Max Weber. Il problema del potere
 9788869928109

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Modernità e società

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a cura di Roberto Cipriani

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Franco Ferrarotti

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MAX WEBER Il problema del potere

ARMANDO EDITORE

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ISBN: 978-88-6992-810-9 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2020 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

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Sommario

Prefazione

7

Capitolo primo La coscienza problematica

9

Capitolo secondo Norme etiche e comportamento economico

51

Capitolo terzo Il problema del potere

89

Capitolo quarto Il controverso contributo di Weber

115

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Prefazione

Questo libro cerca di approfondire alcuni punti critici della vasta produzione scientifica di Max Weber, cui ho del resto dedicato in precedenza vari contributi, dei quali mi piace ricordare Max Weber e il destino della ragione (Laterza, 1964), L’Orfano di Bismarck: Max Weber e il suo tempo (Editori Riuniti, 1982), Max Weber fra nazionalismo e democrazia (Liguori, 1996), Max Weber and the Crisisi of western Civilization (New York, Associated Faculty Press, 1985) e Capitalismo: lusso o risparmio? – Alla ricerca dello spirito originario(Donzelli, 2008). Ma perchè, per me – potrà domandarsi il lettore attento, il vero lecteur e non solo liseur - questo perdurante, e ritornante, interesse per Max Weber? Non c’è nulla, nei dati biografici elementari, di comune fra me, nato nella Bassa Vercellese in un cascinale portato via dal Po in una notte di burrasca, e il sociologo di Erfurt, nato in una famiglia alto-borghese, al centro di discussioni storico-filosofiche e anche religiose ad alto livello, con un padre funzionario statale a Berlino, poi deputato, e madre dotata di grande sensibilità etica e sociale, in ovvio, netto contrasto con il marito. Il padre non apprezza la passione per gli studi del giovane Weber. In realtà, ma è una mia supposizione, ne sospetta e non ne apprezza la natura «nervosa», che lo porterà al misterioso esaurimento psicologico nel 1898, tanto da farne un professore senza cattedra e un politico senza seggio. Credo di avere avvertito una profonda consonanza interiore 7 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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con Weber proprio in questo suo esser sempre un «outsider», per esempio nell’avere fondato, con altri, l’Associazione sociologica tedesca, ma di non averne mai fatto parte. In particolare, quando alla fine della Terza Legislatura (19581963), ho deciso di troncare la mia carriera politica, che tutti davano per scontata e naturalmente splendida, un applaudito cursus honorum, mi sono sentito molto vicino a Weber, dotato di un notevole temperamento politico, che tuttavia, non si era mai deciso, all’ultimo momento, nonostante le pressioni di amici ed estimatori, ad apporre la sua firma di accettazione per la candidatura politica. Credo che, allo stesso modo, io mi sentivo dilaniato fra il piacere intenso dell’azione politica e la vita contemplativa dello studioso a tempo pieno, che vede nella cultura un progetto di vita geloso e totale. Weber non aveva mai potuto accettare il sacrificio della chiarezza intellettuale in nome dell’espediente e del compromesso politico, che considerava, in ultima analisi, un «patto diabolico». Me lo sono sentito spesso vicino, se non come un fratello maggiore, certamente come un compagno di strada. Stroncato nel 1920, a cinquantasei anni, dall’epidemia al termine della Prima guerra mondiale detta «la spagnola», il sociologo di Erfurt resta, a mio giudizio, come un esempio di straordinaria dirittura morale e di rigore scientifico anche per i sociologi odierni, forse troppo sensibili alle lusinghe della società-spettacolo e alle richieste, raramente disinteressate, del mercato. Roma, 2 giugno 2020 F. F. 8 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Capitolo primo La coscienza problematica

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Un classico suo malgrado A cento anni dalla morte, Max Weber è, nel campo delle scienze sociali, una figura dominante. Dalla sociologia economica a quella delle religioni, dagli studi sui processi di modernizzazione alla teoria dei sistemi e al dibattito metodologico, non vi è settore di indagine in cui i contributi di Max Weber non vengano ampiamente citati e discussi. Perché? Credo che ciò avvenga per due ragioni fondamentali: in primo luogo, perché Weber si colloca nel punto di intersezione delle due correnti che hanno più profondamente influenzato il sorgere e lo sviluppo delle scienze sociali, in particolare della sociologia: il positivismo e lo storicismo; in secondo luogo, perché Weber cerca la risposta a domande fondamentali e si occupa di problemi che coinvolgono la società globale (dove va la civiltà occidentale?; il concetto di capitalismo e i suoi rapporti con l’etica protestantica; la razionalizzazione della vita; la burocratizzazione). Ma questa influenza weberiana, indubbia e rilevante, non garantisce nulla quanto alla comprensione dell’intento profondo di Weber e del suo metodo di lavoro. Weber è stato più usato che compreso. Filosofi e storici, economisti e sociologi vi hanno attinto a piene mani. Ma è interessante 9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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notare che non si è costituita una «scuola» weberiana e che Weber non può definirsi un capo-corrente. Egli è rimasto un solitario artigiano intellettuale, per il quale la ricerca scientifica non ha assunto alcuno degli aspetti tipici di un lavoro di squadra o di un’impresa industriale. Chi è dunque Max Weber? È un sociologo, ma nel senso classico di questo termine ambiguo. Non è un sociologo nel senso odierno, restrittivo; cioè, non è uno specialista. Appartiene alla schiera, in verità non folta, dei sociologi enciclopedici. Conosce a fondo e passa dall’economia al diritto alla storia alla filosofia alla metodologia. Dotato di un’erudizione sterminata, padroneggia, a proposito di ogni tema, una massa imponente di dati, dai quali ricava categorizzazioni e costrutti logico-esplicativi, «tipi ideali», termini di riferimento, «leggi» e previsioni. Ma ciò che va subito messo in luce è che Max Weber non è mai un metodologo puro. La metodologia in lui non è mai presupposta; non è mai svolta a priori, «dedotta». Nelle sue ricerche non si avverte mai il peso, necessariamente costrittivo e limitante, delle categorie precostituite. Gli strumenti della ricerca crescono, si sviluppano, si affinano e infine si fissano insieme con il crescere e lo svilupparsi della ricerca. Ciò che in Weber grandeggia è il senso del problema, la consapevolezza problematica che si esprime in una serie di domande insistenti, che tornano come motivi di fondo in tutti i suoi scritti e cercano una verifica empirica, una base di validità intersoggettiva: perché gli uomini obbediscono? Quali sono le conseguenze dell’etica, intesa come etica vissuta, sul comportamento economico? In che senso è possibile conciliare le procedure standardizzate e impersonali della routine amministrativa con la decisione politica 10 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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e l’innovazione tecnologica? Quale sarà l’avvenire del capitalismo e del suo peculiare «spirito»? Che cosa accadrà al regno delle idee, ai grandi valori della tradizione liberale che costituiscono, secondo Weber, il nucleo della civiltà occidentale? Questa ampia, suggestiva problematica non resta in Weber allo stadio della formulazione astratta, filosofeggiante. Se così fosse, avremmo in Weber un saggista brillante o un filosofo della storia di tipo tradizionale, e non un sociologo. Ciò che fa di lui un sociologo è il tentativo di collegare le proposizioni generali in cui si esprime la sua consapevolezza problematica con indicatori empirici, ossia con dei parametri legati alla raccolta sistematica dei dati empirici che servono, nel disegno della ricerca, a verificare o a falsificare le ipotesi di lavoro, sia generali che specifiche. È qui che passa la linea di differenziazione fra il sociologo e il saggista o il filosofo. Nella sociologia, l’impulso filosofico, altamente personale, riflesso dell’esperienza esistenziale e dei valori o principi di preferenza del singolo ricercatore, deve tendere a tramutarsi in una proposizione scientifica verificata, ossia non più personale ma valida intersoggettivamente, come una procedura pubblica invece che come convincimento privato. Il rimprovero mosso da Talcott Parsons a Weber è dunque del tutto ingiustificato. Parsons lamenta che Weber, nel delineare i tipi dell’azione sociale in base al criterio orientativo dell’azione stessa, si fermi a quattro tipi (tradizionale, razionale rispetto allo scopo, razionale rispetto al soggetto agente, affettivo o emotivo) e non cerchi invece, come lui stesso avrebbe fatto supponendo di portare così a compimento l’opera interrotta di Weber, di dedurre, da premesse 11 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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definitorie generali, tutti i tipi di azione sociale possibili. Il rimprovero di Parsons indica in realtà un grande merito di Weber. Questi non ha dedotto tutti i tipi di azione sociale possibili per la semplice ragione che non si è inventato i problemi, ma li ha colti, analizzati e vissuti nell’orizzonte storico in cui si è trovato a vivere, rifiutandosi di costruire una astratta modellistica di azioni sociali prive di referenti empirici precisi che avrebbe necessariamente costituito un’evasione, se non addirittura l’abolizione della storia, e congelato nello stesso tempo la situazione sociale esistente presa globalmente come un non plus ultra insuperabile. L’incomprensione di Parsons nei confronti di Weber non è casuale; è un fatto sintomatico e istruttivo. Vediamo di fissarne il significato. Tutta la fatica intellettuale di Parsons è tesa a delineare le caratteristiche portanti del «sistema sociale», ossia a elaborare gli «universali evolutivi», che sarebbero necessari a qualsiasi società per essere in grado di funzionare a un livello accettabile di efficienza. Ma allorché ci si faccia a considerare da vicino tali «universali evolutivi» ci si avvede che essi appaiono ritagliati su misura per designare la struttura istituzionale e gli orientamenti ideologici degli Stati Uniti d’America. Gli universali evolutivi parsonsiani sono infatti quattro: a) «organizzazione burocratica»; b) «denaro e sistema di mercato»; c) «sistemi giuridici universalistici generalizzanti»; d) «associazioni democratiche». Lungi dal riassumere l’ideale di ogni convivenza umana e insieme i «prerequisiti funzionali» di qualsiasi società tecnicamente avanzata le caratteristiche descritte da Parsons si rivelano prima facie per quello che sono: una estrapolazione in termini generali, quasi ingenua tanto è scoperta fin nel linguaggio, di taluni aspetti del modo di 12 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vita americano spacciati come gli aspetti par excellence del modo di vita di qualsiasi società tecnicamente progredita mentre si tratta solo di aspetti tipici di una determinata fase storica. In questo senso, se è vero che per tal via Parsons si guadagna il posto di primo apologeta del «sistema della libera impresa», altrettanto vero è che il suo tentativo equivale al tentativo di bloccare la storia eternizzandone una fase particolare. Nulla di più lontano dalla lettera e dallo spirito di Weber. La sensibilità di Weber alla storia, al suo lusso incessante e alla molteplice, infinita ricchezza della vita è estrema. Tanto aperto e insistente è il tentativo parsonsiano di chiudere il flusso storico e l’imprevedibilità dei suoi esiti nel breve giro di una modellistica inverificabile fino a immiserirli negli schemi di un ragionamento sociologico sostanzialmente tautologico, tanto sottile e penetrante è l’analisi weberiana dei rapporti fra sociologia positivismo e storiografia. Abbiamo già detto più sopra che l’importanza di Weber è appunto da vedersi nella posizione che egli occupa nel punto di intersezione di questi mondi di pensiero, fondamentali per il costituirsi e lo sviluppo delle scienze sociali odierne. Si tratta ora per noi di vedere con chiarezza che cosa ciò comporti sia sul piano della elaborazione teorico-concettuale sia su quello della ricerca sul campo. Come usare i classici Per questa operazione è essenziale prendere le distanze. Max Weber è un classico. I classici sono utili ma anche pericolosi. Gli autori classici vanno trattati con rispetto; la lettura dei loro scritti va fatta nel quadro del contesto 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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in cui hanno vissuto, pensato, operato; in questo senso e a questa condizione, essa diviene una lettura, oltre che filologicamente corretta, anche critica. Ma l’arte di utilizzare i classici esige anche una certa misura di libertà nei loro riguardi, la capacità di porre ad essi domande imbarazzanti, di valutare ciò che in essi vi è di vivo e di caduco, la «libertà dalla riverenza», cioè la libertà di spirito di ricostruirne il pensiero e i modi di vita intellettuale in rapporto costante con i problemi odierni. Né dissacrazione superficiale, dunque, né agiografia, ma lettura attenta, aperta sul presente. Se ciò vale in generale per tutti i classici e se è alla radice della loro perdurante validità, ciò vale soprattutto per Weber, che è straordinariamente consapevole dell’inevitabile destino di obsolescenza cui va incontro un’opera scientifica seria, Mentre l’opera artistica dello scrittore, del poeta, sfida in qualche modo i secoli e si colloca, giusta a toccare problemi e tensioni universali dell’uomo in quanto tale, su un piano relativamente metastorico, ed entra a far parte di quelle che a ragione viene designato come il «patrimonio comune del genere umano», le cose stanno diversamente per lo scienziato. Rispetto al discorso artistico creativo, che ha in sé le ragioni della propria validità, il discorso scientifico ha valore in quanto costituisce un progresso nei confronti di spiegazioni precedenti e nello stesso tempo prepara i presupposti indispensabili per il suo superamento. Il discorso scientifico trova infatti la sua connotazione essenziale nella caratteristica di auto-correggibilità interna. C’è in questo aspetto dell’attività scientifica moderna un senso, altamente meritorio, della misura e del limite, nonché il sentimento della necessaria precarietà o provvisorietà 14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del proprio contributo che a Weber, non sorprendentemente, suggerisce espressioni di stoicismo severo. «Un’opera d’arte veramente “compiuta” non viene mai superata, non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente un significato di diverso valore; ma di un’opera realmente “compiuta” in senso artistico nessuno potrà mai dire che sia “superata” da un’altra pur essa “compiuta”. Viceversa, ognuno di noi sa che, nella scienza, il proprio lavoro dopo dieci, venti, cinquant’anni è invecchiato. È questo il destino, o meglio, è questo il significato del lavoro scientifico, il quale rispetto a tutti gli altri elementi della cultura di cui si può dire la stessa cosa, è ad esso assoggettato e affidato in senso assolutamente specifico: ogni lavoro scientifico “compiuto” comporta nuovi “problemi” e vuol invecchiare ed essere “superato”. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza»1. Quali sono le teorie, le idee, gli apparati teorico-concettuali che Weber ha elaborato e che ancora oggi si rivelano utili nel lavoro di ricerca e nella riflessione critica delle scienze sociali? Occorre a questo punto introdurre una distinzione molto importante. Uno scienziato sociale, o studioso di problemi sociali, attinge la statura di un classico non solo e non tanto per la permanente validità delle sue teorie sostanziali, necessariamente legate ai problemi del suo tempo e quindi soggette, come abbiamo più sopra detto, a un tasso di obsolescenza piuttosto forte, quanto invece per il modo di procedere nella costruzione delle sue teorie e per l’insieme di conoscenze acquisite e di esperienza esistenziale messa a frutto nel concreto sviluppo dell’indagine. Ri1 Cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it., Torino, 1948, p. 53.

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mandiamo alle parti seguenti di questo saggio l’analisi delle teorie sostanziali di Weber e il giudizio sulla loro capacità esplicativa e predittiva. Fin da ora è però possibile affermare che Weber si stacca nettamente dalla media degli studiosi sociali sotto il duplice profilo del modo di costruzione della teoria e della preparazione personale. Ciò gli consente di cogliere gli elementi vitali che sono presenti nella tradizione positivistica e in quella storicistica per tentarne, con risultati largamente positivi, una sintesi originale. Colpisce, in primo luogo, una caratteristica del suo modo di lavorare che appare lontanissima, se non completamente per principio estranea, al professionista odierno della sociologia. L’uomo che passa per il teorizzatore della «avalutatività», cioè del distacco assoluto fra ricercatore e oggetto della ricerca e fra metodo e tema di indagine, è invece un uomo che soffre in propria persona i problemi, si mescola, specialmente nella prima fase della sua attività scientifica, alle questioni scottanti dell’attualità, polemizza duramente con i colleghi, pubblica solo saggi che appaiono dettati da occasioni effimere, non lascia in nulla trasparire l’intento di sistematicità che si sarebbe poi scoperto nella postuma poderosa opera Wirtschaft und Gesellschaft (Economia e società). Fin dagli inizi della sua carriera di studioso, questo professore tedesco non lavora affatto come un professore, tanto meno come un tedesco. Fra un esaurimento nervoso e l’altro, lavora come un poeta: un poeta che spende tutte le sue energie e tutto il tempo di vita che gli è concesso a provare scientificamente, cioè facendo ricorso a materiali empirici da tutti controllabili, un paio di intuizioni acutissime: l’influenza dell’etica vissuta, cioè dell’etica non come sistema teorico ma come comportamento quotidiano 16 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

effettivo, sulla vita economica e sulle sue forme di sviluppo, e viceversa, vale a dire un caso esemplare di condizionamento reciproco; il potere crescente degli apparati burocratici i quali, indipendentemente dalle ideologie e, anzi, con un’indifferenza quasi completa rispetto ad esse, appaiono destinati ad accompagnare il processo di modernizzazione e di razionalizzazione della vita sociale e l’affermarsi delle società industriali di massa. Documento acquistato da () il 2023/04/23.

Un paziente artigiano intellettuale La «libertà dai valori» (Wertfreiheit) di cui discorre Weber va dunque intesa nel suo significato corretto. Non è certamente un invito all’indifferenza morale o al relativismo assolto. Le critiche stringenti e per certi aspetti ingenerose che Leo Strauss muove a Max Weber a questo proposito colpiscono una caricatura di comodo. Per questo aspetto, Weber ne è solo sfiorato. Come si può accusare Weber di voler essere «puramente oggettivo» e di non riconoscere la realtà realissima dei «valori»? Strauss, da quel sottile filologo e cauto, «lento» lettore che è, sembra godere nell’allineare quelle che, a suo giudizio, sono le prove conclusive della contraddittorietà della posizione weberiana: gli aggettivi valutativi («ricco», «nobile», «incomparabile», e così via) di cui abbondano i suoi scritti2. Da questi risale agevolmente alla dimostrazione della necessità dei «valori ultimi», non quantificabili, e necessariamente presenti in qualsiasi analisi di tipo scientifico o filosofico, valori dei quali non ci si può «liberare», come invece Weber suppone. 2 Cfr. L. Strauss, Natural Right and History (Diritto naturale e storia), Venezia, 1957, passim, ma specialmente pp. 57 e segg.

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La critica di Strauss ha certamente peso con riferimento ai termini generali del mondo di pensiero in cui Weber si muove, ai valori della tradizione liberale europea che egli tende a dare per scontati e solidamente acquisiti per sempre mentre la storia contemporanea doveva dimostrarcene, l’indomani della sua morte, tutta la tragica fragilità, ma si rivela singolarmente miope con riguardo all’intento profondo di Weber e all’orientamento generale della sua personalità di uomo e di studioso. Essa finisce per confonderla con la folla affaccendata e superficiale degli odierni tecnici addetti alle scienze sociali. Si tratta invece di una personalità, quella weberiana, radicalmente diversa, dotata di una duplice caratteristica che ne costituisce la trama di fondo: un temperamento politico straordinariamente intenso e nello stesso tempo la tendenza, e la capacità effettiva, di far valere e imporsi un rifiuto totale dei propri sentimenti personali di fronte alla bellezza della natura, alle creazioni dell’arte o alla verità della scienza. Si mescolano in Weber i tratti distintivi del calvinista zelante e dell’ardente profeta giudaico. Si chiarisce così il suo disarmato vivere fino in fondo le contraddizioni della sua epoca, la scelta della solitudine, il suo successo politico mancato, la sua lotta costante contro la corruzione, l’ambiguità politica, la dissimulazione, e nello stesso tempo il franco, drammatico riconoscimento che, accanto e qualche volte oltre l’etica suprema dei principi, occorre trovare il coraggio di applicare un’etica della responsabilità, affinché la macchina sociale e l’apparato dello Stato non abbiano a incepparsi, il coraggio di decidere prima di avere in mano tutte le ragioni e la dimostrazione scientifica della razionalità della propria decisione, il coraggio, in altre parole, di sporcarsi le mani. 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Ciò che Weber non poteva accettare era la subordinazione ai piccoli interessi personali o di consorteria, il trionfo della camarilla. È su questo piano che la sua auspicata «libertà dai valori» acquista tutto il suo significato e la sua portata polemica. La lettura di Weber, per riuscire critica e attendibile, non può che essere una lettura storica. Come ho in altra sede osservato, bisogna rendersi conto che il criterio della libertà dai valori, o avalutatività, così fortemente fatto valere da Weber, gli serve storicamente come arma polemica contro quei colleghi universitari, Treitschke, per esempio, i quali usavano la cattedra per propagandare le loro convinzioni personali3. Naturalmente, Weber non avrebbe avuto nulla da ridire intorno a quei colleghi che avessero avanzato, anche dalla cattedra, punti di vista e opinioni personali. Ciò contro cui Weber reagiva con violenza era la truffa ideologica, cioè l’esposizione e la diffusione di punti di vista strettamente personali come se invece si trattasse di verità scientifiche dotate di validità intersoggettiva. Weber non solo non nega i punti di vista personali; in perfetta coerenza con il suo individualismo metodologico, ritiene anzi che non si possa far ricerca scientifica se non partendo da presupposti che riflettono necessariamente gli interessi personali e coinvolgono direttamente il ricercatore. Ma ciò che va tenuto ben fermo è la distinzione fra punto di vista, e presupposto, da cui parte la ricerca, e le risultanze scientifiche della ricerca stessa. Di più: gli stessi giudizi di valore sono un fatto sociale. L’equivoco in cui cadono molti critici e interpreti di Weber è che non si possa trattare oggettivamente dei giudizi di valore in quanto costituiscono fatti so3 Cfr. il mio volume, Max Weber e il destino della ragione, Bari, 5° ed., 1972, p. 91.

19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ciali. È in base alla chiarificazione di questo equivoco che si può, a parte Leo Strauss, comprendere l’errore singolare di Theodor W. Adorno che finisce per mettere Weber in compagnia di un positivista di stretta osservanza come Emile Durkheim. Lungi dall’essere un cosalista durkheimiano, Weber è esattamente il contrario dell’uomo di scienza non impegnato.

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Il pudore dell’impegno Da questo punto di vista, la distanza che intercorre fra Weber e la grande maggioranza dei sociologi odierni appare incolmabile, ammonta ad un salto qualitativo. Appunto perché è l’esatto contrario dell’uomo di scienza non impegnato, Max Weber non aspetta che sia il mercato a indicargli i suoi temi di ricerca o a suggerirgli, magari con appropriate commissioni, borse di studio, finanziamenti di fondazioni, sussidi di industriali illuminati, di quali problemi valga la pena di occuparsi. Come uomo e come scienziato, Max Weber è un uomo integro, che ha dentro di sé le ragioni della propria autonomia e che in sé trova le ragioni della direzione del proprio lavoro. È lui stesso ad interrogarsi sui problemi vivi del proprio tempo e sulle questioni più importanti, quelle allo studio delle quali si può anche dedicare tutta una vita. Non così gli odierni professionisti della sociologia. Non per caso Max Weber è stato a essi così grossolanamente frainteso e abusato. La concezione errata della «libertà dai valori» weberiana, tale da ridurla alla programmatica indifferenza rispetto ai problemi, si attaglia perfettamente alle esigenze di coloro che dai committenti e dal mercato si aspettano l’indicazione dei temi di indagine dei quali occuparsi. 20 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Questa separazione sistematica fra impegno dei ricercatori e oggetto di ricerca è all’origine del sorgere delle «mode sociologiche» nonché del frammentarismo e della sostanziale gratuità di molte ricerche sociologiche odierne. Il problema va oltre i termini di una discussione metodologica, diviene un problema politico, implica e investe l’auto-immagine e la funzione sociale del sociologo. Non possiamo affrontarlo, neppure nei suoi termini più generali, in questa sede. Lo sfioriamo solo perché ci aiuta a illuminare in maniera più perspicua il modo di lavorare e la personalità di Weber. La «libertà dai valori» e la avalutatività di cui parla Weber non sono dunque una fuga dalle responsabilità del sociologo; non possono venire debitamente sfruttate come scuse per l’indifferenza ai problemi e per la riduzione della sociologia a mera tecnica di ingegneria sociale, al servizio, per definizione, di chi paghi meglio. I punti di incontro fra il sociologo che non accetti di venir declassato a puro tecnico e i giudizi di valore sono numerosi. Si pensi, per cominciare, alla scelta del tema della ricerca. Come debutta un sociologo? Perché si sceglie un tema a preferenza di altri? Chi, quali forze, quali gruppi sociali, in base a quali criteri si determina e viene giustificata la scelta? Abbiamo più sopra accennato alle «mode sociologiche». Il fenomeno è reale, ma sarebbe un errore ritenerlo frutto di mere preferenze personali. Dietro alle «mode sociologiche», per quanto possano apparire gratuite, superficiali o semplicemente bizzarre, c’è sempre un interesse autentico, un gruppo, una classe sociale che ad esso è strutturalmente legato, un bisogno di legittimazione o di manipolazione, l’esercizio di un potere sociale che non può dichiararsi a 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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viso aperto, che ha bisogno di mistificarsi o di nascondersi per garantirsi credibilità e perpetuazione. La moda sociologica è un sintomo. L’errore consiste nel ritenerla la risultante di un calcolo strettamente scientifico mentre rappresenta un’opzione ideologica, la conseguenza di un principio di preferenza personale non astrattamente libero, ma al contrario ben vincolato a una trama di interessi sociali profondi anche se talvolta, nel singolo ricercatore, inconsapevoli. In ogni caso, che si potessero attendere dal mercato i propri oggetti di ricerca è per Weber inconcepibile. Abbiamo già detto che gran parte degli interventi e dei contributi di Weber sono scritti di occasione, ma ciò non deve trarre in inganno. L’occasionalità degli scritti weberiani non sta a indicare una qualsiasi propendenza ad obbedire all’attualità, a ciò che va, alla moda corrente. Indica piuttosto un atteggiamento caratteristicamente weberiano: partire dall’attualità, dall’analisi di un problema contingente e circoscritto per darne un’interpretazione che si inquadri in una visione globale, materiale empirico di una galleria tipologica in cui la cronaca si fa storia. In questo Weber non si smentisce mai. Non ci ha dato un «trattato» di metodologia così come non abbiamo, di lui, una sociologia generale esplicitamente delineata secondo un progetto organico e particolareggiato in ogni sua parte. Un’opera come quella di Talcott Parsons The Social System (Il sistema sociale) Weber non solo non l’avrebbe mai scritta, ma non gli sarebbe neppure venuta in mente, gli sarebbe parsa, se non una perdita di tempo, un puro esercizio preparatorio, un modo, oltretutto sbagliato, di farsi la mano (sbagliato perché gira a vuoto, perché non si impernia su un problema specifico, storico). Nessuna ambizione sistematica, in Weber, nessuna 22 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

boria accademica. Weber lavora con la pazienza, il senso sperimentale, il gusto di geniale provvisorietà di un autentico artigiano intellettuale. È chiaro: il problema con cui si cimenta gli appare sempre più importante della sua «produzione» personale. Dei suoi scritti si direbbe che si libera, a pezzo a pezzo, come se fossero escrementi, con furia pari alla casualità.

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Il sociologo ha bisogno di cultura storica Conosco bene le due obiezioni in agguato: le condizioni della ricerca sociologica che oggi prevalgono in tutte le società industrialmente e tecnicamente progredite non consentono più modi di lavoro artigianali e individuali; in secondo luogo, nessun sociologo odierno possiede la cultura storica di Weber, quella cultura che gli permetteva di situare ogni problema particolare nella sua cornice generale e nel quadro globale in cui si inseriva. È vero che Weber appartiene all’epoca dei grands individus e che, da questo punto di vista, è uomo tutto dell’Ottocento: come Marx, come Saint-Simon, come Comte, come ancora Durkheim, anche se la covata durkheimiana (Marcel Mauss, Maurice Halbwachs, ecc.) tempera alquanto la solitudine del grande artigiano. C’è un passo di Weber, nel rapporto sulla ricerca Die Verhältnisse der Landarbeiter im ostelbischen Deutschland («Le condizioni dei contadini nella Germania a est dell’Elba»), in cui, parlando dell’anelito verso la libertà e verso una vita più ricca di alternative, meno statica, che è alla base dell’emigrazione contadina, emerge con dolorosa vividezza la dimensione esistenziale del lavoro del dotto privato, solo nel suo studio, immerso 23 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nella penombra discreta appena rischiarata dalla lampada dello scrittoio: «… Nell’oscuro semicosciente anelito verso lontani Paesi sta nascosto un momento di primitivo idealismo. Chi non lo sa decifrare ignora il fascino della libertà. Infatti, di rado il suo spirito ci sfiora nella quiete della nostra stanza di studio». Nessun dubbio che le condizioni della ricerca sociologica siano, dal punto di vista tecnico, profondamente mutate. Non vi è studioso che sia in grado, da solo, di somministrare centinaia, a volte migliaia di questionari, e poi di farne lo spoglio sistematico, per quindi procedere al calcolo delle percentuali e degli incroci (cioè delle correlazioni fra le varie risposte; per esempio, quanti rispondono in un dato modo ad una domanda - «Le piace andare a concerto?» e hanno un determinato titolo di studio oppure hanno una certa origine sociale o un determinato lavoro o reddito, e così via). Occorre aggiungere la necessità dell’impostazione inter-disciplinare, o multi-disciplinare, della ricerca. A parte l’opportunità di investire globalmente e coordinatamente il fenomeno sociale studiato, quindi in base alla collaborazione programmata dell’urbanista, dello storico, dell’economista, del geografo, dello psicologo, dell’antropologo culturale, e infine naturalmente del sociologo, vi sono da risolvere preliminarmente e nel corso della ricerca dei problemi propriamente tecnici che richiedono l’apporto di specialisti. Per esempio, come trascegliere un campione rappresentativo di un dato universo senza la consulenza di uno statistico specializzato in questo particolare settore della scienza statistica? Eppure, il lavoro di squadra, pur necessario, non è privo di inconvenienti. Ne cito uno per tutti: la tendenza a buro24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cratizzare il lavoro scientifico, a farne un problema di puro investimento finanziario; il prevalere di quello che chiamerei l’istinto dell’orda. Quando un problema «va», è, per qualche ragione che del resto nessuno sembra avere tempo o interesse a esplorare, all’ordine del giorno, tutti ci si buttano, diviene fotogenico, si trasforma in moda. Quando tale moda è esaurita, indipendentemente dai risultati conseguiti, ci si butta, di nuovo con un commovente conformismo di gruppo e un’incrollabile solidarietà di interessi, in un’altra direzione, su un altro problema, che magari non ha nulla a che vedere con quello appena abbandonato. Le preoccupazioni finanziarie, assai più di quelle connesse con la scoperta della verità, divengono le preoccupazioni dominanti. Nasce la questione del doppio ruolo: lo studioso tende a scindersi in scienziato e amministratore. I due ruoli sono contraddittori. Di qui nevrosi; paralisi; aggressività. Il problema più serio per la ricerca diviene il modo di tenere unito e sufficientemente affiatato il gruppo di ricerca. L’impostazione inter-disciplinare viene mitizzata; una rigida applicazione del principio della divisione del lavoro alla ricerca scientifica genera incomprensioni, compartimenti stagni, duplicazione inconsapevole di errori, gelosie feroci fra settore e settore; in particolare, impedisce di ottenere gli effetti moltiplicatori del confronto dialettico, della cooperazione e della fecondazione reciproca. Le esigenze organizzative prevalgono su quelle scientifiche; la necessità di trovare finanziamenti predispone al conformismo, scoraggia comunque o induce a rinviare i progetti di ricerca che, benché geniali, rischino di non piacere agli amministratori. Si opta per lo specialismo che, se non è serio, almeno non è capito o è quanto meno difficilmente valutabile. Ci si avvia 25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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così, a poco a poco, a concepire la ricerca e ad apprezzarla in termini di efficienza aziendalistica, come se si trattasse di un’impresa commerciale da giudicarsi in base alla «quantità prodotta» e nello stesso tempo ci si vede costretti a perdere di vista il senso globale del problema, si cade nel frammentarismo e nella gratuità. La ricerca sociologica diviene tecnicamente impeccabile e umanamente (socialmente e politicamente) irrilevante: una perfezione priva di scopo. Nessuna meraviglia che i finanziamenti finiscano per essere considerati più importanti delle idee. In questo senso un certo ritorno allo spirito artigianale è salutare e la lezione di Weber, anche a questo riguardo, non ha perso molto della sua importanza. Ma per avere e praticamente avvalersi della propria autonomia nella scelta dei temi di indagine occorre possedere una consapevolezza problematica straordinaria. La consapevolezza problematica non piove però dalle nuvole, presuppone necessariamente una cultura storica superiore alla media. Max Weber possedeva una cultura storica eccezionale. Dote rara fra i sociologi sia classici che contemporanei. Si lasci pure da parte l’aneddoto famoso che lo vuole consacrato come il miglior giovane storico e discepolo della Germania dal grande Mommsen in persona, non appena concluso il dibattito su una tesi di laurea. Sta di fatto che Max Weber è uno storico non dilettante, non è necessario rifarsi all’amoroso Lebensbild scritto dalla moglie Marianne per rendersi conto dell’ampiezza e della precisione delle sue informazioni: dal diritto all’economia, all’evoluzione delle arti figurative, ai sistemi etici in quanto influiscono e sono condizionati dal comportamento economico, alla politica come vocazione ma anche come insieme di procedure e 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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di tecniche mediante le quali il potere viene effettivamente esercitato. La molteplicità degli interessi di Weber è così ricca e così vasta da far pensare a lui come a un uomo del Rinascimento. Non si tratta infatti, come da talune pagine della moglie Marianne potrebbe anche pensarsi, di enciclopedismo farraginoso e in sostanza intellettualmente irresponsabile. La consapevolezza problematica in Weber è così vigile e così intensa che tutto – dalla religione alla musica, dalla storia al diritto, dall’economia all’antropologia – diviene materia combustibile ed entra effettivamente in fusione alla luce delle domande fondamentali che sono all’origine e che costituiscono la giustificazione profonda, di là da ogni apparente occasionalità, del suo lavoro di ricerca. Non importa a quale argomento si dedichi con la consueta passione ed acutezza, può essere la borsa o le condizioni della professione del giornalismo, gli interrogativi intorno al destino della ragione, al significato sociale della scienza, alla possibilità d’una transizione dalla razionalità formale alla razionalità sostanziale, alle ragioni vere per cui gli uomini obbediscono sono gli autentici nodi cui si legano, raggruppandosi a grappolo, tutte le altre questioni. Questi interrogativi sorgono in Weber e tornano con la straordinaria chiarezza che si ricollega alla sua profonda cultura storica. Non vi è sociologo contemporaneo che disponga d’una cultura storica seria o comunque paragonabile alla sua. Si può forse fare un’eccezione per Reinhard Bendix, ma il sociologo medio è tanto ignorante di storia quanto è versato nelle tecniche specifiche di indagine. Conosce più le macchine IBM che i documenti di archivio. Sa forse impostare il programma di un elaboratore elettronico, ma guai 27 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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a fargli domande troppo sottili intorno alle grandi correnti intellettuali o sui movimenti sociali della cui eredità stiamo ancora stancamente campando. Tutto questo lo si può capire, anche scusare, ma non va dimenticato. La mancanza, la pura e semplice dimenticanza della dimensione storica negli studi della sociologia contemporanea, specialmente nordamericana, è un tratto cospicuo e d’altronde così normale che sembra lecito sottacerlo. I classici della sociologia conoscevano certo la storia, ne valutavano correttamente l’importanza ai fini della ricerca. Ma la loro sensibilità storica non appare adeguata. L’influenza del positivismo, come dottrina e come stile di ricerca, sortisce al riguardo effetti negativi. Auguste Comte non ha il senso delle società particolari, storicamente determinate. Le peculiarità storiche gli sembrano accidenti trascurabili; il suo intento è la costruzione di una «fisica sociale» che in tutto rivaleggi con la fisica naturale e con le scienze esatte. E si badi: siamo ancora al concetto della scienza come dispensatrice di un sapere totale, «divino», non probabilistico ma dogmatico, non problematico ma assoluto, un sapere da cui Comte fa dipendere tutto l’avvenire dell’umanità. Perché Comte parla in nome dell’humanité. Ma attenti: è una humanité che non solo coincide con l’Europa occidentale, ma addirittura con la Francia. Un caso di eurocentrismo inconsapevole piuttosto emblematico. Herbert Spencer è molto più guardingo, diffida del ragionamento astratto e universaleggiante, guarda con l’attenzione circospetta e differenziatrice del ricercatore empirico di razza alle realtà nazionali e locali con le loro peculiarità uniche e irriducibili, radicate in irripetibili vicissitudini storiche. Ma gli fa difetto il senso dello sviluppo storico; il suo 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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evoluzionismo è tutto a sfondo biologico, darwiniano, e anche il movimento diacronico delle società risponde in fondo a una molla di cieca causazione meramente cumulativa; il suo modo di procedere è quello di un catalogatore scrupoloso, ma essenzialmente meccanicistico per il quale correnti ed eventi profondi, storicamente determinanti, vengono messi tranquillamente accanto ed equiparati a fenomeni transitori e irrilevanti. Lo stesso Emile Durkheim non esce, a ben guardare, dall’ambito del positivismo. La sua «specificità del sociale», mentre salva meritoriamente la ricerca sociologica dalle generalità inverificabili dei predecessori, non si apre per questo alla comprensione di situazioni storiche determinate, di «accadimenti». Siamo invece sempre alla ricerca di una legge generale, di un costrutto logico esplicativo tendenzialmente metastorico e intemporale. La stessa ontologizzazione delle «rappresentazioni collettive» sono in Durkheim la spia di una tendenza, mai del tutto trascesa, a ipostatizzare realtà determinate, escludendole contraddittoriamente dal flusso storico nel momento stesso in cui se ne afferma il carattere specifico. È chiaro che fra sociologia e storia corrono differenze profonde. Lo storico lavora in archivio mentre il sociologo lavora (deve lavorare) in piazza. Lo storico si occupa, negli archivi, della storia già storica mentre il sociologo non disdegna la cronaca, trova, anzi, in essa, ancora allo stato fluido e caldo e con quel tanto di slabbrato e fuggevole che accompagna la quotidianità, la sua materia prima essenziale. Inutile nasconderselo: fare il sociologo sul serio è un mestiere scomodo. Ma le conoscenze storiche, anzi, la cultura storica nel senso di un insieme di cognizioni non eclettiche e non miscellanee, cioè la cultura storica 29 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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come insieme di cognizioni più consapevolezza profonda, è fondamentale per il sociologo: per dargli il senso della prospettiva, per dargli modo di tentare di collegare dati empirici elementari e significato globale del fenomeno, per non consentirgli di dimenticare, in nome e a vantaggio di piccole ricerche magari lautamente pagate da piccoli committenti affaristi avidi di risultati qualsiasi a brevissima scadenza, la domanda importante: da dove veniamo, dove siamo, per dove andiamo? La spiegazione sociologica si differenzia da quella storica. Storia e sociologia hanno in comune l’oggetto di ricerca, l’uomo che vive in società, l’uomo in quanto essere sociale, e le sue istituzioni. Ma la struttura della spiegazione sociologica è condizionale, tendenzialmente standardizzata, tipica, mentre quella della spiegazione storica è causale e individualizzante. Per esempio, si tratti della Rivoluzione francese: lo storico mira a stabilirne i precedenti, scava in archivio per portare alla luce i documenti e le testimonianze pertinenti, fissa le connessioni e i dati empirici di quella situazione storica determinata. Sono materiali empirici e interpretazioni, utilissimi anche per il sociologo. Ma la domanda che questi si pone va oltre il fenomeno specifico e circoscritto della Rivoluzione francese in quanto tale e può venire formulata all’incirca in questi termini: a quali condizioni (economiche, sociali, politiche, culturali) si verifica un processo rivoluzionario, cioè una rottura violenta dell’ordine sociale esistente? In altre parole: quali sono le condizioni socio-economiche e culturali che presiedono al fenomeno rivoluzionario, vale a dire che rendono possibile, e probabile, il verificarsi, empiricamente controllabile sul piano storico, di una rivo30 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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luzione? La risposta a questa domanda non si riferisce più soltanto al fatto specifico di una rivoluzione storicamente determinata; essa contiene invece gli elementi per la costruzione di uno schema astratto, o modello (framework), o, per usare la formula di Weber, «tipo ideale», che serve come termine di riferimento e come guida nella raccolta sistematica dei dati empirici e nel quale possono rientrare varie rivoluzioni, effettivamente accadute sul piano dell’esperienza storica presente e passata, da quella francese a quella sovietica, dalla rivolta di Spartaco alla rivoluzione cubana, cinese, e così via. Per la costruzione di questo modello o schema «ideal-tipico» è chiaro che la cultura storica è un prerequisito essenziale. Ma la sociologia ha fin dalle origini subito in profondità la tentazione di attingere un sapere scientifico assoluto, capace di formulare «leggi» in senso rigoroso e dogmatico, universalmente valide, necessarie e necessitanti, insensibili per definizione alla variabilità storica. La sociologia ha fin dalle origini subito il fascino, in verità più magico che scientifico, di un sapere non tanto scientifico quanto scientistico, intemporale, l’attrazione di proposizioni e di «leggi» eterne, metastoriche. Questo è vero fin da Auguste Comte. Provveduto di cultura storica forse più di quanto comunemente si ritenga, Comte è così ossessionato dall’idea di riportare ordine («ordine e progresso») nel caos provocato dalla rivoluzione da tramutare le regole scientifiche del positivismo, di cui non a caso finisce per credersi il grand prêtre, in messaggio dogmatico, assoluto, onnicomprensivo, in un parola, religioso.

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Oltre storicismo e positivismo È in questa prospettiva che si comprende perché Max Weber non intenda e chiaramente rifiuti di costruire il «sistema». Perché sa che si tratta di un’impresa contraddittoria e quindi disperata. L’idea di poter trovare e formulare generalizzazioni sociologiche che siano valide per tutta l’umanità, cioè per la società in generale, prescindendo da qualsiasi retroterra storico specifico e che ciò nonostante non si riducano a mere tautologie o a truismi banali, presuppone un’umanità totalmente standardizzata e omogeneizzata; al limite, presuppone l’interruzione e il blocco dello sviluppo storico. In questo senso, che le sociologie siano ancora essenzialmente legate alle varie, differenziate realtà nazionali non è da intendersi come un sintomo di immaturità o di arretratezza della disciplina. È qualche cosa di più profondo e significativo. È un fatto che sta a ricordarci che i concetti sociologici non sono metastorici, che essi sono strumentali rispetto ai problemi storicamente maturi di determinati contesti e che solo all’interno di un determinato orizzonte storico la ricerca sociologica può sperare di salvarsi dalla gratuità e di attingere la pienezza della sua portata scientifica e della sua funzione sociale. L’importanza fondamentale di Weber è appunto determinata dal fatto che egli si cala nel cuore della tensione problematica che si accende fra positivismo e storicismo, cioè fra la tendenza a considerare i fatti umani, che sono sempre fatti storici, come realtà puramente materiali, «fattuali» (comme des choses, dice Durkheim), per cui comprenderli significa la stessa cosa che contarli e misurarli (comprensione come precisione), e la tendenza 32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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contrapposta che vede nel fatto umano alcunché di ineffabile e di non standardizzabile, una realtà reale, ma intima e misteriosa, che si può solo «rivivere» e sperimentare personalmente, ma non analizzare in modo positivo per giungere ad una conoscenza e ad una spiegazione pubblica, cioè intersoggettiva e da tutti controllabile. Max Weber va oltre positivismo e storicismo. Vediamo come. I limiti della sociologia strettamente positivistica gli risultano chiarissimi. Non c’è da stupire. Il positivismo non aveva mai veramente attecchito nella cultura tedesca, imbevuta di idealismo e di romantico spiritualismo. Altrove, in Italia per esempio, il positivismo era stato filosoficamente battuto e infine eliminato, nei primi anni del secolo ventesimo, ancor prima che fosse giunto a maturazione e che avesse potuto dare i frutti positivi di cui, rispetto alla cultura italiana così proclive alla retorica, era indubbiamente portatore. Il merito della sociologia positivistica, anche di tipo comtiano, cioè della sociologia positivistica nelle sue forme più ortodosse, è fuori discussione. Si può certo a cuor leggero sorridere, oggi, di alcune trovate di Comte e in generale delle sue riforme religiose (il nuovo calendario con il nome di filosofi e scienziati in sostituzione di quello dei santi tradizionali; il culto di Clotilde de Vaux, che troppo scopertamente indica l’ossessione maniaca di un uomo già sofferente e malato, e così via). Il merito del positivismo, specialmente dei sociologi positivisti, è evidente: l’aver sottratto interi campi del comportamento umano e delle istituzioni sociali fondamentali al controllo o, più precisamente, alla manomorta del magistero teologico richiamandosi, contro la tradizione e contro la rivelazione, ai fatti accertabili nella loro empirica, circoscritta determinazione, 33 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nonché all’indagine razionale intorno ad essi in quanto fatti sociali. La specificità del sociale, recuperata da Durkheim nel solco della tradizione comtiana, è un’acquisizione permanente delle scienze sociali. In secondo luogo, non vi è proposizione sociologica che pretenda seria considerazione la quale non abbia un suo «prezzo» empirico, ossia non possa rimandare alle sue «pezze d’appoggio». Questi caposaldi sono presenti, sono anzi fermissimamente espressi in Auguste Comte. Le polemiche ritardatarie che, specialmente in Italia, sono state alimentate da neo-idealisti e anche da marxisti, ma sovente le due posizioni, data la comune matrice, sono così vicine da coincidere, non sono sufficienti a rimuovere questo dato di fatto. Che Delio Cantimori, fra gli altri, riconosca che alle origini della sociologia stanno la riflessione sulla storia del genere umano e il tentativo di definire il concetto della «società» in contrasto con le idee giusnaturalistiche e contrattualistiche, per quindi aggiungere che «quella del Comte fu una deformazione della originaria impostazione rivoluzionaria (utopistica) e critica del Saint-Simon», non dovrebbe sorprendere4. Cantimori riecheggia semplicemente il giudizio famoso di Marx e di Engels su Comte che essi si limitarono a considerare il «figlio snaturato» del geniale Saint-Simon. Ma qui l’incomprensione appare così grossolana che sfiora il pregiudizio. L’apporto dell’istanza positivistica di Comte, anche dal punto di vista interno al sorgere della sociologia come scienza, non è né un fatto marginale né una 4 Cfr. D. Cantimori, «Nota introduttiva a M. Weber», Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. a cura di A. Giolitti, Torino, 1948, p. 15.

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semplice «deformazione» del saint-simonismo, che del resto Comte non poteva fare a meno di conoscere di prima mano. Fin da quando le diverse scienze empiriche si vennero progressivamente emancipando dalla tutela della filosofia – ho avuto agio di osservare in altra sede5 - l’aspirazione ad un ricongiungimento ed una sintesi delle branche del sapere umano ha avuto una parte nel pensiero di scienziati e filosofi. Si è spesso trattato di una mera velleità o di un pretesto per esercitazioni dialettiche verbali; ma in Auguste Comte questa vaga aspirazione si tramuta in esigenza fondamentale e in strumento prioritario di comprensione e nel contempo di modificazione della società. Il suo punto di partenza è costituito dalla rilevazione che le diverse scienze del suo tempo non sono animate dallo stesso esprit. Oggi diremmo che erano state concepite come ontologicamente e metodologicamente scisse in due grandi filoni: da una parte, la scienza della natura, sostanzialmente ridotta a unità dall’impostazione meccanicistica galileiana e cartesiana, nell’ambito della quale si rinuncia alla ricerca delle «cause prime» per limitarsi a identificare ed enunciare le leggi dei fenomeni con l’osservazione sistematica; dall’altra, le scienze storiche e della società, che pretendono di spiegare le leggi invece di limitarsi a stabilirle. Il problema di fondo, quindi – un problema che vedremo riemergere prepotentemente in Weber - consiste nell’introdurre l’unità del metodo nel sistema delle scienze. Comte propugna un definitivo suCfr. il mio Trattato di sociologia, Torino, 1968, p. 255; ma si veda anche, a questo proposito, la mia introduzione all’edizione italiana del Corso di filosofia positiva, nella collana dei «Classici della sociologia» edita da UTET, Torino, 1967; la stessa introduzione era stata in precedenza pubblicata con il titolo «La sintesi sociologica nel pensiero di Comte» nei Quaderni di sociologia, aprile-giugno 1966. 5

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peramento della dicotomia fra il metodo positivo delle scienze fisico-naturali e quello speculativo, ancora adottato nelle scienze sociali. Scartata l’ipotesi di una conciliabilità dei due metodi e vigorosamente denunciata l’insufficienza, per non dire il carattere regressivo, del metodo teologico-metafisico, Comte si batte per l’estensione e per l’applicazione coerente del metodo positivo in tutti i campi dello scibile umano e per tutte le scienze, sia della «natura» che dello «spirito», per valerci di questa approssimativa terminologia tradizionale. Ciò che qui mi sembra degno di venire sottolineato è che questa lotta metodologica non è vista e sostenuta da Comte come una battaglia puramente intellettuale. Contro le osservazioni polemiche di Delio Cantimori, che sono state puntualmente fatte proprie da altri studiosi marxisti per trovare nuova e suggestiva espressione, da ultimo, in Herbert Marcuse, va ricordato che la meditazione metodologica di Comte e il suo lavoro scientifico si ponevano solo come un presupposto preliminare, necessario ma non esauriente né tanto meno autogiustificantesi, ad una grandiosa opera di rinnovamento sociale, politico e morale. Non si capirebbe pienamente il Cours de philosophie positive senza avere continuamente presente il Système de politique positive. In questo senso, l’interpretazione ancora di recente resa alquanto popolare da Marcuse e da Adorno, della sociologia positivistica come di una sociologia della rassegnazione e della passiva accettazione dello statu quo appare insostenibile. La sociologia non è una fisica sociale Rispetto alla metodologia positivistica, e agli innumerevoli discepoli di Comte e di Spencer, la posizione di Weber 36 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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è certo più cauta e meno settaria. Non ha nessuna difficoltà a riconoscerne i meriti. Cresciuto in una cultura che ha sempre, con coerenza esemplare, negato un ruolo e una funzione autonoma alla sociologia come scienza, relegandola e riconoscendole al più una posizione ausiliaria rispetto ai fenomeni individuati e analizzati sul piano e con gli strumenti della storiografia, Weber non esita a impegnarsi a fondo per la fondazione teorica e metodologica dell’autonomia del giudizio sociologico nel solco già aperto dal lavoro di Ferdinand Toennies ma con indubbia originalità. Non è, anzi, un mistero che nei suoi primi lavori egli si dedica a ricerche sul terreno secondo uno stile di indagine e un rigore di osservazione empirica che si basa assai più sulla rilevazione statistica che sulle deduzioni di tipo speculativo. La cosa non è sfuggita all’acutissimo Ernesto Sestan. Pur partecipando del generale clima di prevenzione nei riguardi della sociologia, questi ha ben presente la distinzione qualitativa fra indagine latamente storiografica e indagine sociologica. Sestan cita lo studio di Martin Offenbacher, Konfession und soziale Schichtung (Religione e stratificazione sociale), del 1901, per osservare che «l’Offenbacher, scolaro del Weber, è indotto a quest’ordine di ricerche appunto da Weber». E soggiunge: «Ma in realtà, queste dell’Offenbacher sono ricerche di carattere statistico, applicate al fatto religioso, per nulla diverse, qualitativamente e metodologicamente, da quelle che lo stesso Weber aveva compiuto nella prima fase della sua attività; specie quelle sulle condizioni agrarie a oriente dell’Elba»6. Ma questa sensibilità per il concreto e il circoscritto, questa tendenza di Weber a tener conto del dato 6 Cfr. E. Sestan, «Introduzione a M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo», tr. it. di Piero Burresi, Roma, 1945, p. XXXIII.

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empirico, a non cadere nella speculazione pura e inverificabile, è veramente caratteristica solo della prima fase della sua attività o ancora, come sospetta Sestan, deriva semplicemente dal fatto che Weber non è una «testa filosofica»? Come abbiamo già accennato più sopra, credo che si debba ribadire il fatto teoricamente importante che la riflessione metodologica di Weber non girava e non procedeva mai nel vuoto, che essa era sempre una riflessione su lavoro, si veniva, cioè, sviluppando e costruendo nel corso dell’effettivo lavoro di ricerca, nel quotidiano tentativo di chiarirne i presupposti, l’orientamento, il significato e gli strumenti. L’opposizione di Weber alla metodologia positivistica non ha molto, in questo senso, da spartire con la critica della scuola storica, preoccupata di conservare alla storiografia una posizione e una funzione dominanti rispetto alle altre scienze sociali e in particolare rispetto alla sociologia. Ciò che Weber rifiuta della metodologia positivistica suona naturalmente affine alle istanze critiche mosse al positivismo dalla cultura storicista tedesca: a) l’oggettivismo immediatistico e ingenuo, cioè la pura e semplice abolizione del problema gnoseologico, anche se lo stesso Weber tenderà a risolvere all’interno della riflessione metodologica e in termini di puro metodo l’annoso problema della teoria della conoscenza, distaccandosi proprio a questo riguardo nettamente dai suoi mentori filosofici (Windelband e Rickert); b) il postulato comtiano della società come compagine razionale assoluta, dominata da un insieme di leggi ferree, la cui scoperta e formulazione costituirebbe il compito della sociologia, un compito preminente, preliminare e necessario per qualsiasi piano di riforma sociale, che conferisce alla sociologia un primato rispetto alle altre scienze naturali e 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sociali, facendone una vera e propria scientia scientiarum. Weber rifiuta dunque, in ultima analisi e in pieno accordo a questo riguardo con lo storicismo tedesco, l’equivalenza stabilita da Comte fra fisica e sociologia, fra le scienze della natura e quella che ancora Durkheim chiamava la «phisique des mœurs», ma, con pari vigore, e con dovizia di implacabili particolareggiate argomentazioni, Weber critica anche gli assunti tradizionali della cultura storica tedesca, che costituisce la sua matrice culturale d’origine. I valori dipendono dalla scelta dei singoli Se non accetta l’equiparazione fra fisica e sociologia affermata da Comte e in genere dai positivisti, un’equiparazione che ammonta alla sbrigativa negazione della storia, Weber attacca anche, in primo luogo, la contrapposizione teorizzata da Dilthey fra le scienze dello spirito (scienze storiche e scienze sociali, inclusa la psicologia) e le scienze della natura, che fa perno sul principio che l’uomo è in grado di comprendere la sua esperienza storica e sociale in quanto la può rivivere, come esperienza interna, mentre ciò non è possibile, e neppure rilevante, con riguardo alle scienze fisiche naturali; in secondo luogo, Weber si distacca anche da Windelband e da Rickert, per i quali la validità delle scienze storiche e sociali o, come dirà sovente Weber, «scienze della cultura», va ricercata non al loro interno, nel modo con cui procedono alla costruzione dei propri schemi logico-esplicativi, bensì nel rapporto con i valori cui esse si riferiscono come supremi criteri selettivi rispetto alla raccolta e alla interpretazione sistematica dei dati empirici. Sono dunque i valori, per Windelband e Rickert, sono il 39 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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loro carattere assoluto ed extra-mondano, quindi in senso proprio metafisico, a conferire validità e significato alla ricerca sociologica, mentre per Weber tali validità e significato non possono dipendere da alcuna metafisicizzata «relazione di valore», ma è al contrario da ricercarsi all’interno dello stesso processo di ricerca poiché la comprensione del significato di un fenomeno non rimanda al valore metafisico, che si suppone che lo garantisca, bensì dipende dalla capacità, da parte del ricercatore, di scoprire empiricamente e di fissare le condizioni fondamentali che presiedono all’inverarsi, sul piano storico, del fenomeno colto nella sua individualità specifica. I valori, in altre parole, i «criteri direttivi» della ricerca non sono più per Weber degli assoluti universali e necessari; sono invece essi stessi il frutto di una scelta, rispecchiano le propendenze e gli interessi del ricercatore e sono legati al suo orientamento, alle sue scelte esistenziali Il discorso è necessariamente complesso e riflette una meditazione laboriosa che in Weber non sempre ha potuto trovare espressione perspicua. Mi sembrerebbe però ingeneroso sospettare, di fronte alla natura oggettivamente ardua dei problemi in questione, che la complessità abbia una radice autobiografica più che teoretica: «Non più solo statistica, né solo elaborazione di dati pazientemente raccolti, secondo gli schemi della consueta scienza economica. Impossibile seguirlo nei tortuosi meandri della crisi nervosa, che lo abbatté per più di un quinquennio… Il gusto per la netta precisione dei concetti nel maneggio della sua disciplina, il Weber aveva, veramente, sempre avuto. Ma ora la nativa tendenza si accentua: la lontananza dalla cattedra e dagli obblighi ad essa connessi – preparazione di corsi, esami, esercitazioni, 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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seminari, ecc. – gli dà l’agio di abbandonarsi a vagabondaggi spirituali, senza una meta precisa; di approfondire, lasciare, riprendere, differire quello che prima dovevasi necessariamente concludere per le imprescindibili e non dilazionabili necessità professionali. Ora il tempo c’è; può passare lunghe ore nell’inerzia esteriore impostagli dalla cura del male, a ricercare i presupposti logici della sua disciplina. Che questo lavorio mentale, legato con ancor troppo tenue filo ad una eventuale lontana applicazione al concreto, dovesse inacerbire piuttosto che lenire il suo male, si può supporre»7. Le supposizioni di Sestan sollevano un problema serio che duole di non poter qui indagare a fondo. Lasciate a se stesse, quelle supposizioni sono gravemente riduttive dell’apporto di Weber, per non dire diffamanti. Ma il problema è un problema reale, forse più nel caso di Weber che per altri studiosi di scienze sociali. La compenetrazione in lui, infatti, fra vita intellettuale e vicenda biografica è più spinta, è forse più decisiva e più sofferta che per altri. Basterebbe pensare alla sua attrazione-repulsione per la carriera politica, alla sua ambiguità verso il potere e alle implicazioni etiche che esso comporta. Max Weber è certamente un personaggio scomodo, ma sembra poco accettabile liberarsene con dei pettegolezzi. Il ritratto lasciatoci dalla vedova non aiuta granché al riguardo; è inevitabilmente un ritratto di parte; scade nell’agiografia emotiva. Nessun dubbio, d’altro canto, che la scomodità di Weber derivi dal carattere fondamentalmente contraddittorio della sua esperienza esistenziale e della sua vicenda biografica, un carattere che si riflette con grande puntualità nell’andamento asistematico della sua opera. 7

Cfr. E. Sestan, op. cit., pp. XXV-XXVI.

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Sarebbe importante stabilire, di là dai pettegolezzi familiari e accademici, le origini del carattere contraddittorio della personalità, per molti aspetti così forte e decisa, di Max Weber. Sembra chiaro che si tratta di una personalità schizoide, interiormente frenata da molte, troppe «vocazioni». Se si accetta la definizione della nevrosi come di uno stato di paralisi dolorosa determinata dalla spinta di due tendenze simultanee e contrarie, Weber appare come un nevrotico tipico. Anche da una semplice analisi testuale della sua opera è chiaro che in lui convivono e si scontrano un fortissimo temperamento politico e una irrinunciabile esigenza di chiarezza intellettuale. Ma forse, anzi sicuramente, le radici del «male oscuro» di Weber vanno più a fondo. I tentativi di psicoanalizzare i grandi morti, che si sappia, non hanno di regola avuto grande successo. Quello riguardante il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson e tendente a dimostrare la connessione fra i suoi blocchi psichici e l’ottuso rigorismo morale di cui diede prova al tavolo della pace dopo la Prima guerra mondiale non ha certamente portato a risultati conclusivi. L’analisi di tipo preminentemente psicoanalitico cui David Riesman ha sottoposto le opere e in generale la posizione scientifica di Thorstein Veblen non si può del pari considerare soddisfacente. Il caso di Weber sarebbe presumibilmente anche più difficile. Bisognerebbe intanto ottenere informazioni dettagliate e attendibili sui suoi rapporti con la moglie Marianne e più ancora con la madre, così come andrebbero chiariti i rapporti, che si sanno genericamente drammatici, con il padre, precipitati in seguito alla decisione della moglie di far visita al figlio Weber, già sposato. Bisognerebbe inoltre accertare quanto vi sia di vero nella voce insistente circa 42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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l’impotenza di Weber. Ma ciò che nel corso di tutta questa complessa operazione analitica non andrebbe mai dimenticato è il limite cui sono esposte le spiegazioni psicologiche e psicoanalitiche di questo tipo, ossia fondate su ricostruzioni a posteriori e prive del beneficio dell’intervista diretta. Non solo; non andrebbe mai dimenticato che la natura eccezionale e la grandezza di Weber, come di Thorstein Veblen e di altri, si rendono evidenti appunto nella capacità di trascendere, per alcuni importanti aspetti, il dato della propria origine familiare e sociale. La connotazione psicologica, in quanto parte notevole della matrice causale degli atteggiamenti della personalità, ha una sua funzione necessaria, che è però lontana dall’essere sufficiente e ancora più lontana dall’essere esclusiva. Guai a farne un uso acritico, come lo specialista è pur tentato di fare. Se ne ricaverebbe un ingannevole chiave passe-partout con la quale si spiegherebbe meccanicamente tutto e nulla nello stesso tempo. In difesa dell’individuo anche a rischio dell’irrazionalismo Sia o meno direttamente legata agli anni dell’esaurimento nervoso di Weber e alla sua forzata inattività, ciò che si può affermare è che la complessa meditazione metodologica weberiana si muove e infine confluisce nella corrente più matura del pensiero scientifico contemporaneo: a) gli strumenti della ricerca vanno messi a punto e tarati nel corso della ricerca stessa; b) nessuna frattura fra scienze dello spirito e scienze della natura, nessun intuizionismo e nessun oggettivismo, bensì distinzione puramente metodologica; c) il «tipo ideale» come strumento di cui si serve la sociologia per realizzare il proprio fine 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che consiste nell’analisi e nella comprensione di comportamenti umani effettivi di agenti individuali, orientati razionalmente rispetto allo scopo e riferiti all’atteggiamento di altri; d) unità dunque delle scienze nella ricerca delle «uniformità», o tendenze probabilistiche, non più «leggi» dogmatiche nel senso del positivismo ingenuo; e) uniformità che per la sociologia sono costituite dall’agire umano in quanto agire dotato di senso e si esprimono nei «tipi ideali» e che, contrariamente alle generalizzazioni delle scienze fisiche intese a riordinare una molteplicità di fenomeni, mirano a spiegare i fenomeni nella loro specifica individualità. L’approdo di Weber è schiettamente individualistico: l’agire individuale rappresenta per lui l’atomo da cui deve partire ogni ricerca sociologica. La contrapposizione fra l’impostazione weberiana e quella marxistica, a questo punto, non può lasciare dubbi. Ciò che si può rilevare è invece la contraddizione fra questo approdo metodologico, cui Weber sarà sempre esplicitamente se non addirittura enfaticamente fedele, e il suo concreto lavoro di ricerca, che ha sempre scelto come temi di indagine temi strutturali, grandi soggetti storici, come il capitalismo o le religioni mondiali, e mai è scivolato, se non occasionalmente e più dal punto di vista del linguaggio impiegato che da quello concettuale sostanziale, sul piano psicologistico, o puramente inter-individuale. Questa contraddizione è una spia preziosa del limite di tutta l’opera di Weber, della sua incapacità o del suo rifiuto di stabilire un nesso fra la chiarezza intellettuale della conoscenza e della comprensione, da una parte, e la decisione pratico-politica, dall’altra, così che la lucidità dell’analisi si trasformi in atto e in forza politica. 44 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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L’ostacolo è qui rappresentato da una opzione personale di Weber, non da una impossibilità logica. Questo punto cruciale è stato colto con grande perspicuità: «L’individualismo metodologico di Weber – “impensabile” se riferito alle sue analisi strutturali degli ordinamenti e delle sfere istituzionali – diviene … “comprensibile” solo se riferito ad una sua preoccupazione particolare che è radicata in un giudizio di valore piuttosto che fondarsi su una “relazione ai valori”. Volendo salvare la libertà dell’uomo, le sue scelte e la sua “ragione”, Weber finisce per intendere quest’ultime come “razionalità” (sia formale che tecnica) in cui l’insieme dei rapporti sociali non costituisce che un mero dato per il configurarsi del contenuto, di significato delle azioni individuali concrete. La debolezza di questa posizione metodologica (che Weber stesso abbandona nel corso delle sue analisi) viene a mala pena celata dalla rigorosità formale e definitoria. Quella sua sorta di materialismo metodologico (“gli uomini reali”, “le azioni concrete”, “l’attività sensibile”), anziché spingerlo alla considerazione della struttura delle condizioni (e dei rapporti di condizionamento) sociali, oltre alla implicita rilevanza che gli accorda nel costrutto euristico ideal-tipico e piuttosto in rapporto al sorgere e all’alimentarsi delle motivazioni individuali, lo conduce invece verso un nominalismo societario senza uscita: quasi un supporre che l’uomo e i suoi interessi e motivi individuali avessero in se stessi la loro giustificazione»8. Max Weber studia, sceglie di studiare, dunque, la struttura, ma si rifiuta ostinatamente di riconoscerle un peso determinante nell’imputazione causale del comportamento 8 Cfr. P. Ammassari, «Il rapporto fra biografia e storia in Hans Gerth e C. Wright Mills», in La critica sociologica, n. 11, autunno 1969, p. 51 (corsivo nel testo).

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umano: teme, in parole povere, che essa finisca per schiacciare il mondo delle libere volizioni individuali, che il «regno delle idee» sia messo così in pericolo, che la forza delle relazioni economiche di base si riveli alla fine decisivo per tutto lo sviluppo sociale. Marx, questa familiare ombra di Banquo che per tutta la vita ossessiona Weber, torna ad essere l’interlocutore principale: e se Marx avesse ragione? Se davvero la struttura economica, da sola o come un prius essenziale, fosse la forza decisiva nell’insieme delle forze e degli interessi e dei valori che costituiscono e imprimono la sua spinta dinamica allo sviluppo sociale? Cosa mai accadrebbe al regno delle idee? Che ne sarebbe delle libertà individuali? La scienza chiarisce il «costo» delle scelte, ma sulle scelte stesse non ha nulla da dire Al termine della sua lunga tormentata meditazione, Weber è soprattutto preoccupato di salvare la possibilità di scelta dell’individuo. Per questa ragione fondamentale egli si rifiuta di stabilire un nesso di necessità fra chiarezza intellettuale e decisione pratica, cioè fra teoria e prassi. Vuol salvare la possibilità di scelta dell’individuo fra vari contrastanti «punti di vista»; vuol conservargli intatta la sua autonomia di giudizio, libero di optare per l’alternativa che, indipendentemente dai risultati della ricerca, egli ritenga, per sé, più opportuna; annusa nel marxismo la trappola di una spiegazione unilaterale che pretenda di farsi passare per una spiegazione totale ed esauriente. La validità di una meta, di uno scopo, non può venir garantita dalla scienza, non può venir dimostrata in senso inter-sog46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gettivo come dotata di un valore collettivamente vincente: il principio e la fine dell’azione sociale resta la volizione individuale, che nessun calcolo scientifico può garantire, liberare dall’incertezza e dal rischio che la circonda, standardizzare. Cosa possiamo dunque aspettarci dalla scienza, secondo Weber? Non molto. Non possiamo certamente aspettarci ricette per la «retta vita»; non possiamo attenderci una precettistica intorno a quali siano i valori superiori da perseguire e quali invece vadano combattuti. La diffida di Weber contiene una critica radicale e tagliente sia nei confronti dell’intuizionismo romantico sia con riguardo alle presunzioni scientistiche. «Chi cerca la “visione” – scrive Weber – vada al cinematografo. […] E vorrei aggiungere: chi vuole una predica vada in convento. La discussione sul rapporto di valore che esiste fra le civiltà qui raffrontate, non viene sfiorata neppure con una parola. È pur vero che il corso degli eventi umani, a chi ne contempli un periodo, agita e brucia il petto. Ma egli farà bene a tenere per sé i suoi piccoli commenti personali, come si fa anche dinanzi all’aspetto del mare e dell’alta montagna – a meno che egli non si sappia chiamato e dotato per la creazione artistica o ad una missione profetica»9. E ancora: «Una scienza empirica non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto ciò egli può e – in determinate circostanze – ciò che egli vuole. […] Giudicare la validità di tali valori è però una questione di fede, ed è inoltre forse un compito della considerazione speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo nel loro senso, ma non è 9 Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. P. Burresi, cit., p. 16 (virgolette nell’originale).

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sicuramente oggetto di una scienza empirica nel significato adottato in queste pagine»1. Così Weber. Ma allora, se la scienza non può dirci qual è la «retta vita», se non può darci una risposta univoca e certa alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?», che cosa può dirci? Qual è la sua funzione sociale? In base a quali servizi agli uomini essa si giustifica? La risposta di Weber è molto chiara. Le scienze della cultura, in primo luogo la sociologia, non possono dirci nulla di definitivo sulla validità dei valori. Sarebbe, sembra pensare Weber, persino troppo comodo. Ma nella gran selva dei valori in lotta fra loro, nella confusione che per l’individuo si determina a causa del «politeismo dei valori», la sociologia può assolvere un’importante funzione demistificatrice. Essa è in grado di ragguagliarci sui modi di porsi dei valori e inoltre di determinare le condizioni del loro inveramento sul piano storico. In altri termini, se la sociologia non può dirci quale valore sia in assoluto preferibile come maggiormente valido e lascia all’individuo il peso e la responsabilità della scelta, essa è in grado di calcolare il «costo» di questa scelta e di offrirci quindi gli elementi di giudizio per decidere se i mezzi di cui disponiamo sono adeguati e proporzionati agli scopi che ci prefiggiamo. La sociologia ha dunque un compito di chiarezza, non normativo ma piuttosto, si potrebbe forse dire, di «igiene mentale», rispetto agli scopi cui l’individuo aspira, cioè un compito sostanzialmente critico, meta- e anti- ideologico, tendente a porre in essere, attraverso l’adeguatezza dei mezzi rispetto al fine e il calcolo delle conseguenze dell’azione, i prerequisiti minimi per la razionalità del pensiero e 1 Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, trad. a cura di P. Rossi, Torino, 1958, pp. 61-62 (spaziato nell’originale).

48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dell’azione. Per Weber il razionalismo, e con esso la sociologia, è uno strumento di liberazione dai condizionamenti psico-sociali mediante il quale l’individuo può giungere alla razionalità pura, anche se solo formale. In questo senso, lo sbocco finale del pensiero weberiano costituisce il puntuale rovesciamento della posizione di Ferdinand Toennies, per il quale la Gemeinschaft, cioè la comunità tradizionale, costituiva il primo, fondamentale valore. Lontano e alieno da ogni recupero romantico delle tradizioni originarie, per Weber la realtà sociale si presenta come un infinito caos di conflitti sociali e di conflitti di valori, un ribollire di contrasti, non solo economici o di classe, ma di temperamento e di idee, di generazione e di stile. Nessuna visione escatologica, a più o meno lontana scadenza, gli reca conforto; egli prevede infatti, risolti i contrasti economici, altri conflitti di potere e di prerogative, legati al dibattito ideologico, al potere burocratico indifferente rispetto al mutare delle ideologie dominanti. È una visione eraclitea, non priva di una sua grandiosità pur se esposta alla tentazione dell’irrazionalismo. La stessa debolezza maggiore di Weber, il rifiuto del legame fra teoria e prassi, la sua mancanza di decisione politica, il fatto che non sia mai riuscito a compiere il «sacrificio intellettuale» che ogni decisione politica e ogni milizia ideologica comportano, si tramutano, nel Weber sociologo, in un atteggiamento così spregiudicato e aperto che gli consente una rara potenza e ampiezza d’analisi2. Fra i molti commentatori e critici, forse l’unico a cogliere questo aspetto dell’opera weberiana è Max Rheinstein, già suo studente a Monaco. Cfr. M. Rheinstein, Max Weber on Law in Economy and Society, Cambridge, Mass., 1954, p. XXXII: «Economia e società costituisce un possente tentativo di darci una tipologia e una classificazione complete di fenomeni sociali importanti e di esplorare le loro interconnessioni». 2

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Capitolo secondo Norme etiche e comportamento economico

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Fraintendimenti interessati La fortuna di un autore può conoscere tortuosi cammini e vicissitudini curiose. L’interesse per Vilfredo Pareto o per Roberto Michels, ad esempio, è rinato in Italia di rimbalzo dagli Stati Uniti. La fama di Max Weber, in Europa e nel mondo, è legata a due brevi saggi, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905) e Le sètte protestanti e lo spirito del capitalismo (1906). Bisogna riconoscere che il motivo dell’improvvisa notorietà è, almeno in parte, spurio. È difficile immaginare dei saggi di storia economica e di interpretazione socio-storiografica che diventino all’improvviso dei best-seller. La ragione fondamentale della fortuna toccata immediatamente a questi due lavori di Weber, di là dalla tesi in essi contenuta e dall’abilità del loro autore nel dimostrarla, è certamente da ricercarsi nel clima intellettuale e negli ambienti della filosofia, della storiografia e delle scienze sociali dell’epoca, spasmodicamente a caccia di autorevoli contributi da utilizzare in funzione polemica contro il materialismo storico e in generale contro il marxismo. Una volta pubblicati gli studi di Weber, che si poteva chiedere di più? Almeno ad una prima cursoria, se non ten51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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denziosa, lettura, i dati, le interpretazioni e in verità tutto il ragionamento di Weber parevano prestarsi mirabilmente ad una utilizzazione duramente critica nei confronti dell’interpretazione materialistica della storia e dello sviluppo sociale. La posizione di Marx sembrava poter essere semplicemente capovolta, rovesciata su se stessa come un guanto. Marx e Engels in tutte le loro opere maggiori, ma in maniera lapidaria nel Manifesto, avevano sostenuto la priorità della struttura economica e degli interessi materiali di vita nella determinazione delle ideologie, dei sistemi politici, giuridici, religiosi, ed ecco che un illustre studioso tedesco veniva a dimostrarci che non solo non era l’economia a dar luogo ai sistemi religiosi e morali, ma che anzi erano le norme etiche a determinare in maniera empiricamente dimostrabile la vita economica, lo sviluppo del capitalismo, della sua organizzazione e del suo «spirito». È chiaro che si tratta, sia con riguardo a Weber che al marxismo, di fraintendimenti gravi e di grossolane semplificazioni. Marx e Engels non hanno mai contrapposto meccanicamente la struttura economica, o Unterbau, ai fenomeni sovrastrutturali, o Ueberbau, facendo derivare questi ultimi, considerati prodotti secondari e storicamente passivi, dalla prima. Così come è semplicemente non vero che il problema di Weber consista nel rovesciare questo schema, si esaurisca cioè in una polemica anti-marxista di maniera. Abbiamo già detto che era lontanissima da Weber l’idea di erigere e contrapporre sistema a sistema; non solo, ma che la sua stessa metodologia, il suo modo concreto di lavorare, gli precludeva la possibilità di costruire un sistema dottrinario completo e onni-inclusivo e che in ogni caso la sua critica del marxismo non può 52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

andare confusa con l’anti-marxismo volgare. È stato in proposito opportunamente ricordato come, intervenendo nel corso del primo congresso di sociologia a Francoforte, nel 1910, Weber si soffermasse in particolare sulle deformazioni e sui fraintendimenti di cui il marxismo è stato vittima affermando in maniera esplicita che il materialismo storico viene frainteso in modo così grossolano che, se fosse vivo, Max se ne stupirebbe3. Documento acquistato da () il 2023/04/23.

Il condizionamento reciproco fra etica ed economia A questi pericoli di interpretazione tendenziosa si espone particolarmente una lettura acritica del testo weberiano più noto e suggestivo, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Che si cominci di lì è quasi inevitabile. Ma bisognerebbe tenere contestualmente presenti sia le prime ricerche sul campo, quelle sui contadini e sulle condizioni del lavoro agricolo, che sono del 1896, sia gli studi fondamentali sul concetto di «etica economica» (Wirtschaftsethik), che sono del 1917. Si rischia altrimenti di non comprendere il modo con cui Weber vedeva il nesso fra norme etiche e comportamento economico, fra religione come dottrina e come pratica quotidiana e la struttura e gli orientamenti della vita sociale. Soprattutto si rischia di ricavarne una nozione gravemente impoverita, ridotta a formula meccanica, e di non vedere in tutta la sua ricchezza e problematicità il condizionamento reciproco e bidirezionale fra etica ed economia su cui Weber non si stanca di insistere e del quaLa circostanza e le dichiarazioni di Weber sono richiamate nel diligente e utile volume di Nicola M. De Feo, Introduzione a Max Weber, Bari, 1970, pp. 51-52. 3

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le offre esemplificazioni tratte dalle cinque grandi religioni mondiali – confuciana, induistica, buddistica, cristiana, islamica – alle quali è naturalmente da aggiungersi, scrive Weber testualmente, «il giudaismo, sia perché esso contiene, per una piena comprensione delle due religioni mondiali nominate da ultimo, presupposti storici decisivi, sia a causa del suo particolare significato storico, parte reale e parte presunto, per lo sviluppo dell’etica economica moderna dell’Occidente»4. Le prime ricerche di Weber sono a questo riguardo utili. Esse ci chiariscono infatti come, fin dalle fasi iniziali del suo lavoro scientifico, Weber non partisse mai alla ricerca delle «essenze» assolute o a caccia delle «cause prime» non causate, ma si muovesse invece con grande cautela nell’indagine in base alle modalità che sono tipiche del ragionamento sociologico, essenzialmente comparativo e sinottico, cioè con il chiaro intento di identificare e mettere a confronto, collegandole, le condizioni di inveramento storico dei fenomeni, allo scopo di rilevarne le eventuali interconnessioni significative fra di essi. Per esempio, già nel primo lavoro scientifico di Weber, La storia agraria romana nel suo significato per il diritto pubblico e privato, con il quale ottiene l’abilitazione all’insegnamento della storia nel 1890, è dichiarata intenzione dell’autore di analizzare «con metodo sperimentale» le interrelazioni fra le specifiche forme e tecniche di misurazione dei terreni e i rapporti giuridici, pubblici e privati, della società globale all’epoca della romanità classica. Quello che conta in questo primo lavoro non è tanto la determinazione dei contenuti speci4 Cfr. M. Weber, L’etica economica delle religioni mondiali, Appendice II a F. Ferrarotti, op. cit., pp. 243-244.

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fici di quelle forme, determinazione con successo tentata e raggiunta da innumerevoli storici ed eruditi dell’antichità classica, quanto invece la scoperta e la determinazione di un rapporto, cioè di una «interconnessione significativa», fra norma giuridica e tecnica di misurazione agraria. È questo senso della globalità dei fenomeni sociali, è questa sensibilità al tipo e alle forme della interazione dei loro elementi costitutivi – tipo e forme da stabilirsi di volta in volta con la ricerca empirica – che rappresenta in senso proprio la qualità fondante ed essenziale del lavoro sociologico. Anche quando parla e scrive di «spirito» del capitalismo, l’espressione linguistica può essere, ed è indubbiamente, a mio giudizio, infelice, ma la sostanza e il modo di procedere della ricerca non consentono dubbi. Weber non è neppure in questo caso interessato a stabilire lo «spirito», cioè l’«essenza» del capitalismo, e a definirlo una volta per tutte racchiudendolo in una definizione formale. Egli è invece seriamente interessato a cogliere e ad analizzare le «condizioni» storiche in senso lato, ossia economiche, politiche, culturali e morali (religiose), che presiedono allo sviluppo oppure bloccano e rendono impossibile o difficile lo sviluppo di quell’individuum storico che chiamiamo «capitalismo». Concetti analitici fondamentali Il fine delle analisi weberiane non è dunque mai quello di congelare il fenomeno storico, per esempio il capitalismo o il feudalesimo o il confucianesimo, in una definizione dogmatica. Esso consiste invece nel tentare di dimostrare che tutto è sempre in movimento, che non vi sono, sul piano 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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storico, essenze iperuranie ma solo condizioni per definizione transeunti, che ogni analisi storica non può che essere analisi da un «particolare punto di vista» e che quindi rientra necessariamente in un «prospettivismo» globale che problematizza e relativizza i risultati raggiunti impedendone la solidificazione in dogma o in «legge» naturalistica. Di qui emerge con chiarezza l’importanza della dimensione comparativa inter-culturale (nel senso di cross-cultural) delle analisi weberiane e si spiega inoltre il fatto paradossale, di recente ancora sottolineato, che i concetti analitici più importanti elaborati da Max Weber spicchino in maniera molto vivida se considerati alla luce delle ricerche extra-europee, quali le ricerche concernenti i sistemi religiosi non cristiani, anche quando siano stati elaborati e si riferiscano a situazioni europee come il «protestantesimo», il «cattolicesimo laico» e lo «spirito del capitalismo». In questo senso è importante, prima ancora di passare all’esposizione delle principali risultanze weberiane con riguardo a fenomeni storici determinati, considerare brevemente alcuni concetti analitici cui Weber fa frequente ricorso e che, anzi, costituiscono i caposaldi del suo apparato teorico-concettuale soprattutto per quanto riguarda lo studio del rapporto fra norme etiche e comportamento economico. A parte le categorie fondamentali che tornano in tutti gli scritti di Weber, quali a) «agire sociale» (Soziale Handeln), che sta ad indicare quell’agire orientato in vista di comportamenti di altri individui specifici; b) «relazione sociale» (Soziale Beziehung), che indica invece la possibilità di fatto che si verifichi un «agire sociale», quale che sia la base su cui riposa tale possibilità (amicizia, amore, concorrenza, ecc.); c) «uso» (Brauch), «costume» (Sitte) e «moda», 56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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i quali indicano la ripetizione nel tempo dell’agire sociale e quindi il sorgere di uniformità legate a consuetudini di fatto («uso»), che a loro volta si consolidano («costume») e preparano il terreno a comportamenti abitudinari non codificati formalmente, ma in una certa misura vincolanti («moda»); d) «comunità» (Gemeinschaft), che consiste in una relazione sociale fondata sul sentimento soggettivo di una «comune appartenenza» (Zusammengehörigkeit); e) «associazione» (Vergesellschaftung)5, che sottolinea invece l’aspetto più propriamente razionale, e quindi prevedibile e calcolabile, dell’agire sociale, noi ci occuperemo qui di quei concetti weberiani che riguardano direttamente il no5 Il concetto di «agire sociale» o «agire in società» è veramente il concettochiave della sociologia weberiana. Si noti che Weber usa il verbo e non il sostantivo (Handeln, non Handlung) a significare il carattere fluido dei comportamenti che il termine denota. L’agire sociale è l’agire di un individuo che però, nel suo decidere i modi dell’azione e i suoi scopi, prende in considerazione la reazione e i comportamenti, passati, presenti o futuri, ma in ogni caso previsti e, in qualche modo, scontati, di altri individui. L’agire in società è l’agire nostro in quanto è agire verso altri uomini, non semplicemente insieme con altri uomini oppure sotto la loro influenza. Non comprende quindi ogni forma di agire. Per esempio, non sono agire sociale quelle azioni o comportamenti che non cadono al di fuori della sfera personale di chi agisce, come l’estasi religiosa, a meno che si approfitti di essa per influenzare la gente; così non è agire sociale compiere un exploit sportivo, a meno che, vincendo la gara, il vincitore non si riprometta premi per sé, notorietà, prestigio per il proprio Paese. Cfr., per una definizione riassuntiva, M. Weber, Il metodo delle scienze storico sociali, cit., pp. 262-274. Per un esempio chiaro, ibidem, p. 271: «Un esempio comodo per illustrare la successione dell’associazione occasionale fino all’unione di scopo è quello offerto dallo sviluppo dei “cartelli” industriali, dal semplice accordo stabilito, una volta tanto sui limiti del prezzo minimo di offerta tra i singoli concorrenti fino al “sindacato” fornito di grandi poteri propri, di uffici di vendita e di un complesso apparato di organi. Comuni a loro tutti è soltanto l’ordinamento stipulato, il cui contenuto, in conformità all’esplicita determinazione qui presupposta in forma tipico-ideale, contiene per lo meno l’indicazione di ciò che deve essere comandato, o viceversa proibito, oppure anche consentito tra i partecipanti». Per i quattro tipi di azione sociale, cfr. M. Weber, Economia e società, trad. it., Milano, 1961, vol. I, p. 23.

57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stro tema e che troviamo sinteticamente presentati in quella sorta di summa della Religionssoziologie che è la «Introduzione», intitolata L’etica economica delle religioni mondiali, alle ricerche comparative di sociologia della religione.

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L’etica economica In primo luogo occorre intendere bene che cosa Weber abbia in mente quando usa la formula «etica economica». Molti critici di Weber, Carlo Antoni fra i più attenti e illustri, hanno lamentato che l’esposizione weberiana dei testi teologici e degli assunti dottrinari delle sètte protestantiche, per esempio, non sia accurata. Da questa deficienza squisitamente dottrinaria ricavano un argomento critico che ritengono mortale per la tesi di Weber, secondo la quale si darebbe un nesso di necessità fra etica protestantica e sviluppo del capitalismo. Ma questi critici, di regola studiosi assai raffinati di testi teologici e di filosofia morale, cioè campioni del ragionamento speculativo, non si rendono conto che allorché Weber parla di «etica» intende sempre e soltanto «etica vissuta», vale a dire non le astratte regole morali, coerentemente sistematizzate in una filosofia o in una teologia morale, bensì le regole morali in quanto si traducono in comportamento medio, quotidiano. Per questa ragione l’Autobiografia di Benjamin Franklin o Il libro delle devozioni di Richard Baxter sono per lui più importanti delle Istituzioni di Calvino. I critici sparano dunque, con dovizia di dottrina, su un bersaglio sbagliato. La cosa è strana perché Weber è in proposito chiarissimo: «Non la teoria etica di compendi teologici che servono solo come mezzo di conoscenza (in certe circostanze senza dubbio importante), 58 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ma gli impulsi pratici all’agire stabiliti nelle connessioni psicologiche e pragmatiche delle religioni sono ciò che viene preso in considerazione»6. È appena necessario ricordare che queste «connessioni» non costituiscono però di per sé un nesso necessario unidirezionale, dall’etica all’economia. Che il «punto di vista» assunto da Weber sia quello di chi indaga il «peso» economico del sistema etico-religioso non significa che egli non sia consapevole che il fenomeno sociale studiato è, come tutti i fenomeni sociali, una realtà globale, la cui spiegazione non può in alcun modo porsi in termini unilaterali. Ogni interconnessione stabilita attraverso la ricerca empirica vale e si muove sempre nei due sensi. Fin dagli studi del 1904, trattando del «capitalismo», per Weber è chiaro che «ogni tentativo di spiegazione […] deve, data l’importanza fondamentale dell’economia, aver riguardo soprattutto alle condizioni economiche, ma non deve rimanere inosservato il rapporto causale inverso. Poiché il razionalismo economico dipende principalmente, oltre che dalla razionalità della tecnica e del diritto, dalla capacità e dalla disposizione degli uomini a determinare forme di condotta pratico-razionali nella vita. […] Tra gli elementi più importanti che informavano in tutti i Paesi la condotta degli uomini, appartennero nel passato le forze magiche e religiose e le idee dei doveri strettamente connessi con tali credenze»7. Cos’è dunque l’«etica economica»? Coerente con la sua impostazione generale, Weber afferma che ogni etica economica concreta è il risultato di una «complicata formaCfr. M. Weber, L’etica economica delle religioni mondiali cit., p. 244 (corsivo mio). 7 Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo cit., pp. 13-14. 6

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zione», «condizionata in modo estremamente molteplice». Infatti: «nessuna etica economica è mai stata condizionata solo religiosamente. […] Ma certamente una – si badi bene: soltanto una – delle determinanti dell’etica economica è anche la caratterizzazione religiosa della condotta di vita»8. Da questa prima definizione weberiana dell’etica economica è facile avvedersi come siamo qui di fronte ad una prospettiva più ampia di quella che caratterizza i lavori sul protestantesimo e sul capitalismo europeo. Mentre è vero che Weber intraprese le ricerche sulle religioni extra-europee e non cristiane allo scopo di trovare materiale supplementare di prova per la sua tesi del nesso fra protestantesimo e capitalismo, in modo da poter verificare tale nesso e la sua importanza dimostrando che, ove l’etica protestante o qualche suo elemento decisivo non sia presente, il capitalismo non attecchisce e non si sviluppa, bisogna riconoscere il fatto che gli studi comparativi sulle religioni mondiali hanno allargato al di là di questo obiettivo la prospettiva weberiana fino a coinvolgere non più soltanto il problema del rapporto protestantesimo-capitalismo, ma lo stesso problema generale dello sviluppo economico in senso razionale dei Paesi tecnicamente arretrati e della loro modernizzazione politica e istituzionale. Come ha molto bene rilevato S. N. Eisenstadt, l’etica economica non designa specifiche ingiunzioni religiose circa una condotta corretta in campo economico e non è neppure una semplice derivazione intellettuale o un corollario pratico dei contenuti intellettuali della teologia o della filosofia predominante in una data religione. L’etica 8 Cfr. M. Weber, L’etica economica delle religioni mondiali, cit., p. 245 (corsivo mio)

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economica, come si desume soprattutto dall’analisi weberiana delle religioni non europee, riguarda piuttosto un modello generale di orientamento «religioso» o «etico». In questo orientamento è inclusa la valutazione di una specifica sfera istituzionale basata sulle premesse di una data religione o tradizione con riguardo all’ordine cosmico e al suo rapporto con l’esistenza umana e sociale e, di conseguenza, con l’organizzazione della vita sociale. Si può pertanto concludere che l’etica economica è, per così dire, un «codice», un orientamento generale «formale», una «struttura in profondità», la quale programma o regola l’effettiva organizzazione sociale concreta. Weber però, osserva ancora Eisenstadt, contrariamente a molti strutturalisti odierni, non concepiva il codice come un mezzo puramente «formale» per organizzare una semplice serie di contenuti simbolici astratti. Lo concepiva invece come la chiave per scoprire i più importanti elementi simbolici, strutturali e organizzativi, dell’esistenza umana e sociale. Qui dunque, nelle ricerche sulle religioni non cristiane ed extra-europee, l’ambito si allargava notevolmente: l’etica economica travalicava la sfera propriamente economica e investiva la società nel suo complesso, induceva a distinzioni importanti fra «situazioni di ceto» e «situazioni di classe», spingeva a formulare concetti concernenti l’«etica di status» e l’«etica politica», vale a dire la valutazione religiosa della sfera politica o delle diverse dimensioni di status, e costringeva inoltre a distinguere, all’interno della «situazione di classe», le diverse categorie dei «possessori di rendita» (proprietari fondiari, proprietari di uomini, di Stato, di valori) suddividendoli in «classi di possesso» e «classi di profitto», classi queste ultime, primariamente condizionate dal mercato. 61 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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È bene richiamare ancora, nelle parole stesse di Weber, i concetti di «carisma» (una qualità extra-quotidiana di un uomo, non importa se reale o presunta o supposta), di «tradizionalismo» (l’adattabilità spirituale e la fede in ciò che è abitudinario o consueto come norma inviolabile per l’agire), di «potere della regola» o di «razionalismo giuridico formalistico», e quindi burocratico (il vincolo impersonale dell’oggettivo «dovere d’ufficio» il quale, come la «competenza», è determinato da norme istituite razionalmente in modo così stabile che la legittimità del dominio si trasforma in legalità della regola generale). Questi concetti sono definiti, sono anzi mostrati nell’atto stesso in cui vengono ricavati mediante l’analisi di concrete situazioni storiche, nella citata introduzione alle «ricerche comparative di sociologia della religione». Ma è indubbio che il genio analitico di Weber, fin dai lavori sul protestantesimo e capitalismo, si mostra in piena evidenza. Il capitalismo come sete di guadagno razionalmente temperata Cos’è il capitalismo? Si tratta di un «prodotto» tipico ed esclusivo della civiltà europea cristiana occidentale oppure lo troviamo anche presso altre civiltà dotate di differenti sistemi religiosi, politici, culturali? Nel tentare di rispondere a queste domande preliminari, Weber rovescia nettamente l’opinione corrente circa il capitalismo e i capitalisti, parte dalla nozione del senso comune e ne dimostra tutta l’insufficienza. Il senso comune e l’opinione media vedono nel capitalismo, in primo luogo, la sete di guadagno e di lucro, la classica auri sacra fames. Weber nota di passata 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che questo luogo comune è a volte nobilitato anche dalla convinzione di noti studiosi, come, per esempio, Werner Sombart. Ma questa connotazione è troppo universale per poter essere d’aiuto nella definizione di un fenomeno come il capitalismo. La sete di lucro, osserva Weber, l’aspirazione a guadagnare denaro più che sia possibile «non ha di per sé stesso nulla in comune con il capitalismo». Questa aspirazione infatti si ritrova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti… Il catalogo weberiano potrebbe continuare all’infinito. Ma tutte le società, osserviamo, sono in un grado maggiore o minore «società acquisitive», per usare la formula di Richard H. Tawney. L’impulso al denaro, come scrive Werner Sombart (nella sua opera Il capitalismo moderno) è un impulso a carattere universale. Ciò che differenzia una società e una civiltà rispetto alle altre è il modo di acquisizione, sono le modalità attraverso le quali l’impulso al denaro trova la sua realizzazione pratica e il suo soddisfacimento. Può darsi che Bertold Brecht abbia ragione quando afferma che fra il fondatore e lo scassinatore di una banca non corre una differenza sostanziale. Ma la differenza tecnica del loro modo di operare è indubbia. I grandi capitalisti che cominciarono a dominare la scena sociale e politica degli Stati Uniti d’America dopo la conclusione della guerra civile sono tradizionalmente chiamati «Robber Barons», o baroni del furto su vasta scala, ma è indubbio che fra questi magnati dell’industria e i pirati di un tempo vi sono differenze operative e motivazionali profonde. Queste differenze possono riassumersi in due punti fondamentali: a) il capitalismo si identifica con la tendenza al 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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guadagno in una razionale e continua impresa capitalistica, al guadagno sempre rinnovato, cioè alla rendibilità; in un ordinamento capitalistico, sottolinea Weber, una singola impresa capitalistica che non si orientasse secondo l’eventualità di raggiungere la «rendibilità», o redditività, sarebbe condannata a perire; mentre dunque il pirata fa dei colpi di mano e il suo guadagno è strettamente occasionale, il capitalista è tale nella misura in cui organizza su una base continuativa la propria impresa in base a delle aspettative razionalmente calcolate; b) rispetto alle forme produttive dell’antichità classica e di altre civiltà, feudali ed extra-europee, l’Occidente conosce nell’epoca moderna, afferma Weber, una specie di capitalismo ben diverso e che altrove non si è mai sviluppato: l’organizzazione razionale del lavoro formalmente libero. Non solo dunque il capitalismo non può venire identificato con la sete di guadagno e l’irrazionale impulso al denaro, ma costituisce anzi esattamente il contrario; esso presuppone e, in ogni caso, richiede per il suo sviluppo nel tempo il «temperamento razionale» di tale impulso. Weber riassume il suo pensiero su questo punto-cardine della sua teoria. Egli sembra rendersi conto che l’enfasi sul carattere razionale e di calcolo dell’impresa capitalistica concorre in maniera determinante a dare del capitalista un ritratto quanto mai, e forse immeritatamente, fotogenico. Ma la tesi ha un suo prezzo che Weber appare disposto a pagare, limitandosi ad avvertire il lettore che la razionalità di cui discorre, a proposito di capitalismo e di capitalisti, è una razionalità puramente tecnica od operativa; è, in altri termini, una razionalità che prescinde da un giudizio di valore sostanziale e finisce per coincidere con l’abilità a 64 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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fare i propri interessi, cioè a sfruttare le circostanze volgendole a proprio profitto. «Un atto economico capitalistico – afferma Weber – significa per noi un atto che si basa sull’aspettativa di guadagno derivante dallo sfruttare abilmente le congiunture dello scambio, dunque da probabilità di guadagno formalmente pacifiche. L’acquisto violento (formale ed attuale) segue le sue leggi particolari, e non è utile – se anche non si possa proibire di farlo – porlo sotto la stessa categoria coll’attività orientata secondo le probabilità di guadagno nello scambio»9. Rinunciando alla violenza aperta e alla costrizione personale (vedi invece lo schiavismo nell’antichità classica e i servi della gleba nell’epoca feudale), il capitalismo ha bisogno di quel momento integrativo, impersonale, formalmente libero, in cui il rapporto lavoratore-datore di lavoro si pone come una libera contrattazione a carattere giuridico e nel quale si sviluppa la concorrenza fra le imprese che è il «mercato». Weber tocca qui un aspetto cruciale e ne è ben consapevole. La libertà di contrattazione è per il capitalismo fondamentale; le libertà individuali illuministiche svelano qui, dissipati i vapori dell’entusiasmo rivoluzionario e l’idillio delle universalistiche parole d’ordine su «liberté, égalité, fraternité», nella loro autentica, economicamente corposa funzione sociale. Il principio della libertà individuale formale non solo garantisce il diritto alla proprietà privata dei mezzi di produzione; esso garantisce la possibilità effettiva dell’acquisizione e la possibilità di movimento sul mercato attraverso la lotta della concorrenza, che è, annota Weber, libera «formalmente», anche se nella realtà, cioè «materialmente», è dominata dai monopoli e dalle intese di cartello fra le grandi imprese. 9

Cfr. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, cit., p. 5.

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Il problema della manodopera subalterna viene risolto, a dir poco, in maniera brillante. Materialmente identica la sua situazione di vita a quella dello schiavo classico; l’operaio moderno è formalmente libero di vendersi al miglior offerente, come se la sua potenza contrattuale fosse pari alla controparte detentrice del capitale; il capitalista realizza così, sul piano effettivo dei rapporti di forza, un vantaggio cospicuo rispetto al proprietario di schiavi dell’antichità classica che era tenuto a badare ai suoi famuli in quanto membri della sua famiglia, scorte vive nell’ambito della sua economia domestica. La razionalità formale, che trova espressione nel sistema giuridico dell’Occidente, che implica il funzionamento di una pubblica amministrazione impersonale e una struttura istituzionale politica «democratica», che mitiga l’impulso razionale a far denaro incanalandolo nella routine burocratica delle procedure produttive e distributive dell’impresa, continuative nel tempo e «scientificamente» organizzate, trova il suo supporto e la giustificazione ultima nel principio della libertà individuale che definisce la civiltà europea occidentale liberale, frutto cospicuo e insieme capolavoro della lotta rivoluzionaria condotta dalla borghesia illuministica contro i privilegi dell’aristocrazia. Di questa borghesia Weber si sente figlio, legato ed educato ai suoi ideali e alla sua visione del mondo. Il carattere patetico della sua opera e della sua figura di uomo deriva dal fatto che questo figlio della borghesia non può, per «onestà intellettuale», chiudere gli occhi sulle sue contraddizioni e sull’abisso che si apre fra diritti e principi astrattamente sanciti e condizioni materiali effettive di vita. È difficile tuttavia non cogliere un’eco di orgoglio là dove Weber delinea, in Economia e società oltre che 66 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nell’Etica protestante, le caratteristiche di razionalità, «esclusivamente occidentali», dell’impresa capitalistica, e quando si domanda, alquanto retoricamente, perché lo stesso sviluppo non ha avuto luogo in Cina, perché non in India. «Soltanto l’Occidente – afferma Weber in tono forse inconsapevolmente trionfalistico – conosce imprese capitalistiche razionali con capitale fisso, lavoro libero, specializzazione e connessione razionale del lavoro, e divisione delle prestazioni nell’ambito di una pura economia di mercato, sulla base di economie capitalistiche a scopi acquisitivi. Perciò soltanto l’Occidente conosce la forma capitalistica dell’organizzazione del lavoro di carattere puramente volontario, dal punto di vista formale, come la forma tipica e predominante di copertura del fabbisogno di ampie masse di uomini, con espropriazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e con appropriazione delle intraprese da parte di possessori di azioni. Soltanto esso conosce il credito pubblico in forma di emissione e di finanziamento come oggetto di imprese razionali, il commercio di borsa delle merci e dei titoli, il “mercato del denaro” e il “mercato del capitale”, i gruppi monopolistici come forma di organizzazione razionale, a scopo acquisitivo, della produzione dei beni su base imprenditoriale e non soltanto dello smercio di beni»10. Questo ritornello, questa specie di refrain, «Nur der Okzident…», la cui esuberanza è a malapena e con difficoltà frenata dalla serietà definitoria della prosa scientifica weberiana, non può non richiamare alla mente il tono ditirambico di quelle pagine del Manifesto di Marx e di Engels in cui si saluta la borghesia come forza rivoluzionaria che ha 10

Cfr. M. Weber, Economia e società, cit., p. 165.

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spazzato via usi e costumi tradizionali, liberando l’umanità dagli idiotismi della vita rurale e unificando economicamente, cioè praticamente, il pianeta, penetrandone la vita di una profonda esigenza razionale. Ciò che però in Marx e Engels era la premessa per una scelta rivoluzionaria, in Weber rischia di restare come l’espressione di un inconsapevole, «filiale» attaccamento emotivo.

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La mentalità utilitaristica Ma perché solo nell’Occidente la razionalizzazione della vita ha potuto prendere l’avvio e coinvolgere i centri della produzione economica, non limitandosi alla sfera intellettuale (com’era avvenuto presso altre civiltà: mandarini in Cina, dotti laureati in India), ma al contrario influendo direttamente anche sul modo quotidiano di vita? Perché soltanto nell’Occidente la scienza non si è limitata ad essere speculazione pura, appannaggio di una élite ristretta, ierocratica o meno, ma, fin dagli inizi dell’epoca moderna, si è fatta tecnica, si è, cioè, tramutata in scienza applicata alla produzione dei beni, modificando con ciò profondamente i metodi di produzione e insieme, contestualmente, i modi di vita di masse ingenti di lavoratori? Weber ritiene che la razionalizzazione del ciclo produttivo e l’applicazione della scienza nel corso della produzione non sarebbero state possibili senza la mediazione cruciale di una nuova visione del mondo e della vita, di un’inedita auto-immagine dell’uomo, conseguentemente di una nuova concezione della propria posizione nel mondo, dei suoi doveri verso di sé e verso i propri simili. Questa nuova visione Weber la trova in quel fenomeno tipicamente europeo 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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occidentale che è l’etica protestante, specialmente nella sua versione calvinistica e in quella di alcune sètte specifiche. Ma poiché, come abbiamo più sopra ripetutamente accennato, egli non è interessato a stabilire l’esattezza filologica di determinati testi teologici, bensì ad accertare come l’etica protestante sia vissuta e quali risultati abbia nella sfera dell’attività economica e in generale nella vita pratica, non fa meraviglia che in Benjamin Franklin e nella «mentalità utilitaristica» che egli emblematicamente rappresenta, Weber trovi il suo «modello» o «tipo ideale» di uomo nuovo, razionale, attento ad adeguare i fini desiderati ai mezzi disponibili, buon amministratore delle proprie risorse, geloso della propria autonomia e destinato ad unire la saggezza alla prosperità e a godere di una vita laboriosa, rispettata da tutti e felice. Ma come si giustifica, sul piano etico o della legittimazione profonda, questa mentalità utilitaristica che mentre accumula ricchezze non intende poi godersele, come invece facevano i principi italiani del Rinascimento e dell’età moderna, ma tende invece a reinvestirle in investimenti produttivi a media e a lunga scadenza, cioè non speculativi, contentandosi per sé di una vita semplice e frugale, tutta casa e bottega? È l’etica protestante che giustifica e legittima questa mentalità utilitaristica, con tutti gli atteggiamenti che ne sono i pratici corollari, ed è questa mentalità religiosamente giustificata che ci fa assistere ad una straordinaria eterogenesi dei fini: si comincia con il risparmiare e il reinvestire per divenire prosperi e rispettati nella comunità e avere in ciò un segno tangibile del favore di Dio e della predestinazione alla salvezza eterna; si continua mettendo in piedi imprese industriali e commerciali, 69 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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lavorando metodicamente per santificare la vita e assolvere ai doveri del proprio Beruf, che è professione e vocazione insieme; non ci si diverte, non si va ai night-clubs, non si è gaudenti, neppure artisticamente parlando, ma si è semplici e indefessi nel lavoro; si tende così ad assicurarsi la salvezza dell’anima e si finisce per dar vita alle più grandi banche svizzere e a imprese con giri d’affari giganteschi. Scegliendo Franklin come suo «tipo ideale», cioè come rappresentante medio della nuova mentalità utilitaristica, Weber ha indubbiamente avuto la mano felice. Il personaggio è in verità tutt’altro che medio: versatile come Ulisse, è affarista, autodidatta, diplomatico, scienziato. È uno dei fondatori degli Stati Uniti e insieme è l’inventore del parafulmine. La sua Autobiografia è poi un continuo godimento per chi non abbia perduto, insieme con il senso della buona letteratura, il gusto, un poco picaresco, per le tranches de vie servite fresche, senza troppi riguardi, al naturale. I testi da cui Weber cita ghiottamente sono quelli delle Massime. Gli sembrano perle che, da sole, dicono di più dello «spirito» del capitalismo di interi trattati: «Ricordati che il tempo è denaro. […] Ricordati che il credito è denaro. Se uno lascia presso di me il suo denaro esigibile, mi regala gli interessi, o quanto io in questo tempo posso prenderne. Ciò aumenta ad una somma considerevole se un uomo ha molto e buon credito, e ne fa buon uso. Ricordati che il denaro è di natura sua fecondo e produttivo. Il denaro può produrre denaro, ed i frutti possono ancora produrne, e così via. Cinque scellini impiegati diventano sei, e di nuovo impiegati sette scellini e tre pence e così via finché diventano cento lire sterline. Quanto più denaro è disponibile, tanto 70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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più se ne produce nell’impiego, così che l’utile sale sempre più alto. Chi uccide una scrofa, uccide tutta la sua discendenza fino al millesimo maialino. Chi getta via un pezzo di cinque scellini, uccide! (esclamativo e sottolineatura di Weber) tutto quel che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire sterline. Ricordati che, come dice il proverbio, chi paga puntualmente alla data promessa, può in ogni tempo prendere a prestito tutto il denaro di cui i suoi amici non hanno bisogno. Ciò è di grande utilità. Insieme colla diligenza e colla sobrietà, niente aiuta un giovane a farsi strada nel mondo quanto la puntualità e l’esattezza in tutti i suoi affari. Perciò non tenere mai il denaro preso a prestito un’ora di più di quel che tu hai promesso acciocché il risentimento del tuo amico per il ritardo non ti chiuda per sempre la sua borsa…». È un bel concentrato di filisteismo e di ossequio al controllo sociale della comunità. Ciò che può indurre a reagire in questi termini è l’indubitabile fatto che ogni qualvolta Franklin invoca l’onestà lo fa solo ed esclusivamente non perché l’onestà è un valore in sé (la cosa lo lascia indifferente), ma perché l’onestà è utile e consente di concludere buoni affari, di far soldi. Due piccioni con una fava: la coscienza a posto e la borsa piena. Ma Weber ha ragione quando rileva che Franklin vuol guadagnare non quanto gli basta, bensì vuol «guadagnare quanto può», e che questo spirito sportivo, per così dire, applicato agli affari costituisce il nucleo di un fenomeno esclusivamente europeo occidentale: «Un capitalismo è esistito in Cina, in India, in Babilonia, nell’antichità e nel Medioevo; ma… gli mancava quel particolare ethos»11. 11

Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., pp. 37-38.

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Queste interconnessioni sono interessanti, ma vanno dimostrate. E non vanno soltanto dimostrate nei confronti delle civiltà non cristiane ed extra-europee; sarebbe in fondo impresa stancante e di grande lena, per la mole enorme di materiali e di informazioni da raccogliere e da organizzare, ma anche relativamente facile. Queste interconnessioni vanno dimostrate all’interno dell’Occidente europeo.

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Perché il capitalismo solo in Occidente Immaginiamo allora Weber che si mette di fronte alla mappa d’Europa e si interroga: perché il capitalismo, con il razionalismo anti-tradizionalistico e con l’individualismo e con l’amministrazione strettamente impersonale burocratica e con il prevalere del capitale finanziario impiegato in imprese industriali (titoli mobiliari) sulla rendita fondiaria, si è soprattutto sviluppato nei Paesi del Nord Europa invece che in quelli dell’Europa mediterranea? Di più: come mai, all’interno stesso dei Paesi dell’Europa settentrionale, è soprattutto nelle regioni nordiche di questi Paesi che si è sviluppato il capitalismo, con i suoi impieghi tecnici e le sue scuole professionali, mentre è in posizione di minoranza nelle regioni meridionali di questi stessi Paesi? Weber agisce qui da sociologo classico: non si pone un piccolo problema da specialista (per esempio: quale fattore costituisce la singola variabile determinante più decisiva per il morale degli operai del reparto Z della fabbrica XY); si rivolge un interrogativo a livello macro-sociologico rispetto ad una questione da cui dipendono lo «spirito» ma anche il destino, l’avvenire di tutta un’epoca storica. L’atteggiamento di Weber richiama quello del suo grande contemporaneo, Émile Durkheim, 72 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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anche lui fermo davanti alla carta geografica d’Europa, serie statistiche dei suicidi alla mano, a domandarsi come mai il tasso dei suicidi saliva nei Paesi nordici mentre scendeva, fin quasi ad azzerarsi, a mano a mano che si consideravano i Paesi del Sud. Durkheim pensava di aver trovato una correlazione significativa fra suicidio e grado e tipo di coesione sociale, e trovava anche che la coesione era aiutata da una religione come quella cattolica, familiare, piuttosto tradizionale, con i confessori che praticano la psicoanalisi a orecchio ma gratis, l’intercessione presso il Padreterno della Vergine Maria e di una legione di Santi variamente specializzati ad affrontare le traversie della vita. Il tipo di risposta di Weber è forse più complesso, le sue statistiche non sono così aggiornate e in ogni caso sono di più difficile interpretazione, ma è in fondo analogo. Anche per Weber la diffusione dello «spirito» del capitalismo ha attecchito, quasi come un fenomeno di massa, presso i protestanti mentre stenta o addirittura si spegne fra i cattolici. Che significa? Forse che i protestanti sono divenuti più «mondani», più «abitanti di questo mondo» che i cattolici? Le cose non stanno certamente così. Poiché con la Riforma non è tanto lo spirito religioso che si è affievolito; al contrario, lo spirito religioso si è semmai rafforzato, il tradizionale lassismo cattolico e in particolare romano è stato severamente censurato: «Non un eccesso, ma un difetto di dominio religioso sulla vita fu quel che trovarono vituperevole i riformatori che sorsero nei Paesi allora più economicamente sviluppati»12. Si potrebbe pensare che i cattolici, essendo minoranza, partono da posizioni di svantaggio relativo con riguardo all’attività economica e al successo 12

Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., p. 23.

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negli affari. Ma tutta la storia dello sviluppo economico moderno è lì a testimoniare che esso è appunto l’opera di minoranze, di regola più pronte a rompere la routine, a darsi alle innovazioni, e quindi psicologicamente più portate a tentare nuove strade13. Weber cita altri fatti che gli appaiono rilevanti per la questione, come il tipo di scuola cui cattolici e protestanti rispettivamente iscrivono i propri figli (scuole umanistico-tradizionali per i cattolici; tecniche per i protestanti), e giunge già nelle prime pagine a formulare con chiarezza la sua tesi: il capitalismo si è diffuso specialmente fra i protestanti per la semplice ragione che fra di essi ha trovato le condizioni morali, a parte quelle economiche, adatte; la vita regolata religiosamente ha favorito la professionalizzazione rigorosa delle attività, anche economiche; il metodismo religioso, che è appunto distaccato dal mondo, ha significato e significa in realtà, senza che i protagonisti se lo siano proposti consapevolmente, attività economica e imprenditoriale metodica, quindi accumulo di capitale, conquista dei mercati, espansione industriale senza precedenti. «Ancor più appariscente è il nesso – scrive Weber – che non ha quasi bisogno di essere ricordato di una regolamentazione religiosa della vita con uno sviluppo intenso del senso degli affari presso un gran numero di quelle sètte, il cui distacco dal mondo è divenuto proverbiale al pari della loro ricchezza…»14. Il fenomeno che a questo punto del ragionamento weberiano va tenuto presente è che il concetto di «etica sociale» su cui si fonda il capitalismo non è «nato sul terreno del Su tutta la questione si veda il mio Trattato di sociologia, cit., soprattutto la Parte terza, «Verso l’autonomia operativa del giudizio sociologico», cap. III, «Razionalismo, capitalismo e potere», pp. 155-192. 14 Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., p. 31. 13

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capitalismo», viene da altre, più remote origini, ed è questo concetto che appunto va spiegato in tutte le sue connessioni. Questo concetto ha origini religiose. È legato alle regole di vita che trascendono il puro impulso al guadagno, lo razionalizzano e ne fanno un semplice sintomo attraverso il quale l’individuo credente può avere la certitudo salutis, ossia la certezza di essere predestinato alla salvezza. Il capitalismo per le sue operazioni ha bisogno di una concezione del lavoro quotidiano come di un dovere per ciascuno, un dovere che non trova alcun supporto in una concezione edonistica della vita. Per questa ragione, la concezione del lavoro richiesta dal capitalismo esige una fondazione etica. Ma la sola etica in grado di offrire coerentemente tale supporto o fondazione è, a giudizio di Weber, l’etica protestante. L’alternativa consiste nel ritenere che al dovere del lavoro metodico si sia spinti anche solo dal «razionalismo pratico», ossia da «quella specie di condotta di vita che pone coscientemente il mondo in relazione soltanto con gli interessi materiali del singolo io, e giudica da questo punto di vista»15; stile di vita, quest’ultimo, che secondo Weber è ancor oggi la caratteristica tipica dei popoli del «libero arbitrio», i Francesi e gli Italiani. Questa alternativa potrebbe fare appello ad almeno due argomenti: a) non siamo affatto consapevoli, quando andiamo oggi in fabbrica o in ufficio, di obbedire a imperativi di ordine religioso; ma Weber risponde che l’odierno ordinamento capitalistico è un «enorme cosmo» in cui il singolo viene immesso nascendo e che a lui viene dato, per lo meno in quanto singolo, come un ambiente praticamente non mutabile, senza notare che durante tutto il processo di socializzazione primaria, da zero 15

Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., p. 68 (corsivo nel testo).

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a sei, sette anni, una quantità di valori e di comportamenti sono direttamente internalizzati nel bambino, dal controllo intestinale e toilet training alle nozioni di ciò che è bene e di ciò che è male; b) l’eudemonismo egocentrico, mentre può in parte spiegare la spinta a massimizzare i propri vantaggi materiali, non è in grado di render conto di una caratteristica fondamentale ed essenziale dello «spirito del capitalismo», cioè dell’atteggiamento di fronte alla propria vocazione professionale come di fronte a un dovere, il cui assolvimento prescinde da ricompense sia psicologiche che finanziarie. Il concetto di Beruf Siamo arrivati al concetto di Beruf16. L’uomo di religione può essere certo del suo stato di grazia e della sua salvezza in due casi: in quanto si sente un recipiente oppure, secondo caso, in quanto si sente uno strumento della Divina Potenza. Nel primo caso la sua vita religiosa si piega alla mistica del sentimento e tende ad essere passiva, lontana dal mondo e dalle sue opere. Nel secondo caso invece tende ad essere attiva, si offre con slancio all’ascesi nel mondo. Al primo tipo si avvicina maggiormente Lutero, al secondo appartiene il Calvinismo. Ma il Dio di Calvino non si contenta, per i suoi fedeli, di opere buone occasionali; pretende una santità di opere elevata a sistema. È qui che entra in gioco il concetto di Beruf, con la sua duplice connotazione di «professione» e nel contempo di «chiamata», di «vocazione» in senso religioso. Nessun dubbio che questo significato della 16 Per una trattazione più estesa del concetto di Beruf, si veda il mio Trattato di sociologia, cit., specialmente pp. 159 segg.

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professione, tipico dei puritani calvinisti, sembra preludere e in tutto attagliarsi al comportamento e agli atteggiamenti del «capitano d’industria» iperattivo, instancabile, «demiurgico», come più tardi dirà Joseph A. Schumpeter, che da lui e dalla sua iperattività innovativa farà dipendere la rottura della stagnazione e l’avvio dello sviluppo economico su vasta scala. Non è difficile cogliere in questa attività frenetica, che sembra avere l’accumulazione della ricchezza come scopo esplicito ma che in realtà si sviluppa con una dismisura e con un gusto per l’attività da porla come fine a se stessa, il riflesso di una profonda angoscia esistenziale a sfondo religioso, se non la diretta conseguenza dell’insicurezza psicologica derivante al singolo fedele di Calvino dal fatto che non può mai dirsi certo di essere fra gli eletti, che si trova solo, senza l’intermediazione di alcuna chiesa, di fronte non al Dio paterno del Nuovo Testamento, bensì di fronte al giudice terribile e imperscrutabile che da tutta l’eternità ha deciso chi sarà salvato e chi sarà dannato, il Dio collerico, geloso e imprevedibile di Israele. Ma è anche facile osservare che l’enfasi con cui Weber sottolinea la dottrina calvinistica della grazia e della predestinazione si basa su un solo documento del Calvinismo, e non dei più importanti e la cui comprensione diviene almeno problematica fuori dal contesto generale, cioè la Confessione di Westminster del 1647. In secondo luogo, e questo è un dato di fatto che indebolisce tutta la geniale costruzione weberiana, che fra quel documento e la particolare versione del Calvinismo che ad esso corrisponde, da una parte, e i fenomeni dello «spirito del capitalismo», con i protestanti in testa e i cattolici in coda, sia in Europa che nel Granducato del Baden, dall’altra, vi è uno iato di due secoli, che nes77 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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suna sottigliezza sociologica è sufficiente a colmare. Detto ciò, non si può negare l’acutezza di Weber nel tratteggiare la figura e il comportamento dell’uomo virtuoso, secondo le regole calvinistiche, e degli effetti che tali regole esercitano sul suo comportamento quotidiano e sul suo atteggiamento rispetto alla sfera economica. Nessun dubbio che Weber riesce, contrapponendo Calvino a Lutero, ritagliando nella complessa dottrina di Calvino alcuni aspetti ed esaltandoli, a darci alcune chiavi esplicative plausibili che rendano conto dell’apparente assurdità del comportamento di individui i quali continuano a lavorare indefessamente giorno per giorno per accumulare ricchezza anche dopo che tale accumulazione ha avuto luogo, con suprema indifferenza rispetto ad essa, senza darsi respiro, senza goderne in alcun modo, quasi legati da una maledizione oscura o tenuti a una misteriosa scommessa. Essi lavorano instancabilmente perché la loro «ascesi», invece che nel monastero, sono chiamati a compierla nel mondo, non attraverso la contemplazione o la povertà francescana, ma nel pieno turbine di una vita activa i cui frutti finanziari, «capitalistici», non sono intesi per il godimento del singolo che li ha prodotti, ma hanno la funzione di indicare, se pure in maniera mai completamente certa e assoluta, che egli è guardato con benevolenza dal Dio terribile di Calvino e che forse è compreso nell’esiguo numero dei predestinati alla salvezza. Nessuno può con certezza sapere se sarà salvo oppure dannato; ciò che si sa con certezza è soltanto questo: che una parte dell’umanità sarà salva e che un’altra parte sarà dannata. Weber riesce qui, esattezza storica a parte, a darci la dimensione esistenziale del dramma del puritano con una potenza di immagini che presuppone un’eccezionale capacità 78 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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interpretativa, tale da far rivivere l’epoca nei suoi contorni storici e la situazione psicologica dei suoi protagonisti e addirittura da profilarsi come il riflesso trasposto di una esperienza autobiografica fondamentale. «Nella cura, che per gli uomini del tempo della Riforma era la più importante, quella della salute eterna, l’uomo era avviato a seguire in solitudine la sua strada incontro a un destino fisso dall’eternità in poi. Nessuno lo poteva aiutare»17. Viene naturalmente eliminata l’opera di mediazione della chiesa; liquidati i sacramenti; persino nella sepoltura dei propri cari il puritano genuino ripudia ogni traccia di cerimonia, canti e suoni; nessun elemento magico-sacramentale viene tollerato. E qui Weber ha un colpo d’ala caratteristico, anche se, come ogni colpo d’ala, riesca poi difficile darne una puntuale, empirica dimostrazione: «Quel gran processo storico-religioso dell’eliminazione dell’elemento magico nel mondo che si iniziò con le antiche profezie giudaiche, e il quale con il pensiero scientifico greco rigettò tutti i mezzi magici nella ricerca della salute considerandoli come superstizione delittuosa, trovò qui la sua conclusione»18. In termini di organizzazione sociale, che è la preoccupazione di Weber, ciò provocò, rispetto al cattolicesimo ma anche al luteranesimo, un cambiamento sostanziale di atteggiamento nei riguardi di quel concetto fondamentale del cristianesimo che è l’«amore per il prossimo». È questo un passaggio delicato; è il momento in cui si opera la transizione dall’atteggiamento religioso al comportamento sociale dell’individuo nel senso più ampio, sia come agente economico propriamente inteso sia come membro della società 17 18

Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., pp. 104-105. Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., pp. 105-106.

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globale. Per il calvinista, infatti, poiché l’amore del prossimo deve servire solo alla gloria di Dio e non delle creature, esso può e deve manifestarsi in primo luogo nell’adempimento dei doveri professionali imposti dalla lex naturae, cioè dalla legge della natura che è opera di Dio, e quindi assume il carattere obiettivo e impersonale di un servizio reso all’ordinamento razionale della società in cui viviamo. Dietro la terza edizione della Institutio di Calvino, nella quale la dottrina del «decretum horribile» della predestinazione per grazia ebbe il suo svolgimento completo, dietro lo stesso «spirito del capitalismo» che Weber ha in mente, che è stato a suo giudizio posto in essere da quella dottrina e che ha ancora come protagonista il singolo capitalista, proprietario e imprenditore a un tempo, teso a massimizzare profitti e produzione ad majorem Dei gloriam, si profila l’ombra del grande padre dell’«organizzazione scientifica del lavoro», l’ingegnere di Philadelphia in cui pessimismo calvinistico e mentalità tecnocratica razionalizzatrice si mescolavano in egual misura, Frederick Winslow Taylor. Il timore di essere condannati senza speranza d’appello da tutta l’eternità in questi calvinisti, futuri inconsapevoli capitalisti, doveva essere fortissimo, ma ecco che gli effetti di questo timore, a detta di Weber, in Bunyan e in Alfonso de’ Liguori, per esempio, sono assai diversi, sono anzi radicalmente antitetici; la stessa paura che spinge questi alla più profonda umiliazione di se stesso, sprona quello ad una lotta sistematica e senza tregua con la vita, a cambiare l’ambiente, a organizzare razionalmente la società. Da dove viene questa radicale differenza? Weber crede di averne scoperto l’origine nell’interpretazione data dal Calvinismo all’ammonimento dell’Apostolo di consoli80 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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dare la propria «vocatio» conquistando nella lotta, cioè nel lavoro professionale quotidiano, la certezza soggettiva della propria elezione e giustificazione. «Il fatto che il lavoro professionale mondano – conclude Weber – fosse ritenuto valido a tale scopo, che esso fosse considerato […] come il mezzo adatto per reagire contro i timori religiosi, trova […] la sua ragione in caratteri profondi della sensibilità religiosa coltivata dalla Chiesa Riformata, i quali vengono poi chiaramente alla luce, col loro contrasto con il Luteranesimo, nella dottrina della giustificazione mediante la fede»19. Istanze critiche: la Riforma o invece la Controriforma è essenziale? Da un cinquantennio, ormai, la tesi weberiana sul nesso protestantesimo-capitalismo è sottoposta a un fuoco di fila quasi ininterrotto. La tesi resiste. Perché? Credo che si debba riconoscere che la tesi resiste perché è formulata in modo che, se non può venire conclusivamente dimostrata come vera, non può neppure essere demolita come falsa e irrilevante. S. N. Eisenstadt ha tuttavia raccolto con diligenza un catalogo di critiche a Weber, dando soprattutto la preferenza a quelle relativamente recenti (per i contemporanei bastano le vivaci note a pié di pagina di Weber stesso nelle ulteriori edizioni dei suoi libri) e inoltre a quei critici che non si limitano alla notissima ricerca L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, ma affrontano invece l’esame delle analisi weberiane delle religioni non cristiane ed extra-europee. Vengono così citati Julius Guttman (1925) che trova 19

Cfr. M. Weber, L’etica protestante ecc., cit., p. 118.

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insostenibile la frattura delineate da Weber fra giudaismo profetico e giudaismo rabbinico; J. Katz (1961) osserva che nel giudaismo antico le attività religiose non risultano essere mai state sanzionate come la dimensione centrale degli sforzi umani; a proposito della Cina e del Confucianesimo, O. Van der Sprenkel (1964) e C. K. Yang (1964) trovano che l’analisi di Weber appare ancora oggi sostanzialmente adeguata mentre, a proposito dell’India, Milton Singer (1961) rivolge a Weber una serie di critiche stringenti, che nel suo esame dell’induismo e delle religioni asiatiche non si sarebbe semplicemente reso conto oppure avrebbe consapevolmente omesso di tener conto di elementi fondamentali delle religioni asiatiche (quali: una componente di ascetismo intramondano; la razionalità economica di mercanti, artigiani e contadini; un sistema teologicamente coerente di determinismo impersonale nel Vendata e nel buddhismo, con conseguenze dirette per l’etica laica; lo sviluppo di una scienza «empirica razionale»; individualismo religioso e monoteismo personale); Clifford Geertz critica a fondo (1956, 1960, 1963) le unilateralità e le forzature di Weber a proposito delle religioni non cristiane (specie quelle, di cui Geertz si occupa, cioè quelle Giavanesi), ma anche in lui è ancora discernibile il punto di partenza weberiano; per il Giappone, Robert Bellah (Tokugawa Religion, 1957) trova nell’ethos generale del samurai, com’è sostenuto dalla setta Singaku con una combinazione di shintoismo e confucianesimo, l’equivalente dell’etica protestante, divenuto un fattore importante dello sviluppo in senso moderno della vita socio-economica giapponese. Ma è nell’opera di Herbert Lüthy che troviamo una serie di osservazioni critiche le quali chiamano direttamente in 82 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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causa la tesi principale di Weber, vale a dire il nesso fra la Riforma protestante e lo sviluppo dello spirito del capitalismo nell’Europa occidentale20. L’avvio della critica di Lüthy è, sulle prime, del tutto simile a quello, consueto, delle critiche mosse dagli storici. Par di leggere Cantimori o Sestan. Per esempio: «Si può ripetere con il Landshut che, in sostanza, la sociologia di Max Weber è il tentativo di dare una analisi della formazione sociale dell’età moderna in Europa, formazione sociale specifica, storicamente determinata […] ma Max Weber non è rimasto fedele (nel senso della conseguenza) alla sostanza, alla “intenzione” fondamentale del problema che si era posto, ed è deviato dalla indagine critica e storicamente determinata nelle astrazioni della sociologia formale…»21. Ma presto, a ben guardare, la critica di Lüthy si fa più avvertita, non si limita a ripetere lo stanco pregiudizio contro il formalismo della sociologia, morde nella sostanza. Lüthy comincia col dire che è quanto meno azzardato far dipendere un grande evento storico da una «singola causalità», sia spirituale che materiale; inoltre, che lo scisma provocato all’interno della civiltà occidentale dalla Riforma protestante non ebbe il carattere così drammatico e non scosse l’unità fondamentale di tale civiltà come invece era accaduto con lo scisma fra Roma e Bisanzio. Ma dopo questi prudenti preliminari, Lüthy sospende un dubbio su quello che può considerarsi come il cuore dell’analisi weberiana, vale a dire l’unione del principio della libertà e responsabilità individuali con 20 Cfr. H. Lüthy, Le passé présent: combats d’idées de Calvin à Rousseau, Monaco, Editions du Rocher, 1965; non va però dimenticata l’opera di Kurt Samuelson, Religion and Economic Action, trad.ingl., New York, 1961, che mi è riuscita molto utile all’epoca in cui scrivevo il Trattato di sociologia. 21 Cfr. D. Cantimori, op. cit., p. 12.

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il principio della razionalità. Che questa unione sia il frutto del puritanesimo calvinistico e che poi tale frutto si possa ridurre ad una sua, pur cospicua, manifestazione, quale è lo «spirito» del capitalismo, appaiono a Lüthy opinioni del tutto gratuite legate a pezze d’appoggio o dubbie o chiaramente insostenibili. Le «prove» addotte da Weber sono sistematicamente esaminate e dall’esame escono piuttosto barcollanti. La Confessione di Westminster del 1647, come abbiamo più sopra accennato, viene ridimensionata alquanto drasticamente: collocata nel suo contesto, appare più come l’espressione di un momentaneo, passeggero disappunto del grande legislatore, statista e riformatore di Ginevra («più che un dogma, la predestinazione di Calvino è una confessione di ignoranza e di spaventato smarrimento», p. 12); le Massime di Benjamin Franklin, così sagge e divertenti nel loro utilitario pervertimento degli imperativi dell’onestà, sono certamente un bel catalogo di «virtù borghesi»; un secolo prima, con l’operetta The Perfect Tradesman, Jacques Savary aveva attinto fama internazionale; peccato che Savary fosse cattolico. Non solo; ma l’angoscia dell’anima solitaria del calvinista che trova nel lavoro metodico e indefesso la terapia dei suoi terrori religiosi e la disincantata morale utilitaristica di Franklin non sono fenomeni contemporanei; fra di esse c’è più di un secolo. Come colmare questo vuoto logico e cronologico? C’è di più. Rispetto alla situazione morale ed economica della civiltà occidentale dell’epoca, la Riforma era un movimento regressivo. Questa è la premessa fondamentale della revisione proposta da Lüthy. Italia e Spagna erano pronte all’autentico decollo capitalistico, non solo e non tanto con 84 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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una nuova etica del lavoro, ma con tutti i nuovi atteggiamenti di una civiltà sempre più scientifica, «quantitativa», con il culto della precisione materiale in luogo dell’apprezzamento qualitativo, erede della grande spinta rinascimentale, secondo quanto illustrato, fra gli altri, da John U. Nef22. Se si facesse un confronto fra personaggi come i Medici e i Fugger, Erasmo, Copernico, Cristoforo Colombo, da una parte, e Lutero e gli altri riformatori, dall’altra, è chiaro che «la mente meno contemporanea, la più ripiena di tradizioni medievali, apparteneva certamente a Lutero» (p. 57). Solo quando si rivolge l’attenzione ai riformatori di Zurigo e di Ginevra, una certa affinità fra Riforma e spirito capitalistico si fa luce, ma per la buona ragione, non religiosa, che qui si tratta di uomini alle prese con i concreti, pratici problemi dell’organizzazione economica e sociale di città libere e mercantili, per le quali la libertà dalla manomorta del passato è una questione di sopravvivenza. C’è una più stretta connessione fra etica e lavoro, secondo Lüthy, nella massima benedettina, «Ora et labora», che in tutti i testi della Riforma. Ed ecco la sua conclusione: «Piuttosto che attribuire la creazione di uno spirito economico nuovo alla Riforma, vi sono eccellenti ragioni per sostenere che attraverso la Riforma era lo spirito delle repubbliche urbane medioevali che venne perpetuato» (p. 34). Ciò che impedì a quello spirito di perpetuarsi e di svilupparsi nei Paesi cattolici, Italia e Spagna soprattutto, all’epoca le nazioni materialmente e culturalmente più avanzate d’Europa, fu l’opera di stagnazione e di strangolamento messa in moto 22 H. Lüthy cita en passant il nome di John U. Nef (p. 14), ma non ricorda i titoli dei suoi lavori fondamentali sull’industria del carbone in Inghilterra all’epoca della prima rivoluzione industriale e neppure Les fondements culturelles de la civilization industrielle, Paris, 1958, che offrirebbe materiali preziosi per l’appoggio delle sue interpretazioni.

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dalla Controriforma. L’ottica interpretativa è dunque tutta da rivedere, va profondamente mutata: non è la Riforma a generare uno spirito nuovo, è invece la Controriforma a ritardare lo sviluppo di tutto l’Occidente di almeno due secoli, in particolare a soffocare i germi e le embrionali realizzazioni di istituzioni libere e moderne che già esistevano nei Paesi cattolici. Non si può dire che la tesi di Weber esca, da questo esame critico, distrutta; è però difficile negare che la scintillante eleganza dei suoi passaggi (dalla dottrina della predestinazione per grazia alla individualizzazione della responsabilità, dal bisogno di segni tangibili di salvazione al lavoro sistematico e al reinvestimento del capitale, dall’accumulo di capitale al calcolo razionale dell’espansione economica, da questa infine al capitalismo su scala continuativa e sempre più ampia) venga duramente, e irrimediabilmente, compromessa. Verso un mondo di «funzionari»? Le critiche di H. Lüthy, in parte non nuove, hanno il merito di castigare la boria del sociologo che tende a estrapolare, da una base empirica piuttosto fragile, generalizzazioni a portata così ampia da abbracciare globalmente intere civiltà e periodi storici. Ma non tutte le sue osservazioni, specialmente quelle riguardanti l’uso che fa Weber delle statistiche di Martin Offebacher, e il solito rilievo concernente l’accuratezza della sua lettura dei testi teologici – una accuratezza ridotta all’esattezza puramente filologica cui Weber non era né interessato né tenuto – sono accettabili. Ciò che mi sembra importante ritenere in quelle osservazioni, e che a mio giudizio si applica anche a molte ricerche odierne sulla 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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cosiddetta «crisi del sacro», è la necessità di una determinazione logico-linguistica della terminologia impiegata e di una visione globale dei problemi, ossia di un visione capace di garantire l’analisi di situazioni specifiche senza peraltro isolarle dal più ampio contesto. Ambedue queste necessità, anche se non sempre con risultati soddisfacenti, non si può negare che siano presenti alla consapevolezza di Weber. Può ben essere che egli abbia privilegiato, al di là delle prove disponibili, il peso e la funzione del movimento della Riforma a proposito della creazione e diffusione, fino a divenire un’etica di massa, dello spirito del capitalismo. Ma nessuno può nutrire ragionevoli dubbi sulla tendenza, caratteristicamente weberiana, a leggere e a interpretare ogni fenomeno nel più vasto quadro delle situazioni e del movimento di tutta la società. Il suo atteggiamento verso la razionalizzazione della vita è ambiguo. Per un verso, lo saluta come un passo di estrema importanza nel processo di emancipazione dell’umanità sulla strada delle libere scelte consapevoli da parte degli individui. Non v’è nessuna concessione in Weber ai facili sentimenti di benevolenza universale o di permissività che sono al fondo dello Stato odierno del benessere, o Welfare State. Ogni accenno all’eudemonismo lo lasciava indifferente e in qualche caso aveva il potere di farlo incollerire. Egli sentiva forse istintivamente che la felicità è in sé volgare, come godimento; che non per la felicità e per rendere le cose facili bisogna lottare, bensì per la libertà di determinare la propria vita e quindi per la dignità dell’uomo. Vi era in lui una profonda venatura di stoicismo che non per caso si collegava al pessimismo calvinistico, attivo senza speranza e senza attendersi ricompense, e che richiama la formula gramsciana del 87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà». In questo senso Weber era un autentico individualista e un autentico liberale. Aveva fiducia nella razionalità del giudizio individuale: non concepiva alternativa alla civiltà liberale, anche sul piano istituzionale e politico oltre che economico, che non fosse necessariamente una caduta rovinosa nel caos sociale dominato da masse indisciplinate e incapaci di disegno; non riteneva di poter sottomettersi ad alcun potere o autorità che non fosse il frutto di una meditazione razionale, il risultato di un calcolo che partisse dal foro interiore della propria coscienza. Eppure, per un altro verso, avvertiva con angoscia genuina e profonda le ripercussioni del movimento anti-tradizionalista che mirava a razionalizzare la vita su tutta l’organizzazione sociale e politica e sulla stessa struttura psichica degli uomini. Fiutava forse nel calcolo razionale, dietro la precisione e la capacità di progettazione che lo incantavano, un impoverimento radicale, senza scampo? Questo nobile professore tedesco, così attaccato alla madre e così sensibile, che nello studio leopardianamente «matto e disperatissimo» aveva trovato inintermittente occasione di fuga da depressioni spaventose, presagiva forse la proletarizzazione dell’anima che alla conclusione della Prima guerra mondiale si andava preparando e diffondendo come una lebbra in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo. Egli capiva, forse, o intuiva che, dietro l’ansia sociale e la retorica pubblicitaria di una felicità a buon mercato e di «tempo libero», si profilavano invece il vuoto e la invincibile quieta tristezza di una società in cui, invece di uomini, vi erano più solo dei funzionari. Esaurita la funzione, che altro si può attendere? Terminata la sua funzione, l’uomo-funzionario è, alla lettera, defunto. 88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Capitolo terzo Il problema del potere

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Perché gli uomini obbediscono Le oscurità, le tensioni, le ambiguità, logiche ed esistenziali, non mancano certo nella personalità di Max Weber. Ma nessuno eguaglia, per profondità di ripercussioni sul suo pensiero e sulla sua vita e per l’angoscia in lui provocata, la contraddizione tra una fortissima vocazione politica, un vero e proprio demone dell’azione e del potere, da una parte, e la simultanea esigenza di veder chiaro e di comprendere in tutte le sue implicazioni una data situazione prima di decidere, dall’altra. Questa contraddizione è rimasta per Weber un ferita aperta: egli è riuscito un politico a mezzo servizio, un politico manqué, cioè un politico scaduto a consulente, e un intellettuale che non si è mai rassegnato a essere soltanto un professore e uno scrittore di saggi, un uomo da tavolino con la nostalgia dell’azione. Fra i problemi di cui si è occupato, grandeggia infatti il problema del potere in tutte le sue manifestazioni rilevanti; problema economico, legato alle situazioni di ceto e di classe; problema sociale, con le importanti concomitanti del prestigio e della deferenza; problema politico, con le questioni dello Stato, della sua struttura, e del governo che ne esprime la forza legittima, cioè l’autorità fondata 89 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sul consenso, la pienezza dell’imperium. Nella ricca tematica weberiana, l’argomento del potere nella sua accezione più vasta occupa un posto centrale. Ciò che colpisce è che Weber non si limiti a considerare il fenomeno del potere secondo una sola ottica. La tradizione sociologica gli offriva dei precedenti celebri in proposito. Il potere era stato, per gli scienziati politici, il problema dello Stato, dell’ordine e del «contratto sociale»; per i sociologi, la tradizione aveva un’accentuazione, se non una sostanza, diversa; era il problema del consenso e dell’integrazione sociale. Di più: le scienze sociali avevano battuto, nello studio del potere, due strade divergenti che, al limite, tendevano a divenire contraddittorie. Il potere vi era stato considerato come un dato della struttura oggettiva della società, una collocazione determinata nella piramide sociale, oppure il potere era stato visto come un rapporto inter-personale, una relazione fra due o più individui, qualche cosa di fluido, di non perfettamente ascrivibile ad alcuna posizione e funzione sociale fissa all’interno del ciclo produttivo e distributivo dei beni. In questa prospettiva, la più recente tradizione sociologica e politologica veniva a fronteggiare, in maniera molto polemica e metodologicamente agguerrita, la tradizionale posizione marxistica. Secondo quest’ultima tradizione non era assolutamente possibile porre correttamente il problema del potere se non all’interno della lotta degli interessi economici e nel quadro della dinamica della lotta di classe. Anche se Marx non aveva mai definito in maniera esplicita il concetto di classe o, meglio, anche se le sue idee in materia avevano caratteristicamente oscillato a seconda delle particolari ottiche da cui partiva (visione dualistica dei 90 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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due campi nemici nel Manjfesto; visione assai più articolata e variegata nei pamphlet politici, come La guerra civile in Francia e Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte), era chiaro che la classe dominante sul terreno economico, la borghesia detentrice del diritto di proprietà dei mezzi di produzione e compratrice sul mercato formalmente libero della forza-lavoro proletaria, era anche la classe di potere per eccellenza, e che quindi potere economico e potere politico coincidevano. Ciò significava che anche il potere dello Stato e la sua espressione, il governo, lungi dal rappresentare il popolo e ancor meno la sovranità popolare, costituivano, nonostante i riti più o meno costituzionali e l’allargarsi del suffragio fino a divenire praticamente universale, niente più che «il comitato d’affari della borghesia», la sua maschera mistificatrice, una finzione legale, un puro paravento che, in nome dell’«interesse pubblico», difendeva e perpetuava i privilegi di coloro che economicamente già si trovavano in posizione sociale di vantaggio relativo. Questa concezione del potere, tipicamente oggettiva ed economicistica, è una concezione del potere a somma zero che implicava, e implica, una immagine dicotomica della società. La società globale vi compare come una realtà spaccata in due settori che non possono avere scambi o comunicare se non in base alla lotta; non vi sono sbavature o terre di nessuno; vi sono quelli che stanno sopra e quelli che stanno sotto, i «superiori» e gli «inferiori». Il potere è monolitico e obbedisce ad una logica sistematica di sviluppo che è ferrea, insensibile o inaccessibile, con riguardo ai sentimenti personali degli individui considerati per definizione irrilevanti. Nelle condizioni odierne, l’onere che grava sulle spalle di chi ritiene plausibile e 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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corretta questa concezione consiste nella dimostrazione empirica della coincidenza fra potere economico e potere politico, vale a dire la dimostrazione dei modi e delle tecniche con cui la classe economicamente dominante riduce in condizioni di subordinazione e al proprio servizio la classe politica, formalmente eletta dal popolo e rappresentante degli interessi della nazione. Contrastante con questa concezione è quella del potere che fa perno ed esalta le componenti psicologiche del fenomeno. Il potere non è più visto qui come una situazione oggettiva di dominio. Persino la definizione delle prerogative formali in senso legale viene fatta cadere sotto l’istanza scettica. Si tende infatti a sottolineare, di fronte e contro le prerogative dei poteri formalmente definiti, l’importanza, ufficiosa ma sovente – si dice – determinante, del potere «informale», cioè dei rapporti di influenza, persuasione, prestigio, suggestione, autorevolezza, non definiti e neppure definibili in senso formale, ossia non codificabili. Questi rapporti di potere informale sarebbero decisivi, sarebbero «quelli che contano». È per questa via, tenuto conto che i poteri informali sono, mediante gli strumenti dell’analisi psicologica e socio-psicologica, suscettibili di misurazione e di distinzione analitica piuttosto spinta, che la concezione del potere, da situazione oggettivamente accertabile in quanto legata al mondo degli interessi economici, tende a diluirsi nella fitta rete dei rapporti polidimensionali e psicologici che si instaurano fra le persone indipendentemente dall’apparenza di classe e dalla collocazione oggettiva nel ciclo della produzione e della distribuzione dei beni.

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La natura problematica del potere È uno dei grandi meriti di Weber quello di essersi chiaramente sottratto a questo falso dilemma riconoscendo nel fenomeno del potere un rapporto fra persone, fra governati e governanti, fra «vertici» e «base», ma riconoscendo nello stesso tempo che questo rapporto non aveva luogo in vacuo, che esso si sviluppava all’interno di un sistema economico e di una struttura politica definiti e che la diluizione psicologica dei suoi termini, mentre sembrava facilitarne la ricerca scientifica, in realtà ne vanificava completamente il significato1. Con una modernità eccezionale, Weber sfugge sia alla determinazione meccanicistica e, peggio, naturalistica d’una definizione così preoccupata di salvare l’oggettività del fenomeno e le sue caratteristiche di fatto da irrigidirlo su un piano metastorico, sia alla trappola psicologista per la quale la «durezza» del fenomeno del potere, vale a dire la sua portata istituzionale ed economica, il suo peso politico tendono a stemperarsi, più o meno idillicamente, nella flessibile, imprevedibile sequenza di rapporti puramente personali. Weber definisce il potere, dal punto di vista strettamente sociologico, come la chance di essere obbediti. Quindi: né un’automatica posizione di sopravvento né l’indefinibile rapporto psicologico. Il termine chance introduce nella definizione del potere un elemento di indeterminazione, problematico, di estrema importanza. Non chiudo gli occhi di fronte al pericolo di una interpretazione in termini puramente psicologici di questa definizione. È certo che il termine chance, fonda1 Cfr. a questo proposito le osservazioni nel mio Trattato di sociologia cit., specialmente il paragrafo «Potere, forza, dominio», pp. 175 e segg.

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mentale nella definizione weberiana, non solo non esclude, ma implica necessariamente l’abilità personale, ma non quella sola. La chance è anche chance obbiettiva, fortuna nel senso classico. C’è l’idea dell’abilità personale e della fortuna insieme, di una fortuna «femmina» machiavellicamente dominata e costretta ai propri disegni. Ma non nel vuoto, non nel puro rapporto interindividuale. Il potere di cui parla Weber non è solo abilità personale; si risolverebbe immediatamente e senza residui in una categoria psicologica come influenza, prestigio, autorevolezza; esso dipende anche, si potrebbe dire dialetticamente, dal contesto, cioè dalla situazione strutturale e dai dati oggettivi in cui il fenomeno viene svolgendosi sul piano storico, cioè sul piano dei rapporti di forza reali, sociologicamente rilevanti. Lo spirito del tempo Il pericolo della definizione weberiana del potere sta nella sua polivalenza. Può essere piegata ad usi contraddittori; lascia aperta una serie di problemi che ben presto si rivelano, per Weber, problemi insolubili. È possibile fondare la legittimità sostanziale del potere, cioè trasformarlo in autorità, avendo come criterio fondamentale di giustificazione e di legittimazione l’opinione maggioritaria di una massa differenziata? È impossibile valutare e interpretare correttamente la posizione di Weber a questo riguardo, nei suoi grandi meriti che abbiamo sottolineato, ma anche nei suoi invalicabili limiti, che sono innegabili e talvolta perniciosi, senza richiamare, sia pure brevemente e per sommi capi, il clima politico e intellettuale generale dell’epoca in cui Weber si 94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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trovò a vivere e a lavorare. Ricostruire l’atmosfera mentale di un’epoca è naturalmente impresa in sé ardua. Nel caso di Weber, si tratta di una fase storica che probabilmente per sinistra ironia viene indicata con il nome di «belle époque», grosso modo dal 1870 al 1914, poiché è proprio nel corso di essa che si pongono i germi delle due catastrofi mondiali della prima metà del ventesimo secolo. Per Weber non si tratta solo di trascendere i limiti della sua famiglia d’origine e della peculiare cultura che ad essa corrisponde e nella quale si muove durante il processo della sua socializzazione primaria. Si tratta anche di superare i limiti, - i pregiudizi, i luoghi comuni, si potrebbe dire i «riflessi condizionati» - della propria epoca. Questa epoca è in primo luogo dominata da un élitismo che non può non rafforzare quello assorbito fin dai primi anni nella famiglia. Il padre è un uomo di successo, giurista, consigliere comunale, dalla dieta di Berlino passa alla dieta prussiana, infine è membro del Reichstag; conosce le regole della società cui appartiene e le sa usare; non commette un passo falso; in famiglia è piuttosto un disastro, ma in società non fa mai una gaffe. Madre sensibile, come origini piccola borghesia di burocrati e ufficiali, molta dignità e pochi soldi, molto senso del dovere, della dignità, necessità vitale di distinguersi sul piano dei valori da quei ceti popolari da cui risulta sempre più difficile distinguersi sul piano del potere d’acquisto. È con la madre che Weber conversa, comunica; a lei scrive lettere anche di alto contenuto intellettuale; è la madre-interlocutrice che trova nel figlio la compensazione di un rapporto insoddisfacente con il marito. Zii e parenti già nell’ambiente accademico; una famiglia di ufficiali, burocrati dello Stato e intellettuali accademici, professori, 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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insegnanti. Il distacco e la distinzione in famiglie di questo genere sono spasmodicamente ricercati, come si è accennato, sul piano del valore personale individuale, in una insistenza ossessiva sul merito del singolo, nel feticismo dei «valori» e del criterio selettivo che stabilisce l’eccellenza di ognuno, indipendentemente dal fatto che si debba vivere, nella vita di ogni giorno, a gomito a gomito con i plebei, con la piccola gente. Questa tensione verticale, questo bisogno di distinzione, questo enorme «achievement complex», direbbe lo psicologo MacLelland, è forse alla radice dell’esaurimento nervoso e dei ricorrenti disturbi psichici di Weber, che tradiscono fin troppo chiaramente il senso, doloroso, di uno squilibrio oggettivo di status acutamente percepito, il crollo d’un mondo di differenziazioni fisse e ben definite, la inconsapevolmente temuta avanzata dell’egualitarismo tipico di una società di massa allora incipiente, per definizione negatrice degli standard di eccellenza individuale, livellatrice spietata di ogni élite, in ogni campo, pronta a mercificare, abbassandoli, tutti i valori nobili in nome di esigenze meramente funzionali. La stessa prosa di Weber è una prosa ossessionata. La frase, così classicamente ordinata nella sua struttura generale preordinata, gli si rompe fra le mani, non regge all’urto della spinta che proviene dall’interno, non riesce ad esorcizzarne le angosce. Weber è un élitista, coerente, fino alla fine. La sua preoccupazione maggiore, dal punto di vista politico, è la preparazione di una élite di comando, germanocentrica, aristocratica. In questo senso, ho scritto che Weber è l’orfano di Bismarck, nonostante che la Prussia, Bismarck, il Junkertum agrario prussiano precapitalistico, tradizionale e, anzi, 96 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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arcaicizzante, siano i suoi bersagli consueti. Si attacca con accanimento ciò che si ama. Weber critica con acerba amarezza la Prussia, ma adora, e vuol preservare per tutta la Germania, le autentiche virtù del prussianesimo, la fedeltà al compito, la durezza risoluta nell’azione, la serietà tanto irremovibile da parere stolidità, la furia catilinaria delle decisioni che egli non si stanca di contrapporre all’eloquenza ornata e irresponsabile, alla canora debolezza di Cicerone. Uomo del piccolo gruppo di persone scelte, dunque; se il suo circolo, a Monaco, non ha il carattere esclusivo di quello del poeta estetizzante Stefan George2, è però pur sempre un circolo di iniziati, aperto soltanto a coloro che hanno occhi per vedere, orecchi per intendere. Come il personaggio Giovanni Castorp di Thomas Mann, uomo della pianura costretto a vivere nel mondo, anch’egli aspira alla sua «montagna incantata»; nel mondo che lo circonda e che si va rapidamente trasformando in una società industriale di massa, si rassegna a vivere solo per vedere fino a quando potrà resistervi. Di qui lo stoicismo, ma anche l’ambivalenza, l’irresolutezza, l’insolubile nodo nevrotico. C’è un’ambiguità di fondo in Weber che mi sembra contrapposta ma simmetrica a quella di Thomas Mann; sono due grandi borghesi, sia pure di segno contrario; sereno, olimpico, Mann «rappresentante più che martire», «ostinato proprietario di ville», splendido frutto di un’epoca sicura, che è però rosa e minata e della cui rovina esprime sotterranei presentimenti e sottili metafore; duro, sofferente, angosciato, Weber, anch’egli 2 Weber gli riserva un’osservazione di rara cattiveria in nota al «potere carismatico» dove scrive che vi è anche un carisma che ha bisogno di «redditieri».

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ambiguo, se pure di un’ambiguità «teorizzata», capace di operare su se stessa a caldo, caso esemplare di auto-chirurgia. Forse per capire, e cominciare ad allineare i materiali grezzi per ricostruire il clima mentale dell’epoca di Weber, sono proprio Le considerazioni di un impolitico di Thomas Mann il testo essenziale: vi si riversa quel pangermanesimo viscerale che sta al fondo del lamento weberiano che «la politica del mondo non è più fatta a Berlino». E poi, inconfessato ma onnipresente, con quell’alone di romanticismo della scienza che è la vera, e unica, religione degli «spiriti liberi» dell’Ottocento, Darwin. La «lotta per l’esistenza» è un principio non solo valido nel campo degli studi e della vita della natura; è un dogma fuori discussione che fa da granitico supporto alle stupide crudeltà della morale corrente. Se non vi fosse, continua e universale, dal «regno» inorganico a quello vegetale a quello animale e infine a quello umano e sociale, la lotta per l’esistenza, come si potrebbe garantire la sopravvivenza dei più idonei, e quindi il «miglioramento» generale della razza umana? Manca poco che si citi la Scrittura: «È necessario che uno muoia per il bene del popolo…». Ma da qui all’accettazione, anzi all’approvazione, della guerra il passo è pericolosamente breve. La guerra è considerata un affare normale, rientra nei piani e nelle previsioni della normale amministrazione. Oggi si dice, con apprensione più o meno angosciata: «Se viene la guerra…». Allora, all’epoca di Weber, si diceva: «Quando viene la guerra…» e si avanzavano pronostici e si facevano scommesse su chi l’avrebbe vinta e contro chi. La guerra, dunque, come normale amministrazione, come esercizio marziale; di più, la guerra come necessità. 98 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«La guerra – proclamava il fondatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, nel Manifesto del suo movimento (1908), prontamente ricantato da nazionalisti, dannunziani, fascisti avant la lettre – sola igiene del mondo…». È una mentalità che si riflette ancor oggi nelle parole di coloro (professori, educatori, anime sensibili) che, di fronte alle intemperanze della protesta giovanile e studentesca, sbottano: «Gli ci vuole una guerra…». Messi di fronte alla sostanza fascistica di questo augurio pedagogico, rispondono, come a me rispose qualche anno fa il critico letterario George Steiner, che «la virtù non ha il monopolio della verità». Cioè: che la guerra sia la sola igiene del mondo è una verità, anche se affermata da futuristi, fascisti, esteti decadenti. Per i nazionalisti come Weber la guerra può addirittura sviluppare virtù civiche e personali altamente desiderabili: solidarietà; coraggio, fisico e morale; senso di identificazione con gli scopi della comunità; amor di patria, altruismo. La guerra, dunque, non solo come sentina depuratrice della società, ma anche come filtro selettivo e banco di prova dei «virtuosi». Qui si innesta la discriminazione razziale: vi sono razze superiori e razze inferiori, razze di «signori» naturalmente vittoriosi, perché più dotati, mentalmente e fisicamente, «migliori», e razze di schiavi, destinate alla sconfitta perché tarate, mentalmente e fisicamente ritardate. Ma anche all’interno di ogni razza vi sono gruppi che emergono e gruppi che inevitabilmente soccombono. È la dura, universale, in fondo giusta «legge della vita». E allora, perché preoccuparsi per chi non ce la fa a tenere il passo, che senso ha parlare di «questione sociale»? È naturale che vi siano nel mondo ricchi e poveri, così come è naturale 99 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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che, accanto alla quercia forte, alta e frondosa, germogli l’erbetta umile e fresca, destinata qualche volta, ahimè! ad essere calpestata. Purtroppo, così come è naturale che al mondo vi siano ricchi e poveri, è anche naturale che i poveri abbiano fame; ha valore pedagogico per tutti gli altri, insegna ad essere prudenti e parsimoniosi, industriosi nel lavoro, metodici nella condotta di vita; ed è anche un bene, a considerare con attenzione scientifica le cose, che i poveri finiscano per morire anzitempo perché solo così sopravvivranno i migliori, i più adatti alla lotta per l’esistenza. L’autorità dell’eterno ieri Resta in piedi l’interrogativo di fondo: perché i poveri non si ribellano? Perché Spartaco è fallito? Perché gli uomini obbediscono? Spartaco fallisce e gli uomini obbediscono, in primo luogo, perché gli uomini sono animali abitudinari. Weber ha delineato in Economia e società i «tre tipi puri di dominio legittimo (legitime Herrschaft)». Gli esseri umani obbediscono fondamentalmente per tre ragioni: a) per «l’autorità dell’eterno ieri»; b) per un sentimento di legalità; c) per quel «dono specifico della grazia», che può invadere un uomo conferendogli poteri straordinari, extra-quotidiani, in grazia dei quali viene seguito e obbedito, e che Weber chiama carisma. Weber parla dei «tipi puri» appunto perché è consapevole che nella realtà storica nessuno dei tre tipi da lui delineati si presenta effettivamente con tutte le caratteristiche che lo definiscono. Si tratta di una «tipologia sociologica». Se Weber l’ha costruita, la ragione fondamentale è da ricercarsi nella sua convinzione che «la tipologia 100 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sociologica offre al lavoro empirico della ricerca storica semplicemente il vantaggio – che tuttavia non deve essere sottovalutato – di poter determinare, nel caso singolo, ciò che in forma di potere riveste carattere “carismatico”, “carismatico-tradizionale», […] “burocratico”, “di ceto”, ecc., oppure si avvicina a questi tipi, e di lavorare con concetti in qualche misura univoci»3. E Weber aggiunge subito dopo, mettendo le mani avanti contro ogni tentazione di interpretazione in senso metodologistico puro o di confusione fra schemi logici puramente strumentali e realtà storica effettiva, datata e concreta: «Si è qui quanto mai lontani dal credere che l’intera realtà storica si lasci “imprigionare” nello schema concettuale che verrà sviluppato». Il potere tradizionale è quello che fonda la sua legittimità su poteri di signoria e su ordinamenti antichi («esistenti da sempre»). È un potere quindi non chiaramente, cioè formalmente, statuito, con diritti e doveri oggettivamente codificati; al contrario, è un potere personale. Ma la persona che è investita del tipo tradizionale di potere non è una persona «superiore», non è investita di potere per i suoi meriti personali; al potere tradizionale e alla persona che ne è investita, indipendentemente dalle sue qualità individuali, si obbedisce in virtù della «dignità attribuita dalla tradizione». Il capo tradizionale non ha quindi dei funzionari per il suo apparato amministrativo, ma dei «servitori»; non vi sono «membri» del gruppo, ma dei «sudditi». La parola-chiave in questo tipo di potere, che indica la situazione normale del suo svolgersi, è la «lealtà» al detentore del potere; «competenza», «gerarchia razionale», «assunzione regolata mediante contratto», 3 Cfr. M. Weber, Economia e società, cit., vol. I, p. 211.

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«preparazione specializzata», «stipendio stabile in denaro» – sono tutte caratteristiche che mancano e che non sono, comunque, necessarie nello svolgimento pratico del potere tradizionale. I tipi principali di potere tradizionale, infatti, secondo Weber, si hanno allorché, nell’esercizio pratico del suo potere, il capo tradizionale non dispone di un apparato amministrativo personale. Si verificano allora le situazioni indicate dai termini: «gerontocrazia», «patriarcalismo», «patrimonialismo». L’analisi weberiana è assai raffinata con riguardo alle suddivisioni di queste ramificazioni del potere tradizionale, ma è particolarmente attenta, come potremmo logicamente attenderci avendo visto come l’avvento della razionalizzazione e del calcolo razionale nella sfera economica costituisca uno dei problemi fondamentali di Weber, ai rapporti che si instaurano fra potere tradizionale ed economia. A questo proposito Weber rileva che il potere tradizionale influisce sul tipo di «agire economico», in generale, rafforzando l’impostazione tradizionale, specialmente quando si tratta del potere gerontocratico e patriarcale puro; in maniera specifica, influisce a seconda del modo tipico di finanziamento del gruppo del potere. Il potere della regola Antitetico al potere tradizionale è il potere legale con apparato amministrativo burocratico. Weber tratta di questo tipo di potere prima che degli altri due (tradizionale e carismatico) per «poter in seguito raffrontarlo con gli altri», ma dal punto di vista dello sviluppo storico e della evoluzione istituzionale come da quello logico, il potere burocratico, 102 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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o «potere della regola generale formale», segue il potere tradizionale. Contrariamente al potere tradizionale e, come vedremo, al potere carismatico, il potere burocratico è un potere impersonale. «Superiori» e «subordinati», tutti obbediscono all’ordinamento impersonale, e obbediscono come consociati, non come sudditi; inoltre, i membri del gruppo, obbedendo al detentore di potere burocratico, obbediscono non alla sua persona, ma agli ordinamenti impersonali, e perciò sono vincolati all’obbedienza soltanto nei limiti della competenza oggettiva, razionalmente delimitata, che al «superiore» viene attribuita da quegli ordinamenti. La descrizione del potere burocratico elaborata da Weber è giustamente famosa e costituisce ancora oggi il punto di partenza oppure il tacito presupposto degli studi di sociologia dell’organizzazione e della pubblica amministrazione. I principi della «gerarchia degli uffici», della «razionalità della regola», della non «appropriazione dell’ufficio» da parte chi lo detiene, della «conformità degli atti» dell’amministrazione sono da Weber descritti e commentati con tale acutezza che ancora oggi, nonostante il progresso notevole delle scienze amministrative, sia dal punto di vista giuridico che sociologico e psicologico, le acquisizioni weberiane rappresentano un insieme di proposizioni sostanzialmente valide. Non vi è dottrina dello Stato che ne possa fare a meno così come, del resto, non vi è organizzazione formale razionale, pubblica o privata che sia (un ministero come una clinica, una scuola, un sindacato o un partito) che possa venire sociologicamente analizzata, sia come struttura formale che informale, prescindendo dagli apporti di Weber in questo campo. 103 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Le istanze critiche che si possono muovere con buone ragioni alla costruzione weberiana sono note e in altra sede ne ho fatto cenno. Si può osservare che la concezione weberiana non tiene conto del fatto più importante del nostro tempo: il passaggio da una burocrazia legalistica, di pura custodia, a una burocrazia dinamica, di iniziativa. Ma nel piano dell’opera di Weber il pessimismo intorno al potere burocratico, nutrito di circostanziate analisi della Germania guglielmina nella quale viveva, è inteso a preparare, sensim sine sensu, quasi inconsapevolmente, in fondamentale armonia con le premesse e l’orientamento individualistico della sua metodologia e con le sue tradizioni familiari e origini sociali, il momento risolutivo, la teorizzazione e la giustificazione del terzo tipo puro di potere legittimo, il tipo carismatico. Il capo carismatico Il potere carismatico è sempre, necessariamente, il potere di una persona, di un individuo. In questo senso, sembra un tipo di potere affine al potere tradizionale, che è un potere eminentemente personale. In realtà, ne costituisce la radicale negazione. Mentre infatti il potere tradizionale non ha altra base di legittimità che la tradizione, il potere carismatico si fonda sulla denuncia e sulla negazione della tradizione. Il tipo emblematico di capo carismatico è infatti, per Weber, il profeta ebreo che si leva tra la folla, senza alcun titolo e privo di una qualsiasi investitura, forte solo della misteriosa, divina «irruzione di grazia» che lo costringe a prendere posizione contro tutto ciò che costituisce la routine, gli affari di ordinaria amministrazione, il 104 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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modo consueto di fare le cose e di pensare: «Sta scritto… Ma io vi dico…». In subordine, Weber vede un tipo di capo carismatico nel grande leader politico parlamentare, che ha in pugno la maggioranza e che la piega, di là dai piccoli interessi personali, ai suoi disegni di statista che incide in profondità sul piano storico. È chiaro che altrettanto antitetico appare il potere carismatico rispetto al potere burocratico legale. Quest’ultimo tipo di potere è idoneo a risolvere le questioni di ogni giorno, scandisce il ritmo monotono, sempre uguale, delle regole istituzionali che presiedono al buon andamento della macchina amministrativa. Ma non appena la comunità si trova a dover fronteggiare una situazione di emergenza, il potere burocratico, di fronte al fatto nuovo e alle impreviste esigenze, entra in crisi, e si chiude nella difesa del principio della continuità burocratica. «Il potere carismatico – scrive Weber – si contrappone nettamente tanto a quello razionale, soprattutto di tipo burocratico, quanto a quello tradizionale, in particolare a quello patriarcale e patrimoniale o di censo. Mentre queste due sono infatti forme specifiche di potere ordinario, il potere (genuinamente) carismatico è proprio l’opposto. Il potere burocratico è specificamente razionale nel senso che è vincolato da regole che si prestano a essere analizzate discorsivamente; il potere carismatico è specificamente irrazionale nel senso che manca assolutamente di regole. Il potere tradizionale è vincolato ai precedenti che si sono avuti in passato, e in quanto tale è egualmente orientato in base a regole; il potere carismatico rovescia invece il passato (entro il proprio ambito), ed è in questo senso specificamente rivoluzionario […]. Esso è legittimo solamente in quanto e per quanto il carisma personale “vale” in virtù 105 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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della prova; il che significa che trova il suo riconoscimento da parte dell’uomo di fiducia, del discepolo e del seguito finché dura la sua certezza carismatica»4. Dei tre tipi puri di potere legittimo, il potere carismatico è dunque il solo tipo di potere «rivoluzionario». Ma qui occorre intendersi. Si tratta infatti di una rivoluzione essenzialmente élitistica, di vertice, ossia di una rivoluzione intuita, predicata ed eventualmente compiuta dal «grande individuo», sia egli da identificarsi con l’eroe di Carlyle, con l’«uomo rappresentativo», o «superanima» (oversoul) di Emerson, con il profeta della tradizione ebraica o con il «superuomo» niciano. In ogni caso, il capo carismatico è estraneo all’economia, disprezza, anzi, e respinge l’utilizzazione economica del dono di grazia come fonte di reddito. Osserva in conclusione Weber: «Quasi tutti i profeti sono stati mantenuti del mecenatismo. La frase di san Paolo diretta contro il parassitismo missionario, “chi non lavora non mangi”, non significa naturalmente alcuna approvazione dell’“economia”, ma soltanto il dovere di procacciarsi il necessario sostentamento “mediante una professione accessoria”»5. Il dilemma politico della Germania È troppo facile rilevare gli anelli mancanti o i tipi e i sotto-tipi trascurati o semplicemente dimenticati dalla tipologia weberiana. L’accusa di incompletezza e di schematismo sarebbe tuttavia ingenerosa. Quando parlava dei tipi puri di potere legittimo, Weber non ne parlava da metodo4 5

M. Weber, Economia e società, vol. I, cit., p. 240 (corsivo nel testo). M. Weber, Economia e società, vol. I, cit., p. 241-242.

106 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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logo sistematico mosso da un intento puramente analitico. Quando parlava del potere, Weber aveva dinanzi a sé, e non lo dimenticava per un solo istante, il concreto, scottante problema politico della Germania post-bismarckiana. La ragione vera per cui tutti i libri di Weber sono dei livres d’occasion è questa: egli non scriveva per scrivere né scriveva per farsi un posto nella gerarchia accademica (gli era toccata la fortuna di vederselo attribuire per tempo) e neppure scriveva per la gloria; egli scriveva, conduceva ricerche, stabiliva confronti storici da dare le vertigini solo perché aveva davanti a sé un problema specifico, circoscritto, chiarissimo: il problema dell’avvenire della Germania e della forma del potere politico più adatta, capace di garantire un avvenire positivo, «razionale» alla Germania che egli vedeva nelle mani incoscienti dell’imperatore Guglielmo, da lui considerato, benché monarchico per tradizione familiare e per convinzione personale, un pazzo pericoloso. Da questo punto di vista, la distanza fra Weber e i politologi odierni, pronti ad occuparsi di qualsiasi cosa purché si trovi qualcuno che paghi, è incalcolabile. La Germania del tempo di Weber appare tronfia e ottusa a un tempo. La vittoria di Sedan sulla Francia (1870) le ha dato alla testa. Non si rende conto che «una grande vittoria è un grande pericolo»; in particolare, che non basta vincere la Francia sul campo di battaglia per appropriarsi della cultura francese. Le poche voci dissenzienti nel coro trionfalistico che alimenta il pangermanesimo foriero dell’avventura tragica della Prima guerra mondiale sono voci isolate, prive di pubblico, che cadono, in quel momento, nel vuoto. Si pensi alle Considerazioni inattuali di Federico Nietzsche; è il testo di un poeta e di un filologo classico che, da solo, vede più in 107 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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là e con maggior chiarezza di tutti gli statisti e analisti politici di professione presi insieme. Benché pangermanista, benché monarchico, benché ossessionato dall’idea che un grande popolo non possa esistere senza una grande politica svolta e fatta valere sul piano mondiale, Weber non cade nell’ebbrezza nazionalistica che sembra possedere la grande maggioranza degli studiosi di problemi politici e sociali, e non solo gli estremisti del tipo di Treitschke. La tendenza nazionalistica di Weber è fuori discussione. Essa ispira a volte anche determinate conclusioni delle sue ricerche empiriche, ed egli ne è ben consapevole. Un episodio significativo: nel 1893 Weber, professore di nuova nomina di economia politica nella Università di Friburgo, era diventato membro del Circolo di politica sociale (Verein für Sozialpolitik), fondato e diretto dai «socialisti della cattedra» (G. Schmoller, A. Wagner e L. Brentano); da questo Circolo Weber aveva ricevuto l’incarico di condurre un’inchiesta sulle condizioni dei contadini nella Prussia orientale bagnata dall’Elba; a proposito di questa ricerca aveva letto un rapporto al Circolo di politica sociale e al IV Congresso evangelico-sociale, insieme con Paul Göhre, che aveva provocato una reazione violenta da parte dei liberali conservatori e dei socialdemocratici, che lo accusavano di «nazionalismo»; il movimento cristiano-sociale si era allora spaccato, dando luogo a un’ala progressista (Naumann, Schulze-Gävernitz, Göhre, Weber) e ad un’ala conservatrice, con Adolph Stöcker. Piccola cronaca politica senza domani, non c’è dubbio. Ma ciò che interessa ancor oggi è che la violenta reazione era stata provocata dalle conclusioni del rapporto in cui Weber accusava la nobiltà e i grandi proprietari terrieri prussiani di «tradimento nazionale» perché stavano 108 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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«degermanizzando» la Germania orientale «importando» lavoratori forestieri (polacchi) che oltre tutto si accontentavano di salari più bassi dei lavoratori tedeschi. I limiti del Weber politico sono evidenti. Si può forse dissentire dall’interpretazione del Weber politico, offerta ancora recentemente da W. J. Mommsen6, come di un consapevole anticipatore sciovinista e imperialista, ma è incontrovertibile che Weber permane sostanzialmente un nazionalista che concepisce i problemi dello sviluppo istituzionale politico e dello sviluppo economico in funzione degli interessi nazionali. Eppure, questo nazionalista appassionato non è miope, non è una tête-bornée come tanti suoi colleghi. Nessuna sicumera professorale gli fa velo. La vittoria sulla Francia, il grande sviluppo industriale, l’ingresso della Germania fra i grandi imperi non solo non lo inducono ad un atteggiamento di auto-compiacenza, lo riempiono invece di un’angoscia genuina. Egli vede la Germania ferma ad un dilemma senza vie d’uscita: o si sceglie la via dello Junkertum prussiano, agrario e retrogrado, incapace di dirigere razionalmente la crescente potenza di un grande Paese in sviluppo, oppure si decide per la via di un capitalismo anti-tradizionalista, moderno, funzionale, in grado di garantire l’espansione economica e di preparare il terreno alla democrazia politica «guidata». È chiaro a Weber che le forze, per imboccare questa seconda alternativa, l’unica disponibile che abbia un minimo di avvenire, mancano totalmente. I gruppi dirigenti sono inetti e inadeguati. Lasciati a se stessi, condurrebbero il Paese alla rovina. Ma la durissima critica verso la classe 6 Cfr. W. J. Mommsen, Max Weber und Die deutsche Politik, 1890-1920, Tübingen, 1959.

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dirigente al potere, cioè gli Junker insieme con i liberali, loro alleati naturali di fronte al pericolo rappresentato dai socialdemocratici, non implica per Weber alcuna indulgenza o concessione ai socialdemocratici o, in generale, alle posizioni progressistiche che costituiscono l’opposizione. Weber non ha mai potuto indursi ad accettare i socialdemocratici, che riteneva «politicamente immaturi». Condanna grave, senza appello, poiché questa frase significa, nel linguaggio weberiano, incapaci di capire la funzione della violenza nello sviluppo delle forze storiche, di comprendere e di appropriarsi della logica del potere. La democrazia fra burocrazia e cesarismo L’impasse, come lo vede Weber, è tutto nei seguenti termini: il potere burocratico è politicamente irresponsabile, ma la democrazia parlamentare, di tipo anglosassone, per intenderci, in Germania non è praticabile. E allora? Si profila all’orizzonte l’ombra di Cesare, vale a dire l’ombra del capo plebiscitario. Per comprendere in tutta la sua portata il problema posto a questo riguardo da Weber, bisogna rendersi conto di che cosa rappresenti ai suoi occhi la burocrazia e il controllo burocratico. Da autentico individualista, Weber analizza il tipo puro di potere burocratico legale, ma ne coglie anche le ripercussioni sulla vita economica e sociale della Germania del proprio tempo. Per lui il potere burocratico è la vera lebbra dei tempi moderni. La tirannide di questo meccanismo impersonale, ripetitivo, anonimo e onnipresente, gli appare come la sola vera tirannide invincibile, di fronte alla quale non si aprono uscite di sicurezza. Per la tirannide di tipo classico 110 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vi era sempre il rimedio estremo del tirannicidio, ma come colpire questo tiranno senza volto o dai troppi volti? Come misura pratica, in funzione di antidoto rispetto al potere dei burocrati, Weber consiglia il «parlamentarismo». Questo rimedio in Germania non può a suo avviso funzionare perché il parlamento tedesco non è un vero parlamento; non è infatti indipendente dalla burocrazia; peggio, non solo non è indipendente, ma è letteralmente invaso da burocrati che si fanno eleggere deputati senza per questo rinunciare alle loro funzioni e ai loro legami con la macchina burocratica. L’apatia dei tedeschi, l’insipienza della Corona, la mediocrità dei politici, fra i quali non scorge alcun vero statista: nulla è in grado di frenare la prevaricazione della struttura burocratica che ha preso nelle sue mani lo Stato senza assumerne alcuna responsabilità e condannandolo per questa ragione alla stagnazione e al letargo, vegliato da questi nuovi mandarini. Così acuto nella diagnosi, è sorprendente che Weber non tenti neppure a titolo d’esperimento o in via meramente ipotetica di disegnare un’alternativa che faccia perno, in modo nuovo e senza passare attraverso mediazioni pesanti, sulla popolazione subalterna che è pur sempre, fra i diversi attori del dramma, o della commedia, sociale, quello direttamente interessato. Ancora una volta emerge qui e si fa sentire il limite élitistico di Weber. Non è semplicemente in grado di concepire una democrazia a larga base sociale. Quando proprio vi è costretto, arriva a una sorta di vago populismo, con la teorizzazione del capo plebiscitario, insieme con il capo cesaristico un sotto-tipo, o più precisamente una stepping stone, un gradino, verso il capo carismatico, che tutti li sovrasta. «Il capo politico – scrive Weber – raggiunge la posizione di comando […] accattivandosi la lealtà e la 111 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

fiducia delle masse nella sua persona e nel suo potere per mezzo di artifici demagogici indirizzati appunto alle masse. In determinate circostanze questo significa far ricorso a un metodo cesaristico nello scegliere la leadership politica»7.

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Il problema della formazione d’una leadership: i partiti politici È quasi incredibile che un analista dell’acutezza di Weber possa far credito al parlamento e ai partiti politici come possibili palestre per la formazione d’una leadership politica degna di questo nome. Sembra evidente che Weber è al riguardo abbagliato dall’esempio inglese, che del resto viene piuttosto idealizzato. Più importanti, e fondamentalmente verificate, appaiono oggi le sue previsioni sulla evoluzione dei partiti politici. Weber vede con estrema chiarezza l’esigenza inevitabile di burocratizzazione e di organizzazione continuativa, strutturata, non messa in piedi soltanto in occasioni di elezioni, degli odierni partiti di massa. Non solo; egli prevede inoltre con chiarezza impressionante tutte le organizzazioni para-partitiche di cui il partito di massa ha bisogno nella loro veste di organizzazioni ausiliarie (gruppi giovanili, dopolavoristici, colonie, scuole per i militanti, centri di assistenza, patronati, e così via). In altri termini, Weber anticipa il tramonto dei notabili e l’avvento dei tecnici e degli impiegati di partito in pianta stabile. Non si vive più per la propria fede politica, si vive di essa, si campa sui propri valori. Di qui la professionalizzazione degli uomini politici; ma di qui anche il declino e quindi la scomparsa dell’uomo politico così come lo concepivano Edmund Burke e Alexis de Tocqueville: un uomo al servizio 7

Cfr. M. Weber, Gesammelte politische Schriften, Tübingen, ed. 1958, p. 382.

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della nazione, ma in primo luogo un uomo in pace con la propria coscienza, capace di giudizio individuale, non legato ad alcuna «disciplina di partito». Questa perfetta coerenza resta in Weber come un’acuta nostalgia, il punto più alto di un passato finito per sempre. Chiuso all’idea di una democrazia diversa da quella dei notabili, a larga base sociale, capace di dare sostanza alla legittimità puramente formale collegando le decisioni del potere ai bisogni effettivi delle grandi maggioranze, e d’altra parte senza illusioni con riguardo alla bassa camarilla dei governi pseudo-democratici del suo tempo, Weber si avvia sulla strada dell’irrazionalismo scindendo il momento politico da quello della lucidità razionale, arrivando, anzi, a scorgere nell’attività politica una serie di decisioni giocate sul filo della pura intuizione, delle fragili convergenze di interessi e del puro maneggio di tecniche procedurali. La politica come patto diabolico e l’involontario favoreggiatore dell’avvento di Hitler al potere «assoluto» La considerazione e la valutazione della questione del potere sono indubbiamente in Weber mature, tali da evitare i trabocchetti del formalismo metodologico e della diluizione psicologizzante. Ma Weber, giunto al momento cruciale della scelta fra un mondo di notabili che vede crollare e l’allargamento sociale della base stessa del potere, non riesce a risolvere l’impasse; con la forza istintiva di un riflesso condizionato, egli riprende la teoria del «grande individuo», invoca il capo carismatico1. Purtroppo, l’invocazione non Su questo limite di Weber, teorico ed esistenziale, cfr. la mia «Introduzione» a Sociologia del potere: da prerogativa personale a funzione razionale collettiva, Bari, Laterza,1972. 1

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si è tradotta soltanto in un errore analitico o interpretativo; è divenuta un errore politico, essa ha trovato, per le cure di Weber, espressione giuridica nella Costituzione di Weimar, in quel famigerato articolo 48, il Diktatur Paragraf, in base al quale venivano riconosciuti al Reichpräsident («Presidente del Reich») poteri anche più ampi e decisivi di quelli per tradizione attribuiti e di fatto esercitati dall’Imperatore e che doveva disgraziatamente favorire l’ascesa «legale» al potere di Adolf Hitler. La buona intenzione di Weber è fuori questione, ma sul piano politico e storico – è Weber ad insegnarcelo – le buone intenzioni contano poco. A difesa di Weber è stato fatto rilevare che, insieme con l’articolo 48, che esprimeva la diffidenza weberiana verso una rappresentanza popolare troppo «spinta», «frammentata» e «incoerente» e che vedeva nella «mano paterna» del presidente al di sopra delle parti un moderatore forse necessario, erano stati inseriti, su insistente richiesta di Weber e con la sua consulenza, l’articolo 43, che prevedeva la destituzione del Capo dello Stato, e l’articolo 44, che sanciva il potere d’inchiesta da parte del parlamento. Tuttavia, anche i difensori più accaniti di Weber riconoscono che «alla luce delle realtà politiche, ci avvediamo retrospettivamente che l’idea (dell’articolo 48) fu un disgraziato errore»2. Gli articoli 43 e 44 restarono difatti lettera morta. Non così l’articolo 48. Disgraziato errore e insieme tragica ironia: una preoccupazione liberale per la difesa dei valori personali contribuiva senza saperlo a spianare la via al Nazismo.

2 Cfr. Karl Loewenstein, Max Weber’s Political Ideas in the Perspective of Our Time, The University of Massachutes Press, 1966, p.17.

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Capitolo quarto Il controverso contributo di Weber

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Capitalismo e protestantesimo: gli interlocutori di Weber Il problema posto da Weber in termini netti e con attento scrupolo pur nella sua immensa documentazione, a proposito dei rapporti fra capitalismo e protestantesimo, riuscì di incentivo a quanti erano attratti da un siffatto ordine di ricerca, in cui le singole civiltà e nazioni apparivano chiamate ad un diverso destino dalla loro professione di fede divenuta prassi quotidiana e si dava in tal modo l’avvio ad una storiografia tendente a rendere espliciti insospettati riflessi e analogie tra le categorie della vita spirituale. La vecchia e forse anche dimenticata teologia morale, apparente complesso di astruserie teologizzanti, veniva ora concepita come dotata di una funzione costitutiva e condizionante di un modo di vivere e di sentire, della struttura di tutta una società: un complesso di «idee operanti nei rapporti familiari e sociali, nella politica, nella vita economica, e nella tecnica, nella beneficenza, nell’igiene, nello sport, nell’amore, nella moda, nelle più banali convenzioni della società»3. Degli innumerevoli scritti dedicati allo studio delle relazio3

156.

Cfr. Carlo Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1940, pp. 155-

115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ni tra religione e vita economica4 saranno qui brevemente considerati alcuni tra gli autori che hanno indagato e svolto in un determinato modo, più o meno diverso dai risultati dell’indagine weberiana, la relazione tra l’etica suggerita da una certa religione e gli ideali degli agenti più distinti del sistema economico considerato, cioè una certa prevalente condizione economica. a) Ernst Troeltsch (1865-1923) Sotto la suggestione dei tentativi cattolici e protestantici di risolvere la questione sociale sulla base dell’etica cristiana, Troeltsch si è dato a studiare le dottrine sociali delle chiese e delle sette cristiane e in generale il rapporto tra vita religiosa ed organizzazione economica. Tuttavia, lo stimolo maggiore ad affrontare e ad approfondire la relazione fra vita religiosa e vita economica, mediante lo schema circolare con cui pone il rapporto con evidente significato sociologico, nonché quello a superare la teoria marxista delle «sovrastrutture» è di evidente ispirazione weberiana; come pure dell’amico Weber è l’ispirazione a distinguere tre tipi di organizzazione sociale dell’idea sociale: la distinzione di «chiesa», istituto di grazia e di redenzione; di «setta», unione di liberi ed eletti discepoli; e di «gruppo mistico», espressione di individualismo anarchico tendente ad una vita religiosa personale, al più stimolata da una comunità e da un culto collettivo. Il cristianesimo è per lui, pur rappresentando il prorompere più pieno dello spirito di Dio nel mondo, la più pura delle sue rivelazioni, priva pertanto, nel suo carattere di universale purezza e spiritualità Per un’aggiornata panoramica, cfr. J. A. Prades, La sociologie de la religion chez Max Weber, Louvain, 1969; ma a questo proposito sono a vedersi tutti gli scritti di Benjamin Nelson, che costituiscono una fonte preziosa 4

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e di ascetica rinuncia, di strumenti propri per scendere nella realtà «mondana» sociale e politica. Esso è tuttavia immerso – in questa realtà a causa dell’insopprimibile forza della natura umana, necessaria per valicare i confini dell’altra sfera altrimenti eterogenea – nella dottrina del diritto naturale. Quest’idea del diritto di natura, come tramite tra etica cristiana e «mondo», suggerita a Troeltsch da uno studio giovanile quale sostegno della dottrina sociale del cristianesimo e principio della civiltà occidentale, viene poi distinta dallo stesso Troeltsch in diritto di natura assoluto e in diritto di natura relativo: il primo, proprio del calvinismo e delle sette affini; il secondo, peculiare del cattolicesimo. Per quanto poi riguarda l’individualità del capitalismo occidentale, egli non si distingue molto da Weber. Distinguendo il carattere sentimentale interiore del luteranesimo misticamente assorto nella fede, cioè nella «luce accesa della grazia dei cuori», dal carattere pratico del calvinismo, che della predestinazione faceva la capacità di eseguire il comandamento divino, egli insiste sulla diversità dell’atteggiamento nel campo politico, sociale ed economico delle due fedi, riconoscendo l’indifferenza del luteranesimo e l’aggressività del calvinismo. Non per caso da quest’ultimo è venuto il contributo maggiore all’affermazione del capitalismo moderno. Precisando inoltre il significato luterano del mestiere come Beruf, ossia come vocazione divina e mezzo di santificazione, per cui veniva conservata e quasi consacrata la società agrario-artigiana e feudale, rigidamente divisa in ceti e corporazioni e, d’altra parte, mostrando come il calvinismo, per effetto del suo dogma, non avesse abbandonato a se stesso il mondo, sebbene si fosse imposto di cristianizzarlo attraverso una rigida disciplina e come una sua aggressività fosse intensificata dalla fanatica sicurezza 117 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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del fedele d’essere strumento della volontà del Signore, Troeltsch accoglie da parte del protestantesimo una partecipazione generica alla formazione del mondo moderno, mentre restringe al calvinismo il sorgere dello spirito capitalistico. Alle sette mistiche attribuisce invece la ripresa del diritto di natura assoluto e quel proposito di instaurare una società di liberi ed uguali. In sostanza, Weber e Troeltsch si presentano come i più fermi sostenitori delle strette relazioni tra protestantesimo e capitalismo, sia quanto alla soluzione del problema e della convenienza di mettere in relazione l’etica religiosa con lo spirito che anima gli agenti del mondo, sia quanto al metodo, che «non prende posizione», ma «chiarisce e spiega». b) Karl Anton Fischer (1892-1946) e le dottrine cattoliche Fischer non considera l’intimo nesso fra la ricerca del guadagno e l’idea vocazionale che è il punto cruciale della dimostrazione di Weber e prospetta una spiegazione psicologica della genesi del «guadagno per il guadagno» da una naturale esuberanza delle condizioni sentimentali che passano dalla valutazione del fine (felicità) a quella del mezzo (denaro) col quale il fine è raggiunto, allargando così il fenomeno capitalistico a fenomeno di tutti i tempi. Le dottrine cattoliche sulla genesi del capitalismo naturalmente variano dalla dottrina cattolica rispetto al capitalismo. Finché la chiesa ne espresse un giudizio negativo, si ricondusse il capitalismo al liberalismo settecentesco, senza notare che appunto nel Settecento Pichler aveva iniziato, nel mondo cattolico, la campagna per legittimare l’interesse, sul quale pesava teoricamente ancora la condanna del concilio di Vienna. Klaus von See 118 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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prelude a Wünsch, riconoscendo qualche legame tra Riforma e capitalismo ma riducendo l’influsso capitalismo della Riforma all’individualismo e tendendo a ricondurre questa al Rinascimento, cosicché la Riforma sarebbe uno dei veicoli per cui l’individualismo umanistico ha influito sull’economia. Weber, dal canto suo, tuttavia ha distinto accuratamente l’individualismo dell’ascesi protestante da quello dell’illuminista che assiste già all’involuzione dello stato d’animo riservato e produttore; ed in ogni caso liberalismo ed individualismo per Weber hanno dominato perché avevano affondato le radici nella coscienza religiosa e, con ciò, politica e sociale dell’uomo. Inoltre See, distinguendo un capitalismo commerciale da quello finanziario e da quello industriale, mostra di aver considerato il capitalismo non tanto come «spirito unitario» soggettivo, ma nella sua materialità e risultante oggettiva. c) Gino Luzzatto A proposito della teoria che vuole ricondurre lo sviluppo del capitalismo all’individualismo rinascimentale, è da ricordare anche l’italiano Gino Luzzatto. Questi annota che «storici di altissimo valore» vogliono attribuire da un lato all’attività pratica e al particolare modo di pensare degli ebrei, dall’altro allo spirito del protestantesimo, e soprattutto del calvinismo e delle sette che ne derivano, il merito «dei progressi e del trionfo finale della nuova mentalità», che facilita ed accelera l’accumulazione della ricchezza, rompendo le vecchie limitazioni morali e religiose, inducendo ad uscire dal vecchio empirismo tradizionalistico per indirizzare invece razionalmente l’attività economica ad un

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fine non solo immediato ma anche lontano»5. Ma pur riconoscendo che sia per gli ebrei che per i protestanti, «come del resto per altre minoranze religiose e nazionali, è innegabile che la loro condizione di gruppi dispersi in ogni parte del mondo, legati fra loro da forti vincoli di solidarietà ed isolati dalla popolazione in mezzo a cui vivevano, ha contribuito a creare non solo una situazione di fatto, ma anche una mentalità particolarmente favorevole allo sviluppo degli affari o, per valersi del termine ormai entrato nell’uso, una mentalità capitalistica»6, egli fa notare una notevole esagerazione nell’importanza data per esempio agli ebrei che negli ultimi secoli del Medioevo dev’essere stata, in gran parte d’Europa, molto modesta, dal momento che essi esercitavano per lo più solo il piccolo prestito su pegno o il commercio di oggetti usati. D’altra parte, in merito alla contrazione dell’importanza avuta dagli ebrei in funzione dello sviluppo capitalistico, Luzzatto trova consenziente lo stesso Weber, il quale nega recisamente che nella religione d’Israele si possano trovare i presupposti di una mentalità ed attività capitalistica. A proposito poi della «geniale costruzione» dello stesso Weber circa la derivazione dello spirito capitalistico moderno dall’insegnamento di Calvino e soprattutto dal puritanesimo, egli nota che «si contengono elementi di profonda verità specialmente per ciò che riguarda la figura morale dei vari costruttori di grandi imprese economiche, in cui è assurdo ed ingiusto vedere sempre mossa dall’avidità del guadagno, mentre molti almeno fra essi, di sentono guidati da una ispirazione quasi G. Luzzatto, Storia economica dell’età moderna e contemporanea, Padova, 1955, p. 50. 6 Cfr. G. Luzzatto, op. cit., p. 50. 5

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religiosa. Ma non è certamente giusto attribuire a Calvino lo spirito capitalistico, venendo così a negare un tale spirito ai Bardi, ai Peruzzi, agli Acciaiuoli, ai Medici, ai Guadagni, agli Strozzi, ad un Francesco di Marco a Prato, agli Spinoli, agli Affaitati […], alle centinaia e centinaia di altre figure di altri mercanti banchieri industriali, che nel Trecento, nel Quattrocento e nella prima metà del Cinquecento hanno esercitato un’attività complessa e varia, ma sempre razionalmente indirizzata al fine dell’accumulazione di grandi ricchezze e del loro impiego per un sempre maggiore ampliamento della cerchia e della mole dei loro affari»7. La formazione di questa nuova mentalità che si manifesta in maniera peculiare anche nel campo economico viene ricondotta a «una delle manifestazioni di quel rivolgimento generale del pensiero, che caratterizza il periodo del Rinascimento e della Riforma, per cui nell’arte come nella filosofia, nella religione come nella morale e nella economia, l’individuo si libera o tenta di liberarsi dai vincoli che durante il Medioevo gli erano stati imposti dal tradizionalismo o dal principio di autorità. Al calvinismo però deve essere riconosciuto il merito di avere offerto per primo una difesa teorica dell’attività indirizzata all’acquisto della ricchezza. Calvino si limita a giustificare, dal punto di vista dell’utilità sociale, il prestito ad interesse, ma fra i suoi seguaci la difesa si estende a tutte le altre forme dell’attività capitalistica; ad esse non è senza importanza, perché il mercante banchiere delle città cattoliche del Trecento, Quattrocento esercitava bensì liberamente tutti i suoi affari nonostante i divieti canonici o le leggi limitatrici, ma egli aveva spesso la coscienza di compiere cosa illecita; cosicché assai spesso 7

Cfr. G. Luzzatto, op. cit., p. 151.

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cercava di giustificarsene alla vigilia della morte. La teoria calvinista assegna invece a quell’attività un contenuto morale ed una fede, che non sono state certamente senza efficacia per la moralizzazione, la pubblicità e la sempre più cosciente razionalizzazione della vita economica, almeno nelle sue manifestazioni superiori»8. d) Georg Wünsch (1887-1964) In posizioni quasi del tutto negative rispetto alle asserzioni di Weber e Troeltsch, si mette Wünsch il quale, ponendosi da un punto di vista non storico ma logico, cerca di dimostrare che il protestantesimo e il calvinismo in ispecie non possono essere stati l’origine della mentalità capitalistica. Wünsch, anzitutto, tende a ridurre la divergenza, fortemente sottolineata da Weber, tra Lutero e Calvino nella considerazione etico-economica, osservando che il risultato pratico, cioè i dettami ai quali giungono ambedue riguardo all’usura, sono analoghi: Lutero, combattendo l’usura, deve però concederla poi, in via subordinata, fino ad un interesse modico, mentre Calvino, pur ammettendola, la riduce ai limiti stessi entro i quali la scusa Lutero. Quanto alla critica diretta, cioè alla dimostrazione che il pensiero calvinistico non può aver dato inizio alla mentalità capitalistica, Wünsch in realtà si riferisce non già al graduale sorgere di uno spirito capitalistico dalla dottrina della vocazione e dalla liceità dell’usura e dall’etica di risparmio e di riuscita, ma all’ultima espressione del capitalismo, l’accumulo per l’accumulo. Dice egli stesso parlando di questa «espressione»: «È lo spirito di una tendenza illimitata al guadagno, lo spirito dell’ebbrezza di fronte alle possibilità 8

Cfr. G. Luzzatto, op. cit., p. 52.

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di guadagno, solo che si cominci razionalmente lo spirito della padronanza sul progresso che freddamente vaglia la possibilità di andare più avanti e si rallegra delle possibilità offerte dalla stessa direzione delle cose. Progresso, gioia del magnifico mondo e della sua giovevole direzione, appello alla ragione umana perché comprenda questa armonia e la domini con un lavoro felice del successo: questo indica lo spirito di Franklin. Ma questo non è lo spirito della morale del calvinismo, ma è lo spirito dell’etica ottimistica dell’illuminismo, che esulta nella fede dell’armonia e della infinita ricchezza del mondo terreno. È davvero uno spirito del tutto diverso da quello sorto nel cuore di Calvino. Lo spirito di Franklin non conosce limiti al guadagno sempre maggiore, crede di potere realizzare l’infinito sulla terra, tende a conformare indefinitamente il mondo solo per amore di questo ordine. Questo “spirito” diventa ancora più chiaro se si leggono tutti gli scritti di Franklin dai quali Weber prende le sue citazioni ed anche la sua biografia: è uno spirito diverso e nuovo, è lo spirito dell’insaziabile ed illimitata formazione del mondo per mezzo della civiltà nella quale è cresciuta la nostra cultura odierna, del tutto profana, e dalla quale questa è tuttora animata. In questo spirito è sorto il capitalismo ed ancora prospera. Vive anche nelle biografie dei grandi milionari del secolo XIX. […] Al contrario, non è mai mancato allo spirito calvinistico il momento della limitatezza. Già presso Calvino si trova la diffidenza verso la potenza del denaro; e nei calvinisti, in Baxter, ecc. (già nella forma in cui li cita Weber) e poi Wesley, Spener e Zizendorf non si trova mai questa assoluzione del guadagno, questa credenza nell’illimitatezza del progresso, ma anche in essi sempre il temperamento, la li123 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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mitazione, la restrizione che è già implicita nella concezione del mondo e nell’indifferenza implicita in essa al mondo stesso […]. Prima di Franklin, nel calvinismo non ancora falsificato dall’illuminismo, c’era agiatezza ma non un capitalismo vero e proprio. Il calvinismo e il capitalismo non hanno nulla a che fare con il modo nel quale sono sorte in America le grandi fortune […]. Ora, Max Weber ha ben riconosciuto che il capitalismo, nella sua forma più tarda, implica uno snaturamento dello spirito calvinistico classico, indica spesso il risultato antitetico o un capitalismo profano [...]. Poiché dove l’etica cristiana si presenta pura ed assume valore, essa educa, involontariamente, per la virtù da essa predicata, al guadagno ma non al capitalismo, nemmeno nella forma già lontana dal Vangelo dell’etica calvinistica: poiché anche questa vedeva molto chiaramente i segni precursori della concupiscenza ed anche ad essa, come ad ogni etica cristiana, è inerente il momento della limitazione e dell’indifferenza del denaro, che non impedisce il raggiungimento dell’agiatezza, ma impedisce la formazione di grandi ricchezze capitalistiche»9. Wünsch ha anche intenti etico-costruttivi anziché storici, in quanto tende a dare una concezione etica dell’economia dal punto di vista, a suo modo, protestante, e per questa ragione giunge a esaminare il capitalismo e la sua origine dopo avere stabilito teoricamente concetti d’ordine teologico che gli storici ricaverebbero soltanto dai documenti. Data la teoria, che insiste particolarmente sulla distanza di valore fra il cielo e il «mondo», a Wünsch non interessa in verità la teoria del capitalismo. Per lui infatti la vita economica è quella che è in ogni epoca, e non è in se stessa deci9

Cfr. M. M. Rossi, L’ascesi capitalista, Roma, 1928, pp. 80 segg.

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siva, poiché l’abisso fra mondo e Dio può essere superato solo da parte di Dio, cioè l’economia è in se stessa indipendente e indipendentemente si svolge senza che la considerazione religiosa possa avere teoreticamente influenza su questo svolgersi. Importa pertanto a Wünsch separare la teologia da una certa situazione economica, come il capitalismo. Consentendo peraltro alla concezione storica di uno sviluppo qualunque di questo rispetto a quella, viene reso impossibile un giudizio fisso e finale da parte della teologia sull’economia del tempo che deve venir presa in considerazione a sé, per essere giudicata come un dato, autonomo quindi rispetto alla religione anche nel suo generarsi. Per Wünsch il capitalismo ha tre momenti essenziali: il razionalismo, l’illimitatezza della tendenza al guadagno e l’individualismo; di questi momenti è particolarmente importante il secondo, poiché deriva da un ottimismo integrale, da una fondamentale accettazione del mondo terreno nel quale è ritenuta possibile la realizzazione dell’infinito come illimitato progresso. e) Werner Sombart (1863-1941) Nei riguardi del capitalismo, Sombart non condivise le idee di Weber, rimproverandogli anzi di aver dato troppo peso a delle sottigliezze teologiche. Per Sombart il puritanesimo non avrebbe generato, ma solo incoraggiato, lo spirito capitalistico e le condizioni economiche avrebbero indotto il protestantesimo a riconoscere che la vita del borghese era compatibile con lo stato di grazia. In ogni caso il puritanesimo, nell’atteggiarsi benevolmente verso il capitalismo, avrebbe subito le influenze dell’ebraismo. Come l’ebraismo, anche il cattolicesimo avrebbe contribuito a 125 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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facilitare allo spirito capitalistico la sua affermazione nel mondo. Predisposizioni razziali e situazioni minoritarie spiegherebbero poi i successi economici di certi popoli e di certi gruppi demografici. La teoria di Sombart rivoluzionò il campo di studio che sembrava pacificato, almeno nelle impostazioni, da Weber e da Troeltsch. Accanto ai fattori spirituali egli ne tirò in campo altri (biografici, politici, economici) e non si limitò alla relazione capitalismo-Riforma, chiamando in causa quella capitalismo-cattolicesimo e capitalismo-ebraismo, la prima come caso del problema sistema economico-etica economica, la seconda come caso del problema sistema economico-etica economica-predisposizioni razziali.10 Nella sua opera Sombart non parte dalla mentalità ebraica come tale. Egli comincia col mostrare l’intervento ebraico per tutti gli elementi che contribuirono allo sviluppo del capitalismo, tanto per quelli materiali quanto per quelli mentali, terminando appunto col porsi il problema dell’esistenza di una specificità ebraica e di qui estendendo ancora l’indagine al problema delle razze. La ricerca che poteva riuscire di complemento all’opera di Weber, nonostante le mille precauzioni critiche, porta Sombart a far giganteggiare l’ebreo nel divenire capitalistico, specie là dove dice che un esame approfondito dell’argomentazione di Weber ha in realtà convinto che quegli elementi del dogma puritano che hanno esercitato una influenza reale sulla formazione della mentalità capitalistica erano presi in prestito dalle idee che stanno alla base della religione ebraica11. Cfr. il mio Capitalismo: lusso o risparmio? Alla ricerca dello spirito originario, Roma, Donzelli, 2008, specialmente il cap. II, pp. 69-102. 11 Cfr. M. M. Rossi, op. cit., passim. 10

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Le analisi weberiane delle religioni extra-europee La tesi di Weber sullo spirito del capitalismo occidentale trova una conferma indiretta negli studi che lo stesso autore ha svolto sull’«etica economica delle religioni del mondo». Passando in rassegna i principali movimenti religiosi dell’Oriente, in quadri unitari e sistematici, sono in essi esaminate le rispettive etiche con riguardo agli atteggiamenti economici che determinano. La ricerca vuole essere insomma una serie di esperimenti negativi: mediante lo studio comparativo dell’etica delle altre religioni negli aspetti rilevanti per lo spirito del capitalismo e dell’etica del protestantesimo ascetico, si tende a provare come, date le condizioni economiche, politiche e sociali, favorevoli ad uno sviluppo capitalistico del tipo moderno, questo non abbia potuto verificarsi, mancandovi l’ascetismo calvinistico. a) Cina La struttura sociale della Cina, secondo Weber, è rappresentata da due aspetti fondamentali, dei quali l’organizzazione familistica è quello più importante, caratterizzata com’è da una fortissima solidarietà collettiva nella dicotomia unitaria dell’autorità dei genitori e della pietà filiale, fatta di obbedienza e di rispetto religioso. L’altro aspetto è la sovrastruttura politica, una sorta di teocrazia in cui l’imperatore è ritenuto, nella sua peculiare nobiltà di «figlio del cielo», il principale intermediario tra l’ordine divino e la società umana, monopolizzando così il centro dell’interesse religioso, mentre il notevole sviluppo burocratico era imperniato su una classe sociale di amministratori, i mandarini, uomini colti, di formazione prevalentemente letteraria. 127 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Tuttavia, per le serie limitazioni derivanti dalla poco accorta configurazione del sistema amministrativo e della prevalenza dei potenti interessi locali, la burocrazia rimase una sovrastruttura senza penetrare a fondo nella struttura sociale, e senza poter raggiungere il controllo diretto dell’individuo, come invece riuscì lo Stato occidentale moderno. Così anche, a differenza dell’organizzazione produttiva dell’Occidente, nonostante un buon incremento, al livello inferiore alla classe dei mandarini, delle attività specificamente economiche, continuò sempre la prevalenza della tradizione e la produzione industriale continuò ad essere organizzata prevalentemente su base artigianale. E pure, fin dai tempi più lontani, una pace stabile, le poche restrizioni della nobiltà e del commercio interni, il comune grado di uguaglianza di possibilità e di libertà nella scelta delle occupazioni, l’autonomia delle organizzazioni economiche e delle corporazioni di mestieri potevano produrre lo sviluppo di un sistema capitalistico. Ci sono state anche circostanze limitatrici di questo sviluppo al livello politico amministrativo e formale, la mancanza di autonomia corporativa delle città, il deficiente sviluppo del sistema monetario. D’altra parte, l’etica era al massimo grado utilitaristica e terrena, con la sua valutazione positiva della ricchezza, la cura degli interessi mondani e il disinteresse per l’al di là, il rifiuto degli aspetti irrazionali della religione, in particolare trascendenti. L’ortodossia confuciana che vi dominava non insegnava tutto un sistema unitario di speculazioni metafisiche, ma si limitava ad enunciare una raccolta di precetti pratici, validi per il comportamento in questa vita, dove, in grazia dell’armonia regnante in questo universo e specchiantesi nel microcosmo della società, l’uomo si doveva astenere da 128 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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qualsiasi eccesso che compromettesse il suo equilibrio, la sua dignità, il suo controllo. Il suo dovere non era quello di aiutare gli altri, ma di occuparsi dei suoi interessi personali esplicantisi in due direzioni: nel suo personale sviluppo come uomo colto e raffinato e nei suoi rapporti con gli altri improntati alla pietà. «Confucio concepì l’intera società come una rete di tali rapporti personali e il suo comandamento era che ciascuno si occupasse della rettitudine della propria condotta alla luce dei suoi rapporti personali: non doveva preoccuparsi per il suo prossimo»12. Carlo Antoni riassume l’analisi di Weber a proposito della dottrina del confucianesimo osservando che si tratta di un’etica utilitaristica e nazionalistica delle convenienze, del controllo di sé, della distinzione, che combatte come irrazionale disordine e plebea barbarie ogni forma di mistica contemplazione e di estasi orgiastica, ma mantiene il pensiero ai problemi pratici e agli interessi burocratici, abbandona il parlare alla plebe e si dedica alla difficile calligrafia, e quindi non sviluppa l’arte del definire e del ragionare, disprezza la guerra come brigantaggio, giudica il mondo il migliore dei mondi possibili, purché non sia violato il suo ordine eterno, ritiene tutti gli uomini uguali per natura e suscettibili di perfezionamento, considera sola redenzione quella dell’ignoranza e della barbarie, soli peccati le offese recate all’autorità dei genitori, degli antenati, dei superiori gerarchici, al cerimoniale e al costume tradizionale, e soli premi alla virtù una lunga esistenza, salute e ricchezza, e, dopo la morte, un buon nome13. Nonostante il suo razionalismo di fondo, la religione confuciana non cercò mai di razionalizzare la vita 12 13

T. Parsons, La struttura dell’azione sociale, tr. it., Bologna, 1962, p. 672. C. Antoni, Dallo storicismo alla sociologia, Firenze, 1940, p. 166.

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pratica, dalla politica all’economia, dal momento che l’idea centrale di tutta la dottrina era l’accettazione tradizionale di ciò che era dato, dell’ordine esistente che elideva completamente in pratica quelle risultanti teoriche «mondane» sopra accennate. Il razionalismo confuciano era un razionalismo di adattamento dignitoso ad un ordine tradizionale; la sua disciplina consisteva nell’evitare tutto ciò che costituisse disordine e nella auto-disciplina del signore nobile e dignitoso. Evidente quindi la profonda differenza dell’etica del protestantesimo ascetico, che sentiva il dovere non dell’adattamento a un mondo sociale accettato acriticamente, ma di costituirsi il proprio modo di dominare razionalmente sul mondo. Così l’etica confuciana portò l’accettazione della tradizione e lasciò inalterato il senso popolare della magia. b) India L’elemento caratteristico del sistema sociale indiano è la casta che, per quanto presenti un quadro abbastanza eterogeneo, può essere definita mediante l’elemento d’ordine che la distingue, ossia in quanto è composta di un gran numero di gruppi ereditari rigidamente endogami; generalmente locali e in rapporti gerarchici di inferiorità e superiorità. Caratterizzate da una occupazione ereditaria, le caste sono separate tra loro in base alla divisione funzionale del lavoro ed alle barriere di natura religiosa, disponendosi in maniera gerarchica nel rapporto di ciascuna con i brahamini, che rappresentano la casta sacerdotale dell’indiscussa supremazia sociale. Di natura prevalentemente agricola e con la tipica unità locale rappresentata dal villaggio il quale, nonostante l’inclusione di gruppi di diverse caste, possiede un’organizzazione abbastanza integrata e stabile, 130 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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oltre ad una larga autonomia dall’autorità politica centrale, l’India non ha conosciuto una unità strutturale del sistema amministrativo fino a raggiungere direttamente l’individuo. Malgrado un notevole incremento di corporazioni artigiane e mercantili, un florido commercio, una considerevole accumulazione di ricchezza, lo sviluppo capitalistico è sempre rimasto abbastanza lontano dalla forma del capitalismo razionale borghese dell’Occidente. Eppure l’India sembra offrire tutte le condizioni favorevoli allo sviluppo razionale dell’attività economica: Paese del grande commercio e dell’usura, dove l’istinto del lucro non ha mai lasciato a desiderare, dove guerra, politica, finanza erano razionali; debiti pubblici, appalto delle imposte, forniture, monopoli erano analoghi a quelli dell’Occidente, in cui era stato inventato il sistema numerale razionale ed erano coltivate scienze razionali, come la matematica e la grammatica, la tolleranza era quasi assoluta, i mestieri erano specializzati, l’autonomia del ceto mercantile era per lo meno uguale a quella dell’Occidente medioevale e le città erano sviluppate. A parte l’incombattibilità della casta (con la sua estrema immobilità verticale e territoriale, i suoi rapporti gerarchici ritualmente sanzionati) con lo sviluppo del capitalismo moderno, Weber cerca di trovare una spiegazione della particolare direzione economica nel complesso delle norme religiose. Il sistema religioso indiano, infatti, a differenza delle note peculiari della religiosità occidentale, non costituisce strettamente una chiesa, né si basa su un insieme di dogmi di fede, ma essenzialmente su pratiche rituali, su obblighi tradizionali della vita quotidiana: i libri sacri, in particolare i «Veda», sono sì, rispettati, ma al di qua di una forma di adozione razionale e di qualsiasi articolo di fede in quanto 131 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tale. All’enorme varietà di idee e di pratiche religiose, di dèi e di culti, e di mezzi di salvezza riconosciuti come indù, funge da base un fondamentale relativismo religioso, che rende la situazione più radicalmente individualistica. Un altro elemento importante è costituito dalla dottrina della trasmigrazione e del «Karma», secondo la quale ogni anima, esistendo fino dall’eternità fuori dell’azione creativa di un dio, nella infinita fatale vicenda della reincarnazione viene a subire gli effetti indistruttibili delle azioni compiute in particolare momento della sua unione con un individuo. Il dinamismo al quale si riduce il mondo della contingenza e su cui impera quale assoluto signore il «Karma» è scomposto in elementi irriducibili, chiamati «daarma», sia che essi appartengano al piano delle operazioni della psiche sia che piuttosto siano i costituenti della complessità fisica. Essi riguardano però in ogni caso gli obblighi tradizionali della posizione della casta di ciascun singolo. Attraverso il complesso dei doveri e la ferrea legge dell’influenza permanente degli atti sul destino dell’anima, viene determinato il posto dell’individuo nella sua reincarnazione nella gerarchia di casta. Ogni comportamento difforme dalle tradizioni interne alla casta, cui si appartiene, è male, mentre il bene si identifica con l’osservanza tradizionale degli obblighi di casta e quindi con il mantenimento delle stesse strutture; per cui ogni mutamento di mestiere o anche soltanto di tecnica, implicando il pericolo dell’impurità e della degradazione, doveva ostacolare ogni trasformazione tecnico-economica verso forme più razionalizzate di vita economica. L’ordine tradizionale deve rimanere inalterato, per cui «il laico al quale è negata la conoscenza di conseguenza il più alto obiettivo religioso oppure colui che la re132 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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spinge esplicitamente, agiscono nel perseguimento dei loro interessi quotidiani secondo la tradizione e il rituale. L’illimitato spirito di acquisizioni dell’asiatico è ovunque noto ma, come ha osservato, fra gli altri, T. Parsons, si tratta di un impulso acquisitivo che è realizzato con tutti i possibili inganni e con il continuo ricorso alla magia. Manca proprio l’elemento che è stato decisivo per la vita economica dell’Occidente: la disciplina razionale di questo impulso di acquisizione e il suo inserimento in un sistema di comportamento morale e razionale nel mondo. Questo fu introdotto dall’ascetismo terreno del protestantesimo nel quale vennero a maturazione le idee di alcuni precursori. Nelle religioni asiatiche mancarono gli elementi necessari per uno sviluppo di questo genere14. Tutte le religioni che si sono avvicendate in India, dal brahamanesimo all’induismo al buddhismo, sebbene notevolmente differenti e spesso in acre contrasto tra di loro, hanno nella loro relazione alla realtà «lontana» ed economica in particolare, il loro punto di contatto: l’etica del rifiuto del mondo, oppure un rigido conformismo, scevro da spirito innovatore. La concezione panteistica è immanente della divinità che, insieme alla dottrina del Karma e delle trasmigrazioni, forma di base comune dei filoni religiosi indiani, rendeva impossibile l’esistenza di un principio radicale del male, mentre d’altra parte la convinzione della illogicità e della transitorietà delle cose terrene sfocia in un cupo pessimismo, poiché la reincarnazione in un dio derivata da una condotta al massimo meritoria è destinata a finire, per la ripetizione di tutto il processo. Mirando a mete sempre più elevate di reincarnazioni, si tende ad evitare un interesse diretto in questo mondo, attraverso lo stato misti14

Cfr. T. Parsons, op. cit., p. 705.

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co, che trova il suo più alto valore nella contemplazione. Dalla limitata importanza proprio di questo mondo scaturisce quell’interesse ultraterreno di lotta contro la carne e di innalzamento dell’anima a contatto con l’assoluto. D’altra parte il buddhismo, la più radicale di simili religioni, redime dalla «ruota», dalla eterna vicenda della morte e della rinascita, mediante la pura contemplazione, la dissoluzione della volontà, rappresentando pertanto il tipo diametralmente opposto dell’ascetismo operante dei calvinisti. c) Ebraismo Una religione invece in un certo senso «adattata al mondo» o comunque «orientata mondanamente ma rifiutante non il mondo bensì l’ordinamento sociale vigente»15 è l’ebraismo, di sapore fortemente naturalistico nelle sue relazioni da un lato con la ricchezza e dall’altro con la vita sessuale. «La ricchezza è un dono di Dio, la soddisfazione dell’impulso sessuale (naturalmente in forma legale) è così indispensabile che il Talmud considera moralmente sospetto chi ad una certa età continui ad essere scapolo»16. Così lo schietto godimento della vita, una volta osservati i divieti positivi e i tabù della legge, non sono di per sé nulla di proibito; similmente il lavoro assiduo e il successo negli affari trovano una loro giustificazione. Infatti anche se, non esistendo alcuna dottrina della predestinazione, il buon esito del lavoro e degli affari non può venire considerato come segno della «conferma», tuttavia questa concezione che «vede nel buon andamento degli affari un segno del15 16

Max Weber, Economia e società, cit., p. 596. Ibidem.

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la favorevole disposizione di Dio non solo era vicina alla religiosità ebraica […], ma lo era in modo particolare, essendo l’ebraismo una religione che contemplava specifiche compromesse di un dio ultra-mondano, unito a precisi segni della sua ira nei riguardi del popolo che egli stesso aveva eletto»17. Ma la situazione dell’ebreo facoltoso e pio fu sempre radicalmente diversa da quella del puritano; e, sebbene fosse stato fortemente compartecipe dello sviluppo del sistema capitalistico del mondo moderno, tuttavia Weber non si sente di sottoscrivere la tesi di Sombart, riconoscendo che nella lista pur lunga delle attività economiche ebraiche mancano diverse voci che caratterizzano appunto il capitalismo moderno. Manca, per esempio, «l’organizzazione del lavoro industriale sotto forma di industrie domestiche, manifatture, fabbriche»18; e, mentre l’attività dell’ebreo partecipe di quella mentalità tipica di ogni autentica classe mercantile, di ogni età e di ogni specie (e che quindi non costituisce una caratteristica propria del capitalismo moderno), e cioè la «deliberata ed intelligente volontà di sfruttare senza mezzi termini ogni possibilità di guadagno»19, è quasi completamente assente «in ciò che il capitalismo moderno ha di specificamente nuovo, e cioè nell’organizzazione razionale specialmente di quello produttivo, propria dell’Impresa Industriale»20.Le ragioni ultime di questo fatto – secondo Weber – sono connesse al particolare carattere di popolo – pari a degli ebrei – e alla sua religiosità. Alla partecipazione degli ebrei all’organizzazione del lavoro industriale, si opponevano infatti da una parte «la precaria siOp. cit., p. 597. Op. cit., p. 598. 19 Op. cit., p. 599. 20 Ibidem. 17 18

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tuazione giuridica e di fatto degli ebrei la quale permetteva sì il commercio – e principalmente quello del lavoro – ma non una durevole impresa industriale razione con capitale fisso»21, e dall’altra la «situazione etica interna» che differiva sensibilmente da quella «esterna», dicotomia di morali, tipica di ogni popolo-paria: «ciò che non è lecito tra fratelli lo è invece verso l’esterno»22. La differente posizione dei cattolici, degli ebrei e dei puritani di fronte agli affari economici viene così riassunta da Weber: «Il cattolico di rigida osservanza si muoveva nella vita degli affari sempre nella sfera o ai confini di un atteggiamento che in parte urtava contro le costituzioni papali, e soltanto rebus sic stantibus era ignorato nel confessionale, essendo tollerato esclusivamente da una morale classistica (e probabilistica), per cui in parte era direttamente riprovevole e, in parte almeno, non del tutto ben accetto a Dio. L’ebreo devoto si trovò irrimediabilmente nella condizione di fare cose che tra ebrei erano direttamente illegali, o tradizionalmente dubbie, o tollerate soltanto da parte di interpretazioni classistiche o ritenute lecite soltanto nei rapporti con stranieri – comunque mai definiti con contrassegni positivi di valore etico. Il suo comportamento etico poteva venire giudicato solo come corrispondente alla media comune e formalmente non contrario alla legge, cioè come permesso da Dio e moralmente indifferente. Proprio su questo riposa ciò che corrisponde effettivamente a verità in fatto di affermazioni sul minimo di legalità standard degli ebrei. Che Dio coronasse qualcosa col successo poteva certo essere un segno che in questo campo nulla era stato fatto direttamente 21 22

Ibidem. Ibidem.

136 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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vietato, e che negli altri campi ci si era attenuti ai comandamenti divini, ma non era così facile trovare la propria conferma etica proprio mediante l’agire economico acquisitivo specificante moderno. Ed invece era proprio questo il caso del pio puritano, il quale faceva nulla che richiedesse interpretazioni lassistiche o una doppia morale, oppure che costituisse qualcosa di eticamente indifferente o di riprovevole dal punto di vista dell’autentica sfera dei valori etici; ma, al contrario, egli agiva con la miglior coscienza possibile, proprio in quanto comportandosi rettamente e positivamente, oggettivava nella “impresa” la metodica razionale della sua condotta generale della vita, legittimando se stesso di fronte a sé e alla propria comunità – e ciò in quanto e soltanto in quanto era del tutto fuori dubbio l’incontestabilità assoluta, e non relativa, del suo modo di agire. Nessun puritano veramente devoto – e questo è l’importante – avrebbe potuto considerare come guadagno accetto a Dio il denaro acquistato con l’usura su pegno, lo sfruttamento degli errori della controparte (il che era lecito agli ebrei nei riguardi degli stranieri), con forzature di prezzi e traffici vari, con partecipazione a spogliazioni politiche o coloniali. Il prezzo fisso, il comportamento assolutamente oggettivo negli affari, disdegnante ogni bramosia di denaro e rigorosamente legale nei riguardi di chiunque, erano atteggiamenti la cui validità presso gli uomini era per i Quaccheri ed i Battisti comprovata dal fatto che i senza Dio compravano da loro e non dai loro simili, a loro e non ai loro simili davano in conseguenze e in accomandita il proprio denaro, arricchendoli: proprio queste qualità li confermavano di fronte al proprio dio, invece il diritto verso gli stranieri, cioè in pratica il diritto-paria, vigente presso gli Ebrei autorizzava 137 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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nei riguardi dei non Ebrei – nonostante le sia pur numerose restrizioni – proprio la messa in atto di quella mentalità che il puritano aborriva come infruttuoso espediente da bottegaio, ma che per il giudeo devoto era conciliabile con la più rigorosa legalità, con l’osservanza piena della legge, con la totale interiorità di Dio alla propria religiosità, con il più generoso amore verso quanti erano a lui congiunti nella famiglia e nella comunità, con la pietà e la mansuetudine verso tutte le creature di Dio. Nella devozione ebraica non avvenne mai che, proprio nella prassi della vita, la sfera delle acquisizioni lecita nell’ambito giuridico nei rapporti legali con gli stranieri valesse come quella in cui si conferma la purezza dell’obbedienza ai comandamenti divini. Mai un Ebreo devoto ha commisurato lo standard interno della sua etica a ciò che egli ritiene permesso in questo campo. Ma, allo stesso modo che per il Confuciano l’autentico ideale della vita era il gentleman dalla multiforme cultura cerimoniale ed estetica, educato letterariamente e dedito per tutta la vita allo studio dei classici, per l’Ebreo esso si incarnava nell’esperto della legge, nello scriba, nell’intellettuale sempre immerso nello studio degli scritti sacri e dei relativi commenti, anche a spese dei suoi affari, che abbandonava sovente alla moglie»23. d) Islam In un senso del tutto diverso è «adattato al mondo» l’Islam, ricco di motivi antico-testamentari e cristiano-giudaici. L’iniziale religiosità escatologica di Maometto nello sviluppo della comunità paleo-islamica si trasformò in un orientamento di ceto ed una religione di guerra nazionale 23

Op. cit., pp. 600-601.

138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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araba, il cui comandamento non aveva innanzi tutto scopi di conversione, ma si proponeva la conquista del primato sociale assoluto sui tributari di altre religioni. «Tutto questo, unito all’importanza della preda di guerra negli ordinamenti e nelle promesse, e soprattutto nelle attese proprie del più antico Islam, diede a questa religione l’impronta di una religione di padrone, confermata anche dal fatto che gli elementi ultimi della sua etica economica sono prettamente feudali»24. Il possesso di origine bellica e politica, e in genere la ricchezza, hanno nell’Islam un’importanza opposta al punto di vista puritano: «La tradizione dipinge come accetto a Dio il lusso nelle vesti, i profumi e l’accurato trattamento della barba, costituendo così polo estremamente opposto di ogni etica strettamente puritana; essa corrisponde infatti a concetti feudali di ceto, al punto che la tradizione fa dire a Maometto, a proposito di gente benestante che prima si trovava in cattivo arnese, che Dio, quando benedice un uomo con l’agiatezza, ama che “le sue tracce siano visibili anche in Lui” – il che, tradotto nel nostro linguaggio, vuol dire che i ricchi hanno il dovere di vivere conformemente al loro ceto»25. A norme di carattere religioso, come il riconoscimento di un solo Dio, come signore di illimitata potenza ma anche benigno, e il suo profeta, il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita, le preghiere quotidiane, il digiuno, si accompagnavano regole di carattere essenzialmente politico, che bene si amalgamavano a quelle nelle comuni origini bellico-religiose. La condotta della vita, influenzata 24 25

Op. cit., p. 608. Ibidem.

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da questa religiosità è avviata «in una direzione che è in effetti proprio l’opposto di quella metodica puritana della vita ed in genere della metodica dell’ascesi intra-mondana»26. E, pur se vi furono sette ascetiche, si trattò di «un’ascesi da campo di battaglia o da ordine cavalleresco e guerriero, non monastica; e più ancora non si tratta di una sistematica ascetica borghese della condotta di vita, ma di una ascesi realmente operante soltanto a periodi, e sempre pronta a capovolgersi in fatalismo»27. A conclusione di questo capitolo e della parte espositiva della teoria weberiana sullo spirito del capitalismo, è forse opportuno citare per esteso una pagina di Weber, tratta da Economia e società e che, chiudendo la parte dedicata alle religioni universali nella loro relazione con il mondo, riassume in forma chiara e precisa la sua lunga ricerca in proposito. «Sul terreno di tutte queste religiosità – scrive Weber – si è avuto senz’altro del capitalismo, e precisamente lo stesso che vi fu nell’antichità e nel Medioevo occidentale. Ma non vi fu nessun sviluppo, e neppure nessun avvio di uno sviluppo verso il capitalismo moderno, e meno ancora uno spirito capitalistico nel senso che fu proprio del protestantesimo ascetico. Significherebbe cambiare le carte in tavola voler attribuire al commerciante, al bottegaio, all’artigiano, al bracciante indiano o cinese o musulmano, un impulso al profitto minore che ai loro colleghi puritani. È invece vero piuttosto il contrario: ciò che il puritanesimo ha di tipico è proprio invece la repressione della sete di guadagno. E non c’è elemento alcuno per dimostrare che una minore attitudi26 27

Op. cit., p. 610. Ibidem.

140 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ne naturale al razionalismo tecnico ed economico serva da base di distinzione. Tutti questi popoli importano oggi questo bene come il prodotto più importante dell’Occidente, ed i limiti che la cosa incontra non dipendono dalla volontà e dai desideri, ma da tradizioni consolidate, proprio come avvenne da noi nel Medioevo. Nella misura in cui non entrano in gioco condizioni puramente politiche […], la ragione è da ricercarsi prevalentemente nella religiosità. Soltanto il protestantesimo ascetico diede realmente il colpo di grazia alla magia, all’extra-mondanità della ricerca della salvezza, all’illuminazione contemplativa di carattere intellettuale che ne costituisce la forma estrema, e soltanto essa produsse il motivo religioso della ricerca della salvezza, e proprio nell’impegno della professione intra-mondana – cioè in antitesi alla concezione rigidamente tradizionalistica della professione propria dell’induismo – nell’esercizio metodicamente razionalizzato della professione. Per la religiosità asiatica popolare di ogni genere, il mondo restò invece un grande giardino magico; la venerazione, o il confinamento degli spiriti o la ricerca ritualistica, idolatrica, sentimentale della salvezza costituirono i mezzi per orientarsi praticamente in esso, per l’al di qua e l’al di là; e da quella religiosità magica degli strati non intellettuali asiatici nessuna via portò alla metodica razionale della vita, come del resto nessuna via portò ad essa dall’adattamento al mondo del confucianesimo, dal rifiuto del mondo del buddhismo, dal dominio del mondo dell’Islam o dalle speranze paria e dal diritto economico paria del giudaismo»28. Parallelamente, ne La città, Weber ci dà una visione sintetica del mondo dal punto di vista di quell’universale feno28

Op. cit., pp. 613-614.

141 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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meno che nella storia di tutti i popoli è costituito dalla città. La città è data dai nuclei fondamentali intorno ai quali, nelle varie civiltà, si formano i rapporti economici e sociali decisivi, le direzioni e la teorica dei partiti politici, la lotta e l’accordo delle classi, le vicende della politica interna ed esterna. La storia dell’evoluzione delle città è l’evoluzione del mondo, vista in uno dei suoi gangli fondamentali, dove risultano chiare le conseguenze delle varie concezioni religiose ed il loro rapporto con le strutture sociali, giuridiche ed economiche. Weber crede anche qui di poter distinguere fra due grandi visioni del mondo e concezioni della vita, della cultura, della società: la concezione dell’Oriente e dell’Occidente. Quella Occidentale infatti si basa, oltre che sulla concezione calvinistica, sulla «città», nella quale si esprime la fondamentale distinzione tra il mondo orientale e il mondo occidentale. Come il cristianesimo realizza la sua forma tipica nel calvinismo, così la città tipica è rappresentata dalle città italiane e da quelle nord-occidentali dell’Europa, fondate su una libera associazione creata dal ceto cittadino con la sua etica della concorrenza, del successo, della libertà politica e commerciale, che sanziona, appunto, il trionfo economico della borghesia, basato su una concezione tecnico-razionale che impone la sua conseguente struttura etica e sociale. È da notare che le città sono per Weber organismi tipicamente rivoluzionari. Fin dall’inizio esse appaiono infatti in lotta contro una concezione irrazionale ed orientale della vita, che tenta di imporsi nelle distinzioni di casta e di classe, nel burocratismo e nel mandarinismo, nel dogmatismo unificatore e massiccio del potere centrale tipicamente rappresentato dai grandi imperi d’Oriente. 142 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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I limiti di Max Weber L’ampiezza e la profondità delle analisi di Max Weber sono fuori questione. Resta tuttavia in piedi quanto era rilevato nelle osservazioni conclusive della parte terza di questo scritto: Max Weber intellettuale impegnato, dalla tribuna della cattedra universitaria e da quella del giornalismo politico, non ha previsto l’ascesa del Nazismo; con l’inserimento dell’art. 48 nella Costituzione di Weimar si può, anzi, sostenere che lo abbia inconsapevolmente aiutato. Perché? Come mai questo insigne studioso, tormentato dagli scrupoli dell’esattezza a proposito dei documenti delle antiche religioni orientali, tanto da perderci il sonno, ha poi così grossolanamente fallito allorché si trattava del futuro politico immediato della sua Germania? Come ha potuto, questo campione dell’autonomia della ricerca, essere così miope di fronte all’incombente rovina della Repubblica di Weimar, foriera dell’avvento del Nazismo al potere? Dov’è la ragione segreta di questa colossale cecità che all’improvviso sembra colpire la sua straordinaria acutezza analitica? La sorpresa è anche più notevole se si pone mente al fatto conturbante che, con riguardo ai particolari della situazione politica e culturale europea, Weber ha dato ampie prove di una chiaroveggenza eccezionale: prevede il frazionismo e la segmentazione politica che risulteranno dall’adozione della legge elettorale proporzionale; non si fa illusioni, descrive anzi con accuratezza estrema l’emergere e il tipo socio-psicologico del professionista politico che non vive più per bensì della politica; è più analitico di Marx, ma anche di Werner Sombart a proposito delle concentrazioni industriali e del gigantismo burocratico; non si stanca di of143 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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frirci tipologie della città, interminabili cataloghi di attività e di tipi sociali, definizioni e distinzioni e sotto-distinzioni di ceti, condizioni, poteri. Tutto questo si infrange contro la semplice realtà socio-politica, economica e culturale della Germania post-guglielmina; mentre il grande sociologo allinea con intelligente eleganza le sue tipologie, non lontano da lui un ex-imbianchino e artista frustrato sta scrivendo il Mein Kampf, esprime in esso la paura, l’angoscia mai accettata e mai riconosciuta come tale, la sete profonda di rivincita di tutto un popolo cui si è fatto credere che era stato derubato della vittoria, e non se ne accorge. Questo interrogativo è fondamentale per comprendere, insieme con i meriti, anche i limiti, di metodo e di sostanza, della sociologia weberiana; ma questo interrogativo non è mai sollevato con chiarezza. Si tende invece, anche da parte dei commentatori più avvertiti, ad attingere dal gran pozzo weberiano tutti i materiali dei quali si abbia per avventura bisogno senza darsi pensiero della costruzione nel suo insieme, con la stessa allegria spensierata con cui i costruttori di chiese medievali saccheggiavano i templi dell’antichità classica. I maestri sono per solito massacrati dai discepoli. Weber non sfugge a questa regola. Abbiamo già accennato all’atteggiamento di Talcott Parsons che vede in fondo in Weber niente più che il suo battistrada. Weber, secondo Parsons, avrebbe dato inizio alla costruzione della teoria generale del «sistema sociale» e dell’azione intenzionalmente orientata; peccato, sembra pensare Parsons, che si sia fermato a mezza strada. Nessuna meraviglia, dunque, che tocchi a Parsons di riprendere e di portare a compimento l’impresa. Naturalmente si tratta di un fraintendimento totale. Parsons ha di fronte dei problemi che non rientrano 144 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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neppure marginalmente nell’ambito problematico degli interessi di Weber. Di fronte a Weber c’è un problema di cambiamento o, quanto meno, di riorientamento di una élite, cioè di un vertice economico, sociale e politico, chiamato dalla crescente potenza della Germania riunificata da Bismarck a dare la misura della propria statura storica, cioè della propria adeguatezza rispetto alle esigenze di direzione razionale e di utilizzo ottimale di risorse, umane e materiali, in netto aumento, tali da rompere definitivamente i tradizionali equilibri acquisiti in Europa dal Congresso di Vienna e già incrinati dalla guerra franco-prussiana del 1870. Parsons si trova a dover svolgere, più o meno consapevolmente, tutt’altra funzione. Già prima del 1940 – l’opera The Structure of Social Action (La struttura dell’azione sociale) è del 1936 – ma soprattutto a partire dall’immediato dopoguerra, facendosi interprete del riemergere dell’esigenza sistematica nelle scienze sociali, Parsons avvia quietamente un discorso che si attaglia perfettamente alle esigenze profonde della società americana. Nessun dubbio che, sia come stile di pensiero che come treno di vita, Parsons appartenga alla schiatta dei grandi sistematori culturali e dei «papi laici». Ma bisogna vedere le cose più addentro. L’America che esce vittoriosa dalla Seconda guerra mondiale è un’America radicalmente mutata rispetto all’anteguerra; i ritmi di Withman sono lontani, la «rude semplicità» dei pionieri, le loro «virtù domestiche», un ricordo che si tinge di retorica; l’innocenza di un mondo tutto nuovo, estraneo alle beghe complesse delle contrastanti ideologie e alle lotte contaminanti della politica di potenza, è per sempre perduta. 145 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Dopo il secondo conflitto mondiale, l’America si trova, quasi di sorpresa, in una posizione sostanzialmente nuova, lontana ormai da ogni concreta possibilità isolazionistica, coinvolta nelle vicende mondiali in maniera irrimediabile. È una posizione scomoda, cui l’americano medio e gli stessi gruppi dirigenti non sono abituati, ma è una posizione inevitabile. All’epoca del primo dopoguerra, passata l’esplosione di spirito moralistico e puritanicamente rigido del presidente Wilson, gli Stati Uniti avevano potuto rientrare nei loro quadri abituali avendo in definitiva concluso ottimi affari: entrati in guerra nel 1917 quando i giochi erano ormai fatti, con pochi morti e tutto sommato poco disturbo, erano riusciti a passare, fra alleati boccheggianti e affamati, da nazione debitrice, specie nei riguardi della Francia e dell’Inghilterra, a nazione ampiamente creditrice; firmati gli armistizi, i soldati, gli strateghi e gli statisti americani avevano potuto abbandonare l’Europa e tornarsene tranquilli alle proprie abitudini casalinghe, lasciandosi al più alle spalle una ristretta élite di scrittori e di artisti che a Parigi e dintorni avrebbero fatto festa almeno fino alla grande crisi del 1929, quando il crollo delle azioni industriali a Wall Street e il cambio sfavorevole del dollaro avrebbero chiuso un poco bruscamente lo splendido intermezzo parigino di Gertrude Stein, Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e di tutti gli altri. Il secondo dopoguerra è profondamento diverso. Gli Stati Uniti ne emergono in posizione egemonica su scala mondiale e non possono più tornarsene semplicemente a casa. È nel quadro di questa situazione profondamente mutata che si comprendono l’intento profondo e la ragione non occasionale della fortuna di Talcott Parsons. La sua opera diviene 146 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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emblematica. La costruzione del «sistema sociale» e l’individuazione dei suoi prerequisiti funzionali può assumere l’apparenza di un’impresa puramente teorica in termini intellettuali; in realtà, è la risposta a un complesso bisogno politico che l’America post-bellica avverte nelle sue nervature più intime, al senso angosciante di una nuova, inedita responsabilità imperiale che il declino dell’Inghilterra fa pesare sulle sue spalle e la rende insicura, alla sensazione ancora emotiva, ma già percepita come un esito inevitabile o come una sorta di oscura condanna, che non si potrà più tornare a casa, e barricarvisi dentro, e dimenticare il vecchio mondo con le sue faide complicate e con i suoi irrisolvibili problemi. L’America è costretta a fronteggiare il mondo esterno, il mondo «an-americano»: non è un’opzione; è una questione di sopravvivenza; al di fuori del confronto ideologico e dell’impero, non vi sono che l’irrilevanza e l’annientamento storico. L’America deve riconoscersi, fissare la propria identità per presentarsi, per porsi come un plausibile termine di riferimento e come un punto ideale di raccolta e di convergenza della lealtà ideologica degli esseri umani. Il «social system» (sistema sociale) di Talcott Parsons è il biglietto da visita dell’America. In altre parole, è il tentativo più laborioso e maturo che gli Stati Uniti fanno per riconoscere e per identificare se stessi, il tentativo – si potrebbe anche dire – di «specchiarsi» in una costruzione sistematica ad alto livello di astrazione, in cui vengono garantiti e fissati per sempre i principi fondamentali della loro convivenza storica analiticamente giustificati e garantiti rispetto a qualsiasi possibile evoluzione, come risposta ed esorcismo insieme del pericolo di dissoluzione prima di prendere contatto con il «mondo esterno», con le culture «altre». 147 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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Questo complesso bisogno politico, di auto-analisi e di auto-affermazione, dell’America post-bellica è duplice, ha una doppia dimensione, interna ed esterna. Sul piano interno, questo bisogno indica la necessità che l’America – società di immigrati, di bianchi e neri, di persone con origini razziali e confessioni religiose profondamente differenziate, di interessi fortemente contrastanti dietro il credo ufficiale dell’uguaglianza - si omogeneizzi, si integri, divenga una «unione» effettiva, e non solo da un punto di vista formale giuridico (our more perfect Union!). Sul piano dei rapporti internazionali e interculturali, l’America post-bellica non ha solo da risolvere il problema di una presentazione fotogenica della propria immagine; a ciò sarebbe forse sufficiente il racconto favoloso degli emigranti di ritorno, di coloro che in vario modo hanno fatto fortuna in questo «Paese di Dio». Si tratta invece di presentare l’America come realtà storica determinata, ma nello stesso tempo facendovi convergere, anzi facendola coincidere, con il modello assoluto e intemporale di una società industrialmente avanzata e tecnicamente progredita che confluisca e si identifichi, al limite, con la sola società civile che nelle condizioni odierne sia concepibile, empiricamente rilevabile e nello stesso tempo idealmente normativa per tutte le società possibili. È in questa prospettiva che si chiarisce la confusione, tipicamente americana, fra il dato e il valore, vale a dire fra ciò che è e ciò che deve essere. Non solo, ma si chiarisce anche l’incapacità, anch’essa tipicamente americana, di vedere l’altro come altro, cioè di accettare l’alterità dell’altro, insieme con la tendenza, naturalmente imperialistica o «missionaria», a voler ridurre l’altro a sé, a proiettare sé, la propria cultura, i propri valori, sull’altro da sé, sulle altre culture, sugli altri, differenti valori, negando così, in148 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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sieme con la pluralità delle culture e dei valori, la dialettica e la storia, ed eternizzando se stessi, lo stadio di sviluppo storicamente raggiunto e determinato, come se fosse lo stadio assoluto, il capolinea della storia, la fine della possibilità evolutiva del genere umano e dell’assetto economico, politico e culturale dei suoi modi di convivere, mentre nella realtà politica e storica determinata ci si proibisce di capire gli altri e di avere rapporti con gli altri popoli e con le altre culture che non siano rapporti di dominio, diretto o indiretto. Dietro l’impostazione sistematica di Parsons si profila dunque il duplice bisogno politico degli Stati Uniti di «integrarsi» e di «coerire» all’interno e nel contempo di affermarsi egemonicamente sul piano dei rapporti internazionali. Ben diverso è il compito che Weber consapevolmente si assegna. Il razionalismo che gli appare come il tratto distintivo dell’Occidente e ch’egli vede trionfare nei grandi organismi burocratici e nel sorgere dello Stato moderno non va confuso con l’«attivismo strumentale» di cui parla Parsons. Mentre per Weber la cura e la preoccupazione fondamentale sono da porsi nell’allevare una responsabile élite politica in senso proprio, indipendente rispetto ai grandi burocrati privi di investitura nel senso pieno del termine, per Parsons la tensione politica è già tanto caduta e diluita da poter spacciare come equivalenti la guida politica e la pratica amministrativa. Weber e la dialettica In questo senso si chiarisce che non è sostenibile concepire Weber come la premessa dell’impostazione sistematica di Parsons. La non proponibilità di questa concezione pog149 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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gia su due ordini di ragioni fondamentali. Il primo ordine riguarda il contesto storico specifico cui i due autori appartengono e le risposte alle differenti esigenze che essi cercano. Di queste ragioni abbiamo più sopra fatto cenno. Il secondo ordine di ragioni è invece costituito da motivi logici intrinseci su cui converrà qui, per quanto schematicamente, intrattenerci. A questo proposito, va chiarito in primo luogo che Weber, in netta antitesi con l’intento di Parsons, in nessun luogo mostra interesse a costruire il «sistema». È in lui vivissimo il senso della peculiarità storica. È un fatto che Weber preferisce concentrare la sua attenzione sui mutamenti effettivi della storia dell’Occidente invece di por mano a costruire una teoria generale dello sviluppo o del cambiamento sociale o del «sistema sociale». In altre parole, preferisce una scienza empirica di realtà concrete ad un astratto sistema di società globali e indefinite, le peculiarità della vita storica, datata e vissuta, ad un vago universalismo intemporale. È vero però che Weber parla di «legge causale» (Kausal Gesetz). Ma, a mio giudizio, la «legge causale» weberiana non ha nulla a che vedere con le leggi tendenziali generali della Scuola Storica né con i principi evolutivi, anch’essi generali o addirittura generici, dell’evoluzionismo spenceriano né, infine, con i parallelismi suggestivi, con i «corsi e ricorsi» o con le generalizzazioni spurie dei «filosofi della storia», che abitualmente confondono principi di preferenza personali e accertamento scientifico. Il nodo problematico qui accennato è importante e non si lascia certamente sciogliere dalle brevi osservazioni che possiamo in questa sede dedicargli. La «legge causale» weberiana è una legge di imputazione, o attribuzione genetico-causale, tendente cioè a rilevare e a districare le 150 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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interconnessioni causali-condizionali tra i fenomeni, ma è una legge causale rigorosamente relativa e limitata a un ambito storico peculiare ben definito e circoscritto. Essa è quindi valida non in generale o per altri, differenti contesti seppure in via analogica, bensì solo all’interno dell’ambito determinato, cioè all’interno di un preciso «orizzonte storico» (per esempio, il fenomeno del capitalismo all’interno della storia dell’Occidente, e solo dell’Occidente). Di qui deriva l’idea fondamentale in Weber, così largamente fraintesa, dell’individuum o unicum storico quale oggetto fondante della sociologia comprendente. L’individuum storico weberiano non è l’ineffabile – unico, irriducibile, irripetibile e pertanto imprevedibile – evento storico dello storicismo idealistico (da Dilthey a Rickert fino ai neo-idealisti italiani, in particolare Croce e Antoni). Se così fosse, cadrebbe immediatamente l’idea stessa della sociologia quale scienza dell’evento umano storico, constatato nei suoi elementi di relativa uniformità e quindi, non essendo esso mai né assolutamente determinato né assolutamente indeterminato, bensì variamente condizionato, prevedibile, benché entro i margini alquanto ristretti delle condizioni specifiche che appunto pesano su ogni agire umano dotato di senso, ossia orientato verso uno scopo. L’evento, cioè l’agire umano intenzionato, non è dunque per Weber ineffabile o imprevedibile, ma può al contrario essere trascelto e posto come oggetto di analisi scientifica. Ciò detto, va subito chiarito che la legge causale weberiana non cade nelle aporie classiche della concezione positivistica del fatto sociale appunto in grazia della intenzionalità umana dell’agire di cui si occupa e che sfugge, 151 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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per definizione, ad un congelamento «fattualistico» di tipo positivistico ingenuo. Dimostrata o quanto meno richiamata la eterogeneità della legge casale weberiana rispetto alla concezione storicistico-idealistica e a quella positivistica, non è dato tuttavia di affermare che Weber dia corso ad analisi storico-dialettiche. Louis Schneider ha di recente osservato che «una visione dialettica non porta necessariamente con sé una dubbiosa metafisica della cultura o della storia e che non deve presumere che l’universo stesso trasuderà una soluzione per i grandi problemi sociali dell’uomo, una soluzione che comporterà una sicura felicità. Essa può essere compatibile con una tendenza empirica che esige prove delle dimostrazioni dialettiche e può benissimo non accontentarsi di una proposizione semplicemente perché ha una forma o argomentazione dialettica. È questo tipo di dialettica, che non è certo in contrasto con la scienza, che mi sembra chiaramente di vedere al lavoro nel pensiero di Weber»29. Mi sembra lecito qualche dubbio. Sarebbero chiari i vantaggi se si potesse provare la fondatezza dell’interpretazione di Schneider. Una dialettica in accordo con la scienza offrirebbe, oltre tutto, la via d’uscita dall’annoso impasse Popper-Adorno. Ma sorge il dubbio che del termine e del concetto di dialettica si segua qui un’accezione fortemente, e indebitamente, riduttiva. Il tentativo di Weber è pur sempre quello di costruire tipologie, cataloghi, inventari analitici così accurati da rischiare il rimprovero di pedanteria. Sembra in ogni caso che per Weber ogni legge o tipo o catalogo, relativo a fenomeni storicamente determinati e sociologicamente rilevanti, non può sottrarsi al suo intrin29 Cfr. L. Schneider, «Max Weber: saggezza e scienza in sociologia», tr. it. in Rassegna italiana di sociologia, XI, 4, ottobre-dicembre 1970, pp. 536-537.

152 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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seco carattere formale. A differenza, per esempio di Marx o di Hegel, Weber appare convinto che la realtà oggettiva non la si può «agganciare», per così dire, mediante schemi concettuali (di qui la taccia, non priva di fondamento, di neo-kantismo). Si potrebbe anche dimostrare, ma la cosa si presenta alquanto ardua e certamente laboriosa, che, nello stesso concreto procedere delle sue ricerche e nel modo di impostarle, Weber non sia un sociologo dialettico, vale a dire non agisca e non si muova in base al presupposto di un movimento propriamente dialettico della realtà sociale globale. Le sue tipologie (per esempio, il patrimonialismo, la burocrazia ecc.) allineano elementi di realtà, tipizzazioni astratte, fenomeni reali, cioè storicamente determinati, filtrati e sussunti in uno schema concettuale che ha lo scopo di garantirne il riordinamento razionale metodico e quindi la comprensione concettuale, e non la mera percezione soggettiva, sia pure nella diltheyana versione dell’Erlebnis, ma questi «elementi» o «aspetti» o «sfaccettature» di realtà, che corrispondono ai modi, teoricamente infiniti, con cui la realtà prismaticamente si presenta a noi e che Weber ha il merito grande di non ridurre e congelare e costringere nei vecchi meccanicistici «fattori», egli non li vede mai interagire dialetticamente in senso proprio, li colloca tutti sullo stesso piano, forse per estremo scrupolo di imparzialità euristica, si proibisce di affermare la priorità degli uni rispetto agli altri, si vieta di riconoscere alcun elemento privilegiato e in questo modo si condanna alla paralisi, alla miopia o addirittura alla cecità a proposito di quella dinamica del presente cui tanto teneva e allo studio della quale aveva dedicato tutte le energie. Non solo; per via del gusto della tipologia analitica accura153 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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ta, tendenzialmente completa e onnicomprensiva, Weber è essenzialmente retrospettivo. Le sue analisi servono a comprendere il passato; sono piuttosto mute circa il presente. Anche Weber è, tutto sommato, paralizzato da un «eccesso di storia», per valerci della frase di Friedrich Nietzsche. Si possono forse scorgere in lui dei presentimenti di una dialettica nuova, capace di legare dato empirico e globalità concettuale e di cogliere, con una concezione della sociologia come compartecipazione di ricercatori e di oggetti della ricerca, la storia nel suo farsi, ma per elaborare compiutamente siffatta nuova «dialettica relazionale» sarebbe stato per Weber necessario trascendere, insieme con le sue origini familiari e sociali, il suo élitismo profondamente radicato sul piano teorico e come esperienza esistenziale, il suo individualismo metodologico, la sua tragica visione politica, tutta permeata da una diffidenza invincibile verso le masse nel momento stesso in cui vede con allucinante chiarezza l’insufficienza storica, l’inadeguatezza tecnica e il ritardo mentale della élite al potere.

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