrendermi alla perenne tentazione di identi­ ficarlo con il destino - e con questa parola conclu­ dere ogni genere di elucubrazioni in proposito -, ho preferito non definirlo mai. Così posso sentirmelo sempre dentro, posso percepire la pressione che dal suo centro oscuro esercita su tutti gli organi del mio corpo al momento di prendere una decisione, e invece di elaborarci attorno una certa escatologia dopo averlo allontanato da me, affidandone identi­ ficazione, custodia e vigilanza agli agenti della ragione, preferisco obbedirgli con la fervida dispo­ nibilità degli antichi credenti. Perché in linea di mas­ sima la ragione tende a sequestrare tutto ciò che appartiene all’anima, per poi esigere a riscatto una profusione di formule che soddisfino il suo affanno di sapere e annullino il potere di ciò che non potrà mai appartenere alla sapienza. E se non capisci quel­ lo che ti dico e non sai a che cosa mi riferisco e non vuoi metterti alla mia altezza sarà meglio che tu lasci questa casa» disse la signora, abbassando gli occhi. La nipote, invece, alzò ancora un po’ i suoi verso il soffitto, finché furono quasi sulla perfetta verticale del tronco, e sbuffò. «Bah, zia,» disse la nipote «niente di più facile. Niente di più facile che stare alla tua altezza, mi basterebbe soltanto rinunciare alle mie aspirazioni come donna. E niente di più facile che abbandonare 124

questa casa e lasciarti qua a roderti di invidia per il potere del mio sesso». « Ti ho sempre messo in guardia dai pericoli del­ l’analogia. Non credere che se le donne in generale hanno il potere del loro sesso anche tu ce l’abbia». « Ce l’ho, zia, e anche molto sviluppato. Forte, svi­ luppato e vigoroso, e soprattutto di grande effetto. Almeno a me, fa un effetto straordinario. Lo sento in ogni momento, anche quando dormo, e per que­ sto so di essere donna; so che l’eletto mi fuggirà, perché sono più amara della morte, e prenderò l’uo­ mo nel peccato e solo nel peccato». «Ci stavo proprio arrivando. Non sarà il peccato che puoi commettere tu ad allontanarti da me e a costringerti a lasciare questa casa. Sarà invece il pec­ cato che quest’uomo vuole commettere su di te e che non potrò perdonare, come non potei perdonare quello che commisero su di me». « Non preoccuparti, zia. Farò in modo di commet­ terlo io il peccato, e in nessun momento sarò inno­ cente. Me lo dice il mio sesso, e così dice YEcclesiaste». « Dove? » domandò la signora. «Capitolo sette, versetto ventisei». La signora si alzò un’altra volta per estrarre il volume dall’armadio. Lo aprì e lo lesse alla luce della lampada, con la sgradevole sensazione di chi già sa, dall’arroganza dell’avversario, di aver perso una scommessa. Lo chiuse con cura e lo rimise a posto, sfuggendo lo sguardo della nipote per non subire il sarcasmo delle sue sopracciglia inarcate e fermando­ si ogni due passi per guadagnare tempo, riannodare i fili del ragionamento e preparare l’esordio della tirata successiva con l’evidente proposito di non essere più interrotta. Ma prima di raggiungere il suo posto le arrivarono le parole della nipote, che ascol­ tò in piedi, a occhi chiusi, come una sentenza di col­ pevolezza.

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« Ciò che mi è proprio è il male, il peccato. Il mio sesso mi ci costringe perché tutte le virtù, comprese le tue, sono virili. E siccome, a differenza di te, io non voglio copiare l’uomo bensì amarlo e degradar­ lo, non vedo alternative alla colpa ». Alla fine la signora si sedette e disse: «Ripeto, se non sai stare alla mia altezza sarà meglio che tu lasci questa casa, con o senza quest’uo­ mo. E una maniera di parlare autoritaria e fastidio­ sa, lo riconosco, ma necessaria. Senza dubbio ti sem­ brerà una madornale contraddizione da parte di una persona che, presumendo tanto della sua indipendenza, ricasca nelle formule sempiterne pre­ scritte dall’ossessione della rispettabilità. Ebbene, è proprio così: la formula è la stessa e in quest’occasio­ ne mi comporto da persona gelosa della sua reputa­ zione e del suo buon nome, ardente paladina dei suoi metodi, che con impazienza e rigore cerca di trasmettere agli eredi le convinzioni che nutre e la disciplina che si è imposta. I metodi e i procedimenti sono gli stessi, ma lo scopo è cambiato: cambiò nel momento in cui decisi, dall’altra parte del ponte, di abbandonarlo al suo destino. Non lo dico perché tu continui la mia opera, né perché tu conservi quello che ho ottenuto. Adesso che ce l’ho, so quanto poco soddisfi il potere se non si mette al servizio di un’i­ dea inattingibile. Non mi spaventa la decadenza e non mi importerebbe ricadere nella miseria se in cambio riuscissi a concludere ciò che ho iniziato, tie­ nilo ben presente, perché sono convinta che la mia opera, una volta terminata, sarà inamovibile o quan­ to meno longeva come la barbara tradizione inter­ rotta dalla mia irriverenza. Ma devo portarla a ter­ mine perché incompiuta non è nulla, e perciò non posso capire né tollerare che una certa sregolatezza della tua condotta frustri la mia pertinacia. Mi dirai che accordo troppa importanza agli amoretti di una ragazzina... ». 126

«Una ragazzina che sente come una donna» interruppe la nipote senza cambiare posizione. «... fatto sta che è mio dovere, come lo era del famoso colonnello Binder, prendere tutto sul serio. D’altra parte sono convinta che l’epilogo sia immi­ nente. Di tutti gli Amat ne resta uno solo - lui — che possa turbare la mia tranquillità e non potrò ritene­ re conclusa la mia missione finché non si presenti qui non a chiedere perdono - perché non c’è perdo­ no per gli estinti - ma a riconoscere: “La nostra raz­ za e il nostro tempo sono finiti; adesso tocca a te”. E perciò non consentirò, capiscilo una volta per sem­ pre, che un forestiero si intrometta nei miei piani e approfittando dei tuoi appetiti cerchi di ristabilire l’ordine da me conculcato. Un insieme di circostanze fortuite ha intrecciato le tue vicende con le mie e la vicinanza di questo messaggero, i cui timidi passi mi è sembrato di udire per le scale, costituisce la miglio­ re conferma dei miei auspici. Per quanto mi risulta, e non perché tu me l’abbia detto, tu aspetti un indi­ viduo e io un altro. Ma mentre il tuo sa benissimo cosa spera da te, il mio può solo formulare le più incerte congetture circa il risultato della sua missio­ ne, disposto com’è, dopo molti anni di penosa inde­ cisione, a seppellire le leggi in cui fu educato e a farla finita col pesante fardello della sua vergogna. Ma è inammissibile che a causa di un piccolo rinvio arrivi troppo tardi e per colpa della tua balordaggi­ ne trovi - in definitiva - la stessa situazione che lasciò, e veda nel tuo caso una ripetizione del mio. Sicché se stai tramando qualcosa che non quadra con i miei piani sarà meglio che tu me lo dica subito. Oppure no, fa’ quello che ti passa per la testa e se lo credi opportuno abbandona questa casa dietro al tuo forestiero. Ma non tentare, ti avverto molto chiaramente, di invadere il mio terreno né di turba­ re la visita dell’uomo che sta per entrare qui».

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AGOSTO

« E questo è tutto? » domandò l’altro, assorto nella lettura di giornali vecchi, quando dopo un prolun­ gato silenzio capì che da un bel po’ non parlava. Ma quello sembrava pensieroso, turbato dal suo stesso racconto che - si sarebbe detto - gli aveva fatto una profonda impressione. « Questo è tutto? » domandò di nuovo. «Questo è tutto. Ti par poco?». « No. Non mi pare né poco né tanto. E la cena? A che punto è la cena?». «Sarà pronta in un attimo. Basta scaldarla. Ma prima voglio sapere che te ne pare». « Di che cosa? » domandò distrattamente, mentre tornava a una pagina che aveva già letto varie volte. «Di quello che ti ho raccontato». «Va bene, mi sembra». Scorse qualche altra pagi­ na e mise da parte il mucchio di fogli. « Un po’ lungo forse. Io l’avrei raccontato meglio e più brevemente. Non so perché dai tanta importanza a una storia che succede tutti i giorni. Inoltre alcuni particolari non risultano chiari». 128

«Per esempio?» domandò il più piccolo, manife­ stamente interessato alle osservazioni dell’altro. «Per esempio la faccenda del bambino. Non l’hai chiarita per niente. E la cena?». « Ti ho già detto che sarà pronta in un momento. Ma io non ho parlato affatto di un bambino. Di una bambina semmai, e solo di sfuggita». «Bambino o bambina è lo stesso. Che cosa cam­ bia? Questo dimostra che hai raccontato male. Se avessi raccontato bene non ci sarebbe dubbio se si trattava di un bambino o di una bambina, comun­ que è lo stesso. E oltre a sapere senza il minimo dub­ bio se si trattava di un bambino o di una bambina, a quest’ora staremmo cenando» disse in tono di rim­ provero, mentre tornava ai fogli di giornale. «Ti ho già detto che mangeremo fra un attimo» disse il più piccolo, che si chiamava Abdón, senza accompagnare la frase con il gesto di alzarsi. «La verità è che non sei stato abbastanza attento. Affari tuoi, saprai quello che fai. Se mi avessi ascoltato con attenzione adesso non avresti il minimo dubbio sul sesso del bambino». «Del bambino o della bambina? Decidiamoci». «Della bambina. Te l’ho detto e ripetuto: la bam­ bina». «E allora perché parli di un bambino? Non ti ren­ di conto che non sai raccontare? Va’ a scaldare la cena e poi ne riparliamo ». «Ho raccontato bene, come si deve raccontare, ma tu non mi hai ascoltato perché preferisci leggerti il giornale, un giornale di due anni fa. Saprai quello che fai. Poi però non venirmi a dire che non ti avevo avvertito ». «Sto aspettando la cena» rispose l’altro, senza lasciarsi commuovere, nuovamente immerso nei fogli di giornale che stava leggendo mentre ascolta­ va controvoglia il racconto di Abdón. «Poi non venirmi a fare delle storie».

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«Minacce?» domandò l’altro inclinando legger­ mente la testa per lanciargli un’occhiata di traverso. « Minacce, sì, minacce » rispose Abdón. « Il cielo ne è pieno. E l’unica cosa che sa fare il cielo: minacciare. Però la terra continua a essere la terra, nonostante tutte le minacce del cielo. Lo stesso si può dire di me». «L’unica cosa che ti dico è di andarci cauto e di non cercar grane. Ne abbiamo già abbastanza». «La cena, allora». Abdón si alzò di malavoglia e salì i tre gradini, ma prima di entrare nella baracca tornò a rivolgersi al suo nuovo compagno: «Finora non l’avevo raccontato a nessuno». « Hai fatto male. O non c’era motivo di raccontar­ lo mai, o non c’era motivo di venire a raccontarlo a me». « Mi è sembrato di potermi fidare di te. Ho avuto l’impressione di potermi fidare, che le tue intenzio­ ni erano buone». « Le mie intenzioni? Buone intenzioni? Che storia è questa?». «Comunque terrai il segreto?». «No,» disse il più alto «se non porti subito la cena». «Non preoccuparti, arriva subito». In meno di mezz’ora Abdón portò, impugnandola per i manici con uno straccio, una casseruola che depositò sul penultimo gradino, e due cucchiai. Poi fece un altro viaggio per portare una bottiglia di vino, due bicchieri, uno dei quali pieno d’acqua, e una mezza pagnotta. «Cosa c’è?». « Fagioli di San Lazaro con salsiccia e orecchio di maiale». «Riscaldati?». «Di ieri». L’altro scoperchiò la casseruola e mise il naso pro­ prio sul bordo. Poi spezzò il pane e ne intinse un 130

grosso pezzo nel sugo, provò con la punta della lin­ gua se scottava, e se lo mise in bocca tutto intero. Prima ancora di inghiottirlo bevve una lunga sorsata di vino direttamente dalla bottiglia. « Mangiare da porci » disse a bocca piena. Abdón assaggiò una cucchiaiata e disse: « Non c’è male, non c’è male». Durante la cena parlarono ben poco, Abdón tene­ va d’occhio l’altro ma riusciva a stento a portarsi una cucchiaiata alla bocca per ogni tre che ne prendeva l’altro. Quando gli chiese il pane l’altro di malavoglia gliene passò un pezzetto, un quarto di quello che riservò per sé, e quando nella casseruola non resta­ vano più né fagioli né salsiccia né orecchio se la mise tra le ginocchia per intingere il pane a suo piacere. Abdón scese di un gradino e si sedette ai suoi piedi per intingere il pane anche lui. «E come se fosse figlia mia» disse. L’altro sembrò sorpreso. « Ma senti che roba » disse, per poi aggiungere con fastidio: «Non mi lasci posto per i piedi». Abdón si rattrappì per riuscire a intingere il suo pezzo di pane nel sugo. Con la bocca piena disse: «E magari lo è». L’altro lo guardò di sbieco, poi spezzò in due quel che restava del pane e mettendone da parte un pez­ zo intinse l’altro nella casseruola per ben tre volte. «Non c’è ricompensa per il giusto» disse. Abdón raccolse dal gradino la casseruola vuota e i bicchieri e fece per dire qualcosa, ma l’altro lo prece­ dette: «Il giusto deve sapere che la vita farà di lui un peccatore. Non può aspettarsi nient’altro. Dobbia­ mo prepararci a soffrire e a far soffrire, Abdón». «Soprattutto a soffrire». « Soprattutto a far soffrire. È più in nostro potere. Solo noi peccatori abbiamo diritto alla vita. Chi non lo capisce si sbaglia. O peggio ancora, si inganna.

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Solo il malvagio non inganna nessuno. Spostati un po’ che mi si sta addormentando il piede». Abdón si spostò. «Anche tu pretendi di non ingannare nessuno? Tutti quelli che conosco dicono di non aver ingan­ nato nessuno e invece non hanno mai fatto altro che ingannare. L’unico di cui mi ricordi che non sapeva ingannare nessuno, nemmeno lo sapeva, e fece la fine che fece». «Cosa c’è di frutta?» « E perciò preferì morire, questa è la verità. Prefe­ rì morire perché capì che vivendo non avrebbe fatto del bene a nessuno». « Ma di chi diavolo stai parlando? Chi preferì morire?». «Te l’ho detto un sacco di volte ma non hai capito niente. La verità è che poteva continuare a vivere ma preferì morire. Di dolore, credo. Quando lei era bambina». « Non avevamo detto che si trattava di un bambi­ no? O era una bambina?». «Tu non mi stai a sentire, non t’importa niente di quello che ti ho raccontato, non so perché perdo tempo con te » disse Abdón salendo i tre gradini con la pentola degli avanzi della cena. «Non so come mi è venuta la cattiva idea di raccontarti queste cose, come ho potuto credere che fossi tu l’uomo che sta­ vo aspettando». «Andiamo, andiamo, non fare così» disse l’altro in tono più conciliante. «E incredibile che tu, un uomo di gusto, ti arrabbi per così poco. Che colpa ne ho io se non racconti le cose con ordine? Racconta­ melo un’altra volta e siamo a posto. Raccontamelo mentre mangiamo la frutta». «No» disse Abdón con atteggiamento un po’ infantile ma con fermezza. «Una volta basta». «Dove l’hai messa?». «Che cosa?». «La frutta».

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«Di fianco al lavandino, c’è un sacchetto di pesche secche » disse Abdón con una certa malinco­ nia, sentendo un’improvvisa fitta alla mascella. « Gli promisi sul letto di morte che l’avrei aiutata». Un vuoto si aprì improvvisamente nella sua coscienza: un vuoto o un turbine di passate particelle guerrie­ re, eteree e atone, prive di direzione ma non di sen­ so: c’erano una frase perduta e una faccia dimenti­ cata e per un istante una scena rotta e ripetutamente abortita che al momento di svilupparsi nel him del­ la memoria svaniva lasciando l’impronta di una per­ dita irreparabile, la testimonianza di un passato che non sta nel corpo e vaga nello spazio senza luce, fin­ ché - dopo un istante di perplessa incandescenza resta di nuovo sepolto nella penombra, senz’altra materia che un’ipotesi non formulabile. L’altro com­ parve sulla porta, masticando una pesca secca; scese i gradini e gli porse il sacchetto. «Ora ricordo, quello che arrivò inseguendo sua moglie » disse, con lo stesso tono conciliante, mentre agitava il sacchetto e glielo porgeva per farlo uscire dal suo stato di astrazione. « Non arrivò nessuno inseguendo la moglie. E poi non venne qui» disse Abdón controvoglia, estraen­ do dal sacchetto con lo stesso disinteresse una pesca secca. Ma nell’avvicinare il frutto alla bocca sentì un’altra fìtta alla mascella e la stessa corrente di scintille e di ombre sguscianti e indefinibili - imma­ gini di una pellicola sfuggita agli ingranaggi del proiettore — lo trascinò verso la sua giovinezza a velocità troppo alta per riconoscere anche un solo profilo. «Io allora non abitavo qui» aggiunse. «Non avevi detto che erano venuti qui tutti e due? » domandò l’altro mettendosi in bocca un paio di pesche. «Impossibile che l’abbia detto. Anche se non ho memoria non posso aver detto una sciocchezza simi­ le. Io allora vivevo lontano da qui. Abbastanza lonta­ ni

no. E poi non arrivò inseguendo lei. Niente affatto. Semmai il contrario». «Allora fu lei ad arrivare inseguendo lui? E così?». «Neanche» disse Abdón. «Nessuno arrivò inse­ guendo l’altro. Poi io non c’ero. I due non si insegui­ vano affatto. Né lui inseguiva lei né lei inseguiva lui. Non hai capito niente. Se si fossero inseguiti la storia sarebbe stata molto diversa e sicuramente io non sarei qui. E neanche tu. Se si fossero inseguiti non c’è dubbio che si sarebbero incontrati, perché rischiarono di farlo anche senza inseguirsi. E se rischiarono di farlo anche senza inseguirsi, come avrebbero potuto non incontrarsi se si fossero inse­ guiti? E non si inseguirono proprio perché non vole­ vano incontrarsi, perché se avessero voluto incon­ trarsi non c’è dubbio che si sarebbero inseguiti. Non basta: si sarebbero incontrati anche se solo uno dei due avesse inseguito l’altro, e anche se quest’ultimo avesse fatto di tutto per non farsi trovare. Ed è pro­ prio lo stesso che fosse lui o lei, perché se uno qua­ lunque dei due avesse voluto incontrare l’altro mettiamo che fosse lei ad avere ancora interesse a trovarlo —, anche se l’altro avesse fatto tutto il possi­ bile per non essere trovato, alla fine si sarebbero incontrati, e non perché sia più facile trovare chi si vuol trovare che non trovare chi non si vuol trovare, cosa di cui dubito, ma perché se uno vuole trovare un altro e dedica tutto il suo tempo a cercare di tro­ varlo, finirà per trovarlo per quanto l’altro si impe­ gni a non farsi trovare, come dimostra la storia recente della Spagna e forse anche quella della Ger­ mania ». «Non vedo perché» disse l’altro mettendosi in bocca un paio di pesche. « Se tu dici che incontrarsi è facile come non incontrarsi, non vedo perché alla fine debbano incontrarsi». «Maledizione,» disse Abdón, per la prima volta non dissimulando una certa perdita di controllo 134

«non capisci niente di niente. Non so che cosa stai facendo qui, non so perché perdo tempo con te e non so come mi è venuto in mente che potevi aiutar­ mi a mantenere la mia promessa». « Su, prendine una » disse l’altro facendo risuona­ re nel sacchetto i pochi frutti che restavano. Di nuovo Abdón sentì una fitta alla mascella e prima di subire il passaggio di qualche fantasma del­ la memoria ci pensò sopra e facendo oscillare l’indi­ ce della mano destra ben dritto davanti al naso del­ l’altro spiegò: « Perché un’azione positiva è sempre più forte di una negativa, lo sanno anche i bambini. Per questo gli assassini, i maestri di scuola e gli uomini d’affari riescono in genere a realizzare i loro propositi. Per­ ché a fare una cosa c’è più senso che a non lasciarla fare. Per questo la virtù è vantaggiosa, come avrai sentito dire». «Non ho mai sentito dire una cosa simile» disse l’altro, appallottolando il sacchetto della frutta e get­ tandolo lontano, sul terreno spoglio. « Quando mi parlano di virtù penso sempre a par­ rucche e baffi finti» soggiunse. «Preferisco il vi­ zio ». «Anch’io» concesse Abdón. «Proprio perché la virtù è vantaggiosa. Se non fosse vantaggiosa non sarebbe virtù. Insomma è virtù perché è vantaggio­ sa, e non viceversa, perché il vizio, se fosse vantag­ gioso, sarebbe predicato come virtù. La morale è sempre doppia e fallace, mette il sostantivo dove deve mettere l’aggettivo e viceversa. In realtà la morale deve dire: Il vantaggio è virtuoso, ma per salvare le apparenze lo dice a rovescio. Perciò io mi faccio guidare solo dal rovescio di quello che si dice. Non il contrario, il rovescio. Il rovescio mi dà molta tranquillità perché permette di vedere come sono fatte le cose. Sono fatte a rovescio perché poi si veda il diritto. E il diritto inganna, inganna sempre. Per­ ciò odio le circostanze e ho cercato di vivere tutta la

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vita badando ai rovesci. Così invece di andare dove­ vo tornare, sono sempre dovuto tornare, che è mol­ to più comodo e sicuro, più noto. In compenso il successo coglie sempre alla sprovvista. I nuovi ricchi, ah, i nuovi ricchi sono sempre più nuovi che ricchi, e più ricchi diventano più nuovi sono, e non possono mai tornare perché non arrivano mai. Be’, io ho già finito, sicché non mi resta che ricominciare dacca­ po, su cose ben note. Devo tornare per patire gli stessi rovesci. E il bello del rovescio, va mitigato». « Basta riuscirci » disse l’altro con scarsissimo inte­ resse per la conversazione, tanto che ricominciò a sfogliare i giornali vecchi di prima. «Tornare a mitigare» disse Abdón. «Mitigare tornando» disse l’altro col medesimo disinteresse: mentre leggeva si puliva i denti con l’unghia del mignolo, sputando al suolo frammenti di cibo. «Tornando a mitigare» disse Abdón. Fece quindi una lunga pausa di cui l’altro appro­ fittò per andare in cucina. Dall’armadietto sopra il lavandino prese una mezza bottiglia di castillaza, se ne versò un terzo di bicchiere e tornò fuori sorseg­ giandola. Senza sedersi sul gradino disse: «Non c’è un filo d’aria». « Perciò ho insistito tanto, » continuò Abdón « per­ ché sapevo di dover imbattermi sempre in un nuovo rovescio. Per questo mi era difficile mantenere la promessa, soprattutto all’inizio, quando mi impe­ gnai ad accoglierla perché suo padre era morto». «Chi è che era morto? Che stai dicendo?». « Ti rendi conto che non hai capito un bel niente? Quando te l’ho raccontato stavi pensando ad altro e adesso dovrò raccontartelo di nuovo, dall’inizio alla fine». L’altro ingurgitò una buona sorsata di grappa e si schiarì la voce. Poi disse qualcosa tra i denti, che Abdón non riuscì a sentire, qualcosa di relativo alla grappa e all’aria così ferma di quella notte, in tono

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di protesta e per eludere la proposta di Abdón, il quale forse capì che non poteva applicare lo stesso metodo di prima e doveva optare per un procedi­ mento che lo distraesse dai giornali e lo interessasse alle sue parole. « Perché capii che non voleva ascoltarmi, né vole­ va sapere quello che avevo da dirle. Che era pres­ sappoco quello che ero stato costretto a prometter­ gli, sul letto di morte voglio dire. Allora perché non mi ascoltava? Non che non volesse ascoltarmi, è prorio che non voleva ascoltare quella cosa lì, il che è en diverso. E se ero l’unico che gliela poteva dire, allora ero l’unico che lei non voleva o non poteva ascoltare, mentre poteva ascoltare chiunque altro. Capisci adesso?». «Certo che capisco» rispose l’altro. «Perché non dovrei capire? Per chi mi hai preso? Aspetta un momento» disse andando in cucina a riempirsi di nuovo il bicchiere. « E non solo quello, » proseguì Abdón « e non solo quello. Perché voleva anche non volerlo ascoltare, e perciò aveva bisogno che qualcuno glielo andasse a dire per potergli dire: non lo voglio ascoltare, e que­ sto qualcuno potevo essere solo io, che ero l’unico a saperlo, per lo meno finché non l’avessi raccontato a qualcun altro che a sua volta potesse andare a rac­ contarglielo anche sapendo che non l’avrebbe ascol­ tato perché non voleva ascoltarlo. E questo era il problema, il problema più grave: perché se arrivava un altro che non conosceva, come non conosceva me, per raccontarle quello che non voleva ascoltare, ma senza che lei sapesse cosa le avrebbe raccontato, poteva ben ascoltarlo, e non solo sentire quello che non voleva sentire, ma anche perdere per sempre la possibilità di non volerlo ascoltare, il che, come ti dicevo, è l'ultima cosa che voleva perdere per poter continuare a non volerlo ascoltare. Hai capito?». « Certo che ho capito » rispose l’altro. « Per chi mi hai preso?» aggiunse con un tono tra l’offeso e il provocatorio.

C

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«Avrei anche potuto raccontarle una bugia». «A chi?». « A lei, è ovvio. O a qualcun altro che gliel’andasse a raccontare. Raccontargli una bugia perché andas­ se a raccontarla a lei che così avrebbe potuto ascolta­ re una cosa ben diversa da quella che non voleva ascoltare. E avrebbe potuto continuare a non voler ascoltare quello che non voleva ascoltare». « Ovvio. Perché non sei andato a raccontarle una bugia?». « Che bugia le andavo a raccontare? Che era vivo? O le raccontavo che era morto - che era la verità, la verità che lei non voleva ascoltare - o le raccontavo che era vivo. Ma se le raccontavo che era vivo, cosa ci guadagnavo io e come facevo con la bambina? Per me era lo stesso, che lei venisse a sapere che era morto oppure no, perché so come è stata crudele con lui e come avrebbe continuato a essere crudele per tutta la sua vita se fosse rimasto vivo, ma a me importava la bambina, perché sul letto di morte, si può dire, gli promisi che avrei pensato a lei e le avrei dato un’educazione o l’avrei consegnata a sua madre perché, secondo la legge, era lei sua madre, che la poteva allevare e educare e darle il suo nome, voglio dire il nome di lui, perché lei era l’unica che poteva avere una figlia col nome di lui, secondo la legge e a quanto mi risulta. Non le avrei detto, naturalmente, tutto quello che lui disse a noi di lei: quanto sia stata crudele, come per anni abbia rifiutato di perdonare l’affronto subito la prima notte di nozze, che per lui non era poi un tale affronto, ma poco più di uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto che veniva da lontano e che la famiglia ripeteva per accogliere la nuova sposa di ogni maschio; per riceverla e farle sapere che a partire da quel momento era la padro­ na di casa, la madre di tutti, allo stesso modo in cui la sposa del re spodesta la madre del re, a quanto mi risulta. No, non le avrei detto tutto quello che aveva detto lui, quando dopo aver vagabondato un anno

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intero per tutta la valle, come un appestato, arrivò al nostro accampamento consumato dalla febbre e per tre giorni delirò, accusando suo padre, la sua fami­ glia e se stesso del danno subito. Ma quando guarì non gli accadde più di delirare, e neanche sapeva di aver delirato accusando suo padre e la sua famiglia di tutto il male che avevano fatto a generazioni di donne innocenti che mai confessarono il peccato delle loro nozze, perché in cambio ricevettero un premio molto maggiore di tutte le pene delfinferno, per il quale ben si potevano accettare tutte le pene dell’inferno. L’unica cosa che voleva era dimenticare e condurre una vita umile, senza mai più ricordarsi della sua famiglia, insieme alla donna che indubbiamente gli salvò la vita, lo curò, gli perdonò il peccato che lui e tutti i suoi antenati avevano commesso su generazio­ ni di donne innocenti e ipocrite, e alla fine gli diede una figlia che costò la vita a lei e, come poi si dimo­ strò, anche a lui. Inoltre, se le raccontavo che era vivo poteva anche succedere che non volesse ascoltarlo e allora eravamo daccapo, con l’aggravante di aver rac­ contato una bugia che poi bisognava ripetere — voglio dire, ripetere il tentativo di dirgliela — altrettante vol­ te della verità che non voleva ascoltare. Di conse­ guenza, era lo stesso che fosse verità o menzogna quello che io ogni tanto andavo a dirle, e perciò, la verità, preferivo andarle a dire la verità». «Che era morto». «Proprio così, che era morto». «Morto e stramorto». «Proprio così, morto e stramorto» disse Abdón. « E che aveva lasciato una figlia, morendo, che non aveva madre e che la madre doveva essere lei, per­ ché portava il suo nome e solo una figlia sua poteva portare il nome di lui». «Però non sei mai riuscito a dirglielo» disse l’al­ tro. «No, non sono mai riuscito a dirglielo perché, come ti ho detto, non ha mai voluto ascoltarlo. Que139

sto lo so di sicuro. E non ha mai voluto ascoltarlo perché ha sempre voluto non volerlo ascoltare; e alla fine voleva solo riuscire a non smettere di non volerlo ascoltare». «E allora vuoi che glielo dica io». « Al momento buono, vorrei che glielo dicessi tu, per il tuo bene e per il bene di tutti. Ma solo al momento buono. Quando potrai dirglielo da figlio ». « Da figlio? » «Sì, da figlio. Insomma, da genero». «Ma senti che roba».

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GIUGNO

Non avevano percorso neanche un isolato quando a un tratto Mercedes si fermò, disse: «Scusa un momento», girò sui tacchi e attraversò la strada accelerando il passo. In mezzo alla carreggiata chia­ mò e si mise a correre fino a raggiungere un ometto che a sua volta si fermò, girò sui tacchi e si portò la mano al berretto per salutarla. Mercedes dovette chinarsi per dargli due baci sul­ le guance. Era un uomo piccolo, di aspetto umile, vestito di grigio, con la testa rotonda e solcata da rughe, con un piede deforme, che portava un pac­ chetto sotto il braccio. Parlarono animatamente e solo dopo un po’ Mer­ cedes alzò la mano per chiedere all’amica sul marcia­ piede di fronte di aspettare. L’ometto, dopo una breve conversazione, portò di nuovo la mano al berretto per congedarsi, ma Mer­ cedes lo prese per il braccio e nonostante le sue pro­ teste lo spinse nella direzione opposta a quella che aveva preso. Attraversarono la strada e la raggiunse­ ro, ma Mercedes non glielo presentò. Quando arri141

varano dov’era parcheggiato il furgoncino Merce­ des lo invitò a salire, aprì la portiera dalla parte del guidatore, ribaltò il sedile e lo costrinse a sedersi di dietro, dove, nonostante la scarsa statura, impettito com’era toccava la lamiera col berretto, reggendo con due mani il suo involto. « Nessun disturbo, Abdón » aveva detto Mercedes. Attraversarono il ponte e presero la strada di Burgo Mediano, la stessa da cui erano venute, però all’incrocio invece di svoltare per la casa tirarono dritto. Per il sole che entrava dal finestrino, l’ora abbastan­ za tarda e il vino che aveva bevuto mangiando, l’ami­ ca si addormentò e si svegliò solo quando il furgon­ cino si mise a sobbalzare su una stradina che non conosceva, fiancheggiata da giovani roveri e muret­ ti di pietra a secco. «Qui puoi fermarti, figliola» disse Abdón quan­ do sbucarono in una spianata, prima di attraversare un ponticello di legno oltre il quale il sentiero diven­ tava impraticabile per i veicoli. «Aspettaci qui un momento, per favore» disse Mercedes scendendo dal furgoncino e abbassando il sedile per far scendere Abdón, che si congedò da lei con un gesto formale, portando due dita alla visiera del berretto. Attraversarono il ponte di legno e si allontanarono per il boschetto di roveri. Incapace di riaddormentarsi e stanca di aspettare, decise di andare a cercare Mercedes, spronata dalla diffidenza che suscitavano in lei tutte le sue azioni e tutti i suoi gesti, anche i più innocenti. Il sentiero risaliva un breve pendio, spoglio di alberi: dalla cima si vedeva, in fondo a un pianoro, la baracca addossata alla montagna, e quelle due figure come imprigionate per sempre dal fogliame, quattro pen­ nellate di un paesaggio fiammingo. Un individuo era seduto su un gradino all’entrata della baracca, intento a leggere un giornale, che mise da parte all’avvicinarsi di Mercedes. Non si

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alzò, e allora ebbe un presentimento: la complicità di quell’uomo con Mercedes alle spalle dell’altro. Mercedes mise il piede sul primo gradino e nasco­ se con il corpo un po’ curvo l’uomo seduto. Non poteva avvicinarsi di più senza essere vista e decise di salire fino a un ginepraio da cui contava di vede­ re meglio la baracca. Mercedes si era seduta sul primo gradino. L’indi­ viduo alzò le braccia al cielo e inclinò il tronco all’indietro; allora lei scoppiò a ridere - rumori che attra­ versando un campo soleggiato non hanno più alcun rapporto con il luogo da cui emanano, e alludono a un mondo diverso, più antico e amabile, per chi li coglie da lontano — e si piegò in avanti. E quando tornò a raddrizzarsi, si prese i capelli fra le mani e dopo averci giocherellato li lasciò andare mentre l’individuo si alzava in piedi e di nuovo levava le braccia al cielo. Non riusciva a distinguere i suoi lineamenti però li indovinava, sapeva di averlo già visto. Sapeva che corrispondevano a un certo registro non classifica­ to, che un solo dato mancante avrebbe da un momento all’altro completato il ritratto. E automati­ camente pensò alla fotografia e le venne in mente la parola commediante. Quando il vecchio apparve sulla porta della baracca, Mercedes si alzò e tese la mano a ricevere un pacchettino che lui le porgeva. L’individuo si rimise a sedere e spianò sul gradino il foglio di giornale. Ma Mercedes, con gesto sfacciato, ci mise sopra il piede e l’individuo tornò a levare le braccia al cielo, con un grido accompagnato da qual­ che risata, risate e voci che venivano da un secolo o un millennio prima, quando il momento successivo non aveva motivo di giungere — come in un paesag­ gio fiammingo —, quando il presente si chiudeva su se stesso per rendere più vaste la gloria e la pace della terra. Sulla via del ritorno le disse che era un vecchio amico di famiglia, una specie di eremita che viveva 143

quasi tutto l’anno da solo e quasi unicamente di erbe della montagna; e che le aveva regalato una tisana di erbe che crescevano sulle cime del Monje, da lui rac­ colte al primo sciogliersi delle nevi. Tisana che a suo dire curava tutto, anche il mal d’amore. Qualche giorno dopo prese un tassì che la portò in collina, fino al ponte di legno, grazie ai punti di riferimento di cui aveva preso nota durante il ritor­ no. Sulla porta della baracca, come sempre aperta, non c’era nessuno. La baracca puzzava di umidità e di abbandono. L’odore delle pareti nude e del terreno screpolato, del legno marcio e della biancheria asciutta lavata con la lisciva. « Che cosa desidera? » domandò una voce dal fon­ do del corridoio. Che cosa desiderava? Quasi tutte le porte che davano sul corridoio erano socchiuse, lasciando così intravedere le camere nude; soltanto in quella del fondo c’erano un lavandino e una cucina economi­ ca. Un bisogno antico e mai soddisfatto, che sempre le aveva fatto supporre l’esistenza di qualcosa che non aveva provato e che le avrebbe cambiato la vita, la incitò ad avanzare per il corridoio e ad accorrere al richiamo della voce mentre un timore inedito, sorto spontaneamente nel suo intimo in accordo con quella energia che fin dall’infanzia le avevano incul­ cato per parare le minacce che insidiano la donna virtuosa, l’induceva ad abbandonare all’istante quel luogo e a tornare (in tassì) al mondo dell’ordine e della serenità. Allora pensò di essere sul punto di cadere nell’abisso, e con forti palpitazioni, senza parlare, avanzò per il corridoio in direzione della cucina. «Chi c’è? Che cosa desidera?». La voce risuonò alle sue spalle. Non era la voce di un commediante, pensò soltanto, ma quella di un sovrano del male che mediante uno dei suoi tanti artifizi l’attirava nel più insolito dei suoi domicili. 144

Tornò indietro fino all’ingresso e si mise ancora davanti alla porta della baracca, davanti alla lumino­ sità di un pomeriggio di giugno in cui l’aspettava un tassì per riportarla al suo mondo di ordine e di decenza, mentre alla sua sinistra un breve andito in penombra conduceva nel regno del lupo. Scelse la sinistra, per pura ignoranza, per credulo rispetto dell’ignoto, per invidia; non spinta dall’a­ more per l’avventura, ma spronata a fare quei tre passi che consentono di intravederla per poi respin­ gerla; non sprezzante - come chi ama l’avventura -, ma attenta alla propria sorte. Di nuovo l’apostrofò la voce, un solo monosillabo. Nella mezza luce - il vetro della finestra era coperto di carta fissata con del nastro isolante - un uomo scomposto e seminudo, steso su una branda, leggeva una quantità di riviste e giornali sbrindellati, men­ tre, con il ritmo di un congegno a orologeria, divo­ rava semi di girasole prendendoli da un sacchetto sul bordo della branda e sputando poi le bucce sul materasso e per terra. « Cosa c’è? » domandò senza spostare gli occhi dal giornale e senza smettere di mangiare semi. Era in maglietta, senza pantaloni, e solo quando dalla sua risposta fievole, rotta e appena intelligibile capì che si trattava di una donna, lasciò cadere il foglio di giornale sul ventre e sulle gambe e si fermò con la mano sul sacchetto dei semi, come un automa che si sia scaricato. Ma non si alzò e allora lei intuì che lì stava il pericolo ma non il male. Non erano quelli i suoi lineamenti. Non fiammeggiava. Non era né attraente né repellente; si sarebbe detto che non avesse perso neanche un minuto della sua vita a coltivare l’indole che aveva avuto in sorte, e come un cane randagio avesse dedicato tutto il suo tempo un tempo senza caratteri, senza nomi, senza fatti - a trascinare un’esistenza vagabonda e che, come un cane randagio, non fosse disposto a sprecare uno

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dei suoi pochi momenti di ozio neanche per un buon boccone. Più che paura ebbe vergogna, e nel precipitare verso la delusione pensò soltanto all’importo del tas­ sì - ritorno alla costumatezza per la scorciatoia del­ l’avarizia. Inventò un pretesto, gli disse che era venuta in cerca di una tisana ottima per l’insonnia, che le aveva raccomandato una sua amica (e ne fece il nome, in un penultimo tentativo di ridestare la sua bestialità?), ma non era per lei, era per una sua zia afflitta dalla mancanza di sonno. «Lui ora non c’è e io non so dove le tiene» disse l’uomo non rasato riprendendo in mano il giornale e i semi di girasole nel sacchetto accanto alla branda. Gli disse del tassì; fece un ultimo sforzo per indo­ vinare la presenza del male e risvegliare un tacito, spontaneo e malvagio consenso alla tentazione, ma non fece nemmeno un passo avanti, bloccata in mez­ zo al corridoio, e l’uomo in maglietta, non rasato, non si mosse dal letto. Le disse soltanto di lasciare il suo indirizzo, che il suo amico le avrebbe portato la tisana in uno dei suoi frequenti giri in paese.

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OTTOBRE

La signora fece una pausa; attirò sotto il cerchio di luce un foglio di carta scritto a mano e si mise gli occhiali per leggerlo, apparentemente spinta dal desiderio di correggere un errore, ma quasi subito l’allontanò di nuovo, con quel gesto che associa la delusione per la mancata sorpresa, il sollievo per la breve interruzione e la concentrazione degli sforzi per riprendere il cammino. « Capirai » disse « che se io seppi non seguirlo allo­ ra, oggi non posso vedere di buon occhio che tu ti faccia correr dietro da uno dei suoi seguaci». « Seguaci? ». « E se non lo seguii non fu per mancanza di voglia, te l’assicuro. La stessa che puoi avere tu di scappare con uno dei suoi, se non di più. Di questo non ho il minimo dubbio, è uno di loro, istruito e forse pagato per tentare di ripetere con te l’infamia che vollero commettere con me. E della quale lui era il meno responsabile, come cercò di dirmi incitandomi ad abbandonare la casa e a raggiungerlo sul sentiero dall’altra parte del fiume. Ma mi fermai a tempo, 147

sull’altra riva, accanto al cippo che segnava il confi­ ne delle sue terre. Perché non si trattava di correre, supplicare o farmi valere. E ancor meno di dimenti­ care, o sorvolare su ciò che era successo nelle ultime ventiquattr’ore. Al contrario, dovevo esaltare l’infamia se volevo farla finita una buona volta con la tradizione che la sosteneva. Ma come potevo render­ la pubblica senza cadere io stessa nella più profonda degradazione? A che serviva dire “non è vero”, “non è niente di grave”, “non è successo niente” se era vero, verissimo, se quello che era accaduto era pas­ sato sul mio stesso corpo, e per di più era necessario che accadesse, perché questa era la loro legge? Con quale forza e con quali convinzioni potevo uscire correndogli dietro, al di là del cippo di confine, e dirgli: “Ti perdono”, per ingraziarmelo, se non solo non credevo alla sua colpa, ma sapevo che con tutta la possanza delle sue viscere avrebbe rifiutato la via del perdono, quella che ci avrebbe sottratto al domi­ nio e alle regole dei suoi? Come poteva ammetterlo se questo significava perdere tutto ciò che per lui aveva un senso e una ragione di essere, compresa me, la persona in cui aveva creduto di indovinare la fermezza, la forza d’animo e lo spirito di sacrificio necessari per sopportare l’ordalia che gli avrebbe permesso di conservare tutto e di cambiarlo? Come avrebbe potuto cambiarlo se io lo costringevo a rinunciarvi? Giacché, come ti dicevo prima, sebbene l’incidente che provocò la nostra fuga fu lo stesso per entrambi, le ragioni dell’uno e dell’altro erano molto diverse. Io me ne andai dopo, perché se lui avesse potuto sopportarlo io lo avrei appoggiato e insieme saremmo riusciti a vincere il furore e l’astio degli uni e degli altri. Ma lui abbandonò la casa sen­ za pensarci due volte e uscì di corsa, lasciandomi sola nella tempesta, senza altra scelta che fare del mio meglio per ottenere riparazione. Lui no, lui uscì di corsa, disgustato e inebetito, in cerca di un rifugio dove poter, se non dimenticare, almeno riposare e 148

riprendersi da tutto il male subito. In un istante era stato (ai suoi occhi) ingannato e spodestato da suo padre, tradito dalla moglie e umiliato da tutti i parenti, i quali, come un’unica onda, con un solo crescente ruggito — dal lontano, sordo brontolio, fi­ no al suo frangersi in mille voci stridule e furiose -, si alzarono da tavola per catturare con la forza di un maroso quella irresoluta creatura di spuma: la creatura che, posta davanti al dilemma di scegliere fra due partiti, in un istante li rifiuta entrambi e segue la propria strada. Io avevo la mia parte di col­ pa, una grande parte di colpa, attribuibile alla mia innocenza e allo stato di ebbrezza in cui ero stata condotta al matrimonio, e avrei dovuto essere ben stupida per sperare che le mie azioni avrebbero con­ servato lo stesso valore dopo la completa bancarotta della società. Per lui? Una catastrofe di tale grandez­ za non poteva certo essere riparata mediante una ragionevole spartizione delle responsabilità; come se la colpa potesse essere amministrata e distribuita per quote, accusando gli uni di questo e gli altri di quel­ lo, cercando ammenda ai diversi falli a destra e a sinistra e tentando nei limiti del possibile di ristabili­ re il paradisiaco, ancorché teso, statuto anteriore alla notte di nozze con l’annotazione puntuale delle nostre diverse debolezze, l’invettiva contro i nostri leggendari vizi, e una lezione sul miglior cammino da seguire. No, non si trattava di uno solo ma di tre colpi, uno più mortale dell’altro; non di una ma di tre morti, le quali - mentre andava a briglia sciolta sulla stradina lungo la riva sinistra del fiume, nella carrozza che filava sobbalzando in direzione delle montagne - lo avrebbero indotto a pensare a una quarta resurrezione in un limbo equidistante dagli altri tre territori dell’anima, dove staccarsi dalla ter­ ra che l’aveva visto nascere, dal padre che col suo sangue gli aveva trasmesso le sue più profonde con­ vinzioni, dall’amicizia che gli aveva aperto gli occhi a possibilità delicate e suggerimenti creativi, dalla

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moglie che aveva ridicolizzato le ciance sull’amore per restaurarne il sereno caos non verbale. Doveva fuggire il più lontano possibile, in un luogo molto isolato dove poter riflettere... ah! Riflettere? Che sto dicendo? Su cosa doveva riflettere? Su dove, come e con chi avrebbe potuto recuperare i tre terri­ tori perduti? E perché, per continuare a essere se stesso? E che cosa restava di lui se non un certo numero di cellule tenacemente aggrappate a una certa organizzazione, ufficialmente votata al pro­ gresso e alla beneficenza, e clandestinamente dedi­ ta al crimine e al contrabbando? Almeno avesse por­ tato con sé il tesoro di un giuramento di vendetta, il proposito di farsi risarcire del male ricevuto con raf­ fronto più semplice, una pezza o un fazzoletto getta­ to per terra alfinizio di una festa, magari lo stesso che Emilia raccolse da terra, macchiato del mio san­ gue, e che a terra sarebbe dovuto per sempre rima­ nere; no: una volta che si dubita — disse il suo com­ pratore — lo stato dell’anima resta irrevocabilmente il medesimo. Ma se lui non era disposto alla vendet­ ta, con che diritto e perché dovevo cercarla io? Che cosa potevo fare? Restarmene in quella casa con suo padre? Magari l’idea, frutto dei miei errori, mi era anche passata un attimo per la testa, in quella notte di confusione e di ubriachezza, ma alla mattina l’ave­ vo già respinta, e sapevo senz’ombra di dubbio chi era mio marito: di più, sapevo chi, fra tutti gli uomi­ ni di questo mondo, avrei scelto io per marito, se fosse toccato a me scegliere. Sicché, a parte il san­ gue, che cosa avrei restituito con un simile gesto ai miei forzieri svaligiati? Ma anche la via opposta era segnata dal dubbio, un altro dubbio, paralizzante quanto il primo, che richiedeva non meno di sei set­ timane per essere sciolto. E non potevo aspettare né sei né due né una sola settimana, e neanche un’ora mentre vedevo la carrozza ferma sulla riva sinistra, alla curva del sentiero. Non sembrava voler tornare indietro. Il triplice colpo era stato troppo forte per-

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ché potesse tentare di guarirne mediante un allonta­ namento discreto, un ritiro e qualche settimana di meditazione per far quadrare un bilancio che avreb­ be tutt’al più pareggiato i conti di un libro per lui dehnitivamente chiuso, e non solo, ti dirò, per l’enormità del saldo, ma anche perché, essendo nato e cresciuto nel clima di faide e prepotenze in cui la sua famiglia aveva prosperato fin dal suo insedia­ mento fra quelle montagne, aveva sempre avuto l’intenzione - fu una delle poche idee che potei far­ mi durante i nostri rari incontri prima della firma e della consumazione del contratto - di cancellarlo a favore di un’epoca di concordia tra vicini per la qua­ le, fatto unico nella loro storia, un Amat era disposto a pagare un prezzo. Era il primo Amat, a quanto si sappia, che era disposto a pagare. Per me, capisci? A pagare per me». «Io non ne avrò mai bisogno, zia» interruppe la nipote. «L’uomo che mi amerà...». «Stupida» interruppe a sua volta la signora in tono energico. «Prendi tutto alla lettera». «Appunto, alla lettera della parola divina» disse la nipote, per parare il colpo con la prima cosa che le passò per la testa. «Era il primo Amat disposto a pagare, il primo disposto a restituire una piccola quota di ciò che i suoi antenati avevano saputo solo accumulare, e in cambio di una parte di ciò che i suoi antenati aveva­ no saputo solo disprezzare. Non si può dire che le cose fossero cambiate, in realtà non era cambiato niente se non una direzione degli affari pubblici che in nulla incideva sugli affari pubblici né sul benesse­ re delle vecchie famiglie; come quel cielo inalterato in cui è mutata soltanto la direzione di una bande­ ruola che in una notte di calma apparente ha ruota­ to di centottanta gradi e la cui freccia, dopo settima­ ne di vento di terra, punta ora verso l’oceano segna­ lando l’avanzata dei venti d’oltremare - venti di burrasca, senza alcun dubbio — che investiranno il 151

luogo nelle prossime ore. Era il primo Amat dispo­ sto a pagare, il primo ad avvertire il cambio del ven­ to, il primo a essere uscito dai confini delle sue terre e ad aver imparato che al mondo esisteva ben altro che le grossolane e barbare leggi del clan. E pagò, altroché se pagò, il prezzo più elevato pagò, ma non quello sufficiente perché Nemesi rinunciasse all’u­ sufrutto dei suoi beni e al dominio delle sue terre. Non servì a nulla; anzi, servì piuttosto a fargli rinun­ ciare per sempre ai suoi interessi, lasciandoli in mano a una tradizione che esercitava il dominio del­ le sue usanze con ancor più crudeltà e protervia dopo la sconfitta e la diserzione dell’unico che, nato per essere il campione della sua fede, si era invece deciso a contestarle. Perché, dimmi, avrei dovuto esercitare la funzione di vendicatrice, di arbitro del­ la giustizia, di araldo delle nuove idee? Per che cosa e per chi? Almeno questo mi risultò chiaro fin dal primo momento: sola, sulla riva destra del fiume (o su quella sinistra?), vedevo sparire il mio destino al ritmo della carrozza che al trotto superava il ponte imboccando il sentiero dalla parte opposta. Tante volte ho pensato che il destino somiglia a un albero, danneggiato dall’ascia del boscaiolo e dalla forza del vento, la cui forma cambia per l’amputazione di uno o diversi rami come per la crescita di altri, conser­ vando però la sua unità, il sistema di radici con cui si nutre e la fogliazione che costituisce, si direbbe, la sua ultima ragion d’essere. Spariva un destino, l’uni­ co sicuro, l’unico a cui ero preparata, come lo ero nel mio stesso corpo, allorché sentivo confusamente che dal tronco potato stava per spuntarne un altro, illusorio, concepito nel dolore e conoscibile soltanto in quell’involucro di pietà materna che non permet­ te di distinguerne i lineamenti, ma solo di prefor­ marlo mediante le reiterate e sempre uguali veggen­ ze del desiderio che nascono in quello stato dello spi­ rito, il dohada, per il quale solo in sanscrito c’è la parola. E ti assicuro che niente sarebbe stato più 152

facile che scegliere il ruolo della vendetta — sceglie­ re, potrei dire, la vendetta e il ruolo -, perché mi sarebbe bastato, per rovinarli tutti quanti e farla finita con quella esecrabile famiglia, assumere la missione generatrice che mi avevano affidato e, una volta spariti padre e figlio, insediarmi al centro, nel palladio disabitato che avrebbe occupato un giorno l’erede e difensore della stirpe. Era troppo facile, credimi: bastava star lì, presiedere al banchetto, e lasciare che nel mio corpo si sviluppasse la loro discendenza, per assoggettarli a uno a uno e costrin­ gere perfino il patriarca, lui che con tanta boria predicava il rispetto delle tradizioni familiari e si dichiarava erede diretto di una rude purezza feuda­ le, a trascinarsi ai miei piedi - in barella magari, data la paralisi progressiva - per offrirmi il suo rozzo tro­ no paesano. Fui lì lì per girare sui tacchi, al momen­ to di attraversare il ponte dalla riva sinistra (o da quella destra?), per tornare ad affrontarli tutti quanti, costringerli a sedersi di nuovo e presiedere a un banchetto di bocche aperte, senza né sposo né testimoni, come se niente fosse accaduto. Invece — bah! — scelsi la cosa più difficile, ero troppo forte e troppo giovane, e se vuoi saperlo più abile, più ambiziosa di loro, e anche più previdente, più lungi­ mirante. Non potevo accontentarmi di quel loro regno paesano il cui maggiore allettamento, il cui bene più prezioso era quel Cuor di Leone spogliato­ si volontariamente (ma si può chiamare volontà quel furore negativo?) della sua eredità, per esiliarsi a oriente in cerca di un nemico nobile con cui battersi a viso aperto, indignato e marchiato per sempre dal­ l’orrore per la paternità, il matrimonio, la famiglia e l’amicizia. Il vantaggio che offre la vendetta è che, essendo fine a se stessa, non ha bisogno di giustifi­ cazioni, e direi quasi nemmeno di essere alimentata dal ricordo dell’oltraggio; si adotta come norma e tanto basta: come il dubbio, fissa lo stato dell’anima, rende capaci di tutto e nobilita perfino la viltà, colo-

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ra la condotta a forti tinte e amplifica difetti e quali­ tà; le distinzioni che stabilisce sono semplici e salde, e in base ad esse legifera, senza necessità di analisi sottili o di complicazioni psicologiche. Ha pure una funzione moralizzante, sicché la propria condotta resta in ogni congiuntura immune da peccato origi­ nale; e non ammettendo altra soddisfazione che quella derivata dalla sua stessa consumazione assicu­ ra un grande vantaggio a ogni vendicatore che non si soffermi ad assaporare i piccoli piaceri che trova per strada, sempre spronato dalla certezza di un premio più grande; dopo Canne, non c’è per lui altra Capua che Roma. Io non mi allontanai da lì lungo la riva destra del fiume con l’intenzione di preparare e condurre a termine la mia vendetta, eppure il risultato fu proprio lo stesso, tale era il danno subito e tale la mia risolutezza. Due cose vole­ vo: allontanarmi da loro per potermi impadronire dei loro feudi, che mi sarebbero appartenuti per diritto ma dovevano diventare miei senza ricorrere a tale diritto... e non avere più rapporti con quella gente, tranne con uno. L’analogia: ti ho già avvertito di andarci molto cauta con l’analogia, che è quasi altrettanto perniciosa — e banale - della stregoneria, capace di ottenere i risultati più insoliti, e gratuiti, da una parentela minima o da una somiglianza par­ ziale e involontaria. Se ti confesso che allora scelsi la strada più difficile non è certo per vantarmene, e meno ancora per primeggiare nella classifica del coraggio. E nemmeno per predicare con l’esempio. Te lo dico perché, nella situazione in cui ti trovi, tu possa applicare la lezione decidendo sempre di prendere la strada più difficile». «Frottole» disse la nipote. «Non venirmi a rac­ contare storie, zia». «Non mi stavo riferendo alle difficoltà di ogni genere che dovrai superare per raggiungere la tua meta. No, non mi riferivo a questo. Mi riferivo piut­ tosto alla meta che, a quanto ne so, hai situato ben al 154

di sotto delle tue possibilità. Dove può condurti scappare col primo uomo che si incapriccia di te? Io sapevo già che l’indipendenza e la fermezza avreb­ bero richiesto molti sacrifici, ma anche il più gran­ de di tutti sarebbe stato poca cosa a paragone di quel che avevo perduto. Di qui la mia forza, di qui la mia risolutezza; non avevo più niente da perdere, non mi restava che vincere. Avendo accantonato per il momento ogni aspirazione femminile - focolare, marito, famiglia, tutto quel ciarpame lì -, non pote­ va essermi troppo difficile passare da uno stato qualunque a quello immediatamente superiore, anche se ad ogni salto avessi dovuto abbandonare tutto ciò che apparteneva al precedente. Era il mag­ gior vantaggio — forse l’unico — di quell’egoismo viri­ le il cui esercizio - ti dirò - richiede una tempra e una semplicità di propositi incompatibili con le indulgenze con cui ci plasma e ci limita la nostra pacata educazione. O la tua, piuttosto, perché io ne ebbi una - la poca che mi sia stata impartita da altre labbra - molto diversa da quella che tu hai avuto la fortuna di ricevere, giacché fin da piccolissima mi insegnarono una cosa sola: a farmi strada. E tenuto conto di chi ero e come ero, non mi occorreva nean­ che molta fantasia per farmi strada, perché oltretut­ to sapevo dove volevo arrivare. Ti dirò qual era l’unica cosa di cui avevo bisogno: che qualcuno - se possibile potente - credesse di aver bisogno di me. Il successivo doveva soltanto essere più potente del primo, e la serie doveva finire con me. Niente di più semplice. Scontentezza e rabbia, forza e preca­ rietà, erano tutto ciò che mi occorreva; poi nessuno sarebbe stato capace di soddisfarmi interamente, mentre io... non potevo forse permettermi ogni sor­ ta di ripulse?». « E il corpo zia? E i piaceri dello spirito? E quell’armonia con l’universo che l’io prova solo se percepi­ sce la propria risonanza?» domandò la nipote, e dopo una breve pausa aggiunse: « E dove se non nel

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proprio compagno di vita si trova la miglior cassa di risonanza? ». «Precisamente... precisamente...» ripetè parec­ chie volte la signora, mordicchiando le stanghette degli occhiali e contemplando il soffitto in penom­ bra. «Precisamente. Questa è la difficoltà di cui ti parlavo, anche se so che non ti sarà tanto facile capirla». « Io capisco quasi tutto, zia, non esclusi i tuoi eccessi». « Forse non si tratta di eccessi, bensì di difetti. O di un solo, mostruoso, ubiquo e onnipresente difetto. E proprio la difficoltà di cui ti sto parlando che, mai risolta, trasforma tutto in vantaggi. E il tipo di illu­ sione che quanto più conduce alla prosperità tanto più gravosa e irreversibile diventa. Non è altra cosa che la futilità di un successo il quale — mentre fa abortire tanti stimolanti fallimenti - non si estende a chi dovrebbe condividerlo e goderne. Che non rice­ ve il consenso, il riconoscimento e le congratulazioni dell’unico in grado di concederli. Di quell’unico che poteva e doveva fruirne, perché a lui esclusivamente era dedicato, anche se forse invano. Immagino che il premio di un’esistenza devota debba essere aureola­ to da quel genere di incertezza che dissipano solo la morte e la gloria: e questa è la ragione principale, cosa vuoi che ti dica, che mi spinge a rifiutare di ricevere il messaggio che quest’uomo vorrebbe con­ segnarmi. Insomma, tutta la mia ragion d’essere si fonda sulla natura positiva di questo messaggio e non potrei tollerare che racchiudesse un contenuto ambiguo, o peggio ancora negativo. Tra il disingan­ no e l’irragionevolezza a questo punto preferisco la seconda: è più in carattere col mio passato. Capisci? Sono proprio tanti gli anni passati in attesa della conferma che - ne sono certa — quest’uomo ha in tasca, e non sono disposta a distruggere tutta la ric­ chezza accumulata in questi anni per un momento di impazienza. So benissimo che l’attesa non mi 756

logora e mi deciderò a fare il gran passo di ricevere il suo messaggio e di consegnargli la mia risposta solo quando una prova di non so che genere, ma di carattere infallibile, verrà a coronare il cumulo di premonizioni che conferiscono alle circostanze attuali il carattere di un’annunciazione. In questa lunga attesa non ho imparato niente, solo ad atten­ dere: l’attesa è un altro stato di congelamento, come la vendetta, che permette soltanto di serbar integre le cause che la produssero, senza aggiungerne nep­ pure un’altra, figlia della bastardaggine o della riflessione. Lì voglio arrivare: la riflessione è un’al­ tra bastarda, aggiunta spuria alla cecità che a suo tempo fu afl’origine della mia vita attuale. E se la mia attesa ubbidisce a una sola e unica causa, il mes­ saggio non può essere che uno e una sarà la mia risposta. Non sono preparata (poiché non ho voluto addolcire la mia attesa con una preparazione spiri­ tuale al disinganno: sarebbe stato il più inqualifica­ bile - perché più intimo - tradimento dell’impegno contratto) a riceverne uno diverso, e non saprei che fare — non già al momento della consegna, ma subito dopo — se non fosse proprio quello che aspetto. E anche possibile che un giorno entri nella contrada della disperazione, ma non ci ho mai voluto pensare. Se deve venire, che venga. Non è facile che accada, perché non mi finirà la carica, e non mi sembra proprio che nel mio organismo ci sia una rotella più fragile delle altre, la cui rottura possa fermare il mio impassibile ticchettio. Ma essendo così alta per me la posta in gioco, devo ammettere - se non con l’anima almeno con la ragione - tutte le possibilità, e accetta­ re che il presente equilibrio dell’attesa possa in un momento imprevisto crollare e impormi una manie­ ra di agire ben diversa. Non lo credo, no, ma è possi­ bile. Ti dirò che certe volte rimpiango la disperazio­ ne; è un rimpianto un po’ farisaico e poco genuino — come l’anelito del santo al paradiso -, perché non avendola mai conosciuta manco in verità di qualsiasi 757

punto di riferimento per giudicare la mia vita in una situazione priva di ogni speranza. L’unica cosa che so è che con essa otterrei, e in una volta sola, tutto quello che ora mi è negato, e non è poco; cesserebbe la continua angoscia e avrebbero fine le mie elucu­ brazioni - e chi può affermare che in ogni circostan­ za l’incertezza sia preferibile alla condanna definiti­ va? Il giorno in cui deciderò di disperare, indubbia­ mente saprò a che rischio vado incontro, ma saprò l’istante successivo accontentarmi dei risultati otte­ nuti con un gesto irrevocabile capace di chiudere per sempre il mio libro dei conti? Avendo vissuto — come ti dicevo prima - attenta solo a utili sempre crescenti, saprò io attenermi a un saldo finale, ancorché realizzi tutte le mie aspirazioni, o non avrò invece inavvertitamente contratto in tanti anni una spregevole mentalità da bottegaio destinata ad assu­ mere la direzione delle mie inquietudini come ora l’assume il perseguimento dell’obiettivo che mi pro­ posi e che ancora non ho raggiunto? E che dire della possibilità di una disillusione, specchietto per le allo­ dole accettato a occhi aperti per attirarmi, ridurmi in questo stato e costringermi a seguire una traietto­ ria sostanziata di insoddisfazione? E questa è solo una parte della difficoltà, ti dirò: la parte che è in mio potere. L’altra si riferisce a lui: la sua libertà, in base ai postulati del mio progetto, doveva essere preservata a tutti i costi. E a questo punto devo domandarmi se, non tanto nel progetto quanto nel­ l’esecuzione di esso, io abbia scelto il metodo più appropriato per preservare la sua libertà. Temo di no. Temo proprio che la mia decisione — costantemente reiterata - di scacciare il messaggero senza dargli una risposta chiara e definitiva abbia indotto nell’animo di chi lo aveva ingaggiato ed inviato il desiderio di insistere nel suo proposito di ottenere da me la risposta che aspetta, invece di abbandonar­ lo dopo tanti tentativi falliti. A quel che vedo - prova ne è la periodica ripetizione dell’ambasciata — egli è 158

vincolato al messaggio quanto lo sono io stessa, e così come io stessa godo di una sovranità assoluta su tutti i miei atti, tranne quell’unico che deve concludersi in un accordo reciproco (il che grava questi atti di una polarità che fa a pugni con questa presunta autonomia), così vedo anche lui (al pari di me) come una di quelle finzioni geometriche inventate soltan­ to - si direbbe - per portare i postulati della scienza verso i confini dell’assurdo, come il circolo che manca di un punto o la retta che s’incurva all’infinito, dai quali si intravede il campo di una teoria più ampia e sconosciuta: padrone assoluto di se stesso tranne nel punto in cui entra in contatto con me, mai compiuto a causa dell’ambiguità della mia rispo­ sta al suo messaggio. Talché, se per realizzare la sua natura (una natura, non dimenticarlo, conforme alle vecchie regole sociali) gli manca la mia risposta — come a me manca il suo messaggio per arrivare a essere pienamente me stessa -, non posso in verità presumere di aver avviato la pratica della sua com­ pleta libertà, a meno che non pensi che questa liber­ tà è contraddittoria con la totalità del suo essere, perché se arrivasse a essere perfetto - come la retta sino all’infinito o il circolo composto da tutti quanti i suoi punti —, difficilmente avrebbe la libertà di essere qualcos’altro. Ma se la perfezione è contraria alla libertà solo nell’ambito verbale, non lo sarà ancora di più l’imperfezione che introduce un dop­ pio grado di determinazione, l’ansia di raggiungere la perfetta forma finale e la propria perfetta forma finale? E non bisogna dimenticare che non fu tanto l’anelito di libertà quanto l’insubordinazione alle regole ereditate - le leggi della geometria, per così dire - che ci spinse a separarci, ai due lati del ponte, in cerca di una nuova disciplina, non pensata per risolvere i problemi della scienza antica ma proietta­ ta verso il concepimento di altri, inediti problemi. In questo modo mi è consentito pensare che la sua libertà si radica, in extremis, nell’assenza di una mia

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risposta, anche quando per preservarla si veda costretto - come mi vedo io, all’altro capo del tortuo­ so asse di simmetria che si instaura sempre tra due persone che hanno bisogno l’una dell’altra - a dare a tutti i suoi atti una determinazione incompatibile con una libertà di ordine poetico. Ho detto poetico, bada, e non lo ritiro. Ti dirò che su questo versante ho risolto da molto tempo quasi tutte le questioni pendenti, fino alle più astratte, comprese quelle che si riferiscono al parallelismo o similitudine (non ho detto all’analogia) dei nostri atti nel presupposto che siano dettati da uno stesso modo di pensare, e cioè da una ragione comune, dalla ragione, insomma. Per questo ti ho avvertita dei rischi dell’analogia, perché tu ne diffidi, come ho sempre fatto io». « Sta’ tranquilla, zia, ne diffiderò nel momento in cui la percepirò » rispose la nipote « ma non prima. Per ora vedo solo differenze, soprattutto negli uomini ». « E farai bene » disse la signora. « In fatto di pre­ cauzioni è sempre consigliabile attenersi ai sensi piuttosto che alle norme. No; sono partita dalla nostra analogia come da un dato incontrovertibile e il tempo non ha fatto altro che dimostrare l’impro­ prietà dell’ipotesi. Un’improprietà molto fruttuosa, come quasi tutti gli errori. E possibile che tutto il ragionamento costruito a partire da questo dato un giorno crolli, però intanto mi ha permesso di pro­ gredire (d’accordo, non ho progredito in nulla, ma ho perseverato) senza mai dover tornare sopra alla premessa iniziale. Non so se in questo momento il nostro modo di pensare sia analogo, e se il contenu­ to del messaggio corrisponda esattamente a quel che io mi aspetto. Se così non fosse, il gioco finirà nel momento in cui mi deciderò a riceverlo e tutta la mia teoria - e la mia speranza - crollerà. Ti dicevo prima che una prova inconfutabile accompagnerà î’arrivo del messaggero e mi spingerà infine a pren­ dere la decisione tante volte differita. Già ho avverti160

to i suoi passi vacillanti sulla scala, ma non a questo mi riferisco. La miglior prova sei tu, che con il tuo intempestivo desiderio di farti correr dietro da un uomo vuoi abbandonare la disciplina che ti è stata inculcata in questa casa. Questo mi ha aperto gli occhi, mi ha dimostrato - se ce ne fosse stato bisogno — che nessun destino può essere condiviso, né accet­ ta alcun tipo di intervento; e non si mescola a niente, non si lascia addomesticare, non parla a voce alta né, come Ecate, si fa mai vedere di giorno. E l’unica cosa veramente propria, e quindi gelosamente restia ad ogni condominio. Sicché farai bene ad andartene, se quest’uomo ti viene a cercare, cosa di cui dubito. Hai mai fatto caso al volo di uno di quegli stormi di uccelli che si libra in un cielo d’autunno, compiendo evoluzioni e virate, in alto e in basso, a destra e a sinistra, e da terra sembra animato da una spensie­ rata allegria, ma ubbidisce in realtà a una disciplina rigorosa e arcana a cui tutti i componenti si assog­ gettano per prepararsi al lungo viaggio che li aspet­ ta, ormai imminente? Hai osservato come una for­ mazione serrata è capace con un guizzo improvviso di scomparire in un attimo dal firmamento, per il semplice volger le ali a quell’angolo di incidenza del­ la luce che li ricompensa con uno scorcio invisibile, e riapparire di lì a poco in un altro punto, come se si trattasse di un altro stormo o come se nel periodo di invisibilità avesse la proprietà di rompere la conti­ nuità dello spazio, e con quell’artificio iniziare una traiettoria impossibile a seguirsi da terra, magari per sfuggire alle minacce che da questa provengono, o magari solo per giocare con il torpido occhio terre­ stre? Così è il mio momento, questo lungo momen­ to: in un attimo tutto quello che ho osservato a distanza può sparire dal mio campo visivo con un guizzo, e chi mi assicura che ricomparirà, e in quale punto? ».

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AGOSTO

« Era la tradizione, che vuoi che ti dica, la tradizio­ ne. Una tradizione che risaliva a molti anni prima, forse secoli, che esisteva da quando queste famiglie vivevano ai piedi delle montagne, fin dal tempo dei Mori; e non solo gli Amat, che io non ho mai visto, ma tanti altri, i Murano e i Mazón e i Mayor e quelli di Valdeodio, la rozza aristocrazia della macchia. E tutti, in un modo o nell’altro, obbedivano ad essa, perché probabilmente veniva dai Goti o da chissà quale tribù del Nordovest retta dalla legge del capo, il cosiddetto signore della forca e del coltello. E le donne dovevano rispettarla, lo volessero o no, e per­ ché poi le donne non avrebbero dovuto rispettarla, mi domando io? Forse che non la rispettavano gli uomini? Ti dirò una cosa: le donne devono rispetta­ re meno cose degli uomini, solo che in genere le rispettano più a lungo. E quando non le rispettano, smettono anche di rispettarle più a lungo, e da qui vengono quasi tutti i problemi fra uomini e donne. I problemi del malumore e dell’assassinio, voglio dire, perché la maggior parte del malumore esistente in

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queste terre proviene dalle donne e da alcuni uomi­ ni che quando si effeminano cadono anch’essi preda del malumore. E dei nervi. Era il miglior modo di tenere unita la famiglia, dicevano. Ma quando si tie­ ne unita la famiglia Passassimo non tarda a soprav­ venire, ma questa è un’altra storia. Non era raro che in quel mondo di famiglie molto unite - gli Amat e i Mayor e quelli di Valdeodio - tutti gli anni cadesse­ ro un paio di nipoti, quando non era un primogeni­ to. Una mattina lo trovavano in un fosso, con la testa spaccata. Perciò bisognava stare attenti, molto atten­ ti, per preservare la casa e la famiglia, sempre minacciata dall’estinzione. Dietro una qualunque curva delle tante strade che ci sono lì. Le strade era­ no molto pericolose; sono necessarie, le strade, ma sono sempre pericolose; e anche i muri di cinta, necessari come o più delle strade e anch’essi molto pericolosi. Più necessari forse delle strade ma più pericolosi. Perché senza recinzioni non ci sono né contestazioni né guerre e senza guerre non c’è pace. E, come ti dicevo prima, il rovescio di quello che pensa la gente. Di conseguenza le donne, che come devi sapere - se già non lo sai - sono sempre state il sostegno della famiglia, dovevano accettare e rispet­ tare le regole. Delle donne preferisco non parlare perché ne so poco - voglio dire, ne so quanto basta per sapere che non è necessario sapere molto di loro. A chi pretende di saper molto di loro, gliela fanno; gliela fanno sempre perché sono come i truf­ fatori che stangano solo quelli che si credono molto furbi e dall’inizio del gioco sono decisi a imbroglia­ re; in compenso non possono imbrogliare l’uomo onesto che a giocare nemmeno comincia. Ma una cosa te la dirò: le donne si lamentano di dover ubbi­ dire e rispettare più degli uomini, ma non è vero. In verità devono rispettare solo il marito, ma siccome lo devono rispettare tutto il tempo sembra che rispetti­ no di più ma non è così; non devono rispettare tutto quello che deve rispettare un uomo prima di conse-

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gnarlo, già rispettato, alla donna, che quindi non deve preoccuparsi di rispettarlo un’altra volta, credi a me, neanche l’autorità, che quasi non sa cos’è. L’uomo invece deve rispettare tutte le autorità, che oltre a essere numerosissime sono tutte diverse e dettano leggi altrettanto diverse che non hanno niente in comune salvo che bisogna rispettarle. Lo stesso capita con la violenza, l’avarizia e Fin giustizia: la donna deve sopportare solo quelle del marito mentre il marito deve sopportare quelle delle auto­ rità. E la donna non sa nemmeno che cosa sono. Non le interessa; preferisce che tutta l’autorità sia del marito, così si toglie dai pasticci e può tranquilla­ mente continuare a lamentarsi di lui, che è proprio quello che vuole. Perché avendo una sola autorità da rispettare e una sola regola da seguire è facilissimo lamentarsi. Invece risulta molto difhcile, quasi impossibile, lamentarsi di tutte le autorità e disubbi­ dire a tutte le leggi. Se si volesse disubbidire a tutte le leggi non resterebbe il tempo di fare niente; se si vuole fare qualcosa in questa vita bisogna ubbidire ma la donna non vuole fare niente, vuole soltanto lamentarsi, il che risulta molto facile quando c’è da lamentarsi di una sola persona, ma alla lunga non dà buoni risultati; porta solo al malumore e quel che è peggio a un malumore perenne che non consente di avere scatti di malumore. Perché niente anima tanto la vita quanto gli scatti di malumore, soprattutto se non hanno una base giuridica, ho detto bene, base giuridica, come si deve dire. Tra lamentarsi e disub­ bidire, preferisco disubbidire, cosa vuoi che ti dica, anche se si perde un sacco di tempo. Ma di tutte le lamentele la più ripugnante è quella collettiva per­ ché bisogna fuggire la politica. Bisogna fuggire la politica. Io sono di quelli che credono che dietro la politica c’è sempre la donna e questo non succede in altre professioni, per esempio in campo minerario. Neanche nel ramo della ferramenta e in generale nel commercio, soprattutto all’ingrosso. Nelle picco-

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le cose sì. Ci sono cose in cui la donna non vuole intervenire — e non solo perché sono riservate agli uomini - ma nella politica interviene sempre. La donna è un inganno: un inganno della natura che non potrebbe essersi sviluppata come si è sviluppata se non avesse avuto a disposizione due ruoli. Non dico solo due sessi e nemmeno si tratta del bene e del male, ma di una cosa più complicata. Se non avesse i due ruoli tutto sarebbe verità e questo non può darsi, sarebbe insopportabile. E più che insop­ portabile, sterile. Perché la varietà (non la fecondità) ha bisogno di due ruoli e allora, volere o no, si intro­ duce l’inganno. Allora uno è più dell’altro e uno dei due deve ingannare. Per forza. La differenza e l’in­ ganno sono in realtà la stessa cosa. Mi pare molto chiaro e non capisco perché non lo capisci». L’altro, seduto sul gradino superiore, probabil­ mente non sentì perché non interruppe la lettura di certi giornali vecchi. Leggeva con il mento affonda­ to nel petto e il foglio steso sul gradino inferiore, in mezzo alle gambe. Abdón si chinò su di lui e senza muoversi dal gradino su cui era seduto gli diede una gomitata nelle costole. L’altro sussultò, alzò gli occhi e si guardò intorno come un risuscitato. «Che ostia succede?» domandò. «Ti sto dicendo che la donna è un inganno». «Sì, è un inganno» assentì l’altro e di nuovo affondò il mento nel petto mentre metteva da parte il giornale e sceglieva una rivista che, da come era ridotta, doveva essere vecchissima. «Ogni inganno si inganna» sentenziò Abdón. «Impossibile uscire dalla propria trappola. Anni perduti, facoltà diminuite. Nessun genere di vantag­ gi. Neanche il perdono; però, penso io, neanche la colpa. Ma era l’unica cosa che voleva. Follia e ingra­ titudine. Un esempio di ingratitudine, mi stai ascol­ tando?». « Di ingratitudine? » disse l’altro, senza smettere di leggere.

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«L’usanza proibiva le unioni tra le grandi fami­ glie, invidiose l’una dell’altra, allo scopo di evitare l’accumulo del potere, del denaro e della proprietà nelle mani di uno solo a causa di una eredità disgra­ ziata o di una linea successoria troncata o di un acci­ dente qualunque, va’ a sapere perché. Era un modo abbastanza prudente di mantenere l’equilibrio dei patrimoni, che restò in vigore fino alla seconda metà inoltrata del secolo scorso, quando fece la sua apparizione — contemporaneamente alla ferrovia — un capitale nuovo, accumulato in terre lontane — in America, in genere, o nelle province industriali che non aveva motivo di ubbidire alle norme tradi­ zionali, al reciproco rispetto fra latifondisti e alle regole di quell’equilibrio fra gli aristocratici delle montagne. Un capitale più recente, agile e ambizio­ so, che non si installava certo in questa terra per rispettare i limiti e i confini esistenti (perché in fon­ do tutto è un problema di confini) e davanti ai cui abusi, eccessi e stravaganze la vecchia aristocrazia delle montagne tardò ad aprire gli occhi, impressio­ nata dal nuovo stile affaristico e dai nuovi prodotti che i nuovi ricchi sapevano importare dai paesi nuo­ vi. Ah, io vengo da una famiglia media che andò a picco a causa delle novità, come ad esempio la ferro­ via che divise le terre in due parti comunicanti per mezzo di pochi passaggi a livello incustoditi (meno pericolosi però di quelli custoditi, sui quali si legge­ va: “Passaggio a livello senza treno, occhio al casel­ lante”) che si potevano attraversare solo con grave rischio della vita; una ferrovia che sterminò il bestia­ me ai passaggi a livello o lo mise in fuga per sempre con i muggiti delle locomotive a vapore. Perciò la mia famiglia detestava tutto quel che era nuovo, proprio come una mia antenata, una certa Medea, una che non sapeva assolutamente perdere, che mi ha lasciato in eredità una veste. Io invece ho sempre saputo perdere. E l’unica cosa di cui mi vanto per­ ché credo che in definitiva sia la migliore qualità 766

che si possa avere: saper perdere è il bene più pre­ zioso che ci sia. Perché se siamo destinati a perdere tutto sicuramente non c’è preparazione migliore di quella che insegna a perdere, senza troppa dignità ma con stile. Ecco, con stile e senza tanti complimen­ ti, mi ascolti?». « Come? Cosa? » domandò l’altro senza staccare gli occhi da una fatiscente rivista illustrata. «Ho detto con stile». «Bravo, con stile». «Non è tanto difficile da capire, perdio. E non era poi la fine del mondo, ti dirò. Non so perché la presero così sul tragico, sia lui che lei, non era mica la fine del mondo. Lei non l’ho mai conosciuta, ma la gente arrivò a dire cose terribili. Così le grandi famiglie cercavano moglie per i figli maschi o in paesi lontani o in famiglie umili e onorate che non presentassero problemi. In genere, vicini di classe inferiore, legati alla casa da vincoli di servitù, piccoli proprietari, contadini e agricoltori uniti alla terra vicina dalla legge del campo e dell’aratro. Gente di princìpi, molto robusta. Princìpi umili e irremovibi­ li. Un gran rispetto per i signori. Gente che non osa­ va mai varcare i confini della proprietà. Qui sta il segreto, i limiti, i confini, i muri di cinta, i cippi, i simboli della proprietà, della pace, della proibizione e del potere generazionale. Ma la ferrovia sconvolse tutto, non rispettò un solo confine, abbatté un gran numero di muri di cinta e portò gente nuova, anche donne, donne che non avevano paura delle macchi­ ne, abituate ai sibili e ai muggiti del vapore. Con tut­ ta probabilità la videro mentre stendeva la bianche­ ria di casa presso lo steccato, una creatura che aveva tutti i requisiti. L’usanza esigeva una certa segretez­ za fino al momento in cui si prendeva la decisione definitiva. A lei non si diceva niente, e neanche alla famiglia; la si sceglieva da lontano. Da quel momen­ to, per così dire, cessava di appartenere ai suoi per entrare a far parte del clan. Non vedo cosa ci sia di

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male in questo, è un sistema di selezione come tanti altri. Poi avrebbe perduto anche il suo nome, non solo il cognome, perché l’unica cosa che interessava di lei erano i suoi attributi femminili, lei nuda e cru­ da, senza passato né proprietà né parentado né obblighi familiari. Un bel giorno l’emissario si reca­ va a casa sua per comunicare la scelta di quella tale ragazza e pochi giorni dopo sarebbero stati i genitori del fidanzato a confermare la decisione. C’erano casi di rifiuto, ma pochi, com’era naturale. Qualche giorno prima delle nozze era portata alla casa, pre­ sentata al fidanzato e alla famiglia e iniziata alle norme, tradizioni e usanze che, ripeto, risalivano a secoli addietro, ai tempi duri delle lotte di conquista, alle faide tra poche masnade avide di dominare sui vicini come di tramandare il proprio nome e il pro­ prio sangue. Per questo non potevano mescolarsi. Le nozze si celebravano pochi giorni dopo, nella più stretta intimità, solo in presenza dell’autorità eccle­ siastica e dei parenti più prossimi, quelli che ostenta­ vano l’unico cognome che sarebbe stato accordato alla novella sposa in cambio dell’oblio e dell’oblitera­ zione del proprio, se pure ne avesse avuto uno, ma prima si celebrava il banchetto, un pranzo offerto a tutti i notabili e di carattere più pubblico, è il caso di dire, perché erano invitati amici e clienti della fami­ glia, alcuni notabili del luogo e l’autorità ecclesiasti­ ca. Quella era la piccola anomalia, il fatto che la distingueva dalle nozze normali e in cui taluno scor­ geva il residuo di una cerimonia atavica, il punto oscuro di un rito del quale emergeva solo una parte, la parte innocente e festosa, per così dire, mentre il vero sacrificio, il giuramento o il mistero - chiamalo come vuoi - restava rinchiuso e celato tra le mura della casa grazie all’omertà di tutti quelli che ci abita­ vano, compresa lei, vestita con l’abito da sposa che generazioni di Amat avevano usato per questo solo atto, e adorna del medaglione che l’avrebbe trasfor­ mata, fino al giorno delle nozze del suo primogeni-

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to, nella padrona assoluta della casa, una divinità generazionale investita dal clan... Sì, veniva dalla ferrovia; suo padre, uno stimato caposquadra del ministero dei Lavori Pubblici, un uomo come quelli di una volta. Ma quando tutti si sedevano a tavola le nozze erano già state celebrate in segreto: voglio dire, l’unione alla famiglia, la consacrazione al giogo degli Amat, la miscela del suo sangue anonimo e generatore con il sangue titolato che a partire da quella notte le scorreva nelle vene e che soltanto con quel cognome avrebbe potuto alimentare il feto destinato a perpetuare la stirpe. Capisci?». «Certo che capisco. Perché non dovrei capire?» disse l’altro, senza smettere di leggere. « Il cognome » insisté Abdón. « Il cognome » disse l’altro. « Credi che sia sordo? Ho capito benissimo: il cognome». « Probabilmente di quel rito non restava altro che una commedia, una commedia d’alcova rappresen­ tata da attori di infima qualità che non credevano minimamente al copione, non poteva restare nient’altro che questo. Una innocente pantomima del rito originale con cui la tribù pretendeva di mante­ nere l’unione o la fratellanza di tutti i suoi membri mediante la finzione di un atto generativo che pro­ venendo dal padre avrebbe trasformato i suoi figli in suoi fratelli. E un’usanza che si ritrova fra le bestie e in certe tribù arretrate, riunite intorno a un capo dal quale emana ogni potere. Un gesto, niente di più, ma che gesto. Senza dubbio non avrebbe fatto arrossire di vergogna la figlia del contadino, del pastore o del mulattiere, abituata fin da piccola a vedere — e non solo nella stalla - tutti i possibili con­ giungimenti e amplessi sotto un unico tetto: insom­ ma, una creatura meno frigida di quelle educate in un certo ambiente e a cui si nascondono molte cose, e altre ben più misteriose se ne insegnano, e la cui formazione suggella con la parola peccato un atto che devono apprendere con l’immaginazione. E se

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dal casolare o dalla stalla di suo padre passa da un giorno all’altro a essere introdotta nella camera nuziale degli Amat, a vestire la camicia da notte di gala e ad essere insediata, dopo una prova breve e perentoria, quale signora della tribù, sposa e madre di suo marito e dei suoi fratelli e dei suoi figli e regina del latifondo fino alla sua sostituzione mediante lo stesso meccanismo successorio che ha reso possibile la sua metamorfosi, credi che le farà tanto orrore una strizzata d’occhio del patriarca, seguita da un bacio, a sua volta seguito da un abbraccio o da quel che sia (perché sulla commedia che si rappresentava la notte prima del banchetto nessuno entrava mai nel benché minimo particola­ re), che consacrerà quella metamorfosi? No, ti assi­ curo che non le farà orrore; si tratta del patriarca, una figura totemica, e dei riti di successione del clan; niente più di questo. Del potere supremo, per quella gente sempre rinchiusa nelle sue terre e nella sua casa, senza il minimo contatto con l’esterno. Si tratta del matrimonio. Il matrimonio del cielo e del­ l’inferno, l’unico vero. No, non è questo. Dell’anima e del corpo. Neanche. Il matrimonio. Ma quello che sarebbe stato facilissimo da capire per la figlia del pastore o del mulattiere (ma neanche capire, non c’era niente da capire che non avessero già capito, perché ne erano già esperte avendolo visto in casa propria) non lo era poi tanto per la figlia del capo­ squadra dei Lavori Pubblici, un uomo al soldo della tecnica moderna, non sprovvisto di qualche nozione scientifica, con delle pretese, un fanatico del pro­ gresso; e una figlia con una cultura acquisita in casa propria. Le quattro operazioni. Il matrimonio, la legge della madre. La legge che la madre riceve dal­ le mani del padre, il quale prima di darla in moglie al suo erede la farà sua concubina in modo che il sangue, il nome, non dovrà passare da una genera­ zione all’altra, ma si estenderà nel tempo come una sola cellula, emanazione di un unico maschio attra170

verso un’unica fratellanza. Vaglielo a dire alla figlia del caposquadra dei Lavori Pubblici, che sa adope­ rare il telemetro, che aiuta il padre nel lavoro quoti­ diano, che conosce le quattro operazioni come il pal­ mo della mano. Su, vaglielo a dire: il matrimonio, un atto di devozione, questa sublimazione degli appetiti genetici istituita al fine di discostarsi dalle leggi animali, questa forma superiore di entelechia nata dalla necessità di porre la tribù al di sopra del gregge o della mandria - la pura successione andro­ gina una volta accettata l’inevitabile morte del capo, capisci? ». «Perfettamente» disse l’altro. « E come poteva non capirlo lei? Lei? La figlia del mulattiere o del vaccaro o del boscaiolo, intendo dire. In un istante, guarda, nello stesso istante in cui il patriarca la bacia in fronte e l’attira a sé, togliendo­ le la camicia. Ma nemmeno. Nemmeno questo è necessario perché la donna capisca. Perché di queste cose la donna capisce tutto da quando viene al mon­ do; non è che le capisca, è lei stessa queste cose; e quando finge di doverle capire è per approfittarse­ ne a modo suo. L’uomo, nella sua ingenuità, crede che le donne debbano capire queste cose - ignoran­ do che le capiscono da molto prima di lui -, le uni­ che, in verità, che esse devono capire e rispettare, perché in tutto il resto sono autorizzate a non capire niente. Voglio dire, del resto si sa che non capiscono niente di niente, e quella che assicura di capire qual­ cosa, qualunque essa sia, è perché non capisce quello che le si chiede di capire; e siccome non lo capisce, deve capire qualcos’altro che, in verità, non deve capire né c’è la minima necessità che capisca, dato che per questo c’è l’autorità, mi capisci?». « Perfettamente » disse l’altro, una volta tanto con gli occhi spalancati. «Ti capisco perfettamente. Ol­ tretutto è quello che ho sempre detto». « Cos’è che hai sempre detto? » domandò Abdón, con la segreta intenzione di tenerlo sveglio solleti­ cando il suo amor proprio. 171

«Questo,» disse l’altro, che si chiamava Ramón «quello che ho sempre detto. La donna: il rapimen­ to dei sensi. D’altra parte lo dice anche la stampa». «La stampa?» domandò Abdón, improvvisamen­ te interessato e un po’ perplesso. «Proprio così,» disse l’altro «la stampa dei sensi». «Tu ti confondi; sembra impossibile, con tutti i giornali che leggi. Vorrai dire la stampa quotidia­ na ». «Non mi confondo affatto» rispose l’altro. «Se avessi voluto dire la stampa quotidiana avrei detto la stampa quotidiana. Ma è chiarissimo che l’ho detto perché mi riferisco proprio alla stampa dei sensi, che non ha niente a che vedere con la stampa quoti­ diana ». «La stampa dei sensi; non l’ho mai sentita nomi­ nare; non so che stampa sia». « Tu non sai niente di niente. Tu non sai niente di quello che succede nel mondo. L’unica cosa che sai sono quattro storie di paese che non interessano a nessuno». «Puoi ben dirlo, hai ragione» ammise Abdón in tono malinconico. « E non le so neanche tanto bene. Perché se le avessi sapute bene hn dal principio non sarei stato tanto tempo a rimuginare quello che è successo e quello che non è successo. Perché in real­ tà io non so che cosa successe, e credo non lo sappia nessuno, neanche i protagonisti, che non si accorse­ ro di quello che era successo. La verità è che siccome non si sa mai bene quello che è successo, niente si può considerare come successo, e tutto quello che è successo deve continuare a succedere. Sarebbe diverso se si sapesse bene come sono successe le cose, allora non ci sarebbe proprio nessun bisogno che tornassero a succedere. Una volta che sono suc­ cesse, basta. Ma siccome niente è successo del tutto, o perlomeno nessuno sa come è successo e se è suc­ cesso del tutto, non esiste nemmeno quella volta. Mi spiego? ».

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«No, non ti spieghi bene, non sai spiegarti. Non sai che cosa vuoi dire» aggiunse l’altro che, ora più attento, parlava con un certo tono di sufficienza. «Ma io capisco perfettamente». « E lo stesso » commentò Abdón. « E lo stesso se mi spiego male e tu capisci bene, o se mi spiego bene e tu capisci male. Ed è lo stesso anche se mi spiego bene e tu capisci ugualmente bene. O male. Tutto è lo stesso perché siccome non si può sapere quello che è successo, è lo stesso spiegarlo bene o spiegarlo male, anche se io preferisco spiegartelo bene e che tu lo capisca male». « Anch’io preferisco che tu lo spieghi male e io lo capisca bene. Così potrò darti la colpa di quello che è successo. E non solo di quello che è successo ora, ma anche di quello che è successo prima». « Certo, » rispose Abdón « è quello che succede sempre. La gente come te, con poca istruzione e una mentalità infantile, pensa sempre che qualcuno abbia colpa di quello che è successo. Ma siccome io credo che non è ancora successo proprio niente, e che tutto sta per succedere, nessuno può avere colpa di niente». Abdón si accomodò sul gradino appoggiandoci i gomiti e la nuca, e sapendo che l’altro a stento l’avrebbe ascoltato disse come parlando alle nuvole: « E quello che avrebbero detto tutti e due, ognuno per conto suo, un anno dopo l’accaduto. E l’avrebbe­ ro ripetuto fino al loro ultimo giorno; lui, almeno, continuò a ripeterlo fino al suo ultimo giorno. Dice­ vano tutti e due la stessa cosa: che erano colpevoli. E più io gli dicevo che la colpa era il meno e che tutto si poteva sistemare, per poco che lo si volesse, più era chiaro che l’unica cosa che gli interessava era essere colpevole, e non voleva perdere questa colpe­ volezza per niente al mondo, anche a costo che nulla si sistemasse mai. Credo che fecero tutto soltanto per poter essere colpevoli di quello che avevano fat­ to. Ma come ti dicevo prima, non so mica tanto bene 173

quello che avevano fatto, e quindi non mi sono mai curato di chi fosse colpevole e perché. Immagino che la maggior parte di colpa fosse di lei. Perché oltretutto mi risulta che neanche loro - lui, almeno; lei non sono mai riuscito a conoscerla - sapevano troppo bene che cosa avevano fatto, ma si figurava­ no di aver fatto qualcosa di molto grave perché così potevano attribuirsi una colpa altrettanto grave. Be’, quello che lui veramente sapeva era che tutto era crollato, voglio dire il suo matrimonio, la sua eredi­ tà, e la discendenza, e la famiglia, e la proprietà e tutto quanto, però non sapeva mica tanto bene per­ ché era crollato. Probabilmente perché tutto doveva crollare; ma va’ a sapere se era davvero crollato o se, semplicemente, così credeva lui quando arrivò a casa mia, un anno dopo, con la febbre alta e deliran­ do come un gatto. Va’ a saperlo. Niente crolla del tutto, ogni cosa ci mette tempo a sgretolarsi. Lui arrivò a casa mia dopo un anno di peregrinazioni per tutta la valle, quando non sapeva più dove anda­ re; prima aveva cercato rifugio in casa dell’uomo di fiducia di suo suocero, che lavorava anche lui per la ferrovia, ma era un posto pericoloso perché lei pote­ va capitarci in qualsiasi momento, avvertita da qual­ che spia. Nel suo delirio diceva che non poteva vederla con la ferita aperta, perché anche il fazzolet­ to si sarebbe messo a sanguinare. Non so, una storia di fazzoletto insanguinato ai piedi del letto. Non sapeva bene quello che era successo, sapeva solo che era successo qualcosa di molto grave, di cui era col­ pevole, naturalmente, ma di cui non poteva pentirsi perché per scontare una colpa bisogna averla com­ messa, e cercare di cancellarla con il pentimento equivaleva a preservarla. E pare, a quanto mi giunse all’orecchio in quella occasione, che nemmeno lei volesse saperne di pentimento e di perdono, ma desiderasse soltanto essere ancora più colpevole. E la cosa curiosa è che forse non accadde niente di grave in quella notte terribile, la vigilia del banchet174

to di nozze. Come se quella notte non fosse esistita, o come se tutto quello che vi era accaduto avesse obbe­ dito al corso fatidico degli avvenimenti; ma non così al risveglio, e soprattutto durante quella penosa mattinata fra il risveglio e l’ora del banchetto quando lui o lei, uno dei due, trovò il fazzoletto insanguinato - e lui e lei, ma prima lei, cominciaro­ no a capire la portata dell’inganno in cui erano caduti per aver preso troppo sul serio la commedia. O forse la prese troppo sul serio il vecchio, il patriar­ ca, un uomo quasi invalido e smemorato, il quale dimenticò che si trattava di una commedia, o fece credere agli altri di averlo dimenticato, o confuse la nuora con un altro genere di donna, o fece finta di confonderla e invece di rappresentare la scena alla maniera moderna la rappresentò alla maniera anti­ ca, dal vero, magari temporaneamente protetto dal­ la sua smemoratezza ed eccitato da un’esuberanza del desiderio a sentirsi illuminato da una memoria atavica, la memoria che portava nel sangue e che con l’ardore del sangue dominò tutti i suoi impulsi. O va’ a sapere se non sia stata lei a confondersi, paralizzata dal torpore notturno e troppo docile al travestimento, la camicia da notte riservata da gene­ razioni alle nozze di ogni nuova Amat, e senza aver nessuno a cui chiederlo sia arrivata a immaginare che il suo matrimonio, contrariamente a quanto ave­ va pensato, la univa al vecchio, oppure abbia fatto finta di confondersi e abbia forzato la commedia e invece di unirsi al suo sposo, un uomo che, non biso­ gna dimenticarlo, aveva soltanto intravisto al di là del muro di cinta, si sia offerta al vecchio, cogliendo­ lo di sorpresa. O se sia stato lui, lo sposo, a essere così scandalizzato dal carattere della commedia da decidere, la mattina dopo, che tale non era, che non si trattava della rappresentazione di un atto, bensì dell’atto stesso, di vere nozze fra suo padre e la sua sposa — e che quello era l’unico modo di risolvere l’incidente. Il particolare del muro di cinta era molto

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importante, di una importanza capitale. Erano quel­ li che stavano al di là del muro di cinta; tanto basta­ va. I signori. La rancida e zotica aristocrazia delle montagne. La transustanziazione, l’ho sempre detto. E anche una specie di asta. Perché comprare all’asta è una delle poche cose che le donne sono capaci di fare, anche se poi magari non sanno che farsene del­ l’oggetto comprato. Non dico del marito, dico del­ l’altro. Ma lei lo sapeva benissimo, era più istruita della figlia di un mulattiere o di un contadino, per­ ché suo padre, col fatto di lavorare per la ferrovia, aveva visto un po’ di mondo e le aveva insegnato diversi validissimi princìpi. Validi per cosa, non so, comunque glieli aveva insegnati e lei doveva appli­ carli, per cui risultò che pur essendo un’umile ragaz­ za dell’altro lato del muro di cinta era diversa. Quando si dice così si intende in genere più orgo­ gliosa e più compiaciuta di sé. Be’, questo è il meno, il carattere è di scarsissima importanza nelle storie di passioni fasulle. Forse la ingannò il vecchio, o la ingannò lo sposo, o la ingannarono le usanze, o va’ a sapere se non si ingannò da sola e la mattina dopo ingannò il vecchio, e il vecchio dovette ingannare suo figlio, e suo figlio si sentì ingannato da entram­ bi, o al contrario fu lui a ingannarli entrambi - come diceva nel delirio -, in ogni caso la mattina dopo era­ no in un altro mondo e non sapevano più che cosa avevano fatto, sapevano solo che qualunque cosa avessero fatto adesso erano in un altro mondo, con i sensi intorpiditi e ancora increduli, poche ore prima di prendere parte al banchetto. Un paio d’anni dopo - che dico, non era passato neanche un anno - ecco­ lo comparire in casa mia; in realtà comparve in casa di Manuela, per intercessione dell’uomo di fiducia di suo suocero, che non voleva pasticci in casa pro­ pria e riuscì in quel modo a sbarazzarsi di lui anche se bruciava di febbre. Però non andava in cerca di lei, come credeva quell’uomo, ma tutto il contrario, perché essendo lui stesso, così diceva, l’unico colpe176

vole, non voleva perdono e tanto meno pentimento. Avrebbe anzi aspettato - disse a Manuela - tutto il tempo che fosse stato necessario perché lei capisse che doveva condividere la sua colpa, il che era pro­ prio - a quanto sentii dire dall’amico di Manuela quello che lei voleva ed esigeva da lui, però a rove­ scio». «A rovescio?» chiese l’altro, girando di scatto la testa. «Sì, a rovescio; te l’ho detto diverse volte: a rove­ scio» disse Abdón con un principio di malumore. «Ma come a rovescio?». « A rovescio, semplicemente a rovescio » continuò Abdón. «Perché seppure lei avesse voluto condivi­ dere la sua colpa, dalla propria non voleva staccarsi né riconoscere che era un po’ anche dell’altro. Era affezionatissima alla propria colpa, hn troppo io credo, senza quella colpa non poteva più vivere. Questo succede con le passioni fasulle, non si metto­ no mai alla prova. Vincolano enormemente e non muoiono mai. Non c’è modo di liberarsene. Un amore vero — ammettendo che esista — può estin­ guersi, ma da uno falso non c’è uomo che si possa salvare; nemmeno dall’amore per l’umanità, che è il più falso di tutti. E di tutta questa storia ti dirò che, da quanto sono venuto a sapere, l’unica depositaria di quel segreto di alcova doveva essere la sposa, che a compenso dell’oltraggio e della prova certamente penosa riceveva in eredità la tradizione, da conser­ vare e trasmettere, e al tempo stesso la futura ven­ detta su colei che un giorno avrebbe preso il suo posto. Ricorso intelligente e astuto, in virtù del quale la donna, che in verità non aveva ragioni consistenti di rifiutarsi alla prova, avrebbe finito per accettarla non solo per i benefìci immediati, ma anche per il potere di controllare la famiglia che le veniva così conferito. E fu questo ciò che ella infranse e rifiutò un’ora prima di sedersi a tavola, ciò che rivelò, con il fazzoletto in mano - e tutti si alzarono di scatto dalle

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sedie — e ripudiò e seppellì per sempre come un’u­ sanza barbara, indegna di popoli e di famiglie civi­ li ». « E lui? » domandò l’altro dopo uno sbadiglio. «Ma come, non ti ho detto che è morto?». « No, non me l’hai detto. Ti dimentichi sempre le cose più importanti. Mi racconti una quantità di baggianate senza il minimo interesse, e trascuri le notizie decisive». «Te l’ho detto mille volte. Morì in casa di Manue­ la, lasciando un’orfanella». «Allora è orfana di padre e di madre? Mi avevi detto che la madre era morta, ma del padre non mi avevi detto niente». « Ma sì che te l’avevo detto. Ha avuto una vita assai difficile, ma è una bravissima ragazza. Ha delle otti­ me qualità, e sa perdere assai bene. E non te lo dico perché sia figlia mia (cosa che qualcuno sostiene, ma io non credo) ma perché ha davvero delle ottime qualità. E la donna che ti ci vuole, te lo dico io». «Ma allora non è figlia di quella là». «Di chi?». « Di quella dello scandalo, quella di tutta la storia che mi hai raccontato». « Ma no, diamine, no » rispose Abdón con un po’ di impazienza. «Come faceva a essere figlia sua?». «E allora perché vuoi che vada a dirle che è sua figlia? ». «Legalmente lo è. Essendo figlia del marito può essere solo figlia sua e pertanto sua erede. Non dir­ mi che non ti va bene». « Anche ammesso che mi vada bene, vorrà le pro­ ve che è figlia di suo marito». «Le prove ce le ha Manuela». «Anche la figlia si chiama Manuela?». «E il suo nome di battesimo. Nella vita ne usa un altro. Ha avuto una vita assai difficile, poveretta». « Ma mi dirà che bisognava presentargliela prima, subito dopo la morte del padre». 178

«Io credo» disse Abdón in tono più grave «che non sappia neanche che il padre è morto. Credo che continui a ignorare che è morto più di trent’anni fa. Io ero andato a dirglielo poco dopo, perché gli ave­ vo promesso di occuparmi di sua figlia e di fare tut­ to il possibile per farla uscire dalla valle e per darle un’educazione come si deve, ma non ha neanche voluto ricevermi. E so di altri che hanno cercato di fare la stessa cosa, con intenzioni diverse, per spre­ merle dei soldi con la scusa che il defunto marito aveva lasciato debiti o impegni o addirittura altri figli naturali, ma tutti hanno avuto la stessa rispo­ sta; o per meglio dire la stessa assenza di risposta. Non sono neanche riusciti a entrare. È passato tan­ tissimo tempo, ma credo che non sia cambiata. Cre­ do che non voglia sentirne parlare. Che rifiuti di saperlo. Che voglia continuare a rifiutarsi di saper­ lo. Deve essere di quelle donne che si aspettano qualsiasi cosa dagli uomini, salvo che le lascino sole. Per questo devi andarci molto cauto».

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OTTOBRE

«Ma sì che tornerà, vedrai,» disse la signora «ti assicuro che sta per entrare. Ho udito i suoi passi nell’androne, inizialmente timidi e indecisi, quasi aspettasse il dissiparsi delle ultime brume dei suoi dubbi. Si è fermato ai piedi della scala, te ne sei accorta? L’hai sentito? E arrivato fino a te lo scric­ chiolio con cui il legno trasmette il turbamento del suo spirito? Si è fermato all’imbocco della scala per­ ché sa che se sale il primo gradino più niente lo trat­ terrà dal giungere fin qui. E la prima volta che lo fa, ed è naturale che l’emozione lo blocchi, perché fino a oggi avevo dato ordine di riceverlo sul portone, che resta sempre aperto, e di fargli sapere con corte­ se fermezza che non poteva entrare; che, non ammesso neanche al vestibolo, doveva considerare la visita come non realizzata, e pertanto il messaggio come non ricevuto. Ma oggi le cose sono cambiate, e potrà venire fin qui a consegnare il suo messaggio — un momento che aspetta da tanto tempo e per tante volte gli è stato negato che si può ben sospettare vi sia impreparato. Come la prima volta. Come quell’a­ 180

mante potenziale la cui timidezza cresce con gli anni perché ogni volta è sempre meno capace di comuni­ care i sentimenti che nutre. Di qui le indecisioni e i voltafaccia, dall’imbocco della scala alla porta, come avrai notato. Oggi però ho predisposto tutto in un altro modo, ho anche dato ad Alejandro un pome­ riggio di libertà e col pretesto della cera passata di fresco ho segnato con fogli di giornale la strada da seguire, un espediente che mi è sembrato comodo per indicargli senza ambiguità la direzione e, se sa leggere l’intenzione del gesto, per invitarlo a depor­ re ogni riserva. Mi domanderai perché ho aspettato tanto a lungo questo momento che posso rimandare quanto voglio, o piuttosto perché, avendo aspettato tanto senza aver ottenuto niente in cambio, mi deci­ do proprio adesso a interrompere una lunga attesa che avrei ben potuto abbreviare in qualunque altra delle occasioni precedenti. Mi permetto, inoltre, di indovinare le tue critiche e di anticipare i tuoi com­ menti alla mia decisione...». « Qualsiasi cosa ti permetti di indovinare a propo­ sito dei miei pensieri, zia, » interruppe la nipote « è di troppo. I miei pensieri sono segreti, segretissimi, e mai cadrò nella tentazione di svelarli. Perché i miei pensieri, zia, sono l’abito delle mie passioni e me ne spoglierò solo davanti a chi sarà disposto a idolatra­ re la mia nudità». «Ma per Satanasso! Vuoi stare zitta una buona volta? Dove credi di essere? Cosa ti salta in mente, svergognata, di farmi arrossire con i tuoi pensieri e la tua nudità? E va bene: tu pensi - è facile indovi­ narlo — che io abbia preso questa decisione perché sono al limite delle forze, e nel momento in cui veni­ va meno ogni speranza di ottenere i risultati che mi proponevo dalla mia lunga attesa. Che uno spirito rammollito da questa attesa abbia infine deciso di rimuovere le rigide barriere del suo comportamento per permettere, al penultimo istante, che il caso arri­ schi una posta nel gioco in cui ragione e virtù non

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sono riuscite a vincere niente. E che, già vicina a questo limite, la situazione che finora avevo saputo sopportare con paziente risolutezza (e senza rinun­ ciare nemmeno alla più insignificante di quelle bar­ riere) mi diventi insostenibile, e allo scopo di smenti­ re la sterilità del mio esperimento io mi accinga a far entrare in questa casa il primo che capita con un messaggio, chiunque egli sia e qualunque sospetto possa destare la sua ambasciata. Sì, te lo leggo in fac­ cia. Ma ti sbagli». «Non sono abituata a sbagliarmi, zia» disse la nipote. « Ti sbagli » replicò impassibile la signora « come si sbagliavano tutti quelli che sono venuti qui con con­ sigli e raccomandazioni, solleciti sempre e soltanto — a loro dire - del mio bene e della mia salute». «A me della tua salute non m’importa un fico, zia» disse la nipote. « Lo so, e anche a me non importa niente che non t’importi niente della mia salute». « Non ho detto che non me ne importa niente. Ho detto che m’importa meno di un fico». « E meno di un altro fico importano a me tutti gli affari tuoi, zotica mascalzona; e ancor meno mi importa che un giovinastro di paese, uno che mira al quattrino, possa sbatterti e fabbricarti un bel pancio­ ne per la lotteria del pupo, magari con dentro un grappolo d’uva, avvinazzato com’è. E ti assicuro che niente mi sarebbe più comodo e gradito del conti­ nuare in questa attesa che, divenuta ormai un’abitu­ dine, mi ha ricompensato con un’intima dolcezza che prima mi era ignota e con una sicurezza delle mie convinzioni che non cambierei con la più frut­ tuosa e piacevole delle sorprese. Ti sbagli, guarda, ti sbagli. Oltretutto, il difficile non è rassegnarsi a una decadenza senza emozioni, ma prendere, in questo frangente risolutivo, una decisione che possa con­ fermare le aspettative fin qui accarezzate come smentirle nella maniera più repentina e definitiva.

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Questo è veramente il difficile, la prova a cui mi sono preparata economizzando tutta la fermezza che la mia salute mi può dare per riuscire a superar­ la se dovessi trovarmi di fronte a un risultato contra­ rio ai miei desideri; ma bada che mai, fino al momento in cui mi sottoporrò alla prova, saprò se dispongo di sufficiente fermezza. Non c’è dubbio che questa ignoranza, o questo timore, apportano un considerevole flusso di energia - supplementare e bastarda - per poter tollerare e prolungare un rin­ vio che se venisse deliberato e sancito da una volontà altra dalla mia produrrebbe uno stato d’animo ben diverso, meno flemmatico e più fragile. Devo con­ cluderne come sempre che ciò che importa è la sovranità, per quanto travestita. Proprio questa con­ siderazione mi ha indotta a stabilire una volta per tutte, inesorabilmente, la data della mia decisione, perché ciò che sarebbe potuto capitare a me, ossia che i giorni mi fossero contati dalla sua volontà, può ben capitare a lui finché l’iniziativa resta nelle mie mani. Intendo dire con questo che non posso gioca­ re con la sua resistenza come se fosse pari alla mia; né con la sua pazienza, né con la sua perseveranza. Sebbene neanche per un giorno abbia smesso di considerare tutta la vicenda con la maggiore impar­ zialità possibile, e per riuscirci abbia sempre cercato di mettermi nei suoi panni in modo da indovinare le sue intenzioni e i suoi moventi e far sì che fossero compatibili con i miei, non posso fare a meno di con­ fessare che in tutto ciò che si riferisce a lui ho dovuto muovermi sul terreno delle congetture, poiché una sola prova certa sarebbe bastata a distruggere il pia­ no dell’attesa così come lo avevo tracciato. L’attesa è un’arte, figlia mia, e solo l’immaginazione - mai la fantasia - può soddisfare l’immensa avidità che cer­ te forme nutrono per altre. E non sai quanto grande è il ruolo che nelle ore di attesa hanno gli angoli di strada e i muri di cinta! ». 183

«Soprattutto gli angoli, zia» interruppe la nipote. «E principalmente gli angoli a sinistra». « Sì, hai ragione » accondiscese per la prima volta la signora. «Gli angoli a mano sinistra sono i più importanti». « I muri di cinta meno » continuò la nipote che, un po’ incoraggiata dalla condiscendenza della signora, credeva di poter cambiare discorso, mediante quella rottura, in una conversazione di cui non vedeva la fine. « I muri di cinta hanno avuto un’importanza capi­ tale nella mia vita. Fu tutta una questione di muri di cinta. E continua ad esserlo. Ma non cambiamo discorso; torniamo a noi». «Vorrai dire a te, zia». «Ho detto noi, stupida. E insisto che mai, con i miei reiterati rifiuti, ho cercato di indurlo a ripetere la sua ambasciata, perché ho sempre pensato che la possibilità di riconciliarsi e rincontrarsi debba essere fondata sulle stesse ragioni per cui è avvenuta la separazione, una volta che siano stati chiariti i malin­ tesi e la discordia trasformata in concordia (senza far altro che rovesciare i sentimenti), evitando però di aggiungerne altre, di ragioni, incorporate a quel­ le vecchie ma nate dalla lontananza. No, quelle pri­ me sono più che sufficienti perché non ne occorra­ no di supplementari, generate dalla necessità o dal sentimento. Bastano quelle. A volte mi è capitato di paragonare la nostra situazione e la nostra natura a quelle di due vini preziosi di una vendemmia ormai quasi esaurita, conservati in una bottiglia sigillata in modo tale che l’impermeabilità del tappo e l’inno­ cuità del vetro si limitino a preservare la loro condi­ zione, senza alterare nessuna delle loro caratteristi­ che, senza nemmeno invecchiarli; e vedo me stessa in procinto di essere degustata dall’intenditore il quale, se procede in modo rigoroso e si attiene esclu­ sivamente all’esperienza e alle conoscenze specifi­ che che ha, non dovrà affatto modificare il proprio

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giudizio o accrescere la propria soddisfazione mediante il valore aggiunto, inconsistente e insapo­ re, di un’età impossibile da valutare con il palato. Cosicché, sebbene possa vantarmi — per quanto mi riguarda, certo — di essere riuscita a preservare uno stato di cose che non ammetteva compromessi, ma soltanto una soluzione definitiva, non posso invece affermare che tutte le circostanze che furono all’ori­ gine dei fatti si siano conservate nella loro integrità. Nessuna, ripeto, è venuta ad accrescere il coacervo di motivi che li causarono, ma alcune si sono perdu­ te per sempre. Circostanze e persone che ebbero innegabilmente un ruolo, primario o secondario, e la cui scomparsa non è valsa certo a mitigare lo sci­ sma. La maggior parte di coloro che dovevano assi­ stere a questo epilogo, a questa apoteosi della giusti­ zia immanente, giace sotto terra; quelli che ancora ci camminano sopra sono indegni di assistere allo spet­ tacolo dello scontro fra due divinità. Il desiderio di vendetta si mantiene vivo sui morti perché è di indo­ le spirituale, e le mie mani alla fine si sentiranno pacihcate e tranquille come se li avessi strangolati davvero; sono sicura che quando entrerà qui le loro tombe sbadiglieranno un ultimo rutto di orrore, verdetto di colpevolezza, se non di morte. Lo scisma sarà suggellato. Ho detto scisma, sì, proprio scisma. Lo scisma che si aprì fra due persone chiamate a vivere insieme e si produsse contemporaneamente alla scissione fra due epoche, una delle quali - la presente -, distanziandosi sempre più da quella pas­ sata, sembra ormai destinata a non ubbidire alle leg­ gi e a non sottoscrivere ai valori di quest’ultima. Ma mentre questa è hssata una volta per sempre dai ritrattisti ufficiali della storia, quella presente non ha ancora definito bene il suo volto e la sua perso­ nalità — nonostante gli sforzi delle autorità e degli artisti contemporanei per caratterizzarla -, come l’adolescente nel cui carattere appaiono tratti, anco­ ra incerti, la maggior parte dei quali si estingueran-

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no nel successivo processo di maturazione. Perciò è ancora presto per affermare che l’epoca presente è molto diversa da quella passata. Chissà a chi somi­ glierà. Ci fu un momento che si annunciò come un risveglio: tu non l’hai conosciuto. Sei nata e cresciuta nell’epoca nuova e perciò sei invecchiata prematura­ mente. Non ti rimane che assistere a un ampio cata­ logo di crepuscoli. Ma nella mia gioventù ci fu un momento ben diverso, con tutti i caratteri del risve­ glio: il cinema, la rivoluzione bolscevica e l’aerodina­ mica. Qualcosa di totalmente diverso dai postumi della rivoluzione francese, da quell’insopportabile diciannovesimo secolo convinto che tutto, salvo l’amore, sarebbe stato risolto dalla scienza e dal pro­ gresso. Che errore madornale, esattamente il con­ trario di quello che è accaduto. Perché il nostro seco­ lo cominciò male, e proprio quando si convinse che i suoi mali erano incurabili scoprì che i beni erano moltiplicabili: il cinema, la rivoluzione bolscevica e l’aerodinamica». «A me dell’aerodinamica non me ne importa un fico, zia» disse la nipote tirando un po’ su la gonna e avvicinando i piedi per contemplare la rotondità delle sue ginocchia. «Riconosco solo le forme eter­ ne, le forme fidiache, prassiteliane, donatelliane, michelangiolesche, velazchine... ». « Tu sta’ zitta » ordinò la signora con un gesto sec­ co. «Lo scisma sta per essere suggellato. Non resta nessuno per contemplare e applaudire questo momento, ma forse è meglio così. Un atto senza pubblico, sprovvisto di qualunque teatralità, ridotto a se medesimo, come dev’essere l’unione e la separa­ zione di due creature, il trapasso fra due epoche o due stati, quella evoluzione così lenta che l’occhio umano a malapena può coglierla attraverso le sue possenti impronte, quella flessione dei sentimenti così rettilinea da condurci sempre, senza che l’anima lo sospetti, al punto di partenza anteriore a ogni cambiamento. Già da un pezzo sento rumor di passi

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