Modi per sopravvivere. Scritti politici 1973 – 2008
 9788833576541, 883357654X

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PBM

Fabrizia Ramondino

Modi per sopravvivere Gli scritti politici a cura di Mirella Armiero seguito da “Un modo diverso di fare politica” di Enrico Pugliese

Copyright © Eredi Fabrizia Ramondino. Published by arrangement with The Italian Literary Agency Copyright © 2023 Edizioni e/o Via Camozzi, 1 – 00195 Roma [email protected] www.edizionieo.it Art direction: Emanuele Ragnisco instagram.com/emanueleragnisco Impaginazione di Martina Perseli ISBN 978-88-3357-654-1

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abrizia Ramondino è stata una militante politica diversa da quelli che abbiamo conosciuto negli anni Sessanta-Ottanta dello scorso secolo, negli anni segnati dai movimenti studenteschi in Europa e non solo, detti del ’68, e almeno in Italia anche dalle grandi agitazioni operaie del ’69. Anche a Napoli, una città di cui si dimentica spesso che ospita, al suo immediato Nord e al suo immediato Sud, due grandi fabbriche a Bagnoli e a Pomigliano, oggi in decadenza. E dunque non è soltanto una città del “terziario” e del “tirare a campare” di un “sottoproletariato” inviso alla tradizione della sinistra perché considerato, quasi per destino, alleato di una borghesia aggressiva (Lauro) e nostalgica, perfino e a lungo monarchica. Furono Fabrizia e il gruppo in cui militò negli ultimi anni Sessanta e nei primi Settanta a mettere in questione le vecchie convinzioni, diciamo pure i pregiudizi di una sinistra legata al Pci e alla sua dissidenza trotzkista. Fabrizia fondò intorno al ’68 il Centro di coordinamento campano, un piccolo gruppo di giovani militanti, insieme a Enrico Pugliese allievo di Manlio Rossi-Doria e di salda coscienza meridionalista, 5

e a Giovanni Mottura, anche lui vicino a Rossi-Doria ma che era già stato collaboratore di Danilo Dolci in Sicilia e tra le figure più attive dei “Quaderni rossi” a Torino, il gruppo di giovani intellettuali militanti assai presente nelle lotte operaie del ’69. Mottura, memore della sua breve esperienza siciliana, scelse di occuparsi di contadini piuttosto che di operai, e di sociologia rurale prima che industriale. Rispetto a Mottura e a Pugliese, la diversità di Fabrizia stava, anzitutto, in una forte vocazione artistica, vocazione di scrittrice che era allora ignota a quasi tutti i suoi amici, almeno fino all’uscita di Althénopis nel 1981. Ma va anche ricordato che Fabrizia era stata segnata da due forti esperienze intellettuali e sociali, anzi pedagogiche. Grazie all’amicizia, la prima, con una straordinaria figura di anarchico, Cesare Zaccaria direttore da Napoli della rivista “Volontà”, aperta negli anni Cinquanta e Sessanta al meglio della sinistra non comunista di allora, al meglio della cultura laica ma non solo, per la sua attenzione alla sinistra cattolica e alle minoranze protestanti. “Volontà” pubblicò, per esempio, articoli e saggi di Gaetano Salvemini, di Aldo Capitini... Grazie alla partecipazione, la seconda, alla bellissima esperienza dell’Arn (Associazione Risveglio Napoli) cui dedicò più tardi dei bellissimi scritti sul lavoro con i bambini dei vicoli e in cui ebbe come punto di riferimento una luminosa figura di vecchia 6

militante socialista, Vera Lombardi, anche mia amica, a cui più tardi lei e Mario Martone affidarono il ruolo della figlia di Bakunin nel loro film su Caccioppoli, Morte di un matematico napoletano... Per i suoi interessi pedagogici, Fabrizia partecipò anche alla bellissima esperienza del Ceis, il Centro educativo italo-svizzero di Rimini, fondato dalla bravissima Margherita Zoebeli, le cui idee e la cui pratica furono fondamentali, per esempio, nella nascita del Movimento di cooperazione educativa... (E fu anche l’aver partecipato anch’io di quell’esperienza a rendere così immediata, a Napoli, l’amicizia con Fabrizia.) Prima di Althénopis, esperienza profondamente letteraria, artistica, Fabrizia pubblicò l’inchiesta sui “disoccupati organizzati” che spiegò, con la loro voce, una grande lotta del cosiddetto sottoproletariato che, grazie a Fabrizia, ci abituammo piuttosto a chiamare proletariato marginale, anche sulla base del lavoro degli abitanti (delle abitanti) nei vicoli della città per alcune grandi imprese del Nord... Non abbandonò mai, davvero mai, l’interesse e soprattutto la partecipazione diretta alle lotte sociali del tempo anche quando la sua attività di scrittrice, di romanziera, ebbe il sopravvento. E i testi raccolti in questo volume documentano con grande evidenza la persistenza dell’altra vocazione... È stato un caso, infine, più unico che raro quello di una giovane donna che ha preso parte da protagonista 7

attiva e cosciente alle lotte politiche di un’epoca vivacissima della nostra storia del Novecento, ma che è stata anche una delle nostre migliori narratrici, amica e allieva delle due massime scrittrici del nostro Novecento, Anna Maria Ortese e Elsa Morante. I testi qui raccolti, rari esempi di una grande intelligenza e di una grande passione sociale, e di un ostinato e amato, e direi perfino goduto, impegno politico, non devono venir disgiunti dall’altra parte della sua vocazione e del suo impegno di scrittrice... di scrittrice che ha capito e sofferto fino in fondo i dilemmi del proprio tempo ma non solo quelli della sua generazione, da “borghese” che, senza rinunciare ad alcuni privilegi (culturali, non economici) della sua origine, ha saputo stare nella società dei proletari più attivi e determinati nelle lotte, e degli “ultimi”, e dei ribelli, e in Italia e non solo, senza narcisismi e ideologismi e senza tradire nessuna delle sue vocazioni. Dimostrando che si può essere insieme grandi artiste e grandi militanti... (g.f.)

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PORTARE IN SPALLA. UN’ININTERROTTA MILITANZA di Mirella Armiero

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e la voce di Fabrizia Ramondino risuona ancora forte e chiara nel panorama italiano contemporaneo è anche per la vocazione politica che innerva la sua produzione letteraria, anzi la precede. Ramondino pubblica Althénopis nel 1981 e sorprende la cerchia dei suoi amici e compagni. Pochi sanno che coltiva da tempo la scrittura letteraria, eppure tiene sul suo tavolo la cartellina con il manoscritto del romanzo: sulla copertina, accanto al disegno di un cerchio, il titolo provvisorio, La piazza, che poi darà nome solo al primo capitolo. Una volta uscito, il romanzo dalla lunga gestazione la impone alla critica e al pubblico. Con una felice invenzione, il nuovo titolo attribuisce una presunta radice semantica – “occhio di vecchia”, Althénopis appunto – al nome di Napoli, la città che un anno prima il terremoto ha sconquassato sia geologicamente sia moralmente. Fino allo svelamento della sua vocazione di narratrice, Fabrizia Ramondino ha fatto politica più che letteratura.1 1 Lo segnala anche il Centro di ricerca sulle scritture femminili dell’Università di Londra alla voce Ramondino del catalogo digitale: “Ramondino came late to writing. Her first novel, Althénopis, appeared in 1981, after an intense period of political militancy in

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Eppure sono per lei due militanze tutt’altro che distanti. Alla base di entrambe c’è l’attenzione all’altro, alla voce dell’individuo dentro il brusio indistinto della moltitudine, alle classi sociali disagiate, marginali, oppresse, agli interni domestici e miseri, ai lavori materiali, che ha conosciuto fin da bambina, nella dorata infanzia maiorchina, attraverso la presenza della servitù e della balia con la quale ha condiviso la quotidianità. Lo chiarisce bene lei stessa più volte, per esempio nell’articolo intitolato In Althénopis ci sono tutte le mie esperienze 2, in cui ripercorre l’origine e la natura del suo impegno sociale e spiega come essa confluisca anche nel suo romanzo. “Questo libro è un po’ la sintesi delle mie esperienze; non soltanto con la letteratura, ma anche con i bambini dell’Arn, coi compagni del gruppo e dei disoccupati organizzati, trasposti nei rapporti coi bambini della piazza di Santa Maria del Mare, negli anni della guerra e del dopoguerra”. Fabrizia Ramondino parla ancora oggi ai lettori contemporanei. Un discorso politico come il suo (nel senso più alto del termine) manca quasi completamente nel panorama dei narratori italiani di questi Naples which gave her literary work a highly ethical and political quality”, voce Fabrizia Ramondino, in Centre for the Study of Contemporary Women’s Writing CCWW accessibile all’indirizzo https://modernlanguages.sas.ac.uk/research-centres/centre-studycontemporary-womens-writing/ccww-author-pages/italian/fabrizia (ultimo accesso 12.06.22). 2 F. Ramondino, In Althénopis ci sono tutte le mie esperienze, “Lettere/2”, luglio 1981.

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anni. Figlia di genitori alto borghesi e cosmopoliti, il suo apprendistato socio-intellettuale inizia dalla frequentazione di settori della sinistra eretica, con un forte interesse per le posizioni anarchiche e per il socialismo di Proudhon, argomento della sua tesi di laurea, poi pubblicata a puntate sul periodico “Volontà”. Le prime esperienze sono quelle legate all’insegnamento e alla formazione infantile, di impianto freinetiano. “La pedagogia attiva – Fabrizia fu tirocinante al Ceis di Rimini – ebbe una grande influenza su Fabrizia, ma la sua azione educativa andò anche oltre. Non amava, invece, il movimento montessoriano, cui rimproverava una tendenza all’elitarismo sociale e al compromesso con i ‘potenti’ – leggi ministero della Pubblica Istruzione, classi dirigenti in politica e in economia. Ma più che dai testi di pedagogia la sua originale azione di educatrice traeva le radici dalla sua infanzia”3. Al ritorno dal primo dei numerosi soggiorni in Germania (raccontati poi in Taccuino tedesco), attraversa un periodo di depressione dalla quale la salvano le lezioni impartite alle figlie di una cameriera della madre. Poi il doposcuola si allarga, arrivano altri bambini e anche adulti. Il primo attivismo della scrittrice è quello pedagogico, svolto all’Arn, l’Associazione Risveglio Napoli, fondata insieme a una ventina di persone (tra 3 G. Carbonaro, Fabrizia Ramondino scrittrice ed educatrice, in Archivio G. Pinelli, Bollettino n. 32, 2008.

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cui Lamberto Borghi e Vera Lombardi), che avrà sede dapprima a Vico Vasto a Chiaia e poi, dal ’65, a Palazzo Marigliano. L’autrice racconta anni dopo le origini di questo impegno nell’Isola dei bambini: “Vedendomi inoperosa – non si rendeva conto della mia depressione – Maria mi chiese se volevo aiutare i suoi bambini più grandi che andavano male a scuola. Scesi così nel suo vicolo e i bambini mi salvarono dal mio male… Celebravo, ma non lo sapevo allora, il mio passaggio all’età adulta, che per una giovane donna una volta significava fare un bambino, per me invece fu saperlo portare in spalla”4. Il deputato socialista Tristano Codignola, fondatore della Scuola Città Pestalozzi di Firenze e impegnato nel progetto della scuola media unificata, visita il gruppo napoletano. Ramondino lo ricorda poi in un’intervista: “Una delle proposte che facemmo a Codignola, e su cui fu d’accordo ma che non passò, era questa: in posti di sottosviluppo come Napoli, e più in generale al Sud in una situazione in cui molti bambini andavano a lavorare, rendere la scuola media obbligatoria poteva significare avere una legge avanzatissima che rimaneva però soltanto sulla carta oppure far intervenire la repressione, i carabinieri. Noi proponemmo che delle équipe di sociologi facessero inchieste nelle famiglie e, laddove risultasse effettiva4 F. Ramondino, L’isola dei bambini, Edizioni E/O, Roma 2020, pp. 19-20.

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mente che il reddito del bambino era fondamentale, si desse un piccolo reddito alla famiglia a patto che mandasse i figli a scuola. Naturalmente la proposta non passò, eppure questa è una cosa che ancora oggi sarebbe importante in città come Napoli perché ancora esiste l’evasione e impressionanti fenomeni di analfabetismo di ritorno”5. Una delle prime preoccupazioni di Fabrizia e del suo gruppo di attivisti, per lo più provenienti da classi borghesi, è quella di individuare un giusto canale comunicativo con i ragazzini. Lo spiega lei stessa in un articolo pubblicato in quegli anni sulla rivista “Il Tetto”: L’Arn ha fondato un centro nel quartiere San Lorenzo. Il Quartiere non è stato scelto a caso: si voleva operare per così dire nel cuore dei problemi della città, nel Centro Storico, dove essi sono stratificati da secoli e attendono ancora una soluzione che di anno in anno si fa sempre più urgente. Essendo il gruppo promotore estraneo al Quartiere, ci si pose il problema del tipo di linguaggio dei dibattiti, delle conferenze, dei comizi, dei manifesti, dei volantini, quello cioè della sola parola. (…) Il tipo di linguaggio che si scelse fu quello di operare modestamente tramite dei servizi di immediata utilità, una goccia nel mare, certo, dinanzi ai problemi del quartiere e della città, ma almeno 5 La teoria e la voce di dentro, intervista di G. Pontremoli a F. Ramondino, pubblicata in Fabrizia Ramondino, numero monografico dell’“Illuminista”, nn. 43, 44, 45, Ponte Sisto, dicembre 2015, p. 88.

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non parole che sarebbero vuote, e un esempio di quelle tante tantissime cose che su larga scala sarebbero necessarie.6

Esperienze analoghe degli anni Sessanta sono quelle alla Pigna e a Torre Caracciolo tra Quarto e Marano, dove Ramondino abitò per un breve periodo con l’allora marito Francesco Alberto Caracciolo (anche il racconto di quell’intenso laboratorio sociale è raccolto nell’Isola dei bambini). Il metodo è sempre quello della pedagogia attiva, con utilizzo di materiali poveri, riciclo degli oggetti, coinvolgimento dei bambini in pratiche teatrali, giardinaggio, lavori manuali. E soprattutto con l’adozione di una prospettiva orizzontale tra maestro e allievo e il riconoscimento costante della piena dignità del bambino. Nell’estate del ’66 la scrittrice inquieta cambia strada. Aspetta un bimbo da Livio Patrizi. Parte per Milano, dove vive per un periodo con il compagno e dove nasce la figlia Livia. L’Arn resta attiva, a opera di quel gruppo di intellettuali borghesi progressisti di area socialista che l’aveva fondata insieme a lei. Con il Sessantotto si aprono fronti interni e divisioni, alcuni lasciano. Agli inizi degli anni Settanta nello stesso edificio che aveva ospitato l’Arn, a Palazzo Marigliano, si riunisce il Centro di coordinamento campano. La militanza si andava trasformando sul piano politico e in6 Arn, Inchiesta sui gruppi a formazione spontanea, a cura di F. Ramondino, in “Il Tetto”, nn. 23/24, 1967.

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tellettuale, Fabrizia si avvicinava al metodo dell’inchiesta sociale, che si esprimerà pienamente nel suo primo libro, quello sui disoccupati organizzati. Il gruppo è uno dei più interessanti e trasversali di quel periodo movimentista. “L’iniziativa del Centro di Coordinamento Campano si caratterizza per una capacità di analisi che poggia da un lato sulle informazioni provenienti dai militanti impiegati nelle fabbriche, nelle scuole o in altri settori, dall’altro sulle inchieste sviluppate dai ricercatori aderenti all’organizzazione, spesso inseriti in strutture universitarie e in collegamento con riviste nazionali, in particolare ‘Inchiesta’ e ‘Quaderni piacentini’, che permettono di far conoscere i risultati delle indagini a un pubblico più vasto”7. Si delineano già durante questo periodo alcune posizioni radicali di Fabrizia Ramondino, a partire dalla definizione di “proletariato marginale” al posto del più ortodosso “sottoproletariato”. Nell’articolo Contro l’uso capitalistico del colera pubblicato nel 1973 su “Inchiesta” (la rivista fondata nel 1971 da Vittorio Capecchi) e firmato collettivamente dal Centro di coordinamento campano, ma scritto in larga parte da lei, Fabrizia individua con acutezza, sia pure con un linguaggio fortemente ideologizzato, nodi che poi si riveleranno centrali nella storia di Napoli, come i destini dell’Italsider e dei Quartieri Spagnoli, destinati allo svuotamento. 7 L. Rossomando, Le fragili alleanze, Edizioni Monitor, Napoli 2022, p. 241.

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Negli anni del Centro di coordinamento campano nascono amicizie e rapporti destinati a durare una vita mentre altri sono passeggeri, alcuni dolorosi, altri ancora proficui, necessari. È il periodo delle frequentazioni con Giovanni Mottura, che veniva dalla esperienza di Danilo Dolci e dai “Quaderni rossi”, e con Enrico Pugliese, allievo di Manlio Rossi-Doria. Lunghe riunioni, scontri, discussioni, ideologia ma non solo: Fabrizia Ramondino accoglie e rielabora lo spirito migliore del Sessantotto, quello dell’incontro con le persone reali, dell’ascolto delle loro esigenze, attraverso l’orizzontalità dello sguardo e la capacità di compiere gesti concreti di avvicinamento. In questo senso Goffredo Fofi, suo grande amico e compagno di strada, spiega: “Fabrizia era una populista, una parola che non sempre è stata un insulto, quando un popolo con cui e per cui operare esisteva, ed era pieno di vitalità e di speranza”8. Fofi continua: “La sua matrice politica era in definitiva quella del socialismo più anarchico, e dell’anarchismo ella fu sempre attentissima studiosa e cultrice, tanto dei classici che delle figure contemporanee più rappresentative, che conobbe e frequentò da vicino, da Borghi a Capitini, da Cesare Zaccaria (che succedette a Errico Malatesta nella direzione di ‘Volontà’ e che di Malatesta curò le opere, e fu però anche vicino ai gruppi dei Cemea e al Movimento di cooperazione educativa) a Carlo Doglio. Sul 8 G. Fofi, Sorella di tanti, in “Lo straniero”, nn. 98/99, settembre 2008.

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versante socialista, una sua importante maestra fu certamente Vera Lombardi”9. Ed è proprio Fofi a commissionarle la sua inchiesta sui disoccupati, che sarà pubblicata da Feltrinelli nel 1977 e poi riproposta da Argo nel 1998. Le sue case – ne ha cambiate tante, diverse al centro storico – sono frequentate dai disoccupati, che non hanno soggezione di lei, nonostante un certo suo tratto aristocratico e la scarsa familiarità con il dialetto. E il suo carattere a tratti ruvido non ostacola la nascita di rapporti sociali profondi. Il saggio del ’77 è costruito attraverso le interviste ai protagonisti di quella stagione combattiva, precedute da una lunga introduzione, più di quaranta pagine per molti versi lungimiranti. In particolare, l’autrice sottolinea gli errori della sinistra nei confronti del “proletariato marginale” e denuncia l’illusione relativa a un vagheggiato “capitalismo sano” che possa risolvere l’arretratezza del Mezzogiorno. La disoccupazione, invece, è una delle priorità da affrontare. Problema che ritornerà in scritti successivi, come l’articolo sull’Ordine nuovo della camorra. Dopo l’analisi comparativa tra vecchia e nuova camorra, fino a Cutolo, la scrittrice conclude con un passaggio illuminante: “Se continuerà a crescere la disoccupazione giovanile le camorre napoletane si estenderanno in tutte le cittadelle della civiltà europea”10.

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Ibid. “Tempo illustrato”, gennaio 1984.

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Altro punto chiave nell’introduzione ai Disoccupati organizzati: l’immagine di Napoli come città terziaria è falsa; è evidente invece la larga fetta di lavoro nero che caratterizza il suo tessuto produttivo e rende “invisibili” agli occhi della stessa classe operaia quei lavoratori “marginali”, magari impegnati in attività in subappalto da altri proletari. Condizione rimasta poi immutata nei decenni a venire. La rivendicazione che la Ramondino raccoglie dalle loro voci è innanzi tutto quella della dignità: “I disoccupati organizzati non vogliono continuare col lavoro nero, con i mille piccoli traffici, che peraltro sono diventati sempre più difficili e precari”, scrive nell’introduzione al saggio. Il metodo utilizzato dall’autrice è quello dell’inchiesta sociale o più propriamente dell’osservazione partecipante, attraverso la raccolta di voci che danno un quadro ricco di sfumature, non solo sul lavoro, ma sulla condizione femminile che andava trasformandosi con molta fatica, sui contrastati rapporti con il sindacato11 e con i partiti e in definitiva anche sulla fine della visione potente e fiduciosa della lotta di classe come strumento di modificazione della realtà. Con la sua forma peculiare, a tratti quasi narrativa, l’inchiesta sui disoccupati conquista un posto di rilievo 11 “È stato sempre assente con i disoccupati organizzati come lo è con i precari di oggi. Giuseppe Di Vittorio, il mitico leader della Cgil, si batté invano perché i lavoratori precari e gli stagionali venissero accettati nel sindacato, ma non venne preso in considerazione”. Intervista rilasciata a Carlo Franco, “Corriere del Mezzogiorno”, 15 novembre 2007.

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nella letteratura del genere per originalità e profondità e merita una attenta riscoperta. “Certamente, Ramondino fu molto affascinata dalla ‘variabile umana’, intesa come varietà degli individui pur dentro un’organizzazione che combatteva unita la sua battaglia; e fu probabilmente sorpresa dallo scoprire che, se pure quel gruppo faceva difetto della coscienza di classe istruita dalla marxiologia di partito, non gli difettavano coscienza di sé né autonomia di pensiero”12. La stessa scrittrice chiarisce poi in varie occasioni le sue motivazioni. Un anno dopo la pubblicazione, su “Lotta Culturale” illustra “le ragioni del libro: togliere dall’ombra i centinaia di migliaia di disoccupati e lavoratori precari bollati e cancellati dalla possibilità di emanciparsi socialmente e politicamente come popolino o sottoproletariato”13. In altre parole, sfrondare le masse napoletane dalla patina di folclore che ne appanna fisionomia e identità. Uno dei grandi meriti di Fabrizia Ramondino, insomma, è aver individuato come soggetto politico e pensante questo gruppo sociale ghettizzato dagli stessi operai e ovviamente dagli apparati statali e cittadini. Una lettura politica che passa attraverso la sua visionarietà di scrittrice, che raccoglie e racconta storie individuali, mentre sul piano teorico sintetizza e anticipa successive configurazioni geopolitiche della società contemporanea. 12 L. Ferro, La voce della balia in Fabrizia Ramondino, numero monografico dell’“Illuminista”, cit., p. 157. 13 Intervista rilasciata a P. Esposito, in “Lotta Culturale”, n. 2, 1978.

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Nel 1980 esce sulla rivista “Hérodote Italia” (filiazione della francese di Yves Lacoste, teorico di una geografia del sottosviluppo) un suo testo che disegna una inedita “Mappa di Napoli costruita dai disoccupati organizzati”, in collegamento al saggio di tre anni prima. Una sorta di topografia ideale della città secondo le modificazioni prodotte sul tessuto urbano dalle proteste sociali e basata sul principio che “le masse fanno non solo la storia, ma la geografia”. Il movimento dei disoccupati organizzati, con un’azione incisiva e determinata, era sceso in piazza contro l’inerzia della politica, anche di sinistra, e ancora di più contro il sindacato considerato per lo più “nemico dei proletari”. Per Fabrizia Ramondino i disoccupati hanno disegnato “una preziosa mappa della città, tale che nessun geografo potrebbe farla a tavolino”, rovesciando lo statuto stesso della disciplina geografica. Una mappa che può servire anche a chi verrà dopo per decifrare i gangli del cambiamento che si andava verificando. Siamo ormai a ridosso della consacrazione letteraria: dai Disoccupati organizzati ad Althénopis passano solo quattro anni, ma è un periodo cruciale per l’Italia, e tra il delitto Moro, il terrorismo, le stragi, tutto l’auspicato processo di modernizzazione sembra ormai fermo, effimero, illusorio. Per Fabrizia Ramondino è tempo di nuove prove narrative e intellettuali. Gli anni Ottanta sono letterariamente produttivi: la scrit20

trice firma diversi libri, da Storie di patio, raccolta di racconti che contiene in nuce il successivo immaginifico Guerra di infanzia e di Spagna, a Un giorno e mezzo, il romanzo più schiettamente politico, un ritratto inedito e sincero (e soprattutto tracciato da una prospettiva interna) della generazione del movimento in Italia, in particolare a Napoli. Pubblicato nel 1988, ambientato nel 1969, Un giorno e mezzo rievoca il clima confuso e utopistico della contestazione, in un momento in cui si avvertivano già i sintomi della crisi. Gli operai mostravano segni di contiguità con le aborrite classi piccolo borghesi, nei confronti delle quali peraltro la stessa Ramondino avverte una vischiosa appartenenza: …gli operai avevano spesso anche loro atteggiamenti e comportamenti piccolo borghesi, quanto allo stile di vita, tanto che ai tempi dell’Arn criticavamo che non avessero mobili funzionali ma questi lampadari eccesivi, però nel nostro gruppo eravamo incredibilmente tolleranti su questo, eravamo tra virgolette molto umani, tanto è vero che i pochi operai che aderirono al Coordinamento campano sono ancora nostri amici… Insomma non pretendevamo da loro certi modelli, da una parte perché sentivamo di essere anche noi coinvolti nei riti borghesi, dall’altra perché ci pareva, come si diceva allora, che quella fosse la loro “sovrastruttura”, perché io ho sempre creduto profondamente in una cosa che Mao ha scritto nella sua inchiesta sul movimento contadino dell’Hunan, che non bisognava distruggere i templi buddisti, ma che occorreva lentamente trasformare le condizioni del popolo e il suo 21

modo di pensare, in modo che i templi si svuotassero…14

Come accade a pochi altri intellettuali, tra Fabrizia Ramondino e l’oggetto delle sue indagini o dei suoi racconti non c’è alcuna presa di distanza, nessun atteggiamento giudicante. L’ascolto le è sempre parso necessario, ineludibile. In un articolo scritto per “Reporter” (quotidiano pubblicato a Roma tra il 1985 e il 1986, con intellettuali in parte provenienti da Lotta continua, sul quale Adriano Sofri – a cui Ramondino era vicina – curava un bell’inserto culturale), riferisce, in un reportage, del problema della droga nei Quartieri Spagnoli di Napoli. L’analisi è ampia e riconduce la diffusione dell’eroina alla deriva criminale del post terremoto, alla disoccupazione e a un generale contesto degradato. Ma la soluzione non può calare dall’alto. Fabrizia racconta di essere stata in un basso dove le persone dialogano: Qui non ha sede un vero e proprio comitato, come li si intendeva una volta: è un luogo di osservazione attenta dei problemi del quartiere, di appassionato impegno a risolvere intelligentemente ogni grave questione, di fedele amicizia tra le persone. Vi passano in tutte le ore del giorno le donne, i travestiti, le prostitute, gli operai e le operaie delle confezioni, i tossicodipendenti, gli ex carcerati; si chiacchiera, si beve il caffè, si scherza, si discute, 14 F. Ramondino, “Il mio Sessantotto”, in Io Fabrizia Ramondino non immaginavo di star di casa sopra un teatro, a cura di S. Lambiase e M. Del Grosso, edizioni Instabili, Napoli 2012, pp. 19-34.

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si consiglia. Le proposte più intelligenti per risolvere realisticamente molte questioni le ho udite formulare qui.15

Nel 1989 esce, sempre per Einaudi, Dadapolis. Caleidoscopio napoletano, raccolta di frammenti dei testi che nei secoli numerosi autori hanno dedicato all’enigma di Napoli. La definizione di caleidoscopio tra l’altro ben si adatta alla produzione stessa di Ramondino, come nota Paola Nitido: “La scrittura di Fabrizia Ramondino nasce dal riflesso di un caleidoscopio, strumento ottico e tecnica narrativa”16. L’incubazione del libro avviene in un appartamento di via Cisterna dell’Olio dove vive il coautore, Andreas F. Müller. Una casa frequentata da tanti giovani, dal futuro regista Leonardo Di Costanzo alla germanista Valentina Di Rosa (curatrice della seconda edizione di Taccuino tedesco), fino a Franz Haas, che pubblica il suo epistolario di quegli anni con Anna Maria Ortese, autrice con la quale era entrato in contatto proprio tramite Fabrizia Ramondino. Un periodo di vitalità e di incontri, Napoli è ancora per certi versi nello stallo del post terremoto ma è anche percorsa da fermenti culturali innovativi; proprio a via Cisterna dell’Olio apre nel ’94 il primo multisala con ambizioni intellettuali, erede dei cineforum anni Settanta, il Modernissimo, e al Velvet 15

F. Ramondino, Napoli, vicolo Eroina, in “Reporter”, 28 maggio

1985. 16 P. Nitido, Le vite degli altri abitano la mia. La scrittura del sé nell’opera di Fabrizia Ramondino, Fridericiana editrice universitaria, Napoli 2021, p. 50.

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si ascolta musica underground fino all’alba. La città si prepara al suo imminente (ed effimero) rinascimento bassoliniano, che si affermerà tra il gigantismo un po’ smargiasso delle installazioni in piazza Plebiscito e finirà con la crisi dei rifiuti, di cui anche Fabrizia Ramondino scriverà sul “manifesto” anni dopo. Da quando ero bambina sotto i bombardamenti tedeschi, Napoli è stata sempre per me in stato di “emergenza” – basta leggere i libri di Domenico Rea sul dopoguerra. Che significa per me il verbo “emergere”? Questo: che quanto è nascosto, per esempio sotto i bei tappeti d’Italia e del mondo, qui, a Napoli, d’improvviso viene alla luce. L’immondizia napoletana altro non è che l’emergere di tutta l’immondizia prodotta nel mondo da un capitalismo sempre più selvaggio.17

Ma anche negli anni di belle speranze per Napoli, la scrittrice mantiene oggettività nelle sue osservazioni: Mi sento divisa, se apprezzo che tante strade e piazze siano state chiuse al traffico e siano ridiventate un luogo di incontro tra persone, se apprezzo tante altre iniziative preziose della Giunta (si tratta della prima sindacatura di Bassolino, ndr) o di istituzioni private o di iniziative nel volontariato – mi sembra però che non si sia ancora mirato al centro, all’uomo. Per esempio, nei Quartieri Spagnoli la maggior parte dei bambini sono depressi o sovraeccitati, teledipendenti, senza né un luogo né un

17 F. Ramondino, L’immondizia del mondo, “il manifesto”, 27 maggio 2008.

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modo dove esercitare positivamente le proprie energie creative, nello studio o nel gioco.18

Intanto da Napoli la scrittrice sta già guardando oltre. Dopo il crollo del Muro di Berlino succedono cose nel mondo che ha la necessità di capire. Con i viaggi e con lo studio mantiene la sua rete di contatti e di interessi, nonostante a un certo punto, negli anni Novanta, decida di lasciare Napoli e ritirarsi nel “rifugio” di Itri, sempre comunque aperto agli amici. La sua visione del mondo resta basata sulla condivisione, sulla capacità quasi leopardiana di non ritrarsi di fronte al dolore, proprio e altrui, come risulta evidente in un testo oggi di bruciante attualità, in cui Ramondino esprime non solo la sua posizione radicale contro la guerra ma, nello specifico, una forte preoccupazione per la diffusa, avanzante sfiducia nell’universalità dei diritti umani. La spaventano quelle posizioni nichiliste ormai “diffuse in larghi strati della popolazione dei paesi occidentali e in molti intellettuali”. Si tratta dell’introduzione a Sarajevo oltre lo specchio, di Merima Hamulic Trbojevic19, in cui Ramondino analizza il conflitto nella ex Jugoslavia. “Esiste una precisa responsabilità di aver anteposto interessi di ‘patria’ o di ‘Europa’ a quelli verso ‘il genere umano’”. E alla luce 18 F. Ramondino, A.F. Müller, Napoli Berlino. Una corrispondenza, in “Lo straniero”, n. 3, 1998. 19 M.H. Trbojevic, Sarajevo oltre lo specchio, Sensibili alle foglie, Roma 1995.

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della recentissima storia europea anche stavolta le parole della scrittrice napoletana appaiono profetiche, estremamente attuali, per esempio nella condanna assoluta del concetto deviante di “guerra buona”. Semmai le guerre “buone”, quelle “dalla parte giusta”, per la democrazia, la libertà e l’indipendenza dei popoli, l’affermazione dell’universalità dei diritti umani, sono state considerate in passato come l’unico modo per difendersi contro coloro che aggredivano quei valori e per affermarli dove non esistevano, oggi sono fuori tempo anche le guerre “buone”. Perché esistono un mercato mondiale, mezzi di comunicazione planetari, armi troppo diffuse e micidiali, altri mezzi di dissuasione dalla guerra, e soprattutto perché non solo le guerre “buone”, ma anche la nostra pace “cattiva” minacciano ogni possibilità di vita sul nostro pianeta.20

Questa stessa posizione radicale e pacifista, del resto, era stata esplicitata dalla scrittrice già in occasione della candidatura alle elezioni europee del 1984, come indipendente nelle fila del Pci. Il testo inedito che presentiamo nel volume è un lucido e accorato “manifesto” del suo programma, in cui Ramondino ribadisce la centralità del problema della pace, ma anche dell’immigrazione. E rifiuta decisamente le politiche assistenziali nei confronti del Terzo Mondo così come nel nostro Sud. 20 F. Ramondino, Prefazione, in M.H. Trbojevic, Sarajevo oltre lo specchio, cit., pp. 9-10.

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Nel corso degli anni Novanta e i primi del 2000, in cui Ramondino pubblica, tra l’altro, la raccolta di prose In viaggio e il memoir L’isola riflessa, la sua passione civile prende corpo attraverso diversi filoni e si esplicita in una intensa attività pubblicistica su quotidiani e periodici, ma anche in esperienze personali poi tradotte in libri, come quelle al centro di salute mentale di Trieste – da cui Passaggio a Trieste – e nel viaggio tra i sahrawi – Polisario. Un’astronave dimenticata nel deserto: entrambi i volumi escono nel 2000. Nel racconto del soggiorno nel centro di salute mentale di Trieste, su invito di Assunta Signorelli, Ramondino mescola ancora una volta la riflessione su temi esistenziali e personali con quella dei diritti dei più fragili, in questo caso le donne che incontra e conosce in quei giorni, simbolo di una condizione umana più generale. Con questo libro ho voluto attraversare la mia follia, quella delle donne del Centro e soprattutto quella più generale del mondo... Se ci sono riuscita, lo diranno i lettori, il mio è stato un tentativo umile perché comunque davanti al segreto della vita e quindi della follia, davanti all’“indicibile” ci si avvicina, ci si ruota attorno, ma afferrarlo del tutto è impossibile. Non a caso chiudo Passaggio a Trieste con l’immagine del Minotauro, questo essere mostruoso e irriducibile alla ragione chiuso nei passaggi intricati del suo labirinto. Per sfuggirgli, per sconfiggerlo, Teseo deve seguire il filo di Arianna, un fragile legame d’amore.21 21 F. Ramondino, Quelle donne perse nella follia, intervista rilasciata a L. Sica, “la Repubblica”, 14 febbraio 2000.

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Un capitolo importante nell’impegno civile di Ramondino si apre con il viaggio intrapreso su invito di Mario Martone per realizzare un documentario dedicato ai sahrawi, popolo del deserto che subisce l’esilio da parte del regime marocchino. Con il regista napoletano Fabrizia Ramondino ha già lavorato alla sceneggiatura del film Morte di un matematico napoletano e lavorerà ancora per l’episodio “La salita” nella pellicola I vesuviani (1997). All’epoca del film su Caccioppoli Fabrizia è stata riluttante a lasciarsi coinvolgere, almeno al principio. Dopo aver incassato da lei un primo rifiuto, Martone non si è arreso e alla fine è riuscito a coinvolgerla nel progetto sul matematico, personaggio che peraltro fa parte delle memorie familiari di Ramondino come amico del ramo materno. Qualche anno dopo, di fronte al nuovo invito di Martone, la scrittrice è indecisa, non sa se partire, viene fuori da un periodo di forte depressione ed è come in altri momenti della sua vita in lotta con la tentazione dell’alcolismo. Infine accetta di andare nel Sahara e tenere un “diario di bordo”, prima di tutto per sfuggire ai suoi personali fantasmi. La militanza tra i sahrawi la riporta indietro, agli anni dell’Arn. Anche nel deserto chiede ai bambini di disegnare, raccoglie e conserva i loro lavori, le donne accettano i suoi doni utili e non pomposi, come un set di forbici per realizzare lavori di cucito. A volte si allontana dal gruppo impegnato nelle riprese e si attarda in una tenda lontana, in mezzo alle famiglie più sofferenti, tra cui vivono persone con pro28

blemi psichici. Il rapporto con i sahrawi è simile a quello che ha avuto con i disoccupati. Resta in lei lo stesso imbarazzo rispetto ai poveri, ai meno abbienti, e la stessa naturale predisposizione ad ascoltare, a fiancheggiare, non semplicemente a dare aiuto ma piuttosto a “fare insieme”. L’impegno per il popolo sahrawi continua anche negli anni a venire, con incontri, collaborazione con associazioni e ospitalità offerta per i periodi estivi ai bambini del deserto. Fabrizia Ramondino cura un progetto proposto dall’amico di lunga data, fotografo e attivista Patrizio Esposito. Si tratta di “custodire” il libro Necessità dei volti, in cui i sahrawi raccolgono le fotografie trovate addosso ai soldati marocchini caduti. Un gesto di partecipazione al dolore del “nemico” che diventa atto politico radicale che testimonia, con la sofferenza per “l’eccidio e la diaspora del popolo costretto da quasi trent’anni a vivere in tendopoli in uno dei luoghi più inclementi del Sahara algerino”22, la capacità di narrare la propria tragedia attraverso la tragedia altrui, di assumere insomma un altro sguardo. Fabrizia accetta con convinzione il ruolo di “affidataria” del volume insieme ad altri intellettuali e artisti internazionali, tra cui lo scrittore premio Nobel José Saramago, che la stessa scrittrice napoletana incontra a Pontedera nel marzo del 2004 e intervista per “Il

22 F. Ramondino, Sahrawi, un esilio da non dimenticare, in “il manifesto”, 27 marzo 2004.

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Mattino”23 e per “il manifesto”. In altre occasioni è lei stessa a raccontare sui giornali quello che ha visto in Africa.24 In un’articolata conversazione con Patrizio Esposito sui sahrawi e sulla Necessità dei volti 25, torna il discorso sulla guerra, già affrontato a proposito di Sarajevo, e che sarà ancora oggetto di riflessione in diversi articoli che rientrano nell’intensa collaborazione di Fabrizia Ramondino con “Il Mattino” negli anni Duemila. Nel dialogo con Esposito, la scrittrice inquadra il problema della guerra nel Sahara occidentale in un più ampio orizzonte culturale e antropologico e come sempre accade nelle sue riflessioni teoriche allarga lo sguardo dal particolare all’universale, attraverso connessioni e intuizioni. In questo caso, ad esempio, Ramondino ricorre al mondo classico. Il profugo per eccellenza della tradizione occidentale è Ulisse, che non voleva partire per la guerra e si finse pazzo, e dopo essere stato costretto a combattere, non riusciva a tornare a casa e infine a farsi riconoscere, una volta arrivato a Itaca. “Fra questa partenza non desiderata per la guerra e questo ultimo riconoscimento nel segno agreste della pace c’è 23

F. Ramondino, Elogio del dubbio. Incontro con il Nobel José Saramago che ha ricevuto la cittadinanza onoraria a Pontedera, in “Il Mattino”, 22 marzo 2004. 24 F. Ramondino, Saharawi, il mio incontro con gli uomini dimenticati, intervista rilasciata a V. Parboni, in “l’Unità”, 17 maggio 1997. 25 F. Ramondino e P. Esposito, nella rivista del Teatro di Roma “La porta aperta”, n. 6, luglio/agosto 2000 (poi in “Alias”, 10 luglio 2004).

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l’indicibile, la guerra, indicibile al punto che quando la si dice, come nell’Iliade, non ne è protagonista la guerra stessa, ma la sventura che accomuna vincitori e vinti”26. E nell’articolo pubblicato sul “Mattino” l’8 febbraio 2003, alla vigilia della guerra in Iraq, Ramondino esprime di nuovo, con grande forza, la sua posizione pacifista, consapevole appunto della “sventura” che mette insieme tutte le parti in causa durante un conflitto, e propone l’idea di “pace preventiva” con cui sostituire la stortura della “guerra preventiva”27. La riflessione sul tempo presente si alimenta con la lezione dei grandi pensatori del Novecento, come Hannah Arendt, a cui Ramondino si richiama in un altro articolo, nel quale conclude: “Il nostro gioco su questa terra si svolge entro limiti ben precisi: il diritto di tutti gli uomini alla cittadinanza, l’etica della responsabilità individuale, la consapevolezza che non solo gli uomini, ma anche la natura, sono ‘creatura dei’ – il che non implica l’adesione a una qualche chiesa”28. Al tempo stesso è sempre il contatto con l’altro, l’interesse per chi è esposto alla miseria, per chi stenta a trovare un posto nel mondo che animano l’attività intellettuale della scrittrice. Come nel caso della storia della volontaria Miriam H. e delle immigrate turche a cui la donna insegna il tedesco.29 26 27

Ibid. F. Ramondino, La forza del dubbio, in “Il Mattino”, 8 febbraio

2003. 28 F. Ramondino, Totalitarismi. La profezia di Arendt, in “Il Mattino”, 25 maggio 2003. 29 F. Ramondino, Pin-up sotto il velo. Storia di Miriam, che a Berlino insegna il tedesco alle donne emigrate dalla Turchia, in “Il Mattino”, 14 gennaio 2004.

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Agli anni Novanta risalgono gli scritti teatrali. Nel ’94 viene messo in scena e pubblicato Terremoto con madre e figlia, ma Fabrizia Ramondino scrive altri otto testi, solo ora in corso di pubblicazione a cura del Teatro Nazionale di Napoli. Il primo edito è Villino bifamiliare, con postfazione di Arturo Cirillo (Marotta & Cafiero, 2022), che ha curato la regia e interpretato la prima rappresentazione al Teatro San Ferdinando di Napoli. Cirillo ha conosciuto l’autrice fin dall’infanzia. I suoi genitori Carlo e Daria Cirillo erano tra gli amici più stretti della Ramondino; la loro vita è stata segnata da periodi di convivenza in una sorta di “comune” e dalle vacanze estive nel “Casone” in costiera amalfitana. Proprio al regista è indirizzata la Lettera ad Arturo, commossa e intensa, scritta dalla Ramondino in occasione del suicidio di Carlo e poi pubblicata sullo “Straniero”. Un atto privato che diventa pubblico, la vita intima che si mescola con la Storia, come spesso accade nel percorso di Fabrizia. Anche il filone teatrale intreccia temi personali e politici. In Villino bifamiliare i due protagonisti maschili sono un ex dirigente della Germania dell’Est e un ex dirigente di un partito cattolico italiano, due uomini che hanno avuto potere e creduto in ideologie, ma sembrano aver perso tutto, reclusi come sono in un villino sperduto, con le due mogli, in un certo senso le vere protagoniste della storia. I due personaggi maschili, a tratti ironici e a tratti disperati, sembrano alludere alle figure di Honecker e Andreotti e dialogano in versi liberi, senza punteggiatura, in una 32

vertigine di rimandi, citazioni, riferimenti. Ritornano il tema dell’esilio e gli elementi di un mondo culturale e ideologico di cui Ramondino avverte ormai il fallimento o meglio lo smarrimento. Quelle idee che hanno animato le sue battaglie hanno spesso preso percorsi diversi e tortuosi rispetto a quanto lei stessa aveva immaginato. Ma alla base di tutte le sue esperienze intellettuali resta l’elaborazione di un personale metodo di ricerca, che parte dal basso, dall’osservazione partecipante, e si serve poi della forza proveniente da una profonda cultura per mettere in connessione tra loro elementi apparentemente distanti. Anche nei momenti più difficili della sua esistenza e del tempo in cui vive, Fabrizia porta in dote la fulminea acutezza dello sguardo. Una sorta di bilancio delle esperienze giovanili è quello, dal tono vagamente nostalgico, che la scrittrice traccia nel volume di fotografie di Vera Maone sull’acciaieria in dismissione.30 Ramondino ricorda l’esperienza dell’estate del ’69, quando con altri compagni e studenti prese in affitto un locale al piano terra a Bagnoli “per stabilire un collegamento con gli operai”. Come in altre occasioni, Ramondino era pronta all’ascolto. Dopo tanti anni e cambiamenti epocali, non sa se loro, da studenti, furono davvero utili agli operai, ma sicuramente avvenne il contrario, ovvero gli operai mostrarono loro come “vivere con maggiore consapevolezza” e come dietro ogni oggetto o manufatto ci 30 V. Maone, Bagnoli. Lo smantellamento dell’Italsider, con testi di R. Rossanda e F. Ramondino, Mazzotta, Milano 2001.

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fosse il lavoro di qualcuno. Dietro gli “abiti gessati della new economy” c’è ancora la fatica del popolo, osserva la scrittrice. Fabrizia Ramondino resta fedele a se stessa, alla sua visione del mondo, alla sua tensione etica e alla profonda capacità empatica verso l’altro, il debole, l’oppresso. E resta valida la sua giovanile intuizione, venuta dopo l’esperienza dello smarrimento psicologico: “Dopo aver sperimentato la scissione della mia personalità, che i medici moderni, quando raggiunge un certo grado – quando cioè si è folgorati – chiamano schizofrenia, ho compreso la maggiore scissione della comunità umana: quella tra chi possedeva abbondanza di beni, potere, sapere e tra chi ne era privo”31.

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F. Ramondino, In viaggio, Einaudi, Torino 1995, p. 23.

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IN ALTHÉNOPIS CI SONO TUTTE LE MIE ESPERIENZE (da “Lettere /2”, luglio 1981)

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abrizia Ramondino ci ha raccontato: 1. Per molti amici il fatto che io ho scritto Althénopis (Einaudi, 1981) è stata una sorpresa. A Napoli ero conosciuta, soprattutto negli anni ’60 e ’70, come una militante politica. Ma in realtà io ho sempre scritto, fin dall’adolescenza. Ho sempre avuto una forte passione per la letteratura: dai 12 ai 14 anni sono vissuta in Francia, in Savoia. Vicino a noi abitava in una torre una vecchia signora che campava di cucito e aveva una grande biblioteca: lei mi ha fatto leggere, liberamente, tutto quello che aveva; e così a quell’età ho letto i classici francesi dell’800, i russi, naturalmente senza capirne la maggior parte. Inoltre, la Francia è stata per me la scoperta di una libertà molto maggiore di quanto non avessi sperimentato prima, in famiglia, nel sesso, e la libertà di cui avevo goduto nella piazza di S. Maria del Mare (vicino a Sorrento) era legata all’età dell’infanzia, ed era già finita con l’adolescenza. Mi ricordo che la conquista della libertà è stata emblematicamente rappresentata dalla conquista della bicicletta. Mio fratello aveva avuto la bicicletta perché 35

era maschio, pur essendo minore di me. Allora mi sono nascosta dietro un cespuglio e gliel’ho strappata; così poi ne hanno regalata una anche a me, e con quella andavo con un gruppo di amici ai laghi, in montagna. In Francia ho acquisito un’idea di libertà rispetto a ciò che poteva essere la mia vita: cose che poi diventarono il rifiuto del matrimonio, il rifiuto del far soldi. Ma sono dovuta passare per profonde rotture. 2. Dal ’59 al ’61 sono stata sposata: quando ci siamo lasciati, una delle ragioni di fondo è stata che io non avevo il senso della famiglia chiusa, mentre mio marito desiderava l’intimità della famiglia, il realizzarsi come nucleo. Io invece volevo impegnarmi in attività sociali. Questo l’ho capito attraverso una lunga depressione, da cui sono uscita – da sola attraverso la scoperta di Napoli. È andata così. Una cameriera di mia madre, della mia età, madre di tanti bambini, vedendomi stare così mi disse: «perché non vieni ad aiutare i miei figli che vanno tanto male a scuola?». Andai a casa sua in un vicolo a fare lezioni private ai suoi bambini; fu subito una cosa più larga, perché venivano i loro amici, e a poco a poco divenne un grosso doposcuola per bambini delle elementari e la scuola serale per analfabeti. Cominciammo a prendere contatti: ricordo che venne a visitarci Tristano Codignola, che stava mettendo a punto il progetto di riforma della scuola media. In seguito entrarono altre persone, e divenne l’As36

sociazione Risveglio Napoli (ARN) con una sede nel centro storico, dove facevamo l’asilo antiautoritario. Andavamo a studiare i metodi del centro italo-svizzero di Rimini, della «scuola e città» Pestalozzi, e anche della scuola steineriana di Milano. Il metodo a cui facevamo riferimento era soprattutto quello di Freinet (l’esperienza che aveva fatto nel ’36 in Francia). Avevamo anche una scuola serale per adulti, per la preparazione della licenza media. Cominciammo a fare una serie di iniziative che chiamavamo di «sviluppo comunità». 3. Nel ’66-67 nell’ARN avvenne una grossa rottura. Venivano ad aiutarci una cinquantina di giovani dell’università – era il periodo in cui stava cominciando la ribellione degli studenti – e naturalmente volevano portare delle grosse innovazioni. Uno degli scontri con i vecchi dell’associazione (che erano poi quelli che avevano il potere – perché i pochi finanziamenti che avevamo, attraverso il PSI, li gestivano soprattutto loro) riguardò proprio il problema di cosa fare nel quartiere. Noi volevamo organizzare la lotta per la casa e per il lavoro, già allora. Gli altri non volevano: per loro bastava la scuola, e una inchiesta sociologica per raccogliere i dati. Vinsero i vecchi, e io, che mi misi dalla parte dei giovani, decisi di troncare l’esperienza. Contemporaneamente, avevo avuto la bambina. Avevo necessità di guadagnare (all’ARN era un lavoro volontario); andai a insegnare alla scuola di stato, a 37

Torre Annunziata. Fu un terribile shock. Era il periodo in cui leggevo della rivoluzione culturale sui giornali, e che in Cina si chiudevano tutte le scuole; a me veniva una grande voglia di abbattere muri della mia. La scuola media, allora, era un’esperienza allucinante, di prigione. Fino al ’66 avevo sempre scritto. Scrivevo soprattutto poesie, allora, ma senza pensare di pubblicarle, mi pareva quasi un peccato. Erano in parte tipo «lirico» e in parte di carattere «sociale», su Napoli, ecc. 4. Dal ’68 ho fatto tutta l’esperienza radicale di quegli anni. Nel ’69 abbiamo fondato un gruppo politico in cui abbiamo sperimentato delle strettissime relazioni interpersonali. Anche dopo la rottura del gruppo, è rimasto un forte legame di amicizia tra tutte le persone che ne avevano fatto parte. Per me è stato un po’ ritrovare la comunità della piazza di S. Maria di cui parlo nella prima parte di Althénopis, e anche i compagni che al momento di decidere se entrare o meno nella organizzazione nazionale optarono poi per il sì (mentre io uscivo) hanno in seguito sempre rimpianto quella dimensione, che nella organizzazione nazionale non c’era. Oggi dovessi spiegarmi cosa rendeva tali quei nostri rapporti, direi che prima di tutto era un’esperienza dal basso, dove non c’era l’idea del potere. Avevamo semmai l’idea che tutti quanti insieme dovevamo, per così dire, «salvarci». Poi, le differenze di classe al nostro interno erano molto ridotte, e sem38

mai c’era una grossa solidarietà spontanea nel fatto di volerle ridurre al massimo. Per cui, per esempio, se si andava a mangiar fuori, chi aveva più soldi pagava per chi ne aveva meno, chi aveva la casa più grande ospitava chi non aveva casa, senza che fosse teorizzato, succedeva spontaneamente. C’è da dire poi che gli intellettuali erano abbastanza poveri. Per due ragioni: perché lo erano, e perché non facevano niente per arricchirsi. Se io nel tempo libero dall’insegnamento avessi voluto dare lezioni private, certo avrei avuto più soldi. Ma il tempo libero era dedicato all’attività politica. Tutto questo è durato dal ’69 al ’73. Se allora avessi detto che scrivevo delle poesie, la cosa sarebbe stata presa malissimo. Tant’è vero che nel nostro gruppo successe questo episodio. Un compagno giovane, uno studente tecnico, che avevamo conosciuto in una scuola occupata, era entrato nel gruppo, ma poi, a un certo punto, mandò una lettera per dare le dimissioni: diceva che preferiva leggere Stendhal. Un compagno «dirigente» lo convocò e gli disse che nemmeno Lukács avrebbe potuto permettersi di lasciare il partito per la letteratura… 5. La crisi del nostro gruppo ci fu dopo il colera. Si sentiva il bisogno di rispondere a esigenze maggiori, ed essendo cresciuti come organizzazione, bisognava prendere una decisione: se rimanere a questo livello relativamente informale (ma dando importanza all’au39

tonomia dei singoli compagni e dei singoli organismi di massa), oppure, invece, passare alla grande politica. Si sarebbe dovuto fare un lavoro di revisione molto grosso all’interno del gruppo, ma questo lavoro non ci fu; per molti ci fu invece la scorciatoia di scegliere la grande politica; e chi non fece quella scelta è stato poi completamente abbandonato a se stesso. (Per me, tanto dal punto di vista del riferimento intellettuale quanto da quello della vita privata, è stato utile l’incontro con quei pochi compagni che volevano proseguire nel ragionamento sulla realtà e nella revisione politica.) Poi c’è stata l’inchiesta col movimento dei disoccupati organizzati. Questa inchiesta non aveva nessun fine di «intervenire sui disoccupati», ma soltanto di capire questa realtà, e di trarne tutti i possibili insegnamenti. Avevo sempre pensato che bisognasse partire dal proletariato precario, dai disoccupati, dagli strati più poveri della popolazione, e non soltanto dalla mitica classe operaia di Torino. E ora, vedere che i disoccupati si organizzavano da soli – non del tutto ma in gran parte – e che c’era questo enorme movimento… Con i bambini dell’ARN era stato un ritrovare la mia infanzia: non solo mia, ma l’infanzia con tutto il rapporto che ha con la realtà (una parte di me che – per un certo intellettualismo – avevo abolito e negato). Con i disoccupati, avevo ritrovato i bambini dell’ARN, finalmente adulti… E mentre prima quella esperienza era una goccia nel mare, dopo, vedere un’intera città, 40

con tanti comitati, che lottava perché migliorasse tutto è stata una cosa… che non si può raccontare. 6. Qui però devo fare una precisazione. In tutte queste esperienze, sia politiche che private, anche quando è stato così forte il senso della comunità, come fra i disoccupati, io ho sempre avuto l’impressione – non so come e quando sia cominciata – che una unità indistinta si rompeva e che io ero «diversa». C’è una dialettica tra il partecipare ad una relazione sociale con gli altri, e – nello stesso tempo – il bisogno di staccarsene. Già questa attività dello scrivere è un momento di separazione: è un processo doloroso dello sviluppo mentale, è come se dovessi continuamente recidere dei cordoni ombelicali. Da una parte io la vivo come una conquista, dall’altra, però, come una perdita, nel senso che va a scapito della comunicazione diretta (quando scrivevo Althénopis, finché non l’ho finito ho mantenuto il segreto con tutti gli amici). Poi nella mia radicalità non ho mai voluto trascinare le situazioni: se una cosa era esaurita non avevo scrupolo a staccarmene. Ma qui viene il grosso problema (che ha investito tutte le esperienze politiche a partite dal ’74-75, e che poi si è sempre accelerato): quello del rapporto con la «lotta armata». Fin dall’inizio non si era d’accordo, ma il problema si ripresentava sempre: coi disoccupati, nella scuola, coi vari comitati. Era un veleno che ci portavamo dietro nel nostro processo. Lo avevamo capito 41

da subito, ma poi, più si andava avanti, più le nostre previsioni si rivelavano vere in modo tragico e grottesco, e i piccoli errori si ingigantivano. Oggi dobbiamo ricominciare da capo, ripartire con un processo di riflessione, che magari durerà molti anni. Anche perché siamo ancora troppo dentro questi problemi, siamo ancora incarogniti, e ci vuole più distacco per potere riflettere spassionatamente. Intanto, abbiamo cominciato a renderci conto che la realtà è molto più complessa di quanto avevamo pensato… ma il rifiuto verso certi ambienti è rimasto. 7. Ho cominciato a scrivere Althénopis nell’inverno del ’77. È difficile spiegare come è nato da un punto di vista razionale. Potrei dire che è nato da due sogni. Uno molto divertente. Era un periodo che ero malata e non andavo a scuola. Ho sognato che andavo in una chiesa dove c’erano delle mie zie e chiedevo loro se la nonna era lì. Mi rispondevano: «la nonna non è qui con noi; siccome sei malata, è andata a supplirti a scuola». Allora io, molto preoccupata di essere supplita dalla nonna, correvo a scuola e la trovavo – come compare nel primo capitolo del libro, quando va a votare, vestita di nero, con la fascia di velluto al collo, col bastone – che teneva banco con i capi autonomi e che se la cavava benissimo. L’altro sogno è più semplice: la nonna mi diceva: «vorrei scrivere tante storie, perché adesso non le scrivi tu?». Per questo ho cominciato col capitolo sulla nonna. 42

Inoltre, dal ’76 andavamo a villeggiare in una casa vicino a Positano, un posto molto simile a quello della mia infanzia. Quei luoghi mi hanno aiutato a riviverla. Certamente mi ha aiutato anche il movimento femminista. Non tanto rispetto al libro, che non è sulla questione femminile, nonostante descriva una famiglia matriarcale; ma rispetto a me e alla mia vita. Prima ti sentivi quasi una pazza a pensare certe cose, mentre poi ho avuto la conferma che i miei problemi non dovevano essere collocati soltanto in una dimensione di nevrosi (che certo c’è, ma non c’è solo quella): erano problemi di tutte noi. Ciò ti dà molto aiuto, molta forza. Questo libro è un po’ la sintesi delle mie esperienze; non soltanto con la letteratura, ma anche con i bambini dell’ARN, coi compagni del gruppo e dei disoccupati organizzati, trasposti nei rapporti coi bambini della piazza di S. Maria del Mare, negli anni della guerra e dei dopoguerra. Quella della piazza è stata una esperienza comunitaria straordinaria, difficilmente immaginabile altrove, e al di fuori di quei tempi calamitosi; con in più l’esenzione dai limiti della propria classe (che in fondo per me significava il non potersi identificare con nessuna classe, né coi bambini della piazza, né con quelli delle ville). Ci ho messo anche delle riflessioni di analisi sociale. Non penso solo alle descrizioni della vita, dei riti, dei mobili, all’interno di quel tipo di famiglie, ma anche al fatto di come – pur essendo diversi tra loro – i compo43

nenti della mia famiglia esprimono tutti una stessa realtà: il non poter uscire dalla loro classe. A un certo punto, ad esempio, ho trasposto pari pari una fase che Leopardi usa in un altro contesto. Leopardi dice che nel ’700 tutti amavano i selvaggi, nell’800 tutti dicevano che i selvaggi erano inferiori; tanto gli uni che gli altri sfruttavano i selvaggi. Io dico qualcosa del genere a proposito delle zie: qualcuna difende i contadini e le classi basse («poverini, come stanno male, bisogna aiutarli»), qualcun’altra invece depreca le insolenti pretese del popolo (soprattutto la zia pugliese che ha visto l’occupazione delle terre), ma poi alla fine mangiano tutte la frutta tranquillamente… 8. Queste riflessioni mi venivano dall’essere stata sempre in quella situazione di mezzo, che mi ha aiutato ad avere un quadro dell’intera società (mentre per i disoccupati, ad esempio, era diverso: nella introduzione all’inchiesta dicevo che i disoccupati avevano dovuto crearsi un quadro della società napoletana per individuare quale era il potere…). Ma questa dimensione dell’essere in mezzo si esprime anche nella tematica delle differenze, che attraversa tutto il libro. C’è prima di tutto la differenza fra nord e sud (a livello teorico ho sempre negato che il sud sia arretrato e che debba salire tanti gradini per raggiungere il nord: ho sempre considerato il sud l’altra faccia dello sviluppo). Nel libro presento questo problema con la zia che 44

va al nord, io stessa che parto per il nord, dove il nord è rappresentato dall’obbligo di guadagnare ed amare, nel senso di diventare adulti. È Freud che dice che l’adulto è colui che ha imparato a lavorare e ad amare; ma per noi lavorare voleva dire «far soldi» e amare voleva dire avere rapporti sessuali disinibiti, secondo quella che era la moda degli anni ’60 e ’70 (che poi abbiamo visto che nascondeva una falsa libertà sessuale, un consumismo, il considerare l’altro come oggetto di consumo e non come persona). La mentalità del nord è rappresentata fondamentalmente dal cugino Achille; vaccinato dalla politica, dalla miseria della prigionia, decide che l’unica cosa in cui bisogna credere è far soldi. E poi ci sono i limiti di questa esperienza. Ad esempio, il padre del cugino Achille, il piemontese, che nell’impatto col sud fallisce, e che viene capito dalla mia famiglia solo quando fallisce. Una seconda differenza è quella tra rendita e capitale, dove le donne sono fondamentalmente legate alla rendita, mentre gli uomini sono legati al capitale; vengono accettati dalla comunità delle donne – che rappresenta questa più larga comunità di vinti del sud – solo nel momento in cui falliscono; mentre quando hanno successo vengono trattati con degnazione e disprezzo. Una terza differenza è quella tra due tipi di campagna. Nella penisola sorrentina c’era la piccola proprietà della terra, e c’erano i contadini poveri. Quando negli anni ’50 vissi nella campagna vesuviana mi colpì, invece, lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura, le mac45

chine, i grossi mercati; e soprattutto i braccianti, queste masse di operai. Io ero estranea a loro; però ogni mattina entravo anch’io nel treno degli studenti, e vivevo una dimensione collettiva… 9. Un’altra cosa che ho cercato di rendere, in tutto il capitolo sullo zio Alceste, è la problematica dell’intellettuale meridionale che, per tutta una serie di limiti culturali della sua società, non riesce ad acquistare una dimensione nazionale o europea alla quale aspirerebbe. Lo zio Alceste è una figura eccentrica: è tagliato fuori anche volontariamente (perché l’alternativa sarebbe stata aderire al crocianesimo dilagante, eccetera); credo che rappresenti bene il rischio che corrono questi intellettuali raffinati napoletani, di chiudersi in una dimensione irreale. Lo zio Alceste è fuori dal tempo, perché non trova una mediazione col proprio tempo. E se io sono riuscita a comunicare con l’esterno, credo che ciò sia dovuto a una serie di circostanze. Per molti anni non ho vissuto nella realtà meridionale (sono stata in Francia, in Germania, a Milano, a Roma): ciò mi ha dato, anche geograficamente, altri punti di riferimento. Inoltre, in certi periodi della mia vita ho avuto degli incontri molto stimolanti con persone del nord, o di Roma, come me vicine al basso, che facevano una esperienza nel sud, e che però vivevano all’interno di una cultura politica più generale; tutto questo mi ha fornito una serie di strumenti di riferimento che mi mancavano, mi ha aiu46

tato a sistemare delle idee che avevo già… perché è vero che tu gli incontri te li cerchi… 10. In questi giorni molti compagni mi dicono che sentono Althénopis come una cosa loro. Credo che vi siano ragioni diverse in questo atteggiamento. Il motivo più profondo è che tutti sentono un bisogno di realizzazione, nel senso di creatività, che in tante cose fatte in passato non hanno avuto, e se una persona vicina a loro, che aveva fatto la loro esperienza, c’è riuscita, è un po’ come se lo avessero fatto anche loro. Un compagno mi ha detto: «allora non era tutto schifo in questo movimento». Ci sono poi compagni che non hanno letto il libro, oppure ne hanno letto due pagine («ma non fa niente») e gli fanno propaganda. Sono contenti soprattutto rispetto alla Napoli ufficiale: è un prodotto che arriva anche alto, che però viene dal loro mondo, e non da quel mondo ufficiale napoletano contro cui loro hanno sempre lottato. Per quelli che l’hanno letto è un altro discorso: tutti mi dicono che anche loro tenevano uno zio così… Poi c’è altra gente; per esempio, un disoccupato organizzato, che ha avuto il lavoro con la lotta del ’76, e che due anni fa lesse il primo libro della sua vita, La certosa di Parma (gliel’aveva regalata un compagno). Oggi dice che il mio è il primo libro che si è comprato: si è identificato nel fatto di leggere un libro di letteratura, che invece di essere scritto da un signore dell’al47

tro secolo – che chissà chi è, di dove è – è scritto da una persona in carne e ossa che conosce, e che è vicina a lui. Un altro motivo è che, attraverso questo libro, quei compagni riscoprono l’idea – maturata in loro come esperienza critica – che il «socialismo» (o chiamiamolo come vogliamo) non deve essere un appiattimento, e che si deve riprendere quello che in fondo pensavamo originariamente un po’ tutti: che ci deve essere una valorizzazione dell’individuo; non a scapito degli altri, però, come avviene nella società borghese. Questo si collega a un altro motivo. Qui eravamo tutti senza storia personale; e adesso si è capito che non era vero. Tu contavi – come compagno – rispetto a quello che eri capace di organizzare, alle cose che dicevi in riunione, in assemblea, ecc. Poi, se eri fidanzato, se avevi la nevrosi, se tenevi il fegato malato, se a casa dovevi fare i salti mortali per mangiare o invece avevi una grossa famiglia borghese, eccetera, tutto questo non contava. C’era un appiattimento anche rispetto all’età. Io, in fondo, nel ’68 avevo 32 anni.

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I DISOCCUPATI ORGANIZZATI RACCONTANO (Feltrinelli, Milano 1977)

I.

1. Questo libro parla non solo del movimento e della lotta dei disoccupati organizzati ma anche delle condizioni di vita generali del proletariato precario napoletano. Il proletariato precario a Napoli rappresenta numericamente la parte più consistente del proletariato. Nella nostra città le condizioni di vita del proletariato precario si intrecciano alle condizioni di vita del proletariato delle grandi fabbriche, dove su ogni salario gravano più persone che al nord e dove ogni operaio della grande fabbrica può contare tra i membri della sua famiglia lavoratori precari o disoccupati. D’altra parte, se la condizione dell’operaio della grande fabbrica sfiora nelle fasce più basse di salario il livello di vita del proletariato precario, le condizioni del proletariato precario toccano nella fascia più bassa la sfera del pauperismo, fino a raggiungere quella del sottoproletariato vero e proprio, formato da vagabondi, delinquenti, prostitute. Ma il fatto centrale che non bisogna mai dimenticare a Napoli, in un’analisi delle classi, è che la maggior parte della sovrappopolazione relativa è costituita da lavoratori produttivi, in49

seriti in particolari rami e forme di sfruttamento, “Contiamo nelle nostre file”, scrive un disoccupato, “diplomati, metallurgici, artigiani del legno e del ferro, operai delle calzature, sarti, manovali comuni, noi reduci di tutti i mestieri dai più umili a quelli di concetto”. L’immagine infatti di Napoli come città terziaria è in larga misura falsa. La maggior parte dei lavoratori produttivi sfuggono ad ogni accertamento legale, non sono dichiarati, perché fanno lavoro nero nelle fabbriche, nei fondaci, nei cantieri o a domicilio, privi di qualsiasi contratto. I rami principali di sfruttamento sono i settori delle confezioni e dell’abbigliamento, il settore conserviero, l’edilizia, ma anche quello metallurgico. Spesso la stessa produzione non risulta censita a Napoli perché queste industrie locali producono per ditte o grossi monopoli di altre città e del Nord. L’enorme massa, presente al Sud in generale, nel nostro caso a Napoli, di sovrappopolazione relativa consente queste particolari forme di sfruttamento. Ad ogni inasprirsi delle leggi della concorrenza sul mercato, come ad esempio è avvenuto negli ultimi anni nel settore delle pelli e dei cuoi, guanti e scarpe in particolare, e ad ogni tentativo di riscossa dei lavoratori gli industriali rispondono con una ristrutturazione che vede da una parte la concentrazione in grandi aziende capitalistiche, dall’altra il decentramento produttivo, che assume due forme: la grande fabbrica si scompone in tanti reparti dislocati in vari punti del territorio, 50

ognuno per una fase o un tipo di lavorazione: appena i lavoratori di una fabbrica danno segno di volersi organizzare, ecco che la fabbrica stessa minaccia di chiudere, chiude o addirittura scompare, scompaiono dalla sera alla mattina macchine, materie prime e merci; è la storia delle fabbriche che «vanno fuggendo» che racconta in uno degli ultimi capitoli di questo libro un disoccupato del Comitato Materdei. La stessa situazione si verifica in altri settori produttivi, gli appalti delle grandi fabbriche, l’edilizia, l’industria conserviera, la metallurgia. Ad aggravare questa situazione contribuisce la «catena di S. Antonio» del sottoappalto tra proletari: il lavoratore del porto ad esempio che dà cinquemila lire al «medaglione», cioè al suo sostituto, per fare un lavoro; l’operaio che dà i calzoni a domicilio alle donne. I.2. Tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, il sindacato ha organizzato molte lotte di settore in questi rami dello sfruttamento. Le cronache di quegli anni testimoniano giornalmente di queste lotte. L’obiettivo principale era la lotta contro il sottosalario e per condizioni contrattuali eguali a quelle del nord. Questo grande movimento di riscossa sociale veniva interpretato all’interno dell’ideologia dello «sviluppo». In quegli anni, infatti, gli anni del «miracolo» economico italiano, si pensava che il Sud potesse avviarsi a un grado di sviluppo simile a quello del Nord; si pensava anche evidentemente che l’Italia 51

nel suo complesso potesse raggiungere livelli di sviluppo economico simili a quelli delle nazioni europee più «progredite». Accanto a queste illusioni, tuttavia, ce n’era un’altra che avrà gravi conseguenze sulla direzione delle lotte proletarie a Napoli: si pensava cioè che lo sviluppo delle lotte proletarie contro queste forme di sfruttamento potesse trasformare le industrie «arretrate» in industrie moderne interpretando quindi la «confindustria dei calzaturieri e dei cantieri edili» locale come espressione di un padronato per così dire precapitalistico o straccione, che la lotta avrebbe contribuito a trasformare, assieme a una serie di indirizzi e interventi efficientisti e tecnocratici dello stato, della Cassa del Mezzogiorno, in capitalismo moderno e «sano».1 La grossa riscossa sindacale che c’è a Napoli a partire dal 1958 culmina, per il settore delle confezioni, nella grandissima manifestazione di piazza dei Calzaturieri del 10 marzo 1961 contro il sottosalario e la spe1 Così ad esempio scrive «l’Unità» del 1° marzo 1961: «È chiaro che in tali condizioni la lotta contro il sottosalario, oltre ad avere un obiettivo immediato, che è quello di assicurare migliori condizioni di vita ai lavoratori, con la conseguenza di un allargamento del mercato e del consumo e quindi di un vantaggio per l’economia della provincia, servirà, anche indirettamente, a sollecitare determinate scelte da parte di tali aziende. Semplificando al massimo il meccanismo del processo” che in realtà sarà molto più contraddittorio “tali aziende, per evitare che i costi eccessivi conseguenti da un lato all’aumentato costo della manodopera e dall’altro al permanere di una struttura aziendale arretrata, le costringano alla progressiva eliminazione dal mercato e infine alla smobilitazione, saranno indotte

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requazione tra Nord e Sud. Ai calzaturieri si sono uniti i lavoratori della ceramica Freda e gli operai della Iter di Agnano che lottano anch’essi per il rispetto del contratto; vi sono infine molti disoccupati. La maggior parte degli scioperanti sono giovani e giovanissimi, prendono salari di 500 lire al giorno. Si è sotto Pasqua, quando nel settore si intensifica lo sfruttamento. Il corteo degli operai muove verso piazza Dante dove viene selvaggiamente caricato dalla polizia. Dieci feriti, tra i quali un disoccupato, e decine di arresti sono il bilancio degli scontri. Ancora oggi i calzaturieri anziani ricordano quest’episodio di repressione e da esso datano il crollo delle loro speranze organizzative e di riscossa sociale come «calzaturieri»: la memoria di questa manifestazione si confonde in alcuni disoccupati organizzati di oggi con quella della grande manifestazione dei primi 700 a piazza Dante nel maggio 1975. I padroni dei calzaturifici, ai quali la pura e semplice repressione poliziesca evidentemente non sembra una ad apportare quelle modifiche tecniche necessarie ad inserirsi in modo attivo nel processo produttivo. Quindi la lotta salariale si presenta, anche in tutta la provincia di Napoli, indirettamente come lotta per imprimere un certo tipo di sviluppo alle aziende, che si regge attualmente sulla rendita da sottosalario ai margini del mercato per far sì che essa abbia una funzione diversa e positiva nel quadro dello sviluppo economico della nostra provincia». Questo passo, tutto interno alla logica del centro-sinistra, che parla di “rendita da sottosalario”, meriterebbe un lungo commento, che esula dai limiti di questa introduzione. Basti ricordare che dopo il ’56 a Napoli c’è stata una fortissima epurazione di quadri di sinistra del PCI, e ciò ha avuto riflessi non solo a livello di linea, ma anche di linguaggio.

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sufficiente garanzia – inizia poi il centro-sinistra – cominciano ad attuare e a progettare una strategia di ristrutturazione aziendale ben più efficace della polizia nel reprimere la lotta. Verso il 1964 una serie di calzaturifici campani introducono la manovia elettrica, cioè il nastro meccanico, e verso la fine degli anni Sessanta introducono la macchina di premontaggio elettrica. Con la manovia elettrica vi sono due fasi della lavorazione, il taglio e l’orlatura, che non sono trasferibili nel ciclo continuo della manovia. Per i tagliatori è richiesta un’alta qualificazione e in genere si tenderà a mantenerli in fabbrica, invece per l’orlatura, che non richiede specializzazione, si affiderà il lavoro a domicilio, soprattutto a donne. Quali sono state le conseguenze per i lavoratori? Dal 1961 al 1971 l’occupazione calzaturiera in Campania è diminuita di 2.052 addetti; nel contempo è notevolmente aumentata la produzione, perché si è avuta una concentrazione industriale accompagnata da un decentramento produttivo; infatti tra il 1961 e il 1971 si passa per il numero di paia di scarpe esportate da 33 milioni a 172 milioni, da un valore di 68 miliardi a un valore di 410 miliardi.2 Contemporaneamente aumenta la produzione al Nord rispetto al Sud; molte aziende del Sud producono per quelle del Nord. 2 Questi dati sono presi da Botta, Fonte, Improta, Pugliese, Ruggiero, Ristrutturazione e decentramento produttivo del settore calzaturiero, Centro di Specializzazione e Ricerche Economico-Agrarie per il Mezzogiorno, Portici.

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Molti disoccupati organizzati vengono proprio dal settore calzaturiero; questo esempio comunque era volto soprattutto a spiegare i meccanismi di ristrutturazione in molti settori a bassa intensità di capitale e a dimostrare come sia possibile che esistano a Napoli tanti lavoratori produttivi che non figurano né nelle statistiche né nelle lotte di settore, dove è quasi impossibile organizzarsi. Nell’intervista al comitato disoccupati organizzati di Materdei sono spiegate le condizioni di sfruttamento e la difficoltà a organizzarsi che gli operai incontrano in questi settori dell’industria. Esula dall’ambito della nostra inchiesta un’analisi dettagliata di tutte queste forme particolari di sfruttamento; basti dire comunque che tutta l’industria delle confezioni (cuoio e abbigliamento) e conserviera è caratterizzata prevalentemente dal lavoro nero: le fabbriche sono composte da decine di reparti dislocati in vari punti del territorio con infinite ramificazioni nel lavoro a domicilio, e questo anche nel centro storico, che per questo motivo è diventato un centro organizzativo della riscossa sociale del proletariato precario napoletano. I.3. Ma dopo il ’63 vasti processi di ristrutturazione si svolgono in tutti i settori produttivi, in direzione essenzialmente di una riduzione drastica di certe branche, del decentramento produttivo, della concentrazione industriale, dell’introduzione di nuove macchine e di mutamenti nell’organizzazione del lavoro volti al55

l’incremento dei ritmi e della produttività. Questi processi diminuiscono l’occupazione in senso assoluto e aumentano l’occupazione precaria. Questa situazione si riflette nei toni preoccupati delle relazioni congressuali della CGIL, finito l’ottimismo manifestato all’inizio degli anni Sessanta. Nella relazione congressuale del marzo 1965 ad esempio si denunciano: 1) la crisi definitiva di alcuni settori produttivi; comincia ad esempio a manifestarsi in tutta la sua gravità la crisi delle Manifatture Cotoniere Meridionali, un tempo una delle più grosse fabbriche del Mezzogiorno; i licenziamenti e la riduzione dell’orario raggiungono quei ritmi vertiginosi che porteranno poi alla chiusura della fabbrica di Napoli; uguale sorte avranno i pastifici; 2) la ristrutturazione nel settore calzaturiero (a cui prima abbiamo accennato); 3) la crisi del settore ferroviario e delle macchine utensili; 4) la ristrutturazione e i profondi mutamenti nell’organizzazione del lavoro in una serie di aziende come l’Olivetti, i Cantieri Metallurgici di Napoli e Castellammare, la OCREN, la FIAT; 5) la ristrutturazione generale delle aziende che porta alla scomparsa di quelle piccole e medie, in particolare nel settore alimentare, con aumento della concentrazione e del decentramento produttivo. Da tutta la relazione appare che l’ideologia dello sviluppo, che aveva trovato i suoi fondamenti teorici nel 56

periodo della ricostruzione, entra in crisi. Si comincia a parlare di «nuovo modello di sviluppo». Nel 1968, se si confrontano le ore di sciopero nelle fabbriche effettuate contro smobilitazioni e licenziamenti con quelle effettuate per miglioramenti salariali e normativi, si nota che le prime sono nettamente superiori. E questa è solo la punta dell’iceberg delle lotte per il lavoro, perché non possono comparire le lotte per il lavoro a livello territoriale o i silenziosi attacchi al lavoro nel settore del lavoro nero. Esemplare, riguardo a questi attacchi all’occupazione «stabile e sicura», è la situazione di Castellammare di Stabia, una cittadina costiera della provincia di Napoli, una volta uno dei più fiorenti poli di sviluppo industriale del Mezzogiorno. La crisi dell’arte bianca, delle aziende metalmeccaniche e di altre aziende (ad esempio il saponificio Asborno, la conceria Audisio, la cartiera Cascone, le corderie, ecc.), la crisi dell’edilizia soprattutto dopo il blocco delle licenze nell’agosto 1968 provocano in dieci anni, dal 1961 al 1971, il dimezzarsi dell’occupazione3; e nel novembre del 1972 Castellammare è teatro di una grande rivolta popolare che ha per protagonisti i disoccupati, in prima fila quelli iscritti ai cantieri scuola del Comune. In tutti gli anni Sessanta, Castellammare è al centro delle lotte per il lavoro. I disoccupati inalberano car3 Dati presi da Collettivo Marxista di lavoro politico di Napoli, Castellammare di Stabia: analisi di una rivolta, in «Inchiesta», n. 5, inverno 1972.

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telli: «Siamo stufi di vivere di espedienti. Vogliamo lavoro!». I.4. A questi attacchi al lavoro bisogna aggiungere la disoccupazione provocata dal nuovo tipo di sviluppo industriale per «poli», in particolare Pomigliano d’Arco con l’insediamento dell’Alfa Sud. La prima pietra dell’Alfa viene posta nel ’68 da Aldo Moro nel corso della campagna elettorale. L’insediamento è preceduto e accompagnato da una massiccia campagna pubblicitaria: si è trovato il toccasana per i mali di Napoli, la fabbrica e le attività indotte creeranno 80.000 posti di lavoro! Tutti sanno oggi dove sono finite quelle illusioni. Nel quadro del progetto gaviano di smobilitazione della fascia costiera napoletana e di sviluppo della zona interna lungo gli assi autostradali, non solo l’Alfa non crea posti di lavoro aggiuntivi, tutt’al più sostitutivi, ma crea invece soprattutto disoccupazione. Crea disoccupazione attraverso questi meccanismi: in primo luogo, solo una parte della massa di contadini poveri, proletari delle campagne e edili che costruiranno i cantieri, sarà assunta poi, dopo una dura lotta, nella fabbrica; in secondo luogo, l’insediamento provoca uno sconvolgimento di tutta l’economia tradizionale della zona, soprattutto con l’aumento dei prezzi e dei fitti, che costringe molti lavoratori all’emigrazione. Ai fini di questa inchiesta è importante soffermarsi sulla lotta per il lavoro stabile e sicuro, cioè per l’assunzione nella fabbrica, degli edili dell’Alfa, a partire 58

dal ’69. Gli operai dei cantieri, ingaggiati tramite i capimafia locali, acquistano una loro autonomia politica. Essi sono sottopagati dagli appaltatori mafiosi, hanno talora abbandonato altre attività precarie e quindi non possono tornare indietro, e subiscono ogni supersfruttamento perché i capimafia per spingerli ad accettare queste condizioni gli hanno fatto balenare la speranza di un’assunzione stabile nell’azienda, di cui si rendono garanti. Comincia invece a profilarsi per loro il licenziamento e chiedono precise garanzie per l’assunzione promessagli all’Alfa. Nel ’69 i primi licenziamenti delle imprese appaltatrici provocano la lotta e l’inserimento alla guida di questa lotta di un’organizzazione politica locale, il PCd’I-Lotta di lunga durata, a quell’epoca il gruppo più numeroso a Napoli, che stimola i già alti livelli di combattività operaia e raccoglie l’esigenza di una guida organizzativa che il sindacato si rifiuta di offrire. All’inizio della lotta il sindacato assume le seguenti posizioni: i cantieristi devono lottare per un lavoro qualificato nel loro ramo di lavoro, l’edilizia, e non per diventare semplici manovali all’Alfa, insomma devono lottare per la riforma della casa; rifiuta inoltre di unificare i consigli di fabbrica dell’Alfa nascente (circa 3000 tra operai e impiegati sono già al lavoro) e i consigli di fabbrica dei cantieri. Gli alti livelli di lotta autonoma tuttavia costringeranno il sindacato a gestire, almeno in parte, le assunzioni dei cantieristi, che otterranno una parziale vittoria. Secondo «L’Espresso» di una di queste ultime 59

settimane sarebbero quei cantieristi, allora assunti, tutti «delinquenti», la causa dell’irriducibile microconflittualità dell’Alfa! Non si criminalizzano solo i disoccupati («teppisti e delinquenti»), ma anche gli operai delle grandi fabbriche! I.5. A questo vasto processo di ristrutturazione industriale (corredato negli ultimi anni dalla «fuga» dei capitali americani con conseguente chiusura di fabbriche), che è essenzialmente un attacco alle grandi capacità di riscossa del proletariato napoletano, si accompagna, precedendolo o seguendolo, la politica territoriale di una parte della borghesia locale e di quella di stato. Le grandi linee del piano regolatore prevedono infatti: – la smobilitazione industriale della fascia costiera da Castellammare a Pozzuoli e la trasformazione di questa zona in area turistico-residenziale con fantomatiche attività artigiane;4 – l’espulsione del proletariato dal centro storico dove la sua presenza, come hanno dimostrato le lotte contro il carovita e contro il colera e poi il movimento 4 A questo proposito solo una piccola osservazione: l’industria del corallo di Torre del Greco, che per altro non ha nulla di artigianale, comincia a organizzarsi in merito: i maestri incisori vengono inviati nei paesi africani mediterranei ad insegnare l’arte per ricrearvi quella vasta catena di lavoro nero, contro la quale il proletariato napoletano con varie forme di lotta si ribella sempre più decisamente! Testimonianza di Clara De Marco. Vedi anche il libro di De Marco Talamo, Lavoro nero, Mazzotta, Milano 1976.

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dei disoccupati organizzati, rappresenta una continua minaccia all’assetto borghese della città. La migliore arma per attuare questo piano è stata la ristrutturazione industriale (ma evidentemente nell’intreccio degli interessi convergenti è piuttosto l’esistenza di ristrutturazione industriale che ha dato vita al piano regolatore, e non viceversa); ma altre armi sono state usate, o si tenta di usare: l’uso capitalistico delle catastrofi naturali (a Pozzuoli il bradisismo fu usato per espellere tutto il proletariato dal rione Terra); l’uso capitalistico dell’ecologia (solo la lotta degli operai e dei disoccupati ha impedito finora la smobilitazione dell’Italsider di Bagnoli); la criminalizzazione del proletariato precario napoletano (vedi l’uso che si fece a suo tempo dell’episodio «Agostino ’o pazzo» ai quartieri Spagnoli5 e i continui interventi della polizia in tutti i quartieri proletari contro il contrabbando e la delinquenza); l’uso del colera6, dopo averlo provocato, così simile all’uso che agli inizi del secolo fece la borghesia napoletana dell’altra epidemia, cogliendo l’oc5 “Agostino ’o pazzo”, uno spericolato motociclista dei Quartieri Spagnoli, alla fine di agosto 1970 per alcuni giorni, con grande seguito di folla, tenne in scacco la polizia nelle sottostanti zone centrali della città. Fu l’occasione per una campagna diffamatoria contro le masse dei quartieri in un periodo in cui si tentava di far passare un piano regolatore che prevedeva la trasformazione dei quartieri in centro direzionale, con relativa espulsione da essi delle masse popolari. 6 Vedi il libro di Gennaro Esposito, Anche il colera, Feltrinelli, Milano 1973 e l’articolo del Centro di coordinamento campano, Contro l’uso capitalistico del colera, in «Inchiesta», luglio-settembre 1974.

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casione per bonificare i quartieri centrali sventrando la città alla maniera del prefetto Haussmann a Parigi. L’epidemia scoppiata nell’agosto 1973 è servita a dar l’avvio ai progetti di ristrutturazione del centro storico e delle zone proletarie della fascia costiera. Anche attraverso un attacco al lavoro precario: gli untori di Napoli sono i venditori ambulanti e i coltivatori di cozze sottoposti a una persecuzione poliziesca senza precedenti. Ma è dalla lotta contro il colera che nascono decine di comitati di quartiere e gli embrioni del movimento dei disoccupati organizzati. La popolazione infatti chiede la bonifica della città, soprattutto delle fogne. Alla pressione della popolazione e dei disoccupati si risponde con l’istituzione dei cantieri di lavoro per la bonifica delle fogne, e con dei corsi di formazione per lavoratori specializzati. I.6. In un piccolo comitato di quartiere, il Comitato di Vico Cinquesanti, nel quartiere San Lorenzo, creatosi nell’autunno del 1974 per iniziativa di alcuni militanti del PCd’I-Nuova Unità, cominciano ad organizzarsi i primi disoccupati, che daranno vita al Movimento dei disoccupati organizzati. La forza politica del movimento diventerà manifesta a tutti nel maggio del 1975, con l’occupazione dell’ufficio anagrafe di piazza Dante. Durante la manifestazione davanti all’ufficio comunale occupato, campeggiava la scritta CGIL-CISL-UIL.

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II.1. Chi ha organizzato i disoccupati? «È la miseria che li ha organizzati», risponde in un’intervista un disoccupato. Ma accanto a questa miseria, che è il dato fondamentale, non bisogna dimenticare i fattori soggettivi: in primo luogo la memoria di tutte le lotte del proletariato precario napoletano dal dopoguerra, l’influenza delle grandi lotte operaie a Napoli a partire dal ’69, le lotte di quartiere per la casa, contro il carovita, contro il colera; e in secondo luogo il lavoro modesto, oscuro, ma costante, di molti militanti della nuova sinistra, presenti nei vari comitati come avanguardie nel movimento dei disoccupati organizzati. I disoccupati sono organizzati con delegati di comitato o di lista e con un direttivo cittadino. Rispetto al direttivo e ai delegati vi è stato, dall’inizio del movimento, un enorme ricambio che è stato considerato da alcuni compagni esterni al movimento stesso un fatto negativo, la prova di una mancanza di direzione politica unitaria. Invece, come spiega Mimmo Pinto in un capitolo di questo libro, è stata una prova di vitalità del movimento. Infatti, è insito nelle caratteristiche del movimento, soprattutto a causa della miseria materiale dei disoccupati, il pericolo costante di corruzione. Qui ne va del pane e del lavoro, mentre in una fabbrica il delegato che si corrompe ottiene in cambio favori meno essenziali per sopravvivere. Questo è anche il motivo per il quale, soprattutto nei momenti migliori del movimento, si effettua un controllo di massa sui delegati che si esplica attraverso 63

le continue assemblee di comitato e cittadine, e con delegazioni in massa quando si va a trattare. II.2. Chi sono i disoccupati? Da dove vengono? Vengono per la maggior parte da tutti i settori del lavoro precario, ma anche dai licenziamenti delle grandi industrie, anche dall’esperienza dell’emigrazione nel Nord o in Europa; contano nelle loro file anche giovani in cerca di prima occupazione, piccoli camerieri, baristi, anche sottoproletari, anche ex carcerati, piccoli contrabbandieri, molti invalidi civili. La maggior parte dei disoccupati «arrangia» e deve conciliare i tempi della lotta con l’improrogabile necessità di «arrangiare» per vivere. Arrangiare significa molte cose, anche evidentemente mille piccoli traffici e lavorucci precari, dal piccolo contrabbando di sigarette ad attività inimmaginabili, come ad esempio quella che in un capitolo di questo libro racconta Elvira che andava raccogliere l’erba parietaria sui muri vecchi della città per una ditta svedese. Ma significa soprattutto lavoro nero in settori produttivi capitalistici oppure nel settore dei servizi e del commercio. Dinanzi alle sconfitte continue delle lotte di settore, all’impossibilità di far rispettare i contratti e le leggi del lavoro, all’inesistenza del sindacato, al lavoro nero e alla presenza solo fantomatica dei consigli di zona, che forse avrebbero potuto aggregare questi lavoratori, essi hanno deciso di organizzarsi in modo diverso. Al decentramento produttivo e all’aumento del lavoro nero il proletariato precario 64

napoletano ha risposto con la parola d’ordine «vogliamo un lavoro stabile e sicuro» organizzandosi nei comitati dei disoccupati. La lotta dei disoccupati è quindi anche una lotta contro il lavoro nero, è una lotta per passare dalla situazione di esercito industriale di riserva a esercito operaio moderno. «Rivendichiamo il diritto di essere operai» dicono i disoccupati. I disoccupati organizzati non vogliono continuare col lavoro nero, con i mille piccoli traffici, che peraltro sono diventati sempre più difficili e precari. Rifiutano, cioè, questo tipo particolare di sfruttamento e oppressione, questo tipo di lavoro che questa società gli offre. «Noi non vogliamo vivere a breve scadenza, sono anni che lo facciamo, finiamola una buona volta con questa paura che, come scadono i contratti di lavoro, così scadono per noi e la famiglia le possibilità di poter mangiare» scrive un disoccupato. II.3. Su questo rifiuto del lavoro precario, essenzialmente, i disoccupati si sono organizzati. Nel primo punto della loro piattaforma c’è la richiesta di un lavoro stabile e sicuro. In attesa del posto stabile e sicuro sono disposti ad accettare il lavoro precario, ad esempio nei cantieri di restauro dei monumenti. Questo tipo di lavoro precario infatti viene visto come un lavoro che da un lato permette di organizzarsi e dall’altro è come l’anticamera del lavoro sicuro se si organizza bene la lotta nei cantieri, come hanno fatto per circa un anno i 700, cioè i primi disoc65

cupati organizzati che dopo una durissima lotta ottennero i 700 posti nei cantieri di restauro dei monumenti. Un altro punto del programma è il controllo del collocamento. Non solo nel senso che non vi sia più la mafia al collocamento, ma anche nel senso che tutti i posti passino per il collocamento, e siano quindi abolite le chiamate nominali e i concorsi attraverso i quali in realtà passavano quasi tutti i posti di lavoro e che per anni sono stati non solo gli strumenti del clientelismo politico, ma anche un’enorme occasione di corruzione attraverso la compravendita dei posti di lavoro: un posto di lavoro operaio a Napoli costava – e costa – dal mezzo milione ai quattro milioni! Un altro punto è quello dell’assistenza medica ai disoccupati e alle loro famiglie. Una rivendicazione controversa è stata invece quella del sussidio all’80% del salario medio operaio; sono contro il sussidio coloro che pensano che, essendo questo obiettivo comunque avanzatissimo e costoso per lo stato, difficile quindi da ottenere al pari del lavoro, tanto valga chiedere il lavoro, primo perché il lavoro è più sicuro del sussidio e secondo perché l’obiettivo del lavoro allarga il fronte delle alleanze ed elimina i rischi di isolamento del movimento. Chi infatti può gettare la pietra addosso a chi chiede lavoro? Tutti strombazzano che il diritto al lavoro è sacrosanto e che la repubblica deve garantirlo ai cittadini.

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II.4. Le forme di lotta dei disoccupati sono state dure: cortei che hanno impedito il traffico per molte ore, e in vari punti della città talora contemporaneamente, blocchi stradali, occupazioni di enti per il reperimento diretto dei posti, ad esempio, scioperi alla rovescia, scontri con la polizia e arresti sono stati frequenti. «Si tratta di forme di lotta estranee alla tradizione del movimento operaio» commenta puntualmente «l’Unità» oppure lamenta che tra i disoccupati si siano infiltrati i provocatori, i teppisti, i delinquenti. In un anno e mezzo di lotta queste manifestazioni sono state continue e di massa. «Non possiamo fare sciopero» dicono i disoccupati, «non possiamo bloccare la fabbrica, per ora la nostra fabbrica è la strada e come gli operai bloccano la produzione noi blocchiamo il traffico». Quando i delegati vanno a trattare, la massa dei disoccupati aspetta sotto fino alla fine della trattativa e manifesta in modo martellante. Quando i delegati scendono, a seconda della risposta, si decide il da farsi. Talvolta le manifestazioni sono state organizzate con grande abilità strategica, come il 30 marzo 1976: vari cortei partivano da differenti punti della città per bloccare il traffico, un corteo civetta formato da invalidi e vecchi aveva il compito di fare la massima confusione per distrarre la polizia; intanto gli altri disoccupati invasero i binari della stazione e la polizia dovette prendere la metropolitana per farli sgomberare. La risposta a qualsiasi provocazione è sempre decisa, guai se una macchina cerca di sfondare il corteo! I disoccupati 67

hanno capito che si può trattare solo da una posizione di forza. Perciò controllano reciprocamente la loro presenza fisica nella lotta. Questo ha creato dei contrasti nel movimento, tra chi era per le liste di lotta – intese come liste di coloro che scendono sempre in piazza e che frequentano le assemblee – e tra chi su questo punto era più tollerante, sapendo che molti non sempre possono partecipare perché devono «arrangiare». Penso che questa contraddizione si possa risolvere solo quando i comitati saranno organizzati realmente su base territoriale; infatti oggi nelle liste dei vari comitati sono iscritti disoccupati di varie zone; può capitare che a Cinquesanti ci sia qualcuno di Secondigliano o che viceversa nella lista 01 di Secondigliano vi sia qualcuno del quartiere San Lorenzo. Se i comitati sono invece su base territoriale è più facile il controllo reciproco sulla presenza nella lotta, stabilire ad esempio se uno è assente perché deve assolutamente «arrangiare» o perché invece trova più comodo che altri lottino per lui. Questo comunque potrà accadere solo creando una maggiore unità tra i comitati. Ma nella nuova sinistra sono molte le divisioni e le diffidenze reciproche. A questo bisogna aggiungere una certa competizione, anche positiva, tra comitati: «Il nostro comitato è più numeroso e lotta più duramente!». II.5. Proprio per le caratteristiche particolari di questo movimento i disoccupati organizzati hanno potuto individuare in rapidissimo tempo e con una grande 68

chiarezza chi sono i loro amici, i loro nemici e i loro alleati. Attraverso quotidiane manifestazioni, riunioni, incontri con le controparti hanno potuto farsi una idea precisa della topografia del potere politico della città. Anzi hanno dato alla città una nuova topografia: vico Cinquesanti, il comitato che ha dato inizio alla lotta e che continua a rimanere l’avanguardia del movimento, rappresenta per così dire una base rossa, piazza Plebiscito significa la prefettura, luogo delle interminabili riunioni col ministro Bosco e l’università una base di amici. Tutti i centri del potere politico ed economico hanno avuto occasione di essere in qualche modo visitati dai disoccupati. Sono i nemici, raffigurati complessivamente nell’espressione ricorrente «i trenta anni». Gli amici sono invece gli operai, gli studenti e il resto delle masse popolari, soprattutto se sono in lotta, se cioè si comportano come i disoccupati. Il diritto di essere operai è continuamente rivendicato dai disoccupati organizzati. Agli operai si chiede di lottare di più insieme con i disoccupati, ad esempio rifiutando di fare gli straordinari o scendendo in piazza con loro, col loro peso. Verso gli operai i disoccupati organizzati hanno un duplice atteggiamento: a volte si sentono inferiori a loro, a volte si sentono superiori per la loro maggiore capacità di lotta. Scrive ad esempio Scialone «...tutto il cosiddetto sottoproletariato napoletano, che io credo non lo sia affatto visto che ha insegnato alla classe operaia come si sta autonomamente in piazza...». 69

Molti sono stati i momenti di unità con la classe operaia nelle manifestazioni: i cortei comuni con gli operai della Angus e della Merrel, la manifestazione nazionale del 12 dicembre 1975, la lotta contro gli straordinari all’Alfa, contro il lavoro stagionale alla Cirio, contro la smobilitazione dell’Italsider. Il 1° maggio il corteo era aperto dal movimento dei disoccupati organizzati che in quella occasione è apparso come l’avanguardia del proletariato napoletano. In realtà i disoccupati sono stati negli ultimi due anni un’avanguardia reale del proletariato precario napoletano sia per la loro consistenza numerica e per la loro capacità di lotta, sia per la radicalità dei bisogni e dei progetti di avvenire che manifestano, non solo nella loro lotta specifica, ma anche, più globalmente, rispetto all’analisi e all’esigenza di trasformazione dell’intera società. Parlo del movimento nel suo complesso; è ovvio che vi sono singoli disoccupati che possono manifestare posizioni subordinate, come vi sono avanguardie che manifestano con estrema chiarezza la loro autonomia. Penso che il rifiuto da parte della sinistra di cogliere questo fatto è dovuto a un impianto ideologico, retaggio del «marxismo occidentale», difficile da spazzare via. Per molti anni il proletariato precario napoletano, «sottoproletariato», «plebe» o «popolino» o «semiproletariato» che sia stato definito, è stato considerato la palla al piede del proletariato delle grandi fabbriche. Dovrebbe comunque far riflettere il fatto che da un anno e mezzo esso 70

è innegabilmente il motore del proletariato napoletano. «Nel periodo in cui i primi disoccupati cominciavano a organizzarsi sotto il Collocamento anch’io ero disoccupato; ero stato licenziato dalla mia fabbrica di scarpe, dove ero sempre stato all’avanguardia, come operaio e come comunista; ma non volli mischiarmi a quel movimento perché diffidavo del sottoproletariato e delle infiltrazioni fasciste». Chi parla è un operaio calzaturiero, iscritto al PCI dal 1943, che è stato negli anni Sessanta tra i fondatori del movimento marxistaleninista a Napoli. Il suo dissenso è un esempio emblematico dell’incomprensione storica della sinistra verso questo movimento. Così come hanno individuato i nemici e gli amici, i disoccupati organizzati hanno individuato gli alleati. In primo luogo hanno dimostrato finora una grande abilità nel guadagnarsi l’appoggio dell’opinione pubblica. Il rifiuto del «salario politico» ovvero del sussidio all’80% del salario, il rifiuto cioè di avanzare questa parola d’ordine, è volto anche a guadagnarsi vasti strati sociali: non vogliono cioè essere dei parassiti, pagati dai lavoratori, ma dei lavoratori produttivi; rivendicano un diritto sacrosanto sul quale nessuno può esprimere in pubblico un’opinione diversa; né si può dire ai disoccupati organizzati, come nel dopoguerra, «emigrate!» perché, come tutti sanno, un po’ di crisi c’è anche negli altri paesi europei e molti lavoratori emigrati sono rientrati. 71

Quando il corteo dei disoccupati percorre le vie qualcuno al megafono grida: «Invitiamo i commercianti a non abbassare le saracinesche; non siamo né ladri né delinquenti che scassano le vetrine e rubano; vogliamo un lavoro stabile e sicuro, se ci danno il lavoro avremo più soldi e spenderemo di più e voi commercianti farete più affari!». Certo l’«opinione pubblica» mormora in sordina: sa bene che non si trovano più operai disposti a lavorare a certe condizioni, come essa vorrebbe, e che se uno si contentasse di certe condizioni il lavoro lo troverebbe! Ma ecco, questa «opinione pubblica» può solo mormorare in sordina! Un’altra parola d’ordine tesa ad allargare il fronte delle alleanze è: «La politica non c’entra, vogliamo solo il lavoro. Chi aiuta il nostro movimento a trovare il lavoro è un nostro amico». Molti interpreteranno questa posizione come qualunquistica, senza capire che la rivoluzione si fa unendo il 95% del popolo. In questo senso i disoccupati organizzati mostrano di sapere che la pressione delle masse può modificare a loro favore, almeno apparentemente, l’atteggiamento di chi detiene il potere, lo rappresenta o lo serve. Se ad esempio la stampa scrive che i disordini sono stati provocati dai disoccupati e non dalla polizia, se si permette di parlare di infiltrazioni teppistiche, o dice che i disoccupati hanno avuto il lavoro e invece non è vero, ecco che una delegazione più o meno di massa, più o meno gentilmente, fa capire ai giornali che devono ret72

tificare le loro posizioni. E sono vigili verso la televisione. E lo sono perfino verso i film che si fanno sul loro movimento; a un regista hanno rimproverato di averli raffigurati come tanti Masaniello; loro invece non sono Masaniello, sono proletari coscienti, in lotta, del XX secolo. Le alleanze i disoccupati le fanno con tutti, però da una posizione di forza, di autonomia, devono essere loro a stabilire le regole dell’alleanza. II.6. Abbiamo parlato degli amici, degli alleati, dei nemici. E il PCI e i sindacati cosa sono? Amici, alleati o nemici? I sindacati rappresentano questo settore del proletariato, sono dei mediatori o una controparte? Nel corso di questa inchiesta, seguendo le lotte e le vicende del movimento dei disoccupati, ci è parso evidente che il PCI non dirige questa lotta, che certamente il sindacato non rappresenta gli interessi di questo settore del proletariato. Per quanto riguarda il PCI basta leggere i capitoli 10 e 14. Vi sono denunciati fatti molto gravi, che hanno creato disorientamento nel movimento dei disoccupati organizzati e che certo lo creeranno anche in molti compagni. Alcuni di loro tenderanno a minimizzare e a nascondere la testa sotto la sabbia; quale fede si può riporre nelle testimonianze di alcuni straccioni napoletani, anche se si chiamano disoccupati organizzati, di fronte alla forza e alle tradizioni storiche di un partito come il PCI? Può anche darsi che sia successo, diranno, ma è stato un episodio imputabile ma73

gari ad errori o anche alla corruzione di singoli compagni, insomma un infortunio sul lavoro, oppure si richiameranno alle improrogabili esigenze del realismo politico. Quello che è importante tenere presente è però che si tratta di un episodio emblematico, emblematico ciò di tutta quella che è stata la linea del PCI verso i disoccupati organizzati, che è possibile ricostruire percorrendo l’intera lotta. Il rapporto col sindacato è stato fin dall’inizio improntato alla dialettica; il movimento è autonomo ma inalbera lo striscione CGIL-CISL-UIL. A partire dalla loro autonomia i disoccupati hanno condotto una dura lotta con il sindacato per farsi riconoscere, per portarselo alle trattative, per farsene un tramite nel rapporto con gli operai, per usare la sua forza che «non gli viene dal prestigio di qualche burocrate ma dalle lotte operaie». Ma vediamo alcune posizioni ufficiali del sindacato. L’11 dicembre 1975 su «Rassegna sindacale», settimanale della CGIL, c’è un articolo di Carlo Cozzolino, segretario della Camera del lavoro di Napoli, dal titolo L’esperienza e i problemi dell’organizzazione dei disoccupati. A un certo punto dell’articolo Cozzolino pone un problema, in discussione «da oltre un anno» nel sindacato: bisogna organizzare i disoccupati nel sindacato o no? Certo in questo ambito bisogna sciogliere anche il nodo che da oltre un anno interessa tutto il sindacato: cosa fare nei confronti dei disoccupati e dei loro vari movimenti organizzati? Limitarsi a indicare loro obiet74

tivi in termini di lotta e con iniziative sempre più unitarie con gli occupati o andare oltre? Organizzarli, farli diventare parte integrante dell’organizzazione? Siamo consapevoli che si toccano nodi di fondo, ma a questo punto bisogna chiarire: il sindacato è lo strumento di organizzazione, di lotta, di tutela del lavoratore solo nel momento in cui lavora, ma questo lavoratore quando è disoccupato cessa di avere e di essere il sindacato? Sono evidentemente lontani i tempi in cui ai congressi della CGIL si adottavano risoluzioni del genere: «Le camere di Lavoro costituiranno in ogni comune comitati di disoccupati i quali esigeranno l’assegnazione in base a criteri imparziali dei cantieri scuola e dei cantieri di lavoro, o l’assunzione di tutti i disoccupati in base alla loro anzianità di iscrizione negli uffici di collocamento» (III Congresso, 1952). A questo punto molti penseranno: si tratta di un ritardo del sindacato, ha fatto fatica a comprendere, ora comprenderà e agirà di conseguenza. Ma le cose non sono così semplici. A fine novembre 1975 la FLM fa affiggere sui muri della città un manifesto in cui si legge, tra l’altro: «Si sono costituiti fuori della linea delle organizzazioni sindacali dei comitati di disoccupati a Bagnoli, Cavalleggeri ecc., che in parte strumentalizzati da forze esterne, spingono per la formazione e il riconoscimento di liste di lavoro alle quali dovrebbe essere data la preferenza nell’avvio del lavoro. Sono ricomparsi nella zona personaggi che nulla hanno a che fare 75

con il movimento dei lavoratori con la chiara intenzione di instaurare il mercato nero delle braccia…». Si accusano cioè i disoccupati organizzati, gli unici che hanno cominciato a lottare contro il mercato nero delle braccia e il clientelismo, proprio di questo! Quando il sindacato denuncia la nascita di comitati «fuori della linea delle organizzazioni sindacali» non si riferisce certo solo alle forme di lotta dura, che mettono a repentaglio tra l’altro la rispettabilità del sindacato gli occhi dell’opinione pubblica; ma si riferisce evidentemente anche agli obiettivi del movimento. E uno di questi obiettivi è non solo gestire, al di fuori del clientelismo e delle tangenti, i posti di lavoro, eliminando l’«immorale concorrenza tra operai», ma soprattutto quello di far uscire i posti di lavoro, lottando contro gli straordinari e gli appalti nelle fabbriche e nelle altre aziende, per una ristrutturazione proletaria della città, per un miglioramento dell’assistenza sanitaria; con lo sciopero alla rovescia al Policlinico, ad esempio, i disoccupati hanno dimostrato che era possibile unire gli interessi dei disoccupati, dei lavoratori e dei degenti. Questi obiettivi non sono certo compatibili con la logica di questa riconversione industriale che si vuole far accettare ai lavoratori e alla popolazione, con la logica dei sacrifici e dell’efficienza produttiva, con l’abbandono della linea stessa delle riforme di struttura. I partiti della sinistra storica e i sindacati hanno questo di particolare, rispetto ad altri partiti e ad altri isti76

tuti: la loro legittimazione, la loro stessa ragion di essere, sono gli interessi dei lavoratori, ed essi dicono di agire in nome dei lavoratori e delle masse popolari: di conseguenza la loro ascesa non può non suscitare e moltiplicare le aspettative delle masse. Quante volte queste forze politiche hanno lamentato il sonno delle masse popolari napoletane, hanno auspicato il loro risveglio, hanno di fatto cercato di suscitarlo? Ed ecco che oggi che si sono risvegliate, essi hanno paura e parlano di forze estranee al movimento operaio o di teppisti e delinquenti infiltrati. «Bisogna chiarire», dice un disoccupato di Cinquesanti, «che nessuno ci ha spinto ad occupare gli edifici pubblici. Non c’erano teppisti e delinquenti infiltrati, oppure bisogna dire che siamo tutti teppisti e delinquenti». II.7. Al di là di tutta una serie di scelte tattiche sulle quali di volta in volta si sono manifestate varie posizioni, nel movimento dei disoccupati organizzati si possono intravedere, come in ogni movimento di massa, due linee politiche fondamentali. La discriminante tra le due linee passa a nostro avviso per i seguenti punti: ci si può aspettare qualcosa dalle autorità o solo da una dura lotta? Bisogna affidarsi ai sindacati o soprattutto alla propria autonomia? Bisogna cioè contare sugli altri o solo sulle proprie forze? Bisogna delegare molto creando così dei capipopolo o dei burocrati del movimento o delegare e farsi delegare il meno possibile? Bisogna contentarsi di piccole vittorie, 77

a livello quantitativo e qualitativo, o aspirare a grandi vittorie, come l’ottenimento per tutti del posto stabile e sicuro, e non allontanarsi dalla lotta quando si è ottenuto il posto precario in un cantiere di restauro? Bisogna restringere il fronte di lotta (meno siamo e più probabilità abbiamo di ottenere il lavoro) o allargare il fronte di lotta, ad esempio, ad altri disoccupati, alle donne, ai disoccupati della provincia, senza paura che la torta sia divisa in parti troppo piccole? Bisogna allargare la lotta alle masse popolari dei quartieri oppure questo è troppo difficile? Bisogna allargare il fronte delle alleanze o no? Questi ci sembrano i punti principali. Tutte le altre divisioni nel movimento ci sembrano interne a questi punti. Se ad esempio nel movimento vi sono state gravissime deviazioni di destra – vedi gli episodi di corruzione o di corporativismo di lista –, bisogna pure dire che queste operazioni di corruzione sono state possibili proprio perché molti disoccupati delegavano troppo ai capipopolo, perché pensavano di ritagliarsi così il loro piccolo vantaggio, perché pensavano che tanto viviamo in una società di lupi, tutti fanno schifo, tanto vale tentare di risolvere i propri problemi a livello individuale. E se ci sono state deviazioni di sinistra, ad esempio rompere del tutto con il sindacato, certamente quelli che hanno portato avanti questa posizione hanno confuso i propri livelli di coscienza e di lotta con quelli di tutto il movimento e hanno sottovalutato il problema delle alleanze. 78

II.8. In questo libro ci siamo sforzati di non smussare le contraddizioni in seno al movimento, il divario tra i diversi livelli di coscienza, generalizzando quelli più bassi o quelli più alti. Abbiamo cercato di mettere in evidenza le contraddizioni tra operai e disoccupati di prima categoria (i cantieristi) e gli altri disoccupati che non hanno ottenuto ancora niente, tra uomini e donne, tra disoccupati quando devono dividersi un lavoro precario, tra linee politiche all’interno del movimento, tra chi «fa più politica» e chi non vuole «fare politica», tra chi delega e chi è delegato, tra chi dirige e chi è diretto, tra chi ha la fedina penale sporca e chi ce l’ha pulita, tra chi ha studiato di più e chi di meno. Abbiamo voluto anzi mettere in evidenza queste contraddizioni e non solo i momenti della loro ricomposizione. Molti compagni preferiscono invece propagandare una visione idilliaca della lotta di classe, in cui le masse sono sempre unite e immuni dall’ideologia borghese. Mimmo Pinto, ad esempio, nel suo intervento distingue molto bene certi livelli di piccola corruzione dei delegati (qualcuno che si fregava qualche soldo di una colletta e poi si indagava e si scopriva casi di miseria enorme), da quelli grossi (la mafia nel movimento): altri disoccupati intervistati fanno inoltre una distinzione tra il delegato che si è venduto (per quanto mafioso è sempre un povero cristo) e coloro che lo hanno comprato (questi sono i veri nemici). Un’altra contraddizione esplicita è quella tra uomini e donne: certo non è bello che dei disoccupati chia79

mino puttana una donna solo perché va alle riunioni e nei cortei e la invitino per questo solo fatto a convegni amorosi o si rifiutino di farla partecipare alle trattative con le autorità. Queste posizioni vanno abbattute, ma non coi metodi con cui si trattano i nemici. II.9. Abbiamo accennato in vari punti dell’introduzione tanto all’incomprensione storica della sinistra verso i disoccupati e il proletariato precario napoletano, quanto alla presenza nel movimento dei disoccupati organizzati di militanti della nuova sinistra. Su quest’ultimo punto vogliamo soffermarci ulteriormente, perché se è vero che il movimento è autonomo e in gran parte spontaneo non bisogna tuttavia sottovalutare le componenti soggettive che ne hanno stimolato la nascita e la crescita politico-organizzativa. Le forze politiche della nuova sinistra che hanno avuto il ruolo più attivo tra i disoccupati organizzati, non solo attraverso l’appoggio di militanti esterni, ma anche attraverso la presenza attiva del movimento di militanti disoccupati, sono state il PCd’I-Nuova Unità e Lotta Continua. E questo a mio parere non a caso. Per quanto riguarda il PCI il concetto di «popolo» e di «masse popolari» della tradizione maoista è stato l’elemento teorico fondamentale che gli ha consentito di avvertire l’importanza del movimento dei disoccupati e di lavorare attivamente al suo interno o di fiancheggiarlo; dinanzi cioè a un atteggiamento dominante nella sinistra di diffidenza verso il proletariato precario 80

che si continua ostinatamente o per forza d’inerzia a definire sottoproletariato e in parte semiproletariato (prendendo per buona ad esempio una certa definizione di «artigianato» ed estendendola a molte forme del decentramento produttivo), il concetto di popolo ha invece consentito a molti quadri marxisti-leninisti, e non solo al PCd’I, di comprendere la portata politica del movimento. Per quanto riguarda Lotta Continua, invece, è la sua adesione incondizionata alla rivolta delle masse che l’ha spinta a un notevole impegno politico e a grossi investimenti di quadri nel movimento. Per Avanguardia Operaia una componente operaista ha sottovalutato il movimento, mentre un’altra componente ha cercato di intervenirci, ma con scarse capacità di direzione politica e soprattutto con un impegno discontinuo. Il PDUP, tranne pochi militanti, si è scarsamente impegnato nel movimento, o almeno in modo non adeguato ad una organizzazione con un «quotidiano» nazionale. Anche altre organizzazioni minori e l’area dell’«autonomia operaia» (quella meno operaista) sono intervenute nel movimento attraverso loro militanti, come pure molte avanguardie autonome dei comitati di quartiere. Nel suo complesso, comunque, l’intervento della nuova sinistra nel movimento è stato notevole: attraverso l’impegno diretto dei suoi militanti disoccupati, con la messa a disposizione delle sedi politiche e dei comitati di quartiere, dei ciclostili, delle strutture culturali, compresa la stampa. E in molte oc81

casioni il movimento dei disoccupati organizzati ha corretto errori politici e forme di settarismo delle varie organizzazioni ed ha rappresentato per questi due anni una scuola politica per molti militanti della nuova sinistra. III.1. Questo libro è composto da una serie di interviste fatte a singoli disoccupati o ai Comitati, più tre interventi scritti (Scialone, Elisa, «il letterato»). Queste interviste sono riprodotte per la maggior parte integralmente: il dialetto è stato italianizzato7. La raccolta e la scelta delle interviste è piuttosto arbitraria e casuale. Abbiamo preso quello che abbiamo incontrato sul nostro cammino durante l’inchiesta nei Comitati e nelle piazze. Non tutti i disoccupati ci hanno aiutato allo stesso modo: c’è chi ci ha informati quasi quotidianamente sul movimento e chi ci ha snobbati diffidando, timoroso di strumentalizzazione. C’è chi ha fatto l’enorme sforzo di presentarci interventi scritti, chi ce li ha fatti solo orali; chi ha controllato in parte il nostro lavoro e chi ci ha delegato finanche la stesura del suo intervento. Perché questa casualità non ci preoccupa? Perché esiste una profonda identità 7 I testi scritti non hanno subito modifiche. I testi «tradotti» quasi integralmente sono quelli di Giuseppe (cap. 3), Elvira (cap. 6), il cap. 11, gran parte del cap. 14. Più che tradurre abbiamo italianizzato i testi, abbiamo cioè mantenuto in gran parte la struttura sintattica, i modismi, l’uso particolare di vocaboli simili a quelli italiani; abbiamo poi lasciato in dialetto vocaboli difficilmente traducibili o particolarmente espressivi, auspicando che contribuiscano ad arricchire la nostra koinè (la traduzione è in nota).

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d’intenti, di modo di pensare, di esprimersi all’interno del proletariato precario napoletano, e soprattutto del movimento dei disoccupati organizzati, che è un movimento in lotta. I lunghi titoli dei capitoli sono venuti solo dopo che ci si è trovata davanti una gran massa di materiali. Certo è un caso se è raccolta, ad esempio, l’intervista di Montecalvario sul tradimento del delegato P., ma non è un caso che dopo qualche mese si torni sullo stesso argomento nel Comitato di Materdei. È un caso ancora che sia stato intervistato il «soffiatore di vetro», ma non sono un caso le sue condizioni di lavoro che sono quelle del proletariato precario napoletano. Esiste naturalmente una prepotente soggettività dei disoccupati intervistati, ed è legittimo che sia così, ma dietro questa soggettività c’è l’appartenenza a un movimento in lotta. La soggettività non si manifesta come stramberia e individualismo; come nella tragedia greca, dietro ogni maschera che viene avanti, c’è il coro. Non è certo il caso di procedere né nella introduzione né nelle note ad una «analyse des textes». Ma già in questo rifiuto è implicita un’affermazione: si tratta di testi letterari. Invitiamo comunque subito i lettori ad abbandonare il greco ed il latino, come raccomandava la scuola romantica nel secolo scorso. Soprattutto se si tiene conto che il «greco ed il latino» dei lettori è costituito oggi dalla koinè creata dalla televisione e da altri mezzi di comunicazione di massa. 83

È comunque indispensabile accennare ad alcune chiavi di lettura. Scegliamo come esempio due interventi particolarmente emblematici: quello del «letterato» e quello di Elvira. Il testo del «letterato», un intervento scritto, è certo un momento di retorica, una vera cattedrale. Usa la maggior parte delle figure retoriche, tutti gli accorgimenti di «stile». Vi sono interrogative retoriche: «Da dove veniamo noi disoccupati?... Dove siamo nati? Chi siamo attualmente?... Che cosa vogliamo?». Poi vi sono le frasi esortative: «Finiamola una buona volta con questa paura...». Vi sono gli anacoluti. Vi sono le iterazioni drammatiche: «è mangiando che si può vivere, è mangiando che si può credere in Dio, è mangiando…». Infine vi sono le vocative: «Noi ti siamo riconoscenti edilizia e monumenti storici... Turista, ricordati...». Vi sono i crescendo, gli adagio, le discese accorate del tono. C’è infine l’immagine conclusiva delle «lacrime amare». Ma subito si possono notare una serie di elementi che con questa retorica fanno a pugni: in primo luogo la feroce ironia: «è pure una esperienza che permette a me e alla mia famiglia di sopravvivere in una società che sta per finire!»; «mia moglie dice che è già una vittoria del movimento poter pagare i debiti»; «noi disoccupati lavoriamo a ristrutturare i monumenti per la storia e la storia lavora a ristrutturare noi, a plasmarci secondo un modello più conveniente agli interessi ca84

pitalistici». In secondo luogo stride con la costruzione retorica la concretezza e il realismo presenti nel racconto: «io vengo dalla metallurgia», «da lavoratori precari a breve scadenza a lavoratori stabili e sicuri», «con delegati e un direttivo» ecc. Stride cioè con la retorica, come la si intende comunemente in senso dispregiativo, la mancanza di affettazione. L’enfasi qui non maschera una povertà o vacuità di pensiero, al contrario ne scandisce in modo solenne la ricchezza e la complessità. In moltissimi testi, soprattutto in alcune storie di vita, colpisce la solennità della forma. Se il lettore potesse udire le registrazioni sarebbe colpito anche dalla solennità delle voci. Si osservino gli interventi di Antonio, di Simeone, di Peppe. Forse è la prima volta che qualcuno ha chiesto a questi disoccupati di raccontare la propria vita ed essi sono compresi della solennità che il fatto assume. A questo fatto bisogna aggiungere la dignità che sentono di avere acquisito, a livello umano, attraverso la loro lotta organizzata; sanno di avere scritto un piccolo pezzo della storia politica del proletariato italiano e della storia in generale. E questa fierezza di appartenere al movimento dei disoccupati organizzati non può che esprimersi in forma solenne. A questa solennità di espressione contribuisce anche lo sforzo di esprimersi in lingua, in una lingua straniera che sin dalle elementari è stata dialetticamente strumento di oppressione e di emancipazione. Alla dignità di essere operai, conquistata con una lotta proletaria, 85

corrisponde la dignità di esprimersi in lingua, ricorrendo a tutti i termini «sindacali» della lotta (censimento, liste ECA, corsi paramedici, sventagliamento ecc.), ma soprattutto ai termini e allo stile dei manuali delle elementari, che, sappiamo bene, ancora oggi sono un’antologia di retorica insulsa e di cascami delle «virtù» piccolo-borghesi. Il testo di Elvira, invece, contrariamente a tanti altri, è in dialetto, non a caso è una donna che parla. La struttura espressiva è paratattica (dissi... rispose… allora dissi... allora rispose...), ma questo più che una frammentarietà di pensiero rivela una perentorietà di posizioni, di concezione del mondo. Elvira è una ragazza dei Quartieri Spagnoli, vissuta sempre nei vicoli, che sin da piccola è «scesa» in strada; sulla sua concezione del mondo, sul suo modo di vivere e di esprimere la condizione di donna, di ragazza del vicolo si sono sovrapposte in rapida successione le trasformazioni del ruolo femminile nella società così come le propagandano i mezzi di comunicazione di massa borghesi, l’influenza del cugino comunista, l’esperienza del Comitato di quartiere, le concezioni del mondo e del ruolo della donna dei compagni e soprattutto delle compagne («Vanna la femminista»). Con un rapido intuito femminile e di classe Elvira si è subito appropriata di certe posizioni (le donne hanno diritto al lavoro, non vogliono essere forza-lavoro di riserva, i diritti devono essere pari all’uomo, le donne devono diventare esseri sociali, bisogna lottare anche per gli asili 86

nido...). E queste posizioni sono espresse come fatti scontati, in modo perentorio, con brevi affermazioni paratattiche. Ma dietro le nuove acquisizioni continuamente ribadite, dietro la perentorietà, si nascondono situazioni ben più complesse, retaggio del passato e non facilmente sormontabili. Certo le donne devono fare politica, ma poi quando vanno nei comitati gli uomini le sfottono, le prendono addirittura per puttane. Il fidanzato ha abbandonato il terrorismo tradizionale e ha assunto un atteggiamento paternalistico illuminato, non dice più «ti proibisco», ma «ti consiglio», non ordina ma discute, lascia libera Elvira, ma non sa che lei va al comitato, lei non glielo può dire. D’altra parte ha anche ragione, al comitato c’è rischio che il cugino di Elvira faccia a botte con qualche disoccupato che la sfotte e questo non sarebbe giusto, che un uomo debba rischiare per lei. La verginità resta un valore indiscusso, la sua amica in fondo è una brava ragazza, «è più vergine della Madonna». Elvira vuole aiutare un compagno di Cinquesanti, un disoccupato che sta inguaiato, ma non si rende conto di continuare a perpetuare il sottoappalto tra proletari, lo stesso di cui lei è vittima... Elvira litiga col disoccupato che invece di parlare di cose più importanti, parla di Elizabeth Taylor, ma nel litigare ricorre alla provocazione antica delle donne verso gli uomini: «Non sei buono…»8. Tutte queste contraddizioni, questa complessità della realtà, questa difficoltà di superare vecchi valori e di 8

Capace sessualmente.

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trasformarsi radicalmente, queste difficoltà oggettive e soggettive, sono sottintese, sono celate dietro quel tono perentorio. Il tipo di linguaggio non è segno di disordine mentale, di frammentarietà tipicamente «femminile» o «sottoproletaria», ma esprime la contraddizione tra una vecchia concezione del mondo e una nuova concezione del mondo, che ancora non poggia su basi chiare e stabili, e la cui fragilità è nascosta proprio dalla perentorietà paratattica. La dura realtà della condizione delle donne proletarie e la complessità dei problemi che ciò pone a livello politico dovrebbero far riflettere alcune nostre femministe. III.2. Abbiamo già detto che questo libro non riguarda solo la lotta per il lavoro, ma tutta la condizione di vita del proletariato precario napoletano. E su tutti gli aspetti della vita e della società i disoccupati organizzati hanno modo di esprimere il loro radicalismo. Alcuni di loro rivendicano una radicale eguaglianza, talora fondandola su semplici assiomi della legge naturale («anche i medici portano le scarpe, quindi devono essere eguali agli scarpari»), talora facendo appello alle istituzioni borghesi «egualitarie» come la scuola: «venivano i bambini a lavorare nella fabbrica di vetro e io dicevo loro: avete sbagliato porta, la porta della scuola sta a fianco»: oppure fondandola sulla eguaglianza dei bisogni elementari: «tutti hanno bisogno di mangiare allo stesso modo, di avere le stesse medicine». Di qui i frequenti appelli ai vari padroni e 88

oppressori: «tu dici che non c’è lavoro e mi vuoi licenziare, allora porto i miei figli a casa tua a mangiare?». Frequenti sono anche i richiami alla solidarietà tra gli uomini e alla fraternità. Tutti mettono in rilievo la grande dimensione di fratellanza e di solidarietà scoperta nel movimento dei disoccupati: «ci spartivamo le sigarette», «la cosa bella era bere quel bicchiere di vino insieme», «si scopriva che i propri problemi segreti erano quelli degli altri»; è quella solidarietà tra bambini, uomini, animali e cose che descrive con i «Mille» Elsa Morante in La storia. Nel discutere del «tradimento di P...» e di altri delegati, un disoccupato si chiede: «come è potuto succedere questo, quando non solo abbiamo lottato insieme nelle strade, ma da bambini abbiamo giocato come fratelli», e Peppe, che nel movimento ha ritrovato i suoi ex compagni di collegio, dice: «abbiamo scoperto che come ci picchiavano da piccoli nel collegio così, seppure in un altro modo, ci picchiano ora». E alla base della felicità di espressione di Scialone c’è la stessa memoria dell’infanzia collettiva al rione Sanità, introdotta poi dall’esperienza di lavoro, perché la «borghesia divide i giovani proletari tra loro», e che riaffiora poi nel movimento ed è rivendicata come obiettivo da riconquistare. Questa grande fratellanza si esprime anche nella quasi ossessiva affermazione dei disoccupati «noi vogliamo solo il lavoro, non facciamo politica», che tende a ricomporre attraverso la radicale comunità dei biso89

gni e la solidarietà reciproca le divisioni fittizie delle «opinioni» politiche. Evidentemente l’affermazione è dialettica, bisogna cambiare le idee dei disoccupati fascisti ad esempio, ma in primo luogo, se sono veramente disoccupati e non provocatori infiltrati o mazzieri è il fatto che sono disoccupati che conta, è la pratica comune che conta e non le idee che si avevano in testa e che necessariamente cambieranno attraverso questa pratica. Ma questa nuova morale, questa riaffermazione della solidarietà e della fratellanza, non si estende ai soli fratelli e compagni disoccupati; anche nell’embrione di «guerra civile» che i disoccupati hanno combattuto e combattono da un anno e mezzo nelle strade di Napoli, la fratellanza si estende persino ai poliziotti: «Eravamo fratelli contro fratelli». «A me è capitato che un agente di pubblica sicurezza, un giovane di venti anni, arruolato per vivere in quel posto, ha alzato le mani vicino a me che ero armato di pietra. Io non ho avuto il coraggio di dargliela una pietrata in faccia, perché in quel momento mi è venuto fra me stesso di dire che quel gesto era immorale. È immorale». I disoccupati alzano ancora la bandiera della nazione, della patria, per quanto questa affermazione possa scandalizzare molti lettori. Hanno coscienza che solo i disoccupati possono salvare Napoli, «la mia città, la quale amo più di me stesso» che «ho fatto una forza molto sovrumana a lasciare», proprio perché vogliono lavorare e quindi ricostruirla; e c’è fierezza nei disoc90

cupati che lavorano nei cantieri di restauro dei monumenti; ma c’è anche amarezza: sanno di farlo per una diversa ristrutturazione capitalistica. Si lamenta infine che la nazione non sia rispettata, che sia nota all’estero solo per le braccia che esporta e per il deficit della bilancia dei pagamenti. Su un altro punto i disoccupati hanno manifestato la loro concezione del mondo radicalmente nuova. Sul problema della delinquenza. All’interno del movimento vi sono numerosi pregiudicati. I disoccupati distinguono con chiarezza tra le due delinquenze, riprendendo l’antica tradizione popolare e contadina del brigante buono e di quello cattivo e l’antico codice d’onore della camorra urbana, ma soprattutto riprendendo nelle loro mani la concezione proletaria di questo problema così smaccatamente abbandonata dal PCI. C’è insomma il fuorilegge che lo fa per necessità, che è stato tentato dalla stessa miseria, e c’è quello che lo fa per grossi profitti, «il capitalista» del settore, che commette delitti contro l’umanità ed il popolo. I primi vanno reinseriti nella società, in primo luogo attraverso il lavoro, i secondi vanno messi al muro o almeno duramente colpiti. «Se lo stato», scrive un disoccupato, «non fa il reinserimento, allora lo fa il movimento dei disoccupati organizzati». Che si rubi per necessità è messo in evidenza chiaramente da molti. Simeone ad esempio è stato licenziato dalla vetreria, non può pagare l’affitto, l’avvocato gli ingiunge di pagare almeno due mensilità più la sua provvigione: «Caro avvocato, 91

mi firmi una carta che io quando scendo da voi, vado a fare una rapina per pagare, che Lei si deve assumere tutte le responsabilità». Antonio, ex carcerato, che non riesce ad ottenere il lavoro dal giudice del Patronato: «Signor Giudice, mi dica, se io verrei a casa sua e l’arrubbassi, lei cosa farebbe? – Mi rispose: Ti manderei in galera. – Allora faccia una cosa, incominci a mandarmi adesso in galera, poi mi dirà il perché mi ha messo in galera». E infine l’ex magnaccia dello 01, con un codice dell’onestà tutto proletario, abbandona il disonesto mestiere del magnaccia e prova a vivere onestamente, cioè di contrabbando. Contro questo grande tentativo di risolvere il problema della delinquenza da parte dei disoccupati organizzati, molte sono state le manovre della borghesia; in primo luogo i continui arresti indiscriminati servono tra l’altro a impedire ai pregiudicati di scendere in lotta, altrimenti al vecchio precedente penale si aggiunge una nuova denuncia. In secondo luogo si è cercato, anche con l’appoggio dei sindacati, di escludere dall’avviamento al lavoro non solo chi ha superato certi limiti di età, chi non ha dei titoli di studio, ma anche chi ha precedenti penali. Nell’atteggiamento verso le donne invece non sembra dominare fra i disoccupati lo stesso radicalismo manifestato verso altri problemi. Persistono le vecchie concezioni reazionarie ammantate di paternalismo. Le donne dovrebbero stare a casa ad accudire alle faccende domestiche e ai figli; se lavorano è una dura necessità che si accetta, perché il marito è disoccupato o 92

non guadagna abbastanza. Le donne non devono scendere in piazza con gli uomini perché sono delicate e poi non sta bene, non possono affrontare certi scontri duri con la polizia. Le donne poi si dividono in due categorie, quelle oneste e quelle disoneste. Ma le cose sono molto più contraddittorie e complesse. Quando ad esempio le prime dieci disoccupate organizzate scesero a piazza Plebiscito con i loro cartelli, tutti i disoccupati le applaudirono. D’altra parte le donne da sempre costituiscono uno di quegli strumenti di concorrenza sleale e immorale tra lavoratori sul mercato del lavoro, creati dalla borghesia per dividere i proletari e per sfruttarli meglio. Ma se tra i disoccupati domina una concezione della militanza della donna che ricalca sostanzialmente i modelli che hanno dominato il movimento proletario durante tutto il periodo storico delle prime tre internazionali (la militanza si esprime nel sostegno materiale e morale alla lotta manifestato a casa con sacrificio e dedizione personali; al massimo scendendo in lotta per particolari problemi delle donne e dei bambini, la casa, il carovita, le scuole; solo nei momenti di insurrezione aperta si vedono le donne nelle piazze e nelle strade), si fanno invece carico di una concezione radicalmente nuova dei problemi delle donne, le donne disoccupate organizzate, anche se questo movimento è agli inizi ed ancora limitato numericamente.

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III.3. Nonostante molte pagine in dialetto nelle interviste orali, molte locuzioni dialettali e molte contaminazioni tra italiano e dialetto (di cui la più tipica è il ricorrente «Se io vorrei, farei» mentre in dialetto si direbbe «Si vulesse, facesse»), è la lingua nazionale, pur tra molti «errori», che domina tanto nei racconti orali che nei tre interventi scritti. Questo è un segno, tra tanti altri, di due fatti: da un lato, nonostante si sia tentato in tanti modi di negarne la significanza politica, il proletariato precario napoletano dimostra la sua appartenenza all’area «moderna», nazionale, addirittura europea, del proletariato. Dall’altro è un segno dell’alto livello della lotta di classe nel nostro paese: solo quando vi sono grandi fratture all’interno del proletariato o quando c’è una fortissima repressione politica, le rivendicazioni proletarie devono mascherarsi attraverso, ad esempio, l’appartenenza ad un gruppo etnico-linguistico. Verso il dialetto i disoccupati non hanno né vergogna né fierezza e verso la lingua nazionale non hanno né arrivismo né disprezzo. Dimostrano anche a livello linguistico che è proletaria quella cultura di cui il proletariato si appropria. In questi anni è in corso a Napoli una grossa appropriazione proletaria della cultura. Ma quando il proletariato si riappropria della cultura di cui è stato espropriato, la trasforma. Molto ambigue ci sembrano invece al riguardo una serie di operazioni culturali che tendono al ricupero, in chiave populista, della cultura «popolare» napoletana (feste religiose, canzoni, sceneggiata). In questi 94

anni in cui il proletariato precario napoletano si è affermato con decisione come soggetto politico si tende di nuovo a ridurlo a «plebe» e «popolino» rispolverando le sue «tradizioni» passate e rifiutandosi di cogliere e stimolare le profonde trasformazioni culturali provocate dalla lotta di classe. La simpatia populista verso queste «tradizioni popolari» è il riflesso speculare o l’altra faccia della medaglia dei manifesti diffamatori dei sindacati nei confronti della lotta dei disoccupati organizzati e degli articoli de «l’Unità» in cui si denunciano forme di lotta «estranee alla tradizione del movimento operaio». IV.1. Un particolare discorso richiede il problema della «politica» nel movimento dei disoccupati organizzati, al di là di alcune osservazioni fatte in vari punti di questa introduzione. Abbiamo già detto che ricorre nel movimento in modo quasi ossessivo il discorso: «Noi non facciamo politica, vogliamo solo il lavoro». Abbiamo dato una prima interpretazione di questo «rifiuto della politica»: la volontà di allargare il fronte dei disoccupati organizzati a tutti i disoccupati e lavoratori precari proletari, al di là delle loro idee politiche e concezioni del mondo. Questo è un primo dato fondamentale, che ha sempre caratterizzato i reali movimenti di massa. In questo consiste la concezione materialistica della storia espressa dai disoccupati: non sono le idee che ci hanno organizzati, è la miseria che ci ha organizzati. 95

A questo va aggiunta la memoria storica delle plebi urbane napoletane; a Napoli non c’è mai stato un assolutismo illuminato (troppo breve fu il regno di Carlo III di Borbone), la rivoluzione partenopea fu troppo estranea agli interessi delle masse9, lo stesso entusiasmo per l’arrivo di Garibaldi a Napoli fu subito travolto dall’oppressione del governo nazionale piemontese. Chi stava al governo è sempre stato un nemico, anche se talora paternalisticamente distribuiva pane e feste. Né ha potuto radicarsi a Napoli una seria tradizione proletaria riformista; Bakunin prima, Bordiga poi hanno trovato a Napoli un terreno fertile. Un Arturo Labriola, il riformista socialista guerrafondaio, a Napoli non ebbe una base di massa proletaria, ma piccolo-borghese. In questo senso i disoccupati organizzati sono gli eredi delle plebi urbane napoletane che hanno sempre schernito la politica, perché la politica è sempre stata roba da padroni, da re, da signori, «roba di Roma», insomma. Da questi fattori storici derivano lo scetticismo e l’ironia «verso la politica» presenti in molti interventi. Nella prima parte dell’introduzione abbiamo accennato anche all’assenza della sinistra storica e ai suoi errori verso il proletariato precario napoletano. Alla fine degli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta a Napoli nessuna sezione del PCI del centro storico faceva lavoro politico tra il «sottoproletariato», come ve9 «Chi tene pane e vino / Adda essere giacubino» cantavano i Sanfedisti.

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nivano definite le masse urbane di quelle zone. Sulla politica sindacale verso il proletariato precario ci siamo già soffermati. Persino nel ’68, ad esempio, quando la sinistra della sezione Curiel, nel quartiere San Lorenzo, cominciò a staccarsi dal PCI non trovò altro lavoro politico da fare che andare davanti alla Rhodia di Casoria. Gli stessi occupanti di Architettura, che pure studiavano la futura ristrutturazione del centro storico, andarono all’Italsider di Bagnoli. Ed era già molto, se si tiene ad esempio conto di un’esperienza come quella di Mimmo Pinto: «È stata un’esperienza molto assurda, strana quella che ho fatto: venire da un istituto tecnico, da una mia realtà proletaria, di vita che facevo, trovarmi all’università, già questa università per la famiglia mia chi sa che significava, che poteva rappresentare... infatti io avevo voglia di fare delle lotte, e il trovarmi in un ambiente, borghese, e nemmeno piccolo-borghese, ma alto-borghese io con i miei problemi di sopravvivenza e quelli per esempio invece con l’imperialismo americano, era diventato una cosa assurda; se tu non avevi il libro oppure non potevi studiare e avevi certi problemi per mangiare, dovevi parlare per forza dell’imperialismo americano!». Non c’è da meravigliarsi quindi se la «politica» è sempre stata considerata l’arte suprema della manipolazione e dell’imbroglio, la possibilità di arrivare sulle spalle degli altri e in nome degli altri. Lo stesso presentarsi alle elezioni del disoccupato Mimmo Pinto di 97

Lotta Continua per la lista di Democrazia Proletaria è stato vissuto in questo modo da una parte del movimento, che per altro è stato usato strumentalmente per appoggiare la DC o il PCI. Dietro questo rifiuto in realtà c’è il rifiuto di una politica che non è la politica autonoma del proletariato. La politica finora è stata per i disoccupati la politica degli oppressori e ad una politica «loro», «per sé», ancora non si è giunti. Comunque da un certo punto di vista le cose si sono complicate ma anche semplificate. Sullo scetticismo storico verso la politica si è infatti innestato tra i disoccupati lo smarrimento verso i cedimenti del PCI alla borghesia nel momento in cui questo intensifica le forme di collaborazione di classe, fino ad arrivare all’appoggio al governo Andreotti. Che del PCI non bisognasse fidarsi troppo, che la giunta Valenzi fosse pur sempre una giunta, una struttura decentrata del potere statale, tutti lo sapevano, nessuno si faceva illusioni10. Ma che il PCI appoggiasse anche con metodi gaviani la mafia tra i disoccupati, questo la maggior parte dei compagni disoccupati organizzati non se l’aspettava. E questo proprio quando i disoccupati avevano faticosamente sconfitto il clientelismo politico della destra e le sue manovre all’interno del movimento! Lo smarrimento politico dei disoccupati dinanzi a questa situa10 «Chiste teneno a panza vacante» (Questi hanno la pancia vuota) è un commento «precauzionale» che ho sentito fare ad alcuni disoccupati al momento dell’insediamento della giunta rossa.

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zione coincide con quello della classe operaia italiana dopo l’astensione del PCI al governo Andreotti. Una controprova questa, una verifica per ora al negativo, della grande solidarietà di intenti, di posizioni, di forme di lotta di riflessione nei periodi oscuri della lotta di classe, del Movimento dei disoccupati organizzati di Napoli con il movimento delle fabbriche e con il nostro movimento nel suo complesso. Ottobre 1977

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L’ORDINE NUOVO DELLA CAMORRA (da “Tempo Illustrato”, anno 2, n. 2, 1984)

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n alcuni quartieri di Napoli una fotografia si chiama ancora la «tale e quale». Della sua «tal e qualità» si giudica, e verso di essa si continua a manifestare un meravigliato stupore, solo quando si è in presenza carnale del modello o si è avuta con esso dimestichezza carnale. Perciò, per un napoletano di quei quartieri, le fotografie della guerra in Libano non sono «tali e quali». Le foto di questo servizio, invece sono «tali e quali». Riproducono fedelmente ciò che ai napoletani è carnalmente familiare, e continuano a suscitare in loro un meravigliato stupore, quando lo vedono riprodotto. Che cosa ha di interessante per gli altri – e l’occhio del fotografo è «l’altro» per eccellenza – il proprio volto? E chi è l’altro, che ci fissa dal nostro volto riprodotto? La camorra, di cui documentano queste foto, è la rissa continua e quotidiana (camorra viene dall’antico spagnolo e significa appunto rissa), con le cose e con gli altri, che ogni napoletano è costretto ad affrontare da quando esce al mattino a quando rincasa la sera (è raro che ci si possa permettere di rincasare per il pranzo, dato il traffico). 100

Significa, in senso lato, provarsi a ottenere con la prepotenza, l’intimidazione, l’inganno, il sotterfugio, la scena isterica, o solo con una captatio benevolentiae gravida di minacciosi sottintesi quanto non si può ottenere per meriti, per diritto sacrosanto o per legge. Secondo questa accezione lata della parola tutti i napoletani sono un po’ camorristi, almeno per qualche minuto durante la giornata. Essi, per esempio, quando si avviano a espletare una pratica in un ufficio, sono psicologicamente in assetto di guerra. Quando escono per fare la spesa, nascondono il danaro nei posti più segreti, come dovessero avviarsi per boschi infestati dai briganti. E, come in tempo di rivoluzioni sociali, nessuna donna esce ornata di gioielli, per non ostentare le sue ricchezze ed esporle a mani vindici o solo furtive. Dal punto di vista filologico poi la camorra non esiste (secondo quello che sostengono gli abitanti di Ottaviano, non esiste camorra tout court: il loro è il paese più idilliaco del mondo). La camorra, anzi le camorre di oggi (La Nuova Camorra organizzata, La Nuova Famiglia), sono un’usurpazione filologica, un abuso storico-linguistico. (Come lo è stato l’Ordine Nuovo fascista nei confronti dell’Ordine Nuovo gramsciano, la Lotta di popolo reggina nei confronti della lotta di popolo cinese). Ciò che va oggi sotto il nome di camorra non ha nulla a che fare con l’antica «guapperia», e nemmeno col tipo di cosche che andavano sotto questo nome al tempo di Pascalone ’e Nola e di Pupetta Maresca. L’antica camorra insomma sfruttava il popolo, ma 101

lo proteggeva da un maggiore sfruttamento: meglio di qualsiasi esattore fiscale, magistrato, sociologo conosceva ricchezze e miserie, materiali e morali, di ognuno, e agiva di conseguenza. Al camorrista leggendario non piaceva essere apostrofato servilmente con il «Don»; «Chiamatemi Nueh!» ribatteva. Né gli piaceva che un giovane «illudesse» una ragazza onesta, così lo costringeva al matrimonio; e se il derubato di un orologio si lamentava: «Mi hai tolto l’ultimo ricordo di mio padre», spesso gli veniva restituito. C’era insomma un codice della delinquenza, non solo un codice d’onore, ma un codice civile e penale, che vigeva tanto fra i membri dell’Onorata Società quanto fra essi e l’altra società. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta la delinquenza napoletana e campana si è mantenuta ai livelli normali, tipici di ogni grande città e di ogni area in via di rapida trasformazione economico-sociale, presente soprattutto nel settore tradizionale del contrabbando, del furto, poi in quello dell’edilizia, infine in quello dell’eroina, dominata però da cosche forestiere: di volta in volta la mafia siciliana, Cosa Nostra, i marsigliesi, la ’ndrangheta. Episodi camorristici quotidiani, ma non necessariamente organizzati, erano le tangenti sul lavoro nero a domicilio, sul mercato delle braccia e sul mercato moderno del lavoro (un posto operaio, per esempio all’Alfa Sud, costava dalle 500 mila lire ai 3 milioni). Il fenomeno era contenuto da un lato dallo sviluppo capitalistico, seppure moderato e contraddit102

torio (l’Alfa Sud per esempio è costata forse più posti di lavoro di quanti non ne abbia creati), dall’altro dal grande movimento popolare e di sinistra degli anni 1968-1977. I Disoccupati Organizzati con le loro speranze organizzate erano nati proprio contro la camorra del lavoro (politico-clientelare o solo di piccoli estorsori) e contro l’alternativa al lavoro rappresentata dalla delinquenza: al loro interno c’era addirittura un settore di ex detenuti. Dopo il terremoto la delinquenza a Napoli ha raggiunto i livelli massicci, quantitativamente, che tutti conoscono. Le varie camorre, secondo le relazioni dei magistrati, possono contare su un esercito regolare di circa 3 mila uomini, ai quali bisogna aggiungere gli aspiranti, che si guadagnano le stellette o altri titoli di merito in piccole azioni quotidiane di disturbo in ogni quartiere. Non c’è settore economico che non frutti danaro alla camorra: contrabbando di sigarette e di droga, racket delle estorsioni, sequestri di persona, pollici e non edilizia, soprattutto nei cantieri della ricostruzione, piccole e medie industrie, lavoro nero e a domicilio, agricoltura, commercio, Inam, Inps, Croci, fornitura e posa dei containers, bische, allevamento di cavalli, rapine ai Tir, incendio dei boschi e relativo rimboschimento: a cui bisogna aggiungere senz’altro le estorsioni sull’illecito (tangenti richieste a Dc e Br per la liberazione di Cirillo, tangenti al piccolo contrabbando, al piccolo spaccio di droga, al ladruncolo di autoradio, 103

allo scippatore di quartiere, al borsaiolo di pullman, al rapinatore seriale a mano armata, al ladro di appartamenti, al politico imbroglione). Non solo estorce da molti di questi altari, ma alcuni li conduce in proprio, investendo attraverso prestanome il danaro sporco (un mio conoscente ha avuto un’offerta altissima per un suo camping: tanto era danaro sporco e non costava nulla superare i prezzi di mercato: una forma quindi di dumping). Insomma, oggi sotto il nome di camorra vanno vari tipi di delinquenza – e di tecniche economiche, come appunto il dumping – che prima erano separate o che in altre parti del paese lo sono ancora: i gangster urbani, i giovani da Arancia Meccanica, i raptus degli eroinomani, le cosche di tipo mafioso con solidi legami nazionali e internazionali, con la loro autonoma attività imprenditoriale e le loro infiltrazioni nelle istituzioni, anche in quelle politiche, le spregiudicate azioni economiche e finanziarie da cavalieri di industria ottocenteschi. Non è un caso che questi fenomeni siano tutti concentrati a Napoli: la vetrina dei destini possibili di tutto l’Occidente, e anche dell’Oriente, dal momento che contrabbando e mercato nero sono vivi anche a Mosca, Vladivostok e Shangai. Una moderna attenzione alla società dello spettacolo Tre caratteristiche almeno impediscono di identificare questi fenomeni con l’antica camorra: la sua imprenditorialità moderna in tutti i settori economici 104

(non più quindi solamente il ciclo del pomodoro), vicina più alla mafia siciliana o a Cosa Nostra (e pare che Cutolo, che ha tentato invano di organizzare e controllare tutte le «camorre», sia solo, appunto, un «professore»: che dietro il suo spettacolare modo di governare ci sia un «Don», un’eminenza grigia, forse di Cosa Nostra); la mancanza, nonostante i vari rituali introdotti da Cutolo, di un codice della delinquenza, al punto che spesso la barbarie gratuita di alcune azioni ha disgustato gli stessi accoliti (basta vedere la vicenda dell’«Animale»). In questo, nella sua imprevedibile efferatezza, spesso priva di calcoli (delle opportunità: degli anni di carcere), molte azioni della camorra somigliano piuttosto alle azioni dei tossicodipendenti o dei ragazzi da Arancia Meccanica: il ladro di una volta raramente ammazzava, se era interno alla Società, e il guappo non avrebbe mai rapinato e ammazzato una vecchietta in un basso di Resina. Infine il linguaggio spettacolare che usa la camorra è più vicino alle caratteristiche della società dello spettacolo moderna (così ben sfruttata dai gruppi della lotta armata) che al «teatro» quotidiano tipico del popolo napoletano. Quindi minacce pubbliche, lettere ai giornali, conferenze stampa (chi dimenticherà mai la conferenza stampa due anni fa di Pupetta Maresca, a nome, implicito, della Nuova Famiglia!), volantini di rivendicazione, sparatorie in tribunale, sigla come Nuclei giustizieri campani e lo stesso appellativo Nuova Camorra Organizzata, tremenda caricatura – e spec105

chio deformante – di tutte le nostre organizzazioni di sinistra passate, in testa quella dei disoccupati. E se nei suoi deliri in cattivi versi ottocenteschi Cutolo detto «O Prufessore» si sforza di fare della politica, presentandosi come il Robin Hood, il paladino (o «padrino») dei diseredati, il Professor Negri nei suoi deliri letterari in prosa dannunziana ha istigato i giovani alla delinquenza – anche gli allievi del Diaz, la mia scuola allora, in via Tribunali – dal momento che ogni rapina ha un valore immediatamente politico – io li ricordo che lo leggevano, e so che hanno fatto una brutta fine. Dio sia con loro! Il delitto ha sempre a che fare con la politica (è una formulazione astratta, l’esempio concreto è la vicenda Cirillo) e non c’è migliore candidato a diventare il capo della polizia del grande delinquente – come ce lo ha descritto Balzac, partendo da un fatto reale, in Splendori e miserie delle cortigiane – o del capo rivoluzionario, come purtroppo ci ha dimostrato la storia, da Beria a Pol Pot. Invece nessun vecchio capo della camorra di una volta poteva candidarsi a fare il capo della polizia in uno stato moderno perché la camorra a suo modo era troppo interna a un codice di giustizia arcaico, era di fatto contro lo stato moderno – almeno quello che ci si è manifestato in varie vicende degli ultimi anni, dalla Lockheed alla Loggia P2. Anche Cutolo, «O Prufessore», nonostante la sua ascesi – è da circa venti anni, salvo qualche interruzione compiacente, in galera – sarà presto superato da un altro tipo 106

di capi. Se Napoli infatti si estende verso i Nord, i Nord si estendono verso Napoli. A Napoli forse verrà un Gelli, mentre si vedrà in Milano un «Prufessore ’o pazzo» (come oltre dieci anni fa nei Quartieri Spagnoli «Agostino ’o pazzo»). A suo modo Cutolo, nel suo esilio all’Asinara, comincia ad apparire arcaico. Appartiene più al folklore che al futuro. I deliri letterari di Cutolo: una forma di codice Permangono oltre tutto ancora molti aspetti arcaici nelle camorre napoletane. Pupetta Maresca qualche anno fa è entrata nella società “bene”; e che cosa è più bene per una donna di vita che aprire un negozio di abbigliamento nel cuore della Napoli ben vestita, cioè in via dei Mille? E i deliri letterari di Cutolo vorrebbero ridare ai suoi accoliti un monumento artistico, come lo fu a suo tempo, in campo musicale, Guapparia; si è sforzato anche di ricostituire un codice esoterico di comunicazione – mediato dall’antica camorra e dai suoi riti – ma non ha disdegnato di ricorrere al linguaggio del moderno terrorismo. I nomignoli stessi dei suoi accoliti (o di quelli della Famiglia rivale) denunciano inequivocabilmente la loro origine popolare, spesso non urbana: «O Lione», «O Muntone», «O Crapariello», «O Misguazzo», «O Cecce», «O Chiò chiò, «O Stuorte», «O Picuozzo», «O Marcianesaro», «O Boss», «O Bitt», fino al pentito Pasquale Barra, detto per le sue efferatezze – cavava fuori gli intestini alle sue vittime in carcere, per ordine di Don Raffaele, 107

ma ha ecceduto, è stato abbandonato, e poi si è pentito – «O Animale». Arcaica è l’equità all’interno dell’iniquità, come talora si manifesta: sono sicura che, se si facesse un questionario coperto dal segreto (non istruttorio), i commercianti del mio quartiere sosterrebbero che la camorra, nell’esigere le sue tangenti, è più equa dell’Ufficio delle tasse. L’Ufficio delle tasse infatti, o perché troppo astratto o perché troppo corrotto, sbaglia nell’esigere i suoi proventi; la camorra del racket di quartiere – una sovrattassa – sbaglia raramente; il suo occhio esercitato continua a distinguere tra chi ha e chi non ha, chi ha di più o di meno. Nessuno naturalmente vorrebbe pagare le tasse. Figuriamoci le sovrattasse della camorra! La camorra però fa capire che si potrebbero anche pagare le tasse in modo più equo. Quindi – è un paradosso sofistico – gli uffici delle tasse dovrebbero imparare dalla camorra. Alcune delle foto di questo servizio rappresentano scene di un dramma, individuale e collettivo. Napoli, tutti lo hanno sempre detto, è un teatro, tanto nelle sue quinte architettoniche, quanto nella mimica e nel gesto. Perciò anche la camorra è così plateale, mentre la mafia è segreta. A Napoli, e non solo nel carcere di Poggioreale, si è ricorso spesso a codici di comunicazione arcaici: Associazione Risveglio Napoli, Movimento Tradizionale Romano, Mensa dei Bambini Proletari. Questi codici arcaici hanno nascosto però, nel bene e nel male, forze e istanze moderne. È di questi giorni il tentativo di un 108

quartiere di una città nord italiana di reinserire nella società un gruppo di devianti. Se questi tentativi non si estenderanno e se continuerà a crescere la disoccupazione giovanile in Europa, le «camorre» napoletane si estenderanno in tutte le cittadelle della civiltà europea.

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CONTRO L’USO CAPITALISTICO DEL COLERA (da “Inchiesta”, luglio-settembre 1973)

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l colera scoppiato da fine agosto 1973 – ufficialmente – a Napoli e in altri centri della Campania, delle Puglie e della Sardegna ha rilevato agli occhi della «opinione pubblica» la gravità del livello di sottosviluppo prodotto nel Mezzogiorno d’Italia dallo sviluppo capitalistico complessivo del paese che ha investito direttamente lo stesso Mezzogiorno, ed ha mostrato, anche a livello internazionale, quali spine rappresenti la situazione nel Mezzogiorno italiano nel cuore di un MEC che aspira a livelli sempre maggiori di integrazione e a sganciarsi dall’egemonia USA. In questa nota cercheremo di mettere in luce, oltre che i motivi che hanno portato alla degradazione delle condizioni di vita del proletariato e allo scoppio del colera nonché le principali responsabilità, anche il modo in cui la borghesia tenta di utilizzare ai fini di ristrutturazione capitalistica la situazione creatasi in seguito alla epidemia colerica. 1. La situazione sociale a Napoli Per quanto riguarda Napoli e la sua provincia ecco 110

il quadro nel quale è scoppiata, inevitabilmente, l’epidemia, che da più parti già si prevedeva: Disoccupazione: A Napoli e provincia solo 25 cittadini su 100 lavorano. Nel 1971 il tasso di attività era a Napoli il più basso d’Italia, il 25,1% contro il 38,1% al Nord. Per quanto riguarda l’occupazione va fatto un discorso sulla qualità dell’occupazione. Il napoletano su 4 che ufficialmente lavora non è solo un proletario. Tra gli occupati sono compresi anche borghesi e piccoli borghesi (professionisti, addetti alla pubblica amministrazione ecc.). In compenso però una buona parte dei proletari napoletani che effettivamente lavorano non si affacciano alla finestra delle statistiche perché sono lavoratori non dichiarati cioè proletari che lavorano a sotto salario e senza alcuna previdenza. In questa situazione anche i lavoratori dichiarati sono quasi sempre sottoposti ai minimi salariali soprattutto negli appalti. Questo significa in sostanza che il proletariato napoletano per la sua maggioranza è sottoposto a uno sfruttamento e a una oppressione sociale ben più forte che nelle zone di grande sviluppo industriale.1 Condizioni abitative: la densità della popolazione (abitanti per km2) è di 2.330 a Napoli contro i 390 a 1 Al settembre 1973 gli iscritti ufficiali al collocamento sono 126.000. Secondo dati segreti del Ministero del Lavoro i lavoratori a domicilio particolarmente nel settore calzaturificio e della pelletteria sono 68.000.

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Torino e i 1470 a Milano. Nella cerchia comunale essa è di 3.000 abitanti a Milano, di 5.770 a Napoli, ma sale lungo le coste del golfo agli 11.000 di S. Giorgio a Cremano e ai 7.000 di Portici. L’indice di affollamento medio della provincia di Napoli è fra i più alti d’Europa: 1,25 ab. per vano a Napoli contro lo 0,95 a Milano, lo 0,86 a Torino e lo 0,60 a Genova (dove quindi ogni «cittadino» statisticamente dispone di due stanze per sé): nella provincia di Napoli i dati sono ancora più drammatici: a Frattamaggiore 1,64 ab. per vano, a Frattaminore 1,85, a Torre Annunziata 2,35. E questi sono indici «medi», il che significa che ci sono persone che hanno intere ville per sé, appartamenti di 10 stanze per due o tre persone, e moltissime altre invece che vivono in una stanza, come nel palazzo crollato in questi giorni a via Quaranta in S. Giovanni a Teduccio dove le sei famiglie che occupavano l’ala pericolante dello stabile erano composte di 50 persone, ammassate in poche stanze, oltretutto pericolanti. Alla densità della popolazione per km2, si aggiunge come aggravante la qualità delle abitazioni, fatiscenti, prive di servizi igienici elementari, piene di topi, di umidità, e di infiltrazioni di fogne, site in ghetti abbandonati o in quartieri dormitorio della periferia completamente degradati, come Rione Traiano; dove l’acqua spesso non arriva e se arriva deve servire decine di persone e spesso di famiglie, dove la spazzatura non viene raccolta, mancano le scuole, i centri sanitari, le attrezzature e il verde per i bambini e per i giovani ecc. (il verde è meno di 50 cm2 per cittadino). 112

La degradazione delle strutture urbanistiche dei quartieri centrali è aumentata notevolmente quando essi sono stati abbandonati dalla piccola e media borghesia cittadina che si è riversata nei quartieri nuovi del Vomero, di Fuorigrotta e di Posillipo o nei comuni della fascia costiera e dell’entroterra. Fognature: L’ultimo intervento organico risale al 1900 (collettrice Montella). Da allora solo interventi slegati e parziali: la legge speciale per Napoli del 1953 destinò alle fogne solo il 13% dei fondi; quella del 1962 ancora meno, cioè il 5%. Complessivamente meno di 10 miliardi che non sono nemmeno riusciti a realizzare opere con cui «coprire», a spese dello stato e delle comunità, i gravissimi guasti dagli speculatori edili, gente che ha costruito senza mai curarsi delle strutture e delle fogne e che si è limitata a collegare palazzi con rigagnoli e pozzi neri. Perciò lo scoppio delle fogne in particolare nei periodi di grandi piogge è all’ordine del giorno a Napoli. Acqua: In interi quartieri della cerchia comunale di Napoli e della provincia, ad esempio a S. Giorgio a Cremano, Marano, Torre del Greco, Secondigliano, S. Giovanni a Teduccio, Madonna dell’Arco, ecc., manca una fornitura continua di acqua. Inoltre in molte erogazioni si riscontra la presenza di vermi come ad Ottaviano e di residui fognari e non solo di manganese innocuo, come le autorità si affrettano a rassicurare. 113

Nettezza Urbana: Napoli da anni a tutte le ore è piena di spazzatura. Infatti ci si rifiuta di aumentare l’organico degli spazzini e di dotare la città di strutture per la distruzione dei rifiuti e di strutture per la raccolta dei rifiuti nelle strade (qualche sporadico cestino metallico per le strade è più un simbolo isolato della «civiltà» che un contenitore di immondizie) e nelle case dove i condomini dovrebbero provvedere a dotare i palazzi di strutture metalliche dove raccogliere i sacchetti a perdere. Per quanto riguarda la N.U. non devono ingannare gli enormi organici del periodo laurino; infatti i clienti di Lauro, magari con laurea, venivano assunti in vari servizi, tra cui la N.U., ma in realtà facevano altro o se ne stavano a casa a godersi l’ozio pagato.2 Questi sono i motivi di fondo per cui Napoli è piena di spazzatura dove i bambini giocano, che i passanti devono scavalcare e dove i disperati cercano merci di recupero.

2 Anche attualmente una parte degli addetti alla spazzatura non svolge effettivamente il lavoro, ma è al servizio diretto dei notabili della giunta; si calcola che su 2558 netturbini solo 1298 effettivamente lavorassero alla N.U. A questo va aggiunto lo scandalo degli inceneritori. Sono anni che i netturbini non sanno dove scaricare e mesi fa vi furono blocchi stradali a Pianura, perché la popolazione si rifiutava di ricevere il maleolento fumo delle immondizie che si diffondeva per molte miglia all’intorno. Fu creato il progresso di eseguire due inceneritori e subito venne costituita una società in cui appariva un parente di un notabile Dc, che ebbe l’appalto, nel mentre venivano rifiutati i servigi di ditte ben più capaci.

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Presenza di ratti: Si sono calcolati 7 milioni di ratti a Napoli, cioè circa 5-6 per abitante, con tutte le infezioni di cui sono portatori.3 Inquinamento del mare: L’inquinamento del mare è dovuto da un lato alla mancanza di depuratori dinanzi agli scarichi fognari e industriali che si scaricano sulla costa e non al largo, dall’altro agli scarichi delle navi e delle petroliere nel golfo. L’inquinamento è tale che ha provocato l’estinzione di molte specie di flora e fauna marina, un’alta percentuale di microbi presenti nelle cozze coltivate sulle coste del golfo e il fatto che i bagnanti riportano ogni anno dalla stagione balneare malattie infettive gravi e malattie della pelle. Al riguardo va aggiunto che il problema ha delle precise implicazioni di classe. Infatti i borghesi ormai disertano da qualche anno le spiagge cittadine per zone meno inquinate della costiera o del Cilento e vanno al largo con i loro motoscafi, mentre continuano ad essere affollate di proletari le spiagge di Posillipo, Coroglio, Portici e Torre del Greco, dove gli stabilimenti popolari sono veri e propri immondezzai, oppure si riversano nelle spiagge libere cioè nei pochi metri di arenile 3 Da anni a Napoli vi sono proteste per i ratti. Alcuni anni fa è venuta a Napoli una società, la Zucchet, la quale in pochi anni attraverso intrallazzi con il comune ha fatto i miliardi, lavorando ben poco. Infatti la derattizzazione ha un senso solo se contemporaneamente avviene in tutti i quartieri della città e se si susseguono nel tempo varie operazioni in concomitanza col ciclo biologico del topo. Altrimenti le «derattizzazioni» non servono ad altro che a fare intascare miliardi alla Zucchet.

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presenti intorno agli sbocchi delle fogne. Ultimamente come «rimedio» le autorità avevano proposto di alzare l’indice di inquinamento compatibile con i bagni di mare. In alcune zone gli stabilimenti balneari hanno la scritta «Bagni elioterapici», ma i bagni a mare si fanno lo stesso e, cosa ancora più grave, si organizzano colonie estive per i figli dei lavoratori nelle zone inquinate. Gli ecologi hanno definito le acque del golfo 5 volte più inquinate degli indici sopportabili dall’organismo umano4. E già nel 1971 il Ministero della Sanità aveva chiesto la chiusura dei bagni e la proibizione della coltivazione delle cozze e di altri frutti di mare. Situazione sanitaria: La situazione sanitaria è gravissima. Alla carenza di ambulatori comunali nei quartieri si accompagnano le deficienze degli ospedali cittadini, dove è molto frequente il rifiuto dei ricoveri, ammesso che si arrivi in tempo a causa della congestione del traffico spesso fermo per ore. Alcuni indici sulle malattie infettive possono dare un quadro esauriente della situazione: su quattro italiani morti nel 1971 per malattie infettive e parassitarie a Napoli ne è morto uno (ma quanti sono i morti non ufficiali?)5.

4 Nelle acque del Golfo si trovano 500 colibatteri fecali per cm3 di acqua. L’assessore regionale alla sanità dietro proposta dei proprietari di stabilimenti balneari, dei mitilicultori, ecc. aveva proposto di spostare da 100 a 500 l’indice di tollerabilità! 5 La mortalità infantile è del 10 per mille, inferiore al solo Guatemala.

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Un caso molto settoriale ma molto frequente infine può completare il quadro: al reparto malattie del fegato dell’Ospedale Incurabili i malati devono portarsi le posate da casa e se un malato ricoverato d’urgenza non ci ha pensato, è tranquillamente invitato dalle suore e mangiare con le mani o... a usare le posate usate degli altri ammalati! Strutture scolastiche (infanzia e scuola dell’obbligo): i nidi mancano totalmente (tranne qualcuno privato a pagamento nei quartieri «alti»). Gli asili pubblici sono pochissimi, abbondano quelli di Suore a pagamento, che talora pretendono tre rate anticipate. La scuola elementare e la scuola media è caratterizzata dai doppi e tripli turni, dalla mancanza di doposcuola e refezione, da edifici scolastici sporchi, umidi, fatiscenti, privi di servizi igienici. Inoltre non essendo sufficienti i locali statali essi vengono integrati dall’affitto di appartamenti privati a prezzi altissimi, perché le autorità fanno dei prezzi di favore ai loro amici proprietari di case. Così si spendono miliardi di affitti e non si costruiscono scuole moderne: ci guadagnano gli speculatori edili e i proprietari delle vecchie case del centro storico e i muratori restano disoccupati.

2. I responsabili e la loro strategia È dunque in questo quadro che è scoppiata l’epidemia ed esistono tutti i presupposti perché il colera di117

venti endemico a Napoli, come già lo sono altre malattie infettive6. In questi giorni si cercano e si trovano i capri espiatori, in un primo tempo le «cozze», i mitilicultori e i venditori ambulanti, e ora dinanzi alla gravità dei fatti fioccano le denunce contro singoli rappresentanti del potere politico locale, come il medico provinciale di Napoli, Morante, il Presidente dell’Ente Porto, Rivieccio, l’ex prefetto di Napoli Fabiani, l’ufficiale sanitario di Napoli, Ortolani, l’ufficiale sanitario di Torre del Greco, Saggese. A noi non può che fare piacere che i borghesi si scannino tra loro, tuttavia denunciamo che queste incriminazioni servono a nascondere responsabilità ben più grosse, a livello locale quelle delle varie amministrazioni che si sono susseguite, da quelle laurine, a quelle Dc a quelle di centro-sinistra, e a livello nazionale quelle dei governi che si sono succeduti dal dopoguerra e del padronato italiano. Questi sono i veri responsabili del sottosviluppo nel Mezzogiorno e a Napoli e dell’infezione colerica, che è uno dei suoi aspetti. I giornali borghesi e le varie «autorità» fanno a gara a deplorare i mali di Napoli e del Sud in questi giorni: tutti i responsabili piangono lacrime di coccodrillo ed enunciano buoni propositi per il futuro. (…) 6 In questa direzione va la dichiarazione rilasciata recentemente dal Direttore del Cotugno, il boss liberale De Lorenzo, secondo la quale il Cotugno dovrebbe rinnovare per le malattie infettive «normali» mentre bisogna costruire un nuovo Ospedale solo per i colerosi.

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Far derivare le condizioni del Sud dall’egocentrismo delle regioni ricche del Nord fa dimenticare il blocco di alleanze che lega i padroni del Sud ai padroni del Nord.

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NAPOLI, VICOLO EROINA (da “Reporter”, 28 maggio 1985)

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iorni fa nell’assistere alla TV ai funerali del giovane motociclista romano mi ha colpito vedere che il corteo funebre era preceduto e seguito da una folta formazione di amici del giovane in motocicletta, quasi militarmente rendessero l’onore delle armi a un commilitone caduto sul campo di battaglia. Come se, quando circa una settimana fa si sono svolti nei Quartieri Spagnoli di Napoli i funerali di quattro giovani uccisi dall’eroina, i loro amici del quartiere avessero seguito i feretri con appesi al collo gli emblemi del laccio e della siringa. Anche perché, vivendo a Napoli e vedendo in tutti i quartieri popolari bambini che guidano moto in miniatura, ma in tutto e per tutto vere, quindi si presume legalmente fabbricate e vendute, giovani il cui maggior divertimento sembra quello di inalberare la moto in mezzo a un traffico intenso di macchine e pedoni, fra cui anche bambini, vecchi e malati, mi è sempre parso che vi fosse uno stretto legame tra i due barbari giochi, inalberare la moto e bucarsi. Con l’unica differenza che mentre il primo è legale, l’altro è illegale, anche se 120

ampiamente tollerato e addirittura favorito da chi dovrebbe reprimerlo. Non so se a Roma, nel corso di quel funerale, qualcuno abbia colto l’occasione per ammonire i giovani a non giocare stupidamente con le loro vite e con quelle degli altri. Nei Quartieri Spagnoli è proprio durante il funerale dei morti da eroina che le mamme si sono rivolte ai giovani ammonendoli sul pericolo e che è scaturita la loro decisione di affrontare insieme la questione. Come a conferma infine che la questione «eroina» non è separabile da altre gravi questioni, come la disoccupazione, la qualità della vita, la crisi dei valori etici e spirituali, appena qualche giorno fa, a poche decine di metri dal cosiddetto vicolo «Eroina», il giovane Pasquale Di Vaia si è ucciso gettandosi dalla finestra dopo avere dichiarato poco prima al padre che «non si può vivere in questo inferno». Le voci raccolte tra parenti stretti, amici, popolazione sulle ragioni di quel suicidio sono contraddittorie, ma contribuiscono a tracciare la mappa di alcuni gironi di quell’inferno: il giovane era disoccupato, non poteva nemmeno intravedere di sposarsi, ogni tanto trovava lavori precari; molti amici suoi erano tossicodipendenti; portava gli orecchini, quindi era strano; aveva l’esaurimento nervoso; non aveva però mai manifestato propositi suicidi a nessuno, nemmeno agli amici; naturalmente diceva sempre, come tanti usano dire, che «non si può più vivere in questo inferno». 121

Leggeva troppo la Bibbia, ha detto la madre. E si sentiva troppo stretto in casa, ha detto il padre. Dal tempo de I dolori del giovane Werther (la cui pubblicazione fu seguita da un gran numero di suicidi) si sa che il suicidio è contagioso e tutti sappiamo che bucarsi, soprattutto per il proletario, non è che un suicidio dilazionato a breve scadenza. Per definire la condizione della Germania al tempo del giovane Werther, Carlo Marx coniò il termine di «miseria tedesca»: una miseria spirituale e politica più che materiale, fatta di meschini orrori quotidiani e di un’assoluta mancanza di prospettive per le giovani generazioni. Una simile miseria spirituale e politica aggravata da un degrado progressivo delle condizioni materiali di esistenza caratterizza i Quartieri Spagnoli di Napoli. Essi si estendono a ridosso di via Toledo (ex via Roma) fino al corso Vittorio Emanuele, in forma di ordinata scacchiera conforme al progetto urbanistico cinquecentesco, quando fu necessario estendere la città oltre le antiche mura e si scelse quella zona verde dove erano acquartierati i soldati spagnoli. Anche i toponimi rivelano l’origine spagnolesca e controriformista di questi Quartieri: via Conte di Mola, vico Concezione a Montecalvario, via S. Sepolcro, vico Lungo Trinità degli Spagnoli, via Montecalvario, vico Tre Re a Toledo, vico Tre Regine, ecc. A 122

causa di questa origine e della vicinanza del porto, da allora nei vicoli inferiori sono diffusi molti traffici illegali e la prostituzione femminile e maschile, come avviene in tutte le città di mare. Questi vicoli hanno ispirato scrittori celebri, come Sartre che in un racconto che eliminò dalla raccolta de Il muro, pubblicato recentemente da Einaudi, descrisse le speciali e grottesche prestazioni «pompeiane» di un bordello, e Patroni Griffi che in Scende giù per Toledo scelse come protagonista un travestito. E in essi, conformi alle attività che vi vengono svolte, dominano gli odori di bucato o di cipria e numerosi sono gli esercizi di ristoro, i locali notturni, le lavanderie e parrucchieri per signora e per uomo. Se questa è la facciata più appariscente del quartiere e lo specchietto per molte allodole sociologiche o letterarie il resto è invece assai complesso e composito tanto dal punto di vista del lavoro che del reddito. Nella scheda allegata si possono leggere alcuni dati sul quartiere tratti dal libro di Giovanni Laino, Il cavallo di Napoli, F. Angeli Ed., 1984. Se il grande filosofo Spinoza aveva una tale stima di Tommaso Aniello (detto Masaniello) da farsi raffigurare da un amico pittore nei panni del ribelle pescatore, non meraviglierà se molti della mia generazione anni fa amassero al punto l’umile Gennaro Esposito napoletano da arrivare persino a firmarsi con il suo nome. Io stessa ebbi questo culto, conosco quindi vi123

cende, lotte, rassegnazioni della gente dei Quartieri Spagnoli per avervi svolto lavoro volontario in doposcuola, scuole popolari, comitati, sorti per i più vari obiettivi: case, scuole, lavoro, diminuzione del prezzo del pane, risanamento igienico sanitario al tempo del colera, ecc. Questi obiettivi dall’inizio degli anni ’60 a oggi non sono sostanzialmente cambiati, anche se di volta in volta muta la loro articolazione e se a essi se ne sono aggiunti di nuovi, per esempio quest’ultimo: combattere la droga. Una volta i Quartieri avevano un gran numero di laboratori e botteghe artigiane, per conto terzi o in proprio, vari settori produttivi: guanti, scarpe, borse, pelletterie, scatole, abbigliamento per uomo, modisteria, pellicceria, oreficeria. In certi periodi le commesse di Valentino, di Jervolino e di altri erano di decine di migliaia di articoli. La produzione era decentrata in laboratori o a domicilio (quasi tutte le fasi del guanto, tutta l’orlatura delle scarpe, ecc.); e il lavoro era nero, anzi nerissimo, coinvolgendo anche i bambini. Oggi l’unico settore rimasto attivo nel campo delle confezioni è quello delle borse, con un po’ di scatolifici indotti. Permangono ancora poche pelliccerie, qualche orefice, dei falegnami e dei fabbri, indotto dell’edilizia, ossigenata dal terremoto. Nel terziario oltre ai servizi forniti dalla prostituzione femminile e maschile esistono molti esercizi commerciali (alimentari e abbigliamento) che in parte servono alla riproduzione della popolazione in parte 124

esportano servizi esterni, per esempio ai numerosi impiegati degli uffici del Centro. Fra i giovani soprattutto domina la disoccupazione; e, finita la speranza organizzata di un lavoro regolare, quando non è ancora viva quella di ottenere un posto per vie clientelari, rimangono la delinquenza o la disperazione, alimentate dall’eroina. Risultava nel 1971 che il 76% della popolazione era in affitto e che dominasse fra i proprietari delle case in affitto il piccolo proprietario il quale come si sa non ripara né ristruttura mai le case. Ancora molti edifici danneggiati dal terremoto non sono stati riparati. Girando per le strade si vede un gran numero di «Si Vende». Dopo il terremoto la maggior parte della popolazione abbandonò le case pericolanti, nelle quali oggi è tornata in parte, anche in quelle ancora inagibili. I servizi (asili, scuole, strutture sanitarie, nettezza urbana, illuminazione) sono da sempre carenti. Quasi tutti ricorrono a prestiti da usurai, che danno danaro con interessi del 300% – e spesso per mezzo di un’ulteriore composizione, con un sistema chiamato «sardacunto», questo tasso di interesse viene di molto superato. A questi problemi negli ultimi dieci anni si è aggiunto quello dell’eroina, usata dalla maggior parte dei giovani maschi del quartiere. Tre sono i livelli di smercio. Quello dei grossi capi125

camorra – non si sa bene se questa struttura si sia riprodotta nel quartiere, né come, da quando i maggiori boss nell’ultimo anno sono stati uccisi o arrestati. Quello di numerose famiglie che smerciano eroina in modo organizzato, mietendo spesso vittime tra figli e nipoti. Infine quello dei giovani consumatori, anche essi piccoli spacciatori. Chi guadagna maggiormente con l’eroina sono le grosse organizzazioni e gli avvocati. Chi si affida a un bravo avvocato riesce con vari trucchi a evitare o abbreviare la galera. Ma vi sono anche altri trucchi, che conoscono i più abili: per esempio affidare lo smercio ai vecchi che hanno superato i settanta anni, perché ottengono facilmente gli arresti domiciliari. Risulta chiaro quindi che l’eroina più che una contraddizione in seno al popolo rappresenta una contraddizione in seno a una stessa famiglia, a una stessa donna, a una stessa persona; se il suo traffico è un introito familiare, esso si ritorce contro i figli e il mezzo di sussistenza si trasforma in strumento di morte. Non sarà quindi una lotta facile quella del comitato delle mamme antidroga, che hanno cominciato a riunirsi in un locale del lotto privato e che, pare a causa di minacce, sono poi andate a riunirsi nella vicina sezione del PCI, l’unica forza politica che nel quartiere ha avuto il coraggio di condurre la lotta antidroga. Gli obiettivi che si sono poste le madri sono per ora due: creare una comunità terapeutica nel Quartiere e precisamente nella ex sede dell’Ospedale militare, che si 126

è trasferito a Caserta, e chiedere un maggiore intervento della polizia. Per ottenere questo essi si recheranno il 29 a Roma a parlare con Nilde Iotti e con Pertini; e per fittare i pullman stanno organizzando delle «riffe» nel quartiere (cioè delle lotterie). Ai funerali di Pasquale Di Vaia mi ha avvicinata un amico e mi ha condotta a casa sua, un basso, tra la «Stube» tirolese e la stanza di uno studente diligente. Qui non ha sede un vero e proprio comitato, come li si intendeva una volta: è un luogo di osservazione attenta dei problemi del quartiere, di appassionato impegno a risolvere intelligentemente ogni grave questione, di fedele amicizia tra le persone. Vi passano in tutte le ore del giorno le donne, i travestiti, le prostitute, gli operai e le operaie delle confezioni, i tossicodipendenti, gli ex carcerati; si chiacchiera, si beve il caffè, si scherza, si discute, si consiglia. Le proposte più intelligenti per risolvere realisticamente molte questioni le ho udite formulare qui. Per il lavoro nero si propone di organizzarsi in cooperative che ottengano direttamente le commesse dalle grandi fabbriche saltando gli intermediari; in questa direzione si sta elaborando un progetto per un laboratorio di borse, al quale a suo tempo si era interessato anche Eduardo De Filippo. Per la droga si sostiene che non bisogna aspettare di ottenere dal Ministero della Difesa l’ex Ospedale militare (la prassi burocratica sarà certo assai lunga); si dovrebbe in attesa chiedere al sin127

daco di requisire un paio di appartamenti in edifici in via di riattazione per crearvi subito delle comunità terapeutiche. A causa dell’eroina e della prostituzione c’è nel quartiere un alto rischio di contrarre l’AIDS, con questo pretesto molti travestiti vengono aggrediti e malmenati quando scendono in città; ora l’unico centro di analisi è presso l’Istituto dei Tumori Pascale, che è molto lontano; perché non creare un centro di analisi nel quartiere stesso? Questi osservatori attenti sono in polemica con la maggior parte dei sociologi e dei politici: sostengono che non è vero che, se si tocca l’intermediazione nel settore del lavoro nero, crolla il suo fragile edificio; che nel campo del decentramento produttivo e dei servizi commerciali sono qui predominanti gli aspetti moderni rispetto a quelli paleocapitalistici. Sono contro ogni «soluzione finale» della questione urbanistica – ci sono stati infatti in passato e dopo il terremoto molti progetti di procedere all’abbattimento delle case antiche e alla creazione di un moderno centro direzionale. Chiedono a politici e sociologi di creare nel quartiere dei punti di osservazione e di rilevamento dei dati reali, prima di procedere a qualsiasi progetto. E continuamente sostengono che si tratta di una realtà complessa e molto articolata, che solo un punto di vista esterno e superficiale vede semplice e omogenea. Insomma mi è parso che questa «Stube» sia un vero e proprio cavallo di Troia per introdurre nel quartiere inventività e intelligenza sociologiche. 128

LO SPECCHIO DI ANNA (da “Il Mattino”, anno XCV, mercoledì 24 dicembre 1986)

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a quando ho raggiunto l’età della ragione politica, si risolleva periodicamente in città la «questione del centro storico», con maggiore frequenza e regolarità di terremoti ed epidemie; come la «questione meridionale», occasione per alcuni di generose denunce delle condizioni in cui versa la popolazione e delle cause del degrado umano e ambientale, per altri invece di mire speculative, ammantate da buone intenzioni, alimentate proprio da quelle generose denunce. E la «questione» è sempre accompagnata dalla parola gemella «risanamento». Dopo il colera del 1884 bisognava sventrare la città, disse Depretis, e la Società del Risanamento costruì il quartiere del Vasto, il Rettifilo, un tronco di via San Felice, abbattendo case e vicoli antichi; l’intento dichiarato era quello di migliorare le condizioni di vita della popolazione, considerata fonte di funzioni epidemiche; ma poiché essa non fu alloggiata in nuove case, né deportata, né ammazzata, si riversò nei vicoli circostanti, aumentandone l’affollamento e continuando a moltiplicarsi come comandavano la chiesa e 129

la patria. Altri risanamenti più recenti furono quello fascista e quello laurino, con gli effetti sulla popolazione già noti dal primo risanamento e con effetti nuovi, lo spostamento di una parte dei più poveri in periferia. Se invece che parzialmente, tutto il centro storico fosse stato risanato, oggi il traffico scorrerebbe meglio, direbbero gli automobilisti; il commercio sarebbe più fiorente, direbbero i bottegai, l’ordine pubblico sarebbe meglio tutelato, direbbero gli sbirri; e la gente starebbe meglio, direbbero gli stupidi o gli uomini in mala fede. In realtà, come è accaduto in altre città europee, i poveri rimarrebbero tali, ma sarebbero meno visibili, spostati in periferia – in città dormitorio, baracche, containers, borgate, slums, favelas. E Napoli diventerebbe una città qualsiasi e eventuale, per di più provinciale e brutta, perché le opere che abbiano un qualche valore funzionale artistico e sociale, edificate finora a Napoli dai moderni risanatori, si contano sulla punta delle dita, letteralmente e nulla lascia presagire che in futuro si farebbe meglio. Non a caso i risanatori riuniti si sono posti qualche tempo fa la questione di Napoli e Palermo, le due uniche città europee dove non si è riusciti ancora a scacciare i poveri dal centro storico. Di tutto il centro storico di Napoli sono proprio i Quartieri Spagnoli a fare più gola ai risanatori; si trovano infatti a ridosso del porto e del quartiere degli affari; risalgono «solo» al Cinquecento (dalla metà del Seicento vi erano alloggiate le truppe spagnole); poco 130

numerosi vi sono i monumenti di grande valore storico e artistico; infine il grave degrado urbano e sociale può essere usato come pretesto per un intervento risanatore, finale o parziale. Ma la fisionomia di una città non è affidata solo ai grandi monumenti; o, detto in altro modo, quell’intero quartiere è uno straordinario monumento, come lo furono i quartieri popolari della antica Ostia romana e il ghetto di Varsavia, come lo sono ancora oggi le case Fugger ad Augsburg e la Margaretenhöhe a Essen, l’insediamento fatto costruire da Margherita Krupp per i lavoratori delle miniere e delle officine della famiglia. La reale divisione sulla questione del centro storico non passa tra chi vuole abbattere il più possibile, ottenendo non tanto profitti ma superprofitti, e chi invece vuole abbattere l’indispensabile e ristrutturare i vecchi edifici; ma tra chi è preoccupato solo di edilizia e chi si cura anche della gente; di garantire cioè una maggiore giustizia sociale ai più poveri, in primo luogo il lavoro, la casa e la scuola, nei luoghi dove già risiedono. Per un progetto quindi che non persegua solo fini speculativi – o non sia solo fumo negli occhi degli elettori – è necessario un intervento pubblico e privato mosso da una moralità costruttiva, come la intendeva Gropius, seguendo o inventando criteri economici, sociali e anche legislativi volti a recuperare il centro storico nella sua integrità e avendo come principale obiettivo l’uomo. Bisognerebbe allora studiare molte altre esperienze passate e recenti, fra le quali ultime 131

suggerirei quella avvenuta fra l’80 e l’85 nel quartiere di Kreuzberg a Berlino Ovest. Dalla parte degli «untori» Sapendo per esperienza cosa è significato finora risanare Napoli, sono dalla parte degli «untori» – anche perché Manzoni ci ha insegnato a distinguere tra chi unge veramente e chi ne è ingiustamente accusato. Perciò preferisco non frequentare le riunioni dei risanatori e stare alla larga dai loro studi e salotti. Vado invece ogni tanto in casa di Anna e mi riprometto di trascorrervi la mattina o il pomeriggio di Natale. La casa di Anna è un basso dei Quartieri Spagnoli, dove Anna è vissuta qualche tempo e dove ora dalle due fino a sera con Giovanni e Lina riceve gli amici. Chi sono Anna, Giovanni, Lina, chi i loro amici, quale il fondamento di un’amicizia intensa al punto da richiedere una quotidiana frequentazione? Anna e gli altri fin dalla prima giovinezza hanno fatto esperienze cristiane radicali. Hanno cominciato con l’aiuto agli utenti del Dormitorio Pubblico, poi Anna e Lina hanno lasciato l’insegnamento, la prima per fare l’operaia a sottosalario in un laboratorio di borse, la seconda per prestare assistenza volontaria alle detenute di Nisida; Giovanni si è dedicato allo studio sistematico delle condizioni di vita e dei bisogni reali della popolazione dei Quartieri, lavoro documentato nel libro Il cavallo di Napoli (Franco Angeli, 1984). Vivono, come molte persone oggi, in una comunità di 132

abitazione. Anna ha fatto forse le esperienze più estreme, ma i suoi princìpi radicali si alimentano anche dell’humus che le offrono i compagni con cui vive. Il loro cristianesimo è stato orientato all’inizio dall’esperienza di Charles de Foucauld (1858-1916) e dagli ordini dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle di Gesù, fondati negli anni Trenta da proseliti di Charles de Foucauld. Caratteristiche essenziali di questi ordini sono la dialettica tra il nascondimento nel lavoro umile e la preghiera solitaria, tra la presenza in pieno mondo e la vita contemplativa, intesa come mezzo per potersi meglio dare agli uomini; la disposizione a affrontare il martirio pur di vivere in conformità con questi princìpi. Essi sono stati spesso accusati dalla gerarchia ecclesiastica o da altri ordini di essere poco efficaci nell’opera di evangelizzazione o al contrario di dare troppo poco spazio alla vita contemplativa. Charles de Foucauld condusse realmente questa vita di umile lavoro, interrotta da lunghe meditazioni nel Sahara algerino, e morì ucciso dai nomadi Tuareg nel 1916; e sorella Magdeleine, fondatrice dell’ordine, che fu nomade tra i nomadi, zingara fra le zingare, operaia fra le operaie, dové combattere contro la gerarchia ecclesiastica perché l’ordine fosse riconosciuto, perché rimanesse povero, perché le sorelle potessero lavorare come operaie. Da laica irriducibile quale sono, non posso evitare di vedere come la scelta, prima medio-orientale, poi sahariana, di Charles de Foucauld seguisse inconsape133

volmente l’espansionismo coloniale francese e fosse uno fra i numerosi esempi di fuga dall’Europa in quegli anni, come quelle di Rimbaud e di Gauguin anche se ciascuna diversamente motivata. E scorrendo la sua corrispondenza ho avuto un soprassalto quando ho letto che durante la prima guerra mondiale condivideva le «preoccupazioni» per la Francia e chiedeva a Dio di proteggerla. Ho avvertito anche fastidio per altre sue preoccupazioni, quella per esempio di evangelizzare i musulmani; mentre ho apprezzato i suoi studi sui Tuareg e sulla lingua Tuareg di cui tradusse anche poesie, e la sua lotta contro la schiavitù, allora ancora praticata. Ma già in lui la parola evangelizzazione non si riduceva a catechismo; e essendo egli piuttosto un uomo di azione e di meditazione, la parola forse lo tradiva. Provo d’altra parte soprassalti e fastidi simili rileggendo testi marxisti. Molte sono infatti le somiglianze tra chi voleva evangelizzare i musulmani e chi voleva renderli socialisti; e tra chi si preoccupava per la Francia e chi poi per l’«URSS». Sempre più consapevolmente tendo a distinguere gli uomini in chi coltiva la certezza e chi il dubbio, in chi esige e dà risposta e chi preferisce interrogare e essere interrogato; e a preferire i secondi ai primi. Perciò considero certezza e risposta segno di ricchezza e potere o di aspirazione a possederli, se non per sé, per gli altri o in loro nome; e dubbio e interrogazione figli invece di povertà, come l’amore, secondo Platone. Oggi Anna e i suoi amici, dopo l’esperienza di rin134

novamento religioso, sono in un periodo di ripensamento e si sentono vicini alla teologia dell’interrogazione di Filippo Gentiloni. A mia volta sono in un periodo di ripensamento, dopo le mie esperienze di rinnovamento marxista. Perciò è possibile interrogarci insieme… Figli della povertà In casa di Anna e degli altri si avverte che tutto l’arredo, materiale e spirituale, è figlio di povertà, dal letto agli scaffali dei libri, dalle stoviglie ai vestiti, dalle preghiere che si compilano alla carta sulla quale si scrivono. Gli amici della casa, spesso invitati pranzo e a un caffè, sono a domicilio, giovani apprendisti, ex prostitute, casalinghe, tossicodipendenti, ex carcerati, travestiti, ex travestiti, vecchi malati dei Quartieri Spagnoli o lavoratori e disoccupati del terzo mondo emigrati a Napoli. «Essere fra le masse come un pesce nell’acqua», diceva il presidente Mao; e suor Magdeleine: tu vivrai immersa nella pasta umana come il lievito. Questa seconda metafora avrebbe potuto essere usata anche da Mao, perché il lievito era il partito. Non la userebbero invece forse Anna e i suoi compagni, perché si ha a volte l’impressione che siano loro la pasta e gli altri il lievito; esiste infatti una reciprocità, nella quale risiede, credo, il segreto della loro amicizia con gli abitanti dei Quartieri. E mi sembra addirittura a volte che il loro cristiane135

simo sia come il brandello di un più ricco vestito che prima indossavano; che essi siano non intermediari tra Dio e gli uomini, come i sacerdoti e gli evangelizzatori, tra la propria spiritualità e quella degli altri. In quella casa ci si riunisce spesso intorno alla tavola – e al cibo – e in ciò vedo una comunione della carne, a cospetto della quale quella eucaristica appare astratta metafora. C’è un piccolo specchio sotto la finestra, «troppo usato», quasi «consumato dagli occhi», scherza Giovanni, nel quale i giovani travestiti cercano la conferma della loro inversione più che della loro bellezza. Come tutti gli specchi fornisce sempre e a tutti un’immagine invertita di sé e del mondo, quasi a raffigurare la relazione tra Principio e manifestazione – metafora cara a alcuni mistici. Perciò in casa di Anna dove manca ogni simulacro idolatrico, quel piccolo specchio diventa ai miei occhi l’unico simbolo religioso. E il mondo della manifestazione, così colorato, affascinante e contenuto dal rito in quella casa, è l’unico teatro che conosco ancora consapevole della propria origine celeste. In questi giorni Anna e i suoi amici stanno preparando lo statuto di un’«Associazione Quartieri Spagnoli». Hanno molte idee: fondare una cooperativa per la fabbricazione delle borse che riceva direttamente le commesse e non passi attraverso l’intermediazione parassitaria, creare un centro di aggregazione per dare occasioni d’incontro ai giovani emarginati, che di norma hanno solo il bar, la strada, il «marciapiede» e 136

per i quali il basso di Anna è troppo stretto, ecc. Hanno bisogno di aiuto. Che glielo si dia nelle forme e nei modi in cui lo chiederanno essi stessi, ché assai più di sociologi, politici, urbanistici, antropologi conoscono i problemi di quella gente.

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DISCORSO SCRITTO IN OCCASIONE DELLA CANDIDATURA DELLA RAMONDINO DA INDIPENDENTE NELLE LISTE DEL PCI AL PARLAMENTO EUROPEO (testo proveniente dalle carte private dell’autrice)

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rima di tutto ringrazio il Partito Comunista Italiano per questa candidatura come indipendente nelle sue liste. Le ragioni della proposta del Pci e della mia accettazione credo risiedano fondamentalmente in questo proposito espresso dal Pci in occasione delle elezioni per il Parlamento Europeo, contenuto nella relazione di Achille Occhetto al Comitato Centrale del 26-27 aprile del 1984: «La nostra sarà quindi, in primo luogo, una lista elettorale di candidati che si impegnano a portare al Parlamento Europeo le idee e le attese dei movimenti pacifisti che attraversano il continente europeo». Effettivamente la questione della pace è quella che mi sta più a cuore, fra tutti i problemi politici, nella mia duplice veste di militante di sinistra e di artista. Il problema della pace è al centro oggi dei miei interessi, delle mie preoccupazioni, delle mie angosce: come essere umano, come donna, come militante, come artista. Anche negli anni Cinquanta e Sessanta ho militato nel movimento per la pace, fin quando è finito. La guerra che ci minaccia è diversa da tutte quelle 138

del passato, perché non mette in pericolo soltanto la nostra vita individuale, quella dei nostri figli, dei nostri amici, dei nostri concittadini, ma quella di tutta la specie umana. Anzi direi di più: se è diritto di ogni individuo togliersi la vita quando non la sopporta più, potremmo considerare il suicidio collettivo della specie umana attraverso l’olocausto atomico come un diritto della specie. Ma come può la specie umana arrogarsi un diritto che una volta apparteneva a Dio o alla Natura, quello di distruggere piante, animali, fuoco, aria, acqua, terra? Se l’umanità nell’odio verso se stessa ha raggiunto livelli tali da non sopportare più la vita su questo pianeta, ebbene perisca, ma non minacci con il suo odio anche la vita delle bestie e delle piante innocenti. Perciò enuncio questo paradosso: se Marx sosteneva che la classe dei lavoratori, riscattando se stessa, riscattava tutta l’umanità, aggiungerei che, dato lo stato delle cose presenti, chi si fa carico veramente, e non a parole, del problema della pace, riscatta nella sua lotta oltre che l’umanità, anche tutte le cose del creato. Questo è un primo argomento, per me almeno, decisivo. Ve ne sono però altri. Tutti gli esseri umani accettano la loro finitezza, perché in qualche modo si illudono di sopravvivere oltre la morte. La forma più comune in cui si sperimenta la trascendenza è fare dei figli. I nostri figli oggi non hanno avvenire. La religione che noi offriamo loro è quella dell’olocausto atomico. Se pensiamo alle antiche civiltà, i Greci offrirono come 139

modello ai giovani il Partenone, gli Egizi le Piramidi, i Romani il Pantheon e l’Acquedotto, i cittadini del Medioevo le cattedrali e il Comune Libero. I monumenti del nostro tempo sono il fungo di Hiroshima e il grattacielo di New York: gli unici edifici che abbiamo saputo elevare tra la terra e il cielo. Un’altra forma di trascendenza della propria vita finita è affidarsi alla propria opera. Il contadino di una volta piantava un olivo e sapeva che dopo la sua morte esso sarebbe cresciuto forte, produttivo e rigoglioso; forse non ne avrebbe visto i frutti in vita, altri però li avrebbero visti. Così l’artista affida la sua sopravvivenza alla sua opera. Oggi un albero piantato non ha avvenire, non diventerà vecchio come l’albero greco sotto il quale sedeva Ippocrate. Così le opere di un artista, grandi o modeste che siano, non hanno avvenire. Nel togliere ai giovani l’avvenire, abbiamo tolto loro anche il passato, perché esso è vivo solo all’interno di una concatenazione, non necessariamente progressiva. Infatti molti giovani si rifiutano di studiare il passato per ricavarne lezioni, perché non saprebbero in quale futuro applicarle. Li vediamo così confinati in un eterno presente. Essi usano dire: – Domani faccio questo ; non – Domani farò questo. E la disoccupazione che colpisce soprattutto loro è la Gerusalemme terrestre che noi offriamo loro, alla quale si contrappone la Gerusalemme celeste che abbiamo immaginato, il fungo atomico. Essi quindi come Pinocchio vivono nel paese dei balocchi e crescono loro lunghe orecchie d’asino. 140

Ma mentre Pinocchio aveva scelto di provare a vivere nel paese dei balocchi, siamo noi invece che vi abbiamo deportato i giovani. I 180.000 drogati che ci sono in Italia, secondo le stime ufficiali, sono solo la punta di un ice-berg di disperazione giovanile e di sfiducia nell’avvenire. Siccome appartengo a un’altra generazione, in cui passato, presente, avvenire facevano parte di una catena biologica e logica, ho maturato posizioni pacifiste radicalmente non violente, che riguardano quindi non solo il mio atteggiamento verso le guerre, anzi la guerra futura eventuale, ma anche verso quelle passate: per me tutte le guerre sono e sono state come la guerra di Troia, combattute per un fantasma. E il mito omerico continua per me a essere una spiegazione della guerra di Troia più valida di qualsiasi spiegazione scientifica, storica, economica, sociologica, psicanalitica. Perciò sono non solo per il ritiro degli SS 20 sovietici e dei Pershing e Cruise, in parte già installati in parte progettati, ma anche per il disarmo unilaterale; e se credo fermamente in una unione politica europea, non credo però in un’Europa forte e armata, né nel senso gaullista di una force de frappe né in quello di una forza convenzionale. Una force de frappe europea, cioè un armamento atomico in grado di contrapporsi ai due blocchi, è irrealistica, date le nostre forze. E anche inutile, semmai valesse la pena di fare questo sforzo. Gli altri sono troppo forti; l’arma atomica, anzi, in sé è troppo forte. Né credo a un buon esercito convenzio141

nale europeo, come qualcuno propone. L’unico esercito convenzionale al quale credo, contro le volontà di guerra e le coazioni alla guerra dei due blocchi, è quello degli uomini di buona volontà; l’unico riarmo in cui credo è quello delle coscienze. Il problema della guerra atomica che ci minaccia è strettamente legato al nostro modo di vivere. Anche rispetto a uno sviluppo incontrollato della tecnica mi sembra più illuminante la favola dell’apprendista stregone, al quale sfuggono di mano le forze che ha suscitato, rispetto a mille altre spiegazioni. Dobbiamo ancora imparare come la tecnica possa essere al servizio dell’uomo e non viceversa. La tecnica che ha portato alla bomba atomica è la stessa che nel mondo del lavoro ha introdotto il taylorismo, quello che vediamo descritto nel grande film di Chaplin, Tempi moderni, il più alienante dei lavori sperimentati finora dall’umanità, che ha creato eserciti di disoccupati e morti di fame, che ha distrutto l’agricoltura in larghe zone del nostro Sud e del Terzo Mondo. Soprattutto è quella che ha creato un accentramento di potere, incorporato in piccole élite addette ai lavori, tecnocratiche o tecnico-militari, dinanzi al quale il potere dei Faraoni egiziani, degli Imperatori Romani, dei Re di Francia e di Spagna, degli Hitler e dei Mussolini può sembrarci oggi irrisorio. Combattere quindi contro la guerra atomica e per il disarmo significa anche combattere per la cooperazione sociale e contro l’accentramento smisurato del potere. In questo senso chiunque dichiari di 142

lavorare per la pace e eserciti potere sugli altri è per me un parolaio, peggio un guerrafondaio. Più che da noi ho potuto constatare in agosto in Germania come il movimento per la pace sia strettamente e drammaticamente legato a un nuovo modo di vivere le relazioni umane e sociali. Un altro problema fondamentale che a mio avviso dovrà affrontare il Parlamento Europeo è quello delle relazioni con il Terzo Mondo, che per alcuni si riduce al problema della “fame nel mondo”. Forse finora le relazioni dei paesi della Cee verso il Terzo Mondo si sono limitate a accordi privilegiati, dovuti alle vecchie relazioni coloniali, e non si è sviluppata verso di esso una vera e propria politica comunitaria. Chiedere e ottenere che si stanzino fondi assistenziali per i bambini del Biafra va bene come emergenza, non come linea politica. Noi meridionali ne sappiamo qualcosa. La comunità economica europea finora si è mossa in una logica primitiva, nota a qualsiasi sociologo, psicanalista, o persona comune: sottostare al padrone, l’America, e in cambio, opprimere i più deboli, per esempio i vari Sud europei, fra cui il nostro Sud, e gli altri Sud: il Terzo Mondo. Prima si distruggono la agricoltura locale e le altre risorse, poi ci si affida all’assistenza. Questa è stata per grandi linee finora la politica della Cee, rappresentata in Italia dalla Democrazia Cristiana. Naturalmente il discorso va articolato di più: esistono delle enclave di Nord anche nel nostro Sud, ne sono un esempio le serre di Vittoria in Sicilia; ma il nostro 143

patrimonio zootecnico è stato distrutto, i carrubi, una volta cibo degli asini, e oggi utili per ricavarne farine con alto contenuto di zucchero, crescono inutili e frondosi, quando non sono divorati da incendi speculativi, – non parliamo degli ulivi. Se penso alla politica della Democrazia Cristiana in questo campo mi viene in mente l’immagine di una casalinga accorta, ma miope, rinchiusa tra le pareti domestiche e che non osa nemmeno desiderare il cielo. Ma vi sono dei momenti in cui questa arte modesta non basta, sono necessari dei condottieri, delle persone di genio. I colpi di genio in genere non sono altro che la scoperta dell’ovvio, o come si dice, dell’acqua calda. Se si distruggono delle persone o dei territori o un equilibrio economico-sociale, rimangono poi solo l’assistenza. O l’indifferenza. O il prurito moralistico. Sarebbe stato importante pensarci prima, non distruggere certe risorse. Almeno non buttare il bambino con l’acqua sporca. Constatato questo, e noi meridionali ne sappiamo qualcosa, le iniziative Cee verso il Terzo Mondo in primo luogo, data la mole dei problemi, dovrebbero essere coordinate e non affidate a relazioni privilegiate residuo dei vecchi imperi coloniali; in secondo luogo dovrebbero promuovere un reale sviluppo, non contribuire alla distruzione, per poi affidarsi all’assistenza; né, una volta provocato questo danno immane, affidarsi soltanto a progetti pilota di sviluppo qua e là, ai cosiddetti fiori all’occhiello. Chi ama i fiori veramente preferisce lasciarli crescere piuttosto che coglierli; ma la cosa più 144

immorale è ostentarli all’occhiello. C’è il rischio di ostentare le poche iniziative pilota. Una politica globale verso il Sud richiede invece molta modestia, molta pazienza; e, prima di dire, bisogna imparare a ascoltare molto. Strettamente collegato a una diversa politica verso il Terzo Mondo è il problema del nuovo statuto che dovrebbero ricevere i circa 14 milioni di lavoratori emigrati, presenti nella Comunità Europea. Proprio noi italiani, soprattutto al Sud Italia, ben sapendo che cosa significa l’emigrazione di massa, a volte, se si pensa a certi villaggi, addirittura l’esodo, dovremmo farcene promotori insieme ai greci. Tutti gli emigrati all’estero, compresi i circa 800.000 lavoratori stranieri immigrati in Italia, devono avere gli stessi diritti almeno dei lavoratori italiani emigrati nei paesi della Cee: questo vale per i Turchi che sono in Germania come per i Somali, ecc., che vivono da noi. A parte qualche enclave ovvero eccezione le donne vanno considerate come una forza lavoro del Terzo Mondo immigrata nel Secondo Mondo. Se sono il secondo sesso, nel campo del lavoro sono in gran massa il terzo mondo. Dovrebbe quindi diventare operante all’interno della Comunità Europea la risoluzione approvata nel gennaio ’84 dal Parlamento Europeo, tesa a ridurre la discriminazione nel lavoro e nella società che colpisce le donne e a affermare il principio giuridico che ogni delitto di violenza sessuale non rientra nelle norme che regolano il cosiddetto buon costume, 145

ma in quelle che riguardano i delitti contro la persona. La lotta delle donne per la loro liberazione è oscura e contorta. Penso come esempio emblematico al Mädchencafé, il Caffè delle ragazze di un quartiere di immigrati di Francoforte sul Meno: operatrici sociali e femministe tedesche hanno aperto quel caffè, che è anche un centro di iniziative sociali: vi vanno soprattutto ragazze e donne turche. Potrebbe sembrare a occhi superficiali un’iniziativa ferocemente femminista di Amazzoni che vogliono escludere gli uomini dalla faccia della terra. Invece è l’unico luogo dove possono andare le ragazze turche. Le loro famiglie non tollererebbero che esse frequentassero luoghi pubblici, in cui ci sono anche dei maschi. In molti villaggi sardi la fabbrica di dolciumi Ferrero reclutava per la sua filiale tedesca, attraverso opere pie, ragazze che non avevano ancora trovato marito; poi in Germania erano sottoposte a un regime duro di fabbrica e monastico nella vita privata. Non vogliamo che accada più questo, come non vogliamo che a Napoli giovani ragazze siano paralizzate dai collanti nel settore delle calzature e siano sbeffeggiate dagli avvocati o dai giudici come isteriche. Uno dei problemi più drammatici del nostro tempo, di cui larghe masse hanno ormai preso coscienza negli ultimi anni, è quello della protezione dell’ambiente. Se la bomba atomica minaccia di distruggere tutto l’habitat del pianeta, intanto un incontrollato sviluppo industriale sta lentamente distruggendo la natura; ed è 146

tale la dimensione distruttiva, che spesso i problemi non possono essere affrontati a livello né locale né nazionale. L’inquinamento del Mediterraneo non ha origine né si risolve solo a Napoli. Napoli invece attraverso la sua stazione zoologica (l’Acquario), la più importante di Europa, potrebbe all’interno di un programma Cee diventare il centro di un progetto di salvezza del Mediterraneo. Lo stesso vale per la pioggia acida che sta distruggendo i bei boschi tedeschi. E che arriva anche in Svizzera. E forse la pioggia acida sarà più forte delle antiche tradizioni cantonali svizzere e della fedeltà di quel paese al segreto bancario, che lo tengono orgogliosamente lontano dalle sorti europee. Infine due altri problemi rendono pressante la necessità di una maggiore cooperazione europea. Se da un punto di vista economico i paesi della Cee non riescono a tenere il passo con gli Stati Uniti e con il Giappone, questo si manifesta soprattutto nel campo della ricerca scientifica. Se si sommano i fondi europei spesi da ciascun paese della Cee per la ricerca scientifica si vede che la spesa non è inferiore né a quella degli Stati Uniti né a quella del Giappone. Solo la resa è inferiore, semplicemente perché gli sforzi non sono coordinati. Ma anche qui bisogna stare attenti: il problema non è solo quello della quantità, ma anche quello della qualità. Se si studia per esempio un certo tipo di patata che va bene per la California o per l’Olanda, non è detto che vada bene per certe nostre colline o per la Tunisia. La ricerca scientifica va commisurata all’habi147

tat, geografico-umano, di ciascun paese, sennò è maggiore il danno del vantaggio. Appena qualche anno fa, quando insegnavo in una scuola situata nel centro storico di Napoli, dovevo sempre meravigliarmi dinanzi all’enorme difficoltà di convincere il corpo insegnante della necessità di condurre i giovani in visita più che in una Parigi utopica, per la quale oltre tutto non ci erano mai i fondi, semplicemente a visitare Pompei e gli scavi effettuati sotto la chiesa di San Lorenzo, e ricorrevo vanamente all’argomento: Qui non siamo nel Texas. Sia ben chiaro, non ho nessun disprezzo per il Texas. Però mi sembra un peccato che il patrimonio culturale dell’Europa, che per il bene e per il male, è stata la culla della civiltà, vada distrutto e sia ignorato non solo dagli stranieri, ma da noi stessi, sottoposti attraverso i mass-media al culto della Coca-Cola. Ogni monumento storico europeo non è un patrimonio locale o nazionale, ma di tutta l’umanità; e almeno di essi deve farsi carico la comunità europea. Del Partenone come di Venezia. Io faccio parte di quell’esercito cresciuto a dismisura negli ultimi anni, quello dei lavoratori intellettuali. Sono un forzato della penna. I nostri lavoratori manuali si sono faticosamente conquistati uno statuto all’interno della comunità europea. Questo non vale per i lavoratori intellettuali e sono quindi molto d’accordo con la proposta di un “passaporto del lavoratore europeo intellettuale”, che consenta facilitazioni nell’accesso ai musei, agli istituti culturali, nei viaggi, negli 148

incontri culturali. Questo oltre tutto favorirebbe la formazione di un ceto di insegnanti veramente in grado di equiparare i vari sistemi di istruzione all’interno della comunità europea – un altro problema ancora irrisolto. E si dovrà lottare affinché le cifre irrisorie stanziate dalla Comunità per le attività culturali raggiunga almeno l’uno per cento del suo bilancio. Sono questi i problemi dell’integrazione europea che sento maggiormente. E credo a un intreccio molto stretto tra la lotta per la pace e quella per un diverso modo di vivere quotidianamente. Come non credo a chi, armandosi di armi convenzionali e apocalittiche, dichiara di operare, così facendo per la pace, non credo però nemmeno ai profeti disarmati, a coloro, ad esempio, che limitano il loro impegno solo nel movimento per la pace. Negli ultimi mesi vi sono state per me due giornate molto significative e allo stesso livello: quella trascorsa in agosto a Mutlangen in Svevia insieme a coloro che manifestavano contro l’installazione dei Pershing e dei Cruise, fra cui gli scrittori Böll, Grass, Engelmann, e quella del 24 marzo, la più grande manifestazione popolare dal Dopoguerra in Italia, nella quale si vedeva fisicamente presente non tanto e non solo quell’Italia che in media raggiunge solo il 55% nell’indice di ricchezza della Comunità Europea, ma quella che in alcune zone, come la Calabria, raggiunge solo il 18% di questo indice, che invece in paesi come il Lussemburgo tocca il 291%. Al di là delle varie polemiche politiche questi sono dei nudi dati. 149

Per chiudere voglio dire che non avrei accettato una candidatura in una lista diversa. Per me l’era dei gruppetti politici e dell’euro-comunismo è finita. Il Pci è l’unica forza per ora in Italia in grado di portare avanti una linea euro-socialista. Lo dimostrano la sua unità di vedute su certi temi essenziali con i socialisti greci e tedeschi; la recentissima dichiarazione di Mitterrand sulla necessità di ampliare i poteri, quasi inesistenti, del Parlamento Europeo in presenza della crisi della Comunità economica europea; il fatto che le posizioni di Altiero Spinelli, candidato del ’79 come indipendente nelle liste del Pci, siano state fatte proprie non solo da tutto il Partito Comunista, ma dalla maggioranza del Parlamento Europeo stesso.

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SARAJEVO OLTRE LO SPECCHIO (introduzione di Fabrizia Ramondino, Sensibili alle Foglie, Roma 1986)

Se io sapessi di qualcosa che mi fosse utile, e fosse pregiudizievole alla mia famiglia, la respingerei con tutto l’animo. Se sapessi di qualcosa che fosse utile alla mia famiglia, e che non lo fosse alla mia patria, cercherei di dimenticarla. Se sapessi di qualcosa di utile alla mia patria e di pregiudizievole all’Europa, ovvero che fosse utile all’Europa e pregiudizievole al genere umano, lo considererei un crimine (…) Giacché io sono un uomo prima di esser francese (ovvero) perché sono necessariamente uomo, e non sono francese che per caso. MONTESQUIEU, Quaderni

I.

In questa frase di Montesquieu si succedono tre verbi – respingere, dimenticare, considerare un crimine – dai significati rispettivamente forte, debole, fortissimo, che impediscono di considerare la sua costruzione come una perorazione retorica classica, che dal tono dimesso passi in crescendo al tono più alto. È invece ben concreto il dilemma morale, che a tutti si presenta quotidianamente, tra la scelta di un vantaggio per sé, che può tradursi in danno per il prossimo, anche nel senso più ristretto, i familiari, e l’astensione da questa scelta. Come è concreto il “genere 151

umano” dal momento che se ne è necessariamente parte. Mentre più astratte sono la “patria” e l’“Europa”, ché solo per caso si nasce francesi o europei. Come prova a contrario basti citare gli innumerevoli esempi in cui, quando si sono commessi o si commettono crimini contro l’umanità, i carnefici hanno sentito l’esigenza di disumanizzare le proprie vittime prima di torturarle, finirle, o dopo averle finite. Dalla vittima dell’Inquisizione “posseduta dal diavolo”, al nero di “intelligenza appena superiore alla scimmia”, all’ebreo, umiliato e spogliato, anche letteralmente, di ogni attributo umano. “Merce” per i camion appositamente fabbricati per condurli alla morte causata dai gas di scarico1 e “nudi come vermi” prima di essere stipati nelle camere a gas e poi cremati nei forni. E ancora, la lobotomia dei dissidenti politici considerati pazzi nell’ex-Unione Sovietica, gli “obiettivi mirati” della guerra moderna, Coventry o Dresda, Hiroshima e Nagasaki, Baghdad nella recente Guerra del Golfo… I valori del cosmopolitismo e dell’universalismo dei diritti umani sono da rivendicare particolarmente oggi, quando si assiste, tanto nelle azioni degli uomini quanto in diffuse correnti di pensiero a una pericolosa crescita 1 Nel film Shoah di Claude Lanzmann sul campo di sterminio di Treblinka si mostra una lettera inviata dal direttore del campo al direttore di produzione di una fabbrica di camion, in cui lo prega di apportare alcune modifiche: rendere più pesante la parte anteriore perché nel trasporto la merce tende a spostarsi verso il portello posteriore e dotare il furgone di luci al neon perché al buio la merce si spaventa di più.

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dell’irrazionalismo – profondamente devastatrice e non più portatrice di un allargamento della coscienza, come è accaduto nel primo e nel secondo movimento romantico e nelle avanguardie del Novecento in vari campi intellettuali, dall’arte alla psicanalisi. La successione logica nella frase di Montesquieu – contraddizione tra “io” e “famiglia”, tra famiglia e “patria”, tra patria e “Europa”, tra patria o Europa e “genere umano” – è utile a introdurre un dibattito che divide oggi l’opinione pubblica e che si è espresso in recenti polemiche fra intellettuali. Mi riferisco ad esempio al pamphlet di H.M. Enzensberger Prospettive sulla guerra civile (Einaudi, 1994). Riassunta in poche parole la tesi di Enzensberger è questa: noi parliamo di guerra civile solo quando è lontana da noi, preferibilmente nel terzo Mondo, mentre ci rifiutiamo di vedere la guerra civile strisciante che è già iniziata in casa nostra, a New York come a Berlino, a Palermo come a Parigi. La visione è apocalittica, la conclusione è: invece di stare a guardare passivamente le guerre altrui, per esempio attaccati alla televisione; invece di lanciarsi in inutili missioni di pace e umanitarie; invece di blaterare su quanto accade lontano da noi e di esibire buoni sentimenti, occupiamoci seriamente delle “nostre guerre civili”. Si tratta di un pamphlet – di uno scritto cioè che per sua natura esagera una tesi per darle più forza – quindi il suo reale intento è scuotere le coscienze occidentali che con una carità pelosa verso i focolai di guerra fuori 153

dell’Occidente o fuori del proprio paese mettono a tacere i loro sensi di colpa, e soprattutto le loro colpe, per potersi meglio crogiolare nel proprio benessere; e che trasferendo il male altrove, non lo vedono in sé. Prendere alla lettera la nota acre boutade di Swift, che invitava a mangiare i bambini per risolvere la questione irlandese. Mi preoccupa invece che posizioni, solo apparentemente simili, siano diffuse in larghi strati della popolazione dei paesi occidentali e in molti intellettuali. Esse si fondano su una radicale sfiducia nella universalità dei diritti umani e nella possibilità che essi possano diffondersi, anche attraverso gli organismi e le iniziative statali o sovranazionali o attraverso le tante iniziative di base per la pace e l’aiuto umanitario. A questo falso realismo apocalittico non è necessario contrapporre una richiesta all’uomo di donare, per la realizzazione del Regno su questa terra, gratuitamente quella vita che gratuitamente ha ricevuto. Anche se soltanto questa disponibilità gratuita rende reale e piena la parola astratta cittadino, membro di una polis e necessariamente persuaso dell’universalità dei diritti umani, anche se ciascuno prega che non tocchi proprio a lui affrontare la tribolazione. L’unica modesta richiesta a ciascuno è di rispettare la persona altrui. Anche la richiesta di Montesquieu è modesta: si noti che nella prima proposizione non dice: “se io sapessi di qualcosa che mi fosse pregiudizievole…”, ma soltanto: “se io sapessi di qualcosa che mi fosse utile…”. 154

Un di più quindi, a scapito degli altri – la famiglia, la patria, l’Europa o il genere umano. Non è una distinzione di lana caprina: rinunciare a un vantaggio non è lo stesso che se vendo l’automobile perché non posso più permettermela. In questa accezione della frase di Montesquieu non vi è quindi contraddizione, ma identità, tra la lotta per la democrazia e i diritti umani all’interno della propria famiglia, del proprio paese, dell’Europa, del genere umano. Se non si affermano questi valori quotidianamente nella propria “famiglia” o “patria”, non si è credibili quando si afferma di lottare per questi valori all’interno del “genere umano”. Solo allora il “genere umano” diventa astratto o temibile menzogna. II. L’esperienza del Centro Donna-Salute mentale di via Gambini a Trieste con Merima Hamulic Trbojevic e con le altre donne vittime della guerra nella ex-Jugoslavia è uno degli esempi di lotta per l’affermazione dei diritti umani tanto all’interno della propria “famiglia” che della propria “città” che del “genere umano”. Il Centro Donna-Salute mentale è una struttura pubblica decentrata sul territorio del dipartimento di salute mentale della USL 1. Qui continua l’impegno di Franco Basaglia e delle sue compagne e compagni di allora, alcuni dei quali sono rimasti dopo la sua morte, teso a liberare i malati di mente dal ghetto in cui erano rinchiusi e considerare in primo luogo la loro dignità umana. Qui non è acca155

duto, come in molte parti del nostro paese, che i malati di mente siano stati abbandonati a se stessi, alle loro famiglie, a cliniche private, dopo l’approvazione della legge 180 che chiudeva i manicomi. Qui i pazienti sono seguiti individualmente, a domicilio, in day-hospital, in strutture per il ricovero nelle fasi più acute della malattia, in appartamenti comunitari, distribuiti sul territorio, e persino sotto i ponti, per chi ha fatto questa scelta; qui sono state fondate cooperative produttive e competitive sul mercato, per quelli in grado di lavorare, e strutture per il tempo libero. Il Centro Donna è rivolto particolarmente alle donne, non però in una prospettiva esclusiva degli uomini, come avveniva nelle strutture sessuofobiche del passato e come è avvenuto più di recente nei gruppi di autocoscienza femministi, piuttosto invece nella prospettiva di considerare la solidarietà e lo scambio fra donne come uno strumento terapeutico, che coinvolge pazienti, psichiatre, infermiere, assistenti sociali, altre lavoratrici del Centro e cittadine comuni. Il Centro è dotato di una grande sala comune, luogo di conversazione e intrattenimento, di dibattito, di manifestazioni culturali, di feste e di seminari o convegni; di uno studio medico e per colloqui psicoterapeutici; di una sala da pranzo e di una cucina; di istituti di bellezza, fisioterapia, yoga; di laboratori artistici. Assunta Signorelli, responsabile del Centro, mi ha invitata a trascorrervi tre giorni nella primavera del ’94 per tenervi un corso di scrittura, che si è risolto nel tentativo 156

di immaginare e scrivere insieme il canovaccio di una commedia. Per chi come me si trova in questo mondo a disagio o per dirla in un altro modo sta sempre “con un piede di qua e l’altro di là” è stata un’esperienza rassicurante e nel contempo sconvolgente: ciascuna donna era ora protetta ora messa in discussione dall’altra, non trovava posto né ipocrisia né menzogna, e sempre alla cognizione del dolore si accompagnavano gioia e allegria. Un luogo quindi in cui il giorno che mi sentissi “più in là” che “di qua” saprei dove andare; e dove, se vivessi a Trieste, andrei sempre a dare una mano o a chiedere sostegno, perché lì diventano concrete le parole astratte, attenzione, libertà, reciprocità, rispetto dell’altro, amore. Il 13 e il 14 marzo del ’93 il Centro Donna di via Gambini ha organizzato e ospitato un convegno per le donne costruttrici di pace italiane e della ex-Jugoslavia, dal tema “Le nostre mani unite contro le loro mani armate”. Vi hanno partecipato oltre 150 donne da tutta Italia e donne di Sarajevo, Pančevo, Belgrado, Lubiana, Rijeka, Spalato, Zagabria, Tuzla. Nella relazione conclusiva leggiamo: “In molte hanno lavorato, generosamente sostenendo due giorni contro ogni aspettativa e decisione organizzativa. Si è riuscito a fare mangiare, bere, accompagnare, accogliere, ospitare per due giorni di seguito, ininterrottamente e permettendo la continuità e l’intrecciarsi delle relazioni. “La maggior parte di noi ha seguito poco i lavori pur mantenendo la capacità di cogliere il senso dei 157

progetti, abituate come sono ogni giorno ad affrontare la violenza e il dolore del vivere quotidiano, come la discriminazione, la miseria, la mancanza di solidarietà e di relazioni, la violazione e gli abusi”. Trieste è stato un luogo anche simbolico per quest’incontro, non solo per la sua storia e la posizione geografica che la rendono così vicina alla guerra nella ex-Jugoslavia, non solo a causa del suo cosmopolitismo – gli italiani convivono da anni con comunità slovene, greche, ebraiche – ma soprattutto per l’impegno delle donne di via Gambini che accolgono quotidianamente la sofferenza delle donne e si fa il possibile per affrontarla. Al convegno ci si è dati appuntamento per tre mesi dopo e il Centro Donna ha adottato Merima e il suo bambino che non volevano/potevano più tornare a Sarajevo. Merima è di una famiglia musulmana di Sarajevo, è poco più che trentenne e ha un bambino, allora di due anni. È fuggita da Sarajevo con altre donne e bambini serbi e musulmani quindici giorni dopo l’inizio della guerra, pensando che sarebbe durata poco. Suo marito, di famiglia serba di Sarajevo, è rimasto allora a Sarajevo, dove lavorava per la TV bosniaca; mentre Merima era giornalista di “Oslobođenje” (Liberazione), che vendeva 60.000 copie prima della guerra e che ha continuato ad uscire nella città assediata – il responsabile della redazione di guerra del giornale, Zlatko Dizdarević, ha scritto un libro tradotto l’anno scorso anche in Italia, (Giornale di guerra. Cronaca di 158

Sarajevo assediata) che ci fa sentire, attraverso un tormentoso resoconto quotidiano della convivenza con la morte e del coraggio di continuare in presenza della fine di tutto, che noi non abbiamo abbandonato Sarajevo, ma che è essa che ci ha abbandonati, come scrive Adriano Sofri nel risvolto di copertina. Merima si è rifugiata a Belgrado dove l’hanno aiutata le “Donne in nero” e altri gruppi di donne che sono contro la guerra e accolgono le rifugiate di tutte le etnie. Anche a Belgrado era difficile vivere per una musulmana, una “nemica”, e Merima col bambino ha colto l’occasione della sua partecipazione al convegno di Trieste per lasciare la ex-Jugoslavia. Qui ha ottenuto lo status di profuga: è diventata un numero. III. Merima in questa sua testimonianza tratta della guerra solo con pochi accenni pudichi e forti. Non vuole contribuire a seminare odio. Scrive però (è a Belgrado) “…non dovevo dire dove lavoravo, né come mi chiamo perché subito ribattevano: ‘È musulmana, non ci appartiene’. Io che ho sempre creduto di essere solo figlia dei fiori, figlia dell’intero pianeta, abitante di questa terra e nient’altro”. E ancora: “La Jugoslavia, la mia patria, non c’è più. Ora la mia patria è la Bosnia-Erzegovina, e lo sarà sempre, non importa se le potenze della terra decideranno di dividerla e distruggerla”. E infine, citando Susan Sontag: “Sarajevo è la San Francisco dell’Europa Orientale, una città cosmopolita e un centro culturale 159

molto di più di quanto lo sono Belgrado oppure Zagabria. Forse è proprio questo il motivo della sua distruzione”. La relazione con l’idea di “patria” ha dovuto attraversare a causa della guerra uno stretto e obbligato passaggio: da un senso labile della patria, la ex-Jugoslavia – perché prevaleva in lei il senso di essere cittadina del mondo – a un senso forte e doloroso di appartenere ad una nuova patria, la terra dove è nata e vissuta, la Bosnia-Erzegovina. Forse non ci sarà più o sarà smembrata, per lei comunque la patria dell’esule, forse per sempre, una patria creata dalla nostalgia e da una barbara devastazione esteriore e interiore. Come il ghetto di Varsavia e gli antichi villaggi ebrei in Polonia e nei racconti e romanzi di I.B. Singer. Scrive ancora Merima citando la Sontag: “Le immagini dei crimini commessi a Sarajevo possono chiudere nel modo più appropriato la civiltà del nostro secolo”. IV. Eppure quante speranze di pace sono state alimentate dopo la caduta del Muro di Berlino, il crollo del regime e dell’impero sovietico, la fine della guerra fra i due blocchi. Sulle cause della guerra nella ex-Jugoslavia e di tutte quelle avvenute dopo il crollo dell’impero sovietico – ci sono due tesi serie e antagonistiche – serie perché bisogna tralasciare quelle sciocche e grossolane, come quella di chi attribuisce la guerra alla “barbarie” di quei popoli, siano essi i popoli dell’Europa orientale o 160

i popoli africani, dimenticando le nostre recenti grandi barbarie occidentali e quelle microconflittuali sempre presenti fra noi. La prima tesi è radicalmente pessimistica: il dominio dell’impero sovietico in una parte del mondo – e del regime sovietico nella ex-URSS – e quello dell’impero occidentale dominato dagli USA, riuscivano a controllare e a tenere a freno, tanto al loro interno che fuori, le spinte egoistiche dei vari gruppi economici, militari e religiosi, e delle varie etnie o nazioni, allo stesso modo che una buona polizia e una legge severa bastano ad inibire il potenziale ladro, torturatore, assassino che è in ogni uomo. In una tale prospettiva il peggio deve ancora arrivare. Questa tesi non tiene conto di tutte le guerre di aggressione o civili o di tutti i genocidi che si sono succeduti durante la pace armata fra le due superpotenze. La tesi opposta insiste sulle spinte che hanno contribuito al crollo interno dell’ex-URSS, dei regimi prima stretti nel Patto di Varsavia, di altri regimi comunisti e di quelli di influenza sovietica nella spartizione bipolare del mondo, quanto nelle guerre civili che si sono scatenate in alcune di queste aree, tra cui quella della ex-Jugoslavia. L’avanzare della democrazia e del movimento per il riconoscimento dell’universalità dei diritti umani è contraddittorio e spesso cruento: così come lo è stato il lento affermarsi della democrazia nel mondo occidentale, comunque mai compiuta e stabile, e sempre minacciata anche al suo interno. 161

Questa tesi, fondamentalmente ottimistica, ha dei punti deboli. Semmai le guerre “buone”, quelle “dalla parte giusta”, per la democrazia, la libertà e l’indipendenza dei popoli, l’affermazione dell’universalità dei diritti umani, sono state considerate in passato come l’unico modo per difendersi contro coloro che aggredivano quei valori e per affermarli dove non esistevano, oggi sono fuori tempo anche le guerre “buone”. Perché esistono un mercato mondiale, mezzi di comunicazione planetari, armi troppo diffuse e micidiali, altri mezzi di dissuasione dalla guerra, e soprattutto perché non solo le guerre “buone”, ma anche la nostra pace “cattiva” minacciano ogni possibilità di vita sul nostro pianeta. E come spiegare nei libri di storia ai bambini che sopravviveranno ai massacri nella ex-Jugoslavia, in Somalia, in Ruanda, in Cecenia e altrove che si è combattuto per la “democrazia, la libertà, l’indipendenza dei popoli, l’affermazione dell’universalità dei diritti umani”. È già stato tanto difficile e a volte quasi impossibile spiegarlo a quelli sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, o ai bombardamenti contro le popolazioni civili, il cui primo teatro è stato Guernica, compreso quello di Dresda, quando la vittoria contro i tedeschi era ormai sicura e della cui legittimità si comincia a discutere anche in Inghilterra. Infine a quelli sopravvissuti – e come – alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki… 162

Il pilota di Hiroshima non si è mai dato pace con le spiegazioni. Naturalmente tanto i fautori della prima tesi che quelli della seconda mi considereranno un’“idealista” che non tiene conto della realtà. La mia incapacità di darmi pace con le spiegazioni sulla guerra è assoluta.

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POLISARIO, UN’ASTRONAVE DIMENTICATA NEL DESERTO

(Edizioni Gamberetti, 1997)

M

ario fa provini con gli attori. Dice che sono straordinari, che hanno doti naturali come i napoletani. Un gruppo di tecnici è andato a Tindouf a comprare acqua minerale, pasta e altre provviste, per i nostri vizi e per non gravare troppo sull’organizzazione. Io intanto tendo a separare la mia attività di inchiesta da quella dell’organizzazione cinematografica, e chiedo una stanza della nostra residenza per far disegnare dieci bambini e bambine dai sei ai dodici anni. Ogni volta propongo un tema. I temi sono: 1. Come immagini la tua terra occupata dai marocchini; 2. case; 3. alberi, piante, fiori; 4. animali; 5. le tende, il tuo campo; 6. la tua tenda; 7. la tua famiglia; 8. i soldati; 9. se sei stato all’estero, com’era; 164

10. quello che ti piace di più; 11. il deserto, il cielo; 12. i tuoi giocattoli; 13. disegna quello che vuoi; 14. motivi ornamentali; 15. io e i miei amici. Non sono riusciti a svolgere tutti i temi di disegno, ma solo alcuni. Il mio aiutante ha tagliato le matite a metà per farne dieci. I bambini lavorano in estremo silenzio. Prima di farli arrivare sono stati ripuliti, hanno tutti le scarpe, come quando vanno a scuola, alcune bambine anche fantasiosi ornamenti fra i capelli. O sono molto disciplinati o li hanno preparati a comportarsi bene. Per un’ora e mezzo lavorano in silenzio e con grande concentrazione. Poi alcuni danno segni di stanchezza, o dicendo: «Non lo so fare», o ridacchiando e muovendosi. Bevono con avidità l’acqua minerale che offriamo loro. Non abbiamo una gomma. Provo a farne una con la mollica di pane, come usavamo da piccoli, ma con quel pane non funziona. Una bambina viene accusata da un’altra di aver mangiato un pezzo di pane. Vedendoli stanchi, decido per dieci minuti di ricreazione in cortile. Giocano sotto il sole. Le bambine vogliono che faccia con loro vari girotondi, i maschietti si arrampicano lungo un traliccio. Alcune bambine li raggiungono. 165

Arriva un vecchio poeta nomade e siamo espropriati della sala. Distribuisco le caramelle e i bambini vanno via. Nel pomeriggio inizio a studiare i disegni dei bambini. Tra le immagini del luogo dove vivono, e quelle future della terra dove forse torneranno, tra presente e futuro, come di solito accade con i bambini, le differenze sono molto labili. Le due questioni proposte – dove sei? dove andrai? – erano anche un modo per verificare i livelli di propaganda dei maestri: nei disegni domina sempre il presente, le acacie fiorite, i muri a secco, i camion, il sole e la luna, gli uomini, il dromedario. Mi colpisce un sole raffigurato con un volto di leone, che mi ricorda la nostra espressione italiana «il solleone». Pure vi sono elementi che ricordano la terra d’origine: spesso il disegno è iscritto all’interno di una figura geometrica, che raffigura in modo preciso gli ex confini del Sahara Occidentale; in moltissimi c’è un cammino – o un accostamento – che conduce al mare, quasi sempre simile ad un acquario, dove nuota un pesce, o ad una rettangolare distesa azzurra sotto la tenda. Qualcuno ha dipinto varie volte la bandiera colorata della Rasd. Mentre nel campo, oltre agli elementi soliti, prevalgono a volte elementi ossessivi, come il suolo cosparso di sassi piatti, o elementi immaginari: una casa col tetto a punta, sormontata dalla tenda e ad essa inestricabilmente unita; una mela; una 166

foglia. Fra gli animali e le piante dominano quelli a loro noti. Colpisce fra i «giochi» quello al pallone, dove fra tanti bambini, uno più grande è disegnato all’interno di un pallone immenso. Ma si gioca anche a nascondino, alle biglie, alla gara di chi arriva a toccare prima il muro: «uno, due, tre stella». Mi colpisce il bambino iscritto nel pallone, ventre materno, o invece voglia di viaggiare e rotolare nel mondo, come il pallone stesso? Chiedo a Patrizio il testo delle tre poesie recitate dal poeta nomade. Prima poesia. Il poeta parla della lotta armata del popolo sahrawi che si tramanda di generazione in generazione. Si rivolge ai giovani che non hanno avuto la possibilità di conoscere il mare, il cielo e la vita quotidiana nella loro patria. Ora spetta ad essi il compito di portare la fiaccola, simbolo di libertà; di continuare la lotta fino all’indipendenza del Sahara Occidentale per realizzare il sogno di ogni sahrawi: il ritorno alla sua terra. Seconda poesia. L’autore esprime nostalgia per la sua patria perduta, nominando le principali località del Sahara Occidentale che, prima dell’espropriazione da parte del Marocco, appartenevano ai sahrawi. Rimpiange la vita tranquilla e serena, piena di spiritualità, che il suo popolo conduceva su quelle terre. Terza poesia. È dedicata alla fidanzata del poeta, alla quale egli annuncia che partirà per un viaggio. La loro distanza sarà solo fisica perché egli dedicherà ogni pensiero a lei: la lontananza non gli impedirà di «ve167

derla» nel cielo, nella terra, nelle montagne e di fare tutto quanto è possibile in questo mondo affinché lei stia bene. Egli ricorda come nei tempi passati molti sahrawi, che avevano relazioni con ragazze di villaggi lontani, a volte camminavano per chilometri nel deserto per incontrarle tra le dune. Ora, invece, si sono «civilizzati» anche i sentimenti, è cambiato il modo di viverli, e così questi perdono la loro grazia. Hanno trovato l’asino per il film, ma il padrone chiede che, nei due giorni in cui verrà usato, non paghi lui il suo nutrimento. Lo pagherà l’amministrazione della wilaya. Nel pomeriggio siamo nella tenda dove si girerà la scena della mamma, il bambino e la guaritrice. Un bel tappeto mauritano, pareti tinte di giallo e bianco. Ricevo in regalo una malhfa dalla mamma, un bracciale di perline dalla bambina, un bracciale di legno intarsiato in forma di serpente dalla guaritrice. Quando si riceve un regalo si usa battere le mani e fare particolari gesti di danza con le mani stesse. Con poco successo hanno provato ad insegnarmi questi gesti. Hanno provato anche a insegnarmi a fare il tè e a versarlo. Vi sono sul tappeto molti giocattoli moderni donati al bambino, scelto come protagonista del film, da un amico appena tornato dalla Spagna. Sempre la solita pifa sovrastata da coperte e cuscini colorati imbottiti di vecchi stracci. Sempre il latte con le mosche. Sempre fuori la capra bela. Sempre uno sca168

rafaggio tenta di spuntare tra i lembi della tenda e il bel tappeto. Uomini e donne si puliscono continuamente i denti con un bastoncino di legno ricavato da un albero del deserto che chiamano atil in hassaniya (in arabo classico sarh). Dopo la cerimonia del tè lavano i bicchierini con un po’ d’acqua versata nel vassoio e li asciugano con stracci colorati (e sporchi). Ma l’acqua è trattata con forti disinfettanti. Qui è scarsa. In un’altra wilaya, a Dakhla, c’è molta acqua, perché esiste a due metri dal suolo un lago, ma spesso è inquinata a causa della prossimità delle discariche. Faccio fare dei disegni ad alcuni bambini mentre fuori stanno girando il film. Mosche, mosche, mosche. Porte di legno o latta dipinte in vari colori, a volte morandiani, a volte vivacissimi. Dalla wilaya di Ayun, dove vive il nostro primo accompagnatore e rappresentante della Rasd in Italia, Lehraitani, viene a vedere come va il lavoro, ne è entusiasta e ci invita a cena. Spesso porte e finestre sono fatte con il legno delle casse che contenevano bombe e munizioni. E ornate e rafforzate con pezzi di latta – i contenitori del latte – tagliati come stelle e inchiodati. Due uomini anziani vestiti di azzurri Derraa accorrono: credono che l’incidente del morso del serpente a Sidi sia vero. 169

Quando la scena nella tenda è finita, le donne in segno di festa e di applauso fanno zagarit. Io vado a dormire. Gli altri girano le scene con la guaritrice fino alle tre di notte. Prima di dormire osservo i disegni dei bambini nella tenda. Sketu, 7 anni, raffigura la tenda, la recinzione, la stanza in mattoni (quest’ultima secondo un classico stereotipo scolastico: tetto a punta, porta centrale, finestre in alto), un’acacia e un pulcino. Perché, mi chiedo, la stanza (casa) è molto più grande della tenda, mentre nella realtà è il contrario? Perché forse è la casa del suo desiderio, perché ne ha viste in Spagna, o perché così gli hanno insegnato i maestri a disegnare una casa? La recinzione somiglia anche a un sentiero che dalla tenda conduce alla casa. E il grande pulcino, nonostante le lunghe zampe, precariamente poggiate in terra, è forse il bambino stesso: dall’unico occhio osservante, interrogativo, rassegnato, pensoso. Mentre una bambina di otto anni ha raffigurato sé stessa accanto ad un’immensa acacia e a un grande camion. L’acacia termina stranamente con un lungo piede che segue la direzione del camion mentre la bambina è ferma, chiusa in una larga veste e ben attaccata all’acacia. Forse significa che vuole essere trascinata altrove dall’albero e dal camion? Il camion si muove sempre, come sa bene, mentre lei rimane sempre lì. Ma se l’acacia comincerà a camminare, dovrà per forza trascinarla 170

con sé. Dove vanno le acacie? Forse in paesi con tanti alberi, dove non sono sole. Ho chiesto infine ad un bambino di raffigurarmi. È proprio una donna – dei puntini indicano i seni e il sesso –, ma braccia e gambe non somigliano a quelli delle donne con cui ha dimestichezza, sono dure, rigide, maschili. Porto i capelli bianchi molto corti, mentre lui mi ha raffigurata con una massa di capelli. Penso: è la prima cosa che ha notato, una donna dai capelli non velati né tinti dall’henna; perciò me ne ha regalati tanti. A notte, mentre gli altri girano con la solita pezzuola sugli occhi, penso: tutto il colore della vita è nelle tende. E vedo il deserto come simbolo dell’aspra solitudine che regna da noi nei rapporti umani. A sera si vedono piccole greggi di capre condotte dai bambini agli ovili, un po’ distanti dal villaggio. Gli ovili sono fatti di pezzi di latta e di filo spinato. Pranza con noi un vecchio ex pescatore, che reciterà nel film, cantando un canto tipico dei pescatori della costa atlantica nei territori occupati. È di Dakhla, ha 70 anni, sua moglie ha 60 anni, dei sei figli ne rimangono tre, gli altri sono morti di morte naturale. È venuto nel campo solo nel dicembre ’78; nei territori occupati le condizioni diventavano sempre più dure. A un certo punto gli occupanti marocchini stavano per impedire tutte le partenze. Quindi partì. Lavora come bidello e sorvegliante nel collegio interno misto. Suo 171

padre era pescatore, gli ha trasmesso l’arte della pesca e dei canti dei pescatori durante l’infanzia. Poi il padre ha lavorato per una grande compagnia di pesca spagnola (Compañia Colonial de Africa). Quanto a lui, è stato in collegio dai nove ai venticinque anni; qui aveva cominciato già a lavorare. Ha parenti nelle città occupate, i figli del fratello morto, due sorelle, una casa, ma non sa che fine ha fatto. Ha rare notizie dei parenti perché lì sono molto controllati. L’anno scorso, come capo tribù andò a Dakhla per le notificazioni del referendum. Ha rivisto le sorelle. I nonni materni erano nomadi. La maggior parte dei nomadi erano commercianti. Oggi pomeriggio hanno disinfettato le nostre stanze con una sorta di Baygon. Aria irrespirabile per molte ore. Alle cinque il muezzin a cavalcioni di una grande cisterna. Quando i compagni gli chiedono di filmare non ha obiezioni: «Fate pure, per noi tutte le religioni sono benvenute». Visito a sera una donna sola divorziata. Ha sei figli (il sesto studia in Libia). È venuta nei campi durante il grande esodo del ’75 con il marito. A un certo punto lei non voleva più figli, il marito sì (eufemismo, forse, per dire che non voleva prendere precauzioni). Così iniziarono i problemi tra loro. La lasciò e si risposò. Ora è in Mauritania con una nuova moglie. Lei è contenta che soddisfi i suoi appetiti sessuali con un’altra e non con lei. Ogni tanto riesce a mandare qualcosa a lei e ai bambini. Non è facile mandare aiuti. 172

Lei e i bambini vivono solo degli aiuti umanitari distribuiti dall’amministrazione della wilaya. Ogni tanto i vicini le danno qualcosa. Per fare un esempio della solidarietà dei vicini, nonostante ci abbia offerto il solito tè, manda la bambina più piccola a chiedere un po’ di tè dai vicini. La bambina torna subito con un bicchierino pieno di foglie di tè. La donna ha trentacinque anni. Ha partorito tutti i sei figli nella tenda perché si sentiva sicura di sé, con una levatrice, sua vicina di casa, tranne la più piccola, perché ha avuto paura: il parto di sua sorella era stato difficile. Il marito non vuole divorziare. La politica ufficiale, dice, è fare molti figli perché i sahrawi sono pochi; ma i giovani vogliono gli anticoncezionali. Anche le donne. La sua famiglia era di Ayun, suo padre era commerciante in mobili e aveva un grande negozio. Il padre è rimasto lì e possiede ancora il negozio. C’è sempre una relazione abbastanza libera tra ragazzi e ragazze, purché la ragazza non rimanga incinta. Niente incesti. I bambini mi danno delle lettere da impostare per le famiglie spagnole che li hanno ospitati. Chiedo: «Io ho i capelli bianchi. Non ho visto nessuna donna della mia età o più vecchia con i capelli bianchi. Perché?». Mi risponde sorridendo: «Lei è una donna e conosce i trucchi. I capelli bianchi si tingono con l’henna. Le vecchie perciò hanno i capelli completamente rossi». Solo alla fine riesco a porre la domanda che mi è ri173

masta in groppo da tanto tempo: «Che capita ad una ragazza non sposata, se rimane incinta?». Seguono imbarazzo e silenzio. Rispetto quel silenzio – so che anche da noi un tempo era un problema difficile, e forse lo è ancora ora. Abdeselam, il funzionario che parla francese molto bene e al quale sono stata affidata, mi ha prestato un libro scritto da un notabile spagnolo all’inizio della colonizzazione del Sahara Occidentale. Riguarda la storia della costruzione della città di Smara, la prima città costruita nel Sahara Occidentale tra fine 800 e inizi 900 dal capo tribù El Ainin. Smara significa «giunco». Gli spagnoli, all’uso marocchino, hanno tradotto capo tribù con sultano. El Ainin era un capo tribù dei nomadi particolarmente religioso e saggio. La costruzione della città fu malvista dagli altri gruppi nomadi, da un lato perché era contro la tradizione del nomadismo, dall’altro perché ritenevano che avrebbe attratto le potenze coloniali. Vi creò una delle più grandi e importanti biblioteche del Maghreb, che andò distrutta quando la città fu bombardata dai francesi nel 1913. La proibizione della distruzione delle biblioteche, sia essa opera intenzionale, sia essa dovuta alla casualità con la quale vengono gettate le bombe, come di recente è accaduto a Sarajevo, dovrebbe essere iscritta fra le tavole della legge. Perché in ogni libro sono contenuti il pensiero e il cuore degli uomini del passato. E alla voce: non uccidere. 174

Visito la cucina della signora che ci ospita. È in muratura, molto piccola, le suppellettili sono essenziali (un setaccio per la farina, un setaccio per il cous-cous, poche pentole e ciotole, una bacinella di plastica mal ridotta per lavare le stoviglie, forno a gas per il pane). Questo tipo di forni è fabbricato in gran numero da una ditta europea per le cucine delle tendopoli di tutto il mondo. La signora fa il pane la sera per la prima colazione e per il pranzo. Accanto alla cucina in un piccolo edificio in muratura c’è il cesso, un buco nella sabbia. Una tettoia protegge i bidoni di acqua e alcune verdure fresche dal sole. Fuori in un grande recipiente, in fagotti diversi, sono riposti i cereali e le farine. Una campana annuncia agli abitanti del campo gli avvenimenti principali, per esempio le feste; e al mattino chiama al lavoro. La signora mi regala due belle pietre nere (selci preistoriche), che un soldato le ha portato dal fronte e due pietre bucate. Mi regala anche due bracciali di perline colorate fatti molto bene, intrecciati. Questi ultimi vengono comprati, mentre quelli semplicemente infilati vengono fatti da sé. I compagni stanno girando la scena del pescatore col bambino e quella del camion con i soldati, sul quale bisogna caricare l’asino, molto recalcitrante. A letto, con la solita pezzuola sugli occhi, sento intorno a me la pace dovuta agli assenti. So che quando 175

torneranno, forse all’alba, non andranno ancora a letto – chi, come me, per allontanarsi dalle emozioni del giorno, usa le pezzuole, chi altri metodi: alcuni di loro giocano a carte, fievolmente illuminati attraverso un espediente inventato da Daghi: su una bottiglia, a metà ripiena di sabbia, pone la lampadina a pile e il riverbero della sabbia crea un alone. Poi, con rimorso verso gli altri, mangiano gli ananas in scatola conservati nel frigorifero accanto. Un frigorifero posto a nostra disposizione dall’ospitalità dei sahrawi: un vecchio frigorifero elettrico trasformato ingegnosamente a gas, dal funzionamento sempre incerto, ma sul quale sempre ci precipitiamo. So che nella piccola stanza adibita a Abdelwadud e agli autisti, egli è solo fra sonno e veglia, in attesa che tornino, e non sempre alla stessa ora, gli altri. Mentre mi addormento, penso a lui – a quanta storia segreta è celata in un uomo. La sua presenza mi rassicura e commuove. Anche perché in qualche modo è il nostro servo. Mi ha parlato delle sue ferite di guerra, non degli uomini che forse ha ucciso. Ripete solo, come Ahmed: chi ha conosciuto la guerra non può amarla. E siccome non si vanta né si lamenta mai delle sue ferite, penso che, forse, uccidere è peggio che essere uccisi.

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NECESSITÀ DEI VOLTI. CONVERSAZIONE TRA PATRIZIO ESPOSITO E FABRIZIA RAMONDINO (dalla rivista del Teatro di Roma “La porta aperta”, n. 6, luglio/agosto 2000, poi in “Alias”, 10 luglio 2004)

Antefatto

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stinatamente censurata dal Regno del Marocco, fino alla sua totale scomparsa dai notiziari già nelle settimane successive l’invasione dell’ex colonia spagnola del 1975, la guerra nel Sahara Occidentale ha, per sorte e per volontà, eloquenti tracce della sua esistenza nel deserto algerino dell’Hammada. Discrete e numerose, le testimonianze sono custodite negli spazi spartani del “Museo della resistenza sahrawi”, concepito come luogo di raccolta di armi e di umili cose prese durante le battaglie: registri, lettere, oggetti, fotografie e altre appartenenze personali del nemico. Il loro stare insieme, all’aperto e in locali appartati, costituisce ad oggi l’unico memoriale comune ai due popoli in guerra, popoli distanziati tra loro per ostilità e diffidenze nate dall’espansionismo di Rabat. Sopravvissuto alle distruzioni e all’inclemenza del clima, quel memoriale, quel diario dei lutti e delle separazioni vissute, è forse unico anche nella storia dei conflitti, coloniali e non: anziché celebrare vittorie ed eroismi di una parte sull’altra, rivela la potenziale rela177

zione che può stabilirsi nel tempo tra persone e famiglie indotte a schierarsi su fronti opposti. Il gesto sahrawi di conservazione delle appartenenze nemiche indica la monarchia alauita come responsabile di morte, odio ed esilio venuti dall’invasione ma, contemporaneamente, pone questioni insolite sul vissuto dei singoli uomini in guerra: salvaguarda il volto del nemico, il ritratto che gli sopravvive, e si dice pronto a restituire quei lineamenti sospesi di cui è provvisoriamente custode. Nel suo atto finale la custodia si spossessa di quanto ha unito. Il volto sahrawi, nascosto o trasparente per occupazione e censure, vive anch’esso una condizione transitoria: è nella visibilità incerta che si annuncia, è nell’insorgere dal nulla di una terra svanita che prende forma. Ci dice che il volto, riparato nel buio sino ad allora, nell’istante della liberazione vorrà delinearsi1. 1

Viste durante una permanenza nei campi profughi sahrawi, nel maggio 1991, le fotografie raccolte nel Museo sahrawi sono state un tema di riflessione sulla guerra e sul destino di chi vi è coinvolto per Omar Mih, Salem Hammada, Kandoud Hamdi, Fatima Mahfud, Fabrizia Ramondino, Mario Martone, Jean Lamore, Yasmine Eid-Sabbagh, Luca Solla, Riccardo Panattoni, Patrizio Esposito e altri nel corso degli anni. Dopo la positiva risposta del Fronte Polisario a una lettera inviata nel 1997 (a ridosso della realizzazione del film Una storia saharawi), si è avviato un lungo lavoro di ricerca sul campo fino a individuare, nel 1999, un gruppo di 483 ritratti da proporre per un libro dal titolo Necessità dei volti. Un libro senza testi, prodotto in venti copie da consegnare nel tempo in venti città, un libro da consultare in abitazioni private o in luoghi pubblici da singoli e da gruppi di visitatori-ospiti. A oggi, le conversazioni svolte intorno a quel gruppo di fotografie sono state circa trecentocinquanta. Nella maggioranza dei casi

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«Mi colpiscono dinanzi a tutte queste armi alcune casse di legno e metallo: contengono documenti militari sottratti ai marocchini e soprattutto foto e documenti che si sono tenute in forma privata e principalmente in Italia, ma anche a Parigi, Londra, Berlino, Lisbona, Bruxelles, Saragozza, Algeri, Rotterdam, Beirut, Dhaka, Sunderaban, Melbourne, Lubiana, isola di Ouessant, Lagos, Sharjah. Undici sono le copie del libro date in affidamento, i loro custodi sono: la scrittrice Fabrizia Ramondino, la giornalista spagnola Pilar del Río e il premio Nobel per la Letteratura José Saramago, l’artista franco-americano Jean Lamore, il regista inglese Ken Loach, il regista palestinese Michel Khleifi, il regista israeliano Eyal Sivan, il regista greco Theo Angelopoulos, l’Arab Image Foundation di Beirut, il linguista statunitense Noam Chomsky, il premio Nobel per la Pace José Ramos-Horta. Due edizioni speciali di Necessità dei volti, accompagnate da materiali di documentazione sul conflitto del Sahara Occidentale, sono state consegnate alla Bibliothèque Kandinsky del Centro Pompidou di Parigi, nell’ottobre 2012, e al Museo della resistenza sahrawi, regione di Tindouf, Algeria, nell’ottobre 2016. (Dalla lettera al Polisario: «[…] Abbiamo avuto la possibilità di vedere il vostro Museo della Resistenza e, come altre volte durante le nostre permanenze nei campi, siamo rimasti profondamente impressionati. In particolare la cassa di legno che custodisce le fotografie dei familiari dei soldati marocchini caduti o feriti, crediamo sia una fortissima testimonianza sulla crudeltà e assurdità della guerra e ci ha fatto riflettere a lungo sui costi umani che troppo spesso sono occultati nel sistema dell’informazione. In tempi come i nostri in cui si assiste alle devastazioni della guerra attraverso schermi domestici che nascondono non solo i volti dei familiari che soffrono ma addirittura dei soldati che combattono e che muoiono, quella umile cassa si contrappone, col suo contenuto di volti di uomini e donne anonimi e di storie nascoste, a questa barbarie tecnologica. Crediamo che questa cassa e queste fotografie farebbero riflettere molte altre persone sulla vostra sensibilità nei confronti del destino degli uomini che si trovano ad essere vostri nemici per ragioni che voi non amate e che vi hanno costretto alla lunga e dura guerra che avete combattuto per vent’anni in difesa del vostro diritto all’autodeterminazione».)

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i soldati uccisi avevano indosso. Foto: a scuola, della famiglia, sulla moto, il padre alla Mecca dinanzi alla ka’ba, della donna amata... Autorizzazioni ai soldati a tornare dal fronte per sposarsi. Libretti medici dei militari con foto. Non so se su altri fronti di guerra si preservino con tanta cura le foto e i documenti personali, soprattutto dei nemici. Sembrano lì in attesa, quasi che, più che i parenti, possano venire a ritirarli i soldati caduti. Mai, nei miei incontri, ho visto manifestare odio verso il nemico».

Conversazione2 Un cumulo di fotografie, una guerra fantasma A inizio luglio del 2000 Patrizio Esposito e Fabrizia Ramondino, che era stata nei campi nel settembre ’96 e che di questa esperienza ha testimoniato nel libro Polisario, un’astronave dimenticata nel deserto, si sono incontrati a Itri per discutere insieme del senso del progetto Necessità dei volti, ad un anno dai sopralluoghi nel Museo della Resistenza e dall’avvio delle attività programmate in Europa. A Itri guardarono per la prima volta insieme il prototipo del libro (contenente 483 fotografie) da riprodurre in venti copie per i futuri «custodi» internazionali. Fabrizia: Eccoci di nuovo insieme, uniti da un patto non tanto di fedeltà reciproca, ma di fedeltà verso il 2 Dalla rivista del Teatro di Roma «La porta aperta», n. 6, luglio/agosto 2000 (poi in «Alias», 10 luglio 2004).

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popolo sahrawi… Mi interrogo molto in questi ultimi tempi sul significato della fedeltà, che forse e contemporaneamente vale per legame, promessa mantenuta o da mantenere, conoscenza faticosa e assidua dei fatti, continuità nel lavoro, cura della memoria, testimonianza… E mi sembra anche che quanto più restiamo uniti nel patto di fedeltà ai sahrawi, tanto più aumenta il nostro reciproco patto di fedeltà… Forse perché il patto di fedeltà fra due persone, che sia di amore o di amicizia, presuppone sempre un terzo, l’escluso da includere… Venticinque anni fa a Napoli il terzo che ci univa erano i disoccupati organizzati, «el analfabeto a quien escribo», oggi sono i sahrawi… Patrizio: I luoghi della fedeltà sono anche i luoghi del ritorno. È come se, visitando una città sconosciuta, avessimo ritenuto insufficiente il numero dei passi compiuto in quel primo passaggio e ci fossimo imposti un più lungo soggiorno, poi una assidua frequentazione fino al punto da eleggervi un possibile domicilio. È così che sento la permanenza nei villaggi sahrawi, è così che vivo la mia amicizia con te. Sono i luoghi in cui non è ammesso dire «una sola volta» o «qualche volta». Sono i territori del «per sempre». In qualche modo è lì che abbiamo capito quale era la nostra andatura e non solo dove, ma come ci muovevamo. Durante un’intervista ad un anziano sahrawi, che vive in esilio dal 1976 nella tendopoli di Dakhla, alla domanda: «Cosa significa essere profughi» risponde 181

conciso: «Vuol dire avere bisogno». Ecco, noi, la parte del mondo in cui siamo nati, siamo causa di quel bisogno. Portiamo aiuti, o crediamo di farlo, ma non serve. Dai nostri diversi domicili abbiamo lavorato, e questo ci ha permesso di tenere fede alla parola data, a individuare la causa che produce continuamente quel bisogno e tentato di sospenderne l’attività. La fedeltà tra noi, il nostro patto antico, credo sia relativo a questo impegno silenzioso che abbiamo stipulato e che, insieme o separatamente, vogliamo proteggere e rinnovare nel tempo. Giustamente, come osservi, includendo altre esistenze, altri luoghi a venire. Fabrizia: Mi viene in mente il profugo per eccellenza della nostra tradizione culturale occidentale: Ulisse. Anche Ulisse è l’uomo del bisogno, ha bisogno di tutti e di tutto per poter tornare in patria. Una patria dalla quale non voleva partire per la guerra, perciò si era finto contadino e pazzo, finché fu smascherato dagli emissari di Agamennone. E quando finalmente torna a Itaca e servi e familiari attraverso vari segni lo riconoscono, ancora gli manca il riconoscimento del padre Laerte. Invano gli mostra la cicatrice alla gamba, procuratagli dalla ferita di un cinghiale nel corso dei riti adolescenziali di iniziazione alla virilità, alla caccia, alla guerra. Laerte lo riconosce solo quando Ulisse gli elenca i tredici peri, dieci meli, quaranta fichi, cinquanta filari di vigne di cui narrava e prometteva il possesso al figlio bambino… Fra questa partenza non 182

desiderata per la guerra e questo ultimo riconoscimento nel segno agreste della pace c’è l’indicibile, la guerra, indicibile al punto che quando la si dice, come nell’Iliade, non ne è protagonista la guerra stessa, ma la sventura che accomuna vincitori e vinti… È questa la lettura che ne dà Simone Weil nel suo libro L’Iliade o il poema della forza. Come se, a distanza dai fatti, solo la pietas possa lavare la guerra. Tutte le guerre, tutte le violenze da insensatezze, orrore, vergogna, e solo allora trasformarla in «gesta». Patrizio: È vero. Guerra non è una parola come altre. Se mi dicono «tormento» o «malattia» posso tentare di avvicinarmi al loro senso. Così per «pioggia» o «vento». La guerra non riesco a immaginarla compiutamente, perché solo se attuata dispiega la propria, devastante, forma reale. Guerra è davvero la parola estrema, il paese irrappresentabile. E comporta, per questo, una difficoltà a dirsi. In napoletano la parola «’uerra» equivale a «ddio» (Dio). Diciamo «è ’na ddio ’e cosa» o ugualmente «sta cosa è ’a ’uerra» (guerra) per riferirci a qualcosa di eccezionale, di enorme per noi. Nel bene come nel male. Guerra è lo smisurato, fuori della misura umana, indicibile appunto. Negli incontri porto con me uno scritto di Walter Benjamin. Te lo leggo: «…non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe 183

riversato nella fiumana dei libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca… Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavall, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo». Molte delle più significative testimonianze sulla guerra sono state scritte o pubblicate solo a distanza di anni dagli avvenimenti drammatici a cui si era sopravvissuti. Il pensiero e la preoccupazione dei testimoni erano espressi da Primo Levi: «Anche se volessimo raccontare non saremmo creduti». Fabrizia: Mi fai pensare a quanto scarse siano state da noi le testimonianze letterarie o storiche sul nostro colonialismo in Africa… Ben pochi romanzi, a parte Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, Il deserto della Libia di Mario Tobino e, più recentemente, i racconti di Erminia Dell’Oro… Più di tutti ha contribuito alla conoscenza di quel periodo lo storico Angelo Del Boca… Quasi che noi italiani fossimo affetti da una doppia sindrome: un cupio dissolvi della memoria e un cupio absolvi della coscienza. Patrizio: Accennavi all’inizio ad una «cura della memoria». Siamo tra quelli che hanno cercato di prestare attenzione a quanto alcuni storici chiamano il «dovere 184

della testimonianza». Abbiamo pensato che il ricordo andava quotidianamente alimentato per guarirlo dall’opacità della dimenticanza. Tempo fa Indro Montanelli negava l’uso di gas nervini da parte dell’esercito italiano nelle colonie. Eppure i documenti di Del Boca lo smentivano. Non ha mai ammesso, neppure in seguito. Ma un eccesso «seriale» di memoria può essere altrettanto dannoso che un difetto di memoria. È interessante seguire le ricerche storiche di Annette Wieviorka e la sua polemica con la «Visual History Foundation» di Steven Spielberg, la produzione industriale di testimonianze avviate con collaboratori come Michael Berenbaum e quella che ormai viene definita «l’americanizzazione dell’Olocausto». Il suo lavoro fa appello all’urgenza di opporsi alla banalizzazione del ricordo. Fabrizia: Ora, guardando il prototipo del libro, mi è più chiara la scelta del progetto. Sono d’accordo, in quest’epoca dove tutto diventa spettacolo da consumare, perfino le deportazioni di massa e le stragi degli innocenti, mi sembra importante evitare di pubblicare un libro costoso e appariscente su questo tema, da lanciare sul mercato come se fosse un libro d’arte da tenere in salotto. Anche evitare i grandi spazi espositivi, come per esempio l’ultima mostra fotografica di Salgado a Roma dove l’«evento culturale» cancella l’evento umano… Oggi forse bisogna imparare una nuova operazione aritmetica: sottrarre per moltipli185

care. Venti libri mi sembrano un numero adeguato. La questione è: come si guardano queste foto? Patrizio: Siamo come in un’auto in corsa, vediamo il mondo attraverso un vetro. Protetti da un involucro che ci separa da quanto intorno vive. Il paesaggio ci appare estraneo, sfuggente. Occorre fermare la macchina, aprire la portiera, mettere i piedi a terra per iniziare a «vedere», a sentirci uno degli elementi del paesaggio. Anche le notizie ci arrivano passando dalla superficie di un vetro casalingo. Voci e immagini straniere che non sappiamo come disporre nella nostra vita. L’estraneità o l’indifferenza accompagnano ogni ascolto e ogni visione. La presenza tra noi di queste fotografie, il loro essere qui dopo un difficile cammino, direttamente nel palmo della nostra mano, vicini al nostro occhio e alle fotografie dei nostri cari, addirittura dove abitiamo, ci insegna a fermare la macchina, spingere la portiera, stare all’aperto. Alcune foto sono stampate su cartoncini minuscoli: quadrati o rettangoli di 2/3 cm. Qualcuno in Marocco, anni fa, ha fatto una foto, ha messo il suo vestito migliore, si è messo in posa, ha scritto una dedica, ha segnato una data, ha consegnato quell’immagine a un suo caro. Quell’uomo, un soldato mandato in una terra diversa dalla sua, è stato poi ammazzato o fatto prigioniero, quella foto gli è stata presa dai sahrawi perché raccontasse una guerra ignorata. Adesso quel cartoncino è tra le nostre cose, lo guardiamo come abbiamo 186

fatto finora solo con i ritratti dei nostri familiari. Ripetiamo per lui, osservando, un gesto abituale e privato destinato a contenere solo ciò che ci riguarda. E questo fa tremare la voce… Fabrizia: Qui a Itri sono ancora ben visibili le macerie dell’ultima guerra. Durante la battaglia di Montecassino l’80% del patrimonio edilizio andò distrutto e sul vecchio borgo, dove abito, dovunque ti imbatti in rovine di case e chiese. E quasi ogni famiglia ha un nonno, un padre, uno zio che ha sofferto la guerra e la prigionia. E poi l’emigrazione, soprattutto nelle miniere del Belgio e della Francia, un altro modo di essere profughi in tempo di pace. Perciò queste tue foto, ora anche mie, potrebbero trovare posto anche qui, in tante case, spento per qualche ora il televisore, scacciate le immagini virtuali e i falsi idoli, fatto posto alla parola viva e non meccanica, o al silenzio… Perché è nel silenzio e nel vuoto che trovano alimento voci e gesti dimenticati, quelli della vita reale, preziosa, unica, irripetibile. Patrizio: Il gesto dei sahrawi – costituire un archivio fotografico e renderlo accessibile, mentre la crisi è ancora in atto, – non ha precedenti nell’esperienza dei movimenti di liberazione. C’è una foto dell’archivio che mostra due uomini ritratti di profilo. Quello a sinistra guarda verso l’altro, in posa a destra, ma noi non possiamo più vederlo perché alla foto è stato praticato, 187

da uno dei due uomini fotografati, un taglio deciso giusto all’altezza delle spalle. Il suo viso non c’è. Eppure proprio quel vuoto, quella mancanza fa rilevare di più la figura mutilata, attraendo fortemente la nostra attenzione. Questo, mi sembra, possa dare un’idea della condizione sahrawi: messi da parte, tagliati via dalla Storia eppure capaci di mostrarsi in quel nulla. Offrire il volto dei soldati nemici, insieme a quello delle loro famiglie, invece di esibire il proprio ha consentito loro di acquisire visibilità. Di meritarla a dispetto di qualunque cecità adottata.

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BAGNOLI. LO SMANTELLAMENTO DELL’ITALSIDER (introduzione di Fabrizia Ramondino, Mazzotta, Milano 2000)

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ra la fine estate del ’69. In previsione delle lotte per il rinnovo del contratto di lavoro dei metalmeccanici e seguendo l’esempio di molti militanti della nuova sinistra che, soprattutto a Torino e Milano, si erano uniti ai gruppi operai più radicali con i quali avevano elaborato modelli di lotta e di organizzazione eterodossi rispetto a quelli dei grandi sindacati, ma ben presenti nella tradizione ormai centenaria della classe operaia, un piccolo manipolo di intellettuali giovani e giovanissimi, di cui facevo parte, fittò un locale al piano terra a Bagnoli e vi insediò un comitato di lotta con l’intento di stabilire un collegamento con gli operai della Cementir e dell’Italsider – quest’ultima la maggior fabbrica del Mezzogiorno. A Bagnoli, nel paesaggio flegreo, di poco mutato nel corso dei secoli, bello e tremendo con il suo fuoco sotterraneo, ricco di antiche vestigia, abitato una volta da contadini e pescatori, meta di villeggianti napoletani e viaggiatori, si erano incisi negli ultimi settant’anni i segni della trasformazione: le ciminiere, le fabbriche, le fiamme degli altiforni, i pontili a mare con le loro gru per il carico di ferro, pietre calcaree, carbone e per 189

lo scarico di merci, avevano disegnato un moderno paesaggio industriale. E intorno era cresciuto un quartiere: la distesa ininterrotta di case popolari e piccoloborghesi tirate su in fretta, che culminava in fondo verso Napoli nella cresta di palazzi in cima alla collina di Posillipo e del Vomero, i veri protagonisti del film di Rosi del ’63 Le mani sulla città. E se guardavi dall’alto della collina di Posillipo, laddove iniziava la discesa verso Coroglio, le due grandi fabbriche e i moli, sentivi rivivere il mito del dio Vulcano in quelle moderne fucine – ché in esse, contrariamente che nella vicina Olivetti di Pozzuoli, si lavorava la materia incandescente e vi potevi immaginare, nella loro vigoria fisica impegnata nello sforzo, i corpi umani incatenati alla macchina, e rievocare visivamente quanto avevi letto, studiato, fatto tuo sulla rivoluzione industriale e la lotta di classe. Rispetto a tutta Fuorigrotta, nonostante il continuum di costruzioni, Bagnoli aveva ancora l’aspetto di una cittadina a sé, con la sua piazza, le sue case basse, le sue ville e villette in stile neoclassico e liberty, un tempo abitate da villeggianti, poi dai dirigenti delle fabbriche, infine da povera gente, o invece abbandonate dietro l’inselvatichita vegetazione dei giardinetti. A conferire uno stile proprio al quartiere, contribuivano la polvere che dalle fabbriche si depositava su vetri di finestre, tetti, asfalto, e l’odore terroso dell’aria che solo di rado e per lo spirare di alcuni venti si mescolava a quello di uova marce che proveniva dalla sol190

fatara, e che diventava sapore quando si confondeva con la birra, il caffè, il panino. Erano assenti invece odori e sapori di mare. Solo pochi operai abitavano a Bagnoli, la maggior parte veniva da altri quartieri, dalle periferie di Napoli, soprattutto da cittadine lontane. Castellammare, per esempio, dove erano stati chiusi tanti opifici e cantieri navali. Nel nostro piccolo manipolo il fine comune offuscava le differenze di età, di estrazione sociale, di cultura, di esperienze. Pure, si percepivano sotterraneamente due atteggiamenti diversi – nel gergo del tempo due “linee” – rispetto tanto ai mezzi per perseguire il fine, quanto al fine stesso. In alcuni prevaleva un atteggiamento didattico da maestrini di vecchio stampo o dirigisti da III Internazionale – bisognava indottrinare gli operai sulla teoria e sulla prassi –, in altri invece c’era una maggiore disponibilità alla ricezione di altre esperienze, una sana curiosità, un desiderio di imparare dagli operai, di condividerne, per quanto possibile, le sorti. I primi erano più impazienti e presuntuosi – possedevano la “verità” – i secondi, più prudenti e discreti – coltivavano il dubbio, erano più attenti non solo alle contraddizioni tra loro e gli operai, ma anche a quelle tra gli operai stessi. Nessuno di noi era mai entrato in una fabbrica, tranne una compagna che aveva uno zio chimico all’Italsider. La fabbrica era infatti un’istituzione chiusa e le mura e i cancelli che la cingevano l’apparentavano a carceri, manicomi, collegi, caserme. Eravamo invece 191

più abituati a vedere come si svolgevano altri lavori operai – nei cantieri edili, nelle fabbrichette e nei laboratori a livello stradale o sotterranei (lì c’erano le grate) e ad osservare il lavoro a domicilio: dovunque intatti trovavi bambini e donne che sbucciavano piselli per la Cirio e scoprivi che la maggior parte delle scarpe con marchio di Varese o di Vigevano venivano fabbricate a Napoli o che, pur essendo Napoli la maggior esportatrice di guanti in Italia, non c’era una sola fabbrica di guanti in città, e le circa dodici fasi della loro lavorazione erano distribuite sul territorio in laboratori e famiglie, veri e propri anelli di un’invisibile catena di montaggio. Così anche conoscevamo meglio le più diffuse situazioni di lavoro precario o di disoccupazione. Disoccupati e precari – quelli che i dirigenti politici comunisti e socialisti definivano “sottoproletari”, “plebe”, “popolino” – erano prevalenti a Napoli. Gli operai delle fabbriche napoletane non potevano tracciare un confine netto fra sé e loro: erano parte della loro vita – parenti da aiutare, figli che non si riusciva a fare entrare in fabbrica, vicini di casa con cui si era stretta amicizia, mogli costrette al lavoro precario o servile; e ad essi erano accomunati dalle carenze quantitative e qualitative di case, scuole, ospedali, mezzi di trasporto, altri servizi. Alla nostra ignoranza della grande fabbrica cercavamo di sopperire con lo studio delle condizioni di lavoro all’Italsider, dei termini della contrattazione 192

sindacale a livello nazionale e aziendale, delle battaglie dei gruppi operai più radicali del Nord. Presto, dopo un primo periodo di indefesso volantinaggio ai vari ingressi e a ciascuno dei vari turni, fummo affiancati da alcuni operai che, chi più diffidente, chi più curioso, chi più timido, chi più ardito, avevano cominciato non solo a discutere con noi ai cancelli, ma anche a frequentare il comitato. Le richieste operaie erano fondamentalmente queste: meno ripetitività e alienazione del lavoro, più democrazia interna, rifiuto della delega passiva ai sindacati, aumenti salariali più eguali, che favorissero le fasce più deboli, che erano la maggioranza (ma questa rivendicazione creava attriti fra gli operai specializzati e gli altri), rifiuto di scambiare con indennizzi in denaro il tempo del riposo, la sicurezza e la salute; abolizione degli appalti: una quota di tempo libero pagato dall’azienda per poter studiare. Nelle manifestazioni, accanto allo slogan più tradizionale “Nord e Sud uniti nella lotta” cominciava ad apparire quello più eversivo “Operai Disoccupati uniti nella lotta” che invano Giuseppe Di Vittorio aveva cercato di introdurre al tempo dell’occupazione delle terre, ben consapevole di quali fossero le contraddizioni in tutto il Sud d’Italia. Anche le forme di lotta diventarono più fantasiose – per esempio una volta, in previsione di un corteo, tenemmo in consegna nel locale per alcuni giorni una pecora, che sarebbe servita a incitare gli operai più restii alla lotta a non comportarsi da vili. Un’altra volta, in occasione di uno scio193

pero contro la nocività in fabbrica, gli operai si portarono dietro delle bottiglie di latte, che sollevavano ritmicamente scandendo lo slogan “Bevete più latte, il latte fa bene!”, mutuato da un film di Fellini, irridendo alla distribuzione del latte da parte dell’azienda per disintossicare i polmoni dai veleni delle polveri. Di quella breve e fervida stagione a Bagnoli ricordo soprattutto l’uscita a fine turno alle porte strette della fabbrica, di centinaia di uomini così diversi dalle folle delle strade, dei vicoli, della metropolitana, perché nei loro corpi vigorosi, se pure un po’ curvi, e nell’espressione di orgogliosa fermezza dei loro volti si percepiva la forza virile capace di forgiare la materia; oppure la finta indifferenza – a volte l’atteggiamento sospettoso – con cui nei primi tempi gli operai prendevano i volantini e tiravano dritto; gli incontri e le discussioni poi nei capannelli, una volta che alcuni di loro avevano vinto la diffidenza verso questi giovani “studenti” che di notte aspettavano eccitati e pazienti lì fuori; e il nostro sentirci dei messaggeri tra un turno e l’altro, un reparto e l’altro, una fabbrica e l’altra anche lontane, di Torino, Milano, Porto Marghera – utili insomma alla “causa” almeno nel garantire fra i vari segmenti della classe, una contro-informazione rapida e quotidiana che non sarebbe stato possibile assicurare altrimenti. Non so dire se in quei mesi gli operai dell’Italsider abbiano imparato qualcosa da noi o se in qualche modo siamo stati loro di aiuto. So invece che loro ci hanno insegnato molto: a vivere con maggiore consa194

pevolezza, responsabilità, dirittura morale. A vedere dietro ogni manufatto dell’uomo, dal frigorifero al ninnolo di casa, dalla macchinetta del caffè all’ombrellone da spiaggia, il lavoro che li ha prodotti, i corpi, l’intelligenza, i sentimenti degli uomini, delle donne, dei bambini, che ci sono dietro; a immaginare i loro gesti, i loro pensieri, i loro bisogni, le loro emozioni, i loro disagi, le loro sofferenze; a metterci, seppure per un istante, nei panni loro. Qualche anno dopo un disoccupato organizzato mi parlò delle fabbriche che “vanno fujenno”: intendeva le fabbrichette che dall’oggi al domani sparivano, o per incapacità imprenditoriale o magari per sfuggire al fisco, all’Ispettorato del lavoro, a rivendicazioni operaie, per poi subito ricomparire sotto un’altra veste. Oggi se n’è andata “fujenno” anche l’Italsider. E anch’essa per ricomparire altrove. Lo testimoniano le foto di Vera Maone in cui i pochi operai che si vedono o sono vecchie maestranze addette alla smobilitazione della fabbrica o sono tecnici e operai cinesi, incaricati di trasferire nel loro paese, che li ha acquistati, macchinari e materiali ancora utili. A dimostrare che le fabbriche, anche se fuggono altrove o si mascherano diversamente, continuano ad esistere. E che dietro gli abiti gessati della “new economy” ci sono ancora, e sono la maggioranza, le tute e i corpi sudati dell’antico popolo “dei campi e delle officine”.

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LA FORZA DEL DUBBIO (da “Il Mattino”, 8 febbraio 2003)

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ella metà degli anni ’50 ho viaggiato con la tenda e in autostop per l’Italia e per mezza Europa. Non c’era città, cittadina o villaggio dove mancasse il monumento ai Caduti della I guerra mondiale. Al contrario di molti miei compagni d’avventura, li notavo subito e mi ci soffermavo davanti. Era considerato dagli altri un fatto strano, perché di norma questi monumenti sono irrilevanti dal punto di vista artistico. Mi ci soffermavo, quindi, e pensavo: «Ne è valsa la pena?». Questa riflessione non derivava tanto dall’avere sperimentato direttamente da bambina i bombardamenti della II guerra mondiale, quanto dalle letture adolescenziali di libri antimilitaristi. Libri come Il fuoco di Barbusse, All’ovest niente di nuovo di Remarque, Viaggio al termine della notte di Céline. Quella mia osservazione giovanile – «Ne è valsa la pena?» – vale per tutte le guerre perché, considerandone le cause, ci si poteva pensare molto molto prima per evitarla, e perché, considerandone gli effetti, vinti e vincitori sono accomunati da una reciproca sconfitta, come dimostra uno dei più antichi libri del196

l’umanità, l’Iliade omerica, il poema della guerra così bene analizzato da Simone Weil. Una riflessione, quindi, che mi è venuta soprattutto dai libri e che i libri stessi, diversi nel corso degli anni, hanno rafforzato. Credo, quindi, che oggi sarebbe importante, soprattutto per i giovani, leggere molto sulla guerra, perché non bastano né la televisione né i giornali quotidiani per riflettere a fondo. Quindi sarebbe fondamentale che nelle scuole, in ogni quartiere delle grandi città, nelle cittadine, ci fossero biblioteche. Per esempio, nella cittadina dove vivo ora sarebbe prioritario, fra le spese comunali, dare il primo posto alla biblioteca civica, chiusa o semiutilizzata ormai da alcuni anni. Poco dopo la caduta del muro di Berlino, mi fermai per riposarmi in un piccolo giardinetto pubblico. E, alzando gli occhi, notai qualcosa che mi sorprese e che, dopo alcuni secondi, capii trattarsi di un monumento: il giardinetto si trovava, infatti, nello spiazzo dove una volta sorgeva un edificio distrutto dai bombardamenti e sulle pareti cieche delle due case adiacenti rimaste in piedi erano state poste delle targhe di metallo all’altezza di ogni singolo appartamento del palazzo distrutto, con i nomi, i cognomi, i mestieri, le date di nascita e di morte di coloro che vi avevano abitato. Si trattava dell’opera di un giovane architetto, semplice e molto economica, che però ti faceva riflettere molto di più di un qualsiasi altro grandioso monumento alla memoria. Nella cittadina in cui vivo sono ancora ben 197

visibili le rovine della II guerra mondiale e ho notato che tanto molti miei amici del paese quanto miei amici venuti da fuori non se ne accorgono nemmeno. Oppure, se le notano, non ne capiscono la causa, soprattutto i giovani. Proporrei, quindi, all’amministrazione comunale della cittadina o a degli sponsor privati di erigere un simile monumento. Oggi che venti di guerra si avvicinano a noi sempre più minacciosi e che ci lasciano disorientati e impotenti, vorrei opporre al concetto di «guerra preventiva» quello di «pace preventiva». In Nigeria, un Paese fino a pochi anni fa dilaniato da guerre civili, che comunque si potevano prevedere e quindi evitare, è in atto da un anno circa un’iniziativa di pace straordinaria e mirata, promossa dallo Stato del Sud Africa e dall’Onu e diretta da una giovane donna americana innamorata dell’Africa. Scambio da kalashnikov contro radiotransistor portatili. Gli ex guerrieri, compresi i Tuareg, non fra i più feroci, ma fra i più gelosi della propria indipendenza, consegnano i fucili e in cambio ricevono un radiotransistor. Perché proprio un transistor come strumento di pace? Perché così le varie etnie e i vari villaggi possono comunicare tra loro; i programmi vengono diffusi nelle varie parlate locali, e le notizie riguardano problemi concreti e vitali, per esempio come prevenire la malaria, otturando in tempo con la terra le acque stagnanti, come annunciare in tempo le tempeste di sabbia o le grandi piogge, come prestare i primi soccorsi a un malato... 198

In questo Paese di religione musulmana è stata posta come condizione, accettata da tutti, che a possedere i transistor e a dirigere le piccole emittenti locali per metà siano delle donne. E siccome nel Paese mancano l’elettricità e le pile, i transistor sono stati fabbricati appositamente con una carica a manovella e a vari tecnici/tecniche è stato insegnato come ripararli. Anche nella cittadina in cui vivo ho assistito a un piccolo episodio che chiamerei di «pace preventiva». A un crocicchio davanti alla sua porta di casa era seduto un vecchio, davanti a lui due bambini si prendevano a pietrate: il vecchio è intervenuto chiedendo loro calmo: «Secondo voi ci vuole più forza a buttare una pietra contro l’altro o invece a tenersela ferma in mano, seppure con rabbia, dietro la schiena?». I bambini, prima l’uno poi l’altro, hanno risposto: «Ci vuole più forza a tenerla ferma in mano dietro la schiena. Ma – ha aggiunto uno dei bambini – se quello continua a buttarmi pietre, io che faccio?». «Ci penso io – ha sentenziato il vecchio – ne parlerò anche con le vostre famiglie». Questo piccolo esempio sta a significare che una cultura di pace va costruita sempre a partire dal basso, dalle nostre coscienze, dalle nostre famiglie, dalla nostra comunità, dal quotidiano esercizio della politica. Ma forse parlare agli esseri umani di «pace preventiva» è voce che si disperde nel deserto. Perché in molte cose gli animali sono superiori all’uomo: quando delimitano il proprio territorio, esso è esteso quanto 199

basta per sopravvivere; e quando il lupo mangia l’agnello o il leone l’antilope, non aggredisce più, fin quando non è di nuovo digiuno, mentre sembra che gli uomini non estinguano mai il loro desiderio di estendersi ad altri territori, né siano mai sazi di nutrirsi di altri uomini.

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QUEL DIO DEGLI ESERCITI (da “Il Mattino”, 26 marzo 2003)

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econdo il pensiero di André Girard, che spazia dalla teologia all’antropologia, dalla psicologia alla critica letteraria, tutte le religioni sarebbero da ricondurre alla necessità della specie umana di mitigare, non di risolvere, due istinti distruttivi, propri in parte anche di alcune specie animali. Il primo è il meccanismo dell’imitazione che, mentre presiede all’apprendimento, rischia di sfociare nell’invidia e nella gelosia, spesso foriere di delitti; il che vale tanto nella relazione tra adulti e giovani, che in quella tra maestro e discepolo, che in tutti gli altri rapporti interpersonali, anche fra congiunti di sangue. Il secondo è quello del capro espiatorio, più proprio degli uomini che delle bestie, che si verifica quando una comunità, piccola o grande che sia, si sente minacciata al suo interno da troppe conflittualità o da disastri naturali (esempi ne sono quelli della peste a Tebe nella tragedia di Sofocle Edipo re o quella del nostro Manzoni, nella caccia agli untori durante la peste a Milano). Con il sacrificio della vittima espiatoria la comunità si ricompatta. Lo stesso accade quando nel contrasto tra comunità vicine ci si considera a vicenda nemici, e 201

quindi l’una diventa per l’altra il capro espiatorio da sacrificare. In tutte le tre grandi religioni monoteiste, sorte non a caso nello stesso territorio e che spesso sono convissute pacificamente insieme, gli aspetti in comune sono maggiori delle differenze. Tutte e tre considerano dio come il «nascosto», colui che non puoi nominare, colui che è l’ospite che viene qualche volta a visitarti, che tu devi aspettare sapendo che non per questo verrà a trovarti. Anche nel Corano l’ultimo nome di Allah è quello impronunciabile. Tutte e tre le religioni si fondano su un concetto simile della comunità dei credenti, piccola o grande che sia, che ha lo scopo di rafforzare i credenti stessi nella fede e di istruirli, di proteggerli dalle eresie e dalla persecuzione, di propagandare la propria fede. Infine, in tutte e tre le religioni e, nei loro grandi libri di riferimento, si può leggere fra le righe, forzandone le interpretazioni, la presenza di un dio degli eserciti. Tutta la storia umana è attraversata da guerre di religione, nelle quali, a mio parere, la religione è un pretesto per lotte economiche e politiche. In questi ultimi anni sembra prevalere il dio degli eserciti. Mentre quello delle piccole o grandi comunità religiose di aiuto reciproco e di propaganda continua la loro opera, ora silenziosa ora tonante, caratterizzate dall’accoglienza o dal rifiuto dell’altro da sé, «l’ospite» non va inteso solo come dio stesso, ma anche come lo straniero. Quando prevale il rifiuto, il dio della comunità coincide col dio degli eserciti – da cui i vari fondamentalismi, cristiani, ebraici o musul202

mani. Grande è in genere oggi l’ignoranza teologica. Ma soprattutto in Occidente grande è l’ignoranza della storia dell’Islam. Due sono i libri che consiglierei per colmare questa ignoranza: La storia dei popoli arabi di Albert Hourani e L’Islam in Africa. Sufismo e jihād fra storia e antropologia di Adriana Piga. Storicamente, le comunità islamiche dei primi secoli si sono incontratescontrate con le religioni animiste delle popolazioni locali. Il secondo incontro-scontro traumatico dell’Islam è avvenuto nella prima metà dell’Ottocento con il colonialismo. I colonizzatori francesi e britannici hanno di norma dimostrato ignoranza e disprezzo verso l’Islam, raramente sono scesi a compromessi, più spesso lo hanno represso. In tutta quest’ampia e in gran parte ignorata zona dell’Africa, le comunità islamiche sono divise, così come altrove quelle cristiane ed ebraiche, tra il dio nascosto, il dio della comunità, il dio degli eserciti. Chi desidera conoscere in modo meno saggistico e specialistico il conflitto fra religionipopoli, in particolare quello tra arabi e israeliani, legga il bel romanzo di Sayed Kashua Arabi danzanti. L’autore è un giovane arabo palestinese, diviso fra due culture. Pur tentando in ogni modo di essere un vero ebreo, non ci riesce. Ha la «carta blu», un documento che nello stato di Israele indica gli arabi israeliani. Perché mai, mi chiedo io, gli uomini hanno bisogno di un documento, spesso simbolo di stigma, che certifica la loro fede religiosa e la loro etnia? Tutto questo ha poco a che fare con la religione. Quanto a me, se detesto il 203

dio degli eserciti, se diffido del dio delle comunità, credo invece al dio nascosto. E faccio mia la frase di Simone Weil: «Cercandomi sedesti stanco».

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TOTALITARISMI. LA PROFEZIA DI ARENDT (da “Il Mattino”, 25 maggio 2003)

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volte un libro è necessario per il pensiero, come l’acqua e il pane per il corpo. Così mi è accaduto con Archivio Arendt, 2, 1950-1954 (a cura di Simona Forti, traduzione di Paolo Costa, Feltrinelli, euro 30). Perché in questi giorni di guerra e di dopoguerra – e di troppe guerre e dopoguerre dimenticate –; di prevalere di opinioni faziose sul pensiero politico-filosofico; di assuefazione agli attentati contro la «nuda vita»; di cosiddetta crisi dei valori, e dei maldestri tentativi di affrontarla con un eccesso di ricette pluridisciplinari, il pensiero di Hannah Arendt, espresso in questo libro, circa 50 anni fa, e nei saggi successivi, è estremamente attuale, forse addirittura profetico rispetto al futuro. I temi principali attorno ai quali si aggira il suo pensiero, lucido, angosciato e ironico insieme, sono: qual è l’essenza del totalitarismo; quali errori sono stati commessi tra gli Stati Uniti e l’Europa; quali gli errori dei filosofi, tanto di quelli rimasti rinchiusi nella loro torre d’avorio, quanto di quelli che, come ha fatto ella stessa, hanno deciso di sporcarsi le mani nella politica. Il suo pensiero parte, più che da un assunto filosofico, 205

da un dato esistenziale: dal thaumadzein – secondo gli antichi filosofi greci all’origine del pensiero –, che significa stupefazione, a un tempo meraviglia e/o indignazione dinanzi ad ogni nuovo evento, e che espone quindi ogni certezza al dubbio e alla decostruzione. Un termine così originario e primario che appartiene al bambino, la cui mente è vergine da preconcetti. La brillante allieva di Heidegger, solo perché ebrea esiliata negli Usa, chiama «circolo vizioso» quello in cui è costretto il suo pensiero: che cosa distingue la dittatura dal totalitarismo. Partendo dalla divisione stabilita da Montesquieu tra regime monarchico, fondato sull’onore, regime repubblicano, fondato sulla virtù, regime tirannico, fondato sulla paura, ella si chiede: come, quando e perché una dittatura si trasforma in regime totalitario. Nel corso della storia infatti ci sono sempre state tirannidi, caratterizzate dall’oppressione dei sudditi, dalla persecuzione e uccisione dei nemici politici interni, delle etnie diverse, spesso usate come capro espiatorio, fino ad arrivare alla deportazione in massa delle stesse; anche la conquista di altre terre è propria delle tirannidi, quando si sentono minacciate da nemici esterni da sottomettere. Seguendo quindi Hannah Arendt nel suo «circolo vizioso» il fascismo, il franchismo, il bolscevismo, fino al ’36, il nazismo fino al ’38 sono ancora dittature, non ancora totalitarismi. Il salto avviene quando in nome di un principio astratto, la legge di natura e della selezione naturale, nel caso del nazismo, la legge della Storia nel caso del 206

bolscevismo in versione staliniana, giungono all’estrema e tremenda consequenzialità. Non a caso, sottolinea, i due totalitarismi del ’900 si affermano nell’imminenza della guerra, quando «nulla dipende più dalle parole e tutto dalla muta ferocia delle armi». Proprio per questo la propaganda di guerra suona così sgradevolmente insincera: qui le parole diventano «mera chiacchiera», non hanno più alcuna capacità d’azione, tutti sanno che l’azione ha abbandonato la sfera del discorso. L’affermarsi del totalitarismo è facilitato dall’immenso sviluppo della tecnica, tanto in campo militare che dei mezzi di propaganda di massa, che il terrore o la pervasione delle coscienze tentano a ridurre il cittadino o l’individuo sempre più filisteo, indifferente, stupido – mai stupito –, solo desideroso di un capo che agisca e pensi al suo posto, riducendolo quindi ad atomo di una massa amorfa. Se il totalitarismo, che pretende di ridurre tutto il globo ad un unico principio astratto, è sorto nel ’900 in Germania e in Russia, poteva sorgere altrove, potrà nascere altrove. È addirittura insito in ogni uomo quando il suo io diventa ipertrofico. Che cosa si può opporre all’affermarsi del totalitarismo? Hannah Arendt cita un’unica frase: «L’affare di uno è affare di tutti». Un altro germe del totalitarismo si annida nel trascurare «i mali minori» per opporsi a un qualsivoglia male maggiore. Quanto ai postumi della guerra in Germania, tre sono essenzialmente le sue perplessità: i tedeschi si ag207

girano indifferenti fra le loro macerie, solo fidando nella loro operosità per ricostruire tutto da capo; il ritorno di ex gerarchi nazisti in posizioni di responsabilità – lo spazzino è accusato di nazismo solo perché era stato costretto ad aderire al partito per mancanza di lavoro, mentre il suo superiore l’ha fatta franca –; è stato restituito tutto il loro vecchio potere agli industriali; infine la rimozione del passato e la deresponsabilizzazione verso di esso da parte dei cittadini e individui. È vera profezia quanto scrive sulle relazioni fra Stati Uniti ed Europa: «Come un’invisibile, ma estremamente reale, muraglia cinese, la ricchezza separa gli Stati Uniti da tutti i restanti paesi del globo, proprio come separa il singolo turista americano dagli abitanti dei paesi a cui vi fa visita... Sappiamo tutti per esperienza personale che l’amicizia richiede uguaglianza. Sebbene l’amicizia possa essere un fattore di compensazione delle diseguaglianze naturali e economiche esistenti, vi è un limite oltre il quale tale compensazione risulta assolutamente impossibile». Osserva però anche che non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo, l’uso e l’abuso della tecnica moderna, compresa la bomba di Hiroshima, sono sorti in Europa, da dove sono stati «esportati» negli Usa. Questo, a mio avviso, il nocciolo duro del suo pensiero. Il nostro gioco su questa terra si svolge entro limiti ben precisi: il diritto di tutti gli uomini alla cittadinanza, l’etica della responsabilità individuale, la 208

consapevolezza che non solo gli uomini, ma anche la natura, sono «creatura dei» – il che non implica l’adesione a una qualche chiesa; la critica all’ateismo e al nichilismo, opposti e nel contempo complementari rispetto a ogni fede astratta e totalitaria. Della piccola schiera dei grandi pensatori del ’900 fanno parte due donne ebree, Hannah Arendt appunto e Simone Weil, quasi contemporanee che, seppure cresciute in nazioni diverse, la Germania e la Francia, hanno sofferto la persecuzione e l’esilio, e che, nonostante percorsi culturali autonomi, arrivano alla stessa conclusione: compito del pensiero è affrontare l’ontologia del presente.

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PIN-UP SOTTO IL VELO. STORIA DI MIRIAM, CHE A BERLINO INSEGNA IL TEDESCO ALLE DONNE EMIGRATE DALLA TURCHIA (da “Il Mattino”, 14 gennaio 2004)

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iriam H. è tedesca e vive a Berlino. È fra le mie migliori amiche. La sua vita è stata molto varia e movimentata. Con la sua compagna d’adolescenza Lou – che ora fa parte di Medici senza frontiere e che lavora spericolatamente nel Sud del Sudan, portando medicinali e assistenza medica in luoghi dove non si azzardano nemmeno più le organizzazioni umanitarie ufficiali –, ne ha combinate di tutti i colori in collegio, dove i genitori l’avevano rinchiusa per punizione. Ha studiato italiano a Firenze. Durante la prima Intifada era in Israele come volontaria in un progetto tedesco di aiuto ai vecchi ebrei sopravvissuti alla Shoah (fargli la spesa, pulirgli la casa, accompagnarli a passeggio) – allora è scampata per miracolo a un attentato contro un autobus. Ha lavorato come assistente di regia nel teatro di Bechun, subito dopo che il grande regista Peymann era stato sostituito da altri. Ha tradotto molti libri dall’italiano, fra cui La strada per Roma di Volponi, Il deserto della Libia di Tobino e alcuni romanzi di Erminia Dell’Oro. Quando si è trasferita di nuovo a Berlino con il suo compagno e i loro due bambini, è diventata insoffe210

rente rispetto al suo lavoro di aiuto-regista teatrale e di traduttrice ed è tornata al suo impegno sociale giovanile, questa volta non più con gli ebrei, ma con le donne turche di Berlino. Miriam ha cominciato questo suo nuovo lavoro solo quando la sua seconda bambina è andata all’asilo, perché ha ritenuto che occuparsi dei suoi due figli fosse più importante di altro. A quel tempo, come ancora oggi, la sua casa è un accogliente porto di mare, dove chiunque abbia bisogno viene accolto, e dove, solo per sua virtù, vi trova più che compassione l’«allegria dei naufragi». Miriam, come si dice a Napoli, è bella di faccia e di cuore. Qualunque straccio indossi, sembra Sharazad. Ci accomuna un populismo aristocratico, tipico di tanti napoletani, siano essi principi o pezzenti. Miriam dunque, a un certo punto della sua vita, spinta anche dall’amicizia con alcuni dei suoi vicini di casa turchi, ha deciso di insegnare il tedesco alle donne emigrate, per la maggioranza turche. Berlino è la città al mondo dove la comunità turca emigrata è la più numerosa (circa 500.000 persone). Fino all’anno scorso ha incontrato molte difficoltà, perché per formare una classe, e quindi anche essere pagata, doveva andarsele a cercare casa per casa queste donne. Quest’anno invece il lavoro va meglio, perché non deve più andare di casa in casa a fare opera di reclutamento e persuasione. Infatti su una cosa almeno destre e sinistre politiche tedesche sono d’accordo: da un lato bisogna bloccare i nuovi arrivi d’immigrati, dall’altro 211

è necessario fare ogni sforzo possibile per integrare quelli che già ci sono da anni o che arrivano con permessi regolari (fra i motivi anche la riunificazione familiare o un recente matrimonio). Ma questo vale soprattutto per gli emigrati turchi e per quelli provenienti dai Paesi dell’Est europeo, non solo polacchi, cechi, ungheresi, ma anche russi. Miriam quindi, che fino a circa due anni fa aveva solo 10-12 allieve, ora ne ha 40. Perché le sue allieve siano solo donne, e non anche uomini, è ovvio. La metà delle sue allieve sono donne anziane, che vivono in Germania da 20-30 anni e che qui spesso hanno partorito i loro figli. Miriam sorride e aggiunge: «Non equivocare sulla parola anziane, a volte sono addirittura più giovani di me, eppure sembrano più vecchie di te, anche perché hanno cominciato a fare figli a 15-16 anni». Continua: «Il loro tedesco è elementare, quanto basta per fare la spesa al supermercato oppure, per quelle che hanno lavorato, il gergo di fabbrica o quello delle domestiche. Ora invece dovrebbero impararlo per bene. Ma non ne hanno nessuna voglia o perché vivono chiuse nei loro ghetti familiari e sociali o perché invece vorrebbero finire i loro giorni nel villaggio natale. L’altra metà delle mie allieve sono invece giovanissime». «Sono le loro figlie?» chiedo. «No – risponde Miriam ridendo – sono le loro nuore». E mi spiega. «Tanto i figli che le figlie delle donne 212

turche, nati in Germania o arrivativi da piccoli, sono per la maggior parte integrati, hanno frequentato scuole materne e scuole superiori tedesche, spesso sanno il tedesco meglio del turco. I genitori vogliono che si integrino nel Paese. Lasciano le figlie femmine relativamente libere di fare le proprie scelte; certo preferirebbero che quando escono indossino il fazzoletto in testa e il mantello; sotto i quali sono però vestite come pin-up; preferirebbero anche che sposino un compagno turco integrato, ma se scelgono un altro, persino tedesco, pazienza. Mentre queste stesse madri esigono che i figli maschi, quando si sposano, scelgano una giovanissima ragazza del loro villaggio d’origine, magari una cugina, i matrimoni sono combinati dalle madri e spesso i futuri sposi nemmeno si conoscono. Così ho tante di queste ragazzine appena arrivate come spose, timide, disorientate, un po’ infagottate, col solito fazzoletto in testa e il mantello, ma che lasciano trapelare qualche collana d’oro e le labbra dipinte, quasi per gioco, come bambine; e alcune, dopo qualche mese, come le loro cognate, sotto fazzoletti e mantelli sono vestite anche loro da pin-up, come non lo fanno invece la maggior parte delle ragazze tedesche. Così le madri, che non sono riuscite a controllare del tutto le proprie figlie, riescono a controllare le giovanissime nuore, e per loro è importante perché ritengono che la famiglia si trasmetta solo attraverso i figli maschi. Quindi figlie relativamente libere, nuore sotto l’antica legge. E i figli maschi di norma non si ribel213

lano, tanto possono sempre andare a puttane o avere un’amante tedesca o altra che sia». «Fra le tue allieve ci sono state soltanto donne turche o curde?». «No, ho avuto anche qualche donna tamil. Ma ricordo particolarmente un’allieva pakistana. Altro che chador: veniva vestita col burka. La chiamavo la nostra taliban. Infatti veniva a imparare il tedesco non per integrarsi in Germania, ma per avere una lingua da condividere con le turche per convincerle a seguire rigidamente i principi coranici. E non faceva che parlare di religione... per fortuna se ne è andata presto». «Ti sembra di aver fatto molti errori nel rapporto con queste donne?». «Tanti, ovviamente. È difficile comunicare con mondi così diversi, ma l’errore principale che ricordo risale a due anni fa. Allora avevo circa dodici allieve e per festeggiare la fine del corso ho pensato di fare ad ognuna un piccolo modesto regalino. Non l’avessi mai fatto! L’indomani le donne, dopo essersi quotate, sono venute in casa mia e mi hanno regalato un massiccio anello d’oro... Non sapevo che dire, che fare, tranne ringraziare, piena di vergogna... È un po’ come nei vicoli di Napoli... il loro dono più che un segno di riconoscenza serve a sottolineare la loro superiorità su di me... E se avessi continuato quel gioco al rincaro dei doni, sarebbe stato uno spreco distruttivo tanto per loro che per me». «E che fine ha fatto l’anello?» chiedo. 214

«Ecco!», e Miriam sorridendo stende la mano sinistra, il cui dorso è arabescato da un intrico di sottili catenelle d’oro, che vanno dall’attacco delle dita fino al polso. «A volte mi dimentico di togliermelo, persino quando lavo i piatti».

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L’IMMONDIZIA DEL MONDO (dal “manifesto”, 27 maggio 2008)

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a quando ero bambina sotto i bombardamenti tedeschi, Napoli è stata sempre per me in stato di «emergenza» – basta leggere i libri di Domenico Rea sul dopoguerra. Che significa per me il verbo «emergere»? Questo: che quanto è nascosto, per esempio sotto i bei tappeti d’Italia e del mondo, qui, a Napoli, d’improvviso viene alla luce. L’immondizia napoletana altro non è che l’emergere di tutta l’immondizia prodotta nel mondo da un capitalismo sempre più selvaggio. Un capitalismo che dietro l’immaterialità dominante della finanza tende a occultare i produttori di beni agricoli, industriali o altri, trasformandoli sempre più in consumatori, questi sempre virtuali. Quanto all’attacco al campo rom a Ponticelli, che c’entri o no la camorra, esso è la manifestazione, questa volta ferocissima a Napoli, delle infinite e antiche guerre fra poveri; così come antico e noto è l’accanimento contro il capro espiatorio. Poco prima di morire, Brandel scrisse che Napoli è la porta dell’Oriente verso l’Occidente e viceversa, perciò la città ha attratto tanti turisti nordici in cerca di esotismi, perciò, se vedi in tv le folle che protestano contro 216

le discariche, esse somigliano tanto alle folle di Gaza, Beirut, Rio de Janeiro, delle banlieues francesi o dei ghetti neri o latinoamericani negli Usa. Brandel scrisse anche che dopo l’Unità d’Italia avrebbe auspicato che la capitale ne fosse Napoli, la città più popolosa e fra le più attive del tempo. Chissà, forse in quel caso la «questione meridionale» non si sarebbe posta. Appena arrivata all’età della ragione sono diventata una socialista anarchica pragmatica, la mia tesi di laurea su P.J. Proudhon uscì su “Volontà” nel 1965, la rivista fondata da Giovanna Berneri, vedova di Camillo, ucciso dagli stalinisti durante la guerra di Spagna. E tale sono rimasta occupandomi per quanto potevo in prima persona di bambini, analfabeti, disoccupati, operai in lotta contro la dismissione delle fabbriche, donne che chiedevano lavoro, asili, anticoncezionali e – a volte – solo il pane; battendomi contro i politici di destra o di sinistra che fossero. Ho condiviso così la perenne emergenza napoletana – i cui picchi sono stati l’eruzione del Vesuvio del ’44, il colera del ’73, al terremoto dell’80. Ma mi sembra che l’emergenza rifiuti acquisti una valenza simbolica particolare tanto in senso proprio che metaforico: si contrappone infatti a un mondo virtuale, quasi sempre mediatico, in cui il culto della bellezza dei corpi umani, della igiene ossessiva dietetica e medica, della pulizia etnica, tende a esorcizzare la sofferenza, la malattia, la morte, il contagio con il vicino. Sicché nell’immaginario collettivo, spesso inconscio, l’immondizia che som217

merge Napoli assume la stessa valenza dell’eruzione del Vesuvio che ricoprì la bella e lussuosa Pompei dei ricchi e dei potenti del tempo. «Le ricette dei medici non servono, scrisse Kafka, la difficoltà risiede nei rapporti umani». E Kafka se ne intendeva, perché era stato assiduo frequentatore dei circoli anarchici di Praga, ma anche perché per circa 20 anni fu funzionario dell’Ispettorato boemo contro gli infortuni sul lavoro.

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FABRIZIA E IL CENTRO DI COORDINAMENTO CAMPANO: UN MODO DIVERSO DI FARE POLITICA

di Enrico Pugliese

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l paziente lavoro di raccolta e selezione di testi e la approfondita analisi dei contenuti che Mirella Armiero ha condotto per questo volume rappresentano un prezioso contributo per la conoscenza del pensiero e dell’azione politica di Fabrizia Ramondino. Ciò grazie anche al fatto che l’insieme di scritti – più o meno noti, più o meno editi (se così si può dire) – messi insieme sono inquadrati felicemente nel contesto delle varie fasi della vita pubblica e privata di Fabrizia. Gli scritti più noti sono quelli più antichi, quelli prodotti nel periodo di maggior impegno politico militante di Fabrizia. Meno – e anche poco – conosciuti sono quelli successivi, comparsi come articoli o risposte a interviste in riviste e in altri organi di comunicazione, quando lei era già una scrittrice famosa: interventi tutti legati da un unico filo rosso – una direzione ostinata e contraria – che è sempre stata la cifra caratterizzante il lavoro di Fabrizia. In questa nota mi limiterò a qualche commento – o meglio a qualche ricordo – su quella esperienza politica e culturale importante della vita di Fabrizia che è stato il Centro di coordinamento campano, della quale 219

la curatrice parla estesamente nell’introduzione. E ne parlerò a partire dal bel libro di Luca Rossomando sulla realtà di Napoli proprio negli anni in cui si svolge la vicenda del C.C.C. (Le fragili alleanze. Militanti politici e classi popolari a Napoli 1962-1976): un libro che illustra il processo che avvicinò militanti di varia estrazione, intellettuali e studenti agli operai di fabbrica e agli strati popolari della città e che raggiunse il suo culmine a metà degli anni Settanta per poi declinare repentinamente non senza lasciar traccia. Scrive Rossomando: “Le culture di provenienza di questi militanti, come altrove in Italia, sono soprattutto quella cattolica e la marxista. Ma una corrente laica di ispirazione socialista o anarchica, seppure minoritaria, esercita la sua influenza attraverso figure più esperte e più mature rispetto alla giovane età di gran parte di questi protagonisti. E anche i due filoni maggiori, di nuovo grazie all’influsso di persone già adulte all’epoca dei fatti, si sviluppano a Napoli in modo peculiare rispetto un percorso spesso attribuito in maniera troppo lineare a tutti i movimenti della penisola”. Inoltre per sottolineare questa specificità napoletana Rossomando aggiunge in nota che “È caratteristico di Napoli anche il fatto che non emergano leader studenteschi noti oltre la cerchia del movimento, come accadde invece in altre città d’Italia”. Questo dato storico e politico, questa specificità, è valida per Napoli ma lo è particolarmente e in maniera quasi emblematica per il Centro di coordinamento 220

campano, nato a Napoli alla fine del 1969 nel pieno dell’Autunno Caldo per iniziativa di Fabrizia Ramondino, Giovanni Mottura e altri tra cui io stesso. E il riferimento alla corrente laica di ispirazione socialista o anarchica sembra proprio tagliato sulla figura di Fabrizia così come il riferimento alla maggiore maturità. Il rapporto tra Fabrizia e l’impegno sociale è molto spesso riferito in primo luogo all’Associazione per il Risveglio di Napoli (Arn) che, come illustra Armiero, sicuramente rappresentò il momento fondamentale nel suo percorso politico e culturale e quello più frequentemente richiamato da Fabrizia stessa nei riferimenti autobiografici nei suoi scritti. E dall’esperienza dell’Arn derivarono diversi aspetti di metodo e di contenuto dell’azione del Centro di coordinamento campano. Ma il C.C.C. è stata l’esperienza alla quale Fabrizia è rimasta più legata sul piano umano e culturale. Ne è prova il fatto che molte tra le persone che si impegnarono in questa esperienza della nuova sinistra sono rimaste per lunghi anni e fino alla morte di Fabrizia legati a lei da amicizia e reciproca solidarietà. Al momento della fondazione del Centro di coordinamento Fabrizia e Giovanni Mottura avevano alle spalle esperienze politiche e di lavoro sociale in parte simili e per qualche verso complementari. Coetanei, trentenni nel sessantotto, ben incarnavano la figura del “compagno più maturo” del quale parla Rossomando. Giovanni Mottura, anch’egli di antica provenienza 221

socialista, aveva alle spalle esperienze di lavoro sociale, avendo partecipato giovanissimo insieme a Goffredo Fofi e altri compagni alle lotte guidate da Danilo Dolci per i contadini contro la mafia. Ma l’esperienza più importante che Mottura portò trasferendosi nel Mezzogiorno e a Napoli fu quella dei “Quaderni Rossi” e del lavoro di inchiesta, riferito in quegli anni sostanzialmente alla classe operaia ma valido come metodo in generale. La convinzione dell’importanza del legame tra lavoro politico e pratica sociale accumunava tutto il gruppo fondatore del Centro di coordinamento campano. Ma ci sono anche altri aspetti peculiari di quell’esperienza. Si trattava di un gruppo composito dal punto di vista di classe con una presenza studentesca relativamente più modesta che altrove e una significativa presenza di compagni che già lavoravano prevalentemente come operai, tecnici di fabbrica e insegnanti. Il Centro di coordinamento nasce con l’obiettivo di coordinare gruppi locali che facevano lavoro di inchiesta e intervento politico, con radicamento sul territorio fuori da un approccio ideologico, come il collettivo Carlo Marx di Bagheria in Sicilia, molto attivo e originale nella sua capacità di analisi, o il collettivo di Castrovillari in Calabria. Ma i collegamenti più importanti erano con piccoli gruppi soprattutto in Campania. In realtà questo obiettivo di coordinamento non si realizzò perché le esigue forze vennero 222

assorbite dal lavoro di inchiesta a Napoli e dalla partecipazione a lotte anche importanti in ambienti e su tematiche solitamente trascurate come la salute in fabbrica o il lavoro nelle piccole imprese del sottosalario. Diventammo così, come scrive di noi Rossomando, “un gruppetto come gli altri”. Bisogna però aggiungere con quelle specificità che egli stesso indica e sottolinea e con una esperienza importante rappresentata dal lavoro nell’hinterland napoletano con i braccianti agricoli e altre figure di lavoratori precari. All’inizio della storia del C.C.C. eravamo un gruppo di amici e i più anziani di noi si erano conosciuti e avevano sviluppato rapporti prima del Sessantotto. L’incontro era avvenuto soprattutto all’Arn ma quella esperienza si era esaurita proprio con il Sessantotto per la divergenza insormontabile tra il gruppo costituente originario, progressista di estrazione borghese o alto borghese, e i giovani studenti che avevano cominciato a frequentare l’associazione, a lavorare all’asilo e a seguire i seminari e i dibattiti negli anni precedenti. All’epoca della rottura tra le due anime dell’originaria Arn Fabrizia si era trasferita temporaneamente a Milano. Dunque il C.C.C. nasce nel 1969 alla vigilia dell’autunno caldo. E al ritorno di Fabrizia da Milano e con la spinta di Giovanni Mottura hanno inizio gli incontri tra i compagni per la costruzione di questa esperienza politica. Un elevato grado di informalità caratterizzava il gruppo e la sua vita. Dopo le prime molteplici riu223

nioni intorno a un tavolo a casa di Fabrizia si decise di prendere una sede ma lo stile di lavoro informale rimase lo stesso anche quando diventammo un “gruppetto come gli altri”. Il resoconto delle lotte e mobilitazioni alle quali si stava partecipando o si erano osservate da vicino si intrecciava in queste riunioni con le considerazioni teoriche. Le riunioni venivano introdotte solitamente da Fabrizia o da Giovanni Mottura ma non sempre. E forse la ricetta del successo del nostro lavoro stava in questo confronto di esperienze e relativa discussione. La tematica sulla quale ci impegnammo tutti collettivamente riguardava la condizione del proletariato precario nella città. A questo proposito l’insistere sul non parlare di sottoproletariato – come era solitamente in uso – ma di proletariato precario non fu espressione di una fissazione ideologica o, peggio, di una diatriba filologica. Si trattava al contrario di riconoscere la dignità politica e la capacità di autonomia di vasti settori degli strati popolari di Napoli, cioè di una parte significativa e molto importante della popolazione della città. Si trattava di contrastare l’immagine prevalente di una Napoli plebea e priva di un’etica del lavoro proprio mentre in quegli anni il movimento dei disoccupati dava corpo a una immagine alternativa di gente in lotta per il diritto al lavoro. Il proletariato precario napoletano, fatto di gente che lavorava (come per altro tutt’ora lavora) saltuariamente e malpagata è cosa ben 224

diversa dal Lumpenproletariat (proletariato straccione in senso letterale) costituito secondo Marx dagli espulsi di tutte le classi sociali: ladri, vagabondi, piccoli delinquenti: dunque qualcosa da non confondersi con le componenti più povere del proletariato stesso. La questione non è terminologica ma di sostanza. Detto questo però si possono usare i termini che si vuole purché ci si capisca. Di queste cose si discuteva intorno al tavolo di casa di Fabrizia all’inizio della vita del Centro di coordinamento campano. La scelta di agire politicamente e di fare pratica sociale nei quartieri poveri di Napoli a partire dai Quartieri Spagnoli e dal Centro Antico, occupandosi di questo settore della popolazione che la sinistra ortodossa, con un’idea restrittiva aristocratica del proletariato, considerava marginali e inaffidabili, ha rappresentato uno degli aspetti della originalità del C.C.C. Seguendo l’orientamento educativo di Fabrizia si istituirono anche corsi di recupero per i ragazzi che il sistema scolastico locale andava disperdendo. Allo stesso modo dell’Arn si forniva un servizio al quartiere ma non si trattava più di asilo per i bambini bensì di un lavoro tra gli adolescenti e i giovani. Il servizio non aveva carattere strumentale per poter stabilire un rapporto politico ma forse proprio per questo il lavoro politico veniva a stabilirsi. Ed è sulla base di questo approccio che, quando il Centro di coordinamento è nel pieno della sua attività, 225

si sviluppa l’interesse per i disoccupati fin dai primi passi del loro movimento ignorato o visto con fastidio dalla sinistra istituzionale politica: caso davvero emblematico in un momento in cui i processi di ristrutturazione capitalistica dell’economia cittadina portavano al contempo sviluppo e formazione di una moderna classe operaia industriale e all’estensione ed esplicitazione della disoccupazione anche di origine operaia. In quegli anni Napoli era la terza città industriale d’Italia eppure l’interpretazione prevalente della situazione economica e sociale della città e soprattutto dei quartieri popolari era basata sulla retorica dell’economia del vicolo mentre i processi di modernizzazione travolgevano le strutture produttive tradizionali. E non si tratta solo di questo: i piccoli laboratori del sotto salario e condizioni di lavoro insalubri si inserivano in circuiti commerciali nazionali e internazionali. Questi erano i processi di cui si discuteva nelle riunioni del Centro di coordinamento campano. Le riflessioni sui processi di cambiamento e di mobilitazione erano tradotti in articoli e saggi variamente pubblicati. Diversi “documenti” firmati C.C.C. sono stati opera totale o parziale di Fabrizia come il saggio pubblicato dalla rivista “Inchiesta” Contro l’uso capitalistico del colera del quale si parla nell’introduzione. Ma c’è sempre stato dietro un lavoro collettivo e questo è stato basato sul metodo dell’“Inchiesta”, tema sul quale per concludere è bene aggiungere una breve riflessione. Nella visione del Centro di coordinamento campano 226

l’inchiesta non è né una tecnica di ricerca né tanto meno una sorta di opzione metodologica all’interno del campo della sociologia. Essa presuppone un rapporto con l’interlocutore che non può essere un semplice “oggetto” di ricerca come nella sociologia accademica ma al contrario un soggetto, anzi un soggetto dalla cui parte ci si schiera. Nel rapporto che si costruisce nell’ambito dell’inchiesta intervistatore e intervistato apprendono vicendevolmente uno dall’altro e lo scambio porta a un più alto livello di consapevolezza. Capacità di ascolto e rispetto per l’interlocutore sono essenziali in questo rapporto. E in quest’ottica si colloca perfettamente l’inchiesta sui disoccupati organizzati di Fabrizia. Il sottotitolo del libro (I protagonisti raccontano) esprime un aspetto metodologico fondamentale dell’inchiesta: il far parlare i soggetti delle mobilitazioni e presentarne le condizioni materiali di vita ma anche i valori e le aspettative e il senso della loro lotta. Fabrizia lo fa con grande sensibilità e capacità di racconto anticipando qui un elemento caratterizzante la sua successiva esperienza di scrittrice.

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RINGRAZIAMENTI

Fabrizia Ramondino ha lasciato, oltre le sue opere, un luminoso ricordo in quanti le sono stati vicini e hanno condiviso tratti di strada. Questo libro è stato reso possibile grazie al sostegno dei numerosi amici e compagni che, con generosità, hanno portato avanti insieme a lei battaglie civili e intellettuali. Molti di loro hanno contribuito alla raccolta dei testi qui messi insieme a comporre un filo comune. Fondamentali sono state le indicazioni di Goffredo Fofi ed Enrico Pugliese, insieme a quelle di Livia Patrizi, che ha fornito materiali ma anche consulenza partecipe al progetto. Ringrazio in particolare Patrizio Esposito, Valentina Di Rosa, Vera Maone, Paola Splendore, Benedetto Franceschi, Leonardo Di Costanzo, Giuseppina Ciccone, Eleonora Puntillo, Claude Bouret Allard, Francesco Paolo Busco. Un grazie a Claudio Mazzone per le attente trascrizioni.

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Indice

PORTARE IN SPALLA. UN’ININTEROTTA MILITANZA di Mirella Armiero - 9 IN ALTHÉNOPIS CI SONO TUTTE LE MIE ESPERIENZE - 35 I DISOCCUPATI ORGANIZZATI RACCONTANO - 49 L’ORDINE NUOVO DELLA CAMORRA - 100 CONTRO L’USO CAPITALISTICO DEL COLERA - 110 NAPOLI, VICOLO EROINA - 120 LO SPECCHIO DI ANNA - 129 DISCORSO SCRITTO IN OCCASIONE DELLA CANDIDATURA DELLA RAMONDINO DA INDIPENDENTE NELLE LISTE DEL PCI AL PARLAMENTO EUROPEO - 138 SARAJEVO OLTRE LO SPECCHIO - 151 POLISARIO, UN’ASTRONAVE DIMENTICATA NEL DESERTO - 164

NECESSITÀ DEI VOLTI. CONVERSAZIONE TRA PATRIZIO ESPOSITO E FABRIZIA RAMONDINO - 177 BAGNOLI. LO SMANTELLAMENTO DELL’ITALSIDER - 189

LA FORZA DEL DUBBIO - 196 QUEL DIO DEGLI ESERCITI - 201 TOTALITARISMI. LA PROFEZIA DI ARENDT - 205 PIN UP SOTTO IL VELO. STORIA DI MIRIAM, CHE A BERLINO INSEGNA IL TEDESCO ALLE DONNE EMIGRATE DALLA TURCHIA - 210 L’IMMONDIZIA DEL MONDO - 216 FABRIZIA E IL CENTRO DI COORDINAMENTO CAMPANO: UN MODO DIVERSO DI FARE POLITICA

di Enrico Pugliese - 219 RINGRAZIAMENTI - 229

PICCOLA BIBLIOTECA MORALE L’Italia di oggi

La Piccola Biblioteca Morale, “collana di pensiero radicale”, si occuperà assiduamente del presente del nostro paese, dei suoi poteri, delle sue istituzioni, delle sue contraddizioni e delle sue potenzialità e speranze. Non basta ricordare chi, ieri o qui o altrove, ha affrontato e affronta una critica del presente nella convinzione che azioni nuove e positive possano venire anche da esempi e riflessioni del passato, occorre insistere sul “qui” e “ora”, sulla difficile epoca che il mondo affronta, e che il nostro paese è pur costretto ad affrontare nonostante la povertà presente della sua cultura e, più ancora, della sua classe dirigente. Anche quella che si dice ancora di sinistra, ma che ha accettato tutte le proposte della destra, nella paura di tornare minoranza. Ci sembra importante partire di nuovo dall’analisi delle questioni più delicate, dalla denuncia dei mali e delle carenze di una società, dal suo malgoverno e però anche dalle pratiche di quelle minoranze che cercano ancora di collegare il pensiero e l’azione, l’analisi e l’organizzazione dei possibili modi di reagire, di agire. Ci sembra che sia oggi indispensabile affrontare le questioni più difficili che si presentano a chi vuol te-

nere ancora testa al potere nelle sue tante forme, anche le più nascoste e insidiose come per esempio quelle della comunicazione, denunciare responsabilità e complicità nel malgoverno, e insomma raccontare in modo attivo e partecipe il presente del paese; e le idee e le attività di chi reagisce al torpore e a una complicità perlopiù passiva cercando i giusti modi della presenza, dell’apertura al poco che si muove di affermativo e di aperto negli ambiti centrali della società, ma anche in quelli più marginali dove tuttavia qualcosa si muove, e ci convince. Goffredo Fofi

Nella stessa collana

1. Simone de Beauvoir, Sulla liberazione della donna 2. Ernesto Buonaiuti, Gesù il Cristo 3. AA.VV., L’Italia secondo Fellini 4. Antonin Artaud, Il teatro e la crudeltà 5. Giuseppe De Rita, Come cambia l’Italia. Discontinuità e continuismo 6. George Orwell, Sparando all’elefante e altri scritti 7. Sören Kierkegaard, Breviario 8. Fabrizia Ramondino, L’isola dei bambini 9. Goffredo Fofi, Le cento città 10. Luis Buñuel, Sempre ateo, grazie a dio 11. Lev Tolstoj, Per una scuola viva, per una scuola vera 12. Ernesto de Martino, Oltre Eboli. Tre saggi 13. AA.VV., I giorni della Comune. Parigi 1871 14. Lelio Basso (a cura di), Socialismo o barbarie. La vita e le idee di Rosa Luxemburg 15. Franco Antonicelli, Le letture tendenziose 16. Roszak, Cohn-Bendit, Viale e altri, La delinquenza accademica 17. Camilla Cederna, Cronache scomode. L’Italia da cui veniamo 18. Léon Bloy, Anatomia del borghese 19. Victor Serge, Terremoti (San Juan Parangaricútiro) 20. Bianca Guidetti Serra, Storie di giustizia, ingiustizia e galera 21. Giuseppe Garibaldi, Fare l’Italia. Lettere e Proclami

22. Gianfranco Bettin, I tempi stanno cambiando 23. Giacomo Matteotti, Questo è il fascismo 24. Antonio Machado, Juan de Mairena. Sentenze e arguzie, appunti e ricordi di un professore apocrifo 25. David Graeber, Le origini della rovina attuale 26. Alexander Langer, La scelta della convivenza. Nuova edizione 27. Charles Darwin, Chi siamo, da dove veniamo 28. Antonio Marchesi, Amnesty International in Italia 29. Nelson Mandela, La lotta è la mia vita 30. Giacomo D’Alessandro, Fare quanto è giusto

Finito di stampare il 7 agosto 2023 presso Arti Grafiche La Moderna – Roma