Morte della sovranità
 9788898694303, 9788898694679

Table of contents :
Cover
Title
Copyright

Citation preview

1

Luca Basile a cura di

Morte della sovranità

2

3

G u l l i ve r

Collana diretta da: Francesco Valagussa

4

Gulliver | 1

5

Biagio De Giovanni, Roberto Esposito, Vincenzo Vitiello, Luca Basile, Giulio Goria, Giacomo Petrarca

Morte della Sovranità a cura di Luca Basile

6

© 2016, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 1 - luglio 2016 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694303 ISBN – E-book: 9788898694679 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Royal Palace of Aranjuez, main court at night. Community of Madrid  © Jose Ignacio Soto - Fotolia.com

7

8

9

10

11

Introduzione

I giorni 26-27 ottobre 2015, il Centro di ricerca “Diaporein” della Facoltà di filosofia dell’università San Raffaele di Milano ha promosso ed ospitato il convegno dedicato al tema Il tramonto della sovranità: possibilità o esito irreversibile?. L’esigenza che ne ha motivato la costruzione dei lavori è stata quella di indagare i caratteri della concezione moderna della ‘sovranità’, di verificarne la fungibilità categoriale all’interno del quadro storico e del lessico politico contemporaneo, e ancora, connessamente, di esplorare i possibili paradigmi analitici attraverso i quali restituirne la crisi, l’eclissi, l’eventuale dissoluzione o i termini della sua inespulsa ed inaggirabile incidenza. Una simile riflessione è stata svolta a muovere dalla particolare sollecitazione esercitata dall’uscita, nel 2015, dell’ultima fatica di uno dei maggiori filosofi della politica italiana e non solo, Biagio De Giovanni, intitolata, appunto, Elogio della sovranità politica. E proprio in interlocuzione diretta con il punto di vista espresso da De Giovanni nella sua relazione – che ha ulteriormente svolto alcune cruciali tematiche già presenti nel libro – si debbono intendere le altre relazioni susseguitesi, esposte da alcune delle principali voci della riflessione filosofica italiana: Roberto Esposito, Vincenzo Vitiello e Giacomo

12

Marramao. Ad esse se ne sono, poi, aggiunte altre presentate da alcuni giovani studiosi (L. Basile, G. Goria e G. Petrarca), all’insegna di un esplicito tentativo di confronto scientificogenerazionale. Inoltre, non si deve tralasciare di menzionare la fitta rete di scambi e di interrogazioni – di cui, purtroppo, i presenti atti non possono dar conto – che i contributi hanno suscitato. L’interlocuzione ha coinvolto, infatti, molti prestigiosi docenti della facoltà di filosofia del San Raffaele: da Massimo Cacciari a Massimo Donà, a Roberta De Monticelli, etc.. La presentazione delle relazioni e della discussione che ne è scaturita nelle due giornate sono state coordinate dagli stessi Cacciari e Donà e da Francesco Valagussa. In chiave di ricostruzione storiografico-concettuale, al principio della fondazione della categoria di sovranità entro l’orizzonte della ragione critica si pone Bodin e la risposta che egli avanza rispetto all’imperversare delle guerre civili e religiose, intersecando centralizzazione del potere politico e diritto di legislazione. Con la linea dell’‘artificialismo dal basso’ introdotta da Hobbes – la quale dischiude, insieme a Grozio, alla fondazione del contrattualismo, nel caso secondo il nesso fra pactum unionis e pactum subiectionis – la sovranità politica giunge ad essere definitivamente collegata alla rappresentanza, attribuendovi sia il potere legislativo che quello governativo, sì da aprire la strada alla piena affermazione dello Stato legislativo. Essa conoscerà una radicale riformulazione in direzione repubblicana attraverso la concezione rousseauviana della ‘volontà generale’ (antesignana, sia pure tra oscillazioni e possibili ribaltamenti concettuali, della nozione di ‘sovranità popolare’). Di qui, appunto, il grande passaggio strategico dalla concentrazione del potere nel sovrano all’orizzonte storico e teorico della medesima sovranità democratico-popolare, declinabile sia nel senso della sola unilateralità del diritto che in quello della più vasta fondazione della forma-Stato moderna. È a quest’altezza che si evidenzia il contributo cruciale

13

della Rechtphilosophie hegeliana, a cui tanto la relazione ed il volume di De Giovanni quanto gli altri contributi, benché tra forti differenziazioni reciproche, hanno fatto riferimento con particolare vigore, cogliendone il respiro ed il valore paradigmatico. Hegel, ponendosi al culmine della elaborazione dell’idea di sovranità (al contrario di quanto voluto da molte semplificazioni e riduzioni analitico-retrospettive), sancisce il radicale transito dalla contrazione puntuale del potere nel ‘posto del sovrano’ alla coincidenza tra sovranità medesima e mediazione politica. A ciò faranno seguito molteplici mutamenti nel pensiero della forma-Stato, tra cui si evidenziano, nel drammatico e insieme ancora incidentissimo quadro del Novecento e della sua eredità, le due alternative delineate dalla tematizzazione schmittiana del nodo della decisione e dal formalismo giuridico di Kelsen. Entro il presente, la crisi della soggettività incarnata dalla figura dello Stato-Nazione e, in generale, di tutte le manifestazioni morfologiche del Politico costringe ad attagliare l’approfondimento proprio sulla categoria di sovranità, sulla sua cogenza, sulla sua efficacia e sulla sua relazione con il momento della decisione. Ne deriva la necessità di porre in stretto vincolo la categoria della ‘sovranità’ con le forme della costruzione giuridica odierna, collocando in ciò la sfida della ricognizione e della verifica circa le forme contemporanee ed a venire del Politico stesso. Con tale sfida i lavori del convegno, nel loro modesto e circoscritto ambito, hanno cercato di cimentarsi.

Luca Basile

14

15

Eccezione e sovranità. Tra Walter Benjamin e Carl Schmitt Biagio De Giovanni

1. Sovranità-vita L’idea di sovranità contiene, nelle sue principali formulazioni, un costante, organico richiamo alla vita, sia pure diversamente declinata, e diversamente influente sulla struttura dell’autorità sovrana. Due vie di analisi novecentesche in questa direzione, anche se lontane fra loro, sono indicate da Walter Benjamin e Carl Schmitt, ma va subito annotato che il tratto centrale, originario, nucleare si potrebbe dire, della sovranità moderna – modello Hobbes – sia proprio nel corto-circuito tra sovranità e vita, che ne inaugura la morfologia, e ne mette in moto il divenire e la forma. Dunque, il tema è all’origine del modello vincente. Insomma, quel rapporto, come tale, non è un fatto nuovo, ma decisivo è come esso si declina nella sua concreta fenomenologia. La vita, per conservare se stessa, si appella al sovrano; la vita sa di non poter sopravvivere alla stessa violenza che emana dal proprio interno senza l’auctoritas sovrana. All’origine del Moderno, la disperazione di Hobbes vede il venir meno di tutte le mediazioni corporative, e in qualche misura rassicuranti, e irrompere lo stato di natura dell’individuo isolato, che è anche illimitato padrone di sé. Il sovrano, per funzionare come protagonista della conservazione della vita,

16

ha davanti a sé due vie: irrigidire la propria auctoritas, concentrare in sé, nella propria persona, la potenza senza limiti dello “stato di natura”, sottraendolo alla sua coincidenza con la condizione umana, a quel bellum omnium contra omnes di cui però Hobbes percepì il carattere di fictio; oppure, spersonalizzare la sua auctoritas, farla penetrare in quella vita che, per esser conservata, va colta e guardata nella sua complessità, per vedere come il suo entrare in rapporto con la sovranità ne formi la fisionomia, e se questa sia dettata esclusivamente dall’atto sovrano, o se essa comunque appresti una resistenza implicita per il suo solo essere vita, una resistenza destinata a rendere più forte e viva la vita, sollevarla dal suo destino di puro oggetto di dominio. Tutto sta nel vedere se, e come, il corto-circuito con la vita modifichi lo stesso atto sovrano, ponendogli un interlocutore destinato a influire sulla medesima forma dell’auctoritas. Un errore gravido di conseguenze estreme è stato considerare che il punto di vista della sovranità, guardato come esclusivo, sia destinato, entropicamente, ad assorbire tutto dentro se stesso. Quella vita, che essa penetra e da cui è penetrata, è interlocutore troppo “vivo” per poter essere declassato alla passiva identità di una “nuda vita” che solo una totale, inattesa redenzione può salvare, e sollevare dalla sua condizione di oggetto. Il tema del rapporto tra Auctoritas e vita è il tema stesso del Moderno, ed è il modello di Hobbes, nella sua assoluta genialità astrattiva, a inaugurarlo. 2. Muovendo da Walter Benjamin: Diritto e violenza Ma come questo rapporto si trasforma nell’altro: sovranitàeccezione? È quel nucleo originario che conduce a questa conclusione? È il nesso sovranità-vita che coincide con l’eccezione, che spinge verso di esso? Di certo, in Benjamin e in Schmitt, è proprio così, le tre parole – sovranità-vita-eccezio-

17

ne – si inseguono, e ciò che va individuato è il ritmo interno di questo movimento. Il punto di partenza, più che prender l’avvio dalle celebri formulazioni di Schmitt, («sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione» e «Nell’eccezione la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita ripetizione»), è nelle pagine dedicate al tema nel saggio di Benjamin intitolato Zur Kritik der Gewalt. La ragione è che lì si trova, credo per la prima volta, il prosciugamento del concetto di vita in quello di “nuda vita”, in un orizzonte che fa del potere pubblico, che si muove attraverso la coercizione giuridico-sovrana, un atto continuo di violenza sulla vita: il sovrano, insomma, viene visto come chi ha scelto la prima delle due vie indicate, essere pura coercizione sulla nuda vita. In questa direzione va il testo di Benjamin, e fermarsi su di esso è essenziale per cogliere un percorso di pensiero gravido di sviluppi successivi. Ci troviamo in presenza di una critica asperrima delle modalità attraverso le quali si muove l’ordine giuridico, il quale contiene sempre in sé, secondo Benjamin, un principio di violenza, connaturato al carattere coercitivo del suo esercizio e al fatto che questo esercizio coincide con la violenza legale interamente concentrata in esso, per cui «l’interesse del diritto a monopolizzare la violenza di fronte alle singole persone non si spiega con l’intenzione di salvaguardare i fini giuridici, ma piuttosto con quella di salvaguardare il diritto stesso»1; la violenza non esercitata dal diritto non è per esso una minaccia in quanto violenza, ma proprio in quanto esistente al di fuori del diritto. Solo al diritto spetta un diritto alla violenza, e questa “spettanza”, questa autoattribuzione finisce con il connotare il diritto stesso, con una riduzione, al suo significato più elementare, della celebre definizione weberiana dello Stato

1. W. Benjamin, Per la critica della violenza, con testo tedesco a fronte, Alegre, Roma 2010, p. 65.

18

come monopolio della violenza legittima, giacchè completamente ignorato è l’aggettivo “legittima” che si accompagna a “violenza”. Per Benjamin, è la violenza pura che pone il diritto e che lo conserva2. Il diritto appare come un entropico, gelido mostro, rivolto a “costituire” solo se stesso. E bisognerebbe riflettere su come il pensiero novecentesco sia giunto a questo limite estremo, e alle spalle c’è sicuramente l’eccezionalismo in cui il secolo si manifesta. Ma una intera civiltà giuridica cade ai piedi dell’eccezionalismo. Ben s’intende che anche da queste posizioni discende Foucault, e la cosa va annotata subito per la seguente ragione: da Benjamin a Foucault si estende a macchia d’olio, nel pensiero critico, il rigetto della sovranità come processo che si legittima attraverso il diritto, ed è il criterio legittimante ad esser posto sotto accusa, proprio per la sua pretesa neutralità, per il suo torbido formalismo. Tutto l’asse decostruttivo di Foucault si muove in questa direzione, liberando il potere effettivo di disciplinamento da quella legittimazione, un tema che fonda il pensiero biopolitico e ha riflessi importanti nell’italian Theory. Avvertivo la opportunità di questo inciso, per annotare l’ampia influenza raggiunta dal tema, prima di tornare a Benjamin. La critica del militarismo, esemplifica Benjamin, coincide piuttosto con la critica di ogni potere giuridico, vale a dire con la critica del potere legale o esecutivo, e non può essere portata a termine con un programma minore3. Naturalmente, a questa critica del diritto Benjamin non intende opporre un ingenuo anarchismo, per cui si possa immaginare che sia permesso ciò che piace. Se la violenza della legge si afferma come

2. Ivi, p. 71. 3. Ivi, p. 73.

19

una violenza che afferma un destino, ad essa si può opporre solo un’altra rappresentazione del destino. Lo vedremo tra poco. E Benjamin conferma che «c’è del marcio nel diritto»4 in quanto esso consente al potere il più ampio margine di disposizione. «L’aspetto ignominioso di una tale autorità consiste nel fatto che in essa è soppressa la separazione fra violenza che pone e violenza che conserva il diritto»5, e la violenza conservativa serve ad evitare che ci si possano porre nuovi fini, oltre quelli già imposti dall’ordinamento. Una sorta di orizzonte dato, fermo, con il compito di bloccare la formazione di un diverso destino che avrebbe bisogno di un diverso principio. Il diritto come violenza conservativa dell’esistente, nato dalla sua violenza sull’esistente medesimo. Ma questo estremismo concettuale, guardato con il necessario rispetto dovuto a un filosofo come Benjamin, sembra estranearsi dalla storia interna del “giuridico”. L’effetto generale è letale. 3. Una diagnosi sulla democrazia Violenza e diritto, insomma, si rimandano l’un l’altro, e c’è una diagnosi terribile di Benjamin sulla democrazia, dove la polizia, in una situazione nella quale potere legislativo ed esecutivo sono distinti, possiede un’autonomia nell’esercizio della violenza meno legittimato e più autoreferenziale di quello messo in pratica nella monarchia assoluta, dove i due poteri coincidevano nella figura del sovrano6. Lo scenario si avvolge intorno alla pura violenza del potere. Ma violenza su che cosa? Qual è il suo oggetto, quello che lo fonda e ne mantiene vivo l’esercizio, e quasi si direbbe l’ispirazione? Su che cosa si eser-

4. Ivi, p. 75. 5. Ivi, p. 77. 6. Ibid.

20

cita il porre e conservare violenza? Il fine è «l’assoggettamento di tutte le forme di esistenza storica che si sono finora date»7, ma sarebbe impossibile questa funzione della violenza, questa forma di «violenza destinale»8 (schicksalsmassiger Gewalt) se essa non esercitasse la sua funzione primigenia sulla “nuda vita”, spogliata di ogni determinazione storica, pura vita naturale, vita sottratta al vivente, la violenza come pura forza mitica, cruenta sulla nuda vita. È così disegnata l’immagine nucleare del potere, dove l’ordine giuridico coincide con l’esercizio dell’eccezionalismo, giacchè solo l’eccezione ha il potere di ridurre il vivente a nuda vita, di togliergli ogni determinatezza, inchiodarlo alla sua nudità. E si comprende bene la ragione del paradosso benjaminiano, per il quale in democrazia cresce la violenza del potere esercitata attraverso la separazione dei poteri: esso ormai ha a che fare con la massa, con una massa che sta alle porte d’ingresso della storia e a cui è stata data parola nei grandi pensieri di fine XIX secolo. In fondo, in questa critica radicale del diritto spunta sempre il volto di Karl Marx e, in differenti orizzonti, quelli di Soren Kierkegaard e Friederich Nietzsche. E, nel Novecento, l’erede geniale, lo ho già ricordato, sarà Michel Foucault. Carl Schmitt è all’origine di un’altra storia. Alla violenza mitica del diritto Benjamin non oppone l’ingenuo anarchismo, la libertà senza forma, ma un’altra violenza, quella divina, non più succube del diritto, non più soggetta alle forme «che il mito ha imbastardito con il diritto»9. Il vivente insorge contro la riduzione della vita a nuda vita, e celebra un’altra forma di violenza destinata ad aprire una nuova epoca 7. Ivi, p. 91. 8. Ivi, p. 90. 9. Ivi, p. 105.

21

storica. Il potere, insomma, l’autorità sovrana è stata finora violenza sulla nuda vita, ma il pensiero che prendeva coscienza di questo, indicava che una profonda frattura e discontinuità stava diventando “storia”. Per Benjamin, si apriva un altro tempo della storia dove la violenza era necessaria per liberare il vivente dalla nuda vita, liberando la vita dal “deplorevole” dominio del diritto. Non più la violenza che dava origine al diritto, ma la violenza che lo avrebbe deposto. Facendo uscire la storia dallo «stato di emergenza», che è la regola in cui viviamo, come ci insegna «la tradizione degli oppressi»10. Torsione messianica del marxismo, in Benjamin, da questo punto di vista possibile erede di un pensiero da sottrarre alle congiunture della storia. 4. Grande trasformazione Lo scritto di Benjamin è del 1921. È curiosa la decontestualizzazione che la prevalente ermeneutica contemporanea attua rispetto a questi scritti, anche per magari giusto timore di incontrare forme di deteriore “storicismo”. Si può condividere la preoccupazione che non può, però, esser portata oltre un certo limite: le date contano, come ironicamente diceva Eugenio Garin di fronte agli eccessi di teoretismo. Un limite, dunque, quello appena indicato attraverso Benjamin, che attiene al tema della “grande trasformazione”, che qui vorrei prender solo per un suo lato: la crisi del sistema liberale che aveva dominato le idee del XIX secolo e che, nella teoria del diritto e dello Stato, trovava la sua celebrazione nella teoria dei diritti soggettivi elaborata da Georg Jellinek proprio agli albori del secolo nuovo. Ancora individuo e Stato l’uno di fronte all’altro, la ricerca di un rapporto attivo tra il potere e i suoi destinatari 10. Id., Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1981, p. 75.

22

che iniziavano a costituirsi anche come soggetti legittimanti: il diritto sembrava avere la pretesa di “costituire” i propri destinatari, non di occultarne la fisionomia nel proprio disperato formalismo, servitore del dominio. Messo in crisi questo schema, entriamo nell’epoca di Canetti, dove si confrontano masse e potere, e l’individuo come tale sembra diventare “anonimo e statistico”, secondo la splendida espressione di Giuseppe Capograssi, e vivo solo come parte di un collettivo, di una massa. Quando irrompe il collettivo, la massa, il pensiero di esse si incarna in una elaborazione che si ferma su questa nuova dimensione, guardata come un “insieme”, preso da un destino collettivo, ciò che crea un vero e proprio spostamento d’aria nello spazio precedente. Non più individui ma masse, e la porta d’ingresso nella storia si apre ambiguamente, e il pensiero non può più fare a meno di pensarle, di comprendere la dinamica interna del “collettivo”, e come essa si riflette sulla forma del potere che ha sempre preferito di non individuare i propri destinatari, giacchè la loro individuazione comprende già un autolimite, un senso delle distinzioni. La porta della storia si spalanca e insieme si chiude a difesa, e chi meglio dei giuristi era in grado di apprestare questa difesa, di rendere pura forma da dominare la sostanza della vita? Perciò il diritto appare come violenza legalizzata, normazione dell’anomia della massa, tanto più attiva e incisiva quanto più il tema del secolo diventa la democrazia… di massa. Ma si è visto che la massa dinanzi alla quale ambiguamente si è aperta la porta della storia trascina, dinanzi a questa porta, la “tradizione degli oppressi”, quella che, sempre esclusa, ci insegna e ci conferma “che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola”. Onde l’ambiguo elemento di redenzione e di discontinuità che in quella tradizione si cela, in quella attesa violenza divina (la massa degli oppressi, la classe operaia?) che si oppone alla violenza mitica del diritto. Ritraduzione in chiave messianica di Marx, dicevo, muovendosi i due pensatori tra

23

estinzione dello Stato ed estinzione del diritto. È il materialismo storico, cui Benjamin giunse, come si sa, in una fase tarda della sua riflessione, a segnare la distanza tra le due violenze. L’eccezione come regola insorge e si approfondisce proprio per far fronte all’anomia della massa in cui si affolla la tradizione degli oppressi, o per essere la nuova bandiera della redenzione. Il potere sovrano si è sempre legato all’eccezione, ma per Benjamin – e la cosa va ribadita perché scopre il lato più radicale del suo pensiero – la situazione peggiora in presenza della democrazia, dove, lo accennavo già prima, la divisione dei poteri finisce con il giocare a favore dell’eccezione come regola, dà autonomia alla situazione emergenziale e in ultima analisi all’azione di polizia. La storia finora è stata preda dell’eccezione, solo la sua redenzione dalla violenza mitica del diritto può distruggere la vigenza dell’eccezione che si fa regola. Anche se, ecco un elemento di profonda ambiguità, la stessa violenza divina sembra costituirsi solo attraverso l’eccezione, anche se rovesciandone il senso. Insomma, Tutto si gioca su questi crinali estremi. L’eccezione è diventata il tema del secolo. Oltre, e perfino contro, lo stesso Marx e la lettura marxiana della storia, ancorata alle grandi continuità dei modi di produzione e alle accumulazioni vitali ed epistemiche che poi giungono a un punto di rottura. Qui no. Il volto collocato in primo piano è la storia come emergenza. Come eccezione che si fa regola, la violenza come vita immediata sia che la si guardi come atto vitale del potere, sia che la si veda come “nuda vita” su cui il potere si esercita in modo ora beffardo ora violento. E ancora l’eccezione, nel suo opposto risvolto, è ciò che può rovesciare la violenza in redenzione.

24

5. Benjamin e Schmitt Lo ricordavo prima: il testo di Benjamin è del 1921. Un corto circuito nei tempi: il primo scritto di teologia politica di Carl Schmitt, che si apre con il celebre «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione»11 è del 1922, ma nel 1921 il giurista di Plettemberg aveva pubblicato il saggio sulla dittatura, dove al centro è già l’eccezione, e il suo risultato è la dittatura sovrana. Quale rapporto tra i due autori? Come intende l’eccezione Carl Schmitt? Il confronto è di estremo interesse, vi è un tessuto comune da cui i due autori muovono, ed è quello che va anzitutto analizzato prima di studiare i sentieri radicalmente opposti che poi essi percorrono, tanto opposti da collocarli in due continenti diversi, il che è indice di quanto complicato sia il problema. Due proposizioni a fondamento di tutto, che sembrano accavallarsi l’una sull’altra: “lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola”, scrive Benjamin; «La regola vive solo dell’eccezione», scrive Schmitt. «L’eccezione è la forma originaria del diritto», commenta Giorgio Agamben12. Questo dunque vale sia per Benjamin sia per Schmitt, ma nelle due proposizioni citate si possono nascondere significati differenti data la decisività del tema: per Benjamin, l’eccezione è emergenza, l’accento viene posto sull’esser essa diventata la regola in cui viviamo, che infine è la regola di una violenza sulla nuda vita. In Schmitt, sembra quasi enunciato, con il distacco dell’analista, un principio costitutivo della realtà, libero da ogni passione critica ed emancipativa. La regola, la norma (il diritto) vive solo dell’eccezione, ma che cosa è il diritto così inteso? Non si nasconde, forse, in quella equivalenza, la fisionomia del “politico”, sotto le spoglie di una “regola” che, vivendo solo

11. C. Schmitt, Definizione della sovranità, in Le categorie del Politico, Il Mulino, Bologna 1972, p. 33. 12. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005, p. 32.

25

dell’eccezione, in realtà incarna la potenza del politico? Per rispondere a questo dubbio, per certi aspetti cruciale sono necessari, tuttavia, ancora diversi passaggi. Qui Schmitt segue suoi percorsi, la tesi di Benjamin si disperde in lontananza. Peraltro, come potrebbe uno tra i più grandi giuristi del ’900 seguire le orme di Benjamin e la sua riduzione del diritto a pura e semplice violenza? Ma allora il tema dell’eccezione deve avere valenze del tutto diverse nei due autori. In Benjamin, segna l’irrompere della pura violenza, in Schmitt si disegna un più complicato e problematico rapporto tra “eccezione” e “nomos”, ordinamento concreto, una più complicata relazione tra politica e diritto. Un punto d’avvio analitico può esser questo: nel giurista tedesco, la decisione giuridica non nasce da una norma, non ha la norma alle sue spalle, e così si interrompe il tragitto dello Stato di diritto, le sue irriducibili continuità che fanno della legalità il vero criterio di legittimazione e del dissolvimento della sovranità l’ultima conseguenza. La decisione ultima, l’unica che manifesta auctoritas sovrana (“sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”), non nasce dall’ordinamento consolidato nelle sue forme, si trova ai suoi margini, nasce in uno stadio di sospensione dell’ordinamento, dove irrompe la vita come tale, dove c’è soglia di indistinzione tra fatto e diritto. Non può diventare una certezza che Schmitt stia parlando del “politico”? 6. Un solo significato di eccezione in Schmitt? Mi domando: non c’è un altro significato di “eccezione”, in Schmitt, che tocca il momento fondativo di un ordinamento? L’eccezione, se il momento decisionale vero coincide con essa, è destinata a costruire ordinamento, come se l’atto di nascita di questo fosse fuori di lui, ma un “fuori” problematico, se Schmitt esclude che l’ordine, l’ordinamento possa na-

26

scere dal caos: l’eccezione sembra già riflessione e riflesso di ordine. Sembra presentarsi nella veste di “necessità”. Schmitt sottolinea l’indistinzione tra fatto e diritto in cui essa si colloca, ma non si può dire, in positivo, che questo momento di indistinzione si incarna nel “politico”? Il diritto ripensa se stesso, fuoriesce dalla norma perché il potere sovrano che lo fonda e lo legittima è fuori della norma, occupa uno spazio-limite che è dentro-fuori l’ordinamento giuridico, come scrive Schmitt, ma che cosa è veramente se non può avere per premessa il caos? È la soglia estrema della sovranità, dove diritto e vita si confondono, dove il diritto è decisione allo stato puro, ma, proprio perché tale, esso porta dentro di sé la forza e la tensione del “politico”. È “il politico” che incarna l’indistinzione tra fatto e diritto. Provo a sintetizzare. Ambedue, Bemjamin e Schmitt, pongono l’atto sovrano in una soglia indistinta, dove esso appare solo con se stesso, l’eccezione sta dove irrompe la vita, essa, scrive Schmitt, rompe la crosta irrigidita dalla ripetizione, ma questo disegna subito due situazioni diverse: in Benjamin, il diritto si esercita sulla nuda vita e solo su essa, solo la nuda vita consente al diritto di essere se stesso. Non è in questione l’espansività dell’ordinamento, quanto la concentrazione di violenza che un ordine, fatto di leggi coercitive, riesce ad esprimere. In Schmitt, il diritto è per eccellenza il sistema di organizzazione dei grandi spazi, è ordinamento concreto, tutt’altro percorso. Ma che può significare, allora, l’esclusivo rapporto tra sovranità ed eccezione? È smentito o confermato dall’idea schmittiana di “ordinamento concreto”? E quale è il rappporto tra ordinamento concreto e sovranità, se sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione? Non c’è come uno squilibrio tra l’istante sovrano (il miracolo, l’eccezione, quella analogia esemplarmente indi-

27

cativamente ripetutamente affermata13) e la complessità spaziale e normativa dell’ordinamento concreto? La decisione produce la norma, ma non è prodotta da essa; è la decisione infondata, l’eccezione, che produce l’ordinamento, e dunque quell’eccezione, che è alla base di tutto, forse scompare nell’ordinamento? O resta, come un presupposto, e minaccia permanente sull’ordine costituito? Il tema è inquietante se è fondato, ermeneuticamente, distinguere due significati di “eccezione”, l’eccezione come esercizio del potere sovrano (che solo così afferma se stesso: “sovrano è chi decide… etc) e l’eccezione come atto vitale necessario, da cui sgorga nuovo ordinamento concreto, destinato però a costruire una “normalità” espansiva. C’è qualcosa che tiene insieme queste due nozioni di eccezione, o esse divaricano e si contrastano? Questa “normalità” espansiva in che modo resta sottoposta all’eccezione? È solo il potere di sospenderla, o è qualcosa di più: il carattere eccezionale di un potere costituente che, nella sua immediatezza, si impone a tutto quello che lui stesso ha creato? Dove sembra disegnarsi un criterio di legittimazione del nazionalsocialismo, della legittimità della sua azione qualunque essa fosse. 8. Ancora su Benjamin e Schmitt In Benjamin, la vita è smembrata, fatta a pezzi, e ridotta a nuda vita dalla violenza del potere che anch’esso si presenta come atto vitale immediato, il quale ha rinunciato alla complessità della propria costituzione. Tutta la storia finora vissuta è sotto il dominio della violenza del diritto, tutta la storia ci dice che l’emergenza è la regola, anche se ora la cosa ha cambiato natura, ora che la massa sta dinanzi all’ingresso del-

13. C. Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del Politico, cit., p. 61.

28

la legge, trascinando alle porte della storia la tradizione degli oppressi, e lasciando intravedere una forma della violenza mai apparsa prima, che Benjamin chiama “divina” e costituisce un principio di redenzione, di liberazione della sostanza della vita. In Schmitt, l’atto vitale coincide con l’atto sovrano, e non c’è nessuna liberazione in vista, ma ugualmente la nuova soglia dove si pone l’atto sovrano nella sua solitudine ha di fronte a sé niente di costituito. Tutto è costituito da quell’atto: l’eccezione sovrana è riassunta o nel potere costituente, come si dice in La dittatura, o nella decisione, come è detto in Teologia politica, ma il potere costituente è esso stesso eccezione, creazione immediata (insisto: è “il politico”), e la decisione nulla di normativo ha alle sue spalle, e sembra abbia come fine di opporsi alla stabilizzazione dello Stato di diritto, dove la sovranità si disarticola nelle competenze e nella miriade di relazioni tra gli organi, e si dissipa così. Ma che destino ha, in Schmitt, l’eccezione, dopo aver costituito l’ordinamento? Si può dire, in una prima approssimazione, che essa è il dominus dell’ordinamento, giacchè in fondo è il suo atto legittimante, ma in esso il diritto sembra sommerso dalla potenza del politico in una situazione sicuramente ambigua, che non viene mai veramente sciolta dal giurista di Plettemberg, dal momento che l’eccezione è pensata dentro-fuori il confine del diritto, una formula che non si può determinare nella sua ambiguità radicale. Su questo dice Agamben: per Benjamin bisogna superare il diritto come esistenza demoniaca, per Schmitt la sovranitàeccezione rappresenta l’ultimo baluardo da opporre all’irrompere di un legalismo che è anticamera del dominio dell’Anticristo14. La sovranità-eccezione, insomma, è l’ultimo baluardo prima che lo Stato di diritto scompagini, con la radicalità della

14. G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 33.

29

sua spoliticizzazione, la potenza dell’atto sovrano. Lo subordini a sé, fino ad annientarne la fisionomia e la funzione. Ecco perché sovranità ed eccezione si legano indissolubilmente, perché il ritrarsi della sovranità nella legalità ne distrugge il carattere politico, quello capace di decidere sul conflitto ultimo, prepara la morte del “politico” riducendo “la politica” ad amministrazione dell’esistente. Ma, per esser chiari, la posizione di Agamben nasce da Benjamin ed estremizza Schmitt, allontanandosi in parte dalla sostanza del suo pensiero. E qui giunge il momento di liberare Schmitt dall’ipoteca di Benjamin, e di collocare quell’influente spicchio di italian Theory sostanzialmente sulla scia di Benjamin, il che dà al problema tutta altra fisionomia. 9. Approfondimento su Carl Schmitt Il punto centrale è questo: il diritto, in Schmitt, non è violenza sulla vita, ma ordinamento concreto della vita, legato com’è alla costruzione del nomos della terra. Per comprendere il significato di questa espressione, si tratta di intendersi soprattutto sull’atto di nascita dell’ordinamento, e su come la sua fisionomia sia destinata a condizionarne la vita. L’eccezione può essere il dominus della costituzione solo perché la “costituisce”, e si conserva dentro di essa non solo per il potere di sospenderla, quanto per l’immediatezza della sua prescrittività su tutto iol suo percorso. La legalità è assorbita nella legittimità del “politico”. L’ordinamento concreto che ne scaturisce sembra escludere la possibilità della normalizzazione, identificata con la vittoria del normativismo formalistico e della connessa spoliticizzazione. Il potere costituente, nella sua immediatezza, resta il dominus, e riassume in sé la tensione dell’atto politico. Vuol essere la riprova che l’ordinamento non si può esaurire e ricondurre alla “legalità”, la quale, quando pretende di dominare tutto, scompagina e disperde la forza

30

del “politico” nell’intreccio dei vincoli dello Stato di diritto che non può prevedere l’eccezione precisamente perché esso è l’anticamera della spoliticizzazione. Rigetta la mediazione e la sovranità come mediazione, questo sì; vede nel dominio della legalità sulla legittimità la disgregazione del nomos, e forse il nucleo della tesi schmittiana è che “legittima” è solo la realtà che sgorga dall’eccezione, ciò che non nasce dalla Norma per distendersi nella pura articolazione della sua legalità, e che il nomos della terra, solo se mantiene vivo dentro di sé la potente vitalità dell’eccezione, solo in questo caso non si disperde nell’onnivora presenza del normativismo. In questa posizione, ci sono, accavallate le une sulle altre, luci e ombre. Deve essere oggetto di riflessione il fatto che Schmitt, nella rappresentazione della espansione dell’ordinamento concreto come nomos della terra, non abbia profondamente corretto il celebre “incipit”, sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione, non per indebolire la sua critica al normativismo, ma per definire un rapporto più disteso, e meno immediatamenre prescrittivo, tra potere costituente e costituzione. Per giungere a questo risultato, era necessaria, però, un’altra visione del potere costituente. 10. Pensare su crinali estremi Il governo della vita non si può sempre collocare sugli estremi, come se, ove esso diventi potestas, rimanga preda di una legalità svuotata di ogni sostanza. Il vitalismo dell’eccezione è pensato da Schmitt come indistruttibile nucleo critico del normativismo, ma l’utilizzo di quel nucleo condiziona talmente l’ordinamento concreto da ridurre il complesso spessore della decisione, che deve avere sempre la stessa infondata concentrazione di energia per essere all’altezza del suo nucleo fondante. Deve sempre rivolgersi a una “necessità”, o a un “nemico” per poter sviluppare la propria forza originaria.

31

Insomma, se la domanda è: come si mette insieme eccezione e ordinamento concreto, la risposta di Schmitt sembra stare nel far convergere l’ordinamento concreto sull’eccezione, nel connetterlo a quel punto di forza nucleare perché esso resti sovrano. Tutto si concentra nell’inizio, tutta l’energia fondativa cova lì dentro, non si stabilisce nessun rapporto di mediazione tra la necessità che crea e l’ordinamento creato, il quale sembra restar sospeso a quell’atto originario non solo nel senso letterale che quell’atto originario, nella sua onnipotenza teologico-politica, lo può “sospendere”, ma anche in altro senso: che esso è base permanente della tensione espansiva propria dell’ordinamento concreto: caso su cui si concentra tutta l’attenzione di Schmitt, l’espansione contrastata del nomos europeo. Qui non si contesta la necessità del legame, ma la sua forma. Non si contesta il permanere del rapporto tra l’atto originario e il suo prodotto, ma la forma schmittiana di questo rapporto, che è formato dalla prepotente eccezionalità dell’atto costituente che dà il suo tono a tutto il mondo creato. 11. Carl Schmitt e Santi Romano Il paragone con la posizione di Santi Romano può essere assai indicativo. Romano parla di “necessità” come fonte del diritto (nel 1909, prima di Schmitt) e la necessità è collocata tra fatto e diritto, ma, contrariamente a quanto pensa Agamben15, la “necessità” di Romano non ha niente a che dividere con “l’eccezione” schmittiana, anzi si colloca su un fronte opposto. È molto interessante ascoltare Romano: «legittimo è solo quell’ordinamento cui non fa difetto non solo la vita attuale ma altresì la vitalità. […] La trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispon-

15. Id., Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

32

denza ai bisogni e alle esigenze sociali. Il segno esteriore che questa corrispondenza effettivamente esista […] si rinviene nella suscettibilità del nuovo regime ad acquistare la stabilità, a perpetuarsi in un tempo indefinito»16. E poi, con espressione ancor più icastica, e più adatta, a parer mio, a segnare il campo differenziale rispetto all’estremismo analitico del futuro Schmitt: «La capacità di trasformarsi in istituti giuridici non può riconoscersi se non a quelle forze che in sé abbiano la idoneità di imporsi e di farsi valere, non con sopraffazioni momentanee, ma con la potenza regolata e continuata del diritto […]. Lo Stato legittimo è lo Stato esistente e vitale»17. Testo la cui importanza sta in quella frase “con la potenza regolata e ordinata del diritto” la quale sta a indicare uno scenario tutt’affatto differente da quello che ipotizzerà Carl Schmitt (con la buona pace dell’interpretazione di Agamben), e cioè indica che l’atto costituente (o, se si preferisce, il potere costituente, espressione non amata da Romano) pur non essendo ancora “ordinamento” tuttavia non è affatto sinonimo di immediatismo “eccezionale”, ma già contiene dentro di sé una sua “normatività”. Si badi: ciò non implica immaginare un Romano normativista, o kelseniano prima di Kelsen, piuttosto mostra la potenza costituente dell’istituzione, e un intreccio tra fatto e diritto che determina e rende complesso il concetto di “necessità”. L’accento poggia interamente sulla costruzione di un ordinamento vitale, oggettivato nella sua istituzionalità, e direi nella sua conquistata “normalità”, che certo può esser messa in discussione dall’insorgere di una nuova necessità emergente. Insomma, non c‘è parentela stretta tra questa costruzione e quella schmittiana se non la comune sensibilità per gli effetti della “grande trasformazione” sulla morfologia degli ordina-

16. S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, Giuffrè, Milano 1969, p. 97. 17. Ivi, p. 98.

33

menti, che però subito si distanzia nella differente produttività che è in quell’atto originario. Anche il loro comune antinormativismo si può descrivere diversamente. In Romano, destinato a fare i conti “con la potenza regolata e continuata del diritto”, in Schmitt nell’eccezionalità di una posizione vitale collocata in un vuoto dove la totale indistinzione tra fatto e diritto sembra mettere in campo l’atto legittimante di una pura potenza che vale nella sua potente immediatezza. In fondo, l’omogeneità del popolo costituente e acclamante, come rappresentato nella Dottrina della costituzione è una buona determinazione di quella potente immediatezza. L’immediatezza qui si concretra nella potente simbolicità del popolo. Alla base di tutto c’è la lettura schmittiana del processo di secolarizzazione e della continuità operativa della macchina teologico-politica. La proposizione chiave è quella celebre: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»18. È una proposizione obbligante, che costringe tutto lo sviluppo in una gabbia d’acciaio, e che impedisce di leggere il senso della frattura moderna, e ripropone, con atteggiamento genealogico, la continuità dell’origine, impedendo di afferrare la stessa ricchezza del concetto di “ordinamento concreto”. Che non può star solo nell’onnipotenza del punto di vista sovrano, ma in tutto quello che “si costituisce” dentro di esso, fino a creare un insiseme costituente. Che fu la tesi che un Hermann Heller, non dimentico di Hegel, oppose a Schmitt, di cui pure utilizzò la radicalità della critica al normativismo kelseniano19.

18. C. Schmitt, Teologia politica, cit., p. 61. 19. H. Heller, La sovranità, Giuffrè, Milano 1987.

34

12. La volontà di potenza Dunque, una via opposta a quella di Benjamin, anche se le due vie sono promosse dalla stessa parola: emergenza, eccezione, ma ne abbiamo indicato la diversa natura. Il potere come emergenza, eccezione. La sovranità come emergenza, eccezione. Ma non è l’eccezionalità del contesto che spinge a questa diagnosi? Non è l’età dell’irrompere della massa, dell’anomia di un collettivo emozionale, di una volontà di vita generalizzata che spinge a questa visione, trasformando l’ordinamento in volontà di potenza? In violenza in Benjamin, in identificazione del rapporto tra potere costituente ed eccezione, nella formalizzazione conseguente della democrazia (roussoviana) acclamante in Schmitt? In Benjamin, liberazione dell’umanità, in Schmitt, resistenza al declino finale? Impersonato dal dissolvimento del politico nel legalismo? Dal previsto trionfo dello Stato di diritto? E non è per questo che eccezione e potere costituente si fondano insieme? Non è questa immane tensione che sta nella realtà a prosciugarsi, costituirsi nell’atto sovrano? Ma quanto si può resistere su questo crinale estremo senza dover sacrificare la complessità del potere costituente della vita? Senza che il mondo sia costruito come intreccio di punti di vista diversi, mediazione di opposti, non la violenza di un Uno che si realizza, ma la sua capacità creativa in atto, che gli deriva da quella molteplicità che all’origine lo penetra. La legge o compare come violenza sulla vita o come una decisione che è la vera padrona dell’ordine, ma che perciò non può che dar vita a un ordine che guarda solo dentro se stesso, in una prevaricazione del potere creante sul potere creato, in una esclusione della ricchezza della mediazione, della sua capacità di aprire lo scenario della storia, non costringerlo come contratto nella violenza originaria del nomos. Tutto il resto scompare. La complessità del potere costituente della vita è sequestrata nel ridotto dell’eccezione; la complessità della

35

vita che forma il proprio ambito non possiede passaggi verso l’ordine-eccezione. Se solo l’eccezione si fa regola, o perché destinata a attraversare integralmente la violenza del diritto, o perché ultima resistenza all’invadenza dell’autonomia della legalità, le identità in campo si assottigliano fino a rendersi forse incomprensibili. L’unico atto creativo è di chi possiede dentro di sé la capacità della decisione ultima. Lo stesso rapporto tra creazione e realizzazione del diritto, tema fin dall’origine schmittiano, è ridotto all’interno di un condizionamento che dà ogni energia creativa all’immediatezza del potere costituente. 13. Un’emergenza storica Solo una situazione storica di emergenza può spiegare tutto questo. A volerla tradurre nell’ambito di una possibile ermeneutica, la tesi che ho provato altrove ad argomentare20 è che assistiamo a una violenta trasvalutazione della sovranità in volontà di potenza, del potere giuridico in ordinamento dell’eccezione in Schmitt, in relazione esclusiva tra diritto e violenza in Benjamin, al prosciugamento di ciascun principio nell’altro, e alla cancellazione emergenziale di ogni processo di mediazione. La stessa storia del Moderno è letta come emergenza continua, permanenza del teologico-politico in uno scenario che non è più completamente suo. Ma in Schmitt forse c’è un intenso contrasto tra questo lato estremo dell’eccezione sovrana, dove essa rende manifesto “il politico”, e il nomos della terra, ovvero la nozione espansiva di ordinamento concreto. Forse è la tensione del rapporto amico-nemico che ha tenuto insieme il nomos europeo, fra terra e mare, lotta intraeuropea ed extraeuropea. L’eccezione è l’Europa centro del mondo, è

20. B. De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2015.

36

la tensione del “politico”, che porta con sé il tratto dell’eccezione, magari vissuta sul tempo lungo, ma sempre sottesa alla fisionomia del nomos; e quando esso si è “normalizzato”, nel senso che si è espanso all’intero mondo, proprio allora esso si è esaurito, è morto, i becchini sono giunti a bussare alla porta dei giuristi che erano inconsapevoli di ciò. È la sua normalizzazione che lo ha fatto morire. Il suo staccarsi dalla tensione della vita? Il suo dover abbandonare il campo della pura volontà di potenza? Ma l’eccezione, così intesa, non può più esser confinata in quell’atto supremo ed esclusivo che è la decisione sullo stato d’eccezione. Essa occupa l’intero territorio di uno spazio perennemente percorso da una potente tensione interna, e l’eccezione muore quando questo campo di tensioni si esaurisce, quando muore “il politico” perché l’ordinamento del diritto pubblico europeo non ha più nemici adeguati e si scioglie nell’omologazione generale del mondo. Due dunque sono i significati e la funzione di “eccezione” in Schmitt: 1. L’eccezione come ciò che copre il campo della decisione sospensiva dell’ordinamento, quella su cui una intera generazione di ricercatori ha impegnato la propria intelligenza; 2. L’eccezione (nella forma di decisione originaria e infondata di un potere costituente) come invenzione di ordinamento, che vive fin quando mantiene e sviluppa dentro di sé quella tensione che l’eccezione fondativa gli ha consegnato. In ambedue queste visioni dell’eccezione non si può ignorare la contestualizzazione novecentesca. La grande crisi che attraversa il secolo. 14. Storicità e ingens sylva La storicizzazione dell’emergenza non implica la sua derubricazione, il suo esaurimento nella contestualizzazione. La storia manifesta sempre una sporgenza vitale irrisolta, come ci hanno insegnato, in forme diverse, sia Vico sia Hegel. L’emer-

37

genza può liberare lati di un principio o di una realtà nascosti anche se già presenti, e voglio dire che storicizzare l’emergenza non implica affatto esaurire in questo il suo significato: l’eccezione può liberare un dato morfologico nascosto, farlo entrare in scena tirandolo per i capelli dalla sua tana, dalla “sylva”, dove continua la sua vita segreta. O meglio, traducendo nel linguaggio dell’emergenza un tratto che ha accompagnato la funzione del nomos dall’epoca arcaica, e che si è caricato di ulteriori significati quando, eliminate dall’astratto modello tutte le potenze intermedie, vita e auctoritas sovrana si sono trovate di fronte, e il modello astratto creato è stato più forte della realtà “concreta”, e il tema della forza e della decisione è tornata al centro di un mondo che stava perdendo il senso della origine divina del nomos. Storicizzare, insomma, non coincide con relativizzare. Può significare, ad esempio, che una potenza oscura che non ama la luce d’improvviso si spinga in avanti, sfondi il piano superficiale del mondo, e la sua oscurità, giungendo in superficie, resti tale, e gli umani interpreti della cosa vedano nella sua potenza sia un’ancora di salvezza per vincere una luce infiochita e normalizzata, sia la dimensione fino ad allora nascosta della redenzione che si presenta come l’ombra nascosta di quella luce infiochita. Perché, d’improvviso, la storia avverte il mutamento del suo ritmo? E scopre un lato nascosto, che obbliga ad una concentrazione della sua potenza? Sono gli anni in cui la volontà di potenza si presenta nella sua nudità. Gli altri lati della auctoritas sovrana sono annullati, e con essa, la storia dei soggetti che l’avevano formata. Le pretese dell’individuo vengono giudicate come prive di significato rispetto alle grandi concentrazioni di potenza che si mettono in moto. Un immenso percorso storico cade nel nulla, ingoiato dall’aguzzo e solitario bastione che emerge. Sull’apice di questo bastione siedono, certo non da soli, Walter Benjamin e Carl Schmitt, intorno si affollano eventi storici e idee che sembrano avviare

38

un enorme processo di riduzione di ogni forma alla radice vitale, o nel senso costituente o in quello dell’assoggettamento, e tutto il mondo sembra risucchiato in quel punto che non è certo semplice irrazionalità, ma certo sfondamento dei confini della ragione ordinata, dello sforzo di tenere insieme Uno e Molteplice. L’Uno si presenta sulla scena in una sua chiusa entropia, e allora sì che il Molteplice immagina di avere dalla sua parte la Giustizia, la visione e la costruzione di un mondo giusto che si oppone alla violenza unificante dell’Uno-eccezione. Ma non è detto che le cose stiano così. Avviene che, superata la eccezionalità di quegli eventi, culminati nella possibilità di pensare come fisiologica la Shoah, di costruire l’uomo nuovo o la razza eletta; di pensare, sul fronte di un antisionismo opposto, come dato il compito di scoprire e portare finalmente nella storia le radici ultime della vita, l’eternizzazione dei suoi criteri ermeneutici fornisca una analisi drogata di ogni congiuntura storica, una sorta di invadenza del tempo di un nichilismo senza redenzione, oppure la potenza ambigua di un impossibile millenarismo, sullo sfondo di una lettura ultimativa del destino dell’umanità europea. La storia cerca di addomesticare le forze primordiali che entrano in campo, ma le avanguardie intellettuali procedono per conto loro, estraendo dal mondo ciò che corrisponde a uno sguardo legittimato dalle ambiguità delle stratificazioni del mondo, dalle infinite letture che esse rendono possibili. In atteggiamenti simili c’è sempre qualcosa che testimonia il doppio fondo della realtà, la complessità delle sue stratificazioni, la possibilità di collocarsi in una di esse, la varietà degli sguardi possibili sul mondo che nulla hanno a che dividere con la luminosità dell’historia rerum gestarum. C’è un lato possibile di questo atteggiamento ermeneutico già più volte annotato: che testimonia l’eco dell’ingens sylva, eco che si colloca su un margine estremo dove si muovono forze che non amano misurarsi alla luce del sole, ma che pretendono di essere le esclusive

39

padrone della realtà, le uniche in grado di costringerla in una previsione critica, giacchè ciò che sta in luce è solo “superficie”, ideologia. Le uniche, insomma, che possono salvarla dalla nullificazione. Alla fine però anche queste forze stanno nella realtà, giacchè l’eccezione non scompare, anche se dovrebbe esser pensata in una tesa dialettica con l’ordinamento concreto che, nella sua espansività, non regge un rapporto esclusivo con l’eccezione. Una via ambiguamente schmittiana, come ho cercato di argomentare. Infine: se lo stato d’eccezione diventa tutto, come sembra ricavarsi dai testi di Agamben, avviene che o il suo superamento può vedere il ritorno sulla scena di un soggetto assoluto (vita vera contro nuda vita), oppure – se bisogna conservare un qualche legame con la tesi di Schmitt – bisognerà pur ripensare il significato del rapporto tra eccezione e ordinamento concreto, il che finalmente ci permetterebbe di tornare sulla terra. Molto oltre Schmitt, ma non senza di lui.

40

41

Sovranità o Europa Roberto Esposito

Sovranità o Europa. Se fossi Derrida, mi soffermerei a lungo su questa ‘o’, interrogandomi sul suo impiego nel titolo del mio intervento. Si tratta di una ‘o’ di carattere congiuntivo, come avviene per il celebre ‘Cristianità o Europa’ di Novalis? Oppure di tipo oppositivo? La categoria di ‘sovranità’ è il presupposto per pensare l’Europa, al punto che le due cose quasi coincidono, oppure è ciò che ne impedisce il pensiero, cosicché o restiamo dentro l’orizzonte della sovranità, perdendo l’Europa, o cerchiamo l’Europa, abbandonando il paradigma di sovranità? Io credo che questi due significati, congiuntivo e disgiuntivo, non si escludano, ma si succedano nel tempo. Se fino a un certo momento l’Europa non può pensarsi che dentro la forma della sovranità, da qualche tempo, e in particolare oggi, le due categorie sembrano sempre più collidere, nel senso che siamo costretti a scegliere tra esse: o sovranità oppure Europa. Alla fine dell’epoca moderna, la possibilità dell’Europa, nel pensiero e nella realtà, appare situarsi, se non fuori del regime sovrano, almeno ai suoi confini esterni, nella sua eccedenza. Ciò che accade in Europa, e nel mondo, non è più definibile con l’antico e glorioso lessico politico moderno, al quale – come fa Schmitt nel Nomos della terra – dobbiamo tributare tutti gli onori dovuti alla grande tradizione, ma

42

sapendo che il suo tempo è irrimediabilmente esaurito. Che la sfida che abbiamo di fronte si apre oltre di esso – oltre la grande teologia politica che per almeno tre secoli, da Hobbes a Hegel, allo stesso Schmitt, ha segnato nella maniera più intensa il destino della politica moderna, fino a fare, come è stato detto, della politica il nostro destino. Naturalmente tengo presente il libro di De Giovanni sulla sovranità, come anche i suoi due precedenti saggi sull’Europa1. Essi formano un trittico di grande rilievo di cui non possiamo fare a meno. Ma che, proprio per questo, dobbiamo discutere criticamente. Dove l’elemento della criticità – lo dico subito – sta per me in una certa prevalenza della continuità sulla discontinuità. Anche se De Giovanni coglie le grandi svolte che segnano la storia e la filosofia dell’Europa, alla fine lascia prevalere il filo che le lega rispetto alla frattura che le divide, al punto di interpretare ciò che accade in questi anni attraverso un forte riferimento al pensiero hegeliano. Ma facciamo un passo indietro, situando la sua prospettiva nel quadro della riflessione italiana degli ultimi anni sull’Europa. Potremmo allargare l’orizzonte del pensiero contemporaneo, da Derrida a Habermas, ma questo ci porterebbe troppo lontano. Mi limito a dire che gli eventi dell’11 settembre a New York hanno segnato una soglia che sembra lasciare indietro buona parte della riflessione europea precedente. Se la prospettiva di Habermas, basata sul presupposto che la discussione razionale è sempre in grado di risolvere conflitti d’interesse e di valore, appare in forte distonia con la situazione aperta dal settembre 2001, e oggi tragicamente aggravata dalle stragi di Parigi, anche la filosofia francese nata nella filiazione di

1. Cfr. B. De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Guida, Napoli 2001; Id., La filosofia e l’Europa moderna, il Mulino, Bologna 2004; Id., Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, Napoli 2015.

43

Derrida mostra i suoi limiti. Se, secondo l’interpretazione dei decostruzionisti, l’identità dell’Europa finisce per coincidere con la sua alterazione, in una proliferazione infinita di differenze, diventa difficile pensarla in termini politici, perché se ne perde la dimensione spaziale, necessariamente legata alla suddivisione della terra e alla distinzione tra le sue parti. Anzi, la cancellazione dei confini spaziali rischia di avere un effetto dissolutivo non solo sull’identità europea, ma anche sull’alterità con cui essa si misura. L’elisione della barra di distinzione tra dentro e fuori significa di fatto aderire a quella logica della globalizzazione illimitata, segnata dal primato della tecnica e dell’economia, cui ci si vorrebbe contrapporre. Il problema, non sempre colto o sottovalutato dalla decostruzione francese, è che l’abolizione dei limiti, l’abbandono della delimitazione spaziale a favore di un’alterazione senza resti, porta con sé il dissolvimento della stessa categoria di politica. Tale tesi – del necessario rapporto tra politica e spazio – è stata convincentemente sostenuta da Carlo Galli in un libro che si conclude con un paragrafo sulla necessità dell’Europa2: è attraverso le rappresentazioni spaziali che le teorie politiche formulano i propri concetti, li adattano alle istituzioni, ne riconoscono le dinamiche. Fuori da un universo spaziale, la politica non riesce ad attivare le proprie logiche – che possono essere escludenti ma anche inclusive, conflittuali ma anche ordinative, conservative ma anche innovative. Insomma se la spazialità ha sempre una connotazione politica, la politica si articola sempre entro spazi determinati. Senza qualcosa che li delimiti, non resta che galleggiare indistintamente, essendone di fatto sommersi, nell’oceano della globalizzazione tecnicoeconomica. Il ruolo dell’Europa non può essere che quello di resistere attivamente a tale deriva e di contenerne gli effetti

2. Cfr. C. Galli, Spazi politici, il Mulino, Bologna 2001.

44

nefasti, assumendosi come parte. Non certamente contro, ma dentro, le dinamiche globali – secondo modalità che ne assumano gli aspetti liberatori senza soggiacere a quelli impositivi. Non si tratta, per l’Europa, di proporsi come anacronistico katechon rispetto a una mondializzazione per molti versi irreversibile, e neanche, tantomeno, come collettore reattivo delle ‘piccole patrie’ allergiche al movimento globale che le ha prodotte. Ma di ritagliarsi uno spazio specifico ed originale al suo interno secondo un ordine multipolare che proietti nel mondo intero l’idea di unitas multiplex già teorizzata da Machiavelli, Montesquieu, Guizot. Ciò che in questo modo emerge non è solo la questione dello spazio europeo, ma anche quella del suo tempo, nei termini di una contesa con il passato per la liberazione del presente. L’Europa futura non può essere intesa in continuità con quella passata, con tutto il carico di conflitti, aggressioni, esclusioni che per cinque secoli ha proiettato nel mondo. La sua nuova identità, se vuole averne una, come già l’esigenza della sua unificazione, è storicamente nata anche dalla necessità di rompere drasticamente con quella potenza distruttiva, facendo fino in fondo i conti con essa. Ma anche con la grande filosofia che l’ha accompagnata e legittimata. Questo mi pare intendere Cacciari quando parla di ‘tramonto’ nel suo libro sull’Europa3 – non la fine dell’Europa, della quale c’è assoluto bisogno, ma la fine della filosofia dell’Europa che da Hegel porta a Husserl e a Heidegger, ancora orientata dall’ipotesi metafisica del suo primato del mondo, da ritrovare mediante il ritorno all’origine greca. Essa, con tutte le sue variazioni interne, resta legata ad un’ipotesi di territorializzazione che ha spinto l’Europa verso l’abisso. L’eredità di Hobbes e Hegel, ma anche quella di Husserl e di Heidegger, per quanto ricca e solenne, giace,

3. Cfr. M. Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994.

45

infranta, alle nostre spalle. Come aveva intuito Tocqueville, spostando il suo sguardo fuori dall’Europa, dobbiamo sapere che il filo della tradizione è interrotto e che lo spirito avanza nelle tenebre. Che il luogo da cui guardare l’Europa, per coglierne rischi e risorse, non è il ‘dentro’, ma il ‘fuori’4. Quando Hannah Arendt riprende questo passo di Tocqueville, tutta la grande intelligenza europea tedesca, da Adorno a Mann, da Einstein a Schömberg, ha lasciato l’Europa e le sue mitologie di primato, sbarcando in America. Solo uscendo dai propri confini, geografici e ideologici, la filosofia potrà, da allora in avanti, ritrovare il proprio rapporto con l’Europa. Ma ovviamente ciò – la necessità di tagliare i ponti col passato – dice poco sulla configurazione del presente e nulla su quella del futuro. La soluzione è tutt’altro che a portata di mano. Se l’Europa non può certo riproporre immutato il profilo dei suoi Stati sovrani, non è immaginabile neanche che si unifichi in un superstato europeo – non soltanto impossibile, ma neanche auspicabile, perché in linea di principio collidente con la figura di quel multiversum, politico e culturale, che custodisce la sua ricchezza. È perciò che una concezione al contempo aperta e realistica dell’Europa deve innanzitutto fare i conti con la storia da cui emerge, riconoscendo tutte le sue radici, ma selezionando quelle ancora vitali rispetto a quelle ripiegate su se stesse. Da qui il confronto storico-concettuale con le forme istituzionali che l’Europa ha visto nascere, svilupparsi e tramontare nel corso della sua storia. Esse sono di fronte a noi, non per guidare i nostri passi in avanti, ma per indicare ciò che non è più possibile essere. La prima forma istituzionale dell’Europa che ci appare è quella dell’Impero, nelle sue differenti incarnazioni – romana, germanica, asburgica. Ma

4. Cfr. R. Esposito, Da fuori. Una filosofia per l’Europa, Einaudi, Torino 2016.

46

anche nella configurazione globale che ne hanno proposto Hardt e Negri in Empire5. In tale paragone si configurano due questioni connesse: una relativa al rapporto con il maggiore impero che l’Europa ha conosciuto, quello romano; e l’altra relativa al ruolo del nostro continente all’interno di un dispositivo onnipervadente che ha finito per coincidere con la forma globale del mondo. Quanto alla prima questione, essa è stata affrontata da Cacciari in più di un’occasione. Nel confronto tra mondo globale e impero romano, le eterogeneità prevalgono sulle analogie. Rispetto a quest’ultimo, nell’attuale globalizzazione, risultano assenti sia la decisione rappresentata dalla persona dell’imperatore sia l’idea romana di augmentum, inteso come capacità di includere nei propri confini, rispettandone l’autonomia, sempre nuove nationes et gentes. Del resto la globale Zeit, come integrazione di sistemi tecnoeconomici, non riconosce, alle sue spalle, né un populus né una civitas. Essa non ambisce, come invece la Roma augustea, a una radicale renovatio – ad aprire una nuova età destinata a unificare il mondo sulla base di propri valori. È vero che la globalizzazione apre una nuova stagione rispetto a quella statale, ma senza contenere nulla di una vera logica imperiale, dei suoi miti e della sua potenza costituente6. Ma, aldilà di ogni comparazione storico-concettuale, il problema forse maggiore aperto dal libro di Hardt e Negri è che da esso è difficile desumere un’indicazione positiva su un’Europa considerata da loro nulla più che una provincia subordinata dell’Impero. All’interno di quel quadro interpretativo, il ruolo dell’Europa è destinato a restare marginale e indeterminato: i due paradigmi di Impero e di Europa politica collidono sul piano logico e storico.

5. M. Hardt, A. Negri, Impero, Rizzoli, Milano 2001. 6. Cfr. M. Cacciari, Digressione su impero e tre Rome, in Europa politica. Ragioni di una necessità, a cura di H. Friese, A. Negri, P. Wagner, Manifestolibri, Roma 2002, pp. 21-42.

47

Altrettanto problematico appare il riferimento dell’Europa futura a quello che, con una formulazione abbastanza generica, si definisce ‘Neo-Medievalismo’. È vero che nel ‘crepuscolo della sovranità’ – come si è espresso Marramao, alludendo alla tangenza sagittale tra tramonto e alba7 – sembrano tornare alla ribalta le potestates indirectae di tipo giuridico, economico, religioso che avevano caratterizzato l’epoca precedente l’affermazione degli Stati sovrani. A costituirsi, con la disgregazione delle forme nazionali moderne, è un pluriversum di istanze, spesso conflittuali che, più che il Leviatano, sembrano richiamare il Policraticus di Giovanni da Salisbury. L’Unione Europea conosce un pluralismo di fonti giuridiche – trattati, contratti, consuetudini, autorità indipendenti, corti di giustizia – che, con le ovvie differenze, pare rievocare il passato medioevale. Come allora, anche oggi il diritto sembra emanciparsi dal vincolo formale di una Costituzione scritta, e dunque da un esclusivo orizzonte statale, mescolandosi ad altri linguaggi che – come ritengono Paolo Grossi e la sua Scuola – paiono riattivarne l’antica anima giurisprudenziale. Non riducendosi alla legislazione, esso si volge direttamente alle sfere vitali e civili della società europea, secondo un insieme di lealtà multiple, di livelli sovrapposti, di autorità diverse e spesso configgenti8. Eppure anche in questa caso la similitudine è più apparente che reale, dal momento che non tiene conto dei processi di universalizzazione che hanno comunque superato ogni logica feudale. In ogni caso questo riferimento, labile sotto il profilo storico, lo è ancora di più sotto quello propositivo. Nel senso che non possiamo scambiare il problema con la soluzione. 7. Cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 8. Cfr. il fascicolo dei “Quaderni Fiorentini” dedicato all’Europa, n. XXXIX, 2010.

48

Proprio al conflitto tra istanze diverse, infatti, si lega la crisi verticale di sovranità che connota sia gli Stati europei sia l’Unione nel suo insieme. Ciò che la caratterizza è l’assenza di una regola generale per la risoluzione dei conflitti – che è appunto la vera prerogativa della sovranità. Oggi gli Stati membri accettano che l’Unione Europea disciplini i conflitti nati tra le varie istanze istituzionali – Parlamento, Consiglio, Corte – soltanto quando non sono in gioco reali interessi nazionali. In questo caso gli Stati avocano a sé le decisioni ultime, svuotando l’Unione del proprio potere, salvo l’intervento di organismi parzialmente autonomi, come la Banca Centrale. Questa discrasia nasce dal singolare rapporto fin dall’inizio istituito tra gli ordinamenti dei singoli Stati membri e quello dell’Europa Unita. Mentre i primi sono originari, il secondo è derivato e dunque dipendente, nella sua costituzione e nel suo esercizio, da essi. Tuttavia, secondo altre interpretazioni, una volta fondato, l’ordinamento europeo avrebbe acquisito esso stesso caratteri originari, tali da incorporare, almeno in parte, gli ordinamenti statali in una prospettiva di carattere federalista. In questa situazione incerta, ma sempre più minata da conflitti di competenza, oltre che dalla rivalità degli Stati membri, la soluzione del problema Europa appare allontanarsi sempre più. A essa ci si potrebbe approssimare soltanto se vi fosse un’istanza terza in grado di dirimere le dispute – ma in questo caso, se vi fosse, diverrebbe essa stessa quell’entità sovrana che appunto manca. Sovrano – si potrebbe dire – non è tanto chi decide in stato eccezionale e neanche chi decide in Stato normale, ma chi decide quando si passa dall’uno all’altro. Ma proprio qui sta il punto più problematico. È in grado, la categoria di sovranità, di fornire la soluzione alla sua stessa, palese, crisi? Questa non è mai stata così evidente. Su nessuna delle questioni capitali che oggi si presentano, trasformando la crisi economica in una vera e propria crisi biopolitica – dal

49

terrorismo all’immigrazione, dall’ambiente all’economia –, gli Stati sovrani sono in grado di pronunciare parola se non balbettando. Secondo De Giovanni un possibile punto di riferimento, non per sciogliere, ma per conferire a questo nodo antinomico tra ordinamenti diversi la massima intensità politica, è costituito dalla tradizione giuridica italiana e in particolare dalla dottrina istituzionalista di Santi Romano, ripensata alla luce della costituzione materiale di Costantino Mortati. Per entrambi i costituzionalisti l’ordinamento, inteso come istituzione, rompe i limiti formali della norma per riempirsi di presupposti politici, contenuti sociali, elementi vitali che richiamano una semantica di lungo periodo del pensiero italiano. Personalmente sono molto interessato a questo richiamo alla nostra tradizione giuspubblicistica. La specificità di questo segmento giuridico, che da Romano porta a Mortati, sia nei confronti di Kelsen sia in quelli di Schmitt, costituisce un angolo prospettico di estremo interesse, dal quale guardare ai caratteri costitutivi della riflessione italiana novecentesca. L’elemento inedito su cui De Giovanni concentra l’attenzione è la possibile applicazione di questa tradizione interpretativa alla situazione dell’Unione europea. Quando, nel suo saggio del 1918 sull’Ordinamento giuridico, Romano afferma che “la stessa comunità internazionale (…) consta di un ordinamento che presuppone quelli dei singoli Stati, ma, affermando l’indipendenza e l’autonomia di essi, non li incorpora nel suo”9, anticipa con singolare preveggenza quello che sarebbe divenuto il problema, oggi ancora irrisolto, del complesso nodo tra i diversi ordinamenti dell’Unione. È vero che per Romano gli ordinamenti sono ancora delle entità concluse ed interne all’orbita statale. Ma nel capitolo dedicato a “La pluralità degli

9. S. Romano, L’ordinamento giuridico (1918), Sansoni, Firenze, 1951, p. 106.

50

ordinamenti giuridici e le loro relazioni” egli assume a oggetto di analisi precisamente quel rapporto tra ordinamenti originari ed ordinamenti derivati al cuore della odierna problematica europea. La forza della sua argomentazione sta nel collegarli lungo una stessa linea di sviluppo, senza perderne la reciproca autonomia. Certo, soltanto ordinamenti che trovino in se stessi la ragione della propria esistenza, come gli Stati, possono dar luogo a un ordinamento ulteriore, originato dall’oggettivazione delle loro decisione convergenti. Ma tale transito dall’originario al derivato, tutt’altro che annullare l’autonomia di questo, la potenzia per la forza che il primo trasferisce nel secondo. In tal modo, in anni lontani in cui la questione dell’unità europea era ancora inimmaginabile, il rapporto tra gli ordinamenti profilato da Romano, come si scrive De Giovanni, “rompeva ogni gerarchia consolidata, e dava alla creatura la capacità di reagire sul creatore e di diventare creatore del proprio creatore”10. La conclusione che De Giovanni ne trae, in un’analisi ispirata soprattutto alla filosofia del diritto di Hegel, è che non c’è contraddizione tra sovranità statale e sovranità europea, perché ognuna ridonda nell’altra incrementando quella derivata, senza indebolire l’originaria. Il passaggio di sovranità, in tal modo, più che come una rinuncia, va interpretato come il massimo atto sovrano, in cui il nuovo spazio politico così creato non fa che prolungare la decisione che lo pone in essere, derivando da essa la sua forza, senza diminuire quella da cui proviene. Che gli Stati siano l’Europa, mentre l’Europa non è solo gli Stati, vuol dire che essa eccede ciò con cui pure per altri versi coincide, ergendosi “davanti agli Stati che l’hanno costruita con una propria potenza e fisionomia, e con il senso di una profonda indipendenza, capace di guardare oltre gli Stati, allo

10. B. De Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, cit., p. 168.

51

stesso modo in cui gli Stati, obiettivandosi, hanno guardato oltre di sé”11. È in grado tale ricostruzione, intensamente dialettica, che De Giovanni desume dalla proiezione del discorso di Romano sulla realtà dell’Unione, di indicare una via d’uscita dall’aporia in cui questa sembra presa? È possibile salvaguardare, mediante la categoria di “originarietà derivata”, insieme sovranità degli Stati e sovranità dell’Unione? E soprattutto è ancora la sovranità la chiave ermeneutica per penetrare nella nuova costellazione postnazionale di cui l’Europa è parte integrante? Non mi sentirei di rispondere affermativamente a tali domande per una serie di motivi che vanno anche aldilà della sconferma fattuale fornita da eventi che sembrano trascinare l’intero progetto europeo in una situazione di stallo. Mai come ora la costituzione formale – di fatto ancora inesistente, e sempre meno probabile – dell’Europa diverge fortemente dalla sua costituzione materiale, se con questa si voglia intendere, come faceva Mortati, il complesso delle forze sociali e delle forme politiche presupposte all’ordinamento giuridico. Fin dall’inizio del progetto di unificazione europea un’opzione funzionalista, che subordinava il destino politico dell’Europa alla sua unità economica, lo ha spinto in una direzione diametralmente opposta a quella auspicata. Ora mi pare difficile negare che tale esito sia derivato proprio dalla strenua difesa, da parte dei maggiori Stati europei, delle proprie prerogative sovrane in una fase che richiedeva una profonda revisione, prima ancora che delle istituzioni, dello stesso lessico politico, ormai stabilmente proiettato in un orizzonte posthobbesiano. Minato dall’alto e dal basso dalla costituzione di poteri subnazionali e ultranazionali, lo Stato moderno era entrato da tempo in una profonda crisi, come lo stesso Romano aveva diagnosti11. Ivi, pp. 168-169.

52

cato con largo anticipo12. Ma adesso la categoria di sovranità appare sempre più inadeguata a esprimere i processi governamentali e biopolitici che intrecciano sempre più saldamente residui di teologia politica agli esiti di quella che a buon diritto è stata definita teologia economica. Come può, un singolo Stato fronteggiare un terrorismo ampiamente denazionalizzato? Governare problemi demografici ed ambientali di portata ultranazionale? Misurarsi da solo con le grandi crisi economiche manovrate dalla finanza globale? Certo, il declino della forma statuale non sarà né rapido né omogeneo, a Occidente come a Oriente. Non sono forse Stati la Russia, la Cina, l’India, il Brasile e gli stessi Stati Uniti? Ma ciò che oggi è decisiva è la loro dimensione territoriale, oltre quella demografica, di carattere sempre continentale. Solo all’interno dei ‘grandi spazi’, che insieme sovrastano e decostruiscono la logica meramente nazionale, è possibile immaginare un ‘Leviathan’ punto 3, come si suole dire, dopo quelli punto 1 e punto 2. Un secondo motivo di dubbio sulla opposizione che De Giovanni pone tra politica e diritto, o tra legittimità e legalità – in parte contraddittoria con la stessa figura della sovranità, come egli stesso la ricostruisce, nata appunto alla loro confluenza – sta nel fatto che la potenza istituente sta non solo nel politico, ma anche nel diritto. Non è solo la politica a creare diritto, ma anche il contrario. Cosa sarebbe stata la Rivoluzione francese senza la proclamazione dei diritti universali? Del resto proprio Santi Romano insiste sul carattere creativo, non solo conservativo, del diritto come ordinamento. Oggi lo scontro politico in molti Paesi – soprattutto in Asia e Africa – passa proprio attraverso la lotta nel diritto e per il diritto. Il politico, come ha spiegato Schmitt, non è un settore a sé stante, ma la tensione

12. Cfr. S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale (1909), Giuffré, Milano 1998.

53

conflittuale che attraversa tutti i linguaggi, compreso e forse soprattutto quello giuridico. Fin da Roma antica, ma ancora prima, il nomos ha sempre avuto una fondamentale funzione politica. Non solo di interdizione, ma anche di costituzione del nuovo. E del resto tutto ciò che comunque è l’Unione Europea non il frutto di uno straordinario dispositivo giuridico? Certo, esso non basta, ma resta essenziale per la definizione del Politico. Il terzo, e forse ancora più decisivo, motivo di dubbio sulla attualità della categoria di sovranità – il che ovviamente non vuol dire che essa sia spenta, ma solo che non è il futuro dell’Europa – sta nel mutamento radicale della categoria di ‘popolo’, da cui essa concettualmente dipende, almeno nella sua versione moderna. Sovrano, come si sa, nelle democrazie, è il popolo, secondo una linea di pensiero che nasce da Rousseau e arriva a Schmitt. Solo una volontà unica può produrre decisione sovrana. Tutto il dibattito aperto da Habermas, e proseguito in termini critici sia da Grimm che da Böckenförde, presuppone questa categoria. Ma finché si andrà alla ricerca di questo popolo unito, dell’unità del popolo europeo, non si arriverà a nulla di fatto. Dal momento che questo popolo non esiste – e, forse, in questi termini, non è mai esistito. Tantomeno oggi, quando è continuamente decostruito e ricostruito da popolazioni in perenne spostamento, che mutano radicalmente – vale a dire in termini biopolitici – ciò che la dottrina costituzionalistica ha inteso per almeno due secoli con il concetto di popolo. Il popolo unito non esiste. Esso è sempre stato costituito da due popoli – meglio da due significati diversi, e opposti, del termine stesso ‘popolo’ – un significato di ‘tutto’ e un significato di ‘parte’. Come molti concetti politici, anche quello di popolo ha dentro di sé una contraddizione che lo taglia e lo contrappone a se stesso. Popolo come l’insieme degli abitanti di un dato Paese e popolo come parte popolare, popolo nazionale e popolo minuto, plebe, da sempre opposto a ciò che pretende

54

di rappresentare l’intero popolo. Come ben sapeva Machiavelli, il popolo non è mai stato uno, è sempre stato due. E un due in cui l’una parte si oppone all’altra per la conquista del luogo centrale da cui si governa. La storia europea non è riconoscibile fuori da questa dialettica conflittuale che, all’interno di ogni popolo, oppone una “parte” specificamente popolare ad un’altra antipopolare. Il popolo, tutt’altro che un insieme indifferenziato ed omogeneo già formato, pronto ad esercitare la sua funzione sovrana, sostituendo l’antico monarca, è costituito da tale tensione e dal conflitto inestinguibile che essa traduce. Neanche oggi questa storia può dirsi conclusa. Anzi mai come adesso sembra contrassegnare lungo solchi sempre più profondi quanto avviene in Europa – in tutti i suoi Paesi e nel loro insieme. Perché mai i due popoli che la abitano – gli uni sempre più obesi e gli altri sempre più stremati dal bisogno – sono stati più lontani, pure abitando le stesse regioni e le stesse città. L’Europa, più che a Bruxelles, a Strasburgo o a Francoforte, giace in quel solco, in attesa di uno colpo d’ala che la strappi da tale condizione. Da questo lato anche la questione della impossibilità di una Costituzione europea va sensibilmente rivista. È vero che un popolo europeo – inteso nella modalità omogenea prefigurata dalla teoria della sovranità e dal mitologema teologico-politico del potere costituente – non esiste in Europa. Come forse non esiste più in nessuno dei suoi Paesi. Ma al suo posto, in ciascuno di essi, si muovono due popoli contrapposti, senza avere ancora trovato la forma politica del conflitto che può farli incontrare. Essi sono entrambi interni alla categoria classica di popolo, ma esterni alla semantica sovrana dello Stato. La fine – la crisi irreversibile – degli Stati ha messo fine anche ai popoli, per come la dottrina giuspubblicistica li ha pensati, unificandoli intorno alla punta del potere sovrano. Oggi se un popolo europeo può nascere, riattivando il processo di unificazione politica, passerà non per l’Uno, ma per il Due, non

55

dalla macchina sovrana della teologia politica, ma dalla sua rottura13. Un punto di raccordo, una convergenza di interessi, dei ceti privilegiati già esiste nei nodi speculativi della finanza globale. Solo quando anche gli interessi e i valori dei ceti più indigenti troveranno una rappresentanza politica comune, aldilà dei confini nazionali, potrà nascere un’Europa dei popoli, nel senso più intenso e connotato di questo termine.

13. Cfr. R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Einaudi, Torino 2013.

56

57

Il potere della Legge Vincenzo Vitiello

In limine Il titolo non indica una tesi da svolgere, ma una questione: se, e a quali condizioni, è possibile attribuire potere alla legge. Ed è una questione fondamentale per chi ritiene essere la legge e non la verità – Nómos e non Lógos – il concetto, la categoria, su cui si è retta la civiltà europea, prima, occidentale, poi. Ho detto Lógos e non Alétheia, essendo questa una ‘determinazione’ di quello. Poiché non mi è possibile qui dare ragione (lógon didónai) di questa affermazione – per farlo dovrei tenere tutt’altra relazione, lontana dal tema del nostro Convegno –, mi si consentano solo un paio di citazioni che mi mettano, in parte almeno, al riparo dall’accusa di arbitrarietà. In parte, anzi in piccola parte, perché il riparo che ho scelto è il pericoloso “principio di autorità”. Ma spero che il nome delle “autorità” prescelte sia garanzia sufficiente. Ricordo, per incominciare, che nell’Introduzione di Logica formale e trascendentale – l’opera in cui Husserl costruisce una storia logica della logica, come preparazione alla genealogia della logica – il carattere essenziale della verità, quello senza di cui non si dà

58

verità, è individuato nell’essere il vero norma a se stesso1. Il che significa, che ancor prima d’esser formulato, ossia di apparire, di mostrarsi, di divenire a-lethés, il lógos presuppone un nómos non ancora riconosciuto che lo regge. E per aggiungere autorità ad autorità, cito Aristotele: “ti alethès eînai chorìs apodeíxeos” (“c’è verità senza dimostrazione”)2. Per contro Nómos non presuppone Lógos, né come verità, alétheia – e qui non credo di dover portare esempi: purtroppo legge e verità raramente vanno insieme – né come “parola”: l’adagio “ignorantia legis neminem excusat” è a tutti noto. 1. Il tema dunque: il potere della legge. Per affrontarlo iuxta propria principia, è necessario liberarsi da un pregiudizio che da troppo tempo ostacola il libero dibattito sul ‘potere’ della legge. Il pregiudizio su cui poggia la critica del formalismo giuridico, e cioè che il potere della legge è ‘alle spalle’ della legge. Invero non la legge è ‘formale’, ma l’immagine che della legge hanno i critici del ‘formalismo’, che prima creano la figura astratta della legge – riducendo questa a un puro enunciato – poi ne criticano l’astrattezza, per trovare ‘fuori’ della legge, nella politica, quando non in alcune figure del politico – il sovrano, il popolo, la massa, il tiranno, il parlamento, o la natura, o Dio, o che so altro – il potere che dovrebbe sostenere la legge3. Criticano il vuoto idolo ch’essi stessi hanno creato. Ma la legge è tutt’altro che questo vuoto idolo, che 1. Cfr. E. Husserl, Formale und transzendentale Logik, Niemeyer, Tübingen, 19812, § 7 “Die normative und die paktische Funktion der Logik”, pp. 27-29. Tr. it. di G. D. Neri, Laterza, Bari 1966, pp. 38-40. 2. Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 4, 1006a 27-28. 3. Lo Stato-persona è solo «l’espressione antropomorfa dell’unità del diritto»: H. Kelsen, “Gott und Staat” (“Logos”, 1922/23). Tr. it. in Id., Lineamenti di teoria generale dello Stato, a cura di A. Carrino, Giappichelli, Torino 2004, p. 131.

59

questa astrattezza. La legge non è un enunciato, è un comando. Un imperativo: nella sua stessa ‘locuzione’ è presente tutta la forza ‘illocutoria’ dell’imperio. Astraete dalla locuzione questa potenza illocutoria e non avrete più la legge! Nella locutorietà della legge è espressa, “portata fuori”, tutta la forza del gesto illocutorio. Voce e gesto nel comando sono tutt’uno. Come nella preghiera del sacerdote, quando leva le mani al Cielo. Aronne è la voce del gesto di Mosé, e quando i due si separano, quando la voce resta divisa dal gesto, allora la legge si svuota e l’idolatria s’afferma. L’immagine della “legge pura forma” è l’idolo creato da chi confonde la carta su cui è scritta la legge, con la legge. E spero sia anche superfluo aggiungere che non la scrittura della legge è qui criticata, ma la riduzione della legge scritta alla carta su cui è scritta. Ma non nell’illocutorietà del comando risiede il vero potere della legge, bensì nella sua essenza perlocutoria, che non consiste affatto in un generico ‘produrre effetti’ sui suoi destinatari4. La legge ha potere in quanto i suoi destinatari essa li ‘pone’ – li crea. Un esempio per incominciare: il medesimo fatto – l’uccisione di un uomo – può essere sia un delitto, condannato dalla legge, sia un’azione comandata dalla legge, e perfino meritoria. È la legge che crea l’assassino come l’eroe. Ha scritto Benjamin – ma con riferimento ad altro orizzonte problematico e storico (o, forse meglio, ‘pre-storico’) – “il diritto non condanna al castigo, ma alla colpa”5. Né si limita, il

4. In merito cfr. in particolare J. L. Austin, How to Do Things with Word, Oxford University Press, Oxford New York 1962. Tr. it. di C. Villata, Marietti, Genova, spec. Lezioni XVIII e IX, pp. 71-89. 5. E ancora “Il giudice può vedere destino dove vuole; in ogni pena deve ciecamente infliggere destino”: W. Benjamin, “Schicksal und Charakter”, Gesammelte Schriften, Hrsgg. R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, B.de 7, Suhrkamp, Frankfurt/M, II/1, 1977, p. 175. Tr. it. in Id., Angelus novus, a c. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, p. 35. Ma v. infra nota 11.

60

diritto, a ‘porre’ il singolo destinatario; esso ‘crea’ la comunità a cui si volge, crea il ‘popolo’: è in base alla legge che si attribuisce la ‘cittadinanza’, l’appartenenza, cioè, degli individui ad un popolo, ad una ‘nazione’. Come prima ho ricordato Mosé e Aronne, cito ora la prima parola del decalogo, la Parola che fonda i comandi che ad essa essa seguono: Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra di Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo […] Non ti prosterai davanti a loro […] Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli sino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.6

Perché questo riferimento, che palesemente contrasta con quanto s’è detto sinora, essendo il Signore, il Dio geloso, non la legge, ma il fondamento della legge ‘fuori’ e ‘prima’ della legge? Perché nella prima delle dieci parole antiche è espressa nel modo più chiaro la separazione tra la forza e la legge, tra il potere teologico-politico e l’ordinamento giuridico: separazione che qui s’intende criticare alla radice. E certo qui si è alla radice storica e concettuale del problema. 2. Nel testo citato è detto a chiare lettere che il potere della legge è nel Signore che ha sottratto gli Ebrei dalla schiavitù d’Egitto, e con questa azione ha fatto di gente dispersa un popolo. Il potere perlocutorio è tutto di Adonai, è tutto in Adonai, che può come abbattere i suoi nemici, perseguitandoli sin nelle generazioni future, così elevare quelli che seguono

6. Es 20, 2-6; Dt 5, 6-10

61

i suoi comandamenti. Domanda: quale rapporto v’è tra questo potere e i comandi in cui si esprime? L’espressione del potere rientra nel potere o è altro? Siamo portati a dire che è anche altro perché non soltanto si esprime in comandi, ma anche minaccia e/o premia. Oltre il comando presente, l’espressione vocale dell’imperio, v’è la possibile azione futura. Possibilità non astratta, ma concreta, come le azioni del passato dimostrano. Il gesto non si esaurisce nella voce. Mosé resta altro dalla sua voce, Aronne. La differenza tra la legge e la scrittura della legge si presenta sin dall’inizio. E dove si presenta nel modo più evidente questa differenza? Nella disapplicazione della legge. Che è doppia: nell’idolatria in cui cadono gli ebrei per la lunga assenza di Mosé, e nella rottura delle tavole da parte del Profeta. La prima mostra la debolezza della legge che è solo voce, la seconda la potenza della legge che è gesto, azione, potere in grado di negare se stesso. L’impotenza è tutta nella voce, la potenza, il potere, nel gesto, nell’azione. Paolo su questo è esplicito: non l’ascolto della legge salva, ma la sua attuazione7. Ma a ben considerare la questione, così come la si è esposta, ciò che si impone non è la differenza, ma l’identità nella legge di voce e gesto. Le due ‘disapplicazioni’ – l’idolatrica di Aronne (è lui che dà il permesso di costruire il vitello d’oro8) e quella ‘irata’ di Mosé – sono profondamente diverse. La prima, l’idolatrica, mostra l’impotenza della legge; la seconda quella mosaica, evidenzia, all’opposto, la sua potenza. La sua enorme potenza. La legge che ha il potere di negare se stessa. La legge – dico –, e non Adonai, il Signore ora assunto, o meglio: presunto, essere il potere della legge altro dalla legge. 7. Rm, 2.13 8. Probabile immagine del dio egizio Api: cfr. J. Assmann, Moses der Ägypter. Entzifferung einer Gedächtinispur. Tr. it. di E. Bacchetta, Adelphi, Milano 2000, p. 112.

62

Abbiamo toccato un punto molto delicato: il rapporto tra legge e sanzione. Tra legge e applicazione della sanzione – è bene precisare –, ché la sola ‘minaccia’ non basta a definire la natura della sanzione. 3. L’impotenza della legge, che l’applicazione della sanzione mostra, non sta nel fatto che il comando non è stato attuato, perché è nell’essenza del comando la possibilità di non avere attuazione. L’impotenza della legge che la sanzione rivela è ben più profonda: l’applicazione della sanzione toglie alla legge il suo carattere più proprio: l’imperatività. Essa traduce il Sollen in Sein, il dover-essere in essere, ma non come accade nella volontaria esecuzione della legge da parte del suo destinatario, nella quale l’essere mantiene il carattere del dover-essere, in quanto chi esegue il comando realizza, attua una possibilità – egli avrebbe potuto agire diversamente; nell’applicazione della sanzione il “dover-essere” è invece del tutto eliminato: l’azione della legge si sostituisce totalmente al volere del destinatario. L’applicazione della sanzione è per il destinatario come un fatto naturale, anzi è un fatto naturale. Faccio ora riferimento non ai castighi di Adonai, ma ai castighi degli uomini, e neppure ai più crudeli, la condanna a morte o al carcere, ma alla sanzione che colpisce un errore – un errore, non un’azione criminosa – per esempio nella dichiarazione dei redditi! Si dirà, se guardiamo non al destinatario della legge ma direttamente a questa, l’applicazione della sanzione conserva pienamente il carattere dell’esecuzione del comando, il carattere, cioè, dell’imperatività. Vero, verissimo. La legge può addirittura contemplare casi di non applicazione della sanzione. Di più: può addirittura revocare se stessa, il suo comando. Ma che significa questo? Che il potere è tutto nella Legge, perché è nella Legge, nell’espressione del comando, che è pre-

63

vista la sua sospensione; perché è nella voce del gesto, che è contemplato l’“arresto” del gesto. Una ‘sospensione’ della Legge fuori della Legge, è come un terremoto, un evento naturale che non appartiene all’ordine del diritto, al dover-essere che caratterizza l’ordinamento giuridico. Insomma non v’è potere fuor della legge, se con ‘potere’ intendiamo comando, imperio, dover-essere, ovvero tutt’altro che la forza naturale. E non mi sembra privo di significato il fatto che anche chi ha preteso fondare la forza della legge su un potere altro dalla legge – poggiando questa sua pretesa sulla tesi che è la sospensione della legge che permette di riconoscere non il potere sovrano, ma il potere del sovrano9 – abbia dovuto ammettere che la sospensione del diritto non esclude totalmente il diritto!10 Qui 9. «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione»: C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del ‘politico’. Tr. It. a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 33. Ma v. anche la difesa dei concetti di “persona” e di “sostanza” – contra Kelsen in particolare – pp. 54-59 e 65. Sull’argomento rinvio a V. Vitiello, Ripensare il Cristianesimo. De Europa, Ananke, Torino 2008, parte III, cap. I, “Grundnorm. Kelsen e l’infondata fondazione del diritto”, pp. 209-228. 10. «Poiché lo stato d’eccezione è ancora qualcosa di diverso dall’anarchia o dal caos, dal punto di vista giuridico esiste ancora in esso un ordinamento, anche se non si tratta più di un ordinamamento giuridico. L’esistenza dello Sato dimostra qui un’indubbia superiorità sulla validità della norma giuridica»: C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, op. cit., p. 39. Ho messo in corsivo i passaggi di più difficile comprensione: non si vede infatti qual senso abbia chiamare in causa il “punto di vista giuridico” nello stato d’eccezione, nel quale proprio l’ordinamento giuridico, ossia: il “punto di vista giuridico”, è sospeso. L’ultimo periodo è poi un perfetto diallelo: poiché si è assunto che lo Stato è superiore alla norma giuridica, allora l’esistenza dello Stato dimostra che lo Sato è superiore alla norma giuridica. In questo diallelo trova conferma la tesi di Kelsen: «Lo Stato essenzialmente distinto dal diritto, lo Stato come potere, onnipotenete e perciò nella sua essenza illimitato, “sovrano”, non vincolato da nessuna norma, deve alla fine diventare certamente diritto, trasformarsi in un’entità giuridica, in una persona giuridica che avendo sopra di sé l’ordinamento giuridico, derivando dall’ordinamento giuridico il suo “potere”, non può essere “sovrano”, se mai il concetto del-

64

non c’è da aggiungere altro che questo: la sospensione della Legge ad opera della Legge è proprio l’atto che mostra la maggior potenza della Legge, il suo potere di retroagire su se medesima. In ciò l’‘onnipotenza’ della Legge: nella sua facoltà di retroazione. Chiaramente in ciò si palesa un diverso modo di intendere la legge, che corrisponde all’idea ‘moderna’ non della legge soltanto, ma del sapere. Idea formatasi nel passaggio dalla concezione dell’essere dell’ente come ‘sostanza’, come essente “per sé” (kath’hautó), all’opposta concezione dell’ente in quanto ‘funzione’, in quanto essente “per altri”, pròs álla, o meglio: pròs állela, essente, cioè, per la relazione reciproca con l’altro, con gli altri. 4. In quanto “funzione” la Legge non è nulla per sé. In quanto rivolta ad altro, il suo essere coincide di tutto punto con l’operare, essa è quello che realizza operando sugli altri, definendoli, facendoli essere per quello che sono: cittadini responsabili e liberi o sudditi, titolari di diritti o soltanto soggetti a obblighi, appartenenti a un popolo o stranieri, eroi o assassini, ecc. ecc. Nessuna sostanza, nessuna persona, nessun sostegno ‘fuori’ della legge per reggere la legge: essa si sostiene da sé, operando, ché non c’è funzione se non nel suo esercizio, non essere che nel suo ‘fare’. Nella funzione è tutto l’ordinamento, che non è istituzione, qualcosa che è, ma qualcosa che opera, che propriamente non è – funziona. E questo sarebbe formalismo? A me sembra piuttosto pienezza d’esperienza, forma che forma, forma che dà forma a qualcosa che non esiste se non dal momento in cui riceve forma dalla funzione. la sovranità deve avere ancora un senso». H. Kelsen, Lineamenti di teoria generale dello Stato, cit., p. 136. Lo ha, se riferito alla Legge. Ma: a quale Legge?

65

Ciò che a questo punto va interrogato è il modo in cui funziona, e cioè opera questa funzione. Qual tipo di potere esercita. Ed è qui che il pròs állela, la reciprocità della relazione con l’altro, con gli altri – quanto sopra si è nominato ‘potere perlocutorio’ della legge –, mostra tutta la sua importanza. Tutti coloro che la legge ‘forma’, e cioè fa essere in una determinata, specifica forma – quale essa sia: un popolo di liberi e responsabili, di titolari di diritti, o una massa di sudditi soggetti a norme ch’essi neppure intendono – non sono mai meri “oggetti” della legge, ma sempre suoi destinatari. La legge è comando, è imperativa, in quanto non causa effetti, ma provoca risposte. Quello stesso che è suddito della legge, “soggetto a doveri” e non “soggetto di diritti”, in quanto destinatario della legge non è mai mero “oggetto”, non può esserlo, e ciò per la legge stessa, per il suo carattere normativo, imperativo. Anche il suddito ‘risponde’. Assistiamo qui ad un ribaltamento totale della condizione della legge: dalla potenza all’impotenza. Nel cuore stesso della legge, infatti, nella sua potenza perlocutoria, si annida la sua radicale impotenza. La legge non ha alcun potere. In quanto è ‘funzione’ il suo potere è nell’incontro con i suoi destinatari, con quegli stessi ch’essa ‘crea’ come destinatari del suo comando. Qui la divaricazione radicale tra le leggi naturali, e le leggi che regolano i rapporti umani, tra physis e nómos: ché, mentre la funzione della legge di natura si compie con la determinazione dell’essere dell’ente – e in questa determinazione realizza il suo potere ‘perlocutorio’ –, la funzione della legge imperativa, determinando i suoi ‘soggetti’, dando cioè ‘forma’ e ‘figura’ ai destinatari del comando, ovvero esercitando il suo potere perlocutorio, è solo all’inizio dell’opera. E il resto dell’opera, la cosa più importante, il compimento dell’opera, non dipende da lei! Dipende, bensì dall’incontro con i suoi destinatari, con quei ‘soggetti’ da essa medesima ‘posti’,

66

‘formati’, ‘creati’. Perché ‘posti’, ‘formati’, ‘creati’ in quanto soggetti di ‘doveri’. E come tali ‘liberi’. La potenza della legge di ‘creare’ soggetti liberi segna il limite del suo potere, poi la sua reale impotenza. Quella retroazione del potere della legge su se stessa, che si esercita col sospendere se stessa, è il tentativo della legge di porsi al di sopra del suo stesso limite. Un tentativo contraddittorio, come tale destinato al fallimento, dacché la legge può togliere il limite del suo potere ad una sola condizione, quella di negare il suo carattere normativo. Di negare se stessa come legge. Il limite della legge – porre dei destinatari e non degli ‘oggetti’, e quindi realizzarsi soltanto nell’incontro con essi – è l’essenza stessa della legge, quello che sopra s’è definito il suo pròs állela. 5. Che cosa comporta l’“incontro” della legge con i destinatari da essa medesima “posti”, “generati”, “creati”? Nulla di meno che questo: il trasferimento del potere dalla legge ai suoi destinatari. Dico del potere della legge in quanto comando, imperativo, “dover-essere”, e non in quanto “causa” fisica, in quanto “essere” produttivo di effetti, come accade nell’esecuzione della sanzione dove il destinatario non è più soggetto del volere, ma oggetto. Di questo trasferimento del potere che avviene nell’incontro della legge con i suoi destinatari, Hegel fornisce un esempio significativo nella Fenomenologia dello spirito, là dove, parlando del monarca assoluto, dice ch’è tale in quanto riconoscito dai ‘nobili’. Ed è significativo l’esempio, perché in esso Hegel mostra la potenza perlocutoria del linguaggio, ora osservato dalla parte dei destinatari: è infatti mediante il “nome” che il potere del monarca viene portato al vertice (auf ihre Spitze), isolato da tutti (von Allen abgesondert), e insieme reso rea-

67

le nella coscienza di tutti (im Bewußtsein Aller)11. Non meno significativo il fatto che proprio il sostenitore del potere del sovrano “oltre” e “sopra” la legge, del Führer che è tale in quanto raccoglie intorno a sé, e cioè ‘forma’, un popolo, fondi poi il potere del sovrano sul principio: “protego ergo obligo”12. Evidente che non il potere di proteggere, ma la volontà, o desiderio, d’essere protetto, la scelta della forma di protezione, ed il riconoscimento del potere di proteggere, reggono l’obbligo. La domanda che a questo punto si pone è: come avviene l’incontro tra la legge e i suoi destinatari? Cosa determina, o anche solo inclina, i destinatari della legge ad ‘obbedire’ al suo dettato? Non intendo ridurre il potere della controparte che s’esprime nella minaccia della sanzione, e si prova con la capacità di realizzare comunque il dettato della legge attraverso la costrizione fisica; tanto meno sminuire l’efficacia della paura che la sola minaccia desta. Intendo riaffermare che comunque la legge è sottoposta – è sospesa – al giudizio del suo destinatario. Che può certamente essere costretto con la forza fisica a ciò che l’enunciato della legge prescrive – ti relego in carcere in modo che tu non possa più comunicare informazioni

11. “[…] il linguaggio con cui i nobili lodano il monarca è lo spirito, che, nello stesso potere dello stato, congiunge i due estremi” G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes [= PhäG], Hrsg, J. Hoffmeister, Meiner, Hamburg 19526, pp. 364-365. Tr. it. in 2 voll. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 19632, II, pp. 64-65. È degno di nota il fatto che Michel Foucault, muovendo da premesse affatto diverse, in particolare riguardo al metodo, giunga nell’analisi dell’enforcement of law (“l’insieme degli strumenti messi in opera per conferire all’atto dell’interdizione – in cui consiste la formulazione della legge [penale] – realtà sociale, politica, ecc.”) alle stesse conclusioni: cfr. Id., Naissance de la Biopolitique. Cours au Collège de France 1978-1979. Tr. it. di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 209 ss. 12. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 136-137.

68

nocive per il governo del paese –, ma se manca il suo assenso, il comando in quanto comando viene meno. Se non c’è l’“incontro” tra la volontà della legge, espressa nel comando, e la volontà del destinatario – neppure c’è la legge. La legge in quanto norma giuridica, perché non c’è quella relazione tra il comando della legge e il destinatario del comando, che sola realizza la legge. Ma da cosa dipende questa relazione? Non dal potere della legge, come s’è visto, quindi dal potere del destinatario, che può come seguire il comando, così disattenderlo. Ma in che consiste questo ‘potere’? La risposta è immediata: nella libertà. La legge ‘umana’ diversamente dalla legge fisica – come s’è detto – non causa effetti, ma provoca risposte; e a tal fine ‘crea persone’ capaci di rispondere, in modo che l’attuazione della legge, nel tradurre il dover-essere in essere, non nega il ‘comando’ senza insieme confermarlo, dacché l’essere realizzato non altro è che l’attuazione del dover-essere. Ma qui davvero ci avvolgiamo su noi stessi. Ché la libertà chiamata in causa per dar ragione dell’adesione al comando della legge o del suo rifiuto, non è altro da quello che la legge, in base al suo potere perlocutorio, ha conferito al destinatario ch’essa si è ‘creato’. Talché ciò da cui si fa dipendere il potere del comando è rimesso a questo medesimo potere. Ma se non c’è distanza tra il potere della legge e il potere del destinatario della legge, in che si distingue la legge giuridica dalla legge naturale, la normatività del diritto dalla causalità della fisica? Vero è che proprio l’essenziale – il rapporto tra la legge e il suo destinatario – resta oscuro. Ma in questa oscurità c’è un’indicazione preziosa. E cioè che non dobbiamo cercare nella ‘libertà’ il luogo d’incontro della legge col suo destinatario. Che la ‘libertà’ nell’ambito del

69

diritto è solo una ‘finzione giuridica’ – un altro nome per indicare un ‘vuoto’, un’assenza. L’assenza di che? L’assenza del destinatario della legge. Non certo del destinatario ‘universale’ della legge: questo la legge lo determina con ogni esattezza possibile; ma l’assenza del destinatario leibhaft, “in carne ed ossa”, del singolo destinatario, del destinatario omnimodo determinatum. Il diritto condivide appieno la sorte del sapere scientifico, la cui ‘funzione’ è di spiegare (lógon didónai) l’universale, anche nei suoi aspetti particolari, ma non certo l’individuale. Perché allora insistere sulla distinzione tra le leggi naturali e le leggi giuridiche?13 La cd. libertà giuridica ha tutti i caratteri dell’arbitrarietà delle leggi di natura14. E mi sembrerebbe veramente eccessivo chiamare in causa autori come Hegel e Mill, che da prospettive del tutto opposte, sono i maggiori critici del concetto della libertà, dacché il primo l’identifica con la necessità elevata a coscienza di sé15, l’altro ad

13. La distinzione tra legge giuridica e legge naturale che, per Kelsen separa la concezione antropomorfica del mito, secondo la quale «la divinità […] comanda tanto al sole al mattino di sorgere, agli alberi in primavera di fiorire, quanto all’uomo di non uccidre il fratello» (H. Kelsen, Lineamenti di teoria generale dello Stato, cit., p. 120), appartiene anch’essa al mito. 14. In questo contesto – non antico, o pre-storico, ma ‘moderno’ – l’affermazione di Benjamin che dalla legge, che condanna alla colpa e non alla punizione, «l’uomo non viene mai colpito, ma solo la nuda vita in lui» (W. Benjamin, Critica della violenza, cit., p. 175; tr. it., p. 35) trova pieno riscontro: la ‘nuda vita’ è il ni-ente, il non-ente, ch’è ‘prima’ della ‘definizione’ del diritto, prima dell’assegnazione della ‘colpa’. In questa prospettiva l’uomo non viene mai colpito dalla Legge, e non può mai esserne colpito, perché lo è già da sempre: nasce in quanto, e solo in quanto ‘colpito’ dalla Legge. Un ‘secondo colpo’ non avrebbe senso. Non serve. 15. Cfr. in particolare la ‘critica’ hegeliana della sostanza di Spinoza: G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik (= WdL), in Id., Werke zwanzig Bänden, 6, II, pp. 246-251; Tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Laterza, Bari 19682, II, pp. 652-657.

70

ignoranza della totalità delle condizioni in cui si realizza l’atto cosiddetto libero16. 6. Vero è che il problema della libertà si pone ad altro livello che quello giuridico. Non c’è ‘libertà’, se non come ‘fictio’, nell’ordine del diritto, perché la funzione giuridica della legge è certo pròs álla ma non pròs állela. E cioè: nella legge giuridica la funzione ha una sola direzione: dal comando al destinatario. Il movimento di ritorno, che la legge stessa esige per la sua stessa essenza di comando, non si realizza. La libertà del destinatario, come s’è detto, è solo quella che la legge stessa ha determinato, anche nei modi di svolgimento. Conseguentemente di dover-essere ha senso parlare solo nell’ambito della morale, perché è qui che il rapporto tra legge e destinatario della legge è pensato a partire non dalla legge né dal destinatario, ma dalla loro relazione. L’“incontro” tra i due – legge e destinatario – è nella morale il vero Prius. E qui davvero Kant docet. Infatti che significa che la relazione è il Prius nella legislazione morale? Anzitutto questo: il totale scioglimento del Sollen dal Sein, del “dover-essere” dall’“essere”, perché anche là, dove il comando della legge, il “dover-essere”, non si realizza, esso non soltanto non viene meno17, ma addirittura s’impone con maggior forza. È un comando che obbliga anche quando non è possibile attuarlo. Ne daremo in seguito l’esemplificazione.

16. «[…] se avessimo una conoscenza completa di una persona, e conoscessimo tutte le influenze che agiscono su di essa, potremmo predire la sua condotta con una ceretezza eguale a quella con cui possiamo predire un qualsiasi evento fisico» (J. S. Mill, System of Logic, ratiocinative and inductive. Tr. it. di M. Trinchero, voll. 2, UTET, Torino, 1988, p. 1114). 17. Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Akademie Textausgabe (= Ak), de Gruyter, Berlin-New York 1977, A 548, B 576 (per la tr. it. si rinvia a quella di P. Chiodi, edita dalla UTET, che riporta l’impaginazione della I e della II ed. dell’originale).

71

Per ora basti dire che l’“obbligatorietà” della legge morale non dipende dalla sua attuazione. Il movimento di ritorno dal destinatario alla legge non è infatti posteriore al movimento di andata dalla legge al destinatario. Questa simultaneità dei due movimenti, che caratterizza l’essenza stessa dell’obbligatorietà morale, è definita da Kant sin nella Prefazione della Critica della ragion pratica, in quella nota, giustamente famosa, ove replica alle critiche di incoerenza che gli erano state mosse, per aver egli posto la legge morale come condizione di possibilità della libertà, e questa, la libertà, come condizione di possibilità di quella, della legge morale. C’è incoerenza, avverte il filosofo, se ed in quanto non si distingue ratio cognoscendi da ratio essendi. Invero come non potremmo sapere d’essere liberi, se non ci sentissimo obbligati dalla legge morale, così non potrebbe esistere legge morale se non fossimo liberi18. Ma, è bene precisare subito: sentirsi obbligati dipende non dalla conoscenza, ma dall’esserci della legge, dal “fatto” della legge – l’unico Fatto trascendentale: das einzige Faktum der reinen Vernunft19. Certo, anche il “sentirsi obbligati” è una forma di conoscenza, è: “conoscere”; ma è un conoscere pratico e non teorico, non ‘dimostrativo’: tì alethès chorìs apodeíxeos. Per capire il senso di questo conoscere pratico, che ‘sente’ e non argomenta, richiamo l’espressione in cui si presenta la Legge morale. Basta citare la prima parola che si ripete in tutte le formulazioni della Legge: Handle, agisci, opera20. È un imperativo la legge, e come tale si esprime in seconda persona: agisci – tu. Chi è il “tu” a cui comanda la Legge morale? 18. Cfr. I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft (= KpV), Ak., Bd. V, p. 4; tr. it. di F. Capra, riv. da E. Garin, Laterza, Bari 19638, p. 2. 19. KpV, § 7, Anmerkung, p. 31; tr. it., p. 39. 20. Cfr. I. Kant, Grundlegung zur Metaphyk der Sitten, Ak, IV, pp. 421, 429, 437. Tr. it. con originale a fronte, a cura di V. Mathieu, pp. 123, 125, 143144, 163, Rusconi, Milano 1994. KpV, § 7, p. 30; tr. it., p. 38.

72

Non l’uomo, non il soggetto, non l’io. Io, soggetto, uomo dicono troppo. Non all’io, al soggetto all’uomo si rivolge l’imperativo ‘morale’, ma all’uomo morale, al soggetto morale, all’io morale. Diciamo meglio: la ragione morale si rivolge in modo imperativo alla ragione morale. Si rivolge a se stessa dicendo: “tu”. Quale il senso di questa trasposizione dalla prima alla seconda persona, dall’“io” al “tu”? La domanda s’impone, ché la ragione morale si rivolge a se stessa, alla ragione morale dicendo: “agisci, tu…”. A se stessa – ribadisco – e non può che rivolgersi a se stessa, perché, se si rivolgesse non all’uomo morale, all’uomo, cioè, in cui è già operante la ragione morale, bensì all’uomo ‘sensibile’, neppure sarebbe capita, e prim’ancora neppure potrebbe essere ‘udita’. Come può un io nel delirio dei sensi, o nella furia del potere, dare ‘ascolto’ all’imperativo di agire in modo da considerare l’umanità come fine e non come mezzo? Può ascoltare l’imperativo della ragione morale solo chi di questa ragione è già partecipe. Un bel paradosso. La ragione morale comanda a se stessa di fare quello che ha già fatto – liberarsi dalle inclinazioni sensibili –, in quanto, se già non l’avesse fatto neppure potrebbe ‘udire’ il comando. La ragione morale impone a se stessa di essere quello che già è: ragione morale; e che, se già non lo fosse, mai potrebbe essere. Ma è un paradosso che Kant ben spiega. Il già-fatto si presenta come un da-fare, l’essere come un dover-essere, perché invero non c’è mai un “già fatto” che non sia “ancora sempre da fare”, un essere che non sia ancora e sempre un dover-essere: la funzione che non è, ma opera, è appunto questo fatto sempre ancora da fare. E questo Kant esplica in forma quanto mai chiara, distinguendo volontà santa da volontà morale: per quella il dover-essere si è tradotto in un essere stabile e sicuro, definitivo, per questa, invece, il doveressere è sempre insicuro, infermo, perché l’uomo morale è in permanente lotta con le inclinazioni sensibili. L’imperativo Handle è un memento. Ricordati che non sei quello che sei,

73

perché quello che sei te lo devi sempre di nuovo guadagnare, conquistare. S’ode nell’imperativo kantiano l’eco lontana del motto pindarico: “ghénoi’ oîos essì mathôn”, che non dice: “divieni ciò sei”, ma “divieni ciò che hai appreso d’essere”21. Ed hai appreso che non sei, ma divieni. Hai appreso – e non da altro che dalla legge – che non si è per sé (kath’hautó), ma “per altro” e in modo reciproco, pròs állela: la libertà è per la legge, la legge per la libertà. Qui, nell’ambito morale, si esplica compiutamente la legge come funzione. La legge in quanto funzione. Ove non c’è più alcun “per sé”, alcun kath’hautó, ma tutto è “per altro”, non pròs álla, ma pròs állela, perché anche l’esser-per altro, non è per sé, non è kath’hautó. La reciprocità dei termini della relazione investe in pieno la relazione, ma non nel senso che la relazione ad altro è essa medesima relazionata ad altro, così non si farebbe che reduplicare la relazione, riaffermare l’unico “per sé” assoluto: la relazione, il kath’hautó della symploké, trionfo e calvario della filosofia. Riprendo espressioni hegeliane, perché è in Hegel che la relativizzazione dell’essere si assolutizza, che il circolo della vita e del pensare si presenta come “circolo di circoli”, come “idea assoluta”, o “Sistema della totalità”22. Il luogo in cui l’inquietudine della vita e del pensare riposa in una “trasparente e semplice quiete”23. Proprio quanto il vecchio Kant ci ha appreso a non fare. Dove? Come?

21. Pindaro, Pythioníkais, II 131. Cfr. la duplice “lettura” che H.-G. Gadamer ha dato di questo passo di Pindaro in Hermeneutik im Rückblick, Mohr (Siebeck), Tübingen 1995, tr. it. con testo tedesco a fronte di G. B. Demarta, Bompiani, Milano 2006, p. 866. 22. Cfr. WdL, II, pp. 548-573, e in part. pp. 569 e 571-72; tr. it., pp. 935957, e in part. pp. 953 e 955-956. 23. Cfr. PhäG, p. 39; tr. it., I, pp. 38-39.

74

7. Portandoci davanti al paradosso della morale, ben più paradossale di quel che finora s’è rivelato. Intendere “Handle” come “memento” significa: tu non sei in potere di te stesso: tu in quanto legge morale, tu in quanto ragione, tu in quanto soggetto morale. Il potere della legge? E qui di nuovo non si fa distinzione tra legge giuridica e legge morale: una favola che ci hanno raccontato gli antichi, alla quale loro per primi non credevano. Non ha senso leggere la Critica della ragion pratica senza avere costantemente presente il conflitto tra Antigone e Creonte, legge morale e potere politico: il loro conflitto sorpassa entrambi. Non ha potere Antigone per imporsi a Creonte, né Creonte per imporsi ad Antigone. Ed è palese non-senso rendere Antigone responsabile del proprio fallimento, come Creonte del suo. Il greco sapeva che è Ananke che alla fine s’impone24. Ma pur quando chiamava Ananke col nome di Dike, il greco mai non pretese di portare Ananke a pensiero. Questa è stata una pretesa del moderno: l’ambizioso sforzo reiterato e fallito di ‘rivelare il profondo’, di porsi dalla parte di Ananke. Di identificarsi con Ananke, riducendola a ragione (quando non addirittura alla nostra, umana ragione). E cioè di superare la scissione che è all’origine stessa della modernità: la separazione di sapere e potere, di Lógos e Nómos. 8. “Adamo dove sei?”25 Non la domanda soltanto, anche l’ascolto della domanda non dipende da noi. L’imperativo morale è questa comprensione, che ci abbatte ed esalta insieme. Ci abbatte perché toglie a noi 24. Insuperata resta la lettura di Hegel: PhäG, II, pp. 336-337 ss.; tr. it., pp. 29-30 ss. 25. Gn, 3.9.

75

ogni potere; ci esalta perché ci fa sentire responsabili anche di ciò di cui non siamo, non possiamo essere responsabili, di ciò che non dipende da noi: del passato. Il rimorso (Reue) è questo sentirsi responsabili anche di ciò di cui non siamo responsabili26. La scissione tra potere e sapere, sapere e potere è la nostra dannazione, ed insieme ciò che ci esalta, che ci fa sentire non “figli della Terra” e “amici delle Idee”, ma figli della terra in quanto amici delle Idee, amici delle Idee in quanto figli della Terra. Dovessi esprimere il sentimento morale che caratterizza questa radicale impotenza, non saprei esprimerla con altre parole che quelle di Kant: “ein negatives Wohlgefallen an seiner Existenz”27. Cosa aggiungere? Solo questo: che anche, che sovrattutto tale ‘sentimento’, tale ‘sentire’ non dipende da noi. Ci è dato, donato. Non siamo all’origine di noi stessi. Forse.

26. I. Kant, KpV, p. 98; tr. it., p. 124. La legge morale è ‘fuori’ dal tempo fenomenico, che è non solo il tempo naturale, fisico, ma anche il tempo storico-mondano: cfr. ibidem, pp. 94-95; tr. it., pp. 122-123, e ancor prima KrV, A 541, B 569 («in ihm, sofern es Noumenon ist, nichts geschieht»). Ma questo ‘fuori’ non è necessariamente assenza di tempo. È altro tempo, che né Bergson, né Husserl, ci aiutano a pensare, ma Heidegger, e, per lumi sparsi, Benjamin. 27. I. Kant, KpV, p. 117; tr. it., p. 149.

76

77

Lo Stato e la mediazione. Osservazioni sulla categoria di ‘sovranità’ nella rechtsphilosophie hegeliana Luca Basile

1. Il tema dell’identità e del destino della categoria politica di ‘sovranità’ trova, indubbiamente, nella Rechtsphilosophie hegeliana un punto di riferimento centrale. Il nostro tentativo sarà proprio quello di cercare di dimostrarlo succintamente. Di più: quel che cercheremo di fare è acclarare la tesi per cui la concezione espressa da Hegel della nozione di ‘sovranità’ – in particolare nella matura formulazione esposta nelle Grundlinien, esplicate fra il 1819 ed il 1820 – costituisce il vertice della sua definizione all’interno dell’orizzonte del moderno. Con Hegel la categoria di ‘sovranità’ sostituisce definitivamente la rigida collocazione del potere politico e del dominio nella fissa unilateralità del medesimo ‘posto del sovrano’. Tale sostituzione non si risolve, però, in un qualche sorta di dispositivo inteso allo snervamento dell’esercizio del potere politico. Tutt’altro: esso viene a coincidere con il pervasivo ed insostituibile momento della mediazione, il quale innerva lo stesso, integrale scenario della formazione della società moderna, profilando i caratteri fondamentali della statualità e del rapporto che essa instaura con la questione della libertà e della costituzione del soggetto.

78

Un passaggio esemplare per cominciare a focalizzare la coincidenza tra Stato, sovranità politica e mediazione nella veduta hegeliana è rappresentato dal § 278 delle Grundlinien, proprio entro la parte dedicata allo Stato. Nello Zusatz al contenuto argomentativo in cui il paragrafo consiste, cioè l’affermazione del radicamento di «poteri» e «funzioni» della sfera statuale nella unità che la costituisce, si legge: «Poiché la sovranità è l’idealità di ogni autorità particolare, è facile il fraintendimento, che è anche molto comune, di prendere quella per mera potenza e vuoto arbitrio e la sovranità per sinonimo di dispotismo. Ma il dispotismo designa in genere la situazione dell’assenza di legge, ove la volontà particolare come tale, si tratti poi di un monarca o di un popolo, […] vale come legge o piuttosto in luogo della legge, mentre invece la sovranità proprio nella situazione legale, costituzionale, costituisce il momento dell’idealità delle particolari sfere e funzioni, che cioè una tale sfera non sia un qualcosa di indipendente, di autonomo nei suoi fini e modi di operare e di approfondirsi soltanto entro di sé, ma invece in questi fini e modi di operare sia determinato e dipendente dal fine del tutto (Vom Zwecke des Ganzen)»1. Come si vede, qui Hegel afferma con chiarezza la dimensione della sovranità statuale in quanto alternativa al «dispotismo» ed al «vuoto arbitrio»; evidenziando, vieppiù, come l’unità statuale non possa darsi a priori rispetto alle «particolari sfere e funzioni», né, viceversa, queste siano in condizioni di esser qualificate in virtù di un loro univoco statuto di autonomia. Piuttosto, si deve parlare della loro «idealità» quale ‘costituita’ (ausgemacht) dalla stessa sovranità statuale, in contrasto

1. G.W.F. Hegel, Werke, VIII: Grundlinien der Philosophie des Rechts, Hrsg. von E. Gans, Berlin, 1833 (18402, 18543), Tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto – Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio – Con le aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Laterza, Bari 1996, § 278, Annotazione, pp. 222-223 (corsivo nostro).

79

tanto con l’immagine della isolata «volontà particolare» (der besondere Wille) del monarca, quanto con la sua monocroma elevazione a ‘volontà generale’ del popolo secondo il modello rousseauiano, da Hegel sostanzialmente ridotto, nel caso, a riproposizione del principio olocratico2. Stando alla struttura complessiva e matura della Rechtsphilosophie, così come nel cammino generativo del concetto possiamo cogliere il passaggio dall’eticità immediata della famiglia alla stessa unità mediata dello Stato passando attraverso la società civile – che è il campo della scissione ma anche di una circoscritta mediazione interna, commisurata al ‘sistema dei bisogni’ –, giungendo alla medesima dimensione statuale quale autentico fondamento degli altri due momenti etici; ora, tanto l’insieme delle funzioni del dominio quanto le cerchie speciali della organizzazione civile, articolantisi nella ricchezza del sistema sociale, trovano entro l’“intero” statuale il luogo della loro mediazione e, dunque, del loro fondamento. Chiaramente, il versante delle funzioni burocratico-statuali si annoda intimamente a quello del più vasto insieme di competenze e ruoli direttivo-cognitivi. È solo a partire di qui, infatti, che diviene possibile trascorrere dallo Zweck des Ganzen alla compiuta Totalität innervata dalla mediazione, ovvero alla totalità ed unità complessa nella quale si dispiegano i nessi obiettivi di reciprocità tra i piani e le ‘cerchie’ della società borghese moderna e dello Stato politico. Al suo interno la mediazione – la quale, come cercheremo di giustificare, coincide con la sovranità – si esprime in quanto autentica potenza che ne scandisce l’incidenza, le funzioni, la mobile gerarchia. Notare bene: la mediazione dell’unità statuale non solo ha in sé la ragione di cerchie e funzioni determinate e speciali, ma ne scaturisce, lasciando emergere la

2. Già nel System der Sittlichkeit e nel corso ginnasiale sulla “Dottrina del Diritto” Hegel aveva tratteggiato l’olocrazia quale ‘degenerazione’ del principio democratico (Philosophische Propädeutik, § 28, Berlin, 1840, I, p. 62).

80

propria identità di fondamento3. Abbiamo a che fare, del resto, con un movimento portante della logica hegeliana, approssimato sin dalla Introduzione alla Scienza della Logica, e messo a fuoco, vieppiù, nell’ambito della ‘logica dell’esistenza’. Il generale meccanismo per cui l’ultimo diviene il primo ed il primo l’ultimo, all’insegna del quale si pone la problematica del ‘cominciamento’, si aggancia direttamente al rifiuto dell’idea del ‘fondamento’ come mero substratum proprio in virtù della destinalità del suo ‘andare a fondo’. Da ciò sprigiona l’immediatezza, in quanto posta dalla riflessione del fondamento, cioè in quanto momento della riflessione. Ad approdo di tale percorso si colloca, poi, l’interiorizzarsi, l’Insichgehen dell’Essere nell’Essenza giusto per tramite delle determinazioni della logica dell’Essere4. In aperto parallelismo, possiamo dire che l’‘immediatezza’ di cerchie e funzioni sociali e del dominio lascia emergere la riflessione del fondamento al di fuori di sé e, d’altra parte, si raccoglie nella unità mediata della sovranità statuale. Quest’ultima si profila, cioè, tanto quale fondamento che quale risultato. A conforto di quanto appena detto dobbiamo notare che in diversi ambiti delle Grundlinien, a cominciare dai § 256 e 262, famiglia e società civile vengono ad essere indicate in qualità di ‘sfere-momenti ideali’ (die ideelen Sphären). Quasi in termini rovesciati e speculari, il § 278 riprende un simile tipo di impianto, facendo vedere come l’Idealität delle «sfere e funzioni particolari» venga ‘costituita’ dalla sovranità statuale

3. Cfr. in merito, fra gli altri, G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, Bibliopolis, Napoli 1978, p. 18. 4. Sul tema esiste, com’è evidente, un’amplissima bibliografia. Solo per riferirsi a due interpretazioni particolarmente stimolati cfr. B. De Giovanni, La critica del fondamento nella “Logica” di Hegel, in “Il Centauro”, n. 8, 1983, pp. 145-162; e M. Cacciari, Tradizione e rivelazione, in “Il Centauro”, n. 13-14, 1985, p. 28.

81

attraverso un movimento di ponimento-toglimento e ricomposizione-superamento ad un livello più alto. Il dispiegarsi ed il concentrarsi della mediazione in questa ne determina il carattere di ‘idealità’ proprio perché è solo in una siffatta coincidenza che funzioni speciali, istituzioni, nuclei operativi del dominio e della burocrazia giungono a comporsi entro una verace «unità vivente». È Hegel stesso a chiarire tale aspetto in un passaggio precedente dello Zusatz in esame: «L’idealismo che costituisce la sovranità» – argomenta richiamando quanto detto al § 293 (secondo l’edizione definitiva, § 321-329) della Enciclopedia delle Scienze filosofiche – «è quella stessa determinazione secondo cui, nell’organismo animale, le cosiddette parti organiche non sono effettivamente parti, bensì membra, momenti organici, mentre il loro isolamento e la loro sussistenza – per sé è la malattia […], il medesimo principio che nell’astratto concetto della volontà […] si presentò come la negatività riferentesi a sé e quindi universalità determinantesi a individualità», «dove ogni particolarità e determinatezza è una particolarità e determinatezza tolta, il fondamento assoluto determinante se stesso; e per apprenderli, si deve in genere possedere il concetto di ciò che è la sostanza e la verace soggettività del concetto»5. Possiamo dire che l’esplicazione formulata dell’“idealismo”, della ‘idealità’ delle cerchie costituita in ordine alla dimensione della sovranità, si ricongiunge, inevitabilmente, al più vasto movimento dialettico innervante l’eticità, da collocarsi in generale parallelo, ora, alla logica del concetto. Analogamente alla individuazione nella sostanzialità infinita dello ‘Stato-idea’ del primo fondativo e della mediazione rispetto alla diretta immediatezza etica della famiglia ed alla molteplicità dispersa

5. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 278, Annotazione, p. 223.

82

della società civile, qualificata dall’intelletto nell’isolamento dei suoi fattori, le stesse funzioni parziali riconducibili alla statualità si raccordano attraverso l’unità concreta definita dalla mediazione, in cui vengono ‘tolte’ – dunque superate – nella parzialità ed unilateralità delle loro determinazioni6. È lecito osservare che Hegel sembra contrarre nella generale esposizione fornita al § 278 della categoria di ‘sovranità’ – in quanto in grado di esprimere il rapporto fra le differenziate cerchie e funzioni, e, parimenti, il momento della loro mediazione come coincidente con la sfera statuale – e dello Stato quale soggetto di essa due precise direttrici logiche di movimento. Anzitutto quella designata dalla manifestazione della sovranità-unità statuale come fondamento e risultato dei momenti finiti (cerchie e funzioni), che segue il procedimento dialettico ‘messo a punto’ nella Grande Logica, per cui – come si legge all’avvio della Dottrina dell’essere dedicato al ‘cominciamento’ della scienza – «l’andare innanzi è un tornare addietro al fondamento» e giungere alla comprensione che «quest’ultimo, il fondamento, è poi allora anche quello da cui sorge il primo, quel primo che dapprincipio si affacciava come immediato»7. Il fondamento emerge, quindi, in certo senso, entro un processo di autofondazione. Evidenziarlo è molto importante perché rende possibile cogliere, poi, la portata di incidenza della medesima ‘logica dell’essenza’, tale per cui tutta la Filosofia del diritto procede a muovere dall’opposizione fra l’essere veridico e l’essere come ‘parvenza’, passando attraverso le determinazioni riflessive dell’identità, della differenza e della contraddizione, sino a traguardare il fondamento stesso.

6. Cfr. sul tema, fra gli altri, G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, cit., p. 33. 7. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logic, Hrsg. E. Moldenhauer, K.M. Michel, Frankfurt Am Main, 1970, Tr. it. Scienza della Logica, Laterza, BariRoma 1974, p. 56.

83

Proprio in forza del suo conseguito raggiungimento, viene ad attuarsi la verace penetrazione del fenomeno, una volta stretta la ragion d’essere delle sue manifestazioni determinate8. Non meno importante si rivela il movimento ulteriore che succede a quello dell’essenza e che troviamo qui raddensato nella identificazione hegeliana di mediazione e sovranità statuale. Infatti, essa non si arresta entro i confini della sua generale scansione, la quale, compenetrandosi al fondamento, toglie la scissione dell’intelletto riflettente (il cui corrisposto è definito, in certa misura, dalla isolata sussistenza delle articolazioni della società civile), ristabilendo l’unità dell’essere, ovvero, toglie, in definitiva, se stessa in quanto mediazione e si pone9. Il modo in cui Hegel tratteggia l’orizzonte della sovranità appare rassodare tutte le implicazioni ed i precipitati di una siffatta, costitutiva dinamica ma si sporge a declinarne la dimensione in conformità all’approdo logico configurato dal ‘sillogismo supremo’, ovvero dalla traguardata assunzione di quella angolatura ove ogni momento diviene davvero coglibile nel suo rapporto con l’intero. Quest’ultimo, esibendo i propri nessi interni come mediati nell’assoluto che si fa, giunge a mostrarsi compiutamente in quanto totalità. In merito il passaggio hegeliano ci pare chiarissimo, del resto, allorquando parla della convergenza di cerchie e funzioni distinte nel «fine dell’intero», avendo in precedenza battuto sulla necessità di «possedere la sostanza e il concetto di ciò che è la sostanza e la verace soggettività del concetto». Evidentemente, i due aspetti vanno tenuti insieme, a fronte dell’architettura della logica hegeliana, e l’uno – che pure è richiamato successivamente –

8. Cfr. in merito G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, cit., pp. 22-23. 9. G.W.F. Hegel, Scienza della Logica, cit., p. 496. Cfr. sul tema G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, cit., pp. 24-25.

84

si giustifica in virtù dell’altro, coerentemente al ritmo interno di tale costruzione. Tornando con maggiore aderenza all’altro aspetto del discorso, resta fermo che la relazione di cerchie, «poteri e funzioni» nei riguardi della «sovranità dello stato» – in virtù della quale, vale la pena ribadirlo, «ogni particolarità e determinatezza è una particolarità e determinatezza tolta» – si rivela compiutamente comprensibile secondo il principio generale – che troviamo esplicitato al § 31 della Filosofia del diritto, ed a premessa della considerazione dei distinti momenti, coerentemente alla coincidenza tra struttura logica e struttura della realtà – per il quale «concetto» e «metodo» della scienza si sviluppano da se stessi attraverso un «immanente progredire e produrre» delle loro «determinazioni»10. Il movimento ed il rapporto dei distinti momenti concernenti le cerchie ed le funzioni specifiche rispetto alla infinita unità mediata e mediatrice della sovranità statuale rinviano, dunque, – in aperta rispondenza alla più generale dinamica di svolgimento dalla famiglia allo Stato medesimo, attraversando la società civile – alla cruciale concezione hegeliana del passaggio dal finito sino al «vero essere»11. Passaggio che solo la ragione può adempiere, cogliendo nella propria infinità l’origine e l’approdo delle diverse manifestazioni della finitezza; e lasciando, quindi, al solo Verstand la ‘persistenza’ in essa12. Dunque, pluralità delle cerchie ed unità statuale non possono essere dissociate, né si deve perdere di vista l’incidenza specifica della loro fitta articolazione. Tuttavia, attenendoci alla effettiva caratterizzazione politica della sua posizione, i termini in cui Hegel inquadra il ruolo della sovranità come media10. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 31, p. 43. 11. Id., Scienza della Logica, cit., p. 159. 12. Cfr. Ivi, p. 129.

85

zione, fulcro del vincolo fra ‘uno’ e ‘molti’, appare rimuovere ed oltrepassare lo schema liberale classico della divisione dei poteri. Infatti, egli propone una concezione della sovranità corrisposta allo Stato nella sua totalità, ma alla condizione che questa venga intesa nella chiave della compiuta mediazione delle sue parti, le quali si annodano intrinsecamente allo stesso ricco campo di competenze, cerchie, funzioni squadernato entro l’alveo della ‘società civile’. Alveo il cui profilo ancipite di scissione e riflessione dovuto al movimento di formazione dei «sistemi particolari» e, dunque, delle Stände e, al contempo, di articolazione dialettica del ‘sistema dei bisogni’, di «intera connessione»13 che ne esprime l’universalità, trapassa finalmente nella compiuta infinitezza dell’unità sovrana e pervasivamente mediatrice dello Stato. Unità coincidente con l’orizzonte dell’idea. Si può con buona ragione affermare che il riferimento operato nel § 278 e nella sua Anmerkung, a «particolari poteri e funzioni», «a particolari sfere» ed alla loro ‘idealità’ implica ed esibisce l’idea – formulata in più luoghi delle Grundlinien, e soprattutto al § 260 – del comparire di leggi ed istituzioni, dei dispositivi e degli apparati funzionali che vi presiedono, nell’alveo della ‘società civile’. Si tratta di un aspetto riscontrabile a muovere dalla inscrizione in questa dell’amministrazione del diritto14 – considerato, appunto, in quanto espressione della legge (basti pensare alla ben nota polemica con von Savigny15) – e, poi, della configurazione delle specifiche competenze amministrative e delle corporazioni. D’altra parte, l’insieme delle funzioni amministrativolegislative determinate riemerge nella sfera statuale in senso 13. Così Hegel scrive al § 201 di Ivi, p. 165. 14. Cfr. G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, cit., p. 52. 15. Cfr. Id., La polemica con la Scuola storica nella “Filosofia del diritto” hegeliana, in “Rivista di filosofia”, n. 1-2, 1977.

86

compiuto. Nel suo ambito si esercita la facoltà generativa del potere legislativo. Potere da accostarsi a quello governativo ed al monarchico secondo lo svolgimento dei momenti del concetto. Dunque, tra società civile e Stato intercorre un rapporto di superamento che si specifica, parimenti, in qualità di intreccio in grado di rendere possibile la mediazione delle mediazioni – per così dire – dell’un campo nell’altro (tramite, quindi, il passaggio dalla logica dell’essenza alla logica del concetto), in modo che la stessa mediazione attraversi, per essere tale, la ‘sopportazione’ degli opposti e della contraddizione e non la loro mera estinzione in virtù di un movimento di conciliazione semplice (la concezione hegeliana si riferisce all’Aufhebung, appunto, e non all’Auf-lösung). Il rapporto si articola su due livelli. 1) Lasciando prima facie isolato l’ambito d’insieme del ‘sistema dei bisogni’ in foggia di ambito esemplare della scissione, quello che interessa il profilarsi dell’incidenza statuale già entro lo spazio squisitamente pertinente alla società civile, riconducibile allo specifico dell’amministrazione giudiziaria. 2) Adempiendo alla compiuta mediazione superatrice della Scheidung, dell’Entzweiung, percorrente in senso riflessivo ed oggettivante il ‘sistema dei bisogni’, nell’unità della sovranità statuale. Attraverso di essa la sua forma e la sua soggettività si stagliano tanto in guisa di fondamento quanto, proprio a fronte di ciò, in guisa di compiuta e conquistata dimensione processuale. Nell’unità della sovranità statuale identità e mediazione si tengono inestricabilmente. Un simile aspetto si rende confortabile, ancora una volta, prestando attenzione all’asse complessivo che sorregge la Rechtsphilosophie, ed attagliando lo sguardo su quel dinamismo per cui l’universalità scaturisce dalla particolarità, secondo la doppia mediazione dovuta ai nessi intrattenuti dalla società civile – intrinsecamente compresente alla riflessività

87

della scissione dei bisogni – ed alla loro più vasta ed alta ricomposizione entro la dimensione unitaria della sovranità statuale. Come si vede, parliamo dello stesso movimento di articolazione della mediazione che eleva e concentra nella sovranità tanto le sue dirette funzioni che quelle delle Stande della società civile, altrimenti condannate ad insistere nella scissione (cosa incompatibile, del resto, con lo stesso esercizio della loro incidenza). Movimento vocato ad adempiere in senso costitutivo il raggiungimento sostanziale della sovranità, vertebrandola internamente, indirizzandosi verso il campo della società civile e coinvolgendone intrinsecamente le branchie a partire dal duplice raccordo dovuto alla presenza delle funzioni amministrative ed alla molteplicità delle cerchie-corporazioni. Giacché queste ultime operano in qualità di anello di congiunzione fra la società civile – che, in sé, rimane nella scissione riflettente – e la compiuta ricomposizione mediatrice della statualità. Esse stesse presentano al loro interno una composizione organica. Ogni corporazione, cioè, si configura in qualità di totalità organica, ed il loro insieme scorre verso la totalità più vasta dello Stato senza che ciò comporti l’annebbiamento dei reciproci confini e delle parzialità specifiche. La complessa scansione delle loro funzioni esige di essere ulteriormente accostata, nell’insieme differenziato delle componenti, a quella circostanziata dal ceto statuale-sostanziale ed a quella, che vi intrattiene un intimo vicolo, dello ‘stato’ universale dei funzionari, dei ruoli burocratici. La corporazione, dice Hegel al § 229, designa una «totalità limitata, ma concreta»16, ed il suo «fine» – si afferma ancora nel breve ma decisivo passaggio rappresentato dal § 256 –, a fronte, appunto, dello statuto

16. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 229, p. 182 (corsivo nostro).

88

«limitato e finito» che la cifra, «ha la sua verità […] nel fine universale in sé e per sé e nella realtà assoluta di esso». In virtù di ciò «la sfera della società civile trapassa […] nello stato». Osserviamo: abbiamo di fronte agli occhi ancora una ragione di complicazione del movimento di costitutivo raccoglimento nell’unità statuale. Il duplice raccordo dovuto alla presenza di competenze e dispositivi ‘amministrativi’, da un lato, e delle cerchie corporative, dall’altro, si distende in modo tale che le mediazioni intramanti la realtà di queste ultime si ricompongano, esaltandosi e compiendosi, nella medesima unità sovrana dello Stato. Cosicché ogni corporazione, a partire dalla ‘limitata’ totalità concreta che la definisce, vi riconosca la finalità della propria disposizione, collocando organicamente la propria parzialità nella totalità infinta dovuta al vertice della mediazione costitutiva ed istituitrice della statualità. È un aspetto di cui siamo in condizioni di ottenere ancor maggiore riscontro considerando da vicino – come, del resto, è certo necessario fare – il tema della confluenza del momento soggettivo e del momento oggettivo. La giustificazione del trapasso dalla sfera della società civile a quella dello Stato è, infatti, preceduta, al § 255, dalla precisazione della saldatura nella corporazione del momento soggettivo e del momento oggettivo, comune alla esaustiva totalità designata dalla dimensione statuale. In assenza della possibilità di mediare ulteriormente giusto la confluenza mediatrice di universale e particolare, soggettivo ed oggettivo nella corporazione non si darebbe né tale effettivo trapasso – lasciando isolata ed inerte la portata di Entzweiung della presenza delle determinazioni proprie del reticolo della società civile –, né, parimenti, l’innesco dovuto al radicarsi ‘etico’ in quest’ultima dello Stato, che, d’altra parte, vi rinvia in qualità di fondamento. Se, cioè, nella corporazione convergono la particolarità riflessa in sé del ‘sistema dei bisogni’ – che, comunque, sussiste in forza della mediazione prima facie, la quale lo penetra diffondendosi giusto nel pie-

89

no dello strutturarsi delle corporazioni e per loro tramite – e l’astratta universalità del diritto e delle istituzioni pertinenti17, lo Stato potenzia al massimo il concreto porsi della totalità organica espresso in nuce da tale convergenza unificatrice, inscrivendone le molteplici manifestazioni in un orizzonte di visibilità più alto ed ampio. Per dirla ancora con le parole del Nostro, la corporazione «unifica in modo interiore» momento soggettivo ed oggettivo, «che dapprima nella società civile sono scissi nella particolarità riflessa entro di sé del bisogno e del gradimento e nella astratta universalità giuridica, così che in questa unificazione il benessere particolare è come diritto e realizzato»18. A differenza della famiglia che, pur essendo anch’essa ‘radice’ dello Stato, risolve la particolarità nell’universalità, ‘contiene’ – enthält – i due momenti, nella corporazione vi è Vereinigung, vi è la loro unificazione ‘speculativa’19. Questa, com’è chiaro, diviene possibile in virtù del determinarsi della scissione. La particolarità configurata dal bisogno e l’universalità astratta del diritto e dell’apparato giuridico che si erano poste all’insegna della Scheidung, della Entzweiung (a differenza della famiglia, nella quale ha avuto luogo la fusione ‘sostanziale’ di universalità e particolarità), attraversandola al massimo grado di acutezza, trovano il loro momento di interiore riconnessione dinamica nella corporazione. Ancora una volta, il suo strutturarsi corrisponde, anzitutto, ad una logica di movimento interno a carattere riflessivo. Ognuno dei due estremi, infatti, risponde alla necessità di integrare l’altro, cur-

17. Cfr. in merito, G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, cit., p. 53. 18. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 255, p. 193. 19. Sul tema restano valide le considerazioni di E. De Negri in Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze 1942, p. 48; ma cfr. anche G. Ceserale, La mediazione che sparisce – La società civile in Hegel, Carocci, Roma 2009, p. 368.

90

vandosi verso di esso e, dunque, riflettendone in sé l’esserci. La corporazione, cioè, conduce già ad un livello superiore la mediazione riflessiva che si fa strada, aspramente, all’interno del ‘sistema dei bisogni’20. Se al suo interno la mediazione agisce secondo i termini della determinazione – tramite il lavoro e la costruzione mercantile – di nessi obiettivi di interdipendenza, nella corporazione giunge ad attuarsi un avanzamento tale per cui il carattere di eticità consiste proprio nella circoscritta configurazione della unificazione tra universale e particolare. Diviene spiegabile, così, il suo strategico, insostituibile concorso al medesimo trapasso verso lo Stato. Tanto le specifiche funzioni statuali che le cerchie corporative si articolano su un asse di scorrimento il cui ritmo è duplice. Giacché, se le cerchie-corporazioni trascendono e tolgono le determinazioni isolate dell’individualità, senza le quali non si darebbe il ‘sistema dei bisogni’ (la sua Desorganisation), parimenti, questa dinamica – che vertebra l’interdipendenza – si estende in ordine alla piena comprensività delle mediazioni in cui consiste l’unità sovrana dello Stato. 2. Sulla base delle osservazioni formulate sin adesso dovrebbe divenire possibile acquisire come le varie implicazioni ed i vari precipitati dal problema del trapasso dalla società civile allo Stato non restino inevitabilmente avvolti entro una sorta di inestinguibile cono d’ombra – come invece autorevolmente sostenuto da parte di esponenti di primo piano della letteratura scientifica inerente (si faccia riferimento a Ilting21) – se si collegano i contenuti dei brani decisivi in merito delle Grundlinien – basti pensare ai § 255 e 256 – alle paradigma20. Cfr. in merito, sia pure con forti diversità euristiche e di analisi generale, Ivi, pp. 368-369. 21. K.H. Ilting, Sulla dialettica nella “Filosofia del diritto”, in Id., Hegel – La morale, il diritto, la politica, a cura di P. Becchi e di R. Morani, Morcelliana, Milano 2015, p. 83.

91

tiche osservazioni presenti nella definizione della sovranità moderna operata al § 278. Paragrafo che esige di essere atteso proprio nella sua posizione di culmine e compendio delle argomentazioni precedenti. Giacché i suoi contenuti rinviano al guadagno del plesso del ‘sistema dei bisogni’ come avente presente in sé l’incomprimibile sprigionarsi della scissione e della contraddizione, qualificabile anche all’insegna del reciproco respingersi delle determinazioni che, tuttavia, scorrono e si approfondisce sino, appunto, all’‘andare a fondo’ della loro riflessività proprio in quella prospettiva per cui esse non appartengono più alla essenza determinata della riflessione22. Ciò si deve alla realizzazione del fondamento in quanto «mediazione reale»23 che insorge, dipanandone i nessi, all’estremo delle determinazioni riflessive, ed avviando, vieppiù, il movimento che trova quale matura conquista il congiungersi di concetto ed esistenza. In verità, il sinolo tra fondamento e risultato si rivela stringibile a partire dalla collocazione discontinua ed asimmetrica di essenza e fondamento stesso. Infatti, l’essenza compare quale fondamento togliendosi in quanto tale, grazie al proprio automovimento, e facendo scattare l’oltrepassamento della pura mediazione riflessiva24. Massima importanza assumono, perciò, le seguenti considerazioni formulate in merito nella annotazione al § 256, cui già si è ampiamente accennato e che ora possiamo citare per intero: «Città e campagna, quella la sede dell’industria borghese, della riflessione che si risolve entro di sé e che isola, questa la sede dell’eticità che riposa sulla natura – gli individui che mediano la loro autoconservazione nel rapporto con 22. Cfr. in merito, fra gli altri, B. De Giovanni, La critica del fondamento nella “Logica” di Hegel, cit., p. 118. 23. G.W.F. Hegel, Scienza della Logica, cit., p. 76. 24. Cfr. B. De Giovanni, La critica del fondamento nella “Logica” di Hegel, cit., p. 116.

92

altre persone di diritto, e la famiglia – costituiscono» – dice Hegel – «i due momenti ancor ideali, dai quali vien fuori lo stato comune, come loro verace fondamento, e soltanto un tale sviluppo è la dimostrazione scientifica del concetto dello stato. Poiché nell’andamento del concetto scientifico lo stato appare come risultato, mentre esso si offre come verace fondamento, ne segue che quella mediazione e quella parvenza si toglie altrettanto ad immediatezza». Attenendoci al precipuo quadro della Rechtsphilosophie, il costituirsi della struttura interna della sovranità tramite il ruolo principiante assolto dalla mediazione riflessiva del molteplice delle determinazioni proprie di cerchie e funzioni già ravvisabili nell’alveo della società civile consente l’emergere dell’identità del fondamento in cui si radicano e, parimenti, son tolte. Così, il trapasso nello Stato si profila in quanto dimensione ove si accede all’infinità assolutamente libera ed ogni determinazione si trova riunificata e ricondotta alla sua interna dialettica. Dialettica che, a sua volta, squaderna al massimo grado la conversione di particolare ed universale esemplata nel perimetro della corporazione, secondo una dinamica di estrema espansione ed intensificazione delle mediazione medesima, chiamata a specificare il rapporto tra Stato e sfere finite. Un rapporto al culmine del quale l’unità statuale vede l’incontro di mediazione, identità e fondamento, e tale per cui arriva a configurarsi in quanto immediato-mediato. A ciò conduce il complesso snodarsi delle determinazioni verso la compiuta mediazione ed attraverso di essa. Nello scenario della mediazione si esplica, cioè, il loro toglimento e la loro peculiare reintegrazione nell’unità riempita dalla sostanzialità e soggettività del concetto. Il principale precipitato della concezione della razionalità dello Stato in esame è da ravvisarsi nella critica al risvolto, in definitiva, atomistico del diritto e della partecipazione politica gravante sull’intiero impianto del contrattualismo. Ad esso abbiamo alluso in precedenza, ed il suo contenuto si stilizza

93

nell’astratto isolamento delle singolarità, cui il pensatore tedesco oppone il riconoscimento della loro immissione nella struttura dell’eticità ove opera la mediazione. Al suo interno il livello dove, in prima istanza, gli individui fluiscono come una moltitudine atomistica scorre articolatamente, grazie all’innervarsi della mediazione, verso l’universalità. Donde la peculiare incidenza del compito delle corporazioni e, in ordine all’irradiarsi della sovranità, lo svolgimento della dimensione costituzionale in quanto in grado di sancire l’impossibilità di ridurre l’articolazione sociale ad «un mero agglomerato atomistico di individui (ein blosser atomischer Haufen von Individuen)»25. L’orizzonte in cui le determinazioni si isolano e si reciprocano togliendosi e ricomponendosi compiutamente nell’unità mediatrice, che fin qui abbiamo cercato di tratteggiare, giustifica il dispiegarsi dello Stato (scandito secondo i tre momenti del diritto costituzionale-interno; del diritto statuale esterno in cui sussistono le relazioni intrastatuali; della realizzazione intrinsecamente universale dello spirito oggettivo). Hegel osserva nella annotazione al § 303 che la «veduta atomistica, astratta», «perché lo ‘stato’ privato» venga «innalzato nel potere legislativo alla partecipazione alla cosa universale», deve scomparire di modo da dissolvere l’‘apparire’ «nella forma dei singoli» entro «la famiglia» così «come nella società civile, dove il singolo giunge ad apparire soltanto come membro di un universale». Lo Stato – prosegue il filosofo – «è essenzialmente un organizzazione di membri tali che per sé sono cerchie, e in nessun momento deve mostrarsi come moltitudine inorganica»26. Le cerchie sono coglibili, cioè, «per sé» ma trovano la loro effettiva ricomposizione e la loro verità nello Stato che, insieme, le toglie e le rinsalda ad un livello più elevato di unità; ‘radicandovisi’ in ragione dell’approfondirsi 25. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 225. 26. Ivi, § 303, Annotazione, p. 243.

94

del processo di mediazione (che esse stesse possono raccogliere prima facie) e della sua costitutiva (e ‘difficile’) relazione al fondamento. È in tal senso che le indicazioni avanzate al § 278 si congiungono direttamente alle chiarificazioni fornite al § 303, giacché la costruzione funzionale dell’unità statuale e quella delle sfere interne, determinate ‘per sé’, della società civile convergono a fronte della complessiva disposizione in prospettiva dialettica delle cerchie medesime. Trattiamo di una convergenza che intensifica al massimo, sempre di nuovo, l’incontro tra particolarità ed universalità, coglibile a muovere, appunto, dalle cerchie-corporazioni. In merito è utile porre mente alle specifiche osservazioni contenute al § 303: «Lo ‘stato’ universale» – dice Hegel – «[…] deve avere immediatamente nella sua determinazione l’universale come fine della sua attività essenziale; nell’elemento degli ‘stati’ del potere legislativo lo ‘stato’ privato giunge ad una attività e significazione politica. Ora, il medesimo non può più apparire qui né come mera massa indivisa, né come una moltitudine dissolta nei suoi atomi, bensì come ciò che esso è già, cioè differenziato nello ‘stato’ che si fonda sul rapporto sostanziale, e nello ‘stato’ che si fonda sui bisogni particolari e sul lavoro che li media […] Soltanto così in questo riguardo il particolare, reale nello stato, si congiunge veracemente con l’universale»27. Il brano richiederebbe un lungo commento, anche perché concentra molte delle questioni sin ad ora adombrate. Ci basti richiamare, nella presente occasione, come la «significazione politica» della statualità venga colta da Hegel in quella ‘immediatezza’ espressa dalla «determinazione» dell’«universale come fine della sua attività essenziale», ovvero – seguendo il § 278 – nel «fine dell’intero» in cui hanno da riconoscere la loro «medesimezza» la pluralità delle

27. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 303, p. 243.

95

cerchie, ma anche dei «particolari poteri» e delle particolari «funzioni». Tale ‘immediatezza’ – in congruenza alla complessiva architettura logica hegeliana – si dispiega, in effetti, grazie all’estremo svolgimento costitutivo della sovranità in quanto mediazione, la quale raggiunge, così, «la sostanza e la verace soggettività del concetto». Ovvero: a fronte del già sottolineato incrociarsi del versante delle funzioni statuali (amministrazione della giustizia ed ausilio burocratico-governativo), le quali fanno da giuntura specifica fra società civile ed organizzazione interna della statualità, con il versante della stessa, peculiare composizione d’insieme della società civile. Cioè con lo ‘stato’ correlato ai «bisogni particolari» ed al «lavoro che li media». Qui diviene stringente – e non a caso Hegel vi rimanda apertamente – l’indicazione avanzata al § 201, per cui «i mezzi infinitamente molteplici e il loro movimento che si intreccia in modo parimenti infinito in vicendevole produzione e scambio si raccoglie grazie all’universalità immanente al suo contenuto e si distingue in masse universali, così che l’intera connessione si modella a sistemi particolari dei bisogni, dei loro mezzi e dei loro lavori, e delle maniere dell’appagamento e della cultura teoretica e pratica – sistemi ai quali gli individui sono assegnati», ovvero «a una distinzione degli ‘stati’»28. Le parole appena ascoltate confermano come la ricchissima modulazione della organizzazione interna alla società civile veda la compresenza di mediazione e scissione nell’ottica della universale espansione del moderno, la quale porta con sé il disporsi della trama della divisione del lavoro e del ruolo dei dispositivi burocratico-amministrativi alla luce del sinolo sempre più stretto tra accumulazione cognitiva, forme del sapere, costruzioni epistemiche, diffusione e distribuzione del potere. La formazione delle cerchie dà luogo, parimenti, proprio alla unificazione mediatrice commisurata all’attrito dell’Entzwe28. Ivi, § 201, p. 165.

96

iung, della Scheidung reagente nella pluralità dei bisogni, delle loro regioni, ed attraverso il determinarsi della parzialità delle cerchie stesse, nonché allo squadernarsi di legami di interdipendenza ove s’inscrive la soggettività. Nelle Stande e nei «sistemi particolari» si raccolgono e si scindono «le masse universali». Gli ‘stati’ – in quanto frutto dell’articolazione dialettica interna propria dell’ethos che permea lo stesso sistema dei bisogni (a cominciare dalla distribuzione della ricchezza e della molteplicità dei mezzi) – pervengono ad organizzarsi e disporsi già «secondo il concetto», ovvero designando la distinzione dei tre momenti dello ‘stato’ sostanziale, dello ‘stato’ riflettente-formale – corrisposto all’industria – e della compiuta universalità concreto-razionale già sedimentata nello ‘stato’ burocratico-funzionale29. Tale scansione, esposta nel § 20230, incarna ciò che nella ascoltata annotazione al § 256 Hegel indica quale l’«andamento del concetto scientifico» volgente verso la mediazione definita dalla sovranità in cui le sfere ideali e finite insieme reciprocano, appunto, finitezza ed infinitezza. Giacché, come abbiamo precedentemente accennato, l’infinità dell’idea affiora dal molteplice finito, di cui pure è il fondamento e il prius, in congruenza all’indicato vincolo di fondamento stesso e risultato. Al lume di una siffatta articolazione che ‘intenziona’ la mediazione statuale, compenetrandovisi, s’innesca l’organizzazione di «masse universali», le quali vi si immettono e, dunque, rendendo tangibile l’emancipazione dall’ipoteca dovuta al pericolo della dispersione nella mera condizione di un corpo amorfo,

29. Cfr. in merito, fra gli altri, G. Marini, Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella “Filosofia del diritto” hegeliana, cit., pp. 62-63. 30. Scrive appunto Hegel: «Gli ‘stati’ si determinano secondo il concetto come lo ‘stato’ sostanziale o immediato, lo ‘stato’ riflettente o formale, e infine come lo ‘Stato’ universale» (Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 202, p. 165).

97

monocromo e fluttuante. La differenziazione delle masse volge, invece, grazie al trapasso della società civile allo Stato, verso un livello più alto di ricomposizione, il quale svela l’incompatibilità tra l’idea indeterminata di Volkssouveränitat – pur da collocarsi, con Rousseau (autore rispetto a cui le presenti considerazioni hegeliane andrebbero riconnesse criticamente e confrontate con quelle formulate nelle Lezioni sulla storia della filosofia, ove, ad ogni modo, troviamo fissata la convergenza razionalità-volontà in quanto innesco del «principio di libertà»31), con la sua medesima volonté générale, alla base effettiva della concezione politica moderna orientata alla formazione del principio democratico (intesa in tutte le sue possibili ambiguità) – ed il reale sviluppo del medesimo mondo moderno, a cominciare dalla relazione fra la dinamica costruzione interna della società civile e l’unità statuale. Nel commento al § 303 Hegel torna a richiamare, come sappiamo, la figura dell’‘organismo’ allo scopo di giustificare tale esito, per poi proseguire: «I molti, come singoli, la qual cosa si intende volentieri per popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto come una moltitudine, una massa soltanto elementare, irrazionale […] Come in relazione alla costituzione s’ode parlare ancora del popolo, di questa collettività inorganica, si può già sapere, in precedenza, che c’è da aspettarsi soltanto generalità […] La rappresentazione che dissolve le comunità già sussistenti in quelle cerchie, allorché esse entrano nella sfera politica, cioè nel punto di vista della suprema universalità concreta, di nuovo in una moltitudine di individui, tiene appunto perciò la vita civile e la vita politica separata l’una dall’altra, e colloca questa, per così dire, in aria, poiché la sua base sarebbe soltanto l’astratta singolarità dell’arbitrio e dell’opinione, e quindi

31. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, a cura di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze, III-2, 1973, p. 262.

98

l’accidentale, non una base in sé e per sé stabile e legittima»32. Ciò che Hegel rimprovera con efficacia al costituzionalismo a lui contemporaneo, plasmato sull’idea di ‘volontà popolare’, consiste, insomma, nell’insistere, in vero, sulle coordinate di una concezione atomistica della moltitudine-popolo, stringibile soltanto attraverso l’artificio del contratto, senza visualizzare l’universale concreto definito dalla interdipendenza instaurata – si potrebbe dire – attraverso la Disorganisation come organizzazione della scissione che il ‘sistema dei bisogni’ della società civile articolata e che la mediazione sovrana dello Stato ulteriormente, e compitivamente, approfondisce. La sovranità statuale, cioè, sulla scorta dell’approssimarsi della convergenza di universale e particolare entro la pluralità delle corporazioni, porta definitivamente ed apertamente ‘ad esistenza’ la mediazione, sì da superare ogni infirmante pericolo di inchiodare il molteplice alla sua «collocazione astratta» e da trasformarne, vieppiù, debitamente, i nessi in un verace «rapporto razionale». Di qui, del resto, l’adeguata giustificazione – coerente con il ruolo complessivo e vivente esercitato dal sillogismo nell’ottica della compenetrazione hegeliana fra logica e realtà – della funzione di termine medio assolta dalle Stande «tra il governo in genere da un lato, e il popolo dissolto in individui e» mere «sfere individuali, dall’altro lato». Nel loro profilo cominciano ad incontrarsi Gesinnung rivolta al governo e parzialità degli interessi; rendendo impossibile dissociare ‘vita politica’ e ‘vita civile’. Occorre tornare a battervi: la «funzione della mediazione» (die Funktion der Vermittlung), trovante un approdo formativo nella sovranità come risultato, restituisce la piena incidenza degli ‘stati’ secondo la veduta della totalità, ovverosia della connessione organica.

32. Id., Lineamenti di filosofia del diritto, § 303, Annotazione, p. 243.

99

3. In tale chiave, appare persuasiva la tesi di De Giovanni, in contrasto con quella di Ilting33, per cui nelle lezioni di filosofia del diritto tenute secondo il manoscritto Vannenmann ad Heidelberg, nel corso del biennio 1817-1819, non è da ravvisarsi il profilarsi di una concezione monarchico-costituzionale – ispirata a Costant ed ai doctrinaires francesi –, poi sostituita con quella incardinata sulla contrazione del potere nel monarca – donde il richiamo alla ‘sovranità’ –, bensì l’innalzamento del livello simbolico riferito alla strategicità della mediazione stessa. Nelle lezioni Vannenman chi giuoca il ruolo centrale è la formazione della società civile34. La questione meriterebbe, in vero, una accurata trattazione. Basti dire che la funzione di termine medio viene assolta direttamente dal potere governativo perché – come leggiamo al § 141 del loro corpus – «si possa conservare il benessere delle cerchie particolari nella loro particolarità», di modo da garantire «che esse esistano» e siano ‘riconducibili’ «all’universale». «Nel potere governativo» – dice ancora Hegel – occorre «considerare», primariamente, «la conservazione del tutto nelle sue sfere particolari, così che le singole parti non agiscano contro l’universale»35. A questa altezza, Hegel sembra sentire con tale forza l’urgenza teorica di inquadrare la dimensione della società civile, la portata di ciò che vi pulsa dentro, da designare uno scenario ove il problema più bruciante appare quello di far confluire coerentemente le istanze che ne contraddistinguono le cerchie nell’orizzonte dell’universale. Alzare il livello della mediazione in 33. K.H. Ilting, Commentario, a G.W.F. Hegel, Die Philosophie des Recths: d. Mitschr. Wannenmann (Heildelberg 1817-1818), Struttgart, Klett-Cotta, 1983, tr. it. Lezioni di filosofia del diritto secondo il manoscritto Vannenmann (1817-1819), a cura di P. Becchi, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1993, p. 416. 34. B. De Giovanni, Elogio della sovranità, cit., pp. 81-86. 35. G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia del diritto secondo il manoscritto di Vannenmann, cit., p. 238.

100

virtù della introduzione apertis verbis della categoria di ‘sovranità’ consente di non rimanere impigliati nel puro esercizio della funzione del «potere governativo», cogliendo, altresì, la dinamica del passaggio dalla compresenza di scissione e mediazione (donde la conflittualità e la parzialità entro la società civile e, al contempo, il ruolo di medesimo termine medio da questa assolto) al pieno squadernarsi di quest’ultima. La mediazione si precisa, coincidendo con la sovranità, in qualità di fondamento e risultato. Conseguentemente, si spiega anche la saldatura e la continuità tra sovranità statuale e Verfassug, di cui il ‘sovrano’ – colui che segna il vertice effettuale della mediazione svolta, ossia, stando alla fortunata immagine presente nella appendice seconda apposta da Gans, il ‘puntino sulla i’ – è il custode. Egli raccoglie in sé, effettualmente, l’incontro tra mediazione coincidente con l’unità statuale e razionalità della costituzione. Questa non può essere concentrata, nella sua univoca artificialità, in una dimensione separata, ma si rivela l’esito del contenuto intrinsecamente storico della mediazione, ‘ordinando’ la differenziazione di poteri e funzioni politiche. Esito capace di consentire che la vitalità del popolo, del demos acquisti forma. Il nesso mediatore tra uno e molti diviene, quindi, la chiave per dare nerbo e corpo al patriottismo costituzionale. Dice apertamente Hegel nell’annotazione al § 289 delle Grundlinien, in un passo a nostro avviso davvero straordinario: «Lo spirito di corporazione, che genera sé nella legittimazione delle sfere particolari, si rovescia entro se stesso in pari tempo nello spirito dello stato, giacché esso ha nello stato il mezzo del mantenimento dei fini particolari. Questo è il segreto del patriottismo dei cittadini nel senso che essi sanno lo stato come loro sostanza, perché mantiene le loro sfere particolari»36. A fronte delle

36. Id., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 289, Annotazione, p. 233.

101

presenti considerazioni non possiamo certo considerare l’idea di ‘totalità’ del corpo politico avanzata da Hegel quale scarsamente avvicinabile al compiuto concetto moderno di sovranità, poiché già contraddistintiva della polis greca o della ‘res pubblica’ nella stessa prima età moderna, come voluto, invece, da alcuni interpreti37. L’irrompere del mondo e delle libertà dei moderni preme, a nostro avviso, sulla Rechtsphilosophie di Hegel, inducendolo a fare dell’idea, spesso assegnabile ad una certa, esemplare figura della ‘fissità’ ove si concentra la politica, quella della sovranità, l’approdo dinamico della razionalità della mediazione. Con Hegel si corrode, insomma, ogni possibilità di identificare, linearmente e direttamente, la sovranità con il posto del sovrano, e si approssima la centralità del ruolo della costituzione politica, come si legge, d’altra parte, nell’annotazione al § 272. Al suo interno il grande pensatore tedesco asserisce: «Il principio della divisione dei poteri implica il momento essenziale della differenza, della razionalità della sua realtà. Quando però questo principio viene colto dall’intelletto astratto, allora vi risiedono sia la determinazione falsa dell’autonomia assoluta (absolute Selbständigkeit) dei poteri l’uno rispetto all’altro, sia l’unilateralità di intendere il loro rapporto reciproco come […] limitazione reciproca». Hegel prende le distanze, in definitiva, dalla concezione liberale classica della divisione dei poteri, dimostrando – come si è accennato – non la loro indipendenza, la loro “autonomia assoluta”, bensì il loro vincolo obiettivo nella differenza entro il quadro della razionalità costituzionale.

37. Cfr. la tesi espressa da G. Duso nel volume – complessivamente davvero ottimo, a nostro parere, e, parimenti, tutto da discutere – Libertà e costituzione in Hegel, F. Angeli, Milano 2013, p. 210.

102

103

Sovranità: logica del fondamento e fondamenti della logica Giulio Goria

1. A volere dare un peso alla logica che il titolo di sovranità richiede di mettere in campo, si fa una qualche fatica a prescindere dalle parole che Ernst-Wolfgang Böckenförde ha speso sullo Stato liberale. Solo che noi non vorremmo qui di seguito assumerle come una più o meno pertinente definizione del potere sovrano data da un costituzionalista tedesco dopo la ferita occorsa a metà del secolo scorso. Piuttosto, come titolo di invito per la filosofia a fornirne un’esposizione comprensiva. Il detto ben noto di Böckenförde recita: «lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire»1. Vale a dire, lo Stato che ha la sua ragion d’essere non nell’origine storica, né in una fondazione divina, né tanto meno nel servizio della verità, corre un rischio quintessenziale. Giacché da un lato, la libertà concessa al cittadino ha bisogno di una sua regolazione, dall’altro lo Stato non può garantirla

1. E.-W. Böckenförde, La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione, in Diritto e secolarizzazione: dallo Stato moderno all’Europa unita, a c. di G. Preterossi, Laterza, Roma 2007, p. 53.

104

con i mezzi esclusivi della costrizione giuridica e del comando autoritario. Pena disperdere quel nocciolo liberale derivante dall’emancipazione della sostanza, che lo Stato incarna e tutela, rispetto ad autorità e obbligazioni come tali invece assolute, cioè non scambiabili. Come evidente, il diktum contiene e presuppone un passaggio di metafisica importante per la concezione dello Stato. Quello per cui lo Stato risulta dal patto di individui liberi che dopo l’esperienza di guerra di tutti contro tutti decisero di convenire sull’utilità di strutturarsi in un organismo istituzionalegiuridico che li serva garantendo la pace. Non c’è bisogno di insistere su questo snodo incarnato teoricamente dalla costruzione di Hobbes; d’altra parte, è proprio un grande suo lettore ed interprete, come Carl Schmitt, a rilevare una difficoltà non marginale a proposito di questa trasformazione dello Stato in una costruzione che mira alla perfetta autosufficienza. Lo Stato agnostico – chiede Schmitt – che ha emancipato il diritto statuale dalla dimensione escatologica a cui la tradizione giudaico-cristiana lo aveva sospeso come sarà in grado di prosciugare il credito di legittimazione che la dimensione interiore, detentrice di valori non scambiabili, può offrire? Può questo Stato, già liberato dal fondamento divino del proprio atto politico costitutivo, liberarsi anche dall’esigenza che la sua autorità (cioè, la capacità di fare la legge e di farla rispettare) metta capo ad una ideologia statale, ad esempio, o alla proclamazione di un sistema di valori? Era il 1967 quando Böckenförde formulò il paradosso citato di uno Stato che richiede premesse e presupposti, morali e religiosi, che non può iniettare nel corpo sociale, senza violare il principio di neutralità laica su cui invece si regge. Da allora da più parti è stata percorsa l’idea che qui ci si trovi davanti ad un’aporia e che essa debba in qualche modo essere risolta, conferendo in punta di teoria stabilità e fondamento a quelle

105

premesse che lo stato liberal-democratico non riesce a garantire. Chiediamo: è quella un’aporia così stringente, una strada cioè senza uscita a cui è obbligo porre rimedio? Una falla da tamponare? Ed ancora, la domanda di fondamento non dovrebbe anch’essa produrre i caratteri e la misura della propria legittimità? Che è poi quanto, almeno a partire da Kant, la filosofia non ha mai mancato di fare e che dunque situerebbe il problema entro una cornice non semplicemente disciplinare, almeno in senso stretto. D’altra parte, il nesso tra potere costituente e costituzione svolto da Böckenförde esibisce un accento dichiaratamente hegeliano, quantomeno nella misura in cui la mediazione da cui esso trae forza articola la reciproca appartenenza dell’eccedenza politica della realtà costituzionale e della sua forma giuridica. Nelle parole del giurista tale plesso possiede due diverse angolazioni possibili: «come questione genetica (l’idea di potere costituente) mira all’origine politica della costituzione, alla sua procedura di formazione. Come questione di teoria del diritto si rivolge al fondamento normativo di validità della costituzione»2. Non una forza di arbitrio isolata è  «il potere costituente del popolo», ma un’articolazione di coscienze giuridiche, progetti politici, legami etici e nazionali. Una fonte dunque di legittimità per una norma fondamentale giacché articolata in una forma determinata della relazione di comando e ubbidienza3. Una tappa teorica, questa segnata da Böckenförde, di indiscutibile rilievo, se si è disposti a riconoscerle la chiarezza con cui la stoffa costituzionale viene ricucita sull’ordito dei concetti di unità e fondamento. E d’altra parte è difficile non cogliere come parimenti il suo svolgimento si 2. E.-W. Böckenförde, Il potere costituente del popolo, in Stato, costituzione e democrazia, a c. di M. Nicoletti e O. Brino, Giuffrè, Milano 2006, p. 233. 3. In merito si veda: B. De Giovanni, Elogio della sovranità politica, Editoriale Scientifica, Napoli 2015, pp. 189 e ss.

106

muova pienamente all’interno di quella compagine, teorica e storica, per cui il potere costituente ha acconsentito ad una consistente limitazione delle proprie prerogative, sottoponendosi anzitutto a barriere incluse nell’atto di costituzione di uno Stato. Barriere rappresentate da garanzie costituzionali e dalla sanzione dei diritti universali. A prescindere, però, da quanto grande sia il serbatoio di obiezioni che si possono trarre verso una distinzione netta sino alla plasticità tra teoria dell’unità della costituzione (per Bobbio valeva anzitutto il caso hegeliano) e costituzionalismo come garanzia delle libertà individuali, risulta decisivo, ben di più, il bisogno di una logica del fondamento occorso nell’impresa istitutiva la mediazione tra legittimità e legalità. 2. Ne risulta, dunque, un ulteriore aspetto del rapporto tra legalità e legittimità così come solitamente viene inteso, vale a dire rispetto allo scarto che ostacolerebbe la circolarità perfetta tra le due. A scorgerla rettamente, infatti, la cosa dovrebbe dirsi piuttosto in questi termini: la legalità è semplice, rigida, vuota legalità non in sé, ma soltanto grazie alla richiesta di fondamento che la trascende. D’altra parte, il fondamento non è qualcosa che se ne stia lì a parte dalla sua impresa fondativa; più precisamente: non si può dire che il fondamento manchi, prima che la domanda sul fondamento sorga. C’è un vuoto, un buco, una frattura, ma il vuoto non c’è prima che esso venga perlomeno additato, inquisito semmai, ed al limite accusato. V’è allora la domanda, e sul limite in cui essa accade, sorge insieme lo statuto di un regime e di una compagine che soffre di una mancanza a cui potrebbe porre rimedio solo contraddicendosi. Messa in questi termini la questione paradossale della liberal-democrazia sollevata da Böckenförde assumerebbe una connotazione differente?

107

Per quanto tutte queste potrebbero sembrare discettazioni verbali su un contenuto che nella sostanza non cambia volto, resta il fatto che sin da Platone la ragione filosofica si eserciti non tanto in forza della peculiarità delle cose sapute, quanto anzitutto in forza dei discorsi sopra queste idee stesse, «quell’attività che pare inutile e dai molti viene definita chiacchiera» (Parm., 135 d). Ed in realtà, soltanto a non volere essere troppo affezionati a partizioni disciplinari stagne, v’è da chiedersi se non sia possibile riferire un’esigenza di questo tipo al ricorso, da parte di Kelsen, alla categoria specificamente giuridica della Zurechnung, tale che essa denoti per la scienza pura del diritto la connessione tra sanzione e illecito come relazione costitutiva di ciò che è significato da una norma giuridica4. Come non è indifferente l’accadere della domanda in cui la mancanza di fondamento può essere esibita, parimenti in un orizzonte propriamente kelseniano non lo è il fatto che la forma pura indichi l’accadere della normatività come significato giuridico prodotto dalla categoria dell’imputazione. Nessuna astrattezza o vuotezza della forma pura dunque, che invece come tale possiede un suo peculiare contenuto. Il contenuto, cioè, della forma, come ciò che istituisce la possibilità di un significato giuridico per ogni materia, indipendentemente dalla varietà di ciò che è indicato negli enunciati normativi. È, dunque, su un’istanza di methodo che riposa l’avvertimento critico della Dottrina pura del diritto, nella misura in cui si mostra consapevole dell’operatività a partire da cui la validità del giuridico è istituita; una validità che non perde, in alcun modo, il carattere di oggettività e positività che appartengono alla scienza del diritto, ma di cui però è conser-

4. S.J. Paulson, Il problema della giustificazione nella filosofia del diritto di Hans Kelsen, tr. it. G. Luchena, Giappichelli, Torino 2014, p. 26. Si veda anche Normativity and Norms. Critical Perspectives on Kelsenian themes, ed. by S.J. Paulson e B. Litschewski Paulson, Clarendon Press Oxford, 1998.

108

vata la radicale relatività. Con ciò Kelsen può affermare che le qualificazioni giuridiche – i diritti soggettivi, gli interessi privati, le libertà politico-giuridiche – hanno esistenza nei limiti della loro appartenenza ad un determinato ordinamento (e dunque della loro discendenza dinamica da una stessa norma fondamentale) soltanto a partire dal riconoscimento che tutte le imputazioni possibili, riconducibili ad ogni sistema giuridico possibile, pur attribuendosi ai rapporti e agli interessi vitali, non cadono nel paralogismo di presupporne il carattere naturalmente politico o giuridico. È proprio in questa consapevolezza critico-riflessiva che, secondo Simone Goyard-Fabre, risiederebbe per Kelsen la possibilità di «una genealogia della logica giuridica che sfugge ad ogni naturalismo»5. Naturalismo che invece non sarebbe evitato dall’operazione di arretramento che «il politico» schmittiano instaura. Il cui nucleo decisivo, infatti, risiede nel risalire ad una purezza precedente la normale validità dell’orizzonte normativo, con il risultato, però, di occupare un ambito – quello dell’opposizionalità decisiva amico/nemico – che si assume come quello naturalmente politico6. Messa dunque in relazione con la sovranità schmittiana, la stessa notissima critica rivolta da Kelsen alla nozione basilare della scienza costituzionale avrebbe la sua condizione di possibilità nella presa di consapevolezza grazie a cui anche l’opposizionalità polito-logica soggiace ad un’operatività giustificativa che solo illegittimamente può considerarsi naturale; e cioè, a condizione che la forza istitutiva propria del discorso 5. S. Goyard-Fabre, Kelsen e Kant. Saggi sulla dottrina pura del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1993, p. 61. 6. C. Schmitt, Der Begriff des Politischen, Duncker und Humblot, Berlin 1979, p. 65; Il concetto del politico, in Le categorie del politico, a c. di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 144. In merito J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995, cap. V; ed anche H. Meier, Carl Schmitt e Leo Strauss. Per una critica della Teologia politica, a c. di C. Badocco, Cantagalli, Siena 2011, pp. 75-6.

109

che dell’amico-nemico fa la logica originariamente fondativa non venga considerata e qualificata come quel discorso che invece è, e nel cui limite operativo – o performativo – soltanto il suo potere istituente può e deve valere. Vale a dire, è nella prassi istitutiva che il potere del politico trova la sua fonte, la sua risorsa fondativa, ma questa proprio – la forza performativa – è insieme il limite da cui il discorso istitutivo non può scostarsi. D’altra parte, nello stesso Kelsen la critica alla logica circolare della fondazione dell’ordinamento ha solo il punto d’avvio nella definizione della normatività come forma pura grazie a cui ogni norma assume il suo senso di norma. Per giungere poi all’esposizione della dinamicità dell’ordinamento e del necessario arretramento alla norma fondamentale, plesso così tanto interpretato, e dai prosecutori e critici del giurista, su cui ci riserviamo alcune riflessioni. 3. Cade l’opportunità di osservare che il problema epocale, schmittiano ma non solo, di recuperare un’unità sovrana alla dinamica costituzionale, si tramuta per Kelsen in quello di saldare il concetto di sistema e di ordinamento positivo, garantendo la coincidenza fra teoria dell’unità e unità reale di un ordinamento7. Unità che non può più essere presupposta come il risultato di una presunta razionalità di ogni sistema di diritto positivo, mentre va raggiunta piuttosto come unità positiva costruita attraverso la pluralità normativa, in modo cioè che ogni norma abbia un significato all’interno di un sistema di norme. Vale a dire, ogni norma è solo all’interno di un sistema di differenze o di rimandi. In riferimento all’ordinamento come unità dinamica del sistema di norme emerge la caratte7. In merito si veda: G. Zarone, Crisi e critica della Stato. Scienza giuridica e trasformazione sociale tra Kelsen e Schmitt, Esi, Napoli 1982, p. 160 e ss.

110

rizzazione principale della norma fondamentale, che Kelsen mantiene lungo l’intero corso della sua attività, cioè sin dalle prime formulazioni contenute in Das Problem des Souveranität (1920) sino ad arrivare alla Dottrina pura del 1960. Il che non significa che non siano presenti sfumature all’interno della miriade di formulazioni che la Grundnorm ha avuto, ma che esse si riferiscono essenzialmente a due aspetti speculari della norma giuridica: in quanto processo, cioè come autorizzazione a produrre una norma giuridica, ed in quanto prodotto, ossia la norma giuridica valida che ne deriva. È dunque ben legittimo caratterizzare la norma fondamentale secondo la sua funzione rispetto all’autorizzazione a produrre norme giuridiche, rispetto all’autorizzazione ad imporre sanzioni, in quanto base ultima della validità giuridica di una norma (dove validità intende l’appartenenza della norma al sistema giuridico determinato), o ancora in quanto condizione del passaggio dal senso soggettivo di un atto a quello oggettivo. Tutte queste definizioni, tutte peraltro ben riscontrabili nel testo kelseniano, dipendono però dal potere creativo o “autorizzante” le norme che la Grundnorm viene ad assumere in un sistema dinamico8. D’altra parte la caratterizzazione della norma fondamentale secondo la validità, cioè come condizione per provare l’appartenenza di una norma specifica all’ordinamento che mette capo ad una determinata Grundnorm non è che la necessaria conseguenza di un sistema formulato gerarchicamente: la validità della norma risulta dall’essere stata emanata attraverso l’esercizio dei poteri conferiti dalla norma autorizzatrice, specificata dalla norma fondamentale9.

8. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge 1945; Teoria generale del diritto e dello stato, tr. it. S. Cotta e R. Treves, Etas, Milano 1994, p. 114. 9. Paulson a queste distinzioni ne aggiunge ancora due, quella di significanza e di coerenza normativa, che trovano però meno spazio in Kelsen, di

111

Detto questo, che concerne in fondo la norma fondamentale a cui mette capo e da cui discende la pluralità di fonti del diritto gerarchicamente ordinate, non si esaurisce però il senso del valore epistemologico della norma fondamentale. E cioè il senso che Kelsen attribuisce a quella Grundnorm che non è un atto di imperio che obbliga e prescrive, autorizza e vieta. Se le due non vanno confuse, si intenda però ora in via preliminare la questione da cui i due piani della considerazione sorgono. Ed infatti proprio eliminando il ricorso ad una supposta razionalità del sistema normativo come tale, rimane il problema di come una tale unità possa essere sorta. Non è però ora in discussione la possibilità teorica di accogliere l’eventualità che una rivoluzione violenta ed “illegittima” veicoli un mutamento di ordinamento nei suoi positivi contenuti costituzionali. Quale che sia l’occasione positiva della nuova instaurazione, la ragione giuridica insediata contiene e si costituisce sopra la propria normatività, che si sviluppa secondo norme generali, particolari e singolari, come riconosce Kelsen estendendo al massimo il concetto di produzione del diritto10. Normatività ora indica la forma pura grazie a cui ogni norma assume il suo senso di norma, ma la cui purezza per quanto essenziale mai si vede e si percepisce come tale, sempre, ed inevitabilmente, veicolata da un contenuto risalente ad una volontà, ad una decisione. La Grundnorm in questo determinato significato non è una norma determinata che fondi le norme successive, poicui lo studioso produce anche i riferimenti testuali (cfr. Il problema della giustificazione, Id., op. cit., pp. 47 e ss.; in merito si veda: G. Carcaterra, Le norme costitutive, Giuffrè, Milano 1974, p. 108; ed anche A. Catania, Il problema del diritto e l’obbligatorietà. Studio sulla norma fondamentale, Esi, Napoli 1983, p. 40 e ss. 10. Di parere opposto, nella conclusione, è Bobbio secondo cui giunti al vertice del sistema, dove non c’è più distinzione tra potere e diritto, il problema del cominciamento diventa indifferente; si veda: N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Esi, Napoli, p. 139 e ss.

112

ché invece rappresenta «la condizione logico-trascendentale» per cui è possibile riconoscere la norma – anzitutto la norma costituzionale – come dotata di quell’immagine oggettiva di norma11. Donde ne derivi dunque la sua immagine normativa, il suo senso di norma che consenta di distinguerla dal semplice atto di imperio. Se viene meno questo duplice senso della Grundnorm – che non significa duplice significato, ma solo la distinzione tra senso operativo-autorizzante della norma fondamentale e riflessione della conoscenza sullo statuto di tale potere – si correrà facilmente il rischio di attribuire a Kelsen la derivazione dal concetto di normatività e validità giuridica, contenuto nella Grundnorm, dell’obbligo che quest’ultima imporrebbe ai soggetti di obbedirvi12. 4. All’interno del sillogismo kelseniano, pensata è la norma fondamentale in quanto è necessario ricorrervi per interpretare una norma in quanto norma: per avere a che fare con una norma è necessario prenderla normativamente, che poi significa in quanto istituita da una autorità a cui è-dovuta l’obbedienza da parte dell’esecutore e del destinatario della legge in forza di una norma precedente. Soltanto che moltiplicando il ricorso alle norme, o rendendone più fitta la stratificazione, si continua a mancare inesorabilmente il traguardo: il coglimento del primo segno normativo, che ci dia la ragione per distinguere le norme che da essa derivano dai semplici atti di imperio. A

11. H. Kelsen, Reine Rechtslehre, F. Deuticke, Wien 1960; La dottrina pura del diritto (DP), a cura di M. Losano, Einaudi, Torino 1966, p. 227. 12. È questa la tesi di J. Raz che imputa a Kelsen una “normatività giustificativa”, cioè la parificazione di una norma ritenuta vincolante ed una norma vincolante in quanto portatrice di un valore; si veda: J. Raz, Kelsen’s Theory of the Basic Norm, Id., in Norms and normativity, cit., p. 60, e pp. 243-44.

113

quella condizione logico-trascendentale non arriveremmo mai andando in cerca di una prima norma che sia...voluta, e cioè una norma! Il ricorso alla norma «pensata e presupposta» allora è una scelta obbligata secondo ragione, giacché la norma ‘prima’ per imporre l’imperatività delle norme deve essere già imperativa di per sé e non per altra norma precedente. La normatività allora si mostra nella condizione logico-trascendentale – la premessa maggiore del sillogismo – come ciò che da cui discende la necessità del rimando normativo. La definizione di “condizione” le deriva dal rappresentare essa un vincolo, ciò che è radice di una dipendenza; che non è la dipendenza della norma dalla sua fonte, perché è l’esatto opposto: il non poter dirsi la fonte del comando la ragione o la forza in virtù di cui senz’altro – in und für sich – è colmato lo spazio tra la norma ed il suo esserpresa come normativa. Quando ciò si dà, si dà il «fenomeno» del diritto, la cui efficacia però non toglie e assolve in alcun modo la dipendenza dell’ordinamento dal fatto della sua prassi istitutiva e dei modi della sua dominante interpretazione. A questo punto, si chiarisce la specificità del sapere della scienza pura del diritto, che è scienza sino al suo limite costitutivo, quello dell’interpretazione del fatto. In particolare rispetto alla critica mossa alla presupposizione della Grundnorm da parte di Hart, secondo il quale non reggerebbe il tentativo di rivolgere il criterio al fine di qualificare il criterio stesso. Nella norma di riconoscimento hartiana, che è il criterio che decide ciò che nell’ordinamento detiene validità, non è d’altra parte in questione la sua validità, ma «viene semplicemente accettata come adatta per essere usata in questo modo»13. In

13. H.L.A. Hart, The concept of law, Oxford University Press, 1961 New York, p. 94-5. In merito al circolo in cui la norma di riconoscimento incorre si veda: S. Fish, Doing what comes naturally. Change, Rhetoric, and the

114

questione non è la presupposizione della validità come in Kelsen, ma la questione sociologica relativa al comportamento dei funzionari. La norma «pensata» invece – il suo valore epistemologico – sta nel rilevare il limite dell’ordinamento nella sua stessa prassi performativa istitutrice. La norma obbliga perché obbliga in tanto che obbliga, e non vi sarebbe risorsa alcuna per fornire una ragione o una regola mediante cui il destinatario che non percepisce la sua forza obbligante potrebbe invece dovere percepirla. Giacché a quest’ultimo dovere si potrebbe senza dubbio giungere, ma al prezzo di una indefinita proliferazione di segni normativi, i quali però andranno tutti a potenziare la determinazione giuridica di quel sostrato indifferente che Kelsen incrociava nell’opera che mai pubblicò14. Dalla sua risorsa trascendentale si rivela come limite dell’obbligatorietà dell’ordinamento il suo – della norma – valere di fatto come norma e possedere di fatto la sua virtù e potenza normativa; lungo tutto il suo itinerario Kelsen mantenne senza ambiguità o riserve la convinzione di dover definire lo Stato a partire dal diritto, cioè sempre come Stato del diritto, non potendosi tale comunità distinguersi dall’ordine giuridico che la organizza. Se quanto detto ha un senso, lo Stato di diritto kelseniano non intende limitare o peggio sminuire la sovranità, essendo piuttosto volto a considerarla non concepibile se non nei termini della normatività. E ciò ben inteso non perché sia stato il primo a riconoscere la natura normativa del potere statale, bensì perché la norma fondamentale come practice of theory of literary and legal studies, Id., Duke University Press, 1989 Durham and London, p. 511-12. 14. H. Kelsen, Allgemeine Theorie der Normen, hrsg. K. Ringhofer u. R. Walter, Mansche Verlag, Wien 1979; Teoria generale delle norme, a c. di M. Losano, Einaudi, Torino 1985, p. 46. In merito: S. Vida, Sinn e Bedeutung della norma nell’ultimo Kelsen, Gedit edizioni, Bologna 2007, pp. 87-94.

115

normatività della norma consegna alla sovranità la sua natura decentrata, che altro non intende se non che la natura della sovranità è sempre una natura storica, segnata, non radicata e non proveniente da essenza “metafisica” e sostanziale alcuna; semplicemente perché tale natura da cui sarebbe partorita l’obbligatorietà dell’ordinamento non esiste, essendo invece nella situazione concreta, nella «pratica» (per utilizzare il termine di Hart) che la “corte” decide seguendo una regola. Una regola, attenzione, una norma: nessun cedimento al convenzionalismo soggettivistico è ipostatizzato dalla norma fondamentale, ma l’essere data nel mondo della norma. Nel mondo, diciamo utilizzando un’espressione certo non kelseniana, che si compone di norme e della logica che articola il segno normativo, a volere distinguere quest’ultimo dal semplice e muto fatto. 5. Quella indicata non è il solo ingresso possibile entro una “decostruzione” della logica giuridica del fondamento. Ora non interessano i termini che la questione del fondamento ha assunto in tutta la sua vastità. Molto di più, invece, come con essa possa sollevarsi il nodo della relazione tra politica e verità anche oltre (che non vuole dire al di là) i margini del dibattito sulla compagine liberal-democratica. Quanto all’orizzonte più vasto, basti allora ricordare che con la retrocessione operata dalla fenomenologia ai fondamenti antepredicativi della logica come luogo della verità e con l’impresa heideggeriana dell’analitica esistenziale cambia non solo la consistenza esistenzaleffettiva dell’io, ma proprio il senso, il verso e l’orientamento di quello che si attende come risposta alla questione del fondamento. Tutto ciò, per quanto riguarda Heidegger, coinvolge in un senso non secondario, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’30 ed in un modo non certo uniforme, il rap-

116

porto tra politica e verità, in quello che è un tassello della sua critica ontostorica al concetto politico di verità. Nel corso su Parmenide del WS 1942/43 Heidegger esamina un portamento “imperiale” che avrebbe assunto il modo in cui l’epoca moderna si fa carico politicamente della verità. Tutto ciò a partire da uno scostamento romano dal senso greco di quelle undeutsche Wörter che sono i termini wahr e falsch. Nell’epoca moderna il vero sarebbe caduto nella sfera della certitudo e della veritas con la conseguente attrazione del termine pseudós in riferimento al falso. Ma pseudós per i Greci non ha a che fare – ci dice Heidegger – con il comportamento dissimulatorio del soggetto, non significa il simulare nel senso dell’inganno, bensì è usato in relazione al segno e dunque al legein ed ai modi dell’aletheuein. Pseudós intende allora sì l’occultare e il velamento, ma nel modo per cui ciò che è celato si esibisce nella sua deformazione. Quel che era un effetto del tutto secondario, dunque, diviene per i romani l’opposto adeguato al vero. Il falsum come ciò che porta alla caduta, facendo sì che uno cada in errore, in difetto. Il falso circoscrive così l’ambito di quella condotta ingannevole e smaniosa di prendere con la menzogna vantaggio per sé. Qui cade l’indicazione preziosa per Heidegger: l’ambito essenziale che determina questa congiunzione è quello dell’imperium, del comando e dell’ordine. Il senso imperativo comporta di necessità il falsum come essere caduti in fallo. E cioè: al di fuori dell’ambito della caduta non vi sarebbe alcuna possibilità dell’imperativa ricostituzione dell’Ordine vero. L’ergersi al di sopra che rende possibile il comando implica che coloro su cui ci si erge verrebbero fatti cadere, quando si sollevassero all’altezza di colui che ha la forza del comando. Il detto vichiano del De uno, vale a dire: «ipsa auctoritas est

117

pars quaedam rationis»15, non potrebbe rappresentare meglio, secondo questa lettura, l’incontro tra verità e comando. La caduta dell’uomo storico fa sì che dell’Ordine egli possa dare testimonianza solo sottomettendo l’amore di sé o al «fas che significa l’ordine eterno delle cose, decreto e quasi voce della mente divina»16 o, in seguito, ai governi civili. Nel termine ius da iubeo – aggiunge Heidegger – v’è l’invio all’ascolto di una voce a cui ob-audire. La trasfigurazione politica della verità implicherebbe dunque che coloro che prendono parte all’Ordine, coloro cioè in cui germoglia ancora un seme di verità siano stati condotti ad una caduta che permette loro di dare testimonianza dell’Ordine, soltanto attraverso la custodia del suo comando per il tramite di una auctoritas. In questa prospettiva, Heidegger fa un passo ulteriore, poiché «il tratto più grandioso del potere» – scrive – non sta nel fatto che i dominati vengono repressi, ma nel potere che essi hanno di «offrire i loro servigi per assicurare la stabilità del potere»17. Potremmo continuare così l’argomento di Heidegger: da quel momento subjectum sarà colui che volontariamente si assoggetta ad un Ordine superiore che soltanto passando attraverso la sua mediazione si rivela. Cade qui la complessità del “termine”: da una parte la Persona, sia individuale sia collettiva (lo Stato), dall’altra il suddito, colui cioè che è sottomesso. Una sottomissione poi, quella strutturata nella circolarità Ordine-autorità-obbedienza, che non si esaurirebbe nel rapporto sovrano-suddito o nel «potere di spada» che quello esercita sulla vita e la morte dei sottoposti. Infatti, anche nella moder-

15. G. Vico, De Uno, in Opere giuriche, a c. di P. Cristofolini, Sansoni, Firenze 1974, p. 35. 16. Ib., p. 63. 17. M. Heidegger, Parmenides, GA 54, hrsg. M. Frings, 1982; Parmenide, tr. it. G. Gurisatti, a c. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 66/101.

118

na costituzione nazionale, in cui emerge quel nuovo soggetto che, unico, può assolvere il compito di custodire il mandato politico, pur sempre si tratterebbe di una sottomissione che giunge ad interiorizzare il dominio. L’uomo, da suddito che era rispetto al sovrano individuale, divenendo “cittadino”, risulta soggetto alla legge che egli stesso si è dato. L’articolazione sarebbe questa: soltanto se la legge è tolta nella sua esteriorità ed elevata nell’interiorità dell’operare del cittadino, membro del popolo nazionale che vuole la legge auto-imposta, soltanto a questa condizione i servigi di ciascuno vengono offerti nel nome della legge di tutti. All’interno dello Stato moderno, dunque, si completerebbe questo meccanismo di soggezione che è il portato romano dell’attribuzione al falsum del significato di fallere, dell’essere caduti in fallo. Che poi sarebbe semplicemente, dice Heidegger, un inganno operato dalla Verità che pretende di fare-comunità. E che lo fa inculcando nel suddito la cattiva coscienza di doversi liberare dalla sua individualità carnale e mortale per fare spazio al puro legislatore di una legge nella qualità di Costituzione. Nella conversione dei sudditi in cittadini si perfezionerebbe così l’elemento essenziale di questa gabbia d’acciaio: che i molti non si sentano più soggiogati a qualcosa di esterno a loro stessi, ma ad una Legge che il cittadino interiorizza nel suo volere più intimo, in modo che gli sia consentito di offrire le sue forze e i suoi servizi per prolungare il dominio. A voler rimanere al corso citato colpisce che i riferimenti ad Hegel siano pressoché nulli nell’articolare il circolo ontostorico della rappresentanza politica moderna. A maggior ragione se si considera che solo pochi anni prima, nel 1934, proprio alla Rechtsphilosophie hegeliana, Heidegger aveva dedicato un intero corso, investendo tutta la sua interpretazione sul nesso mediazione-rappresentanza. Se vi è un’ipotesi per vedere un tratto d’intesa tra queste due date, che ben inteso non richiede una continuità totale e priva di rotture, esso po-

119

trebbe essere formulata in questi termini: le parole sferzanti di Heidegger rivolte alla decisione decisiva con cui si instaura il politico schmittiano vogliono intendere che l’essere-insieme originario non sia l’amico-nemico, che questa sia una personalizzazione dell’essere in comunità asservita per Heidegger alla categoria liberale della persona in colui che decide. Ciò che interessa però non è tanto il giudizio su Schmitt né quello sulla liberal-democrazia, quanto piuttosto che in tale congiunzione non venga affatto meno per Heidegger l’esigenza di arretrare ad una cornice, per quanto resa evanescente nella differenza ontologica, a partire da cui l’ente è presentato, offerto e progettato. Se, infatti, nelle conferenze sull’arte del ’35 il «porsiin-opera-della-verità»18 assume il duplice volto dell’opera d’arte e dell’azione che fonda uno Stato, è nell’essenza dell’opera come disvelatività a rendersi possibile il fatto che nella desolazione e nell’abbandono si innesti il progetto, ovvero che per un popolo storico si dia l’eventualità di riconoscersi nell’Opera, per quanto esso viva all’ombra della possibilità che questa evocazione si irrigidisca in convocazione arbitraria. Verrebbe, così, innestato almeno il dubbio circa il fatto che la circolarità peculiare nella contesa tra Verborgenheit e Unverborgenheit offra una via d’uscita dalla perfezione dell’Invio politico-veritativo criticato da Heidegger nel corso su Parmenide. Né, d’altra parte, si vede perché tale passo debba poi venire compiuto come un salto al di fuori dell’impalcatura messa in campo dal plesso rappresentanza-mediazione. Piuttosto varrà allora la pena dare seguito a quanto emerso seguendo lo statuto della norma fondamentale, che cioè non vi sia proprio nulla a testimoniare che dalla sua infondatezza debba di per sé scaturire una vuotezza priva di conseguenze.

18. M. Heidegger, Holzwege, GA 5, hrsg. F.-W. Von Hermann, 1977; Sentieri interrotti, a c. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 21/21.

120

È questa una considerazione che in fondo non ci porta troppo distanti dal senso di quanto diceva Pierre Rosanvallon circa il principio logico che regola l’idea di rappresentanza come tale, valendo però anzitutto per quella sovrana, in democrazia spettante al popolo. La sua formulazione classica – sostiene Rosanvallon – «presuppone che il popolo preesista alla sua organizzazione politica»19, eppure non è affatto indifferente, o naturale, o, più semplicemente, non va da sé come a questo presupposto si arrivi, lo si qualifichi e gli si dia una direzione. Una volta tirato via il velo che faceva del popolo un dato sociale naturale, lo studioso francese poi ritiene che all’esperienza democratica spetti di attivare questa presupposizione, costruendo uno spazio di riconoscimento che permetta di vedere (rappresentativamente) ciò che prima esisteva solo come enunciazione di principio. Si può essere più o meno d’accordo che questo sia il compito di una politica democratica che traduca in partecipazione il proprio scheletro di principi e procedure, così come sui modi con cui ciò può essere conseguito; sta di fatto, però, che questa inversione delle condizioni in presupposti posti chiama in causa anzitutto il modo con cui andiamo alla ricerca della condizione; o della premessa fondamentale, di cui ne va ancora, per Böckenförde ad esempio, nel politico assunto come capacità di azione appartenente alla coscienza nazionale. Potremmo allora dire, che la difficoltà per la neutralità democratica sorge dal modo con cui la “riflessione esterna” valuta il formarsi di tale unità politica, ad esempio nella costituzione dell’identità nazionale. Una riflessione che è possibile vedere svaporare nella sua stessa operazione. Il che è semplicemente quello che compie Hegel nella Scienza della Logica tematizzando il corso effettivo del Grund20. 19. P. Rosanvallon, Il popolo introvabile, Il Mulino, Bologna 2005, p. 337. 20. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik (WdL), hrsg. G. Lasson, F. Meiner, Hamburg 1975; tr. it. A. Moni (riv. C. Cesa), Scienza della Logica, 2 v.,

121

Limitiamoci all’esito, per cui ciò che l’azione del fondamento pone non lascia indifferente il presupposto che lo pone. Ed è questa la ragione per cui, nel fondamento integrale hegeliano, la fondazione dell’intera relazione non mette capo ad un ulteriore Super-Fondamento più profondo, più solitario, più zeppo di contenuti che sarebbe capace di fondare finalmente il fondamento stesso. Ciò a cui Hegel si limita è fondare il fondamento nella totalità delle sue relazioni con il contenuto fondato. Risultato? Semplicemente, che la relazione esteriore di presupposizione, per cui il fondamento presuppone le condizioni e viceversa, viene assunta e assimilata in una tautologia con cui la cosa presuppone se stessa. Dove sta allora l’esigenza di difendere e garantire premesse piuttosto che imputare vuotezza a questo gesto tautologico o infondatezza alla norma fondamentale? Come quest’ultima consegna alla sovranità il suo statuto deciso in ultimo dalla pratica di fatto seguita, questo non impedisce affatto che una tale cornice possa consentire di provocare quel presupposto senza-misura, indifferente ad ogni misura e significato, per instaurare imperfette misure di precarietà in cui essere l’un con l’altro l’uno aperto all’altro nel suo essere indisponibile. Che poi forse indicherebbe la dimensione solidale di una soddisfazione negativa per l’esistere: esistere che è proprio di ciascuno nella misura in cui è interpellato da quello altrui e a quello sia aperto in quanto altro (e non in quanto tedesco, ebreo, cristiano) che può essere altro nel suo assumere su di sé le proprie possibilità.

Laterza, Bari 1981, pp. 97/531. Non è possibile qui indugiare sullo svolgimento hegeliano; segnaliamo almeno però B. Longuenesse, Hegel’s Critique of Metaphysics, Id., (tr. eng. N.J. Simek) Cambridge University Press, New York 2007, spec. p. 105.

122

123

Sovranità e messianismo. Alcune note a partire dalla rilettura della “Stella della Redenzione” Giacomo Petrarca

Tutto è nelle mani dei cieli a eccezione del timore dei cieli (Berakhot, 33b)

1. Premessa Assumendo, per ora in via del tutto preliminare, il concetto di sovranità nel suo significato più generico come ciò che ‘definisce’, pone e, insieme, regola un ‘orizzonte’ del Politico, si tratta di chiedersi – come già suggerito dal titolo – quale sia il suo rapporto con la categoria del messianico; rapporto che si presenta sotto due accezioni profondamente diverse, finanche opposte. Per un verso, infatti, messianico è ciò che costituisce propriamente l’avvento di una sovranità, la sua istituzione – ultima e incrollabile? – considerato nella forma più antica e originaria, come avvento di un mashiah, di un unto. L’evento messianico – soprattutto, nella tradizione profetica e post-esilica – sarebbe pertanto ciò che conferisce realtà al potere sovrano, l’avvento e l’insediarsi di questa figura regale che segna la fine dell’esilio. Esilio tanto del popolo quanto della divinità e quindi, in qualche modo, della sua sede vacante. Questo primo assunto sottintende perciò il valore temporaneo, parziale

124

e non definitivo di ogni sovranità che non sia quella istituita con l’evento messianico. Ed è qui che sorge l’altro significato del rapporto tra sovranità e messianismo: messianico è propriamente ciò che destabilizza la persistenza di una sovranità, ciò che ne costituisce la sempre possibile messa in questione, ovvero, detto altrimenti, la continua possibilità del proprio tramonto. Entrambe le tendenze sono insite nel concetto di messianismo così come esso ci viene offerto dalla tradizione ebraica. Non è qui il luogo per dedicare spazio ai differenti significati che questo messianismo assume e alle forme in cui esso viene declinato, né – e non è un problema secondario all’interno di un orizzonte di filosofia della storia – quali dovrebbero essere le sovranità terrene destituite dall’avvento di questo presunto mashiah (e su questo gli scritti di Scholem sono imprescindibili, ancor più nell’indecisione se l’avvento messianico costituisca nella tradizione ebraica l’irruzione di un particolare individuo, di un evento o di una specifica condizione storica)1. Cercheremo piuttosto di indicare la portata problematica del binomio sovranità-messianismo, la tensione 1. Sul tema, ci riferiamo anzitutto al testo di Gershom Scholem, I concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, pp. 105-147. La questione è smisurata come la bibliografia in merito, sebbene in molti casi sia stata ridotta ad una mera querelle più interessata alle definizioni dei contenuti, che alla forma del problema che essa presenta: problema, tra l’altro, di portata enorme se con il problema del messianismo ciò che è in questione è anzitutto la posizione stessa dell’orizzonte storico e la sua significatività. Un libro che ha richiamato con forza il problema riconducendolo all’interno delle questioni filosofiche fondamentali (come il problema della temporalità), è l’importante lavoro di Gerard Bensussan, Le Temps messianique. Temps historique et temps vécu, Vrin, Paris 2001. Partendo da un approccio di storia delle religioni (senza, per ciò stesso, trascurare la portata filosofica e teologico-politica dei problemi sollevati) si veda anche il recente libro di Kenneth Seeskin, Jewish Messianic Thoughts in an Age of Despair, Cambridge University Press, Cambridge 2014. Il primo capitolo del libro è disponibile anche in italiano: Il messianismo in Il pensiero ebraico nel Novecento, a cura di A. Fabris, Carocci, Roma 2015.

125

che esso inesorabilmente genera, e il terreno in cui questa tensione si concretizza (la comunità) rileggendo alcune pagine dedicate da Rosenzweig al rapporto tra ebraismo e cristianesimo e alla critica mossa contro queste pagine da Jacob Taubes. 2. Rosenzweig e l’essenza meta-storica di Israele Tu, in quel giorno, racconterai a tuo figlio e dirai a lui: Noi facciamo queste cose per ciò che il Signore fece a me quando uscii dall’Egitto (Haggadàh di Pesach)

Siamo nel «Libro primo» della «Parte terza» di Der Stern: «Il fuoco o la vita eterna»; libro che, nella struttura interna della Stella, intende dar ragione del nucleo di quella Gestalt – appunto una Stella di David – sorta dalla sovrapposizione dei due triangoli equilateri che rappresentano la relazione tra i tre elementi emersi nel procedere delle due precedenti sezioni dell’opera. Il nucleo della Stella – Das Feuer – è propriamente costituito da Israele; o meglio: è il ‘luogo’ in cui Israele vive come «popolo già alla metà», popolo fuori dal tempo, al di là delle contraddizioni che la storia implica. Ma il significato di questa meta-storicità è tutt’altro che evidente e va assunto con notevole attenzione, costituendo un aspetto estremamente problematico del discorso rosenzweighiano, poiché fin dall’inizio, questa meta-storicità si presenta nella forma dell’esilio. Così Rosenzweig: La saga delle origini del popolo eterno non comincia, come quella dei popoli del mondo, con la narrazione della sua autoctonia. Solo il padre dell’umanità è sorto dalla terra, e anche lui soltanto per quanto concerne il corpo: il padre progenitore di Israele invece è migrato [zugewandert]; la sua storia,

126 com’è narrata nei libri sacri, inizia con il comando divino di uscire dalla terra della sua nascita e di recarsi in una terra che Dio gli mostrerà. E sia agli albori della sua remota antichità, sia anche più tardi, nella chiara luce della storia, il popolo diviene popolo attraverso un esilio, quello egiziano prima e quello babilonese poi.2

Un esilio, dunque, è ciò che sta a origine del popolo, una galut – come lo chiama la ‘lingua di santità’ (leshon haqodesh), l’ebraico3. Un esilio, però, al quale Rosenzweig nega con forza qualsiasi carattere di evento o accadimento ‘storico’, qualsiasi significato di cesura o discrimine della e nella storia del popolo ebraico – il quale per altro, come si vedrà più avanti, propriamente non ha storia. Non vi è frattura nella storia ebraica, non vi sono ‘epoche’, poiché storia appunto, non si dà. L’esilio di cui parla Rosenzweig non è il destino gravato sul popolo dopo la distruzione del secondo Tempio4: non è diaspora. La diaspora è categoria cristiana, è il retaggio del prezzo che, secondo una visione cristiana della storia, l’ebraismo ha pagato per la propria colpa originaria, il deicidio. Ma esilio è più antico di diaspora: sebbene in essa anche accada, non vi si identifica. Esilio è anzitutto la forma ebraica di abitare il mondo, una modalità dell’andare che costituisce lo specifico di ‘am

2. Der Stern der Erlösung, in Gesammelte Schriften II, a cura di R. Mayer, Den Haag 1976. Tr. it. a cura di G. Bonola, Marietti, Genova 1985. D’ora in po nel testo SdE (segue il numero di pagina dell’ed. tedesca e poi di quella italiana). SdE, p. 333; tr. it., p. 321. 3. Sul significato di questa esilo, si veda: D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014. 4. Su questo tema, Rosenzweig scrive pagine fondamentali in Geist  und Epochen der jüdischen Geschichte. in GS III, pp. 527-538; tr. it. a cura di G. Bonola e G. Benvenuti, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, op. cit., pp. 192-204. Sulla stessa questione, si veda l’importante libro di Y. H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, tr. it. D. Fink, Giuntina, Firenze 2013.

127

Israel, non un tratto che si aggiunge o che viene imposto al Dasein ebraico da contingenze o accadimenti esteriori5. Qui esilio conserva in sé la forma originaria del migrare: Abramo è «zugewandert» come scrive Rosenzweig. Il popolo santo non ‘vive’ nell’accadere delle altre storie, in quell’epoca – orizzonte totale di comprensione del tempo – che è tutte le epoche, ossia l’evento del kairos del Cristo. Da esso non dipende, ad esso è perfettamente estraneo. Il nyn kairos dell’avvento del Figlio, non ‘informa’ la storia ‘senza’ storia d’Israele, non la modifica. Di più: essa non sussiste per esso. Come scrive il giovane Rosenzweig – con un sapore senz’altro apologetico ma forse proprio per questo molto pregnante – «la torcia incendiaria che il soldato di Tito scagliò nel santuario non poté sortire l’effetto che era nelle sue intenzioni»6; affermazione che vale tanto per la distruzione del secondo tempio quanto – potremmo dire noi – per l’irrompere dell’evangelo del Cristo, ‘torcia’ estremamente incendiaria per l’ebraismo. Come il popolo abita la terra da straniero, allo stesso modo da straniero abita il tempo senza considerarlo la misura cumulativa dei propri successi, né la dimora del proprio compimento. Il «wir» comunitario del popolo fonda la propria saldezza, il proprio perdurare in null’altro che «nel generare» se stesso7: in ciò sta il proprio rendere testimonianza, il proprio sussistere8. Metastoricità che porta con sé la durezza di una duplice opposizione: verso l’esterno e verso di sé, la quale resta in quanto tale insita nella costituzione stessa del popolo. Non una semplice

5. Imprescindibile il riferimento a: M. Cacciari, Errante radice, in Id., Icone della legge, Adelphi, Milano 1985, pp. 13-55. 6. F. Rosnezeig, Geist und Epochen der jüdischen Geschichte, in GS III, pp. 527-538; tr. it. a cura di G. Bonola e G. Benvenuti, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, op. cit., p. 202. 7. SdE, p. 331; p. 319. 8. Cfr. SdE, p. 331-332; tr. it., p. 320.

128

negazione, dunque, del nesso con l’orizzonte del Politico, se anche da quella negazione essa si sottrae. Questa articolazione che ‘spezza’, o meglio: che ‘sospende’ la relazione tra il piano teologico e quello politico – ossia, tra il piano verticale e quello orizzontale – si presenta con forza nel libro dell’Esodo: impossibile prescindervi in questo luogo, come del resto lo stesso discorso rosenzweighiano non solo non vi prescinde, ma ne è completamente attraversato. Così il libro dell’Esodo: Il Signore li guidava di giorno mediante una colonna di nube che indicava loro il cammino, e durante la notte mediante una colonna di fuoco destinata a rischiarare la via, in modo che potessero marciare giorno e notte. Né la colonna di nube di giorno, né quella di fuoco di notte cessava di precedere il popolo (Es, 13.21-22).

L’uscita dall’Egitto, o meglio: l’uscire dall’Egitto è l’atto di fondazione del popolo, l’atto con cui il popolo diventa tale. Del resto il Dio d’Israele è ‘colui’ che si presenta come il «Signore (YHWH) Dio tuo (‘elohekà) che ti feci uscire (hotse’tikà) dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi» (Es, 20.1). Questo segna l’essenziale del rapporto tra il popolo e la divinità: l’uscire è un divenire liberi, l’uscire è un affrancamento dalla casa di schiavitù. In questo uscire sorge ‘am Israel, il popolo d’Israele. Così l’uscire diventa anzitutto paradigma dell’andare: il popolo e la colonna, dove la «und» – per dirla con un termine decisivo nel linguaggio filosofico di Rosenzweig – che unisce popolo e colonna è anche ciò che li separa. E li separa costitutivamente. Io sono colui che ti feci uscire (hotse’ti): la prima persona del verbo ebraico alla forma intensiva marca proprio questo essere strappati da, essere portati fuori da – condotti, davvero, all’ek-sistenza. Dove l’esistere, o meglio: il sussistere di Israele è un ek, un movimento nel quale che marca però anche una distanza: né il popolo va alla colonna, né la colonna al popolo. Anzi: l’andare, il procedere del popolo è propriamente volto alla conservazione della distanza posta dalla «und» ro-

129

senzweighiana. O meglio: non è volto alla conservazione – ché sarebbe un irretire, un ipostatizzare la distanza – ma l’uscire è anzitutto ciò che segna movimento, cioè che dice passaggio. E sempre, passaggio di passaggio, esilio – per riprendere un topos centrale nella poetica di Edmond Jabès9 – dall’esilio. Nella geniale concisione che lo contraddistingue, Rashi – il grande commentatore medievale – spiega che la colonna non «serviva ad illuminare il sentiero, ma ad indicare la strada» (Rashi su Es, 13.21). È la distanza, dunque, ad indicare la via, la distanza a farsi forma dell’andare. In qualche modo, a farsi anche via. Ma questa stessa distanza non si limita al solo rapporto tra il popolo e la divinità, essa si ripresenta anche tra il popolo e gli altri popoli (cfr. Es, 14. 19-20). Come la «und» sospende il nesso teologico tra la colonna e il popolo, quella stessa «und» sospende il nesso politico che lega Israele agli altri popoli. Passività qui significa non-opposizione, ossia: è quella stessa distanza dalla colonna a sottrarre Israele dal nesso con il Politico, distanza di cui Israele però non è mai a origine ma che sempre ‘patisce’. Tuttavia, la sottrazione dal politico non è mera opposizione: Israele deve farsi carico anche di quest’opposizione, ad essa deve – in quanto tale – opporsi. Deve cioè destituire anche l’atto con cui si oppone al Politico, ché lo farebbe ancora un ‘luogo’ di esso. Ed è un gesto essenziale nell’operazione rosenzweighiana, non privo – però – di conseguenze profonde nella definizione di questa sottrazione. O meglio: nella possibilità stessa che sottrazione si dia. Sottraendo il popolo alla relazione del Politico, esso piega su di sé quella stessa sottrazione: Ogni confine ha due facce. Mentre qualcosa si delimita, diventa così anche limitrofo di qualcos’altro. Proprio in quanto

9. Sul tema si veda il capolavoro di Jabès, ora disponibile integralmente anche in italiano: E. Jabès, Il libro delle interrogazioni, testo fr. a fronte, a cura di A. Folin con un saggio intr. di V. Vitiello, Bompiani, Milano 2015.

130 un popolo è un singolo popolo è un popolo tra i popoli. Il suo isolarsi significa al tempo stesso un suo unirsi. Non così quando il popolo si rifiuta di essere un singolo popolo e vuole essere l’«unico popolo». Allora non gli è concesso rinchiudersi dentro confini, bensì deve includere in sé i confini che con la loro doppia valenza ne farebbero un popolo singolo tra altri popoli.10

La doppiezza che Rosenzweig intende conservare mostra con chiarezza come l’oggetto della propria operazione sia incessantemente rivolto contro Hegel: serbare la doppiezza, significa sapersi sottrarre dalla concezione hegeliana di limite, ché per Israele conoscere il proprio limite non significa sapersi sacrificare (cfr. PhäG, II, p. 304). Il passaggio è significativo poiché impone di riconsiderare – essendone radicale messa in questione – il significato dell’esclusività di Israele in quanto popolo ‘eletto’, dove nell’elezione si è soliti indicare l’‘esclusività’ del rapporto di Israele rispetto agli altri popoli. Rosenzweig piega su Israele questa stessa esclusività, flette all’interno del popolo anche quel rapporto di esclusione che lo opporrebbe agli altri popoli, facendolo pertanto popolo tra i popoli. In questo senso l’unicità di Israele è anche il proprio essere oltre ogni specifica ‘determinazione’ di popolo. Non perché tutte le ecceda, ma perché ognuna di quelle è sempre troppo ‘esclusiva’ per valere per Israele. Israele è l’unico popolo, nella misura in cui è anche tutti i popoli, o meglio: è l’esser popolo di ciascun popolo, proprio per questo mai singolo. Questa la sua elezione: non universalistica, men che meno particolare. L’unicità del popolo dice la messa in questione di ogni confine: ché separa sé dal proprio separare. In ciò sta il significato più pregnante che Rosenzweig attribuisce alla forma meta-politica dell’esistenza di Israele: Israele si sottrae poiché è – anche – sottratto dal politico. Ma la sottrazione che esso opera non 10. SdE, p. 339; tr. it., p. 327.

131

è mai tale, essendo sempre in virtù di quella ch’esso patisce: perciò non può mai pretendere di farla davvero propria, sebbene ne sia costituito. Così parla il Dio del patto dell’erranza: “Ordunque, se voi ubbidirete alla Mia voce e manterrete il Mio patto, sarete per Me quale tesoro fra tutti i popoli, poiché a Me appartiene tutta la terra. E voi sarete per Me un reame di sacerdoti (mamleket kohanim), una nazione consacrata (wegoy qadosh)”. Sono queste le parole che dirai ai figli d’Israele (Es, 19.5-6).

«Tiheyu-li»: sarete per me. Quale me? Chi è il me per cui il popolo sussiste? Questa sottrazione, o meglio: questo carattere sottrattivo del popolo, mostra l’assoluta sospensione della «und», la quale pone in relazione due termini che, in quanto tali, non sono semplicemente irrelati, ma sono due puri per altro – e il popolo e il ‘proprio’ Dio, se il «per me» della divinità su cui il popolo fonda la propria sussistenza, non conosce inseità, ché sarà sempre anche altro da ogni possibile immagine nella quale ‘vorrà’ rivelarsi. Anzi: il suo proprio mostrarsi è questo essere per altro. E Israele fa esperienza di questa sottrazione, non altrove che in seno al popolo stesso, assumendo la forma che la propria sussistenza meta-politica gli conferisce: quella di un resto. Residualità – com’è chiarissimo in Rosenzweig – alla quale non va assegnato nessun valore quantitativo, ma residuale è la forma stessa con la quale ‘am Israel abita il mondo. Residuale, essendo anzitutto residuo, resto non semplicemente della sottrazione dal politico, ma sottrazione dalla sottrazione, che è sottrazione come s’è visto, duplice, – dove quella sottrazione non genera ‘nuova’ comunità, non genera un altro orizzonte del politico, ché sarebbe ancora riproposizione del medesimo (se la forma di quell’orizzonte è, in quanto tale, forma dell’opposizione). Questa residualità in cui Israele vive, questo essere sempre resto di un resto, lo estromette dall’orizzonte del politico poiché lo rende anche perfettamente indifferente ad esso; esso può pure dimorare

132

nell’orizzonte del politico, ma ad esso mai appartiene. Scrive Rosenzweig ed è una pagina densa di significato per la drammaticità che l’immagine di questo resto assumerà nel ventennio successivo all’uscita della Stella – drammaticità che reca con sé tutta la problematicità dell’operazione rosenzweighiana, non foss’altro per il fatto che la sottrazione dal politico, lungi dall’essere motivo di protezione per Israele è ciò che lo mette immensamente a rischio, ciò che lo espone completamente all’altro – appunto: popolo ‘unico’. «Tutta la storia del mondo» – continua ancora Rosenzweig – «parla di espansione. Il giudaismo, unico al mondo, si conserva per sottrazione, per diminuzione mediante la formazione di sempre nuovi resti11. S’impone di nuovo con forza il significato di quel bleiben della celebre lettera sulla mancata conversione al cristianesimo che Rosenzweig scrive a Ehrenberg il 31.10.191312: come può infatti questa sospensione costituire insieme saldezza e sradicamento del popolo come resto? Ich bleibe also Jude: resto ciò che nega ogni restare, dove il bleiben non è semplicemente sradicatezza, ché anche quella sradicatezza è sradicata da sé stessa: resto di un resto. Questo è il cuore della Stella, questo è ciò che nutre incessantemente il fuoco che in essa für immer arde: un resto.13

11. SdE, p. 450; tr. it., pp. 432-433, corsivo nostro. 12. La traduzione italiana della lettera è a cura di G. Bonola, Appendice: da lettere sul cristianesimo, la missione agli ebrei e il sionismo, in F. Rosenzweig, La scrittura, Città Nuova, Roma 1991, p. 286. 13. Sul significato di questo resto e più in generale dell’esistenza meta-storica in Rosenzweig si veda, tra i vari: G. Bensussan, Etat et éternité chez Franz Rosenzweig, in La Pensée de Franz Rosenzweig, op. cit., pp. 137148; D. Cohen-Levinas, «Politique du reste chez Franz Rosenzweig», Les Études philosophiques, n° 89, 2009/2, pp. 219-227; Mosès S., La storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, tr. it. M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1993.

133

3. Una sovranità inconciliabile: Rosenzweig contra Taubes La riflessione sul significato del bleiben pone in questione un altro nodo problematico – certo intimamente legato a quanto fin qui detto – che occupa per intero l’ultimo libro della Stella, Der Stern oder die ewige Wahrheit, ossia il rapporto tra ebraismo e cristianesimo. Se l’ebraismo costituisce l’intimo nucleo della Stella, il fuoco che arde alimentandosi sempre di se stesso – e si è visto quanto problematica sia la definizione di questa ‘inseità’ dell’ebraismo se, in vero, è un radicale essereper-altro –, fuori della Stella stanno i raggi, che si propagano verso l’esterno, verso i popoli del mondo. Questo propagarsi è il cristianesimo: «der ewige Weg». Su questa ‘pretesa’ conciliazione tra fuoco e raggi, su questa reciproca complementarietà dove i destini di ebraismo e cristianesimo appaiono, alla fine, conciliati e rivolti verso «una stessa opera»14 di realizzazione della redenzione, si chiude il testo rosenzweighiano. Pretesa, s’è detto, poiché a ben vedere il rapporto tra i questi due poli è tutt’altro che pacifico e molto più problematico di quanto Rosenzweig non dia a vedere. Del resto, la complessità del rapporto tra ebraismo e cristianesimo, ben prima che nella Stella, compare già nel prosieguo della lettera di Rosenzweig a Ehrenberg sulla mancata conversione. Adducendo una prima ragione della sua decisione di non abbracciare più la fede cristiana, Rosenzweig confessa di essersi persuaso – erroneamente – di aver cristianizzato il proprio ebraismo; «in verità» –  continua – «io avevo, al contrario, ebraicizzato il cristianesimo»15. Affermazione abbastanza oscura a questo livello, ma che Rosenzweig chiarisce poco dopo affrontando il tema – centrale per il cristianesimo – della missione per la con14. SdE, p. 462; tr. it., p. 444. 15. GS I, p. 134; tr. it., p. 287

134

versione degli ebrei. La fallace persuasione di aver ‘ebraicizzato’ il cristianesimo, era posta essenzialmente dalla convinzione che il passaggio dall’ebraismo al cristianesimo palesasse una più antica contiguità tra ebraismo e cristianesimo16. Il punto è riassumibile in una battuta: convertirsi al cristianesimo in quanto e come ebreo, v’è soluzione di continuità insomma tra ebraismo e cristianesimo? Questo Rosenzweig nega. Di più: è proprio questa conversione dell’ebraismo ciò che propriamente il cristianesimo vorrebbe; o meglio: ciò che il cristianesimo deve necessariamente operare come missione agli ebrei. Da dove questa necessità? Si tratta, anzitutto, di capire da dove sia posta la relazione tra i due termini della questione: ché così facendo – l’ebraismo è in toto pensato a partire dal cristianesimo, al punto tale da considerare quel passaggio, quella conversione come necessaria. La difficoltà dell’operazione rosenzweighiana, sta nel comprendere come questa tenendo insieme ebraismo e cristianesimo al tempo stesso li separi. O meglio: come questa liberi l’ebraismo dal legame necessario con il cristianesimo, vincolando questo a quello. Lo si comprende già dalla lettera a Ehrenberg: «Ciò che il Cristo e la sua Chiesa significano nel mondo è cosa su cui siamo d’accordo: nessuno viene al Padre se non attraverso di lui (Gv, 14.6)»17. Il passaggio necessario attraverso il Figlio esposto da questa profonda cristologia giovannea che nella Stella Rosenzweig assumerà come paradigma chiave della propria lettura del cristianesimo, sancisce la completa subordinazione del mondo alla mediazione del Figlio, ossia alla via – la sola possibile – verso la salvezza, via indicata e costituita dal cristianesimo. In questa assunzione del Figlio come mediazione tra mondo e Dio, dove la und del rapporto Dio-mondo è in toto con16. Sul tema: B. Casper, La sfida di Franz Rosenzweig al pensiero cristiano, in «Teologia e filosofia», n. 2, 2000, pp. 245-255. 17. GS I, pp. 134-135; tr. it., p. 288.

135

sumata dal «panta di autou» del prologo giovanneo (cfr. Gv, 1.3) – in quanto il mediatore è costitutivo a ciò che è mediato se «senza di lui non fu fatto nulla di ciò che è» – si consuma lo scarto che Rosenzweig pone tra ebraismo e cristianesimo. Qual è il posto occupato dall’ebraismo in questa mediazione del Figlio? Nel riconoscimento del Dio dell’ebraismo da parte del cristianesimo solo come Padre di Gesù Cristo – al di là della problematicità teologica che una tale assunzione costituisce per il cristianesimo18 – sta pertanto a indicare il carattere solo ‘marginale’ dell’ebraismo nell’opera del Figlio. Certo, l’ebraismo ha già a che fare con la via della salvezza e per questo la conversione al cristianesimo non deve passare per lo stadio del paganesimo come pensava il giovane Rosenzweig – ma non la raggiunge, sembrerebbe se non nella direzione indicata del Figlio. Il punto è: cosa resta dell’ebraismo in questa mediazione? Ossia: cosa resta dell’ebraismo nel passaggio attraverso il Figlio, se proprio di quel passaggio esso è negazione? E qui Rosenzweig fa valere il senso profondo di quella distanza costitutiva dell’ebraismo; e lo fa aprendo una frattura profonda tra ebraismo e cristianesimo che mette in questione il senso di quella stessa mediazione del Figlio verso il Padre: Nessuno viene al Padre – è però diverso se uno non ha più alcun bisogno di venire al Padre, perché è già presso di Lui. E questo è il caso del popolo d’Israele (non del singolo ebreo). Il popolo d’Israele, eletto da suo Padre, guarda fisso oltre il mondo e la storia, a quell’ultimo remotissimo punto quan-

18. Passaggio insidioso che nasconde la deriva gnostica che in esso si serba, peraltro sempre presente nel cristianesimo; tra l’altro, ma è un anticipare elementi che si incontreranno più avanti, proprio l’ebraismo rappresenta per il cristianesimo la vera difesa contro lo gnosticismo. Sul tema, si veda il recente scritto di B. Pollock, Franz Rosenzweig’s Conversions: World Denial and World Redemption, Indiana University Press, 2014 in cui vi è una sezione dedicata al tema del rapporto tra Rosenzweig e Marcione, e dunque, Paolo.

136 do suo Padre, questo stesso, sarà – «tutto in tutto» – l’Uno e l’Unico. In quel punto, dove Cristo cessa di essere il Signore, Israele cessa di essere l’eletto; in quel giorno Dio perde il nome con cui soltanto Israele lo invoca; allora Dio non è più «il suo» Dio. Fino a quel giorno però è vita di Israele l’anticipare nella professione di fede e nell’azione quel giorno eterno, lo stare come un annuncio vivente di quel giorno, un popolo di sacerdoti, con la Torah, a santificare mediante la propria santità il nome di Dio.19

Nell’essere presso il Padre del popolo, la mediazione del Figlio e il suo carattere di via costituito dal cristianesimo perde ogni significato. Le genti, il mondo, trovano in quella via la sola possibilità di accesso al Padre, ma non Israele che vive già presso la meta, che è già presso il Padre. Un essere-presso, un dimorare certo che non toglie la distanza, non toglie l’erranza ma che – per Rosenzweig – rende del tutto indifferente il rapporto con il cristianesimo. Il popolo ebraico è il popolo eterno, il popolo che vive all’interno di quel ‘tempo’ che esso stesso produce e scandisce all’interno della propria liturgia e del susseguirsi delle proprie festività ‘liturgiche’20, il popolo che è «popolo soltanto mediante il popolo stesso»21. E la conclusione del libro Das Feuer oder das ewige Leben suona, in fondo, come la grande celebrazione di questa ‘eternità’: Questo fuoco arde in se stesso. I suoi bagliori, che gettano luce dentro al mondo, illuminano il mondo; non occorre che brillino per lui stesso. Esso non ne sa nulla. Brucia, silenzioso ed eterno. Il seme della vita eterna è piantato, ora può aspettare che germogli. Dell’albero che nasce da lui il seme non

19. GS I, p.135; tr. it., p. 288. 20. Liturgia che costituisce un momento essenziale nell’esperienza ebraica del tempo. Sul tema, ci si permetta di rimandare al nostro, Nel vuoto del tempo. Rosenzweig, Hegel e lo shabbàt, Jaca Book, Milano 2015. 21. SdE, p. 336; tr. it., p. 322.

137 sa nulla, anche se quello coprisse il mondo con la sua ombra. Un giorno dai frutti dell’albero verrà un seme, uguale a lui. Benedetto Colui che ha piantato vita eterna in mezzo a noi.22

E tuttavia v’è dell’altro. Catturati forse dall’eccessivo entusiasmo della pagina rosenzweighiana –  certo dall’innegabile forza evocativa – non ci siamo adeguatamente soffermati sulla problematicità di quel nesso. Un importante saggio di Jacob Taubes del 1953, The Issue between Judaism and Christianity; Facing up to the Unresolvable Difference, ci consente di assumere la questione sotto un’altra angolatura poiché dell’operazione rosenzweighiana costituisce una durissima critica. Durissima e – come solito dello stile da grande polemista di Taubes – nel merito profondamente pretestuosa. Tuttavia, più dell’esito della critica, conta l’oggetto del contendere. Il punto di forza della critica taubesiana sta propriamente nella dubbia – a suo dire – assunzione del passo di Gv, 14.6 – «nessun viene al Padre se non attraverso di lui» – con cui Rosenzweig fa valere il cristianesimo come «via eterna» verso il Padre (i raggi della Stella), dalla quale è propriamente separata la «vita eterna», il popolo ebraico, ossia il fuoco della Stella. Ponendo però il cristianesimo come via di accesso alla verità dell’ebraismo – scrive Taubes – Rosenzweig introduce un «nuovo concetto teologico all’interno del pensiero ebraico»23, concependo la

22. SdE, p. 372; tr. it., p. 358. 23. J. Taubes, The Issue between Judaism and Christianity; Facing up to the Unresolvable Difference, in “Commentary”, Vol. XVI, n. 6, New York, dicembre 1953, pp. 525-533. Tr. it. a cura di E. Stimilli, La disputa tra ebraismo e cristianesimo. Su una controversia insolubile, in J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, Quodlibet, Macerata 2000, p. 17. Quanto profonda fosse la conoscenza del pensiero di Rosenzweig da parte di Taubes è questione incerta; un altro riferimento significativo che Taubes fa a Rosenzweig è nelle sue lezioni su Paolo quando richiama il profondo significato che la liturgia assume in Rosenzweig, il quale – ammette Taubes – «ci ha insegnato a prendere sul serio la liturgia» (J. Taubes, La teologia politica di san Paolo,

138

possibilità di un Messia solo per i gentili e togliendo l’esigenza di un Messia per Israele, il quale trovandosi «già alla meta», già presso il Padre – ossia: al di là della storia – non abbisogna di alcuna redenzione nella storia. E continua: Come può Gesù essere il Messia che arriva a redimere le nazioni, ma non il popolo ebraico? Rosenzweig rifiuta categoricamente che Gesù abbia un qualche significato messianico per il popolo ebraico, e nega anche, in generale, il significato di una redenzione messianica per il popolo ebraico (perché Israele vive aldilà della dialettica messianica della storia); invece, come il suo maestro Hegel, eleva la storia mondana del cristianesimo al piano del divino.

Non si tratta di fare ora una disamina della consistenza della critica taubesiana, che pecca, in taluni passaggi, di poca profondità nella lettura della Stella, dove la sferzata finale su Hegel tradisce poi l’intento meramente polemico. Del resto, quanto problematica sia in Rosenzweig l’assunzione dell’orizzonte storico al piano divino, lo rivela chiaramente un breve passaggio di Der Stern di estrema concisione nelle pagine dedicate al cristianesimo, in cui Rosenzweig afferma che «la storia della chiesa non è la storia del regno di Dio, come non lo è la storia degli imperatori. Infatti, in senso stretto non si dà storia del regno di Dio»24, con un chiaro intento da parte sua di sottrarre anche la storia cristiana alla riduzione hegeliana all’orizzonte storico. Anche: poiché, come si è visto, tale esigenza è per Rosenzweig primaria nei confronti dell’ebraismo.

tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1997, p. 75). Per una ricostruzione del rapporto tra Taubes e Rosenzweig e nella fattispecie sul saggio, si veda: M. Giuliani, Il confronto di Jacob Taubes con Franz Rosenzweig: note sulla “disputa irrisolvibile” tra ebraismo e cristianesimo, in Aa. Vv., Franz Rosenzweig. Ritornare alle fonti. Ripensare la vita, a cura di M. Giuliani, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2012, pp. 261-269. 24. SdE, p. 392; tr. it., p. 377.

139

Ma non si tratta ora di replicare con Rosenzweig alle critiche di Taubes. Si tratta piuttosto di capire che cosa si agiti e quale sia l’istanza posta dalla critica di Taubes, il quale va al cuore della questione: La religione cristiana in generale, e il corpo della chiesa cristiana in particolare, non hanno un significato religioso per la fede ebraica. Per la chiesa esiste un ‘mistero’ ebraico, mentre per la sinagoga non esiste un ‘mistero’ cristiano.25

Secondo Taubes, quindi, Rosenzweig, con la sua introduzione di un nuovo concetto teologico nell’ebraismo, avrebbe dissolto questa assunzione ebraica affidando propriamente la ‘verità’ del messaggio ebraico per i popoli al cristianesimo. Nell’univocità della propria critica, Taubes non s’avvede che proprio l’operazione di Rosenzweig fosse volta non solo a destituire qualsiasi significato della storia della salvezza cristiana per l’ebraismo, ma al contrario, a vincolare la sussistenza del cristianesimo all’ostinatezza ebraica, vera dimostrazione di veridicità del cristianesimo. Poiché il problema che l’ebraismo costituisce per il cristianesimo non è certo risolto relegando l’ebraismo a origine, ché proprio questo è il nodo massimamente problematico, se da quell’origine il cristianesimo ha continuamente tentato di emanciparsi e, in egual misura, da quell’origine ha dovuto ogni volta ribadire la propria provenienza. Di più: la grande contraddizione che Taubes vede nell’idea di un Messia che viene per tutti tranne che per Israele, tradisce un significato più profondo dell’assunzione con la quale Rosenzweig rilegge l’evento cristico: ed è – inevitabilmente – un estremo, si potrebbe dire, ‘depotenziamento’ di quell’evento. E ciò significa: non solo gli ebrei non hanno voluto riconoscere il vero Messia, ma si ostinano a non riconoscerlo.

25. Ivi, p. 16.

140

La loro ostinazione diventa ciò rispetto a cui persino l’evento del Cristo, l’evento che fa nuove tutte le cose, l’evento che facendosi via verso il Padre trasforma tutte le cose – di fronte a quella ostinazione la via s’interrompe. S’intenda: s’interrompe innanzi a Israele. Sempre in una lettera a Rudolf Ehrenberg del 4.11.1913 Rosenzweig scrive: La Chiesa […] non vede a che scopo nel mondo le stia di fronte un punto di ostinazione assoluta (questo «a che scopo» è per lei un mystérion), sa soltanto che è così.26

Non vede a che scopo. L’ostinatezza ebraica è senza perché, essa è in quanto tale mysterion – dice Rosenzweig impiegando parola molto eloquente. E tuttavia il significato di questa ostinazione è lungi dall’essere chiarito, ché il vero pericolo che corre il discorso rosenzweighiano – pericolo che può essere in fondo già individuato nella critica taubesiana – è che quella stessa ostinazione sia assunta come figura della storia della salvezza cristiana, ché sarebbe in fondo un altro modo per assumere l’ebraismo ancora a partire dal cristianesimo; e ciò, proprio partendo dall’operazione inversa. È ciò che propriamente tentò di fare Paolo di Tarso, il quale – seppur in maniera per lo più tacita – è il vero oggetto del contendere tra Rosenzweig e Taubes. Oggetto del contendere che va ben oltre la brevità di queste poche note27.

26. GS, p. 142; tr. it., p. 292. 27. Per un’indicazione, molto provvisoria, di un possibile sviluppo problematico di questo scritto, ci si permetta di rimandare al nostro: Figure della distinzione. Tra Giacobbe ed Esau, in “Il Pensiero”, 2011/2, pp. 191-218.

141

142

143

Indice

Introduzione

p. 11

Biagio De Giovanni, Eccezione e sovranità. Tra W. Benjamin e C. Schmitt

p. 15

Roberto Esposito, Sovranità o Europa?

p. 41

Vincenzo Vitiello, Il potere della legge

p. 57

Luca Basile, Lo Stato e la mediazione. Osservazioni sulla categoria di ‘sovranità’ nella “Rechtsphilosophie” hegeliana

p. 77

Giulio Goria, Sovranità: logica del fondamento e fondamenti della logica

p. 103

Giacomo Petrarca, Sovranità e messianismo. Alcune note a partire dalla rilettura della “La Stella della Redenzione” di F. Rosenzweig

p. 123

144

145

146

Gulliver - 1

I testi qui raccolti indagano i caratteri della concezione moderna della ‘sovranità’, verificandone la fungibilità categoriale all’interno del quadro storico e del lessico politico attuale. Le trasformazioni contemporanee sollecitano, infatti, ad una riflessione sulla sua utilizzabilità entro lo scenario segnato dalla crisi della funzione classica degli Stati nazionali e da inedite interdipendenze ed asimmetrie globali. Riflessione che interroga, innanzitutto, la filosofia politica e il generale travaglio della elaborazione teorica. Le voci di personalità scientifiche di primo piano e di giovani studiosi affrontano i grandi nodi tematici del rapporto tra eccezione, mediazione e sovranità, tra legge e potere, tra politica e dimensione messianica.

Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati

ISBN E-book 9788898694679

con saggi di Biagio De Giovanni, Roberto Esposito, Vincenzo Vitiello, Luca Basile, Giulio Goria, Giacomo Petrarca.

€ 8,00