Il rifiuto della morte
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Table of contents :
PREFAZIONE
I INTRODUZIONE: NATURA UMANA ED EROISMO
Parte I L’EROISMO ALLA LUCE DELLA PSICOLOGIA DEL PROFONDO
II IL TERRORE DELLA MORTE
III LA RIELABORAZIONE DI ALCUNE IDEE BASILARI DELLA PSICOANALISI
IV IL CARATTERE UMANO COME MENZOGNA VITALE
V LO PSICOANALISTA KIERKEGAARD
VI IL PROBLEMA DEL CARATTERE DI FREUD NOCH EINMAL (DI NUOVO)
PARTE II I FALLIMENTI DELL’EROISMO
VII IL SORTILEGIO GETTATO DALLE PERSONE IL VINCOLO DELLA NON-LIBERTÀ
VIII OTTO RANK E LA CONFLUENZA DELLA PSICOANALISI VERSO KIERKEGAARD
IX PROSPETTIVE ATTUALI DELLA PSICOANALISI
X SGUARDO D’INSIEME SULL’INFERMITÀ MENTALE
Parte III SGUARDO RETROSPETTIVO E CONCLUSIONE: I DILEMMI DELL’EROISMO
XI PSICOLOGIA E RELIGIONE: CHE È L’INDIVIDUO EROICO?
BIBLIOGRAFIA (rivista dal dott. Marco Marchetti dell’università di Chieti)

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A cura di PIERRE



Scan: GENIERE

Conversione: FS

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DIMENSIONI DELLO SPIRITO

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Ernest Becker

IL RIFIUTO DELLA MORTE

Premio Pulitzer

Edizioni Paoline

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Titolo originale dell’opera The Denial of Death © 1973 THE FREE PRESS, A DIVISION OF MACMILLAN PUBLISHING CO., INC. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o diffusa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, compresa la riproduzione fotostatica, fonografica o per microfilm, senza autorizzazione scritta dell’Editore. Versione dall’inglese di GIACOMO GASTONE

© EDIZIONI PAOLINE, Roma 1982 Redazione: Via Alessandro Severo, 58 - 00145 Roma Distribuzione: Corso Regina Margherita, 1/2 - 10124 Torino ISBN 88-215-0539-1

copyright-free

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Alla memoria dei miei amati genitori che, senza volerlo, m’hanno dato — tra molte altre cose — il più paradossale tra i doni: una certa confusione sull’idea dell’eroismo.

Non ridere, non lugere, ncque detestati, sed intelligere (Non ridere, non piangere né imprecare, ma capire). SPINOZA

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PREFAZIONE Per ora ho rinunciato a scrivere. Circola nel mondo anche troppa verità, una sovrapproduzione che evidentemente non può essere tutta digerita. OTTO RANK1

La prospettiva della morte — diceva il Dr. Johnson — assorbe straordinariamente l’intelletto. Ma — ed è la tesi principale di questo libro — va molto al di là di questo. L’idea della morte e la paura che ne consegue ossessionano l’animale umano più di qualsiasi altra cosa e rappresentano lo stimolo principale dell’umana attività, indirizzata in gran parte a scongiurare la fatalità della morte e a superarla, negando che, in un qualche modo, essa costituisca il destino ultimo dell’uomo. Il noto antropologo A.M. Hocart affermava che i popoli primitivi ignorassero la paura della morte e che numerose e attente ricerche etnologiche avrebbero dimostrato che, tra quei popoli, la morte molto spesso era occasione di gioiose feste. La morte rappresentava più un motivo di celebrazione che di paura, pressappoco come nella tradizionale veglia irlandese. Hocart voleva liquidare l’idea che i primitivi — paragonati all’uomo d’oggi — fossero infantili e terrorizzati dagli avvenimenti naturali e gli antropologi gli hanno dato largamente ragione, riabilitando quei popoli. Ma questa argomentazione non scalfisce la constatazione che la paura della morte è senz’altro un fatto universale nella condizione umana. Anche se, come Hocart ed altri han provato, i primitivi celebravano festosamente la morte, lo 7

facevano appunto perché, nelle loro credenze, essa rappresentava la promozione finale e una rituale elevazione a una superiore forma di vita che, in qualche modo, introduceva al godimento eterno. Gran parte degli occidentali trovano oggi difficile accettare questa credenza ed è appunto questo che fa, della paura della morte, uno dei tratti salienti della nostra fisionomia psicologica. In queste pagine mi sforzerò di dimostrare come la paura della morte rappresenti un fenomeno universale che congloba i dati di parecchie branche delle scienze umane e rende sbalorditivamente chiari e comprensibili numerosi nostri modi d’agire, che si è tentato di sotterrare sotto montagne di fatti, oscurandoli in un complicatissimo andirivieni sulle «vere» motivazioni umane. Ai nostri giorni l’uomo di scienza è schiacciato da un fardello che mai avrebbe immaginato di dover portare: la sovrapproduzione di verità, che è impossibile digerire tutta. Per secoli l’uomo è vissuto nella credenza che la verità fosse un qualcosa di sottile e sfuggente che, una volta raggiunta, avrebbe liquidato per sempre i guai del genere umano. Ed eccoci invece qui, nei decenni conclusivi del XX secolo, a schiattare per troppe verità. Caterve di scritti brillanti e di geniali scoperte sono state seguite da un intrico di elaborazioni. E tuttavia la mente umana rimane sorda e apatica, mentre il mondo ruota come impazzito nel demonico andazzo di sempre. Ricordo d’aver letto che, nella famosa Esposizione Mondiale di St. Louis (USA) del 1904, il conferenziere di un prestigioso incontro tra scienziati, trovava difficile farsi sentire a causa del fracasso di macchine militari esposte in un vicino padiglione. Se la cavò con qualche battuta sulla loro rumorosa inutilità, poiché — secondo lui — il futuro apparteneva alla scienza e non al militarismo. A a

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distanza di dieci anni, la Ia Guerra Mondiale chiarì a tutti quale fosse la vera priorità delle cose sul nostro pianeta e chi si patullasse in inutili trastulli e chi no. Anche in questi ultimi tempi l’ordine delle priorità è graficamente illustrato dai circa 700 miliardi di dollari — corrispondenti ad oltre 900.000 mostruosi miliardi di lire — spesi annualmente nel mondo per il bilancio militare, proprio mentre le condizioni di vita sul nostro pianeta si vanno facendo sempre più critiche. A questo punto, il lettore sarà portato a chiedersi: Perché, dunque, aggiungere un altro robusto — e inutile — tomo a tutta la lamentata sovrapproduzione? La mia risposta è che, tra le varie ragioni mie personali, emerge soprattutto un ostinato ottimismo. E vi è l’Eros, l’urgenza all’unificazione delle esperienze e delle forme, nella ricerca di un significato più alto alle vicende umane. Una delle ragioni per cui il sapere si dibatte in uno stato di inutile sovrapproduzione, credo sia costituita dal fatto che esso si diffonde ovunque in modo confuso, strombazzato da mille voci in contrasto spropositatamente, mentre grandi intuizioni e visioni di portata storica restano trascurate o minimizzate: non esiste un vero e pulsante centro vitale. Norman O. Brown osservava che al nostro vasto mondo occorre più Eros e meno lotta e ciò è altrettanto vero per il mondo dell’intelligenza. Bisogna evidenziare l’armonia che accomuna posizioni diversificate, in modo da attenuare «polemiche sterili, frutto di scarsa conoscenza»2. Ho scritto questo libro intendendolo principalmente come uno studio per armonizzare la babele di vedute sull’uomo e sulla condizione umana, convinto che i tempi siano maturi per una sintesi che abbracci il pensiero più valido in molti campi, dalle scienze umane alla religione. Mi sono sforzato d’evitare 9

di contrappormi negativamente a qualunque punto di vista — per quanto a me antipatico — se appena sembri racchiudere un nocciolo di verità. Negli ultimi anni mi son reso sempre meglio conto che il problema centrale del sapere umano non consiste nell’opporsi e demolire le vedute contrarie, ma piuttosto nel coinvolgerle in una struttura teoretica di più largo respiro. Una delle ironie del processo creativo è che parzialmente si autodeforma per poter funzionare. Voglio dire che, d’ordinario, un autore nello scrivere un’opera quasi necessariamente è portato a calcare i toni per contrapporsi efficacemente ad altre differenti versioni della stessa verità. E in questo processo è portato a strafare dalle proprie esagerazioni, che contribuiscono a dare di lui un’immagine distorta. Va invece detto che qualsiasi onesto pensatore è fondamentalmente un empirico e di conseguenza nella sua posizione deve includere una qualche parte di verità, sia pure formulata in modo estremo. Rimane perciò il problema di scovare questa verità dietro le esagerazioni e, dopo averne eliminato gli intrichi e le distorsioni, ricuperarla e incastonarla al suo giusto posto. La seconda ragione che m’ha persuaso a scrivere questo libro è che, in questi ultimi dodici anni, ho avuto più della mia parte di problemi nel tentativo di adattare insieme verità autentiche. Mi sono sforzato di tirare le somme sulle idee di Freud e dei suoi interpreti ed eredi, giungendo ad una specie di distillato della moderna psicologia e credo di esservi, finalmente, riuscito. In questo senso, il libro rappresenta un trattato di pace della mia anima di studioso e un’offerta per un’assoluzione intellettuale. Sento che questa è la mia prima opera veramente matura. Uno dei principali obbiettivi del libro è di presentare una 10

ricapitolazione della psicologia del dopo-Freud, collegandone l’intero sviluppo a un Kierkegaard lontano, ma ancora torreggiante. Mi batto così per un’integrazione tra la psicologia e la prospettiva mitico-religiosa. Nelle mie argomentazioni attingo largamente all’opera di Otto Rank e il mio vuol essere un tentativo importante per ricuperare la splendida costruzione del pensiero di Rank, per troppo tempo trascurata. Riuscire in questo è la mia ambizione massima. Rank ritorna così spesso in queste pagine, che una presentazione del personaggio mi pare qui indispensabile. Frederick Perls ebbe a scrivere in un’occasione che il libro di Rank Art and Artist era «al di là d’ogni lode»3. L’espressione mi colpì talmente che subito mi buttai sul libro, perché non riuscivo a capacitarmi come un qualsiasi lavoro scientifico potesse andare «al di là d’ogni lode». Le stesse opere di Freud mi sembravano degne di lode, ma ciò è abbastanza normale per serie fatiche intellettuali. M’accorsi però che Perls aveva ragione: Rank era — nell’espressione dei giovani d’oggi — «un’altra cosa». Non ci si può limitare a lodare gran parte del suo lavoro, perché la sua stupefacente brillantezza è spesso fantastica, inattesa e superlativa. Oltre che al suo genio, penso che ciò sia in parte dovuto al fatto che il pensiero di Rank abbraccia diversi campi del sapere: parla ad esempio di antropologia ed uno s’attenderebbe disquisizioni sull’argomento, ed ecco invece sbucar fuori qualcosa d’altro in più. Vivendo in un “epoca di esasperata specializzazione ci siamo disabituati a questo tipo di lieta sorpresa. Gli esperti — nel migliore dei casi — riescono a darci un’eccitazione abbastanza relativa. Dal mio continuo ricorso a Rank io m’attendo soprattutto di invogliare il lettore a rivolgersi direttamente ai suoi libri. So 11

però bene, nonostante, o, forse, appunto per la mia familiarità con le sue opere, com’egli sia prolisso e di difficile lettura, ricco e profondo al punto di riuscire quasi inaccessibile al comune lettore. Rank ne era penosamente conscio egli stesso, tanto da tentare di convincere Ana’is Nin a riscrivere i suoi libri, perché diventassero utilizzabili da una più vasta cerchia di lettori. Quanto io propongo in queste pagine è una mia personale versione di Rank, con lo stesso obbiettivo a cui egli mirava nel rivolgersi alla scrittrice francese. Questa mia «traduzione» del suo sistema, si limita qui alla sua psicologia dell’individuo, perché mi riservo di presentare in un altro libro il suo schema per una psicologia della storia. Vi sono svariati modi di guardare a Rank. Vi è chi lo vede come un brillante collaboratore di Freud e membro del primitivo circolo di psicoanalisi, alla cui diffusione e prestigio contribuì portandovi la propria vasta erudizione, e che dimostrò come con la psicoanalisi si potesse far luce sulla storia della cultura, dei miti e delle leggende, come fece, ad esempio, nei suoi primi lavori quali The Myth of the Birth of the Hero e The Incest-Motif. Qualcuno aggiunge che, siccome Rank non volle mai sottoporsi all’analisi, le sue repressioni gradualmente lo travolsero ed egli finì per allontanarsi da quell’esistenza stabile e creativa che aveva avuto accanto a Freud e che negli ultimi anni la sua instabilità peggiorò al punto da portarlo ad una morte prematura, frustrato e solitario. Altri ancora vedono in lui un discepolo troppo ambizioso di Freud, che con esagerata fretta volle essere originale e che, per raggiungere questo scopo, calcò la mano sui limiti della psicoanalisi. Essi si rifanno quasi esclusivamente, nel muovere tale critica, al suo infelice libro del 1924 The Trauma of Birth. E vi sono infine coloro che 12

vedono Rank come un eminente socio del cerchio più intimo di Freud, di cui fu uno degli alunni prediletti, indirizzato ed aiutato, anche finanziariamente, nei suoi studi universitari dal suo Maestro, che ne ricevette in cambio le intuizioni in molti campi della psicoanalisi: dalla storia della cultura, allo sviluppo dell’infanzia, alla psicologia dell’arte, alla critica letteraria, al pensiero dei popoli primitivi e ad altri argomenti. Per dirla in breve, Rank risulterebbe una specie di ragazzoprodigio, con molte frecce al suo arco, ma scarsamente metodico e organizzato. Tutte queste maniere di giudicare Rank sono ingiuste e sappiamo bene che hanno radice, in gran parte, in quella mitizzazione promossa da coloro che appartenevano alla cerchia degli psicoanalisti ortodossi. Costoro non perdonarono mai a Rank d’essersi allontanato da Freud e d’aver così sminuito il loro simbolo d’immortalità. Così Rank spiegava la loro amara piccolezza mentale. Senz’altro lo sfortunato The Trauma of Birth offrì il destro ai suoi nemici per diminuirne la statura, ma questo fu soltanto un incidente trascurabile e momentaneo. In realtà Rank non volle mai limitarsi ad essere un puro e semplice aiutante di Freud e un tuttofare scrupoloso della psicoanalisi. Egli possedeva un suo proprio, unico e perfettamente elaborato sistema di idee: sapeva da dove voleva cominciare, quale massa di dati doveva analizzare e ne ipotizzava il punto d’arrivo. Questo processo veniva elaborato sullo sfondo di quella psicoanalisi che egli intendeva superare, come puntualmente fece. Le implicazioni filosofiche del suo sistema di pensiero furono da lui appena abbozzate, perché non ebbe il tempo di approfondirle nella sua troppo breve vita. Rank fu senz’altro un geniale e completo ideatore di sistemi, 13

alla pari con Adler e Jung, e sotto alcuni aspetti a loro superiore. Di Adler, infatti, rispettiamo la solidità di giudizio, l’incisività della visione e l’inflessibile umanesimo. Di Jung ammiriamo il coraggio e l’apertura mentale che lo portò ad abbracciare scienza e religione. Ma il sistema di Rank li supera ambedue nelle sue implicazioni, aperte ad un più largo e approfondito sviluppo delle scienze sociali, che fino ad oggi sono state appena sfiorate. Paul Roazen nel suo The Legend of Freud4 osserva giustamente che «qualsiasi scrittore, i cui errori hanno richiesto —per essere scoperti — tutto questo tempo, dev’essere di sicuro un personaggio di rilievo nella storia intellettuale». Va però notato che assai per tempo Adler, Jung e Rank denunciarono e corressero gli errori fondamentali di Freud. Per gli storici rimane comunque da spiegare come — forse per la natura dogmatica del movimento psicoanalitico stesso — sia accaduto che tali tempestive correzioni siano state così ignorate e buttate ai margini nello studio delle correnti principali del pensiero scientifico.

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Anche un libro di indole generale dev’essere molto selettivo riguardo alle verità che intende spigolare da quella montagna di verità che ci sta schiacciando. Nomi famosi nel campo del pensiero appaiono qui solo di sfuggita: il lettore potrà forse stupirsi, ad esempio, che io faccia continuamente ricorso a Rank, mentre accenno appena a Jung, in un volume che ha, come argomento principale, l’ermetica chiusura della psicoanalisi nei confronti della religione. Una delle ragioni — risponderò — è che Jung è già molto conosciuto ed ha molti 14

portavoce efficienti, mentre Rank è generalmente ignorato. Un ‘altra ragione è che il pensiero di Rank — quantunque difficile — è sempre molto centrato sui problemi essenziali, mentre Jung lo è meno e spesso scantona in esoterismi inutili, col risultato di chiarire con una mano e di oscurare con l’altra. Non riesco a capire, per fare un esempio, a che servano tutti i suoi tomi sull’alchimia, che non hanno niente da spartire colla psicoanalisi.

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Per molte delle più felici espressioni sulla natura dell’uomo mi riconosco debitore alle conversazioni avute con Marie Becker, la cui finezza e realismo in questa materia è eccezionalmente rara. Rivolgo poi il mio ringraziamento — anche se egli, com’è uso, lo respingerà — a Paul Roazen per la sua gentilezza nel far passare il Capitolo VI al setaccio della sua profonda conoscenza di Freud. Robert N. Bellah ha riletto con cura l’intero manoscritto e gli sono assai riconoscente per le sue critiche d’insieme e per alcuni specifici suggerimenti. Quelli che sono stato capace di attuare hanno senz’altro migliorato il libro; per gli altri, temo invece che essi coinvolgano l’impegno, più vasto e di più difficile conseguimento, di cambiare me stesso. 1 RANK, lettera del 2-8-33, nella eccellente biografia di Jessie Taft, Otto Rank

(New York: Julian Press, 1958), p. 175. 2 LAD, p. 322. 3 PERLS F.S., HEFFERLINE R.F. e GOODMAN P., Gestalt Therapy (New

York: Delta Books, 1951), p. 395 note (trad. Teoria e pratica della terapia della 15

Gestalt, Roma: Astrolabio). 4 ROAZEN P., The Virginia Quarterly Review, Winter, 1971, p. 33.

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IL RIFIUTO DELLA MORTE

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I INTRODUZIONE: NATURA UMANA ED EROISMO

In epoche come la nostra si insiste molto sulla formulazione di concetti che aiutino l’uomo a capire i suoi problemi: ci si muove con impeto alla ricerca di idee vitali, nello sforzo di semplificare un’inutile complessità intellettuale. E tutto ciò sfocia, talvolta, in macroscopiche menzogne che, se da un lato allentano tensioni e facilitano un genere di attivismo adeguato a quella superficiale razionalizzazione che occorre alla gente, rallentano però quel disincagliamento di verità che permetterebbe all’uomo di prendere coscienza di quel che gli sta succedendo e che gli indicherebbe con chiarezza quali siano i suoi veri problemi. Uno di questi concetti vitali, da molto tempo noto, è l’idea di eroismo, anche se durante un normale corso di studi non le abbiamo dato molto peso, né l’abbiamo sbandierata e usata come elemento centrale. Tuttavia la mentalità popolare ne ha sempre riconosciuto l’importanza, come testimonia William James, che quasi di tutto s’è interessato, quando — sul finire del secolo scorso — affermava: «Il comune istinto della razza umana per la realtà… ha sempre ritenuto che il mondo fosse essenzialmente un teatro per l’eroismo»1. E non è solo convinzione della gente comune, ma anche di pensatori di tutti i tempi e, in particolare, di due che rappresentano l’attuale cultura, quali Emerson e Nietzsche. Essi riescono ancora ad entusiasmarci perché il 18

loro richiamo ai gesti eroici, nostra vocazione centrale su questo pianeta, corrisponde al nostro istinto. Uno dei possibili modi di riguardare lo sviluppo complessivo delle scienze sociali nel dopo-Marx e della psicologia nel dopo-Freud, è che tale sviluppo rappresenta un massiccio dettagliamento e una profonda chiarificazione del problema dell’eroismo umano. Questa prospettiva stabilisce il tono per la serietà della nostra discussione: noi possediamo, ora, la traccia scientifica per una vera comprensione della natura dell’eroismo umano e della sua collocazione nella vita dell’uomo. Se il «comune istinto umano per la realtà» è giusto, abbiamo allora compiuto la notevole impresa di spiegare quella realtà in modo scientifico. Uno dei concetti-chiave per capire l’impellente istinto dell’uomo verso l’eroismo è l’idea di «narcisismo». Quest’idea — come bene ci ha ricordato Erich Fromm — rappresenta uno dei grandi e duraturi contributi di Freud, che scoprì come, in ognuno di noi, si ripeta la tragedia del mitico personaggio greco Narciso: noi siamo irrimediabilmente assorbiti da noi stessi. Se di qualcuno ci preoccupiamo, è di noi stessi anzitutto. Come già diceva Aristotele, la fortuna consiste nel fatto che ad essere colpito da una freccia, è l’individuo che ci sta accanto. Quasi venticinque secoli di storia non hanno affatto intaccato il narcisismo fondamentale dell’uomo: in gran parte dei casi, per la maggior parte di noi, quella di Aristotele rappresenta ancora un’appropriata definizione della fortuna. Uno degli aspetti più odiosi del narcisismo è la sensazione che tutti sono praticamente spendibili, eccetto noi stessi. Noi dovremmo sentirci pronti, a detta di Emerson, a creare 19

radicalmente, partendo da noi, un intero nuovo mondo, anche se non esistesse più alcun altro. L’idea è terrificante, perché non sappiamo come riuscirci senza l’aiuto di altri: tuttavia la risorsa fondamentale esiste, perché possiamo anche bastare da soli se abbiamo abbastanza fiducia in noi, come Emerson vorrebbe. Ed anche se emotivamente non sentiamo tutta questa fiducia, pure la maggioranza di noi si batterebbe fino all’estremo per sopravvivere, anche se attorno a noi morisse un’infinità di gente. Il nostro organismo è pronto, anche da solo, a riempire il mondo, per quanto una simile prospettiva ci faccia rabbrividire. È questo narcisismo che fa avanzare gli uomini sotto il fuoco incrociato, in guerra, perché nel suo intimo uno non sente che lui stesso dovrà morire: prova soltanto pena per chi gli sta accanto. Freud spiegava tutto ciò col fatto che il nostro inconscio non conosce la morte o il tempo: nei suoi recessi fisio-chimici più profondi l’uomo si sente immortale. Nessuna delle situazioni sopraelencate implica una qualche umana malizia, perché ben poco può l’uomo per controllare il suo egoismo, che sembra derivargli dalla natura animale. Per infinite epoche evolutive l’organismo ha dovuto salvaguardare la propria integrità: stabilita una sua identità fisiochimica, esso si dava da fare per preservarla. Da ciò deriva uno dei problemi principali nel trapianto degli organi: l’organismo si difende contro l’intrusione di materia aliena, anche se si tratta di un cuore destinato a mantenerlo in vita. Un elementare protoplasma protegge ciò che gli appartiene e coltiva se stesso contro l’universo mondo, contro qualsiasi invasione lesiva della sua integrità: sembra godere del suo pulsare, espandendosi in quel mondo di cui ingerisce particelle. Se si potesse prendere un qualche 20

organismo sordo e cieco, renderlo cosciente e dargli un nome, se lo si potesse sollevare in mezzo alla natura e dargli la nozione della sua unicità, automaticamente si avrebbe il narcisismo. È esattamente questo che s’è verificato nell’uomo, nel quale l’identità fisiochimica, il senso del proprio potere e l’attività sono diventati coscienti. Nell’uomo un pratico livello di narcisismo è inseparabile dalla stima di sé e da un fondamentale senso del proprio valore. Secondo Alfred Adler; il bisogno più impellente dell’uomo è di sentirsi sicuro nella propria stima. L’uomo non è soltanto un cieco grumo di inerte protoplasma, ma una creatura che ha un nome e che vive in un mondo di simboli e di sogni, ben diverso dalla semplice materia. Il senso del proprio valore è costituito simbolicamente e il suo prezioso narcisismo si alimenta con simboli, su un’astratta idea del suo proprio valore: un’idea che è fatta di suoni, di parole e di immagini che si incarnano in modi assai vari. Ciò vuol dire che la naturale sete dell’uomo per un’attività consona al suo organismo, per il piacere che gli deriva dall’associarsi ed espandersi, può trovare alimento inesauribile nel mondo dei simboli e così sfociare nell’immortalità. L’organismo singolo può allargarsi fino a conglobare mondi e tempi, pur senza spostarsi di un dito e può assorbire in se stesso l’eternità, persino nel suo rantolo finale. Nella fanciullezza, questa lotta per la propria stima viene fuori senza maschera: il fanciullo non prova vergogna per quanto riguarda ciò che gli occorre e desidera di più. È lo stesso suo organismo che urla le richieste del suo naturale narcisismo. Tale richiesta può rendere infernale la fanciullezza per gli adulti che debbono confrontarvisi, 21

soprattutto quando vi siano parecchi bambini, che competono insieme e allo stesso tempo per le prerogative di un ingrandimento senza limiti di se stessi, che potremmo chiamare «significazione cosmica». Questo termine non va preso alla leggera perché su di esso verterà la nostra discussione. Noi scherziamo facilmente sulla «rivalità tra rampolli», come se si trattasse di una specie di sottoprodotto del processo di crescita: un pizzico di competitività e di egoismo in ragazzi un po’ viziati e che non hanno ancora sviluppato un carattere generosamente socievole. Ma il fenomeno è troppo universale e implacabile per essere soltanto un’aberrazione, poiché esprime il vero fondo della creatura: il desiderio di emergere, di essere unico al mondo. Allorché si fondono insieme il narcisismo naturale con il fondamentale bisogno di stima di se stessi, ne salta fuori un essere che deve sentire se stesso come oggetto di valore primario: primo nell’universo, che riassume in sé l’insieme dei viventi. È questa la ragione per le quotidiane rabbiose baruffe tra rampolli d’una stessa famiglia: il fanciullo non può permettersi di risultare secondo e trascurato o — peggio ancora — escluso. «Gli hai dato il pezzo più grande di dolce!». «Gli hai versato più sugo!». «Eccotene un altro poco, allora». «Ma adesso è lei che ne ha più di me!». «Hai lasciato accendere il fuoco nel caminetto a lei e non a me». «Va bene, accendi tu questo pezzo di carta». «Ma questo è più piccolo di quello che ha acceso lei!». E così via, all’infinito. Un animale che deriva il senso della propria importanza attraverso simboli deve per forza paragonarsi nei dettagli con quanti già stanno attorno, per accertarsi di non venirne fuori secondo, rispetto agli altri. La rivalità tra la prole è un 22

problema critico, che riflette un aspetto fondamentale della condizione umana: non si può concluderne che i ragazzi sono cattivi, egoisti o prepotenti. Essi altro non fanno che mettere apertamente in evidenza quello che è il tragico destino dell’uomo che, disperatamente, deve dimostrarsi oggetto di primaria importanza nell’universo, essere un eroe, dare il massimo contributo alla vita nel mondo, provare che egli conta più di qualsiasi cosa o di chiunque altro. Quando ci si rende conto di come sia naturale per l’uomo sforzarsi d’essere un eroe, in rispondenza alla sua costituzione evolutiva e organica, e come questa tendenza si riveli scopertamente da bambini, allora stupisce ancor più la cosciente ignoranza che la maggior parte di noi dimostra riguardo alle nostre vere aspirazioni e necessità. Sta il fatto che nella nostra cultura, soprattutto nell’epoca attuale, l’eroismo appare troppo grande per noi, o noi troppo piccoli per accollarcelo. Se a un giovanotto vien detto che è suo diritto aspirare ad essere un eroe, lo si vede arrossire di colpo. Le nostre intime lotte, noi oggi le mascheriamo accumulando cifre in un libretto di banca, che diventa così un riflesso privato del nostro senso di eroismo. Altri succedanei possono essere una casa più bella dei vicini, o una fuoriserie, o i figli più intelligenti. Però nel nostro profondo, dolorosamente, pulsa l’aspirazione ad essere qualcosa di unica rilevanza cosmica, anche se tale aspirazione vien nascosta dietro interessi di minor pretesa. Raramente qualcuno ammette di prender sul serio il suo ruolo di eroe, e il fatto — quando si verifica — ci fa, perloppiù, rabbrividire, come accadde quando il deputato americano Mendel Rivers, del Comitato per le spese militari, 23

proclamò che, dall’epoca di Giulio Cesare, egli era l’uomo più potente. Possiamo anche provare orrore per questa grossolana idea di eroismo, sia di Cesare che dei suoi tardi imitatori, ma essi non ne hanno colpa, poiché questa, se mai, va attribuita ai criteri con cui la società stabilisce i propri eroi e alla gente che accetta tale sistema. Tuttavia, la spinta all’eroismo è naturale ed è onesto ammetterla, perché così facendo si ovvierebbe all’esplosione di dilaganti forze che minacciano il disastro per molte società nella loro attuale configurazione. Il fatto è che questa configurazione è quella che la società ha oggi, ma che ha sempre avuto, anche in passato: vale a dire, un sistema di atti simbolici, una struttura di posizioni e di ruoli, usi e regole di condotta, destinati a inquadrare l’eroismo terreno. Ogni copione è, in qualche modo, unico, ogni cultura possiede un diverso sistema di valutare l’eroe. Ciò che gli antropologi definiscono col nome di «relativismo culturale», altro non è, in realtà, che la relatività dell’«essere eroi» nei vari paesi del mondo. Ma ciascun sistema culturale è una drammatizzazione dell’ideale di eroismo terreno: ciascun sistema esprime e definisce i ruoli per imprese di vario grado di eroismo, dall’«alto» eroismo di un Churchill, di un Mao o di un Buddha, all’«umile» eroismo di un minatore, di un contadino o di un prete di montagna, fino a quello semplice, quotidianamente terra-terra del bracciante che tira avanti la sua famiglia sotto l’incubo della fame e delle epidemie. Non ha molta importanza se, culturalmente, il sistema di eroismo è smaccatamente magico, religioso, primitivo o secolare, scientifico e civilizzato: si tratta, comunque, sempre di un mitico ideale eroico, a cui la gente si 24

sottomette per guadagnare un senso di primario valore, di unicità cosmica, di definitiva utilità nella creazione, di inalterabile significato. Essi conquistano questo sentimento scavandosi un posto nella natura, o costruendo un edificio che rifletta un valore umano: un tempio, una cattedrale, un totem, un grattacielo o una famiglia che si ramifica in tre generazioni. Vi è la speranza e la convinzione che le cose create dall’uomo nella società siano di duraturo valore e significato, che esse possano sopravvivere e sconfiggere il declino e la morte, che l’uomo e ciò che ha prodotto continuino ad avere importanza. Quando Norman O. Brown proclamava che la società occidentale del dopoNewton — per quante pose di scientismo o di secolarismo si dia — continua tuttora ad essere «religiosa» come qualsiasi altra, voleva dire esattamente questo: la società «civilizzata» altro non è che la fiduciosa credenza ed affermazione che la scienza, il denaro e i beni fanno sì che l’uomo conti più di qualsiasi altro animale. Sotto questo aspetto, qualunque cosa l’uomo faccia cade nella categoria del religioso e dell’eroico, che è tuttavia sempre in pericolo di risultare vano e fallibile. L’interrogativo più importante che l’uomo può proporsi è, perciò, semplicemente questo: in che misura è consapevole di quello che egli fa per guadagnarsi il proprio senso di eroismo? Affermavo, poco sopra, che se ognuno ammettesse candidamente la propria spinta ad essere eroe, ne risulterebbe una tremenda esplosione di verità. Gli uomini richiederebbero allora che l’ambiente culturale dia ciò che spetta loro: un senso primario di valore umano quali contributori unici alla vita cosmica. Come potrebbero, le nostre moderne società, far fronte a una tale candida richiesta, senza esserne scosse fin dalle fondamenta? 25

Soltanto quelle società che oggi chiamiamo «primitive» provvedevano un simile sentimento per i loro membri. Le minoranze, che nella nostra odierna società industriale schiamazzano per avere libertà e dignità umana, rozzamente chiedono che venga loro concesso un senso di primario eroismo del quale sono stati frodati nel corso della storia. Ed è appunto per questo che le loro insistenti richieste riescono cosi penose e inquietanti: com’è mai possibile concedere una cosa così irragionevole nel contesto dell’attuale società? «Essi chiedono l’impossibile», è l’espressione normale del nostro sconcerto. Ma la realtà riguardo al bisogno di essere «eroi» non è di facile ammissione per nessuno, persino per quelli che vogliono il riconoscimento delle loro richieste. Qui sta il guaio. Come vedremo nello sviluppo della nostra discussione, il diventare consapevoli di quel che si fa per giustificare il proprio senso d’eroismo, rappresenta il problema autoanalitico centrale della nostra vita. Tutte le dolorose e crude verità, messe in luce dai geni della religione e della psicoanalisi riguardo all’uomo, ruotano intorno al terrore di ammettere quel che si fa per guadagnare stima per se stessi. È questa la ragione per cui l’eroismo umano è una spinta cieca che consuma la gente e diventa, nei più passionali, un ululato per fame di gloria, altrettanto irrazionale che quello dei cani. Tra le masse più passive dei mediocri, tale spinta si maschera nell’adempimento umile e mugugnoso dei ruoli previsti dalla società come palestra del loro eroismo, mirando all’avanzamento nel quadro del sistema: si portano le uniformi prescritte, ma concedendosi qualcosa che permetta di distinguersi, senza però esporsi troppo. 26

Se strappassimo via questa maschera di massa ed eliminassimo i blocchi repressivi che gravano sulle tecniche usate dalla gente per guadagnarsi gloria, raggiungeremmo allora la questione più liberatoria fra tutte e il problema centrale della vita dell’uomo: quanto c’è di praticamente vero nel sistema di eroismo, sviluppato dalla nostra cultura, che regge e trascina gli uomini? Abbiamo già menzionato l’aspetto più odioso della spinta umana ad essere eroi, ma va ricordato anche il suo lato più nobile. L’uomo è pronto a dare la vita per la sua patria, per la sua società, per i suoi compagni: sceglierà di buttarsi su una granata per salvare i commilitoni, perché è capace della più assoluta generosità, fino all’estremo sacrificio. Deve però essere convinto che il gesto che compie è davvero eroico, che sorpassa i confini del tempo e riveste un supremo significato. La crisi della nostra epoca sta precisamente nel fatto che i giovani d’oggi non ravvisano niente di eroico negli schemi d’attività stabiliti per loro dalla corrente civiltà. Essi non credono che tali schemi, in concreto, rispondano adeguatamente ai problemi della loro vita e del loro tempo. Stiamo vivendo una crisi di eroismo che coinvolge tutti gli aspetti della nostra vita sociale: ai falliti dell’eroismo dell’università, del mondo degli affari e della carriera, s’aggiungono quelli dell’attivismo politico. Da tutto ciò sorge un’ondata di antieroi, che vorrebbero costruirsi un eroismo di loro invenzione, alla maniera di Charles Manson colla sua… straordinaria «famiglia»: sono coloro che, frustrati nei loro sogni di eroismo, si scatenano contro il sistema che, per loro, non offre più un ideale eroico accettabile. La grande incertezza del nostro tempo, il tormento della nostra epoca, è che la gioventù ha afferrato — per il meglio o per il peggio — una 27

grande verità socio-storica: cioè che, come esistono inutili eroici sacrifici in guerre ingiustificate, così vi sono ignobili eroismi di intere società, sia che si tratti del malvagio e distruttivo eroismo della Germania di Hitler, sia che si tratti dello stupido e volgare eroismo dell’accumulazione ostentata di ricchezze e di beni di consumo, o di potere e privilegi, che oggi caratterizzano interi modi di vita, sia nel mondo capitalistico che in quello sovietico. Alla crisi delle società civili corrisponde anche quella della religione organizzata, perché anch’essa non è più valida come sistema eroico e quindi la gioventù la disprezza. Se la cultura tradizionale è screditata per quanto riguarda l’eroismo, anche le chiese, che la sostengono, automaticamente cadono nello stesso discredito. Se invece una chiesa decide di insistere nei suoi propri ideali di eroismo, scoprirà di doversi scontrare su punti cruciali con la cultura dominante, di dover fare appello ai giovani perché siano anti-eroi rispetto ai modelli di vita della società in cui vivono. È questo il dilemma della religione del nostro tempo.

Conclusione

Quello che ho cercato di fare, in questa breve introduzione, è di suggerire come il problema dell’eroismo occupi il posto centrale della vita umana e come esso spinga le sue radici nelle profondità della nostra natura più di qualsiasi altra cosa, poiché esso si basa in quel narcisismo organico e in quel bisogno di stima di se stesso che è l’essenziale condizione di vita per il fanciullo. La società 28

stessa è un sistema di eroismo codificato, il che significa che, ovunque, la società rappresenta un mito vivente del senso della vita umana, una sfida creatrice di significato. Perciò ogni società — volente o nolente — è una «religione»: la «religione» sovietica e la «religione» maoista sono realmente altrettanto religiose quanto la «religione» scientifica o consumistica, anche se esse si sforzano di mascherare tale realtà eliminando dal loro sistema di vita qualsiasi idea spirituale e religiosa. Come vedremo più avanti, è stato Otto Rank a dimostrare psicologicamente la natura religiosa di tutte le creazioni culturali umane. Più recentemente quest’idea è stata ripresa da Norman O. Brown nel suo Life against Death e da Robert Jay Lifton in Revolutionary Immortality. Se accettiamo queste premesse, dobbiamo allora anche ammettere che qui stiamo trattando del problema umano universale per eccellenza: dobbiamo perciò essere disposti ad analizzarlo con la maggior onestà possibile e ad affrontare lo choc dell’autorivelazione dell’uomo, quale ci viene consentita dal contributo dei migliori pensatori. Piglieremo avvio dal pensiero di Kierkegaard e proseguiremo attraverso quello di Freud, per vedere dove approda questa… denudazione che dura ormai da 150 anni. Se la tagliente onestà di un pugno di libri possedesse la virtù di cambiare il mondo, gli autori sopra nominati avrebbero già dovuto scuotere le nazioni dalle loro fondamenta. Ma poiché tutto va avanti come se le vitali verità riguardanti l’uomo non esistessero, crediamo necessario aggiungere un altro peso sulla bilancia della scoperta dell’uomo. Per venticinque secoli abbiamo sperato e creduto che, se la razza umana avesse potuto rivelarsi a se stessa, mettendo a nudo le motivazioni segretamente 29

accarezzate, allora finalmente la bilancia si sarebbe piegata a suo favore. 1 JAMES W., Varieties of Religious Experience: a Study in Human Nature, 1902

(New York: Mentor Edition, 1958), p. 281.

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PARTE I L’EROISMO ALLA LUCE DELLA PSICOLOGIA DEL PROFONDO Non è che io beva per il semplice piacere del vino o per farmi beffe della fede [islamica]. No, è solo per dimenticare me stesso per un momento: questo solo chiedo all’ubriachezza, questo solo! OMAR KHAYYAM

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II IL TERRORE DELLA MORTE Non è forse dovere nostro confessare che, nel nostro atteggiamento civilizzato riguardo alla morte, una volta ancora noi viviamo psicologicamente al di là dei nostri mezzi e che dovremmo cambiare e dare alla verità ciò che le è dovuto? Non sarebbe forse meglio dare alla morte il posto che le compete nella nostra attuale situazione e nei nostri pensieri, e concedere un po’ più d’importanza a quell’inconscio atteggiamento verso la morte che abbiamo così accuratamente soffocato, finora? Questo non sembrerebbe davvero un grande successo e parrebbe, anzi» un passo indietro…, ma ha il merito di tenere in maggior conto la cruda realtà delle cose… SIGMUND FREUD1

Parlando di eroismo, la prima cosa da farsi è di svelarne la base nascosta su cui poggia e mostrare ciò che conferisce alle imprese eroiche degli uomini la loro specifica natura e impeto. Ci affacciamo così a una delle grandi riscoperte del pensiero moderno, e cioè che, tra tutte le cose che motivano l’uomo, una delle principali è il suo terrore della morte. Il problema della morte, nelle sue radici connesse all’evoluzione, tornò alla ribalta con Darwin e molti studiosi subito s’avvidero che si trattava di uno tra i maggiori problemi psicologici dell’uomo2. S’accorsero anche, immediatamente, quale fosse l’oggetto del concreto eroismo, secondo quanto Shaler scriveva verso il volgere del secolo3: 32

l’eroismo è, per prima cosa ed anzitutto, un riflesso del terrore della morte. Ciò che in massimo grado ammiriamo è il coraggio nell’affrontare la morte, al quale noi tributiamo la nostra più alta ed incondizionata stima. Tale forza d’animo tocca le fibre più intime del nostro cuore, perché non sappiamo quanto coraggiosi saremmo noi nelle stesse circostanze. Quando ci capita di vedere un uomo che serenamente affronta la sua fine, sappiamo d’esser spettatori della più grande vittoria immaginabile. È appunto per questo che l’eroe, probabilmente fin dagli inizi della specifica evoluzione umana, è sempre stato al centro dell’ammirazione e della lode. Ma anche in epoca anteriore i primati, nostri avi, cedevano il passo a quelli tra loro che si dimostravano più forti e coraggiosi, e ignoravano i codardi. Per questo l’uomo ha elevato a culto il coraggio animale. Nel secolo XIX, gli studi antropologici e storici cominciarono a mettere insieme un quadro dell’eroismo, sulla base di dati delle epoche primitive ed antiche. Eroe era colui che si spingeva nel mondo degli spiriti, nel mondo dei morti e ne ritornava vivo. Questo concetto trova propaggini nei culti misterici del Mediterraneo orientale, che erano centrati sulla morte e sulla risurrezione: in ciascuno di tali culti l’eroe mitico era qualcuno che aveva fatto ritorno dal regno dei morti. Come risulta oggi dalle ricerche sugli antichi miti e rituali, lo stesso cristianesimo dovette confrontarsi con i culti misterici, e prevalse anche perché — tra le altre ragioni — presentava, a sua volta, un operatore di miracoli risorto da morte. Il grande trionfo della Pasqua sta nel grido gioioso: «Cristo è risorto!» che, in qualche modo, fa eco alla stessa gioia che gli iniziati dei culti misterici manifestavano nelle loro celebrazioni di vittoria sulla morte. 33

Quei culti, come giustamente faceva notare G. Stanley Hall, erano un tentativo di «bagno immunitario» contro il male più tremendo: la morte e il suo terrore4. Tutte le religioni storiche si sono preoccupate dell’identico problema di rendere comprensibile e sopportabile la fine della vita. L’induismo e il buddhismo sono ricorsi all’ingegnoso trucco di pretendere l’aborrimento di qualsiasi rinascita, il che altro non è se non una specie di magia negativa e scaramantica, in quanto si proclama di non volere ciò che è la nostra massima aspirazione5. Quando la filosofia s’affiancò alla religione, ne rivelò anche il problema centrale e la morte divenne la vera «musa della filosofia», dai suoi inizi in Grecia fino ad Heidegger e all’esistenzialismo attuale6. Sull’argomento esistono volumi densi di considerazioni, che pigliano le mosse dalla religione e dalla filosofia e, dopo Darwin, anche dalla stessa scienza. Il problema verte sul significato e sulla giustificazione della morte: talmente numerosi studi e opinioni sulla paura della morte si sono accumulati in questi ultimi decenni, da renderne impossibile un semplice riassunto, soprattutto perché questa montagna di letteratura punta nelle direzioni più contrastanti e diverse.

L’argomentazione per una «mente sana»

Definendosi assertori di una «mente sana», vi è gente che sostiene che la paura della morte non è un sentimento naturale per l’uomo, perché quando nasciamo ci è sconosciuto. Un crescente numero di studi sul come concretamente si sviluppi nel bambino la paura della morte7, 34

concordano abbastanza sul fatto che il bambino non ha idea della morte fin verso i tre-cinque anni d’età. Né potrebbe essere diversamente, poiché tale idea è troppo astratta e lontana dalle sue esperienze. Il bambino è immerso in un mondo pieno di cose vive, che si muovono, reagiscono, lo divertono e lo nutrono. Non può sapere cosa significhi per un vivente sparire per sempre, né può teorizzare sul suo destino. Solo gradualmente si rende conto che esiste una cosa — chiamata morte — che porta via per sempre alcune persone. Con molta riluttanza arriva ad ammettere che, presto o tardi, essa porta tutti via, ma questa graduale presa di coscienza non sopravviene che tra i nove o dieci anni. Anche se il bambino non può comprendere un’idea così astratta come la negazione assoluta — il nulla —, ha però già ansietà sue proprie. Egli dipende radicalmente da sua madre e si sente solo quando quella è assente, è frustrato quando le sue voglie non sono accontentate, s’arrabbia se ha fame o si trova scomodo e così via. Se venisse abbandonato a se stesso, crollerebbe il suo mondo e il suo organismo ha, in qualche modo, coscienza di questo. Tale genere di ansietà viene designato col nome di perdita dell’oggetto e potrebbe, forse, identificarsi in una naturale paura di annientamento, radicata nell’organismo stesso. Molti sono però coloro che considerano questo fatto molto relativo, perché sono convinti che, se una madre adempie al suo compito in modo affettuoso e metodico, il bambino svilupperà le sue ansietà naturali e i suoi complessi di colpa in maniera moderata e sarà in grado di mantenerli sotto il controllo della propria personalità in sviluppo8. Il bambino che passa attraverso buone esperienze materne, svilupperà un fondamentale senso di sicurezza e sfuggirà a morbosi timori di restare 35

abbandonato, di venire annientato, o cose simili9. Quando sarà cresciuto tanto da capire — verso i nove-dieci anni — razionalmente la morte, l’accetterà come parte della sua visione del mondo, ma l’idea non gli avvelenerà la fiducia nella vita. Lo psichiatra Rheingold afferma categoricamente che l’ansietà riguardante l’annientamento non rientra nella naturale esperienza del bambino, ma è indotta dai suoi rapporti negativi con una madre arcigna10. Questa teoria colloca l’intera responsabilità per l’insorgere di tale paura, non nella natura del bambino, ma nella condotta della sua nutrice. Per un altro psichiatra, meno estremista, l’aggravarsi della paura della morte è ascrivibile in gran parte alle esperienze del bambino coi genitori, al rifiuto ostile dei suoi impulsi vitali e, più genericamente, all’antagonismo della società verso la libertà umana e l’autoespansività11. Come vedremo in seguito una simile opinione è molto diffusa oggi tra coloro che appoggiano il vasto movimento per una vita libera da oppressioni, la spinta per una nuova libertà dei naturali istinti biologici, un nuovo atteggiamento di orgoglio e gioia per il corpo, la liquidazione del senso di pudore, di colpa e autodisprezzo. Secondo questo punto di vista, la paura della morte è un qualcosa che la società prima crea, e poi sfrutta contro la persona, per tenerla sottomessa. Lo psichiatra Moloney vi faceva riferimento come a un «meccanismo culturale» e Marcuse come ad una «ideologia»12. Norman O. Brown, in un libro che suscitò vasta eco e di cui ci occuperemo ancora più diffusamente, si spinse fino ad affermare che era ipotizzabile una nascita e uno sviluppo del bambino in una «seconda innocenza», libera dalla paura della morte, perché non avrebbe più 36

rinnegato la vitalità naturale e avrebbe lasciato il bambino totalmente aperto alla vita fisica13. Secondo quest’opinione, è abbastanza facile prevedere che quanti hanno avuto esperienze iniziali negative, risulteranno molto più morbosamente fissati nell’ansietà della morte e, se per caso da adulti si dedicheranno alla filosofia, della morte faranno probabilmente l’asse portante del loro pensiero, come accadde a Schopenhauer che, oltre ad odiare sua madre, giunse a proclamare la morte «musa della sua filosofia». Chi si ritrova con un carattere inacidito da esperienze particolarmente amare, per forza di cose diventa pessimista. Uno psicologo mi faceva osservare che, nel suo insieme, il terrore della morte era un’importazione di esistenzialisti e teologi protestanti, rimasti scottati dalle loro esperienze europee o che si trascinavano dietro il sovrappeso di un’eredità calvinista e luterana di negazione della vita. Anche il famoso psicologo Gardner Murphy propende per quest’idea ed esorta a studiare la persona che esibisce la paura della morte, che pone l’ansietà al centro dei suoi pensieri. Murphy si chiede perché il vivere la propria vita nell’amore e nella gioia non possa essere riguardato a sua volta come ideale vero e fondamentale14.

L’argomentazione per una «mente malata»

Le argomentazioni di coloro che sono assertori di una «mente sana», che abbiamo ora esposto, costituiscono soltanto un lato del quadro risultante dall’accumulo di ricerche e di pareri sul problema del terrore della morte. Vi è però una gran massa di gente che, pur dichiarandosi 37

d’accordo con queste osservazioni sugli effetti delle prime esperienze e pronti ad ammettere che queste abbiano potuto aggravare le ansietà naturali e le paure conseguenti, insistono con forza che, nondimeno, la paura della morte è naturale e presente in tutti e che è appunto questa paura fondamentale che influenza tutte le altre paure, perché nessuno ne è immune, per quanto ci si sforzi di mascherarla. In linea con questa corrente di pensiero si espresse molti anni fa, col suo abituale e colorito realismo, William James, definendo la morte il «verme al centro» della pretesa felicità dell’uomo15. E un grande studioso della natura umana, Max Scheler, pensava che tutti gli uomini dovessero necessariamente avere un qualche genere di intuizione di questo «verme annidato al centro», sia che l’ammettessero o no16. Innumeri altri autorevoli scrittori — alcuni dei quali citati nelle pagine che seguono — appartengono a questa scuola: studiosi della statura di Freud, molti della sua ristretta cerchia e seri ricercatori estranei alla psicoanalisi. Cosa mai si può dedurre da una disputa che vede schierati nei due diversi campi, opposti fra loro, autorità famose? Jacques Choron giunge a concludere che non sarà mai possibile decidere apoditticamente se la paura della morte rappresenti o no la nostra ansietà fondamentale17. In una materia come questa, tutto ciò che uno può fare è di schierarsi per una delle due parti ed esprimere la propria opinione, basandola sulle autorità che si giudicano più convincenti e presentando qualcuno dei loro argomenti più persuasivi. In tutta franchezza io sto con quelli della seconda scuola e questo intero volume è un tessuto di argomentazioni basate sull’universalità della paura della morte, o del suo «terrore», 38

come io preferisco chiamarlo, appunto per provare come esso tutto coinvolga e consumi, quando lo si guardi bene in faccia. Il primo documento che voglio presentare, soffermandomi, è una relazione del famoso psicoanalista Gregory Zilboorg. Si tratta di un penetrante saggio che, per stringatezza e portata, non è stato ancora molto superato, anche se apparso da molte decine d’anni18. Zilboorg scrive che molta gente crede che la paura della morte non esista, perché raramente mostra il suo vero volto. Egli afferma, però, che dietro qualsiasi facciata, la paura della morte è sempre presente:

… perché dietro al senso d’insicurezza di fronte al pericolo, dietro al senso di scoraggiamento e di depressione, s’annida sempre la fondamentale paura della morte: una paura che può subire le elaborazioni più complesse e si manifesta in molteplici modi indiretti… Nessuno è esente dalla paura della morte… Le nevrosi da ansietà, i vari stati di fobia, un gran numero di manie depressive e suicide, e molte schizofrenie, dimostrano ampiamente la presenza costante della paura della morte, che risulta inestricabilmente intrecciata nei maggiori conflitti delle condizioni psicopatologiche sopra ricordate… Possiamo tranquillamente ritenere che la paura della morte è sempre presente nel nostro funzionamento mentale19.

Già James, in antecedenza, aveva detto — a suo modo — la stessa cosa:

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Gli assertori ad oltranza della nostra «sanità mentale» possono sbandierare quanto vogliono la nostra formidabile capacità di vivere al momento, di ignorare e di dimenticare. Tuttavia la tetra conclusione è concretamente viva nel nostro pensiero e il teschio ghigna sui nostri banchetti20.

La differenza fra queste due dichiarazioni non consiste tanto nelle immagini e nello stile, quanto nel fatto che Zilboorg scrive quasi cinquant’anni dopo James e fonda le sue conclusioni su una ricerca clinica molto più solida, invece che soltanto sulla speculazione filosofica o sulle intuizioni personali. Zilboorg, però, continua nella diretta linea di sviluppo tracciata da James o dai seguaci di Darwin, che vedevano nella paura della morte un problema legato all’evoluzione biologica. A mio avviso, egli si muove qui su un terreno molto sicuro ed è ammirevole il modo in cui presenta il suo assunto, poiché sottolinea come tale paura concretamente altro non sia se non un’espressione dell’istinto di autoconservazione, che svolge il compito di spinta costante a mantenere la vita e a dominare i pericoli che la minacciano:

Un così costante dispendio di energia psichica allo scopo di preservare la vita, risulterebbe inspiegabile se altrettanto costante non fosse anche la paura della morte. Lo stesso termine di «autoconservazione» implica uno sforzo rivolto contro una qualche energia disintegrativa. L’aspetto affettivo di tutto ciò è la paura: paura della morte21.

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In altri termini, la paura della morte dev’essere presente dietro l’intero normale funzionamento nostro, perché l’organismo sia mobilitato a difesa dell’autoconservazione. Tuttavia la paura della morte non può essere presente di continuo nel nostro funzionamento mentale, perché altrimenti l’organismo s’incepperebbe. Zilboorg così prosegue:

Se tale paura fosse sempre presente a livello di coscienza, ci sarebbe impossibile svolgere le nostre funzioni in modo normale. Essa deve perciò venir repressa in maniera appropriata perché la nostra vita si svolga con un minimo di agio. Sappiamo benissimo che reprimere ha un significato diverso da accantonare, magari dimenticandosi di ciò che s’è messo in disparte. Reprimere significa mantenere un continuo sforzo psicologico per tener chiuso il coperchio e non allentare mai la nostra interiore vigilanza22.

In questo modo riesce possibile capire quello che sembra un inconciliabile paradosso: la paura della morte sempre presente nel funzionamento biologico del nostro istinto di autoconservazione e, insieme, il nostro completo oblio di tale paura nella nostra vita cosciente:

Perciò, in circostanze normali, noi ci diamo da fare come se non credessimo affatto alla nostra morte, come se fossimo pienamente convinti dell’immortalità del nostro corpo. Noi ci impegnamo a dominare la morte… Uno dirà che, naturalmente, sa di dover morire un giorno, ma non se ne preoccupa, 41

concretamente. Pensa a godere della vita e dimentica la morte, di cui non vuole preoccuparsi… Ma tutto questo è chiacchera e posa intellettuale. È appunto così che la paura viene repressa…23.

L’argomento tratto dall’evoluzione biologica è fondamentale e va preso sul serio: non vedo come lo si possa trascurare in una qualsiasi discussione. Gli animali, per sopravvivere, debbono essere protetti da stimoli di paura, non soltanto in rapporto agli altri animali, ma anche nei confronti della stessa natura. Essi debbono intravvedere il rapporto concreto delle loro limitate forze col pericoloso mondo che li circonda. L’obiettività e la paura procedono insieme in modo naturale. Poiché i piccoli dell’uomo si trovano in una situazione d’impotenza che li espone più di qualsiasi altro animale, sarebbe sciocco credere che lo stimolo della paura, attivo nelle specie inferiori, fosse sparito in una specie così debole e sensibile come quella umana. È più ragionevole pensare che, invece, tale stimolo e la sua risposta risultino accentuati, come opinavano alcuni dei primi seguaci di Darwin: tra gli uomini primitivi, quelli più soggetti a paure erano proprio coloro che meglio afferravano la realtà della loro situazione nella natura e che poi trasmisero ai loro discendenti quel realismo così importante ai fini della sopravvivenza24. Il risultato di ciò fu l’apparizione dell’uomo quale noi lo conosciamo: un animale iperansioso che si inventa sempre nuovi motivi d’ansietà, anche dove non ne esistono. L’argomento derivato dalla psicoanalisi è meno speculativo e va preso ancora più seriamente. Esso ci ha rivelato qualche squarcio di quel mondo interiore del 42

bambino che non avevamo mai capito: cioè che esso è tanto più pieno di terrori, quanto più il bambino è diverso dagli altri animali. Verrebbe spontaneo affermare che la paura, negli animali inferiori, è programmata da istinti appositi, e quindi in un animale che non possiede istinti non dovrebbe esservi tale paura programmata. Le paure dell’uomo sono però forgiate dal modo in cui egli percepisce il mondo. Ora, nella percezione del mondo da parte del bambino v’è qualcosa di unico che, per un verso, riguarda l’estrema confusione del rapporto tra causa ed effetto e, per un altro verso, coinvolge l’incertezza tremenda sui limiti dei suoi poteri. Il bambino vive in uno stato di dipendenza totale e, quando le sue necessità vengono appagate, deve sembrargli di possedere poteri magici, quasi una vera onnipotenza. Se prova fame, dolore o disagio, basta che lanci uno strillo ed è subito soccorso e cullato con pronte e carezzevoli risposte. Egli si sente un mago, munito di poteri telepatici, che ha solo da balbettare o desiderare qualcosa perché l’universo si volga ai suoi voleri. Ma queste percezioni esaltanti pagano un loro scotto: in quel magico mondo in cui una cosa ne richiama un’altra con un semplice pensiero, o sguardo, o strillo, troppe cose possono accadere a chiunque. Quando il bambino sperimenta le inevitabili e vere frustrazioni da parte dei suoi genitori, egli si sfoga facendoli oggetto del proprio odio e furia distruttiva. Non ha modo di sapere che i suoi sentimenti di malevolenza non rientrano in quello stesso quadro di poteri magici che operavano l’adempimento di tutti gli altri suoi desideri. Gli psicoanalisti affermano che la confusione conseguente a tutto ciò stia alla radice del complesso di colpa e del senso di abbandono del bambino. 43

In un suo bellissimo saggio, Wahl così riassume questa situazione paradossale:

I processi di socializzazione sono penosi e frustranti per tutti i bambini e, per conseguenza, nessuno riesce a non formare dentro di sé ostili auguri di morte contro chi si sforza di farne un essere sociale. Per questo, nessuno può sfuggire alla paura della morte personale, sia direttamente che in forma simbolica. La repressione è d’ordinario… immediata ed efficace…25.

Il bambino è troppo debole per accollargli la responsabilità per tutti questi sentimenti distruttivi e non è in grado di controllare la realizzazione magica dei suoi desideri. Questo è esattamente ciò che vogliamo dire quando parliamo di ego (o io) immaturo: il bambino non possiede la capacità sicura per organizzare le sue percezioni e il suo rapporto col mondo. Non può controllare la propria attività e non ha un comando effettivo sugli atti altrui. Perciò non ha un vero controllo sopra quel magico rapporto tra causa ed effetto che egli percepisce sia dentro di sé, sia al di fuori, nella natura e negli altri: i suoi desideri distruttivi potrebbero esplodere, ma altrettanto sarebbe possibile anche per quelli dei suoi genitori. Le forze della natura gli appaiono confuse, esternamente e internamente, e per un ego debole come il suo, un tale fatto è potenzialmente fonte di infinite fantasie di potere e di nuovi terrori. Il risultato è che il bambino — almeno qualche volta — vive in una profonda sensazione di caos, da cui sono immuni gli altri animali26. Ironicamente, anche quando al bambino riesce di stabilire, 44

tra causa ed effetto, un corretto rapporto, questo diventa un peso perché egli è incline ad esagerarlo e generalizzarlo. Un esempio pratico di ciò lo si ha in quello che gli psicoanalisti chiamano «principio del taglione». Il bambino schiaccia insetti, osserva il gatto che fa sparire un topo mangiandoselo, si unisce alla sua famiglia nel liquidare, a tavola, un coniglio che era un amore, ed altre cose del genere. Giunge così ad afferrare qualcosa dei rapporti di forza che esistono nel mondo, ma non gli riesce facile attribuire a tutti, questi fatti un valore relativo: se vede il padre che, con occhi e aspetto feroci, uccide un grosso ratto a bastonate, un bambino può pensare che la stessa sorte possa toccare anche a lui, soprattutto se sta nutrendo magici desideri distruttivi nei confronti del padre. Non è mia pretesa tracciare un quadro esatto di processi che non sono ancora ben definiti per noi o concludere che tutti i bambini vivano nell’identico mondo e con gli stessi problemi. Neanche è mia intenzione dipingere il mondo del bambino con colori più foschi di quanto siano quelli dell’ordinaria realtà, ma credo sia importante mostrare le penose contraddizioni che debbono esser presenti, almeno in alcune circostanze, e far vedere quanto fantastico sia il mondo dei primi anni di vita di un bambino. Potremo così comprendere meglio, forse, perché Zilboorg affermi che la paura della morte «subisce le elaborazioni più complesse e si manifesta in numerosi modi indiretti». Oppure, come Wahl perfettamente puntualizza, che la morte è un simbolo complesso, e non una cosa con contorni ben definiti, per il bambino:

… l’idea che il bambino si fa della morte non è di 45

qualcosa in particolare, ma piuttosto un composito di paradossi in contraddizione fra loro… la morte in se stessa non è solo uno stato, ma un simbolo complesso, il cui significato varia da una persona all’altra e da una cultura all’altra27.

Possiamo anche renderci conto perché i bambini abbiano i loro incubi ricorrenti, la loro universale fobia degli insetti e dei cani cattivi. Nel loro tormentato intimo, balenano simboli di numerose realtà inaccettabili: il terrore del mondo, l’orrore dei propri desideri distruttivi, la paura della vendetta dei genitori, la sparizione di cose, l’incapacità concreta di controllare qualunque cosa. Per qualsiasi animale questo sarebbe eccessivo, ma il bambino deve trangugiarselo: nessuna meraviglia che si svegli urlando, con regolarità quasi puntuale, durante il periodo in cui il suo ancor debole ego è sulla via del consolidamento.

La «sparizione» della paura della morte

A poco a poco gl’incubi si distanziano e si fanno più rari, anche se alcuni bambini ne soffrono più di altri. Ritorniamo così di nuovo agli inizi della nostra discussione, e cioè, a coloro che non credono che la paura della morte sia normale, ma pensano, invece, che si fondi su esasperazioni nevrotiche, originate da esperienze negative dei primi anni. Altrimenti — essi argomentano — come si spiegherebbe che così tanta gente, la gran maggioranza anzi, sopravviva alla ventata degl’incubi infantili e, raggiunta la maturità, viva tranquillamente la propria vita, senza preoccuparsi della morte? Come già osservava Montaigne, il contadino nutre 46

un’indifferenza profonda per la morte e una grande sopportazione per i disastri della vita. Se siamo tentati di dire che ciò è da attribuirsi alla sua stupidità, allora «impariamo tutti dalla stupidità»28. Oggi, sapendola più lunga di Montaigne, noi diremmo meglio «impariamo tutti dalla… repressione», ma la morale dell’episodio non suonerebbe diversa, perché la repressione si prende cura di quel complesso simbolo che è la morte, per attenuarne l’impatto per la maggioranza di noi. La sparizione della paura non significa, però, che essa non ci sia mai stata. L’argomentazione di quanti credono nell’universalità del terrore innato della morte, poggia la sua validità soprattutto su quello che ci è noto riguardo all’efficacia della repressione. La questione non potrà, forse, mai essere decisa in modo netto, perché se ci si trincera dietro la giustificazione che un concetto — in questo caso quello di morte — non è presente solo perché è stato represso, all’avversario non restano più argomenti. Ma il gioco non sarebbe molto pulito. Proprio questo tipo di argomentazioni fa sembrare a molti la psicoanalisi come poco scientifica, perché il paravento della repressione può prestarsi ad abusi. Tuttavia la repressione non è una parola magica per vincere le controversie: è un fenomeno reale che è stato possibile studiare e verificare in molteplici casi. Questi studi gli conferiscono legittimità come concetto scientifico e gli danno una certa affidabilità nella nostra disputa. Per prima cosa, esiste una sempre più documentata casistica nelle ricerche fatte per provare la coscienza della morte, rifiutata dalla repressione: per esse si fa ricorso a tests psicologici in cui vengono misurate le reazioni galvaniche della pelle. Il 47

risultato suggerisce che, sotto la facciata più calma, s’annida l’ansietà universale, il «verme che sta al centro»29. Come seconda cosa, non v’è niente al mondo di più efficace di uno choc concreto per far saltare le repressioni. Pochi anni addietro, riferirono di un aumento di nevrosi da ansia, nei bambini, in conseguenza di scosse telluriche nella California meridionale. Per questi bambini la scoperta che la vita include concretamente il pericolo di cataclismi, era troppo: di qui l’aperto scatenarsi di ansietà, che negli adulti, posti di fronte a un’incombente catastrofe, assumono l’aspetto di panico. Recentemente parecchie persone si sono procurate fratture e ferite varie azionando le aperture di emergenza e buttandosi giù durante il decollo di aerei, semplicemente perché terrorizzate dallo scoppio di ritorno in uno dei motori. Evidentemente l’innocuo tuono aveva risvegliato altre tempeste che rumoreggiano dentro gli uomini. Ancora più importante è, però, esaminare come la repressione funzioni: si tratta non già d’una semplice forza negativa che s’oppone ad energie vitali, poiché essa, anzi, sfrutta tali energie in modo creativo. Voglio dire, con questo, che le paure vengono naturalmente fagocitate dalla spinta espansiva del nostro organismo. Si direbbe che la natura abbia costruito negli organismi un’innata sanità mentale, che s’esprime nell’autocompiacimento, nella soddisfazione di esplicare nel mondo le proprie capacità, nell’aggiungere nuove cose a quelle già esistenti e nell’allargare senza fine il campo delle nuove proprie esperienze. Questi sono tutti elementi positivi che, realizzati gradualmente da un organismo robusto, generano soddisfazione. Santayana metteva la cosa in questi termini: 48

un leone si sente molto più sicuro di una gazzella di aver Dio dalla sua parte. Al livello più elementare l’organismo lavora attivamente per rimediare alla propria debolezza, sia cercando di espandersi, sia sforzandosi di perpetuare la propria esperienza vitale: invece di rattrappirsi in se stesso, si slancia verso una vita più intensa. Inoltre esso fa metodicamente una cosa per volta, evitando inutili distrazioni da quell’attività che interamente l’assorbe. Sembrerebbe questo il modo attraverso il quale la paura della morte viene accantonata con cura o fattivamente assorbita nei processi di espansione vitale. Di tanto in tanto ci può capitare sotto gli occhi un organismo umano che esplode di vita: sto pensando al ritratto che di Zorba il Greco ha delineato Nikos Kazantzakis. Zorba è l’incarnazione di quella distaccata e naturale vittoria dell’intenso vivere alla giornata sopra la timidezza e la morte, che ha il potere di coinvolgere anche gli altri nella propria fiamma vitale. Purtroppo Kazantzakis non era egli stesso Zorba — ed è parzialmente dovuto a questo se il personaggio suona un po’ falso, talvolta — e ben pochi uomini lo sono. E tuttavia ognuno è provvisto della propria attiva quota di narcisismo, anche se non è quella di un leone. Il bambino ben nutrito, curato e amato, sviluppa — come abbiamo detto — un senso di magica onnipotenza e di indistruttibilità, una sensazione di sperimentato potere e di sicuro appoggio. Nel suo profondo egli può immaginarsi eterno, anche se questa nozione gli è ancora estranea: si può dire che la repressione dell’idea d’essere mortale gli riesce facile perché contro di essa è ben corazzato dalla sua prepotente vitalità, impregnata di narcisismo. Fu questo tipo di personaggio che probabilmente indusse Freud ad affermare che il nostro 49

inconscio non conosce la morte. Sappiamo, comunque, che il narcisismo di base risulta accresciuto quando le esperienze infantili hanno avuto un chiaro carattere di irrobustimento della vita e di calda espansione del proprio io, fino a portare un individuo a sentirsi davvero qualcosa di speciale, l’autentico Numero Uno della creazione. Il risultato è che alcuni posseggono in misura maggiore ciò che lo psicoanalista Leon J. Saul ha chiamato opportunamente «sostegno interiore»30. In definitiva, questo altro non è che un senso di fiducia quasi corporea, prodotto dall’esperienza di uno che s’è veduto capace di superare abbastanza facilmente crisi severe ed anche bruschi cambiamenti di personalità. Tale sostegno interiore assume quasi la funzione che hanno gli istinti direttivi degli animali inferiori. Di nuovo viene spontaneo richiamarsi a Freud, che di sostegno interiore abbondava come pochi, grazie a sua madre e all’ambiente favorevole dei suoi primi anni: egli si rendeva conto della fiducia e del coraggio che ciò infonde nell’uomo, nei casi più aspri della vita e di fronte alla stessa morte per cancro, che Freud affrontò stoicamente. V’è qui nuova evidenza che il complesso simbolo della paura della morte è di intensità estremamente varia ed è, come Wahl concludeva, «profondamente collegato alla natura e alle vicissitudini del processo di sviluppo»31. Voglio, però, essere cauto e non attribuire esagerata importanza alla vitalità naturale e al sostegno interiore. Come vedremo nel capitolo VI, anche Freud, che pure aveva goduto d’un’infanzia eccezionalmente favorevole, durante tutta la vita soffrì di fobie e di ansietà della morte, tanto che giunse a percepire pienamente il mondo in chiave di naturale terrore. Io credo che il complesso simbolo della 50

morte sia mai assente, per quanta vitalità e sostegno interiore si abbiano. Inoltre, affermando che queste positive qualità rendono la repressione facile e spontanea, solo parzialmente diciamo il vero, perché di fatto tali qualità derivano la loro stessa forza proprio dalla repressione. Gli psichiatri argomentano che l’intensità della paura della morte varia a seconda del processo di sviluppo e, a mio avviso, una delle ragioni essenziali di questa variabilità è che la paura subisce mutazioni in quel processo. Se il bambino ha avuto un’infanzia molto serena, tanto meglio riuscirà a nascondere la paura della morte. In fin dei conti, la repressione è resa possibile dalla naturale identificazione del bambino con i poteri dei genitori. Se questi l’hanno tirato su con giusta cura, l’identificazione viene facile e indiscussa, e la sicurezza dei genitori nei confronti della morte diventa anche sua automaticamente. Cosa v’è mai di più naturale per bandire i propri timori, che l’appoggiarsi sull’autorità e sul potere di un altro? E quale altro significato ha l’intero periodo di crescita, se non l’impegno di pianificare la propria vita? Dovrò ancora affrontare questi argomenti per tutto questo libro ed è perciò inutile che li sviluppi in questi capitoli introduttivi. Quel che vedremo in seguito, è che l’uomo si costruisce un mondo a misura sua e poi si butta acriticamente nell’azione, senza troppo pensare. Egli accetta quella programmazione culturale che gli orienta il naso dove dovrebbe guardare, e non addenta il mondo in un sol boccone, come farebbe un gigante, ma a piccoli, comodi morsi, come fa il castoro. Impiega ogni genere di tecnica, che noi chiamiamo «difese caratteriali»: impara a non esporsi, a non emergere, ad acquattarsi al riparo dell’autorità altrui, incarnata sia in persone che in cose o in 51

istituzioni culturali, col risultato di agganciare la propria esistenza a quella convenzionale infallibilità di quel mondo che gli sta attorno. Non ha bisogno di nutrir timori, quando i suoi piedi sono solidamente impiantati e quando la sua vita è ben circoscritta nel labirinto già bell’e pronto. Tutto ciò che gli resta da fare è tuffarsi in avanti a capofitto, con l’obbligatorio zelo richiesto, in quei «sentieri del mondo» che gli sono stati additati fin dall’infanzia e nei quali, più avanti, sarà chiamato a camminare con dignitosa equanimità: con «quella strana forza di vivere alla giornata, ignorando e dimenticando», come puntualizzava James. Questa è la ragione profonda per cui il contadino di Montaigne è libero da turbamenti fino al termine stesso della vita, allorché l’Angelo della Morte, che gli è sempre stato a fianco, stende la sua ala. O almeno fino a che viene prematuramente svegliato di soprassalto e precipita in una intontita consapevolezza, come avviene in quel bel film di Cassavetes che ha per titolo «Husbands». In simili circostanze, quando albeggia quella consapevolezza che è sempre rimasta sepolta da frenetiche attività alla nostra portata, torna in pieno a galla ciò che la repressione mascherava e riemerge la paura della morte allo stato puro. Per questo motivo, quando la repressione è saltata e non funziona più, quando non è più possibile stordirsi con l’attività, la gente precipita in crisi psicotiche. V’è poi da aggiungere che la mentalità dei contadini è assai meno romantica di quanto Montaigne vorrebbe farci credere. L’equilibrio mentale del contadino è abbastanza spesso fondato su uno stile di vita che ha qualche elemento di pazzia e rappresenta una relativa protezione: basta osservare la vena di odio e di amarezza che vi affiora e che si esprime 52

in inimicizie, sfide, ripicche e liti di famiglia, cui vanno aggiunte la mentalità ristretta, la superstizione, l’abuso di autorità e così via. Toccheremo anche un’altra dimensione in cui, quel complesso simbolo che è la morte viene trasfigurata e superata dall’uomo: la credenza nell’immortalità, secondo la quale la sua vita sfocia nell’eterno. Per ora possiamo tirare la conclusione che esistono numerosi modi con cui la repressione agisce per calmare le ansietà dell’animale umano, ed egli quindi non ha bisogno alcuno d’essere ansioso. In queste pagine abbiamo tentato di riconciliare due divergenti tesi sulla paura della morte. Secondo noi la tesi «ambientale» e quella dell’«innatismo» fanno parte d’uno stesso quadro e finiscono col fondersi l’una coll’altra: tutto dipende dall’angolazione con cui si guarda al quadro, che può essere affrontato dal lato dei mascheramenti e delle mutazioni che la paura della morte subisce, oppure dal lato della sua apparente assenza. Da scienziato, con senso d’imbarazzo, ammetto che, qualunque angolazione si scelga, non si giunge mai ad afferrare la concreta realtà della paura della morte e perciò, con riluttanza, debbo convenire con Choron che, probabilmente, la questione non potrà mai essere risolta in maniera netta. Tuttavia da essa emerge qualcosa di estremamente importante, e cioè che vi sono differenti immagini dell’uomo, che egli può scegliere per inquadrarvisi. V’è, da una parte, l’immagine di un animale umano, parzialmente sordo alla realtà del mondo, che si sente dignitoso al massimo quando dimostra una certa dimentica noncuranza del suo destino, quando si lascia travolgere dalla 53

frenesia di vivere; che si sente all’apice della libertà quando vive in sicura dipendenza del potere costituito che lo avvolge ed è ridotto al minimo del proprio potere decisionale. Da un’altra parte v’è l’immagine di un animale umano, ipersensibile al mondo che non gli riesce di escludere da sé, e che per questo viene continuamente sbattuto nel confronto colle sue scarse capacità: è un essere palesemente imbarazzato nel muoversi e nell’agire, scarsamente padrone di sé e ben poco dignitoso. Dipende in gran parte da noi con quale delle due immagini scegliamo di identificarci. Esploriamo e sviluppiamo queste immagini più a fondo per vedere cosa ci rivelano. 1 FREUD S., «Thoughts for the Times on War and Death», 1915, Collected

Papers, vol. 4 (New York: Basic Books, 1959), pp. 316-317) (trad. Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, Freud Opere, vol. 8, Torino: Boringhieri, 1976). 2

Cf. per esempio, COCHRANE, «Ellie Metschnikoff and is Theory of an ‘Instinct de la mort’», International Journal of Psychoanalysis 1934, 15:265-270; Stanley Hall G., «Thanatophobia and Immortality», American Journal of Psychology, 1915, 26:550-613. 3

SHALER N.S., The Individual: A Study of Life and Death (New York: Appleton, 1900). 4 HALL G.S., «Thanatophobia», p. 562. 5 Cf. HARRINGTON A., The Immortalist (New York: Random House, 1969)

p. 82. 6 Vedere l’eccellente studio di CHORON J.: Death and Western Thought (New

York: Collier Books, 1963) (trad. La morte nel pensiero occidentale, Bari: De Donato, 1971).

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7 Vedere FEIFEL H., ed. The Meaning of Death (New York: McGraw-Hill,

1959), capitolo 6; ROCHLIN G., Griefs and Discontents (Boston: Little Brown, 1967), p. 67. 8

BOWLBY J., Maternal Care and Mental Health (Geneva: World Health Organization, 1952), p. 11 (trad. Cure materne e igiene mentale del fanciullo, Firenze: Giunti Barbera). 9 Cf. TIETZ W., «School Phobia and the Fear of Death», Mental Hygiene 1970,

54:565-568. 10 RHEINGOLD J.C., The Mother, Anxiety and Death: The Catastrophic Death

Complex (Boston: Little Brown, 1967) (trad. La madre, l’ansia e la morte, Firenze: Organizzazioni Speciali, 1972). 11 LEVIN A.J., «The Fiction of the Death Instinct», Psychiatric Quarterly, 1951,

25:257-281. 12 MOLONEY J.C., The Magic Cloak: A Contribution to the Psychology of

Authoritarianism (Wakefield, Mass.: Montrose Press, 1949) p. 217: MARCUSE H., «The Ideology of Death» in Feifel, The Meaning of Death, capitolo 5. 13 LAD, p. 270. 14 MURPHY G., «Discussion» in Feifel, The Meaning of Death, p. 320. 15 JAMES, Varietes, p. 121. 16 CHORON, Death, p. 17. 17 ZILBOORG G. «Fear of Death», Psychoanalytic Quarterly, 1943, 12:465-

475. Vedere in Eissler la sottile distinzione tecnica tra l’ansietà della morte ed il terrore di quest’ultima, nel suo libro di saggi in cui presenta una sottile discussione: EISSLER K.R., The Psychiatrist and the Dying Patient (New York: International Universities Press, 1955), p. 277. 18 [NOTA MANCANTE NELLA VERSIONE A STAMPA]

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19 ZILBOORG G., «Fear of Death», pp. 465-467. 20 JAMES, Varieties, p. 121. 21 ZILBOORG G., «Fear of Death» p. 467. Oppure possiamo dire molto più

precisamente, con Eissler, che la paura dell’annichilimento viene estesa dal proprio io fin dentro la consapevolezza della morte. Vedere The Psychiatrist and the Dying Patient, p. 267. 22 Ibid. 23 Ibid., pp. 468-471 passim. 24 Cf. SHALER, The Individual. 25 WAHL C.W., «Fear of Death» in Feifel, pp. 24-25. 26 Cf. MOLONEY, The Magic Cloak, p. 117. 27 WAHL C.W., «Fear of Death», pp. 25-26. 28 CHORON, Death, p. 100. 29

Cf. per esempio ALEXANDER I.E. et al., «Is Death a Matter of Indifference?», Journal of Psychology, 1957, 43:277-283; GREENBERG I.M. e ALEXANDER LE., «Some Correlates of Thoughts and Feelings Concerning Death», Hillside Hospital Journal, 1962, n. 2:120-126; GOLDING S.I. e al., «Anxiety and two Cognitive Forms of Resistance to the Idea of Death», Psychological Reports, 1966, 18:359-364. 30 SAUL L.J., «Inner Sustainment», Psychoanalytic Quarterly, 1970. 39:215-

222. 31 WAHL, «Fear of Death», p. 26.

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III LA RIELABORAZIONE DI ALCUNE IDEE BASILARI DELLA PSICOANALISI Dal bambino che ero a cinque anni a quello che son ora, non c’è che un passo. Da un neonato a un bambino di cinque anni c’è una spaventosa distanza. L. TOLSTOJ

Dopo aver tracciato le linee generali della nostra discussione, nei primi due capitoli, è tempo, ormai, di precisare gli argomenti. Perché mai il mondo risulta così tremendo per l’animale umano? Perché la gente prova tanta difficoltà nello scovare i mezzi per affrontare con coraggio e a viso aperto i propri terrori? Discutere questi temi ci porta diritti al cuore della teoria psicoanalitica, e quindi anche a quella rinascita, in chiave esistenziale, della psicologia di oggi. Da essa deriva una stupefacente chiarezza e intelligibilità della natura umana nella sua nuda realtà.

Il dilemma esistenziale dell’uomo

Abbiamo sempre saputo che nell’uomo c’è un qualcosa di particolare, un qualcosa di profondo che lo caratterizza e lo separa da tutti gli altri animali: un elemento che deve toccare il nocciolo del suo essere, che lo lega al suo doloroso destino, cui gli è impossibile sottrarsi. Per millenni, discutendo di questo «nocciolo» dell’uomo, i filosofi lo 57

indicarono come la sua «essenza», un qualcosa impiantato nel profondo della sua natura, una qualità o una sostanza speciale. Ma empiricamente questa misteriosa essenza non è mai saltata fuori e la peculiarità dell’uomo, a tutt’oggi, rimane un dilemma. La ragione dell’inafferrabilità dell’essenza dell’uomo, come Erich Fromm afferma in un suo eccellente saggio, è che tale essenza non esiste e che, semmai, l’essenza dell’uomo è la sua natura paradossale poiché egli per metà è animale e per l’altra metà appartiene al mondo dei simboli e delle idee1. Come vedremo meglio nel capitolo V, fu Kierkegaard a introdurre prepotentemente, nella moderna psicologia, il paradosso esistenziale, con la sua brillante analisi del mito di Adamo ed Eva, che infiltrò tale paradosso nella mentalità dell’occidente in modo incancellabile. In epoca recente ogni psicologo di qualche levatura, ha fatto, di quel paradosso, il principale problema della sua riflessione: Otto Rank — al cui pensiero, più avanti, dedicherò alcuni capitoli — più di chiunque altro logico e brillante, sulle orme di Kierkegaard, ma anche Cari Jung, Erich Fromm, Rollo May, Ernest Schachtel, Abraham Maslow, Harold F. Searles, Norman O. Brown, Laura Perls e altri. Noi possiamo designare questo paradosso esistenziale come la condizione dell’individualità dentro la limitatezza. L’uomo ha un’identità simbolica che lo solleva di prepotenza al di fuori e al di sopirà della natura. Egli rappresenta un io simbolico, una creatura provvista di nome e con una storia vitale. È un essere creativo, con una mente che spazia dall’immensità del cosmo alle particelle atomiche infinitesimali, che può collocarsi, aiutato dall’immaginazione — e oramai anche dalle macchine messe in orbita —, nelle 58

distese dello spazio e di là contemplare, divertito, la piccolezza del proprio pianeta. Questa sconfinata espansione, questa abilità, questo acume speculativo e — soprattutto — questa autocoscienza, conferiscono all’uomo la statura di un semidio in mezzo alla natura, come proclamavano i pensatori del Rinascimento. E tuttavia, nel contempo, come ben sapevano i saggi orientali, Duomo è un verme e pasto per i vermi. Qui sta il paradosso: egli è al di sopra della natura e insieme ineluttabilmente coinvolto in essa. C’è in lui un dualismo che ne fa un essere più sublime delle stelle, ma relegato in un corpo, vivo solo per il battito cardiaco e per l’inalazione d’aria e imparentato coi pesci, delle cui branchie porta ancora la traccia. Questo suo corpo è un involucro di carne che gli è estraneo e nemico in svariati modi, i più ripugnanti dei quali sono rappresentati da dolori e malattie, invecchiamento e morte. L’uomo è letteralmente spaccato in due: è cosciente della sua splendida unicità, in forza della quale è sollevato maestosamente sopra la natura, e tuttavia è destinato a marcire stupidamente sotterra e a sparire per sempre. Si tratta di un tremendo paradosso, al quale è difficile adattarsi e sopravvivere. Agli animali inferiori questa dolorosa contraddizione è, naturalmente, risparmiata, perché non hanno un’identità simbolica e quell’autocoscienza che essa comporta. Essi agiscono e si muovono per un riflesso che ha radice nei loro istinti. Quando, per caso, si fermano, si tratta soltanto di una pausa fisica. Interiormente restano anonimi, con fattezze anonime, immersi in un mondo estraneo al tempo, con una vita che pulsa stolidamente. Per questa ragione è stato troppo facile sterminare immensi branchi di bufali nel Far West: essi non 59

avevano cognizione della morte e continuavano placidi a pascolare mentre le altre bestie gli cadevano attorno fulminate. La conoscenza della morte è un concetto legato alla riflessione che, pietosamente, è risparmiata agli animali. Essi vivono e muoiono coll’identica noncuranza: pochi istanti di paura, qualche attimo di angoscia, ed è tutto finito. Ben diverso è trascorrere l’intera esistenza ossessionati da un destino di morte che costituisce l’incubo non solo delle notti, ma anche dei giorni più assolati. Soltanto se uno si lascia permeare fino al fondo del proprio pensiero e sentimento da tale paradosso, è in grado di capire pienamente quanto sia disperante per un animale trovarsi in una simile situazione. Credo abbiano perfettamente ragione coloro che sono del parere che la piena conoscenza della condizione umana porti l’uomo diritto alla pazzia. Nascono talvolta dei bambini muniti di branchie o di code, ma questi fatti non vengono pubblicizzati: chi può mai volere affrontare in pieno la realtà nostra, di creature che s’aggrappano ed ansimano per sopravvivere in un mondo che ci riesce inspiegabile? Penso che tali eventi illustrino il significato di quella raggelante riflessione di Pascal: «Gli uomini sono così necessariamente pazzi, che il non esserlo equivale a un’altra forma di pazzia». Necessariamente perché il dualismo esistenziale rappresenta una situazione impossibile e un lancinante dilemma. Pazzi perché, come vedremo, tutto ciò che l’uomo fa nel suo mondo di simboli, è un tentativo per negare e superare il suo destino grottesco. Egli si slancia alla cieca, in un oblio inseguito nei giochi di società, in trucchi psicologici, in preoccupazioni così avulse dalla realtà vera della sua situazione da costituire forme di pazzia: pazzia convenuta, 60

pazzia condivisa, pazzia dignitosa, ma pur sempre pazzia. «I tratti caratteristici», notava Sandor Ferenczi, una delle menti più brillanti del cerchio ristretto dei primi psicoanalisti che attorniavano Freud, «sono nient’altro che psicosi segrete». Questa non è una battuta lanciata alla leggera da un giovane inebriato della propria capacità diagnostica: si tratta, invece, di un maturo giudizio scientifico, d’inoppugnabile rigore, costruito dall’uomo nello sforzo di capirsi. Ferenczi era già penetrato oltre tutte le infinite maschere di cui la gente si serve per ingannare il mondo e nascondere le proprie psicosi. Più di recente Erich Fromm2 si chiedeva la ragione per cui la maggioranza delle persone non impazzisce di fronte alla contraddizione esistenziale tra il nostro io razionale, che sembra conferire all’uomo un valore infinito, non intaccabile dal tempo, e il nostro corpo, la cui materia vale poche migliaia di lire. Come riconciliare le due cose? Per capire il peso di questo dualismo, connesso alla condizione umana, dobbiamo renderci conto che il bambino non riesce ad afferrare bene nessuno dei due aspetti, nei cui confronti egli si trova sempre o esageratamente precoce o troppo ritardato. Il mondo che lo circonda accumula cose e sensazioni sopra di lui ed egli si trova sommerso. Fin dagli inizi il bambino è dotato di un raffinato sistema sensitivo, che si sviluppa rapidamente, fino a poter captare e assimilare nei particolari tutte le sensazioni che il suo mondo gli offre. Se a ciò si aggiunge il rapido sviluppo del linguaggio e dell’autocoscienza, accatastando il tutto sul debole fisico d’un bimbo, si capisce che egli rimane soverchiato dall’impegno di afferrare il proprio mondo con corretta sicurezza. Le esperienze del suo dualismo — io razionale e corpo — lo sopraffanno perché egli non riesce a 61

dominare nessuno dei due mondi. Il bambino non può ancora essere un equilibrato individuo sociale, esperto manipolatore di parole, agganciate al mondo delle idee, dei nomi e dei luoghi, e soprattutto gli sfugge l’idea del tempo, che rappresenta per lui un grande mistero, perché non sa nemmeno immaginare il significato e l’uso di un orologio. E non può neanche essere un animale adulto che lavora, procrea e compie le cose serie che vede verificarsi attorno a sé: non può fare «come papà» in alcun modo. È un prodigio, ma in aspettativa, perché non ancora capace di padroneggiare le esperienze sia del raziocinio che del corpo. Tuttavia le impressioni gli diluviano addosso e le sensazioni lo inondano: sente di dover dare un certo ordine e significato per poterle padroneggiare. Non è così facile per lui decidere se mettere i pensieri al di sopra del corpo, o il corpo al di sopra dei pensieri e mai c’è netta vittoria o chiara soluzione al dilemma esistenziale in cui il bimbo è coinvolto. È un suo problema fin quasi dagli inizi della vita, anche se è solo un bimbetto per affrontarlo. I bambini si sentono ossessionati da idee di cui non capiscono la necessità, da domande che sembrano sciocchezzuole, da regole di comportamento che li distolgono dalla spontanea espressione dei loro naturali istinti. Proprio quando si sforzano di dominare il corpo, di far finta che quasi non ci sia, di agire da «ometti», ecco che il corpo li sopraffà d’improvviso e li sommerge in vomiti ed escrementi. Le lacrime disperate del bambino sono la reazione al fallimento delle sue pretese di essere soltanto un animale razionale. Spesso poi il bambino si sporca volutamente e continua a bagnare il letto, appunto come protesta contro l’imposizione di regole razionali che per lui sono arbitrarie: pare voglia 62

così affermare che il corpo è la sua prima realtà e che egli vuole restare nel suo semplice Eden fisico e non essere scaraventato nel mondo del «buono e cattivo». Ci rendiamo così conto in un modo diretto e patetico che il cosiddetto carattere del bambino è un modus vivendi, raggiunto dopo la lotta più impari che qualsiasi animale affronti: una lotta che il bimbo non può mai realmente capire, perché non comprende ciò’ che gli accade, o perché reagisce come fa, che cosa è in gioco nella battaglia che sostiene. Qualsiasi esito, anche favorevole, in questo genere di guerra, è veramente una vittoria di Pirro: il carattere che ne risulta è nient’altro che una facciata costruita per il mondo, che nasconde però un’intima sconfitta. Il bambino emerge dalla lotta con un nome, una famiglia e dei compagni di gioco, tutti bene adattati a lui, ma il suo intimo rigurgita del ricordo ossessivo di impossibili battaglie e di tremende ansie da sofferenza, da solitudine, da buio, mescolate con desideri utopistici, sensazioni d’inesprimibile bellezza, di maestosità, di stupore e di mistero. A tutto ciò s’aggiungano le fantasie e allucinazioni di mescolanze impossibili tra il mondo corporeo e quello simbolico delle idee. Vedremo quasi subito come la sessualità entri in tutto questo con una sua precisa prospettiva, contribuendo a complicare ulteriormente il mondo del bambino. Crescere vuol dunque dire saper nascondere la massa di tessuto cicatrizzato che ancora pulsa penosamente nei nostri sogni. Abbiamo, dunque, visto come le due dimensioni dell’esistenza umana — il corpo e l’io — non sono mai conciliabili senza frattura, e ciò spiega la seconda parte della riflessione di Pascal: «Non essere pazzi, equivale a un’altra forma di pazzia». Qui Pascal prova che i grandi studiosi 63

della natura umana erano capaci di vedere dietro le maschere degli uomini, assai prima che fosse inventata la psicoanalisi scientifica. Non possedevano una documentazione clinica, ma vedevano che la repressione più gelida, l’equanimità più convincente, o l’autoapprezzamento più sofisticato, erano accurate menzogne costruite per gli altri e per se stessi. Colla documentazione clinica del pensiero psicoanalitico, abbiamo ora in mano un quadro abbastanza completo dei diversi stili del carattere umano che, seguendo Pascal, potremmo ora chiamare «stili di pazzia». Possiamo affermare che la psicoanalisi ci abbia rivelato il pesante scotto pagato per non aver voluto riconoscere la realtà vera della condizione umana, che potremmo definire il costo della pretesa di non essere pazzi. Se dovessimo dare la spiegazione più concisa della somma di mali che gli uomini si sono tirati addosso, a se stessi e al loro mondo, dall’inizio dei tempi fino all’immediato domani, non sarebbe in termini di ereditarietà animale dell’uomo, dei suoi istinti e della sua evoluzione che ci spiegheremmo: tale spiegazione va cercata nel pedaggio pagato per la sua pretesa d’essere mentalmente sano, nel tentativo di negare la sua vera condizione. Su questo vitale argomento torneremo ancora più avanti.

Il significato dell’analità

Nell’età di Freud, ogni studioso sensato ha dovuto per forza vivere una vita intellettuale tormentata. Lo affermo per esperienza personale. Abbonda di verità la visione freudiana del mondo, ma nello stesso tempo una gran parte di essa appare notevolmente sviata. Le ambiguità trasmesseci da 64

Freud non consistono tanto nelle idee erronee da lui avute, perché è stato relativamente facile scartarle. Il problema è rappresentato piuttosto dalle sue brillanti intuizioni, enunciate però in modo da coprire soltanto un lato delia realtà: è stato necessario un immenso sforzo di chiarificazione per adattarle anche al lato mancante. Occorreva, per fare questo, un valido schema in cui inquadrare l’insieme delle intuizioni psicoanalitiche, in modo che la loro verità potesse emergere chiara e senza ambiguità, libera dal riduzionismo, istintivismo e biologismo, propri del secolo XIX, che avevano condizionato Freud. Un tale schema è quello esistenziale: la reinterpretazione di Freud in un contesto esistenziale conferisce alle sue intuizioni la loro completa statura scientifica. Tale obbiettivo è stato di recente raggiunto brillantemente da Norman O. Brown3 nella sua reinterpretazione dell’idea di «analità» e del ruolo centrale che essa occupa nella teoria psicoanalitica. Probabilmente il valore principale del libro di Brown consiste nell’aver ripreso alcune idee, tra quelle di Freud, che apparivano le più esoteriche e strampalate, per farne una conquista sicura delle scienze umane. Sarei tentato di citare abbondantemente dalle ricchezze analitiche del volume di Brown, ma non farebbe senso ripetere ciò che già è stato scritto. Meglio limitarsi a sottolineare che la chiave fondamentale del problema dell’analità si ha nel fatto che esso riflette il problema del dualismo della condizione umana, col suo io cosciente e il suo corpo. L’analità, coi connessi problemi, sorge nell’infanzia perché appunto allora il bambino fa l’allarmante scoperta che il suo corpo è strano e fonte di 65

guai, e tuttavia le sue insopprimibili necessità si impongono su di lui. Per quanto voglia librarsi in voli sublimi di fantasia, alla fine deve ridiscendere a quella realtà. Curiosa ed umiliante all’estremo è la scoperta che il suo corpo ha, nella parte bassa posteriore, fuori della portata dello sguardo, un’apertura da cui affiorano odori puzzolenti e, peggio ancora, una materia ripugnante, di cui tutti hanno istintivo orrore. Da principio il bambino trova divertenti il proprio ano e le proprie feci e allegramente inserisce il dito nell’orifizio, poi lo annusa e talora spiaccica la materia fecale sui muri, inventando così nuovi giochi che assolvono l’importante compito di tutti i giochi: la scoperta, cioè, e l’esercizio delle sue naturali funzioni corporee. Così facendo stabilisce la sua padronanza in una zona piena di strane cose e afferma il suo potere e controllo sulle leggi deterministiche del mondo naturale, con un certo sfoggio di fantasia.4* Con i suoi giochi anali il bambino muove i suoi primi passi nella filosofia della condizione umana. Ma, come tutti i filosofi, rimane condizionato dalle sue scoperte e, nella vita, uno dei suoi principali impegni sarà il rifiuto di ciò che l’ano rappresenta e cioè che, di fatto, egli è nient’altro che corpo, per quanto riguarda la natura fisica. I valori naturali sono valori corporei, mentre i valori umani sono di ordine mentale. Questi, però, per quanto in alto possano sollevarsi, sono sempre basati sugli escrementi, senza i quali risulterebbero impossibili, e agli escrementi sono sempre richiamati, perché, come annotava Montaigne, anche se assiso sul trono più sublime del mondo, un-uomo siede sempre sul suo deretano. Di solito la gente ride per questa battuta, che suona come un richiamo alla fondamentale 66

eguaglianza di tutti, anche di quelli che respirano le arie rarefatte dell’autorità e del potere più orgoglioso. Se vogliamo spingere ancor oltre la nostra osservazione e dire non soltanto che gli uomini siedono sul loro deretano, ma sopra i mucchi dei loro escrementi, dai vapori maleodoranti, la battura cessa d’essere divertente. La tragedia del dualismo umano, e la sua ridicola situazione, diventano troppo realistici. L’ano e i suoi prodotti repellenti rappresentano non soltanto dei limiti fisici necessari e inevitabili, ma assurgono a simbolo del destino di tutto ciò che è corporeo e fatalmente va incontro alla corruzione e alla morte. Si capisce, in questo modo, che ciò che gli psicoanalisti hanno denominato «analità» — o carattere anale — sono in realtà forme dell’universale ribellione contro la decadenza e la morte. Vista in questa luce, una gran parte della massa più esoterica degli enunciati della psicoanalisi, diventa viva e comprensibile. Affermando che una persona è «anale», si vuol dire che è un po’ maniaca nel proteggersi contro gli accidenti della vita e i pericoli di morte, incline al ricorso ai simboli della cultura come mezzi sicuri per trionfare sopra il paradosso del nostro essere, impegnato a mostrarsi sotto qualsiasi aspetto, ma non quello animale. Quando si scorre la letteratura antropologica, si scoprono personaggi e autori che, nelle loro fatiche culturali, hanno dato prova di un carattere’ fondamentalmente anale e si costata che i primitivi hanno spesso offerto dimostrazioni smaccate di analità. Essi vogliono apparire assolutamente ignari di ciò che costituisce il loro fondamentale problema, ma non riescono a mascherare la maschera, per così dire, che ostentano riguardo alla precarietà e corruttibilità della condizione umana. Leggiamo, ad esempio, che i maschi della tribù dei 67

Chagga, portano per tutta la vita una specie di tappo anale, pretendendo di aver così sigillato l’ano e di non aver bisogno di defecare. Un evidente trionfo sopra la cruda corporeità! Si spiegano così anche il diffusissimo costume di segregare le donne in speciali capanne durante il loro periodo mestruale e gli innumeri tabù che circondano la mestruazione: ovviamente l’uomo cerca di controllare i misteriosi processi della natura che si manifestano nel suo corpo, dal quale non vuol essere condizionato5. L’analità spiega la ragione per cui gli uomini anelino a liberarsi dalle contraddizioni e ambiguità, perché prediligano simboli assolutamente puri e vogliano una loro verità colla V maiuscola. D’altra parte, quando la gente si ribella contro le artificialità e gli astratti simbolismi della cultura, ricade inevitabilmente nel corporeo. Si ritorna così a pensieri terrestri e a comportamenti improntati all’andazzo volgare. Un perfetto esempio di questo lo si ritrova nel film Brewster McCloud, dove discorsi, placche ufficiali e pareti luccicanti venivano bombardati dall’alto da bordate di escrementi. Un messaggio simile è presentato audacemente da parecchi registi d’oggi, nel tentativo di richiamare il mondo dall’ipocrisia verso una più obbiettiva ammissione della realtà della vita e del corpo. Stanley Kubrick ha fatto restare a bocca aperta gli spettatori presentando, nel suo film 2001, un uomo che, sbucando nello spazio, danza scimmiescamente al romantico ritmo d’un valzer di Strauss. Nell’Arancia meccanica lo stesso regista ha dimostrato come sia naturale e soddisfacente per un uomo assassinare e stuprare al ritmo trascendentalmente eroico della Nona di Beethoven. L’aspetto più sconvolgente dell’analità è che essa rivela 68

come tutta la cultura e tutte le attività creative dell’uomo rappresentino, per alcuni loro aspetti fondamentali, un’espressione di protesta contro la realtà naturale, un rifugio dalla concreta condizione umana e un tentativo per dimenticare che patetica creatura sia l’uomo. Uno dei capitoli più sbalorditivi dello studio di Brown è la sua presentazione dell’analità delle opere di Jonathan Swift. L’apice dell’orrore per Swift era costituito dal fatto che il bello, il sublime e lo stesso divino, fossero inestricabili dalle fondamentali funzioni animali. Nella testa del maschio adorante domina l’illusione che la perfetta bellezza femminile consista in un «capo aureolato e in ali angeliche, senza lo sconcio delle funzioni connesse colla parte inferiore»6. In una poesia di Swift un giovanotto spiega così la grottesca contraddizione che lo angoscia7:

Nor wonder how I lost my wits: Oh! Caelia, Caelia, Caelia shits! (Non ti stupir del mio impazzir: Caelia, ohibò!… fa la popò!).

In altri termini, si scorge qui l’assoluto contrasto che — nella mentalità del protagonista — esiste «tra l’essere innamorati e la coscienza delle funzioni escretive dell’amata»8. Già recentemente, nella sua brillante monografia sulle manie ossessive9, Erwin Straus sottolineava la profonda repulsione di Swift per l’animalità del corpo, con la sua sporcizia e corruzione. Sull’orrore di Swift, Straus esprimeva un giudizio più clinico, diagnosticandolo come un aspetto tipicamente ossessivo della sua visione del mondo: «Per tutti 69

i maniaci ossessivi il sesso appare distinto e privo dei suoi aspetti unificanti e procreativi… In conseguenza… dell’isolamento dei genitali dall’insieme del corpo, le funzioni sessuali sono viste come escrezioni corruttive»10. Il grado di distinzione frammentaria è estremamente vario, ma un po’ tutti abbiamo una visione più o meno ossessiva del mondo, almeno in qualche circostanza, e Freud affermava che non sono soltanto i nevrotici ad essere scandalizzati dal fatto che «nasciamo tra le urine e le feci»11. Inorridito per queste incongruenze dell’uomo, il poeta Swift presta la sua tormentata voce al dilemma che ci ossessiona tutti e che vale la pena di riassumere nella sua espressione finale: le funzioni escretive rappresentano la maledizione che ci minaccia di pazzia, perché dimostrano all’uomo il suo abbietto limite, la sua corporeità e la verosimile stoltezza delle sue speranze e dei suoi sogni. Ma in modo ancor più immediato, tali funzioni spiegano il totale sbigottimento dell’uomo di fronte al crudo controsenso che è la creazione: modellare quel sublime miracolo del viso umano, il mysterium tremendum della bellezza femminile — quelle autentiche dee che alcune donne sono —; creare dal nulla tutta questa bellezza che sfavilla nello splendore del meriggio: e dentro questo miracolo collocare altri profondi miracoli nel mistero dell’occhio che scruta, di fronte al quale provava un brivido lo stesso arido Darwin: tutta questa somma di miracoli combinata con un ano che defeca! È decisamente troppo! La natura si fa gioco di noi e i poeti ne vivono torturati. Ho cercato di convogliare qui un po’ dello choc che il problema dell’analità può scatenare quando venga affrontato sia in chiave scientifica che poetica, e se la cosa è riuscita con questa sbrigliata discussione, dovrebbe essere 70

comprensibile il significato e la portata del paradosso esistenziale: ciò che tormenta la gente è l’incongruità della vita quale essa è. Questa visione conduce a un totale riesame della teoria di Freud, non soltanto per quanto riguarda il problema dell’analità, ma anche sulla sua idea centrale, il complesso di Edipo. Soffermiamoci ora su questo, avvalendoci ancora della brillante riformulazione di Brown.

Il progetto edipico

Freud era tendenzialmente portato a capire le motivazioni umane in un modo che si potrebbe definire da primitivo, al punto che, quando discepoli della statura di Rank e Ferenczi lo piantarono, la loro accusa fu che Freud era un ingenuo. Naturalmente tale accusa è ridicola, ma contiene qualcosa di vero, a cui probabilmente i ribelli si rifacevano: cioè, la testardaggine con cui Freud rimase impiantato nelle sue smaccate formule sessuali. Per quanto fosse cambiato coll’avanzare degli anni, egli mantenne sempre viva la letteralità del dogma psicoanalitico e si batté contro qualsiasi annacquamento delle teorie da lui scoperte ed enunciate. Di ciò tratteremo più a fondo in un prossimo capitolo. Soffermiamoci, per ora, sul complesso di Edipo. Nelle sue prime opere Freud aveva proclamato che questo complesso costituiva il centro dinamico della vita psichica. Secondo il suo pensiero il ragazzo-bambino è dotato di innate spinte sessuali, fino al punto di voler possedere sua madre. Allo stesso tempo egli si renderebbe conto di avere nel padre un rivale, e deve perciò imporre un controllo all’aggressività 71

assassina nei suoi confronti. La ragione per questo controllo sta nella conoscenza che il bambino ha della superiore forza fisica del padre, per cui il risultato di uno scontro aperto sarebbe la vittoria del genitore e la castrazione del figlio. Di qui l’orrore del sangue, della mutilazione e degli organi femminili che appaiono come mutilati e danno prova che la castrazione esiste davvero. Freud apportò modifiche alle sue teorie durante il corso di tutta la sua vita, ma non le rinnegò mai completamente. Ciò non deve stupire perché esse risultavano confermate in qualche modo dalla gente che egli studiava: c’era davvero un qualche cosa che pesava sulla psiche dei nevrotici come un antico masso e che era centrato nell’ano, nei genitali, nella fisicità della famiglia e nei rapporti sessuali. Freud opinava che questo grave peso datasse dalla notte dei tempi, fin dai primi momenti del sorgere della specie umana nella vicenda evolutiva. Egli pensava che il complesso di colpa, che tutti sentiamo nel fondo di noi, risalisse ad un primordiale crimine di parricidio e di incesto, perpetrato all’alba della preistoria, tanto radicato è il senso di colpa e tanto impastoiato col corpo, col sesso e gli escrementi, e coi genitori. Freud non abbandonò mai le sue teorie perché gli apparivano corrette nel loro suggestivo aggancio colla realtà della condizione umana, anche se non lo erano completamente nella direzione da lui indicata o — meglio ancora — nel contesto in cui le inquadrava. Ci rendiamo conto, oggi, che tutte quelle ciance su sangue, feci, sesso e senso di colpa, suonano vere non perché basate su concrete spinte al parricidio e all’incesto, o su terrori di reale castrazione fisica, ma perché esse riflettono l’orrore che l’uomo prova per la sua fondamentale condizione animale: 72

una condizione che, da bambino, gli riesce, incomprensibile e, da adulto, inaccettabile. Il senso di colpa che egli prova riguardo ai suoi processi e istinti fisiologici è pura colpa: colpa come inibizione, come determinismo, come limitatezza e necessarietà. Essa è radicata nella costrizione della fondamentale condizione animale, col suo inafferrabile mistero del corpo e del mondo. Gli psicoanalisti, dal volgere del secolo, si preoccuparono delle esperienze infantili ma, piuttosto stranamente, soltanto in epoca recentissima si è riusciti a mettere insieme un quadro abbastanza completo e plausibile delle ragioni per cui l’infanzia rappresenta un periodo così cruciale per l’uomo. Tale quadro è dovuto al lavoro di molti studiosi e, in particolare, del negletto Rank, ma il merito principale va a Norman O. Brown che, a parer mio, lo ha elaborato e codificato definitivamente e con acume. Come egli argomentava nel suo orientamento delle teorie freudiane, il complesso di Edipo non è affatto quel problema esclusivamente sessuale di rivalità lussuriosa che Freud aveva presentato nei suoi primi lavori. Invece di complesso di Edipo, sarebbe più giusto parlare di progetto edipico, che in sé riassume il problema basilare della vita del bambino: se egli sarà un passivo oggetto del fato, un’appendice di altri e un trastullo della gente, o se invece diverrà attivamente centrato in se stesso e autosufficiente. In altre parole, se sarà capace o no di controllare il proprio destino colle facoltà di cui dispone. Così Brown precisava:

Il progetto edipico non è — come suggerivano le primitive formulazioni di Freud — un amore naturale per la madre ma, come Freud stesso riconosce nei suoi 73

scritti più tardivi, un prodotto del conflitto di ambivalenza e un tentativo per superare tale conflitto con un gonfiamento narcisistico. L’essenza del complesso edipico è il progetto di diventare Dio — causa sui, nell’espressione di Spinoza — … Allo stesso tempo esso mette apertamente in mostra un narcisismo infantile, pervertito dalla fuga dalla morte…

Se il compito principale che il bambino si prefigge è sfuggire alla propria impotenza e distruzione, è evidente che le mire sessuali sono secondarie e derivate, come afferma Brown:

Risulta così ancora che gli arrangiamenti sessuali, pregenitali e genitali, non trovano rispondenza nella naturale distribuzione dell’Eros nel corpo umano: essi rappresentano una collocazione enfatizzata di particolari funzioni in zone particolari… collegata a fantasie di umano narcisismo in fuga dalla morte12.

Allarghiamo un poco il discorso su queste preziosità tecniche. Il progetto edipico è la fuga dalla passività, dalla obliterazione e dalla contingenza: il bambino vuole superare la morte col diventare padre di se stesso, creatore e sostentatore della propria vita. Come accennavamo nel capitolo II, un bimbo può acquisire una qualche idea della morte fra i 3-5 anni, ma già molto prima egli s’industria per irrobustirsi e rendersi meno vulnerabile. Questo processo ha inizio naturalmente nei primi stadi dell’età infantile, in quella che è denominata fase orale. In questa fase il bambino non è ancora completamente differenziato dalla madre, nella 74

propria coscienza, non è ancora nella piena cognizione del proprio corpo e delle sue funzioni; o, per parlare in modo tecnico, il suo corpo non è ancora diventato oggetto del suo campo fenomenologico. La madre, in questa fase, rappresenta letteralmente il mondo vitale del bambino e tutti gli sforzi di lei sono diretti ad appagarne i desideri, ad alleviarne le tensioni e le sofferenze. Per conseguenza, il bambino, in questo periodo, è semplicemente pieno di se stesso, un sicuro manipolatore e campione del suo mondo. Egli vive nell’alone della sua onnipotenza e magicamente controlla tutto ciò di cui questa onnipotenza necessita. Basta uno strillo per ottenere cibo e calore, e un qualsiasi gesto riceve immediata risposta. È perciò logico che ci si riferisca a questo periodo come a quello del narcisismo primario: il bambino trionfalmente controlla il proprio mondo perché controlla sua madre. Il suo corpo rappresenta il suo progetto narcisistico ed egli se ne serve per tentare d’ingoiare il mondo. Parlare di stadio anale è un altro modo per riferirsi al periodo in cui il bambino comincia a volgere la propria attenzione al suo corpo che diventa cosi oggetto del suo campo fenomenico: lo scopre e si sforza di controllarlo. Il suo progetto narcisistico è allora indirizzato alla padronanza e al possesso del mondo attraverso il controllo di se stesso. In ciascuna fase della progressiva scoperta del suo mondo e dei problemi che esso presenta, il bambino si propone di forgiare quel mondo perché serva alla sua grandezza. Deve preservare la sensazione di assoluto potere e controllo e, a tale scopo, deve coltivare una certa indipendenza e la convinzione di organizzarsi la propria vita. Questa è la ragione per cui Brown, e prima di lui Rank, poterono 75

affermare che il progetto edipico è «inevitabilmente autogenerato nel bambino, e diretto contro i genitori, qualunque possa essere il loro comportamento». Per dirla con un paradosso, «i bambini si autoallenano al cesso»13. Il profondo significato di ciò è che non esiste una maniera perfetta per crescere un bambino, perché egli cresce da solo sforzandosi di forgiarsi come padrone assoluto del proprio destino. Poiché questa aspirazione è impossibile, ogni carattere risulta — in superficie o in profondità — fantasticamente irreale, fondamentalmente imperfetto. Ferenczi conclude così benissimo: «Il carattere dal punto di vista della psicoanalisi costituisce una specie di anormalità, una sorta di meccanizzazione di un particolare modo di reagire, abbastanza simile a un sintomo ossessivo»14.

Il complesso di castrazione

Per metterla in altri termini il progetto narcisistico di autocreazione, avvalendosi del corpo come base primaria delle operazioni, è destinato al fallimento. E il bambino lo scopre: questa scoperta rappresenta, secondo noi, il senso e l’importanza di ciò che viene designato come complesso di castrazione, che Freud delineò nei suoi scritti senili e che Rank15 e Brown descrissero dettagliatamente più tardi. Nella più moderna interpretazione, il complesso di castrazione non è più visto come la risposta del bambino a presunte minacce paterne. Come bene precisa Brown, il complesso di castrazione emerge soltanto dal confronto colla madre. Si tratta di un fenomeno assai cruciale, ed è giusto soffermarsi un poco sulla sua origine. 76

Tutto è centrato sul fatto che la madre monopolizza il mondo del bambino: da principio, anzi, essa costituisce il suo mondo. Il bambino non può sopravvivere senza di lei, e tuttavia, per giungere a controllare le sue forze, deve liberarsene. La madre, in questo modo, rappresenta due cose per il bambino ed è ciò che ci aiuta a capire perché gli psicoanalisti abbiano affermato che l’ambivalenza caratterizza l’intero primo periodo della crescita. Da un lato la madre è una squisita fonte di piacere e di soddisfazione, una forza sicura su cui appoggiarsi. Essa, per forza di cose, appare al bambino come una dea di bellezza e bontà, di vittoria e di potenza: è questo il suo lato luminoso, si potrebbe dire, verso il quale è ciecamente attratto. Ma dall’altro lato, il bambino sente di doversi svezzare da questa dipendenza, sotto pena di perdere il senso di sicurezza dei propri poteri. È un altro modo di affermare che la madre, appunto perché rappresenta la sicura dipendenza biologica, costituisce anche una fondamentale minaccia. Il bambino comincia a percepirla come minaccia ed è appunto questo confronto colla madre a rappresentare l’inizio del complesso di castrazione. Egli osserva che il corpo della madre è diverso da quello del maschio: stridentemente diverso. E questa diversità comincia gradualmente ad inquietarlo. Freud non tentò mai di annacquare lo choc legato alle rivelazioni della sua teoria e denominò «orrore per la creatura mutilata», cioè «la madre castrata», con «genitali privi del pene». L’orrore attribuito da Freud al bambino per simile scoperta, a molta gente suonava troppo artificioso, troppo opportunistico, troppo inventato per collimare colla mania freudania di spiegare tutto ricorrendo al sesso e ad un riduzionismo biologico. 77

Altri ancora videro, nel modo di pensare di Freud, un riflesso del suo connaturale patriarchismo, del suo marcato senso della superiorità maschile, secondo la quale la donna appariva naturalmente inferiore perché priva delle appendici maschili. È un fatto però che, anche se «l’orrore per la creatura mutilata» è costruito artificiosamente, è il bambino stesso a costruirselo. La relazione fedele di colloqui avuti da psicoanalisti coi loro pazienti nevrotici ne dà testimonianza. Ciò che tormenta i nevrotici — come, del resto, la maggioranza della gente — è il senso della propria impotenza, che va superata cercandosi un qualcosa a cui opporsi. Se la madre rappresenta la dipendenza biologica, tale dipendenza può essere combattuta accentuando l’attenzione sulla diversità sessuale. Se il bambino vuole diventare un dio — causa sui — deve, allora, sfidare i genitori, in qualche modo, e superarli, unitamente alle minacce e alle tentazioni che essi incarnano. Gli organi genitali sono una cosa insignificante nel mondo sensitivo del bambino, difficilmente traumatizzanti perché mancano di rilevanza. Come giustamente osserva Brown, l’orrore è un’«invenzione dello stesso bambino, una costruzione della sua fantasia, inseparabile dal suo piano immaginario di diventare padre di se stesso (e, in qualità di fantasia, soltanto remotamente legata alla vista concreta degli organi femminili)»16. O, per dirla in altro modo, potremmo affermare che il bambino feticizza il corpo della madre come un oggetto di pericolo globale per se stesso. È questo un modo per ridurne la statura, privandola del suo primario posto nella creazione. Servendoci della formula di Erwin Straus, diremmo che il bambino spazza via i genitali della madre dalla totalità di lei, come oggetto d’amore: essi 78

vengono allora percepiti come minaccia e corruzione.

L’invidia del pene

La vera minaccia rappresentata dalla madre viene ad essere collegata alla sua fisicità medesima. I genitali di lei diventano punto focale adatto per l’ossessione infantile riguardo al problema della fisicità. Se la madre è una dea di luce, è però anche una tenebrosa strega. Il bambino la vede legata alla terra, con processi corporei che la vincolano alla natura: il seno col suo strano latte appiccicoso, gli odori e il sangue mestruale, la quasi continua immersione della madre procreativa nella sua corporeità e, non ultimo, — un qualcosa a cui il bambino è estremamente sensibile — il carattere, spesso nevrotico e impotente di questa immersione. Quando il bambino ha sentore che la madre sta per avere un altro bimbo, la vede allattare, quando gli succede di esaminare da vicino oggetti sporchi di sangue mestruale, e la madre tranquilla che nemmeno ci fa caso, allora non ha più dubbi sulla sua totale immersione in processi di significato puramente corporeo e corruttibile. Ai suoi occhi la madre trasuda determinismo e il bambino reagisce con orrore di fronte alla completa dipendenza di lei da fenomeni che la rendono fisicamente vulnerabile. Si spiega così la preferenza per la mascolinità che ha il bambino, ma anche l’invidia del pene, esistente nelle bambine. Sia i maschietti che le femminucce cedono alla voglia di sfuggire al sesso rappresentato dalla madre17: non han bisogno di allettamenti per identificarsi col padre e col suo mondo. Egli appare più sganciato, fisicamente, più chiaramente robusto, meno condizionato da necessità 79

corporali; si presenta come più idealmente libero; rappresenta il vasto mondo esterno alla casa, il mondo sociale col suo organizzato trionfo sulla natura, l’evasione stessa dalla casualità, inseguita dal bambino.18* Sia il maschietto che la femminuccia si distanziano dalla madre per una specie di riflesso automatico delle loro necessità di crescita e d’indipendenza. Ma l’«orrore, terrore e disprezzo»19, che essi provano, fanno parte — come dicevamo — di quelle percezioni fantasiose di una situazione ch’essi non sanno fronteggiare. Tale situazione è costituita non soltanto dalla dipendenza biologica e dalla fisicità rappresentata dalla madre, ma anche dalla rivelazione tremenda del problema che è il proprio corpo, per un bambino. Il corpo della madre non soltanto rivela un sesso che minaccia vulnerabilità e dipendenza, ma assai di più: esso presenta il problema dei due sessi e così confronta il bambino col fatto che il suo corpo è un risultato del caso. Non si tratta tanto della scoperta che nessuno dei due sessi è «completo» in se stesso o che ciascuno dei due rappresenta una limitazione di potenziale e, in un certo modo, un furto della pienezza vitale: il bambino non è ancora in grado di afferrare questi concetti e sentimenti. E non si tratta neanche di un problema sessuale: è un qualcosa di più globale, sperimentato come la maledizione di quell’arbitrarietà rappresentata dal corpo. Il bambino viene a contatto con un mondo nel quale egli avrebbe potuto, a caso, nascere maschio o femmina, ma anche cane, o gatto, o pesce, senza che la cosa facesse differenza alcuna per quanto riguarda la capacità di controllo nel fronteggiare la sofferenza e l’annientamento della morte. L’orrore della differenziazione sessuale è conseguenza del «fatto 80

biologico», come spiega benissimo Brown20. È una specie di brusco risveglio dall’illusione alla dura realtà che, orrendamente, accolla sul bambino un immenso nuovo peso: il peso del significato della vita e del corpo, della fatalità della propria incompletezza, impotenza e limite. Questo, in ultima analisi, è il disperato terrore di quel complesso di castrazione che tormenta gli uomini nei loro incubi. Tale complesso esprime la presa di coscienza, da parte del bambino, del fatto che gli si è accollato un impossibile compito e che il perseguimento dell’idea di trasformarsi in un dio — causa sui — è impossibile coi mezzi corporeo-sessuali21, anche se si reclama un corpo diverso da quello della madre. Il baluardo del corpo, base primaria per le operazioni narcisistiche contro il mondo, con la mira di assicurarsi poteri illimitati, si sbriciola come un castello di sabbia. Si verifica così la tragica detronizzazione del bambino, la sua cacciata dall’illusorio paradiso terreste, rappresentata dal complesso di castrazione. Per un certo tempo egli può aver sognato di utilizzare qualsiasi zona del corpo e qualsiasi appendice per il suo progetto edipico di diventare padre di se stesso: ora gli stessi suoi organi genitali deridono la sua autosufficienza. Tutto ciò porta alla ribalta le ragioni per cui la sessualità costituisce un problema così universale, intorno al quale nessuno ha mai scritto meglio di quanto abbia fatto Rank nel suo stupefacente saggio sul Sexual Enlightenment22. Poiché su di esso mi intratterrò dettagliatamente nel capitolo VIII, è inutile dilungarvisi a questo punto. Basterà anticipare che, per Rank, la sessualità è inseparabile dal nostro paradosso esistenziale, dal dualismo dell’umana natura. La persona è insieme un io cosciente e un corpo e, 81

fin dagli inizi, vi è confusione sul dove essa si collochi, se nel razionale io interiore o nel corpo fisico. Ciascun dominio fenomenologico è diverso dall’altro. L’io interiore rappresenta la libertà di pensiero, d’immaginazione e l’infinita estensione del raziocinio. Il corpo rappresenta, invece, il determinismo e la limitatezza. Il bambino impara gradualmente che la sua libertà, come individuo unico, è ostacolata dal corpo e dai suoi amminicoli, che lo etichettano per che cosa è. Per questa ragione la sessualità costituisce un problema sia per l’adulto che per il bambino: la soluzione fisica del problema di che cosa siamo e del perché siamo emersi su questo pianeta, non serve a nulla, anzi, concretamente, rappresenta una tremenda minaccia, perché non dice alla persona che cosa essa sia nel profondo e quale specifico apporto egli sia chiamato a dare al mondo. È questa la ragione per cui è così difficile avere rapporti sessuali senza sperimentare un senso di colpa. Questo insorge perché il corpo proietta una specie d’ombra sull’intima libertà della persona, il suo vero io che, nell’atto sessuale, viene forzatamente standardizzato in un ruolo di meccanismo biologico. Peggio ancora: l’io interiore non viene affatto preso in considerazione, perché il corpo s’impadronisce e domina l’intera persona, mortificandolo e schiacciandolo nel suo senso di colpa. Questo spiega il perché una donna esiga ordinariamente d’essere rassicurata che l’uomo vuole lei e non solo il suo corpo: essa è penosamente conscia che la sua personalità individuale può essere ignorata ed esclusa nell’atto sessuale, fino a non contare nulla. Sta il fatto che l’uomo normalmente vuole soltanto il corpo e la personalità totale della donna è ridotta a un semplice ruolo animale. Svanisce 82

così il paradosso esistenziale e non c’è più un’umanità distinta che protesti. Un modo creativo di affrontare questa situazione è, naturalmente, di lasciare che questo accada e di adattarvisi, la qual cosa vien definita dagli psicoanalisti come regressione a servizio dell’ego. La persona diventa, per un certo tempo, soltanto un essere fisico e supera così la sofferenza del paradosso esistenziale e il senso di colpa che accompagna il sesso. L’amore è la grande chiave per questo genere di sessualità, perché consente che l’individuo precipiti nella dimensione animale, libero da paure e da senso di colpa, ma fiducioso e certo che la propria libertà interiore non sarà rinnegata dall’arrendersi all’animalità.

La Scena Primaria

A questo punto, è opportuno discutere un’altra idea della psicoanalisi, che a molti è sempre apparsa poco credibile, e cioè il cosiddetto «trauma della scena primaria». 11 concetto psicoanalitico ortodosso voleva che, quando al bambino accada d’assistere al rapporto sessuale tra i genitori (è questa la «scena primaria»), ciò gli lasci dentro un trauma profondo, perché non gli è stato dato di parteciparvi. Freud parlava di vera «stimolazione dell’eccitamento sessuale» nell’osservare il coito dei genitori23. Posta in questi termini brutali l’idea appare piuttosto incredibile, ma occorre ricordare che la scoperta della sessualità infantile costituiva il vanto supremo di Freud. Nelle menti di altri psicoanalisti, a tale idea viene attribuita un’enfasi alquanto diversa, per cui — stando a Roheim — la «scena primaria» rappresenterebbe la realizzazione del desiderio del bambino di riunirsi con sua madre. Solo che al posto suo egli vede il 83

padre, e invece di una propria totale identificazione colla madre soccorrevole, assiste ai «sussulti violenti» d’una zuffa24. Infine interviene Ferenczi— studioso attento degli effetti che i genitori hanno sul bambino — e altera ancor più la cruda formulazione del concetto, data da Freud:

Se al bambino accade d’assistere al rapporto intimo dei genitori, durante il suo primo o secondo anno di vita, quando già è presente la sua capacità d’eccitamento, anche se ancor sprovvista di adeguati sbocchi per la sua emotività, ne può derivare una nevrosi infantile25.

Sia Roheim che Ferenczi, quindi, parlano di cose del tutto diverse dall’assunto di Freud. Roheim si sofferma sull’identificazione colla madre — che per il bambino impersona la provveditrice totale — e sull’incapacità di questi d’afferrare il rapporto che la madre, oggetto del suo amore, può intrattenere con altri oggetti, quali il padre. Ferenczi afferma, invece, che il bambino è sopraffatto da emozioni che ancora non è in grado di inquadrare. È qui, esattamente, che si profila un’interpretazione più esistenziale del problema. Il bambino s’avvale del proprio corpo come progetto di divenire causa sui. Simile progetto egli abbandona soltanto quando s’avvede che è irrealizzabile. Ciascuna di queste alternative rappresenta, per lui, una questione di vita o di morte, e perciò se di trauma si deve parlare, lo si deve fare perché vi è coinvolta una confusione su argomenti di vita e di morte. Anche divenuti adulti, la maggioranza di noi prova disgusto e delusione all’idea che i nostri genitori abbiano rapporti 84

sessuali: ci sembra una cosa «sconveniente», per loro. Penso che l’esatto motivo della nostra repulsione vada individuato nella confusa immagine che di essi ci facciamo. L’idea che i genitori soprattutto incarnano, è quella di dissuasori dell’affidamento al corpo del progetto d’essere causa sui. I genitori impersonano il complesso di castrazione, la delusione riguardo al corpo e la paura di esso. Essi, anzi, incarnano addirittura l’opinione corrente del mondo culturale che il bambino deve interiorizzarsi per potersi districare dalla strettoia del suo corpo. Perciò, quando loro stessi non trascendono il corpo nei loro rapporti più intimi, il bambino non può non provare una certa allarmata confusione. Il suo ego in lotta, come può destreggiarsi tra cosi ambigui messaggi e dar loro un significato? Tanto più quando uno di questi messaggi gli giunge attraverso percettibili grugniti fisici, gemiti e sussulti che debbono risultare sconvolgenti, soprattutto mentre il bambino si sta appunto sforzando di superare l’orrore del corpo. Se poi egli tenta di ritornare sui suoi passi circa il ruolo del corpo, imitando l’esempio dei genitori, questi s’allarmano e diventano furiosi. Si capisce bene ch’egli si senta tradito da loro: essi riservano i loro corpi per il rapporto più intimo, che a lui proibiscono. Mentre, da una parte, con tutte le loro forze scoraggiano qualsiasi rapporto fisico, dall’altra essi vi si abbandonano con totale intensità. Se conglobiamo assieme tutti questi elementi, possiamo capire come la «scena primaria» possa davvero diventare un trauma, non già perché il bambino non può partecipare all’atto sessuale e dare via libera ai suoi impulsi, ma piuttosto perché la «scena primaria» è in sé un simbolo complesso, in cui confluiscono l’orrore per il corpo, il tradimento del superego culturale, ed 85

il blocco assoluto, non solo di qualsiasi iniziativa da parte del bambino per fronteggiare la situazione, ma anche di qualunque diretta possibilità di capire. La «scena primaria» si trasforma nel simbolo d’un multiplo intreccio di ansie. Per conseguenza, il corpo è visto come fatto animale^ dell’individuo, contro il quale è doveroso lottare, in qualche modo. Allo stesso tempo, però, il corpo dà la possibilità di esperienze, sensazioni e concreto piacere, assenti nell’interiore mondo simbolico. Non meraviglia che l’uomo si ritrovi incastrato tra i dilemmi dei problemi sessuali e che Freud abbia considerato il sesso così prominente nella vita umana, soprattutto nei conflitti nevrotici dei suoi pazienti. Il sesso si configura come componente inevitabile della confusione dell’uomo riguardo al senso della vita; un significato inguaribilmente spezzato in due contrapposti domini: quello dei simboli e delle idee (libertà) e quello del corpo (destino). Non stupisce, inoltre, che la maggior parte di noi non abbandoni mai completamente i remoti tentativi infantili di servirsi del corpo e delle sue appendici come di un baluardo o di una macchina per coartare il mondo in modo magico. Si tenta di spremere risposte metafisiche dal corpo, che — nella sua materialità — non può assolutamente darle. Ci si sforza di rispondere al trascendente mistero della creazione attraverso esperienze fatte con un unico e parziale prodotto fisico di tale creazione. E qui sta la ragione per cui la mistica del sesso è così largamente praticata — nella Francia tradizionale, per esempio — ed è così deludente, allo stesso tempo. Tale mistica, infantilmente rassicurante colla sua indulgenza per il piacere, è tuttavia disastrosa per una reale consapevolezza e crescita, se la persona crede d’avvalersene nello sforzo di 86

dare una risposta alle questioni metafisiche. Diventa — in questo caso — menzogna circa la realtà, e schermo che impedisce la piena coscienza26. Se l’adulto riduce il problema della vita alla sfera della sessualità, ripete quella feticizzazione del bambino, che concentra il problema della madre sui genitali della madre stessa. In tal caso il sesso si trasforma in un riparo contro il terrore e in una parzializzazione della consapevolezza piena, rispetto al problema reale della vita. Questa discussione non esaurisce, certo, le ragioni per cui il sesso rappresenta una parte così importante tra le ambiguità della vita. Il sesso costituisce anche un modo positivo per inquadrare un proprio progetto di libertà personale. Dopo tutto, riguarda una delle poche aree di concreta privacy che una persona conservi, in un’esistenza che è diventata quasi interamente sociale, quasi del tutto forgiata e scandita dai genitori e dalla società. Sotto questo aspetto, il sesso in quanto schema, rappresenta uno scostarsi dalle standardizzazioni monopolistiche del mondo sociale. Non c’è da stupirsi che vi sia gente che s’abbandona così perdutamente ad esso, spesso fin dall’infanzia, sotto forma di segrete masturbazioni che costituiscono una protesta e un’affermazione dell’individualità personale. Come vedremo nella Parte II di questo libro, Rank si spinge ad affermare che un simile uso del sesso spiega tutti i conflitti sessuali esistenti nell’individuo, «dalla masturbazione alle perversioni più varie»27. La persona si sforza d’usare il proprio sesso in modo del tutto individuale, appunto per affermare il proprio controllo su di esso, e per liberarlo da qualsiasi determinismo preordinato. È come se uno cercasse di trascendere il corpo, privandolo interamente del suo 87

carattere connaturale, per sostituire «ciò che la natura intendeva» con giochi di propria invenzione. Le «perversioni» dei bambini sono un’esplicita dimostrazione di questo: essi si trasformano in autentici artisti del corpo, usandolo come argilla per proclamare la loro padronanza simbolica. Freud registrò il fatto come «perversità polimorfa», che può essere un modo per catalogarlo. Sembra, però, ch’egli non si sia reso conto come tale tipo di gioco già costituisca un serissimo tentativo per trascendere il determinismo, e non soltanto una semplice esplorazione alla ricerca di una varietà di zone del corpo, suscettibili di piaceri. Man mano che il bambino cresce, la ricerca controcorrente di un’esistenza personale attraverso la perversione, viene calata in uno stampo individualistico e si fa più segreta. Segreta dev’essere, perché la comunità non è disposta ad accettare il tentativo di chi si vuole individualizzare in modo assoluto28. Se può esservi vittoria sull’incompletezza e limitazione umana, essa deve avvenire nel quadro non di un piano individuale, ma sociale. La società esige d’essere la sola a decidere il modo con cui è dato alla gente di trascendere la morte. Tollererà il progetto d’essere causa sui, soltanto se esso coincide con le linee acquisite del progetto sociale. In caso diverso scatterà l’allarme, al grido di «Anarchia!». Questa è una delle ragioni d’essere del tartufismo e della censura d’ogni tipo nei riguardi della moralità personale: la gente teme che venga minata la base morale corrente, il che significherebbe mettere in forse la loro capacità di controllo sulla vita e sulla morte. Una persona passa per «socializzata» appunto se accetta di «sublimare» il carattere sessuale-corporeo del 88

proprio progetto edipico29. Ora, simili eufemismi significano — d’ordinario — ch’egli acconsente a diventare il padre di se stesso abbandonando, però, il suo progetto individuale e affidandolo invece ai «padri». Così il complesso di castrazione si completa e l’individuo si sottomette alla «realtà sociale»: può, finalmente, sgonfiare le proprie aspirazioni e pretese e muoversi sicuro nel mondo dei potenti «anziani». Può persino affidare il suo corpo alla tribù, allo stato, sotto l’ombrello magico dei patriarchi e dei loro simboli: in questo modo il corpo non costituirà più per lui un pericoloso elemento negativo. Tuttavia, non v’è differenza vera tra un’impossibilità infantile ed una adulta: la sola cosa che la persona consegue consiste in un bel collaudato autoinganno: quello che noi definiamo carattere «maturo». 1 FROMM E., The Heart of Man: Its Genius for Good and Evil (New York:

Harper and Row, 1964), pp. 116-117 (trad. Il Cuore dell’uomo, Lanciano: Carabba, 1965). 2 FROMM E., The Sane Society (New York: Fawcett Books, 1955), p. 34 (trad.

Psicoanalisi della società contemporanea, Milano: ed. di Comunità, 1972). 3 LAD. 4* Il gioco anale è un esercizio essenziale nella padronanza umana, ed è quindi

meglio non interferire. Se l’adulto tronca di brutto il gioco col suo intervento, rischia di caricare la funzione animale di una dose supplementare di ansia. Tale funzione assume allora carattere minaccioso e va quindi risolutamente rifiutata e bandita come qualcosa di assolutamente estraneo. Questo rigetto feroce si traduce in ciò che viene definito «carattere anale». Un’educazione «anale» porta ad una affermazione, conseguente all’esagerata repressione ed orrore della degradante animalità del corpo, vista come il peso umano sans pareil. 5 Cf. LORD RAGLAN, Jocasta’s Crime: An Anthropological Study (London:

89

Methuen, 1933), capitolo 17. 6 LAD, p. 186. 7 Ibid., p. 189. 8 Ibid., pp. 186-187. 9 STRAUS E., On Obsession, A Clinical and Methodological Study (New York:

Nervous and Mental Disease Monographs, 1948), n. 73. 10 Ibid., pp. 41-44. 11 FREUD S., Civilization and its Discontents, 1930 (London: The Hogarth

Press, 1969 edition) p. 43 (trad. Il disagio della civiltà, Freud Opere, vol. 10, Torino: Boringhieri, 1978). 12 LAD, p. 118. 13 Ibid., p. 120. 14

FERENCZI S., Final Contributions to the Problems and Methods of Psychoanalysis (London: The Hogarth Press, 1955), p. 66 (vedere: Opere complete, Firenze: Guaraldi). 15 PS, p. 38. 16 LAD, p. 124. 17 Ibid., p. 123. 18* L’invidia del pene sorge, dunque, dal fatto che gli organi genitali materni

vengono percepiti come separati dall’insieme del corpo e visualizzati come punto focale del problema della corruzione e della vulnerabilità. Bernard Brodsky faceva queste osservazioni riguardo ad una sua paziente: «Il suo concetto della donna, come agganciata alla materia fecale, stimolava grandemente la sua invidia del pene, perché il membro maschile, vivo ed erettile, era per lei l’antitesi delle feci, 90

inerti e morte». (B. Brodsky, «The Self-Representation, Anality and the Fear of Dying», Journal of the American Psychoanalytic Association, 1959, vol. 7, p. 102). Phyllis Greenacre, quotata studiosa di esperienze infantili, aveva già riscontrato questa stessa equazione nella percezione dei bambini: pene = movimento, e quindi vita; feci = inerzia, e quindi morte (P. Greenacre, Trauma, Growth and Personality, New York: Norton, 1952, p. 264). Questo rende naturale l’invidia del pene. La Greenacre si servì anche del termine adatto «spavento del pene» per indicare lo stupore che la grossa appendice maschile può produrre nel bambino riguardo al padre. Dopotutto, il bambino vive in un mondo in cui predomina il potere corporeo, e non può capire quello astratto e razionale. Per lui, quindi, corpo più robusto equivale a più vita. Una donna adulta può sperimentare una sopravvivenza dello stesso sentimento: una spaccatura e l’assenza della protuberanza maschile, con tutto ciò che comporta all’interno, è diversa dall’aggressivo rigonfiamento che necessariamente dà un minor senso di vulnerabilità. Come facilmente intuibile, la paziente di Brodsky era inguaiata dalla sua ambivalenza nei confronti della madre, accresciuta dal bisogno che di lei aveva, pur sentendola come una minaccia: «La soverchia protettività della madre e la sua opposizione alla patente di guida contribuivano allo sviluppo d’un’immagine sbagliata. La paziente soffriva sia di ansie di separazione che di forte complesso di castrazione». In altre parole, mano a mano che la dipendenza della giovane paziente si intensificava, altrettanto accadeva delle sue ansie di castrazione, in conseguenza del fatto di non poter rompere i suoi legami con un oggetto che per lei significava corruzione. Una formula quasi sicura per la nevrosi clinica! 19 Ibid. 20 Ibid., p. 128. 21 Ibid., p. 127. 22 ME. 23 FREUD S., A General Introduction to Psychoanalysis (New York: Garden

City Publishing Co., 1943), p. 324 (trad. Introduzione alla psicoanalisi, Freud Opere, vol. 8, Torino: Boringhieri, 1976). 24 ROHEIM G., Psychoanalysis and Anthropology (New York: International

Universities Press, 1950), pp. 138-139 (trad. Psicoanalisi e antropologia, Milano: 91

Rizzoli). 25 FERENCZI S., Final Contributions, pp. 65-66. 26 MAY ROLLO ha recentemente rivalutato la rappresentazione rankiana su

tale argomento: vedere il suo eccellente dibattito su «Love and Death» in Love and Will (New York: Norton, 1971) (trad. Amore e volontà, Roma: Astrolabio). 27 ME, p. 52. 28 Ibid., p. 53. 29 LAD, pp. 127-128.

92

IV IL CARATTERE UMANO COME MENZOGNA VITALE Fate caso alla gente che vi sta dattorno e… li udrete parlar di se stessi e del loro ambiente in termini precisi, il che dovrebbe indicare in loro una certa competenza in materia. Se però cominciate ad analizzarne le idee, scoprirete che esse non riflettono in alcun modo la realtà cui essi sembrano far riferimento. E se andate più a fondo, vi renderete conto che non tentano nemmeno di adeguare le idee alla realtà. Fanno anzi l’opposto: servendosi di queste nozioni, l’individuo si sforza di eliminare qualsiasi visione personale della realtà e della sua stessa vita. La vita, infatti, ai suoi inizi è così caotica da sentircisi persi. L’individuo sospetta questo, ma è terrorizzato dall’idea di trovarsi solo, faccia a faccia con questa terribile realtà e si sforza di coprirla in una fantasiosa cortina fumogena, dove tutto è dato per chiaro. Non lo preoccupa il fatto che le sue idee non siano vere, perché le usa come trincee per la difesa della propria esistenza, come spaventapasseri per tenere lontana la realtà. JOSÉ ORTEGA Y GASSET1

Il problema dell’analità e il complesso di castrazione, esaminati nel capitolo precedente, ci hanno fatto avanzare molto nella ricerca di una risposta alla questione che tutti ci assilla: se la qualità fondamentale dell’eroismo è il coraggio autentico, perché mai così poca gente è coraggiosa? Perché 93

è così raro trovare qualcuno che si regge sulle sue gambe? Anche il grande Carlyle, che intimoriva tanti, confessava di reggersi su suo padre come su una colonna interrata, che gli faceva da basamento. Con questo egli implicitamente affermava che, se avesse dovuto reggersi sui proprii piedi soltanto, il terreno gli sarebbe franato dattorno. La questione va direttamente al cuore della condizione umana e ci prefiggiamo di esaminarla nei suoi vari aspetti nel seguito di questo volume. M’è capitato di scrivere2, in passato, che — a parer mio — la ragione per cui l’uomo era così naturalmente codardo, andava ricercata nel fatto che egli sentiva di non avere autorità alcuna e che il motivo per cui è senza autorità risiede nella natura stessa del modo con cui l’animale umano è congegnato: tutti i nostri concetti vengono immessi in noi dall’esterno, dal rapporto che abbiamo con gli altri. Questo è ciò che ci dà un ego e un superego. Il nostro intero mondo di giusto e sbagliato, di buono e cattivo, il nostro stesso nome e il chi siamo esattamente, vengono innestati in noi, e perciò non ci sentiamo mai autorizzati ad offrire qualcosa basandoci su noi stessi. E come potremmo — arguivo — se trasudiamo senso di inferiorità e colpa e ci sentiamo legati ad altri, loro creazione di minor conto, in debito con loro della nostra stessa nascita? Ma questa è solo una parte della questione: la parte più superficiale ed ovvia. Esistono ragioni più profonde per la nostra mancanza di coraggio e, se vogliamo arrivare a capire l’uomo, dobbiamo scovarle. Lo psicologo Abraham Maslow, con eccezionale acume, poco tempo prima della sua morte prematura, affrontò il problema della paura di restare soli3. Al suo lavoro Maslow diede un’ampia angolazione 94

umanistica, insistendo su concetti quali il realizzare il proprio potenziale e la piena umanità di un individuo. Egli identificava questi concetti nella spinta al naturale sviluppo e si domandava che cosa la sostenesse e che cosa, invece, la bloccasse. Le sue risposte sono in linguaggio esistenziale e parlano di paura della propria grandezza e di evasione dal proprio destino. Egli chiarisce così il problema del coraggio:

Siamo intimoriti sia dalle nostre possibilità più eccelse come da quelle più catastrofiche. La prospettiva di diventare ciò che intravvediamo nei nostri momenti di massima euforia ci spaventa… Tali prospettive, quasi divine, ci esaltano in quei momenti magici, ma nel contempo tremiamo per la nostra debolezza e le nostre stesse potenzialità ci riempiono di paura…4.

Maslow inventò l’adattissimo termine di Sindrome di Giona per indicare questo rifiuto di crescere e questa paura di realizzare pienamente le proprie possibilità. Egli individuò tale sindrome nella fuga da una piena intensità di vita:

Proprio non ci sentiamo abbastanza forti per sopportare di più: ci sentiremmo schiacciati ed esausti. Così spesso la gente… nei suoi momenti più esaltanti esclama: «È troppo!». Oppure: «Non reggo più», o «Mi fa morire»… Il delirio della felicità non è sopportabile a lungo: il nostro organismo è realmente troppo debole per qualsiasi robusta porzione di grandezza…

La Sindrome di Giona, vista da questa fondamentale angolazione, consiste «in una parzialmente giustificata paura 95

di venirne fuori lacerati, di perdere il controllo, di finire sbriciolati e disintegrati, o addirittura uccisi dall’esperienza». E il risultato della sindrome è quello che ci si attenderebbe da un debole organismo e cioè l’arretramento da una piena intensità di vita:

Per alcuni questa fuga dalla propria crescita significa un adagiarsi in modeste aspirazioni, timorosi di affrontare ciò di cui si sarebbe capaci, rassegnati a una volontaria automutilazione, a una finta stupidità, a un’umiltà di maniera che sono viste come concrete difese contro le tentazioni di grandezza…5 *.

Tutto si riduce a una semplice mancanza di grinta per sopportare il superlativo e aprirsi a un’esperienza totalizzante, come già diagnosticava William James e, più recentemente, in chiave fenomenologica, Rudolf Otto in un suo classico lavoro, in cui tratta di terrore del mondo, di schiacciante senso di spavento, stupore e paura di fronte al creato, al miracolo che esso rappresenta, al mysterium tremendum et fascinosum di ogni singola cosa, al fatto inspiegabile dell’esistenza di tutto6. Il punto d’arrivo di Otto è l’individuazione del naturale senso d’inferiorità dell’uomo dinnanzi alla maestosità della creazione e il suo incontrollabile sentimento di creatura di fronte alla sconvolgente prodigiosità dell’Essere. Si capisce così il collegamento tra la fenomenologia dell’esperienza religiosa e la psicologia, il che ci riporta esattamente al problema del coraggio. Possiamo subito affermare che il bambino è un codardo nato: non ha in sé la forza per affrontare i terrori della 96

creazione. Il mondo quale si presenta, con la nozione di origine dal nulla, con le cose quali sono e quali non sono, ci soverchia e ci confonde. O, per meglio dire, noi saremmo soverchiati e ci accasceremmo come foglie di fronte ai movimenti, ai colori e agli odori del mondo se, fin dalla nostra infanzia, non fossimo riusciti a reprimere e controllare quel senso di assoluto miracolo che la vista della creazione risveglia. Tale sentimento l’abbiamo escluso e travestito e non siamo più in grado di percepire il mondo qual è nella sua grezza realtà. Possiamo, forse, ricatturarne un barlume rifacendoci a qualche acuta impressione della nostra infanzia e giovinezza, che ancora ci soffonde d’emozione e meraviglia: il volto rugoso e sorridente di un nonno prediletto, il primo innamoramento di quindicenni e così via. Simili percezioni violentemente emotive noi le abbiamo imbrigliate appunto perché dobbiamo poterci muovere per i sentieri della vita con una certa calma ed equilibrio: non possiamo tirare avanti sempre col cuore in gola, bevendo ingordamente cogli occhi ogni grande spettacolo che ci si presenta. Il grande guadagno che la repressione ci procura è di renderci possibile la vita in un mondo pieno di miracoli e incomprensibile: un mondo così rigurgitante di bellezza, di maestosità e di terrori che, se accolti tutti, finirebbero per paralizzare qualsiasi vivente. Ma la natura ha provveduto a proteggere gli animali inferiori dotandoli di istinti, che altro non sono se non una percezione programmata che chiama in gioco un’altrettanto programmata reazione. È tutto molto semplice: gli animali non sono toccati se non da ciò a cui possono reagire. Essi vivono in un mondo ristretto, dentro una precisa fetta di realtà, guidati da un programma neuro-chimico che li fa 97

camminare diritti dietro il loro naso e taglia fuori tutto il resto. L’uomo, invece, paragonato ad essi è davvero un’impossibile creatura: nei suoi riguardi la natura sembra aver buttato al vento qualsiasi precauzione, negandogli ogni istinto. Essa, con l’uomo, ha creato un animale indifeso contro la piena percezione del mondo esterno e aperto ad esperienze illimitate, che procede, seguendo il suo naso, non solo nel suo Umwelt (ambiente), ma in molti altri Umwelten (ambienti). Egli può stringere rapporti non soltanto con gli animali della propria specie, ma, in qualche modo, anche con quelli appartenenti a qualunque altra specie. L’uomo può studiare non solo ciò che è per lui edibile, ma tutto ciò che vegeta e cresce; non soltanto vive ancorato al presente, ma estende il suo interesse al ieri e al domani: la sua curiosità abbraccia i secoli trascorsi, le sue paure si spingono a cinque miliardi d’anni, quando il sole si spegnerà, le sue speranze sfociano nell’eterno. Non vive in un ristretto territorio e neppure gli basta l’intero pianeta: egli scruta e anela alle galassie e al di là di tutto l’universo conoscibile. Il peso accollato sulle spalle dell’uomo è spaventoso. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, per l’uomo neanche il proprio corpo rappresenta un pacifico dato di fatto, come avviene per gli altri animali. Per questi gambe posteriori, coda che si trascina e tutto il resto, sono giusto delle membra che pacificamente son lì da usare o da maciullare se prese in trappola, allorché causano sofferenza e impediscono i movimenti. Invece per l’uomo il corpo costituisce un problema che va spiegato. Non è solo il suo corpo ad essere strano, ma anche il suo panorama interiore, i ricordi e i sogni. Lo stesso mondo intimo dell’uomo — il proprio io — gli è straniero. Egli non sa chi sia, né perché 98

sia nato, che faccia al mondo ó che debba fare e che cosa possa attendersi. La sua stessa esistenza gli riesce incomprensibile: un miracolo come il resto della creazione, ma che lo tocca più da vicino, legato com’è al pulsare del suo cuore, ma non per questo meno strano. Ogni cosa rappresenta un problema non ignorabile mai. Come ben ebbe a dire Maslow: «È proprio quel qualcosa di divino di noi nei cui riguardi siamo ambivalenti: affascinati e insieme impauriti, vogliosi e recalcitranti allo stesso tempo. Questo è l’aspetto unico del fondamentale impiccio dell’uomo: che siamo simultaneamente vermi e dèi»7. Eccoci là di nuovo: dèi provvisti d’ano! Il valore storico dell’opera di Freud sta nel fatto che egli ha concretamente scandagliato quel peculiare animale che è l’uomo: un animale non programmato da istinti per regolarne le percezioni e assicurargli così un calmo equilibrio e un’azione efficace. L’uomo deve inventarsi e crearsi i propri limiti di percezione e l’equilibrio per sopravvivere sul suo pianeta. Per questo il nocciolo della psicodinamica. la formazione del carattere umano, è io studio dell’autolimitazione dell’uomo e del suo costo terrificante. L’ostilità nei confronti delia psicoanalisi in passato, oggi e nel futuro, è stata e sarà sempre costituita dalla riluttanza ad ammettere che l’uomo sopravvive mentendo a se stesso, su se stesso e sul suo mondo e che tutto ciò rappresenta — secondo Ferenczi e Brown — una menzogna vitale. Mi piace particolarmente il modo con cui Maslow ha riassunto questo contributo del pensiero freudiano:

La maggior scoperta di Freud, quella che sta alla 99

radice della psicodinamica, è che la massima causa di molte malattie psicologiche è la paura della conoscenza di se stessi: delle proprie emozioni, impulsi, ricordi, capacità, potenzialità e anche del proprio destino. Abbiamo scoperto che la paura dell’autoconoscenza è molto spesso uguale e parallela con la paura del mondo esterno.

Altro non è, questa paura, se non quella stessa che nutriamo nei confronti del creato in rapporto alle nostre forze e possibilità:

In genere questa specie di paura è difensiva4 in quanto è rivolta a salvare la stima, l’amore e il rispetto per noi stessi. Istintivamente proviamo paura di qualsiasi conoscenza che potrebbe ingenerare in noi disprezzo per noi stessi, o farci sentire inferiori, deboli, indegni, cattivi e svergognati. Proteggiamo noi stessi e la nostra immagine ideale attraverso la repressione e altre difese consimili, che rappresentano essenzialmente delle tecniche per evitare di prender coscienza di verità spiacevoli o pericolose8.

Questa repressione, l’individuo la deve estendere globalmente all’intero spettro della propria esperienza, se vuol provare un caldo senso di intimo valore e di sicurezza basilare. Di questo senso di valore stabilizzante, la natura dota ogni animale, concedendogli un’automatica programmazione istintiva che governa tutti i suoi processi vitali. Ma l’uomo, povero essere ignudo, deve costruire e guadagnarsi il senso di quel suo valore intimo che lo 100

rassicuri. Deve perciò reprimere i suoi sentimenti d’inadeguatezza fisica e morale: non solo l’inadeguatezza delle sue buone intenzioni, ma anche il senso di colpa che gli deriva dalle sue malvagie reazioni, quali gli odi e i desideri di morte con cui risponde alle frustrazioni e intralci causatigli dagli adulti. Deve anche reprimere l’inadeguatezza dei suoi genitori, le loro ansietà e terrori, perché essi gli rendono difficile sentirsi sicuro e forte. Deve poi reprimere la propria analità colle sue compromettenti funzioni corporee che sottolineano la sua mortalità e posizione secondaria nella natura. E insieme a tutto questo — e a molte altre cose da noi non elencate — deve reprimere la primaria terribilità del mondo esterno. Nei suoi ultimi anni Freud, evidentemente, arrivò a capire — preceduto da Adler — che il tormento principale, del bambino consiste nella natura del suo mondo, più che non nelle sue spinte interne. Anche Freud, a questo punto, parlò meno di complesso di Edipo, soffermandosi di più sulla «perplessità e impotenza umana di fronte alle tremende forze della natura», «i terrori della natura», «il doloroso enigma della morte», «le nostre ansietà davanti ai pericoli della vita» e «l’assoluta ineluttabilità del fato, che è senza rimedi»9. E quando ebbe a parlare del problema centrale dell’ansietà, non lo fece più in termini di spinte istintive che sommergerebbero il bambino. Le formulazioni di Freud divennero esistenziali e il problema dell’ansietà venne essenzialmente visto come reazione al senso di globale impotenza di fronte alla solitudine del suo destino:

Affermo, dunque, che la paura della morte deve considerarsi analoga alla paura della castrazione e che 101

la situazione contro la quale reagisce l’ego è la sensazione d’essere abbandonato e derelitto dal protettivo superego, cioè, dalle forze del fato, il che mette fine al senso di sicurezza contro qualsiasi pericolo10.

Questa formulazione denota un ampio allargamento di prospettiva. Se ad essa s’aggiunge il lavoro clinico d’un paio di generazioni di psicoanalisti, non stupisce che si sia finalmente raggiunta una notevolmente sicura intelligenza di ciò che davvero preoccupa il bambino, di come la vita lo soverchi, di quanto egli debba evitare di pensare troppo, di percepire troppo e di vivere troppo. E allo stesso tempo egli deve rifuggire dalla morte che sta in agguato dietro ogni spensierata attività e gli è alle spalle anche mentre si diverte. Ne risulta che ora noi sappiamo come l’animale umano sia caratterizzato da due grandi paure, ignote agli altri animali: la paura della vita e la paura della morte. Nella scienza dell’uomo è merito precipuo di Otto Rank, d’aver dato prominenza a queste due paure, d’aver basato l’intero suo sistema sulla loro presenza e d’aver dimostrato quanto esse siano centrali per comprendere l’uomo. Quasi contemporaneamente a Rank, Heidegger pose queste due paure al centro della sua filosofia esistenziale. Egli argomentava che l’ansietà fondamentale dell’uomo fosse radicata nel suo essere nel mondo, e riguardasse il suo modo di essere nel mondo. In altri termini, erano individuate così sia la paura della morte che della vita, sia dell’esperienza che dell’individuazione11. L’uomo è riluttante nel lanciarsi in un mondo che lo soppraffà con tutti i suoi reali pericoli; egli indietreggia davanti alla prospettiva di scontrarsi coi 102

brucianti appetiti degli altri e di essere travolto nello spietato artigliamento di uomini, bestie e macchine. Nella sua qualità di organismo animale, l’uomo capta il genere di pianeta su cui è stato calato e la furia demoniaca scatenata dalla natura dentro miliardi di organismi individuali, dotati di appetiti d’ogni genere, cui vanno aggiunti gli infernali capricci distruttivi di terremoti, tifoni, trombe d’aria e altri fenomeni naturali. Ogni cosa, per la voluttà di espandersi, divora le altre in un processo senza soste. Gli appetiti possono essere innocenti quanto si vuole, perché dati dalla natura, ma qualsiasi organismo, che incappi in questo groviglio di contrastanti voglie, è una vittima potenziale di tale innocenza e deve tremare per la propria vita di fronte a un vivente. La vita può svuotare uno, succhiarne le energie, liquidarne l’autocontrollo o può riempirlo di nuove esperienze così d’improvviso da farlo scoppiare; e può anche farlo emergere tra gli altri, magari in posizione rischiosa, caricarlo di nuove responsabilità che richiedono grande energia, metterlo di fronte a situazioni e possibilità nuove. Al di sopra di tutte queste eventualità, plana la minaccia di scivoloni, incidenti, malattie casuali e, soprattutto, della morte, ultima turlupinatura e sipario finale su tutto. La grande semplificazione scientifica della psicoanalisi è il concetto che, l’insieme delle esperienze infantili costituisce un tentativo, da parte del bambino, per sopprimere e negare l’ansietà connessa alla propria crescita, la paura di perdere il proprio sostegno e restar solo, impotente e spaventato. Il carattere del bambino, il suo stile di vita, il modo con cui si serve della forza altrui, l’appoggio ch’egli cerca nelle cose e nelle idee del suo ambiente culturale, sono mezzi per 103

eliminare dalla propria cognizione il concreto fatto della sua naturale impotenza. E non soltanto l’impotenza ad evitare la morte, ma anche quella di restar solo, basato unicamente sulle sue forze. Di fronte ai terrori del mondo, al miracolo della creazione, allo schiacciante potere della realtà, neanche una tigre possiede forze illimitate e rassicuranti. Figurarsi un bambino, per il quale il mondo rappresenta un insondabile mistero e gli stessi genitori, coi quali lo lega un naturale e sicuro rapporto di dipendenza, appaiono come principale miracolo. Né potrebbe essere diversamente, perché per il bambino la madre costituisce necessariamente il primo stupefacente ‘miracolo, che l’ossessionerà per tutta la vita, sia ch’egli s’adatti a vivere nel suo alone, sia che vi si ribelli. L’ordinamento inderogabile del suo mondo induce sopra di lui facce aperte a un sorriso, in cui balenano file di denti e occhi misteriosi e teneri, che possono, però, farsi seri e minacciosi. Vive in un mondo di strane maschere di carne e di sangue che si fan gioco della sua autosufficienza: il solo modo per opporsi ad esse con sicurezza, sarebbe il sapere che anch’egli è divino quanto loro, ma questa conoscenza non la può ancora possedere con certezza. Non esiste una risposta sicura allo sconvolgente mistero del viso umano che scruta se stesso in uno specchio, o perlomeno una tale risposta non può venire dalla persona stessa e dal suo intimo. Il nostro viso può essere divino nella sua miracolosità, ma non abbiamo la capacità divina di leggerne il significato e, ancor più, non ci appartiene la divina potenza che l’ha firmato. Queste considerazioni ci fanno capire che se il bambino dovesse arrendersi al travolgente potere della realtà, quale egli sperimenta, non gli riuscirebbe d’agire con quel genere 104

di serenità che ci è necessaria nel nostro mondo non retto dagli istinti. Perciò una delle prime cose che il bambino deve fare è «abbandonare l’estasi», agire senza paura e lasciarsi alle spalle timori e tremori. Soltanto dopo che avrà naturalizzato il suo mondo, egli potrà agire con una certa spontanea fiducia. Abbiamo usato il termine naturalizzato ma, con maggior esattezza, dovremmo parlare di snaturalizzazione e falsificazione del suo mondo, la cui verità viene oscurata, velando così l’angoscia della condizione umana: un’angoscia di cui il bambino intravvede qualche baleno nei suoi terrori notturni e nelle fobie e nevrosi delle sue giornate. Quest’angoscia egli l’elimina fabbricandosi delle difese che gli consentano di radicare in se stesso il senso del proprio valore, significato e potere. Ciò gli permetterà di sentirsi in controllo della propria vita e della propria morte, di vivere ed agire da individuo dotato di libera volontà, di possedere un’individualità unica e autonoma; di essere, insomma, qualcuno e non soltanto il tremebondo risultato di un caso, spuntato accidentalmente nella serra di questo pianeta che Carlyle ha definito per sempre «anticamera della morte». Abbiamo denominato in antecedenza menzogna vitale lo stile di vita di una persona e siamo meglio in grado di capire, a questo punto, la ragione dell’aggettivo vitale: si tratta, infatti, di una necessaria e fondamentale disonestà nei riguardi di se stessi e dell’insieme della propria situazione. Questa rivelazione rappresenta il succo di quel rivoluzionamento del pensiero operato da Freud, e sta alla radice della lotta contro di lui e il suo sistema. Non vogliamo ammettere d’essere fondamentalmente disonesti nei riguardi della realtà e che noi non abbiamo un controllo vero sulle nostre vite. Non 105

vogliamo ammettere di non poter reggerci da soli e che sempre ci basiamo su qualcosa che ci trascende, su un qualche sistema d’idee e di potere in cui siamo radicati e che ci sostiene. Non sempre questa forza è ovvia e può anche non trattarsi apertamente di un dio o di una persona senza dubbio più potente: la forza derivata da attività che assorbono totalmente, da una passione, dalla frenesia del gioco, da uno stile di vita, può costituire una intelaiatura che ci sorregge facendoci ignorare noi stessi e il fatto di non essere autocentrati. Tutti quanti siamo inclini a farci sorreggere in modo da scordarci della nostra realtà, ignorando quelle energie da cui attingiamo, in una specie di menzogna che ci siamo costruita per vivere in serena sicurezza. Sommo analista di questa situazione fu S. Agostino, come lo furono, dopo di lui, Kierkegaard, Scheler e ai nostri giorni Tillich. Essi si avvidero che, a dispetto di tutte le sue vanterie, l’uomo traeva il suo «coraggio per esistere» da un dio o da una serie di conquiste sessuali, da un qualche Grande Fratello, da una bandiera, dal proletariato, o dai feticci del denaro e del conto in banca. Le difese che costruiscono il carattere d’una persona sono soggette a grandi illusioni e, quando di ciò ci rendiamo conto, possiamo finalmente capire la completa labilità dell’uomo. Egli viene allontanato da se stesso, dalla propria conoscenza e riflessione e indirizzato verso cose che sorreggano la menzogna del suo carattere e il suo automatico equilibrio. Ma si trova anche attirato da cose che lo rendono ansioso, quasi per un esercizio di maestria nel confrontarsi con loro, sfidandole e controllandole. Come insegnava Kierkegaard, l’ansietà sta in agguato e si trasforma in stimolo per gran parte della nostra attività energetica: noi 106

siamo solleticati dalla nostra crescita, ma in modo disonesto, il che spiega una buona parte delle frizioni che incontriamo nella vita. Entriamo in rapporti simbiotici — di convivenza o di amicizia — per raggiungere quella sicurezza che ci occorre ed ottenere aiuto contro le nostre ansietà, la nostra solitudine e la nostra impotenza. Questi rapporti, però, ci legano e s’aggiungono alla nostra schiavitù, perché finiscono col dare nuove basi alla menzogna da noi costruita. E allora ci ribelliamo per sentirci più liberi, ma ironicamente questa nostra ribellione è acritica e si risolve, per così dire, in una lotta contro quell’armatura che ci protegge. Accresciamo così la nostra labilità, quella qualità di seconda mano nella nostra lotta per la libertà. Persino nel corteggiare l’ansietà, non siamo coscienti dei veri motivi: cerchiamo lo stress, ci spingiamo al limite della nostra resistenza, ma lo facciamo alzando il nostro schermo contro la disperazione, non già per la disperazione stessa. Capita così coi giochi della Borsa, colle macchine sportive, coi missili atomici, colla scalata al successo nelle società finanziarie o nella carriera universitaria. E questo facciamo nel dialogo di quella prigione che è la nostra piccola famiglia, quando vogliamo sposarci contro i loro desideri o scegliamo un genere di vita ch’essi disapprovano, e via di seguito. Da ciò derivano le complicazioni e la qualità di seconda mano della nostra totale labilità. Persino nelle nostre passioni noi siamo dei bambocci che maneggiano giocattoli raffiguranti il mondo reale. Quando però i giocattoli si sfasciano e con loro si spezza la nostra vita e la nostra sanità mentale, noi siamo frodati di beni autentici e non delle giocose costruzioni della nostra fantasia. Ma anche, in tal caso, noi non incontriamo la nostra fine in termini virili, fronteggiando l’oggettiva 107

realtà. Per ironia della sorte la menzogna, che ci è necessaria per vivere, ci condanna a una vita che non ci appartiene mai realmente. Soltanto in seguito alle ricerche della moderna psicoanalisi siamo in grado di capire ciò che poeti e geni religiosi hanno saputo da sempre, e cioè che la corazza del carattere è così vitale per noi, che il posarla significa rischiare la morte o la pazzia. E non è difficile convincersene, poiché, se il carattere è una difesa nevrotica contro l’angoscia, uno che si privi di tale difesa rimane travolto dall’ondata rovinosa della disperazione conseguente alla totale presa di coscienza di quella concreta condizione umana che terrorizza l’uomo, inutilmente in lotta contro di essa. Freud riepilogò perfettamente tutto questo quando disse che la psicoanalisi curava i malanni nevrotici del paziente allo scopo di introdurlo ai guai comuni della vita. Nevrosi è semplicemente un altro termine che designa una complicata tecnica per sottrarsi ai guai, ma il vero guaio è la realtà. Questa è la ragione per cui gli antichi saggi insistentemente affermavano che per vedere la realtà bisogna prima morire e poi rinascere. L’idea di morte e di rinascita era già comune presso gli stregoni primitivi e la si trova nelle teorie dello Zen, nel pensiero stoico, nel re Lear di Shakespeare ma, soprattutto, è fondamentale nel Cristianesimo. È stata ripresa poi dal moderno esistenzialismo, ma è soltanto colla psicologia scientifica che siamo giunti a capire che cosa sia in gioco nella morte e nella rinascita, e cioè che il carattere dell’uomo è una struttura nevrotica che affonda le sue radici nel cuore stesso della sua umanità. Come ebbe a dire Frederick Perls: «Non è facile affrontare la propria morte e rinascere». La ragione sta nel fatto che troppe cose di noi 108

debbono morire. Mi piace il modo in cui Perls concepisce la struttura nevrotica, come un robusto edificio formato da quattro strati: i primi due sono costituiti dagli elementi quotidiani quali, ad esempio, le tattiche che il bambino impara prestissimo per essere bene accetto nella società, usando la sua parlantina per attirarsi simpatia, placare gli altri e farsene degli alleati. Questi primi strati rappresentano una specie di gioco di ruoli, con parole vuote e con frasi fatte. Molta gente vive la propria vita limitandosi a questo, senza curarsi di penetrare più a fondo delle cose. Il terzo strato è coriaceo e duro da superare ed è rappresentato da una specie di vicolo cieco che accoglie e cela la nostra sensazione di essere vuoti e persi: proprio quella sensazione che ci sforziamo di liquidare mentre costruiamo le difese del nostro carattere. Sotto questo strato ce n’è un quarto, il più sconcertante di tutti: è lo strato della morte, o della paura della morte. Come già si è visto, è qui che hanno radice le nostre vere e basilari ansietà animali, il terrore che ci trasciniamo dietro nel più profondo del cuore. Soltanto quando riusciamo a far saltare questo quarto strato — dice Perls — riusciamo a raggiungere quello strato ultimo e profondo che potremmo chiamare il nostro «io autentico»: ciò che siamo, senza vergogna, senza maschera, senza difese contro la paura12. Da questo schizzo dei complessi anelli difensivi che compongono il nostro carattere, col suo scudo nevrotico che protegge il pulsare della nostra vita dal terrore della verità, possiamo dedurre qualche idea su quanto difficile e doloroso possa essere il radicale processo di rinascita psicologica. Un processo che, completato psicologicamente, 109

è appena agli inizi dal punto di vista umano, perché la parte più ardua non è la morte ma la rinascita stessa: lì sta il guaio! Che significa, infatti, il nascere di nuovo per l’uomo? Significa subire per la prima volta l’impatto del tremendo paradosso che è la condizione umana, poiché qui si tratta di una rinascita non come dèi, ma come uomini: come un dioverme, un dio che defeca. Però in questa circostanza non si ha più lo scudo nevrotico che ci protegge, nascondendo la totale ambiguità della propria vita. Scopriamo a questo punto che qualsiasi rinascita autentica rappresenta una vera cacciata dal paradiso, come testimoniano le vite di Tolstoj, Péguy ed altri. Occorrono uomini di granito e di fibra robustissima, assolutamente fermi nel loro corso, e anch’essi ne vengono fuori piangenti e tremanti, come accadde a Péguy, fermo sotto una pensilina dei bus di Parigi, che mormora preghiere, gli occhi pieni di lacrime. Rank per primo si rese conto che l’ansietà non poteva essere interamente superata colle terapie psicoanalitiche, perché — egli spiegava — è impossibile resistere impavidi e senza provare ansietà di fronte al terrore della propria condizione umana. Ma fu Andras Angyal che raggiunse il cuore della questione riguardo alla rinascita psicoterapeutica, quando affermò che un nevrotico guarito è come un membro dell’Anonima Alcoolizzati: non può mai prendere la propria guarigione come un fatto acquisito, e il sintomo più genuino d’esser guarito consiste nel vivere in umiltà13.

Pienamente umani e parzialmente umani

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Questa discussione fa emergere una fondamentale contraddizione, non ancora esplorata a sufficienza, dell’insieme delle procedure curative: su di esse ci soffermeremo nella parte conclusiva di questo libro, ma è opportuno già accennarvi qui. Si tratta semplicemente di questo: che senso fa il parlare di «godimento della propria piena umanità» — come Maslow e molti altri fanno — se la «piena umanità» significa e comporta di trovarsi disadattati al mondo? Se qualcuno riesce a liberarsi di quei quattro strati protettivi — cui abbiamo accennato poco sopra — che costituiscono una specie di corazza posta a salvaguardia di quella menzogna caratteriologica riguardante la propria vita, come si potrà blaterare di «godimento» per una simile vittoria di Pirro? È vero che uno si libera, in tal modo, di qualcosa di restrittivo e di illusorio, ma col risultato di dover affrontare una situazione ancor più spaventosa, cioè la vera disperazione. Piena umanità vuol dire totale paura e tremore, sparsi, sia pure per attimi fuggenti, su ogni giorno del nostro cammino. Quando vi riesce di far emergere qualcuno a nuova vita, redenta da quella dipendenza dal potere altrui, che costituisce il suo automatico mantello protettivo, quale gioia mai gli potete promettere che lo sollevi dal peso della sua solitudine? Quando avete convinto una persona a sollevare gli sguardi verso il sole, che quotidianamente va cuocendo quell’immenso carnaio che si verifica quaggiù sulla terra, coi suoi ridicoli accidenti, coll’estrema fragilità della vita, nell’impotenza totale di coloro che vengono giudicati i più potenti, quale conforto vi è possibile offrirgli da un punto di vista terapeutico? Il regista Luis Bunuel ama introdurre nei suoi film un cane arrabbiato, come controparte alla sicurezza del quotidiano 111

andazzo di una vita repressa. Il significato di questo simbolo è che, a dispetto di tutte le loro pretese, gli uomini sono sempre sotto l’incubo di un morso che può mandare all’aria la loro sicurezza. L’artista maschera l’assurdità che scandisce le pulsazioni della pazzia umana, di cui è ben conscio. Ma da una piena coscienza dell’assurdità del proprio essere, che cosa ne trae l’uomo medio? Costui s’è forgiato il carattere con lo scopo preciso di farsene uno schermo tra sé e i fatti della vita e tale carattere rappresenta un risultato fattivo che gli permette d’ignorare le incongruenze, di alimentarsi di chimere, di godere della propria cecità. Tutto ciò rappresenta per lui un’importante vittoria, coll’abilità di scivolar via tra le maglie del terrore. Sartre ha definito passione senza costrutto la condizione umana, perché l’uomo è così irrimediabilmente impacciato e illuso circa la sua realtà: pretende d’essere un dio con le sole facoltà d’un povero animale e si pasce così di fantasie. Come perfettamente espresso da Ortega nel brano citato in apertura di questo capitolo, l’uomo usa le proprie idee come baluardi per difendere la sua esistenza, per esorcizzare la realtà. Come si può privare la gente di un gioco così tremendamente serio, nel quale è coinvolta la loro stessa esistenza, e pretendere che ne siano felici? Maslow, in termini assai convincenti, parla di autorealizzazione e dell’estasi delle esperienze supreme, nelle quali un individuo giunge a vedere il mondo nella sua terribilità e splendore e a percepire il libero ampliamento di se stesso nel miracolo del proprio essere. Questo stato viene denominato da Maslow conoscenza dell’essere e comporta l’apertura alla percezione della verità del mondo, ordinariamente nascosta dietro distorsioni e illusioni 112

nevrotiche, che agiscono da schermi protettivi contro esperienze sconvolgenti. L’idea è bella e giusta, e dovrebbe invogliarci a sviluppare quella capacità di conoscenza dell’essere, che ci porterebbe a spezzare l’unidimensionalità delle nostre vite e a evadere dalla caverna della nostra sicurezza, che ci tiene prigionieri. Come per la maggior parte delle umane cose, si tratterebbe però di un genere di trionfo molto paradossale. Maslow stesso se ne rendeva già conto parlando dei pericoli coinvolti nella cognizione dell’essere14, ed era troppo intelligente e cauto per non avvertire che tale cognizione presentava anche un’altra facciata. Tuttavia non arrivò ad indicare l’entità del pericolo da essa rappresentato, che può giungere a scardinare completamente la posizione che uno occupa nel mondo. Non si potrà mai sottolineare abbastanza quanto sia devastante e terribile vedere il mondo quale esso è realmente. Una tale visione butta completamente all’aria il risultato conseguito dal bambino, dopo lunghi anni, colla costruzione del proprio carattere e rende impossibile l’attività normale, automatica, sicura e fiduciosa perché, a quel punto, non si riesce più a vivere spensierati nel mondo degli uomini. L’uomo si riduce ad essere un animale tremante, alla mercé dell’intero cosmo, assillato dal problema del senso di tutto. Facciamo, ora, una breve digressione per dimostrare che le vedute sul carattere, esposte or ora, non sono il prodotto di esistenzialisti morbosi, ma rappresentano invece la pacifica fusione della psicologia freudiana con quella dei suoi epigoni. È intervenuto un cambiamento profondissimo nella nostra conoscenza del primo sviluppo del bambino: un cambiamento che riassume in se stesso le svolte verificatesi 113

nella psicologia, da Freud al dopo-Freud e all’attuale temperato freudismo. Freud vide nel bambino l’antagonista del proprio mondo, un essere dotato di spinte aggressive e sessuali, che avrebbe voluto far prevalere nel suo ambiente. Poiché, però, non gli riusciva d’attuarle da bambino qual era, andava necessariamente incontro a frustrazioni e sviluppava soddisfazioni alternative. Il fallimento di queste spinte nell’infanzia sfociava in amarezza e antisocialità contro un mondo popolato da gente che suscitava il suo risentimento per le cose impostegli e per quelle negategli. Ne sarebbe venuto fuori un animaletto incattivito, che si sentiva frodato e che nutriva, nel profondo, sentimenti e voglie mal represse. In superficie poteva anche apparire abbastanza compiacente, responsabile e creativo ma, sotto sotto, covava un resto di teppismo che minacciava di esplodere e che, in qualche modo, si sarebbe sfogato sugli altri o su se stesso. La teoria di Freud circa gli istinti innati venne assai presto scalzata in campo socio-psicologico e, molto più tardi, anche nella psicoanalisi stessa, mentre prendeva piede una nuova visione del bambino, incline a vederlo come una creatura neutrale, libera da istinti e piuttosto malleabile. Con l’eccezione di alcuni ignoti fattori di temperamento e costituzione ereditaria, il bambino veniva riguardato — nel suo insieme — come un essere forgiato dall’ambiente circostante. Secondo questa teoria i genitori erano responsabili delle repressioni del bambino, delle difese da lui sviluppate e del genere di persona che egli diventava, poiché da essi dipendeva l’ambiente in cui veniva modellato. Inoltre, siccome i genitori s’erano opposti allo sviluppo sbrigliato e naturale del bambino, onde egli s’adattasse al 114

loro mondo, potevano essere considerati colpevoli in radice di tutte le storture del suo carattere. In quest’ottica, anche se il bambino non possedeva istinti, era però provvisto di esuberanti energie e dotato di una naturale innocenza corporea, che lo spingevano alla ricerca continua di attività e diversivi e all’esplorazione dell’intero suo mondo, coll’intento di piegarlo, quanto più possibile, al proprio uso e piacere. Egli si sforzava di esprimersi con spontaneità, provava grande soddisfazione negli esercizi corporei e traeva conforto, eccitazione e piacere dagli altri. Ma poiché questa specie di illimitato sviluppo risulta impossibile in questo mondo, per il suo stesso bene il bambino andava controllato e tale controllo era demandato ai genitori. Tutti gli atteggiamenti posseduti dal bambino nei confronti di se stesso, del suo corpo e del suo mondo erano considerati come impiantati dalle sue esperienze con coloro che l’avevano addestrato e col suo ambiente immediato. Tale era la visione post-freudiana dello sviluppo del carattere, in reazione contro l’istintivismo di Freud. In realtà queste opinioni erano anteriori a Freud e si rifacevano all’illuminismo e alle teorie di Rousseau e di Marx. In tempi recenti la critica più aspra e meditata di queste vedute è stata avanzata da Norman O. Brown15. Gli epiteti da lui usati contro Fromm e i neo-freudiani erano scandalosamente amari in un libro che voleva essere un richiamo all’Eros. Ma le accuse portate dalla critica di Brown erano serie, anche se trascurate da molti negli ultimi decenni. S’era dimenticato, in sostanza, quanto impossibile fosse la situazione del bambino, e com’egli dovesse costruirsi le proprie difese contro il mondo per trovare un modo di sopravvivere. Come abbiamo visto nel capitolo III, 115

erano gli stessi dilemmi esistenziali del bambino che gli assegnavano un preciso compito, indipendentemente dai suoi genitori: i suoi atteggiamenti gli derivavano dalla necessità d’adattarsi alla disperata condizione umana, nel suo insieme, e non già per intonarsi ai capricci dei genitori. Uno studioso non può non domandarsi che genere di libro sarebbe venuto fuori da un autore brillante come Brown, se egli, invece di approfondire soltanto il pensiero di Freud, avesse egualmente penetrato quello di Adler e di Rank. Furono infatti questi ultimi due che meglio compresero la disperata situazione del bambino, senza però cadere nella trappola freudiana degli istinti interiori o in quella di un facile ambientalismo. Così Rank, in modo conclusivo, espose il suo pensiero per tutti i futuri psicoanalisti studiosi dell’uomo:

ogni essere umano è… egualmente non libero, cioè noi… dalla nostra libertà creiamo una prigione…16

Rank criticava le vedute di Rousseau sull’uomo che, nato libero, verrebbe incatenato dall’educazione e dalla società. Egli si rendeva conto che, di fronte alla straripante oppressione del mondo, il bambino non poteva trovare in se stesso l’energia e l’autorità necessaria per realizzare un suo pieno sviluppo in uno sconfinato orizzonte di sensazioni ed esperienze. Ci troviamo, oggi, in uno stadio vitale ed unico nello sviluppo del pensiero psicoanalitico. Aggregando insieme gli studi di Adler e di Rank e ponendoli allo stesso livello con l’opera di Freud, la psicoanalisi moderna è ora in grado di mantenere la completezza e sobrietà del maestro, ma senza 116

gli errori, le formulazioni estreme e i dogmatismi del freudismo di stretta osservanza. A mio avviso, il libro di Brown costituisce la prova che s’è finalmente chiuso il cerchio tra la psicoanalisi dei fondatori e le più recenti ricerche teoretiche e cliniche, evitando la perdita di elementi essenziali. Anche sulla sindrome in base alla quale si potevano verosimilmente accusare i genitori di aver fallito nella formazione di un adeguato essere umano, cioè la sindrome schizofrenica, s’è verificato un netto cambiamento di enfasi con la nuova consapevolezza delle dimensioni tragiche della vita umana. Nessuno ha sintetizzato il problema meglio di Harold Searles e credo opportuno citare la sua autorevole e ragionata dichiarazione, d’importanza storica:

A Chestnut Lodge, la lunga presentazione bisettimanale di casi clinici riguarda normalmente pazienti schizofrenici… Dodici anni or sono, quando vi entrai, i terapisti — me compreso — tendevano a presentare a tinte totalmente fosche, o quasi, il rapporto del paziente colla sua famiglia durante l’infanzia. Nell’esporre il caso l’atmosfera si caricava di biasimo per i genitori soprattutto. Col passar degli anni, mi sono accorto che le presentazioni hanno cambiato tono e biasimano sempre meno i genitori, gettando maggiormente la colpa sulla tragedia della vita del paziente: una tragedia che coinvolge la vita di tutti noi, tanto che l’esposizione clinica si risolve spesso in una dolorosa esperienza sia per il relatore che per gli uditori. Si sente che la relazione dell’équipe è molto più rispondente al quadro della vita del paziente e molto 117

più sconvolgente di quanto non fosse l’antica filastrocca di biasimi17.

La tragedia della vita, cui fa riferimento Searles, è quella appunto di cui abbiamo qui discusso: la limitatezza dell’uomo, il suo terrore della morte e il peso schiacciante della vita. Lo schizofrenico sente tutto ciò più d’ogni altro, perché non gli è riuscito di costruirsi quelle affidabili difese di cui una persona s’avvale normalmente per tenere a bada i propri terrori. La disgrazia dello schizofrenico è di essere stato caricato più del giusto con ansietà, senso di colpa e impotenza, spesso in un ambiente difficile e insicuro, Egli non è a suo agio col corpo e non possiede una ferma base da cui negoziare la propria sfida e il rifiuto della vera natura del mondo. I genitori l’hanno fatto palesemente inetto come organismo ed egli deve inventarsi modi più che ingegnosi e azzardati per non essere fatto a pezzi da un’esperienza che aggraverebbe ancora la sua già disperata situazione. Vediamo cosi confermata l’opinione che il carattere di una persona rappresenta una difesa contro la disperazione e uno sforzo per evitare la pazzia minacciata dalla vera natura del mondo. Searles vede la schizofrenia precisamente come il risultato dell’incapacità di bandire da sé i terrori, e quindi come un disperato vivere nel terrore. Non credo si possa descrivere in modo più efficace questa sindrome che definendola come un fallimento nell’umanizzazione: un fallimento, cioè, nel rifiuto convinto della concreta situazione dell’uomo su questo pianeta. La schizofrenia costituisce la prova ultima per quella teoria del carattere e della realtà che abbiamo qui esposto: il fallimento nella costruzione di quella sicura difesa, che è il carattere, 118

permette alla vera natura della realtà di rivelarsi all’uomo. Ciò è incontrovertibile dal punto di vista scientifico. La creatività delle persone schizofreniche sulla scena umana ha radice nella loro incapacità ad accettare il corrente rifiuto, imposto dalla nostra cultura, della vera natura dell’esperienza. E il prezzo per questo genere di creatività, quasi extraumana, è di dover vivere sull’orlo della pazzia, come si sa da molto tempo. Lo schizofrenico è supremamente creativo, in un senso quasi sovrumano, perché egli è il più lontano dall’animale: manca infatti di quella programmazione istintiva degli organismi inferiori e manca pure di quella sicura programmazione culturale dell’uomo medio. Non c’è da stupirsi ch’egli sembri pazzo alla gente comune: egli è al di fuori del mondo di qualunque specie.18*

Conclusione

Voglio conchiudere questo lungo capitolo sulla funzione del carattere, accostando due grandi brani di poesia e d’intuizione, separati fra loro da quasi tre secoli. Il primo, di Thomas Traherne, presenta un’affascinante descrizione del mondo, qual esso appare ai sensi di un bambino, prima ch’egli sia in grado di forgiarsi reazioni automatiche. Traherne descrive così le primordiali sensazioni del bambino:

Tutto appariva nuovo e strano, da principio: indicibilmente straordinario e delizioso e bello… Il mais era un immortale grano d’oriente, che non andava mietuto, né seminato. Nel mio pensiero esso s’ergeva 119

ritto da sempre e per sempre. La polvere e i sassi della strada eran preziosi come l’oro e le porte, all’inizio, erano i confini del mondo. I verdi alberi, quando per la prima volta li vidi attraverso un portone, mi riempirono d’incanto e meraviglia: il loro dolce splendore mi fece sobbalzare il cuore e quasi impazzire d’estasi, tanto strani e stupendi essi m’apparvero. Gli Uomini! Quali venerabili creature mi sembrarono i vecchi! Immortali! Cherubini! E i giovani eran per me angeli luminosi e rilucenti, come le ragazze straordinari esemplari di serafica vita e bellezza! Ragazzi e ragazze, che ballavano per strada, erano gemme in movimento. Non sapevo ancora ch’essi erano nati e sarebbero morti… La città sembrava collocata nell’Eden…

Potremmo definire tutto questo come il paradiso esistente prima della repressione. Ma poi Traherne procede a descrivere la sua caduta dall’Eden, con lo sviluppo delle percezioni culturali e i rinnegamenti del carattere primordiale della realtà. E come uno psicoanalista moderno — dei primi tempi di Chestnut Lodge! — accusa i genitori per questa caduta, con una lunga sequela d’accuse:

I pensieri son la cosa più connaturale ai pensieri e possiedono la più temibile influenza. La mia anima era unicamente tagliata e disposta per le grandi cose, ma le anime sono per le altre anime come le mele: una marcia ne fa marcire un’altra. Quando cominciai a parlare e a muovermi, nulla mi fu più noto com’io lo conoscevo, ma quale esso mi veniva proposto dai loro pensieri. Qualsiasi cosa non la concepivo in altro modo se non il 120

loro… Ciò di cui non parlavano non esisteva. Fu così ch’io cominciai ad apprezzare — intruppato coi miei compagni di gioco — un tamburo, un abito elegante, una moneta, un libro dorato e tutto il resto… Il cielo, il sole e le stelle scomparvero, per me, e altro non furono che nude mura. Avvenne, in tal modo, che le strane ricchezze inventate dall’uomo sopraffecero le ricchezze della natura, appunto perché apprese con più fatica e in un secondo tempo19.

Che cosa manca in questa splendida descrizione della caduta di un bambino dalle sensazioni naturali alle artificiosità del mondo culturale? Nient’altro se non ciò che noi abbiamo ricordato come la grande fusione postfreudiana riguardo alla personalità dell’uomo: la complicità, cioè, di Traherne stesso in tutto quel processo, il suo bisogno di decadere dal suo primitivo stato di grazia, per poter crescere e muoversi senza ansietà, per trovare protezione contro il Sole, le Stelle e il Cielo. Traherne non riporta altre sue primordiali reazioni, come, ad esempio, quelle che si verificavano quando un qualche suo compagno di giochi strillava per un taglio a una mano o una botta al naso o alla bocca, e le gocce calde e rosse che uscivano dalle ferite lo macchiavano, riempiendolo di terrore. Egli afferma che ancora non sapeva ch’essi erano destinati alla morte, e che quindi tutti gli sembravano immortali, ma i suoi genitori avevano, forse, introdotto la morte nel mondo? Questo appunto era il marciume profondo che gli tormentava l’anima, derivato non dai suoi genitori, ma radicato nel mondo, assieme alle ricchezze della sua natura. In un 121

qualche complicato modo l’idea della morte affiorava già fra le sue sensazioni e gli raggelava l’anima, cosicché, per bandire i fatti della vita, Traherne dovette rimodellare il suo paradiso, inventando menzogne nei suoi riguardi, come tutti facciamo. Rimane vero che la terra fosse quel luogo di magica bellezza da lui descritto che, più tardi, Carlyle definì «mistico tempio». Il pianeta era però, allo stesso tempo, anche un «teatro di morte» e questa seconda realtà Traherne volle negare nei suoi ricordi d’infanzia. La totalità della condizione umana è la cosa più difficile da riafferrare per l’uomo. Egli vorrebbe un mondo sicuro per la sua felicità e preferisce scaricare su altri il biasimo per il suo destino. Mettiamo a confronto Traherne colla coscienza, impietosamente completa, che una poetessa moderna ha della condizione umana. Marcia Lee Anderson ci dice, con acuta brillantezza, come noi si debba vivere in questo teatro di morte, e cosa si debba fare per proteggerci:

Ci divertiamo a moltiplicare le malattie, ci inventiamo bisogni orrendi, dubbi vergognosi, ci voltoliamo nella licenziosità, ci pasciamo della notte, creiamo guazzabugli interiori e ci rifiutiamo di venirne fuori. E perché poi dovremmo? Spogli delle nostre sottili complicazioni, chi potrebbe mai guardare il sole se non con paura? Questo è il nostro rifugio contro la contemplazione, il nostro rifugio da ciò ch’è chiaro e semplice. Chi mai vorrebbe strisciar fuori della propria oscurità per starsene indifeso alla luce del sole? Nessun terrore è così sicuramente sinistro quanto lo è 122

lo scoperto terrore della disperazione nel conoscere quanto elementare sia il nostro bisogno più profondo, quanto tagliente e quanto impossibile da placare20.

L’ironia della condizione dell’uomo è che il bisogno più profondo è quello di esser liberi dall’ansietà della morte e dell’annientamento. Ma poiché è la vita stessa a risvegliare tale bisogno, ecco che noi siamo indotti a rifuggire dall’essere pienamente vivi. Marcia Lee Anderson chiude il cerchio che abbraccia non solo Traherne, ma anche Maslow, colla sua psicoanalisi umanistica, e lo stesso freudiano Norman O. Brown. Che cosa significherebbe esattamente, qui sulla terra, vivere del tutto senza repressioni, in una totale espansione psichica e corporale? Potrebbe soltanto condurre a un’esplosione di follia. Brown sottolinea il suo radicale freudianesimo affermando che egli sostiene risolutamente quell’intuizione per cui Ferenczi proclamava che i tratti del carattere sono, per così dire, psicosi segrete21. Questa sconvolgente verità scientifica noi la sottoscriviamo, insieme con Brown. Anche se è stato difficile ottenere il consenso della gente su tale verità al tempo di Freud, un giorno non lontano essa sarà pacificamente accettata. Ma la raggelante realtà nascosta dietro quest’enunciazione è ancora più sconvolgente e non c’è nulla da fare per rimediarvi, né oggi, né mai: intendo dire che senza i tratti del carattere, si avrebbe necessariamente una psicosi palesemente totale. Al termine di questo libro, mi soffermerò sulle fondamentali contraddizioni dell’argomentare che Brown fa per il sorgere di uomini nuovi, privi di difese caratteriali che — secondo Brown — rappresenterebbero la speranza di rinascita dell’umanità in 123

una «seconda innocenza». Basti, per ora, citare ancora una volta la formula, strettamente scientifica, di Marcia Lee Anderson: «Spogli delle nostre sottili complicazioni (cioè di tutte le difese caratteriali, quali le repressioni, i rifiuti e la falsa percezione della realtà) chi potrebbe mai guardare il sole, se non con paura?». 1 ORTEGA Y GASSET J., The Revolt of the Masses (New York: Norton, 1957)

pp. 156-157 (trad. Ribellione delle masse, Milano: Bompiani, 1960). 2

BECKER E., The Structure of Evil: An Essay on the Unification of the Science of Man (New York: Braziller, 1968), p. 192. 3 Vedere i suoi due eccellenti lavori, «The Need to Know and the Fear of

Knowing», Journal of General Psychology, 1963, 68:111-125; e «Neurosis as a Failure of Personal Growth», Humanitas, 1967, 3:153-169. 4 MASLOW, «Neurosis as a Failure», p. 163. 5 Ibid., pp. 165-166.

[* Come si vedrà nelle pagine che seguono, altri pensatori presentarono una loro versione della Sindrome di Giona assai prima di Maslow. Mi riferisco soprattutto a Rank, che però non definì il fenomeno con un termine particolare, e a Freud, cui va il merito d’un approccio scientifico a tutto ciò, colla sua famosa scoperta della sindrome del Distrutto dal Successo. Egli si rese conto che alcuni non riuscivano a reggere al successo, dopo averlo conquistato e, come se fosse troppo per loro, vi rinunciavano o andavano a pezzi. Su questo tema preferisco, però, non rifarmi a Freud, perché in Maslow ritrovo quell’approccio esistenziale che, secondo me, allarga di molto gli orizzonti freudiani, sebbene Freud stesso si sia spinto verso un contesto esistenziale, come vedremo meglio nel capitolo VI, dove discuteremo nuovamente di questo problema.] 6 OTTO RUDOLF, The Idea of the Holy, 1923 (New York: Galaxy Books,

1958). 7 Maslow, «The Need to Know», p. 119.

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8 Ibid., pp. 118-119. 9 Cf. FREUD S. The Future of an Illusion, 1927 (New York: Anchor Books

Edition, 1964) Capitoli 3 e 4 (trad. L’Avvenire di una illusione, Freud Opere, vol. 10, Torino: Boringhieri, 1978). 10 FREUD S., The Problem of Anxiety, 1926 (New York: Norton, 1936) pp. 67

ss. (trad. Inibizione Sintomo Angoscia, 1925, Freud Opere, vol. 10, Torino: Boringhieri, 1978). 11

Cf. anche la continuazione delle rassegne di Heidegger nella moderna psichiatria esistenziale: MÉDARD BOSS, Meaning and Content of Sexual Perversions: A Daseinanalytic Approach to the Psychopathology of the Phenomenon of Love (New York: Grune and Stratton, 1949), p. 46. 12 PERLS F., Gestalt Therapy Verbatim (Lafayette, Calif.: Reai People Press,

1969), pp. 55-56. (trad. Terapia della Gestalt, parola per parola, Roma: Astrolabio). 13 ANGYAL A. Neurosis and Treatment: A Holistic Theory (New York: Wiley,

1965) p. 260. 14 MASLOW A., Toward a Psychology of Being, second edition (Princeton:

Insight Books, 1968) capitolo 8 (trad. Verso una psicologia dell’essere, Roma: Astrolabio). 15 LAD. 16 ME, p. 13, mia enfasi. 17 SEARLES H.F., «Schizophrenia and the Inevitability of Death», Psychiatric

Quarterly, 1961, 35:633-634. (trad. La schizofrenia e la ineluttabilità della morte, da Scritti sulla schizofrenia, Torino: Boringhieri, 1975). 18* Per una più completa trattazione del problema del fallimento schizofrenico,

rimandiamo il lettore al capitolo X. 19 TRAHERNE, Centuries, C1672 (London: Faith Press edition, 1963), pp.

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109- 115, passim. 20 ANDERSON M.L. «Diagnosis» citato in Searles, «Schizophrenia», p. 639.

(trad. Scritti sulla schizofrenia, Torino: Boringhieri, 1975). 21 LAD, p. 291.

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V LO PSICOANALISTA KIERKEGAARD L’intero ordine delle cose, dalla zanzara ai misteri dell’incarnazione, mi riempie d’un senso d’angoscia. Tutto mi riesce incomprensibile, in particolare la mia propria persona. Grande è la mia pena e sconfinata. Nessuno può comprenderla, al di fuori di Dio in Cielo. Ed Egli non può aver pietà. SOREN KIERKEGAARD1

Oggi possiamo definire Kierkegaard uno psicoanalista senza paura che ci si rida dietro da chiunque sia bene informato. In questi ultimi decenni s’è verificata una riscoperta di Kierkegaard che è di straordinaria importanza, perché lo ricollega all’insieme delle strutture conoscitive che, ai nostri giorni, s’occupano dell’uomo. Eravamo abituati a pensare che esistesse una totale incompatibilità tra scienza e fede e che, di conseguenza, psichiatria e religione fossero separate da un abisso. Ora invece ci rendiamo conto che le prospettive psichiatriche e religiose sono in realtà intimamente collegate fra loro. In primo luogo perché storicamente esse rampollano l’una dall’altra, come vedremo in un’altra sezione. Va detto, però, fin da ora — ed è questa la cosa più importante — che esse si rafforzano l’una coll’altra. L’esperienza psichiatrica e quella religiosa non possono essere separate né soggettivamente nella visuale della persona, né oggettivamente nella teoria dello sviluppo del carattere. 127

Da nessun’altra parte meglio che nelle opere di Kierkegaard risulta più chiara questa fusione tra le categorie religiose e quelle psichiatriche: egli ci ha dato alcune delle migliori analisi empiriche mai tracciate riguardo alla condizione umana. Ironicamente, però, solo dopo l’avvento della scienza atea di Freud siamo stati in grado di misurare il valore scientifico dell’opera di un teologo come Kierkegaard. La spiegazione sta nel fatto che solo colla psicoanalisi noi siamo entrati in possesso dell’evidenza clinica che dà peso all’opera del pensatore danese. Il famoso psicologo Mowrer ha perfettamente inquadrato la situazione, una trentina d’anni or sono, affermando: «Freud e i suoi scritti erano indispensabili perché le opere anteriori di Kierkegaard potessero venire correttamente capite e interpretate»2. Si sono già avuti parecchi meritevoli tentativi per dimostrare come Kierkegaard abbia anticipato i dati della moderna psicologia clinica. La maggioranza degli esistenzialisti europei si sono espressi su questo tema e, con loro, sono intervenuti teologi come Paul Tillich3. Il senso del presente libro vuol essere quello di chiudere il cerchio tra psichiatria e religione, dimostrando che la più attendibile analisi esistenzialistica della condizione umana sfocia direttamente nei problemi di Dio e della fede, il che rappresenta in maniera esatta il succo delle argomentazioni di Kierkegaard. Non è mia intenzione tentare di ripetere e interpretare le acute analisi — spesso difficili a capirsi — che Kierkegaard avanza sulla condizione umana. Voglio invece tentare di riassumere l’argomento principale che domina nelle sue opere psicologiche, in modo il più possibile evidente e breve, così che il lettore possa cogliere, con una sola 128

occhiata, lo scopo a cui Kierkegaard mirava. Se questo riuscirò a fare in modo oggettivo e spassionato, senza lasciarmi troppo coinvolgere dal genio di Kierkegaard, il lettore dovrebbe restare sbalordito dal risultato. La struttura del pensiero di Kierkegaard sull’uomo è, quasi esattamente, una ricapitolazione del moderno quadro clinico che, riguardo all’uomo, abbiamo tracciato nei primi quattro capitoli di questo libro. Il lettore può quindi giudicare da solo quanto convergenti risultino, nei loro punti fondamentali, i due quadri (anche se io mi astengo dal presentare Kierkegaard nei suoi stupefacenti dettagli) e rendersi conto della ragione per cui, oggi, noi non esitiamo ad affiancare Kierkegaard a Freud in campo psicologico, definendolo uno studioso della condizione umana, grande come lo stesso Freud. Sta il fatto che, pur scrivendo verso il 1840, Kierkegaard era in realtà un post-freudiano, il che dimostra l’eterna imprevedibilità del genio.

Il paradosso esistenziale come principio della psicologia e della religione

La pietra fondamentale della visione che Kierkegaard aveva dell’uomo è rappresentata dal mito della Caduta e della Cacciata di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden. In questo mito è racchiusa — come già s’è detto — l’intuizione fondamentale della psicologia per tutte le epoche, e cioè che l’uomo è la sintesi di due opposti, quali l’autocoscienza e il corpo fisico. L’uomo, emerso dall’attività istintiva e non regolata dal pensiero, propria degli animali inferiori, giunse a riflettere sulla sua condizione. Ebbe coscienza, in tal modo, della propria individualità e della sua parziale 129

posizione divina nel creato, della bellezza ed unicità del suo viso e del suo nome. Nello stesso tempo, però, egli prese coscienza della terribilità del mondo, della propria morte e corruttibilità. Questo paradosso è l’elemento costante che accompagna l’uomo e la società in tutti i periodi della storia: per dirla con Fromm, esso rappresenta la vera essenza dell’uomo e su questo concetto — come già s’è visto — sono d’accordo i principali psicologi moderni, che di esso han fatto la pietra angolare della loro scienza. Ma Kierkegaard già li aveva messi in guardia: «Più in là di questo la psicologia non può spingersi… ed essa, inoltre, può verificare ripetutamente questo asserto nelle sue osservazioni della vita umana»4. L’emersione nell’autocoscienza e il conseguente abbandono del confortevole stato di naturale ignoranza hanno comportato, per l’uomo, un gravoso contraccolpo: gli hanno dato il terrore, cioè l’ansietà. La bestia non conosce il terrore, dice Kierkegaard, «precisamente perché, per sua natura, essa non è dotata di spirito»5. «Spirito» va qui interpretato come ego o identità interiore razionale, che la bestia non possiede. Poiché essa è ignorante — prosegue Kierkegaard — è perciò innocente; ma l’uomo è «una sintesi tra animato e corporeo»6 e di conseguenza sperimenta l’ansia. Qui per animato si deve intendere autocosciente.

Se l’uomo fosse una bestia o un angelo, non potrebbe essere soggetto al terrore (cioè se fossimo totalmente privi d’autocoscienza, oppure totalmente non animali). Poiché, invece, egli è una sintesi, può provare terrore…; l’uomo stesso si crea i propri terrori7.

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L’ansietà dell’uomo è una conseguenza della sua totale ambiguità e della sua completa impotenza a risolvere e superare tale ambiguità, trasformandosi radicalmente in bestia o in angelo. Egli non può vivere ignorando il suo destino, né può assumerne un sicuro controllo, trionfandone col mettersi fuori della condizione umana:

Lo spirito non può autoliquidarsi (cioè, l’autocoscienza non può mai sparire) … né può l’uomo affondare nella vita puramente sensitiva (cioè ridursi a puro e semplice animale) … Egli non può sfuggire al terrore8.

Ma il centro focale vero del terrore non è l’ambiguità in se stessa, ma è piuttosto il risultato di una sentenza pronunciata contro l’uomo: se Adamo mangia del frutto dell’albero della conoscenza, Dio gli dice: Tu sicuramente morirai. In altri termini il terrore ultimo dell’autocoscienza è la conoscenza del proprio destino di morte, che costituisce la sentenza esclusiva contro l’uomo soltanto, fra tutti gli animali. È questo il significato del mito del paradiso terrestre, riscoperto dalla moderna psicologia: la morte rappresenta l’ansietà peculiare e massima dell’uomo.9*

Caratteriologia di Kierkegaard

Nel suo insieme, Kierkegaard vede il carattere dell’uomo come una struttura costruita per evitare la percezione del «terrore, della perdita (e) annientamento (che) sta sempre alle porte (della coscienza) di ogni uomo»10. Kierkegaard ebbe della psicologia lo stesso concetto di uno psicoanalista 131

contemporaneo e si rese conto che il suo compito consisteva nello scoprire i meccanismi impiegati dall’individuo per eliminare l’ansietà e i sistemi per funzionare automaticamente e senza imbarazzi in questo mondo. Giunse a concludere che tali meccanismi e modi, in ultima analisi, finiscono per ostacolare la sua vera crescita e libertà d’azione e di scelta. O, se si vogliono usare le parole stesse di Kierkegaard: «Come avviene che una persona si renda schiava della propria menzogna caratteriale riguardo a se stessa?». Kierkegaard descrisse questi meccanismi con una brillantezza che stupisce ancor oggi e con una terminologia che abbraccia gran parte della teoria psicoanalitica riguardante le difese caratteriali. Mentre oggi si parla di «meccanismi di difesa» quali la repressione e il rifiuto, Kierkegaard parlò delle stesse cose usando altri termini: egli denunciava il fatto che la maggioranza degli uomini vivessero in una semioscurità riguardo alla loro condizione11 e che si trovassero in uno stato di chiusura come conseguenza del blocco da loro stessi imposto alle proprie percezioni della realtà12. Egli interpretava il carattere compulsivo e la rigidezza della persona quali conseguenze delle difese robustissime costruite contro l’ansietà sotto forma di pesante corazza caratteriale e cosi descriveva l’individuo che ne risultava:

Un partigiano della più rigida ortodossia… che sa tutto e s’inchina davanti a ciò che è santo: la verità per lui è un insieme di cerimonie; egli parla sul modo di presentarsi dinanzi al trono di Dio, di quanti inchini uno debba fare; egli sa tutto allo stesso modo di uno 132

scolaretto che è in grado di dimostrare una formula matematica con le lettere ABC, ma non più se queste lettere vengono mutate in DEF, perché è quasi terrorizzato ogni qual volta viene a contatto con qualcosa non ordinato nel modo tradizionale13.

Senza dubbio, parlando di chiusura, Kierkegaard intendeva riferirsi a ciò che noi, oggi, chiamiamo repressione: una persona chiusa è quella che se n’è rimasta isolata a sbrogliarsela per proprio conto durante la fanciullezza, che non ha mai sperimentato la sua capacità d’azione, che mai s’è sentita libera di scoprire se stessa e il mondo in cui vive, con stile rilassato. Se il bambino non è soverchiamente bloccato nella propria attività da paternalismi familiari, se non si lascia troppo condizionare dalle ansietà dei genitori, può essere capace di sviluppare le proprie difese in modo meno assolutistico e può maturare un carattere più fluido e aperto. Di conseguenza può essere preparato a sperimentare la realtà più in base ad attività e tentativi autonomi che non fondandosi su autorità, pregiudizi e sensazioni che derivano da altri. Kierkegaard sottolineava le differenze esistenti in questa maniera, distinguendo tra chiusura dignitosa e chiusura sbagliata e si spingeva a dare — nello stile di Rousseau — consigli sul modo di allevare i bambini con un corretto orientamento del loro carattere:

È di enorme importanza che un bambino venga tirato su con chiaro concetto di ciò che è una dignitosa chiusura (riservatezza) e sia preservato da quella sbagliata. Ponendosi, dal di fuori, in un atteggiamento 133

di rispetto, risulta facile avvertire quando è giunto il momento in cui al bambino dovrebbe esser consentito di camminare per proprio conto… Il segreto sta nell’essere presente, ma senza farsi notare, in modo che al bambino sia possibile svilupparsi indipendentemente, anche se lo si sorveglia di continuo. Il metodo è quello di lasciare che il bambino si faccia i fatti suoi, nella più ampia misura possibile, e manifestare il proprio apparente disinteresse pur seguendo e vedendo tutto… Il genitore che educa e si spende tutto per il proprio bambino, ma non riesce ad evitargli di crescere chiuso, s’è accollato una grande responsabilità14.

Allo stesso modo di Rousseau e Dewey, anche Kierkegaard mette sull’avviso i genitori perché lascino che il bambino compia le sue esplorazioni del mondo e sviluppi le sue facoltà sperimentali al di fuori d’ogni pericolo. Kierkegaard riconosce che il bambino va protetto dai rischi e che la sorveglianza dei genitori è di vitale importanza, ma non vuole che essi si inseriscano nel quadro colle loro proprie ansie, troncando l’attività del bambino prima che ciò diventi assolutamente indispensabile. Oggi sappiamo che soltanto un’educazione di questo genere consente al bambino quella fiducia in se stesso nell’affrontare le proprie esperienze, che non raggiungerebbe mai se fosse troppo bloccato. Tale educazione dà al bambino quel sostegno interiore che gli permetterà di sviluppare una dignitosa chiusura o riservatezza, cioè, un autocontrollo e una fiduciosa valutazione del mondo attraverso una personalità che può più agevolmente aprirsi all’esperienza. Una chiusura 134

sbagliata è invece quella che risulta da un blocco eccessivo, da troppa ansia, da sforzo esagerato nell’affrontare le esperienze concrete, da parte di un organismo il cui autocontrollo è rimasto indebolito da sovraccarichi antecedenti. Tutto ciò comporta una maggior repressione nella sfera d’una personalità essenzialmente chiusa. In tal modo, per Kierkegaard, il bene è l’apertura verso nuove possibilità e nuove scelte, la capacità di far fronte all’ansietà; la chiusura è il male che fa volgere le spalle a qualsiasi novità e alle sensazioni ed esperienze di più vasto respiro. Chi è chiuso sbarra la porta ad ogni rivelazione e interpone un sipario tra la propria persona e la sua vera situazione nel mondo15. Idealmente tutte queste cose dovrebbero essere trasparenti, ma per la persona chiusa esse si fanno opache. È facile rendersi conto che la chiusura, di cui abbiamo ora parlato, si identifica con ciò che definivamo la menzogna del carattere, come già la definiva lo stesso Kierkegaard:

È chiaro che questa chiusura eo ipso comporta una menzogna o, se si preferisce, una non-verità. Ma la nonverità corrisponde alla non-libertà… La scioltezza della libertà s’esaurisce quando è sottoposta a una chiusa riservatezza… conseguenza di un negativo trincerarsi dell’ego nel proprio individualismo16.

Queste affermazioni corrispondono a un quadro descrittivo, perfettamente attuale, che la psicoanalisi traccia dei costi della repressione sull’insieme della personalità. Tralascio le più dettagliate ed acute analisi di Kierkegaard sul come, in conseguenza della repressione, la persona risulti spezzettata in se stessa; sul come la vera percezione della 135

realtà venga relegata appena sotto la superficie, pronta ad emergere attraverso la repressione e come questa lasci la personalità, all’apparenza, intatta e funzionante come insieme in una continuità, mentre invece tale continuità è spezzata; come, infine, la personalità si trovi realmente in balia della discontinuità rappresentata dalla repressione17. Ad uno studioso moderno, clinicamente esperto, simili analisi debbono sembrare davvero straordinarie. Kierkegaard capiva la menzogna che viene costruita in ragione della necessità che ha il bambino di adeguarsi al mondo, ai genitori e ai propri dilemmi esistenziali. Il carattere viene forgiato prima che il bambino abbia la possibilità di apprendere, riguardo a se stesso, in modo aperto e libero e, conseguentemente, le difese del carattere sono automatiche e inconsce. Il problema è rappresentato dal fatto che il bambino viene a dipendere da queste difese e rimane incastrato nella corazza del proprio carattere, incapace di spinger lo sguardo al di là della propria prigione o dentro se stesso: dentro le difese di cui s’avvale e gli elementi che determinano la sua mancanza di libertà18. La prospettiva migliore in cui il bambino può sperare è che il suo tipo di chiusura non rientri fra quelli sbagliati o massicci, in cui il suo carattere risulti troppo intimorito del mondo per poter ancora restare aperto alle possibilità dell’esperienza. Ma ciò dipende in gran parte dai genitori e da elementi fortuiti dell’ambiente, come Kierkegaard sapeva benissimo. Molti, purtroppo, hanno genitori che «si sono accollati questa grande responsabilità» e, per conseguenza, si trovano tagliati fuori da qualsiasi possibile via d’uscita. Kierkegaard delinea schematicamente alcuni dei modi di rifiutare ogni possibilità che — in altri termini — sono le 136

stesse menzogne del carattere. Egli si slancia a descrivere coloro che oggi noi definiremmo uomini non autentici, che rifuggono dallo sviluppare la propria unicità: essi ricalcano metodicamente quegli stili di vita automatici e acrilici in cui son stati condizionati da bambini. Sono non-autentici in quanto non s’appartengono, non sono la loro vera persona: le loro azioni non promanano dal loro proprio centro e non vedono la realtà nella loro ottica. Sono individui unidimensionali, totalmente assorbiti dai finti giochi che si svolgono nella loro società, incapaci di sollevarsi oltre il loro condizionamento sociale, che può essere rappresentato dall’ambiente delle multinazionali occidentali o da quello della burocrazia partitica d’oltrecortina, o dagli usi tribali della tradizione africana. Si tratta sempre, comunque, di uomini che non sanno più che cosa significhi pensare colla propria testa e che, se mai fossero tentati a farlo, inorridirebbero di fronte a così pericolosa audacia. Kierkegaard traccia una descrizione de

l’uomo facilone…: il suo io o egli stesso come persona è un qualcosa incluso nell’altro, nel gran cerchio del temporale e del mondano…. Così l’io aderisce immediatamente all’altro, auspicando, desiderando, godendo e così via, ma sempre in modo passivo… Egli s’ingegna d’imitare l’altra gente, notando attentamente come vivano, per adeguarvisi in qualche modo. Se si trova in un paese cristiano, è cristiano anche lui, va in chiesa ogni domenica, ascolta e capisce il parroco o, per meglio dire, si capiscono fra di loro. Se muore, il parroco lo introduce nell’eternità al prezzo stabilito, ma egli non è mai stato una persona e non s’è mai 137

preoccupato di diventarlo… Infatti l’uomo facilone non si qualifica per la sua persona, ma soltanto per l’abito che indossa…; egli è consapevole che la sua personalità sussiste solo su elementi esterni19.

Questa è una perfetta descrizione dell’uomo culturale automatizzato: l’uomo quale viene circoscritto dall’ambiente culturale, di cui è schiavo, che pensa di possedere un’identità se paga le sue quote d’assicurazione, che crede d’avere il controllo della propria vita se fa rombare la sua auto e aziona il proprio spazzolino elettrico. Costoro sono tipi di persone che ci sono stati resi familiari da decenni di analisi marxista ed esistenzialista sul tema della schiavitù dell’uomo al proprio sistema sociale. Ma all’epoca di Kierkegaard doveva ancora costituire uno shock, per un cittadino di una qualche progredita metropoli europea, essere considerato come un filisteo per il suo tradizionale conformismo. Per Kierkegaard il filisteo rappresentava la trivialità: un uomo che si patullava nella quotidiana routine della società, felice per le soddisfazioni che essa offriva. Trasferendosi nel nostro tempo, esse corrispondono alle soddisfazioni che un uomo ricava oggi da una bella macchina, da un comodo e ben servito supermercato, da prolungati fine settimana e dal mese di ferie. Allora, come oggi, l’uomo si sentiva ben protetto dalle sicure e limitate alternative che la società gli offriva e, se rinunciava a guardare più in alto, poteva trascorrere la propria vita con un certo senso di monotona sicurezza:

Svuotato d’immaginazione, quale sempre è un filisteo, egli vegeta nello stucchevole ambiente dell’andazzo 138

quotidiano, contentandosi del possibile e del consueto… Il filisteismo vive tranquillo nell’andamento uniforme…20.

Perché questa uniformità viene accettata? Senz’altro a motivo della temuta pericolosità di un orizzonte aperto a più vaste esperienze, Questa è la più approfondita spiegazione di quel filisteismo che trionfa sopra i possibilismi ritenuti rischiosi. Il filisteo riconosce istintivamente il suo vero nemico: la libertà è un pericolo! Se uno la cerca con troppo entusiasmo, corre il rischio di saltare in aria; se uno vi rinuncia in modo esagerato, può diventare schiavo di imposizioni. Il metodo più prudente è di saggiare fin dove giungano le proprie possibilità sociali. Penso che il significato delle osservazioni di Kierkegaard si riassuma in questo:

Il filisteo, infatti, crede d’avere sotto controllo il campo delle possibilità ed è perciò convinto che, una volta intrappolato l’infinito numero di ipotizzabili scelte di quel manicomio in cui vive, egli sia a cavallo e padrone della situazione…21.

Kierkegaard come teorico delle psicosi

A questo punto qualcosa di nuovo s’affaccia nella nostra discussione. Kierkegaard parla di intrappolare la vasta gamma di libere scelte, possibili in quel manicomio dove il filisteo vive prigioniero. Con questa immagine, a mio giudizio, Kierkegaard vuole sottolineare che uno tra i maggiori pericoli della vita è rappresentato dalle troppe 139

possibilità e che la destinazione di coloro che soccombono a questo pericolo è il manicomio. Kierkegaard dimostra qui com’egli fosse un consumato teorico non soltanto della patologia culturale ordinaria, ma anche di quella anormale, e cioè delle psicosi. Egli si rendeva già conto che la psicosi altro non è che nevrosi spinta all’estremo. Così mi pare di poter interpretare molte sue osservazioni, fatte in una sezione di un libro intitolato La disperazione vista sotto le angolazioni di finitezza-infinitezza22. Fermiamoci su questo perché, se la mia interpretazione è corretta, ci aiuterà a capire più a fondo come le forme più estreme di sbandamento mentale altro non siano che goffi tentativi per fronteggiare il problema fondamentale della vita. Kierkegaard ci ha tracciato una vasta e ricchissima galle; ria di ritratti che abbraccia la tipologia del fallimento umano, i modi in cui l’uomo soccombe e rimane schiacciato dalla vita: schiacciato perché rifiuta di guardare onestamente in faccia la verità esistenziale della propria situazione, e cioè che egli è costituito da un io interiore razionale — che comporta una certa libertà — ma collegato con un corpo che ha chiari limiti e che quindi coarta quella libertà. Il tentativo di ignorare uno di questi due aspetti della situazione umana, di reprimere la possibilità o di negare la necessità, significa per l’uomo vivere nella menzogna, non realizzando la propria vera natura e risultando condannato ad essere la più miseranda fra le creature. È può anche andargli peggio se la menzogna in cui egli vive è troppo in contrasto colla realtà: può accadergli allora di compromettere l’intera sua vita, poiché questo appunto è il significato e la portata della psicosi: l’aperto e totale sfacelo della struttura del carattere. Perché si possa, a buon diritto, 140

considerare Kierkegaard un maestro dell’analisi della situazione umana, egli deve dimostrarci di comprendere gli estremi della condizione umana altrettanto bene quanto le ordinarie situazioni culturali. Ed è esattamente ciò ch’egli fa nella sua discussione sui due estremi della troppa o troppo poca possibilità. La troppa possibilità è rappresentata dal tentativo di una persona di sopravvalutare i poteri dell’io razionale, esagerando e gonfiando una metà dell’umano dualismo, a scapito dell’altra metà. Sotto questo aspetto ciò che noi chiamiamo schizofrenia è un tentativo, da parte dell’io razionale, di rifiutare i limiti imposti dalla fragilità del corpo. Tale rifiuto sconvolge e finisce per distruggere l’intera persona. È come se la libertà creativa, che ha radice nell’io razionale, non potesse più essere coartata dal corpo, con la conseguenza di una spaccatura della persona. Noi oggi vediamo la schizofrenia come una spaccatura tra spirito e corpo, una spaccatura in cui la personalità vien fuori sbilanciata e senza freni, non più legata a sufficienza alle cose d’ogni giorno, non più inquadrata stabilmente in un comportamento fisico regolare e prevedibile23. Ecco come Kierkegaard concepisce il problema:

L’io infatti, è una sintesi in cui ciò che è finito rappresenta il fattore limitativo, mentre ciò che è infinito costituisce il fattore espansivo. La disperazione dell’infinito va individuata quindi nel fantasioso e nell’illimitato24 *.

Per disperazione dell’infinito Kierkegaard intende lo sconcerto della personalità, opposto allo stato di salute. 141

Secondo la diagnosi ora esposta, la persona s’ammala tuffandosi nell’illimitato, l’io razionale diventa fantastico — come accade nella schizofrenia — quando si verifica la sua frattura dal corpo e da una solida base nell’esperienza concreta dell’ambiente quotidiano. Lo schizofrenico totale è astratto, etereo, fantasioso: prescinde dalle terrene categorie di spazio e di tempo, fluttua come distaccato dal corpo e ancorato ad un eterno adesso, non più soggetto alla morte e alla distruzione. Queste due realtà sono state eliminate dalla sua fantasia o — meglio ancora, forse — dal fatto ch’egli crede d’aver accantonato il suo corpo con le limitazioni che ne derivano. La descrizione di Kierkegaard non è solo eloquente, ma anche clinicamente precisa:

In termini generali, fantasioso è ciò che trasporta l’uomo nell’infinito, così da strapparlo semplicemente via da se stesso, impedendogli poi di ritornare in sé. Perciò quando il sentimento diventa fantasioso, l’io si volatilizza puramente, sempre più…. La persona conduce così una fantasiosa esistenza in un’astratta ricerca dell’infinito, o in un astratto isolamento, sempre priva di se stessa, sempre più lontana da se stessa.

Sembra quasi di leggere — con anticipo di cento anni — The Divided Self (trad. L’io diviso, Torino: Einaudi, 1969) di Ronald Laing, nei suoi esatti termini. Ma Kierkegaard prosegue:

A questo punto, la possibilità prevale e va oltre la necessità: l’io s’allontana da se stesso e non esiste quindi più necessità a cui debba far ritorno. Si verifica 142

allora la disperazione (malattia) della possibilità. L’io diventa un’astratta possibilità, che si cimenta (sic: si strema?) dibattendosi nel possibile, ma non riesce a smuoversi dalla situazione in cui s’è impiantato e a raggiungerne un’altra, poiché necessità è diventata quella situazione. Per ridiventare se stessi, occorrerebbe uno spostamento25.

Ciò che Kierkegaard vuol dire in questo passo è che lo sviluppo della persona avviene in profondità, partendo da un centro fisso della personalità dove convergono e si unificano ambedue gli aspetti del dualismo esistenziale, cioè l’io razionale e il corpo. Questo genere di sviluppo richiede però necessariamente il riconoscimento della realtà e quindi la coscienza dei propri limiti.

Ciò che ora manca alla persona è, senz’altro, la realtà, come comunemente si suol dire quando d’un uomo si afferma che è diventato irreale. Ma, a considerare più attentamente le cose, ciò che vien meno nell’uomo, in queste circostanze, è la necessità… Ciò che manca è la capacità di sottomettersi al necessario in se stesso, a ciò che può definirsi il proprio limite. Perciò la sfortuna non consiste nel fatto che una data persona non è riuscita a diventare qualcuno nel mondo: la vera sfortuna va vista nel fatto che costui non ha acquisito coscienza di sé: coscienza che la persona ch’egli è, è un qualcosa di perfettamente definito, e quindi è il necessario. Al contrario, egli ha perso se stesso, per il fatto d’aver voluto vedere la propria personalità fantasiosamente riflessa nel possibile26. 143

È chiaro che una simile descrizione può toccare un comune individuo come chi è affetto da schizofrenia estrema, ma ciò va ascritto all’acume analitico di Kierkegaard:

Invece di riportare indietro la possibilità nel quadro della necessità, l’uomo continua a perseguire la possibilità: alla fine non riesce più a ritrovare la via del ritorno in se stesso27.

Questa osservazione di applicabilità generale è vera anche per le citazioni che seguono, che possono venir riferite all’uomo-medio, sballottato in un semplice mondo, spazzato da ondate di interiore energia e fantasia. Oggi noi definiamo schizofrenici ambulatoriali quella gente il cui rapporto tra anima e corpo è abbastanza labile e tenue, ma che riescono tuttavia a tirare avanti senza lasciarsi interamente sommergere da interne spinte ed emozioni, da fantasiose immagini, suoni, paure e speranze ancora dominabili.

Nonostante il fatto d’esser diventato così fantastico, egli può tuttavia… esser perfettamente in grado di fare la sua vita, di essere un uomo e di continuare ad occuparsi delle normali cose: sposarsi, generare figli, guadagnarsi riconoscimenti e stima, senza che alcuno si accorga che, in un senso più profondo, egli manca di personalità28.

Cioè, manca di un’anima e un corpo strettamente uniti, centrati sulle energie che controllano il suo ego, per affrontare realisticamente la propria situazione e la natura dei propri limiti e possibilità nel mondo. Ma questo, 144

secondo Kierkegaard, è l’ideale della perfetta salute, difficile da raggiungere. Se la psicosi schizofrenica va vista sullo sfondo di una specie di regolare gonfiamento della fantasia interiore e della possibilità razionale, qualcosa di simile dovrebbe esser vero anche per la psicosi depressiva. Ed è appunto in questi termini che essa viene descritta da Kierkegaard. La psicosi depressiva è l’estremo limite d’un processo continuato di esagerata necessità, e cioè di troppa finitezza, troppa limitazione da parte del corpo e dei comportamenti della persona nel mondo concreto, cui corrisponde una mancanza di sufficiente libertà dell’io e della possibilità razionale interiore. È così che noi conosciamo, oggi, la psicosi depressiva: una specie di impantanamento causato dalle esigenze e richieste di altri, quali la famiglia, il lavoro e altro, nel ristretto orizzonte dei quotidiani doveri. Impantanato così, l’individuo non scorge più alternative, non riesce ad immaginare altre scelte o modi di vita, non può disincagliarsi da una ragnatela di obblighi, anche se questi non gli danno più alcun senso di autostima, di valore primario, di contributo eroico alla vita del mondo, sia pur svolgendo soltanto i suoi compiti familiari e lavorativi d’ogni giorno. Come già ho avuto occasione di dire29, lo schizofrenico non è radicato a sufficienza nel mondo (cosa che Kierkegaard chiama malessere da infinità), mentre il depressivo è troppo impastoiato e sommerso nel mondo. Kierkegaard così ne parla:

Mentre una delle specie di disperazione si lancia selvaggiamente nell’infinito e così si perde, una seconda specie si lascia come defraudare dagli altri. Osservando 145

il formicolio delle moltitudini, lasciandosi impegolare in ogni sorta di affari mondani, facendosi esperto sul come vanno le cose quaggiù, un tale individuo dimentica se stesso…. non osa più credere in sé, trova troppo rischioso essere se stesso e molto più sicuro e facile essere come gli altri, e diventare una copia, un numero e una frazione nella folla30.

Questa è una splendida descrizione dell’uomo culturalmente normale, che non osa ergersi in piedi per apparire quello che è realmente, perché sarebbe troppo pericoloso e rappresenterebbe un esporsi scioccamente. Meglio non essere se stessi, meglio vivere affastellati fra gli altri, inquadrati in una cornice sicura di obblighi e doveri sociali e culturali. Però, questa descrizione va collocata in un contesto graduato, al cui estremo soltanto noi troviamo la psicosi depressiva. L’uomo depresso ha una tale paura d’essere se stesso, è così spaventato dall’idea di far valere la sua individualità, di dover esporre le sue opinioni o le sue condizioni di vita, da apparire letteralmente stupido. Sembra non rendersi conto della situazione in cui si trova, non gli riesce di vedere oltre le proprie paure, né può afferrare le ragioni per cui si trova così incagliato. Ecco come ne parla Kierkegaard:

Se si vuole accostare la tendenza a slanciarsi follemente nella possibilità, con gli sforzi che fa un bambino per enunciare parole, si dovrebbe concludere che l’assenza di possibilità è come l’essere muti… perché senza possibilità un uomo quasi non può 146

respirare31.

Sono questi i termini esatti della condizione depressiva: un individuo riesce a respirare e muoversi con difficoltà. Una delle tattiche inconsce a cui la persona depressa ricorre per giustificare la propria situazione è quella di considerarsi tremendamente indegno e colpevole. Si tratta di una straordinaria invenzione, in verità, poiché gli permette di uscire dal suo mutismo e di spiegare e razionalizzare il proprio stato, anche se ne esce colpevolizzato e responsabile del disagio in cui egli mette gli altri, con le sue fisime. Forse Kierkegaard intendeva appunto riferirsi a questa tattica dell’immaginazione quando occasionalmente osservava:

In qualche caso l’inventiva dell’immaginazione umana riesce ad offrire una qualche possibilità…32.

Bisogna perciò concluderne che, comunque, lo stato di depressione consente una certa inventiva che crea l’illusione di possibilità, di significato, di azione, ma solo in termini astratti, come concludeva Kierkegaard:

La perdita della possibilità significa che o tutto è diventato necessario per l’uomo, oppure s’è trasformato in banalità33.

In realtà, nei casi estremi di psicosi depressiva, pare si verifichi la fusione di queste alternative, poiché tutto diventa necessario e insieme banale, portando all’apice della disperazione. La necessità rivestita di significato, sia pure illusorio, rappresenterebbe la più alta conquista per l’uomo, ma se essa sfocia nel banale, non può più dare senso alla vita 147

di un individuo. Perché mai una persona giunge a preferire le accuse di colpevolezza, indegnità, inettitudine — e persino di disonore e tradimento — piuttosto che un’autentica possibilità? Perché questa è la scelta, anche se non sembra: totale autoannientamento, resa incondizionata agli altri, rinuncia a qualsiasi dignità e libertà personale, da una parte, e dall’altra, invece, libertà e indipendenza, sganciamento dagli altri ed emancipazione dai legami e dalle coartazioni familiari e sociali. Di fronte alla persona depressa sta questa scelta, ma egli tenta di sfuggirvi rifugiandosi in abbiette autoaccuse. La ragione di ciò non è difficile da scoprire: la persona depressa evita la possibilità di una maggiore indipendenza e di una più intensa vita appunto perché in esse intravvede una minaccia di distruzione e di morte. Egli preferisce tenersi stretto proprio a quella gente che l’ha reso schiavo dentro una ragnatela di asfissianti obblighi, senza lasciarsi sfiorare dall’idea di un’interazione a parità di livello con essi, appunto perché quella gente rappresenta il suo rifugio, la sua forza e la sua protezione contro il mondo. Anche il depresso — come quasi tutti — è un codardo che non ama starsene isolato per proprio conto e che non sa scovare in se stesso l’energia richiesta per fronteggiare la vita. Si mimetizza, perciò, in mezzo agli altri, dai quali, nelle sue necessità, ricava una protezione sempre ben accetta. Ma a questo punto la sua tragedia ha smesso ogni maschera: la sua necessità è diventata banale e con ciò la vita stessa, oramai schiava, dipendente e spersonalizzata, ha perso il suo significato. È spaventoso trovarsi in simile ginepraio: si sceglie la schiavitù perché dà sicurezza e senso alla vita, ed anche quando questo senso scompare, si ha paura a 148

muoversi in altra direzione. In una simile situazione non si è nemmeno più vivi, anche se fisicamente si continua a vegetare nel mondo. In conclusione, è questa la tragedia della psicosi depressiva: starsene inchiodati al proprio fallimento, pretendendo di giustificarlo e addirittura di trarne un senso di validità.34*

Nevrosi normali

La maggioranza delle persone, naturalmente, giunge ad evitare conclusioni disastrose del proprio dilemma esistenziale. Hanno la buona sorte di riuscire a stabilirsi in un livello medio di conformismo filisteo. Crisi nevrotiche possono verificarsi in conseguenza di troppa o troppo poca possibilità, ma, come già abbiamo avuto occasione di vedere, il filisteo conosce bene il suo vero nemico e si tiene su terreno sicuro quando si tratta di libertà. Kierkegaard così sintetizza le alternative che l’uomo ha davanti a sé, di cui le prime due corrispondono alle sindromi schizofreniche e depressive:

Con il coraggio della disperazione s’innalza solitario colui che s’è lanciato deciso nella possibilità. Schiacciato, però, dalla disperazione, egli si sfianca nel fronteggiare l’esistenza, poiché per lui tutto è diventato necessario. Ma il filisteo sciocco celebra il proprio trionfo…, crede d’essere il padrone, e non si rende conto che, appunto in questo modo, per sua stessa iniziativa, diventa prigioniero della stupidità e si riduce ad essere la più miseranda di tutte le creature35.

In altri termini, il filisteismo conformista è ciò che noi 149

chiameremmo nevrosi normale. Gran parte della gente ha trovato il modo di vivere sicura dentro le opportunità offertele da un dato schema di regole sociali. Il filisteo confida che, non sporgendosi troppo e accontentandosi del suo poco, gli riuscirà di evitare esperienze traumatiche. II filisteismo funziona — secondo Kierkegaard — attraverso il tranquillante della banalità. Bisogna osservare che questa analisi veniva fatta quasi un secolo prima che Freud parlasse dell’incidenza di nevrosi sociali e di patologia di intere comunità culturali36.

Altri incitamenti alla libertà

La gamma del carattere umano non s’esaurisce nella triplice tipologia descritta da Kierkegaard. Egli sapeva bene che non tutti gli uomini sono così immediati o superficiali, così automaticamente forgiati dalla loro cultura, così saldamente inseriti nelle cose e negli altri e ridotti ad essere un fedele riflesso del loro ambiente. Come sapeva che relativamente pochi sono quelli che si collocano nell’estrema frangia psicotica del panorama complessivo della sconfitta umana: alcuni, infatti, riescono a conquistare un certo grado di autorealizzazione, senza arrendersi al completo svuotamento e alla schiavitù. Ed è qui che l’analisi di Kierkegaard si fa più eloquente, poiché egli si sforza si snidare fuori dalla menzogna delle loro vite proprio quella gente la cui vita non appare menzogna e che sembrano riusciti ad essere persone vere, complete ed autentiche. V’è un tipo di uomo che nutre estremo disprezzo per la faciloneria, che si sforza di coltivare la propria interiorità, 150

che basa il suo orgoglio su qualcosa di intimo e profondo e che per ciò stesso si differenzia dalla comune degli uomini. Kierkegaard denomina introverso questo tipo d’uomo che maggiormente si preoccupa del significato d’essere una persona, dotata quindi di individualità unica. Costui apprezza la solitudine e periodicamente si ritira per riflettere, forse appunto sul proprio segreto io e sulle sue prospettive. Questo, dopo tutto, è il solo vero problema della vita e la sola degna preoccupazione dell’uomo. Qual è il vero talento di uno, quale la sua segreta dote, quale la sua vera vocazione? In che maniera si è veramente unici e come si può manifestare questa unicità, darle forma e metterla a servizio di qualcosa, oltre se stessi? Come può una persona impossessarsi del proprio essere interiore, del grande mistero che sente nel proprio cuore, delle proprie emozioni e struggimenti, usandoli per una vita più significativa, che arricchisca se stesso e l’umanità colla particolare qualità del suo talento? Questi interrogativi da sempre tormentano gran parte degli adolescenti con dilemmi che talora vengono espressi in pensieri e parole, ma altre volte rimangono chiusi in una sorda pena. Tuttavia normalmente la vita ci risucchia verso attività ordinarie. Il sistema sociale di eroismo nel quale siamo nati traccia i sentieri dell’eroismo nostro e noi li seguiamo docilmente per compiacere gli altri e corrispondere alle loro attese. Così, invece di impegnarci a realizzare il nostro segreto ideale, finiamo col trascurarlo e dimenticarlo, lasciandoci assorbire da impegni esteriori che ci inseriscono in quel giocare a fare gli eroi, accidentalmente accollatoci, sia dai legami familiari, sia da patriottismo o — più prosaicamente — dall’elementare necessità di mangiare e dalla spinta a procreare. 151

Con questo non voglio affermare che l’individuo introverso di Kierkegaard mantenga sempre pienamente viva e cosciente quella ricerca interiore di cui s’è detto, ma semplicemente che tale ricerca costituisce per lui un problema più sentito che non per il facilone, subito fagocitato dall’ambiente. L’uomo introverso di Kierkegaard sente d’essere diverso dal suo mondo e d’avere in sé qualcosa che il suo ambiente non possiede e non può apprezzare a causa della sua superficiale faciloneria. Per questo se ne sta in disparte, ma non completamente e senza esagerare. Si rende conto che, per quanto desiderabile possa essere il realizzare la propria vocazione coi suoi talenti e diventare la persona che vorrebbe essere, tutto ciò nasconde dei pericoli e potrebbe sconvolgere il mondo in cui vive. Infatti, egli è un uomo fondamentalmente debole e incline ai compromessi: non è facilone, ma non è nemmeno un vero uomo, anche se ne ha l’apparenza. Così lo descrive Kierkegaard:

Esternamente egli è del tutto un vero uomo. Può essere un professore universitario, marito e padre, o un funzionario civile eccezionalmente preparato, o un qualsiasi degno padre, riguardosissimo della moglie e pieno di rispettosa cura per i figli. E anche buon cristiano? Anche questo, in un certo modo, pur cercando di evitare l’argomento… In chiesa va di rado, perché gli sembra che la maggioranza dei ministri del culto non sappiano quel che dicono. Fa eccezione per qualche prete in particolare, di cui ammette la competenza, ma non vuole ascoltare troppo spesso neanche lui, perché teme lo porti troppo lontano37. 152

Troppo lontano perché in realtà sul problema della propria unicità non vuole spingere a fondo il confronto:

Ciò che lo porta ad essere un marito così gentile ed un padre così premuroso — a parte il buon temperamento e il senso del dovere — è l’ammissione delle sue proprie debolezze che egli, nel suo intimo, ha fatto a se stesso38.

È così egli vive in una specie di incognito, contento di trastullarsi — nei periodici momenti di solitudine — col pensiero di chi egli realmente sia; soddisfatto d’insistere su una piccola differenza che gli consente un vago senso di superiorità. Ma una tale posizione non è facile mantenerla in perfetta calma, poiché, come affermava Kierkegaard, si tratta di un atteggiamento abbastanza difficile. Una volta posto il problema di che cosa significhi essere una persona, sia pure con superficiale semplicioneria o con una patina d’orgoglio per la presunta differenza dagli altri, si è esposti a una serie di pericoli. L’introversione significa impotenza, ma un’impotenza di cui si è già consci, almeno parzialmente, e ciò può diventare fonte di guai, perché può turbare i normali rapporti d’interdipendenza in famiglia, o quelli di lavoro. La percezione del proprio invischiamento può produrre, infatti, un fastidioso rosichio e un senso di ribellione contro quelle sicurezze che ci hanno resi schiavi. Per una persona di forte temperamento ciò può risultare intollerabile e può accadere ch’egli tenti di venirne fuori addirittura col suicidio, in qualche caso, o tuffandosi disperatamente in un vortice frenetico d’attività ed 153

esperienze. Questo ci porta al nostro ultimo tipo d’uomo: colui, cioè, che si colloca e si afferma in una posizione di sfida alla propria debolezza, che si sforza d’essere il dio di se stesso, padrone del proprio destino. Egli rifiuta d’essere soltanto una pedina nel gioco di altri o della stessa società: non si rassegnerà mai a soffrire passivamente e a sognare in segreto, spegnendo nell’oblio la sua ultima fiamma. Costui si tufferà, invece, nella vita:

negli impegni di grandi imprese diverrà uno spirito irrequieto… che vuol dimenticare… O cercherà l’oblio nella sensualità o — forse — nella depravazione…39.

Al limite estremo, questa sfida autocreativa può diventare ossessione, in un impeto che Kierkegaard chiama furia demoniaca, rivolta contro l’insieme della vita per tutto ciò che essa gli ha inferto e in definitiva ribellione contro la vita stessa. Nel nostro tempo sono frequenti e facilmente individuabili queste forme di sfida autocreativa, i cui effetti risultano evidenti sia sul piano personale che su quello sociale. Abbiamo sotto gli occhi il nuovo culto della sensualità che pare richiamarsi al naturalismo sessuale della decadenza di Roma antica. È un vivere alla giornata, sfidando o ignorando il domani: un immergersi nel corpo colle sue esperienze e sensazioni immediate di tatto, gusto e odore, che mira a fugare l’idea di non possedere il controllo degli eventi, di essere impotenti, travolti come nebulosi individui in un mondo meccanico, che ci spinge verso la decadenza e la morte. Non intendo dire che questa 154

riscoperta e riaffermazione della propria basilare vitalità animale sia in sé cattiva, perché, dopotutto, il mondo attuale ha tentato di togliere alla persona persino il suo corpo e l’emanazione del suo centro animale, per ridurla a un’astrazione completamente spersonalizzata. Per fortuna, invece, l’uomo ha mantenuto il suo corpo, imparentato coi primati, e ha scoperto di potersene servire per affermare se stesso, sia pure in modi rozzi e grossolani, con buona pace dei teorizzatori. Il solo aspetto riprovevole in tutto ciò è la sua disperata logica, che sfocia in una sfida irrazionale e quindi senza un chiaro autocontrollo. Anche in campo sociale s’è potuto assistere alla sfida prometeica, fondamentalmente vuota, di una fiduciosa capacità nel catapultare l’uomo verso la luna, colla prospettiva — ancora piuttosto vaga — di liberarlo dalla sua totale dipendenza dalla terra. L’aspetto negativo di questo prometeismo consiste nel fatto che anch’esso è avulso dalla riflessione: si riduce, infatti, a un semplicistico buttarsi nelle delizie della tecnica, senza darsi pensiero di scopi o significati che eccedano la materia. Tutto si riduce così al trionfo tecnico di una scimmia versatile, come gelidamente illustrato dal film 2001. Un aspetto ancora più allarmante — su cui ci soffermeremo più avanti — è rappresentato dalla sfida che l’uomo moderno lancia contro i mali e le miserie che affliggono il mondo moltiplicando pazzamente i beni di consumo e gli armamenti. Questa sfida, spinta ai suoi estremi demoniaci, ha prodotto Hitler e il Vietnam, in una furia contro l’impotenza della nostra condizione animale, colle sue patetiche limitazioni: pur non possedendo l’onnipotenza degli dei, possiamo però rivaleggiare con loro, almeno nella distruzione. 155



Il significato dell’uomo

Pur non vivendo ai nostri giorni, Kierkegaard capiva queste cose. Come già Burckhardt, egli le vedeva prefigurate nella sua epoca, perché aveva chiara coscienza di quanto costi il mentire riguardo a se stessi. Tutti i caratteri da lui schematizzati inquadrano i vari livelli di menzogna in rapporto alla realtà della propria condizione umana. Kierkegaard s’era deciso a questo difficoltoso ed incredibilmente delicato impegno per un’unica ragione: egli intendeva stabilire autoritativamente quale persona emergerebbe eliminando la menzogna e voleva descrivere i vari modi in cui una vita s’impantana e fallisce allorché l’uomo si barrica di fronte alla realtà della sua condizione. O, meglio ancora, voleva sottolineare quale patetica creatura diventi l’uomo quando immagina di realizzare la propria natura vivendo chiuso unicamente in se stesso. Ma subito dopo Kierkegaard ci presenta l’aureo frutto delle sue improbe fatiche: invece del vicolo cieco dell’impotenza umana causata dall’egocentrismo, che sfocia nell’autodistruzione, egli addita quali vere possibilità si schiudano all’uomo. Dopo tutto, Kierkegaard non era affatto un freddo scienziato e tracciava le sue descrizioni psicologiche avendo in mente una visione di libertà per l’uomo, perché egli era un teorico della personalità aperta e del possibilismo umano. Occorre dire che in questa ricerca l’attuale psichiatria è molto arretrata rispetto a Kierkegaard, che possedeva soltanto un’idea imprecisa di che cosa sia sanità mentale, ma aveva però una nozione chiarissima di quel che 156

non sia. Per lui non poteva consistere in un rassegnato normale adattamento, contro il quale si rivolgono le sue elaborate analisi. Ridursi a uomo normale, inserito nel proprio ambiente culturale, per Kierkegaard significa essere malato, anche se non se ne ha coscienza. «Esiste uno stato di sanità fittizia»40 egli, affermava e gli faceva eco, più tardi, Nietzsche chiedendo: «Una questione vorrei porre agli psichiatri: sono possibili le nevrosi da sanità?» A tale questione aveva già risposto anticipatamente Kierkegaard, poiché, se la sanità mentale non s’identifica colla normalità culturale, chiaramente va individuata in qualcos’altro che si colloca oltre l’usuale situazione dell’uomo e le sue idee correnti. La sanità mentale non può quindi essere un qualcosa di tipico, ma di ideale, che sorpassa di molto l’uomo e che va raggiunta con sforzo, perché spinge l’uomo al di là di se stesso. La persona sana, l’individuo vero, lo spirito autorealizzato, l’uomo reale è colui che ha saputo spingersi oltre se stesso41. Ma come si fa a trascendere se stessi, come s’arriva ad aprirsi a nuove possibilità? Bisogna prender coscienza della propria vera situazione, occorre liquidare la menzogna rappresentata dal proprio carattere e spezzare le catene di quella prigione che condiziona lo spirito. Per Kierkegaard, come per Freud, il nemico è il complesso di Edipo: il bambino s’è costruito strategie e tecniche per salvaguardare la stima di se stesso di fronte ai terrori della propria situazione. Tali tecniche si trasformano in una corazza che lo tiene prigioniero, perché quelle stesse difese, che gli sono necessarie per muoversi con fiducia e stima di se stesso, si tramutano in trappole per tutta la vita. Per trascendere se stesso egli deve spezzare ciò che gli è necessario per vivere e 157

come il re Lear shakespeariano deve buttar via tutti i suoi prestiti culturali e affrontare nudo la tempesta della vita. Kierkegaard non si faceva illusioni sulle spinte dell’uomo a raggiungere la libertà, perché conosceva quanto la gente si trovi a suo agio dentro la prigione delle proprie difese caratteriali. Come succede a molti prigionieri, gli uomini apprezzano l’andazzo quotidiano, limitato ma sicuro, e la sola idea di trovarsi liberi nel vasto mondo, dove occasioni, accidenti e scelte s’affacciano ad ogni passo, li spaventa. Basta richiamarsi alla confessione di Kierkegaard, con cui si apre questo capitolo, per capirne la ragione. Nella prigione del proprio carattere, uno può pretendere d’essere e sentirsi qualcuno, credere che il mondo sia manovrabile e che esista una giustificazione al proprio vivere ed operare. Per vivere in modo automatico e acritico occorre raggiungere una certa sicurezza della propria posizione nell’eroismo programmato del proprio ambiente culturale: potremmo chiamare eroismo da prigione, quella disinvoltura dimostrata dalla gente bene integrata, che conosce tutto. Il tormento di Kierkegaard nasceva dalla realistica visione del mondo raffrontata alla sua situazione di creatura. La prigione del carattere viene faticosamente costruita dall’individuo per un unico scopo: quello di negare il proprio stato di creatura coi terrori che esso comporta. Una volta ammesso di essere una creatura che defeca, ci si trova esposti ai primordiali marosi dell’ansietà, che a tale stato si accompagna. E non solo all’ansietà della creatura si è esposti, ma a quella ben più grave dell’uomo, legata a quel paradosso che è un animale cosciente dei propri limiti animali. Che cosa significa essere un animale autocosciente? È un concetto ridicolo, se non mostruoso, poiché si traduce 158

nel conoscere il proprio destino di cibo per i vermi. Il terrore consiste nel fatto di essere emersi dal nulla, di avere un nome e la conoscenza di se stessi, d’essere dotati di sentimenti profondi e rigurgitanti di aspirazioni cocenti verso la vita e l’espressione di se stessi, e con tutto ciò esser condannati a morire. Sembra una beffa atroce, che spiega però come un particolare tipo d’uomo di cultura si ribelli apertamente all’idea di Dio. Quale specie di divinità creerebbe mai un così complesso e sofisticato cibo per i vermi? Divinità ciniche, rispondevano i greci, che si divertono nel tormentare l’uomo. A questo punto si direbbe che Kierkegaard ci abbia immessi in un vicolo cieco e in una situazione disperata. Egli afferma che soltanto riconoscendo la verità della nostra situazione noi possiamo trascendere noi stessi. E, d’altra parte, proclamando che la realtà della nostra condizione umana consiste nel nostro stato di povere e abbiette creature, egli sembra spingerci ancora più a fondo nel grado di autoconoscenza e allontanarci ancor più da qualsiasi capacità di autotrascendenza. Si tratta però soltanto di una contraddizione apparente, poiché l’ondata di ansietà non costituisce la fine dell’uomo, ma piuttosto rappresenta una scuola che provvede all’uomo la sua educazione ultima e la maturità finale. Essa è un maestro migliore della realtà, dice Kierkegaard42, perché, mentre la realtà può essere falsata, distorta e addomesticata dai trucchi della percezione culturale e della repressione, l’ansietà non può essere truccata. Quando la si fronteggia, essa ci rivela la verità della nostra situazione che, unica, può aprirci nuove possibilità.

Colui che viene educato dal timore (ansietà), è 159

educato dalla possibilità… Perciò, quando una persona esce dalla scuola della possibilità e ha appreso — meglio di quanto un fanciullo conosca l’alfabeto — che dalla vita egli non può attendersi alcunché e che il terrore, la rovina, l’annientamento stanno in agguato accanto alla porta di ogni uomo, e ha fatto sua l’utile lezione che qualsiasi delle paure che lo tengono in allarme può diventare un fatto ad ogni istante, costui, allora, interpreterà la realtà in modo diverso…43

Non ci si può ingannare a questo riguardo: la scuola dell’ansietà ci fa disimparare la repressione e tutto ciò che il bambino s’è imposto di rinnegare, onde potersi muovere con un minimo di equanimità animale. Kierkegaard si colloca così direttamente nella tradizione agostiniana, ripresa più tardi da Lutero: per l’uomo l’educazione significa porsi di fronte alla propria naturale impotenza e alla morte44. Come Lutero ci esortava: «Io dico morire, cioè assaggiare la morte come se fosse presente». Soltanto se uno assaggia la morte colle labbra del proprio corpo ancora vivo, può emotivamente apprendere d’essere una creatura che morirà. In altri termini, Kierkegaard dichiara che la scuola dell’ansia introduce alla possibilità soltanto distruggendo la menzogna vitale del carattere. Ciò può apparire come la sconfitta finale, che andrebbe assolutamente evitata, perché con essa tutto sarebbe perduto. Ma Kierkegaard ci rassicura dicendo che «è un cammino perfettamente normale… l’io va spezzato per divenire una persona autentica…»45. William James riassume efficacemente tale tradizione cristiana, sottolineata da Lutero, in questo modo: 160



Questa è la salvezza raggiunta attraverso la sfiducia in se stessi, il morire per poter veramente nascere, di cui parla la teologia luterana, il passaggio nel nulla descritto da Jacob Behmen [Boehme]. Per giungere a ciò occorre attraversare un punto critico e operare una svolta interiore. Qualcosa deve sparire e la nostra congenita durezza va infranta e liquidata…46.

Se vogliamo — come abbiamo visto nel precedente capitolo — tutto questo rappresenta quella distruzione della corazza emotiva del carattere già riscontrata nel Re Lear, nello Zen buddhistico, nella moderna psicoterapia, che appare concretamente in ogni epoca negli uomini che si sono autorealizzati. Kierkegaard viene ripreso quasi alla lettera, nell’enunciazione che di questi concetti fece il grande Ortega y Gasset:

Uomo con chiare idee è colui che giunge a liberarsi dalle altre idee fantasiose [cioè, la menzogna caratteriale riguardante la realtà] e sa guardare in faccia la vita, rendendosi conto che in essa tutto è problematico, tanto da sentirvisi perduto. Ed è questa la verità nuda e cruda: vivere vuol dire sentirsi perduti. Chi accetta questo sta già cominciando a ritrovarsi e a poggiare i piedi su suolo sicuro. Istintivamente, come avviene per i naufraghi, uno si guarda attorno alla ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi, e quell’occhiata tragica e ansiosa — assolutamente sincera, poiché è in gioco la propria salvezza — farà sì che uno cominci a metter ordine nel caos della propria vita. Le sole idee genuine son quelle che germogliano 161

nella testa del naufrago. Tutto il resto è retorica, posa e farsa. Chi non si sente davvero perduto è irrecuperabile, perché non ritroverà mai se stesso e non potrà sollevarsi per fronteggiare la propria realtà47.

In questo consiste dunque il raggiungimento di nuove possibilità e realtà, colla distruzione dell’io ottenuta affrontando l’ansietà causata dal terrore dell’esistenza. L’io dev’essere distrutto e ridotto al nulla, perché possa avere inizio l’autotrascendenza. Solo allora l’io comincerà a entrare in rapporto con poteri che lo sorpassano: esso deve confrontarsi colla propria natura finita, deve morire, per poterne afferrare il senso e spingere oltre il suo sguardo. Verso che cosa? Verso l’infinito — risponde Kierkegaard — verso la trascendenza assoluta, verso il Potere Ultimo della Creazione che ha dato esistenza agli esseri finiti. Il nostro attuale concetto della psicodinamica conferma come questa progressione sia perfettamente logica: ammettendo di essere creature, si compie un passo fondamentale, poiché si distruggono automaticamente tutti gli agganci con poteri e sostegni illusori.; Come già s’è detto, ogni bambino si basa istintivamente su qualche potere che lo trascende, rappresentato, di solito, da una combinazione tra genitori, gruppo sociale e concetti di società e nazione. È questa la naturale rete di sostegno che gli permette d’avere fiducia in se stesso, quale beneficiario automatico di poteri delegati. Egli sicuramente non ammette di vivere su poteri avuti in prestito, poiché ciò lo porterebbe a dubitare dei suoi movimenti e della stessa fiducia che gli occorre. Egli rifiuta la sua situazione di creatura precisamente perché crede di possedere un sicuro potere, che gli deriva dall’inconscio 162

aggancio che lo lega a persone e cose della sua società. Quando si fa luce sulla fondamentale debolezza e inconsistenza della persona e sulla sua impotenza, si è costretti a riesaminare l’intero problema degli agganci col potere e si è condotti a reimpostarli in un rapporto con una vera sorgente di potere creativo e generativo. È a questo punto che uno pone il proprio stato di creatura a confronto immediato con un Creatore che è la Causa Prima di tutte le cose create, radicalmente diverso da quegli intermediari e creatori di seconda mano che sono i genitori e tutta la sequela di eroi proposti dall’ambiente culturale. Quando una persona comincia a considerare il suo rapporto col Potere Supremo, e sposta e rimodella i propri legami da coloro che gli stanno attorno verso l’infinito, a costui si spalanca un orizzonte di possibilità sconfinata e di vera libertà. In questo consiste il messaggio di Kierkegaard e il senso più alto delle sue argomentazioni circa i vicoli ciechi del carattere, l’ideale di sanità psichica, la scuola dell’ansietà e la natura della genuina possibilità e libertà. Percorrendo questi sentieri si giunge alla fede: la fede che esattamente il proprio stato di creature ha un qualche significato per il Creatore e che, nonostante la nostra totale miseria e debolezza e la stessa morte, la nostra esistenza ha un suo valore in un significato ultimo, perché si trova circoscritta in uno schema di cose eterno ed infinito, messo in atto e diretto verso un arcano disegno da una Forza Creativa. Kierkegaard non si stanca di ripetere la sua fondamentale formula di fede: siamo creature avulse da qualsiasi possibilità, ma sullo sfondo della nostra esistenza c’è un Dio vivente, per il quale tutto è possibile. La sua argomentazione diventa cosi chiarissima, allorché 163

la pietra fondamentale della fede gli dà completezza. Si capisce allora la ragione per cui l’ansietà diventa possibilità di libertà, appunto perché essa sgretola tutte le mire temporali e, per conseguenza, l’individuo educato dalla possibilità viene avviato verso l’infinito48. La possibilità non trova sfocio se non nella fede: essa è uno stadio intermedio tra il condizionamento impostoci dall’ambiente culturale, cioè la menzogna del nostro carattere, e quell’apertura verso l’infinito resa possibile dalla fede. Però, senza il salto nella fede, la radicale impotenza che sopravviene in chi s’è disfatto della corazza difensiva del carattere lo getterebbe nel terrore totale, perché senza difesa alcuna egli dovrebbe affrontare la propria solitudine e disperazione, in un’ansietà senza rimedi. Ecco quanto afferma Kierkegaard:

A questo punto egli è in preda all’orrore della possibilità, finché non trova salvezza tra le braccia della fede. Da nessun’altra parte può trovare rifugio… colui che ha tutto perduto percorrendo i sentieri della possibilità, anche se in realtà non ha perduto nulla. Se in questa situazione egli non ha usato scorrettamente la possibilità, se non s’è abbandonato a chiacchiere e piagnistei riguardo al senso di terrore che dovrebbe condurlo alla salvezza, allora egli rientra in possesso di tutto… moltiplicato, poiché il discepolo della possibilità riceve l’infinito…49.

Se quest’intero processo viene messo nei termini della nostra discussione sull’eroismo, si ha questo risultato: l’uomo si disincaglia dai lacci dell’eroismo di esclusivo segno culturale; distrugge così la menzogna d’un carattere che lo 164

obbliga a un comportamento eroico secondo i correnti schemi sociali. Fatto questo egli si apre all’infinito e alla possibilità d’un eroismo cosmico, nel servizio di Dio stesso. La sua vita acquista, in tal modo, un valore finale che sostituisce i precedenti valori puramente sociali, culturali e storici. Egli lega il suo io interiore, il suo specifico talento, i suoi più profondi sentimenti di unicità, la sua segreta brama di significato assoluto, al fondamento stesso della creazione. Dalle rovine dell’io culturale spezzato si salva ed emerge il mistero di quell’altro io privato, invisibile, interiore che anelava ad un supremo significato e ad un eroismo cosmico. Quest’invisibile mistero nascosto nel cuore d’ogni creatura raggiunge così significato cosmico, proclamando il proprio legame con lo stesso invisibile mistero celato nel cuore della creazione. Tutto qui sta il senso della fede, che rappresenta pure — allo stesso tempo — il senso di quella fusione tra psicologia e religione, patrocinata da Kierkegaard. La persona veramente aperta, che s’è disfatta della corazza protettiva del carattere e ha liquidato la menzogna vitale del proprio condizionamento culturale, non può più attendersi aiuto dalla scienza pura, perché s’è spinta al di là degli standard sociali di sanità mentale. Essa si scopre assolutamente sola e tremante sull’orlo del nulla, che è però anche l’orlo dell’infinito. «Soltanto la fede è in grado di dargli quel nuovo genere di sostegno che gli occorre e il coraggio di affrontare il terrore senza terrore» diceva Kierkegaard. Non è che ciò rappresenti per l’uomo una facile via d’uscita o un toccasana per tutti i guai della condizione umana: Kierkegaard, che non è mai facilone, viene fuori con questa splendida osservazione:

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Non che essa (la fede) annienti la paura, ma poiché rimane sempre giovane, è in grado di svilupparsi continuamente tra le angosce mortali della paura50.

In altre parole, finché l’uomo resta quell’ambigua creatura che è, non potrà mai bandire totalmente la paura. Gli è invece possibile servirsi dell’ansietà come d’un’inesauribile molla per crescere in nuove dimensioni di pensiero e di fiducia. La fede propone come nuovo impegno per la vita l’avventura d’aprirsi a una realtà multiforme. Si può capire come Kierkegaard potesse concludere il suo approfondito studio sull’ansietà, precisamente con queste risolute parole che qui riportiamo:

Il vero autodidatta [colui, cioè, che da solo procede dalla scuola dell’ansietà verso la fede] è contemporaneamente e allo stesso modo anche un teodidatta… Non appena la psicologia ha concluso colla paura, altro non le resta che trasferirsi nella dogmatica51.

In Kierkegaard psicologia e religione, filosofia e scienza, poesia e verità si fondono in quell’unico insieme che è l’anelito della creatura52. Rivolgiamoci ora a un altro imponente personaggio della storia della psicologia che ebbe lo stesso anelito, ma che non riuscì a fondere, nella sua comprensione, questi vari elementi. Per quale ragione i due più grandi studiosi, forse, della natura umana, ebbero vedute così diametralmente opposte sulla realtà della fede? 1

KIERKEGAARD, Journal, May 12th, 1839 (trad. Diario, Milano: Rizzoli 166

1975; Diario, Brescia: Morcelliana, 1962). 2 MOWRER O.H., Learning Theory and Personality Dynamics (New York:

Ronald Press, 1950), p. 541. 3 Cf. particolarmente ROLLO MAY, The Meaning of Anxiety (New York:

Ronald Press, 1950); LIBUSE LUKAS MILLER, In Search of the Self: The Individual in the Thought of Kierkegaard (Philadelphia: Muhlenberg Press, 1962). 4 KIERKEGAARD, The Concept of Dread, 1844 (Princeton: University Press

Edition, 1957, tradotto da Walter Lowrie), p. 41 (trad. Il Concetto dell’angoscia, Torino: Paravia, 1977). 5 Ibid., p. 38. 6 Ibid., p. 39. 7 Ibid., p. 139. 8 Ibid., p. 40. 9* Tra coloro che sono ricorsi e hanno brillantemente analizzato l’idea del

dualismo e dell’ambiguità dell’uomo nel pensiero cristiano moderno, vanno citati Reinhold Niebuhr, The Nature and Destiny of Man, (vol. I, New York: Scribner’s Sons, 1941), e Paul Tillich, Systematic Theology (in tre volumi, Chicago: University of Chicago Press, 1963, capitolo I). Questi studi provano, al di là d’ogni dubbio, la validità dell’opera di Kierkegaard e che, se veramente si vuole giungere alle radici, l’analisi psicologica e quella religiosa sulla condizione umana sono inseparabili. 10 Ibid., p. 140. 11 KIERKEGAARD, The Sickness Unto Death, 1849 (Anchor edition, 1954,

abbinata con Fear and Trembling, tradotto da Walter Lowrie), p. 181 (trad. La Malattia Mortale, Milano Edizioni di Comunità, 1965; Timore e tremore Milano: Edizioni di Comunità 1977).

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12 KIERKEGAARD, Dread, pp. 110 ss. 13 Ibid., p. 124. 14 Ibid., p. 112-113. 15 Ibid. 16 Ibid., pp. 114-115. 17 Ibid., pp. 115-116. 18 Cf. MILLER, In Search of the Self, pp. 265-276. 19 KIERKEGAARD, Sickness, pp. 184-187, passim. 20 Ibid., pp. 174-175. 21 Ibid. 22 Ibid., pp. 162 ss. 23 Cf. BECKER, The Revolution in Psychiatry (New York: Free Press, 1964) e

capitolo 10 di questo libro. 24 KIERKEGAARD, Sickness, p. 163.

[* L’uso che Kierkegaard fa dell’io, può ingenerare confusione. Egli se ne serve per designare l’io razionale e il corpo fisico, nel qual caso è sinonimo di personalità totale. Questa si spingerebbe oltre la persona per includere ciò che oggi noi chiameremmo anima o base dell’essere, da cui sgorga la persona creata. Tutto ciò non ha grande importanza per noi, nel nostro contesto, se non per introdurre la nozione che la persona totale è un dualismo fatto di finitezza e di infinità.] 25 Ibid., pp. 164-165, 169.

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26 Ibid., pp. 169-170. 27 Ibid. 28 Ibid., p. 165. 29 BECKER, The Revolution in Psychiatry. 30 KIERKEGAARD, Sickness, pp. 166-167. 31 Ibid., pp. 170-172. 32 Ibid., p. 172. 33 Ibid., p. 173. 34* Tratterò ancora questi argomenti nel capitolo X, ma mi ci sono volutamente

soffermato qui per mostrare quanto essi siano stati organicamente compresi e sviscerati da Kierkegaard, le cui formulazioni in materia appaiono ancor oggi perfettamente adeguate. 35 Ibid., pp. 174-175, passim. 36 FREUD, Civilization and Its Discontents, p. 81. 37 KIERKEGAARD, Sickness, p. 196. 38 Ibid., p. 198. 39 Ibid., p. 199. 40 Ibid., p. 156. 41 Cf. MILLER, In Search of the Self, pp. 312-313.

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42 KIERKEGAARD, Dread, p. 144. 43 Ibid., p. 140. 44 Cf. MILLER, In Search of the Self, p. 270. 45 KIERKEGAARD, Sickness, p. 199. 46 JAMES, Varieties, p. 99. 47 ORTEGA, The Revolt of the Masses, p. 157. 48 KIERKEGAARD, Dread, pp. 140 ss. 49 Ibid., pp. 141-142. 50 Ibid., p. 104. 51 Ibid., p. 145. 52 Cf. MAY R., The Meaning of Anxiety, p. 45.

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VI IL PROBLEMA DEL CARATTERE DI FREUD NOCH EINMAL (DI NUOVO)



Non soltanto l’erotismo anale ma la sessualità nel suo insieme è sotto la minaccia di cadere vittima della repressione organica portata dall’adozione della posizione eretta da parte dell’uomo e dal conseguente scadimento del senso dell’olfatto… Tutti i nevrotici e molti altri ancora arricciano il naso di fronte al fatto che «inter urinas et faeces nascimur»… Per questo la radice più profonda della repressione sessuale, che avanza insieme alla cultura, dovrebbe essere individuata nella difesa organica di quella nuova forma di vita che ebbe inizio colla posizione eretta. SIGMUND FREUD1

Nel ristretto spazio del capitolo precedente mi sono sforzato di dimostrare come Kierkegaard avesse compreso il problema del carattere umano e del suo sviluppo con un 171

acume che — anticipando di molto la psicologia clinica — reca l’impronta misteriosa del genio. Egli precorse alcune delle linee fondamentali della teoria psicoanalitica e, spingendosi oltre, sfociò nel problema della fede che permette la comprensione più profonda dell’uomo. Una simile affermazione va giustificata, ed è precisamente questo uno degli scopi di questo volume. Tra gli argomenti giustificativi, certo rientra uno schematico abbozzo del problema del carattere di Freud, come io lo vedo. Anche Freud spinse la teoria psicoanalitica ai suoi limiti estremi, senza però approdare alla fede: nel suo carattere va ricercata — a parere nostro — una qualche spiegazione del fatto.

La psicoanalisi come dottrina riguardante lo stato di creatura dell’uomo

Uno degli aspetti più sconcertanti della rivoluzione freudiana nel campo del pensiero è rappresentato dal fatto che non siamo riusciti a digerirla, ma neanche abbiamo potuto ignorarla. Il pensiero di Freud si erge, come uno spettro accusatore, al di sopra e contro l’uomo d’oggi. Sotto tale aspetto — molti hanno notato — Freud appare come uno dei profeti biblici o come un iconoclasta religioso che annuncia una verità che nessuno vuole e, forse, vorrà mai sentire. Come sottolineava Norman O. Brown, quella verità è che Freud non nutriva alcuna illusione sul fondamentale stato di creatura, proprio dell’uomo, a provare il quale egli citava anche Sant’Agostino2. Riguardo a questa situazione basilare dell’uomo, Freud si sentiva in assonanza con una religione per cui, a dir poco, non provava molta stima. E tuttavia questo basso concetto delle religioni nel loro 172

insieme non gli impedì di mettersi spalla a spalla con l’agostiniano Kierkegaard su un argomento così fondamentale come la basilare natura dell’uomo. Si tratta di un punto cruciale che spiega come appunto il cinico pessimismo di Freud costituisca ancor oggi l’elemento più attuale del suo pensiero, perché si tratta d’un pessimismo basato sulla realtà e provato vero dalla scienza. Ma ciò spiega molte altre cose, perché la pervicace insistenza sulla posizione di creatura dell’uomo chiarisce anche quanto c’è di sbagliato nella teoria psicoanalitica. Va detto contemporaneamente che, con qualche leggera modifica, quali quelle apportate prima da Rank e ora da Brown, l’enfasi sullo stato di creatura dell’uomo emerge come intuizione duratura sul carattere umano.

Riguardo all’insistenza di Freud sullo stato di creatura come base di comportamento istintivo, nulla è più rivelatore di alcune pagine dell’autobiografia di Jung, il quale richiama i due episodi — nel 1907 e nel 1910 — che gli fecero capire come non avrebbe mai potuto diventare amico di Freud, perché non gli sarebbe stato possibile seguirlo nel fanatismo per la sua teoria sessuale. Voglio citare le parole stesse di Jung su quel cruciale incontro per la storia del pensiero, avvenuto a Vienna nel 1910:

Ricordo ancora, con vivezza di particolari, come Freud mi disse: «Mio caro Jung, prometti che non abbandonerai mai la teoria sessuale. Quello è il punto essenziale fra tutti. Vedi, noi dobbiamo farne un dogma, un incrollabile fortilizio». Mi parlò con grande calore,1 col tono di un padre che dice: «E promettimi 173

questo, mio caro figlio: che andrai in chiesa ogni domenica». Piuttosto stupito, gli chiesi: «Un fortilizio, ma contro che cosa?». Rispose: «Contro l’oscura marea di fango». E, dopo un attimo di esitazione, aggiunse: «dell’occultismo»… Ciò che Freud sembrava intendere per occultismo, era virtualmente tutto ciò che la filosofia e la religione — ivi inclusa la nascente scienza della parapsicologia — avevano insegnato riguardo alla psiche.

E riguardo al previo raduno del 1907, Jung rivela:

Soprattutto mi parve assai discutibile l’atteggiamento di Freud verso lo spirito. Ogni qualvolta, per una persona o un’opera d’arte ricorreva un’espressione di spiritualità (sia pure in senso intellettuale, non soprannaturale) egli si faceva sospettoso, ed insinuava che si trattasse soltanto di sessualità repressa. Tutto ciò che non poteva essere direttamente interpretato come sessualità, egli lo qualificava come psicosessualità. Protestai che una simile ipotesi, portata alla sua logica conclusione, sarebbe sfociata in un giudizio distruttivo sulla cultura, perché essa sarebbe apparsa come una semplice farsa e morbosa conseguenza della sessualità repressa. «Sì — confermò — è proprio così, ed è esattamente questa la maledizione del destino, contro la quale siamo del tutto impotenti». Non ci si poteva ingannare sul fatto che Freud fosse emotivamente coinvolto, in modo straordinario, colla sua teoria sessuale. Quando ne parlava, il suo tono si faceva appassionato, quasi ansioso… e sul suo viso appariva 174

una strana e profondamente commossa espressione3.

Per Jung un simile atteggiamento era inaccettabile perché antiscientifico. Gli sembrava che Freud avesse abbandonato il suo abituale stile critico e scettico:

Per me la teoria sessuale era altrettanto occulta, vale a dire altrettanto gratuita quanto molte altre costruzioni speculative. A mio giudizio una verità scientifica era un’ipotesi che poteva sembrare adeguata momentaneamente, ma che non andava preservata come un articolo di fede per l’eternità4.

Jung era confuso e sconcertato da questo aspetto di Freud, ma per noi, oggi, risulta chiarissimo che cosa fosse in gioco. Freud era totalmente convinto che il suo talento autentico, la sua più personale e gelosa autoimmagine, e la sua stessa missione basata su quel talento, fosse quella di rivelatore delle cose indicibili riguardanti la condizione umana. Egli ravvisava queste verità impronunciabili nell’istintiva sessualità e nell’aggressione istintiva a servizio della sessualità. «Avranno una bella sorpresa, quando sentiranno ciò che abbiamo da dirgli!» esclamava con Jung mentre davanti a loro appariva il profilo di New York, nel 19095. L’occulto era tutto ciò che mentiva sul fondamentale stato di creatura da parte dell’uomo, tutto ciò che tentava di presentare l’uomo come un creatore eccelso e spirituale, qualitativamente distinto dal regno animale. Questo genere di ingannevole e tronfio occultismo era congenito nello spirito umano, oggetto di compiaciuta convenzione sociale, predicato in tutti i climi e da tutti i pulpiti, sia religiosi che 175

laici, per tanto tempo che aveva finito coll’oscurare il concreto significato dell’uomo. Toccava ora alla psicoanalisi, sola contro tutti, attaccare quella maschera arcaica e colpirla con un controdogma, saldamente piazzato su un incrollabile fortilizio. Null’altro che questo sarebbe valso per poter attaccare un nemico così antico e formidabile come l’autoinganno umano. Si spiega così l’emotività delle prime esortazioni di Freud a Jung, come pure i tardi sforzi per snidare il nemico, nei suoi ultimi scritti, come testimonia il brano con cui inizia questo capitolo. L’identità della sua vita appare lineare e ininterrotta. Oggi è chiaro anche per noi — come lo fu dagli inizi per Jung e per Adler — che Freud sbagliava col suo preteso dogma: l’uomo non possiede istinti innati di sessualità e aggressione. Ma oggi noi vediamo qualcosa in più col nuovo Freud che emerge nel nostro tempo: sappiamo che era giusto il suo testardo impegno per mettere in chiaro lo stato di creatura, proprio dell’uomo. Il suo corretto coinvolgimento a livello emotivo rifletteva le autentiche intuizioni del genio, anche se la controparte intellettuale di quell’emotività — la sua teoria sessuale — s’è dimostrata sbagliata. Il corpo dell’uomo era davvero «una fatale maledizione» e la cultura era costruita sulla repressione, non già perché — come Freud pensava — l’uomo per sua natura ricercava soltanto la sessualità, il piacere, la vita e l’autoespansione, ma bensì perché egli prima di tutto voleva sfuggire alla morte. La coscienza della morte è l’oggetto primario della repressione, non la sessualità. Come Rank ha diffusamente spiegato in un libro dopo l’altro e come, più recentemente, Brown ha di nuovo affermato, la nuova prospettiva che s’affaccia alla psicoanalisi è che la 176

repressione del terrore della morte costituisce il suo concetto cruciale. Questo è il nodo dello stato di creatura nell’uomo, questa è la repressione su cui è costruita la cultura: una repressione che appartiene soltanto all’animale autocosciente. Freud scoprì tale maledizione e consacrò tutta la sua esistenza e tutte le sue energie a smascherarla e denunciarla. Per ironia della sorte, però, egli s’ingannò sulla precisa ragione scientifica della maledizione. Questa è una delle ragioni per cui la sua vita, fino all’ultimo fu un dialogo con se stesso sulla genesi fondamentale delle motivazioni umane. Freud s’incaponì nel suo lavoro, sforzandosi di far emergere più chiara e distinta quella verità, che invece si faceva progressivamente più nebulosa, complessa ed elusiva. Freud va ammirato per il suo serio impegno, per la ricerca stilistica di alcune sue affermazioni e l’incessante riesame dei suoi concetti preferiti.6* Si è portati ad ammirare persino i suoi stessi scantonamenti, dubbi ed errori, perché essi contribuiscono a meglio darci di lui l’idea di uno scienziato onesto, che veramente riflette in se stesso l’infinita complessità del suo concreto campo di ricerca. Questa, però, sarebbe un’ammirazione per motivi sbagliati, perché la principale causa dei suoi perenni contorcimenti va ravvisata appunto nel fatto che egli non volle mai rinunciare al suo dogmatismo sessuale, né riconoscere o ammettere che il terrore della morte rappresentava l’oggetto fondamentale della repressione.

La prima grande riluttanza di Freud: l’idea della morte 177



Se tentassimo di scandagliare questo problema attraverso gli scritti di Freud, ci cacceremmo in un ginepraio. Abbiamo già accennato come egli, nelle sue opere tardive, si fosse distaccato da ristrette formulazioni sessuali del complesso di Edipo per volgersi maggiormente alla natura stessa della vita e ai problemi generali dell’esistenza umana. Si potrebbe dire che egli si spostò da una teoria di cultura agganciata alla paura-del-padre all’altra centrata sul terrore-della-natura7. Ma, come sempre, rimase indeciso e non divenne mai un esistenzialista aperto, perché troppo legato alla sua teoria dell’istinto. Sembra esistesse in Freud una certa riluttanza e, pur senza addentrarsi minutamente nei suoi scritti, credo che tale riluttanza risulti evidente dall’esame dell’idea-chiave — la più importante dei suoi ultimi lavori — rappresentata dall’istinto della morte. Leggendo come egli introduca quest’idea in Beyond the Pleasure Principle, mi sembra inevitabile concludere che l’idea di un istinto della morte fosse un tentativo per mettere una pezza alla debole teoria dell’istinto o della libido, che egli non voleva abbandonare ma che si faceva sempre più ingombrante e questionabile nello spiegare la motivazione umana. Stava rivelandosi difficile sostenere gli arzigogolamenti della teoria dei sogni, secondo la quale tutti i sogni — anche quelli derivati dall’ansia — rappresentavano una realizzazione di desideri8. E diventava complicato insistere nella fondamentale affermazione della psicoanalisi che l’uomo altro non è che un animale assetato di piacere9. Inoltre, i terrori dell’uomo e i suoi conflitti con se stesso e gli altri non erano facilmente spiegabili in termini di scontro istintivo tra sessualità e 178

aggressione, soprattutto dopo aver affermato che l’individuo era retto dall’Eros, dalla libido, da quella rozza forza vitale che cerca la propria soddisfazione ed espansione10. Per Freud la nuova idea dell’istinto della morte era un amminicolo che gli consentiva di mantenere intatta la primitiva teoria dell’istinto, scaricando con essa lai responsabilità del male umano su un sustrato organico più profondo di quanto fosse semplicemente il conflitto dell’ego colla sessualità. Ora, egli riteneva che vi fosse un’innata spinta sia verso la morte che verso la vita, il che gli permetteva di spiegare la violenta aggressività umana, l’odio e la malvagità, in un modo nuovo, ma sempre ancorato alla biologia. L’aggressività umana affiorerebbe attraverso una fusione dei due istinti di vita e di morte. Quest’ultimo rappresenterebbe il desiderio di morte presente nell’organismo, ma l’organismo può salvarsi dal suo impulso letale, orientandolo verso l’esterno. Avverrebbe così che il desiderio di morire sia rimpiazzato dal desiderio di uccidere e l’uomo sconfigga il proprio istinto di morte uccidendo altri. Saltava fuori, in questo modo, uno spiccio nuovo dualismo che rabberciava la teoria della libido, permettendo a Freud di mantenerla nella posizione di fortilizio della sua essenziale missione profetica: proclamare che l’uomo è solidamente incastrato nel regno animale. Con ciò Freud poteva mantenere inalterati i suoi fondamentali legami colla fisiologia, la chimica e la biologia e le sue speranze per una scienza psicologica totale e semplice, ma in chiave riduzionistica11. Senza dubbio con questo discorso sul disinnescamento del proprio istinto di morte operato mediante l’uccisione di altri, Freud stabilì una connessione tra la morte 179

dell’individuo e il continuo macello ricorrente nella storia umana. Ma tale risultato Freud l’ottenne a prezzo di costanti intrusioni di nuovi istinti inventati per spiegare il comportamento umano. Anche qui è riscontrabile come la fusione di autentiche scoperte con ingannevoli spiegazioni abbia reso così difficile selezionare l’opera di Freud. Si direbbe ch’egli sia stato incapace di raggiungere il vero e diretto livello esistenzialistico delle spiegazioni, onde stabilire sia la continuità dell’uomo che la sua differenza rispetto agli animali inferiori, basandosi sulla sua protesta contro la morte anziché su un’innata spinta istintiva verso di essa. La paurosità dell’aggressione umana, la facilità irrisoria con cui un animale, retto dall’eros, trucida altri esseri viventi, avrebbe trovato una spiegazione ancor più diretta e semplice, in tale teoria12. Uccidere rappresenta una soluzione simbolica di una limitazione biologica, e viene fuori dalla fusione del livello biologico (ansietà animale) con quello razionale (paura della morte) nell’animale umano. Come vedremo nella prossima sezione di questo libro, nessuno ha spiegato con più eleganza di Rank la dinamica di tutto questo: «La paura della morte dell’ego viene sminuita uccidendo e sacrificando l’altro; attraverso la morte dell’altro, uno si riscatta dalla condanna a morire o ad essere ucciso»13. Le tortuose formulazioni di Freud sull’istinto della morte possono, ora, tranquillamente venir buttate tra la spazzatura della storia, perché rivestono il solo interesse di ingegnose elucubrazioni di un profeta impegnato a mantenere intellettualmente intatto il suo dogma fondamentale. Ma la seconda conclusione che possiamo trarre dalle fatiche di Freud su tale problema è assai più importante. Nonostante 180

tutte le sue inclinazioni verso l’idea della morte, la disperata situazione del bambino, l’autentico terrore del mondo esterno e altre cose del genere, Freud non sentì il bisogno di assegnare a tutto ciò un posto centrale nel suo pensiero. Egli non provò la necessità di rielaborare la sua visione dell’uomo da quella di ricercatore anzitutto del piacere sessuale all’altra di animale terrorizzato, che si sforza di sfuggire alla morte. Gli sarebbe bastato affermare che l’uomo porta dentro di sé, inconsciamente, la morte come parte della sua biologia. La finzione della morte come istinto permetteva, però, a Freud di escludere il terrore della morte dalle sue formulazioni, quale primario problema umano per la padronanza dell’ego. Non gli sarebbe neanche stato necessario affermare che la morte era repressa, poiché l’organismo se la trascinava naturalmente appresso, in tutti i suoi processi14. Con una simile formulazione, la morte non è più un problema umano universale e tanto meno il principale problema umano, perché subisce una trasformazione magica, come così succintamente nota Rank, «da necessità indesiderata, ad ambito traguardo istintivo». Rank aggiunge, però, che «la natura rassicurante di questa ideologia non resiste a lungo né alla logica, né all’esperienza»15. In tal modo — dice Rank — Freud liquidò il problema della morte, facendolo confluire in un istinto della morte:

Anche quando, al tirar delle somme, egli inciampò nell’inevitabile problema della morte, si sforzò di attribuirgli un nuovo significato che fosse anche in accordo colla libido, poiché Freud parlò di istinto della morte anziché di paura della morte. Quanto alla paura 181

stessa, egli l’aveva collocata altrove, dove appariva meno minacciosa. [Egli] ridusse la paura generica a specifica paura sessuale (paura della castrazione) … [e infine cercò] di rimediare a questa paura attraverso la liberazione della sessualità16.

Tutto ciò rappresenta, ancor oggi, un’azzeccata critica alla psicoanalisi. Come Rank lamentava:

Se si tenesse conto dei fattori fenomenologici, riuscirebbe impossibile capire come in una discussione sull’impulso della morte si possa trascurare l’universale e basilare paura della morte, in modo così diffuso come avviene nella letteratura psicoanalitica17.

Questa letteratura non fece quasi parola della paura della morte fin verso la fine degli anni Trenta, alle soglie della II Guerra Mondiale. E la ragione era quella messa in chiaro da Rank: come poteva, la terapia psicoanalitica, curare scientificamente il terrore della vita e della morte? Ma invece poteva proporre cure per quei problemi del sesso, che essa stessa s’era inventati18. Però, ancor maggior interesse per la nostra discussione riveste l’interrogativo se l’artificio dell’istinto della morte sia rivelatore di qualcosa di particolare nell’atteggiamento di Freud verso la realtà. Rank se ne dice convinto e ricorda la natura minacciosa della paura della morte. Minacciosa — si deve intendere — non soltanto per la teoria sistematica di Freud. Un altro scrittore asserisce anche che molto probabilmente l’idea della morte come naturale traguardo della vita fosse di qualche sollievo a Freud19. Questo ci 182

riconduce al carattere personale di Freud e a quanto di edificante se ne può trarre, specificamente in rapporto al più fondamentale e terrificante problema della vita umana. Grazie principalmente al devoto impegno biografico di Ernest Jones, possediamo, per fortuna, un ben documentato ritratto di Freud come uomo. Siamo informati sulle sue costanti emicranie, sulla sinusite, sui guai di prostata, sulla stitichezza cronica, sull’abitudine quasi meccanica di fumare sigari. Abbiamo un preciso quadro di quanto fosse sospettoso della gente che gli stava attorno, di quanto pretendesse lealtà e riconoscimento come pensatore più anziano e prioritario, di quanto poco generoso si dimostrasse verso dissenzienti quali Adler, Jung e Rank. Assolutamente cinico suona il suo famoso commento sulla morte di Adler:

Per un ragazzetto ebreo, oriundo d’un suburbio viennese, una morte ad Aberdeen rappresenta da sola una carriera inaudita e una prova di quanto sia andato lontano. Il mondo l’ha generosamente ripagato per i suoi servizi nell’avversare la psicoanalisi.20*

Soprattutto nei suoi primi anni, Freud lavorava come uno scatenato. Una simile frenesia richiede un certo genere di atmosfera di lavoro e Freud non esitò a strutturare i suoi rapporti familiari in funzione del suo lavoro, con un sistema autenticamente patriarcale. Al pasto di mezzogiorno, dopo le sue interviste psicoanalitiche, egli manteneva uno stretto silenzio, ma esigeva che tutti fossero presenti. Se c’era una sedia vuota faceva gesti interrogativi a Martha sull’assenza. L’atteggiamento rapito e da schiava di sua figlia Anna 183

allarmava anche lui e la mandò a farsi analizzare, quasi non si rendesse conto di come la teatrale messinscena della sua grandezza in seno alla famiglia potesse ipnotizzare quanti gli stavano intorno. Sappiamo che egli compiva i suoi lunghi viaggi di vacanza sempre con suo fratello, ma mai colla moglie, e che in svariati modi organizzava la sua vita in maniera che riflettesse il suo senso di missione e di depositario di un destino storico. Niente di tutto ciò appare insolito: si tratta soltanto di interessante pettegolezzo intorno a un grand’uomo. Io lo riporto qui, unicamente per dimostrare che Freud non era né migliore, né peggiore di altri uomini. Si direbbe, tuttavia, che la dose di narcisismo fosse in lui più accentuata che nella generalità della gente, ma la cosa va attribuita al modo in cui sua madre lo allevò, come se egli fosse il centro focale dell’attenzione e delle sue grandi speranze: lo chiamò «il mio Sigi d’oro» fino alla morte. Il suo intero stile di vita era da dramma teatrale in conseguenza del modo con cui era sempre stato trattato. Certo l’atteggiamento di sua madre gli aveva dato un supplemento di energia, com’egli stesso annotava, ed egli sopportò il proprio incurabile cancro, colle sue tremende e dolorose sequenze, con mirabile e dignitosa pazienza. Ma in tutto questo non c’è alcunché di veramente eccezionale. A qualcuno, che in sua presenza lodava la coraggiosa rassegnazione di Franz Rosenzweig, totalmente paralizzato, Freud ribatté: «E che altro potrebbe fare?». La stessa osservazione vale per Freud, come per tutti coloro che fra noi soffrono di qualche malanno. Quanto poi al suo impegno nello scrivere, fino alla fine, facendo il minimo uso possibile di calmanti, nonostante il dolore, non fece altrettanto George Simmel, anche lui affetto da cancro, che 184

a sua volta rifiutava tutte le medicine perché lo intontivano? E tuttavia nessuno si sogna di catalogarlo come un carattere particolarmente forte. Questo genere di coraggio non è insolito in uomini che reputano se stessi figure storiche: l’immagine che hanno di sé convoglia quella necessaria dedizione al loro lavoro che li renderà immortali. Di fronte a questo, che è mai la sofferenza? Penso si debba onestamente concludere che in tutto ciò difficilmente si riscontra in Freud qualcosa che lo distingua da molta altra gente. Freud col suo egocentrismo; Freud che, a casa sua, signoreggia e organizza la famiglia in funzione del suo lavoro e delle proprie ambizioni; Freud nei suoi rapporti interpersonali, dove si sforza d’influenzare e coartare gli altri, da cui esige speciale stima e lealtà e verso i quali nutre diffidenza, quando non li flagella con sarcastiche denigrazioni. In tutto questo è un uomo qualunque, ma che ha tanto talento e stile da escogitare e imporre lo scenario che più gli aggrada. Freud era tutt’altro che un tipo impulsivo, che si butta nella vita a capofitto e senza riflettere. Nello schizzo che ne abbiamo ora dato, egli può sembrare comune, ma era invece straordinario in ciò che più conta e da cui direttamente traeva alimento il suo genio: egli era implacabilmente autoanalitico, capace di sollevare il velo delle proprie repressioni e deciso nello sforzo di decifrare le sue motivazioni più profonde sino all’ultimo giorno di vita. Abbiamo sopra accennato a quello che l’istinto della morte avrebbe potuto significare personalmente per Freud e questo argomento è aperto alla discussione. A differenza della gran parte degli uomini, Freud aveva coscienza della morte come di un personalissimo problema: fu ossessionato per tutta la vita dall’ansietà della morte e confessava che non 185

c’era giorno in cui non vi pensasse. È questa un’abitudine senz’altro fuori del comune e mi par giusto appunto da ciò iniziare la nostra ricerca per individuare qualche indizio sul particolare orientamento di Freud di fronte alla realtà, nei confronti di un problema che era unico per lui. Se indizi di un tale problema riusciremo a scoprire, credo sia legittimo servircene per fare luce sulla struttura d’insieme della sua opera e sui suoi possibili limiti. Le esperienze di Freud sembrano indicare due diversi approcci al problema della morte. Potremmo designare il primo come un’abbastanza normale compulsività, una specie di stregato trastullarsi coll’idea: per tutta la vita, ad esempio, egli parve divertirsi con la data della sua morte. Il suo amico Fliess si piccava di misticheggianti cabale coi numeri e Freud gli dava corda. Allorché Fliess gli predisse che, secondo i suoi calcoli, sarebbe morto a 51 anni, Freud «pensava che più verosimilmente sarebbe morto nella quarantina, per sincope cardiaca»21. Quando compì 51 anni senza che nulla accadesse, «Freud adottò un’altra credenza superstiziosa, e cioè che sarebbe morto nel febbraio del 1918»22. Sovente Freud scrisse e parlò ai suoi allievi del suo invecchiare e della sua fine ormai prossima. Egli temeva particolarmente di morire prima di sua madre, perché era terrorizzato dal pensiero che, ricevendo la notizia della sua morte, essa dovesse troppo soffrire. Simili timori nutriva anche nei confronti di suo padre. Anche da giovane aveva l’abitudine di dire, congendandosi dagli amici: «Addio. Forse non mi vedrete mai più». Che cosa mai si può dedurre da tutto ciò? Penso si tratti di cose abbastanza normali e di un modo superficiale di destreggiarsi col problema della morte. Tutti questi fatterelli 186

si riducono, in fondo in fondo, a giochetti scaramantici. La preoccupazione di Freud per sua madre si configura come una chiara trasposizione razionalizzata: «La mia morte non mi terrorizza. A terrorizzarmi è invece il pensiero del dolore che causerebbe a lei». Si è terrorizzati dal vuoto, dalla frattura che lascerebbe la propria sparizione e, mentre non riesce facile adattarvisi in prima persona, più semplice è accettare il dolore che altri proverebbero per la nostra morte. Invece di sperimentare il nudo terrore di perdere se stessi come un qualcosa che svanisce, ci si aggrappa all’immagine di qualcun altro. Non v’è nulla di complicato nell’impiego di simili trucchetti intellettuali, da parte di Freud. V’è però un altro aspetto, nella risposta di Freud al problema della morte, che risulta assai confuso. Secondo il suo biografo Jones, Freud andava periodicamente soggetto ad attacchi di ansietà, e questo si materializzava allora come un vero terrore di morire e di viaggiare in treno23. Nelle sue crisi di terrore di morire, era ossessionato da immagini di se stesso moribondo, tra scene d’addio24. Si tratta qui di cose del tutto diverse dai compulsivi giochetti scaramantici attorno all’idea della morte. Qui Freud sembra abbia lasciato briglia sciolta al pensiero della propria sparizione, a cui reagisce con piena ansietà emotiva. L’ansietà riguardante il treno è naturalmente solo un lieve sconcerto, non incontrollabile al modo di una fobia, come nota anche Jones25. Ma a questo punto, s’affacciano problemi per questa linea interpretativa. Riesce impossibile chiarire a fondo simili cose quando le si affronta a una certa distanza di tempo e basandosi su parole stampate di un uomo che non è più vivo 187

per poter smentire. Non sappiamo con esattezza come la mente operi in rapporto alle emozioni, né quale profondità raggiungano le parole quando si riferiscono alla realtà o alle repressioni. In qualche caso, anche soltanto l’ammettere un’idea a livello conscio, può già rappresentare un’esperienza vitale di tale idea. Altre volte, invece, l’ammissione di un’ansietà anche profonda, può non significare l’attuale esperienza di tale ansietà, o almeno non la sua esperienza profonda, forse perché qualcos’altro sta preoccupando la persona. Gli psicoanalisti parlano di ansietà ineffettiva. Ma si può forse ammettere il terrore della morte senza subirne l’esperienza a livello più profondo? Le immaginazioni di star agonizzando, tra scene di addio, sono altrettanto profonde quanto il concreto sentimento della propria assoluta impotenza nell’opporsi alla morte? Fino a che punto può verificarsi una razionalizzazione, sia pure limitata, di quella che è l’ansietà più abissale? Oppure, forse, questi rapporti mutano secondo i periodi della vita, in dipendenza dello stress a cui si è sottoposti? Non sono possibili risposte chiare e precise a questi interrogativi, nel caso di Freud. Lo stesso Jones appare completamente sconcertato dai modi diversi con cui Freud reagisce di fronte al problema della morte: con crisi di ansietà in qualche caso e, altre volte, con stoica rassegnazione. Nello sforzo di capire, egli afferma:

Freud affrontò sempre con totale coraggio ogni concreto pericolo per la sua vita. Questo prova che la paura nevrotica di morire deve avere — nel suo caso — un qualche altro significato, oltre quello letterale26.

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Non è detto che debba essere proprio cosi, perché si può affrontare il pericolo autentico rappresentato da un malanno chiaramente diagnosticato, avendo, in tal caso, un oggetto, un nemico, un qualcosa contro cui uno indirizza il proprio coraggio: in fondo, sia l’infermità che l’agonia costituiscono pur sempre dei processi vitali che coinvolgono una persona. Ma svanir via, lasciare nel mondo un vuoto, sparire nell’oblio, sono una cosa del tutto diversa. Tuttavia l’affermazione di Jones ci dà una vera chiave d’interpretazione di Freud, perché mi sembra dichiari che esiste una differenza tra il fatto della morte e la sua giustificazione. Poiché l’intera vita d’una persona è una sceneggiata attraverso cui egli si sforza di sconfiggere l’oblio e di prolungare la propria sopravvivenza al di là della morte, in modi razionali, accade spesso che uno non sia scosso dal fatto della propria morte, perché gli è riuscito di rivestirlo di significati più ampi. Sulla base di questa distinzione è possibile avanzare qualche ragionevole ipotesi circa l’ansietà della morte in Freud. Possiamo, forse, individuare ciò che lo preoccupava attraverso indizi risultanti dall’insieme del suo stile di vita, invece di scervellarci vanamente sulla questione della profondità dei collegamenti che esistevano in lui tra i suoi pensieri e le sue emozioni.

La seconda grande riluttanza di Freud

La prima caratteristica che pare emergere chiara riguardo alla posizione di Freud nei confronti della realtà è che egli — come molti altri — trovava molto difficile arrendersi. Non gli riusciva di sottomettersi né al mondo, né ad altri 189

uomini. Egli si sforzava di fissare in se stesso il centro di gravità e di non permettere che tale centro s’allontanasse mai da sé e dal luogo in cui era, come appare chiaramente dalla storia dei rapporti coi suoi allievi e coi suoi contestatori e dalle sue reazioni alle minacce esterne di qualsiasi genere. Quando, all’epoca dell’invasione nazista, sua figlia si domandava perché lei stessa e tutta la famiglia non potessero semplicemente suicidarsi in blocco, Freud, in tono col suo carattere, le rispose: «Perché è esattamente questo ch’essi si attendono da noi!». Freud era ambiguo riguardo all’arrendersi e vi sono molti fatti che stanno ad indicare com’egli giocasse con quell’idea. Un aneddoto molto istruttivo è la battuta che fece quando la data del febbraio 1918 — superstiziosamente da lui fissata per la sua morte — passò senza che nulla accadesse. «Ciò dimostra — esclamò — quanto poca fiducia si possa mettere nel soprannaturale!»27. Questo è uno splendido esempio di come si possa scherzare coll’idea d’arrendersi a leggi e poteri superiori, ma soltanto a livello mentale e con scarsa onestà, mentre a livello emotivo si rimane distaccati e caparbi. Vi sono, però, altri episodi che inducono a pensare che Freud non giocasse soltanto coll’idea d’arrendersi, ma che in qualche caso anelasse a spostare il proprio baricentro mentale. In un’occasione, mentre si discuteva di fenomeni psichici, Jones osservò: «Se si potesse credere ai processi mentali fluttuanti nell’aria, si potrebbe arrivare a credere negli angeli». A questo punto Freud chiuse la discussione col commento: «Proprio così: persino in der liebe Gott! (nel caro Dio!)». Jones continua affermando che la battuta di Freud era stata in tono di scherzo, ma leggermente pensieroso. Jones, però, rimase chiaramente sconcertato dal 190

fatto che il suo maestro toccasse il problema della credenza in Dio, senza assumere una posizione fermamente negativa. Egli racconta: «…anche nel suo grande sguardo c’era una specie di interrogativo, tanto che me ne andai non del tutto soddisfatto che, sotto sotto, non vi fosse anche un qualcosa di più serio»28. In un’altra occasione incontrò la sorella di un suo expaziente, morto qualche tempo prima. La sorella somigliava al fratello defunto e nella mente di Freud s’affacciò, spontaneo, questo pensiero: «Dunque dopo tutto è vero che i morti possono ritornare!». Zilboorg nella sua importante discussione su Freud e la religione, fa questi commenti sull’episodio e sull’insieme della posizione ambivalente di Freud circa il soprannaturale:

Anche se Freud riferisce che a un tale pensiero fece immediatamente seguito un senso di vergogna, rimane il fatto innegabile che esisteva in Freud una pronunciata vena emotiva che confinava talora con la superstizione ed altre volte con la credenza nell’immortalità fisica dell’uomo quaggiù sulla terra. Diventa anche chiaro che Freud combatté risolutamente in se stesso certe inclinazioni spirituali… Sembrerebbe che [egli] si fosse trovato in uno stato di ricerca e di penoso conflitto nel quale lo studioso positivista (a livello cosciente) e il potenziale credente (a livello inconscio) si scontravano in aperta battaglia29.

A questo punto Zilboorg trae, circa queste tendenze spirituali, la seguente conclusione che rafforza il nostro pensiero che in Freud giocasse in modo ambivalente l’idea 191

d’arrendersi a poteri trascendenti, e che fosse molto tentato in quella direzione:

Queste tendenze tentavano d’affermarsi attraverso il ben noto meccanismo della distorsione e dell’elaborazione secondaria, descritto da Freud come caratteristico dell’inconscio e dei sogni. La tendenza assumeva la forma di ansiose superstizioncelle, di involontarie e irrazionali credenze in ciò che viene comunemente chiamato spiritualismo30.

In altri termini, diede tanta briglia alle proprie tendenze spirituali, quanta ne consentiva il suo carattere senza ch’egli dovesse rifonderne le basi essenziali. Il limite a cui poteva spingersi era quello delle superstizioni correnti. Su ciò non vi possono esser dubbi, anche solo basandosi sul racconto di Jones, cui s’aggiunge l’ammissione personale di Freud, dove afferma che «la mia superstizione ha le sue radici nell’ambizione soppressa [all’immortalità]…»31. Vale a dire ch’essa nasceva da quel problema strettamente personale di trascendenza della morte, che per Freud era un caratteristico problema di ambizione e di risolutezza, e non di fiducia o di capitolazione. L’immediata questione logica e vitale che segue è questa: che cos’è che rende ambivalente — e così difficile per Freud — il fatto di arrendersi? La sola risposta è: ciò stesso che lo rende tale per qualsiasi individuo. Arrendersi significa buttar all’aria il sicuro centro emerso, abbassare la guardia e svestirsi della corazza del proprio carattere, confessare la propria mancanza di autosufficienza. E questo centro emerso, questa guardia, questa corazza, questa creduta 192

sufficienza, costituiscono appunto gli obbiettivi attorno a cui ruota l’intero progetto di crescita dall’infanzia alla piena maturità. Dobbiamo qui richiamarci a quanto si diceva nel capitolo III, dove abbiamo visto come il compito basilare che una persona si prefigge sia appunto il tentativo di diventare il padre di se stesso, che Brown così opportunamente denominò progetto edipico. La passione di trasformarsi in causa sui (cioè in Dio) è una fantasia energetica che stende un velo sopra la stridente situazione di creatura, propria dell’uomo, che noi abbiamo definito, con maggior precisione, come la disperata mancanza di un vero centro, basato sulle proprie energie, con cui assicurare la vittoria della propria vita. Nessuna creatura può raggiungere tale sicurezza, e l’uomo può soltanto sforzarsi di giungervi colla sua fantasia. L’ambivalenza del progetto di diventare causa sui è basata sulla sempre incombente minaccia della realtà che s’affaccia ovunque. Ad ogni momento si ha il sospetto d’essere irrimediabilmente impotenti in radice, e tuttavia non si può fare a meno di protestare contro questo stato di cose. I padri e le madri continuamente proiettano la loro ombra e, quindi, in che cosa consiste il problema d’arrendersi? Esso rappresenta niente di meno che l’abbandono del progetto di diventare causa sui e la più profonda, totale ed emotiva ammissione che dentro di noi non c’è forza, né energia capace di reggere a un’esperienza che ci sorpassa. Arrendersi significa dunque ammettere che il sostegno ci deve venire dal di fuori di noi stessi e che la giustificazione della nostra esistenza va ricercata in una catena di cose che totalmente ci trascende, a cui acconsentiamo d’essere sospesi come lo è un bambino nella sua culla-amaca, mentre volge i suoi occhi lucidi, in totale 193

ammirata dipendenza, verso la madre che lo coccola. Se il progetto di diventare causa sui è un inganno difficile da accantonare, perché saremmo ricacciati indietro nella culla, rappresenta però anche una menzogna che deve pagare un suo pedaggio, appunto perché ci si sforza di evitare la realtà. Questo ci porta al nocciolo della nostra discussione sul carattere di Freud, perché possiamo discutere specialmente sul come organizzò il suo progetto d’essere causa sui, agganciandolo al suo assoluto rifiuto della realtà minacciosa. Mi riferisco — si capisce — alle due occasioni in cui Freud svenne. Lo svenimento rappresenta, in queste circostanze, la negazione definitiva: il rifiuto o l’incapacità di mantenersi cosciente di fronte a una minaccia. Le due occasioni, in cui un grand’uomo perde completamente l’autocontrollo, devono contenere un qualche elemento vitale per capire il nocciolo ultimo del problema della sua vita. Per buona sorte abbiamo la testimonianza di prima mano di Jung, per tutti e due gli incidenti e ad essa ci riferiamo per esteso. Il primo si verificò a Brema nel 1909, mentre Freud e Jung erano in viaggio verso gli Stati Uniti per un ciclo di conferenze sul loro lavoro. Jung dichiara che l’incidente fu indirettamente provocato dal suo interesse per le «mummie delle torbiere»:

Ero a conoscenza che in alcuni distretti della Germania settentrionale si potevano rintracciare queste cosiddette mummie delle torbiere. Esse erano salme d’uomini della preistoria che erano annegati nelle paludi oppure vi erano stati sepolti. L’acqua paludosa in cui giacciono le salme contiene acido umico, che 194

consuma le ossa e, contemporaneamente, scurisce la pelle che, coi capelli, risulta perfettamente conservata…. Avendo letto qualcosa su queste mummie delle torbiere, me ne ricordai mentre eravamo a Brema, ma essendo un po’ scombussolato, le confusi con le mummie conservate nelle cantine di piombo della città. Questo mio interesse dette ai nervi a Freud: «Perché tutto questo suo interessamento per dei cadaveri?» mi domandò ripetutamente. Era straordinariamente seccato dall’intera faccenda e durante una di queste conversazioni, mentre stavamo pranzando insieme, improvvisamente svenne. In seguito mi disse ch’egli era convinto che tutto questo cianciare di cadaveri significava che io nutrivo desideri di morte a suo riguardo32.

Il secondo svenimento accadde nel 1912, all’epoca di un certo incontro che radunò Freud e alcuni suoi discepoli a Monaco per studiare speciali strategie d’azione. Questo è il racconto dettagliato che Jung fa dell’incidente:

Qualcuno aveva portato la conversazione su Amenophis IV (Akenaton). Veniva sottolineato il fatto che, a causa del suo atteggiamento negativo verso suo padre, egli aveva distrutto gli ideogrammi rappresentanti il nome del padre sulle stele e che quindi, dietro la sua grande creazione di una religione monoteistica, si nascondeva un complesso del padre. Questo genere di chiacchiere mi irritava e tentai di contrapporvi il fatto che Amenophis IV era stato una persona creativa e profondamente religiosa, i cui atti non potevano essere spiegati in base alle sue personali 195

resistenze verso suo padre. Al contrario, affermai, egli aveva tenuto in onore la memoria di suo padre e il suo zelo nel distruggerne il nome era diretto soltanto contro il nome del dio Ammon, che gli aveva fatto sparire ovunque, anche dove era scolpito nei geroglifici del nome di suo padre che era Amonhotep. Anzi c’era da dire che altri faraoni avevano sostituito il proprio nome a quello dei loro avi, sui monumenti e statue, credendo d’avere il diritto di fare ciò poiché erano reincarnazioni dello stesso dio. E costoro — io feci notare — non avevano dato inizio né a un nuovo stile, né a una nuova religione. A quel punto, Freud scivolò dalla sua sedia, svenuto33.

Gli svenimenti in rapporto all’insieme del problema della vita di Freud

V’è stata una quantità d’interpretazioni sul significato di questi episodi di svenimento da parte di acuti studiosi della vita di Freud: sia Freud che Jung uscirono con una loro interpretazione. Per parte mia, mi soffermo su questo argomento perché, forse, può rappresentare non soltanto la chiave per risolvere il problema del carattere di Freud, ma anche perché — a parer mio — conferma più di qualsiasi altra cosa l’intera comprensione post-freudiana dell’uomo, il cui carattere noi ci siamo sforzati di tracciare nei primi cinque capitoli. La nostra conoscenza si fa più chiara quando possiamo confrontare le nostre astrazioni nello specchio vivo dell’esistenza di un grand’uomo. 196

A Paul Roazen va il merito d’aver svelato il significato centrale di questi episodi di svenimento in una sua brillante interpretazione del 197034. Come già Rank, Roazen si rese conto che il movimento psicoanalitico nel suo insieme rientrava in un preciso progetto di Freud per diventare causa sui: esso rappresentava lo strumento per affermare il suo eroismo e per trascendere la propria vulnerabilità e limitatezza. Come vedremo nei capitoli che seguiranno, Rank fu colui che dimostrò come il vero genio abbia un immenso problema, che non è degli altri uomini. Egli deve conquistarsi il suo valore come persona attraverso il proprio lavoro, il che significa che su tale lavoro incombe l’onere di giustificarlo. E cosa significa per lui essere giustificato? Significa trascendere la morte, qualificandosi come immortale. Nel genio si verifica lo stesso rigonfiamento narcisistico proprio del bambino: egli rivive la fantasia di possedere il controllo della vita e della morte, nel corpo del suo lavoro. L’unicità del genio, inoltre, lo priva di radici: egli rappresenta un fenomeno senza precursori e quindi senza precisi debiti verso le qualità degli altri, poiché appare come sorto dalla natura per generazione spontanea. Si può dire che egli sia il più legittimo rappresentante del progetto d’essere causa sui, essendo davvero senza una famiglia, e padre di se stesso. Come sottolinea Roazen, Freud s’era talmente innalzato al di sopra della sua famiglia naturale da non doverci stupire per il fatto ch’egli s’abbandonasse a fantasie di autocreazione: «Freud rimuginava continuamente l’idea d’esser cresciuto senza padre»35. Ora uno non può diventare padre di se stesso finché non abbia potuto avere dei figli suoi proprii, come dice giustamente Roazen. E non valgono i figli naturali, perché essi non 197

posseggono «le qualità d’immortalità associate al genio»36. Questa formulazione è perfetta. Ergo Freud doveva crearsi una famiglia interamente nuova, cioè il movimento psicoanalitico, che avrebbe rappresentato il suo speciale veicolo verso l’immortalità. Quando egli sarebbe morto la genialità del movimento gli avrebbe assicurato un ricordo eterno e quindi un’eterna identità nella memoria degli uomini e negli effetti della sua opera sulla terra. Analizziamo ora il problema rappresentato dal progetto d’essere causa sui da parte d’un genio. In un normale progetto edipico la persona interiorizza i genitori, assieme al superego ch’essi rappresentano, cioè l’ambiente culturale circostante. Ma il genio non può far questo: il suo progetto è unico e non può realizzarsi attraverso l’apporto dei genitori o della cultura, perché esso nasce proprio da una specifica rinuncia ai genitori e a quanto essi rappresentano. Tale rinuncia si spinge fino alla persona concreta dei genitori, almeno a livello di fantasia, poiché in essi nulla si riscontra che possa aver causato il genio. Ed è da questo che il genio attinge il suo carico aggiunto di senso di colpa, avendo rinunciato al padre sia in senso fisico che spirituale. Questa scelta gli procura un supplemento d’ansietà perché, nella sua condizione attuale, egli si sente vulnerabile e non ha nessuno su cui appoggiarsi: nella sua libertà, egli è solo. Il senso di colpa — secondo Rank — è una funzione della paura. Stando così le cose, non c’è dunque da stupirsi che Freud fosse così sensibile all’idea di uccisione-del-padre, che per lui costituiva un complesso simbolo, dove confluivano sia il pesante senso di colpa di sentirsi solo nella sua vulnerabilità, sia l’attacco alla sua identità di padre del movimento 198

psicoanalitico (veicolo per realizzare il suo progetto d’essere causa sui), e quindi anche alla sua immortalità. In una parola, l’assassinio-del-padre avrebbe rappresentato la sparizione del suo significato come creatura. È in questa direzione che punta la linea interpretativa degli episodi di svenimento. Il periodo intorno al 1912 era appunto quello in cui s’affacciarono problemi per il futuro del movimento psicoanalitico. Freud era alla ricerca d’un erede e Jung avrebbe dovuto essere il figlio da lui orgogliosamente scelto come suo successore spirituale, che avrebbe assicurato il successo e la continuazione della psicoanalisi. Freud letteralmente caricava sulle spalle di Jung le sue speranze e le sue attese, tanto prominente era la sua posizione nel piano vitale di Freud37. Si può perciò capire quanto fosse del tutto logico che la defezione di Jung dalle file del movimento — anche considerata isolatamente — potesse evocare il complesso simbolo dell’assassinio-del-padre e rappresentare la morte di Freud38. Nessuna meraviglia che nell’occasione del primo svenimento Freud accusasse Jung di desideri di morte nei suoi riguardi, mentre Jung si sentiva del tutto innocente in materia. Egli anzi afferma d’esser rimasto «più che sorpreso per una simile interpretazione»39. Per Jung queste erano vuote fantasie di Freud, anche se d’intensità «così forte da potergli ovviamente causare uno svenimento». Della seconda occasione Jung dichiara che l’atmosfera era molto tesa. Ma per quanto altre cause abbiano potuto influire sullo svenimento di Freud, anche in questo caso l’idea dell’assassinio-del-padre era evidentemente richiamata in causa. Difatti sulla riunione radunata a pranzo, aleggiava un’aria di rivalità. Si trattava d’un incontro per studiare 199

nuove strategie, che presentava chiare possibilità di dissenso tra le file degli psicoanalisti. Questa è la versione di Jones sullo svenimento del 1912:

…mentre stavamo per finire il pasto… [Freud] cominciò a rimbrottare i due svizzeri, Jung e Riklin, per aver scritto articoli dove si spiegava la psicoanalisi, su due periodici locali, senza menzionare il suo nome. Jung ribatté che essi non avevano creduto necessario farlo, perché era già conosciutissimo, ma Freud già aveva percepito le prime avvisaglie della rottura che si sarebbe verificata un anno dopo. Egli insistette, e io ricordo d’aver pensato che mettesse la cosa su un piano piuttosto personale. D’improvviso, fra la nostra costernazione, cadde a terra completamente svenuto40.

Jung non suona molto convincente nelle sue educate sconfessioni di qualsiasi rivalità con Freud e nelle sue artificiose spiegazioni sul perché gli svizzeri non avessero menzionato il nome di Freud. Persino nel suo negare ch’egli nutrisse desideri di morte verso Freud, traspare chiaro il suo antagonismo.

Perché avrei dovuto desiderare ch’egli morisse? Io ero venuto per apprendere ed egli non si trovava sulla mia strada: lui era a Vienna e io a Zurigo41.

Da una parte, quindi, egli ammette di trovarsi nella posizione di allievo rispetto a Freud, suo maestro, ma dall’altra si sforza di stabilire la propria indipendenza, su un piede d’eguaglianza. Freud poteva sicuramente percepire la minaccia alla sua priorità, che per lui costituiva un concreto 200

tradimento da parte di un figlio42. Jung abbandonava il gregge, facendo balenare la minaccia d’una rivalità colla sezione svizzera di psicoanalisi. Che cosa sarebbe, in tal caso, avvenuto al padre e a tutto ciò ch’egli rappresentava? Il fatto sta che Freud svenne proprio al momento in cui Jung dimostrò di prendere alla leggera le interpretazioni prioritarie della psicoanalisi nel caso del sorgere di una nuova religione nell’Egitto di Amenophis IV. La cosa minacciava il lavoro missionario dell’intera vita di Freud. Egli teneva un quadro della Sfinge, sullo sfondo della piramide, in bella evidenza nel suo consultorio, il suo Sancta Sanctorum, e ciò non rappresentava per lui un’immagine romantica o un hobby archeologico: l’Egitto raffigurava tutto l’enigmatico e tenebroso passato dell’umanità che la psicoanalisi era destinata a dissolvere e decifrare43. Esiste — Roazen afferma — un diretto rapporto tra la psicoanalisi del ventesimo secolo e l’antica egittologia, tra il cancellare sulle stele il nome di suo padre, da parte di Amenophis IV, e Jung che ripeteva la stessa cosa a Zurigo. Jung portava un attacco all’immortalità di Freud! Un simile attacco poteva sussistere agli occhi di Freud, senza necessariamente esistere nelle intenzioni di Jung. Che egli discutesse delle mummie delle torbiere, all’epoca del primo svenimento, poteva essere dovuto ad un riflesso di pure e semplici ansietà esistenziali. Possiamo benissimo immaginare l’ancor giovane Jung, eccitato anche per il viaggio in America, che insiste sul problema di quei cadaveri, alla presenza di un uomo che lo sovrastava, volendo sottoporre a un tale pensatore un argomento per lui affascinante, perché vi ruminasse sopra con lui e — sperabilmente — venisse fuori con le sue riflessioni sul 201

mistero delle mummie, della morte e del destino. D’altro canto, Fromm (che non è mai molto tenero con Jung) ha diagnosticato in lui un carattere necrofilo. Basandosi su uno dei sogni ricorrenti in Jung all’epoca della rottura con Freud, Fromm crede che Jung nutrisse davvero degli inconsci desideri di morte nei riguardi di Freud44. Comunque, tutte queste speculazioni sono inutili, poiché ciò che qui ci interessa sono le percezioni e i problemi dello stesso Freud. Sotto questa angolazione l’elemento più interessante che emerge dall’episodio del primo svenimento è che il discorso sulle mummie saltò fuori per una qualche confusione di Jung circa i cadaveri delle torbiere. Si deve concludere che le ansietà di Freud, in occasione di ambedue i suoi svenimenti, erano legate agli identici argomenti dell’Egitto e della liquidazione del padre. Va poi anche notato come dettaglio importante, che nello storico viaggio Jung era stato invitato per il suo proprio lavoro e non necessariamente per la sua connessione con Freud e si trovava perciò letteralmente e scopertamente nella posizione di antagonista.

Le interpretazioni di Jones e di Freud

Ci addentriamo ancor più nell’intimo delle percezioni di Freud esaminando i suoi tentativi per spiegarsi quanto gli era accaduto. Jones racconta una storia alquanto diversa da quella di Jung, sulle circostanze del primo svenimento. Jones afferma che ciò che caratterizzò l’incontro del 1909, fu che Freud, dopo qualche discussione, convinse Jung a bere un po’ di vino durante il pasto, vincendo la sua ostinata 202

resistenza di astemio. Secondo Jones lo svenimento si verificò subito dopo di questo45. Nell’incontro del 1912 capitò qualcosa di simile. S’era creata un po’ di ruggine tra Freud e Jung e, «dopo una buona paternale», Jung «si mostrò assai pentito, accettò i rimbrotti» di Freud e «promise di cambiare». Freud era estremamente di buon umore per aver riconquistato Jung. Jones conclude che ciò che distinse ambedue gli incontri — a Brema e a Monaco — fu che Freud s’era imposto su Jung46. Quale rapporto vi può essere tra l’imporsi e lo svenire? Soltanto attraverso le sottigliezze geniali delle teorie dello stesso Freud, un tale rapporto può essere spiegato convincentemente. Come abbiamo visto nel capitolo IV, appartiene a Freud la scoperta del concetto di poter essere «squassati dal successo» e cioè che quando una persona raggiunge l’apogeo assoluto, questa situazione può spesso essere sentita come un peso intollerabile, perché significa che uno ha vinto nella sua rivalità col padre, superandolo di molto. Non fa perciò meraviglia che Freud stesso, analizzando più tardi gli episodi dei suoi svenimenti, potesse appoggiarsi alla sua scoperta in ragionata e inesorabile onestà. Freud spiegava che da bambino s’era spesso augurato la morte del suo fratellino Julius e quando questi morì, lasciò Freud, che allora aveva solo 19 mesi, con un tremendo senso di colpa. Jones commenta:

Sembrerebbe perciò che Freud stesso rappresentasse un piccolo caso del tipo da lui descritto in «coloro che sono squassati dal successo»: in questa istanza il successo nello sconfiggere un rivale [Jung], ma già precedentemente, in un caso diverso, il successo del 203

suo desiderio di morte verso il suo fratellino Julius. Vien fatto di pensare, per analogia, al curioso attacco di intontimento di cui Freud soffrì nel 1904, mentre si trovava Sull’Acropoli: a ottant’un anni, egli analizzandolo lo ascriveva al fatto d’aver realizzato il desiderio proibito di superare suo padre. Difatti Freud stesso sottolineava la somiglianza e il tipo di reazione di cui qui ci occupiamo [cioè gli svenimenti]47.

In altri termini, tutte le vittorie sopra un rivale, compresa quella sul padre, risvegliano quel senso di colpa che s’accompagna alla vittoria e scatenano una reazione impossibile da sopportare. Dobbiamo però capire che cosa significhi vittoria nella cosmologia freudiana per comprendere l’impatto dell’ansietà e afferrare la ragione per cui uno sviene, spiegata attraverso la dinamica del classico complesso di Edipo. Il premio per la vittoria è naturalmente rappresentato dalla madre, che il ragazzo concupisce, e vincere contro il padre significa farlo fuori. Se il ragazzo perde, la vendetta sarà terribile e se vince ne ricaverà un insopportabile senso di colpa. Pur supponendo che il classico complesso d’Edipo possa fugare tutti i dubbi su alcuni casi di paura della vittoria, va però detto che Freud stesso abbandonò — più tardi — la dinamica rigidamente sessuale del problema, almeno nel caso suo. Egli, verso il termine della sua vita, ammise francamente che la propria riluttanza nel superare suo padre era dovuta a un senso di pietà per lui48. Questo era, dunque, il significato del suo obnubilamento Sull’Acropoli, menzionato da Jones. Come alcuni scrittori affermano, oggi tenderemmo a interpretare il termine pietà come un 204

eufemismo per altri sentimenti che Freud nutriva verso suo padre: e, cioè, ch’egli fosse davvero preoccupato per la debolezza del genitore che gettava un’ombra sulla sua forza e che per questo motivo egli si sentisse esposto e ansioso, quando gli capitava di pensare al proprio successo. Ed eccoci così spostati su un terreno più ampio e meglio agganciato all’esistenza nello spiegare alcuni casi di senso di schiacciamento per la vittoria. Già due generazioni di studiosi hanno arricciato il naso sul fatto che, già a 19 mesi d’età, Freud fosse così acutamente analitico riguardo alla propria esperienza, tanto da essere capace di rimproverarsi perché la sua gelosia e il suo desiderio malvagio fossero sfociati nella morte del suo fratellino Julius. Persino lo stesso Freud escludeva un tale livello di intendimento in un bimbo così giovane da non poter essere coscientemente geloso di un nuovo arrivato. Jones che annotava tutto questo, evidentemente non si preoccupa che la cosa non faccia senso49. Jones riferisce poi che l’analisi sullo squassamento da successo di Freud stesso è confermata dal fatto che nell’occasione di ciascuno svenimento vi fosse un battibecco sull’argomento dei desideri di morte. Ciò è verissimo, ma non nell’esatto modo che Freud vorrebbe mostrare, legato cioè a una sua decisa vittoria. Assai probabilmente Freud ripete qui il suo sbaglio abituale di sforzarsi di fissare con troppa semplicistica esattezza cose che in realtà erano molto complesse, inserite in una problematica molto più vasta. Mi riferisco naturalmente al senso di insostenibilità dell’esperienza, di esser scaraventato troppo lontano dal proprio terreno familiare, di non trovare la forza di reggere a qualcosa di superlativo. Un tale senso è ciò che 205

caratterizza ambedue gli svenimenti, assieme alla specifica presenza di Jung. Appare ragionevole ampliare il gravame che pesava su Freud oltre quello che poteva essere una semplice reazione all’atteggiamento di Jung. Dopo tutto egli reggeva sulle sue spalle uno dei grandi movimenti iconoclastici del pensiero umano, contro tutta la concorrenza, l’ostilità, la denigrazione, fronteggiando tutte le altre più spirituali (occulte!) interpretazioni che l’umanità riteneva sacrosante, tutte le altre menti che si pascevano di sublimi pensieri e insistevano su verità quasi universalmente accettate ricavandone sostegno e lode attraverso i secoli. Il suo organismo, nei suoi sustrati più profondi, spiegabilmente sente l’insostenibilità d’un tale peso e s’affloscia in un piacevole e momentaneo oblio. Oseremmo forse immaginare che uno possa agevolmente sopportare un simile sovraccarico, senza l’appoggio di energie quasi sovrumane? In tale situazione com’è possibile prendere posizione su tutti quegli argomenti di trascendenza sia impersonale e storica, che personale e concretamente fisica, rappresentati dalle piramidi, dalle mummie delle torbiere e dall’invenzione di un nuovo proprio pensiero religioso? Svenendo, è come se l’organismo dichiarasse: «Non reggo più, non ho più la forza per sopportare tutto questo!». Senza dubbio, la forte ed eminente personalità d’un pensatore originale come Jung, che assume una posizione indipendente e osa, anzi, discutere e opporsi a Freud, aggiunge ancora qualcosa a tutto questo, ma la sua presenza costituisce soltanto un aspetto marginale. In questo senso, anche la completa vittoria su Jung, per Freud significava accollarsi sulle sue spalle sole l’intera responsabilità del movimento psicoanalitico. Possiamo, in conclusione, 206

costatare quanto calzi qui perfettamente la teoria dello squassamento da successo, sebbene non combaci colla dinamica specifica intesa da Freud.

L’ambivalenza emotiva del causa sui

Il punto cruciale di tutta la nostra discussione lo si può cogliere in una confessione fatta a Karl Abraham dallo stesso Freud, e cioè che l’impotenza era una delle due cose ch’egli maggiormente aborriva50. (L’altra era la povertà, che si traduceva anch’essa in impotenza). Freud odiava l’impotenza e la combatteva, tanto che il sentimento emotivo di totale destituzione di fronte all’esperienza era per lui intollerabile, perché richiamava in gioco la faccia nascosta di quella dipendenza ch’egli si sforzava di tenere sotto controllo. Questo genere di controllato automodellamento da parte d’un individuo, lanciato come Freud alla conquista di una posizione di leader, deve aver richiesto un consumo enorme di energia. Non stupisce che, mentre Freud riprendeva i sensi dopo il secondo svenimento, lo si fosse udito mormorare: «Come dev’esser dolce morire!»51. E non v’è ragione d’avanzare dubbi sul racconto integrale dell’episodio, fatto da Jung:

Mentre stavo trasportandolo, cominciò parzialmente a rinvenire, e io non scorderò mai lo sguardo che mi rivolse, come se io fossi stato suo padre52.

Quanto dolce dev’essere scrollarsi di dosso il colossale peso d’una vita autodominata e automodellata, abbandonare il controllo del centro di se stessi e arrendersi passivamente 207

a un potere e a un’autorità superiori: quale gioia in una tale resa che significa conforto, fiducia, sollievo per il cuore e per le spalle, e sentimento d’essere sostenuto da un qualcosa di più grande e meno fallibile! A causa dei suoi specifici problemi, l’uomo è l’unico animale che spesso può volontariamente abbracciare il profondo sonno della morte, anche se sa ch’essa rappresenta l’oblio. Ma al riguardo esiste quell’ambivalenza in cui — come tutti noi — incappò Freud. Il fondersi fiduciosamente col padre o con un suo sostituto, o anche col Gran Padre che è nei Cieli, vuol dire abbandonare il progetto d’essere causa sui e il tentativo di diventare padre di se stesso. Se uno rinuncia a questo si sente diminuito, il suo destino non è più nelle sue mani e si diventa eterni bambini che muovono i loro incerti passi nel mondo dei grandi. E di quale mondo si tratta se uno tenta di introdurvi qualcosa di suo, di assolutamente nuovo, di rilevanza storica e rivoluzionario? Questa è la ragione per cui Freud doveva combattere contro la tentazione d’arrendersi, perché facendolo avrebbe cancellato completamente la propria identità. Egli stava tessendo la sua ragnatela e come avrebbe potuto rinunciarvi per brancolare in quella di qualcun altro? Rank più d’ogni altro afferrò il problema dei semplici mortali ai quali è accollato un compito geniale: da dove mai possono essi trarre sostegno per le loro audaci e inquietanti creazioni? Esamineremo il pensiero di Rank nel prossimo capitolo. Da quanto detto è già ovvio che Freud scelse di perseguire il suo progetto di causa sui, avvalendosi del proprio lavoro e della sua organizzazione — il movimento psicaonalitico — come di specchi che riflettessero potere su lui stesso. Abbiamo già in antecedenza affermato che il progetto 208

d’essere causa sui è una menzogna, che esige un suo pedaggio: siamo in grado di capire, a questo punto, che il pedaggio richiesto è di natura emotiva e include tanto la tentazione ad ammettere l’impotente dipendenza propria, quanto la ribellione contro tale resa. Si vive, in conseguenza, con una certa misura di determinazione, a denti stretti.53* Ulteriore conferma per quest’opinione la si può trovare nel rapporto che Freud ebbe per 15 anni con Fliess. Brome pensa che tale rapporto fosse di carattere emotivo e assai più importante di quanto abbiano riconosciuto i precedenti biografi. Egli riporta le ammissioni stesse di Freud circa i suoi molti profondi e oscuri sentimenti nei riguardi di Fliess. È assai più di una coincidenza che, anni prima, Freud avesse sofferto in rapporto a Fliess di sintomi simili a quelli verificatisi con Jung e proprio nello stesso ambiente del medesimo hotel dove si svolse il raduno del 1912. In quell’epoca precedente, i sintomi non furono così intensi, ed erano rivolti non contro una forte personalità in contrasto, ma verso Fliess che stava male. Analizzando il fatto Freud affermava: «C’è un qualche indizio di omosessualità incontrollata alla radice dell’episodio». Jones riferisce che diverse volte Freud fece dei rilievi sul «lato femminile della sua natura»54. Anche se l’onestà autoanalitica di Freud era fuori del comune, restiamo piuttosto scettici a questo riguardo. È possibile per chiunque provare specifiche spinte omosessuali e Freud non costituiva necessariamente un’eccezione. Tuttavia conoscendo la tendenza di Freud, durante tutta la sua vita, a ridurre sentimenti generici di ansia a specifiche motivazioni sessuali, ci sentiamo in diritto a sospettare che le incontrollate spinte di cui parla potessero 209

invece rappresentare l’ambivalenza dei suoi bisogni di dipendere da altri. Jones stesso, onestamente, è stato piuttosto riduttivo sul problema dell’omosessualità nella sua valutazione del carattere di Freud e penso abbia avuto ragione. Jones dice che la cosa faceva parte di quell’aspetto nascosto di dipendenza, che condusse fuori strada Freud in alcuni casi, come nella sua tendenza ad esagerare nella stima per certe persone, per esempio nei casi di Breuer e, particolarmente, di Fliess ed anche di Jung. Jones arriva a dire che questo lato di Freud derivava da una «crisi di fiducia in se stesso»55. Certo Freud detestava tale aspetto della sua natura e salutò con sollievo l’autodipendenza riconquistata allorché parte della sua dipendenza omosessuale venne individuata per quella comune debolezza che era. Egli scrisse a Ferenczi, il 6 ottobre 1910, che aveva ormai superato la passività che sperimentava nei riguardi di Fliess e che non provava più il bisogno di svelare completamente ad altri la sua personalità:

Dopo il caso di Fliess… quella necessità è scomparsa. Una parte della cathexis (desiderio concentrato) omosessuale è rientrata e usata per allargare il mio ego56.

L’ego è ciò che conta: esso solo conferisce l’autogoverno e dà la capacità di fruire d’una certa libertà d’azione e di scelta, per dare forma al proprio destino, per quanto è possibile. Oggi noi generalmente vediamo l’omosessualità come un diffuso problema di inettitudine, d’identità mal definita, di passività, d’impotenza: nell’insieme un’incapacità a prender una posizione ferma di fronte alla 210

vita. In questo senso, Jones avrebbe ragione nel parlare di crisi di fiducia in Freud, che si verificò sia nei confronti della robusta figura di Jung, che di quella debole e malata di Fliess. In ambedue i casi la propria forza è sotto la minaccia d’un peso aggiunto. D’altra parte, la nostra attuale conoscenza dell’omosessualità si spinge ad un livello ancor più profondo del problema, e cioè al livello dell’immortalità e dell’eroismo che abbiamo già discusso in rapporto a Freud e al genio in generale. Su questo argomento Rank ha delle pagine brillanti, su cui ritorneremo nel capitolo X. Qui occorre soltanto richiamarvisi in rapporto specifico a Freud. Abbiamo già detto che uno spirito altamente dotato e libero, tendenzialmente è portato a evitare la famiglia come specifica struttura per la procreazione. È quindi solo logico che se il genio vuole letteralmente inseguire il progetto di diventare causa sui, si trovi a confrontarsi con la diffusa tentazione d’accantonare la donna e il ruolo che la specie assegna al suo proprio corpo. È come se ragionasse così: «Io non esisto per servire come strumento di procreazione fisica nell’interesse della razza umana; la mia individualità è così totale e integrale che anche il mio corpo partecipa nel progetto d’essere causa sui». In questo modo il genio può tentare di procreare spiritualmente attraverso legami coi giovani, per crearli a sua immagine e per trasmettere loro lo spirito del suo genio. È come se egli volesse tentare di duplicare fedelmente se stesso, spirito e corpo. Dopo tutto, qualsiasi cosa, che appesantisca il libero volo del proprio talento spirituale, deve apparire indegna di sé. La donna già rappresenta per se stessa una minaccia all’uomo, fisicamente, e ci vuole poco per evitare il rapporto sessuale 211

con lei e mantenersi così immuni da dispersioni centrifughe e da ambigue insidie tendenti a minare la propria integrità. La maggioranza degli uomini si limitano a conservare rigorosamente il loro significato evitando l’infedeltà extraconiugale, ma vi sono altri che narcisisticamente si dispongono — per proteggere tale significato — fino ad astenersi dall’infedeltà eterosessuale, per così dire. Da questo punto di vista, quando Freud accennava al lato femminile della sua natura, poteva benissimo farlo da posizioni di forza del suo ego, anziché in base a una sua debolezza, determinato com’era a costruire la sua immortalità. È risaputo che i rapporti sessuali tra Freud e sua moglie terminarono quando egli aveva circa 41 anni e Freud si mantenne sempre rigorosamente monogamo, per quel che ne sappiamo. Un simile comportamento sarebbe del tutto in linea col suo progetto di essere causa sui, sia nella sua narcisistica autoesaltazione che rifiuta qualsiasi dipendenza dal corpo femminile ed anche il ruolo assegnato dalla specie, sia nel volere controllare e proteggere il potere e il significato della propria individualità. Secondo quanto riferisce Roazen, citando le parole esatte di Freud, questi vedeva l’eroe come

…un uomo i cui bisogni e attività sessuali sono ridotti al minimo, quasi che una più alta aspirazione l’avesse sollevato al di sopra delle comuni esigenze della specie umana57.

Evidentemente Freud incanalò tutte le sue passioni verso il movimento psicoanalitico, in vista della propria immortalità. Ciò rappresentava per lui quella più alta 212

aspirazione, che poteva ragionevolmente includere anche una certa omosessualità di tipo spirituale, non apparentata col «bisogno animale» e quindi senza rischi.

L’ambivalenza concettuale del causa sui

Fin qui abbiamo discusso di ambivalenza emotiva, ma la materia presenta anche un Iato concettuale. Un conto è porsi di fronte e ammettere una reazione emotiva all’esperienza di svanir via e altra cosa ben diversa è giustificare tale sparizione. Freud era in grado di ammettere il proprio stato d’impotente dipendenza, ma come dare un qualche senso alla sua morte? Il dilemma era tra il giustificarla nel contesto del progetto d’esser causa sui col movimento psicoanalitico, oppure partendo da posizioni estranee a tale progetto. Qui sta l’ambivalenza del causa sui a livello concettuale: com’è possibile affidarsi a significati non costruiti dall’uomo? Solo questi noi conosciamo con sicurezza: la natura sembra disinteressata, anzi nemica dei significati umani e noi ci battiamo nello sforzo di imporre nel mondo i nostri ragionevolmente affidabili significati. Ma, ahimè, essi sono fragili ed effimeri e costantemente screditati dagli eventi della storia e dalle calamità naturali. Un Hitler da solo può cancellare secoli di significati costruiti dal pensiero scientifico e religioso; un terremoto può in pochi istanti disperdere il significato di un milione di vite umane. L’umana specie ha reagito tentando di ancorare il significato dell’uomo a un qualcosa che proviene da un’altra frontiera. Gli sforzi umani sembrano inesorabilmente condannati a fallire se non si rifanno a qualcosa di più alto per giustificarsi: a un qualche sostegno concettuale che dia senso 213

alla vita di ciascuno, pigliando le mosse da una dimensione trascendentale di qualche genere. Poiché una simile credenza deve assorbire il terrore fondamentale dell’uomo, non può fluttuare soltanto nell’astrazione, ma deve mettere radice nelle emozioni, in un sentimento interiore che ci rende sicuri basandoci su qualcosa di più forte, più grande e più importante della propria forza e vita. È come se si dicesse: «Il mio pulsare vitale s’affievolisce e io svanisco nell’oblio, ma «Dio» (o «Lui») rimane, reso ancor più glorioso attraverso il sacrificio della mia vita». Questo sentimento — si può dire — è la fede nel suo aspetto più efficace per l’individuo. Il problema di quanto lontano si debba spingere una vita per raggiungere un sicuro significato eroico, ovviamente preoccupò Freud moltissimo. Secondo la teoria psicoanalitica, il bambino si scontra col terrore della vita e della solitudine quando comincia ad asserire la propria onnipotenza e poi si serve della moralità culturale come veicolo per la propria immortalità. Una volta cresciuto, questa fiduciosa immortalità delegata si trasforma in una delle più importanti difese a servizio dell’equanimità del nostro organismo di fronte al pericolo. Una delle ragioni per cui riesce così facile lanciare degli uomini in guerra, è che — nel proprio profondo — ciascuno di loro prova pena per quello che gli sta a fianco e che dovrà morire. Ognuno si salvaguarda nella propria immaginazione, finché non sopraggiunge lo shock di scoprirsi sanguinanti. Logico che se si è nel numero di coloro che danno spazio all’ansietà della morte, si è allora indotti a porre in discussione le fantasie d’immortalità, il che rientra esattamente nell’esperienza di Freud, tanto che Zilboorg afferma che tale 214

problema tormentò Freud per tutta la vita. Egli anelava alla fama e la sognava, sperando, attraverso di essa, di poter costruire la propria immortalità. «L’immortalità consiste nell’essere amato da molta gente anonima» è una definizione che ci viene dall’illuminismo, stando alla quale si è immortali se si vive nella stima di uomini non ancora nati, perché colla propria opera si è contribuito al miglioramento della loro vita. Ma essa è unicamente un’immortalità di «questo mondo», e lì sta il guaio, che Freud dovette risentire assai fastidiosamente. Le sue vedute sull’immortalità erano affette da una «marcata ambivalenza, o anche da polivalenza»58. Ancor giovane confessò alla fidanzata di aver distrutto tutte le lettere che aveva ricevuto, e aggiunse con soddisfatta ironia che ciò avrebbe reso difficile ai suoi futuri biografi trovare dei dati su di lui, quando fosse sparito dalla terra. Più avanti negli anni ripeté qualcosa di simile per le sue lettere a Fliess: se fossero capitate nelle sue mani anziché in quelle di uno dei suoi allievi, egli le avrebbe tranquillamente distrutte perché non giungessero «alla cosiddetta posterità». Zilboorg pensa che questo oscillare tra desiderio e disprezzo dell’immortalità, rifletta la cattiva abitudine di Freud a bruschi cambiamenti d’idea, ma a me pare si tratti di un altro caso di giochetto scaramantico colla realtà: temendo che la vita nella sua attuale dimensione non conti e non rivesta alcun vero significato, si dà sfogo alla propria ansietà mostrando un particolare disprezzo precisamente per ciò che ci sta più a cuore, mentre sotto il tavolo uno fa gesti di scongiuro. Per un verso Freud aveva eretto la psicoanalisi a sua religione privata, a via regale per raggiungere l’immortalità; 215

per altro verso egli si sentiva un essere unico e abbastanza isolato per avanzare dubbi su tutta la carriera dell’uomo su questo pianeta. Nel contempo, però, egli non poteva accantonare il progetto della sua personale creazione dell’immortalità, perché convinto che la promessa religiosa di sopravvivenza fosse pura illusione, buona per i bambini e per i gonzi della strada. Freud si dibatteva in un tremendo groviglio, com’egli confessava al Rev. Oskar Pfister:

Riesco ad immaginare che, molti milioni d’anni or sono, nel corso dell’Era Triassica, tutti i grandi odonti e therii potessero essere assai orgogliosi per lo sviluppo raggiunto dalla razza dei sauri e intravvedessero, Dio sa quale, magnifico futuro per la loro specie. E poi invece tutti, ad eccezione del povero coccodrillo, sono morti e spariti. Lei m’obietterà che… l’uomo è dotato d’intelligenza, che gli dà il diritto di presagire e credere in un suo futuro. Ora c’è senza dubbio qualcosa di speciale, riguardo all’intelligenza, anche se così poco sappiamo cosa sia e in che rapporto si trovi rispetto alla natura. Io personalmente ho un grande rispetto per l’intelligenza, ma ne ha la natura? L’intelligenza rappresenta solo una particella minima della natura, che può benissimo tirare avanti senza di essa. Il mondo della natura consentirà mai a lasciarsi influenzare in modo profondo per rispetto verso l’intelligenza? Invidiabile è colui che nutre al riguardo maggior fiducia di quanta ne ho io59.

Dura sorte è quella d’un uomo che, al suo accanito lavoro, non può dare più significato di quanto ne avessero i rumori 216

digestivi, il soffiare e l’urlare dei dinosauri, ora silenziosi per sempre. Forse però costui lavora con ancora maggior lena, quasi a sfidare la dura insensibilità della natura, pensando quasi di poterla così costringere a guardare con un certo riguardo i prodotti di quella misteriosa intelligenza, trasformando parole e pensieri in un indistruttibile monumento eretto a celebrare l’onestà dell’uomo circa la propria condizione. Secondo Freud ciò che rende l’uomo forte e realistico è lo sfidare gli illusori conforti della religione. La tendenza ad illudersi dimostra che tutto ciò che gli uomini meritano è l’oblio. Questa dev’essere la linea di ragionamento seguita da Freud nel fare della psicoanalisi l’antagonista della religione. La scienza psicoanalitica era destinata a stabilire i fatti veri nella sfera morale del mondo, che solo così poteva venir riformato. Appare quindi chiaro che per Freud la psicoanalisi fosse una religione, come hanno notato molti autorevoli pensatori, da Jung e Rank fino a Zilboorg e Rieff. Tutto ciò può anche venir presentato in altro modo, e cioè che Freud si propose di sfidare la natura, moltiplicando i suoi sforzi per rendere vera la menzogna del causa sui. Zilboorg, nel suo penetrante saggio su Freud e la religione, conclude con queste osservazioni:

Fin dall’epoca in cui iniziò la cosiddetta «conquista della natura», l’uomo s’era abbandonato alla fantasia d’essere il conquistatore dell’universo. Per assicurarsi quel dominio che spetta a un conquistatore, egli allungò le mani per afferrare la sua preda (natura, universo). Doveva costruirsi la sensazione che il Creatore di tutto fosse oramai annientato, perché la 217

propria sovranità sull’universo non fosse pericolante. È in questo filone che va inquadrata la reticenza di Freud ad accettare la fede religiosa nel suo vero significato…. Non causa perciò meraviglia scoprire che, nel campo della psicologia umana, un uomo, sia pure grande come Freud, abbia mantenuto dinanzi a sé la visione d’un essere umano sempre infelice, impotente, ansioso, amaro, che guarda con spavento al nulla e che volge le spalle alla «cosiddetta posterità» in anticipato… disgusto60.

Zilboorg afferma che Freud approdò a questo rigido e solipsistico suo atteggiamento, condottovi dal «bisogno di liberarsi da qualsiasi sospetto di dipendenza intellettuale verso altri, o di dipendenza spirituale da un Dio personale»61. La menzogna del causa sui diventa particolarmente compulsiva a motivo di ciò che non si vuole o non si può riconoscere. Di conseguenza viene lesa la stessa autenticità con cui si cerca di sfidare la natura. Jung, che sarebbe stato d’accordo con Zilboorg, espone quello che a me pare il sommario più stringato e convincente del problema caratteriologico riguardante la vita di Freud:

Freud non si domandò mai la ragione per cui, quasi compulsivamente, parlava sempre di sesso e perché quest’idea fosse così ossessiva in lui. Non prese mai coscienza che la sua «monotonia d’interpretazione» esprimeva una fuga da se stesso, o da quell’altro lato di sé che, forse, potremmo chiamare il suo lato mistico. Per tanto tempo rifiutò di riconoscere quel lato, da 218

rendergli impossibile riconciliarsi con se stesso. C’era niente da fare riguardo a questa unilateralità di Freud. Forse una qualche sua propria esperienza interiore avrebbe potuto aprirgli gli occhi… Egli rimase vittima dell’unico aspetto che gli riusciva di riconoscere e, per tale motivo, m’appare come una figura tragica, perché era un grand’uomo e, quel che è più, un uomo posseduto dal suo dáimon62.

Che cosa può mai significare essere una figura tragica fermamente posseduto dal proprio dáimon? Significa essere dotato di grande talento, perseguire instancabilmente l’espressione di quel talento attraverso la risoluta affermazione del suo progetto di causa sui, che sta alla radice e dà forma al talento stesso. Si finisce per uscire consumati da quanto è necessario fare per dare espressione al proprio talento. La passione del carattere di Freud diventa inseparabile dal suo dogma. Jung esprime questo concetto in modo splendido quando conclude che «Freud doveva essere personalmente così appieno sotto il potere dell’Eros, da volere elevarlo a dogma… come un nome religioso»63. Eros è precisamente quella naturale energia, presente nell’organismo del bambino, che non gli darà mai pace, e che continua a proiettarlo in avanti in modo obbligato, mentre il bambino stesso va costruendosi la menzogna del proprio carattere. Il quale, ironicamente, gli permetterà di proseguire nel suo cammino obbligato, ma ora sotto l’illusione dell’autocontrollo.

Conclusione 219

A questo punto, chiudendo il cerchio della nostra discussione su Freud esattamente là dove aveva preso l’avvio, possiamo costatare che le sue due grandi riluttanze — come noi le abbiamo chiamate — sono correlate fra loro e in realtà si fondono in una sola. Da un lato egli rifiutò di accantonare decisamente la sua teoria dell’istinto a vantaggio di un’idea di miglior copertura come la paura della morte. In secondo luogo rifiutò di adottare una posizione di resa nei confronti della natura esteriore. Era incapace di dare una qualsiasi significativa espressione al suo lato mistico, che l’inclinava verso un atteggiamento di dipendenza. A mio avviso le sue riluttanze confluiscono nel suo rifiuto d’abbandonare il progetto di diventare causa sui. Un simile rifiuto l’avrebbe avviato verso una visione molto più ampia e problematica della situazione di creatura, propria dell’uomo. Ma una tale visione avrebbe rappresentato il terreno propizio al germogliare della fede, o almeno avrebbe portato l’uomo a confrontarsi colla fede come realtà nel campo dell’esperienza e non come illusione. Freud non acconsentì mai a se stesso di muovere un passo su questo terreno. Eros, in Freud, rappresenta un restringimento di un più vasto orizzonte di esperienze. O, detto con altre parole, per poter procedere dall’affermazione scientifica dello stato di creatura dell’uomo a un’affermazione religiosa dello stesso concetto, occorreva che al sesso venisse sostituita l’idea del terrore della morte, dove la passività interiore avrebbe dovuto rimpiazzare l’Eros ossessivo e compulsivo per la creatura. Esattamente queste due capitolazioni — quella emotiva interiore e quella concettuale — Freud non riuscì mai ad accettarle. Fare ciò — Jung affermò con chiara 220

comprensione — avrebbe significato l’abbandono del proprio dáimon, della sua totale ed unica passione di genio, e dello stesso dono ch’egli aveva forgiato per l’umanità. 1 FREUD, Civilization and Its Discontents, p. 43. 2 LAD, p. 188. 3 UNG C.G., Memories, Dreams and Reflections (New York: Vintage, 1965),

pp. 149-151 (trad. Ricordi, sogni e riflessioni, Milano: Rizzoli, 1970). 4 Ibid. 5

Citato in BROME V., Freud and His Early Circle (London: Heinemann, 1967), p. 103. 6* Ma occorre vedere le osservazioni di Paul Roazen sulla notevole fiducia

nutrita da Freud nella qualità del proprio stile. Cf. Brother Animal: The Story of Freud and Tausk (Londra: Alien Lane the Penguin Press, 1970), pp. 92-93. 7 LAD, p. 103. 8 Cf. FREUD, The Future of an Illusion, 1927 (New York: Anchor Books

edition, 1964), p. 32. 9 FREUD, Beyond the Pleasure Principle, 1920 (New York: Bantam edition,

1959), p. 61 (trad. Al di là del principio del piacere, 1920, Freud Opere, vol. 9 Torino: Boringhieri, 1977). 10 Ibid., p. 66. 11 Acute osservazioni di Rank sui problemi teorici in Freud, WT, p. 115; e

vedere la discussione di Brown, LAD, pp. 97 ss. 12 Vedere Beyond the Pleasure Principle, pp. 93, 105-106 nota; e LAD, pp. 99-

221

100. 13 LAD, pp. 101 ss. 14 WT, p. 130. 15 Cf. LAD, p. 109. 16 WT, p. 116. 17 Ibid., pp. 121-122: l’enfasi è mia. 18 Ibid., p. 115. 19 Vedere ME, p. 38. 20* Pur con tutta la sua ricchezza di candidi dettagli sulla vita di Freud, la

biografia di Jones è architettata per dare di lui un’immagine eroica. Oggi si è generalmente d’accordo che difficilmente essa possa rappresentare l’oracolo oggettivo finale sull’uomo Freud. Erich Fromm l’ha provato in modo assai preciso nel suo Sigmund Freud’s Mission: An Analysis of his Personality and Influence (New York: Grove Press, 1959). Recentemente Paul Roazen ha riesaminato gli archivi di Jones e fatto molte altre ricerche, conclusesi colla presentazione di un ritratto umano più completo di Freud. Si veda il suo importante libro Brother Animal e si mettano specialmente a confronto i commenti di Freud su Tausk (pag. 140) riguardo alla citazione su Adler. Ritorneremo più ampiamente sulle valutazioni di Roazen riguardanti il carattere di Freud. Un altro eccellente ritratto umano di Freud è la brillante biografia critica di Helen Walker Puner: Freud, His Life and His Mind (Londra: The Grey Walls Press, 1949). 21 LEVIN, The Fiction of the Death Instinct, pp. 277-278. 22

JONES E., The Life and Work of Sigmund Freud, edizione ridotta (Doubleday Anchor, 1963), p. 198. (trad. Vita e opere di Freud, edizione ridotta, Milano: Il Saggiatore, 1973). 23 Ibid., p. 354.

222

24 Ibid., p. 194. 25 Ibid., p. 197. 26 Ibid., p. 194 nota. 27 Ibid., p. 197 nota. 28 JONES, Freud, edizione ridotta, p. 354. 29

Citato in ZILBOORG, Psychoanalysis and Religion (London: Alien and Unwin, 1967), p. 233. 30 Ibid., pp. 232-234, passim. 31 Ibid., p. 234. 32 Citato in ROAZEN, Brother Animal, The Story of Freud and Tausk (London:

Allen Lane, the Penguin Press, 1969), p. 172 nota (trad. Fratello animale, Milano: Rizzoli). 33 JUNG C.G., Memories, p. 156. 34 Ibid., p. 157. 35 ROAZEN P., Freud: Political and Social Thought (New York: Vintage Books,

1970), pp. 176-181 (trad. Freud, Società e Politica, Torino: Boringhieri, 1973). 36 Ibid., p. 176. Fromm fa un punto simile in Freud’s Mission, p. 64 (trad. La

missione di Sigmund Freud, Roma: Newton Compton). 37 Ibid., p. 178. 38 Cf. JUNG, Memories, p. 157.

223

39 ROAZEN, Freud, p. 179. 40 JUNG, Memories, p. 156. 41 JONES, The Life and Work of Sigmund Freud (New York: Basic Books,

1953), vol. 1 p. 317 (trad. Vita e opere di Freud, Milano: Garzanti, 1977). 42 Citato in BROME, Freud, p. 98. 43 Cf. La discussione intelligente e valida di Brome, Ibid., p. 125. 44 ROAZEN, Freud, p. 180. 45 JONES, Freud, vol. 2, p. 55. 46 Ibid., pp. 145-146. 47 Ibid. 48 Cf. BECKER., The Structure of Evil, p. 400; e Angel in Armor (New York:

Braziller, 1969), p. 130. 49 JONES, Freud, vol. I, p. 8 e nota «j». 50 JONES, Freud, edizione ridotta, p. 329. 51 JONES, Freud, vol. I, p. 317. 52 JUNG, Memories, p. 157. 53*

Erich Fromm, nella sua importante disanima sul carattere di Freud, richiama l’attenzione su impotenza e dipendenza come aspetti nascosti di Freud e di ciò trova conferma in Jones. Ma a parer mio Fromm sottolinea troppo la cosa come riflesso ambivalente del rapporto che da bambino Freud ebbe con sua madre, mentre io la vedo piuttosto come un fenomeno d’ordine generale, conseguente alle speciali ambizioni eroiche di Freud e agli oneri ch’esse 224

comportavano. Cf. E. Fromm, Sigmund Freud’s Mission, capitolo 5. 54 JONES, Freud, vol. 2, p. 420. 55 Ibid. cf. anche FROMM, Freud’s Mission, p. 56. 56 Citato in BROME, Freud, p. 127. 57 Citato in ROAZEN, Brother Animal, p. 40. 58 ZILBOORG, Psychoanalysis and Religion, p. 226. 59 Pp. 133-134, Psychoanalysis and Faith: The Letters of Sigmund Freud and

Oskar Pfister (New York: Basic Books, 1963) (trad. Psicoanalisi e fede: carteggio col pastore Pfister 1909-1939, Torino: Boringhieri, 1970). 60 ZILBOORG, Psychoanalysis and Religion, p. 242. 61 Ibid., p. 255. Vedere anche l’eccellente analisi di Puner su tale rigidità:

Freud, pp. 255-256, passim. 62 JUNG, Memories, pp. 152-153. 63 Ibid., p. 154.

225

PARTE II I FALLIMENTI DELL’EROISMO Le nevrosi e le psicosi sono modi espressivi per esseri umani che hanno smarrito il coraggio. Chiunque abbia acquisito questo minimo di cognizione… s’asterrà, in avvenire, dall’intraprendere noiose escursioni nel misterioso mondo della psiche con persone in tale stato di scoraggiamento. ALFRED ADLER

226

VII IL SORTILEGIO GETTATO DALLE PERSONE IL VINCOLO DELLA NON-LIBERTÀ Ah, mon cher, per chiunque si ritrovi solo, senza Dio né padrone, è spaventoso il peso delle sue giornate. Perciò, siccome Dio è fuori moda, uno deve scegliersi un padrone. ALBERT CAMUS1 Gli uomini incapaci di libertà non possono reggere al terrore del sacro, che agli occhi aperti si manifesta — e debbono trasformare in mistero, nascondere, adorare, come un simbolo incomprensivo, la rivelazione stessa, che è chiara luce di verità. CARLO LEVI2

Da sempre gli uomini si sono rimproverati la follia d’aver impegnato la loro lealtà per questo o per quello, d’aver creduto così ciecamente e obbedito con tanta premura. Quando essi riescono a svincolarsi da un incantesimo, che è andato a un passo dal distruggerli, e vi riflettono sopra, tutto appare senza senso. Come può un uomo maturo lasciarsi così affascinare e per quali ragioni? È risaputo che, attraverso tutto il corso della storia, masse imponenti hanno seguito dei leaders per l’aura magica ch’essi proiettavano e perché essi apparivano straordinariamente grandi. Di primo acchito queste spiegazioni paiono sufficienti perché corrispondono ai fatti: gli uomini venerano e temono il 227

potere e sono portati a offrire la loro lealtà a quelli che ne sono i dispensatori. Ma questa motivazione è superficiale, perché si limita al fatto pratico. Certo la gente non si fa schiava soltanto per calcoli interessati: la schiavitù esiste prima nell’anima, come lamentava Gor’kij. L’elemento che esige spiegazione nei rapporti umani è proprio il fascino della persona che detiene o simboleggia il potere. C’è in lui qualcosa che sembra irradiarsi sugli altri e fonderli nella sua aura carismatica, un «effetto affascinante — come lo definì Christina Olden — della personalità narcisistica»3 o — come Jung preferiva chiamarlo — il «mana della personalità»4. In realtà gli individui non irradiano aure azzurre o dorate: il mana della personalità riesce a produrre ed organizzare, tutt’al più, un balenio negli occhi o una qualche ingannevole insegna da porsi in fronte, o divise o una qualche speciale posa, ma chi ricorre a questi trucchi rimane pur sempre un comune Homo sapiens, praticamente indistinguibile dagli altri, a meno che uno non indirizzi su di lui il proprio speciale interessamento. Il mana di una personalità carismatica è tutto negli occhi di colui che lo guarda e il fascino ha la sua radice in chi lo sperimenta. È esattamente questo il fenomeno che va spiegato: se tutte le persone sono più o meno simili, per quale motivo si arde di incontenibile passione per alcune di loro? Cosa si deve pensare della relazione che la vincitrice di un concorso per il titolo di miss Maryland fa del suo primo incontro col cantante e attore Frank Sinatra? Ecco come essa lo descrive:

Egli doveva essere il mio cavaliere. Ricevuta la notizia, dovetti trangugiare cinque aspirine per 228

calmarmi un poco. Nel ristorante lo scorsi in fondo alla sala e fui lì lì per svenire, scossa da un brivido dalla testa ai piedi. Per me aveva come un alone di stelle attorno al capo e proiettava un qualcosa che mai avevo visto in vita mia… Quando sono con lui mi prende una paura da cui non riesco a sciogliermi… Non posso più pensare. Egli è così affascinante…5.

Immaginiamo una teoria scientifica che possa spiegare la voglia degli uomini di farsi schiavi, scoprendone il maccanismo; immaginiamo che, dopo secoli di lamenti circa l’umana follia, gli uomini giungano finalmente a spiegarsi le ragioni del loro fatale affascinamento; immaginiamo di riuscire ad analizzare le precise cause per cui si rimane come stregati, con la stessa freddezza ed obbiettività con cui un farmacista distingue gli elementi che compongono un intruglio medicinale. Queste immaginazioni ci aiutano a capire, meglio che mai, l’importanza storica universale della psicoanalisi che, unica, è giunta a svelare questo mistero. Freud s’accorse che un paziente, sottoposto ad analisi, sviluppava un attaccamento particolarmente intenso alla persona dell’analista, che diventava, alla lettera, il centro del suo mondo e della sua vita: egli lo divorava cogli occhi e il cuore gli si gonfiava di gioia alla sua vista. L’analista riempiva i suoi pensieri anche nei sogni. Tutto questo affascinamento aveva le caratteristiche di un amore in piena regola, ma non si limitava alle donne. Gli uomini dimostravano «lo stesso attaccamento verso il medico, la stessa stima esagerata delle sue qualità, la stessa identificazione coi suoi interessi, la stessa gelosia verso tutti quelli che con lui avevano rapporti di qualche genere»6. 229

Freud si rese conto che ciò rappresentava uno strano fenomeno e, per spiegarlo, lo chiamò transfert, o trasferimento, in quanto il paziente trasferisce quei sentimenti che lo legavano, da bambino, ai proprii genitori, verso la persona del medico: per lui il medico assume una dimensione più grande del vero, esattamente come accade ad un bambino per i propri genitori. Egli diventa psicodipendente e trae protezione e senso di potere da lui, allo stesso modo con cui un bambino fonde il suo destino coi genitori e così via. Nel transfert assistiamo al fenomeno di una persona adulta che, fondamentalmente, si fa bambino e adotta una visione distorta del mondo per trovare sollievo alla propria impotenza e paura, che vede le cose come vorrebbe che fossero per la sua sicurezza, che agisce automaticamente e acriticamente, proprio come faceva durante il periodo preedipico7. Freud capì che il transfert altro non era che una diversa forma di quella fondamentale suggestionabilità umana che rende possibile l’ipnosi. Si trattava della stessa resa passiva a un potere superiore8, e in ciò risiedeva la sua vera stranezza. Che c’è, dopo tutto, di più misterioso dell’ipnosi, lo spettacolo di adulti che di colpo restano imbambolati e obbediscono come automi agli ordini d’un estraneo? Vien fatto di pensare all’intervento di una qualche forza soprannaturale, come se alcune persone possedessero veramente un mana che getti un incantesimo su altri individui. Una tale spiegazione s’affacciava soltanto perché l’uomo ignorava l’esistenza della schiavitù nei recessi della sua anima, e voleva credere che la sparizione delle sue facoltà volitive dovesse attribuirsi ad altri. Si rifiutava d’ammettere che la perdita d’una propria volontà fosse un 230

qualcosa ch’egli stesso si portava dentro, come aspirazione segreta a scattare prontamente alla voce di qualcuno e a un suo schioccare di dita. L’ipnosi restava un mistero solo fin tanto che l’uomo si rifiutava d’ammettere i suoi motivi inconsci e ci sconcertava in quanto negavamo qualcosa che è basilare nella nostra natura. Si potrebbe fors’anche dire che la gente troppo volentieri si prestava alle ciurmerie dell’ipnosi, perché si sentiva obbligata a negare l’esistenza della grande menzogna sulla quale si basa l’intera loro vita cosciente: la menzogna dell’autosufficienza, dell’autodeterminazione, di un giudizio e scelta autonomi. La persistente popolarità dei films sui vampiri può rappresentare una chiave rivelatrice di quanto siano a fior di pelle le nostre paure represse di perdere l’autocontrollo, di cadere del tutto sotto le stregonerie di qualcun altro, di non essere veramente padroni di noi stessi: uno sguardo intenso, un misterioso canto ed ecco le nostre vite irrimediabilmente perdute! Tutto questo è stato espresso da Ferenczi, in un suo saggio fondamentale del 1909, in maniera così perfetta che gli ultimi settant’anni di ricerca psicoanalitica non hanno molto da aggiungervi9.* Ferenczi sottolineava quanto fosse importante per l’ipnotizzatore possedere presenza imponente, rango sociale elevato e approccio sicuro. Allorché egli dava i suoi ordini, il paziente si sarebbe accasciato come colpito da un coup de foudre. Non c’era nient’altro da fare che obbedire, come se colla sua imponente e autorevole figura l’ipnotizzatore prendesse il posto dei genitori. Egli conosceva «quei modi per spaventare e blandire, la cui efficacia è stata sperimentata per migliaia di anni nei rapporti di un genitore col figlio»10. 231

La stessa tecnica noi la vediamo usata dai predicatori popolari, che alternativamente arringano i loro uditori con voce stridula, per passare poi a blandirli con toni suadenti. Con un urlo d’agonia e d’estasi, da spezzare il cuore, la gente si butta ai piedi del predicatore perché la salvi. Come l’aspirazione più alta del bambino è d’obbedire al proprio onnipotente genitore, credere in lui ed imitarlo, che ci può essere di più naturale che un momentaneo, immaginario ritorno all’infanzia per mezzo della trance ipnotica? La spiegazione della facilità dell’ipnosi — spiegava Ferenczi — è che «nel nostro intimo siamo rimasti bambini e tali restiamo per tutta la vita»11. Così, d’un solo colpo, la teoria di Ferenczi poté liquidare il mistero dell’ipnosi, dimostrando che il soggetto ne reca in sé la predisposizione:

…non esiste ciò che chiamiamo ipnotizzazione o impianto di idee nel senso di un’incorporazione psichica di qualcosa d’estraneo, dall’esterno, ma soltanto alcuni procedimenti che riescono ad innescare dei meccanismi d’autosuggestione inconsci, ma preesistenti… Secondo questo concetto, la prassi della suggestione e dell’ipnosi consiste nel creare deliberatamente quelle condizioni in cui la tendenza a una cieca fede e ad un’obbedienza acritica, presenti in tutti, anche se usualmente represse… possano inconsciamente trasferirsi agli ordini dell’individuo che ipnotizza o suggestiona12.

Mi dilungo sullo svelamento del segreto dell’ipnosi — da parte di Ferenczi — per una ragione importantissima. Colla scoperta di una generalizzata predisposizione nel cuore 232

dell’uomo, la stessa psicologia freudiana conquistò la chiave interpretativa di una psicologia storica universale, che sta alla base di tutto. Poiché non tutti sperimentano formalmente l’ipnosi, la maggioranza della gente può nascondere e mascherare la propria interna spinta a fondersi con personaggi di potere. Ma la predisposizione all’ipnosi è la stessa che produce il transfert e nessuno ne è immune o può spazzar via da sé le manifestazioni di trasferenza nelle vicende quotidiane. Ciò non appare in superficie, poiché gli adulti procedono per il loro cammino, dando l’impressione di totale indipendenza: adempiono al loro ruolo di genitori e sembrano completamente cresciuti. E lo sono, perché non potrebbero svolgere le loro funzioni, se ancora nutrissero quei sentimenti infantili di paura verso i loro genitori e mantenessero la tendenza ad obbedire prontamente e senza discutere. Ma, afferma Ferenczi, anche se queste disposizioni normalmente spariscono, «rimane il bisogno di star soggetti a qualcuno; solo che la parte del padre viene trasferita agli insegnanti, ai superiori, a personalità carismatiche. La docile sottomissione alle autorità, così diffusa, rappresenta anch’essa un transfert di questo genere»13.

La grande opera di Freud sulla Psicologia di Gruppo

Con una teoria di fondo che risolveva il problema dell’ipnosi e che scopriva il meccanismo universale del transfert, Freud si trovò quasi costretto a venir fuori con le più acute intuizioni mai enunciate sulla psicologia della leadership. Fu così ch’egli scrisse il suo famoso trattato Group Psychology and the Analysis of the Ego, un libricino di 233

meno di cento pagine che, a parer mio, rappresenta uno dei testi potenzialmente più importanti per la liberazione dell’uomo. Nei suoi ultimi anni, Freud scrisse alcuni libri che rifriggevano le sue preferenze personali e ideologiche, ma Group Psychology rappresentava un serio lavoro scientifico, che di proposito veniva ad inserirsi in una lunga tradizione. Gli studiosi anteriori della psicologia di gruppo tentavano di spiegare perché gli uomini, quando conglobati in gruppi, agissero cosi pecorescamente ed enunciarono teorie come quelle del contagio mentale o istinto del gregge, che divennero popolarissime. Freud capì che tali idee non spiegavano affatto cosa succedesse all’intelligenza e al buon senso della gente inserita in gruppi. Immediatamente Freud si rese conto che costoro ridiventavano semplici e docili bambini, che seguivano ciecamente la voce familiare dei loro genitori, ora impersonata — come per un incantesimo ipnotico — da quella di un leader. All’ego di costui, essi abbandonavano il loro, identificandosi col suo potere e sforzandosi di specchiarsi in lui come ideale di vita. Non è tanto che l’uomo sia un animale da gregge — diagnosticava Freud — ma piuttosto da orda, in cui domina un capo14. Questo soltanto può spiegare le «misteriose e coercitive caratteristiche delle formazioni di gruppi». Il capo è una «personalità pericolosa, verso cui l’unico atteggiamento possibile è quello di un passivo masochismo. Trovandosi soli con lui, riesce difficile guardarlo negli occhi». Solo così si spiega — continua Freud — quella specie di paralisi che caratterizza il legame esistente tra chi ha potere inferiore e chi invece è dotato di superiore potere. L’uomo ha «una passione estrema per l’autorità» e «aspira ad essere governato da una forza senza limiti»15. È appunto 234

questa la caratteristica che il capo incarna ipnoticamente nella sua persona dominatrice. O, come più tardi affermò Fenichel, la gente «anela ad essere ipnotizzata» proprio perché vorrebbe ricuperare quella magica protezione, quell’onnipotenza partecipata di cui godeva quando era sotto la cura amorevole e protettiva dei genitori16. Perciò — Freud argomenta — il gruppo non introduce niente di nuovo negli individui, ma si limita a soddisfare quei profondi desideri d’amore che inconsciamente la gente porta dentro di sé. Questa, secondo Freud, è la forza vitale che saldamente tiene insieme i gruppi e che agisce, come una specie di cemento psichico, per collegare la gente in una mutua e irrazionale interdipendenza: il potere magnetico del capo, cui corrisponde un colpevole affidamento della volontà di ognuno, messa a disposizione di lui. Nessuno che onestamente ricordi quanto gli sia sembrato azzardato guardare in faccia qualche personaggio, o quanta soddisfazione gli abbia dato il crogiolarsi fiduciosamente nel riverbero del potere d’un altro, può accusare Freud di retorica psicoanalitica. Spiegando quale precisa forza leghi stabilmente insieme i gruppi, Freud poté anche mostrare perché tali gruppi non temono pericoli. I membri hanno la sensazione di non essere isolati nella loro debolezza e impotenza, perché possiedono i poteri dell’eroe-capo col quale s’identificano. Si ritorna così a quel narcisismo naturale, già descritto (a morire sarà il vicino, non voi!), rafforzato dalla fiduciosa dipendenza dal potere del leader. Perciò non meraviglia che centinaia di migliaia di uomini balzassero dalle trincee, sotto un fuoco micidiale, perché erano come autoipnotizzati. E non stupisce che gli individui sognino impossibili vittorie, sentendosi protetti 235

dall’onnipotente forza di una figura paterna. Per quale ragione i gruppi sono così ciecamente stupidi? A questo interrogativo ricorrente, Freud risponde che essi vogliono essere illusi e che «sempre dànno la precedenza a ciò che è irreale rispetto alla concreta realtà»17. E ne conosciamo la ragione, da ricercarsi nel fatto che il mondo reale è semplicemente troppo terribile per essere accettato colle sue spietate prospettive nei confronti di quell’insignificante e tremebondo animale che è l’uomo, destinato al decadimento e alla morte. L’illusione trasfigura questa realtà e fa sembrare l’uomo di vitale importanza per l’universo e, in qualche modo, immortale. E chi trasmette simile illusione se non i genitori i quali istillano, attraverso la cultura, la macroscopica menzogna d’essere causa sui? Le masse guardano ai capi perché li pascano con quelle non-verità di cui esse hanno bisogno e il leader continua nei suoi illusori giochi di prestigio, volti a farle trionfare sul complesso di castrazione e a esaltarle verso un’eroica vittoria. A ciò s’aggiunga che il capo rende possibile un’esperienza nuova, l’espressione di impulsi proibiti, di desideri e fantasie segrete. Nel codice di comportamento di gruppo, tutto diventa lecito se il capo lo approva18. È come ritornare ad essere di nuovo un bimbetto che si sente onnipotente, incoraggiato dal genitore ad abbandonarsi alle proprie sfrenate voglie o, meglio ancora, è come starsene allungati per una terapia psicoanalitica, nella quale l’analista non vi censura per alcunché di ciò che pensate o provate. Nel seno del gruppo, ognuno si sente un eroe onnipotente, libero di dare pieno sfogo ai proprii appetiti, sotto lo sguardo benevolo del padre che approva. Si capisce, in questo modo, lo sbocco verso un terrificante sadismo dell’attività di 236

gruppo. Questa è, in sintesi, la grande opera di Freud sulla psicologia di gruppo, sulla dinamica della cieca obbedienza, dell’illusione e sadismo comunitario. In scritti recenti Erich Fromm, in particolare, ha costatato il valore duraturo delle vedute di Freud per il loro contributo allo sviluppo di una vitale critica della nequizia e cecità umana. Dal suo primitivo libro Escape from Freedom (trad. Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, 1981, 15 ed.) fino al recente The Heart of Man, Fromm ha ampliato le intuizioni di Freud sul bisogno di un miracolistico soccorritore. È stata mantenuta l’idea fondamentale di Freud sul narcisismo, come caratteristica primaria dell’uomo, che da esso viene gonfiato col senso dell’importanza della propria vita, cui corrisponde una svalutazione delle vite altrui e una netta suddivisione tra «quelli che sono come me o m’appartengono» e quelli invece che sono «estranei e stranieri». Fromm ha anche insistito sull’importanza di ciò che egli definisce «simbiosi incestuosa» e cioè la paura di emergere nel mondo al di fuori del contesto familiare, basandosi su poteri e responsabilità proprie, cui s’aggiunge il desiderio di ancorarsi a una più ampia sorgente di potere. Sono questi gli elementi costitutivi di quella mistica di «gruppo», «nazione», «sangue», «patria», e cose simili. Tali sentimenti hanno radice nelle prime esperienze di confortevole fusione colla madre e, nell’espressione di Fromm, mantengono l’individuo «incarcerato nella fissazione materna, razziale, nazionale e religiosa»19. Fromm costituisce una lettura eccitante ed è quindi meglio rimandare il lettore ai suoi libri anziché dilungarsi qui in citazioni e commenti, per dimostrare com’egli continui in 237

quella linea essenziale di Freud, perfettamente applicabile agli odierni problemi di schiavitù, malvagità e persistente pazzia politica. A mio avviso, questa rappresenta l’autentica linea dell’insieme del pensiero sulla condizione umana. Il fatto sbalorditivo è che, questa linea centrale di lavoro sul problema della libertà, abbozzata nel secolo dei Lumi, occupi così poca parte delle preoccupazioni e attività degli scienziati, mentre invece dovrebbe ragionevolmente costituire il nerbo delle ricerche, sia teoriche che empiriche, delle scienze umane che vogliano assumere un qualche significato per l’avvenire dell’uomo.

Sviluppi al di là di Freud

Oggi non si accettano più acriticamente tutte le argomentazioni di Freud sulle dinamiche di gruppo, né ci si sente obbligati a considerarle esaurienti. Uno dei punti deboli della teoria di Freud risiede nel suo esagerato attaccamento al mito filogenetico dell’«orda primitiva», su cui s’innesta il suo tentativo per ricostruire i primordiali inizi della società, allorché i proto-umani — simili ai babbuini — avrebbero vissuto sotto il regime tirannico di un maschio dominante. Per Freud la ricerca affannosa — da parte della gente — della personalità forte e il loro timore reverenziale nei suoi confronti rappresentavano il modello del funzionamento basilare di tutti i gruppi. Toccò a Redi; in un suo importante saggio, dimostrare che il tentativo di Freud per spiegare ogni cosa attraverso la «personalità forte» non corrispondeva ai fatti. Redi, che aveva studiato vari generi di gruppi, trovò che la dominazione per parte di una forte personalità si verificava in alcuni casi, ma non in 238

tutti20. Scoprì invece che in tutti i gruppi esisteva quella che egli chiamò «persona centrale», che manteneva unito il raggruppamento attraverso certe sue qualità. Questo spostamento di enfasi è lieve e lascia fondamentalmente intatta la teoria di Freud, pur permettendoci una più sottile analisi della vera dinamica dei gruppi. Freud scoprì — ad esempio — che il leader ci consente di esprimere impulsi proibiti e segrete brame. Redi costatò che in alcuni gruppi esisteva davvero quella che egli appropriatamente chiamò «la contagiosità della persona senza conflitti». Esistono dei leaders che ci seducono perché esenti dai conflitti che ci affliggono e di cui ammiriamo la calma, confrontandola col nostro senso di vergogna e umiliazione. Freud osservò che il leader spazza via la paura e permette ad ognuno di sentirsi onnipotente. Redi perfezionò alquanto tale osservazione, dimostrando quanto importante fosse spesso il leader per il semplice fatto d’aver compiuto «l’atto iniziatorio», quando nessun altro aveva ancora avuto il coraggio di farlo. Redi denominò questo con la bella espressione di «magia dell’atto iniziatorio». Quest’atto può consistere in una cosa qualunque, dal giuramento, al sesso o all’assassinio. Come Redi sottolinea, secondo una certa logica, soltanto colui che per primo uccide è assassino: gli altri sono soltanto seguaci. Freud aveva già affermato in Totem and Taboo (trad. Totem e tabù, Torino, Boringhieri, 1969) che atti illegali per l’individuo potevano essere giustificati se l’intero gruppo ne condivideva la responsabilità. Possono venir giustificati in altro modo, e cioè se colui che inizia l’atto, prende su di sé sia il rischio che la colpa. Il risultato è davvero magico, perché ciascun membro del gruppo può ripetere l’atto senza colpa: essi non 239

sono più responsabili, poiché tale è soltanto il capo. Opportunamente Redi denomina tutto ciò «magia della priorità», la quale fa qualcosa di più che sollevare dalla colpa, perché di fatto trasforma l’azione delittuosa. Questo punto cruciale ci introduce direttamente nella fenomenologia della trasformazione di gruppo del mondo di tutti i giorni. Se uno uccide senza senso di colpa, a imitazioni dell’eroe che s’assume ogni rischio, è chiaro che non si tratta più d’assassinio: ciò diventa «santa aggressione, mentre per il primo che l’ha fatto non era così»21. In altri termini, la compartecipazione nel gruppo rifiltra la realtà quotidiana e le conferisce un’aura di sacralità, esattamente come accadeva col gioco, durante l’infanzia. L’acuta terminologia di «atti iniziatori», «contagiosità della persona senza conflitti» e «magia della priorità» e così via, ci consente di afferrare con maggiore sottigliezza la dinamica del sadismo di gruppo e l’assoluta tranquillità con cui il gruppo giunge persino ad uccidere. Non è solo perché «papà lo permette» o, magari, «lo ordina», ma piuttosto perché si verifica un ‘eroica e magica trasformazione del mondo e dell’individuo stesso. Questa è l’illusione a cui l’uomo anela — come affermò Freud — e che fa della persona centrale un così efficace strumento dell’emozione di gruppo. Non è mia intenzione ripetere o riassumere qui le sottigliezze del trattato di Redi. Limitiamoci a sottolineare il succo della sua argomentazione; vale a dire che il «sortilegio gettato dalle persone» — come l’abbiamo chiamato — è cosa assai complessa, che include molti più elementi di quanto appaia. Di fatto può includere qualunque cosa, al di fuori d’un incantesimo. Redi ha mostrato come i gruppi 240

usino i loro leaders per svariati tipi di discolpa o di attenuazione di conflitti, per promuovere l’amore o il suo contrario, designando oggetti d’aggressione e di odio, che stringono il gruppo in un vincolo comune. (Di un popolare film degli scorsi anni, la pubblicità diceva: «Essi lo seguono coraggiosamente fino all’inferno, solo per il piacere d’ammazzarlo e così vendicarsi»). Redi non intendeva rimpiazzare le fondamentali intuizioni di Freud, ma solo ampliarle e precisarne la portata. La cosa istruttiva, negli esempi ch’egli porta, è che molte delle funzioni, da lui attribuite alla «persona centrale», hanno a che fare con colpa, espiazione ed eroismi indiscutibili. La conclusione importante per noi è rappresentata dal fatto che i gruppi usano il capo, talvolta con assai poco riguardo per la sua persona, ma sempre con lo scopo di realizzare le loro proprie necessità e spinte. W.R. Bion, in un recente ed importante articolo22, ha ancor più allargato questa linea di pensiero, rispetto a Freud, affermando che il leader è creatura del gruppo altrettanto quanto questo lo è di lui e che egli.— per il fatto di essere capo — perde la propria «distintività individuale», quanto la perdono gli altri per esserne i seguaci. Egli non ha maggior libertà d’essere se stesso, di quanto ne abbia qualsiasi altro membro del gruppo, per la precisa ragione ch’egli dev’essere un riflesso dei loro assunti, per qualificarsi per il comando, come prima cosa23. Le cose dette fin qui c’inducono a soffermarci pensosi su quanto poco eroico sia l’uomo medio, anche quando si mette alla sequela di eroi. Egli li assomma semplicemente al proprio bagaglio e li segue con riserva e cuore disonesto. Il famoso psicoanalista Paul Schilder osservava che l’uomo 241

entra con riserva persino nella trance ipnotica. Acutamente egli affermava che, appunto per questo, l’ipnosi veniva privata di quella «serietà profonda che distingue tutte le vere, grandi passioni». Perciò definiva «timida» l’ipnosi, perché mancante di «grande, libera e incondizionata resa»24. Penso che questa caratterizzazione sia benissimo applicabile al timido «eroismo» del comportamento di gruppo, nel quale c’è ben poco di libero e di virile. Anche quando uno fonde il suo ego con il padre autoritario, l’«incantesimo» mira al proprio ristretto interesse. La gente si serve dei suoi leaders quasi come di una copertura e, quando cede ai loro comandi, può sempre avanzare la riserva che tali ordini sono loro estranei e ricadono nelle responsabilità del capo e, anche se commettono cose atroci, lo fanno in suo nome e non in nome proprio. Questo è un altro motivo per cui la gente si sente così incolpevole, come osserva Canetti: essi, a loro volta, immaginano d’esser vittime temporanee del leader25. Quanto più essi cedono al suo incantesimo, tanto più tremendi diventano i crimini commessi e tanto più marcato il sentimento di essere estranei a tali delitti. È così netto questo scarico di responsabilità sul leader, da richiamare la scoperta di James Frazer: in un remoto passato alcune tribù facevano capri espiatori i loro re, che venivano uccisi quando non servivano più alle necessità del popolo. Queste cose rientrano tra gli svariati modi con cui gli uomini s’atteggiano a eroi, sempre sforzandosi meschinamente di sfuggire alla responsabilità delle loro azioni. Pochissimi, ad esempio, non sono rimasti impressionati dagli «eroismi» della cosiddetta «famiglia» Manson. Esaminando la vicenda alla luce della dinamica di gruppo fin qui discussa, possiamo meglio capire che a turbarci non 242

sono soltanto le immotivate uccisioni commesse, ma anche qualcos’altro. Quando degli individui tentano d’essere eroi, ma accettando una posizione di volontaria schiavitù, c’è ben poco da ammirare, perché tutto diventa automatico, prevedibile e patetico. In questo caso v’era un gruppo di giovani ragazzi e ragazze che s’identificavano con Charles Manson e vivevano masochisticamente sottomessi a lui, dedicandogli la loro totale devozione e considerandolo come una specie di dio in terra. Manson corrispondeva alla descrizione che Freud traccia del «padre primordiale»: autoritario, esigente all’estremo, convinto assertore della più rigida disciplina. Aveva uno sguardo intenso e, per quanti cadevano sotto il suo incantesimo, egli proiettava indubbiamente un’aura ipnotica. Era un personaggio molto sicuro di sé, con una sua «verità» e un’aspirazione megalomaniaca a diventare padrone del mondo. Ai suoi seguaci un simile sogno appariva come una missione eroica, nella quale essi avevano il privilegio di venire associati. Egli li aveva convinti che soltanto affiancandolo nella realizzazione del suo piano essi avrebbero potuto trovare salvezza. La «famiglia» era molto unita, non vi esistevano inibizioni sessuali e i membri avevano liberi rapporti tra di loro. Il sesso, anzi, veniva largamente usato per attrarre gli estranei ad unirsi alla famiglia. Da tutto ciò sembra ovvio dedurre che in Manson si verificava una combinazione dell’«affascinante effetto d’una personalità narcisistica» con la «contagiosità dell’individuo senza conflitti». Ciascuno si sentiva libero di liquidare le proprie repressioni, seguendo l’esempio e gli ordini di Manson, non soltanto per ciò che riguardava il sesso, ma anche l’assassinio. I membri della «famiglia» non mostravano rimorso alcuno, o senso di colpa 243

e di vergogna, per i loro delitti. La gente rimaneva sbalordita per questa evidente «assenza di sentimenti umani». Ma, dall’analisi fin qui fatta dei dinamismi di gruppo, siamo condotti a confrontarci con l’ancor più sbalorditiva conclusione che le comunità assassine, come quella di Manson, in realtà non sono prive di un’umanità fondamentale. A renderle così orrende è l’esagerazione di tendenze presenti in tutti noi. Perché mai essi dovrebbero provare rimorso o senso di colpa? Il leader s’assume la responsabilità dell’azione delittuosa e coloro che la commettono per suo ordine non sono più assassini, ma «sacri eroi». Essi anelano a servire nell’aura possente emanata dal leader e a tirare avanti nell’illusione da lui creata, che fa balenare innanzi una fantomatica eroica trasformazione del mondo. Sotto l’incantesimo ipnotico del capo e con la piena forza della propria spinta verso un’autoespansione a livello eroico, essi si sentono esenti da qualsiasi paura e possono anche uccidere in perfetta calma, quasi convinti di fare un favore alle loro vittime, incluse — e quindi santificate — nell’adempimento di una «sacra missione». Risulta infatti dai testi di antropologia che la vittima sacrificata diventa una santa offerta agli dei, alla natura o al fato. La comunità trae un aumento di vita dalla morte della vittima, che quindi ha il privilegio di servire al mondo nel modo più alto possibile, attraverso la sua morte sacrificale. Un modo diretto, quindi, per capire comunità assassine come la «famiglia» di Manson, è di riguardarle come trasformazioni magiche, mediante le quali gente vuota e passiva, tormentata da conflitti e senso di colpa, raggiunge un eroismo a buon mercato, veramente sentendo di aver 244

raggiunto la capacità di controllare il destino e di poter influire sulla vita e sulla morte. Eroismo «a buon mercato» perché non conquistato per conto proprio, colla loro audacia, e quindi esenti dai loro timori. Tutto è contrassegnato dall’immagine del leader, stampata nella loro psiche.

Una veduta più ampia del transfert

Da questa discussione sul transfert s’è delineata davanti a noi una delle maggiori cause dei disastri su vasta scala, compiuti nel mondo dall’uomo. Questi non si limita ad essere un animale naturalmente voglioso di distruggere, che attorno a sé fa il deserto, sentendosi onnipotente ed invincibile. Ancor di più, però, egli è un animale tremebondo, che si tirerebbe giù l’universo sulle spalle, aggrappandovisi in cerca di un sostegno protettivo, nello sforzo d’affermare vilmente i suoi scarsi poteri. Perciò le qualità del leader e i problemi della gente comune vengono a combaciare insieme in una simbiosi naturale. Mi sono dilungato su alcuni particolari dettagli della psicologia di gruppo, per dimostrare come i poteri del leader derivino da quanto egli può fare per la gente, al di là dell’alone magico che lo circonda. Il fatto che la gente proietti in lui i suoi problemi, gli conferisce ruolo e statura. Ma rimane vero che i leaders hanno altrettanto bisogno di seguaci, quanto questi ultimi di loro, perché un capo proietta sui seguaci la sua incapacità ad esser solo e la sua paura dell’isolamento. Dobbiamo dire che se non esistessero leaders naturali, in possesso della magia del carisma, gli uomini dovrebbero inventarseli, esattamente come i leaders dovrebbero crearsi 245

dei seguaci, se non ne hanno di disponibili. Se accentuiamo questo naturale aspetto simbiotico del problema del transfert, ci spingiamo a quella sua più ampia comprensione, principale tema della discussione su cui mi voglio ora soffermare.26* Freud aveva già dato altrettanti chiarimenti sul problema dei seguaci, quanti ne aveva approfonditi riguardo al magnetismo del leader, allorché passò allo studio del desiderio di transfert e dei suoi effetti. Ma qui si nasconde una trappola. Come sempre, Freud ci segnalò la direzione in cui guardare, ma con un’apertura focale troppo ristretta. Egli partiva dal concetto che Wolstein riassume nella domanda: «Perché l’uomo si mette nei guai?»27 e quasi sempre sfociava in risposte che ruotavano sul motivo sessuale. Il fatto che la gente fosse così incline alla suggestione durante l’ipnosi, costituiva per Freud una prova di dipendenza dalla sessualità. La tendenza al transfert, cioè alla trasferenza in altre persone, è soltanto un manifestarsi di quella primordiale attrazione che il bambino provava per coloro che lo circondavano; ma ora tale attrazione, puramente sessuale, è così sepolta nell’inconscio da renderci impossibile afferrare le vere ragioni del nostro affascinamento, come appare da queste chiarissime parole di Freud:

…dobbiamo concludere che tutti i sentimenti di simpatia, amicizia, fiducia e cose simili, che noi nutriamo nel nostro animo, sono geneticamente connessi colla sessualità e si sono sviluppati da semplici desideri sessuali, attraverso un indebolimento del loro scopo erotico, per quanto puri e non sensuali essi 246

possano apparire nelle forme che essi assumono nella nostra autopercezione cosciente. Fin dall’inizio noi abbiamo conosciuto soltanto oggetti sessuali: la psicoanalisi ci dimostra come quelle persone, che nella vita reale noi semplicemente rispettiamo o a cui siamo affezionati, possano anche essere per noi oggetti sessuali, nell’inconscio delle nostre menti28.

Abbiamo già osservato come questa specie di riduzionismo al motivo sessuale, abbia assai presto messo nei guai la psicoanalisi e come ci sia stato bisogno dell’intervento di una successione di grandi pensatori, per districare la psicoanalisi da questa idea ossessiva in cui Freud l’aveva cacciata. Occorre però dire che nei suoi ultimi lavori Freud stesso era meno coartato da quest’ossessione e cominciò a interpretare alcune cose con un’ottica più allargata. Questo si verificò anche per la sua ristretta enfasi sessuale, con cui un tempo spiegava l’arrendersi nel transfert. Nel 1912 Freud affermava che il fatto che il transfert potesse condurre a un totale assoggettamento, rappresentava per lui un’indubbia prova del suo «carattere erotico»29. Ma in opere tardive, quando sempre più pose l’accento sul terrore della condizione umana, egli giunse a parlare della brama del bambino, che vuole un padre potente, «per proteggersi di fronte a misteriose potenze superiori», in conseguenza dell’«umana debolezza» e dell’«impotenza infantile»30. Tuttavia questa formulazione non costituisce un abbandono totale delle sue più antiche spiegazioni. Per Freud l’Eros abbracciava non soltanto le spinte specificamente sessuali, ma anche la brama d’onnipotenza, e quel senso di pienezza cosmica che 247

consegue alla fusione col potere paterno, da parte del bambino. Con questa specie di generalizzazione, Freud riusciva a legittimare, allo stesso tempo, sia la sua visione più larga che quella più ristretta. Questa intricata mescolanza di errore specifico e di corretta generalizzazione ci ha reso lungo e laborioso il compito di sceverare il vero dal falso nella teoria psicoanalitica. Ma, come abbiamo già detto, citando Rank, sembra abbastanza accertato che, se si accentua il ruolo dei terrori di natura esterna — come fece lo stesso Freud, nei suoi lavori tardivi — si giunge a discutere della condizione umana universale, e non più soltanto di spinte specificamente erotiche. Si potrebbe allora affermare che il bambino anela a fondersi all’onnipotenza dei genitori, non sotto l’impulso del desiderio, ma della viltà. Ci ritroviamo cosi su di un terreno nuovo del tutto: il fatto che il transfert possa condurre ad una sottomissione completa, costituisce una prova non già del suo «carattere erotico», ma di un qualcosa totalmente diverso, che ne rappresenta il vero carattere, si potrebbe dire. Come Adler comprese con assoluta chiarezza, assai prima degli ultimi lavori di Freud, il transfert è legato soprattutto a un problema di coraggio31. Come abbiamo appreso in modo conclusivo da Rank e da Brown, è nel motivo dell’immortalità e non in quello sessuale che soprattutto va ricercato il chiarimento dell’umana passione. Che cosa significa, dunque, questo radicale spostamento d’enfasi per la nostra comprensione del transfert? Significa un’affascinante e completa intelligenza della condizione umana.

Il transfert come controllo feticistico 248



Se il transfert è imparentato colla viltà, possiamo allora capire perché esso si riallacci, a ritroso, al periodo dell’infanzia: esso abbraccia l’insieme degli sforzi del bambino per crearsi un ambiente che gli dia soddisfatta sicurezza. Il bimbo apprende ad agire e a conoscere l’ambiente che gli sta attorno, in tal modo da poterne bandire l’ansietà. Ed ecco come si inserisce la fatalità del transfert: mentre uno si costruisce il proprio mondo, fatto di percezione-azione, in modo da eliminarvi una componente basilare, cioè l’ansietà, con questo stesso fatto lo si falsifica in maniera fondamentale. Questo è il motivo per cui gli psicoanalisti hanno sempre considerato il transfert come un fenomeno regressivo, irrazionale, di inane ottimismo sulla possibilità di un automatico controllo del proprio mondo. Silverberg ne dà una classica definizione analitica:

Transfert: indica un bisogno di esercitare completo controllo sulle circostanze esterne… Nella completa gamma delle sue varie manifestazioni… il transfert può essere considerato come il monumento duraturo della profonda ribellione dell’uomo contro la realtà e della sua testarda persistenza a rimanere immaturo32.

Per Erich Fromm il transfert riflette l’alienazione dell’uomo:

Onde superare il proprio senso di vuoto e d’impotenza [l’uomo]… sceglie un oggetto sul quale fa convergere tutte le qualità umane: amore, intelligenza, coraggio, ecc. Sottomettendosi a questo oggetto, egli si sente collegato con le sue proprie qualità e si ritrova 249

forte, saggio, coraggioso e sicuro. Perdere tale oggetto significa essere in pericolo di smarrirsi. Questa meccanica e idolatrica adorazione di un oggetto, basata sul fatto dell’alienazione individuale, costituisce il dinamismo centrale della trasferenza, ciò che le conferisce la sua forza e intensità33.

L’opinione di Jung è pressapoco uguale: il rimanere affascinato da qualcuno è fondamentalmente questione

di uno sforzo costante di consegnarci in potere di un partner, che appare dotato di tutte le qualità che noi stessi non siamo riusciti a conquistare34.

Tale è anche il pensiero di Adler:

[Il transfert]… è fondamentalmente una manovra o una tattica attraverso la quale il paziente si sforza di perpetuare il modo d’esistenza a lui familiare, che dipende da uno sforzo continuo di svestirsi d’ogni potere, per collocarlo nelle mani dell’«Altro»35.

Mi sono dilungato nelle citazioni di questi autorevoli personaggi per un duplice motivo: anzitutto per dimostrare l’universale verità delle loro vedute e, in secondo luogo, per enunciare l’immenso problema sollevato da queste verità. Già siamo in grado d’arguire che il transfert non è il risultato di una viltà fuori regola, ma va piuttosto ancorato ai fondamentali problemi di un organismo vitale che, in definitiva, sono problemi di potere e di controllo, riguardanti la forza per opporsi alla realtà e mantenerla ordinata all’espansione e completamento del nostro 250

organismo. Che c’è di più naturale del scegliere una persona colla quale stabilire tale dialogo colla natura? Fromm usa la parola idolo, che è poi solo un altro modo per indicare un qualcosa che sta a portata di mano. È così che noi inquadriamo la funzione di un transfert, anche negativo o di odio: ci aiuta a fissarci nel mondo, a dare un obbiettivo ai nostri sentimenti, anche se sono distruttivi. È possibile stabilire la nostra base stabile come organismi sia sull’odio che sulla sottomissione. Difatti l’odio ci ravviva ed accende di più, per cui è facile scoprire un odio più intenso negli stati più deboli dell’ego. Occorre però notare che anche l’odio ingrandisce l’altra persona più del dovuto. Come diceva Jung «la forma del transfert negativo, sotto l’aspetto di resistenza, antipatia o odio, riveste l’altra persona di grande importanza, fin dall’inizio…»36. Abbiamo bisogno di un concreto oggetto, per il nostro controllo, e ce lo procuriamo in un qualsiasi modo possibile. In assenza di altre persone per il nostro dialogo di controllo, il nostro stesso corpo può servire come oggetto di transfert, come ha dimostrato Szasz37. I dolori che proviamo, le malattie vere o immaginarie, diventano qualcosa a cui far riferimento, ci impediscono di scivolare fuori dal mondo e di affondare nella disperazione della solitudine e del vuoto completo. In una parola, la malattia diventa oggetto. Il transfert è rivolto al nostro corpo, come se fosse un amico su cui possiamo appoggiarci per trarne forza, o un nemico che ci minaccia pericoli. Ci fa, comunque, sentire reali e ci offre una qualche presa sul nostro destino. Da tutto questo, già possiamo trarre un’importante conclusione: il transfert è una forma di feticismo, una forma 251

di ristretto controllo, che stabilizza i nostri problemi. Noi prendiamo la nostra impotenza, il nostro senso di colpa, i nostri conflitti e li fissiamo in un qualche punto dell’ambiente che ci sta attorno. Noi possiamo scegliere un posto o una cosa qualsiasi per proiettarvi le nostre angosce, che costituiscono sempre il punto focale di tutto e la radice della nostra disponibilità a farci schiavi. Jung ha espresso splendidamente questo concetto: «… se non vogliamo cadere vittime delle nostre illusioni, dovremo — attraverso un’accurata analisi di tutto ciò che ci affascina — estrarre da esso uno spicchio della nostra personalità, quasi la quintessenza, per arrivare, a poco a poco, a riconoscere che noi incontriamo ripetutamente noi stessi, nei sentieri della vita, sotto migliaia di travestimenti»38.

Il transfert come paura della vita

Ma questa discussione ci ha ancor più allontanati da un semplice approccio clinico al fenomeno del transfert. Sta il fatto che il restare affascinati è un riflesso della fatalità della condizione umana e — come già s’è visto nella Parte I di questo libro — essa rappresenta un qualcosa di troppo pesante da accettare, che finisce per sconvolgerci. È su questo problema del transfert che io intendo ora fermarmi. Tra tutti gli studiosi che l’hanno affrontato, nessuno ha scritto con più vasto respiro e maggiore profondità di quanto abbia fatto Rank, a proposito del significato del transfert. In svariati e differenti contesti, abbiamo visto come il sistema di pensiero di Rank poggi sul fatto dell’umana 252

paura, sia della vita che della morte. Voglio qui sottolineare quanto radicale e globale sia tale paura. Come scrisse William James, colla solita sua chiarezza, la paura è «paura dell’universo» e abbraccia la paura dell’infanzia, quella del momento in cui si emerge nel mondo, e quella dell’affermazione della propria autonoma individualità, con un proprio modo di vivere e una propria esperienza. Come diceva Rank: «Mentre l’adulto può provare paura della morte o del sesso, il bambino ha paura della stessa vita»39. Quest’idea è stata ampiamente divulgata da Fromm, in diversi suoi libri, come la «paura della libertà» (Cf Fuga dalla libertà, Edizioni Comunità, 1981, 15 ed.). Schachtel l’ha espressa molto bene parlando della paura di emergere dal proprio «rintanamento». Ed è su questa base che noi intendiamo l’«incestuosità» della simbiosi colla madre e la famiglia: le persone rimangono come «avviluppate dentro» un utero protettivo, se così si può dire. Esattamente questo voleva significare Rank, quando parlava di «trauma della nascita», prendendolo come paradigma di tutti gli altri traumi dell’emergere. La cosa è logica, perché se il mondo, nel suo insieme, è in radice globalmente pauroso alle naturali percezioni dell’animale umano ai suoi inizi, come potrà questi emergervi con fiducia? Soltanto se gli riuscirà di svestirlo dei suoi terrori. Possiamo, quindi, capire l’essenza del transfert come addomesticamento del terrore. In concreto, l’universo è sede di forze schiaccianti e, al di là di noi stessi, noi percepiremo l’incombere del caos. Non possiamo far molto nei confronti di queste incomprensibili forze, se non giungiamo a convincerci che esse sono affidate ad alcune speciali persone. Il bambino, nella sua naturale percezione dello 253

spavento e del terrore, finisce col concentrarli su esseri individuali e ciò gli permette di limitare gli oggetti delle sue paure ad un unico posto, anziché trovarseli sparsi in un caotico universo. Cosa mirabile! L’oggetto del transfert, rivestito dei trascendenti poteri dell’universo, si trova così dotato della capacità di controllare, ordinare e combattere tutte le forze avverse!40 Nell’espressione di Rank, l’oggetto del transfert viene a rappresentare — per l’individuo — «le grandi forze biologiche della natura, alle quali emotivamente è vincolato l’ego e che, perciò, costituiscono l’essenza dell’umano destino»41. In questo modo il bambino può controllare il suo fato. Poiché, in ultima analisi, il potere significa dominio sulla vita e sulla morte, il bambino può ora fiduciosamente emergere, in forza del suo rapporto coll’oggetto del transfert, che diventa la base di un’attività sicura. Tutto ciò che gli si richiede è di conformarsi ad esso nei modi insegnatigli, riconciliandoselo se si fa terribile, e servendosene serenamente per le normali attività quotidiane. Per questa ragione Angyal poteva a buon diritto affermare che il transfert non è «uno sbaglio emotivo», ma uno sperimentare l’altro come proprio intero mondo, esattamente allo stesso modo in cui il focolare domestico rappresentava, di fatto, per il bambino il mondo intero42. Questa totalitarietà dell’oggetto del transfert serve anche a spiegarne l’ambivalenza. In qualche complesso modo, il bambino è spinto ad opporsi al potere dei genitori, col suo terrificante miracolismo. Essi appaiono altrettanto sconvolgenti quanto lo è lo sfondo della natura da cui emergono. Il bambino impara ad accettarli come cosa naturale, attraverso tecniche d’accomodamento e di manipolazione, ma, allo stesso tempo, egli deve centrare su 254

di loro l’intero problema del terrore e del potere, facendo di essi il punto focale di tutto, proprio per riuscire a sminuire e rendere naturale il mondo che su di essi s’impernia. Ci rendiamo conto, a questo punto, delle ragioni per cui l’oggetto del transfert solleva tanti problemi: il bambino, attraverso di esso, riesce ad avere un parziale controllo del suo destino più generale, ma solo per ritrovarsi con quest’altro fato più specifico. Legandosi ad una persona per controllare il proprio terrore in modo automatico e per mediare il miracolo e sconfiggere la morte per mezzo di essa, egli viene a sperimentare il «terrore da transfert», e cioè la paura di perdere il suo oggetto, di spiacergli, di non riuscire a sopravvivere senza di esso. Il terrore della propria limitatezza e impotenza ancora l’ossessiona, ma è ora centrato sull’oggetto stesso del transfert. Quanto implacabilmente ironica è mai la vita umana! L’oggetto del transfert prende sproporzionato risalto nella vita, perché tutta la riassume in sé, col suo destino. E diventa anche il centro focale del problema della libertà dell’individuo, che compulsivamente da esso dipende, sommando in sé tutte le altre dipendenze ed emozioni43. Questa conseguenza si verifica sia che si tratti d’oggetti di transfert positivo che negativo. Nel transfert negativo l’oggetto diviene il centro del terrore, ora sperimentato come male e coercizione: vanno qui identificate la maggior parte delle amare memorie d’infanzia e le accuse rivolte ai genitori. Di essi noi ci sforziamo di fare gli unici responsabili della nostra infelicità in un mondo fondamentalmente demoniaco, in cui non esistono il terrore e il male, ma soltanto i nostri genitori. Anche nel transfert negativo si ha, dunque, un tentativo per controllare il nostro destino in modo automatico. 255

Non stupisce, perciò, che Freud si spingesse ad asserire che il transfert rappresentava «un fenomeno universale della mente umana» e che esso «domina l’insieme del rapporto che ciascuna persona ha col proprio ambiente umano»44. Come non meraviglia che Ferenczi potesse parlare della «passione nevrotica per il transfert» e di «affetti dei nevrotici, affamati di stimoli»45. Ma non dobbiamo parlare soltanto di nevrotici, ma di una fame appassionata, da parte di ciascuno di noi, per stimoli localizzati, che assumano il posto dell’intero universo. O, forse, sarebbe meglio dire che il transfert prova che ognuno è nevrotico, poiché esso rappresenta una universale distorsione della realtà, attraverso un artificio che la fissa. Ne consegue che quanto più debole è l’ego e forte la paura, tanto più robusto è il transfert. Ciò spiega la particolare intensità del transfert degli schizofrenici: la loro totale e disperata focalizzazione di orrore e miracolo in un’unica persona, l’abbietta resa e adorazione verso di lui, in un modo quasi trasognato ed ipnotico. Anche solo il suono della sua voce, o il tocco di un lembo dell’abito o il privilegio di baciargli la mano, rappresenta per loro il paradiso. Questo è un destino abbastanza logico per l’individuo irrimediabilmente degradato: quanto più si teme la morte e ci si sente vuoti e impotenti, tanto più uno popola il proprio mondo con onnipossenti figure paterne e soccorritori miracolosi46. Il transfert schizofrenico ci aiuta a capire quanto naturalmente noi si rimanga incollati all’oggetto, anche in un normale transfert. Tutto il potere per curare i mali della vita e le disgrazie del mondo si accumula nell’oggetto del transfert. Come negare, allora, di trovarci sotto il suo incantesimo? Richiamiamo l’affermazione, fatta antecedentemente, che 256

il transfert non prova l’«erotismo», su cui insisteva Freud, ma piuttosto la realtà del terrore annesso all’umana condizione. Il transfert esasperato dello schizofrenico ci aiuta a capire la verità di quanto abbiamo affermato. Dopo tutto, una delle ragioni per cui il mondo dello schizofrenico risulta così terrificante, è appunto perché egli lo vede, generalmente, con contorni non sfumati dalla repressione. Ed è anche così che egli vede l’oggetto umano del suo transfert in tutto il suo pauroso fulgore, come già s’è detto in un antecedente capitolo. Il viso umano è davvero in se stesso un fondamentale prodigio, che intimidisce e quasi paralizza col suo splendore, se uno s’attarda a considerare quanto sia mirabile. Ma normalmente noi passiamo sopra la sua miracolosità per poterci muovere con distacco e servirci di facce e corpi per le nostre ordinarie faccende. Possiamo, forse, ancora ricordare che, da bambini, v’erano persone a cui non osavamo parlare, o che addirittura non ardivamo guardare, con un atteggiamento che non potrebbe essere continuato da adulti senza serie conseguenze deformanti. Ma, a questo punto, siamo anche in grado di dedurre che questa paura di guardare bene in faccia l’oggetto del transfert non necessariamente corrisponde alla catalogazione di Freud, come paura del terrificante padre primordiale. Si tratta, piuttosto, di paura della realtà percepita attraverso un’intensa fecalizzazione di quanto in natura appare straordinario e possente: la paura d’essere sopraffatti dalla verità dell’universo quale esiste e quale appare concentrato nell’aspetto d’un viso umano. Freud è però nel giusto quando parla di padri tirannici: quanto più terrificante è l’oggetto, tanto più travolgente è il transfert; quanto più il poderoso oggetto incarna in se stesso le forze naturali del 257

mondo, tanto più può diventare terribile nella realtà dei fatti, anche senza il contributo dell’immaginazione.

Il transfert come paura della morte

Se la paura della vita è un aspetto del transfert, al suo fianco si pone subito un’altra paura, che le è compagna. Al momento in cui il bambino prende coscienza della morte, si profila per lui una doppia ragione per cercare rifugio sotto l’ala dei poteri dell’oggetto di transfert. Il complesso di castrazione rende il corpo argomento d’orrore, ed in questo caso è l’oggetto di transfert ad assumere il peso del reietto disegno di diventare causa sui. Che il bambino se ne avvalga per assicurarsi la propria immortalità, è del tutto naturale. Non posso trattenermi dal citare la celebre e sentimentale dichiarazione riguardo a Tolstoj, fatta da Gor’kij, perché riassume perfettamente questo aspetto del transfert: «Non mi sento orfano sulla terra, finché vive questo vecchio!»47. L’espressione sgorga dal profondo dell’animo di Gor’kij e non va catalogata come pio desiderio e confortante pensiero, ma piuttosto come ferma convinzione che, finché Tolstoj (oggetto di transfert) vive, costituirà un sicuro rifugio. L’uso dell’oggetto di transfert spiega l’impulso a divinizzare l’«altro» e il continuato collocamento sugli altari di scelte persone, cui s’attribuiscono straordinari poteri: più sono eccelsi e più premono su di noi! Veniamo a condividere la loro immortalità e quindi li facciamo immortali48. Harrington ha icasticamente espresso questo concetto: «Io assumo una figura più rilevante nell’universo, 258

perché conosco quel personaggio famoso; quando l’arca salperà, a bordo ci sarò anch’io!»49. L’uomo — come affermava Rank — ha sempre fame di cose che lo rendono immortale. I gruppi sono nell’identica situazione e ciò spiega la loro costante ricerca di eroi:

Ogni gruppo, piccolo o grande che sia, in quanto tale, è animato da una specie di impulso «individuale» a eternizzarsi, e per questo scopo tende a crearsi degli eroi, a sfondo nazionale, religioso o artistico…: i singoli spianano la via per tale imperitura conquista da parte della collettività…50.

Questo aspetto della psicologia di gruppo fornisce la spiegazione di alcuni fatti che altrimenti sconcertano la nostra immaginazione. Non ci ha mai sbalordito l’incredibile scena dell’angoscia dimostrata da folle immense, quando muore qualcuno dei loro capi? Scene isteriche si ripetono tra le masse che accalcano, a volte per intere giornate, le vie e le piazze: gente adulta che ulula e geme disperata, e si fa travolgere e travolge gli altri, nel tentativo d’avvicinarsi alla bara. Che senso ha questa massiccia e nevrotica sceneggiata della disperazione?51 L’unico significato che le si può dare, è che sta a dimostrare lo choc profondo che la gente sperimenta, perdendo qualcuno che rappresenta, per loro, un baluardo contro la morte. Le masse percepiscono, in qualche oscuro recesso della loro personalità, che «colui, nel quale avevano localizzato la loro capacità di controllo sulla vita e sulla morte, è stato spazzato via e che quindi la loro stessa immortalità è resa dubbia». Tutte le lacrime e tutti gli 259

isterismi sono in sostanza, rivolti a se stessi e non al trapasso d’un grande personaggio: è la loro fine imminente che li preoccupa! Si passa subito a ribattezzare strade e piazze cittadine, e magari anche montagne e aeroporti, col nome del defunto, quasi per proclamare che egli, a dispetto della morte, rimarrà immortale nella società, in modo fisico. Basta pensare ai lutti non lontani per Kennedy in America, per De Gaulle in Francia, per Nasser in Egitto, dove l’esplosione emotiva fu ancora più elementare, perché si giunse a richiedere la ripresa immediata delle ostilità contro Israele. Come già abbiamo visto, soltanto dei capri espiatori possono allentare nella gente la loro squallida paura della morte: «Io sono sotto la minaccia della morte: ammazziamo, quindi, a tutto spiano!». Nel dare l’addio a una figura circonfusa d’immortalità, la spinta verso simile ricerca di capri espiatori dev’essere particolarmente forte, come lo è il pericolo d’abbandonarsi al timor panico, secondo quanto Freud ha dimostrato52. Quando il capo viene a morire, di colpo si spezza l’amminicolo usato per rifiutare il terrore del mondo ed allora è perfettamente normale sperimentare quel panico, sempre incombente sullo sfondo. Il vuoto di una base d’immortalità, creato dalla definitiva scomparsa del leader, è senza dubbio doloroso da sopportare, soprattutto se egli possedeva un rimarchevole carisma o assommava in sé un qualche eroico programma che entusiasmava la gente. Non può non indurci a riflettere il fenomeno di una delle più scientificamente avanzate nazioni del XX secolo, dove s’è fatto ricorso a tecniche già usate nell’antico Egitto, per imbalsamare il leader della loro rivoluzione. Si direbbe che i russi non potessero lasciar perdere Lenin, neanche da morto, e che per questo 260

l’abbiano sistemato nel suo mausoleo come simbolo permanente d’immortalità. Si ha così il caso d’una società dichiaratamente irreligiosa, che organizza pellegrinaggi ad una tomba, mentre seppellisce personaggi «eroici» nel «muro sacro» del Cremlino, trasformato in «santuario». Si possono chiudere quante chiese si vogliono e vantare l’umanesimo materialista d’un capo e del suo movimento, ma quando si giunge ad un confronto coll’umana paura della morte, non c’è nulla e nessuno che possa restare imperturbabilmente laicistico. Il terrore dell’uomo è sempre — nell’eloquentissima frase popolare — un «sacro terrore», perché inevitabilmente collegato colle estreme cose della vita e della morte53.

I motivi ontologici gemelli

Molto di ciò che abbiamo detto sul transfert mette piuttosto in cattiva luce la specie umana. È opportuno, quindi, cambiar tono per completare l’argomento. Rimane vero che il transfert è un riflesso di codardia di fronte sia alla vita che alla morte, ma contemporaneamente è anche un riflesso dell’impulso all’eroismo e alla disponibilità. Ciò pone la nostra discussione riguardo al transfert su un piano ancor diverso, alla cui nuova prospettiva intendo ora richiamare il nostro attento esame. Un fenomeno che ha sempre meravigliato l’uomo è la sua interna voglia d’esser buono, l’intima sensibilità al «come le cose dovrebbero andare», e quell’appassionata e struggente tendenza a innamorarsi di tutto ciò che è bello, buono e perfetto. Noi chiamiamo «coscienza» questa sensibilità 261

interiore. Per il grande filosofo Immanuel Kant, uno dei due più sublimi misteri della creazione era rappresentato da questa «legge morale interiore» all’uomo, che non trova spiegazioni perché totalmente innata. La natura porta questo sentimento scritto nel proprio cuore, nell’intimo di organismi sempre in lotta. Questa autocoscienza, presente nella natura, è più sbalorditiva di qualsiasi racconto di fantascienza. Qualsiasi filosofia o scienza, che voglia discutere con intelligenza del significato della vita, deve tener conto di questo fatto e trattarne col più alto senso di riverenza, come ben capirono due grandi pensatori del secolo XIX, quali Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini54. Curiosamente, questa vitale ontologia degli organismi autocoscienti, che anche per studiosi come Thomas Davidson e Henri Bergson occupa il posto centrale, ha sollevato pochissimo interesse nella scienza moderna, fino all’avvento della nuova «psicologia umanistica». Questo fatto da solo spiega — a parer mio — l’incredibile sterilità delle scienze umane del nostro tempo, e soprattutto la loro tendenza a negare e manipolare l’uomo. Penso che la vera grandezza del contributo di Freud vada ancorata al diretto aggancio che esso mantiene con questa tradizione del pensiero ontologico. Freud ha dimostrato come le particolari regole di bontà e coscienziosità fossero costruite nel bambino in una data società, e come il bambino apprenda le norme per sentirsi buono. Illustrando l’artificiosità di tali norme, Freud ha liquidato i sogni libertari dell’illuminismo e denunciato le artificiali costrizioni morali imposte al prorompente autosentimento della forza vitale. Ma il riconoscimento di queste coartazioni sociali lascia 262

ancora inspiegato l’impulso interiore dell’individuo umano a sentirsi buono e giusto: il preciso fenomeno che riempiva di stupore Kant sembra esistere indipendentemente da qualsiasi norma. Come già ho avuto occasione di dire, per quanto ci risulta, «tutti gli organismi hanno tendenza a sentirsi buoni in se stessi»55 e si sforzano di approfondire questo sentimento. Come da sempre hanno sottolineato i filosofi, è come se il cuore della natura pulsasse gioioso nella propria autoespansione. Quando però ci si spinge al livello dell’uomo, questo processo assume il suo più grande interesse, perché raggiunge la massima intensità, anche se relativamente non determinato, perché l’uomo pulsa e procede sia spinto dal suo organismo, sia per decisione ragionata. Tale espansione diventa, nell’uomo, quel tremendo impulso a conseguire quel sentimento di «giustezza» riguardo a se stesso e al proprio mondo. Questo rozzo modo di esprimerci vuole indicare ciò che l’uomo veramente si sforza di raggiungere, di cui la coscienza è il risultato necessario. L’uomo è il solo organismo esistente in natura, fatalmente destinato ad arrovellarsi sul significato concreto di sentirsi «giusto». Ma, oltre a questo particolare fardello, la natura ha disposto che riesca impossibile all’uomo sentirsi giusto in modo spiccio. E qui dobbiamo affrontare un paradosso che si spinge nel segreto ultimo degli organismi dotati di vita e che si fa più stridente nell’uomo. Tale paradosso congloba due motivi o impulsi che sembrano far parte della consapevolezza della creatura e che puntano in direzione opposta. Da un lato, la creatura è spinta da un prepotente desiderio a identificarsi col processo cosmico, a fondersi col resto della natura; e d’altro lato, essa vuole essere unica ed 263

emergere come un qualcosa di diverso e staccato. Il primo impulso — di fondersi e perdersi in qualcosa di più grande — deriva dall’orrore che l’uomo prova per l’isolamento, in cui si sente condannato a dover contare soltanto sulle sue deboli forze, limitato alle quali l’uomo si riduce a povera cosa, fragile e maldestro di fronte alla natura trascendente. Se l’uomo s’arrende al sentimento naturale di dipendenza cosmica, al desiderio di far parte di qualcosa di più grande, ciò lo mette in pace e in unità con se stesso, gli dà un senso di autoespansione, in una misura che lo sorpassa ed eleva la sua esistenza, che raggiunge così un sentimento di trascendente valore. È questa la motivazione cristiana dell’Agape, in un naturale fondersi della «Creazione nell’amore», che tutto trascende. Come affermava Rank, l’uomo anela ad un «sentimento di parentela con il Tutto» e desidera «sentirsi liberato dall’isolamento» e diventare «parte di un più grande e alto insieme». Istintivamente la persona si spinge alla ricerca di un io che lo sorpassi, per poter capire chi veramente egli sia e per sentire che egli concretamente è al suo posto nell’universo. Assai prima che Camus scrivesse l’epigrafe con cui s’apre questo capitolo, Rank proclamava: «Soltanto vivendo in stretta unione con un ideale — Dio, eretto al di fuori del proprio ego — uno è in grado di vivere»56. La validità dell’opera di Rank, che gli permise di tracciare un così preciso ritratto psicologico dell’uomo in genere, va ravvisata nel fatto che gli riuscì di collegare le intuizioni della psicoanalisi clinica con le motivazioni ontologiche fondamentali della creatura umana. In questo modo egli poté scandagliare a fondo i motivi umani e forgiare una psicologia di gruppo in fedele corrispondenza colla 264

condizione umana. Per limitarci ad un aspetto, in essa è possibile intravvedere che il fenomeno definito dagli psicoanalisti come «identificazione», è un impulso naturale ad aggregarci a quelle poderose forze che ci trascendono57. L’identificazione che si ha nell’infanzia non è altro che un’istanza di tale impulso: il bambino si fonde coi rappresentanti del processo cosmico, in ciò che abbiamo denominato «focalizzazione del transfert», per quanto riguarda le sue percezioni del terrore, della maestà e della potenza. Quando uno s’immerge con i genitori o il gruppo sociale, concretamente egli si sforza di vivere in un contesto di significato più largo. Non afferreremmo le complesse implicazioni dell’eroismo, se non cogliessimo il significato di questo, come ci sfuggirebbe il senso completo della persona, che deriva ad ogni uomo non soltanto dal supporto che la trascendenza gli conferisce, ma anche perché egli è un essere fatto per la gioia e per l’amore. L’impulso verso l’immortalità non è un semplice riflesso derivato dall’ansietà della morte, ma anche un’aspirazione che fluisce da tutto l’essere verso la vita. Forse questa naturale aspirazione della creatura che si sente sola, basta a spiegare perché il transfert rappresenti una tendenza così universale. In questa prospettiva, noi comprendiamo anche l’idea di Dio, come logico compimento di quel lato della natura umana, che si rivela nell’Agape, di cui Freud si faceva beffe, come della religione che la predicava. Freud pensava che la fame che l’uomo aveva di Dio, rappresentasse quanto di più immaturo ed egoistico esiste nell’uomo, e precisamente la sua impotenza e paura, e la sua bramosia di protezione ed appagamento completo. Rank invece si rendeva conto che la nozione di Dio non era mai stata un semplice riflesso di una 265

paura superstiziosa ed egoistica, come pretendevano i cinici e i cosiddetti «realisti». Al contrario si trattava di una germinazione da un genuino anelito di vita, di uno slancio verso una pienezza di significato, come insegnava James58. Pare che la arrendevolezza che contraddistingue l’eroismo comunitario, promani dalla stessa energia vitale e costituisca uno degli autentici sublimi misteri della vita creata. E sembra che questa vitale energia travalichi i confini della terra, il che rappresenta una delle ragioni per cui l’uomo ha sempre posto Dio in cielo. Abbiamo già detto come sia impossibile all’uomo sentirsi «giusto» senza esitazioni ed ora ne possiamo vedere i motivi. L’uomo può allargare il senso che ha di se stesso, non soltanto fondendosi nell’Agape, ma anche attraverso l’altro motivo ontologico dell’Eros, che è impulso ad una vita più intensa, ad un’esperienza più eccitante, a uno sviluppo delle proprie energie, collo scopo di realizzare il suo ruolo di creatura unica, che emerge e brilla nel mondo. Dopo tutto, per la creatura, la vita rappresenta una sfida e un’opportunità affascinante per espandersi. Dal punto di vista psicologico, questo è lo stimolo all’individuazione: come posso realizzare i miei doni particolari e dare il mio contributo al mondo attraverso la mia autoespansione? Siamo, alfine, in grado di capire quella che potremmo definire la tragedia ontologica della creatura, che è esclusiva dell’uomo: se egli s’arrende all’Agape, mette in pericolo il suo sviluppo e il suo contributo attivo agli altri aspetti della vita. Se invece dà troppo spazio all’Eros, rischia di isolarsi dalla dipendenza che gli è connaturale e da un dovere che lo lega alla creazione nel suo insieme, poiché si sottrae al potere salvifico della gratitudine e dell’umiltà, che egli 266

dovrebbe naturalmente provare nella sua condizione di creatura, cui è stata concessa l’esperienza della vita. L’uomo è così sottoposto alla lancinante tensione di questo dualismo. L’individualismo comporta, per la creatura umana, il porsi in antitesi col resto della natura e il ritrovarsi in un insostenibile isolamento, che tuttavia gli è necessario per svilupparsi in modo distinto. Esso crea quella differenza che diventa, però, un peso, perché finisce coll’evidenziare contemporaneamente la sua pochezza e la sua esasperata differenziazione. È questo, appunto, a creare il suo naturale senso di colpa, che si concretizza in una sensazione d’indegnità e di cattiveria, accompagnata da interno scontento59. Perfettamente fondato ne è il motivo, poiché l’uomo — paragonato al resto della natura — è un essere molto deludente, in balia di terrori e debolezze. Il problema diventa, quindi, come liberarsi di quella malvagità e naturale senso di colpa, il che, in definitiva, si riduce a un ribaltamento della propria posizione vis-à-vis dell’universo. Si tratta, insomma, di raggiungere statura, importanza e durata, maggiore di quanta uno ne abbia realmente. Tutto il fondamento dell’impulso alla bontà è diventare un qualcosa che ha valore permanente60. Ce ne rendiamo istintivamente conto quando ci sforziamo di consolare i nostri bambini, scossi da incubi e altre paure. Diciamo loro di non preoccuparsi, perché sono «buoni» e niente può far loro del male e cose simili, dove alla bontà corrisponde sicurezza e speciale favore. Si potrebbe affermare che l’impulso alla moralità si basi interamente sulla situazione fisica della creatura: l’uomo è morale perché ha coscienza del suo stato e di cosa può attendersi, a differenza di tutti gli altri animali. Egli si serve della 267

moralità, nello sforzo di meritarsi una speciale duratura collocazione nell’universo, in un duplice modo: anzitutto egli sormonta la malvagità (pochezza, insignificanza, limitazione), conformandosi alle norme emanate dai rappresentanti del potere naturale (gli oggetti del transfert), e s’assicura così un’appartenenza indubbia. La cosa è del tutto naturale, in base a quanto s’inculca al bambino che, quand’è buono, non ha nulla da temere. In secondo luogo, egli tenta di superare la cattiveria, sviluppando una qualche sua dote davvero eroica, per diventare così un essere eccezionale. Ci chiediamo, forse, la ragione per cui una delle peculiarità principali dell’uomo sia la tormentosa insoddisfazione di sé e l’incessante autocritica. In realtà, esse rappresentano il solo mezzo per vincere il senso di irrimediabile limitatezza, connesso alla sua concreta situazione. Dittatori, predicatori, sadici, sanno bene che la gente ama essere fustigata con accuse roventi circa la loro fondamentale indegnità, perché esse riflettono le loro precise convinzioni nei proprii riguardi. Non è che il sadico crei il masochista: se lo ritrova già fatto e preparato! Così alla gente viene offerto un modo di superare la loro indegnità, idealizzando il proprio ego, innalzato ad autentico livello eroico. In tale maniera l’uomo stabilisce con se stesso un dialogo complementare, naturale alla sua condizione. Egli si autocritica di non saper raggiungere quegli ideali eroici, che gli sono indispensabili, per essere veramente una creatura d’eccezione. Risulta chiaro che l’uomo chiede l’impossibile: vuole perdere il proprio isolamento e preservarselo nel contempo; non riesce a sopportare il senso di separazione e tuttavia non 268

può acconsentire al totale soffocamento della sua individua vitalità; vuole autoespandersi fondendosi con il possente al di là che lo trascende, ma all’atto stesso di fondersi vuol rimanere isolato e schivo, mentre persegue un suo proprio schema di autosviluppo, sia pure su scala ridotta. Ma un simile schema va a vuoto, perché smentisce la vera tensione del dualismo. Ovviamente non risultano compatibili la fusione nel potere di qualcos’altro e lo sviluppo di un proprio potere personale allo stesso tempo, almeno non senza ambivalenza e un pizzico di autoinganno. Rimane, tuttavia, un modo per aggirare il problema: uno può — se così si può dire — «controllare lo stridore della contraddizione» e scegliere un certo genere adatto di al di là, che gli consenta di praticare liberamente l’autocritica e l’autoidealizzazione61. In altre parole, ci si può sforzare di mantenere al sicuro il proprio al di là. L’uso fondamentale del transfert, o meglio, di ciò che più opportunamente potremmo chiamare «eroismo da transfert», è la pratica di un eroismo salvaguardato. In esso è percepibile la portata del dualismo ontologico delle motivazioni, che sfocia nel problema del transfert e dell’eroismo, riguardo al quale siamo ora in grado di tirare alcune conclusioni.

Il transfert come impulso ad un più alto eroismo

Il succo del nostro breve discorso sulle motivazioni ontologiche consiste nel rendere inequivocabilmente chiaro il concetto che il transfert è collegato coi fondamenti stessi della vita degli organismi. Siamo ora in grado di capire appieno quanto sarebbe sbagliato guardare al transfert in modo completamente denigratorio, sapendo com’esso 269

adempia a funzioni così vitali nel conseguimento della completezza umana. L’uomo ha bisogno di impregnare la propria vita di valori, per potersi convincere della sua bontà. L’oggetto del transfert rappresenta un’istintiva feticizzazione, che va incontro alle brame e agli sforzi più elevati dell’uomo, dando così una riprova di quale meraviglioso talento esso rappresenti. Si tratta di una forma di feticismo creativo, che localizza la fonte da cui le nostre vite traggono quelle energie di cui necessitano. Che c’è di più richiesto del possesso dell’immortalità? Quanto splendido e sbrigativo è il poter concentrare l’intero nostro anelito d’immortalità come parte di un dialogo con un singolo essere umano! Su questo nostro pianeta, non sappiamo bene cosa l’universo esiga da noi e che cosa sia disposto a darci. Non possediamo una risposta sicura all’interrogativo tormentoso di Kant circa il nostro dovere, su ciò che dovremmo compiere sulla terra. Viviamo in totale oscurità riguardo a chi siamo e al perché siamo qui, e tuttavia sappiamo che ciò deve avere un qualche significato. Che c’è, dunque, di più naturale, allora, per trovare la pronta soluzione di questo indicibile mistero, che il rapportare le nostre eroiche fatiche ad un altro essere umano, in grado d’assicurarci quotidianamente se le nostre attività siano buone abbastanza da garantirci l’eternità? Se qualcosa è cattivo, lo sappiamo subito dalle sue reazioni e siamo così in grado di cambiare. Rank riassume questo vitale argomento in un paragrafo ricco e sintetico:

Qui s’affaccia l’antico problema del bene e del male, che originariamente riguardava l’essere degni dell’immortalità, col significato emotivo di piacere o 270

dispiacere ad un’altra persona. In questa prospettiva… la personalità viene costruita e plasmata in vista della vitale necessità di compiacere l’altra persona, che noi costituiamo nostro «Dio», e di non incorrere nella sua riprovazione. Tutte le contorsioni dell’… ego, con gli artificiosi aneliti di perfezione e le inevitabili ricadute nel male, sono il risultato di questi sforzi di umanizzare il bisogno spirituale di bontà62.

Come vedremo nei prossimi capitoli, uno può alimentare ed estendere la propria identità con qualsiasi genere di «dèi», celesti o infernali che siano. La maniera in cui una persona risolve la sua naturale brama di autoampliamento e di significanza, determina la qualità della sua esistenza. L’eroismo da transfert conferisce all’uomo ciò che esattamente gli occorre, e cioè un certo grado di ben definita individualità, un punto preciso di riferimento per praticare le sue buone opere; e tutto ciò entro limiti accertati di sicurezza e controllo. Se l’eroismo da transfert fosse un eroismo garantito sicuro, potremmo pensarlo di qualità inferiore, perché per definizione l’eroismo costituisce una sfida alla sicurezza. Ma ciò che ci preme sottolineare è che tutti gli sforzi di perfezione, gli spasimi e le manovre per compiacere l’altro, non sono necessariamente vili o snaturati. Ciò che incide negativamente sull’eroismo da transfert è che il suo procedimento è inconscio e di origine riflessa, anziché sotto il pieno controllo dell’individuo. La terapia psicoanalitica affronta direttamente questo problema, perché al di là di tutto questo, è l’altro a rappresentare il destino naturale d’un uomo. Questi è costretto a misurare quanto fa, sul 271

metro della bontà che ciò riveste per le altre creature sue compagne, poiché esse formano il suo ambiente più esigente ed immediato, non tanto in senso fisico, quanto spirituale. Gli esseri umani sono i soli che mediano significato: ciò vale a dire che esse esprimono l’unico significato umano che conosciamo. Jung ha scritto pagine brillantemente acute sul transfert, il cui impulso egli ha costatato così forte e naturale, da giungere a definirlo «un istinto», o una «libido d’apparentamento». Questo istinto — egli afferma — non può venir appagato in qualsiasi modo astratto:

Esso esige la connessione umana. Ciò costituisce il midollo dell’intero fenomeno del transfert e non è possibile esorcizzarlo coi ragionamenti, perché il rapporto i con se stessi comporta insieme il legame con gli altri uomini63.

Un secolo prima Hermann Melville aveva posto lo stesso pensiero sulla bocca del capitano Ahab:

Vicino! Stammi vicino Starbuck. Lascia ch’io guardi dentro un occhio umano: è meglio che fissare il mare o il cielo. Meglio persino che contemplare Dio. Per la verde campagna, per la lucida pietra del camino! Questo è il cristallo magico, o uomo: nel tuo occhio io scorgo mia moglie e mio figlio!64

Il significato di questo bisogno degli altri uomini per affermare se stessi è stato avvertito benissimo dal teologo Martin Buber, che lo chiamò «immaginazione della realtà», perché nell’altra persona uno intravvede quel processo di vita trascendente, che dà al proprio essere quel più ampio 272

nutrimento di cui abbisogna65. Per rifarci a quanto già detto, potremmo ripetere che l’oggetto di transfert contiene un suo specifico incantesimo, una sua peculiare miracolosità, che ci comunica, come per contagio, il significato delle nostre vite, se noi ad esso ci arrendiamo. Paradossalmente, quindi, la capitolazione del transfert, che porta ad arrenderci alla «verità dell’altro», ci dà un senso di eroica convalida di noi stessi. Non stupisce che Jung proclamasse l’impossibilità di «esorcizzarlo coi ragionamenti». E anche causa meraviglia — lo ripetiamo un’ultima volta! — che il transfert costituisca un’universale passione. Esso rappresenta un tentativo naturale per curare i proprii mali e diventare completi, per mezzo di un eroico sviluppo di se stessi nell’altro. Il transfert adombra quella più ampia realtà di cu abbisogniamo, e per questo sia Freud che Ferenczi già affermavano che esso costituisce di per sé una psicoterapia, «uno sforzo autodidattico, da parte del paziente, per curarsi».66 La gente si crea la realtà che le occorre per scoprire se stessa. Le implicazioni di questi rilievi non risultano subito evidenti, ma rivestono una portata immensa per la teoria del transfert. Se esso costituisce uno sforzo eroico verso un «al di là» che conferisce una convalida di se stessi, di cui la gente ha necessità per sopravvivere, cade allora l’idea psicoanalitica del transfert come semplice proiezione irreale67. La proiezione diventa necessaria e desiderabile allo scopo di autorealizzarsi, per impedire che l’uomo venga sopraffatto dalla propria solitudine e separazione, e annientato dal peso stesso della sua vita. Come saggiamente osservava Rank, la proiezione si trasforma in un necessario scaricarsi da parte dell’individuo, perché l’uomo non può vivere chiuso in se stesso per se 273

stesso. Egli è forzato a proiettare all’esterno il significato della sua vita, insieme con le ragioni e i biasimi per essa. Non è che noi ci siam fatti da soli, ma tuttavia siamo incastrati con noi stessi. Da un punto di vista tecnico, si può affermare che il transfert sia una distorsione della realtà, ma a questo punto dobbiamo riconoscere che tale alterazione presenta un doppio aspetto: può basarsi sulla paura della vita e della morte, o può invece trarre origine da uno sforzo eroico per conquistare lo sviluppo di se stessi e raggiungere quell’intimo legame tra il proprio essere interiore e la natura circostante. In altri termini, il transfert riflette tutte le componenti della condizione umana e solleva il più vasto problema filosofico riguardo ad essa. Quanta parte della «realtà» un uomo può ingerire, senza correre il rischio di restarne soffocato? Se Rank, Camus e Buber hanno visto giusto, l’uomo non può reggere da solo, ma deve rivolgersi al di fuori per avere sostegno. Se il transfert rappresenta una funzione naturale dell’eroismo, un’indispensabile proiezione per sopravvivere e fronteggiare la morte e se stessi, s’affaccia questo interrogativo: Che cos’è una proiezione creativa? In che consiste un’illusione promotrice di vita! Queste domande ci porterebbero oltre i limiti previsti in questo capitolo e verranno, perciò, affrontate nella parte conclusiva del volume. 1 CAMUS, The Fall (New York: Knopf, 1957), p. 133 (trad. La Caduta, Milano:

Bompiani, 1974). 2 LEVI C., Of Fear and Freedom (New York: Farrar-Strauss, 1950), p. 135

(Paura della libertà, Torino: Einaudi, 1980, 2 ed. pp. 125-126). 3 Vedere OLDEN «About the Fascinating Effect of the Narcissistic Personality»,

American Imago, 1941, 2:347-355. 274

4 JUNG, Two Essays on Analytical Psychology (Cleveland: Meridian Books,

1956), (trad. Due testi di psicologia analitica, Opere complete, Torino: vol. VII, Torino: Boringhieri). 5 VANCOUVER SUN, 8/31/70, «From Champion Majorette to Frank Sinatra

Date» di Hesse J. 6 FREUD, A General Introduction to Psychoanalysis, 1920 (New York: Garden

City edition, 1943), p. 384. 7

Vedere WOLSTEIN B.: un eccellente studio critico: Transference: Its Meaning and Function in Psychoanalytic Therapy (New York: Grune and Stratton, 1954). 8 FREUD, A General Introduction, pp. 387-388. 9 FERENCZI, «Introjection and Transference», capitolo 2 in Contributions to

Psychoanalysis (London: Philips, 1916) (trad. Introiezione e transfert in Fondamenti di psicoanalisi, vol. I, Firenze: Guaraldi, 1972) e confrontare con HERBERT SPIEGEL, «Hypnosis and Transference, a Theoretical Formulation», Archives of General Psychiatry, 1959, 1:634-639. [* Sono al corrente della quantità enorme di letteratura sul transfert e le sue estensioni e modifiche, con tutti i dibattiti esplosi sull’argomento, ma va oltre alle mie intenzioni anche solo il tentare un abbozzo di tale letteratura in questa sede. Esamineremo più avanti alcuni punti cruciali in cui le nostre nozioni sul transfert vanno oltre Freud e Ferenczi. Ma non sono sicuro che le discussioni tecniche fra gli psicoanalisti sull’esatta natura di transfert, ipnosi e cose del genere, aggiungano molto alla conoscenza fondamentale del fenomeno. Il lontano tentativo fatto da Trigant Burrow per inquadrare il transfert nel totale contesto della scienza sociale, mi sembra chiaramente sbagliato, come si vedrà più avanti (Trigant Burrow, «The Problem of the Transference», British Journal of Medical Psychology, 1927, vol. 7, pag. 193-202). Mi pare ancora corretto Freud nel suo non tenere in alcun conto le teorie fisiologiche di induzione nella trance ipnotica, nonostante l’argomentazione successiva di Kubie e Margolin (cf. Freud, Group Psychology and the Analysis of the Ego, 1922, New York: Bantam Books, 1960, pag. 74; e L.S. Kubie e Sydney Margolin, «The Process of Hypnotism and the Nature of the Hypnotic State», American Journal of Psychiatry, 1944, vol. 180, pag. 611-622); cf. anche Merton M. Gill e Margaret Brenman, Hypnosis and Related States: Psycho-analytic Studies in Regression (New York: Science Editions, 1959, pag. 143, 196-7). L’area in cui 275

sono avvenute le revisioni più significative della teoria del transfert è stata, naturalmente, quella dell’uso e interpretazione che se ne fa in terapia. È chiaro che ciò fuoriesce dalla mia discussione.] 10 FERENCZI, «Introjection and Transference», p. 59. 11 Ibid., p. 61. 12 Ibid., pp. 72,78-79; in corsivo nell’originale. 13 Ibid., p. 68. 14 FREUD, Group Psychology and the Analysis of the Ego, 1921 (New York:

Bantam Books edition 1965), p. 68 (trad. Psicologia delle masse e analisi dell’io, 1921, Freud Opere, vol. 9, Torino: Boringhieri, 1977); cf. anche l’importante apprezzamento di questo riorientamento dato da ADORNO T.W.: «Freudian Theory and the Pattern of Fascist Propaganda», Psychoanalysis and the Social Sciences, 1951, p. 281, nota a pie pagina. 15 FREUD, Ibid., p. 60. 16 FENICHEL O., «Psychoanalytic Remarks on Fromm’s Book, Escape from

Freedom», Psychoanalytic Review, 1944, 31:133-134. 17 FREUD, Group Psychology, p. 16. 18 Ibid., p. 9. 19 FROMM, Heart of Man, p. 107. 20 REDL F., «Group Emotion and Leadership», Psychiatry, 1942, 573-596. 21 Ibid., p. 594. 22 BION W.R., «Group Dynamics - a Review» in Melanie Klein, ed., New

Directions in Psychoanalysis (New York: Basic Books, 1957), pp. 440-447 (trad. Nuove vie della Psicoanalisi, Milano: Il Saggiatore, 1971). 276

23 Ibid., esp. pp. 467-468. Bion inoltre sviluppa questo argomento sulla linea di

Redl. Ci sono differenti tipi di gruppi ed un loro differente «uso» del leader. 24 SCHILDER P., in M. Gill e M. Brenman, Hypnosis and Related States (New

York: Science Edition, 1959), p. 159. 25 CANETTI, Crowds and Power, p. 332. 26* Dopo aver tracciato alcuni dei tratti fondamentali della spontanea simbiosi

tra i gruppi e i loro leaders, dobbiamo esser cauti a non dare una facciata soltanto del quadro, che ne possiede anche un’altra, assai diversa. Il senso di colpa dei seguaci, non così facilmente svanisce per il sortilegio di un capo, per quanto egli assuma tutto su di sé e possa sembrare quasi divino. Non tutti possono essere egualmente compenetrati dall’identificazione con lui, e non per ognuno di loro il senso di colpa è così facile da superare. Molte persone si sentono profondamente in colpa violando un codice morale di lunga data e visceralmente sentito, anche se ciò avviene in nome del leader. Ma, ironicamente, è appunto questo che le lega maggiormente al suo potere e le rende più malleabili nelle sue mani. Se, come abbiamo visto, il gruppo si presenta al leader già costituito e assetato di schiavitù, egli si sforzerà di accentuare ancor più una tale sete. Se, dandosi a lui, essi vogliono sgravarsi da un senso di colpa, egli cercherà di aggiungere sulle loro spalle un carico supplementare di colpa e paura, per restringere maggiormente la sua rete moralistica intorno a loro. Egli acquista una padronanza veramente assoluta sui membri del gruppo, proprio per il fatto che, seguendolo, essi commettono furfanterie. Così egli s’avvale delle loro colpe contro di loro, legandoli più strettamente a sé. Si serve della loro ansietà per i suoi fini e la rinfocola, quando occorra, ed usa anche talora la loro paura di venir smascherati e di dover affrontare la vendetta delle loro vittime, come una specie di ricatto che li mantiene docili e disponibili per altri crimini. Un esempio classico di questa tecnica lo si riscontra tra i capi del partito nazista: si tratta della stessa psicologia, sempre operante e tutt’ora usata tra bande di criminali e gangsters, per rinforzare i mutui legami mediante il delitto. I nazisti lo chiamavano cemento del sangue (Blutkitt), e le SS se ne avvalsero largamente. Per i livelli più bassi, il servizio nei campi di concentramento bastava ad assicurare questa lealtà, ma tale tecnica veniva impiegata ai livelli più alti, soprattutto con personaggi elevati e di talento, ma ricalcitranti, che si volevano reclutare. A costoro veniva imposta l’esecuzione di delitti particolarmente atroci, che li identificavano irrevocabilmente colle SS e li contrassegnavano con una nuova individualità criminale. (Si veda l’eccellente lavoro di Leo Alexander «Sociopsychologic Structure of the SS», Archives of 277

Neurology and Psychiatry, 1948, 59, pag. 622-634). Allorché l’epoca nazista stava per conchiudersi e sempre più saliva l’elenco delle vittime, i capi giocavano sulla paura delle vendette da parte dei parenti ed amici delle vittime uccise dai nazisti. Si trattava di un vecchio trucco, già in uso tra i gangsters, per cementare un’intera nazione. In tal modo, ciò che agli inizi veniva spacciato come missione eroica di un Hitler o di un Manson, finiva col reggersi su bravate e minacce, sullo sfondo di terrori e delitti. I seguaci scoprivano, ad un tratto, di non potersi più sganciare dai piani di quei megalomani, perché non restava loro altra scelta per sopravvivere in un mondo divenuto ostile. I seguaci erano costretti a fare ciò che volevano i capi e che essi, a loro volta, dovevano volere per salvare la pelle. In simile situazione, la sconfitta del capo segnava la fine anche per loro, cui non era consentito di disertare. Fu per questo che la nazione tedesca si batté fino alla distruzione finale di Berlino, e la «famiglia» di Manson stette unita per le sue minacce, anche sotto la persecuzione, finché fuggirono tutti nel deserto per attendervi la fine del mondo. Ciò aggiunge una dimensione nuova alle nostre conoscenze delle ragioni per cui la gente rimane fedele ai capi anche nella sconfitta, come accadde agli egiziani con Nasser. Senza il capo, i seguaci si sentono troppo esposti alle vendette e al totale annientamento. Battezzati al fuoco della prova, non riescono più a star soli. (Su questi argomenti cf. Ernst Kris, The Covenant of the Gangsters, Journal of Criminal Psychopathology, 1942-3, 4, pag. 441-454; Paul Roazen, Freud, pag. 238242; T.W. Adorno, «Freudian Theory and the Pattern of Fascist Propaganda», Psychoanalisis and the Social Sciences, 1951, pag. 298-300; Ed Sanders, The Family: The Story of Charles Manson’s Dune Buggy Attack Battalion [New York: Dutton, 1971]. Cf. pag. 145, 199, 257). 27 WOLSTEIN, Transference, p. 154. 28 FREUD, «The Dynamics of the Transference», 1912, Collected Papers, vol. 2,

p. 319 (trad. Dinamica della traslazione, Freud Opere, vol. 6, Torino: Boringhieri, 1974; cf. anche A General Introduction, p. 387. 29 FREUD, «The Dynamics of the Transference» p. 315. 30 FREUD, The Future of an Illusion, 1928 (New York: Doubleday Anchor

edition, 1964), p. 35: vedere anche la totalità del capitolo III. 31 HEINZ E ROWENA ANSBACHER, (a cura di) The Individual Psychology

of Alfred Adler (New York: Basic Books, 1956), pp. 342-343. 32

SILVERBERG W.V., «The Concept of Transference», Psychoanalytic 278

Quarterly, 1948, 17:319-321. 33 FROMM, Beyond the Chains of Illusion: My Encounter with Marx and Freud

(New York: Simon and Schuster, 1962), p. 52 (trad. Marx e Freud, Milano: Garzanti, 1978). 34

JUNG C.G., The Psychology of the Transference (Princeton: Bollingen Books, 1969), p. 156; (trad. Psicologia del Transfert, Milano: Garzanti, 1974). 35 WALDMAN R., Humanistic Psychiatry: From Oppression to Choice (New

Brunswick, N.J.: Rutgers University Press, 1971), p. 84. 36 JUNG, Transference, p. 12. 37

SZASZ T.S.: Pain and Pleasure: A Study of Bodily Feelings (London: Tavistock, 1957), pp. 98 ss. 38 JUNG, Transference, p. 156. 39 ME, p. 178: WT, p. 82. 40 BP, pp. 130, 136. 41 WT, p. 82. 42 ANGYAL A., Neurosis and Treatment: A Holistic Theory (New York: Wiley,

1965), pp. 120-121. 43 Cf. WT, pp. 82 ss. 44

FREUD, An Autobiographical Study (London: Hogarth, 1946 (trad. Un disturbo di memoria Sull’Acropoli, Freud Opere, vol. 11, Torino: Boringhieri, 1980). 45 FERENCZI, «Introjection and Transference», pp. 38-44.

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46 Cf. SEARLES, «Schizophrenia and the Inevitability of Death», p. 683 anche

Stierlin H., «The Adaptation to the ‘Stronger’ Person’s Reality», Psychiatry, 1958, 21:141-147. 47 BECKER, The Structure of Evil, p. 192. 48 Cf. AA, p. 407. 49 HARRINGTON, The Immortalist, p. 101. 50 AA. p. 411. 51 Cf. La meravigliosa frase è di Harrington, The Immortalist p. 46. 52 FREUD, Group Psychology, pp. 37-38. 53 Su tutti questi argomenti cf. l’eccellente descrizione di ORLANSKY H.,

«Reactions to the Death of President Roosevelt», The Journal of Social Psychology, 1947, 26:235-266; anche DE GRAZIA D., «A Note on the Psychological Position of the Chief Executive», Psychiatry, 1945, 8:267-272. 54 Cf. BECKER, The Structure of Evil, p. 328. 55 Ibid. 56 WT, pp. 74, 155; BP, p. 195; AA, p. 86; ME, p. 142. 57 AA, pp. 370, 376. 58 Cf. PS, pp. 142, 148; BP, pp. 194-195. 59 AA, p. 42. 60 BP, p. 198. 61 ME, pp. 232-234.

280

62 BP, p. 168. 63 JUNG, Transference, pp. 71-72. 64 MELVILLE, Moby Dick, 1851 (New York: Pocket Library Edition, 1955)

pp. 361-362 (trad. Moby Dick, Edizioni Paoline, 1974, 4 ed.). 65 Vedere la mia discussione su questo in Structure of Evil, p. 261. 66 FERENCZI, «Introjection and Transference» p. 47. 67 Vedere anche MEERLOO J.A.M. e COLEMAN M.L., «The Transference

Function: A Study of Normal and Pathological Transference», The Psychoanalytic Review, 1951, 38: 205-221, un saggio pieno di importanti revisioni sui punti di vista tradizionali; e l’importante critica di SZASZ T.S., «The Concept of Transference», International Journal of Psychoanalysis, 1963, 44:432-443.

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VIII OTTO RANK E LA CONFLUENZA DELLA PSICOANALISI VERSO KIERKEGAARD Sembra difficile, per l’individuo, rendersi conto che esiste una distinzione tra le necessità spirituali di uno e i suoi bisogni puramente umani, e che la soddisfazione o il compimento di ciascuno dei due dev’esser ritrovato in sfere diverse. Normalmente riscontriamo questi due aspetti inestricabilmente confusi, nei rapporti che oggi intercorrono, dove una persona è costituita giudice divino, per quanto riguarda il bene e il male in un’altra persona. A lungo andare, un simile rapporto simbiotico diventa moralmente rovinoso per ambedue le parti, perché finisce collo schiacciare sia chi posa a Dio, sia chi si riduce a semplice schiavo. OTTO RANK1

Una delle cose che immediatamente ci colpiscono, scorrendo la storia, è che le creature umane assorbono le loro cognizioni attraverso la cultura. Questa contrasta e trascende la natura, e la sua mira più ambiziosa è un eroico rifiuto dello stato di creature. Tale rifiuto è più effettivo in alcune epoche e meno in altre. Quando l’uomo viveva sicuro sotto l’ombrello dello schema giudeo-cristiano del mondo, egli si sentiva parte di un gran tutto. Per dirla in termini nostri, il suo eroismo cosmico era dettagliatamente tracciato, senza possibilità d’errori: ogni essere umano, da un mondo invisibile scendeva in questo nostro mondo visibile, per un 282

atto di Dio; adempiva al proprio dovere verso il Creatore, vivendo la sua vita con dignità e fede, doverosamente sposandosi e procreando ed offrendo l’intera sua esistenza al Padre, sull’esempio di Cristo. In contraccambio, egli veniva giustificato dal Padre e premiato colla vita eterna. Poco importava che questa terra fosse una valle di lacrime, di terribili sofferenze, di penosi e umilianti quotidiani travagli, di malattie e di morte; un luogo a cui l’uomo sentiva di non appartenere, «il posto sbagliato», come affermava Chesterton2, perché la creatura non poteva attendersi, né raggiungere alcunché per se stessa. Poco importava, perché se tutto ciò serviva a Dio, doveva anche servire al servo di Dio. Per farla breve, l’eroismo cosmico dell’uomo era assicurato, anche se egli era un nulla. Tutto questo rappresentava il più sbalorditivo trionfo di quel quadro del mondo, tracciato dalla dottrina giudeo-cristiana, che poteva abbracciare schiavi, storpi, deficienti, gente semplice e uomini di potere, e renderli tutti sicuri eroi, ritraendosi d’un solo passo da questo universo, per immettersi in una diversa dimensione di cose: la dimensione chiamata Cielo. O, forse, sarebbe meglio dire che il Cristianesimo assunse la consapevolezza della condizione di creature — quella stessa che l’uomo massimamente tendeva a rifiutare — e ne fece la condizione basilare per il suo eroismo.

La soluzione romantica

Dopo esserci resi conto di quanto la soluzione religiosa aveva fatto, è comprensibile lo sconcerto e la situazione impossibile in cui l’uomo moderno s’è cacciato. Gli è pur sempre necessario sentirsi eroico ed essere persuaso che la 283

sua vita riveste importanza nello schema delle cose: deve ancora essere «buono» in modo particolare, per un qualcosa di veramente speciale. E inoltre deve fondersi con un qualche significato più alto, che lo conglobi in un atto di fiduciosa gratitudine, esattamente come si verificava nell’universale motivo della fusione nell’Agape. Ma non avendo più Dio, come può realizzare questo? Uno dei primi sistemi escogitati fu rappresentato — secondo l’opinione di Rank — dalla «soluzione romantica», che consisteva nell’ancorare la propria spinta verso l’eroismo cosmico, ad un’altra persona, vista come oggetto d’amore3. L’uomo persegui quell’autoglorificazione, di cui sentiva la necessità nel profondo della sua natura, cercandola nella persona compartecipe del suo amore. Essa diventa l’ideale divino, entro il quale poter colmare la propria vita. Tutti i bisogni spirituali e morali vengono così centrati su un individuo. La spiritualità, un tempo legata a una diversa dimensione di cose, viene ora tirata giù a terra e assume forma in un altro singolo essere umano. Persino la salvezza non si presenta più collegata con un’astrazione, quale è considerato Dio, ma può essere rinvenuta «nella beatificazione dell’altro», che potremmo definire come «beatificazione da transfert». In un simile contesto, l’uomo vive in una «cosmologia a due»4. Certamente, durante tutto il corso della storia, s’è avuta sempre una qualche competizione tra gli oggetti umani d’amore e quelli divini, come testimoniano i casi di Eloisa e Abelardo, Alcibiade e Socrate, o lo stesso Cantico dei Cantici. La diversità maggiore sta nel fatto che, nella società tradizionale, la controparte umana mai assommava in sé l’intera dimensione divina, come sta invece avvenendo nella moderna società. 284

Se fossimo inclini a dimenticare quanto deificato sia l’oggetto dell’amore romantico, le canzoni popolari ce lo richiamano di continuo, con espressioni enfatiche che definiscono l’innamorato «primavera», «splendore angelico», «paradiso» e cose simili. È vero che le canzoni popolari hanno da sempre usato tali espressioni e, verosimilmente, continueranno a ricorrervi, finché l’uomo rimarrà un mammifero, imparentato coi primati. Queste canzoni riflettono la fame di esperienza concreta e la profonda brama emotiva, esistente in ogni creatura umana. Il fatto da rilevare è che, se l’oggetto d’amore riassume in sé la perfezione divina, ne consegue che la persona coinvolta viene sollevata a quello stesso livello, se ad esso unisce il suo destino. Si raggiunge così il culmine del proprio impegno ideale e tutti i conflitti, le interne contraddizioni e i molteplici sensi di colpa vengono ipoteticamente risolti e curati, in questa totale identificazione con chi rappresenta la perfezione stessa. Tutto ciò è ordinato a rappresentare una vera «giustificazione morale attraverso l’altro»5. L’uomo moderno soddisfa il suo impulso all’autoespansione nell’oggetto del proprio amore, esattamente nel modo stesso con cui, un tempo, lo si soddisfaceva in Dio. Nelle parole di Rank: «Dio, come… rappresentazione del nostro stesso volere, non ci opporrà resistenza se non quando lo vogliamo noi, e altrettanto poco ci resiste l’innamorato che, in seguito alla nostra resa, è divenuto egli stesso a noi soggetto»6. In altri termini, l’oggetto dell’amore diventa dio, come afferma un canto indù: «Il mio amore è come un dio: se egli mi accetta, la mia esistenza assume utilità». Non dovrebbe, quindi, stupire che Rank giunga alla conclusione che il rapporto d’amore dell’uomo moderno costituisca un 285

problema religioso7. Per aver compreso ciò, Rank poté spingersi molto oltre Freud, il quale pensava che la dipendenza da un altro, da parte dell’uomo moderno, dovesse ascriversi al complesso di Edipo, mentre per Rank essa risultava dal perseguimento del progetto di essere causa sui, legato al rifiuto del proprio stato di creatura. Poiché, nello stato attuale di cose, non esisteva più una cosmologia religiosa in cui inserire tale rifiuto, ecco che ci si aggrappava a un partner. L’uomo si lanciò alla ricerca dell’altro, allorché svanì la visione del mondo della grande comunità religiosa sotto la guida di Dio. La dipendenza dell’uomo moderno dal partner in amore è perciò una conseguenza della perdita di ideologie spirituali, allo stesso modo in cui lo è il suo assoggettamento ai genitori o allo psicoterapista. Egli ha necessità di qualcuno, di una qualche «ideologia individuale di giustificazione, che sostituisca le indebolite ideologie collettive»8. La sessualità, che secondo il pensiero di Freud costituiva il nocciolo del complesso di Edipo, viene ora considerata per quello che essa in realtà è, vale a dire una diversa, contorta manovra per riattribuire un significato alla propria vita. Se non si ha più un Dio in cielo, colla sua invisibile dimensione che giustifica quella visibile, ci si deve rivolgere a un qualcosa a portata di mano, e con ciò affrontare i propri problemi. Come sappiamo, anche per esperienza personale, un tale metodo procura grandi e reali benefici. Se si è oppressi dal peso della vita, uno trova sollievo nel proprio partner divinizzato; se l’autocoscienza si rivela troppo penosa e se il senso del proprio isolamento individuale — mentre ci si sforza di dare un qualche senso a ciò che uno è, e a che cosa 286

rappresenta la vita — diventa insopportabile, uno riesce a dissipare ogni guaio abbandonandosi emotivamente al proprio partner, dimenticando se stessi in un delirio di sesso, sentendosi rapidamente sollevato dall’esperienza. Se si è appesantiti dal senso di colpa, collegato al corpo, dallo strascico della propria animalità che angustia la voglia di superare la corruzione e la morte, tutto trova risposta in un fiducioso rapporto sessuale, che appunto a questo è destinato, poiché nel sesso il corpo e la coscienza che si ha di esso non sono più separati: il corpo non è più un qualcosa che riguardiamo come estraneo. Automaticamente, quando esso viene accettato in pieno come corpo, dal partner, svanisce la nostra autocoscienza, che si fonde con il proprio corpo e l’autocoscienza e il corpo del partner. Quattro frammenti d’esistenza si combinano in un’unità e le cose non appaiono più disgiunte e stravaganti: tutto ritorna «naturale», operante, espresso in modo appropriato e, per conseguenza calmo e sensato. Ancor più il complesso di colpa viene spazzato via, quando il corpo trova il suo ovvio impiego nella procreazione di un bimbo. La natura stessa, in tal caso, s’incarica di proclamare l’innocenza di uno, per la ragionevolezza del fatto che, chi ha un corpo, debba essere fondamentalmente un animale procreativo9. Ma è anche l’esperienza a rivelarci che le cose non procedono così lisce e sicure, per un motivo assai semplice, che si colloca nel cuore stesso di quel paradosso che è la creatura. Il sesso appartiene al corpo e questo alla morte. Come nella mitologia greca, Eros e Thanatos sono inseparabili: la morte è il gemello naturale del sesso10. Su questo concetto vogliamo soffermarci, perché esso rappresenta la ragione profonda del fallimento dell’amore 287

romantico, quale soluzione dei problemi umani e costituisce un importante elemento delle frustrazioni dell’uomo d’oggi. L’asserto che amore e morte sono gemelli, presenta almeno un duplice livello, di cui il primo, filosofico-biologico, è riassumibile nella costatazione che gli animali che procreano muoiono: il loro relativamente breve spazio di vita è, in qualche modo, collegato colla loro procreatività. La natura vince la morte non già creando organismi eterni, ma bensì dotando quelli effimeri della facoltà di procreare. Dal punto di vista evolutivo, essa ha fatto emergere e prevalere organismi molto complessi, al posto di altri semplicissimi — eterni in senso quasi letterale — quali sono quelli che sussistono autodividendosi. Ma il vero inciampo per l’uomo lo si riscontra al secondo livello, quello psicologico. Se il sesso è l’adempimento di un preciso ruolo dell’uomo, quale animale inserito in una specie, per ciò stesso gli richiama anche ch’egli altro non è se non un semplice anello nella catena dell’essere, perfettamente scambiabile con uno diverso qualsiasi, e quindi di scarsa importanza in sé. Il sesso rappresenta, in definitiva, la consapevolezza della specie e — in quanto tale — la disfatta dell’individualità e del personalismo. Ora è appuntò questa individua personalità che l’uomo vuole sviluppare, fino a diventare un irripetibile eroe cosmico, possessore di doni unici per l’universo. L’uomo non si rassegna a ridursi a un semplice animale che s’accoppia, come tutti gli altri, perché ciò non riveste un significato veramente umano, e non costituisce un autentico insigne contributo alla vita del mondo. Già in radice, quindi, l’atto sessuale esprime la duplice negazione, sia di una vita fisica permanente, sia di doti personali esclusive. Questo è un 288

punto cruciale, perché spiega la ragione per cui, fin dalle origini, siano sorti in seno alla società umana i tabù della personalità dell’uomo sopra le omogeneità animali. Attraverso le complesse regole della rinuncia sessuale, l’uomo poté imporre un suo tracciato culturale per raggiungere l’immortalità personale, compromessa dal corpo. I tabù sessuali furono inventati dall’uomo, perché gli occorreva trionfare sul proprio corpo, ed egli sacrificava i piaceri corporei per conseguire la gioia suprema di sopravvivere per tutta l’eternità, come essere spirituale. A questa specie di permuta faceva appunto riferimento Roheim, descrivendo con acume quanto avveniva tra gli aborigeni australiani: «La repressione e sublimazione del coito primigenio sta alla base dei riti religiosi totemistici»11. Si trattava, in sostanza di rinnegare il corpo, come tramite di una vita specificamente umana. Questo spiega il motivo per cui la gente tiene il broncio al sesso, si ribella ad essere considerata come un corpo soltanto, e perché il sesso in qualche modo li spaventa: la sessualità rappresenta un doppio livello di negazione di se stessi. Resistere al sesso è perciò contrapporsi al fato. Su questo argomento, Rank ha pagine tra le più brillanti: egli percepì come il conflitto sessuale sia così generalizzato, appunto perché il corpo costituisce un problema universale per una creatura destinata alla morte. Si prova senso di colpa nei confronti del corpo, perché esso è un legame che getta ombra sulla nostra libertà. Rank costatò che questo naturale senso di colpa ha inizio dall’infanzia, e conduce a quelle domande ansiose del bambino riguardo a questioni sessuali. Il bambino vuole sapere perché prova senso di colpa e, ancor più, vuole che i genitori gli confermino che 289

tale suo senso di colpa è giustificato. Dobbiamo richiamarci, a questo punto, alla prospettiva usata da noi, nella Parte I di questo libro, per introdurre il problema dell’umana natura. Notavamo come il bambino si trovi proprio al crocevia del dualismo umano, quando giunge a scoprire di avere un corpo fallibile, e apprende che esiste una complessa visione del mondo, costruita dalla cultura, che gli permette di trionfarne. Le domande sul sesso, che il bambino pone, non riguardano affatto il sesso, se si va alla radice di esse. Riguardano piuttosto il significato del corpo e il terrore di dover vivere con esso. Quando i genitori danno precise risposte biologiche alle domande sul sesso, non rispondono affatto agli interrogativi del bambino, che in realtà vuole sapere perché abbia un corpo, da dove gli sia venuto, e che cosa significhi, per una creatura autocosciente, essere circoscritto nella sua limitatezza. In verità egli chiede d’essere informato sul mistero ultimo della vita e non sulla meccanica del sesso. Qui — secondo Rank — sta la spiegazione del fatto che gli adulti risultino altrettanto inguaiati dei bambini col problema del sesso: «Anche per loro, come per i bambini, la soluzione biologica di questo problema dell’umanità riesce inadeguata e insoddisfacente»12. Il sesso è «una deludente risposta all’enigma della vita» e se crediamo che sia quella giusta, inganniamo noi stessi e i nostri figli. Come bene argomenta Rank, sotto questo aspetto l’«educazione sessuale» è una specie di sciocca illusione, razionalistica e pretenziosa: ci sforziamo di far credere che, dando nozioni sulla meccanica del sesso, noi spieghiamo il mistero della vita. Si potrebbe dire che l’uomo d’oggi tenta di sostituire lo stupore timoroso della vita con 290

uno sbrigativo manuale sul «Come sbrogliarsela»13. E se ne capisce anche il motivo, perché il paludare il mistero della creazione nelle facili tecniche dei maneggiamenti umani fa sparire quel terrore della morte, riservato agli animali di specie sessuata, quali noi siamo. Rank giunge a concludere che il bambino risente di questo genere di menzogna, perché egli rifiuta la «corretta spiegazione scientifica della sessualità» e scarta pure l’ordine di godere liberamente del sesso, senza quei complessi di colpa, che esso implica14. La spiegazione di questo fenomeno va probabilmente ricercata nel fatto che, se egli deve crescere fino a diventare un eroe immortale nel contesto del suo mondo culturale, il bambino deve confrontarsi con un antagonista ben definito, soprattutto all’inizio delle sue lotte, per fare suo il progetto, propostogli dalla cultura, di diventare causa sui. Poiché il corpo costituisce il preciso ostacolo sul quale deve trionfare, per poter costruirsi quella personalità richiesta dal suo ambiente culturale, egli deve, in qualche modo, resistere agli sforzi degli adulti, volti a negare che il corpo rappresenti un nemico. Possiamo dedurre che il bambino sia ancora troppo debole per reggere alla contraddizione tra lo sforzo di avere una sua personalità e di appartenere, allo stesso tempo, a una specie animale. Questo si verifica anche per l’adulto, ma egli ha già avuto modo di sviluppare i necessari meccanismi di difesa, repressione e rifiuto, che gli consentono di sopravvivere alla difficoltà di dover servire due padroni. Dopo questo richiamo ai problemi fondamentali del bambino e dell’adulto, già trattati nella Parte I di questo volume, penso che siamo in grado di capire le basi della critica, mossa da Rank, al tipo psicologico «romantico», emerso nell’epoca moderna. Diventa perfettamente chiaro 291

ciò che Rank intende dire, quando afferma che «la personalità viene distrutta — in ultima analisi — dal sesso e attraverso il sesso»15. In altri termini, il partner sessuale non rappresenta e non può rappresentare la soluzione completa e duratura del dilemma dell’uomo16. Il partner costituisce una specie di realizzazione, colla libertà dall’autocoscienza e dal senso di colpa che esso comporta, ma contemporaneamente egli rappresenta la negazione della propria personalità individuale e distinta. Si afferma, talvolta, che quanto più si ha sesso, libero da complessi di colpa, tanto meglio, ma questo è vero solo fino ad un certo punto. Appare chiaro, nell’hitlerismo, il disastro emerso dalla confusione fatta tra due mondi, quando si pretese di raggiungere una chiara vittoria sul male e una perfezione che non appartiene a questo mondo. I rapporti personali presentano un uguale pericolo di confusione tra i fatti concreti del mondo fisico e le immagini ideali dei domìni dello spirito. La «cosmologia a due» dell’amore romantico può anche essere uno sforzo ingegnoso e creativo, ma poiché rappresenta pur sempre una continuazione del progetto di diventare causa sui in questo mondo, è una menzogna destinata a fallire. Il partner, se può tramutarsi in dio, altrettanto facilmente può cambiarsi in diavolo, per la ragione assai semplice che uno si trova legato dalla dipendenza all’oggetto del suo amore: ciò è richiesto come autogiustificazione. Si può essere totalmente dipendenti, sia che uno abbia necessità dell’oggetto d’amore come sorgente di forza, con connotazioni masochistiche, sia che gli occorra sentire la propria forza autoespansiva, scivolando cosi nel sadismo. In ambedue i casi, lo sviluppo di se stessi è sottoposto alle restrizioni imposte dall’oggetto e da lui 292

assorbite. Ciò costituisce una feticizzazione troppo ristretta del significato del vivere, e si finisce per risentirsene e ribellarvisi. Se uno trova l’amore ideale, e lo stabilisce unico giudice del bene e del male, per quanto lo riguarda, e metro di tutti i suoi sforzi, costui si riduce ad essere semplicemente un riflesso di un’altra persona. Uno si perde nell’altro, allo stesso modo in cui un bimbo docile si fonde colla propria famiglia. Non c’è da stupirsi se un tale rapporto di dipendenza — sia che in esso si abbia la parte di dio o quella di schiavo — sia alla radice di forti risentimenti, anche se dissimulati. Rank, spiegando la bancarotta storica dell’amore romantico, notava che dipese dal fatto che «una persona non voleva più servire come anima di un altro individuo, sia pure con i compensi che ne derivavano»17. Se si fa confusione tra amore personale ed eroismo cosmico, si va ineluttabilmente incontro al fallimento in ambedue le sfere. L’impossibilità dell’eroismo mina l’amore, anche quello vero. Come giustamente affermava Rank, è tale doppio fallimento a produrre quel senso di totale disperazione, riscontrabile nell’uomo d’oggi. Come è impossibile cavar sangue da una pietra, altrettanto lo è derivare spiritualità dalla fisicità d’un uomo: nascono così quei complessi d’inferiorità, motivati dal non essere riusciti, dal non aver sviluppato le proprie vere doti e altre cose del genere18. Niente di strano in questo, perché come può un individuo umano essere il «tutto» divino per un altro individuo? Nessun rapporto umano può tollerare il peso della divinizzazione, e anche solo il tentativo in quella direzione comporta un grave pedaggio per ambedue le parti. Piuttosto semplice ne è il motivo, perché ciò che fa di Dio l’oggetto 293

spirituale perfetto, è proprio il fatto d’essere immateriale, come intuì Hegel19. Non essendo una concreta individualità toccabile, Egli non frappone limiti al nostro sviluppo per le sue personali esigenze e capricci. Quando indirizziamo la nostra ricerca verso un «perfetto» obbiettivo umano, noi cerchiamo qualcuno che ci consenta di esprimere totalmente la nostra volontà, senza frustrazione o stonatura alcuna: vogliamo un oggetto che rifletta un’autentica immagine idealizzata di noi stessi20. Ma nessun essere umano è adeguato a questo scopo, perché ognuno di loro possiede voglie e repulsioni sue proprie, che in mille diversi modi possono volgersi contro di noi, e può ferirci con le sue stesse smanie21. Invece la grandezza e potenza di Dio sono qualcosa nel cui ambito noi possiamo alimentarci, senza che esse risultino minimamente compromesse dagli eventi di quaggiù. Nessun partner umano può offrire altrettanto, in forza dei limiti della sua materialità: per quanto lo si idealizzi e lo si idolatri, egli rifletterà sempre il decadimento e l’imperfezione terrena. E poiché noi lo erigiamo a metro ideale di valore, la sua imperfezione ricadrà su di noi. Se il partner diventa il nostro «Tutto», allora tutte le sue carenze si trasformeranno in grave minaccia per noi. Se una donna perde la sua bellezza, o dimostra di non possedere la forza e l’affidabilità che le attribuivamo un tempo, o rimane priva di acutezza intellettuale, o si rivela inadeguata per qualcuna delle nostre infinite particolari necessità, ecco crollare tutti i calcoli fatti su di lei. L’ombra dell’imperfezione s’allunga sulle nostre vite, e con essa la morte e la disfatta dell’eroismo cosmico: «Lei diminuisce = Io muoio». In questa equazione si cela tanta parte delle amarezze, esplosioni di rabbia e recriminazioni delle nostre 294

usuali vite in famiglia. Dagli oggetti del nostro amore, noi traiamo un riflesso assai minore di quella grandezza e perfezione che ci occorrerebbero per alimentare la nostra esistenza. Ci sentiamo sminuiti dalla loro umana inadeguatezza: il nostro intimo risulta vuoto o angosciato e le nostre vite insignificanti, allorché costatiamo l’inevitabile grettezza del mondo, espressa dagli esseri umani che lo compongono. Per questa ragione stessa, spesso ci volgiamo contro coloro che ci sono cari, nello sforzo di ridurne l’importanza. Ci accorgiamo che le nostre divinità hanno piedi di argilla e dobbiamo prendere le nostre distanze da loro per metterci in salvo, sgonfiando la fiducia esagerata riposta in esse, appunto per salvaguardare la nostra apoteosi. Sotto tale aspetto, lo sgonfiamento del partner ingigantito, del genitore o dell’amico, rappresenta un necessario atto creativo, che corregge la menzogna in cui vivevamo e riafferma la nostra interiore libertà di crescita, che trascende l’oggetto particolare e ad esso non è collegata. Non a tutti, però, questo riesce possibile, perché molti di noi hanno bisogno di tale menzogna per sopravvivere. Possiamo ridurci a non poter avere altro dio e a preferire di sgonfiare noi stessi, per mantenere un particolare rapporto, anche se ne intravvediamo l’irragionevolezza e la schiavitù a cui ci riduce22. Sta qui la spiegazione logica — come vedremo più avanti — del fenomeno della depressione. Dopo tutto, a cosa miriamo, quando eleviamo l’oggetto del nostro amore al posto di Dio? Noi cerchiamo la redenzione e niente di meno. Vogliamo trovare il riscatto dalle nostre colpe e superare il senso del nostro nulla; cerchiamo di essere giustificati, colla rassicurazione che la nostra esistenza non è vana. Ci rivolgiamo al nostro partner 295

in amore, perché convalidi con sicurezza la nostra esperienza di eroismo, che fa di «noi degli dei», appunto mediante l’amore23. Inutile dire che nessun partner umano può fare una tal cosa, perché l’innamorato non è in grado di dispensare attestati di eroismo cosmico, né di distribuire assoluzioni nel suo proprio nome, per il semplice motivo che, quale essere finito, è anch’egli destinato alla rovina, già intravvedibile nelle sue debolezze e nel suo deterioramento. La redenzione può solo venire dal di fuori dell’individuo: da qualcosa che lo trascende e che personifica il nostro concetto di radice ultima di tute le cose e di perfezione del creato. La redenzione può sopravvenire soltanto — come Rank pensava — allorché noi rinunciamo alla nostra individualità, ci arrendiamo e ammettiamo il nostro stato di creature, totalmente impotenti24. Quale partner ci consentirebbe di fare questo e ci sopporterebbe se lo facessimo? Egli esige da noi che siamo quasi un dio! D’altra parte, quale partner potrebbe mai pretendere di elargirci la redenzione, a meno che non sia impazzito? Persino quel partner che in un rapporto assume il ruolo di dio, non potrebbe reggere a lungo il gioco, perché in qualche misura si renderebbe conto di non possedere le risorse richieste dalle necessità dell’altro. Egli non ha completa forza, perfetta sicurezza e accertato eroismo, e quindi non può addossarsi il peso del ruolo di Dio: finisce perciò col rigettare lo schiavo. D’altronde, fa capolino l’imbarazzante intuizione, sempre presente nel subconscio, che egli dev’essere un ben povero dio, se ha uno schiavo così miserabile e indegno. Nella logica del suo pensiero, Rank vide anche che il peso spirituale degli attuali rapporti tra innamorati diventa così 296

grande e insopportabile per ambedue le parti, che esso finisce col despiritualizzare e spersonalizzare del tutto la loro relazione. Il risultato è la mistica di Playboy e di altre riviste consimili, dove si sottolinea la funzione del corpo come esclusivo oggetto sensuale25. «Se non mi riesce d’avere un ideale che riempia la mia vita, almeno posso abbandonarmi al sesso, senza complessi di colpa», sembra ragioni l’uomo di oggi. Ma appare subito quanto risulti disastrosa una simile soluzione, perché immediatamente ci riporta indietro alla tremenda equazione di: sesso = inferiorità e morte, col suo mettersi a servizio della specie, rinunciando alla propria distinta personalità e ad un autentico eroismo razionale. Non stupisce, perciò, che la mistica sessuale rappresenti un credo così epidermico, cui s’aggrappano coloro che disperano ormai di poter raggiungere un eroismo cosmico, e hanno ristretto il loro senso della vita al corpo e al mondo materiale. Come non causa meraviglia che, coloro che vi si abbandonano, alla fine risultino altrettanto spersi e delusi, quanto gli innamorati romantici del passato. Pretendere troppo poco dall’oggetto del proprio amore, è rovinoso come il pretendere troppo. Anche quando si restringe il proprio significato entro i confini di questo basso mondo, tuttavia si mira sempre a qualcosa di assoluto, a una qualche suprema forza che ci trascende col suo mistero e la sua maestà. Solo che, in questo caso, essa va individuata tra le cose di questo mondo. L’innamorato romantico la cerca nella profonda interiorità della donna e nel naturale mistero che la circonda: egli vuole ritrovare in lei una fonte di saggezza, di intuizione sicura, un pozzo senza fondo d’inesauribile forza. Chi però è dedito alla sensualità, non ricerca più l’assoluto nella donna, 297

divenuta semplice oggetto da sfruttare, ma vuole individuarlo in se stesso, in quella vitalità che la donna suscita e scatena. Questo è il motivo per cui la virilità assume una così capitale importanza per lui, fino a rappresentare l’assoluta giustificazione della sua esistenza in questo mondo. Il regista Mike Nichols, col suo brillante film Conoscenza carnale, denunciava i seguaci dell’amore romantico e sensuale: il personaggio romantico è rappresentato da una hippie diciottenne, molto saggia per i suoi anni, che, dal profondo della sua femminilità tira fuori inattese conclusioni; quello sensuale conclude, invece, un ventennio di conquiste amorose, inguaiato da problemi di virilità. Nella eloquente scena finale si vede un’esperta prostituta che riesce a restituirgli la sua potenza, convincendolo delle forze e capacità ch’egli ancora possiede. Nel film tutti questi personaggi s’incontrano nel bailamme di un’orgia di gruppo, in una confusione orrenda di membra, che li porta a ribellarsi contro quanto la conservazione della specie richiede da loro. Il personaggio sensuale fa tutto il possibile per evitare il matrimonio e per vanificare il ruolo accollatogli dalla specie, riducendo la sessualità a semplice prova di virilità. Il personaggio romantico femminile, invece, s’innalza sopra il matrimonio e il sesso, tentando di spiritualizzare il suo rapporto con altre donne. Nessuno di loro riesce a capire l’altro, se non a livello di desiderio fisico e il film ci porta alla riflessione finale che ambedue sono inestricabilmente coinvolti in quel cieco dibattersi della condizione umana, per raggiungere qualcosa di assoluto, alla portata della loro esperienza. Si sarebbe tentati di attribuire a Rank in persona la stesura del copione, che invece appartiene allo scrittore moderno Jules 298

Feiffer, seguace di Rank. È vero che talora Rank s’impegna talmente a richiamare la nostra attenzione sui problemi che trascendono il corpo, da indurci a credere che gli sia sfuggita la vitale importanza che il corpo riveste nei nostri rapporti con gli altri e con il mondo esterno. Ma le cose non stanno esattamente così, perché la grande lezione, deducibile dal suo deprezzamento della sessualità, non è che volesse sminuire l’amore fisico e la sensualità, ma piuttosto che — sulle orme di Agostino e di Kierkegaard — egli si rendeva conto che l’uomo non può forgiarsi un assoluto entro i ristretti limiti della sua condizione e che l’eroismo cosmico deve trascendere i rapporti umani26. Ciò che è in gioco in tutto questo, è logicamente la questione della libertà, della qualità della vita e dell’individualità di ciascuno. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, la gente ha bisogno di un qualcosa «al di là», ma si dedica prima di tutto a ciò che le sta più vicino, perché le dà quell’appagamento di cui necessita, anche se, contemporaneamente, la limita ed asservisce. L’intero problema della vita umana può essere riguardato in questa prospettiva. Ci si può chiedere: quale specie di «al di là» persegue questa persona, e quale individuazione riesce così a raggiungere? La maggior parte vuole giocare sul sicuro e quindi scelgono il loro «al di là» negli usuali oggetti di transfert, quali i genitori, il padrone, o un qualche leader. Essi accettano la definizione di eroismo proposta dall’ambiente culturale, e si sforzano d’essere dei «buoni provveditori» per la famiglia, o dei «solidi» cittadini. In tale maniera essi conquistano l’immortalità della specie, come agenti di procreazione, oppure un’immortalità collettiva o 299

culturale, come membri d’un qualche gruppo sociale. Moltissimi vivono a questo modo, e non voglio certo insinuare che vi sia qualcosa di falso o di non eroico, nella normale soluzione che l’ambiente culturale propone ai problemi della gente. Questa soluzione rappresenta sia la realtà sia la tragedia della condizione umana, e coinvolge il problema dell’impiego della propria vita, il suo significato, e il naturale arrendersi a qualcosa di più ampio. Questi bisogni trainanti vengono inevitabilmente risolti con ciò che uno si trova a portata di mano. Le donne risultano più particolarmente impastoiate in questo dilemma, che i vari «movimenti di liberazione femminili» non hanno ancor bene inquadrato. Rank afferrò perfettamente la natura dell’alternativa, sia nel suo aspetto naturale insopprimibile, sia in quello culturale-coercitivo. La donna, come sorgente d’ogni nuova vita e parte della natura, può trovare facile sottomettersi al proprio ruolo procreativo nel matrimonio, come ovvio adempimento del motivo dell’Agape. Allo stesso tempo, però, ciò può diventare autonegante e masochistico, allorché essa sacrifica la propria personale individualità e le proprie doti, per fare dell’uomo e dei di lui successi il proprio simbolo d’immortalità. L’arrendersi nell’Agape è cosa naturale e rappresenta una liberatoria realizzazione di se stessa, mentre invece Faccettare di ridursi a semplice riflesso interiore del ruolo del maschio, può costituire una resa alla propria debolezza, uno sfocamento del necessario motivo dell’Eros, che fa parte della sua identità. La ragione per cui le donne sperimentano tanta difficoltà nel districare i problemi del proprio ruolo, come membri della società e come donne, da quelli connessi colla loro distinta individualità, va ravvisata 300

nel fatto che queste diverse realtà sono difficilmente separabili tra loro. La linea che distingue la naturale resa — diretta a inserirsi in qualcosa di più ampio — dalla capitolazione verso una masochistica negazione di se stesse, è davvero assai sfumata, come già intuiva Rank27. Il problema risulta ulteriormente complicato da qualcosa che le donne — allo stesso modo di tutti — sono restie ad ammettere, e cioè la loro congenita incapacità a restarsene solitarie, nella loro piena libertà. Questo è il motivo per cui tutti accettano di conquistare la propria immortalità inserendosi negli schemi correnti, tracciati ovunque dalle varie società, inseguendo un «al di là» altrui, anziché quello proprio.

La soluzione creativa

La conclusione ultima di quanto s’è detto, è che l’eroismo, perseguito colla ricerca della propria individuazione, rappresenta un’assai audace impresa, appunto perché taglia la persona da ogni comodo «al di là». Essa richiede una forza e un coraggio che l’individuo comune non possiede e non è nemmeno in grado di capire, come giustamente sottolinea Jung28. Il peso più tremendo per una creatura, consiste nell’isolamento, ed è ciò che si verifica quando si ricerca l’individualizzazione, in cui uno si separa dall’orda. Tale scelta espone la persona a un senso di schiacciamento e annichilazione, perché egli emerge troppo e deve portare tutto dentro di sé. Questi sono i rischi da affrontare, quando la persona comincia consapevolmente e criticamente a costruirsi il suo schema di eroico riferimento a se stesso. 301

Qui si colloca la definizione dell’artista tipico, o del tipico individuo creativo. Con ciò noi varchiamo una soglia, e passiamo ad occuparci di un nuovo genere di risposta alla situazione dell’uomo. Nessuno ha scritto in modo più penetrante di Rank intorno a questo tipo di risposta e, tra tutti i suoi libri, Art and Artists costituisce il monumento più incontrovertibile del suo genio. Non intendo qui inoltrarmi tra i tormentosi meandri delle sottili analisi di Rank sull’artista, né tentare di presentarne un completo quadro riassuntivo. Sarà però utile cogliere quest’occasione per penetrare più a fondo il problema delle dinamiche della personalità, perché — tra le altre cose — ciò servirà da premessa alla discussione sulle teorie avanzate da Rank riguardo alle nevrosi, che non hanno uguali in tutta la letteratura psicoanalitica, per quanto mi risulta. La chiave per decifrare il tipo creativo sta nel fatto che egli si presenta avulso dal calderone comune dei concetti condivisi da tutti. Esiste qualcosa, nell’esperienza della sua vita, che gli fa vedere e affrontare il mondo come un problema, col risultato che egli si sente in obbligo di dare ad esso una interpretazione razionale. Questo si verifica, in misura maggiore o minore, per tutti gli individui creativi, ma è particolarmente evidente nel caso dell’artista. Per lui l’esistenza appare come un problema che esige una risposta ideale, ma, quando quella collettiva non sembra più accettabile, egli deve forgiarsene una sua propria. L’impegno artistico diviene, in tal caso, quella risposta ideale di tipo creativo al problema dell’esistenza, quale egli la percepisce, che riguarda quindi non l’esistenza Soltanto del mondo esterno, ma specialmente quella del suo mondo peculiare, dov’egli si ritrova come persona dolorosamente 302

separata, con ben poco di condiviso su cui appoggiarsi. Egli è costretto a trovare una spiegazione al fardello del suo esasperato individualismo e del suo angoscioso isolamento. Teso a scoprire come possa conquistarsi l’immortalità, attraverso le sue doti eccezionali, egli affida alla sua opera sia l’espressione del proprio eroismo che la sua giustificazione. Come Rank notava, il suo lavoro diventa la sua «religione privata»29. La propria unicità gli conferisce l’immortalità personale e rappresenta il suo esclusivo «al di là», diverso da quello di tutti gli altri. La sola enunciazione ora fatta, già ci permette di scorgere l’immenso problema che si presenta. Come può un individuo giustificare il suo eroismo? Deve, per forza, mettersi nei panni di Dio! E diventa cosi comprensibile come sia fatale, per l’uomo, il complesso di colpa, perché anche nella veste di creatore, egli resta pur sempre una creatura, sopraffatta dal processo creativo stesso30. Lo scartarsi così tanto dai normali schemi naturali, da essere obbligato a fabbricarsi in proprio una giustificazione eroica, è troppo per chiunque. In questo modo si riesce a comprendere qualcosa che esula dagli schemi della logica: quanto più uno si sviluppa come essere umano individualistico e critico, tanto maggiore è il complesso di colpa che lo affligge. È la sua stessa opera ad accusarlo e a farlo sentire insignificante. Che diritto può mai uno avere, di posare a Dio? Soprattutto nel caso in cui la sua opera appaia grande, assolutamente nuova e diversa! Uno è allora portato a chiedersi dove attinga l’autorità per introdurre nozioni nuove nel mondo, e la forza per sostenerle31. Tutto si riduce poi a questo: l’opera d’arte è il tentativo dell’artista per giustificare obbiettivamente il suo eroismo, nel contesto 303

della creazione concreta. Essa testimonia la sua unicità e trascendenza eroica. Ma l’artista rimane pur sempre una creatura e sente di esserlo con maggior intensità di qualsiasi altro. Egli percepisce che l’opera lo impersona, e che è quindi «cattiva», effimera, potenzialmente insignificante, se non trova giustificazione dal di fuori di se stesso e al di là di se stessa. Nell’espressione, già citata, di Jung, l’opera d’arte costituisce la proiezione di un transfert, proprio dell’artista, che di ciò è conscio, sia a livello conoscitivo che a livello critico. Qualunque cosa faccia, egli si ritrova impegolato con se stesso, e non riesce a disincagliarsi e spingersi oltre con sicurezza32. Si trova anche incastrato coll’opera d’arte stessa che, come tutte le imprese materiali, ha carattere visibile, terrestre e transitorio. Per quanto sublime possa apparire, essa impallidisce sempre se confrontata colla trascendente maestà della natura e presenta, quindi, una certa ambiguità, che la rende dubbia come solido simbolo d’immortalità. Anche all’apice del genio, l’uomo è soggetto a cantonate e perciò non stupisce che, dal punto di vista storico, intercorra così stretto rapporto tra l’arte e la psicosi, tanto da poterne dedurre che il sentiero della creatività costeggi il manicomio e, in taluni casi, addirittura vi finisca dentro. L’artista e il pazzo sono ambedue intrappolati nelle loro fantasiose costruzioni, si voltolano nella propria analità e s’accomunano nella stessa protesta di rappresentare qualcosa di veramente unico nel creato. Tutto ciò, in fin dei conti, si riduce a questo paradosso: per essere eroi, bisogna presentare un dono. Se si rientra nella categoria degli uomini comuni, uno presenta alla società in cui vive il proprio dono eroico, corrispondente 304

alle esigenze della stessa società. Se invece si è artisti, uno architetta uno specifico dono personale, come giustificativo della propria identità eroica, che in qualche modo esce sempre fuori dal comune. In fondo, i propri simili non sono in grado di elargire l’immortalità personale ad uno spirito umano. Secondo la stupenda argomentazione di Rank, nei capitoli conclusivi di Art and Artist, non c’è possibilità alcuna, per un artista, di trovarsi in pace col suo lavoro o colla società che lo accetta. Il dono dell’artista è sempre rivolto alla creazione stessa e a Dio, significato ultimo della vita. Non deve stupire che Rank giunga all’identica conclusione di Kierkegaard: l’unica via per svincolarsi dall’umano conflitto, è quella della totale rinuncia, che ci porta ad offrire l’intera nostra vita come dono al Sommo Potere. L’assoluzione non può giungerci che dalla trascendenza assoluta. Nella scia di Kierkegaard, Rank dimostrò che questa regola si applica alle personalità più forti ed eroiche e non agli esseri deboli e tremebondi. Rinunciare al mondo e a se stessi, riferire ogni significato ai poteri della creazione, è la cosa più ardua da raggiungere, per un uomo, ed è quindi logico che tale compito ricada su tipi dalla personalità più marcata, dotati di un ego dilatato al massimo. Newton, che rivoluzionò il mondo della scienza, era il tipo d’uomo che portava sempre la Bibbia sottobraccio. Anche in questi casi, però, l’accordo tra autoespressione completa e rinuncia è raro, come concludemmo al capitolo Vi, esaminando il problema che tormentò Freud per tutta la vita. Da quanto detto ora riguardo alla individualità nella storia e nella creatività personale, possiamo — forse — approssimarci ancor più al problema di Freud. Sappiamo 305

che era un genio, e siamo ora in grado di capire quale sia il vero problema che affligge un genio, e cioè come sviluppare un lavoro creativo, con tutto l’empito della passione, rivolta ad un’opera che deve portare salvezza al proprio spirito e — allo stesso tempo — essere disposti a rinunciare a quel preciso impegno, perché per se stesso non può produrre la salvezza. Nel genio creativo costatiamo il bisogno di fondere l’Eros più intenso dell’espressione di sé, e l’Agape totale dell’arrendersi. È, forse, un richiedere troppo dagli uomini che essi riescano ad esperimentare pienamente ambedue questi apici di sforzo ontologico. Probabilmente gli individui meno dotati hanno vita più facile, con la loro piccola dose di Eros accordata a una comoda Agape. Freud, invece, sperimentò il dáimon dell’Eros fino al limite estremo, con più onestà di molti e — come solitamente accade — ne usci bruciato con quelli che gli stettero intorno. La psicoanalisi rappresentò la sua eroica caparra per conseguire l’immortalità. Come Rank ebbe a notare: «… [Freud] poté apertamente confessare il proprio agnosticismo, pur essendosi creato una religione per suo privato uso…»33. Ma proprio in questo consisteva il legame di Freud: in qualità d’agnostico non conosceva alcuno, cui poter presentare il suo dono, che desse maggior garanzia d’immortalità di quanto se ne poteva dare egli stesso per proprio conto. Nemmeno il genere umano nel suo insieme, offriva sicurezza, poiché — com’egli confessava — l’uomo è ancora ossessionato dallo spettro dei dinosauri, che sempre gli darà incubi. Freud era antireligioso perché egli, da un punto di vista personale, non riusciva a consacrare il dono della sua vita a un ideale religioso. Un tale passo gli appariva come una debolezza, una passività che avrebbe distrutto il suo 306

impulso creativo, volto ad una maggiore pienezza di vita. Qui Rank conviene con Kierkegaard che nessuno dovrebbe mai fissare e circoscrivere la propria vita con degli al di là troppo a portata di mano, facilmente raggiungibili, o addirittura creati da noi stessi. Ci si dovrebbe, invece, lanciare verso l’al di là più eccelso, proposto dalla religione e quindi l’uomo dovrebbe coltivare la passività della rinuncia alle più alte posizioni di potere, per quanto essa possa costare. Tutto ciò che non si spinge fino a questo estremo, rappresenta uno sviluppo incompleto, anche se ad alcuni grandi pensatori ciò può apparire come una debolezza e un compromesso. Nietzsche si faceva gioco della morale rinunciataria di radice giudeocristiana, ma — secondo Rank — egli «non si rendeva conto del profondo bisogno di tale moralità, connaturato nell’essere umano…»34. Rank va oltre e spiega che «l’esigenza di un’autentica ideologia religiosa… è insita nell’umana natura e il suo soddisfacimento costituisce una premessa fondamentale per qualsiasi tipo di vita associata»35. Freud e altri immaginano che l’arrendersi a Dio sia masochistico e che lo svuotarsi di sé sia sminuirsi. Invece, secondo Rank, ciò rappresenta l’apice più alto dell’ego, e la suprema idealizzazione raggiungibile dall’uomo, perché rappresenta il coronamento dell’espansione d’amore, prodotta dall’Agape, e il livello più sublime dell’individuo autenticamente creativo. Soltanto in questo modo — afferma Rank —, arrendendosi, cioè, alla maestà della natura, al livello più eccelso e meno feticistico, l’uomo può superare la morte. In altri termini, la vera ed eroica convalidazione della propria vita va collocata oltre il sesso, al di là dell’altro, oltre i limiti della religione privata e di altri artifici del genere che lo abbassano o lo 307

circoscrivono, lasciandolo poi frantumato nell’ambiguità. L’uomo sperimenta senso d’inferiorità appunto quando gli vengono meno gli autentici valori intimi della persona, quado si riduce a semplice riflesso di un qualcosa che gli sta accanto, e più non possiede un ideale giroscopio che lo stabilizzi e lo centri su se stesso. Per raggiungere questa stabilità, l’individuo deve spingere il suo sguardo oltre gli altri e le loro consolazioni, oltre tutte le cose di questo mondo36. L’uomo — conclude Rank — è un «essere teologico»., non biologico, e nelle sue parole si sente l’eco di Tillich37 e di Kierkegaard e quella più lontana di Agostino. Ma ciò che rende strane tali affermazioni, in questo nostro mondo d’oggi, in cui si privilegia la scienza, è che esse sono il succo del lavoro di tutta la vita di uno psicoanalista, non di un teologo. Se ne rimane sbalorditi e l’intera faccenda sconcerta soprattutto chi abbia ricevuto una rigorosa educazione alla scienza, perché una simile mescolanza di visione clinica intensiva e di pura ideologia cristiana, dà inevitabilmente alla testa. Non si sa bene — dal punto di vista emotivo — che atteggiamento assumere nei suoi riguardi, perché ci si sente sballottati in più direzioni, che si credevano inconciliabili. A questo punto, lo scienziato, che ama definirsi «inflessibile», sbatte via le opere di Rank e si ritira aggrottato, brontolando: «Che peccato, che il collaboratore più intimo di Freud si sia tanto rincitrullito da fare arenare la scienza psicoanalitica, così duramente conquistata, sulle secche delle facili consolazioni, offerte dalla religione!». E avrebbe torto, perché, Rank portò a conclusione il corso della psicoanalisi, sfociando in Kierkegaard, ma non lo fece 308

per debolezza o faciloneria, ma piuttosto costrettovi dalla logica storico-psicoanalitica, volta a comprendere l’uomo. Il critico di Rank non ha scappatoie da questo: se pensa che Rank non sia abbastanza rigoroso o empirico, è soltanto perché non ha afferrato bene la sostanza dell’intera opera di Rank e la sua elaborazione della natura delle nevrosi. Questa è la risposta di Rank a quanti immaginano che egli abbia lasciata incompleta la sua ricerca scientifica o che si sia rammollito per motivi personali. L’analisi approfondita di Rank riguardo alle nevrosi costituisce la chiave dell’intera sua teoria. Essa è di vitale importanza per una piena intelligenza postfreudiana dell’uomo e, allo stesso tempo, fissa i termini dell’intima fusione del pensiero di Rank con quello di Kierkegaard, su una base e con un linguaggio che certamente avrebbe incontrato l’approvazione dello stesso Kierkegaard, come meglio analizzeremo nel prossimo capitolo. 1 BP, p. 196. 2 CHESTERTON C.K., Orthodoxy, 1908 (New York: Image Books, 1959), p.

80 (trad. Ortodossia, Brescia: Morcelliana, 1980). 3 Vedere AA, capitolo 2; PS, capitolo 4; BP, capitolo 4 ecc. 4 BP, p. 168, PS, p. 192; WT, p. 303. 5 ME, p. 232. 6 WT, p. 62. 7 Ibid., p. 304.

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8 ME, p. 232. 9 WT, p. 302. 10 BP, p. 234. 11 ROHEIM, «The Evolution of Culture», p. 403. 12 ME, p. 44. 13 Ibid. pp. 46 ss. 14 Ibid., p. 43. 15 BP, p. 234. 16 Vedere anche la critica contemporanea di Rollo May su questo problema in

Love and Will. 17 PS, p. 92. 18 BP, pp. 196-197. 19 Cf. WT, p. 62. 20 Cf. BECKER, The Birth and Death of Meaning, seconda edizione, capitolo

12. 21 WT, p. 287. 22 WT, p. 131. 23 BP, p. 197. 24 WT, p. 304.

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25 PS, p. 92. 26 Per vedere quanto cristiana sia l’analisi di Rank sulla sessualità, si confronti il

notevole studio di NIEBUHR R., The Nature and Destiny of Man (New York: Scribner and Sons, 1941) vol. 1, pp. 233-240. 27 BP, pp. 186, 190. 28 JUNG, The Psychology of Transference, p. 101. 29 AA, p. 86. 30 AA, p. 42; WT, p. 278. 31 Cf. BECKER, The Structure of Evil, pp. 190 ss. 32 WT, p. 147. 33 BP, p. 272. Jung affermava che il circolo di Freud fosse, di per sé, una

religione paterna: Modern Man in Search of a Soul, 1933 (New York: Harvest Books edition) p. 122. 34 Ibid., pp. 273-274. 35 Ibid., p. 194. 36 Ibid., pp. 188-201. 37 Cf. TILLICH, Systematic Theology, vol. 3, pp. 75-77.

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IX PROSPETTIVE ATTUALI DELLA PSICOANALISI Se quanto più un uomo è normale, sano e felice, tanto maggiormente è in grado… di reprimere, ribaltare, rifiutare, razionalizzare e drammatizzare se stesso… con successo… e ingannare gli altri, ne consegue che la sofferenza dei nevrotici deriva… dalla penosa verità… Da un punto di vista spirituale il nevrotico si trova già, da lungo tempo, là dove la psicoanalisi intenderebbe portarlo, senza però riuscirvi, e cioè al punto d’intravvedere — al di là dell’inganno del mondo dei sensi — la menzogna della realtà. Egli soffre non già a motivo degl’innumeri meccanismi patologici, psicologicamente indispensabili per condurre una vita piena, ma appunto per il rifiuto di tali meccanismi. Questo fatto lo priva di quelle illusioni così importanti per vivere… [Egli] è assai più prossimo alla verità concreta — psicologicamente parlando — di quanto non lo siano gli altri ed è proprio questo che gli causa sofferenza. OTTO RANK1

Di nevrosi Rank s’occupò in tutte le sue opere, dedicandole talora poche righe e talaltra qualche pagina e dandone varie e differenti definizioni, qualche volta in contrasto fra loro. Occasionalmente la descrisse come un fenomeno normale e generalizzato e, altrove, come un qualcosa di malsano e limitato a pochi. Talvolta il termine viene riferito ai piccoli problemi del vivere, mentre altre 312

volte sembra indicare vere psicosi. Un simile pastrocchio non deriva — in Rank — da confusione di idee, ma piuttosto dal fatto che la nevrosi assomma in sé l’intero spettro dei problemi della vita umana. Occorre però ammettere che se Rank avesse curato meglio l’ordinamento logico delle sue intuizioni riguardanti le infermità mentali, non poco ne avrebbe beneficiato l’intera sua opera: quando un pensatore viene fuori con troppe idee, feconde ma disordinate, riesce assai difficile afferrarne il pensiero, perché l’argomento ch’egli si sforza di chiarire non risulta fissato a sufficienza. È assodato che la posizione privilegiata di Freud va attribuita, in non piccola parte, alla sua capacità d’esporre in modo chiaro, semplice e sistematico, tutti i suoi concetti, e al suo costante saper ridurre a pochi elementi fondamentali le più complesse teorie. Questo è fattibile anche con Rank, ma il guaio è che ognuno deve arrangiarsi per proprio conto nel rimettere ordine tra la profusione d’idee che emergono dalle opere del maestro. Quantunque Rank stesso fosse cosciente del pregiudizio che il disordine arrecava a sé e ai suoi lettori, non trovò mai chi gli riscrivesse i suoi libri e perciò tocca a noi la fatica di andar oltre il disordine delle sue intuizioni per penetrare il nocciolo del problema. Come punto di partenza cominciamo coll’indicare sommariamente il campo abbracciato dalla nevrosi, per poi affrontare in dettaglio i singoli argomenti e dimostrare com’essi si ricolleghino tra loro. La nevrosi presenta tre aspetti interdipendenti: anzitutto essa si riscontra in gente che trova difficoltà a vivere in accordo colla realtà concreta dell’esistenza, e sotto quest’angolazione essa costituisce un fenomeno universale, perché tutti hanno qualche problema 313

nell’affrontare la realtà della vita e pagano il loro tributo esistenziale ad essa. Ma, sotto un altro aspetto, la nevrosi è un fenomeno privato, perché ciascuno elabora una propria e personale reazione di fronte alla vita. Ma, al di là di questi due aspetti va, forse, ravvisato l’apporto e il merito unico dell’opera di Rank, per il quale la nevrosi riveste una componente largamente storica, perché tutte le ideologie tradizionali che la mascheravano ed assorbivano si sono volatilizzate e le ideologie attuali sono troppo inconsistenti per inquadrarla. È spuntato così l’uomo moderno, sempre più disposto ad allungarsi sul lettino dell’analista, tra un pellegrinaggio e l’altro verso i santuari dei nuovi guru che s’affacciano alla ribalta e lanciano la moda della terapia di gruppo. Il tutto si risolve con un numero sempre più nutrito di gente che va ad affollare le cliniche per malattie mentali. Occupiamoci, ora, in modo più dettagliato, dei tre aspetti qui accennati.

Il tipo nevrotico

Si tratta, prima di tutto, d’un problema di carattere della persona. Affermando che la nevrosi rappresenta la verità della vita, ritorniamo ad insistere sul concetto che l’esistenza costituisce un peso schiacciante per un animale privo d’istinto. L’individuo deve proteggersi contro il mondo circostante e lo può fare solo alla maniera di tutti gli altri animali: restringendo, cioè, i confini del suo mondo, limitando le esperienze, sviluppando la propria capacità d’ignorare sia i terrori del mondo che le proprie ansietà, per non risultare mutilato nella sua azione. Non insisteremo mai abbastanza sulla grande lezione della psicologia freudiana, 314

che la repressione costituisce una normale manovra autoprotettiva e che l’autorestrizione creativa è, nell’uomo, il surrogato naturale dell’istinto, in senso concreto. Per questo talento innato, Rank/usa una parola-chiave perfetta: lo chiama parzializzazione e conclude giustamente che senza di essa la vita risulterebbe impossibile. Colui che noi definiamo un individuo beneadattato è tale appunto perché possiede la capacità di parzializzare il mondo, per poter agirvi con un certo agio2. Per esprimere lo stesso concetto, io ho usato il termine feticizzazione, volto a significare come l’individuo normale si limiti, nella vita, ad addentare qual tanto che può masticare e digerire, e non di più. In altri termini, gli uomini non sono fatti per essere degli dèi e ingerire l’universo mondo: sono architettati, come tutte le creature, per ingollare quel piccolo pezzo di mondo che gli sta davanti al naso. Gli dèi possono digerire l’intero creato, perché sono i soli che riescono a dargli senso, conoscendone l’intimo mistero e le ragioni ultime. Invece non appena un uomo solleva il naso dal suolo e si dà ad annusare gli eterni enigmi della vita e della morte, il senso d’una rosa o d’una galassia, piomba subito nei guai. La maggior parte delle creature umane evitano questi guai tenendosi saldamente ancorati ai loro piccoli problemi quotidiani, quali vengono per loro programmati dalla società in cui si trovano inseriti. Sono coloro che Kierkegaard chiamava uomini dell’immediato o filistei: costoro «vivono nella tranquillità dell’ordinario», riuscendo così a condurre un’esistenza normale. Con ciò si apre di colpo un orizzonte tremendamente fecondo per le nostre riflessioni sulla sanità psichica e sul comportamento normale. Per poter funzionare in modo 315

normale, l’uomo deve imporsi, come necessaria premessa, un drastico restringimento del proprio mondo e di se stesso. Possiamo affermare che l’essenza della normalità è il rifiuto della realtà3. Ciò che definiamo nevrosi verte su questo fatto: alcuni individui provano maggior difficoltà nel mentire che non altri e quindi per essi il mondo si rivela come un qualcosa di esagerato da trangugiare, perché le tecniche da loro sviluppate per tenerlo sotto controllo e ridurne l’importanza finiscono per soffocarli. Questa è la diagnosi della nevrosi nei suoi minimi termini: l’aborto di malcongegnate menzogne riguardo alla concreta realtà. Ma immediatamente ci si rende conto che non esiste un netto confine tra l’individuo normale e il nevrotico, poiché tutti mentiamo e siamo in qualche modo impastoiati colle menzogne. E quindi la nevrosi è un qualcosa che tutti condividiamo, perché è universale4. Per metterla in altro modo, la normalità è nevrosi e viceversa. Noi definiamo un uomo come nevrotico, allorché la sua menzogna comincia a rivelare effetti dannosi per lui e per la gente che gli sta attorno ed egli, allora, chiede assistenza clinica o altri la richiedono per lui. Altrimenti continueremo a chiamare normale il rifiuto della realtà, sin quando non comporti visibili problemi. Tutto si riduce semplicemente a questo. Dopo tutto, se qualcuno che vive solo vuole alzarsi da letto una dozzina di volte per accertarsi che la porta sia veramente chiusa, o se qualcun altro si lava e asciuga le mani con lo stesso numero di meccanici movimenti, o se usa un intero rotolo di carta igienica ogni volta che va alla toeletta, tutti questi fatti non comportano problemi. Si tratta di persone che credono di raggiungere un certo senso di sicurezza, nella loro condizione di creature, attraverso sistemi tutto 316

sommato innocui. Le cose si complicano quando invece le menzogne riguardo alla realtà cominciano ad esplodere e si fanno appariscenti. Allora si comincia ad applicare l’etichetta di «nevrotico». E si danno molti casi per far questo, e in numerosi campi dell’umana esperienza. Genericamente parlando, noi definiamo nevrotico ogni stile di vita che comincia ad essere troppo costrittivo, che previene qualsiasi slancio in avanti, qualsiasi nuova scelta, o una crescita di cui si ha necessità e voglia. Ad esempio, una persona che cerca la propria salvezza esclusiva in un legame amoroso, ma che va incontro al fallimento in quest’ossessiva limitatezza, è nevrotica perché può diventare troppo passiva e dipendente, timorosa di avventurarsi per conto proprio, di vivere la sua vita senza il partner, in qualunque modo quest’ultimo la tratti. L’oggetto del suo amore è diventato il suo tutto nell’intero universo ed essa si riduce a semplice riflesso d’un altro essere umano5. Un individuo del genere spesso ricerca l’aiuto clinico, perché si sente incastrato in un troppo ristretto orizzonte, ha bisogno di un suo particolare al di là, ma ha paura a muovere i suoi passi in quella direzione. In una terminologia che già abbiamo usato, potremmo dire che il suo eroismo di comodo non funziona più, anzi lo soffoca e lo avvelena, facendogli balenare l’idea che è talmente di comodo da non essere più affatto eroismo. Mentire a se stessi riguardo al proprio sviluppo potenziale è un’altra molla che scatena il senso di colpa: rappresenta, infatti, uno dei più insidiosi quotidiani tormenti interiori che una persona possa sperimentare. Va ricordato che il senso di colpa è una specie di groppo che si prova quando ci si sente umiliati e bloccati in modi incomprensibili, o quando 317

l’ambiente mette in ombra le nostre energie. Ma la disgrazia dell’uomo consiste nel fatto che questo senso di colpa può assumere due forme: come delusione esterna o interiore per trovarsi bloccati sulla strada del proprio potenziale sviluppo. Il senso di colpa deriva dal non-uso della vita, da ciò che rimane non vissuto in noi6. Più spettacolari appaiono quegli altri frequenti aborti di menzogne riguardanti la realtà, che vanno sotto il nome di ossessioni, compulsioni e fobie di vario genere. In essi si possono ravvisare i risultati di una esagerata feticizzazione o parzializzazione, di un eccessivo restringimento del mondo, che finisce coll’intralciare la capacità d’agire. Come conseguenza l’individuo resta bloccato nelle sue strettoie. Un conto è lavarsi le mani con gesti rituali, e ben diverso è il lavarsele fino a farle sanguinare o fino a starsene chiusi in bagno per gran parte del giorno. Si intravvede, in questi casi, nella loro estrema natura, ciò che è in ballo in tutta la repressione umana: la paura della vita e della morte. La sicurezza di fronte al concreto terrore dell’esistenza di creature, diventa un effettivo problema per la persona. Uno si sente vulnerabile se è effettivamente così! Solo che si reagisce in modo troppo massiccio e radicale, al punto d’aver paura di spingersi sulla strada, o di prendere un ascensore o un qualsiasi mezzo di trasporto. A questi estremi è come se la persona si dicesse: «Se faccio una qualsiasi cosa… morirò!»7. Possiamo costatare, quindi, che alla radice c’è uno sforzo per vivere, uno sforzo per sbloccare l’azione e per mantenere salvo il proprio mondo. La paura della vita e della morte è incapsulata in questi sintomi. Se uno si sente vulnerabile, alla radice c’è un senso d’indegnità e 318

d’inadeguatezza, per cui ci si giudica non abbastanza grandi e forti per affrontare i terrori dell’universo. Nel sintomo salta fuori il proprio bisogno di perfezione (grandezza, invulnerabilità), che si manifesta nell’ossessivo lavarsi le mani o nell’evitare il sesso nel matrimonio. Si potrebbe dire che il sintomo localizza l’espressione del proprio eroismo. Appunto per questo ci si rifiuta d’arrendersi, perché la resa scatenerebbe da sola l’intera marea di quei terrori che ci si sforza di negare e superare. Quando uno ripone tutte le proprie uova in un solo cesto, è costretto a tenerselo stretto ad ogni costo. È come se uno avesse fuso e concentrato tutto il suo mondo in un solo oggetto e in una sola paura. In tutto ciò si ravvisa subito la stessa dinamica creativa cui fa ricorso una persona nel transfert, nel quale essa concentra e fonde tutto il terrore e la maestà dell’universo nell’oggetto del proprio transfert. Questo è quanto Rank intendeva dire affermando che la nevrosi rappresenta lo smarrimento e la confusione del potere creativo: l’individuo non afferra affatto il problema, ma scova la maniera ingegnosa di eluderlo costantemente. Va notato che anche Freud stesso usò l’espressione di nevrosi da transfert per designare forme isteriche collettive di paura e di nevrosi compulsive8. Si può dire che Rank e la moderna psichiatria hanno solo semplificato e completato questa basilare intuizione, ma collocando la chiave esplicativa delle paure della vita e della morte non più soltanto nella dinamica edipica. Un giovane psichiatra ha recentemente riassunto l’intero problema ih questi termini:

Dev’essere chiaro che la disperazione e l’angoscia di cui il paziente si lagna non sono il risultato di quei 319

sintomi, ma costituiscono piuttosto le ragioni dell’esistenza [dei sintomi stessi]. Sono questi, infatti, che mettono uno al riparo dal tormento delle contraddizioni profonde che giacciono al centro dell’umana esistenza. La particolare fobia o ossessione rappresenta esattamente il mezzo attraverso cui l’uomo… allevia il peso degli impegni della sua vita… e riesce ad… assuefarsi al senso della sua insignificanza… In tal modo i sintomi nevrotici servono a ridurre e restringere e quasi a trasformare magicamente il mondo, cosi ch’egli possa distrarsi dalle proprie preoccupazioni di morte, di colpa e di insignificanza. Il nevrotico, mentre si preoccupa dei propri sintomi, è portato a credere che il suo principale impegno sia. quello di confrontarsi con la sua particolare ossessione o fobia. In un certo senso la sua nevrosi gli consente di mantenere sotto controllo il proprio destino, di trasformare il significato globale della propria vita in qualcosa di più semplice, che promana da quel mondo ch’egli stesso si è creato9.

L’aspetto ironico di questo restringimento di visione, operato dalla nevrosi, è che l’individuo si sforza di sfuggire all’ossessione della morte, ma lo fa uccidendo una larga parte di se stesso ed eliminando un vasto settore del proprio mondo d’attività, tanto da isolarsi e sminuirsi a tal punto che è come se già fosse morto10. Per la creatura vivente proprio non esiste modo d’evitare la vita e la morte, ed è forse un’istanza di giustizia poetica che, se essa s’impegna soverchiamente in tale direzione, finisca col distruggere se stessa. 320

Ma non abbiamo, con questo, esaurito l’intera gamma dei comportamenti che potremmo definire nevrotici. Un diverso modo di analizzare la nevrosi è quello di accostarvisi dall’opposta direzione del problema. Esistono tipi di persone che trovano difficile ogni feticizzazione o restringimento d’ottica: si tratta di gente provvista di un vivace senso d’immaginazione, che ingurgita robuste dosi d’esperienza e una troppo larga fetta di mondo. Anche costoro debbono essere catalogati fra i nevrotici11. Di questo tipo di persone abbiamo trattato nel capitolo precedente parlando dell’individuo creativo e discutendo del suo senso d’isolamento e del suo individualismo. Egli è portato a distinguersi dagli altri, non si fonde tra la folla normale e non si lascia programmare docilmente negli schemi di un’attività culturale automatica. Questa difficoltà nell’accettare la parzializzazione delle esperienze si traduce in difficoltà nel vivere, perché se non si riesce a feticizzare si è costretti ad affrontare il problema del mondo nella sua totalità, con tutto l’inferno che il fatto comporta. Abbiamo già detto che parzializzare il mondo sta a significare che l’animale ne morde soltanto quella fetta che gli riesce a trangugiare. Rank così ne parla:

Il tipo nevrotico… trasforma la realtà che lo circonda in una parte del proprio ego, e ciò spiega il penoso rapporto che ne scaturisce, perché tutti i processi esterni, per quanto in se stessi privi di significato, finiscono col coinvolgerlo… Egli si trova irretito, in una specie di unità magica, con la totalità di vita che lo circonda, in una maniera assai più pronunciata di quanto lo sia il tipo che s’è bene adeguato, il quale può 321

accontentarsi di svolgere una sua parte nel contesto generale. Il tipo nevrotico ha invece potenzialmente assunto in sé tutto l’insieme della realtà12.

A questo punto ci è possibile intravvedere come il problema della nevrosi possa collocarsi lungo le linee di due motivi ontologici appaiati: da un lato l’individuo si fonde nel mondo che lo circonda e in modo esagerato ne diventa una parte, perdendo così ogni titolo a una sua vita distinta. Dall’altro lato, uno può tagliarsi fuori dal mondo, appunto per affermare la propria individualità completa, ma così smarrisce la capacità di vivere ed agire nel mondo nei termini da esso voluti. Come nota Rank, alcuni individui sono incapaci a distinguere ed altri ad unire. Naturalmente, l’ideale sarebbe di stabilire un certo equilibrio tra questi due estremi, quale si ritrova nelle persone meglio adattate, a proprio agio sotto entrambi gli aspetti. Il nevrotico, invece, rappresenta esattamente «l’estremo d’una parte o di quella opposta» e sente il peso o dell’una o dell’altra13. L’interrogativo che emerge per chi si dedica allo studio del carattere è perché alcuni non riescano ad equilibrare le proprie spinte esistenziali, senza fissarsi sempre agli estremi. La risposta va ovviamente cercata lontano, nella storia della vita di ognuno. Si dà gente che rifugge dall’esperienza piena delle ansietà riguardanti la vita e la morte, che cresce senza abbandonarsi mai liberamente alla conquista di quei ruoli che il loro ambiente culturale offre: non riesce loro possibile perdersi spensieratamente nei giochi che tutti gli altri giocano, perché trovano difficile il rapporto cogli altri, non essendo mai riusciti a sviluppare l’abilità che un tale rapporto richiede. 322

Inserirsi nei giochi di società con spontaneità istintiva vuol dire stringere cogli altri un rapporto senza ansie. Se non ci si lascia coinvolgere in cose che per gli altri sono ovvio sostegno della loro vita, la nostra esistenza diventa un problema insolubile. Spinta agli estremi, una tale situazione è quella dei tipi indiscutibilmente schizofrenici, affetti da ciò che viene designato come «nevrosi narcisistica» o, più semplicemente, psicosi. Psicotico è colui che non riesce più a tenere a bada il mondo, le cui capacità repressive sono ridotte al minimo, le cui difese non funzionano più e, per conseguenza, si ritrae dal mondo per chiudersi in sé e nelle proprie fantasie. Egli finisce per chiudersi come dentro uno steccato e diventa l’intero proprio mondo (narcisismo). Può forse sembrare coraggioso un simile atteggiamento, risolutamente totalitario, contrapposto all’assumere l’esistenza a piccole dosi, con cui ci si confronta di volta in volta, ma, come sottolinea Rank, in realtà si tratta soltanto d’una manovra difensiva, per evitare d’impegnarsi nel mondo:

…quest’apparente egocentrismo, originariamente altro non è che un meccanismo di difesa contro la minaccia della realtà… [Il nevrotico] continuamente si sforza di completare il suo ego… ma rifiuta di pagarne il prezzo14.

Vivere significa impegnarsi a fare esperienze, ma adeguandosi in qualche modo a quanto esse richiedono. Occorre esporsi ad agire senza alcuna garanzia di risultato soddisfacente e sicuro: non si può sapere cosa ne verrà fuori o se faremo la figura di stupidi; e invece il nevrotico esige 323

precise garanzie perché non vuole rischiare brutte figure. Assai giustamente Rank definisce ciò «l’autoimposta sopravvalutazione di se stessi», mediante la quale il nevrotico tenta di gabbare la natura15. Si rifiuta di pagare il prezzo che questa gli richiede, e cioè invecchiare, ammalarsi e morire. Anziché vivere la propria esperienza, se ne costruisce una di fantasia, e invece di incarnarla nell’attività, tutto il suo lavoro consiste in castelli in aria. Possiamo tirare la conclusione che la nevrosi è lo specifico rischio di un animale raziocinante, per il quale il corpo rappresenta un problema. Invece di vivere in accordo colla sua situazione biologica, egli si slancia nel mondo delle fantasie; anziché condurre la propria esistenza in quel modo settoriale, previsto dalla natura, pretende di librarsi esclusivamente nell’empireo dei ragionamenti. Si vorrebbe sostituire il magico e universale mondo dell’io razionale a quello concreto e frammentario dell’esperienza. Occorre ripetere che, sotto questo aspetto, ognuno di noi è nevrotico, perché tutti ci ritraiamo in qualche modo dalla vita e lasciamo che la nostra visione razionalizzante del mondo organizzi le cose: la moralità culturale ha appunto questo scopo16. In questo senso l’artista è il più nevrotico tra gli esseri umani, perché anch’egli assume il mondo nella sua totalità e da esso deduce un problema largamente ideale. Se questa nevrosi è caratteristica comune a tutti e più in particolare all’artista, dove si dovrà tracciare quella linea divisoria che segnala la nevrosi come problema clinico? Come già s’è detto, uno dei segnali è rappresentato dalla presenza di un qualche sintomo deformante o da uno stile di vita esageratamente costrittivo, con il quale l’individuo si sforza di gabbare la natura restringendo il campo della 324

propria esperienza, pur restando sensibile al terrore della vita, a un certo livello di coscienza. D’altronde non gli è possibile organizzare il proprio trionfo sulla vita e sulla morte dentro di sé o nel ristretto ambito del suo eroismo senza pagare un certo pedaggio, consistente in qualche sintomo di nevrosi o in senso di colpa e di futilità, dovuti al vivere in modo incompleto. Un altro modo d’oltrepassare i limiti e piombare nella nevrosi clinica va naturalmente ravvisato sulla base di quanto s’è detto fin qui. Rank si chiedeva la ragione per cui l’artista così spesso sfugge alla nevrosi, pur essendone un candidato naturale, sia per la sua vivida immaginazione, sia per la sua apertura agli aspetti più belli e più completi dell’esperienza, sia infine per la sua refrattarietà alle opinioni correnti del mondo culturale. La risposta, secondo Rank, andava ricercata nel fatto che l’artista recepisce il mondo, ma invece di lasciarsene schiacciare, lo rielabora dentro di sé e lo ricrea col suo lavoro artistico. Il nevrotico è invece uno che non sa creare: «un artista mancato», nell’espressione di Rank. Si potrebbe anche affermare che sia l’artista che il nevrotico hanno in comune di addentare una fetta di mondo maggiore di quanto possano masticare, ma l’artista ha il vantaggio di saperla sputare fuori, rimasticandola in modo oggettivo come progetto di lavoro esterno e attivo. Il nevrotico invece non riesce a mettere in piedi una simile risposta creativa, incarnata in un’opera specifica, e finisce col soffocare nella sua introversione, di cui anche l’artista soffre, ma sapendo avvalersene come di materiale17. La differenza fra queste due situazioni viene lucidamente così espressa da Rank:

325

…è proprio il fatto stesso dell’idealizzazione di conflitti puramente psichici che costituisce la differenza tra il tipo produttivo e quello improduttivo, rappresentati dall’artista e dal nevrotico. Mentre infatti la capacità creativa del nevrotico, come quella degli artisti più primitivi, è sempre legata al proprio io e in esso s’esaurisce, il tipo produttivo riesce a trasformare questo processo creativo da un fenomeno esclusivamente soggettivo in un altro di natura oggettiva, il che significa che — attraverso l’idealizzazione — egli riesce a tradurre in opera ciò che aveva dentro se stesso18.

Il nevrotico s’esaurisce non soltanto in personali preoccupazioni, quali le paure ipocondriache e altri generi di fantasticherie, ma anche in affanni riguardanti gli altri, che gli stanno attorno e sui quali fa assegnamento per i suoi piani terapeutici, scaricando così su di loro i propri problemi soggettivi. Purtroppo però gli altri non sono fatti di malleabile creta, dotati come sono di personali bisogni e volontà. La frustrazione del nevrotico, come artista mancato, non può trovar rimedio che in un lavoro creativo suo proprio. Un altro modo di guardare questo fatto è la costatazione che quanto più si percepisce il mondo come un problema, tanto più ci si sente interiormente inferiori e inadatti. Si può tentare d’esorcizzare tale inadattezza sforzandosi di raggiungere la perfezione e in tal caso il sintomo nevrotico si confonde col proprio lavoro creativo; oppure si può mirare a raggiungere la perfezione per mezzo del proprio partner. Rimane comunque ovvio che la sola maniera per dare la scalata alla perfezione si riassume nel 326

lavoro oggettivo, totalmente sotto il proprio controllo e perfettibile in qualche concreto modo. Ci si rassegna a rodersi, riguardo a sé e agli altri che ci stanno attorno, in fantasticherie di perfezione, oppure si oggettivizza in un lavoro il proprio tormento da imperfezione, dando con ciò via libera alle proprie capacità creative. Sotto questo aspetto, un certo genere di oggettività creativa è la sola risposta di cui disponga un uomo di fronte al problema della vita, perché così soddisfa la natura che esige ch’egli viva ed agisca obbiettivamente, da animale la cui vita affonda nel mondo. Ma in tal modo viene anche appagata la sua peculiare natura umana, perché il suo immergersi avviene nei suoi propri termini razionali e non come un riflesso del mondo quale risulta dalla semplice esperienza fisica dei sensi. L’individuo recepisce il mondo e ne deduce un problema d’insieme, al quale cerca di forgiare una risposta umana. Secondo Goethe, nel Faust, è questo il punto più alto raggiungibile dall’uomo. In quest’ottica, la differenza che intercorre tra l’artista e il nevrotico sembra ruoti soprattutto intorno a una questione di talento: è la differenza che passa — ad esempio — tra uno schizofrenico analfabeta e uno Strindberg, che sfociano l’uno tra i mentecatti e l’altro tra gli eroi della cultura, pur attingendo tutti e due da una stessa esperienza del mondo, ma con reazioni di qualità e potenza del tutto diverse. Se il nevrotico si sente vulnerabile di fronte al mondo, quale egli lo recepisce, la sua reazione è di spietata autocritica, perché non gli riesce di sopportare né se stesso, né l’isolamento in cui lo getta la sua individualità. Tuttavia prova sempre il bisogno di sentirsi un eroe, ed ha necessità di guadagnarsi immortalità sulla base delle sue doti uniche: ciò significa 327

che, in qualche modo e a dispetto di tutto, egli deve autoglorificarsi. Ma ciò avviene solo a livello di fantasticheria, non essendo egli in grado di architettare una qualche opera creativa che parli in suo nome sulla base di una sua perfezione oggettiva. Egli si trova imprigionato in un circolo vizioso, perché sperimenta l’inconsistenza di un’immaginaria autoglorificazione. In realtà nulla può riuscire convincente in modo stabile per un individuo, se non deriva da altri, o comunque, dal di fuori di se stesso in qualche modo, perché non esiste garanzia sicura di eroismo nella propria interiore immaginazione razionale. È per questo che il nevrotico si crogiola in sentimenti di inadeguatezza ed inferiorità, come appunto si verifica nel caso dell’adolescente che ancora non ha preso coscienza delle proprie autentiche doti. L’artista, invece, supera questi complessi e si autoglorifica perché ha il talento per farlo19. Da tutte queste disquisizioni emerge l’intercambiabilità dei termini ricorrenti di nevrosi, adolescenza, normalità, artista, con appena qualche leggera differenza, oppure con una speciale aggiunta come «talento», che cambia tutte le carte in tavola. Il talento, in sé, è di regola un fenomeno in gran parte legato alle circostanze e il risultato di fortuna e lavoro, ed è questo che conferisce alle vedute di Rank sulla nevrosi l’aggancio colla realtà della vita. Gli artisti sono nevrotici e creativi allo stesso tempo, ed anche i più grandi fra di loro possono presentare deformanti sintomi nevrotici, che inguaiano chi sta loro accanto, con esigenze e necessità di chiara impronta nevrotica, come provato dal rapporto che Carlyle ebbe con sua moglie. Senza alcun dubbio il lavoro creativo avviene, in molti casi, sotto una compulsione quasi indistinguibile dall’ossessione clinica pura e semplice, 328

e sotto quest’aspetto ciò che definiamo talento creativo altro non è se non una licenza, concessa dalla società, ad abbandonarsi all’ossessione. Anche ciò che noi designiamo come andazzo culturale gode di simile licenza: il proletariato esige l’ossessione del lavoro per salvarsi dalla pazzia. Mi sono chiesto sovente come la gente potesse resistere alla davvero indiavolata attività che si svolge in quelle infernali bolge che sono le cucine dei grandi alberghi, o gli immensi saloni dei ristoranti, o le agenzie di viaggio al culmine della stagione turistica, e mi meraviglia soprattutto come non impazziscano gli operai sottoposti alla tortura dei martelli pneumatici durante intere giornate di afa. La risposta è così semplice da sfuggirci con facilità: la pazzia di queste attività corrisponde esattamente alla condizione umana. Tutta la gente che vi è coinvolta è a posto, per noi, perché non avrebbe altre alternative se non la disperazione naturale. La quotidiana pazzia di queste attività costituisce una reiterata vaccinazione contro l’alienazione che sfocia nel manicomio. Per convincersene basta guardare la gioia e la voglia con cui questi lavoratori, al ritorno dalle ferie, riprendono i loro stressanti impegni. Si tuffano nel lavoro con serena calma perché la fatica soffoca qualcosa di assai più minaccioso: gli uomini debbono sentirsi protetti dalla realtà. Tutto questo propone un altro mastodontico problema al marxismo più evoluto, e cioè: qual è — o quale dovrà essere — la natura dell’ossessivo rifiuto della realtà che una società utopistica dovrà fornire affinché gli uomini non diventino pazzi?

Il problema dell’illusione

Abbiamo considerato la nevrosi come un problema di 329

carattere che può essere individuato nei due opposti atteggiamenti: o di esagerato restringimento nei confronti del mondo o di soverchia apertura. V’è gente troppo coartata nei limiti del loro mondo e vi sono altri che fluttuano, totalmente sganciati da esso. Rank individua come tipo speciale l’ipersensitivo, scopertamente nevrotico, ed ha probabilmente ragione se il caso di quest’ultimo viene inquadrato nel contesto della schizofrenia. Ma è assai rischioso sbilanciarsi in diagnosi dure e spicce quando sono in ballo i vari tipi di personalità, perché vi si riscontrano infiniti generi di mescolanze e combinazioni, che sfidano qualsiasi suddivisione precisa. Dopo tutto, uno dei motivi per cui ci si restringe troppo sta nel fatto che, a un certo livello di conoscenza, siamo portati a intuire che la vita costituisce un problema troppo grande e perciò minaccioso. E se diciamo che comunemente l’uomo risulta pressappoco equilibrato nel suo restringersi di fronte al mondo, ci resta da stabilire chi sia quest’uomo comune, il quale riesce forse ad evitare le cliniche psichiatriche, ma di ciò fa pagare il prezzo a qualcun altro che gli sta accanto. Siamo portati a pensare a quei ritratti a mezzo busto di personaggi romani che affollano i nostri musei: per un cittadino comune doveva essere un inferno vivere in quello stile a labbra strette: chiaramente non vogliamo soltanto tirare qui in ballo le meschinerie quotidiane e il minuto sadismo praticato sulla pelle di familiari e amici. Anche se l’individuo ordinario vive in una specie di oblio dell’ansietà, ciò avviene soltanto perché egli ha saputo erigere un massiccio muro per occultare il problema della vita e della morte. Per quanto protetto dal suo carattere anale, l’uomo normale, in tutto il corso della storia, è stato come la locusta e ha sparso 330

desolazione nel mondo, allo scopo di dimenticare i propri guai. Forse questa mescolanza di normalità e nevrosi si fa ancor più evidente se, invece che soltanto sotto l’angolazione del carattere, consideriamo la questione anche sotto un altro aspetto più generale: e cioè, come problema di realtà e illusione. In questa materia ancora una volta trionfa la capacità intuitiva di Rank, che rende facilmente afferrabile quanto abbiamo esposto in tema di nevrosi. Riassumendo, abbiamo visto che ciò che definiamo carattere umano, è in realtà una menzogna riguardo alla natura della realtà: il progetto di diventare causa sui rappresenta una vuota pretesa di invulnerabilità, basata su una illusoria protezione da parte di altri e del nostro ambiente culturale; come vuote pretese sono le idee della propria importanza in natura e i sogni di poter manovrare il mondo. Ma, dietro le quinte del progetto di essere causa sui, giunge il sussurro dell’ipotetica verità che la vita umana possa essere nient’altro che l’insignificante interludio di un dramma crudele, impastato di carne e di ossa, chiamato evoluzione, e che il Creatore possa preoccuparsi del destino dell’uomo e della sua sopravvivenza non più di quanto si sia preoccupato per i dinosauri. Tale sussurro corrisponde a quello che, stranamente, viene fuori dalla Bibbia colle parole dell’Ecclesiaste: «Vanità delle vanità: tutto è vanità!». V’è gente più sensibile alla menzogna della vita culturale e alle illusioni del progetto di diventare causa sui di quanto non lo siano altri che, senza darsi pensiero, vi si lasciano fiduciosamente irretire. Il nevrotico si trova inguaiato nell’equilibrare tra loro l’illusione, promossa dalla cultura, e la realtà naturale: la possibile tremenda realtà riguardo a se 331

stesso e al suo mondo, filtra a livello di coscienza. L’uomo ordinario, invece, almeno si regge sulla certezza che il gioco culturale è la verità incrollabile e duratura. Egli è persuaso di poter conquistare la propria immortalità nel contesto e sotto la guida dell’ideologia dominante su tale argomento e non accetta discussioni al riguardo, poiché tutto è così semplice e preciso. Il nevrotico invece:

…percepisce se stesso come irreale e la realtà come insostenibile, perché in lui i meccanismi dell’illusione vengono analizzati e distrutti dall’autocoscienza. Più non gli riesce di autoilludersi nei propri riguardi e anche il suo stesso ideale di personalità viene svestito di qualsiasi illusione. Egli percepisce se stesso come malvagio, oberato di colpa e indegno: come un’insignificante, debole e disperata creatura, insomma, allineata colla realtà della razza umana, scoperta anche da Edipo nel momento in cui il suo destino si compie. Tutto il resto è illusione e inganno, anche se necessari per sopportare se stesso e quindi anche la vita20.

In altre parole, il nevrotico s’isola dagli altri, non può liberamente affrontare con loro la parzializzazione del mondo, e quindi non riesce ad organizzare la sua vita sulla base delle loro menzogne riguardo alla condizione umana, perché si pone al di fuori della naturale terapia della vita quotidiana, centrata su un attivo e incurante impegno. Accade così che le illusioni, condivise da tutti gli altri, gli appaiano irreali21. E non gli è neanche possibile, come all’artista, crearsi nuove illusioni. Come incisivamente 332

affermava Anaïs Nin: «L’aspetto caricaturale della vita emerge non appena si dissolve l’ubriacatura dell’illusione»22. Non è forse per questo che v’è gente che annega nei fumi dell’alcool la disperazione che essi sentono per la realtà della vita? L’uomo è sempre costretto a immaginarsi e a credere in una seconda realtà o in un mondo migliore di quello che gli è dato dalla natura23. Sotto questo aspetto il sintomo nevrotico rappresenta un messaggio sulla verità del fatto che l’illusione d’essere invulnerabili è un inganno. Viene qui in taglio un’altra citazione di Rank, dov’egli tira le somme su questo problema dell’illusione e della realtà:

Colla verità è impossibile vivere. Per poter reggere alla vita si ha necessità d’illusioni: non soltanto di quelle esteriori, rappresentate dall’arte, dalla religione, dalla filosofia, dalla scienza e dall’amore, ma anche di illusioni interiori che sono alla base e condizionano quelle più esterne a noi [cioè un sicuro senso delle proprie capacità operative e di poter avere un peso sulle capacità altrui]. Quanto più l’uomo riesce ad accettare [l’esterna] realtà come verità, l’apparenza come essenza, tanto più egli sarà solido, bene inserito e felice… Tale sempre efficace pratica di autoinganno, finzione e fuorviamento, non rientra affatto tra i meccanismi psicopatologici…24.

Rank ritiene che questa sua opinione, per quanto paradossale, costituisca un autentico approfondimento di ciò che è l’essenza della nevrosi e la citazione da noi riportata è un’epigrafe del suo pensiero sull’argomento. Ed è, anzi, qualcosa di più, perché scuote radicalmente le basi 333

dei nostri concetti di normalità e buona salute, che vengono ridotte interamente a una questione di valori relativi. Il nevrotico decide di sganciarsi dalla vita perché trova difficile mantenere le proprie illusioni riguardo ad essa, il che prova appunto come la vita sia possibile soltanto sulla base di illusioni. Conseguentemente, per la scienza della salute mentale, il problema che s’affaccia è del tutto nuovo e rivoluzionario, ma riflette l’essenza della condizione umana: su quale livello d’illusione si vive?25 Affronteremo i corollari di questa premessa alla conclusione di questo capitolo, ma dobbiamo subito precisare che non va scambiato per cinico il nostro discorso sulla necessità dell’illusione. E vero che esiste un mucchio di falsità ed autoinganno nel progetto di diventare causa sui, proposto dall’ambiente culturale, ma va anche affermata la necessità d’un simile progetto. L’uomo ha bisogno d’un secondo mondo, il cui significato germoglia e piglia sostanza dentro di lui come una nuova realtà che egli può vivere e drammatizzare traendone nutrimento. Illusione significa dunque gioco creativo al suo livello più alto. L’illusione culturale è una necessaria ideologia di autogiustificazione, che conferisce all’animale ragionevole una dimensione eroica, centrata sulla vita stessa. Perdere la sicurezza dell’illusione eroica, forgiata dalla cultura, significa morire ed è esattamente quanto accade ai popoli primitivi in conseguenza della loro deculturizzazione, che li uccide o li riduce al livello di animali, cui è rimasto l’unico sfogo di guerreggiare senza fine e accoppiarsi. La vita riesce loro possibile solo riducendosi ad un cronico inebetimento da alcoolizzati. Molti dei vecchi pellirosse del Nord America provarono sollievo quando i grandi Capi Bianchi di 334

Washington e di Ottawa presero il controllo della situazione, ponendo fine alle loro vendette e guerre, che li tenevano costantemente in ansia per la sorte delle loro famiglie, se non per se stessi. Ma si rendevano anche conto, con infinita tristezza, che la sparizione del loro sistema di eroismo li riduceva in uno stato quasi di morte26.

La nevrosi come fenomeno storico

Il nostro terzo approccio generale al problema della nevrosi riguarda la sua dimensione storica ed è il più importante fra tutti, perché congloba tutti gli altri. Abbiamo visto che la nevrosi può essere considerata fondamentalmente come una questione di carattere, mentre ad un diverso livello può assumere l’aspetto di problema di illusione e di gioco culturale creativo. La componente storica rappresenta un terzo aspetto che assomma in sé gli altri due. La qualità del gioco culturale e dell’illusione creativa varia in ogni società e in ciascun periodo storico. In altri termini, l’individuo può più facilmente oltrepassare la linea divisoria e precipitare nella nevrosi clinica allorché, per giustificare la propria esistenza, egli si trova ridotto a non poter contare che su se stesso e sulle proprie risorse. Con validi argomenti, Rank poté sollevare la questione se la nevrosi non costituisca piuttosto un problema storico, anziché clinico. Se è vero che la storia è un succedersi di ideologie circa l’immortalità, allora i problemi degli uomini possono venir decifrati nel confronto con queste ideologie: quanto esse siano comprensive, quanto convincenti e capaci di rendere facilmente sicuri e fiduciosi gli uomini circa il loro eroismo personale. Ciò che caratterizza la vita moderna 335

è la bancarotta della quasi totalità delle tradizionali ideologie d’immortalità, che più non riescono ad assorbire ed incanalare la fame che l’uomo ha di sopravvivenza e di eroismo. La nevrosi costituisce oggi un problema così diffuso, appunto per la sparizione di convincenti drammi di eroica apoteosi dell’uomo27. La tesi è provata sbrigativamente dalla famosa costatazione di Pinel che annotava come il manicomio della Salpêtrière si fosse svuotato all’epoca della Rivoluzione Francese. Tutti i nevrotici si trovarono automaticamente coinvolti nel dramma di avvenimenti che li trascendevano e conferivano loro un’identità eroica. Tutta qui la spiegazione del fatto! Si è indotti a pensare che l’uomo moderno non riesca più a scoprire il nuovo eroismo nella sua vita quotidiana, come invece accadeva alla gente delle grandi società tradizionali nel compiere semplicemente i loro doveri d’ogni giorno di allevare i figli, lavorare e pregare. All’uomo d’oggi occorrono rivoluzioni e guerre, coi loro strascichi esiziali che le prolungano indefinitivamente. Questo è il prezzo che noi paghiamo per l’attuale eclissi della dimensione del sacro. Detronizzando le idee di Dio e anima, l’uomo è stato ributtato indietro a dover contare sulle sue esclusive risorse, su se stesso e sui pochi che gli stanno accanto. Persino gli innamorati e la famiglia appaiono come trappole e ci deludono, perché non possono sostituirsi alla trascendenza assoluta. Possono catalogarsi, tutt’al più, come povere illusioni, nel senso esposto poco sopra28. Rank costatò che questa esagerata coscienza di sé aveva ridotto l’uomo ai suoi soli mezzi e definì opportunamente «uomo psicologico» quello d’oggi. È un termine azzeccato in molti sensi. L’uomo moderno è diventato psicologico 336

perché s’è isolato dalla protezione delle ideologie collettive e non gli rimane altro che se stesso per giustificarsi dentro di sé. Ma è anche diventato psicologico a motivo dell’evoluzione del pensiero moderno dopo l’abbandono della religione. La vita intima dell’uomo è sempre stata tradizionalmente inquadrata nell’ambito dell’anima finché, nel secolo XIX, gli scienziati vollero riappropriarsi di quest’ultimo dominio della superstizione, togliendolo alla Chiesa. Essi pretesero di fare piena luce sull’intima essenza dell’uomo, liberandola dal mistero e assoggettandola alle leggi della causalità. Poco per volta accantonarono il termine anima e cominciarono a parlare di ego e a studiare come questo si sviluppi nei primi rapporti che il bambino ha con la madre. I supremi miracoli della parola, del pensiero e della moralità potevano ora venir studiati come prodotti sociali, anziché originati da interventi divini29. Questo rappresentò una grande conquista delia scienza, che raggiunse il suo culmine nell’opera di Freud, ma fu Rank che per primo si rese conto che questa vittoria della scienza sollevava più problemi di quanti ne risolvesse. La scienza credeva d’essersi liberata per sempre del problema dell’anima facendo oggetto di analisi scientifica il mondo interiore. Soltanto pochi vollero ammettere che tale ricerca nulla toglieva alla nozione di anima nello spiegare l’interiore energia degli organismi, il mistero della creazione e il governo della materia vivente. Non ha alcuna importanza che scopriamo che nell’uomo gli imperativi intimi riguardo a se stesso e al mondo, l’autocoscienza espressa nel linguaggio, l’arte, il riso e il pianto sono impiantati in lui dalla società. Restano sempre da spiegare le segrete spinte dell’evoluzione che hanno portato allo sviluppo d’un 337

animale capace di quell’autocoscienza, che continua a riassumere in sé ciò che chiamiamo anima, e resta il mistero del significato del ragionamento, impiantato in un organismo, dell’intima dinamica e delle spinte della natura. Da questo punto di vista, le reazioni isteriche dei credenti dello scorso secolo contro Darwin stanno solo a dimostrare quanto essi fossero sprovvisti d’immaginazione e deboli di fede, chiusi com’erano a qualsiasi senso naturale di meraviglia e sbigottimento. Tutto ciò che riguardava la vita doveva essere chiaramente definito e quando Darwin osò privarli del loro comodo miracolismo si sentirono perduti. Però il trionfo della psicologia scientifica ebbe risonanze ancora più perniciose, anche sé non riuscì nel suo intento di eliminare il concetto di anima. Riducendo l’anima all’ego e l’ego al primordiale condizionamento del bambino, che cosa ci resta? Nient’altro che l’uomo individuale, senz’altre scappatoie. Voglio dire, con ciò, che la promessa della psicologia — come di tutte le scienze moderne — riguardava l’introduzione di un’era di felicità per l’uomo, al quale sarebbe stato rivelato il funzionamento delle cose e l’intimo nesso tra cause ed effetti. Quando l’uomo avesse afferrato le varie cause, non gli restava altro da fare che prendere in mano il dominio della natura, inclusa la propria, e la sua felicità sarebbe stata assicurata. Ma qui s’affaccia la mistificazione dell’autoanalisi psicologica, di cui Rank, quasi unico tra i discepoli di Freud, capì subito la portata. Lo studio della psiche chiariva perché l’uomo si sentisse indegno, cattivo e colpevole, e gli offriva i mezzi per liberarsi da tali complessi ed essere felice. La psicologia intendeva anche spiegare perché l’uomo provasse questi sentimenti, colla prospettiva che, una volta spiegate le 338

ragioni dei suoi complessi di colpa, l’uomo riuscisse ad accettare se stesso e a vivere contento. In realtà, però, la psicologia riusciva a scoprire soltanto una parte dei motivi per cui l’uomo si dibatteva nel suo senso d’inferiorità, di cattiveria e di colpa, e precisamente la parte che si riferiva ad oggetti esterni, verso i quali egli si sforzava d’esser intonato, o che temeva, o di cui temeva l’abbandono, e cose del genere. Non intendiamo affatto affermare che ciò fosse cosa da poco, perché costituiva un’importante liberazione da quella che potremmo chiamare falsa cattiveria, dai conflitti artificiosamente causati dal proprio primitivo ambiente e dagli accidenti legati alla nascita e alla collocazione. Poiché una simile ricerca smaschera una parte della menzogna di essere causa sui, dà anche l’avvio a una certa onestà e maturità che consentono un migliore controllo di se stessi e contribuiscono ad un certo grado di libertà e alla felicità che ne consegue. Ma ecco ora il punto a cui vogliamo arrivare: il condizionamento dell’infanzia, ì conflitti con oggetti esterni, il senso di colpa nei confronti di alcuni e cose simili, costituiscono soltanto una parte del problema della persona, come già accennato poco sopra. La menzogna di essere causa sui mira a tutto l’insieme della natura e non solo agli elementi della prima età. La conclusione degli esistenzialisti è che la psicologia ha sollevato il velo dal senso di colpa nevrotico o dovuto alle circostanze, e dagli esagerati e non bene chiariti complessi di peccato personale, ma non ha assolutamente detto sillaba su quel concreto o innato senso di colpa che affligge ogni creatura umana. La psicologia ha bluffato pretendendo di appropriarsi dell’intero problema dell’infelicità, mentre ne affrontava solo una parte. Questo 339

appunto intendeva dire Rank quando scriveva:

…la psicologia che, un poco per volta, si sforza di soppiantare le ideologie religiose e morali, è solo parzialmente qualificata per fare ciò, perché è prevalentemente un’ideologia negativa e 30 disintegrante… .

La psicologia restringe la causa dell’infelicità personale alla persona stessa, che risulta così chiusa in sé, senza scappatoie. Ma noi sappiamo invece che la causa generale e universale dei personali complessi di cattiveria, colpa e inferiorità, va individuata nel mondo naturale e nel rapporto che la persona, come animale intelligente che deve trovarvi una sua sicura collocazione, intrattiene con esso. Tutte le analisi dell’universo non permetteranno all’uomo di scoprire chi egli sia, o la ragione per cui è qui sulla terra, o perché gli tocca morire, o come riuscire a fare della sua vita un trionfo. Quando la psicologia pretende di dare queste risposte, e crede di possedere la piena spiegazione dell’infelicità umana, allora si tramuta in frode e rende la situazione dell’uomo moderno un groviglio senza uscita. O, per dirla in altro modo, la psicologia limita la sua comprensione dell’umana infelicità entro i confini della personale storia esistenziale d’un individuo, e non sa spiegare in che misura l’infelicità individuale rappresenti essa stessa un problema storico nel senso più vasto: un problema, cioè, legato all’oscuramento delle rassicuranti ideologie collettive di redenzione. Rank scriveva al riguardo:

…Nel nevrotico, in cui s’assiste al crollo totale 340

dell’ideologia umana di Dio, appare anche evidente che cosa essa rappresenti dal punto di vista della psicologia. Ciò non è stato spiegato dalla psicoanalisi di Freud, la quale abbracciava soltanto questi processi distruttivi, che si verificavano nel paziente, sotto l’angolazione della sua storia personale, senza prendere in considerazione lo sviluppo culturale che sta alle origini del caso clinico31.

In realtà, se uno non si rende conto di questo, rischia di peggiorare la situazione del nevrotico, tagliandolo fuori da quella più ampia visione del mondo che gli occorre. Ecco di nuovo il pensiero di Rank:

…fu, infine, uno psicoanalista comprensivo che indirizzò il nevrotico intimidito a quell’antica conoscenza di sé, dalla quale voleva estraniarsi. Nell’insieme, dal punto di vista terapeutico, la psicoanalisi aveva fallito, aggravando il ginepraio di arzigogoli in cui si dibatteva il paziente, anziché curarlo dalle sue manie introspettive32.

O, per meglio dire, la psicoanalisi era stata incapace di curare, in quanto cercava unicamente nel sesso le cause dell’infelicità umana, e pretendeva d’abbracciare in sé l’intera visione del mondo. Possiamo concludere con Rank che la religione è «una psicologia altrettanto valida» quanto la stessa psicologia che pretendeva di sostituirla33. Anzi, sotto alcuni aspetti, è migliore perché raggiunge le radici vere dell’universale senso di colpa, anche se in alcuni casi riesce deleteria rinforzando lo strapotere dell’autorità 341

familiare e sociale e aggravando, fino a renderlo paralizzante, un qualche particolare senso di colpa. Non c’è risposta possibile alla dissacrante critica di Rank contro la psicologia moderna34. Basta dare un’occhiata allo sciame sempre crescente di pretesi maghi della psicologia che infestano il mercato per subodorarne le manovre. Partendo dallo scorso secolo, l’uomo si concentra sul proprio interno nella speranza di scoprire una nuova e sicura via verso l’immortalità. Aspira ad un’eroica apoteosi, come tutti gli esseri umani delle varie epoche storiche, ma per dargliela, pare gli resti soltanto il suo psicologostregone, nel ginepraio in cui s’è egli stesso impegolato. Sotto questo aspetto, come Rank affermava in tono piuttosto ironico, gli psicoterapisti «sono — per così dire — il prodotto del nevrotico, una conseguenza della sua infermità»35. L’uomo d’oggi ha necessità d’un interlocutore a cui rivolgersi per soddisfare la propria dipendenza spirituale e morale e, a causa dell’eclissi di Dio, il terapista ha dovuto rimpiazzarlo, allo stesso modo in cui, in epoche passate, lo facevano gli innamorati o i genitori. Ormai da parecchie generazioni, non afferrando bene tale problema storico, gli psicoanalisti hanno tentato invano di spiegarsi la ragione per cui l’«epilogo del transfert» in terapia risulti in troppi casi un diabolico imbroglio. Se avessero letto e capito Rank, si sarebbero subito resi conto che, nella loro veste d’interlocutori, essi impersonano il nuovo dio, in sostituzione delle antiche ideologie collettive di redenzione, e siccome nessun essere umano può mettersi nei panni di Dio, ne scaturisce necessariamente un diabolico problema36 *. L’uomo moderno è condannato a ricercare il significato 342

della propria vita attraverso l’introspezione psicologica e, di conseguenza, suo confessore diventa la suprema autorità in materia d’introspezione, cioè lo psicoanalista. Stando così le cose, l’al di là del paziente si restringe al divano dell’analisi e alla visione del mondo che di lì gli viene impartita37**. Sotto questo aspetto — come percepì chiaramente Rank — la psicoanalisi si risolve in beffa per la vita emotiva del paziente. L’uomo anela a valutare il proprio amore secondo una scala assoluta di potere e valore, e l’analista gli dice che tutto è riducibile ai condizionamenti subiti nell’infanzia e quindi relativo. L’uomo vuole scoprire e sperimentare lo straordinario e l’analista gli spiega che tutto è terra terra e che sono clinicamente spiegabili i nostri motivi ontologici più profondi e i vari complessi di colpa. L’essere umano, in tal modo, resta privato di quel mistero assoluto che gli è necessario e, in ultima analisi, la sola cosa onnipotente che rimane è l’uomo stesso — cioè l’analista — che ha spazzato via tutto38. E quindi il paziente si aggrappa all’analista con tutte le sue forze e trema alla prospettiva che l’analisi finisca39*.

Rank e Kierkegaard: la fusione tra peccato e nevrosi

Quanto più si approfondisce lo studio di Rank, tanto maggiormente i suoi scritti tendono a fondersi con quelli di Kierkegaard. Il fatto sbalordisce se si tiene in mente il grande progresso e l’accuratezza raggiunta dalla psicoanalisi clinica. A questo punto dovrebbe risultare evidente che una simile fusione tra Rank e Kierkegaard non va vista come una specie di sciocca resa a un’ideologia, ma piuttosto come 343

un’autentica conquista scientifica circa il problema del carattere umano. Ambedue questi studiosi approdarono alla stessa conclusione dopo la più completa ricerca psicologica. Agli estremi limiti dello studio scientifico, la psicologia deve cedere il passo alla teologia, e cioè a una visione del mondo che assorbe i conflitti individuali e i complessi di colpa e offre all’uomo la possibilità di una sua eroica apoteosi. L’uomo non può accettare la propria piccolezza, a meno che non riesca a darle un significato al più alto livello possibile. È qui che Rank e Kierkegaard s’incontrano in una storica, stupefacente concordanza di pensiero: peccato e nevrosi sono due termini per designare la stessa cosa, rappresentata dal totale isolamento dell’individuo, dalla sua disarmonia col resto della natura, dal suo esasperato individualismo, dal suo sforzo di costruirsi tutto il suo mondo dentro i limiti di se stesso. Sia il peccato che la nevrosi inquadrano l’individuo che si gonfia al di là della sua statura, rifiutando d’accettare la propria posizione di dipendenza cosmica. La nevrosi, come il peccato, è un tentativo di forzare la natura, una pretesa di potersi appoggiare unicamente a un illusorio progetto d’essere causa sui. Nel peccato, come nella nevrosi, l’uomo polarizza la propria attenzione su qualcosa di ristretto, a portata di mano, e pretende che l’intero senso e la stupefacente meraviglia del creato rientrino in quei suoi limiti, entro cui egli possa conseguire la propria felicità40. L’abbozzo che traccia Rank sul modo si configurarsi il mondo da parte del nevrotico, corrisponde interamente a quello del peccatore nei testi classici:

Il nevrotico smarrisce ogni specie di spiritualità collettiva e compie il gesto eroico di piazzarsi nel bel 344

mezzo dell’immortalità del suo proprio ego, come viene dimostrato con assoluta evidenza dalle osservazioni e dalle fantasie cosmiche di individui in preda alla psicosi41.

Ora sappiamo bene come un tentativo del genere sia condannato al fallimento, semplicemente perché l’uomo non può giustificare il suo proprio eroismo e non riesce a sistemarsi in un suo personale piano cosmico in maniera credibile. È condannato a vivere tra dubbi atroci, se resta anche solo a contatto con la realtà più ampia. Soltanto se riesce a recidere qualsiasi contatto, ogni dubbio svanisce e si realizza, in tal caso, la definizione di psicosi, e cioè una fede assolutamente irreale nell’autogiustificazione di eroismo cosmico: «Io sono Gesù Cristo!». Sotto quest’angolazione, come affermò Rank, la nevrosi rappresenta un tentativo di religione individuale e un autoattribuirsi l’immortalità42. Peccato e nevrosi presentano anche un altro aspetto comune: condividono non solo il loro irrealistico gonfiarsi nel rifiuto d’ammettere la propria posizione di creature, ma anche la penalità per un’eccessiva coscienza di sé, che impedisce di trovare conforto in illusioni condivise. Il risultato è che il peccatore-nevrotico è più che conscio di quel fatto stesso che si sforza di negare, e precisamente il suo stato di creatura, con la conseguente insufficienza e indegnità43. Il nevrotico si trova ributtato indietro alle sue realistiche percezioni della condizione umana, che sono la radice prima del suo isolamento e individualismo. Egli aveva tentato di costruirsi un pomposo mondo privato interiore, proprio a motivo delle sue ansie, ma la vita si vendica. Più egli si separa e si gonfia, più diventa ansioso; più s’idealizza 345

artificiosamente, più è portato a criticarsi senza pietà, così da trovarsi sospeso fra i due estremi di «Io sono tutto» e «Io sono niente»44. Ma è chiaro che se uno deve pur essere qualcosa, lo sarà solo a patto di ritrovarsi e riconoscersi come parte di qualcos’altro. Non c’è scappatoia al saldo del debito di dipendenza e capitolazione di fronte al significato più ampio del resto della natura, e al pedaggio di sofferenza e di morte che essa esige. E non è possibile assolvere a questo pagamento chiudendosi in sé, per quanto ci si sforzi. Ma qui si profila la diversità tra il peccatore classico e il nevrotico moderno: l’uno e l’altro toccano con mano l’autenticità dell’insufficienza umana, colla differenza che oggi il nevrotico è privo di una razionale visione del mondo, e cioè della ideologia basata su Dio, che potrebbe dare un qualche senso alla sua indegnità e trasformarla in eroismo. La religione tradizionale tramutava la coscienza del peccato in una condizione per la salvezza, mentre il torturante senso del nulla del nevrotico lo qualifica solo per l’estinzione, con una morte che ponga fine ai suoi supplizi. Va benissimo sentirsi un nulla di fronte a Dio, che solo è capace di rimediare a tale situazione nelle sue misteriose vie, ma è tutt’altra cosa essere un nulla di fronte a se stesso, che un nulla lo è davvero. Rank riassume così il suo pensiero sull’argomento:

Il tipo nevrotico soffre per una coscienza del peccato altrettanto quanto ne soffriva il suo antenato religioso, pur senza ammettere l’idea di peccato. Ed è esattamente questo che lo rende nevrotico: egli si sente peccatore pur senza possedere la credenza religiosa nel peccato, per il quale gli occorre, quindi, una nuova 346

spiegazione razionale45.

Tale è la trappola in cui si trova l’uomo d’oggi, peccatore ma senza il concetto di peccato o, peggio ancora, costretto a ricorrere al dizionario di psicologia per spiegarsi il termine, il che aggrava ulteriormente il problema della sua segregazione ed esasperata consapevolezza. È a questo vicolo cieco, torniamo a ripetere, che si riferiva Rank quando definiva la psicologia «un’ideologia prevalentemente negativa e disintegrante».

La sanità come ideale

Abbiamo ora concluso l’esame dei tre aspetti sotto cui si presenta il problema della nevrosi: quale risultato della formazione del carattere, come problema della realtà di fronte all’illusione e infine come conseguenza di circostanze storiche. Naturalmente questi tre aspetti si fondono in un tutto unico. L’uomo, nel bene o nel male, vive le proprie contraddizioni inquadrato in un qualche progetto culturale del periodo storico in cui si trova. Nevrosi è semplicemente un altro termine per indicare il problema universale della condizione umana: si trasforma in termine clinico quando l’individuo resta impantanato tra le difficoltà del problema, allorché il suo eroismo brancola nel dubbio o diventa autodistruttivo. Per natura loro gli uomini sono nevrotici e lo sono sempre stati, ma in alcune epoche hanno avuto vita più facile che non in altre nel mascherare la loro reale condizione. Essi riescono ad evitare la nevrosi clinica se possono vivere fiduciosamente il loro eroismo in un qualche genere di dramma che li trascenda. L’uomo d’oggi vive le 347

proprie contraddizioni nel peggiore dei modi, perché le circostanze attuali hanno eliminato o messo in ombra qualsiasi convincente dramma di apoteosi eroica, di divertimento creativo e di illusione culturale. Più non esiste una visione del mondo che abbracci l’intero universo del nevrotico e su cui egli possa basarsi — immergendovisi — per mascherare il proprio problema. Per questo motivo, ai nostri giorni, s’è fatto difficile curare la nevrosi46. Tale è la catastrofica conclusione di Rank, di tinta kirkegaardiana: se la nevrosi è peccato e non malattia, allora il solo rimedio che la possa curare è una nuova visione del mondo, un qualche genere di ideologia, collettiva e positiva, in cui l’individuo possa interpretare la parte vitale della sua accettazione di sentirsi creatura. Soltanto così il nevrotico riesce a venir fuori dal suo isolamento per divenire parte di quel tutto, assai più ampio e sublime, che la religione propone da sempre. Nell’antropologia tutte queste cose vengono designate come complessi mitico-rituali della società tradizionale. Sia che il nevrotico senta la mancanza di qualcosa al di fuori di sé, che impersoni il suo bisogno di perfezione, sia che egli si roda colle sue ossessioni, il complesso mitico-rituale rappresenta un rimedio sociale per incanalare i suoi guai. Si potrebbe affermare che tale complesso metta alla portata di ognuno l’ossessione creativa, ed è esattamente questa la funzione del rituale, intravista da Freud quando parlava del carattere ossessivo delle religioni primordiali, accostandolo all’ossessione nevrotica. Ma Freud non afferrò la naturalezza del fenomeno, né capì come qualsiasi tipo di vita sociale rappresenti, in qualche modo, la ritualizzazione ossessiva di quel controllo. Ciò automaticamente origina sicurezza e bandisce la 348

disperazione, semplicemente perché fa sì che la gente punti lo sguardo diritto al naso e tiri avanti. Per un organismo attivo, la disfatta della disperazione non costituisce principalmente un problema dell’intelligenza, ma piuttosto dell’autostimolazione, che sfocia in movimento. Oltre ad un certo limite non è più il maggior sapere che aiuta l’uomo, ma bensì il vivere e l’operare in un modo parzialmente dimentico di sé. Come scrisse Goethe, dobbiamo tuffarci prima nell’esperienza, e poi riflettere sul suo significato. Riflettere senza tuffarsi, finisce col farci impazzire; tuffarsi senza riflettere ci riduce allo stato di animali bruti. Goethe stilò queste massime proprio all’epoca in cui l’individuo andava smarrendo la copertura protettiva della società tradizionale e la sua vita quotidiana si stava facendo un problema, perché più non sapeva quali fossero le giuste dosi di esperienza. A questo esatto dosaggio, provvedeva — un tempo — l’uso tradizionale, che quasi ritualmente segnava tutte le decisioni importanti della vita ed anche gli eventi quotidiani. La nevrosi altro non è che il ricorso a un ossessivo rituale privato per rimpiazzare quello convenzionale d’un tempo, perduto in seguito alla liquidazione della società consuetudinaria. Le usanze e i miti di tale società fornivano un’interpretazione completa del significato della vita, alla portata dell’individuo, cui altro non restava da fare se non darvi il suo fattivo assenso. Al nevrotico moderno non resta altro da fare, se vuole essere curato, che accettare un’illusione per reggere alla vita47. Un conto è fare della teoria su questa cura, e ben diverso invece prescriverla per l’uomo d’oggi, perché forzatamente suona vuota alle sue orecchie. Anzitutto perché non gli vengono più messi a disposizione dei complessi mitico349

rituali vivi, quali erano le radicate tradizioni sociali, ereditariamente trasmesse, che fino a ieri sostenevano gli uomini. Purtroppo essi non sono acquistabili — dietro ricetta — alla farmacia vicina. E nemmeno le cliniche mentali o le case di cura li hanno disponibili. Il nevrotico d’oggi non può scoprire, con un colpo di bacchetta magica, il mondo che gli occorre, ed è per questo ch’egli si sforza di crearsene uno per proprio conto. Appunto sotto questo aspetto cruciale, la nevrosi riassume in sé l’attuale tragedia dell’uomo, rimasto orfano, dal punto di vista storico. Una seconda ragione di futilità, per la nostra ricetta, è conseguenza della prima. Se non esistono più visioni tradizionali del mondo, già fatte e pronte per calarcisi dentro con fondata fiducia, anche la religione diventa materia assai personale: tanto personale da far sembrare nevrotica anche la fede, ridotta a fantasia privata e a decisione scaturita da debolezza. La cosa impossibile per l’uomo moderno è quella prescritta da Kierkegaard: il salto solitario nella fede, l’ingenua fiducia personale in un qualche genere di trascendentale sostegno per la propria vita. Un tale sostegno, oggigiorno, lo si concepisce come sganciato da riti e usanze esteriori, poiché la chiesa e la comunità, anche dove non hanno cessato d’esistere, non godono di molto credito. Questo stato di cose contribuisce a rendere la fede irreale, dato che un fenomeno per sembrare vero all’uomo deve avere basi visibili ed essere concretamente vivo, visibile e vincolante. Gli uomini hanno bisogno di spettacolo, di folla, di trofei, di giorni speciali segnati sui calendari: qualcosa, insomma, su cui oggettivamente accentrare la loro attenzione e che dia forma e sostanza alla loro interna fantasia; qualcosa d’esterno a cui 350

potersi arrendere. Senza di questo il nevrotico è ricacciato al punto di partenza: come può egli affidarsi al proprio intimo ed isolato senso d’essere speciale?48* Un terzo problema è che l’uomo moderno si sente vittima delle proprie delusioni, reso scettico dalla sua capacità analitica. Sua caratteristica è l’aver eliminato il mistero, le sciocche credenze e le speranze semplicistiche. Amiamo mettere l’accento su ciò che è visibile e chiaro, sul rapporto tra causa ed effetto, su ciò che è indiscutibilmente logico. Conosciamo bene la differenza tra i sogni e la realtà, tra i fatti e l’immaginazione, tra il mondo delle idee e quello concreto dei corpi. Ma salta subito agli occhi che tali caratteristiche dell’intelligenza moderna corrispondono esattamente a quelle della nevrosi: infatti, tipica del nevrotico è la conoscenza della propria situazione di fronte alla realtà. Non nutre dubbi al riguardo: qualunque cosa si dica non riesce a smuoverlo o a dargli speranza e fiducia. Egli si riduce a considerarsi un miserando animale, il cui corpo si deteriora in attesa della morte, che lo ridurrà in polvere e lo consegnerà a quell’oblio dove sparirà per sempre, non soltanto da questo mondo, ma da tutte le possibili dimensioni dell’universo, perché la sua vita non ha scopo, tanto che sarebbe stato meglio se non fosse nato… e via di seguito con questa stessa solfa. Egli conosce la Verità e la Realtà, basi del suo intero universo! Fu Chersterton che tenne vivo lo spirito di Kierkegaard e del cristianesimo ingenuo nel pensiero moderno, quando con vena brillante dimostrò che le caratteristiche di cui l’intelligenza attuale va più orgogliosa corrispondono esattamente a quelle della pazzia49. Non c’è alcuno così esasperatamente logico come il pazzo, di cui nessuno 351

eguaglia la sottigliezza nel disquisire di cause ed effetti. È risaputo che i matti sono i più accaniti ragionatori e che in ciò va ricercata una delle radici della loro rovina: tutti i loro processi vitali vengono accatastati nella mente. Che cosa più li contraddistingue dai sani? Il fatto che questi ultimi sanno infischiarsi di molte cose e passare sopra le apparenze; riescono a rilassarsi e a ridere del mondo e di se stessi. I matti non arrivano e non sono mai in grado di puntare la loro intera esistenza in una fantasiosa scommessa, come Pascal. Non possono accettare ciò che la religione ha sempre richiesto, e cioè di credere in una giustificazione della loro vita che appare assurda. Il nevrotico è convinto di saperla più lunga, perché la fede chiede all’uomo di dilatarsi oltre le dimensioni della logica, in un’espansione spirituale che riesce difficilissima per l’uomo moderno, arricciato com’è in se stesso e senza nulla su cui appoggiarsi, né alcun dramma collettivo che dia sostanza all’immaginazione mediante un’attività condivisa. Sia ben chiaro che io non intendo qui farmi avvocato della religione tradizionale, ma mi limito a delineare l’impoverimento del nevrotico odierno e a trattare di alcune cause del fenomeno. È mia intenzione stabilire una certa base per far capire come Rank si collochi nel bel mezzo della tradizione dei Pascal, Kierkegaard e Chersterton riguardo al problema della fede e dell’illusione o del gioco creativo. Come abbiamo appreso da Huizinga e da altri scrittori più recenti, come Joseph Pieper e Harvey Cox, la sola verità sicura posseduta dagli uomini è quella che essi stessi si creano e drammatizzano: vivere vuol dire giocare sul significato della vita. Il punto culminante di quest’intera tradizione di pensiero è che essa c’insegna, una volta per 352

tutte, che la bambinesca spensieratezza rappresenta la vocazione ultima degli uomini maturi. Questa appunto è la cura prescritta da Rank per la nevrosi: «la necessità d’una giusta spensieratezza»50. Il problema della convergenza tra religione, psichiatria e scienze sociali va inquadrato in questa formula. Abbiamo già detto, in antecedenza, come la questione centrale per la vita umana sia: «A quale livello d’illusione vive l’individuo?». Trova qui radice un interrogativo assolutamente inedito per la scienza della sanità mentale, e cioè: Quale è l’illusione migliore in base alla quale si può vivere? O se vogliamo: Quale è la follia più giusta? Se si deve discutere di illusione che promuove la vita, dobbiamo in verità tentare di rispondere all’interrogativo su che cosa sia «migliore». Questo concetto dovrà essere definito in termini chiaramente significativi per l’uomo, correlati alla sua condizione fondamentale e alle sue necessità. Penso che la domanda debba trovare risposta sulla base di quale misura di libertà, dignità e speranza venga resa possibile da una particolare illusione. Sono infatti questi tre elementi attorno a cui ruota il problema della nevrosi naturale, che essi possono tramutare in un vivere creativo. Per quanto riguarda il problema della libertà, la risposta va cercata dove essa appare più vistosamente offesa: nel fenomeno del transfert, cioè, in cui l’uomo viene schiacciato e reso schiavo. Il transfert trasforma in feticci il mistero, il terrore e il potere e per loro mezzo tiene le persone prigioniere. La religione controbatte il problema del transfert, dando quella dimensione cosmica, loro appropriata, al timore e al terrore. Essa s’assume anche il problema della giustificazione di se stessi, rimovendolo dagli 353

oggetti a portata di mano, poiché in essa non è più indispensabile rendersi accetti alla gente che ci sta attorno, ma bensì alla sorgente stessa dell’universo, alle potenze che ci hanno creato, e non a quelli nelle cui vite ci siamo casualmente imbattuti. La nostra esistenza cessa allora d’essere un dialogo che riflette i criteri delle nostre mogli, o mariti, o amici, o capi, e passa a misurarsi con le norme dell’eroismo più alto, con ideali perfettamente adatti a guidarci avanti, al di là dei nostri limiti. In tal modo noi ci impregniamo di valori autonomi, possiamo prendere decisioni davvero libere e, cosa ancor più importante, giungiamo ad appoggiarci su forze che veramente ci sorreggono, anziché contrastarci51. Nell’ambito della religione, la personalità può realmente cominciare ad emergere, perché Dio, nella sua qualità di Essere sganciato dalla materia, non si contrappone all’individuo come accade cogli altri essere umani: Egli, anzi, provvede l’individuo di tutte quelle energie che gli sono necessarie per raggiungere un’indipendente giustificazione della propria esistenza. Quale maggior sicurezza che quella d’appoggiarsi fiduciosamente a Dio, sorgente dell’intero creato, e Potenza tremenda fra tutte. Tanto meglio che questo Dio sia nascosto e abiti la luce inaccessibile, perché ciò permette all’uomo di espandersi e svilupparsi con una certa indipendenza. In tale contesto, il problema del transfert — come tutte le umane cose — diventa, almeno in parte, un problema di valori e una questione d’ideali. Freud si sforzò di mantenerlo interamente nella sfera scientifica, dimostrando quanto le percezioni della realtà costituissero un transfert esagerato e falso, il che è fondamentalmente esatto. Ma 354

allora quale è la norma della vera percezione? Qui Freud stesso si trova a brancolare. Che c’è mai di più fantasioso delle percezioni d’un innamorato, il cui animo è rapito e traboccante per le sue esagerazioni stesse?52. Van der Leeuw, il grande psicologo della religione, comprese assai meglio di Freud il problema delle intrusioni operate dal transfert. Citando un antico testo egiziano, in cui un certo Paheri proclama voce di Dio che abita nell’uomo la coscienza interiore, egli commenta:

Ora, è certamente possibile — con Nietzsche e Freud — attribuire ad infantilismo la «estraneità» della voce, che ci richiama ad evitare qualcosa: «Non voce di Dio nel cuore dell’uomo, ma voce di alcuni uomini nell’uomo» (Nietzsche).

Ma Van der Leeuw conclude con una sorprendente osservazione: «Tuttavia, noi siamo inclini a preferire la spiegazione egiziana, perché in questa materia la fenomenologia non ha voce in capitolo»53. In altri termini, la preferenza può giustificarsi dal maggior respiro che essa conferisce all’essere umano, che più genialmente viene collegato colle misteriose supreme potenze. La consapevolezza di Dio non è soltanto un transfert regressivo, ma anche una possibilità creativa. Però, a differenza di Van der Leeuw, noi pensiamo che su questo soggetto la psicologia deve prendere posizione, data la sua competenza circa forme di transfert più o meno costrittive. Comunque, il merito principale della religione consiste nel risolvere il problema della morte, per il quale non offre soluzioni alcun individuo vivente, per quanto disposto a 355

sostenerci. La religione invece, presenta la soluzione di un’eroica vittoria nella libertà e dà risposta al problema della dignità umana, al suo più alto livello. Vengono così affrontati ambedue i motivi ontologici dell’umana condizione: sia la necessità d’arrendersi in pieno al resto della natura, divenendone parte coll’offrire l’intera propria esistenza ad un più alto significato; sia il bisogno di realizzarsi pienamente come eroica personalità individuale. Infine, soltanto la religione dà speranza, perché introduce la dimensione dell’ignoto e dell’inconoscibile, l’esaltante mistero della creazione che la mente umana riesce appena a sfiorare, la possibilità di sfere d’esistenza di dimensioni molteplici, del cielo, l’ipotesi di categorie diverse che squinternano la nostra logica terrena: ciò facendo dà respiro all’assurdità della vita terrena e alle insostenibili limitazioni e frustrazioni degli esseri viventi. Nella terminologia religiosa «vedere Dio» equivale a morire, poiché la creatura è troppo piccola e limitata per reggere di fronte al significato più alto della creazione. La religione assume la stessa condizione di creatura, colla sua irrilevanza, e la rende argomento di speranza. La piena trascendenza della condizione umana schiude possibilità illimitate, al di là d’ogni nostra immaginazione54. Allora, quale è l’ideale per la sanità di mente? Una vissuta e forzante illusione che non menta alla vita, alla morte e alla realtà, onesta al punto da seguire i comandamenti che impone, quali il non uccidere, neanche quando si tratti di giustificare la propria vita. Rank considerò il cristianesimo come una vera e grande follia ideale, nel senso già discusso in antecedenza: un’infantile, fiduciosa speranza riguardo alla condizione umana, a cui schiude il regno del mistero. 356

Ovviamente tutte le religioni non realizzano mai il loro ideale in modo completo e Rank faceva riferimento a un cristianesimo più ideale che concreto, perché l’istituzione cristiana, non diversamente dalle altre religioni, ha praticamente rafforzato il transfert regressivo, facendone un legame ancora più soffocante: ai padri viene infatti conferita la consacrazione dell’autorità divina. Ma idealmente, su tutti gli argomenti trattati da noi, il cristianesimo si colloca ben in alto e ancora più eccelso appare in alcune aree vitali, come dimostrato in modo incontrovertibile da uomini quali Kierkegaard, Chesterton e Niebuhr e molti altri55. Come ora siamo meglio in grado di capire, stupisce il fatto che Rank — a conclusione d’una vita di studio — sia giunto a saldare il cerchio della psicoanalisi stessa con questa tradizione di pensiero. In ciò egli si colloca a fianco di Jung, come convincentemente dimostrò Progoff56.* Da ultimo, se la sanità mentale è un problema d’illusione ideale, dobbiamo confrontarci con un grosso interrogativo concernente il carattere umano. Se vogliamo parlare di quale sia l’ideale migliore, dobbiamo allora anche occuparci dei costi degli altri ideali inferiori. Qual è il pedaggio pagato dalla personalità umana per il mancato appagamento pieno delle due esigenze ontologiche appaiate dell’uomo? Questo ci riporta di nuovo al problema della vita di Freud: qual è il prezzo da lui pagato per la negazione della trascendenza assoluta e per il tentativo di fabbricarsi una propria religione? Allorché un individuo commette l’errore di non derivare le energie della sua esistenza dalla sorgente più alta, qual è lo scotto che ne pagano sia lui che quanti lo seguono? Trattando del carattere, non abbiamo ancora sfiorato questi argomenti, che a me sembrano obbligatori e fondamentali a 357

tal punto da costituire la questione-chiave, al di fuori della quale è impossibile affrontare in modo logico il problema della sanità mentale. Rank ha espresso così la domanda fondamentale: «L’individuo è in grado di affermare e accettare se stesso, basandosi su di sé?» Però egli scantona subito e afferma che «non è possibile rispondere». Soltanto il tipo creativo può farlo, fino ad un certo punto — ragionava Rank — servendosi del proprio lavoro come giustificazione della sua esistenza57. Io stesso avevo formulato tale questione come centrale per la scienza dell’uomo, senza sapere che Rank stesso vi aveva risposto in altri testi58 di cui ci siamo occupati nell’ultimo capitolo: anche il tipo creativo deve idealmente arrendersi a poteri che lo trascendono59. Jung, colla sua penetrazione analitica, ne afferrò il motivo, consistente nel fatto che la persona eccezionale riconduce a se stessa le proprie proiezioni di transfert. Come notavamo nel precedente capitolo, una delle ragioni della sua creatività è che egli vede il mondo nei suoi propri termini soggettivi, con piena fiducia in se stesso. Ciò, però, sfocia in una pericolosa megalomania, perché l’individuo finisce col traboccare di significati suoi propri. Inoltre, se uno non parzializza il mondo mediante le percezioni basate sul transfert, le totalità di esperienza accollano un peso tremendo sull’ego e rischiano di annientarlo. L’individuo creativo è troppo pieno sia di sé che di mondo60. Poiché la persona creativa, come già ricordato, ha in comune col nevrotico gli stessi problemi di personalità e la stessa ingestione eccessiva di esperienza totale, essa ha necessità di un certo genere di annacquamento, ottenuto attraverso una nuova e maggiore dipendenza: una dipendenza che, idealmente, dev’essere 358

liberamente scelta, afferma Rank. Come abbiamo pateticamente visto nel caso di Freud, anche i più forti tra noi tremano come bambini quando sono costretti ad assumersi l’intero senso della vita e a portarne il peso colle loro deboli forze di creature. Abbiamo visto, sul finire del capitolo VI come Freud non sia riuscito mai a compiere il passo che divide lo stato di creatura, considerato dal punto di vista scientifico, a una visione religiosa della condizione umana. Come Jung comprese benissimo, un tale passo avrebbe significato per Freud l’abbandono della sua particolare passione di genio. Fu sulla base della sua personale esperienza che Jung capì questo: egli, infatti, non trovò mai il coraggio di visitare Roma perché — egli ammetteva — Roma solleva problemi «che le mie forze non riescono a controllare. Nella mia età avanzata (1949) volevo porre rimedio a questa mancanza, ma ebbi uno svenimento mentre compravo il biglietto. Dopo di che i miei piani per una visita a Roma furono definitivamente accantonati»61. Che cosa mai si può dedurre dal fatto di questi giganti che svengono dinanzi alla prospettiva di un viaggio, che per noi si risolverebbe in semplice turismo? Anche Freud non riuscì a visitare Roma se non in tarda età, perché ogni volta che s’avvicinava alla città, prendeva la direzione opposta. Penso che, dopo aver discusso la saldatura col pensiero di Kierkegaard, operata da Rank, siamo in grado di capire questo problema, rifacendoci soprattutto ai suoi scritti sulla psicologia dell’artista. Gli uomini sopra ricordati covavano problemi estranei ai comuni turisti: erano innovatori che tentavano di dare significati del tutto nuovi alla creazione e alla storia, e ciò significava per loro dover reggere sulle sole 359

proprie spalle e dare senso a tutte le interpretazioni precedenti e alle possibili alternative. Per essi, probabilmente, Roma riassumeva in sé tutti questi significati, colle sue rovine, colla sua storia, ed essi ne tremavano. Quanto sangue umano ne aveva impregnato il suolo; quali tremendi drammi vi si erano svolti, con quello che — nella prospettiva della storia — si potrebbe definire come insensibile e stravagante sciupio? Ne viene fuori un problema non molto dissimile da quello dei dinosauri, che ossessionava Freud; o da quello dei bambini deformi che tormentava Lutero, colla differenza che in questo caso tutto il genere umano vi si trovava coinvolto. Ricordavamo — sempre nel capitolo VI — che quando Freud autoanalizzò la propria riluttanza a visitare Roma o il suo strano svenimento Sull’Acropoli, ne concluse che, in qualche modo, c’entrava il ricordo di suo padre che si ergeva a giudice del suo successo: Freud affermava d’essersi sentito scosso da un senso di pietà per lui. Se vogliamo approfondire l’analisi, giungiamo alla conclusione che ciascun padre terreno punti il dito accusatore sulla nostra impotenza, se diventiamo personalità veramente creative: essi ci ricordano che noi siamo nati da uomini, e non dèi. Nessun uomo vivente può dare al genio la forza necessaria per reggere il significato del mondo. Tuttavia, che possiamo dire di questo problema se lo stesso Jung, che sempre s’appoggiò a Dio, si sentiva venir meno di fronte al peso della vita? In ultima analisi, forse soltanto questo: tutti gli uomini sono quaggiù per fare del loro meglio e il problema dell’illusione non esenta assolutamente nessuno da tale impegno, ma solo inquadra la questione della qualità migliore di lavoro e di vita 360

raggiungibile dagli individui, secondo le credenze che professano e le forze a loro disposizione. E questo tema, come già detto, costituisce oggetto di discussione per la stessa scienza empirica, quale è la psicologia. Nostro compito è ragionare intorno alla più alta autorealizzazione attuabile dall’uomo. Al suo livello più eccelso la scienza della psicologia incontra di nuovo la figura inquisitiva di Kierkegaard. Quali visioni del mondo? Quali forze? Per quale specie di eroismo? 1 WT, pp. 251-252. 2 Ibid., capitolo 12. 3 Ibid., p. 195. 4 Ibid., p. 241; JORA, giugno 1967, p. 17. 5 WT, pp. 73, 155, 303. 6 Ibid., p. 149; JORA dicembre 1970, pp. 49-50. 7 WT, pp. 148-149. 8

FREUD, Introductory Lectures III, p. 445; citato enfaticamente da Jung, Psychology of the Transference, p. 8, nota 16. 9

WALDMAN R.D., Humanistic Psychiatry (New Brunswick: Rutgers University Press, 1971), pp. 123-124; vedere anche l’eccellente lavoro di LEU ER R., «Avoidance and Mastery: An Interactional View of Phobias», Journal of Individual Psychology, maggio 1966, pp. 80-93; e confrontare con Becker, The Revolution in Psychiatry, pp. 115 ss. 10 WT, p. 149.

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11 BP, p. 50. 12 WT, pp. 146-147. 13 JORA, giugno 1967, p. 79. 14 WT, pp. 146-147. 15 Ibid., p. 151. 16 Ibid., p. 149. 17 AA, pp. 376-377. 18 Ibid., p. 372. 19 Ibid., p. 27. 20 WT, p. 93. 21 Ibid., pp. 95, 173. 22 Nin, JORA, giugno 1967, p. 118. 23 WT, p. 195. 24 Ibid., pp. 251-252. 25 Ibid., p. 173. 26 TURNEY-HIGH, Primitive War, p. 208. 27 WT, pp. 74, 287. 28 Ibid., p. 288.

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29 Vedere il cruciale e storico scritto di BALDWIN J.M., «The History of

Psychology», International Congress of Arts and Science, vol. 5, St. Louis, 1904, pp. 606-623; ed il più importante lavoro di STRASSER S., The Soul in Metaphysical and Empirical Psychology (Pittsburgh, Pa.: Duquesne University Press, 1962); e PS, capitolo 1, pp. 84 ss e capitolo 7. 30 PS, p. 192. 31 ME, p. 143. 32 PS, p. 10; cf. anche BECKER, The Revolution in Psychiatry, pp. 120-121. 33 PS, p. 10. 34 Vedere BP, capitolo 1 e 8; PS, capitolo 1 e 7, e vedere l’eccellente riassunto

di PROGOFF, Death and Rebirth, pp. 221-228, 258-259. 35 ME, p.143. 36 Ibid., pp. 143, 232.

[* Fa eccezione, in questo, Alan Wheelis, che affronta appunto questi argomenti: il bisogno di transfert, il problema del mutamento storico e della nevrosi, l’insufficienza della terapia psicoanalitica per riscoprirsi un’identità, e così via (The Quest for Identity, New York: Norton 1958, pag. 159-173). Wheelis, anche se in modo indipendente, è nella linea di Rank.] 37** Poiché la psicologia affronta il dissesto analitico e la disgregazione della

personalità e, di regola, inquadra tutto entro le linee dell’ideologia scientifica del terapista, possiamo capire le ragioni per cui Jung sviluppò alcune delle sue particolari teorie. La sua opera rappresenta, in parte, una reazione ai precisi limiti dell’analisi psicologica. Jung anzitutto sottolineò l’importanza delle dimensioni interiori della psiche per premunirla contro le autodistruttive spaccature dell’analisi. Nella sua opinione la psiche, nelle sue profondità, sfugge all’analisi e costituisce una sorgente di moduli autocurativi e di naturale rinnovamento, se il paziente le permette di funzionare. Jung, inoltre, allargò gli orizzonti della psiche al di là della base individualistica, agganciandola a un «inconscio collettivo». La psiche, in ogni caso, trascende l’individuo. Su queste basi, la persona veniva 363

considerata capace di raggiungere la propria giustificazione eroica entro la sua psiche, nonostante l’analisi o anche proprio mediante l’analisi. In tal modo Jung si sforzava d’assicurarsi i vantaggi dell’analisi psicologica, da una parte, mentre dall’altra la rinnegava e la oltrepassava: un caso classico di «botte piena e moglie ubriaca!». Come efficacemente arguì Rieff, l’insoddisfazione e la critica di Jung vanno attribuite in gran parte all’impossibilità di pervenire con sicurezza alla redenzione della psiche dell’uomo psicologico, come vedremo alla conclusione della Parte III di questo volume (Philip Rieff, The Triumph of the Therapeutic: Uses of Faith after Freud, New York: Harper Torchbooks, 1966 capitolo 5. Cf. dello stesso autore: Freud moralista, Bologna: Il Mulino, 1968). 38

JORA, Fall, 1966, p. 42; ME, p. 45; e vedere l’importante scritto di MOWRER O.H., ancora oggi valido per gli psicologi, The Crisis in Psychiatry and Religion (New York: Insight Books, 1961) soprattutto il capitolo 8 (trad. La crisi nella psichiatria e nella religione, Roma: Astrolabio). 39*

L’impoverimento emotivo della psicoanalisi va allargato a molti psicoanalisti stessi e a quegli psichiatri che si schierano a favore di questa ideologia. Tale fatto aiuta a spiegare il pauroso appiattimento delle emozioni che si costata nelle cliniche psichiatriche. 40 WT, pp. 74, 152, 205, 241, 303-304. 41 Ibid., pp. 92-93. 42

Ibid., cf. anche WALDMAN, Humanistic Psychiatry, p. 59, e la sua dimostrazione pp. 117-127 che rappresenta la definitiva reintroduzione della equazione tra colpa e nevrosi nella moderna psichiatria; cf. MOWERER, The Crisis in Psychiatry, capitoli 3 e 4. 43 WT, pp. 93, 304. 44

AA, p. 27; WALDMAN, Humanistic Psychiatry, p. 120. Waldman non attinge da Rank, ma da Adler, al quale Rank è anche chiaramente riconoscente. Dopo Adler, Karen Horney scrisse, ampiamente e con grande acume, in particolare sulle dinamiche della glorificazione del sé e sulla deprecazione del sé negli stati nevrotici. Particolarmente importanti sono le sue discussioni sulla necessità del trionfo eroico e della perfezione e su quanto ciò comporta nel nevrotico. Cf. specialmente il suo Neurosis and Human Growth (New York: 364

Norton, 1950). 45 BP, p. 193: WT, p. 304; ME, p. 141. 46 ME, pp. 142-144. 47 WT, pp. 150, 241; AA, p. 86: WT, p. 94. 48

* Credo sia questa la spiegazione dell’esasperato proselitismo di tanti convertiti. Sotto sotto, si resta sconcertati del loro insistente attaccar bottone colla gente incontrata per caso, onde spiegare come si possa esser felici come loro. Se davvero sono così felici — uno rimugina tra sé — perché importunare il prossimo? Stando a quanto abbiamo detto, la ragione va scovata nel fatto ch’essi hanno bisogno di sentirsi numerosi per poter rinsaldare ed esprimere un qualcosa che altrimenti resterebbe esclusivamente privato e personale, rischiando così di apparire fantasioso e immaginario. Vedere altri assimilati a se stessi, rafforza la loro sicurezza. 49 CHESTERTON, Orthodoxy, pp. 18-29; cf. ME, p. 47. 50 BP, p. 49. 51 Cf. BP, pp. 166, 197; WT, p. 303; BECKER, Birth and Death, seconda

edizione, capitolo 13. 52

FREUD, Observations on Transference-love, p. 388 (trad. Osservazioni sull’amore di traslazione, Freud Opere vol. 7, Torino: Boringhieri, 1975). 53 VAN DER LEEUW, Religion in Essence, vol. 2, p. 467. 54 ME, pp. 44-45. 55

Cf. anche il libro importante e dimenticato di CONGER G.P., The Ideologies of Religion (New York: Round Table Press, 1940). 56 Cf. JUNG, Psychology of the Transference, p. 69.

[* Per questa sintesi tra il pensiero psicoanalitico, esistenzialista e teologico si 365

potrebbero citare molti altri nomi. Abbiamo già ricordato l’opera di Waldman, che riporta questa sintesi a radici adleriane, come documentato da Progoff. Appare quindi chiaro che non si tratta di convergenza casuale o di strana rassomiglianza, ma piuttosto di una solida confluenza cumulativa di varie tra le maggiori correnti di pensiero. L’importante volume di Igor A. Caruso, Existential Psychology: from Analysis to Synthesis (New York: Herder and Herder, 1964) rappresenta un’eccellente messa a punto sulla nevrosi e s’ispira a Rank. Si veda anche Wilfried Daim «On Depth Psychology and Salvation», Journal of Psychotherapy as a Religious Process, 1955, 2:24-37, per un altro aspetto del moderno movimento di saldatura della psicoanalisi con Kierkegaard. Uno dei primi moderni tentativi in quella direzione — forse addirittura il primo — fu quello di un amico di Freud, il Rev. Oskar Pfister, che scrisse un voluminoso libro sull’ansietà, tradotto in inglese col titolo Christianity and Fear (London: Alien and Unwin, 1948). Egli trattò dell’ansietà come uno dei principali stimoli di condotta, pigliando le mosse dai testi dell’evangelista Giovanni, e spingendosi fino a Kierkegaard, Heidegger e Freud. Suo intento era di dimostrare che l’ansietà viene meglio superata mediante l’ideologia dell’immortalità dell’amore cristiano. Non è questa la sede per discutere i meriti dell’opera di Pfister, ma è importante notare che nel volume spicca la totale assenza della fondamentale nozione che l’ansietà riguardo alla vita e alla morte rappresenta un’universale caratteristica dell’uomo. Pfister, come molti altri, pensa che un sano sviluppo del bambino possa avvenire senza complessi di colpa e che la piena espressione dell’amore escluda il timore: «… né corrisponde a verità che tale predisposizione alla paura debba necessariamente scattare per il solo fatto di esistere nel mondo… L’esistenza nel mondo in se stessa causa paura solo se le persone sono state predisposte al timore per circostanze sfavorevoli…» (pag. 49). Pfister afferma che Kierkegaard era affetto da paure nevrotiche a causa della sua difficile infanzia. Il fatto più strano è però che Pfister non si curò d’approfondire l’ideologia dell’immortalità, radicata nella cultura cristiana, che assorbe e tramuta la paura, pur trattandone: «Molte persone, sia giovani che anziane, trovano possibile accettare la morte, e anzi raccolgono da amica, pronti a morire per una grande causa» (Ibid). Ciò è vero, come sappiamo, ma è anche superficiale perché non affronta il nodo delle mutazioni della realtà e del potere, che hanno radice nel transfert. Ne viene fuori un libro che presenta una specie di polpettone delle tesi avanzate da Norman Brown e Wilhelm Reich, intorno alle possibilità d’una vita non repressiva, con Cristo come punto focale dell’Eros. Si è indotti a rimuginare — in conclusione — che quando il cristianesimo liberale vuol servirsi di Freud per presentare il mondo come l’allegro «giusto posto», il matrimonio fra elementi così disparati suona fasullo.] 57 ME, p. 232.

366

58 BECKER, Structure of Evil, pp. 190-210. 59 AA, p. 429. 60 JUNG, Psychology of Transference, pp. 101-102. 61 JUNG, Memories, p. 288.

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X SGUARDO D’INSIEME SULL’INFERMITÀ MENTALE …l’essenziale e basilare arciansietà (ansietà primaria) [è] innata in tutte le forme di umana esistenza, isolate e individuali. In forza di quest’ansietà fondamentale, l’esistenza d’ogni uomo soffre di paura ed è impregnata d’ansia, «perché è nel mondo» e per quanto tale condizione comporta… Solo afferrando questo concetto… ci è possibile capire il fenomeno — apparentemente paradossale — di gente che ha paura di vivere, ma allo stesso tempo è anche chiaramente terrorizzata dalla morte. MÉDARD BOSS1

Conservo un vivo ricordo d’un mio professore d’università, docente assai stimato di storia medievale, il quale confessava che quanto più approfondiva lo studio di quel periodo storico, tanto più gli riusciva difficile parlarne: il Medio Evo era talmente complesso e diversificato da rendere impossibile qualsiasi schema generico a suo riguardo. La stessa cosa si può indubbiamente affermare, per chi voglia dedicare «uno sguardo d’insieme» a un fenomeno così intricato e vario come quello delle malattie mentali. E debbo confessare la mia riluttanza, mentre sto iniziando questo capitolo, anche se mi rendo conto che il libro lo richiede. Basta dare un’occhiata ai volumi e agli autori che confluiscono nella mastodontica bibliografia della materia per provare spavento: la documentazione d’intere 368

vite di lavoro dei più grandi psicologi mai esistiti, opere che rispecchiano straordinarie capacità d’indagine, montagne di prezioso materiale derivato da rigorose ricerche cliniche. Con quale animo ci si può confrontare con tutto questo, per tirarne fuori una… veduta d’insieme, forzatamente superficiale e semplicistica? Forse la risposta va cercata proprio qui: oggi, per poter dire ancora qualcosa, occorre appellarsi alla semplicità, se non ci si vuol ridurre nelle condizioni del mio professore di storia medievale. Caratteristica fondamentale della nostra epoca è che noi sappiamo tutto ciò che c’è da sapere sulla natura umana, e tuttavia non s’è mai dato periodo storico più insicuro dell’attuale sull’affidabilità se non di pochissime delle proprie cognizioni scientifiche che, inoltre, sono solo in minima parte patrimonio comune. La spiegazione va cercata nella specializzazione esasperata che ha reso impossibili prese di posizione sicure in termini generali, col risultato di farci sentire tutti quasi imbecilli. Ciò che mi propongo, nelle non molte pagine di questo capitolo, è d’accettare il rischio di venir catalogato come semplicione, pur di scalfire quel fatale sentimento di imbecillità che si prova confrontandosi colla specializzazione e le sue montagne di dati. Mi pare giusto correre questo rischio, anche se il risultato non sarà brillante, perché in un’età come la nostra — scientifica al punto da irrigidire e paralizzare la gente — bisogna pure che qualcuno abbia il coraggio di esporsi a magre figure, per dare un quadro delle attuali posizioni. Subito l’esperto obbietterà che è presuntuoso parlare di teoria generale riguardo alle malattie mentali: se pur rappresenta una meta raggiungibile, se ne riparlerà solo in 369

un lontano futuro. Tutto questo non tiene conto che, in realtà, una tale teoria generale è già solidamente contenuta nella caterva di volumi che affollano gli scaffali delle librerie e biblioteche. I giganti della psicologia moderna ci hanno trasmesso una conoscenza approfondita del comportamento umano nei suoi aspetti sia nevrotici che psicotici, con le aberrazioni d’ogni tipo che l’accompagnano. Il vero problema sta nell’introdurre un certo ordine sistematico in quella sovrabbondanza di intuizioni e conoscenze. Un sistema per farlo è di concentrare la materia in schemi d’indole molto generale, come già s’è fatto per molti temi trattati in questo libro, in modo da collegare tra loro vari settori d’esperienze. È accertato — ad esempio — che l’uomo è un animale che teme la morte, che mira alla perpetuazione di se stesso e a un eroico superamento del proprio destino? In tal caso, il fallimento per un simile animale è rappresentato dal mancato raggiungimento di una trascendenza eroica. Come lapidariamente affermava Adler nella citazione con cui s’apre la parte II di questo volume, occuparsi di malattie mentali significa parlare di gente che ha perso il coraggio, e cioè che riflette in se stessa il senso dell’eroismo fallito. Si tratta di una conclusione logica, derivata da problemi riguardanti la nevrosi, discussi nel capitolo precedente. Costatavamo allora come il nevrotico sia un individuo che particolarmente non riesce ad accettare la sua situazione di creatura e che non è in grado di circondare la propria analità di illusioni convincenti. Fu Adler a scoprire che la scarsa stima di sé costituiva il problema basilare dell’infermità mentale. E quand’è che una persona incontra maggior difficoltà a stimare se stesso? Esattamente quand’è posta in dubbio l’eroica trascendenza 370

del suo destino, quando gli appare incerta la sua immortalità e il duraturo valore della sua vita, quando non è più convinto che l’esistenza da lui vissuta abbia avuto una vera rilevanza per il mondo. Sotto questo aspetto possiamo affermare con sicurezza che l’infermità mentale rappresenta una varietà di modi con cui si resta impantanati nel disperato tentativo di negare il proprio stato di creature.

Depressione

Affermazioni generiche di questo tipo non ci condurrebbero molto lontano, se non fossimo poi in grado di dimostrare che in esse s’assommano gli elementi specifici di ciascuna sindrome. Fortunatamente proprio questo ci è dato di fare. Adler aveva già mostrato quanto la depressione o malinconia sia essenzialmente un problema di coraggio e come si manifesti in gente che ha paura della vita, che ha rinunciato a qualsiasi prospettiva di sviluppo autonomo, perché totalmente legata agli altri e all’ausilio di altri2. Essa s’è ridotta a vivere in una «sistematica autorestrizione», coll’inevitabile risultato che meno si fa e meno si è in grado di fare, finendo nella totale subordinazione ed impotenza. Quanto più ci si ritrae di fronte alle difficoltà e alle sfide della vita, tanto più riesce naturale sentirsi incapaci e perder la stima di sé. È ineluttabile, quando la vita si riassume in una sequela di «silenziose ritirate»3, ritrovarsi relegati in un angolo, senza altre possibilità di fuga. L’impantanamento della depressione consiste appunto in questo stato di cose e la paura della vita sbocca in un’esagerata paura della morte, come ci ricorda Boss nella citazione con cui s’apre questo capitolo. A conclusione di tutto, uno non osa più muoversi e 371

se ne rimane a letto per giorni interi, senza mangiare e, magari, nella sporcizia più rivoltante. La morale di simili casi di crollo del coraggio è che, in qualche modo, uno deve pagare il prezzo che la vita esige e accettare il morire quotidianamente, onde poter affrontare i rischi e i pericoli che il mondo presenta, senza paura di venirne coinvolto. L’alternativa è di ridursi come morti, nello sforzo d’evitare la vita e la morte. I moderni psichiatri di scuola esistenzialista vedono così la depressione, come già la vedeva Adler all’inizio del secolo. Médard Boss ricapitola la materia in poche righe:

Si tratta sempre del fatto che l’esistenza del paziente depresso, nel suo insieme, risente dell’errore di non essersi assunte apertamente e responsabilmente tutte quelle opportunità di rapportarsi col mondo, che avrebbero costituito la sua personalità genuina. Di conseguenza, l’esistenza che ne risulta non ha alcuna collocazione indipendente, ma si trova sempre in balia delle richieste, desideri e imposizioni degli altri. Questi ammalati si sforzano di non deludere le attese altrui, quanto meglio possono, per non perdere la protezione e l’affetto di coloro che li attorniano. [Ma si trovano sempre più assillati da questo genere di debiti!]. Perciò il tremendo senso di colpa del melanconico… deriva dalla sua colpa esistenziale4.

L’interessante quesito che qui s’affaccia è perché sia stato così laborioso raggiungere un accordo sull’elementare dinamica della depressione, quando essa era già stata descritta in modo così chiaro da Adler e poi ancora dalla 372

scuola di psichiatria esistenzialistica. Una delle ragioni è che tale dinamica non è così semplice come sembra. Essa sprofonda le sue radici nel cuore della condizione umana: un cuore che ancora non s’è riuscito a leggere in modo diretto e facile, anzitutto perché ci si era buttati a fondo per eliminare il concetto di paura della vita e della morte. Non avevamo ben afferrato il terrore dell’essere vivente e quindi non eravamo in grado di capire le torture e i contorcimenti della gente angosciata, che si dibatte tra questi terrori. Nonostante l’eccellente e tempestiva teoria generale, enunciata da Adler, v’è da dire che egli contribuì ad imbrogliare le cose tirando in ballo l’egoismo e la sete di blandizie della persona depressa, «bambino viziato» che rifiuta di crescere e di accettare le responsabilità della vita e altre considerazioni simili. Certo si tratta di costatazioni vere, almeno in parte, e Adler stesso era perfettamente conscio che la natura aveva fatto dell’uomo l’anello più fragile nella catena degli animali. Ma in una discussione l’enfasi è importante, e Adler avrebbe dovuto sottolineare con più forza il terrore puro e semplice che nasce dallo scoprirsi individui, unici ed irripetibili, diversi da tutti, isolati ed esposti a perdere il sostegno e la forza che ci deriva da altri. Adler ci rivelò la «menzogna vitale» di cui la gente ha necessità per poter vivere, ma prevalse la tendenza a non sottolineare troppo l’indispensabilità che tale menzogna riveste, in qualche forma, per la gran parte degli uomini, perché essi, semplicemente, non possiedono forze proprie su cui appoggiarsi. Quando richiamiamo il ricordo del fatto che uomini della statura di Freud e di Jung rabbrividiscono e svengono mentre acquistano dei semplici biglietti del treno, forse allora riusciamo a percepire in modo giusto 373

l’enormità del compito del povero Uomo Comune, alle prese con l’ardua costruzione d’un suo tranquillo genere d’eroismo, basato nel trincerarsi dietro i poteri degli altri. Allorché questa tattica fallisce ed egli si sente minacciato dallo smascheramento della sua menzogna vitale, è soltanto logico che egli s’arrenda e insceni la sua propria versione di svenimento, barricandosi nel suo ripiegamento repressivo. Un’altra complicazione della dinamica depressiva, piuttosto trascurata, è quella spiegata da Rank: la spinta verso l’immortalità e la perpetuazione di sé, da conseguirsi compiacendo un altro e conformandosi al codice di comportamento da lui impersonato5. La gente ha fame d’immortalità e l’arraffa dove può, sia nel ristretto cerchio familiare, sia nell’oggetto d’amore individuale. L’oggetto di transfert diventa il punto centrale della nostra coscienza, dell’intera nostra cosmologia del bene e del male. E non si tratta di qualcosa da cui ci si può semplicemente staccare, perché in esso s’incarna l’intero nostro sistema di eroismo. Già abbiamo visto quanto complesso e totale possa risultare il transfert: noi restiamo obbedienti alle figure che incarnano l’autorità per tutta la vita — come Freud dimostrò — a motivo dell’ansietà d’esserne separati. Ogni volta che proviamo a fare qualcosa di diverso da ciò ch’essi volevano, risvegliamo quell’ansietà con loro connessa e coll’ipotesi di perderli. Privarci del loro potere e della loro approvazione, significa per noi perdere la stessa vita. Abbiamo pure visto come l’oggetto del transfert assommi in sé il mysterium tremendum della vita e sia il miracolo fondamentale, perché, per il solo fatto d’esistere, trascende gli imperativi esclusivamente razionali. Che cosa può mai esserci di più naturale che conformarsi a questa miracolosità? Con Rank 374

dobbiamo, anzi, aggiungere: «Che ci può essere di più naturale dello sforzo continuato di raggiungere l’immortalità mediante l’osservanza del codice morale rappresentato dall’oggetto del transfert?». Il transfert è l’uso positivo dell’oggetto allo scopo di perpetuare eternamente se stessi. E questo spiega la durata e la forza del transfert, anche dopo la morte dell’oggetto: «Io sono immortale perché continuo a piacere a quell’oggetto che, anche se non è più vivo, continua a prolungare la sua ombra con quanto ha lasciato dietro di sé e, forse, può ancora esercitare i suoi poteri dall’invisibile mondo dello spirito». Questo è un aspetto della psicologia degli antichi adoratori degli antenati, che sussiste ancor oggi là dove si persiste a vivere secondo codici familiari o tribali di condotta e di onore. La depressione, dunque, congloba sia il terrore della vita e della morte, sia l’anelito alla perpetuazione di se stessi, attraverso un qualche genere di eroismo a portata di mano. È così naturale confinare il proprio eroismo entro i limiti ristretti e sicuri d’un piccolo gruppo o della famiglia — o addirittura del partner — concedendosi ogni tanto un «periodo di tregua» per salvaguardare meglio questa fisima d’eroismo. Quanta gente, infatti, possiede davvero qualche straordinario dono suo proprio da elargire all’universo, come prezzo per una loro speciale immortalità? Soltanto persone veramente creative sono in grado di fare questo. Perciò quando l’individuo comune non riesce più a posare da eroe in modo convincente né per gli altri, né per se stesso, affonda nella palude della depressione, con un tremendo senso di colpa. Di questo disperato impaludamento, mi pare particolarmente azzeccata l’analisi che fa Gaylin, come di ultima e naturale difesa a 375

disposizione di un povero mammifero:

La dipendenza è il meccanismo fondamentale di sopravvivenza per l’organismo umano… Allorché ad un adulto viene meno la fiducia nella propria capacità di sapersela cavare e si convince di non poter più né fuggire, né lottare, altra alternativa non gli rimane se non lo stato di depressione. Questo ridimensionamento, che richiama l’impotenza analoga dell’età infantile, si trasforma… in un invito a risolvere il problema della sopravvivenza accettando di farsi dipendenti. Lo spogliarsi delle proprie difese diventa una specie di manovra difensiva6.

Secondo Boss, i tremendi complessi di colpa della persona depressa sono di natura esistenziale: essi sgorgano, cioè, dal non aver saputo vivere la propria vita e realizzare le proprie potenzialità, a motivo delle forzature e manovre che l’individuo s’è imposto per compiacere qualcun altro. È l’altro che detta legge su ciò che s’ha da fare per essere degni dell’immortalità, ed è quindi l’altro che prende il sopravvento in una vita non vissuta. Tale rapporto si trasforma così in una specie di schiavitù, che ingenera un sedimento di colpa. Uno psichiatra moderno come Frederick Perls s’impegnò attivamente contro questo genere di tirannia, ricordando ai suoi pazienti che «essi non erano al mondo per compiacere al loro partner, esattamente come questi non esisteva per loro in modo esclusivo». Questa riflessione avrebbe dovuto tagliar corto con il tipo di moralità basata sull’«operare per un individuo onde conseguire l’immortalità». Ma con tutto ciò riesce 376

egualmente difficile spiegare il senso di colpa provato dal paziente, nei termini da lui usati. Giudicando dalle sue autoaccuse di indegnità, il paziente dovrebbe provare un senso di colpa. L’autoaccusa va intesa non solo come rimuginio di colpevolezza per una vita non vissuta, ma anche come forma espressiva per spiegarsi la propria situazione. In breve, uno ne vien fuori come un eroe carico di colpe, ma eroe comunque, anche se sfortunato. La persona depressa si avvale, infatti, della colpa per abbarbicarsi ai suoi oggetti e mantener intatta la propria posizione, senza dover intraprendere analisi o sforzi per venirne fuori. Essa preferisce il senso di colpa al terribile peso della libertà e della responsabilità, soprattutto quando la scelta fra le due cose si presenta troppo tardi nella vita per poter ricominciare tutto daccapo. Meglio il senso di colpa e l’autopunizione, quando non si è in grado di punire l’altro e, anzi, non si riesce neanche ad accusarlo., perché egli rappresenta l’ideologia d’immortalità con cui ci si è identificati. Se il tuo dio è screditato, tu muori: il guasto dev’essere in te, non nel tuo dio, se vuoi continuare a vivere. È vero che col senso di colpa tu perdi un poco della tua vita, ma eviti quel guaio assai peggiore che è la morte7. L’individuo depresso esagera la propria colpa, perché ciò serve a sbloccare il suo dilemma nel modo più sicuro e facile8. Ed inoltre — come già rilevava Adler — tale atteggiamento mobilita la gente che gli sta attorno per compassionarlo, rivalutarlo e coccolarlo. Egli li tiene così sotto il suo controllo e sente accrescersi d’importanza per la commiserazione e l’astio che ha per se stesso9. Sono tutti questi elementi che rendono preminente il ruolo dell’ossessivo senso di colpa nella sindrome depressiva. 377

A questo punto, possiamo intravvedere alcune delle complessità delle dinamiche della depressione, che hanno reso difficile inquadrarla in modo preciso e accettato da tutti, anche se risulta piuttosto semplice il definirla come il naturale impantanamento di una vita umana non illuminata dall’eroismo. Una delle cose che ci imbroglia è anche il linguaggio e la visione del mondo da parte di Freud. I seguaci di Freud dicevano, ad esempio, che la depressione della menopausa veniva scatenata da una riesperienza della infantile ansietà di castrazione. Era facile sghignazzare di simile spiegazione che, in linea con gli schemi freudiani, ancora una volta tentava di ridurre i problemi della vita adulta al periodo edipico e ad una particolare visione del mondo in chiave patriarcale. Eccola qui, di nuovo, la povera donna castrata, a pagare il debito della sua svantaggiata condizione! Fino a dieci anni or sono anch’io colla sicumera che deriva dall’inesperienza, ho reagito a questo modo e avanzato una mia teoria di segno del tutto opposto, che individuava le cause unicamente nel fallimento del ruolo sociale. Avevo spesso osservato che le donne in menopausa si trovano negli ospedali psichiatrici perché la loro vita risultava oramai inutile. In alcuni casi il loro compito di mogli era fallito per recente divorzio, in altri questa circostanza era aggravata dalla cessazione del loro ruolo di madri, perché i figli cresciuti s’erano sposati e quindi esse si ritrovavano sole e senza nulla da fare. Poiché esse non avevano imparato altri ruoli sociali, o arte e specializzazione, ai di fuori del loro lavoro in famiglia, quando questa s’era volatilizzata e non si aveva più bisogno di loro, esse si sentivano letteralmente inutili. Che la loro crisi depressiva coincidesse colla menopausa, mi pareva un’eccellente 378

illustrazione della mia teoria che il venir meno di un utile ruolo sociale è sufficiente, da solo, a spiegare la malattia. La visione del mondo e la terminologia di Freud, quasi in tutte le istanze, costituiscono per noi uno strano problema scientifico: v’è in esse una robusta verità, ma enunciata in tal modo da essere… falsa e ci troviamo spesso impegolati in modo ridicolo a districare i due aspetti, se non vogliamo rassegnarci a buttar via una verità assieme alla sua falsa formulazione. Penso che ci voglia una certa faccia tosta per fare qualcosa nell’attuale momento di proliferazione di specialisti. Nessun beffeggiatore improvvisato può buttar via mezzo secolo di osservazione e studio clinico, ma pericolo costante della scienza è che ciascun suo guadagno rischi di far perdere un terreno che era già stato assicurato. In nessun caso questo è più vero che nelle attuali «teorie del ruolo» che per spiegare l’infermità mentale minacciano di abbandonare le formulazioni freudiane basate su fatti corporei. Il fatto è che l’esperienza, da parte della donna in menopausa, di un ripetersi del complesso di castrazione è vera e reale, non già nell’ottica ristretta usata da Freud, ma in quella più ampia, prospettata da Rank, dagli esistenzialisti e da Brown. Come Boss disse benissimo, la «paura della castrazione» rappresenta soltanto una breccia attraverso cui può infiltrarsi e dilagare l’ansietà inerente a tutta l’esistenza10. È facile così capire che la menopausa semplicemente riattizza l’orrore del corpo, la coscienza della totale bancarotta del corpo come affidabile progetto d’essere causa sui: l’esatta riesperienza già vissuta nell’ansietà di castrazione, all’epoca dell’infanzia. La donna viene richiamata, nel modo più brutale, al fatto ch’essa ha una 379

natura animale: la menopausa rappresenta una specie di «compleanno animale» che specificamente segnala l’avvio della degenerazione fisica, come se la natura si fosse assunta l’incarico di porre nella persona una sua pietra miliare che proclami: «Non andrai più oltre nella vita, da adesso: l’unica via aperta è verso la fine e l’inevitabile conclusione della morte». All’uomo è parzialmente risparmiata questa brusca intimazione, ma ciò non significa che anch’egli — come la donna — non debba adeguarsi psicologicamente alle realtà fisiche della vita. Per parafrasare un aforisma di Goethe: la morte picchia alla porta e non accetta d’essere ignorata; allora la spalanca per mostrarci intero il suo aspetto.11* Ancora una volta costatiamo che la psicoanalisi dev’essere allargata per accogliere la paura della morte, assai più decisiva che non le paure dei castighi dei genitori. Questi non sono i «castratori», ma lo è invece la natura stessa. Probabilmente i sentimenti di colpa del paziente esprimono anche la nuova presa di coscienza riguardo a se stesso, come animale che defeca, sporco e spregevole. Ma a questo punto s’intravvede anche come la visione di Freud e quella sociologica convergano naturalmente tra loro. In via normale il progetto di diventare causa sui serve da maschera al riemergere di ansietà di castrazione; ma è proprio il venir meno del ruolo sociale e del progetto culturale che in questa circostanza rafforza il senso d’impotenza animale, radicata in natura. Ambedue i progetti, sia corporeo che culturale, si fondono in un unico clamoroso fallimento. Non deve perciò stupire che la depressione della menopausa sia un fenomeno più marcato in quelle società in cui le donne che invecchiano vengono private di un ruolo utile e permanente, che dia sostanza al loro bisogno di un eroismo che trascenda 380

il corpo e la morte. E neanche stupisce che, al posto di un’eternità di vita, che verrebbe naturale attendersi sotto l’ombrello di un sicuro schema di autoperpetuazione, la persona depressa si senta piuttosto condannata a un’eternità di distruzione12. Ma, esaurite tutte le nostre riflessioni, bisogna ammettere che l’accento sul ruolo sociale come chiave della sindrome risulta corretto, perché il livello corporeo del problema viene assorbito dal livello più alto, elaborato dalla cultura. L’eroismo trasforma la paura della morte nella sicurezza dell’autopreservazione al punto che la gente può affrontare la morte con gioia e addirittura desiderarla, sotto l’influsso di alcune ideologie. Inoltre, da un punto di vista pratico, s’adegua meglio alla realtà porre l’accento sul sostegno che il ruolo sociale rappresenta, perché non ci si può ragionevolmente attendere che la grande massa della gente si distacchi dalla tradizionale dipendenza dalle loro obbiettive condizioni ed emerga di colpo, diversa e capace di reggersi da sola, senza qualcosa che convogli in loro un costante senso d’eroismo. L’esistenza è, semplicemente, troppo gravosa: l’aggancio alle situazioni concrete e la decadenza del corpo costituiscono l’universale destino dell’uomo. Senza una qualche specie di «ideologia di giustificazione» la gente, per forza di cose, s’impaluda e viene meno. Anche qui si rivela quanto corretta fosse l’enfasi con cui Rank sottolineava la dimensione storica della malattia mentale: il problema non riguarda mai la natura da sola, ma coinvolge le ideologie sociali con il loro atteggiamento circa la trascendenza della natura stessa. Se non riusciamo ad essere eroi nel contesto d’un’ideologia comunitaria, siamo costretti a ridurci a dei falliti brontoloni e piagnucoloni nel seno della nostra famiglia. Sotto questa 381

angolazione il problema dell’eroismo e della malattia mentale potrebbe andare sotto il titolo «Chi brontola contro chi?». Gli uomini si sfogano contro gli dèi, contro gli eserciti di paesi nemici, contro i capi del loro paese, o contro il coniuge? Il debito verso la vita deve, comunque, essere pagato e ciascuno deve qualificarsi come eroe nel modo migliore che gli resta possibile. Nel nostro disgraziato ambiente culturale — giustamente notava Harrington — basta anche qualificarsi «campione del biliardino meccanico»13. Ma eroe comunque!

Schizofrenia

In una prospettiva storica la psicosi schizofrenica si fa assai più comprensibile nelle sue sfumature. Esistono tipi di persone per i quali la vita rappresenta un problema molto più insormontabile che per altri e per cui il peso dell’ansietà e della paura è altrettanto persistente quanto il respiro. Rank applicò il termine di «nevrotico» per un tipo di persona che viveva senza illusioni, che vedeva le cose com’erano, che si sentiva sconvolto dalla fragilità degli intenti umani. In questo modo Rank descrisse perfettamente quel tipo schizofrenico, di cui parlò William James, affermando che costui è il realista che incarna la giusta reazione agli orrori dell’esistenza degli organismi su questo pianeta, che non può essere che una reazione psicopatica14. Ma, come osservava Rank, questo genere di realismo è fra tutti il più disastroso. Assai presto Adler mostrò come lo schizofrenico risultasse deformato dalla paura della vita e delle sue esigenze, 382

aggravata dalla bassa opinione di se stesso e della propria capacità d’affrontarle. Lo schizofrenico non soltanto nutre sfiducia verso se stesso, ma la estende anche all’intelligenza e capacità altrui perché — a suo parere — niente e nessuno è in grado di superare gli inevitabili orrori della vita e della morte, se non forse un suo fantasioso piano idealistico, che egli rimugina dentro di sé per la propria salvezza15. I suoi sentimenti di magica onnipotenza e immortalità rappresentano una reazione al terrore della morte da parte di una persona totalmente incapace di opporsi a tale terrore con forze sue proprie, su cui possa fare affidamento. Possiamo, anzi, affermare che lo psicotico fa ricorso, in maniera chiassosa e sfrontata, allo stesso tipo di difesa immaginaria di cui si serve la maggior parte della gente, che però usa uno stile più dissimulato e schivo. È quanto si verifica anche nel caso del melanconico che apertamente s’avvale delle stesse difese e coperture cui normalmente tutti ricorriamo, e cioè il trastullarsi occasionalmente nella disperazione e nell’odio segreto per i nostri cari e col calmo biasimo e rimorso che ce ne deriva. Sotto questo aspetto le psicosi vanno catalogate come caricature dello stile di vita comune a tutti, ed è forse per questo che ci appaiono così inquietanti. La linea del pensiero di Adler venne sviluppata da molti altri autori, tra cui alcuni tra i più geniali e profondi studiosi della condizione umana, quali H. S. Sullivan, H. F. Searles e R. D. Laing, per limitarci a pochi nomi. Risultato dei loro studi è quella eccellente teoria generale sulla schizofrenia, oggi accessibile in molti testi scientifici, da cui mi limito ad attingere alcuni dati fondamentali, che rivelano la ragione per cui la schizofrenia sia un così tremendo stato di terrore. 383

C’è voluto tanto tempo per prendere coscienza di tale stato, perché ci si affannava intorno ad un fenomeno così strano da sembrare quasi imparentato colla fantascienza. Mi riferisco al fatto che l’umana esperienza risulta spaccata in due campi: quello dell’io raziocinante e quello del corpo fisico, e questi due campi possono risultare molto diversi. In alcune persone sono così diversi da non essere integrabili tra loro, ed è questo il caso di coloro che definiamo schizofrenici. L’individuo ipersensitivo reagisce al proprio corpo come dinanzi a qualcosa d’estraneo, di cui non può fidarsi, perché non ne ha un controllo sicuro16. Appare subito chiaro che, al pari di tutti, lo schizofrenico subisce il proprio corpo come un peso animale, che gli è estraneo. Ciò che in lui aggrava questo peso, è che egli non si sente saldamente impiantato nel suo corpo, perché nella prima infanzia non gli è riuscito di sviluppare una propria collocazione dentro il suo corpo. Di conseguenza il suo io non risulta intimamente ancorato alla sua neuroanatomia ed egli non ha quindi a sua disposizione l’espansione naturale del proprio organismo, di cui gli altri s’avvalgono per attenuare ed assorbire la paura della vita e della morte. Egli non sente questa innata pienezza animale. Possiamo convenire, con Santayana, che gli è negata quella salutare «fede animale» e che per tale ragione è costretto a sviluppare complessi e lambiccati sistemi di pensiero. Noi sappiamo, oggi, che il senso culturale di spazio, tempo e percezione degli oggetti viene costruito — in senso letterale — entro le strutture del sistema nervoso17. Poiché l’ideologia d’immortalità culturale viene ad essere basata sui propri muscoli e nervi, uno la vive con naturalezza, come una componente garantita e stabile dell’attività quotidiana. Si 384

può affermare che lo schizofrenico risulta, privato precisamente di questa garanzia neuro-culturale per fronteggiare la morte e programmare la vita. Egli s’affida invece ad un esagerato gonfiamento dei processi mentali per tentare d’assicurarsi la trascendenza sulla morte: deve sforzarsi d’essere eroe quasi esclusivamente vaneggiando, confrontato da un cattivo rapporto col suo corpo e con metodi molto soggettivi. Deriva da ciò l’artificiosità dei suoi sforzi. Nessuno meglio di Chesterton comprese quanto strambi diventino gli uomini quando si riducono a dover contare soltanto sui loro pensamenti, avulsi però dalle generose emozioni che germogliano in un corpo espansivo ed affidabile18. La schizofrenia spinge il rischio dell’evoluzione al suo punto più estraneo dall’uomo: il rischio di farne un animale che si autopercepisce, riflette su se stesso e giunge alla conclusione che il suo corpo animale rappresenta per lui una minaccia. E questo, poiché non si è nemmeno sicuramente ancorati al corpo, diventa davvero un problema. Il terrore, in tal caso, si fa inassorbibile da strutture nervose o muscolari, o di qualsiasi altra natura corporea: la propria consapevolezza razionale galleggia, vorticosa e disancorata da tutto, per proprio conto. Siamo realmente di fronte ad un maledetto animale in evoluzione, vagolante oltre tutte le frontiere della natura. Non è neanche immaginabile un animale completamente aperto all’esperienza e alle proprie ansietà, un animale del tutto sprovvisto di una programmata reattività neurofisica all’impatto frammentario del mondo. Solo l’uomo può ridursi in una così terrificante condizione, costatabile nella sua quintessenza negli estremi stadi della psicosi 385

schizofrenica, nella quale ogni oggetto dell’ambiente si trasforma in massiccio problema, perché nel corpo non esistono più risposte che possano arginare la minaccia celata in qualsiasi oggetto. Vien fatto d’augurarsi che un tale animale, sprovvisto d’istinti, fosse almeno in grado di ritirarsi — ogni volta che lo vuole — dietro lo schermo amico di quella massa di carne che gli dovrebbe apparire come suo possesso intimo e fondamentale, anche se non può dirgli che risposta dare al suo problema. Ma lo schizofrenico non riesce neanche a far questo. Il suo corpo se lo sente piovuto addosso per caso, ed altro per lui non è se non un fardello puzzolente e putrido. L’unica intima qualità che gli riconosce è che esso costituisce il diretto appiglio della propria vulnerabilità e la testa di ponte lanciata dal mondo esterno per invadere il suo io intimo. Il corpo rappresenta l’inganno e la ferita aperta, l’oggetto di quello schifo, così ben descritto dall’attrice francese Catherine Deneuve, nel film di Polanski, intitolato La Nausea, tratto da un romanzo di Sartre. Non stupisce che questa malattia sia tra quelle che più incuriosisce e affascina l’uomo, giacché esprime la sua estrema protesta contro la propria condizione dualistica. In essa viene rappresentata l’apertura nevrotica portata ai limiti della disperazione. Freud, molto appropriatamente, chiamò tale sindrome «nevrosi narcisistica», perché infatti consiste nel gonfiamento di se stessi colla fantasia: un gonfiamento esasperato, da megalomani, che costituisce la difesa estrema e un tentativo di mobilitare una forza esclusivamente ideale per supplire all’assenza di una forza fisica operante. Torniamo a ripetere che questo è quanto l’uomo culturale s’è sforzato, ovunque, di conseguire, mentre l’individuo normale, meglio programmato dal punto di vista dei nervi, 386

sente almeno che il corpo gli appartiene e può usarlo con fiducia. Spingendo il problema dell’uomo ai suoi limiti estremi, la schizofrenia rivela anche la natura della creatività. Se uno si ritrova non programmato fisicamente nel progetto culturale di divenire causa sui, deve forzatamente inventarsene uno suo proprio, perché si resta indifferenti alla musica che non ci appartiene. Si costata che le fabbricazioni di chi ci sta attorno sono menzogne, in contrasto colla realtà, che necessariamente sfocia in un terrore della condizione umana, assai più pronunciato di quello che prova la maggioranza della gente. Per conseguenza, la persona creativa si fa mediatrice del naturale terrore sia nell’arte che nella letteratura e nella religione, e diventa pioniera di nuovi sistemi per superarlo. Essa rivela la tenebra e l’orrore della condizione umana e costruisce una nuova ideale trascendenza che ne trionfi. Questa è sempre stata la funzione dei creativi non inquadrabili, dai primitivi sciamani fino a Shakespeare. Ma se il nevrotico è l’artista mancato, cosa si dovrà dire dello schizofrenico, privo di talento e di creatività? Non può che essere un totale e patetico fallimento di segno opposto, come attestano gli addetti alle cliniche psichiatriche: una creatura misera e impotente — anche se in possesso della verità — che non ha alcunché da offrire né al suo prossimo, né a sé medesimo. Lo psicotico non creativo è semplicemente paralizzato dalla paura della vita e della morte. None questa la sede per disquisire a fondo su questa complicata materia, che, del resto, sorpassa le mie competenze. Tuttavia va detto a chiare lettere che tutta la questione ruota attorno ad una semplice domanda, e cioè, se 387

uno abbia o non abbia un ego attraverso il quale riesce a controllare le proprie soggettive esperienze, per quanto insolite. Se egli è in grado di fare questo, allora può dare forma alle sue percezioni uniche e giunge a padroneggiare il processo energetico vitale, confesso si svolge alla frontiera ultima dell’evoluzione — nel modo dualistico dell’esistenza umana — e lo incanala ed inquadra come risposta a tale modo: potrebbe divenire il lavoro di un genio. Forse il problema può avere questa impostazione: lo schizofrenico non è programmato neurologicamente per la risposta automatica ai significati sociali, ma non può neanche organizzare una risposta basata sull’ego, come controllo direttivo delle proprie esperienze. Alle espressioni che erompono fuori da lui, non si può attribuire una qualsiasi forma creativa. Potremmo dire, forse, che a motivo della sua estrema impotenza, egli s’avvale soltanto delle sue interiori esperienze simboliche come d’àncora sperimentale, su cui appoggiarsi. Egli esiste in modo riflesso verso quelle esperienze e viene ad esserne controllato, invece di rimodellarle e servirsene. Anche il genio non è programmato secondo significati culturali automatici, ma possiede le risorse d’un robusto ego — o almeno discreto — per conferire una forma creativa ai suoi personali concetti. Per quanto mi risulta, nessuno meglio di Reich19 ha afferrato la differenza che intercorre tra il genio e lo schizofrenico. Nella schizofrenia, come nella depressione, vien fuori il problema dell’eroismo nella sua nuda realtà. Come può uno diventare eroe, da una posizione in cui non gli restano quasi più risorse? Una posizione dalla quale percepisce, con maggior chiarezza di chiunque, le minacce della vita e della morte e per di più non ha alcun sicuro sentimento di intimo 388

orgoglio da opporre a tali minacce? Questo sentimento deve ricostruirselo nel miglior modo possibile, anche se si tratterà d’un qualcosa di maldestro, monco e controproducente. Nessuna meraviglia, quindi, che i transfert negli psicotici siano così totali, così assorbenti, così spaventosi da risultare patetici. La sola via aperta ad un mutilato solitario per spingersi ad una trascendenza eroica della morte, passa attraverso la servitù completa dell’idolatria verso una persona e la totale costrizione dell’io nella persona dell’altro. Ad un individuo in tale disperata condizione è rimasta così poca zavorra — per usare l’eloquente espressione di Adler20 — da essere costretto a succhiarsi dentro un altro essere umano intero, per evitare il rischio di sparire volatilizzato.

La perversione

Totalmente sciocca sarebbe, oggi, la pretesa di venir fuori con qualcosa di nuovo sulle perversioni. La bibliografia sull’argomento è così vasta da coprirne tutti gli aspetti, scandagliati a fondo dopo oramai cento anni di minuziose ricerche cliniche. Il miglior libro in materia rimane — a mio avviso — quello di Médard Boss21, perché raccoglie tutti i più importanti contributi delle varie scuole, cui aggiunge le proprie brillanti considerazioni. Il prezioso apporto, frutto del lavoro di tutta una vita, da parte di Erwin Straus, culmina nel suo abbastanza recente saggio, intitolato The Miser22, dov’egli espone in maniera chiara e documentatissima quella teoria generale completa che la scienza attendeva. Il pericolo, comunque, resta sempre di non riuscire a vedere la foresta a causa dei troppi alberi, e cioè che riesca impossibile dire qualcosa a riguardo delle 389

perversioni senza dover dire proprio tutto in dettaglio. Tuttavia è legittimo il tentativo di enunciare dei principi generali — forse alquanto semplicistici — che riuniscano le visioni più autorevoli senza entrare in inutili polemiche, nonostante che freudiani, esistenzialisti, adleriani e behavioristi continuino ad essere in disaccordo tra loro. Noi tenteremo di cogliere gli elementi cruciali del problema della perversione, che dovrebbe fornirci quella veduta panoramica e sintetica sul più vasto problema della condizione umana e dell’eroismo, necessaria per avviarci alla conclusione di questa nostra fatica. La ragione per cui sembra valga la spesa soffermarsi su un argomento apparentemente così marginale ed esoterico quale le perversioni, è che esse non sono affatto marginali. Il diluvio di scritti a loro riguardo sta ad indicare che esse costituiscono il nocciolo centrale del problema dell’azione umana, rivelando ciò che vi entra in gioco meglio di qualsiasi altro comportamento, perché la restringono ai suoi elementi essenziali. Si può stabilire un parallelo tra lo studio delle perversioni, in psicologia, e quello delle particelle subnucleari, in fisica: nelle prime, come nelle seconde, emergono elementi ed energie fondamentali, il cui approfondimento è d’ordinario riservato alle menti più acute. Dopo aver coperto così vasto territorio, nelle pagine di questo volume, la nostra sintesi sull’argomento vuol essere una specie di riesame di quanto già fin qui discusso e, quindi, non dovrebbe presentare difficoltà. Già in parecchi altri casi abbiamo osservato come il genio di Freud, pur aprendo vasti campi di nuove conoscenze, formulò però le sue teorie in modo così ristretto e settario, da determinare dubbi e diatribe scientifiche affatto 390

necessarie. In nessun altro settore ciò risulta più evidente che riguardo al problema delle perversioni. Non v’è dubbio che a Freud va il merito della conquista d’un terreno così difficile, e Tuttavia anche qui ci lascia interdetti e increduli. Ad esempio, prendiamo il feticismo, che costituisce certamente il paradigma della perversione e che Freud usò come una specie di compendio dell’intero suo sistema teoretico. Per quale ragione il feticista ha bisogno d’un qualche oggetto — scarpa o reggiseno od altro — per riuscire ad accoppiarsi con una donna? Freud rispondeva:

Per dirla in parole semplici: il feticcio è un sostitutivo del fallo della donna (della madre) nel quale il ragazzino credeva un tempo e che non vuole abbandonare — e ne sappiamo il motivo23.

Si noti la totale sicurezza dell’ultima frase. Il motivo è che i genitali femminili testimoniano della realtà della castrazione e risvegliano l’orrore di essa, come minaccia per se stessi. Il solo mezzo per liberarsene consiste nell’attribuire un fallo alla donna, sia pure in modo artificioso e simbolico. Il feticcio rappresenta appunto il «pegno del trionfo sulla minaccia di castrazione e una salvaguardia contro di essa…». Con quello il feticista può procedere al suo rapporto sessuale. Il feticcio «salva il feticista dal diventare omosessuale, conferendo alle donne l’attributo che le rende accettabili come oggetto sessuale». In altre parole, il feticcio gli dà il coraggio d’esser uomo. Freud era così sicuro di questa formulazione da affermare in tono categorico:

Probabilmente nessun maschio umano riesce a 391

sfuggire al trauma tremendo della minaccia di castrazione, alla vista degli organi femminili…

E Freud conchiude trionfante:

Ricerche sul feticismo vanno raccomandate a tutti coloro che ancora avanzano dubbi sull’esistenza del complesso di castrazione…24.

Quando un uomo della statura di Freud viene fuori — quasi alla conclusione della carriera — con toni così trionfalistici, viene spontaneo accettare le sue affermazioni come verità sacrosante. Ed invece, ancora una volta, eccoci impastoiati col peculiare paradosso della psicoanalisi: la formulazione della verità più acuta con un linguaggio di tale concreta grettezza da rendere irriconoscibile tale verità. Cerchiamo, quindi, di venirne fuori, seguendo le indicazioni di pensatori come Adler, Jung, Rank, Boss, Strauss e Brown. L’orrore della castrazione non va identificato con la paura del castigo per una sessualità incestuosa, secondo lo schema del complesso di Edipo, ma piuttosto con l’ansietà esistenziale della vita e della morte, che trova il suo centro nel corpo animale. Tutto questo è fuori dubbio, mentre invece Freud è rimasto incastrato coll’idea del corpo materno e — più precisamente — coll’idea della madre, provvista di fallo, come vorrebbe credere il bambino. Simile idea la si ritrova, ripetuta all’infinito, attraverso la letteratura psicoanalitica, compresa quella più recente, come si può vedere in Robert Bak, che la ripropone nella sostanza e nei termini categorici di Freud in un recente libro:

…in tutte le perversioni, si replica il rifiuto 392

drammatizzato o ritualizzato della castrazione, attraverso la reviviscenza regressiva — operata dall’immaginazione — del fallo materno o femminile25.

Ed ecco un’altra perfetta descrizione di quel tipo di fantasia, tratta da uno scritto di May Romm:

A volte il paziente, mentre si masturbava, immaginava di essere riuscito a portarsi il pene alla bocca e di essere in tal modo diventato un cerchio completo. In tale occasione sognava di guardarsi il corpo e di scoprirvi seni femminili e genitali maschili… Il pope greco, coi lunghi capelli spioventi sulla tonaca, rappresentava per lui una persona neutra, celibe e bisessuale26.

L’immagine ermafroditica

L’immagine ermafroditica è un’idea che direttamente raggiunge il cuore della condizione umana e ci svela la dinamica delle perversioni e quel che è in gioco nei disperati sforzi di gente deformata per trovare un qualche genere di soddisfazioni in questo mondo. Il simbolo ermafroditico non costituisce più un mistero dopo gli scritti di Rank, Jung e molti altri. Il problema è consistito, anche stavolta, hello spogliare il simbolo delle sue ristrette connotazioni sessuali, perché non di problema sessuale si tratta, ma bensì umano. L’io si scopre in uno strano involucro-corpo e non riesce a spiegarsi questo dualismo. L’uomo resta turbato di fronte alla natura arbitraria della genitalità e alla casualità dell’emergere nel mondo in un sesso piuttosto che nell’altro. Non riesce a rassegnarsi né alla caducità dell’involucro393

corpo, né alla sua incompletezza, maschile o femminile che sia. Il corpo non fa senso, per noi, nella sua entità fisica, che ci lega a un particolare destino e a un ruolo sessuale esclusivo. L’immagine ermafroditica rappresenta un tentativo di compiutezza: uno sforzo non sessuale ma ontologico. Essa manifesta il desiderio dell’essere per una riconquista dell’unità (Agape) con il resto della natura, come pure della completezza in se stesso. È un desiderio diretto a sanare la spaccatura dell’esistenza, la dicotomia dell’io e del corpo, dell’io e dellaltro, dell’io e del mondo. A ciò s’aggiunga il desiderio dell’io per la propria perpetuazione al di fuori ed oltre il corpo, e si potrà capire, allora, come il funzionamento dell’identità sessuale rappresenti un’ulteriore minacciosa limitazione. Freud era nel giusto quando scopriva la centralità della madre, provvista di fallo, e la connetteva direttamente col complesso di castrazione, ma sbagliava nell’attribuire all’angolazione sessuale del problema il ruolo essenziale, e nell’assumere ciò che è derivato (l’aspetto sessuale) per trasformarlo in elemento primario (il dilemma esistenziale). Il desiderio d’una madre provvista di fallo, l’orrore per i genitali femminili, possono anche essere un’esperienza universale del genere umano che coinvolge sia le ragazze che i ragazzi. Ma la ragione di questo va ricercata nel fatto che il bambino vuol vedere una madre onnipotente, miracolosa sorgente di tutto ciò che lo protegge, lo nutre e lo ama, creatura divinizzata, completa e superiore alla accidentale frattura nei due sessi. La minacciosità d’una madre castrata diventa così un incubo per l’intera sua esistenza, in quanto riduce la madre, da angelo trascendente, a semplice creatura animale. Il destino ch’egli allora paventa e che lo allontana, 394

inorridito, dalla madre, è che a questo punto scopre d’essere, a sua volta, una creatura corporea decaduta; un pensiero che invano si sforza d’esorcizzare attraverso l’analità. L’orrore verso i genitali femminili, quindi, rappresenta un trauma per il bimbetto che, di colpo, — prima dei sei anni — si trasforma in un tragico filosofo, cui tocca diventare uomo assai prima del tempo dovuto e che deve attingere da riserve di saggezza e di forza che ancora non possiede. Torniamo a ripetere che questo è lo sconcerto attribuibile alla scoperta dei rapporti sessuali che intercorrono tra i genitori: non già ch’esso risvegli prepotenti brame sessuali nel bambino, o odio aggressivo e gelosia nei confronti del padre, ma piuttosto che ciò gli crea una totale confusione circa la natura dell’uomo. La psicoanalista May Romm notava nei riguardi d’un paziente:

La sua sfiducia verso tutti, egli l’attribuiva principalmente al disappunto provato per la scoperta del rapporto sessuale tra i genitori. La madre, che per lui era un angelo, s’era trasformata in essere umano e carnale27.

Il quadro è perfetto: com’è possibile aver fiducia in gente che incarna la priorità del codice naturale di moralità e l’angelica trascendenza sopra la corruzione del corpo e che, tuttavia, butta tutto ciò all’aria coi propri rapporti intimi? I genitori sono gli dèi che stabiliscono la norma per la più eccelsa vittoria d’un individuo, e con quanta maggior chiarezza essi incarnano tale norma, tanto più poggia su terreno sicuro l’identità nascente del bambino. Allorché essi si degradano in attività animali, caratterizzate da grugniti e 395

gemiti, il bambino li trova «disgustosi». Il senso di disgusto nasce dal fatto che, per il bambino, viene minata la lineare comprensibilità. È questa la ragione per cui il bambino rifugge normalmente dalla rivelazione che gli amici, ragazzi di strada, pretendono di fargli sul fatto che i suoi genitori — come tutti — sono coinvolti in attività sessuali. Quanto esatta è l’osservazione di Tolstoj sull’abisso che lo separava dal neonato e sull’insignificante differenza tra sé e il bambino che era a cinque anni: i cinque anni nei quali il bambino deve accollarsi l’intero peso esistenziale della condizione umana. Poco altro gli resta da imparare sul suo fondamentale destino durante i rimanenti anni della sua vita. Jung percepì il significato smanioso e la centralità dell’immagine ermafroditica con grande lucidità e ampiezza storica28, come anche fecero Rank, in tutti i suoi lavori, Boss29 e Brown30. Nulla, a questo proposito, è più eloquente delle dichiarazioni d’una paziente feticista, in cura psicoanalitica, che «aborriva dall’involucro del suo corpo» e affermava: «Vorrei strapparmi via questa mia pelle. Se non avessi questo stupido corpo, sarei altrettanto pura all’esterno, quanto mi sento dentro»31. Senz’altro il corpo costituisce un ostacolo per l’uomo, una palla al piede della specie umana che snatura la libertà interiore e la purezza dell’io. Sotto quest’aspetto, il problema fondamentale della vita è se la specie (il corpo) prevarrà sopra la propria individualità (io interiore). Questo spiega tutta l’inquietudine, giacché il corpo rappresenta la più sostanziale minaccia all’esistenza dell’individuo, quale creatura destinata ad autoperpetuarsi. E spiega anche i sogni dei bambini, in cui le loro mani si trasformano in artigli. II 396

messaggio emotivo è che essi non possiedono il controllo del loro destino e che l’accidentalità della forma corporea inibisce e restringe la loro libertà e li determina. La casualità irrazionale di alcuni giochi bambineschi è un modo splendido per esorcizzare l’ansia collegata all’accidentalità delle forme e delle varie appendici che la natura sembra aver piazzato a capriccio. In fondo al cuore i bambini sono dei Picasso che protestano contro tale arbitrarietà delle forme esterne e proclamano il primato dello spirito interiore32. L’ansietà riguardo al corpo torna a galla anche in tutti quei sogni «anali» in cui la gente si trova insozzata da latrine traboccanti, o dall’urina schizzata da qualcuno, proprio nel bel mezzo di affari importanti e mentre è vestita a puntino. Non c’è da ingannarsi: lo stronzo costituisce la più concreta minaccia per il genere umano! Attraverso tutta la letteratura psicoanalitica, noi costatiamo l’inscindibile intreccio fra la trascendenza razionale e la funzione defecatoria. Il già ricordato paziente di May Romm, «ogni qualvolta si sentiva insicuro dal punto di vista sociale, finanziario o sessuale…, sviluppava flatulenza e diarrea». Oppure: «Egli sognava di osservare suo padre mentre stava pronunciando un discorso dinanzi a un uditorio. Improvvisamente s’accorgeva che il pene di suo padre era scoperto»33. Qual è — in altri termini — la verità circa la condizione umana? Sta nei corpi o nelle idee? Se la risposta non è lineare, allora c’è menzogna da qualche parte, e ciò rappresenta una minaccia. Un altro paziente collezionava libri «e gli occorreva sempre l’urgenza di defecare, ogni volta che entrava in una libreria»34. Il suo interesse per i libri subiva l’inibizione delle sue paure corporali. Come abbiamo già più volte notato, i bambini s’allenano realmente al cesso, 397

a motivo della paura esistenziale del corpo. È spesso patetico come risultino distrutti quando succede loro di bagnarsi le mutande, o quanto in fretta si facciano rispettosi della pubblica moralità rifiutandosi di fare i loro bisogni per strada «dove qualcuno li potrebbe vedere». Fanno questo di loro iniziativa, anche quando magari sono stati tirati su da genitori lontanissimi da simili pudori. Chiaramente provano vergogna per il loro corpo. Possiamo concludere nel modo più categorico che le inquietudini e le fobie sono focalizzazioni della vita e della morte, messe in atto da un animale che tale non vuole essere. Risultava già chiaro nel giovanile saggio di Freud sull’«uomo-topo» che la morte e la corruzione costituiscono i temi centrali nella sindrome dell’ossessione, e recentemente tale idea è stata sviluppata in modo brillante e completo in studi degli psichiatri esistenzialisti europei, soprattutto da Straus35. Gli studi psicoanalitici sul feticismo, dopo Freud, dimostrano con assoluta evidenza ciò che Rank aveva già dedotto: il bambino è veramente preoccupato per il suo corpo. Phyllis Greenacre provvide la definitiva conclusione clinica sull’argomento con una serie d’importantissimi saggi che concordano sul fatto che l’ansietà di castrazione precede di molto il concreto periodo edipico: si tratta di un problema di vulnerabilità globale, anziché specificamente agganciata al sesso. Ciò rappresenta uno sviluppo importante al di là di Freud. Nel loro linguaggio tecnico favorito, gli psicoanalisti affermano che l’ansietà di castrazione «assume specifico peso… con forte mistura di componenti orali ed anali»36. Si tratta — in altre parole — d’un problema che coinvolge l’intero orientamento corporale verso la realtà. Nelle relazioni 398

riguardanti feticisti, si riaffaccia di continuo il fatto di quanto essi abbiano precocemente subito il trauma della corruzione corporea e della morte.

I traumi più significativi sono quelli causati dall’essere stati testimoni di qualche evento di particolare orrore: una morte per sfracellamento o per scontro, un’operazione, un aborto o un parto in casa… Se ci rifacciamo allo scritto di Freud del 1938, in cui descrive lo sviluppo di un caso di feticismo e sottolinea la vista dei genitali femminili, coincidenti colla masturbazione e le minacce di castrazione, proprio all’inizio della fase fallica, e se sostituiamo «minacce di castrazione», «vista del corpo mutilato e sanguinante», penso che possiamo avere un’idea di quanto si verifica in un certo numero di bambini37.

Ciò rimane specialmente vero nel caso in cui il bambino stesso sia passato attraverso esperienze traumatiche di malattie o operazioni dolorose38. Uno dei pazienti di Fenichel aveva sofferto di un prolasso del retto, che sua madre doveva rimettergli a posto ogni volta dopo aver defecato. Non c’è quindi da sorprendersi se egli era ossessionato dalla paura che l’intestino gli potesse cadere nella tazza del gabinetto39. Provatevi ad immaginarvi vulnerabili al punto da dover continuamente farvi risistemare l’intestino! Nessuna meraviglia ch’egli fosse ossessionato dalla paura di morire e da un’ingovernabile ansietà di castrazione, e che almanaccasse che il pene di sua madre — oramai morta — e quello di sua sorella fossero finiti nel drenaggio della vasca da bagno o del gabinetto, 399

come avviene per le feci, e come poteva accadere per il suo intestino. La gente non fa gran caso a ciò che si stacca dal corpo e viene spazzato via dal vortice della toeletta: vi sono cose che spariscono misteriosamente. Uno dei pazienti di Lorand, un bambino di quattro anni, non riusciva a capacitarsi che una bambina, incontrata all’asilo, non avesse dita ad una mano, o che uno dei suoi parenti fosse senza una gamba. Se capitava in una stanza in cui c’era quell’uomo, scappava urlando al suono della sua voce. Il bambino chiese un giorno al dottore, sottovoce e con la paura negli occhi: «Non mi farai sparire, vero?»40. Anche qui abbiamo un bambino filosofo, che echeggia la preoccupazione di Whitehead riguardo ad uno dei due grandi mali della vita degli esseri organici, e cioè che «le cose svaniscono». Una delle fondamentali conclusioni raggiunte da Greenacre riguardo ai feticisti, fu che il loro difettoso sviluppo infantile andava ascritto a una quantità di cose similari: traumi eccessivi, rapporti tempestosi tra madre e figlio, vita familiare frantumata, con il padre assente o assai debole, che presentava un misero modello per la tempra del bambino. Questa specie di disturbi ne ingenerarono un altro più serio, consistente nella scarsa fiducia nel proprio corpo, per dirla in termini non clinici. In un suo importante saggio, Simon Nagler attribuì l’intero problema del feticismo alla insufficiente stima di se stesso e al senso d’inadeguatezza, da cui deriverebbe la paura del proprio ruolo di maschio. Si tratta qui d’importanti ritocchi a Freud, perché viene sottolineato il peso dello sviluppo, anziché quello dell’istinto. Freud risentì dell’assenza d’una ben documentata teoria sullo sviluppo, che pure s’era già coagulata al suo tempo, e questa è la ragione per cui gli 400

apparve misterioso lo sbocco di alcuni nell’omosessualità, di altri nel feticismo, mentre la vasta maggioranza superavano gli ostacoli e trascendevano l’orrore per i genitali femminili41. Se veramente tale diversa conclusione avesse avuto radice esclusiva nell’istinto, senza influssi da parte dell’esperienza nell’età dello sviluppo, senz’altro saremmo di fronte a un misterioso fenomeno. L’accento sull’istinto uniforme, piuttosto che sullo sviluppo differenziato, costituì uno dei principali limiti per lo studio originario di Freud. Difatti, Simon Nagler si spinge fino a voler liquidare del tutto la paura della castrazione ed anche a porre in dubbio l’idea della madre provvista di fallo42. M’è accaduto, in un’occasione, di trovarmi d’accordo con lui in uno dei miei immodesti ed incompleti tentativi di spiegarmi il feticismo43, ma ora riconosco che tale forzatura era sciocca. Una ben rifinita teoria sul feticismo deve accettare la centralità dell’invulnerabile madre fallica e dell’immagine ermafroditica; deve accogliere la generalizzata paura della castrazione come fondamentale sentimento di vulnerabilità del corpo; ma deve includere anche quella storia dello sviluppo personale che rende alcuni più deboli ed ansiosi di altri di fronte all’esperienza. L’idea dell’insufficiente stima di sé è cruciale, naturalmente, ma va ricordato che l’autostima non rappresenta — almeno agli inizi — un problema razionale, ma bensì una questione collegata coll’attività della creatura organica. Trova radice nell’esperienza fisica elementare del bambino, allorché quest’esperienza gli conferisce un fiducioso narcisismo e un senso d’invulnerabilità. Una pronunciata stima di se stesso sta alla base dell’invulnerabilità e la si raggiunge in tre modi 401

fondamentali. Può anzitutto essere derivata dal potere dell’altro, e cioè dalla madre, quando essa costituisce un sostegno affidabile e non interferisce troppo nell’attività propria del bambino; e da un padre energico, con cui il bambino possa identificarsi. L’altra sorgente di forza per superare la vulnerabilità l’abbiamo già menzionata e consiste nel fiducioso possesso del proprio corpo, che diventa spazio sicuro sotto il proprio controllo. É chiaro che tale sicurezza può risultare indebolita da traumi, oppure dal cattivo clima del primitivo ambiente familiare. Un terzo sistema da cui attingere forza è, naturalmente, il progetto culturale di divenire causa sui, coi suoi simboli e le sue drammatizzazioni della nostra trascendenza della vulnerabilità animale. (Si vedrà, tra poco, quale importanza rivesta questa terza sorgente per spiegare il feticismo). Solo la somma di questi tre elementi può darci una visione coerente delle dinamiche del feticismo.

Il problema della libertà personale di fronte al determinismo della specie

Gran parte della gente, quindi, sfuggono al feticismo estremo perché, in qualche modo, trovano, la capacità di servirsi dei loro corpi «come natura vuole». Essi adempiono al loro specifico ruolo nel rapporto sessuale col partner di sesso opposto, senza andar soggetti a traumi estremi. Quando, infatti, il corpo costituisce una pesante minaccia per Fio di un individuo, allora logicamente l’adempimento del ruolo assegnato dalla specie diventa una tremenda impresa o, addirittura, un’esperienza distruttiva. Poiché se il corpo è reputato così vulnerabile, di conseguenza si teme di 402

morire se ci s’impegna appieno nei suoi atti. Penso che quest’idea riassuma nel modo più semplice quanto prova il feticista. A questo punto potremmo riguardare l’insieme delle perversioni come proteste rivolte contro l’affogamento dell’individualità ad opera della standardizzazione della specie. Rank sviluppò quest’idea in tutta la sua opera. Il solo modo attraverso cui al genere umano era concesso di controllare concretamente la natura e di superarla, consisteva nel trasformare l’immortalità sessuale in immortalità individuale. Rank riassume le implicazioni di ciò, in questo efficacissimo modo:

…nella sua essenza la sessualità rappresenta un fenomeno collettivo che l’individuo, in ogni stadio della civiltà, ambisce a individualizzare, e cioè a controllare. Ciò spiega tutti (!) i conflitti sessuali nell’individuo, dalla masturbazione alle più strane perversioni e sregolatezze, e soprattutto l’alone di segretezza che circonda quanto riguarda la sessualità dell’individuo, come espressione di una personale tendenza ad individualizzare il più possibile gli elementi collettivi ch’esso racchiude44.

In altre parole, la perversione è una protesta rivolta contro la monotonia imposta dalla specie e contro la sommersione dell’individualità nel corpo. È anche un epicentro di personale libertà nei confronti della famiglia e il proprio segreto modo di affermare se stesso contro ogni standardizzazione. Anzi, Rank avanza la sbalorditiva ipotesi che il complesso di Edipo, di classica tradizione freudiana, 403

possa interpretarsi come un tentativo del bambino per contrapporsi all’organizzazione familiare, al doveroso ruolo di figlio o di figlia e all’assorbimento nel collettivo, per mezzo dell’affermazione del proprio ego45. Persino nella sua espressione biologica, quindi, il complesso di Edipo può inquadrarsi come uno sforzo per trascendere il ruolo di figlio obbediente e affermare la propria libera individualità mediante il sesso e la rottura dell’organizzazione familiare. Per capire tale fenomeno dobbiamo ancora una volta sottolineare la motivazione fondamentale dell’uomo, al di fuori della quale diventano incomprensibili tutti i fatti vitali, e cioè l’autoperpetuazione. L’uomo è diviso in due distinti generi d’esperienza, quella fisica e quella mentale o, se si vuole, quella corporea e quella simbolica. Di conseguenza, il problema dell’autoperpetuazione assume due distinte forme. La prima, relativa al corpo, è standardizzata e imposta; l’altra, costituita dall’io, è personalizzata e acquisita. In quale modo l’uomo succederà a se stesso, quale specie di doppione o parte di sé si lascerà dietro per sopravvivere? Si affiderà a un duplicato del proprio corpo o del proprio spirito? Se egli procrea corporalmente, risolve il problema della successione, ma limitatamente ad una forma, inserita nella specie, in modo più o meno standardizzato. Per quanto egli si perpetui nella sua progenie, che può rassomigliargli e magari anche trasmettere qualcosa del suo «sangue» e del carisma dei suoi avi, tuttavia gli riesce difficile credere di perpetuare così realmente il suo intimo io, la sua peculiare personalità e quasi il suo spirito. Egli brama raggiungere qualcosa di più d’una semplice successione animale. Dalla notte dei tempi, problema caratteristico dell’uomo è stato sempre il bisogno di 404

spiritualizzare la propria vita, collocandola ad uno speciale livello d’immortalità, al di là dell’alternarsi di vita e di morte che coinvolgono tutti gli altri organismi. Per questa ragione, fin dagli inizi, la sessualità è sempre stata circondata di tabù, poiché si doveva elevarla dal piano della fecondazione fisica ad un livello spirituale. Accostandosi al problema della successione ed autoperpetuazione nella sua piena duplice natura, Rank fu in grado di afferrare i significati più profondi dell’omosessualità tra i greci:

Proiettata in questa luce, la pederastia che, come insegna Platone, sempre mirava all’avanzamento e alla perfezione del giovane amato, appare in definitiva come… un raffinamento spirituale, diretto e trasposto in un’altra persona, che così diventa il degno successore di se stessi, quaggiù sulla terra; e questo non già sulla base della procreazione biologica e corporale, ma sotto l’aspetto del simbolismo d’immortalità spirituale, incarnato nel giovane discepolo46.

Il maestro dell’antica Grecia, insomma, cercava d’imprimere il suo io intimo, il suo spirito od anima, nel diletto giovane. Quest’amicizia spirituale era diretta a produrre un figlio, nel quale sarebbe sopravvissuta la propria anima:

Nella pederastia, l’uomo fecondava, sia spiritualmente che in altri modi, l’immagine vivente della propria anima, che appariva come materializzata in un ego idealizzato, e allo stesso tempo quanto più 405

possibile assimilato al proprio corpo47.

Quest’ardita speculazione ci permette di capire alcuni dei motivi ideali, latenti nell’omosessualità sia in personaggi illustri dell’età greca come di altre epoche. Per costoro, forse, l’omosessualità aveva scarso rapporto col sesso e assai maggiormente rappresentava la lotta per assicurarsi una rinascita, «in tutta la somiglianza possibile», che ovviamente — come nota Rank — è meglio riscontrata nel proprio sesso48. Nei termini del nostro dibattito, possiamo costatare che questo tentativo rappresenta il più ambizioso e completo progetto di farsi causa sui, creandosi, totalmente da soli, un duplicato di se stessi, sia sotto l’aspetto spirituale che intellettuale e fisico. Se il complesso di castrazione è, da parte del bambino, un ammettere che il suo corpo animale costituisce un fallimentare progetto di essere causa sui, quale migliore rivalsa sul corpo dell’abbandono completo del proprio ruolo sessuale? In questo senso le perversioni equivalgono ad una totale libertà dal complesso di castrazione e rappresentano una superprotesta contro l’uniformità imposta dalla specie. Rank, però, era talmente impegnato nell’accentuare l’aspetto positivo ed ideale della perversione, da quasi oscurarne il quadro d’insieme. Sta il fatto che è presuntuoso rifarsi alla situazione dei greci antichi o di altri illustri personaggi della storia, in un’epoca in cui i motivi ideali vengono sistematicamente esclusi e i grandi geni sono piuttosto rari. Le dozzinali perversioni correnti sono proteste che promanano, oggi, da debolezza e non da forza, e incarnano la bancarotta del talento e non la sua quintessenza. Se il nevrotico è l’«artista mancato», a maggior ragione 406

l’omosessuale si può catalogare come «greco mancato» o come un Oscar Wilde senza talento sicuro. Il pervertito è una specie di goffo artista che si butta disperatamente alla ricerca d’una controillusione che lo soccorra nel preservare la sua individualità, ma entro i confini dei propri limitati talenti ed energie. Nasce di qui la paura del suo ruolo sessuale, che l’espone ad essere fagocitato dalla donna, spazzato via dalla furia istintiva del proprio corpo e altri guai del genere. Come notava F.H. Alien, uno dei primi seguaci di Rank, l’omosessuale è generalmente uno che sceglie un corpo simile al suo, perché terrorizzato dalla diversità della donna e dalla propria mancanza d’energia per affrontare tale differenza49. Possiamo infatti osservare che il pervertito impersona lo sforzo per salvaguardare l’individualità, appunto perché non si sente affatto un individuo ed ha scarsa forza per sostenere un’identità. Le perversioni rappresentano deboli ed illusorie pretese di ben definita personalità, avanzate da chi ha meno titoli per farlo, in conseguenza di un lacunoso sviluppo durante l’infanzia. Se, come Rank afferma, le perversioni costituiscono uno sforzo di libertà, dobbiamo però aggiungere che si tratta di un tentativo compiuto da gente assolutamente incapace di reggere alla libertà. Costoro pretendono di sfuggire alla servitù che la specie impone, non già perché sono forti, ma perché troppo deboli per sostenere il lato puramente animale della loro natura. Come già s’è detto, l’esperienza della prima età è decisiva per lo sviluppo d’un sicuro senso del proprio corpo, d’una solida identificazione col padre, d’un robusto controllo dell’ego sopra se stessi e di una fiduciosa abilità nei rapporti interpersonali. Soltanto il raggiungimento di tutti questi traguardi ci rende capaci di 407

«adempiere il ruolo richiesto dalla specie» in maniera spontanea e responsabile, che non costituisca una minaccia di sommergerci in distruttive ansie. Quando si tirano le somme dell’insieme del problema, risulta chiara l’esistenza di svariate maniere per superare l’impressione che il sesso rappresenti, per l’individuo, una minaccia di inquadramento da parte della specie, basata in gran parte su una vasta gamma di ragioni deprimenti e stupide, che mettono fuori gioco la fiducia e l’autocontrollo. Questi ultimi sentimenti trovano il loro sbocco ideale e «più sublime» nell’esperienza dell’amore, naturalmente. Nell’amore uno s’identifica in modo totale col partner e liquida ogni minaccia di separazione, d’impotenza e di ansioso disagio di fronte al corpo. L’innamorato si dà con gioia ed abbandono, dimentico di sé, ed il corpo si trasforma in strumento di apoteosi. L’individuo prova gratitudine vera, precisamente per l’identità radicata nella specie, ed è felice di possedere un corpo standardizzato perché gli rende possibile l’unione nell’amore. Ma anche al di fuori dell’amore ideale, uno può arrendersi a un prepotente impeto di desiderio fisico e lasciarsi «travolgere» ciecamente, senza che per questo il ruolo, imposto dalla specie, rappresenti una minaccia per l’intimo io particolare. Questo si verifica sia nel cosiddetto narcisismo fallico, come in alcune forme di ciò che si definisce «ninfomania». In questi casi si direbbe che la persona s’abbandoni all’identità della specie con un certo furore, quasi per sommergervisi totalmente. Forse quest’attività furiosa solleva la persona dal peso del proprio io e del suo dualismo. Potrebbe anche trattarsi di ciò che gli psicoanalisti definiscono atteggiamento «antifobia»: un frenetico tuffo in ciò che più 408

si teme, quasi per proclamare che non è motivo d’ansietà. In molte forme di sado-masochismo deve anche rappresentare il balzo nella «verità» del corpo, è l’affermazione della fisicità come territorio privilegiato della realtà, come giustamente opinava Fromm. Va detto, infine, che nelle persone schizoidi l’ansietà collegata col corpo di specie umana è così grande da render loro possibile dissociarsi semplicemente dal corpo, anche durante il rapporto sessuale. In questo modo essi riescono a preservare la santità del loro io intimo dalle degradazioni del corpo. Si dice che persino le prostitute ricorrano di proposito a questo tipo di dissociazione tra io e corpo per custodire intatta e pura la loro personale identità, per quanto degradate possano sentirsi dal lato fisico. Come osservava, con totale naturalezza, una ragazza schizofrenica: «Credo d’essere stata stuprata, mentre stavo venendo qui». Ciò rappresenta un’affermazione smaccata della trascendenza dello spirito interiore e della totale estraneità al sudiciume del corpo. Una volta di più costatiamo come la schizofrenia costituisca la frontiera estrema della condizione umana e una disperata soluzione al problema della dicotomia, accollatoci dall’evoluzione. Questo tipo di disperazione sconfina, naturalmente, nella caricatura: per parafrasare il poeta latino: «La natura, sia pure cacciata col forcone, rispunta sempre». Finché gli uomini rimangono in vita, non può esservi trascendenza assoluta. Quando sommi geni, quali Socrate, ci lasciano dubitabondi sulla loro vittoria umana, che s’ha da dire dei patetici sforzi di esseri inferiori che debbono ancora trascinarsi dietro il loro corpo nell’arco della vita e avvalersene per i loro rapporti interpersonali? 409

L’oggetto feticistico e la drammatizzazione

Una volta spiegati i problemi dell’ermafroditismo colla sua aspirazione di compiutezza tra l’io e il corpo, la forza e la debolezza, il determinismo della specie e la libertà personale, possiamo spingerci ad esaminare che cosa i feticisti si sforzino di raggiungere. Senza dubbio ciò rappresenta l’angolazione più istruttiva e curiosa del problema, come apparirà immediatamente anche solo da un primo sguardo. Uno degli enigmi più sconcertanti è che cosa raffiguri l’oggetto feticistico e che significato rivestano la scarpa o il collant, il cuoio o la pelliccia, o persino una gamba artificiale50. Freud e i suoi seguaci insistettero pervicacemente che tutto ciò rappresentava «un pene del tutto speciale»: quello della madre51! Si volle anche dedurre che il feticcio rappresentasse una negazione del pene, una vagina, le feci e robe simili. Tutto questo guazzabuglio sembra indicare che non era molto chiaro a che cosa si riferisse e che poteva raffigurare cose diverse per ciascun feticista; questa è certamente la conclusione più sicura. Ma un’altra cosa c’è ugualmente sicura, ed è che il feticcio ha un qualche riferimento con il problema posto dall’atto sessuale. Ciò fu brillantemente dimostrato da Boss52. Dal suo studio e dalla sequela di saggi eccellenti pubblicati da Greenacre, è derivata una nuova ed approfondita comprensione dell’oggetto feticistico. Se il feticismo rappresenta l’ansietà circa l’atto sessuale e il pericolo che, nel funzionare in linea colle esigenze della specie, si cela per un animale intelligente, che può essere il feticcio se non un particolare tipo di oggetto magico? L’oggetto feticistico raffigura lo 410

strumento incantato per tramutare l’animalità in qualcosa di trascendente e perciò capace di assicurare la liberazione della persona dalla carne standardizzata, fragile e legata alla terra. Tale liberazione conferisce all’individuo il coraggio di portare a termine l’atto sessuale, perché egli non si sente più portato a compierlo in modo animalesco, ma già lo trascende simbolicamente. Freud aveva ragione d’affermare che il feticcio salvava la persona dall’omosessualità, ma non già perché il feticcio fosse un surrogato del pene, eccetto forse — come dice Boss53 — nel caso degli uomini più deboli. Piuttosto il feticcio, è un modo per trasformare la realtà. Boss racconta d’uno dei sudi pazienti:

Ogni volta che vedeva o toccava scarpe di donna, «il mondo si trasfigurava come per un miracolo» egli affermava. Ciò che fino a quel momento gli era sembrato «grigio e senza senso nella quotidianità noiosa, solitaria e inutile, di colpo per me svaniva e dal cuoio s’irradiavano nella mia direzione luce e fascino». Gli oggetti di cuoio sembravano dotati «d’uno strano alone» che spandeva la sua luminosità su ogni altra cosa. «Può sembrare ridicolo, ma mi fa sentire come se fossi un principe da favola. Da quei guanti, scarpe e pellicce emana un incredibile potere — una specie di mana — che mi ammalia completamente»… Donne nude o una mano di donna senza guanti, e particolarmente il suo piede senza la scarpa… gli sembravano come pezzi di carne senza vita nella vetrina d’un macellaio. Difatti il piede nudo d’una donna gli causava una vera repulsione… Quando invece la donna portava un guanto, una pelliccia, o uno stivale da 411

cavallerizza, di colpo essa «si sollevava al di sopra del proprio arrogante, ma troppo umano livello personale». Allora essa trascendeva «la piccineria e la maligna materialità della comune femmina» coi suoi «stomachevoli genitali» e si librava in una sfera individuale superiore, «la sfera in cui sovrumani e subumani si fondono in una universale celestialità»54.

Non resta molto da aggiungere a una così esauriente e sbalorditiva rivelazione. Il feticcio assume «carne appartenente alla specie» e vi intreccia attorno un suo incantesimo. La spinta animale, impersonale e concreta, è vista come arrogante e offensiva: tu ti trovi a confronto con un corpo e obbligato a entrare in rapporto con esso totalmente nei suoi termini, rappresentati dalla sua carne e dal suo sesso. Il paziente di Boss confessava: «In un certo modo, io penso sempre che il rapporto sessuale sia per gli uomini una grande sciagura»55. Il feticcio cambia questo atteggiamento, trasformando del tutto la qualità del rapporto, perché ogni suo aspetto diventa spirituale ed etereo. Non esiste più un corpo di carne, né si ha più un’esigenza impersonale della specie: tutto è avvolto come da un alone che emana luce e libertà e si colloca su un piano personale e individuale56. Come perfettamente argomentava Greenacre, anche pillole e pasticche sono forme di feticci e strumenti per superare l’ansietà e il terrore del corpo, in modo rassicurante e magico57. Il feticismo esiste in una vasta gamma, che s’estende dalle pillole fino alle pellicce, al cuoio, alle sete e alle scarpe. Abbiamo una serie completa di amminicoli a servizio d’un certo tipo di simbolica magia: la 412

persona giunge ad ipnotizzarsi mediante il feticcio e a crearsi una sua propria aura d’incantesimo che trasforma radicalmente la realtà minacciosa58. Si potrebbe dire, in altro modo, che gli uomini si servono degli artifizi della cultura, in qualunque forma, come di talismani con cui superare la concreta realtà. Si tratta, insomma di un’estensione dell’intero problema dell’infanzia: l’abbandono, cioè, del corpo come progetto di causa sui, per far posto alla nuova magia della trascendenza culturale. Non deve, quindi, stupire che il feticismo sia universale, come notava lo stesso Freud: tutte le invenzioni della cultura sono aggeggi diretti all’auto-ipnosi — dalle motociclette alle astronavi —: mezzi coi quali un animale penosamente limitato può suonare la grancassa, per convincersi del proprio potere di trascendenza sulla realtà naturale. Poiché nessuno riesce a sentirsi a proprio agio nella sommersione in cui la specie soffoca il suo distinto io interiore, tutti quanti facciamo ricorso a un pizzico di magia nel nostro rapporto col mondo. Se l’oggetto feticistico è un magico talismano, deve perciò possedere naturali doti di magia: deve avere, in sostanza, alcune delle prerogative di ciò che è destinato a controllare. Per stabilire un controllo sul corpo, deve dimostrare, quindi, un qualche intimo rapporto col corpo: portare un’impronta della sua forma, possedere qualche traccia del suo odore, recare una testimonianza della sua concretezza ed animalità. Questa è la ragione per cui la scarpa è il feticcio più comune. Si tratta di cosa strettamente congiunta al corpo, ma che non s’identifica con esso e s’associa, inoltre, con ciò che colpisce i feticisti come la parte più sgraziata: il piede, dalle dita coperte di calli, e con unghie 413

ingiallite. Il piede rappresenta la prova incontrovertibile della nostra degradata animalità e della stridente associazione tra il nostro spirito interiore — orgoglioso, ricco, vivo e del tutto trascendente — e il nostro corpo apparentato alla terra. Un mio conoscente riassumeva così il suo pensiero a questo riguardo: «Il piede è una tale stupida cosa!». Freud credeva che la scarpa venisse feticizzata perché era l’ultima cosa che si presentava agli occhi del bambino, prima che il suo sguardo, sollevandosi, incontrasse i ripugnanti genitali: il fermare l’occhio sulla scarpa era manifestazione del suo rifiuto del resto59. Il piede, invece, riveste un suo proprio orrore, che però è contrastato e negato dalla scarpa. È vero che anche il seno e i genitali sono occultati da sottovesti e rigidi busti, tramutati anch’essi in feticci comuni, ma niente eguaglia il piede per la sua bruttezza e la scarpa per la sua costrizione e contrasto, come prodotto della cultura. La scarpa presenta legacci, tibie, soffice cuoio che modella l’arco più elegante, e tacchi lucidi, duri e sottili60. Non esiste cosa che, in natura, eguagli un tacco a spillo, che perciò rappresenta il distillato supremo dell’inventiva culturale e del suo contrasto col corpo, tanto da immetterci in un mondo totalmente al riparo da quest’ultimo, pur restandovi intimamente collegato. Inoltre, se il feticcio è un talismano, dev’essere però anche personalissimo e segreto, come argomenta Greenacre. Dalla sociologia e attraverso gli scritti di Simmel, abbiamo conferma di quanto importante sia il segreto per l’uomo. Rituali segreti, associazioni segrete, formule segrete, riescono a creare una nuova realtà per l’uomo, che così può trascendere e trasformare il quotidiano mondo della natura, dandogli dimensioni altrimenti ignote, che vengono 414

controllate in modo arcano. Il segreto implica, soprattutto, la capacità di controllare, per vie nascoste, ciò che apertamente abbiamo, acquisendo così la trascendenza sulla nostra realtà, sia essa natura, fato o destino animale. O, come afferma ancora Greenacre, «…il segreto, nel suo più primitivo livello, si riferisce al corpo e ai suoi meccanismi… e abbraccia marcatamente la lotta contro la paura della morte…»61. In altre parole, il segreto rappresenta la principale illusione umana e la negazione della realtà corporale e del suo destino. Si capisce benissimo che l’uomo si sia sempre impegnato nella ricerca di fontane di giovinezza, del santo Graal, di tesori sepolti; cose tutte che dovevano conferirgli un’onnipotente forza per capovolgere il suo destino e cambiare il naturale ordine delle cose. Molto a proposito Greenacre ricorda come Goering tenesse, nascoste nell’ano, capsule di potentissimo veleno, che gli servirono per suicidarsi, con un ultimo gesto di sfida62. Questo è una rivalsa alla rovescia: servirsi dell’organo che localizza la fallibilità animale e trasformarlo in sorgente di trascendenza e contenitore del segreto talismano con cui si sarebbe beffato il destino. Ma, dopo tutto, questo è il significato essenziale dell’analità: consiste nel proclamare come magie anali tutti i ritrovati e le invenzioni della cultura, per provare che l’uomo, unico tra tutti gli animali, vive in un mondo fatato in ragione dello splendore di ciò che gli riesce d’immaginare e costruire, di ciò che simbolicamente egli può tirar fuori dal suo ano. La caratteristica suprema dei riti misteriosi è che risultino drammatizzati. Le attività dei feticisti e dei loro consimili, quali i travestiti, hanno sempre affascinato gli osservatori 415

appunto per questo. Essi inscenano un complicato dramma in cui la loro gratificazione è fatta dipendere dalla minuziosa esattezza dello scenario: qualsiasi piccolo dettaglio trascurato, che non s’adegui al preciso rituale, manda tutto all’aria. Si debbono pronunciare le parole giuste nel momento giusto, le scarpe vanno disposte in un dato modo, il busto va indossato e allacciato correttamente e così via63. Il feticista si prepara per il rapporto sessuale nel modo più corretto, per renderlo sicuro. L’ansietà di castrazione può venire superata soltanto se le cose si svolgono nella giusta forma. Questo schema riflette l’interno andamento di un rito, ideato dalla cultura: le forme artefatte prevalgono su quelle naturali, le domano, le trasformano e le rendono sicure. È nel travestimento che ci è dato di osservare uno scenario particolarmente ricco del dramma della trascendenza. In nessun’altra istanza appare così netta la dicotomia tra cultura e natura. I travestiti credono di poter trasformare la realtà animale abbigliandola coi paludamenti della cultura, esattamente come fanno, ovunque, gli uomini, i quali, vestendo con gran pompa, intendono negare — come disse Montaigne — di sedersi sul loro deretano, esattamente come ogni altro animale, anche se stanno assisi in trono. Il travestito clinico, tuttavia, è ancor più fanatico dei colleghi dozzinali, perché è ossessionato dal potere dell’abito nel creare un’identità. Spesso nel suo passato vi è una storia di vestiti preparati per le bambole o di giochi allo scambio di abiti con una sorella, colla pretesa di scambiare anche l’identità64. È ovvio che per costoro «il gioco è la realtà» e che essi, come attori sul palcoscenico, s’impegnano a impersonare i ruoli suggeriti dai costumi di scena. 416

Che cosa vogliono essere? Si direbbe che vogliano smentire il complesso di castrazione, superare l’identità della specie e la separazione tra i sessi; liquidare la casualità d’essere d’un unico sesso, col limitato destino che ciò impone, coll’incompletezza che ognuno si porta dentro e che sfocia nel fatto che, non solo siamo un frammento della natura, ma persino un frammento di corpo. Il travestito sembra voglia dimostrare la realtà dell’ermafroditismo col suo possedere un pene, pur figurando donna65. «Voglio essere mia sorella, ma conservando il pene!», diceva un paziente:

Allorché s’abbandonava alle sue perverse pratiche, era sua abitudine — appena raggiunta l’eiaculazione — di strapparsi d’addosso i vestiti presi a prestito, in fretta e furia. Ciò era dovuto al fatto ch’egli associava la circostanza con una strana storia raccontatagli da qualcuno: se uno faceva smorfie mentre battevano le ore, le smorfie sarebbero rimaste sul viso. Di conseguenza aveva paura di restare «incastrato» nel ruolo femminile, cosa che avrebbe comportato la rinuncia al pene66.

Ovviamente, questo era un modo per affermare che il gioco è sul serio e che la rappresentazione è la realtà e che, se si viene colti mentre rintoccano le dodici, si può perdere tutto. Bak riporta qualcosa di simile su un suo paziente:

Vestirsi e svestirsi di fronte allo specchio costituì per gran tempo l’occupazione principale. Il pene veniva stretto in fasce e fissato con forza all’indietro, mentre i 417

testicoli venivano quasi ricacciati nei canali inguinali. Tali episodi ingeneravano in lui una tremenda ansietà di castrazione: temeva che la verga risultasse spezzata o contorta, che i condotti spermatici finissero lacerati ed egli diventasse così sterile67.

Il drammatico gioco al controllo del sesso non assorbe completamente l’ansietà, forse perché il pericolo che nasconde finisce per accentuare il senso della realtà dei giochi ed anche in ragione dell’inevitabile complesso di colpa legato al fatto che l’io è posto del tutto in ombra dal corpo, in ambedue le sue forme sessuali, il che può solo significare che l’individualità ne esce sconquassata. Non esiste dubbio sull’ingenua serietà di chi crede nella magica efficacia dell’abbigliamento. Un paziente di Fenichel, capitandogli di vedere un ragazzo monco, «sentì l’impulso di scambiarsi d’abito con lui. Questo implicava il rifiuto della realtà della mutilazione nel ragazzo»68. Ma spesso tali fantasie si realizzano, in qualche forma. Uno dei pazienti di Greenacre fantasticava sovente di cambiare i ragazzi in ragazze e viceversa e ciò lo spinse a specializzarsi in endocrinologia!69 Si può concludere da ciò che i travestiti e i feticisti non vivono sempre d’illusioni: hanno intravisto quella verità vissuta da ogni uomo, che cioè la cultura può davvero trasformare la realtà naturale. Non esiste una distinzione netta e decisa tra la creatività culturale e quella naturale. La cultura è un sistema, basato sul simbolo, che veramente conferisce il potere di superare il complesso di castrazione, in quanto l’uomo può in parte crearsi. Da questo punto di vista, infatti, possiamo considerare il travestitismo come la perfetta forma del progetto di farsi 418

causa sui, attraverso un diretto rapporto sessuale con se stesso, evitando di perdersi per i tortuosi sentieri d’una partner femminile. Come notava Buckner in un suo interessante saggio, si direbbe che il travestito sviluppi una personalità femminile entro se stesso: ciò comporta un rapporto tra due persone nel suo interno, una specie di «matrimonio interiore»70. Egli non deve più dipendere da alcun altro, per ottenere gratificazioni sessuali, perché può rappresentare anche il «ruolo contrapposto». La logica conseguenza della completezza ermafroditica è che uno costituisca un mondo completo da sé solo. Non esiste esempio migliore di quanto sfumata sia la linea che separa la creatività feticistica da quella culturale, che nell’antica pratica cinese di legare strettissimi i piedi delle bambine. Tale barbaro sistema atrofizzava i piedi che, così deformati, diventavano oggetto di venerazione, da parte degli uomini. Freud stesso sottolineava la relazione tra questa pratica e il feticismo e osservava che «il maschio cinese sembra voglia dimostrare la sua gratitudine alla donna per essersi sottomessa alla castrazione»71. Anche qui riscontriamo un concetto profondo, ma espresso in tono non esatto. Noi preferiremmo dire che tale pratica rappresenta il trionfo assoluto del ritrovato della cultura sul piede animale, esattamente come accade per il feticista mediante la scarpa. La venerazione è la stessa, in ambedue i casi: si tratta di un senso di gratitudine per la trasformazione della realtà naturale. Il piede atrofizzato rappresenta una specie di prova dolorosa dell’efficacia della cultura sul piede animale, esattamente come accade per il feticista mediante la scarpa. La venerazione è la stessa, in ambedue i casi: si tratta di un senso di gratitudine della realtà naturale. Il piede 419

atrofizzato rappresenta una specie di prova dolorosa dell’efficacia della cultura. I cinesi, quindi, nel piede divenuto sacro appunto perché svestito delle sue ordinarie forme animali, venerano se stessi e la loro cultura. Siamo però sforzati a tracciare, ad un certo punto, la linea divisoria tra la creatività e il fallimento, e da nessun’altra parte tale linea appare più marcata che nel feticismo. La protesta anale d’aggancio colla cultura può rivelarsi controproducente, soprattutto se vogliamo che le nostre donne camminino normalmente e se desideriamo trattare con loro come con esseri umani a pieno titolo, cosa impossibile per un feticista. La magia segreta e la drammatizzazione privata possono magari costituire un appiglio sulla realtà e la creazione d’un mondo personale, ma staccano anche chi vi ricorre dalla realtà concreta, esattamente come fanno — a livello più alto — le trovate culturali. Di tutto ciò era perfettamente conscio Greenacre, quando osservava che il segreto è un Giano bifronte: un sotterfugio che mina i rapporti interpersonali72. Il travestito, col suo matrimonio interiore segreto, esclude qualsiasi altro rapporto matrimoniale, ma in questo come in altri casi, non va dimenticato ^impoverimento generale del feticista e del travestito, che ha radice nella malsicura identificazione col padre e in un indebolito ego73. Si è definita la perversione come «religione privata», e la definizione è esatta, ma solo per quanto concerne il tremore e la paura, non la fede. Vi si riscontra, infatti, una caratteristica e simbolica affermazione di controllo sicuro, da parte di gente che non riesce a contare su nulla: né sulle proprie forze, né su quelle condivise in una mappa culturale volta a fissare le attività interpersonali. Ed è questo che rende patetica la loro 420

astuzia. Poiché il feticista, a differenza di chi s’affida semplicemente agli schemi culturali, non si sente sicuro né nelle sue repressioni, né nel suo ego corporeo: si trova sempre terrorizzato di fronte all’atto sessuale, che si traduce nel far qualcosa di responsabile a qualcun altro, con l’intero suo corpo. May Romm riporta d’un suo paziente: «Pur provando un bisogno molto sentito dell’accettazione sessuale di sua moglie, ogni voglia di lei spariva se era sua moglie stessa a fare qualche avance»74. Possiamo considerare ciò come un rifiuto dell’impersonale e strumentale ruolo della specie, ma si tratta sempre di un rifiuto basato sull’insicurezza, allorché uno è chiamato ad effettuare un impegno. Sulla scorta di Rank, già abbiamo visto come uno dei caratteri essenziali della nevrosi sia una visione realistica del mondo, con tutto il suo perfetto ordine, la sua forza e la sua terribilità. Il feticista è costretto a subire il senso della sua impotenza, quando si trova posto di fronte a qualche compito impegnativo, perché non è abbastanza solidamente «programmato» dal punto di vista nevrologico da vigorose repressioni e dall’ego corporeo, per riuscire a falsificare la sua vera situazione e quindi a svolgere con indifferenza il suo ruolo animale. L’oggetto gli deve sembrare tremendo con tutta la sua massa di capelli, coi suoi seni penduli, le natiche e lo stomaco. Che atteggiamento assumere di fronte a tutta questa cosa, quando uno si sente cosi vuoto dentro? Una delle ragioni per cui il feticcio appare così splendido e affascinante al feticista, è dovuto al fatto che egli vi trasferisce la spaventosità di quell’altra presenza umana. Il feticcio diventa, perciò, un miracolo manovrabile, a differenza della partner. È questa la ragione per cui il feticcio s’ammanta come di un luminoso alone. Il paziente 421

di May Romm non riuscì mai a superare la visione delle cose, ricevuta nell’infanzia:

Il ricordo più remoto del paziente si ricollegava a sua madre che si lavava i capelli. Mentre stava asciugandoseli al sole, accadeva che se li stendesse sul viso. Egli ne era affascinato e inorridito allo stesso tempo, non riuscendo più a distinguerne i lineamenti, e si sentiva sollevato quando il viso tornava visibile. Il pettinarsi da parte di sua madre rivestiva per lui un grande fascino75.

Sotto un certo aspetto possiamo interpretare il fatto come espressione dell’ansietà del bambino, perché la parte più personale ed umana dell’oggetto — la faccia — veniva ad essere eclissata da crine animalesco. Ma il sentimento dominante nell’episodio è quello della terribilità del miracolo che si verifica nell’oggetto creato. La maggioranza di noi riesce a superare la qualità ipnotica degli oggetti naturali, e credo che ciò avvenga in due modi in rapporto tra loro. Il primo consiste nell’acquisire il senso della nostra forza, il che ci permette di stabilire una specie d’equilibrio tra noi e il mondo. Possiamo allora volgere i nostri desideri verso l’oggetto senza perdere per questo la nostra stabilità. Ma anche una seconda cosa dev’essere fatta: il desiderio stesso deve essere feticizzato. Non possiamo rapportarci all’intero oggetto come si presenta, e quindi abbiamo bisogno di rifarci a definizioni standardizzate dell’attrattiva sessuale. Queste ci vengono sotto forma di «suggerimenti» che servono a parzializzare l’oggetto in misura sostenibile: noi fissiamo i seni o la sottoveste, e ciò ci permette di 422

familiarizzarci coll’intera persona con cui intendiamo entrare in rapporto76. Con questi due procedimenti, noi spogliamo la partner della sua terribilità e potere e così superiamo la nostra complessiva impotenza di fronte a lei. Uno dei pazienti di Greenacre, riassume perfettamente il problema:

Se egli insisteva a fissare la ragazza, essa gli diventava sempre più repellente, soprattutto perché la sua attenzione inevitabilmente si concentrava sugli orifizi del suo corpo. Persino i pori della pelle di lei si facevano cospicui, s’ingrandivano e diventavano ripugnanti… Un po’ per volta scoprì che era meglio accostare la ragazza di schiena, poiché questo rendeva meno pronunciata, allo sguardo e al tatto, la differenza tra loro77.

(Questo mi richiama il famoso racconto di Rousseau sulla repulsione provata di fronte a una stupenda prostituta veneziana, quando notò una leggera escoriazione sul seno). Quando l’oggetto terrificante non può essere ridimensionato come diretto veicolo di desiderio, diventa facilmente ripulsivo, perché le sue qualità animali appaiono autonome e ingrandiscono a dismisura. Penso che questo possa spiegare il paradosso che il feticista si senta schiacciato dalla terribile bellezza dell’oggetto e dalla sua suprema armonia, e che al tempo stesso trovi repellente la sua animalità. Il piede si trasforma in problema e diventa un modello di bruttezza, solo quando noi non riusciamo a fonderlo nel corpo, sotto la spinta della nostra volontà e desiderio. Altrimenti esso rimane una parte indifferente d’una donna incantevole. La 423

difficoltà feticista corrisponde esattamente a quella del bambino e consiste nel non essere in grado di padroneggiare situazioni, che richiedono un impegno pratico, con la necessaria calma. Credo anche che ciò aiuti a spiegare perché il narcisista fallico — il tipico Don Giovanni — spesso si butti su qualsiasi oggetto, bello o brutto, che gli si presenti, con la stessa noncuranza: egli non si cura affatto dell’insieme di qualità personali dell’oggetto.78* Tutte le perversioni possono essere riguardate, quindi, come vere «religioni private» e come tentativi per trascendere la condizione umana e, a suo dispetto, raggiungere una qualche soddisfazione. Questa è la ragione per cui i pervertiti insistono tanto nel proclamare la superiorità e i vantaggi del loro particolare approccio, e dichiarano di non capire perché tutti gli altri non preferiscano i loro sistemi. È lo stesso genere di sentimento che anima tutti i veri credenti, lo strombazzamento di chi si proclama eroe autentico, avviato sull’unico sentiero aperto verso la gloria immortale. A questo punto, ecco convergere insieme sia le perversioni che la cosiddetta normalità. Non c’è mezzo di sperimentare la vita nella sua totalità: ciascuna persona deve escluderne larghe porzioni, deve parzializzarla — come Rank diceva — per evitare di venirne schiacciato. Non esiste sistema per sfuggire e trascendere la morte con certezza, perché tutte le creature organiche muoiono. Gli spiriti più grandi, più vivi, più audaci e sicuri non riescono, anch’essi, a trangugiare altro che piccoli pezzi del mondo, mentre gli esseri umani più insignificanti, maligni e tremebondi s’accontentano di briciole infinitesimali. Mi viene in mente l’episodio del grande Immanuel Kant, quando, durante una riunione, si 424

ruppe un bicchiere: con cura estrema soppesò le alternative per seppellirlo in giardino in un posto sicuro, perché nessuno potesse ferirsi accidentalmente. Come si vede, anche i maggiori spiriti debbono talvolta arrendersi alla magia feticistica e ai drammi ritualistici per bandire gli incidenti, legati alla vulnerabilità animale.

La naturalezza del sado-masochismo

Quantunque non esista niente di nuovo da aggiungere su questo problema, dopo tutta la valanga di scritti che ne hanno trattato, voglio però nuovamente insistere sulla naturalezza di queste perversioni. Il sadismo e il masochismo appaiono come paurosi concetti tecnici, come segreti sui reconditi recessi dell’uomo, svelati appieno soltanto agli psicoanalisti nella pratica della loro professione. Ed ancor più essi paiono configurarsi come infrequenti e grottesche aberrazioni della normale condotta umana. Ma queste supposizioni sono errate. Il masochismo nasce spontaneo nell’uomo, come ripetutamente abbiamo visto in queste pagine. L’uomo è per natura sua umile, riconoscente, afflitto da complessi di colpa, superato e disposto ad accettare la sofferenza: egli si sente piccolo, miserabile, debole e recipiente passivo, naturalmente portato a rifugiarsi in un al di là di potere superiore, misterioso e universale. Anche il sadismo è attività naturale della creatura e ne traduce la spinta verso l’esperienza, il dominio, il piacere, il bisogno di prendere dal mondò ciò che le necessita per autorealizzarsi e prosperare79; una creatura umana — dobbiamo aggiungere — che deve dimenticarsi di sé e risolvere le proprie dolorose 425

contraddizioni intime. Il termine composto di sadomasochismo esprime la naturale complementarietà di cose diametralmente opposte tra loro: non si dà, infatti, debolezza senza una corrispondente accentuazione di forza e non esiste impiego di forza senza un parallelo ripiegamento verso una sicura fusione con una maggiore sorgente di potere. Il sadomasochismo, perciò, riflette l’universale condizione umana e la vita quotidiana di gran parte della gente. È un riflesso del vivere umano in accordo colla natura del mondo e colla natura che l’uomo stesso ha ereditato. Praticamente, quindi, il sado-masochismo riflette una «normale» situazione mentale80. Ci stupiamo, ad esempio, del dilagare di violenze carnali nello sbalestrato mondo d’oggi? La gente si ritrova sempre più impotente. Come possono sfogare le loro energie e stabilire un certo equilibrio tra il moltissimo che debbono incassare e il pochissimo che possono esprimere di sé? Lo stupro conferisce un senso di potere personale, attraverso la capacità di causare sofferenza, di manipolare e dominare interamente un’altra creatura. Il capo dittatoriale, osservava giustamente Canetti, raggiunge l’apice nell’esperienza di dominio e controllo, riducendo le persone a semplici animali e trattandole come bestie. Lo stupratore prova lo stesso tipo di soddisfazione, in un modo che appare orrendamente naturale; sono assai poche le occorrenze della vita in cui una persona possa sperimentare un senso di totale adeguatezza alle proprie energie: l’accelerata vitalità che esplode allorché riusciamo a dimostrare che i nostri corpi animali posseggono l’energia richiesta per assicurarsi il loro dominio su questo mondo, o perlomeno su un piccolo frammento vivo di esso81*. 426

Ci ha sempre stupito la disponibilità del masochista nel sottoporsi alla sofferenza, ma dimentichiamo il fatto elementare che, per un verso, il dolore immette il corpo sulla ribalta dell’esperienza, e riporta brutalmente la persona al centro delle cose, nella sua qualità di animale sensitivo. Tutto questo costituisce un naturale complemento al sadismo che, col masochismo, rappresentano ambedue delle tecniche per raggiungere un robusto senso di se stessi, ora esplicitato in azione esterna, ora consistente in passiva sofferenza. L’una e l’altra cosa provvedono intensità al posto della vuotaggine insulsa. Ed inoltre, sperimentando dolore, uno se ne può avvalere per tentare di imporgli un controllo e vincerlo. Come argomentava Irving Bieber in un suo importante saggio, il masochista «non vuole» il dolore, ma desidera invece essere in grado di identificarne la sorgente, localizzarla, per giungere a controllarlo82. Il masochismo è, dunque, un assumere l’ansietà della vita e della morte, assieme allo schiacciante terrore dell’esistenza, per digerirseli a piccole dosi. La cosa riesce se si sperimenta sofferenza, causata da una terrificante forza, ma si è capaci di continuare la propria vita senza lasciarsi ingoiare dall’estrema minaccia di annientamento e di morte. Come acutamente osservava Zilboorg, la combinazione del sadomasochismo è una perfetta formula per trasfigurare il terrore della morte83. Rank denominava il masochismo «piccolo sacrificio», «leggera punizione» e «riparazione» che permette ad uno di evitare il male supremo che è la morte. Associato alla sessualità, il masochismo rappresenta così un sistema di prendere la sofferenza e il dolore, «che in ultima analisi sono simboli di morte», e di trasformarli in gratificanti fonti di piacere84. Henry Hart notava 427

giustamente che questo è un modo di trangugiare delle dosi omeopatiche per libera scelta: l’ego riesce a controllare il dolore totale, la sconfitta totale e l’umiliazione totale, ingerendoli a piccole dosi, come in una specie di vaccinazione85. Anche da quest’altra angolazione, quindi, ci è dato di scoprire l’affascinante ingegnosità delle perversioni, che riescono a tramutare la sofferenza — simbolo di morte — in estasi e in esperienza di un incremento di vita86*. Ma, quando si tirino le somme, risultano evidenti i limiti dell’ingegnosità delle perversioni. Se magicamente noi stabiliamo il terrore della vita e della morte in una persona, facendone la sorgente della sofferenza, noi riusciamo, sì, a mettere sotto controllo il terrore, ma allo stesso tempo gonfiamo iperbolicamente quella persona. Ciò diventa una religione privata che ci «fa credere» troppo, e quindi umilia il masochista, mettendolo sotto il dominio d’un’altra persona. Non stupisce che il sado-masochismo finisca col rimpicciolire, e si traduca, alla fine, in un dramma addomesticato di controllo e di trascendenza, impersonato da attori da quattro soldi. Ogni eroismo va rapportato a un qualche genere di al di là, ma la questione è: di che genere? Tale interrogativo ci riporta a quanto abbiamo già in antecedenza discusso: il problema degli al di là troppo limitati. Sotto questo punto di vista, le perversioni sono nient’altro che prove dei tremendi limiti degli al di là che uno può scegliersi per il proprio dramma di apoteosi eroica. Il sado-masochista è un qualcuno che inscena il suo dramma d’eroismo di fronte ad una sola persona: egli porta alla ribalta i suoi due motivi ontologici — Eros e Agape — per il solo oggetto del suo amore. Da un lato, egli si serve 428

dell’oggetto per espandere il suo senso di pienezza di potere; e dall’altro dà via libera al suo bisogno di lasciare andare e di rassegnarsi, per trovare finalmente pace e realizzazione in un completo fondersi con qualcosa che lo supera. Un paziente di May Romm dimostrava in modo perfetto questo raggrinzimento di un problema cosmico in un singolo partner:

Nello sforzo di attenuare la sua severa tensione, egli si dibatteva tra il desiderio di essere il maschio dominante, aggressivo e sadistico nei confronti della moglie, e la voglia di buttar via la sua mascolinità, di venir castrato da sua moglie e ritornare così ad uno stato d’impotenza, passività e annientamento87.

Sarebbe così semplice se potessimo soddisfare gli aneliti dell’intera condizione umana nella sicurezza delle pareti domestiche. Secondo l’espressione di Rank, noi si vorrebbe che il nostro partner fosse una specie di dio, assolutamente efficace nel sostenere i nostri desideri e smisuratamente grande per poter accogliere in sé le nostre brame. Ma, naturalmente, questo è un impossibile sogno. Se, dunque, il sado-masochismo riflette la condizione umana e realizza i nostri due motivi ontologici — sempre appaiati —, si può fondatamente parlare di masochismo onesto o maturo, proprio come fece Rank nella sua curiosa discussione, intitolata Beyond Psychology88. Uno dei limiti di Freud è rappresentato dalla sua incapacità nello spingere il suo pensiero verso questo tipo di conclusioni, anche se ripetutamente vi si è avvicinato. Freud era così scosso dal carattere intenso, profondo e universale del sadismo e del 429

masochismo da catalogarli tra gli istinti. Ma arrivò a una conclusione pessimistica, lamentando che l’umanità non riuscisse a liberarsi da questi impulsi. Ancora una volta egli si trovò incastrato colla sua teoria degli istinti, che lo portò a ravvisare in questi stimoli gli ultimi ruderi di una condizione evolutiva, connessi a specifici appetiti sessuali. Rank, con visione più obbiettiva, trasformò il sadismo e il masochismo da fenomeni clinici di segno negativo, in un qualcosa di positivo. La maturità del masochismo, stando a Rank, dipenderebbe dall’oggetto verso il quale è rivolta e dalla misura in cui il masochista rimane padrone di se stesso. Sempre secondo Rank, una persona non va giudicata nevrotica perché masochista, ma piuttosto perché vuole soltanto dare a vedere d’essere sottomesso, mentre in realtà non lo è89. Occupiamoci per un momento di questo tipo di squilibrio, appunto perché assomma in sé l’intero problema di quella malattia mentale che abbiamo qui sfiorato.

Malattia mentale come eroismo fallito

Una conclusione, molto interessante e solida, emerge dal nostro sguardo d’insieme sull’infermità mentale, e cioè che aveva ragione Adler nell’affermare che tutti i malati di mente si trovano impastoiati con un fondamentale problema di coraggio. Non è loro possibile accollarsi la responsabilità richiesta da una vita indipendente e sono in balia di un’esagerata paura della vita e della morte. Dal livello generale d’osservazione che abbiamo scelto, la spiegazione teorica dell’infermità mentale si risolve in una teoria complessiva sui fallimenti della trascendenza sulla morte. Il rifiuto della vita e il terrore della morte si combinano 430

insieme nella personalità a tal punto che essa ne risulta deformata e incapace di tradurre in pratica quel «normale eroismo culturale» come tra gli altri membri della società. Il risultato è che alla persona risulta inaccessibile sia l’autoespansione eroica corrente, sia una facile resa alla dominante visione del mondo, adottata dagli altri membri della società. Per questa ragione egli, in qualche modo, diventa un peso per gli altri. Parlare d’infermità mentale significa, perciò, trattare di quella gente che grava sugli altri con le proprie esagerate paure della vita e della morte e col proprio eroismo fallito. Come abbiamo già visto, la persona depressa è quella che s’è piazzata così comodamente sotto il potere e la protezione di altri, da aver rinunciato alla sua propria vita. Come Adler ebbe a dire molto tempo fa, la gente che sta intorno alla persona depressa, ne paga le spese, perché il senso di colpa, le autotorture ed accuse rappresentano, nelle mani di chi è depresso, dei modi per coartare gli altri90. Che c’è di più coercitivo del magico transfert, messo in atto dallo schizofrenico, che riflette in modo perfetto la bancarotta del coraggio? Oppure della paranoia, nella quale la persona si sente così debole e così sola, da giungere a crearsi degli immaginari oggetti d’odio, solo per poter disporre d’una qualche relazione?91 Occorre rassegnarsi ad essere odiati, non fosse altro che per provvedere al paranoico una qualche briciola di vitalità. Questo rappresenta l’estremo caso dello «scaricare il proprio crollo» su qualcun altro. E si tratta veramente d’un crollo di fronte alla vita e verso la morte, che individui deboli e spaventati scaricano pesantemente sugli altri, col risultato che noi possiamo trovarci messi alle strette dal loro transfert ossessivo e dalla loro paranoia, anche se 431

forse non si tratta di un nostro problema.92* Nelle perversioni specifiche vediamo questa coartazione allo stato puro, in cui diventa negazione degli altri come persone intere. La ragione per cui le donne si ribellano contro i rapporti feticistici e restano offese per l’aiuto artificiale a cui ricorre il feticista, va ricercata nel fatto che ciò nega la loro esistenza come persone complete, o semplicemente come persone93. L’elemento che collega tra loro tutte le perversioni è l’incapacità ad essere un animale umano responsabile. Erich Fromm già descriveva bene il masochismo come un tentativo per liberarsi del fardello della libertà94. Risulta clinicamente che alcune persone sono così deboli di fronte alla responsabilità, da aver paura persino della libertà di trovarsi in una condizione di buona salute e di vigore, come ci ricordava Bieber95. Nell’estrema tra le perversioni — la necrofilia — si costata la più esagerata paura della vita e delle “persone, come la definì Fromm96. Uno dei pazienti di Brill era così spaventato dei cadaveri, che quando gli riuscì di superare tale spavento divenne un necrofilo, appunto perché affascinato dalla conquista di quella nuova libertà. Si potrebbe dire che egli si servisse della necrofilia come suo particolare eroismo e che sui cadaveri inscenasse il suo ripulsivo dramma di apoteosi. Le salme sono perfette nella loro impotenza: esse non possono né ribellarsi, né diffamare e non c’è da preoccuparsi della loro incolumità o delle loro reazioni97. Boss ha descritto un coprofiliaco, la cui esistenza era disastrata al punto di non sapere escogitare altro eroismo creativo se non tra i prodotti dell’intestino retto98. Si può qui scorgere perfettamente il terrore del ruolo imposto dalla specie e la totale incapacità a stabilire un rapporto col corpo 432

della partner sessuale. In questo paziente tali fenomeni erano così accentuati da sfiorare il rischio di tagliarlo fuori del tutto dalla possibilità di manifestare i suoi desideri in una relazione interpersonale. In effetti egli si sentiva «salvato» dalle feci, attraverso un suo contorto ragionamento che in quelle ravvisava la vera sorgente della vita. Poco gli importava che le sue necessità di simile inusitato eroismo avessero ridotto sua moglie a non essere più altro che un intestino retto. Niente può risultare più efficace delle perversioni per mostrare come la debolezza e la paura conducano ad una vita non vissuta, coi disastrosi risultati ora descritti. Straus si spinge fino a connettere la necrofilia con l’avarizia sordida e la depressione involutiva, come componenti dello stesso problema del generale ritrarsi dalla vita99. Non abbiamo argomenti per suffragare tale diagnosi. A questo punto, con la solida conoscenza teorica acquisita, possiamo spaziare, in modo aneddotico, sull’intero panorama dell’infermità mentale e della perversione, senza troppo rischio, e concludere che tutto va ricollegato col terrore della condizione umana, che serpeggia in gente incapace di reggervi. E anche a questo punto, il nostro discorso sulle perversioni come eroismo fallito viene a completarsi e a concludersi sull’intero problema della natura umana nelle sue ideali dimensioni. Dopo tutto, l’eroismo è una questione d’ideale. Il problema dell’infermità mentale, da Kierkegaard attraverso Scheler, Hocking, Jung, Fromm e molti altri, è sempre stato inseparabile dal problema dell’idolatria100. Entro i confini di quale cosmologia uno sceglie di realizzare il proprio eroismo? Se — come s’è detto — anche la persona più robusta deve pur sempre esercitare 433

il proprio motivo di Agape, e deve riporre il peso della propria vita in qualche luogo al di là di sé, eccoci di nuovo posti a confronto con i grandi interrogativi: Qual è la realtà più alta, il vero ideale, l’autentica grande avventura? Quale genere di eroismo ci si richiede, in quale specie di dramma, e nella sottomissione a quale tipo di dio? I grandi geni religiosi della storia sonò giunti a concludere che essere veramente sottomessi significa sottoporsi al potere più alto, all’infinito assoluto e non a un qualche surrogato umano, quali gli innamorati, i capi o gli ideali politici. Sotto questa angolazione, il problema dell’infermità mentale si riassume nel non sapere che genere di eroismo uno persegua, oppure — se lo si conosce — nel non essere in grado di ampliare il proprio eroismo oltre i confini di una paralizzante grettezza. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, l’infermità mentale diventa così una questione di debolezza e di stupidità, che riflette ignoranza sul modo con cui soddisfare i propri due motivi ontologici. Il desiderio di affermarsi e di arrendersi sono, dopo tutto, perfettamente neutri: per appagarli possiamo scegliere qualsiasi itinerario, qualunque oggetto, a non importa quale livello d’eroismo. La sofferenza e il male, che promanano da tali motivi, non sono conseguenti alla natura dei motivi stessi, ma vanno attribuiti alla nostra stupidità nel soddisfarli. Questo è il senso profondo di una delle intuizioni di Rank, che altrimenti suonerebbe caustica. In una lettera del 1937 egli scriveva:

All’improvviso… mentre me ne stavo a letto, mi balenò l’idea di che cosa era (o è) l’«Al di là della psicologia». Sai che cosa? La stupidità! Tutta quella 434

complicata ed elaborata spiegazione dell’umano comportamento, altro non è che il tentativo di dare un senso ad uno dei più basilari motivi di comportamento, e cioè la stupidità! Ho cominciato a pensare che essa è molto più importante della cattiveria e della malvagità, perché molte azioni e reazioni che sembrano malvagie, in realtà sono solo stupide. Anzi, il chiamarle cattive, le giustifica101.

Concludendo, possiamo renderci conto di quanto veramente inseparabili risultino le sfere della psichiatria e della religione, poiché l’una e l’altra si occupano dell’umana natura e del significato ultimo della vita. Mettere in disparte la stupidità, vuol dire diventare coscienti della vita come di un problema di eroismo, il che sfocia inevitabilmente nella riflessione su ciò che la vita dovrebbe essere nelle sue ideali dimensioni. Sotto questo aspetto, possiamo vedere che le perversioni di «religioni private» non sono da catalogarsi come «false»; in confronto colle «religioni vere». Esse sono semplicemente di minor respiro e meno umanamente nobili e responsabili. Tutti gli organismi umani sono condannati alla perversità e alla limitatezza di essere soltanto dei semplici frammenti di un più vasto insieme che li sovrasta enormemente, e che essi non sono in grado né di capire, né di padroneggiare, pur dovendo viverci e combatterci insieme. Ci resta, dunque, da interrogarci — nello spirito dell’antico saggio Epitteto — intorno al tipo di perversità indicato per l’uomo.102* 1 Boss, Meaning and Content of Sexual Perversions, pp. 46-47. 2 ADLER A., The Practice and Theory of Individual Psychology (London: Kegan

435

Paul, 1924), capitolo 21 (trad. Prassi e teoria della psicologia individuale, Roma: Astrolabio). 3 Eccellente pensiero di Straus «The Miser» in Patterns of the Life-World, a cura

di EDIE J.M. (Evanston: Northwestern University Press, 1970, capitolo 9). 4 Boss M. Psychoanalysis and Daseinanalysis (New York: Basic Books 1963), pp.

209-210 (trad. Psicoanalisi ed analitica esistenziale, Roma: Armando). 5 BP, p. 169. 6 GAYLIN W., ed, The Meaning of Despair (New York: Science House, 1968),

p. 391 (trad. Il significato della disperazione, Roma: Astrolabio). 7 RANK, WT, pp. 126, 127, 131. 8 Cf. BECKER, The Revolution in Psychiatry. 9 ADLER, Individual Psychology, p. 252. 10 Boss, Sexual Perversions, p. 46. 11 * Sotto quest’angolazione possiamo qui notare che uno dei compiti cruciali

che toccano ad una persona e ne denotano la vera maturità, è il rassegnarsi ad invecchiare. È importante, per ogni individuo, digerire e assimilare la sua vera età, smetterla di posare a giovanotto, pretendendo che la vita non abbia mai fine. Eliot Jacques nel suo splendido saggio Death and the Mid-Life Crisis, apparso nel volume di H.M. Ruitenbeek Death: Interpretations (New York: Delta Books, 1969, capitolo 13) sviluppa in modo superbo l’idea del bisogno che si ha di «autocordoglio»: di compiangersi, insomma, per la propria morte eventuale, buttando così fuori dal proprio subconscio qualcosa che blocca la nostra maturità emotiva. Uno deve — per così dire — farsi fuori dal proprio sistema. Dallo studio di questa dinamica appare quanto sia importante per l’uomo rassegnarsi alla propria condizione terrena e al suo stato di creatura. La ormai antica intuizione di James sul posto occupato dall’intimo crollo emotivo come fattore di crescita personale, sembra aver raggiunto piena accettazione scientifica (James, Varieties, p. 99). Possiamo anche aggiungere che, in questa direzione, Freud descrisse la dinamica di quella totale rassegnazione, che però non gli riuscì di praticare. La 436

sua ingegnosa scoperta del processo denominato «doglie del cordoglio» può oggi essere riguardata come fondamentale per capire la rassegnazione. (Si veda il giudizio che ne dà Perls in Ego, Hunger and Aggression, New York: Vintage Books, pp. 96-97, dove si sottolinea il carattere totalmente corporale di questo processo). Oggi è anche possibile capire meglio come le forze culturali cospirino ad accentuare la depressione della menopausa in qualsiasi società che menta alle persone sulle varie fasi della vita e non provveda i mezzi, nella sua visione del mondo, perché uno possa autocompassionarsi per la propria condizione di creatura, e — fatto ancor più grave — non provveda un quadro eroico nel cui contesto la rassegnazione riesca possibile. Ma su questo argomento ritorneremo ancora. 12

BROMBERG W. e SCHILDER P., «The Attitude of Psychoneurotics Towards Death», p. 20. 13 HARRINGTON, The Immortalist, p. 93. 14 JAMES, Varieties, p. 138. 15 ADLER, Individual Psychology, pp. 256-260. 16 Fra gli psicoanalisti nessuno ha meglio inteso questo dualismo di REICH W.:

vedi la brillante teoria nel suo ultimo libro Character Analysis, 1933 (New York: Noonday Press, terza edizione, 1949), pp. 431-462 (trad. Analisi del carattere, Milano: Sugarco, 1978). 17 Cf. BECKER, The Revolution in Psychiatry. 18 CHESTERTON, Orthodoxy, soprattutto il capitolo 2. 19 REICH, Character Analysis, pp. 432-450. 20 ADLER, Individual Psychology, p. 257. 21 Boss, Sexual Perversions. 22 Capitolo 9 in EDIE J.M. (a cura di), Patterns of the Life-World.

437

23 FREUD «Fetishism», 1927, Collected Papers, vol. 5, p. 199. 24 Ibid., pp. 200-201. 25

BAK, «The Phallic Woman: The Ubiquitous Fantasy in Perversions», Psychoanalytic Study of the Child, 1968, 23:16. 26

ROMM M.E., «Some Dynamics in Fetishism», Psychoanalytic Quarterly 1949, 19:146-147; l’enfasi è mia. 27 Ibid. 28 JUNG, Transference, capitolo 10. 29 Boss, Sexual Perversions, pp. 24, 32, 33, 37, 119, 136. 30 LAD, pp. 132-134. 31

SPIEGEL N.T., «An Infantile Fetish and its Persistence into Young Womanhood», Psychoanalytic Study of the Child, 1967, 22:408. 32 Cf. GREEN ACRE, «Perversions: General Considerations Regarding Their

Genetic and Dynamic Background», Psychoanalytic Study of the Child, 1968, 23:57. 33 ROMM, «Some Dynamics», p. 148-149. 34

PAYNE S.M., «Observations on the Ego Development of the Fetishist», International Journal of Psychoanalysis, 1938, 20:169. 35 Vedere il suo «On Obsession». 36

GREENACRE, «Certain Relationships Between Fetishism and Faulty Development of the Body Image», Psychoanalytic Study of the Child, 1953, 8:84.

438

37

GREENACRE, «Certain Relationships», p. 93: vedere anche il suo «Perversions», pp. 47-62. 38 Cf. BAK, «Phallic Woman», p. 20; Greenacre, «Certain Relationships» p. 80;

«Perversions»; «Further Considerations Regarding Fetishism», Psychoanalytic Study of the Child, 1955, 10:192. 39 FENICHEL O., «The Psychology of Transvestism», International Journal of

Psychoanalysis, 1930, 11:220. 40

LORAND A.S., «Fetishism in Statu Nascendi», International Journal of Psychoanalysis, 11:422. 41 FREUD, «Fetishism», p. 201. 42 NAGLER S., «Fetishism: A Review and a Case Study» Psychiatric Quarterly,

1957, 31:725. 43 Cf. BECKER, Angel in Armor. 44 ME, p. 52. 45 Ibid., pp. 199-200. 46 AA, pp. 54-55. 47 PS, p. 43. 48 Ibid. 49

ALLEN F.H., «Homosexuality in Relation to the Problem of Human Difference», American Journal of Orthopsychiatry, 1940, 10:129-135. 50

BALINT M., «A Contribution on Fetishism», International Journal of Psychoanalysis, 1935, 16:481.

439

51 FREUD, «Fetishism», p. 199. 52 Boss, Sexual Perversions, pp. 50 ss. 53 Ibid., p. 52. 54 Ibid., pp. 41-42. 55 Ibid., p. 74. 56 Ibid., p. 51. 57 GREENACRE, «Further Notes on Fetishism», Psychoanalytic Study of the

Child, 1960, 15:191-207. 58 GREENACRE, «The Fetish and the Transitional Object», Psychoanalytic

Study of the Child, 1969, 24:161-162. 59 FREUD, «Fetishism», p. 201. 60 Cf. GREENACRE, «The Fetish and Transitional Object», p. 150. 61 GREENACRE, «Further Notes», p. 200. 62 Ibid., p. 202. 63 Cf. GLOVER J., «Notes on an Unusual Form of Perversion», International

Journal of Psychoanalysis, 1927, 8:10-24. 64 FENICHEL, «Transvestism», p. 219. 65 Cf. BAK, «Phallic Woman», p. 16; FENICHEL, «Transvestism», p. 214. 66 FENICHEL, «Transvestism», p. 219.

440

67 BAK, «Phallic Woman», p. 25. 68 FENICHEL, «Transvestism», p. 219. 69 GREENACRE, «Certain Relationships», p. 81. 70 BUCKNER H.T., «The Transvestite Career Path», Psychiatry, 1970, 33:381-

389. 71 FREUD, «Fetishism», p. 204. 72 GREENACRE, «Further Notes», p. 204. 73 Ibid., p. 206. 74 ROMM, «Some Dynamics», p. 147. 75 Ibid., p. 140. 76 Cf. BECKER, Angel in Armor, capitolo I. 77 GREENACRE, «Certain Relationships», p. 67. 78

* Tutto ciò solleva il vecchio problema del perché vi siano così poche feticiste tra le donne: un problema al quale hanno risposto Greenacre e Boss. Il fatto è che il maschio deve completare l’atto sessuale, per adempiere il ruolo impostogli dalla specie. Per far ciò deve possedere una potenza sicura e gli occorrono degli spunti per eccitare e dirigere la sua sensualità. Sotto quest’aspetto il maschio è naturalmente e inevitabilmente feticista, in qualche modo. Quanto più traballante è la propria potenza, tanto maggiore è la paura dell’incombente corpo femminile e quindi la necessità di parzializzazione feticistica e di simbolismo. La femmina non ha un simile problema, perché il suo è un ruolo passivo. Si potrebbe dire che il suo feticismo è assorbito nella resa del corpo. Come afferma Boss, le donne che tremano dinanzi all’aspetto fisico dell’amore e alla concretezza del loro partner, possono semplicemente trincerarsi nella frigidità totale (Sexual Perversions, pp. 53-54). Oppure, come assai a proposito osservava Greenacre: «Il senso di fallimento dovuto alla frigidità, nella femmina, è attenuato 441

dalla sua possibile dissimulazione» (Further Considerations, p. 188, nota). «La frigidità può essere mascherata, fino ad un certo punto, cosa impossibile per l’impotenza maschile» (Further Notes, p. 192). La discussione si può riassumere col dire che la donna frigida si sottomette, ma non è convinta d’essere al sicuro, in balia del maschio. Anche il maschio impotente non si sente al sicuro colla donna, ma per lui non basta restarsene passivo per adempiere il ruolo affidatogli dalla specie. Per questo egli scantona nel feticismo. (Cf. Boss, Sexual Perversions, p. 53). 79 RANK, JORA, dicembre 1970, p. 49. 80 Cf. BECKER, Angel in Armor. 81* Ciò spiega anche la naturalezza dell’aggancio tra sadismo e sessualità, senza

doverli collocare su una base istintiva. Le due cose rappresentano un appropriato sentimento di potere e di vitalità esaltata e si rinforzano l’una con l’altra. Un ragazzo che si masturba fantasticando di violenza sessuale, prova un certo senso di potere, rinforzato dalle sue manipolazioni sessuali, che si traduce in negazione dell’impotenza e della vulnerabilità. È un qualcosa di più dell’ordinaria esperienza sessuale e qualcosa di meno dello sfogo di immotivate spinte distruttive. Molta gente s’abbandona segretamente a fantasie sado-masochistiche non perché sia istintivamente perversa, ma perché tali fantasie rispondono appropriatamente alle sue energie e, contemporaneamente, ai limiti dell’organismo animale. Non esiste soddisfazione più alta del dominio assoluto su un settore del mondo o — alternativamente — della capitolazione di fronte alle forze della natura, con una resa totale. Molto acconciamente queste fantasie si scatenano, d’ordinario, quando si è sotto pressione per faccende del mondo quotidiano, e vien fatto di chiedersi perché — durante riunioni d’affari o conferenze culturali — non si riesca a chiudere la porta ad immagini derivate, ad esempio, da «Bella di giorno», di Luis Buñuel. 82 BIEBER, «The Meaning of Masochism», American Journal of Psychotherapy,

1953, 7:438. 83 ZILBOORG, «Fear of Death», pp. 473-474. 84 WT, pp. 129-131. 85 HART, «The Meaning of Passivity», Psychiatric Quarterly, 1955, 29:605.

442

86 * Boss attribuisce un intento ancor più creativo al sado-masochismo, in

alcune sue forme, perlomeno (v. p. 104 e seg.). Non riesco molto bene a seguirlo nelle sue generalizzazioni sulla base dei pochi casi che cita. E non mi sento granché a mio agio con la sua proclività ad accettare gli arzigogolamenti dei suoi pazienti come autentici motivi ideali. Penso che questa materia vada affrontata con maggiore cautela. 87 ROMM, «Some Dynamics», p. 145. 88 BP, pp. 185-190; cf. anche la sua lettera a Jessie Taft, novembre 9, 1937, p.

240 di Taft, Otto Rank. 89 BP, p. 189. 90 Cf. ANSBACHER, Alfred Adler, pp. 271-273. 91 Cf. SCHWARTZ D.A., «The Paranoid-Depressive Existential Continuum»,

Psychiatric Quarterly, 1964, 38:690-706. 92 * Da nessun’altra parte questo salta fuori più chiaro che nello scritto di

Waite, frutto di lunghe e meditate ricerche, dedicato ad Hitler, (Adolf Hitler’s Guilt Feelings, Journal of Interdisciplinary History, 1971, 1, n. 2, pp. 229-249), nel quale egli argomenta che sei milioni di ebrei vennero sacrificati da Hitler a causa del suo personale senso d’indegnità e di esagerata vulnerabilità del suo corpo da parte della sporcizia e della corruzione. Così esagerate erano le ansietà di Hitler a questo riguardo e così deformata ne risultava la sua psiche, da sfociare fatalmente — a quanto risulta — in una mostruosa perversione, che avrebbe dovuto permettergli, nella sua mentalità contorta, di venirne a capo. «Hitler raggiungeva il proprio appagamento sessuale costringendo una qualche donna molto giovane — più giovane di lui di quanto lo era stata sua madre rispetto a suo padre — ad accosciarglisi sopra e a urinare e defecare sulla sua testa» (ibid. p. 234). Questo costituiva la sua «religione privata» e rappresentava la sua personale trascendenza dell’ansietà, risolta in questo modo. Si trattava di un «crollo» personale, scaricato non soltanto sugli ebrei e sulla nazione tedesca, ma anche direttamente sulle sue disgraziate amanti. È piuttosto significativo che tutte si siano suicidate o abbiano tentato di farlo, perché probabilmente non poterono reggere al trauma di questa perversione, il cui peso gravava interamente su di loro, non tanto come semplice atto fisico schifoso, ma in quanto stridentemente in contrasto col ruolo pubblico di Hitler: il venerato padrone del Reich tedesco che

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le scongiurava d’essere «carine» con lui e di scaricargli addosso tutte le loro escrezioni. Per sopportare tale orrore sarebbe occorso l’atteggiamento disincantato d’una prostituta, abituata alle perversioni più strane. 93 Cf. Adler in Ansbacher, p. 427. 94 FROMM, Escape from Freedom (New York: Avon Books, 1941), pp. 173 ss.

(trad. Fuga dalla Libertà, Milano: Edizioni di Comunità, 1981, 15 ed.). 95 BIEBER, «The Meaning of Masochism», p. 441. 96 Cf. FROMM, The Heart of Man, capitolo 3. 97

BRILL A.A., «Necrophilia», Journal of Criminal Psychopathology, 1941, 2:440-441. 98 Boss, Sexual Perversions, pp. 55-61. 99 STRAUSS, «The Miser», pp. 178-179. 100 Cf. JUNG, Transference, p. 69; FROMM, Beyond the Chains of Illusion

(New York: Simon and Schuster, 1962), pp. 56 ss. 101 Letter to Jessie Taft, settembre 26, 1937, Otto Rank, p. 236. 102 * Non posso chiudere questo capitolo senza richiamare l’attenzione su uno

dei più nutriti saggi sulle perversioni che mi sia capitato sotto mano. Purtroppo l’ho avuto troppo tardi per poterne discutere in questa sede. Intendo riferirmi a «Self-Destruction and Sexual Perversion» di Avery D. Weisman, apparso in Essays in Self-Destruction, edito da E.S. Schneidman (New York: Science House, 1967). Si noti in particolare il caso di quella paziente a cui la madre aveva martellato l’avviso: «Se pratichi il sesso, metti in pericolo la tua vita». Il risultato fu che la paziente si ridusse alla tecnica di quasi strangolarsi per poter raggiungere l’orgasmo. Il suo ragionamento era che se pagava il prezzo di quasi morire, poteva conseguire il piacere, senza sentirsi schiacciata da complessi di colpa. L’essere vittima nell’atto sessuale divenne il feticcio che le permetteva di compierlo. Tutti i pazienti di Weisman rivelano una mentalità medievale riguardo alla realtà della vita e riguardo alla morte. Essi mettevano sullo stesso piano malattie, disastri e 444

scostumatezza, esattamente come i flagellanti del Medioevo e come quelli dovevano trasformarsi in vittime per poter sopravvivere.

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Parte III SGUARDO RETROSPETTIVO E CONCLUSIONE: I DILEMMI DELL’EROISMO

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XI PSICOLOGIA E RELIGIONE: CHE È L’INDIVIDUO EROICO? Se esiste una scienza di cui l’uomo abbia realmente bisogno, è quella — da me insegnata — di come occupare in modo appropriato quello spazio che nella creazione è destinato all’umano individuo; e di come derivare da questo ciò che uno dev’essere per diventare un uomo [autentico]. IMMANUEL KANT

Quando si è giovani si rimane spesso sconcertati dal fatto che ogni persona da noi ammirata sembri avere una differente versione di ciò che la vita dovrebb’essere, di che cosa sia un brav’uomo, di come si debba vivere e altre cose del genere. Se poi si è particolarmente sensibili, tale fatto non solo sconcerta, ma demoralizza. La condotta di gran parte della gente consiste nell’affidarsi prima alle idee dell’uno e poi dell’altro, a seconda di chi, con maggior spicco, si profila sull’orizzonte del momento. Chi esibisce la voce più profonda, l’aspetto più gagliardo o l’autorevolezza e la fortuna più sicura, ottiene — di solito — la nostra lealtà momentanea, che ci porta a modellare su di lui i nostri ideali. Ma, col continuo fluire della vita, tutto ciò vien visto in prospettiva diversa e le differenti versioni della verità diventano piuttosto patetiche. Ogni persona crede di possedere la formula magica per trionfare sulle limitazioni imposte dalla vita e di conoscere a fondo che significhi 447

essere uomo; e, d’ordinario, si sforza di conquistare un seguito per la sua particolare ricetta. Oggi sappiamo che la gente s’impegna così accanitamente a guadagnare adepti per il proprio punto di vista, perché questo è assai più di una semplice opinione sulla vita: costituisce, in ultima analisi, una formula d’immortalità. Non tutti — si capisce — posseggono l’autorità ostentata da Kant nel suo pomposo proclama, riportato in apertura di capitolo, ma quando è in gioco l’immortalità ognuno mette in mostra un uguale sussiegoso convincimento. Tale fenomeno appare tanto più perverso, in quanto ciascuna opinione — seppure diametralmente opposta all’altra — viene presentata con la stessa dissennata sicurezza e ci si trova confrontati da autorità — tutte egualmente indiscutibili — che hanno vedute del tutto antitetiche! Prendiamo, ad esempio, il pensiero maturo di Freud circa l’umana natura e la sua idea sulla propria personale collocazione nella piramide dell’umanità che s’azzuffa:

Nell’insieme, assai poco di «buono» ho riscontrato tra gli esseri umani. In base alla mia esperienza, essi sono, in maggioranza, pattume, sia che sottoscrivano pubblicamente a questo o a quell’altro codice etico, sia che li rifiutino tutti… Se si deve parlare di etica, per conto mio sottoscrivo a un alto ideale, dal quale sono penosamente avulsi la gran parte degli uomini da me incontrati1.

Quando il maggiore psicologo, forse, mai vissuto, lascia cadere dall’alto l’espressione comune «in base alla mia esperienza», questa assume l’autorevolezza di una Bolla 448

pontificia nel Medioevo. È chiaro che la sua affermazione implica anche che, se la maggioranza della gente sono pattume, vi sono alcuni che non lo sono, e non ci vuole molto sforzo ad arguire chi sia a rappresentare una delle poche eccezioni. Ma è altrettanto chiaro che la valutazione che Freud fece di sé non risulterebbe condivisa da tutti. Quasi ognuno dei grandi discepoli che da lui si staccarono, trovò qualcosa da ridire sul suo conto, sia pure con una certa condiscendente commiserazione. Wilhelm Reich, una volta, ebbe a rilevare come Freud fosse rimasto invischiato nel movimento psicoanalitico, intrappolato dai suoi discepoli e dalla propria invenzione, e che persino il suo cancro fosse il risultato di quel chiudersi in se stesso, che lo rese incapace di esprimersi come libero individuo2. Ed eccoci così nuovamente di fronte al nostro problema: il giudizio di Reich avrebbe maggior peso se fosse stato espresso da un dio, invece che da un uomo, a sua volta peggio invischiato in un suo proprio movimento, che lo distrusse in un modo ancor più radicale ed ignominioso. Anche Jung pensava che Freud avesse dei rilevanti limiti, ma li considerò necessari per l’esplicazione del suo particolare dáimon, incarnato nel suo genio e nel suo speciale messaggio. Ma, forse, questa posizione era — a sua volta — un riflesso di quel dáimon, peculiare di Jung, che lo spingeva verso l’alchimia e conferiva alla sua vita interiore una certa aureola da sciamano3. Uno studioso dell’uomo della statura di Erich Fromm ha scritto le frasi più amare nei confronti di Jung, denunciandolo come nemico della scienza. Merita compassione il profano che, scorrendo rapidamente questi giganti, si trova sconvolto da questi pesanti apprezzamenti dell’uno contro l’altro. 449

Non ho ancora nemmeno accennato alle decise, convinzioni di Rank sui limiti di Freud, Nel sistema di pensiero di Rank il giudizio più benigno nei riguardi delle limitazioni di Freud potrebbe forse concludere che egli condivideva l’umana debolezza del nevrotico: gli mancava la capacità per qualsiasi illusione e mito creativo, nei riguardi della creazione. Freud vedeva le cose troppo «realisticamente», senz’alcun afflato di miracolo nelle loro possibilità infinite. La sola illusione che si concesse fu quella circa la propria scienza, ed essa era fatalmente destinata a rappresentare un debole sostegno, basata com’era sulle sole sue energie proprie, e non su un possente al di là. È appunto questo il problema che generalmente incontra l’artista: egli crea i suoi propri significati, ma deve, a sua volta, trovare in essi sostegno. Il dialogo è troppo a botta e risposta addomesticata, per essere affidabile. Di qui l’ambivalenza, durata quanto la vita stessa di Freud, circa il valore della posterità e della fama, e della garanzia costituita dall’insieme del panorama evolutivo. Tutti questi argomenti già li abbiamo toccati nel raffronto da noi fatto tra Freud e Kierkegaard, e qui ancora dobbiamo ritornarvi sopra. Soltanto da una prospettiva di assoluta trascendenza è possibile parlare d’un carattere umano ideale. Kierkegaard avrebbe diagnosticato in Freud un residuo di orgoglio e l’assenza di quella consapevolezza del proprio stato di creatura, che dovrebbe essere riscontrabile in un individuo analizzato per davvero, e avrebbe concluso ch’egli non aveva portato a termine il suo apprendistato alla scuola dell’ansietà. Nel modo d’intendere l’uomo, da parte di Kierkegaard, il progetto d’essere causa sui s’identifica col complesso d’Edipo, e per diventare uomo autentico, 450

l’individuo deve rimuoverlo inesorabilmente. Sotto questo punto di vista, Freud non era mai riuscito ad eliminare — attraverso l’analisi — il proprio complesso di Edipo, per quanto egli e il gruppo dei primi psicoanalisti s’illudessero d’averlo fatto. Emotivamente Freud non riuscì mai ad arrendersi a un potete supremo, o a una dimensione trascendente, sotto l’aspetto concettuale. Continuò a vivere interamente nella dimensione del mondo visibile, entro i limiti di ciò che era possibile in quella dimensione, dalla quale, unicamente, dovevano provenire tutti i suoi significati. Kierkegaard possedeva una sua formula per definire che cosa significhi essere uomo. La si ritrova espressa in quelle sublimi pagine in cui descrive colui che egli chiama «il cavaliere della fede»4. Tale personaggio è l’uomo che vive nella fede, che ha affidato il senso della vita al suo Creatore, e che vive ancorato alle energie del proprio Artefice. Egli accetta senza lamenti tutto quanto gli succede in questa dimensione visibile, vive la sua vita come un dovere, e senz’angoscia affronta la propria morte. Non v’è meschinità tanto meschina da porre in forse le sue convinzioni, né impegno così severo da far vacillare il suo coraggio. Nei suoi propri termini, egli è coinvolto nel mondo in modo pieno, ma anche totalmente oltre il mondo nel suo affidamento ad una invisibile dimensione. Si tratta — in realtà — dell’ideale pietistico, già vissuto dai genitori di Kant [e da innumeri movimenti che costellano l’intera vicenda cristiana]. La forza profonda d’un simile ideale va individuata nel fatto ch’esso consente d’essere aperti, generosi e forti, e d’influire sulle vite altrui, arricchendole ed aprendole, a loro volta. Poiché «il cavaliere della fede» non soffre di paura della vita 451

e della morte, da scaricare sugli altri, non li costringe ad arricciarsi in se stessi e mai li coarta e manipola. «Il cavaliere della fede» rappresenta, quindi, ciò che potremmo definire l’ideale della salute mentale e la costante apertura della vita, ai di fuori delle angosce mortali del terrore. Posto in questi termini astratti, l’ideale del «cavaliere della fede» appare come uno tra i più belli ed eccitanti mai escogitati dall’uomo. Sebbene rinvenibile in molte religioni con formulazioni diverse, raramente — credo — fu descritto con tale ricchezza di dettagli e così grande talento come in Kierkegaard. Come tutti gli ideali, esso consiste in un’illusione creativa, diretta a far avanzare gli uomini, cosa tra le più difficili. Secondo l’affermazione di Kierkegaard, la fede rappresenta la conquista più ardua: egli stesso si trovò in bilico tra la credenza e la fede, incapace di fare il gran salto che la separa. Dopo tutto, tale salto non dipende dall’uomo, ed appunto qui sta lo scoglio: la fede è ancorata alla grazia! Come — più tardi — affermò Tillich, la religione si riassume, fondamentalmente, in una mano aperta a ricevere doni (la grazia), e poi protesa per offrirli ad altri. Sarebbe impossibile, al «cavaliere della fede», offrire i suoi doni se prima non avesse ricevuto l’investitura da una qualche suprema Maestà. Il punto a cui voglio arrivare è che se prendiamo la vita di Kierkegaard, cristiano convinto, e la confrontiamo con quella di Freud, agnostico totale, ci accorgiamo di non essere in grado di stabilire un bilancio. Chi mai può stabilire quale tra i due abbia raggrinzito di più la gente o l’abbia maggiormente spinta a realizzarsi? Ad ogni manchevolezza riscontrabile in Freud, ne corrisponde qualche altra in Kierkegaard. Se di Freud si può affermare che sbagliò per quanto riguarda il lato visibile delle cose, 452

altrettanto tralignò sicuramente Kierkegaard nella sfera dell’invisibile, ritraendosi dalla vita per paura della vita stessa, almeno in parte, e abbracciando con più facilità la morte, appunto perché aveva fallito nella vita. La sua esistenza non fu un sacrificio volontario, scelto con libera decisione, ma un martirio dolorosamente procurato da se stesso. Senz’altro la sua vita non corrisponde all’altezza del suo pensiero5. Sto parlando, terra a terra, di alcuni indubitabili giganti della storia umana, solo per dire che, nel gioco della vita e della morte, non esistono individui migliori degli altri, a meno che non siano santi autentici; e anche nel loro caso si deve costatare che la santità è frutto di grazia e non di sforzo umano. Il punto a cui voglio approdare è che non tutto è possibile all’uomo. Qual è l’elemento discriminante tra la coscienza religiosa d’essere creature e la corrispondente coscienza raggiunta attraverso la scienza? Il risultato più alto raggiungibile da un individuo è una certa distensione e disponibilità all’esperienza, che lo rende meno pesante agli altri. E questo risultato dipende in massima parte dal talento di cui è dotato e da quanto un dáimon lo spinga: è più semplice scrollarsi di dosso i pesi leggeri che quelli gravi. Come può un uomo creare — con l’impegno di tutte le sue energie — un sistema di pensiero e poi rinunciarvi di colpo per un altro sistema, disancorato dai sensi e dalla ragione? Come si può essere — in altre parole — un santo, e tuttavia mettere in piedi movimenti scientifici d’importanza storica mondiale? Come può un individuo appoggiarsi su Dio e per lui rinunciare ad ogni cosa, e tuttavia continuare a reggersi sui propri piedi e a funzionare come creatura normale, dotata di calde passioni umane? Queste non sono domande 453

retoriche, ma concrete, che si spingono al nocciolo del problema di «come essere uomo»: un problema riguardo al quale nessuno è in grado di dare consigli ad alcun altro, come giustamente notava il saggio William James. Quest’intera materia è pregna di ambiguità, impossibili a risolversi. Secondo quanto affermava James, ciascuna persona assomma in sé una completa trafila di personalissime esperienze, tali da rendere la sua esistenza un problema assolutamente unico, che necessita soluzioni di tipo del tutto individuale. Qualcosa di molto simile rispondeva Kierkegaard a chi muoveva obbiezioni al suo stile di vita: era singolare — egli controbatteva — perché specialmente adattato a ciò che gli occorreva per vivere. Risposta semplice e definitiva! James, inoltre, conosceva quanto fosse difficile vivere sospesi tra questi due mondi del visibile e dell’invisibile, dei quali l’uno tende ad accaparrarci ai danni dell’altro. Una delle sue espressioni favorite — ripetuta spesso — era: «Figlio dell’uomo, reggiti sui tuoi piedi perché io possa parlare con te!». Secondo James, se gli uomini pendono troppo verso Dio, non realizzano più quanto sono chiamati a fare in questo mondo, usando le loro forze: per compiere qualsiasi cosa, uno deve realizzarsi come uomo, prima di tutto il resto. E questo getta un po’ d’ombra sullo splendido ideale della santità, perché esistono molti modi d’essere un uomo di valore autentico. Ciò porta a concludere — a mio avviso — che, in questo mondo, ciascuna creatura vive per essere consumata dalle energie che le sono proprie, e quanto maggiore è l’empito e brillante la fiamma con cui si consuma, tanto meglio è realizzato l’intento della natura, che ad ognuno assegna un suo compito su questo pianeta. Il 454

che — per Rank — è un altro modo di esprimere il primato di quella «irrazionale» forza vitale che impiega le forme organiche soltanto per consumarle.

L’impossibile eroismo

Nel riflesso di tutta questa ambiguità, possiamo rivolgere uno sguardo ad alcuni dei moderni profeti della natura umana, per valutarli e capirli. Ho già avuto occasione d’affermare che un uomo non può evolversi al di là del suo carattere, col quale si trova incastrato. L’espressione di Goethe — [presa in prestito da Orazio] — che «l’uomo non può liberarsi della sua natura, anche se tenta di disfarsene in tutti i modi», va completata — secondo me — aggiungendovi: «neanche se la scaraventa su Dio». Mi pare sia qui giunto il momento di costatare che se l’uomo non può svilupparsi al di là del suo carattere non riesce neanche ad evolversi senza carattere. Su ciò s’impernia uno dei grandi dibattiti del pensiero contemporaneo. Pur ammettendo un’irrazionale forza vitale, che incarna i limiti degli organismi, non ci spingiamo però a compiere l’altro passo e a lasciarci coinvolgere in quelle astrazioni — oggi così di moda — secondo cui la forza vitale sembra esplodere, per subitaneo prodigio, da una natura svincolata da tutte le sue limitazioni. Mi riferisco, chiaramente, al nuovo profetismo di gente come Marcuse, Brown e molti altri, su ciò che l’uomo può realizzare e su cosa significhi realmente essere uomo. M’ero impegnato — all’inizio di questo libro — a soffermarmi un poco sui dettagli di questo problema, ed è giunto il momento di adempiere la promessa. 455

Prendiamo Life against Death di Norman Brown: è un fatto raro la pubblicazione di un’opera così brillante e ancor più raro che un libro così zeppo di ragionamenti stringati, su un argomento così impegnativo, raggiunga così vasta popolarità. Come per molti altri testi che hanno scosso il mondo, purtroppo anche per questo la popolarità è dovuta a ragioni sbagliate. Il libro non è stato apprezzato tanto per le sue sconvolgenti rivelazioni riguardanti la morte e l’analità, quanto piuttosto per le sue del tutto sbalestrate conclusioni, quali l’appello per una vita libera da qualsiasi freno, la risurrezione del corpo come sede di primario piacere, l’abolizione di qualsiasi senso di vergogna e di colpa. Brown conclude, infatti, che il genere umano riuscirà a superare il tremendo pedaggio, imposto dal terrore della morte, solo se l’uomo vivrà pienamente il suo corpo e non permetterà che nulla — di una vita non vissuta — gli avveleni l’esistenza, gli svuoti il piacere e gli lasci un fondo di rimpianto. Se l’umanità vivesse in questo modo — afferma Brown — allora la paura della morte non la ridurrebbe più alla pazzia, allo spreco e alla distruzione: gli uomini raggiungerebbero la loro apoteosi nell’eternità, vivendo appieno nell’esperienza dell’adesso6. Il nemico del genere umano è la repressione fondamentale, il rifiuto del pulsare della vita fisica e lo spettro della morte. Il messaggio profetico di Brown inculca una vita libera da ogni freno, che dovrebbe far nascere un nuovo tipo d’uomo. Poche sue righe bastano a illustrarci la sostanza del suo messaggio:

Se ci riesce possibile immaginare un uomo non represso — un uomo abbastanza forte per vivere e, quindi, abbastanza forte per morire e, per conseguenza, 456

un qualcosa che nessun uomo è mai stato: un individuo — un tale uomo [avrebbe]… vinto il senso di colpa e d’ansietà… In simile uomo risulterebbe realizzata sulla terra la mistica speranza del cristianesimo, la risurrezione del corpo, in una forma — come disse Lutero — libera dalla morte e dalla corruzione… Con un corpo così trasfigurato, si potrebbe riconciliare l’anima umana, e l’umano ego ridiventerebbe ciò che in primo luogo era destinato ad essere: un ego-corpo e la facciata di un corpo… L’ego umano dovrebbe [così] diventare abbastanza forte da poter affrontare la morte; abbastanza forte da riuscire a rimuovere il senso di colpa… La piena consapevolezza psicoanalitica sarebbe sufficientemente robusta per cancellare il debito [di colpa], attribuendolo all’immaginazione infantile7.

Che dire intorno ad un così eloquente sproloquio programmatico, che contrasta con tutto ciò che conosciamo dell’uomo e con grande parte di quanto Brown stesso ha scritto, circa il carattere umano, nelle precedenti quasi 300 pagine? Le poche righe citate contengono falsità così evidenti da sbalordire, considerando che un pensatore della statura di Brown abbia potuto anche soltanto soffermarvisi e, peggio ancora, abbia potuto scriverle come metodiche argomentazioni. Ci troviamo ancora una volta — come sempre — confrontati con i principi fondamentali, che non abbiamo gridato a sufficienza dai tetti e scritto a caratteri grandi abbastanza: il senso di colpa non è frutto della fantasia infantile, ma della realtà adulta autocosciente. Non esiste forza capace di superare il senso di colpa, a meno che sia la forza di un dio, e non c’è modo di vincere l’ansietà, 457

propria della creatura, a meno che uno sia dio, e non una semplice creatura. Il bambino rifiuta la realtà del suo mondo perché vi ravvisa una terrorizzante prodigiosità e questo fatto sta alla base di tutto. Da qualsiasi parte ci volgiamo, emerge questo elemento fondamentale, che ancora un’ultima volta dobbiamo sottolineare: il senso di colpa è il risultato della schiacciante terribilità e della scoperta grandezza delle cose che popolano il mondo del bambino. Se noi adulti ci troviamo ben difesi e protetti contro tutto questo, abbiamo soltanto da rileggerci poeti come Thomas Traherne, Sylvia Plath o R. L. Stevenson, che avevano preservato una certa recettività per tale cruda esperienza:

Mentre procedo nella vita, sempre più — giorno dopo giorno — mi trasformo in un bimbo spaventato. Non riesco ad assuefarmi a questo mondo, alla procreazione, all’ereditarietà, allo spettacolo e al suono: le cose più comuni mi diventano un peso. Sia la facciata ingenua, ripetitiva e civile della vita, sia le sue diffuse radici corrotte e orgiastiche — imparentate coi riti bacchici — formano uno spettacolo con cui nemmeno l’abitudine riesce a riconciliarmi8.

L’intera visione d’un ipotetico uomo futuro, preconizzato da Brown, si sgretola completamente, anche solo per l’incapacità di capire quel senso di colpa9 che non deriva dalla «fantasia infantile», ma dalla realtà. In altri termini — e anche questo è un punto cruciale che va sottolineato un’ultima volta — il bambino si «autoreprime», assumendo il controllo del proprio corpo come reazione alla totalità dell’esperienza, e non soltanto ai 458

propri desideri. Come Rank dimostrò, in modo esauriente e conclusivo, i problemi del bambino sono esistenziali e si riferiscono all’insieme del suo mondo: a quale sia lo scopo dei corpi e che cosa farsene; quale sia il senso di tutta questa creazione10. La repressione adempie al compito vitale di permettere al bambino d’agire libero da ansietà, di prendere in mano le proprie esperienze e di sviluppare risposte sicure nei loro riguardi. Come potremmo mai ottenere un nuovo tipo d’uomo — esente da complessi di colpa e da ansietà — se ogni bambino, per diventare uomo, deve necessariamente imporre dei limiti al proprio ego? Non può esistere una nascita in una «seconda innocenza»11, perché si tratterebbe d’una ripetizione di quelle stesse dinamiche, deplorate da Brown, che bandiscono l’ammissibilità dei terrori dell’innocenza. Esse rappresentano le dinamiche necessarie all’umanizzazione e allo sviluppo dell’ego. Brown si butta a capofitto nelle cause prime aristoteliche e pretende di sapere ciò che l’ego umano «in primo luogo era destinato ad essere: un ego-corpo…». Ora, non è certo stato Brown il primo a sostenere d’aver scoperto che l’evoluzione dell’animale umano era una specie d’infortunio. In ciò lo precedettero Trigant Burrow e L. L. White, e Brown non fece altro che avallarne la stravaganza; ma questo non deve oscurare le cose eccellenti, scritte da loro e da lui. Come si può affermare che l’evoluzione, per quanto riguarda l’uomo, prese una cantonata e che lo sviluppo della parte frontale del cervello — colla capacità di simbolizzare, di tramandare l’esperienza, di sceverare il tempo — non rientrasse negli «intendimenti» della natura, e che perciò rappresenti un suo scacco, incarnato in un animale che non aveva ragione d’essere? Tutt’al contrario, l’ego rappresenta un 459

allargamento smisurato dell’esperienza e del potere di controllo, un passo decisivo in una quasi-divina sfera della natura. La vita nel corpo non costituisce più «tutto ciò che abbiamo»12, se noi possediamo un ego. E — per quanto siamo in grado di giudicare — l’ego rappresenta un naturale impulso, radicato nella forza vitale stessa, verso un ampliamento dell’esperienza e una vita più intensa. Se la spinta verso una maggiore qualità di vita viene interpretata come infortunio evolutivo, l’intera creazione, allora, diventa discutibile e va inquadrata in un ristretto schema — di nostra fabbricazione — che definisca che cosa vogliamo intendere per «vita più intensa». Senz’altro, quando l’evoluzione provvide l’uomo di un sé, cioè di un interiore mondo simbolico d’esperienza, lo spaccò in due e lo caricò d’un fardello aggiuntivo. Ma tale peso si configura come il prezzo da pagare perché gli organismi potessero raggiungere una vita più intensa e uno sviluppo della forza vitale, fino ai limiti raggiungibili dall’esperienza e dall’autocoscienza. Brown affermò che «la riunificazione tra l’ego e il corpo non rappresenta una spaccatura, ma un rafforzamento dell’ego umano»13. Ma questa frase occasionale non suona molto persuasiva, perché si riduce a vuota chiacchiera che non affronta seriamente tutte le cognizioni che abbiamo dell’ego. Cianciare di un «uomo nuovo», il cui ego si fonde totalmente col suo corpo, significa delineare una creatura non già sovrumana, ma subumana. Per potersi, comunque, sviluppare, l’ego deve rifiutare, deve collegare il tempo, deve frenare il corpo. In altri termini, il tipo d’uomo nuovo, preconizzato dallo stesso Brown, dovrebbe possedere un ego per avere l’esperienza del suo corpo, e ciò comporterebbe per l’ego la necessità di 460

affrancarsi ed opporsi al corpo. Questo è un altro modo di affermare che il bambino dev’essere bloccato nella sua esperienza, proprio per poterla registrare. Se noi non «fermiamo» il bambino, egli svilupperà una scarsissima cognizione di se stesso, diverrà un automa e un riflesso della parvenza superficiale del suo mondo, che appena si sfiora con la sua. Esiste una documentazione clinica enorme intorno a questo tipo di carattere, che viene definito psicopatico: dal punto di vista fenomenologico tale sindrome è conosciuta fin da quando Dewey pubblicò il suo libro Experience and Nature14. L’intera tesi di Brown, quindi, inciampa e cade su un doppio ostacolo: non soltanto per la sua incapacità a comprendere la psicodinamica vera del complesso di colpa, ma anche per il suo ostinato rifiuto nell’accettare il modo con cui il bambino registra l’esperienza sul suo corpo: il bisogno di svilupparsi con un sistema dualistico, appunto per poter essere un ricco depositario di vita15. In un pensatore della cultura ed intuito di Brown, queste aberrazioni appaiono strane e ne pigliamo nota con una certa riluttanza, quasi infastiditi di dover registrare cantonate così vistose in un personaggio di statura veramente eroica. Confesso di sentirmi meno scosso quando m’imbatto in strafalcioni simili in Marcuse^ che reinterpreta Freud in modo assai meno audace, pur lanciando — come Brown — appelli per un nuovo tipo d’uomo, libero da qualsiasi repressione. Da un lato, Marcuse invoca una rivoluzione di totale scatenamento, perché si rende conto che nessuna rivolta è sufficiente per cambiare la struttura d’una società, al punto di far nascere un mondo nuovo: per raggiungere questo risultato, dev’essere cambiata anche la 461

psicologia dell’uomo. Ma dall’altro lato, egli ammette che liquidare ogni repressione è impossibile, perché esiste la morte: «Il fatto brutale della morte nega, in modo definitivo, la realtà di un’esistenza non repressiva»16. Le pagine conclusive di questo volume rappresentano una realistica e dolente ammissione che l’ego deve spingersi oltre i piaceri del corpo, se gli uomini vogliono essere uomini davvero. Per chi, invece, è convinto sostenitore della rivoluzione sociale e, al di sopra d’ogni cosa, vuole un nuovo mondo e un uomo nuovo, non è accettabile questa realtà, che gli sta davanti agli occhi, e insiste a credere nella possibilità d’una qualche «liberazione finale», che suona illusoria come tutte le fantasie che ne hanno favoleggiato. Marcuse volta le spalle persino all’insieme dell’esperienza vissuta e si lascia trasportare dalle proprie astrazioni: «Gli uomini riescono a morire senz’ansietà, se sanno che quanto essi amano è ben protetto dal decadimento e dall’oblio [nella nuova società utopistica]»17. Come se gli uomini potessero mai sapere una cosa simile! Sarebbe come pretendere di poter sapere con sicurezza che i nostri figli non verranno mai spazzati via da uno stupido incidente; o che l’intero pianeta non possa mai essere sbriciolato da una gigantesca meteora. Per quale ragione pensatori così brillanti s’afflosciano e sciupano malamente le loro argomentazioni, di solito caute? Probabilmente perché essi considerano il loro compito come di portata gigantesca, in quanto critica di un intero modo di vita; e si raffigurano nel ruolo — gigantesco anche quello — di tracciare una nuova e definitiva via, con stile alieno da ogni compromesso. In ciò va ricercata la ragione della loro popolarità: essi sono dei profeti e dei semplificatori. Come Brown, anche Marcuse è alla ricerca 462

d’un indice sicuro di alienazione, di un punto focale nella natura, e li scopre nell’ideologia e nella paura, della morte. Da rivoluzionario autentico, Marcuse vuole cambiare questa situazione durante la sua vita: vuole assistere alla nascita di un nuovo mondo. È così impegnato nell’impresa, da non potersi permettere pause a metà guado, perseguendo le implicazioni delle sue riserve sulla non-repressione, e le proprie ammissioni circa l’inevitabile morsa della morte: evidentemente la paura della morte è più profonda di ogni ideologia! Ma ammetterlo, renderebbe malsicura la sua tesi, e quale rivoluzionario potrebbe accettare questo? Sarebbe costretto a venir fuori con un programma di rivoluzione diluita, che darebbe spazio alla repressione, che porrebbe dubbi sull’avvenire aperto davanti agli uomini, perché si renderebbe conto di quanto inevitabilmente, gli uomini agiscano contro i loro migliori interessi e di come, invece, essi debbano escludere una parte di vita e di piacere e conformarsi a un irrazionale sistema d’eroismo. E si arriverebbe a concludere che nelle umane cose c’è un qualcosa di demonico che non può essere liquidato nemmeno dalla più grande e radicale rivoluzione. Da una simile ammissione, Marcuse si troverebbe totalmente spiazzato — un tragico rivoluzionario! — e sarebbe finito il suo ruolo di profeta senza compromessi. Chi mai avrebbe potuto attendersi da lui questo? Ma è fuori luogo prolungare la nostra analisi sugli inganni dei rivoluzionari della non-repressione: per quanto ci si dilunghi si ritorna sempre allo stesso punto fondamentale, e cioè all’impossibilità di vivere senza repressione. Nessuno ha sottolineato tale impossibilità con più forza e stile di Philip Rieff nel suo recente lavoro, che — a parer mio — contiene 463

tutte le risposte desiderabili in materia18. Egli capovolge completamente il problema: la repressione non è uno snaturamento del mondo, perché — anzi — ne rappresenta la «verità», la sola che l’uomo sia in grado di conoscere, non essendogli possibile sperimentare tutto. Rieff ci richiama così ai principi fondamentali di Freud: ad una stoica accettazione dei limiti della vita e dei suoi fardelli, tra cui noi per noi stessi. Tutto ciò egli formula in questo passo particolarmente incisivo:

Le croci più pesanti sono interne e gli uomini le inquadrano in modo che — sostenute come da uno scheletro — essi possano reggere al peso della loro carne. Sotto il segno di quest’ultima croce, si può raggiungere un certo distacco interiore dalla brama infantile di essere e di avere ogni cosa19.

Il rilievo di Rieff è quello classico: per poter avere un’esistenza umana autentica, debbono esserci dei limiti ed è appunto ciò che noi chiamiamo cultura — o superego — che stabilisce tali limiti. La cultura rappresenta una specie di compromesso colla vita, che rende possibile l’esistenza umana. Rieff riporta lo slogan di sfida rivoluzionaria, lanciato da Marx: «Io non sono nulla e dovrei essere tutto». Per Rieff tale slogan costituisce un concettato dell’inconscio linguaggio infantile, oppure — come con Rank io preferirei dire — rappresenta la coscienza nevrotica: il «tutto o niente» della persona che non è in grado di «parzializzare» il mondo. L’individuo esplode in un accesso di megalomania sconfinata, oppure si sente ridotto allo stato di verme, come peccatore indegno. Non esiste un equilibrio sicuro dell’ego 464

che limiti l’assorbimento della realtà o che regoli lo sbocco delle proprie energie. Nella vita esiste una tragica limitatezza, ma accompagnata da possibilità. Ciò che noi definiamo maturità è la sagacia nel saper stabilire, tra questi due elementi, un certo equilibrio che ci consenta di inserirci creativamente tra di essi. Come Rieff affermava: «Il carattere è il modellamento restrittivo della possibilità»20. Ancora una volta, tutto si riduce al fatto che gli araldi della non-repressione semplicemente non hanno capito l’umana natura: essi sognano una condizione utopistica di perfetta libertà, sia da qualsiasi coartazione interna, sia da ogni esterna autorità. Tale idea si scontra e svanisce di fronte al dinamismo fondamentale della non-libertà, riscontrabile in qualsiasi individuo, e cioè l’universalità del transfert. Questo fatto non sfugge a Rieff, che si rende conto del bisogno che gli uomini hanno di transfert, perché essi amano vedere incarnata la loro moralità e necessitano di un qualche genere di punti d’appoggio nell’incessante fluire della natura:

Le astrazioni non serviranno mai allo scopo. I comandi di Dio debbono essere esemplificati… Gli uomini anelano [a possedere] i loro principi incarnati in caratteri fattibili, in concreti, selettivi mediatori posti tra sé e il politeismo dell’esperienza21.

L’incapacità a spingere la comprensione delle psicodinamiche fino ai limiti estremi, è l’ostacolo che nessuno degli utopisti riesce a sormontare e che finisce coll’inficiare anche i loro migliori argomenti. Sto qui pensando al convincentissimo scritto di Alan Harrington 465

circa la paura della morte come molla principale della condotta umana. Come già Brown, anch’egli viene fuori con una tesi fantasiosa e insostenibile, agganciata ad argomentazioni acute e pericolose. La paura della morte è il nemico? E allora la cura è ovvia: bisogna abolire la morte. È questa un’idea fantasiosa? Non è vero — risponde — perché la scienza sta lavorando a risolvere il problema. Forse non si riuscirà ad abolire del tutto la morte, ma è possibile prolungare di molto la vita, chissà forse di quanto. Possiamo ipotizzare la situazione utopistica in cui la gente vivrà così a lungo da far sparire la paura della morte, e con ciò anche quella satanica inclinazione che, durante tutto il corso della sua storia ed oggi più rovinosamente che mai, ha ossessionato e mortificato l’uomo. Gli uomini saranno capaci — allora — di vivere in un «eterno adesso» di puro godimento e di pace, e potranno davvero trasformarsi in quelle divine creature, che potenzialmente potrebbero essere22. Di nuovo, in quest’istanza, si ripete l’infondato sogno dell’Età dei Lumi. Già nel 1794, Condorcet aveva l’identica visione:

…si avrà, un giorno, un’epoca in cui la morte altro non sarà se non il risultato o di qualche straordinario incidente, oppure del lento e graduale afflosciarsi delle energie vitali: [un’epoca in cui] la durata dell’intervallo tra la nascita dell’uomo e il suo declino, non avrà più limiti precisi23.

Ma, riguardo a questa visione, Choron avanza riserve che la intaccano a fondo e la demoliscono: «Il posporre la morte 466

— egli dice — non rappresenta una soluzione del problema della paura della morte… resterà sempre la paura di morire prematuramente»24. Nel caso, il virus più insignificante o il più stupido incidente priverebbe l’uomo non di 90, ma di 900 anni di vita, e la faccenda sarebbe dieci volte più assurda. Se l’incapacità di comprendere la psicodinamica era perdonabile in Condorcet, non lo è altrettanto in Harrington, al giorno d’oggi. Se un qualcosa è dieci volte più assurdo, automaticamente è anche dieci volte più minaccioso. In altri termini, la morte ne risulterebbe «gonfiata» come sorgente di pericolo, e gli uomini, in questa utopia, sarebbero meno felici e tranquilli di quanto lo siano oggi. C’è qualche rassomiglianza tra questa utopia e le credenze di numerose società primitive. Esse negavano che la morte fosse la fine definitiva dell’esperienza e credevano, invece, che costituisse l’ultima rituale promozione ad una più alta forma di vita. Ciò significava anche che gli spiriti invisibili dei morti avevano potere sopra i viventi, tanto che se qualcuno moriva in età prematura, era da attribuirsi ad intervento di spiriti malevoli, o alla violazione d’un qualche tabù. La morte prematura non si verificava mai come incidente impersonale. Un simile modo di ragionare portava l’uomo primitivo ad annettere la più grande importanza al modo d’evitare la mala volontà e le male azioni, e sta qui il motivo per cui egli sembra circoscrivesse le proprie attività in rituali e forme di vincolante fobia25. La tradizione ha fatto pesare la sua mano sugli uomini, dovunque. L’uomo utopistico può anche vivere nell’«adesso eterno» dei primitivi, ma dovrà anche accettarne la stessa concreta coartante fobia. A meno che si parli d’immortalità vera, il 467

discorso verte sempre e soltanto su difese caratteriali e umane superstizioni. Curiosamente, Harrington stesso sembra si renda conto del fatto, quando si lancia in speculazioni sul tipo di divinità che gli utopisti potrebbero adorare:7

…i figli dell’eternità potrebbero venerare varianti del Caso, oppure Ciò-che-non-si-può-controllare… Il Caso rappresenterà… l’unica cosa che li può uccidere, e per tale ragione essi potrebbero piegare le ginocchia al suo cospetto… [Essi] potrebbero celebrare dei riti dinanzi a un qualche futuro equivalente di una smisurata slotmachine o di una roulette26.

Belle creature divine! L’inganno in tutto questo sterile utopismo è che la paura della morte non è il solo motivo di vita. Motivi altrettanto giusti e vitali sono la trascendenza eroica, la vittoria sul male per l’insieme dell’umanità, per le generazioni non ancora nate, la consacrazione della propria esistenza ad ideali più alti: queste motivazioni conferiscono all’animale umano la sua nobiltà, anche di fronte alle sue paure animalesche. L’edonismo non è eroismo per la maggioranza degli uomini: i pagani dell’antico mondo non si resero conto di questo, e perciò furono sconfitti dalla «spregevole» fede giudeo-cristiana. Anche l’uomo di oggi sembra non rendersene conto, e vende così la propria anima al consumismo, di segno capitalista o comunista, oppure — come disse Rank — sostituisce l’anima colla psicologia. La psicoterapia è oggi in così crescente voga perché uomini e donne vogliono conoscere le ragioni per cui si sentono infelici nel loro edonismo e ne ricercano la causa in se stessi. 468

La non-repressione è diventata l’unica religione del dopoFreud, come bene argomentò Philip Rieff in un suo libro, dove però non si rende conto che i suoi ragionamenti sono solo una ripetizione e un allargamento di quanto Rank aveva già affermato sul ruolo storico della psicologia27.

I limiti della psicoterapia

Avendo già trattato di questo problema nel capitolo IV, quando accennavamo al dilemma che la vita presenta, ci limiteremo qui a richiamare alcune nozioni. Affermavamo là, che non esiste sistema per superare il dilemma vero della vita: quello dell’animale mortale che, allo stesso tempo, è consapevole della propria mortalità. Una persona impiega anni per rendersi indipendente, per sviluppare il suo talento, per estendere e raffinare le sue aspirazioni, per apprendere a sopportare le contrarietà della vita e diventare matura e stagionata: una creatura — insomma — unica al mondo, che si regge in piedi con sufficiente nobile dignità e trascende la condizione animale; che non si lascia più menare pel naso, che più non si rassegna ad essere un completo riflesso di altri, che rifiuta d’essere calata dentro qualsiasi stampo. Ed ecco, a questo punto, la vera tragedia, come scrisse André Malraux nel suo libro La condizione umana (trad. Milano, Bompiani, 1968, 5 ed.): occorrono sessant’anni d’incredibile sofferenza e sforzo per forgiare un tale individuo, e dopo tutto ciò egli è buono solo per morire. Questo tremendo paradosso non sfugge alla persona stessa; meno che a tutti, anzi, non sfugge all’interessato. Egli si sente angosciosamente unico, e sa, tuttavia, che ciò non fa alcuna differenza per quanto riguarda il destino ultimo. Egli 469

è condannato a sparire come una cavalletta qualsiasi, anche se richiede più tempo. Già abbiamo avuto occasione di dire che il punto centrale stava nel fatto che — anche raggiungendo il più alto sviluppo personale — l’individuo veniva a cozzare coll’angoscia concreta della condizione umana. In verità, proprio a motivo di quello sviluppo, i suoi occhi sono meglio aperti sulla realtà delle cose e non esiste possibilità alcuna di trovare rifugio nel conforto d’una vita al riparo dai guai. La persona si trova incastrata col totale problema di se stesso, e tuttavia non può fare alcun conto su di sé per venir fuori con una soluzione che faccia senso. Per un simile individuo, come affermò Camus, «il peso dei giorni è tremendo». Che significano, quindi — ci chiedevamo nel capitolo IV — le belle espressioni quali «cognizioni dell’essere», «persona pienamente centrata», «umanesimo totale», «gioia delle esperienze supreme» e altre simili, a meno che tali idee non vengano accostate e soppesate anche con il fastidio ed il terrore che esse convogliano? Concludevamo, infine, che con questi interrogativi si potevano mettere in questione le pretese di tutta l’attività terapeutica. Tale attività, quale gioia e conforto può dare a gente pienamente conscia della realtà? Una volta costatata l’irrimediabile situazione in cui l’uomo si dibatte, si giunge a capire non soltanto che la nevrosi è normale, ma che persino il disastro della psicosi è poco più d’una lieve spinta aggiuntiva agli ordinari inciampi, sparsi nel cammino della vita. Se la repressione riesce a rendere accettabile una l vita altrimenti impossibile, l’autoconoscenza può distruggerla completamente per alcuni individui. Rank era molto sensibile a questo problema e he discusse a fondo. Credo 470

opportuno riportare qui una sua matura e stringata riflessione psicoanalitica, che assomma in sé quanto di meglio si può riscontrare nella visuale stoica del mondo dello stesso Freud:

Si presenta una donna per consultarmi: qual è il suo problema? Essa soffre di un qualche genere di sintomi intestinali, di dolorosi attacchi di disturbi enterici. È ammalata da ormai otto anni e ha provato tutte le cure mediche… È giunta alla conclusione che deve trattarsi di un qualche disturbo emotivo. Ha trentacinque anni e non è sposata. A me sembra (ed essa stessa ne è convinta) piuttosto bene adattata. Vive con una sorella sposata e vanno d’accordo. Sa godere della vita e d’estate se ne va in campagna. Soffre d’un leggero mal di stomaco: perché non tenerselo, le dico io. Se riuscissimo ad eliminare quegli attacchi che si verificano all’incirca ogni quindici giorni, non sappiamo bene quale problema metteremmo a nudo, che ora si nasconde dietro quei disturbi. Probabilmente questo meccanismo di difesa è conseguenza del suo adattamento, forse si tratta del prezzo che deve pagarne. Non s’è mai sposata, non è mai stata innamorata, e quindi non ha mai realizzato il proprio ruolo. Non si può avere tutto e, probabilmente, deve pagarne lo scotto. Alla fin fine, che importa se di quando in quando incappa in qualche attacco d’indigestione? Anch’io ne soffro, qualche volta, come lei, e — forse — non per ragioni fisiche, come lei si rende conto. Uno può soffrire di mal di testa. In altre parole, non si tratta tanto di sapere se siamo o no in 471

grado di curare un paziente, ma piuttosto se lo si debba guarire o non guarire28.

Nessuna vita legata a un organismo può inflessibilmente espandersi in tutte le direzioni: per forza di cose dovrà ripiegare su se stessa in alcuni settori, e pagare qualche severo pedaggio per le sue naturali paure e limitazioni. Va benissimo proclamare con Adler che la malattia mentale è dovuta a «problemi del vivere», ma occorre anche ricordare che è la vita stessa a costituire il più insormontabile problema. Con ciò non si vuole affermare che la psicoterapia non possa produrre grandi benefici in gente torturata e sconvolta, ed anche aggiungere dignità in chi apprezza e può mettere a buon uso l’autoconoscenza. La psicoterapia può consentire alla gente di stabilizzarsi, di infrangere gl’idoli che coartano la stima di se stessi, di alleviare il fardello di colpa d’origine nevrotica: quel senso supplementare di colpa che s’aggiunge al complesso esistenziale di colpa, rinvenibile in natura. Riesce anche a spazzar via la disperazione nevrotica, innescata da un’esagerata accentuazione dell’importanza che s’attribuisce alla propria sicurezza e soddisfazione. Quando una persona diventa meno frammentaria, meno bloccata e irrigidita in schemi, è in grado di sperimentare la gioia autentica di scoprire meglio se stesso, di scrollarsi di dosso armature e riflessi condizionanti, di liberarsi dalle catene di una cieca e umiliante dipendenza, di scorgere aspetti nuovi del mondo, di sperimentare con maggiore intensità la sensazione precisa d’esser più libera da reazioni prestabilite, con la conseguente più vasta gamma di scelte e comportamenti. 472

Senz’altro la psicoterapia è capace di tutti questi risultati, ma vi sono altre infinite cose che non rientrano tra le sue possibilità, non ancora scandagliate a sufficienza. Spesso la psicoterapia sembra promettere la luna: un’allegrezza più durevole, gioia, celebrazione della vita, perfetto amore e perfetta libertà: cose tutte catalogate come di facile raggiungimento una volta acquisita l’autoconoscenza, legate come sono alla piena consapevolezza di sé, da parte dell’individuo. Come nel caso di una paziente, che aveva appena ultimato un corso nella terapia dello «strillo primario», la quale asseriva: «Mi sento così meravigliosamente bene, ma questo è soltanto un inizio: aspettate a rivedermi tra cinque anni! Sarà stupendo’.». Ci si può soltanto augurare che non ne sia uscita troppo infelice! Purtroppo non tutti sono altrettanto onesti quanto lo era Freud quando affermava di curare l’infelicità del nevrotico soltanto per renderlo recettivo all’ordinaria infelicità della vita. Solo gli angeli conoscono la gioia senza offuscamenti e possono reggervi. E tuttavia c’imbattiamo in libri messi insieme dai cosiddetti maghi guaritori dove campeggiano titoli come «Gioia!», «Risveglio!» e simili. Questa genia la si incontra in sale di conferenze e in raduni di gruppi, dove sciorinano le loro peculiari teorie sul benessere interiore e fiducioso, per propagare il loro presuntuoso messaggio: Noi siamo in grado di realizzare tutto ciò anche per voi, purché ce lo permettiate! Non m’è mai capitato di sentire questi cialtroni mettere in guardia i loro clienti sui reali pericoli di quella totale liberazione ch’essi promettono: affiggere, insomma, accanto alla pubblicità alla gioia, un piccolo avviso di questo tipo: «Pericoloso! Comporta la possibilità d’un risveglio della paura e del terrore da cui non c’è più via 473

d’uscita!». Sarebbe un comportamento onesto che allevierebbe alquanto la loro responsabilità per gli occasionali suicidi che si verificano durante la terapia. Bisogna però riconoscere l’estrema difficoltà che incontrerebbe una precisa ricetta per raggiungere il paradiso in terra se venisse resa incerta: non si può essere profeti efficienti con un messaggio parzialmente sconfessato, specialmente se uno ha necessità di clienti generosi e di ammiratori devoti. Gli psicoterapisti sono incastrati nell’andazzo culturale del momento e ne fanno necessariamente parte. L’industrialismo commerciale ha fatto balenare all’uomo la promessa di un paradiso in terra, descritto nei dettagli dal mito di Hollywood, destinato a rimpiazzare il paradiso celeste del cristianesimo. Al momento attuale la psicologia si sente investita dall’impegno di sostituire ambedue quei paradisi con il mito d’un altro, raggiunto attraverso l’autoconoscenza. Tale è la promessa della psicologia e, in vasta maggioranza, gli psicoterapisti si sentono vincolati a vivere e ad incarnare quest’impegno. Ma fu ancora Rank che avvertì quanto fosse falsa la pretesa: «La psicologia come autoconoscenza è autoinganno», egli affermò: non dà, infatti, ciò che gli uomini richiedono, cioè l’immortalità. Non ci può essere nulla di più chiaro. Quando il paziente emerge dal suo bozzolo protettivo, rinuncia a quell’ideologia d’immortalità di riflesso, nella cui ombra viveva, sia che si trattasse della forma personale-parentale (vita sotto i poteri protettivi dei genitori o dei loro sostituti), sia che fosse sotto forma di progetto d’essere causa sui (vita basata sulle opinioni di altri e nella simbolica drammatizzazione del ruolo della società). Quale nuova ideologia d’immortalità può provvedere l’autoconoscenza, 474

raggiunta attraverso la psicoterapia, per sostituire tutto ciò? Ovviamente, niente da tirar fuori dalla psicologia, a meno che — diceva Rank — la psicologia stessa non si trasformi in un nuovo sistema di fede. Ora esistono solo tre modi — secondo me — attraverso i quali la psicologia può diventare un adeguato sistema di fede. Uno di essi è rappresentato da uno psicologo che sia un vero genio creativo e che s’avvalga della psicologia come veicolo d’immortalità per lui stesso, come fecero Freud e i suoi primi seguaci della scuola psicoanalitica. L’altro consiste nel servirsi del linguaggio e dei concetti della psicoterapia nella massima parte della propria vita da svegli, al punto che essa si trasformi in automatico e vissuto sistema di fede. Questo è costatabile negli ex-pazienti che analizzano i loro motivi nelle varie situazioni d’ansia in cui vengono a trovarsi: «Questo dev’essere invidia del pene; qui si tratta di attrazione incestuosa; oppure di paura di castrazione, o di rivalità edipica…» e così via. M’è capitato d’imbattermi in un giovane, ridotto quasi alla demenza dalla sua ossessione ad organizzare la propria esistenza sulla base della terminologia diagnostica della nuova religione di Freud. Ma, in un certo senso, tale atteggiamento è forzato, perché la religione è esperienza e non puramente una serie di concetti intellettuali da meditarsi: dev’essere vissuta. Come acutamente notava lo psicologo Paul Bakan, questa è una delle ragioni per cui la psicoterapia s’è evoluta dal modello intellettuale freudiano verso un nuovo modello sperimentale29. Se la psicologia vuole diventare religione moderna, deve allora riflettere un’esperienza vissuta, distaccarsi dalle semplici chiacchiere e dalle analisi intellettualistiche per spingersi verso la denuncia clamorosa 475

dei «traumi di nascita» e d’infanzia, e la risoluzione dei sogni e dell’ostilità e cose simili. In conseguenza di ciò, l’ora di psicoterapia ha assunto il carattere di un’esperienza rituale e s’è mutata in una specie d’iniziazione o di sacro viaggio in un soprannaturale territorio, pieno di tabù. Il paziente si sente immerso in una diversa dimensione della vita, prima a lui ignota e neanche immaginabile: una vera «religione misterica», distinta dalle quotidiane realtà di questo mondo. Uno si ritrova impegnato in comportamenti del tutto esoterici e lascia affiorare aspetti della sua personalità che prima non sapeva di avere e che, comunque, non era in grado di esprimere. Come per qualsiasi religione, anche qui l’adepto è disposto a «giurare» su di essa, perché la vive: la terapia è «vera» perché rappresenta un’esperienza vissuta, legittimata da concetti che vi si adattano alla perfezione e che danno forma a ciò che in quel momento il paziente va sperimentando. Il terzo ed ultimo metodo, altro non è che un allargamento e una sofisticazione di tutto questo. Consiste nel prendere la psicologia, rendendola più profonda con accostamenti religiosi e metafisici, così da trasformarla praticamente in un sistema di credenza religiosa, dotata di un certo respiro e profondità. Nello stesso tempo, lo psicoterapista stesso irradia il suo fermo e calmo potere di transfert e diventa il guru della nuova religione. Non ci si dovrebbe stupire nel costatare la proliferazione di guru psicologici del nostro tempo: si tratta di uno sviluppo perfettamente logico della feticizzazione della psicologia, in quanto sistema di credenza. Tale sistema viene ampliato fino a raggiungere la dimensione necessaria, che riguarda l’immortalità e quella capacità di promozione di vita che vi si accompagna. Questa 476

capacità si esplica in duplice forma: mediante concetti religiosi, anzitutto, ma poi — concretamente — attraverso la persona del guru-terapista. Non a caso una delle forme più popolari di terapia, oggigiorno — indicata come Gestaltterapia — in gran parte ignora il problema del transfert, come se per esorcizzarlo fosse sufficiente volgergli le spalle30. Ciò che in realtà si verifica, è che l’aura d’infallibilità del guru, resta intatta e provvede un automatico rifugio al profondo anelito del paziente, che ricerca riparo e sicurezza. E non a caso coloro che praticano questa terapia da guru si fanno crescere barbe in forma di alone e capigliature corrispondenti, per impersonare meglio il ruolo che s’assumono. Non voglio affatto avanzare qui sospetti di disonestà, ma far semplicemente notare che la gente tende d’istinto ad assumere quelle apparenze che occorrono per il loro ruolo. Se uno sente la religione terapeutica come una necessità culturale, lo sforzo per corrispondere, con tutte le proprie capacità, a tale esigenza, rientra nel più alto idealismo. D’altra parte, pure con le intenzioni migliori, il transfert — lo si voglia o no — costituisce un processo d’indottrinamento. Numerosi psicoanalisti, come ben sappiamo, molto coscienziosamente si sforzano di analizzare il transfert, mentre altri lo minimizzano. A dispetto di tutti gli sforzi, il paziente diventa di solito — in qualche modo — un cieco ammiratore dell’uomo e delle sue tecniche liberatorie. Già ci è noto che una delle ragioni dell’influsso così grande che Freud ebbe sulle idee, va attribuita al fatto che molti dei maggiori pensatori del nostro tempo sono passati attraverso l’analisi freudiana e ne sono emersi con un bagaglio personale ed emotivo, allineato colla visione 477

freudiana del mondo. Caratteristica del transfert è che mette radici in modo molto sottile, pure mentre la persona dà l’impressione di reggersi tranquilla sulle proprie gambe. L’individuo può venire indottrinato in una visione del mondo, che giunge ad adottare, senza alcun sospetto ch’egli l’abbia abbracciata a motivo del suo rapporto col terapista o con qualche maestro. Ciò è riscontrabile, in forma molto subdola, in quelle terapie che si sforzano di riportare l’uomo a contatto con il suo proprio «sé autentico», inteso come insieme delle primarie energie, bloccate dentro di lui. Si impone alla persona di dare via libera a tali energie, cioè all’intimo della sua natura, e di scavare profondamente nella soggettività del proprio organismo. Vuole la teoria che, mentre progressivamente vengono eliminate la «facciata» sociale, le difese caratteriali e le inconsce ansietà, l’individuo raggiunga il suo «sé reale», la sorgente di vitalità e creatività celata dietro lo scudo nevrotico del carattere. Per fare della psicologia un completo sistema di fede, tutto ciò che il terapista deve fare è di prendere a prestito — dalle intime profondità della persona — i termini delle religioni mistiche tradizionali: possono essere «il grande vuoto», «la stanza interiore» del taoismo, «il regno dell’essenza», oppure «la sorgente delle cose» o l’«inconscio creativo» e altre formule del genere. Tutta l’operazione appare molto logica, pratica e conforme alla natura: l’uomo scardina la propria armatura e dispiega il suo intimo sé, le energie primarie dal fondo del suo essere, da cui egli trae radice. Dopo tutto, la persona non è creatrice di se stessa, ed in ogni momento è sostenuta dai funzionamenti fisiochimici, basati — a loro volta — sulle strutture atomiche e subatomiche. Queste strutture 478

racchiudono dentro di sé le immense energie della natura, e sembra perciò logico affermare che noi siamo costantemente «creati e sostenuti» fuori dell’«invisibile vuoto». Come si può essere traditi dalla terapia nel venir riportati alle realtà primarie? Da tecniche come quelle dello Zen, è ovvio che l’iniziazione nel mondo dell’«Esso» (es) avviene attraverso un processo di rottura e di reintegrazione. Questo procedimento è molto simile alla terapia occidentale, in cui la maschera della società viene scardinata via per allentare la briglia alle spinte naturali. Nello Zen, tuttavia, si suppone che siano le energie primarie a prendere il sopravvento e ad agire attraverso la persona che si apre ad esse e ne diventa strumento e veicolo. Nel tiro coll’arco dello Zen, ad esempio, non è più l’arciere che scaglia la freccia, ma l’«Esso»: l’intimo della natura erompe nel mondo attraverso il perfetto svuotamento del discepolo e scocca il dardo. Per prima cosa deve passare attraverso un lungo processo di armonizzazione col proprio intimo, che si realizza assoggettandosi ad un maestro per un lungo periodo: per tutta la vita si resta discepoli del proprio maestro, convertiti alla sua visione del mondo. Se il discepolo è fortunato, potrà persino ricevere dal maestro uno dei suoi archi, che racchiude i poteri del suo spirito personale: il transfert riceve il sigillo mediante un dono concreto. Anche nel discepolato indù, la persona procede affiancata da un maestro, senza del quale si sente perduta e impotente. Periodicamente ha bisogno del maestro in persona, o della sua fotografia e dei suoi messaggi, o almeno dell’esatta tecnica usata dal maestro: la posizione del capo, il modo di respirare e cose simili. Tutto ciò diventa strumento magico e feticismo per ricatturare il potere del personaggio del 479

transfert, e quindi quando vi si fa ricorso tutto è a posto. Allora il discepolo può reggersi sui «propri» piedi ed essere la «propria» persona. La fusione della psicologia colla religione è quindi non solo logica, ma necessaria, se si vuole che la religione funzioni. Non v’è modo di reggersi sul proprio baricentro senza un sostegno esterno: solo che tale sostegno, in questo caso, appare come derivato dall’interno. La persona è condizionata a funzionare sotto il suo proprio controllo, derivato dal suo proprio centro e da quelle energie spirituali che rampollano dentro di lui. In realtà — si capisce — il sostegno sgorga attraverso il transfert — certificato dal guru — che quanto fa il discepolo è giusto e buono. Persino le terapie di ricondizionamento del corpo oggi sono abbondantemente cosparse d’idee, prese in prestito dallo Zen, e fanno appello ad affinità con personaggi del tipo di Gurdjieff. Sembra non esista altra strada per reintegrare il corpo, se non facendo ricorso a un qualche genere di potere magico; o almeno non si dà via migliore per raggiungere la piena qualifica di discepoli in una qualche religione, se non assumendo caratteristiche francamente religiose31. Non c’è quindi da stupirsi che, quando le terapie spogliano l’uomo e lo riducono ad una nuda solitudine, alla vera natura dell’esperienza e al problema della vita, esse scivolino in un certo tipo di metafisica del potere e della sua trascendente giustificazione. Si può, forse, abbandonare una persona che trema tutta sola? Offriamole la possibilità d’un contatto mistico con il vuoto della creazione, il potere dell’«Esso», la sua somiglianza con Dio, o almeno il sostegno di un guru che le farà da garante per queste cose colla sua stessa strapotente e decorativa apparenza 480

personale. L’uomo ha bisogno di volgersi al di fuori di sé, per dare sostanza al proprio sogno, a una metafisica della speranza che lo sorregga e gli renda la vita degna d’essere vissuta. Parlare di speranza significa mettere il problema nella sua giusta luce, perché ci aiuta a capire la ragione per cui, anche i grandi che sono penetrati fino al nocciolo degli umani problemi, non furono soddisfatti dalla visione della sorte tragica che la natura assegna all’uomo, quale emergeva dai loro studi. È noto a tutti, oggi, come Wilhem Reich volesse continuare l’Illuminismo, colla sua fusione di Freud entro il quadro del criticismo sociale di Marx, ma approdò soltanto sulle secche di Orgone, la primitiva energia cosmica. Ed è altrettanto risaputo che Jung scrisse una pretenziosa apologia per l’antico libro cinese di magia, lo I Ching. In tutto ciò questi uomini — come sardonicamente notava Rieff — si rivelano di statura inferiore a quella del loro maestro, il grande stoico Freud32.

I limiti dell’umana natura

Nella nostra antecedente discussione su quanto rientra nelle possibilità dell’uomo, affermavamo che una persona si trova incastrata col proprio carattere, e che non è in grado d’evolversi al di là di esso, o senza di esso. Se esiste un limite a ciò che l’uomo può essere, dobbiamo ora aggiungere che tale limite esiste anche per quello che la terapia religiosa può fare per lui, anche se gli psicoterapeuti religiosi affermano l’opposto. Secondo costoro, la forza vitale può miracolosamente emergere dalla natura e può trascendere quel corpo che essa usa come veicolo, spezzando le barriere dell’umano carattere. Essi sentenziano che l’uomo, nel suo 481

stato attuale, può soltanto essere un semplice veicolo per far emergere qualcosa di completamente nuovo, ma che tale veicolo può essere superato da una nuova forma di vita umana. Molti dei principali personaggi del pensiero moderno scivolano dentro una qualche mistica del genere, in una specie di escatologia dell’immanenza, in cui l’interno della natura erutta fuori un nuovo essere. Jung espone un’argomentazione di questa fatta nel suo Risposta a Giobbe (Bologna, 1965): la risposta ai lamenti di Giobbe era che la condizione dell’uomo non sarebbe sempre stata la stessa, perché un uomo sarebbe balzato fuori dal seno della creazione. Erich Fromm notava con dolore33 che c’è da stupirsi che un numero maggiore di uomini non sia pazzo, essendo la vita un così terribile fardello, e poi scriveva un libro dal titolo You shall be as Gods (trad. Voi sarete come dèi (Roma: Astrolabio): dèi sull’orlo della pazzia, si dovrebbe desumere. Fortunatamente non dobbiamo qui affrontare gli aspetti metafisici di questo problema, che stanno al centro di un acceso — e, allo stesso tempo, rigorosamente intellettuale — dibattito, in corso tra alcune delle nostre migliori intelligenze critiche, che vanno da Rieff, a Lionel Trilling, cui s’è aggiunto recentemente John Passmore con un suo importante studio critico-storico34. La questione può riassumersi in questi semplicissimi e precisi termini: Come può un animale, che è sotto controllo di un suo ego, cambiare la propria struttura? Come può una creatura autocosciente trasformare il dilemma della propria esistenza? Semplicemente non esiste sistema alcuno per trascendere i limiti della, condizione umana o cambiare le condizioni strutturali della psiche, che rendono possibile 482

tale umanità. Che cosa può significare l’emergere — da un animale di quel tipo — d’un qualcosa di nuovo, che porti ad un trionfo sulla sua natura? Anche se gli uomini hanno riproposto senza fine quest’idea, fin dalle più antiche età e nei modi più sottili ed autorevoli; anche se interi movimenti di azione sociale e di pensiero si sono ispirati a quei principi, si tratta pur sempre di banale fantasia, come ha ribadito benissimo Passmore. Io stesso ricorrevo volentieri ad idee quali «spirito in evoluzione» e «promessa di nuova nascita» per l’uomo, ma non intendevo convogliare fantasie di creazione nuova. Intendevo piuttosto riferirmi a una nuova nascita produttiva di nuovi adattamenti, di soluzioni nuove e creative per i nostri problemi; di nuove aperture nell’affrontare percezioni della realtà, oramai stantie; nuove forme di arte, musica, letteratura e architettura che rappresentino una continua trasformazione della realtà. Però, dietro tutto questo, ci sarebbe sempre lo stesso vecchio tipo di creatura evolutiva, che organizza le sue peculiari risposte ad un mondo che continuerà a trascenderla35*. Se gli psicoterapisti e gli scienziati così facilmente precipitano nelle speculazioni metafisiche, non dovremmo biasimare i teologi quando fanno la stessa cosa. Ma, curiosamente, i teologi d’oggi sono spesso i più cauti quando trattano dell’immanenza e delle sue possibilità. Basta considerare Paul Tillich: anch’egli insegnava una sua metafisica del Nuovo Essere, la fede nell’emergenza di un nuovo tipo di persone, che sarebbero state meglio in armonia colla natura, meno impulsive e più percettive, più sintonizzate colle energie creative proprie, così da essere in grado di costituire — in sostituzione delle attuali — 483

comunità autentiche, formate di persone vere, invece di quelle ora deformate dalla cultura materialistica. Ma Tillich si faceva assai meno illusioni, intorno a questo Nuovo Essere, di quante se ne facciano gli psicoterapeuti religiosi. Egli era consapevole che l’idea era in realtà un miraggio e un ideale, verso cui occorreva indirizzare gli sforzi per realizzarlo almeno in parte. Questo è un punto cruciale ed egli, con onestà, s’esprimeva così: «Il solo argomento per la verità di questo vangelo del Nuovo Essere, è che il messaggio si rende vero esso stesso»36. O, come diremmo nelle scienze umane, si tratta di un’autorevole ingiunzione verso un tipico ideale37. Penso che l’intera questione di ciò che risulta possibile per la vita interiore dell’uomo sia bene riassunta dall’espressione «il mito della vita interiore», coniata da Suzanna Langer38. Costei se ne servì in riferimento all’esperienza della musica, ma la si può applicare all’insieme della metafisica dall’inconscio e dello sboccio di energie nuove dal cuore della natura. Ma aggiungiamo subito che il termine «mito» non riveste qui un significato spregiativo, quasi sinonimo di «illusione». Come spiegò la Langer, alcuni miti lievitano e producono una concreta energia intellettuale, un’obbiettiva comprensione di qualche verità nebulosa, quasi un adombramento di qualcosa che altrimenti sfuggirebbe alla nostra precisa indagine analitica. Ma soprattutto, stando alle argomentazioni di William James e Tillich, le credenze circa la realtà influiscono sulle concrete azioni della gente, perché contribuiscono a introdurre qualcosa di nuovo nel mondo. Ciò è particolarmente vero quando si tratti di credenze che riguardano la natura dell’uomo e la sua possibile evoluzione futura. E se qualcosa influisce sui nostri sforzi per cambiare 484

il mondo, per conseguenza, in certo modo, deve anche contribuire a realizzare questo obbiettivo. Ciò aiuta a capire una delle cose che più ci lasciano perplessi nel caso di profeti della psicoanalisi, quali Erich Fromm: ci si chiede com’essi abbiano — così facilmente — potuto scordarsi dei dilemmi riguardanti l’umana condizione, che in modo tragico pongono chiari limiti agli sforzi dell’uomo. Ad un certo livello, la risposta va cercata nel fatto che essi debbono accantonare la tragedia umana, per poter procedere nel loro programma di risveglio di un qualche tipo di fiducioso sforzo creativo da parte degli uomini. Fromm ha sottilmente vagliato la tesi — avanzata da Dewey — che, essendo la realtà attribuibile, almeno in parte, allo sforzo umano, l’individuo che si gloria d’essere un «realista cocciuto», ma poi s’astiene dall’agire con senso di fiducia, abdica, in realtà, all’impegno essenziale dell’uomo39. Questo sottolineare lo sforzo umano, la sua visione e la sua speranza, a parer mio sgravano Fromm dalle accuse, che gli vengono spesso rivolte, di non essere altro che un «rabbi» proteso alla redenzione dell’uomo, che non riesce a lasciare il mondo in pace. Ma se l’alternativa a questo suo atteggiamento è rappresentata dall’accettazione fatalistica della condizione umana, ciascuno di noi è un «rabbi», o, quantomeno, sarebbe augurabile che lo fosse. Esaurita questa discussione e quella, pratica, sul mito creativo, non significa trovarsi automaticamente disincagliati nei confronti della natura del mondo, qual è in concreto. Se proprio è necessario affidarsi ad un mito del Nuovo Essere, in tal caso — sull’esempio di Tillich — dobbiamo avvalerci di questo mito come d’un appello al più alto ed arduo sforzo, e non ad una gioia bambinesca. Un mito creativo 485

non può costituire un rifugio dentro una comoda illusione, ma dev’essere quanto più possibile audace per diventare veramente fecondo. Ciò che contraddistingue le riflessioni di Tillich riguardo al Nuovo Essere, è che in esse non trova spazio sciocchezza alcuna. Tillich afferma che l’uomo deve avere il «coraggio d’essere» se stesso, di reggersi sulle proprie gambe e di affrontare le eterne contraddizioni del mondo reale. L’audace proposito di questo genere di coraggio è di assorbire entro il proprio essere la quantità massima di nonessere. In qualità di essere, come estensione dell’insieme dell’Essere, l’uomo è pervaso da un impulso, radicato nell’organismo, che lo spinge a conglobare entro la propria organizzazione la maggior quantità possibile della problematica della vita. La sua esistenza d’ogni giorno si trasforma, allora, in un impegno di proporzioni cosmiche, e il suo coraggio nel fronteggiare l’ansietà del non-significato diventa eroismo cosmico autenttico. Non ci si rassegna — in tal caso — ai pretesi voleri d’un dio, identificato in un qualche immaginario personaggio sperduto in un lontano cielo, ma, nella propria persona, l’individuo si sforza di conseguire quanto i poteri dell’Essere emergente hanno realizzato nelle forme inferiori di vita: il superamento di ciò che costituisce una negazione della vita. Il problema dell’assenza di significato rappresenta la forma sotto cui si presenta il non-essere, nella nostra epoca. Perciò — afferma Tillich — il compito degli esseri coscienti, all’apice del loro destino evolutivo, consiste nell’affrontare e vincere questo nuovo ostacolo che si sta profilando contro la vita sensitiva. In questa specie di ontologia dell’immanenza del Nuovo Essere, ciò che qui stiamo descrivendo non è una creatura 486

che è trasformata e — a sua volta — trasforma il mondo in qualche misterioso modo, ma piuttosto una creatura capace d’assumere una parte maggiore del mondo dentro se stessa e di evolvere nuove forme di coraggio e di sopportazione. Non si tratta di cosa molto diversa dall’ideale espresso, nell’Atene del V secolo a.C., col mito di Edipo, o dalla definizione che Kant dava dell’uomo, e mostra la ragione per cui il mito di Tillich riguardo all’essere «veramente centrato» sulle proprie energie, sia profondamente radicale. E denuncia anche tutte le evasioni da questa centratezza nell’uomo, quali il sentirsi sempre parte di qualcosa o di qualcuno e il rifugiarsi nei poteri di altri. Il transfert, pur avendone ammesse la necessità e le dimensioni ideali, riflette pur sempre un qualche tradimento generalizzato contro i poteri propri dell’uomo, e in esso va ricercata la causa per cui egli si trova sempre sommerso dalle vaste strutture della società. L’uomo, purtroppo, dà un suo contributo a quelle stesse cose che lo rendono schiavo. Con questi rilievi concludiamo anche la nostra critica alle terapie da guru: non si può cianciare intorno a un ideale di libertà e allo stesso tempo rinunciarvi spontaneamente. Questo fatto mobilitò Koestler40 contro l’est d’oltrecortina, allo stesso modo che indusse Tillich ad opporsi, con argomenti cosi persuasivi, contro il misticismo orientale, inadatto per l’uomo dell’occidente. Tutto ciò è un’evasione dal coraggio di essere, e ostacola quell’assorbimento dentro di ré della massima parte possibile di non-significanza41 *. L’assunto di Tillich è che l’esperienza mistica (comune tra le religioni orientali), pur sembrando vicina alla perfetta fede, non lo è in realtà. Agli slanci mistici manca precisamente quell’elemento di scetticismo che caratterizza una più 487

radicale esperienza e una maniera più virile di confrontarsi coll’insignificanza potenziale. Non va dimenticato, inoltre, che il misticismo, nella pratica popolare, si confonde con un senso di magica onnipotenza: in realtà, rappresenta una barriera difensiva, mediante il mana, e una negazione dello stato di creatura42. Ancora una volta, ci spingiamo a parlare degli argomenti ideali più alti, che sempre appaiono assai lontani dalla realtà, ma sarebbe sciocco evitarli e occuparsi di quisquilie. A noi occorrono i miti creativi più audaci, non soltanto per pungolare gli uomini a spingersi avanti, ma anche — e, forse soprattutto — per aiutarli a guardare in faccia la realtà della loro condizione. Dobbiamo essere tetragoni quanto più è possibile, quando si tratta di realtà e di possibilità. Possiamo renderci conto che, da questo punto di vista, la rivoluzione terapeutica solleva due grandi problemi. Il primo verte su quanto maturi, critici e cauti potranno risultare i nuovi individui liberati: quanto avanti si spingeranno verso una libertà genuina; in quale misura riusciranno a sottrarsi al mondo concreto coi suoi problemi e ai loro stessi amari paradossi; quanto incerta rimanga la loro liberazione in conseguenza del loro appoggiarsi su altra gente, su illusioni, oppure su certezze varie. Se la rivoluzione freudiana nel pensiero moderno ha qualche significato, questo va visto nel fatto che fa nascere un nuovo livello d’introspezione ed anche una nuova critica sociale. Di tutto ciò vediamo già un riflesso non soltanto nella consapevolezza intellettuale dei circoli accademici, ma anche a livello di mentalità popolare, come si può constatare nelle lettere e colloqui coi lettori, che appaiono sui grandi organi di stampa. Ma questo ci conduce al secondo grave problema sollevato 488

dalla rivoluzione terapeutica, che può essere brutalmente espresso da un «E con questo?». Anche con gruppi sempre più numerosi di gente liberata per davvero, non ci riesce d’immaginare che il mondo debba trasformarsi in un posto più piacevole o meno tragico. Come Tillich ci metteva in guardia, il Nuovo Essere — nelle concrete condizioni e limitazioni dell’esistenza — si limiterà ad attivare nuovi e più stridenti paradossi, nuove tensioni e disarmonie più dolorose: un «più intenso demonismo», insomma. La realtà va esente da rimorsi, perché non sono dèi coloro che camminano sulla terra; e se agli uomini futuri fosse dato di divenire nobili ricettacoli di vasti spazi di non-essere, essi avrebbero ancor meno pace di quanto noi, pazzi dimentichi e sballottati, ne godiamo oggi. Inoltre, può forse un qualsiasi ideale di rivoluzione terapeutica coinvolgere le vaste masse di questo globo, gli uomini modernamente robotizzati della Russia, il circa un miliardo di cinesi, inquadrati come pecore, le popolazioni abbrutite e ignoranti, sparse su quasi tutti i continenti? Quando si vive nell’atmosfera di liberazione dell’università di Berkeley, in California, o in qualsiasi altro piccolo centro dove si possa sperimentare l’intossicante esaltazione di un qualche gruppo terapeutico, in realtà si respira un’aria di serra, che sbarra la porta alle situazioni concrete del resto del pianeta. Ci si deve rendere conto, e molto in fretta, di questa megalomania terapeutica, se non ci si vuole ridurre a sciocchi irredimibili. Come Freud perfettamente capiva, i fatti concreti del mondo non spariscono, solo per aver analizzato il proprio complesso d’Edipo, o solo perché si è in grado di far l’amore con tenerezza, come molti credono attualmente. Scordiamocene! Sotto quest’aspetto, ancora una volta è il 489

cupo pessimismo di Freud — specialmente quello dei suoi ultimi scritti, come Civilization and its Discontents — che lo mantiene attuale. Gli uomini sono condannati a vivere in un mondo spaventosamente tragico e demonico.

La fusione tra scienza e religione

La religione terapeutica non giungerà mai a rimpiazzare le religioni tradizionali, quali il buddhismo, il giudaismo, ma soprattutto il cristianesimo. Queste ritengono che l’uomo sia quaggiù condannato a permanere nel suo stato attuale, che egli non possa evolversi oltre, concretamente, e che tutto ciò che è alla sua portata, sia conseguibile soltanto dall’interno del reale incubo della sua solitudine nel creato e con quelle energie che già ora possiede. L’uomo deve adattarsi e attendere. La nuova nascita deve mantenerlo in cammino e dargli un continuo rinnovamento, affermano i cristiani, mentre gli ebrei insegnano che se egli possiede una perfetta giustizia e fede e se queste vengono sufficientemente diffuse tra i suoi simili, allora Dio stesso entrerà in azione. Gli uomini dovrebbero restare in attesa e usare al meglio la loro intelligenza ed energia per assicurarsi adattamento e sopravvivenza. Idealmente l’attesa dovrebbe essere contrassegnata da un’apertura verso il miracolo e il mistero, nella verità vissuta della creazione, che dovrebbe facilitarne sia la sopravvivenza che la redenzione, perché essi sarebbero così meno proclivi ad auto-distruggersi e meglio s’inquadrerebbero nell’immagine voluta dal Creatore di creature riverenti che si sforzano di vivere in armonia col resto della creazione. A ciò, oggi vorremmo aggiungere: meno propensi ad avvelenare il resto della creazione!43 490

Che cosa vogliamo dire coll’espressione «verità vissuta della creazione»? Vogliamo significare il mondo, quale esso appare a uomini in una condizione di relativa nonrepressione, quale, cioè, dovrebbe apparire a creature che hanno scandagliato la loro vera meschinità di fronte alla strapotenza e maestosità dell’universo, all’inesprimibile miracolo racchiuso in ogni singola cosa creata: quel miracolo probabilmente già percepito dai primi uomini apparsi sul pianeta e che continua a sbalordire gli individui altamente sensibili che hanno svolto il ruolo di sciamani, di profeti, di santi, di poeti e di artisti. Ciò che di unico esiste nella loro percezione della realtà è che essa è sensibile all’elemento pánico, inerente nella creazione. Sylvia Plath, in un suo scritto, definisce Dio «Re Pánico», traducibile in «Re del Grottesco». Che valutazione possiamo dare d’un mondo creato in cui l’attività corrente degli organismi consiste nel dilaniarsi gli uni gli altri con denti di tutti i tipi: mordendo e maciullando carne e steli vegetali, frantumando ossa tra i molari, ingurgitando voracemente bocconi vari, e incorporandone l’essenza nel proprio organismo, per poi espellerne i residui sotto forma di feci e di gas puzzolenti? Ogni essere si butta ad incorporarsi altre creature che siano mangiabili per lui. Le zanzare che succhiano sangue, fino a schiattarne, le sanguisughe, la furia indemoniata di api, calabroni e formiche assassine; gli squali che continuano a tranciare e ingollare vittime anche dopo che essi stessi sono stati sventrati. A ciò bisogna aggiungere il quotidiano fracassarsi e uccidersi in accidenti «naturali» d’ogni tipo: un terremoto ogni tanto seppellisce migliaia di gente, e gli scontri e incidenti vari automobilistici accatastano ogni anno centinaia di migliaia di morti. La creazione, insomma, è un 491

tremendo incubo, vissuto su un pianeta già inzuppato — nel corso di centinaia di milioni di anni — del sangue di tutte le sue creature. La conclusione più moderata che si possa trarre sulla base di quanto è avvenuto sul nostro pianeta, negli ultimi tre miliardi di anni, è che esso s’è trasformato in un’immensa fossa di fertilizzanti. Ma il sole distoglie la nostra attenzione, seccando continuamente il sangue, facendovi crescere sopra altre cose, e col suo calore ridà una speranza, connessa col benessere e la prosperità degli organismi. Questo sol m’arde e questo m’innamora, cantava Michelangelo44. Scienza e religione si trovano alleate nella critica ad un modo così esiziale di prospettarsi questo tipo di verità. La scienza, però, ci tradisce quando pretende di assorbire in se stessa tutta la verità vissuta. Qui è costretta a placarsi la critica di tutta la psicologia behavioristica, tutti gli arzigogola- menti degli uomini e qualsiasi forzato utopismo. Queste tecniche vorrebbero presentare il mondo diverso da ciò che è, mettendo fuori legge quanto c’è di grottesco e inaugurando una «decente» condizione umana. Lo psicologo Kenneth Clark, nel suo recente indirizzo all’Associazione Psicologica Americana, preconizzava — nella sua veste di presidente — l’avvento di una nuova chimica, capace di far sparire l’aggressività umana e di rendere così il mondo meno pericoloso. Esistono infiniti Watson, Skinners e Pavlov, con loro formule esclusive per appianare le cose. Persino Freud — da uomo dell’illuminismo qual era, in fondo in fondo — aspirava a vedere un mondo più equilibrato e sembrava incline ad assorbire nella scienza la vita vissuta, se la cosa avesse presentato qualche tenue possibilità. Occasionalmente egli 492

indulse a fantasie di cambiare il mondo per davvero mediante la terapia, ma sapeva che per farlo occorreva raggiungere le masse degli uomini. Il solo mezzo per farlo sarebbe stato l’amalgamare il vile rame della suggestione coll’oro prezioso della psicoanalisi. In altre parole, si sarebbe dovuto — attraverso il transfert — creare, di forza, un mondo meno malvagio. Ma Freud vedeva più a fondo, e gradualmente giunse a capire che il male nel mondo non si trova soltanto dentro la gente, ma anche al di fuori, nella natura. È questa la ragione per cui egli appare più realista e pessimista nei suoi scritti tardivi. Il problema, nei confronti dei manipolatori scientifici, sta nel fatto che essi non prendono la vita con sufficiente serietà: sotto quest’aspetto tutta la scienza è «borghese» e si configura come faccenda di burocrati. Prendere sul serio la vita, per me significa questo, pressapoco: qualunque cosa l’uomo compia su questo pianeta, dev’essere fatta nella verità vissuta del terrore della creazione, del senso del grottesco, sotto il rombo del sentimento pánico, che sta alla base di tutto. Altrimenti si è nel falso. Tutto ciò che si raggiunge, dev’esserlo dal di dentro delle energie soggettive delle creature, con il pieno esercizio di passione, sofferenza, timore e dispiacere. Come possiamo sapere — diceva Rilke — se la nostra parte di significato, nel ritmo dell’universo, non consista proprio in un ritmo di sofferenza? La scienza arruffona e utopistica, uccidendo la sensibilità umana, priverebbe gli uomini anche di quanto v’è di eroico nel loro impulso alla vittoria. E sappiamo bene che — sotto un aspetto assai importante — ciò finirebbe col falsare la nostra lotta, svuotandoci e precludendoci di assimilare la massima quantità possibile di esperienza. Questo significherebbe la 493

fine di quanto è peculiarmente umano, o — addirittura si dovrebbe dire — di quanto caratterizza la vita degli organismi. Nelle misteriose vie per cui la vita fluisce fino a noi, attraverso l’evoluzione verificatasi sul nostro pianeta, essa ci spinge verso una sua maggiore espansione. Noi non afferriamo questo, semplicemente perché non conosciamo l’intento della creazione: sentiamo soltanto l’infuriare della vita dentro di noi, e la vediamo imperversare negli altri esseri, che ci stanno attorno, mentre si divorano gli uni con gli altri. La vita cerca d’espandersi in direzione ignota, per ignote ragioni. Nemmeno la psicologia dovrebbe interferire con tale sacrosanta vitalità, concludeva Rank. È questo l’esatto significato della sua opzione per l’«irrazionale», come base per la vita: un’opzione fondata sull’esperienza empirica. Esiste una forza trainante, dietro un mistero che non ci è dato di capire, e tale forza include molto di più che la ragione sola. L’impulso ad un eroismo cosmico, quindi, è sacro e misterioso, e non si presta ai rigidi schemi razionali, architettati dalla scienza secolarizzata. Dopo tutto, la scienza rappresenta un credo che s’è sforzato d’assorbire in sé e di negare la paura della vita e della morte; e costituisce soltanto un concorrente aggiuntivo nello spettro dei ruoli per un eroismo cosmico. L’uomo d’oggi s’ubriaca di droga o di alcool per annegare la propria autocoscienza, oppure spende il tempo a comperare inutili cose, che è poi un’altra specie di droga. Poiché l’autocoscienza richiede delle forme di eroica dedizione, che l’attuale cultura non è più in grado di fornirle, ecco che la società interviene per soccorrere l’uomo nel conquistare l’oblio. Oppure, in alternativa, l’uomo si 494

sotterra nella psicologia, illudendosi che la consapevolezza — da sola — possa costituire una specie di magica soluzione dei suoi problemi. La nascita della psicologia, però, coincide con il crollo dell’eroismo sociale condiviso, e può essere superata soltanto attraverso la creazione di nuovi eroismi, che fondamentalmente appartengono alla sfera della fede e della volontà e che rientrano in una dedizione a una visione ideale. Recentemente Lifton è giunto a conclusioni quasi identiche a quelle di Rank45. Un pensatore, del livello di Norman Brown, scrivendo uno dei suoi ultimi libri, Love’s Body, fu condotto a focalizzare i suoi pensieri su questo stesso punto. S’era reso conto che il solo modo per andare oltre le congenite contraddizioni dell’esistenza, doveva essere cercato nel vecchio sistema religioso: proiettando, cioè, i propri problemi su una figura divina, perché trovassero redenzione in un al di là che tutto abbraccia e tutto giustifica. Parlare un simile linguaggio non significa affatto sposare il gergo degli psicoterapisti religiosi. Rank non fu mai così ingenuo o così messianico: s’avvide che l’orientamento degli uomini andava sempre ravvisato oltre i loro corpi e doveva basarsi su un salutare sistema di repressioni e indirizzarsi verso esplicite ideologie d’immortalità46*. Possiamo concludere che un progetto di così vasta portata, qual è quello riguardante la costruzione miticoscientifica della vittoria sopra l’umana limitatezza, è impresa che la scienza non è in grado di programmare. Con miglior prospettiva, esso va agganciato alle vitali energie delle masse, che sudano entro l’incubo della creazione, anche se il programmare non sta nelle mani dell’uomo. Chi può mai sapere quale forma assumerà la spinta in avanti nelle future 495

epoche e a che cosa servirà la nostra angosciosa ricerca? Tutto ciò che, nell’ipotesi migliore, ognuno può fare è di modellare un qualcosa — un oggetto qualunque o noi stessi — e lasciarlo cadere, nel gran guazzabuglio, come offerta — per così dire — alla forza vitale. 1 FREUD, Psychoanalysis and Faith: Dialogues with the Reverend Oskar Pfister

(New York: Basic Books, 1963), pp. 61-62. 2 Reich Speaks of Freud, a cura di Higgins M. e Raphael C.M. (New York:

Noonday Press, 1967), pp. 20-21. (trad. Reich parla di Freud, Milano: Sugarco, 1970). 3 Cf. soprattutto pp. 192 e 199 delle sue Memories, Dreams, Reflections. 4 KIERKEGAARD, Fear and Trembling, pp. 49 ss. 5 Cf. il pesante commento di Shestov L. nel suo classico Athens and Jerusalem

(Athens, Ohio: Ohio University Press, 1966), pp. 229 ss. 6 Cf. LAD, p. 308. 7 Ibid., pp. 291-292. 8 STEVENSON R.L., citato in James, Varieties, p. 85, nota. 9 Il cui fallimento, in effetti, egli ammette a p. 268. 10 Cf. la riaffermazione di questo punto di vista rankiano fatta da BAKAN D.:

Sigmund Freud and the Jewish Mystical Tradition (New York: Schocken Books, 1965), pp. 275-276 (trad. Freud e la tradizione mistica ebraica, Milano: Edizioni di Comunità, 1977). 11 LAD, p. 270. 12 Ibid., p. 293.

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13 Ibid., p. 292. 14 Cf. BECKER, Revolution in Psychiatry. 15 Cf. LAD, pp. 31, 39. 16 MARCUSE, Eros and Civilization (New York: Vintage Books, 1962), p. 211

(trad. Eros e Civiltà, Torino: Einaudi 1972). 17 Ibid., p. 216. 18

RIEFF, «The Impossible Culture: Oscar Wilde and the Charisma of the Artist», Encounter, settembre 1970, pp. 33-44. 19 Ibid., p. 41. 20 Ibid., p. 40. 21 Ibid., p. 41. 22 HARRINGTON, The Immortalist. 23 Citato in CHORON J., Death and Western Thought, p. 135. 24 Ibid., pp. 135-136. 25 Ibid., pp. 135-136. 26 HARRINGTON, The Immortalist, p. 288. 27 Vedere RIEFF, The Triumph of the Therapeutic: Uses of Faith after Freud

(New York: Harper and Row, 1966) (trad. Usi della Fede dopo Freud, Milano: ISEDI, 1972).

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28 Citato in Taft J., Otto Rank, p. 139. 29 PAUL BAKAN, in conversazione privata. 30 Cf. FAGAN J. e SHEPHERD I.L. (a cura di), Gestalt Therapy Now (Palo

Alto: Science and Behavior Books, 1970), pp. 237-238. 31 ALEXANDER F.M., The Use of the Self: Its Conscious Direction in Relation

to Diagnosis, Functioning and the Control of Reaction, con una introduzione di John Dewey (New York: Dutton, 1932): e BOWDEN G.D., F.M. Alexander and the Creative Advance of the Individual (London: Fowler, 1965). 32 RIEFF, The Triumph of the Therapeutic. 33 FROMM, The Sane Society (New York: Fawcett Books, 1955), p. 34. 34 PASSMORE, The Perfectibility of Man (London: Dickworth, 1970). 35 * Philip Rieff m’ha convinto ad una maggior cautela nell’uso — un po’

troppo vago — ch’io facevo delle idee di immanenza, durante una tavola rotonda a cui, con lui, partecipavo, due anni or sono. Nel suo stile caratteristicamente onesto e drammatico egli proclamò d’essere soltanto — come chiunque altro — «uomo in parte» e condusse l’uditorio ad ammettere che tutti lo siamo, domandando che cosa potesse significare essere «uomini completi». 36 TILLICH, «The Importance of New Being for Christian Theology», in Man

and the Transformation: Papers from the Eranos Yearbooks, vol. 5, a cura di Campbell J., tradotto da Manheim R. (New York: Pantheon Books, 1964), p. 172 e p. 164. 37

Per altri attenti usi dei concetti e del linguaggio circa il senso dell’immanentismo vedi gli importanti libri di CONGER G.P., The Ideologies of Religion (New York: Round Table Press, 1940) e DILLEY F.B., Metaphysics and Religious Language (New York: Columbia University Press, 1964). 38 LANGER, Philosophy in a New Key (New York: Mentor Books, 1942), p.

199.

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39 FROMM, Man for Himself (New York: Fawcett Books, 1947) pp. 95 ss.

(trad. Dalla parte dell’uomo, Roma: Astrolabio, 1971). 40 KOESTLER A., The Lotus and the Robot (New York: Macmillan, 1960).

[*Penso che Tillich — nella sua ricerca intorno al coraggio di essere — non sia riuscito a sbarazzarsi di un idolo. Si direbbe che si sia lasciato sedurre dall’idea d’un inconscio collettivo, in quanto adatta ad esprimere la profondità interiore dell’essere e capace di rappresentare una via d’accesso al regno dell’essenza. Ciò mi appare come un sorprendente venir meno alla sua usuale cautela. La base dell’essere, infatti, come potrebbe presentarsi così accessibile, quale Jung l’immaginava? E mi sembra anche che un simile concetto finirebbe col distruggere l’intera idea della Caduta. Come può l’uomo possedere — riguardo al regno dell’essenza — una specie di propria presa diretta? E se ciò corrispondesse a verità, la nozione che Tillich ha della grazia — puro dono che eccede tutto lo sforzo umano — non perderebbe tutto il suo significato?] 41 TILLICH P., The Courage to Be (New Haven: Yale University Press, 1952),

pp. 177 ss. (trad. Il coraggio di esistere, Roma: Astrolabio). 42 Vedere JACQUES E., «Death and the Mid-life Crisis», pp. 148-149. 43 Cf. NEEL J.V., «Lessons from a ‘Primitive’ People», Science, vol. 170; n.

3960, novembre 20, 1970, p. 821. 44 Per meglio comprendere il verso citato da Becker, riportiamo tutto il sonetto

(Buonarroti M., Rime, Milano: Rizzoli, 1975, p. 167), facendolo seguire da brevi note esplicative. Secondo alcuni il sonetto risale alla più intensa corrispondenza con Vittoria Colonna e viene ritenuto l’ultimo della serie dei componimenti buonarrotiani destinati alla stampa. Per ritornar là donde venne fora, l’immortal forma1 al tuo career terreno2 venne com’angel di pietà sì pieno, che sana ogn’intelletto e ’l mondo onora. Questo sol m’arde e questo m’innamora, non pur di fuora il tuo volto sereno:3 c’amor non già di cosa che vien meno tien ferma speme, in cui virtù dimora.4 499

Né altro avvien di cose altere e nuove in cui si preme la natura, e ’l cielo è c’a’ lor parti largo s’apparecchia;5 né Dio, suo grazia, mi si mostra altrove più che ’n alcun leggiadro e mortai velo; e quel sol amo perch’in lui si specchia.6 1 L’anima. 1 Il corpo. 3 L’anima soltanto m’arde e m’innamora, non tanto la parte esterna di te, il tuo bel volto. 4 Poiché amore, quando in esso dimori virtù, non può sperare in cosa destinata a venir meno. 5 Né altro avviene delle cose eccellenti e rare in cui la natura stampi la sua impronta, e per le quali il cielo s’apparecchia, alla loro nascita (a’ lor parti), ad esser largo di favori. 6 Né Dio, per sua grazia, mi si mostra altrove più che in un corpo leggiadro; io l’amo perché in esso Dio si specchia. 45 LIFTON R.J., nella prefazione di Revolutionary Immortality (New York:

Vintage Books, 1968). Credo che questo sia anche l’argomento del recente e difficile libro di HOMAN P., Theology after Freud (Indianapolis: Bobbs-Merrill, 1970). 46 * È opportuno sottolineare che, se il punto ultimo d’arrivo di Brown è quello

logico e giusto, tuttavia, io personalmente, ritengo questo suo tardivo libro molto insoddisfacente. Ci si chiede perché Brown dovesse presentare la sua nuova posizione con una tale valanga di aforismi e in tale calderone di pensieri nubilosi e spesso indecifrabili, per approdare, alla fine, ad un Cristianesimo misticheggiante, piuttosto ammuffito, e ad un’invocazione del giorno del giudizio ultimo. In questo suo ultimo libro si trova d’accordo con altri precedenti: l’esistenza naturale nei limiti frustranti del corpo, postula un soccorso radicale — stile tutto o nulla — sia nella non-repressione, oppure almeno nella fine del mondo.

500

BIBLIOGRAFIA (rivista dal dott. Marco Marchetti dell’università di Chieti)

Nota: Dato che i seguenti lavori di Otto Rank sono menzionati frequentemente, per convenienza abbiamo usato le seguenti sigle:

PS Psychology and the Soul, 1931 (New York: Perpetua Books Edition, 1961). ME Modern Education: A Critique of its Fundamental Ideas (New York: Agathon Press, 1968). AA Art and Artist: Creative Urge and Personality Development (New York: Agathon Press, 1968). WT Will Therapy and Truth and Reality (New York: Knopf, 1936, One Volume Edition, 1945). BP Beyond Psychology, 1941 (New York: Dover Books, 1958).

(Per quanto sappiamo, nella lingua italiana sono tradotte due opere del Rank e cioè Il trauma della nascita e il suo significato, Firenze: Guaraldi, 1972, e Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Milano: Sugarco, 1979). Brani di nuove traduzioni di ulteriori scritti di Rank sono apparsi nel Journal of Otto Rank Association, unitamente alla trascrizione di alcune conversazioni e conferenze di Rank. Queste pubblicazioni sono citate con la sigla JORA. Ho inoltre citato spesso Norman O’Brown Life against Death: The Psychoanalytical Meaning of History (trad. La 501

vita contro la morte: il significato psicoanalitico della storia, Milano: Adelphi, 1978) che viene riportato con la sigla LAD. Ho anche abbreviato i titoli dei libri e articoli di vari autori citati con maggiore frequenza dopo la prima segnalazione completa.

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INDICE PREFAZIONE

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I INTRODUZIONE: NATURA UMANA ED EROISMO

Parte I L’EROISMO ALLA LUCE DELLA PSICOLOGIA DEL PROFONDO II IL TERRORE DELLA MORTE III LA RIELABORAZIONE DI ALCUNE IDEE BASILARI DELLA PSICOANALISI IV IL CARATTERE UMANO COME MENZOGNA VITALE V LO PSICOANALISTA KIERKEGAARD VI IL PROBLEMA DEL CARATTERE DI FREUD NOCH EINMAL (DI NUOVO)

PARTE II I FALLIMENTI DELL’EROISMO VII IL SORTILEGIO GETTATO DALLE PERSONE IL VINCOLO DELLA NONLIBERTÀ VIII OTTO RANK E LA CONFLUENZA DELLA PSICOANALISI VERSO KIERKEGAARD IX PROSPETTIVE ATTUALI DELLA PSICOANALISI X SGUARDO D’INSIEME SULL’INFERMITÀ MENTALE

Parte III SGUARDO RETROSPETTIVO E 503

18

31 32 57 93 127 171

226 227 282 312 368

Parte III SGUARDO RETROSPETTIVO E 446 CONCLUSIONE: I DILEMMI DELL’EROISMO XI PSICOLOGIA E RELIGIONE: CHE È L’INDIVIDUO EROICO?

447

BIBLIOGRAFIA (rivista dal dott. Marco Marchetti dell’università di Chieti)

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