Il problema del Rinascimento
 9788868435462

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Lo storico delle maree Introduzione di Gabriele Pedullà
Nota bibliografica
Il problema del Rinascimento
Rinascimento e realismo

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L’idea di Rinascimento è uno dei concetti chiave su cui si è modellata l’identità culturale europea. Al solo pronunciarla, questa parola evoca ancora oggi, nel senso comune diffuso, il sogno di un’epoca «di porpora e d’oro», di un mondo immerso in un dolce chiarore. Individualismo, ritorno al classico e riscoperta dei suoi valori estetici, allentamento dei vincoli religiosi e senso della vita, nuova centralità del mondo e della natura: sembrano questi i suoi tratti essenziali, che una lunga tradizione di studi ha fissato nel tempo e che tuttora ci consegna. Ma è davvero così? «Leggere i saggi di Huizinga – scrive Gabriele Pedullà – è la migliore introduzione agli enormi problemi che un concetto fruttuoso, ma anche controverso come quello di Rinascimento ha posto e continua a porre agli studiosi». Il Rinascimento, infatti, è un concetto mutevole, caratterizzato, fin dalla sua prima definizione presso i contemporanei, da una larga oscillazione di significati, riguardo ai campi della sua applicazione, ai suoi termini cronologici e ai suoi ambiti geografici. Lo sviluppo stesso di questa parola, insomma, è una delle prove più lampanti del fatto che la storia non è una scienza indipendente, e che essa è legata da rapporti indissolubili con la vita stessa di un’epoca, il che rappresenta insieme la sua debolezza e la sua forza. Da Valla a Machiavelli e a Erasmo, da Vasari a Leonardo e a Galileo, e poi via via da Voltaire a Goethe, e da ultimo, nell’Ottocento, «secolo della storia», da Michelet a Burckhardt, l’interpretrazione del Rinascimento si sposta, fino a fissarsi alla fine, in modo schematico e semplificatorio, su una contrapposizione netta con l’intera storia precedente, con quel medioevo dei secoli bui che 3

rischia di diventare, a confronto, un tutto indistinto e negativo. Ne segue, nota acutamente Huizinga, uno strano fenomeno di «predatazione» del Rinascimento medesimo: tutte le volte che, ben prima del fatidico crinale tra Quattro e Cinquecento, si presenta una qualche personalità in grado di esaltare i valori dell’individualismo, nella letteratura, nelle arti, nella scienza o nello stesso campo del rinnovamento religioso, ecco che questa personalità è rappresentata come «precorritrice», si tratti di Petrarca o di Dante, di Giotto o di Francesco d’Assisi. L’analisi di Huizinga suggerisce uno scenario più mosso, più articolato. Il Rinascimento è per il grande storico olandese un fenomeno fatto di sfumature, di mezze tinte; un’età di transizione che si dispone contraddittoriamente tra gli scenari dell’universo medievale e la faticosa, più lunga conquista della prospettiva del mondo moderno. Letto a distanza di quasi un secolo dalla sua stesura e a settant’anni dalla morte di Huizinga, questo saggio rappresenta un contributo incredibilmente attuale. Sfumata la visione di uno sviluppo storico a tutti i costi lineare e progressivo, l’idea di Rinascimento si ripresenta oggi come il banco di prova di una consapevolezza storica complessa, da rivisitare e da riconquistare. Ed è qui la grande lezione di questo splendido, piccolo libro.

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Johan Huizinga (1872-1945) è stato uno dei più grandi storici europei del primo Novecento. Nato e vissuto in Olanda, ha insegnato per un lungo periodo all’Università di Leida, pubblicando qui i suoi lavori più importanti – da L’autunno del Medioevo (1919) alla grande monografia su Erasmo (1924), da La civiltà olandese del Seicento (1933) a Homo Ludens (1938) –, tutti tradotti dall’olandese e diffusi nelle principali lingue europee. Durante l’occupazione tedesca dei Paesi Bassi, Huizinga, sostenitore dei valori della libertà contro ogni totalitarismo, venne perseguitato dal regime nazista. Arrestato nel 1942, rimase prigioniero fino alla morte, avvenuta il 1º febbraio 1945.

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Piccola Biblioteca Donzelli

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Johan Huizinga

IL PROBLEMA DEL RINASCIMENTO Con un saggio su Rinascimento e realismo Introduzione di Gabriele Pedullà Traduzione di Piero Bernardini Marzolla

DONZELLI EDITORE

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Titoli originali: Het Probleem der Renaissance; Renaissance en Realisme. Non è stato possibile rintracciare i detentori dei diritti della traduzione di Piero Bernardini Marzolla. L’editore si dichiara disponibile a riconoscerli a chi ne facesse legittima richiesta. © 2015 Donzelli editore, Roma Via Mentana 2b INTERNET www.donzelli.it E-MAIL [email protected] ISBN 978-88-6843-546-2

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Indice

Lo storico delle maree Introduzione di Gabriele Pedullà

Nota bibliografica Il problema del Rinascimento Rinascimento e realismo

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Lo storico delle maree Introduzione di Gabriele Pedullà

Vuole guardare un’onda e la guarda. […] Non sono «le onde» che lui intende guardare, ma un’onda singola e basta. […] Però isolare un’onda separandola dall’onda che immediatamente la segue e pare la sospinga, e talora la raggiunge e travolge, è molto difficile; così come separarla dall’onda che la precede e che sembra trascinarla dietro verso la riva, salvo poi magari voltarglisi contro come per fermarla. Italo Calvino, Palomar

Per molti versi, le pagine che il lettore si appresta a prendere in mano risultano irrimediabilmente datate agli occhi di uno studioso del XXI secolo. Procedono più di una volta per generalizzazioni indebite, appaiono ispirate da una concezione fondamentalmente idealistica degli eventi storici, molti dei dati fattuali presentati come incontrovertibili possono ormai essere smentiti con facilità (a questo proposito basteranno un paio di esempi da tenere a mente come caveat più generali: non è vero che la parola «Renaissance», nel suo senso storico-culturale, sia entrata nell’uso francese al principio del XIX secolo, come si verifica consultando il Dictionnaire universel, contenant generalement tous les mots français di Antoine Furetière, dove nel 1690 troviamo già censita l’espressione «Renaissance des beaux arts»; allo stesso modo è scorretto sostenere che Giorgio Vasari sia stato «il primo a vedere 10

chiaramente la rinascita come un fatto storico»). Perché dunque ristampare a distanza di tanti anni due testi apparsi originariamente nel 1920 e nel 1929, ma scritti entrambi nel 1920? A una simile domanda si può rispondere altrettanto convincentemente in due modi. Il primo è dire che Huizinga ingaggia in queste pagine un duello intellettuale con quella Civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt dalla quale, in gran parte, dipende ancora oggi la rappresentazione corrente che ci facciamo di questa epoca. Esattamente come il borghese-gentiluomo di Molière che ignora di fare della prosa ogni volta che parla, è assai probabile che un non specialista della storia culturale del Quattro e del Cinquecento sia burckhardtiano senza saperlo; per questo, leggere i saggi di Huizinga è probabilmente tuttora la migliore introduzione agli enormi problemi che un concetto fruttuoso, ma anche problematico e controverso, come quello di «Renaissance» ha posto e continua a porre agli studiosi. La seconda risposta è che i due saggi di Huizinga, e soprattutto il primo, hanno segnato l’ultimo atto di un modo di guardare a quella stagione e l’inizio di un approccio per molti versi più vicino a quello attuale, nel quale cioè chi lavora oggi su queste tematiche può riconoscersi. Da questo punto di vista non si riesce a immaginare un’altra coppia di saggi che, in così poche pagine, riescano a introdurre tanti stimoli a proposito della categoria di Rinascimento quanto i due qui riproposti. Conviene partire dal primo aspetto: il confronto con Burckhardt. Lo stesso Huizinga, d’altra parte, lo dice in maniera assai chiara nella panoramica retrospettiva che apre il primo dei suoi due saggi: il concetto di «Renaissance» ha impiegato alcuni decenni a precisarsi e a stabilizzarsi, e – 11

nonostante il progressivo chiarirsi del termine – il processo si è compiuto davvero solo nel 1860, anno della grande monografia di Burckhardt. Altri storici ottocenteschi prima di lui avevano intuito la grande rilevanza di questa categoria storiografica, ma ne avevano comunque colto solo gli aspetti più superficiali. Agli occhi di Huizinga, Burckhardt ha offerto invece la prima rappresentazione dei moventi spirituali profondi della nuova età, in qualche modo portando a compimento, ma anche superando, tutti gli sforzi fatti sino a quel momento. Come scrive Huizinga: «Passiamo ora a esaminare il concetto di Rinascimento nel suo pieno sviluppo. Nelle mani di Jacob Burckhardt il Rinascimento acquista una fisionomia ricca di colori, diviene un aspetto della vita che trascende di molto i limiti della pura e semplice storiografia». Per riprendere la terminologia adoperata da Perry Anderson, in un libro che tenta di ricostruire il precisarsi della nozione di Postmoderno, dopo tante approssimazioni all’oggetto è a Burckhardt che si deve il Catch, la «presa», della categoria storiografica (per il Postmoderno, secondo Perry Anderson, questo ruolo sarebbe toccato a Fredric Jameson). E tuttavia, ogni volta che si parla di Rinascimento, occorre chiarire per prima cosa che l’idea fondamentale da cui questa categoria storiografica è stata sviluppata – un improvviso risveglio dopo un lungo sonno, la luce che segue un’interminabile notte, il ritorno alla vita dalla morte – è almeno altrettanto antica del fenomeno in oggetto. Furono infatti gli umanisti stessi a offrire la prima caratterizzazione del processo di rinnovamento che si era messo in moto a Sud delle Alpi, attribuendone in genere l’impulso decisivo a Francesco Petrarca. A forza di ripeterla, la loro 12

ricostruzione sarebbe diventata un vero e proprio luogo comune: dopo secoli di barbarie, i princìpi dell’arte antica e i saperi del mondo classico erano stati (o stavano venendo) recuperati; grazie a essi una nuova fioritura era iniziata, in tutte le discipline. Per troppo tempo il filo era rimasto spezzato, ma finalmente, dopo una parentesi di circa mille anni, il dialogo poteva ricominciare dal punto esatto in cui era stato interrotto bruscamente in seguito alla caduta dell’Impero romano. Anzi, proprio in virtù della loro profonda affinità, i «moderni» rieducati all’eleganza e alla saggezza dei «classici» potevano prendere frontalmente posizione contro quanti ormai, al loro confronto, apparivano soltanto «antichi» (cioè vecchi, superati): gli autori medievali, con la loro sterile ossessione per la logica e il loro latino impoverito e contaminato dalle lingue volgari. Scorrendo anche rapidamente le opere degli uomini di lettere trequattro-cinquecenteschi si possono raccogliere dozzine di testimonianze di questo entusiasmo per la discontinuità. Anzi, citazioni alla mano, è facile dimostrare che l’assoluta certezza di essere dinnanzi a una cesura radicale, e che questa cesura stava portando a un benefico ringiovanimento del mondo, ha ispirato come una stella polare gli sforzi intellettuali di parecchie generazioni di umanisti: dai primi vagiti del movimento classicizzante (a Padova, alla fine del Duecento) sino alla costituzione di un solido sistema classicista condiviso ormai dai letterati di tutta Europa (alla metà del Cinquecento). Come però Huizinga ricostruisce bene nel suo saggio, «Rinascita delle belle arti» non è ancora «Renaissance» nell’accezione più ricca che questo termine è venuto assumendo nel corso del XIX secolo. 13

All’autorappresentazione degli umanisti e dei letterati classicizzanti, ancora in voga alla fine del Settecento, mancava un elemento decisivo. Quale? L’ingrediente supplementare, che solo nell’Ottocento si è presentato sulla scena rendendo possibile l’emergere del moderno concetto di Rinascimento, è un preciso surplus polemico e militante. Ovvero un avversario contro il quale far valere le ragioni degli uomini che avevano dichiarato guerra alla civiltà medievale nel nome del ritorno alla Grecia e a Roma. Per almeno tre secoli, di questo avversario non c’era stata traccia. Vinta la battaglia contro i primi avversari del movimento classicizzante, gli umanisti avevano lasciato in eredità alle generazioni successive un racconto a tre stadi della storia culturale europea che da quel momento nessuno avrebbe più messo in discussione fino alla fine del Settecento: una fiorente età classica, il buio (più o meno contrastato da singole luci) dei secoli di mezzo, una nuova stagione felice sotto la guida illuminata dei Greci e dei Romani. All’interno di questo paradigma erano possibili oscillazioni del gusto anche molto forti (si pensi al barocco), ma senza che il quadro complessivo venisse mai rimesso in discussione. Lo scontro, in altre parole, era su come interpretare quella fedeltà agli antichi, non sulla necessità di guardare alle loro opere come a un punto di riferimento obbligato (fosse anche per superarle). La rivoluzione, come spesso succede, era arrivata dalla periferia: in questo caso da una piccola cittadina della Germania orientale, Jena. Negli ultimissimi anni del Settecento un gruppo di giovani letterati e filosofi aveva cominciato a contestare alla radice la versione degli umanisti sino a revocare progressivamente in dubbio che di vera 14

conquista si potesse parlare: la tanto decantata alba del buon gusto era stata in realtà un tramonto. Nel nome dei nuovi ideali della passione e del genio primitivo (contrapposti al gusto raffinato e al labor limae del poeta dotto), con la loro critica dirompente autori come i fratelli Schlegel avevano posto i presupposti perché l’intero edificio crollasse, rivalutando la grecità arcaica contro le epoche più classiche e l’energia originaria del medioevo contro l’artificiale eleganza dei secoli successivi. In breve l’intero canone letterario ne era uscito sconvolto, con effetti che avvertiamo ancora al principio del XXI secolo. Da questo momento sullo scranno più alto si sarebbero trovati Omero, Dante e Shakespeare al posto di Virgilio, Petrarca e Racine. Sviluppando un poco il discorso di Huizinga si potrebbe dire che, come concetto «forte» (cioè non esclusivamente stilistico- retorico), il Rinascimento poteva affermarsi solo temprandosi nella lotta contro il medioevo mitizzato dai romantici: vale a dire solo fornendo dei nuovi motivi per difendere l’esperienza quattro-cinquecentesca senza più ricorrere agli argomenti dei vecchi classicisti, con le loro unità pseudo-aristoteliche, la loro mitologia convenzionale, il loro principio di imitazione, il loro sistema dei generi, la loro ossessione per il decorum e il loro ut pictura poesis. Per questa strada infatti la sconfitta sarebbe stata sicura, come era già successo nella prima metà del secolo. Alla metà dell’Ottocento, nel pieno dell’ondata primitivista e medievaleggiante, legittimare il Rinascimento significava dunque anzitutto difendere la sua rilevanza per il tempo presente, liberandolo da un abbraccio mortale con la declinante arte classicistica che, a quell’altezza, poteva ormai soltanto nuocergli. Nel 1855, il primo teorico del concetto 15

di «Renaissance», Jules Michelet, nella sua corposa Histoire de France aveva puntato sul nesso RinascimentoIlluminismo-Rivoluzione, collocando l’umanesimo alla testa di un movimento razionalistico e anti-oscurantista. Il linguaggio con cui la sua comparsa in scena viene descritta è quasi religioso: «Tre figli di servi, operai eroici, tagliano le tre pietre su cui si fonda la nuova Chiesa: Colombo, Copernico e Lutero». O ancora: «Dove è la certezza? A chi crederemo? Alla sola Ragione. Lei sola regna, lei sola è immutabile. Ogni altro immutabile è finito» (XVII). A queste condizioni, l’Ottocento liberale non poteva negare di essere in gran parte figlio anche dei letterati che per primi, assieme alle belle lettere, avevano riportato in vita altresì la scienza e la filosofia dei pagani, dando un impulso decisivo a quelle idee da cui sarebbe scaturita la distruzione dell’Antico Regime con i suoi tratti ancora marcatamente medievali (il feudalesimo e lo strapotere della Chiesa di Roma). Cinque anni dopo Michelet, Burckhardt torna a giocare la medesima carta della prossimità tra il proprio tempo e quella che anche lui chiama, adottando il termine francese, «Renaissance». Come leggiamo nella pagina di apertura della sua grande sintesi, il Rinascimento definisce «una civiltà che, quale madre immediata, continua ad influire sulla nostra». Ma questa volta, rispetto a Michelet, le somiglianze sono più profonde e non possono essere descritte unicamen-te nei termini di una filiazione intellettuale (e dunque di storia delle idee). Già il francese insisteva sull’importanza che nel Rinascimento gli eroi del libero pensiero non fossero più «individuali, isolati, impotenti», come nel medioevo (Abelardo, per esempio); accanto a loro «il popolo comincia a mostrarsi. Se le idee 16

non sono chiarificate, gli uomini ci sono: una nuova umanità è nata ora con degli occhi per vedere, un’anima ardente e curiosa» (XVII). Burckhardt però si spinge ancora oltre. Per lui il mutamento della psicologia è venuto addirittura prima delle nuove idee e, soprattutto, si è fatto sentire in ogni campo dell’esistenza: dalle relazioni familiari allo stile di vita, dall’arte alla politica, dal rapporto tra le generazioni all’atteggiamento nei confronti del sacro e della morte. Le tesi fondamentali del suo libro possono essere facilmente schematizzate in pochi punti: 1) tra Rinascimento e medioevo vi è un massimo di discontinuità; tale discontinuità, prima ancora di investire le manifestazioni culturali, riguarda le categorie mentali e la psicologia degli uomini; 2) l’epicentro del rinnovamento, con secoli di anticipo rispetto alle altre regioni dell’Europa, è l’Italia; solo successivamente, per contagio, la nuova sensibilità e la nuova cultura si sarebbero diffuse in Francia, Spagna, Inghilterra, Portogallo, Olanda, Germania, Polonia e Boemia; 3) la novità ha a che fare con un atteggiamento antireligioso se non addirittura paganeggiante (ovviamente favorito dal rapporto privilegiato con la classicità grecoromana); rispetto al medioevo, questa perdita di controllo della religione (sino ad allora onnipotente) sulla vita e sulle menti degli uomini rappresenta uno dei più evidenti tratti di discontinuità; 4) la ritirata di Dio libera l’uomo dai lacci che lo avevano tenuto prigioniero e permette finalmente l’emergere del soggetto (in termini non troppo distanti già Michelet aveva parlato di «découverte de l’homme», scoperta dell’uomo). 17

Con il Rinascimento nasce dunque l’individualismo moderno, partorito al tempo stesso dalla crisi delle credenze tradizionali e dall’allentamento dei più stretti vincoli sociali e familiari del medioevo; in confronto a questa trasformazione degli atteggiamenti psicologici il recupero dei modelli classici ha solo un’importanza relativa nel processo complessivo; 5) in ambito artistico, il trionfo dell’individuo si manifesta anzitutto attraverso il trionfo del realismo, che non rappresenta più «per tipi» ma insegue piuttosto ciò che rende ciascun essere diverso da tutti gli altri; allo stesso modo, il Rinascimento coincide con la scoperta del paesaggio e del mondo esteriore (già per Michelet, d’altra parte, il motto della nuova epoca era «Reviens à la nature», torna alla natura); 6) in ambito politico, il trionfo dell’individuo si manifesta nella nuova forma assunta dallo Stato: non più aggregazione spontanea, ma macchina artificiale, al pari di una qualsiasi altra «opera d’arte». Allo stesso tempo, però, la potenza dello Stato può essere considerata anche la ragione principale della metamorfosi della psicologia degli italiani, e dunque dell’intero processo di rinnovamento. Per usare le parole dello stesso Burckhardt: «Nell’indole delle repubbliche e dei principati […] risiede, se non l’unica, certo la più potente causa per cui gli Italiani, prima d’ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono di essere detti figli primogeniti della presente Europa» (II, 1). Delle sei tesi la più importante è ovviamente la quarta. I romantici avevano elogiato il medioevo come epoca organica per eccellenza, in quanto dominata da due grandi 18

poteri universali, unita dal latino e accomunata da un’unica fede cristiana nell’obbedienza al pontefice di Roma. Rispetto a questa presunta «organicità», ai loro occhi il Cinquecento aveva rappresentato l’inizio della frammentazione (deprecata con parole assai dure da Novalis e dal Friedrich Schlegel più maturo): il trionfo delle monarchie nazionali, l’affermazione delle lingue volgari, la Riforma protestante (cui si poteva aggiungere l’esplosione destabilizzante dei vecchi confini spaziali in seguito alla scoperta delle Americhe). Per i romantici più intransigenti il Rinascimento e il ritorno dell’antico erano stati insomma qualcosa di assai più grave di un semplice errore estetico: la fine di una presunta condizione edenica. E poiché nell’Europa della Restaurazione il culto del medioevo aveva fortissime implicazioni politiche (anche nel grande rinnovatore della metodologia storica ottocentesca, Leopold von Ranke), per chi intendeva difendere le ragioni dell’età nuova diventava essenziale rispondere su un piano più generale. Ora, è precisamente la volontà (e la necessità) di accettare battaglia su questo campo, contrapponendo non più due poetiche artistiche diverse ma due visioni del mondo alternative, che rende la prospettiva di Michelet e di Burckhardt così nuova rispetto a coloro che avevano continuato a descrivere il Rinascimento soprattutto in termini di «Rinascita delle belle arti» (si chiamassero Voltaire, Gerolamo Tiraboschi, Simonde de Sismondi o William Roscoe). Già nel grande affresco di John Addington Symonds (The Renaissance in Italy, del 1875) la svolta segnata da Michelet e da Burck -hardt è indicata con la massima chiarezza: con loro, scrive lo studioso inglese, al posto del «revival of Learning» il termine «Renaissance» aveva preso a indicare 19

niente meno che «the transition from the Middle Ages in the Modern World». In altre parole, come precisa Symonds in apertura al primo volume della sua ricerca (con un lessico a dire il vero molto hegeliano), «la storia del Rinascimento non è la storia delle arti, o delle scienze, o della letteratura, o persino delle nazioni. È la storia del conseguimento della libertà autoconsapevole da parte dello spirito umano così come si è manifestato nelle razze europee. […] La forza allora generata ancora continua, vitale ed espansiva, nello spirito del mondo moderno». Per dirla ancora più sinteticamente, la «Renaissance» siamo noi: è questo il succo fondamentale della svolta operata da Burckhardt (e prima ancora, se pure in maniera sicuramente più limitata, da Michelet). Se vogliamo comprendere chi siamo con gli strumenti della storia – sembra dire ai suoi lettori lo storico svizzero – è all’Italia di allora che dobbiamo guardare, perché è lì che tutto è cominciato e che dunque i caratteri fondamentali si sono definiti (e merita di essere segnalato come qui Burckhardt giochi una carta tipicamente romantica, il primato dei momenti aurorali, per confutare la grande narrazione che proprio il Romanticismo aveva imposto in tutta Europa). In questo senso, per riprendere l’esempio di prima, si può dire senza esagerazione che, nonostante l’enorme distanza cronologica, definire che cosa era successo in Italia tra il XIV e il XVI secolo, si presenta a Burckhardt non meno urgente di quanto nel 1984 non fosse mettere a fuoco il Postmoderno per Jameson. Nelle pagine della Civiltà del Rinascimento in Italia, a prescindere dal loro grado di classicismo, Dante e Michelangelo, Giotto e Leonardo, Machiavelli e Alberti 20

sono a tutti gli effetti presentati (e prima ancora sentiti) come dei contemporanei (nel caso di Michelet sarebbe da parlare piuttosto di precursori). Ed è da questa originale scommessa interpretativa che, verosimilmente, è dipeso in gran parte il successo duraturo del volume di Burckhardt. D’altronde, come abbiamo visto, proprio il venire meno dei vecchi legami «organici» era un tema estremamente attuale nella cultura tedesca degli anni della formazione di Burckhardt, anche se non era detto che lo si dovesse giudicare negativamente come avevano fatto i romantici. Per averne una prova non occorre cercare a lungo; basta leggere le parole con cui nel 1848 Karl Marx aveva descritto gli effetti distruttivi del capitalismo: «Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabiliti e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti» (Manifesto del partito comunista). Per Burckhardt – idealisticamente – la frammentazione è l’esito di un percorso spirituale di crescita (qualcosa di affine all’uscita degli uomini dalla loro minore età, secondo la celeberrima definizione kantiana dell’Illuminismo); secondo Marx invece il fenomeno ha un’origine prettamente materiale ed economica, e presenta un doppio volto, inquietante e promettente al tempo stesso. Eppure, per 21

quanto ovviamente diversissimi, negli scritti di tutti e due (come nel rimpianto dei romantici) si riflettono le medesime ansie e le medesime speranze per le rapidissime trasformazioni del mondo attorno a loro sotto la spinta delle nuove tecnologie e dei nuovi modelli di produzione. Naturalmente né Burckhardt né tanto meno Marx guardavano con rimpianto a quel mondo gerarchico e immobile dalla cui rottura la modernità era emersa a costo di tante fatiche. Così, per esempio, Burckhardt deride apertamente i nostalgici del medioevo nel suo libro sul Rinascimento: «Se queste forme avessero avuto in sé la forza di reagire e di mantenersi, sussisterebbero ancora. E se quegli spiriti queruli, che le rimpiangono, potessero farle rivivere un’ora sola, se ne spaventerebbero essi stessi e anelerebbero subito all’aria più pura e respirabile della vita moderna» (III, 1). Presentati così, non c’è dubbio che i tradizionalisti appassionati della cavalleria medievale e delle tavole rotonde appaiono delle figure comiche. Sarebbe però un errore sottovalutare (con il senno di poi) l’importanza del dibattito su individualismo e organicità, anche considerato che – con o senza Burck -hardt – non avrebbe smesso di ripresentarsi ancora e ancora in ogni dibattito sulla modernità ben oltre i confini del XIX secolo. Qualche anno dopo La civiltà del Rinascimento in Italia, nel 1887, la stessa dicotomia sarebbe tornata per esempio negli scritti di Ferdinand Tönnies su comunità (spontanea, organica, valoriale) e società (artificiale, meccanicistica, anomica) e più tardi ancora nella sociologia di Georg Simmel. Né l’influenza del modello burckhardtiano si è evidentemente esaurita qui, se ancora oggi Zygmunt Bauman può costruire su un’opposizione non molto diversa le sue geremiadi 22

contro la presunta «società liquida» del Postmoderno (un vero paradosso, se pensiamo che quello stesso fenomeno che gli autori ottocenteschi e primonovecenteschi avevano messo a fuoco per descrivere la nascita della modernità nelle pagine del sociologo polacco viene chiamato a descrivere la fuoriuscita da essa). Quando Huizinga pubblicò il suo Problema del Rinascimento, Burckhardt era ormai morto da ventitré anni, ma il suo grande studio rimaneva il punto di riferimento per qualsiasi discussione sull’argomento. Lo spazio accordato in queste pagine alla Civiltà del Rinascimento in Italia non deriva però soltanto dalla banale constatazione dell’importanza che il libro era andato acquistando nei precedenti sessant’anni. Per Huizinga Burckhardt è anzitutto l’autore al cui confronto misurare la propria opera di storico. L’anno precedente Huizinga aveva infatti dato alle stampe il primo dei suoi capolavori, dedicato al mondo borgognone e francese nel XIV e XV secolo, vale a dire alla vigilia della grande svolta epocale della Civiltà del Rinascimento in Italia: Autunno del Medioevo. In questo volume Burck hardt è citato raramente e solo su questioni particolari (in genere per mostrare come alcuni caratteri da lui ritenuti peculiari della modernità rinascimentale fossero già presenti nel medioevo), ma la presenza dello storico svizzero eccede di molto le menzioni esplicite. I due brevi scritti del 1920 colmano questa apparente lacuna. Se infatti Autunno del Medioevo concede pochissimo alla riflessione storiografica e alla teoria, Il problema del Rinascimento e Rinascimento e realismo rendono invece evidente il dialogo con Burckhardt e spostano il discorso su un piano più generale, di metodologia della ricerca e persino di filosofia 23

della storia. Da questo punto di vista i due saggi possono essere letti come una meditazione a posteriori sul proprio lavoro e potrebbero figurare senza difficoltà come introduzione al volume maggiore. Insomma, tutto quello che in Autunno del Medioevo rimane non detto o solo alluso – bersagli polemici, posta in gioco, presupposti generali – viene espresso senza giri di parole nei lavori dell’anno successivo. A uno specialista la scelta del tema del libro di Huizinga (la Francia e la Borgogna del XIV e XV secolo) poteva apparire di per sé eloquente. Secondo la periodizzazione di Burckhardt, a quell’altezza cronologica, in Italia ci troveremmo già nel pieno del Rinascimento, mentre il resto dell’Europa continuerebbe a vivere avvolta nelle tenebre dell’età di mezzo. Autunno del Medioevo presenta invece ai lettori una situazione assai più sfumata, dove – per quanto la direzione di marcia complessiva rimanga chiara – i ruoli sono assai meno definiti. La novità non ha avuto il suo epicentro solo in Italia: ma soprattutto la novità non è stata così univoca come detrattori ed estimatori del Rinascimento avevano concordemente sostenuto nel corso del XIX secolo (per poi, naturalmente, attribuirle significati opposti). Huizinga vede per esempio benissimo che la presunta assenza di individui nel medioevo è solo uno dei risultati della minore documentazione di cui dispongono gli storici: «Ogni volta che la scarna tradizione ci permette di guardare un po’ più a fondo nelle opere dello spirito del medioevo, vediamo profilarsi individualità che ebbero aspirazioni e pensieri nettamente personali». Un’affermazione rapida, come molti dei giudizi più acuti e acuminati che leggiamo in Il problema del Rinascimento, ma da sola potenzialmente 24

distruttiva perché riconduce allo stato delle fonti quei silenzi che per Burckhardt erano invece solo la prova del letargo del soggetto nella comoda culla della famiglia e della comunità. Huizinga non è uno di quegli studiosi che amano nascondersi, e le righe di apertura del libro offrono un’ottima caratterizzazione del suo atteggiamento verso quella che comunque, anche ai suoi occhi, rimane un’età di grande travaglio spirituale. Vale la pena di riportarle per esteso: Di solito sono le origini del nuovo quello che il nostro spirito cerca nel passato. Vogliamo sapere come sono sbocciate le nuove forme di pensiero e di vita che avrebbero raggiunto il pieno splendore in tempi successivi; consideriamo ogni epoca soprattutto per la promessa del futuro che reca in sé. Con questo impegno si sono ricercati i germi della cultura moderna nella civiltà medioevale, un impegno così profondo da dare l’impressione che la storia intellettuale del Medioevo sia stata quasi solo il preludio del Rinascimento. Del resto, in quel periodo che una volta era considerato rigido e desolato, dappertutto si vedevano i sintomi di un mondo nuovo, e tutto pareva indicare una perfezione futura. Tuttavia, nel cercare le tracce della nuova vita che nasceva, si dimenticava facilmente che nella storia come nella natura la morte e la vita procedono sempre di pari passo. Vecchie forme di civiltà si spengono nello stesso tempo e nello stesso luogo nel quale il nuovo trova linfa per svilupparsi. Qui abbiamo cercato di prendere in considerazione il XIV e il XV secolo non come annuncio del Rinascimento, bensì come tramonto del Medioevo, la civiltà medioevale nel suo ultimo respiro, come un albero dai frutti troppo maturi, completamente cresciuto e sviluppato.

Nel 1920, per mettere in discussione le certezze di Burckhardt, Huizinga poteva sfruttare ormai un gran numero di studi che nei precedenti sessant’anni avevano contestato le tesi fondamentali della Civiltà del Rinascimento in Italia, a cominciare dalla netta cesura tra mondo medievale e mondo rinascimentale. In particolare, lo storico tedesco Konrad Burdach aveva argomentato in una serie di 25

saggi per la sostanziale continuità dei due momenti. L’importanza della Riforma religiosa nella vita spirituale del Cinquecento rendeva difficilmente accettabile l’immagine del Rinascimento come periodo scettico e addirittura neopagano. Ma soprattutto Burdach riteneva di poter dimostrare che molti degli aspetti che Burckhardt aveva considerato caratteristici della nuova cultura italiana affondassero le loro radici nell’età di mezzo. Ai suoi occhi il Rinascimento era infatti l’esito (prevalentemente artistico) di un’esigenza (prevalentemente religiosa) di rinnovamento covata a lungo, grosso modo da Gioacchino da Fiore in avanti. Il culto delle belle forme alimentato dalla familiarità con gli antichi e il desiderio di riportare la Chiesa alla purezza delle origini potevano sembrare opposti, e forse nei loro risultati superficiali lo erano, ma a guardar bene tutti e due avevano come matrice comune un’identica ansia di renovatio. Sensibile alle persistenze e ai ritmi impercettibili della storia, Huizinga è senza dubbio più vicino a Burdach che a Burckhardt. Dove altri vedono un’alternativa in bianco e nero, lo studioso olandese è portato piuttosto a distinguere una scala di grigi più o meno intensi – leggerissimi trapassi che unicamente l’occhio allenato sa cogliere e che, tuttavia, contengono essi soli il segreto del cambiamento. Per dirla con le parole di Autunno del Medioevo, «l’intera cultura aristocratica del basso Medioevo, sia che si tratti della Francia e della Borgogna o di Firenze, è un tentativo di dare vita a un sogno, sempre lo stesso sogno, quello degli antichi eroi e savi, del cavaliere e della vergine, dei pastori semplici e soddisfatti. La Francia e la Borgogna recitano il brano ancora in antico stile; Firenze compone, sullo stesso tema, 26

uno spettacolo nuovo e più bello» (II). Così, giocando un poco con il titolo della sua monografia, si potrebbe dire persino che Huizinga è per vocazione uno storico delle mezze stagioni: l’autunno (o magari la primavera, e sappiamo che negli ultimi anni della sua vita aveva in effetti progettato una sorta di antefatto della propria ricerca del 1919 da intitolarsi Primavera del Medioevo), non certo l’estate e non l’inverno, con i loro caratteri più marcati e unilaterali. Lo si vede assai bene dall’ultimo capitolo di Autunno del Medioevo, che si apre con queste parole: Il rapporto tra il nascente Umanesimo e il declinante spirito del Medioevo è molto meno semplice di quanto non siamo portati a credere. A noi, che vediamo i due complessi culturali come nettamente separati, sembra che la sensibilità per l’eterna giovinezza degli antichi e il ripudio di tutto il logoro apparato con cui il Medioevo esprimeva i suoi pensieri debbano essersi manifestati come una rivelazione. […] Ma non è così. Nel giardino del pensiero medioevale, tra la vecchia vegetazione ancora rigogliosa, il classicismo è cresciuto a poco a poco.

Presa nel suo isolamento, la storia della penisola rischia di offrire un’immagine fuorviante dei veri processi di trasformazione. Infatti, come leggiamo subito dopo, se si considera il Quattrocento italiano nel suo glorioso contrasto con la vita del basso Medioevo in altri luoghi, ne ricaviamo un’impressione diffusa di simmetria, di gioia, di libertà, di serenità e di sonorità. Queste qualità, nel loro insieme, sono riconosciute come rinascimentali, come il segno dei nuovi tempi. Nel frattempo abbiamo dimenticato, con quell’inevitabile parzialità senza la quale non si può formulare alcun giudizio storico, che anche nell’Italia quattrocentesca il solido fondamento della vita culturale era rimasto ancora decisamente medioevale, che, anzi, negli stessi spiriti del Rinascimento i tratti medioevali sono molto più radicati di quanto non si voglia ammettere. Nella nostra immagine domina la nota rinascimentale (XXII).

Tuttavia Huizinga è ben lungi dall’approvare pienamente Burdach. Il rischio insito nella tesi dei continuisti è quello di vedere cancellata qualsiasi distinzione tra due epoche che 27

invece secondo lo storico olandese posseggono una loro compiuta legittimità storiografica. Tra chi percepisce una cesura assoluta e chi, al contrario, è propenso a considerare piuttosto il Rinascimento lo sviluppo spontaneo dello spirito medievale, Huizinga si colloca in una posizione inter-media. Eppure, al tempo stesso, sarebbe un errore vedere nei suoi lavori solo un attento esercizio di dosaggio (un tanto a Burckhardt, un tanto a Burdach…). Se fosse così – diciamolo chiaramente – Huizinga non sarebbe il grande storico che è, ma rientrerebbe nel novero di quegli intellettuali anemici deprecati da Francesco De Sanctis: gli studiosi che, affacciatisi sulla scena all’indomani di un’epoca di grandi passioni, sanno solo dare ragione e torto in termini uguali ai contendenti di ieri, illudendosi che questo atteggiamento conciliatorio li collochi automaticamente su una posizione superiore (mentre il loro, insiste il battagliero De Sanctis, rimane in questi casi un lavoro di risulta, fondato in maniera parassitaria sulle ricerche di prima mano di quanti li hanno preceduti). Qui però le gerarchie sono nette. Tanto in Autunno del Medioevo quanto in Il problema del Rinascimento, è anzitutto con Burckhardt che Huizinga, implicitamente ed esplicitamente, non smette di dialogare; mentre Burdach e gli altri sostenitori della tesi continuista non fanno che offrirgli dei tasselli occasionali per la sua critica. Lo stesso varrà anche per l’altro capolavoro di Huizinga: Homo ludens (1938), dove ancora una volta riappare il confronto decisivo con lo storico svizzero. Nello studiare l’importanza del gioco nelle società più diverse (anzi, la dimensione ludica di ogni cultura), Huizinga riconosce infatti nel terzo capitolo che «molto prima che sociologia e antropologia diventassero 28

conscie della straordinaria importanza del fattore agonistico in generale, Jacob Burckhardt coniò la parola agonale e ne descrisse il contenuto come una delle maggiori caratteristiche della cultura greca». Ai suoi occhi Burckhardt aveva commesso l’unico errore di circoscrivere questa intuizione al mondo ellenico, facendone addirittura la chiave della sua originalità; ancora una volta, però, al di là dei dissensi, merita di essere sottolineato come sia anzitutto con lui che Huizinga desidera dialogare (semmai si noti, en passant, come, tanto a proposito dell’individualismo quanto della «agonalità», principale materia del contendere saranno i confini del fenomeno, perché, laddove Burckhardt traccia una netta linea di demarcazione, Huizinga vede piuttosto un bordo sfrangiato). Nel caso che qui ci interessa, questo dialogo comporta alcune obiezioni radicali che – dato il ruolo paradigmatico della Civiltà del Rinascimento in Italia – meritano di essere analizzate più da vicino. a) Gli individui di Burckhardt si distinguono dai loro antenati per l’inedita libertà con la quale immaginano e danno forma al proprio mondo: nella vita politica (lo Stato e le tecniche militari), nelle manifestazioni spirituali (l’arte e la letteratura), nella devozione. Questa libertà è il frutto, se non di un parricidio, di un nuovo rapporto con il passato, che ha allentato tutti i vincoli, a cominciare proprio da quelli religiosi e familiari. L’uomo del Rinascimento è – a tutti gli effetti – un illuminista compiuto (sempre secondo la definizione di Kant), che rivendica i propri diritti nell’arena pubblica. Anzi, a conferma che non si tratta solo di una metafora, a Burckhardt l’Italia appare all’avanguardia nella strada che ha condotto alla modernità proprio a causa di un 29

preciso modello familiare che la apparenterebbe al più giovane dei paesi occidentali: gli Stati Uniti. Se anche nei singoli casi in cui l’uomo del Nord segue piuttosto l’impulso suo naturale, l’Italiano sembra invece seguire unicamente la norma di un freddo calcolo, ciò non dipende da altro fuorché da un sentimento di individualismo che in quest’ultimo è infinitamente più sviluppato. Anche fuori d’Italia, dovunque un fatto identico si verifica, identici sono pure gli effetti: l’allontanarsi, per esempio, ben presto dalla propria casa e il sottrarsi all’autorità paterna è una tendenza comune tanto alla gioventù italiana, quanto a quella dell’America settentrionale (VI, 1).

Secondo tale lettura l’uomo del Rinascimento sarebbe dunque, almeno in parte, figlio di nessuno, o magari – come preferiva dire di sé il duca di Milano, Ludovico Sforza – «figlio della Fortuna». La tesi è affascinante, e ha goduto di enorme seguito: la modernità come metaforico mondo di orfani, prima che, con Freud, cominciasse a popolarsi di piccoli Edipi. Ma si tratta di una rappresentazione davvero accettabile per il Rinascimento? Ci sono ottimi motivi per dubitarne. E qui Huizinga ha buon gioco a mostrare che il peso del passato e il rispetto per la tradizione non è stato in alcun modo meno forte nel Rinascimento di quanto non fosse nel medioevo. Anzi. Che dire per esempio del nuovo culto dell’antico e degli sforzi di conformarsi alla lezione dei classici nei campi più diversi (arte, filosofia, scienza, letteratura, diritto, medicina…)? Degli autori così ossessionati dal sogno di recuperare il mondo greco-romano non soltanto come insieme di tecniche e di conoscenze ma come stile di vita e di pensiero sono – evidentemente – tutto meno che individui senza legami e senza debiti, e per questo pronti a creare il proprio mondo ex nihilo con l’irresponsabilità dell’artista che sperimenta forme e colori perché risponde unicamente alla propria idea del bello (come invece Burckhardt sembra suggerire). Per rimanere 30

nei confini della metafora familiare nelle dispute rinascimentali sull’imitazione, proprio il rapporto tra padre e figlio incarna il modello positivo della somiglianza tra modello da seguire e creazione originale, in quanto variazione nella continuità che fissa in anticipo i confini degli esperimenti nello stesso momento in cui invita a volgere il «notum» in «novum» (secondo l’insegnamento di Orazio). Se, in altre parole, il Rinascimento aveva sicuramente visto allentarsi alcune tutele (a cominciare da quella religiosa), altri vincoli avevano preso il posto dei vecchi o si erano sommati a essi. Non solo, cioè, la tradizione cristiana non era stata cancellata con un semplice tratto di penna, come avevano suggerito le caratterizzazioni più corrive e il mito del neo-paganesimo, ma a questa tradizione se ne era sovrapposta un’altra, con un elenco di imperativi e «regole» non meno stringenti. Da questo punto di vista il Rinascimento non può essere dunque descritto nei termini della modernità illuministica di Kant, ma rimane un’epoca fondamentalmente premoderna. b) Nella ricostruzione di Burckhardt, tra le altre cose, il Rinascimento segna l’affermarsi del realismo in arte. Le nuove tendenze stilistiche sarebbero da questo punto di vista una diretta ricaduta della nuova sensibilità per il mondo terreno riscattato dalla condanna medievale e dell’individualismo (qui inteso anzitutto come curiosità per il fenomeno irripetibile). Come leggiamo in un passo decisivo della monografia del 1860, «nel Medioevo la vita d’ogni giorno non offerse argomento di poesia che alla satira e alla farsa. Al tempo del Rinascimento in Italia si prende invece a studiarla e a descriverla per ciò che essa è in se stessa, perché è interessante da sé, perché è una parte della 31

vita umana in generale, nel vortice della quale gli italiani si sentono come magicamente travolti» (IV, 9). Anche in questo caso la tesi di Burckhardt sembrava fatta apposta per sollecitare direttamente gli uomini del XIX secolo, oltremodo sensibili al tema della rappresentazione della realtà (Madame Bovary era uscito, con il più grande scalpore, solo quattro anni prima, costando a Flaubert un processo per oscenità; lo scandalo attorno a Thérèse Raquin di Zola, considerato il capostipite del naturalismo, sarebbe scoppiato nel 1867). Il genere letterario simbolo per eccellenza dell’Ottocento, il romanzo, aveva una storia comparativamente più breve rispetto a tanti altri (nonostante gli exploit niente affatto trascurabili del romanzo antico e del romanzo barocco), e, nelle forme che era venuto assumendo, intratteneva un rapporto privilegiato con la dimensione più quotidiana e più umile dell’esistenza; per la prima volta, anzi, in questa originale forma di epos moderno (Hegel dixit) anche le sofferenze e i desideri di personaggi di estrazione umile venivano gratificati di una rappresentazione seria e non comica, come era invece avvenuto sino a quel momento secondo quanto prescriveva la teoria medievale della separazione degli stili. Huizinga rifiuta nettamente questa ricostruzione a stadi. Non solo non si può parlare di un unico realismo, essendo il rapporto tra immagini e cose e tra parole e cose per definizione convenzionale e culturalmente variabile (un esempio di quella disposizione umana al gioco che lo stesso Huizinga avrebbe più tardi studiato in Homo ludens); ma, quand’anche l’unica accezione valida di realismo fosse quella ottocentesca, qualsiasi tentativo di tracciare un processo lineare sarebbe comunque destinato a dimostrarsi 32

vano. Semplicemente, manca una direzione di marcia unitaria e, anche all’interno di fasi culturalmente omogenee, le oscillazioni si rivelano spesso clamorose. A differenza di quanto credeva Burckhardt, infatti, «il realismo non è affatto un atteggiamento spirituale universale e unitario che domini intere epoche alternandosi ai propri opposti»; piuttosto, il realismo «sboccia ora qua ora là, spesso all’improvviso, per poi riscomparire altrettanto improvvisamente». Peraltro, secondo Huizinga, i secoli centrali del Rinascimento bastano da soli a dimostrare questo giudizio, in quanto in pittura è più realistico il Quattrocento del Cinquecento, e qualcosa di simile si può affermare anche a proposito della prosa, nella quale a poco a poco «le tendenze al realismo vengono sopraffatte e soffocate in nome di quel principio che è poi lo spirito stesso del Rinascimento, il principio dell’armonia». Per tutti questi motivi, «nella storia della rappresentazione realistica, il Rinascimento non segna affatto una netta linea di confine». Anche qualora vi si voglia scorgere un qualche progresso (cosa tutt’altro che scontata, se si considera che la nuova, speciale autorevolezza dei modelli antichi «continuò per lungo tempo a ostacolare, più che favorire, la rappresentazione veramente realistica»), la strada non è mai a senso unico. Anzi, come nota Huizinga ponendosi nella posizione, per lui piuttosto eccezionale, del filosofo dell’arte che traccia le leggi dell’evoluzione degli stili, ogni realismo «una volta raggiunto il massimo sviluppo, si disgrega e riscompare rapidamente per fecondare proprio quelle tendenze a cui sembrava opporsi». Ammesso e non concesso che il realismo sia una conquista, insomma, si tratta di una conquista impossibile da mantenere. 33

In questo rifiuto di qualsiasi teleologia Huizinga si rivela un contemporaneo delle avanguardie non meno di quanto Burckhardt lo fosse stato di Flaubert, Zola e Courbet: un esponente di primo piano della reazione primonovecentesca contro il realismo pittorico e letterario del secolo precedente allo stesso titolo degli espressionisti invaghiti dell’arte gotica, dei dadaisti alla scoperta delle icone russe e dei cubisti attivamente impegnati a cercare il segreto delle statue africane. Quando Autunno del Medioevo era stato dato alle stampe, a guerra da poco conclusa, che l’imitazione naturalistica del mondo non fosse il Regno dei Cieli promesso in ricompensa agli artisti alla fine di un lungo percorso di approssimazione al vero era ormai un’opinione ampiamente condivisa negli ambienti più aperti della cultura europea: come pure l’idea che le forme d’arte più primitive o astratte o semplicemente idealizzate potessero tornare a guidare l’occhio e la mano degli artisti. E uno storico come Huizinga, formatosi sullo studio della letteratura (indiana) antica e abituato a prendere la parola sui maggiori temi politici e letterari del giorno (la Saint Joan di George Bernard Shaw, per esempio), non poteva certo rimanere insensibile alle suggestioni che gli venivano dai pittori e dagli scrittori contemporanei nel momento in cui portava avanti il progetto di Autunno del Medioevo. Nella sua ricerca della propria identità contro l’Ottocento, il nuovo secolo poteva trovare un appoggio di tutte le tradizioni che – in nome della mimesi naturalistica – si erano credute debellate per sempre. Qualche anno più tardi, nelle pagine del Dramma barocco tedesco (1928, ma terminato nel 1925), Walter Benjamin avrebbe proposto anche lui un modello non troppo diverso, dove arte 34

premoderna e arte novecentesca, entrambe allegoriche, si scoprivano inaspettatamente alleate nella loro comune battaglia contro la propensione simbolica dell’Ottocento (i due termini erano qui presi nell’accezione proposta da Goethe, secondo il quale il simbolo connette in maniera spontanea particolare e universale, mentre l’allegoria ha bisogno di un sistema di convenzioni per riconnettere assieme le due metà separate). In Autunno del Medioevo è già presente una scansione simile, anche se Huizinga la fonda piuttosto sul diverso ruolo attribuito al fatto estetico nel mondo medievale, rinascimentale e compiutamente moderno: Un divario più netto, riguardo alla concezione della bellezza della vita, si ha piuttosto tra il Rinascimento e i tempi moderni. La svolta avviene laddove arte e vita cominciano a separarsi, quando si comincia a godere l’arte non più come elemento centrale della vita, come una parte nobile della gioia di vivere stessa, ma fuori della vita, come qualcosa da tenere in grande considerazione, a cui ci si rivolge nei momenti di edificazione e di svago. L’antico dualismo che separava Dio e il mondo è così tornato sotto una forma diversa, come separazione tra arte e vita. È stata tracciata una linea in mezzo ai piaceri della vita, sono stati divisi in due, una metà inferiore, l’altra superiore. Per l’uomo del Medioevo erano tutti peccaminosi, ora sono considerati tutti permessi, ma di dignità molto differente, a seconda della loro maggiore o minore spiritualità (II).

Rispetto a Benjamin, che nella foga dei propri vent’anni poteva pensare di brandire l’allegoria come uno strumento di lotta artistica e politica, il tono di Huizinga è certamente molto diverso. Nel passo appena citato la «separazione tra arte e vita» evoca, più ancora che le avanguardie, la cultura di fine secolo, tra decadentismo e art nouveau nella quale Huizinga (che era del 1872) si era formato, prima che la Grande guerra giungesse a chiudere un’intera epoca, spargendo retrospettivamente su quella stagione un’atmosfera autunnale di congedo. Eppure, noi che 35

veniamo dopo possiamo leggere queste pagine di Huizinga anche come una «confutazione preventiva» delle premesse su cui, una generazione più tardi, Erich Auerbach avrebbe costruito la sua summa sul realismo nella letteratura occidentale: Mimesis (1946). Nelle pagine di Auerbach, Burckhardt non viene mai nominato esplicitamente, ma grazie a Huizinga possiamo vedere molto meglio quanto il modello della Civiltà del Rinascimento in Italia agisca sotterraneamente nel disegno complessivo di Mimesis: a cominciare dal capitolo su Boccaccio e sulla rappresentazione del mondo nel Decameron. Gli argomenti che Rinascimento e realismo adopera contro Burckhardt valgono ancora tutti anche contro la pretesa di Auerbach di organizzare la storia dell’impulso mimetico della letteratura occidentale in termini semplicemente vettoriali. Ed è pure questo che fa di queste poche pagine di Huizinga solitamente trascurate dagli storici dell’arte e dai critici letterari uno dei gioielli della riflessione estetica primonovecentesca. c) Nella ricostruzione di Burckhardt la riscoperta dell’antico è uno dei diversi ingredienti del Rinascimento, ma – come si è già visto – non il più importante. Questa scelta era il prezzo da pagare al distacco dalla vecchia tesi della «Rinascita delle belle arti». Nel 1860, per difendere efficacemente le ragioni del Rinascimento, occorreva svincolarlo dal classicismo, se non proprio negando un rapporto che non poteva essere cancellato senza fare violenza alla storia, quanto meno riducendone la portata, sino a farne tutt’al più uno dei molteplici fattori di mutamento. L’evento decisivo per Burckhardt è infatti l’emergere dell’individuo, non il recupero dell’antico, al 36

quale non a caso viene dedicata solo la terza delle sei sezioni in cui è organizzato il volume, dopo quelle sullo Stato e sulla nuova psicologia. Per i suoi tempi, ancora intrisi di prevenzioni romantiche, La civiltà del Rinascimento in Italia guarda al classicismo in termini incredibilmente favorevoli: non esita a castigare con parole dure gli eccessi imitativi, ma giudica la poesia e l’arte nate dal dialogo con i modelli antichi con grande simpatia, sino ad affermare in maniera perentoria che «ciò che di meglio nasce in questo modo non è più imitazione, ma creazione seria e originale» (III, 12). Per apprezzare come si deve una simile presa di posizione è opportuno ricordare quanto tra i contemporanei di Burckhardt una comprensione così profonda dell’arte classicista e dei suoi principî (la dialettica imitatio-aemulatio, per esempio) fosse piuttosto rara, e in particolare in Italia, dove i nessi eleganza-decadenza e imitazione-debolezza creativa avrebbero continuato a farsi sentire ancora nel corso del XX secolo in nome di una vagheggiata (e tuttavia introvabile) poesia «schiettamente popolare». La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, di dieci anni successiva alla Civiltà del Rinascimento, eppure ancora del tutto sorda alle ragioni del classicismo (e dunque pronta ad apprezzare i vari Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Aretino e Tasso al massimo nonostante il loro classicismo), offre la migliore pietra di paragone da questo punto di vista. Quanto a Huizinga, sbaglierebbe di grosso chi pensasse che nel suo caso il suo rifiuto di identificare realismo e Rinascimento si traduca in una maggiore simpatia per le poetiche e le opere classiciste. Non è così, e lo storico olandese appare anzi parecchio più severo di Burckhardt nel 37

suo giudizio sul culto di Roma e della Grecia degli scrittori quattro-cinquecenteschi. Qui basterà citare qualche riga dall’ultimo capitolo di Autunno del Medioevo: Il classicismo e lo spirito moderno sono due cose completamente diverse. Il classicismo letterario è un bambino nato vecchio. […] Diverso è il discorso per le arti figurative e per il pensiero scientifico […]. Nell’arte figurativa il superamento del superfluo, dell’eccessivo, del contorto, dello sberleffo e dello svolazzo fiammeggiante è stato tutto opera dell’antichità. E nel dominio del pensiero essa è stata ancora più indispensabile e feconda. In campo letterario, al contrario, la semplicità e la purezza hanno attecchito al di fuori del classicismo, anzi malgrado il classicismo (XXII).

Nonostante questa freddezza nei confronti del classicismo letterario, Huizinga contesta il ruolo tutto sommato secondario che a esso viene attribuito nella Civiltà del Rinascimento in Italia. Se, ai suoi occhi, il superamento del modello interpretativo della «Rinascita delle belle arti» è stato indubbiamente un progresso nella comprensione del fatto storico, l’abbandono della prospettiva retorico-stilistica non è privo di inconvenienti. Affinché gli studiosi se ne rendessero conto era però necessario che passasse del tempo. Come Huizinga non manca di sottolineare, i rischi della scelta di Burckhardt di mettere al centro del processo di uscita dal medioevo l’individualismo si sono infatti manifestati soprattutto nei suoi continuatori e discepoli. Se il Rinascimento era stato principalmente un fenomeno psicologico, c’era il rischio che qualcuno potesse pensare che uno spiccato senso della propria individualità fosse sufficiente da solo per venire arruolati tra i moderni. E, dal momento che l’informazione sulle vite dei protagonisti degli ultimi secoli del medioevo era assai più ricca che per i periodi precedenti grazie all’abbondanza dei documenti scritti, il numero dei candidati potenziali alla condizione di uomini prerinascimentali o proto-rinascimentali rischiava di 38

essere così alto da travolgere qualsiasi periodizzazione. Era quello che era successo per esempio con la biografia di Francesco d’Assisi di Paul Sabatier (1893), dove al santo venivano chiaramente riconosciuti tutti i tratti psicologici che Burckhardt aveva indicato come caratteristici degli individui in senso pienamente rinascimentale e moderno del termine. Come insomma scrive Huizinga, nei discepoli di Burckhardt «il concetto di Rinascimento, ormai identificato con l’individualismo e la mondanità, era stato teso a tal punto che aveva perduto tutta la sua elasticità. In sostanza, non significava più niente. Non c’era grande fenomeno del medioevo che, almeno per un rispetto, non venisse subito ricondotto al concetto di Rinascimento». Un punto infatti deve essere ben chiaro: se Huizinga ha sicuramente lavorato a sfumare i confini troppo netti di Burckhardt, non ha mai pensato di poterne fare a meno. Non era l’unico pericolo. In altri autori influenzati da Burck -hardt la rivoluzione psicologica dell’individualismo aveva non solo oscurato il ruolo che la «Rinascita delle belle arti» aveva avuto nel più generale fenomeno rinascimentale, ma era stata posta addirittura in diretta opposizione a essa. Lo storico dell’arte Carl Neumann (che di Burckhardt era stato allievo diretto) si era servito delle categorie elaborate dal proprio maestro per individuare e contrapporre due distinti Rinascimenti pittorici. Da un lato ci sarebbe stato un Rinascimento imitativo, ancora legato agli influssi bizantini e prigioniero della propria riverenza verso l’antico (esemplificato dai pittori italiani); dall’altro avrebbe preso vita a poco a poco un secondo Rinascimento, questa volta compiutamente moderno, perché affrancato da qualsiasi forma di soggezione nei confronti dei modelli del passato e 39

devoto esclusivamente al sentimento della natura (esemplificato da Rembrandt in un’ambiziosa monografia del 1902). Secondo tale lettura estrema (e chiaramente viziata da passioni nazionalistiche), il ritorno all’antico degli umanisti e dei pittori italiani sarebbe stato un ostacolo al Rinascimento verace assai più che uno dei suoi elementi caratterizzanti. Opere come quelle di Sabatier e di Neumann costituiscono per Huizinga la prova che non è possibile parlare di Rinascimento senza partire dal nuovo rapporto con l’antico maturato in Italia tra il XIV e il XVI secolo e trascurato da Burckhardt a beneficio delle trasformazioni psicologiche. Naturalmente, la «Rinascita delle belle arti» di cui parla Huizinga è diversa da quella elogiata dai classicisti settecenteschi e dai loro seguaci ottocenteschi, prima che Michelet e Burck hardt richiamassero l’attenzione degli storici su altri aspetti. Indietro, per così dire, non si torna. Ma questo vuol dire soprattutto che, dopo Michelet e Burckhardt, il ritorno all’antico non può più essere giudicato solo in termini estetici, ma va apprezzato nella sua dimensione più profonda: vale a dire come manifestazione di una nuova condizione spirituale complessiva. Per questo, per quanto Huizinga amasse poco la letteratura classicista, i suoi sforzi di studioso sono indirizzati a difendere l’estrema serietà del movimento umanistico. La ripresa dei modelli greco-romani non era stata solo un grottesco ballo in maschera nel quale si erano inutilmente consumate le energie creative del tempo frenando il genio con le catene dell’imitazione, ma un fenomeno di grande portata spirituale che aveva investito ogni aspetto dell’esistenza con la stessa forza che possono suscitare la religione o la politica. 40

La contrapposizione tra un Rinascimento lezioso e la gravitas della Riforma, che in Italia avrebbe trovato in Federico Chabod un acceso sostenitore sulla scia della storiografia tedesca, non aveva insomma alcuna legittimità intellettuale. Più ancora che per ridurre la distanza tra medioevo e Rinascimento, la tesi di Burdach secondo cui tanto l’uno quanto l’altro andavano interpretati alla luce della comune ansia di renovatio, serve dunque a Huizinga per riscattare la devozione degli umanisti verso Roma e la Grecia. Da questo punto di vista la strada indicata dallo storico olandese si è anzi rivelata particolarmente proficua. Per Huizinga non si può parlare di Rinascimento senza «Rinascita delle belle arti», ma – al tempo stesso – la «Rinascita delle belle arti» non va considerata solo un fenomeno stilistico-retorico. Nella loro unilateralità, entrambi i paradigmi tradizionali rischiano insomma di risultare insufficienti: quello della «Rinascita delle belle arti» perché troppo legato a una prospettiva esclusivamente estetica, e quello della «Renaissance» perché troppo incline a fare del ritorno dell’antico solo un fenomeno di contorno. Si tratta di un’intuizione decisiva. Non è certo un caso se, sulla scia di Huizinga, negli ultimi trentacinque anni alcuni dei maggiori studiosi del Rinascimento hanno dimostrato come il culto del latino e del greco abbia rappresentato molto più che una moda superficiale, e come per esempio concetti quali l’imitatio, il decorum, la convenientia, la proporzione, la grazia siano essenziali per descrivere nel suo complesso la vita delle élites italiane tra Quattro e Cinquecento: dai codici di comportamento al vestiario, dalle forme della socialità collettiva alla disciplina della parola. 41

Per questo fenomeno Leonid M. Batkin ha parlato di «stile di vita», Francisco Rico di «sogno dell’umanesimo» e Amedeo Quondam di «forma del vivere», ma l’idea che sorregge i loro studi è in fondo molto vicina: le parole e le regole della retorica e della letteratura classica hanno messo in forma i comportamenti e i pensieri degli uomini del Rinascimento ben oltre il rettangolo della pagina scritta, perché – sin dall’inizio – gli sforzi per recuperare l’antico hanno mirato a una riforma integrale dell’uomo (si pensi solo al legame indissolubile tra i concetti di humanitas e humanae litterae, cioè umanità e letteratura). Come sappiamo, questa non è l’interpretazione di Huizinga; ma rileggere oggi Huizinga ci consente di apprezzare meglio il debito che i tentativi più recenti di studiare l’umanesimo classicizzante come fenomeno integrale hanno nei confronti dello storico olandese e dei suoi sforzi per superare la dicotomia tra il paradigma della «Rinascita» e il paradigma della «Renaissance». È dunque attraverso queste tre critiche al modello di Burckhardt che Huizinga giunge alla propria interpretazione alternativa del Rinascimento: non solo italiano, strettamente legato al suo retroterra medievale, non necessariamente irreligioso, non moderno, non realistico (e men che mai nell’accezione ottocentesca del termine), profondamente segnato dal ritorno ai modelli greci e romani ma altrettanto serio nelle sue aspirazioni di riforma dello stile che delle pratiche religiose. Su molti di questi aspetti la ricerca successiva ha dato ragione a Huizinga, soprattutto nei casi in cui lo storico olandese ha cercato di mettere la sordina agli aspetti più «militanti» della Civiltà del Rinascimento e sulla pretesa di 42

Burckhardt di costruire una genealogia del proprio presente. Il punto sul quale la tesi di Huizinga appare tutt’altro che inattaccabile è probabilmente l’origine della nuova cultura. Qui, infatti, il suo ragionamento paga una profonda contraddizione, generata probabilmente dal desiderio di distinguersi dal modello di Burckhardt, o forse da una non completa comprensione della novità dirompente del classicismo rinascimentale. La tesi di una matrice non solo italiana del Rinascimento e della sostanziale continuità tra le aspirazioni del medioevo e quelle dei secoli successivi è mutualmente esclusiva rispetto a quella, pure sostenuta da Huizinga, secondo cui la «Rinascita delle belle arti» va riportata al centro della riflessione storiografica sulla cultura tre-quattro-cinquecentesca. Quello che Huizinga rifiuta di riconoscere (e che inficia tutta la sua interpretazione) è che questa Rinascita non si è prodotta unicamente per accumulo, come se – a forza di dialogare con gli stessi classici – un giorno gli umanisti si fossero trovati più simili ai Romani di quanto, cinquanta o cento anni prima, non lo erano stati i loro progenitori nutritisi degli stessi testi. Scrivere, come fa Huizinga, che «una cerchia colta che si dedicasse un po’ più del solito al latino puro e alla sintassi classica era sufficiente a dare inizio all’Umanesimo» (XXII) significa fraintendere il senso della svolta prodottasi in Italia, quasi che essa si fosse prodotta semplicemente, e quasi inesorabilmente, per un processo di accumulo (la quantità che si fa qualità, secondo la nota formula di Hegel). Al contrario è indispensabile dire chiaramente che la costanza e la dedizione che Huizinga mette all’origine della nuova cultura da sole non sarebbero state sufficienti a produrre quella svolta epocale che associamo al nome di 43

Rinascimento. Cicerone, Seneca, Virgilio, Ovidio erano stati costantemente presenti nella cultura medievale e avevano goduto delle cure amorevoli di quanti li avevano copiati, tradotti, chiosati, interpretati, imitati. Per questo, come fenomeno storicamente determinabile (e non vaga aspirazione ad attingere all’eleganza degli antichi) il movimento classicizzante non va liquidato come l’effetto di un presunto surplus di attenzione, ma va ricondotto a una vera e propria svolta prospettica. Per secoli gli autori medievali si erano considerati i continuatori della cultura classica e chi scriveva in latino non aveva mai sospettato che la propria lingua potesse essere di-versa da quella dei grandi nomi della classicità. Poi, improvvisamente, alla fine del Duecento un gruppo di letterati padovani cominciò a guardare in modo completamente diverso agli autori canonici. Se il medioevo aveva coltivato il sogno della continuità assoluta, la scoperta – clamorosa e sbalestrante – dei primi umanisti fu che quella continuità si era da tempo interrotta. E il latino di Cicerone non era il proprio latino: viziato dalla contaminazione con i volgari, pieno di neologismi, impoverito nelle forme grammaticali, fondato su altri modelli ritmici e prosodici. In definitiva barbaro. Il Rinascimento nasce da questa dolorosa disillusione: in definitiva da un sentimento di alterità e – cosa almeno altrettanto importante – di inferiorità verso il mondo classico, che il medioevo non aveva conosciuto. Detto in altre parole, non è l’accresciuto amore per i modelli antichi che spiega il nuovo clima intellettuale, ma l’inedito senso di discontinuità che ha spinto gli umanisti a dedicarsi con particolare impegno allo studio degli autori pagani. Di fronte a una lacerazione di tale portata l’unica terapia 44

possibile era omeopatica: similia cum similibus curantur. E i grandi letterati padovani di fine Duecento e inizio Trecento, Lovato Lovati e Albertino Mussato, si impegnarono a sanare la prima frattura (la fine della classicità) con una seconda, simmetrica, frattura di segno uguale e contrario (la fine della fine della classicità), così da rendere di nuovo possibile l’abbraccio tra i «moderni» e i «classici». Per questo motivo non è corretto fino in fondo affermare che gli umanisti hanno per primi descritto il medioevo come una grande parentesi tra due età di fioritura; piuttosto, assai più correttamente, bisognerà dire che gli umanisti hanno dedicato le proprie vite al grande progetto di ridurre i secoli più vicini a una semplice età di mezzo (producendo, e non semplicemente constatando in sede storiografica, la seconda frattura, da cui il Rinascimento ha avuto origine). Ronald Witt ha convincentemente proposto di vedere nella nuova sensibilità per lo stile l’effetto della particolarissima condizione linguistica del Veneto duecentesco, dove convivevano espressioni letterarie in volgare italiano, francese, provenzale e latino; la presenza contemporanea di tanti idiomi diversi avrebbe dato «il contributo fondamentale all’arte di comporre in stile classicheggiante, poiché abituò gli scrittori a cercare di esprimersi in modo letterario servendosi delle lingue straniere». In altre parole, costretti a calarsi di volta in volta negli schemi grammaticali ora del francese, ora del provenzale, ora del latino, ora del volgare italiano, gli umanisti padovani finirono per affinare la propria sensibilità nei confronti delle forme sintattiche peculiari di altre lingue, imparando a replicarle artificialmente come nessuno aveva saputo fare prima di loro. A cominciare dal latino degli 45

antichi, apprezzato adesso per la prima volta in tutta la sua maestosa distanza. Quali che siano le cause di questa svolta, la «Rinascita delle belle arti» andrà dunque considerata, in ultima analisi, un effetto del nuovo senso della differenza storica che è alla base degli scritti degli umanisti padovani. I sostenitori dell’assoluta continuità tra medio evo e Rinascimento hanno gioco facile a mostrare come, nonostante tutti gli sforzi dei loro autori, gli esperimenti poetici e in prosa di Lovati e di Mussato rimangono per molti versi ancorati alle convenzioni del tempo; quello che conta, però, è il nuovo spirito con cui, alla fine del XIII secolo, una piccola avanguardia di letterati cominciò a perseguire il recupero dell’antica eloquenza intervenendo su questioni spesso apparentemente di dettaglio per avvicinarsi – attraverso il vocabolario, le forme verbali, la costruzione dei periodi, la metrica – a una dizione che suonasse quanto più «romana» possibile. La mancata comprensione del carattere fondamentale del classicismo italiano rispetto al generico culto di Cicerone o Virgilio che si registrava qua e là nelle corti trecentesche del Nord Europa rende oggi inaccettabile parte della lettura di Huizinga. A distanza di un centinaio di anni, le sue considerazioni sul non realismo e sulla non modernità del Rinascimento rimangono invece straordinariamente fruttuose. Soprattutto l’opzione strategica di fare della «Renaissance» un’età distinta tanto dal medioevo quanto dal nostro presente va salutata come una presa di posizione particolarmente innovativa. Al tempo di Burckhardt, e ancora al tempo di Huizinga, dominava un modello a tre stadi (anche nella separazione disciplinare delle cattedre universitarie): il mondo classico, il mondo medievale, il 46

mondo moderno. In questo schema i classici apparivano portatori di valori senza tempo (anzi, la loro dimensione era semplicemente quella dell’eternità); il medioevo rappresentava il Diverso per eccellenza, che in quanto Altroda-Sé poteva essere rimpianto (come facevano molti dei romantici) o condannato (come facevano Michelet e Burck hardt); sigla distintiva del Moderno, dal Rinascimento in poi, era invece la sostanziale identità con il mondo presente. Bastava infatti scavare un poco sotto la superficie e dietro gli uomini dell’Ottocento sarebbe apparsa la fisionomia dei loro antenati cinquecenteschi. Rispetto a questo modello, Huizinga individua nel Rinascimento uno stadio intermedio (una sorta di «stadiocuscinetto», potremmo quasi dire: un poco come la sua Olanda era da sempre uno «Statocuscinetto» tra Francia e Germania). Almeno implicitamente il suo saggio presuppone infatti una scansione complessiva in quattro fasi (antico – medievale – rinascimentale – moderno) che, isolando il presente dello storico e dei suoi lettori, rendeva impossibile qualsiasi impiego militante della coppia medioevo-Rinascimento e risolveva di colpo i conflitti che erano stati combattuti nel loro nome lungo tutto il secolo precedente. Per quanto medioevo e Rinascimento potessero essere diversi, possedevano un tratto in comune (oltre alla comune ansia di renovatio): la distanza dalla Modernità compiuta. E come abbiamo già visto, Huizinga poteva ritenere addirittura che, limitatamente ad alcuni aspetti (per esempio il rapporto con l’arte), il suo tempo assomigliasse di più all’età di mezzo. Accomunati dai loro tratti remoti, medioevo e Rinascimento incarnano in Huizinga due alterità non 47

sovrapponibili tra loro ma, queste sì, abbastanza lontane perché una definizione dei loro caratteri essenziali possa rivelarsi utile a una costruzione identitaria del presente dello storico e dei suoi lettori (tanto come rimpianto dell’organicità perduta quanto come conquista della libertà di pensiero). Ed è persino superfluo specificare che da parte di Huizinga si è trattato di una consapevolissima presa di posizione, indispensabile per liberare i suoi oggetti di studio dalle troppo spesse incrostazioni dell’Ottocento. Questa scelta ci dice molto sul tipo di storiografia particolarissima praticata da Huizinga e sulle ragioni delle accuse di «relativismo» che negli anni trenta gli furono rivolte in Italia da alcuni filosofi idealisti come Carlo Antoni, convinti che lo storico avesse sempre il compito di indicare la direzione di marcia dello Spirito, per esempio specificando chiaramente se il medioevo andava considerato il punto più basso di un avvallamento o se invece esso era stato piuttosto la vetta da cui la Modernità si era autoesiliata. Huizinga, è chiaro, non cerca nel passato età ideali da prendere a modello per il presente; piuttosto gli stanno a cuore i processi di simbolizzazione attraverso cui – nell’arte, nel diritto, nelle convenzioni sociali, nelle pratiche religiose – civiltà diversissime esprimono in forme altrettanto diverse i propri valori e le proprie aspirazioni. Questi processi, esattamente come il gioco, possiedono tutti una loro logica segreta che merita di essere decifrata, ma soprattutto, nonostante le differenze superficiali, a poco a poco rivelano all’osservatore non prevenuto sorprendenti elementi in comune. Una delle prime lezioni generali che Huizinga ne trae è quello che potremmo definire un principio di sconnessione tra il piano della cultura e il piano della vita. 48

Nessun rispecchiamento mimetico; nessuna corrispondenza semplice: piuttosto un elemento di imprevedibilità e persino di arbitrio. Come anzi sembrano suggerire i primi capitoli di Autunno del Medioevo, intitolati «La crudeltà della vita» (I), «L’aspirazione a una vita migliore» (II) e «Il sogno di gesta eroiche e d’amore» (V), la cultura, nel suo senso più ampio, avrebbe il preciso compito di «velare» la dimensione più feroce dell’esistenza rendendola in tal modo, grazie ai suoi «sogni» e alle sue «aspirazioni», sopportabile. È il punto sicuramente più controverso della riflessione di Huizinga, anche perché da molti la sua tendenza a vedere nella cultura qualcosa di molto simile a un risarcimento ideale è stata letta come un invito a sottrarsi alla realtà e alla politica. A dire il vero, però, il passo dalla descrizione alla prescrizione Huizinga non lo compie mai. Anzi, se la dicotomia tra «crudeltà» e «forma» gli viene probabilmente da Schopenhauer («volontà» e «rappresentazione») e dalle letture degli anni universitari, quando si era formato come studioso di sanscrito e di cultura indiana, nei suoi scritti storici l’accento viene sempre posto sulla molteplicità delle maschere e dei riti con cui gli uomini cercano di dare ordine alla propria esperienza, alle proprie ansie e ai propri desideri. Il temperamento da antropologo che, a partire almeno da Georges Bataille e da Umberto Eco, molti hanno riconosciuto in Homo ludens è in altre parole già presente in Autunno del Medioevo e, seppure più implicitamente, nei due saggi dell’anno successivo. Si capisce, anzi, che è proprio su queste basi che, pur dimostrandosi del tutto insensibile alle ragioni del classicismo (in particolare letterario), Huizinga ha potuto egualmente metterlo al centro dell’esperienza rinascimentale senza, per questo, 49

tramutarsi all’istante in un suo detrattore. Non si trattava infatti di giudicare ma di cercare di capire il diverso da sé, come da tempo facevano gli etnologi e più di recente avevano cominciato a fare i teorici francesi dell’antropologia del mondo antico quali Louis Gernet. Proprio quello che ai filosofi idealisti risultava del tutto inaccettabile. Nella storia della riflessione sul concetto di Rinascimento Huizinga merita senza dubbio di essere considerato uno dei principali artefici del suo «raffreddamento» e del «distanziamento» negli studi novecenteschi. C’è però almeno un’altra intuizione per cui la storiografia successiva (a proposito del Rinascimento e non solo) deve dirsi in debito verso di lui. Questa idea è l’asincronia. La grande età dello storicismo è stata segnata soprattutto dal tentativo di stabilire omologie profonde tra i più diversi fenomeni politici, sociali, economici e culturali, almeno da quando, negli ultimissimi anni del Settecento, Friedrich Schlegel poteva dichiarare che «la Rivoluzione Francese, la Dottrina della scienza di Fichte e il Wilhelm Meister di Goethe sono le grandi tendenze dell’epoca». Tanto per fare qualche esempio, è lo stesso atteggiamento che ritroviamo nelle opere di Hegel (per il quale il senso di un’intera epoca può essere racchiuso in un unico artefatto come la Nike di Samotracia o la cattedrale di Chartres), nella Histoire de France di Michelet (dove abbiamo già incontrato la fratellanza ideale di Colombo, Copernico e Lutero), nella filosofia della storia di Auguste Comte, nelle riflessioni di Marx sul rapporto tra struttura e sovrastruttura o, più tardi, nella teoria gramsciana del «blocco storico». Ovviamente Huizinga non nega che tali correlazioni esistano. Abbiamo già visto come «Rinascita delle belle 50

arti», renovatio e Riforma siano strettamente collegate nel suo disegno, e proprio il suo Autunno del Medioevo fa ampio uso di paralleli non troppo diversi (una citazione per tutte dal capitolo XVII: «L’uomo del Medioevo, nella vita di tutti i giorni e nella sua teologia, pensa nelle stesse forme»). Tuttavia, rispetto allo storicismo più tradizionale, Huizinga non smette di ricordarci che l’esistenza di precise omologie tra i più diversi settori della cultura non vuol dire affatto che i diversi campi della vita intellettuale, sociale e psicologica siano sempre sincronizzati: tutt’altro. Isomorfismo e sincronia rimangono insomma due concetti nettamente distinti. E mentre per il primo Huizinga nutre sicuramente grande interesse, il secondo gli sembra assai più problematico, se non addirittura pericoloso. Questo punto diventa particolarmente importante quando lo storico si confronta con il problema cruciale del cambiamento, e soprattutto quando questo cambiamento chiama in causa una discontinuità niente affatto secondaria, come quella tra medioevo e Rinascimento. Già Michelet, subito dopo aver affermato in toni quasi religiosi l’avvento della nuova epoca, si era sentito costretto a temperare il proprio entusiasmo ricordando la lentezza dei processi storici e le incertezze del cammino appena tracciato dai profeti del Mondo Nuovo: «L’umanità avanza lentamente, per scossoni, e spesso ricade nella pigrizia, nell’inerzia del passato. […] Tale è il Rinascimento. Si cerca a tastoni, non si conosce, non fa ancora sistema» (XVII). In Huizinga però c’è qualcosa in più. Le persistenze del passato non sono più sentite soltanto come ruderi di un mondo ormai in declino e ostacoli al progresso: in quanto semplicemente nuova, ai suoi occhi la novità non gode di nessun titolo in più rispetto 51

a ciò che la precede. Una grande lezione storiografica, di cui nel 1962 sembrerebbe essersi ricordato Eugenio Battisti nella pagina di apertura del suo opus magnum, L’antirinascimento, laddove viene descritta la lotta tra la «vera Firenze medievale» e la «Firenze metafisica del Brunelleschi, la città della prospettiva e dell’ordine, della consapevolezza razionale e dell’acutezza logica», innestate per sempre l’una dentro l’altra. In ogni singolo istante si scontrano parecchie durate diverse – la durata biologica di un uomo che invecchia, quella di un manoscritto o di un manufatto che passa di mano in mano, quella di una lingua o di una religione che possono varcare i millenni. Ed è anche per questo che la modernità non è mai completamente moderna, che il Rinascimento fiorentino ha preso forma nel tessuto urbanistico di una città medievale, e che ogni tentativo di domesticazione culturale si risolve in un inedito incrocio di vecchio e nuovo. Se oggi sappiamo queste cose è anche grazie a Huizinga. In più, nelle sue pagine domina il preciso sentimento che gli orologi della storia procedono a ritmi diversi e che solo a costo di enormi forzature lo studioso del passato può imporre loro un’unica cadenza. La letteratura non è l’arte; l’arte non è la società; i grandi cambiamenti psicologici conoscono un altro tempo ancora. Per dirlo con le parole di un profondo ammiratore di Huizinga, lo storico francese dell’arte Henri Focillon: «Alla stessa data il politico, l’economico, l’artistico non occupano la stessa posizione sulle rispettive curve» (Vie des formes, 1934). In Autunno del Medioevo questa consapevolezza di un irrimediabile scollamento tra fonti visive e fonti verbali si manifesta in forma interrogativa con una raffica di 52

domande: A cosa è dovuta questa profonda differenza tra l’immagine tramandata dall’arte e quella tramandata dalla storia e dalla letteratura? È forse caratteristica peculiare di quell’epoca una grande sproporzione tra i diversi campi e forme d’espressione? L’ambiente in cui germogliò l’arte pura e intima dei pittori era forse diverso e migliore di quello dei principi, dei nobili, dei letterati? […] Oppure è un fenomeno normale, nel senso che le arti figurative lasciano sempre, di un’epoca, un’immagine più luminosa rispetto alle parole dei poeti e degli storici? (XVIII).

Più che la soluzione di Huizinga, incline a rispondere in maniera affermativa all’ultima domanda (sulla scia, si direbbe, delle riflessioni settecentesche di Lessing sul Laocoonte e sulla differenza tra le «arti del tempo» e le «arti dello spazio»), in questo caso conta la nettezza con cui lo storico olandese dichiara che i diversi tasselli non restituiscono mai un quadro del tutto coerente. Soprattutto, come chiarisce bene il saggio su Rinascimento e realismo, al di là degli aspetti peculiari di ciascuna arte, perché legati alle sue tecniche specifiche (il ritmo, la rima, il colore, la linea…), è lo sviluppo complessivo ad avere un carattere desultorio e imprevedibile. Scrive infatti Huizinga: «La rappresentazione realistica nella letteratura non procede affatto di pari passo con quella delle arti figurative, e altrettanto si deve dire per le arti figurative fra di loro». Ma qualcosa di simile si ripete in tutti i diversi campi della società, con il risultato che tutto ciò che si può dire con assoluta certezza è che «delle principali linee di demarcazione fra la vecchia e la nuova civiltà dei popoli occidentali alcune passano fra medioevo e Rinascimento, altre corrono fra Rinascimento e Seicento, alcune tagliano in due il Rinascimento, e più d’una solca già il Duecento o solcherà soltanto il Settecento». Ai suoi tempi Huizinga pagò duramente questa sensibilità 53

per le sfumature e il rifiuto di ridurre le epoche a formule troppo rotonde: una precisa tendenza «centrifuga» che lo distingueva immediatamente dalla vocazione «centripeta» della storiografia ottocentesca. Per molti dei suoi avversari l’atteggiamento dello storico olandese era frutto di una debolezza filosofica (un’accusa che, a dire il vero, Croce aveva già rivolto a Burckhardt e a Ranke); per altri esso lasciava trapelare un talento principalmente narrativo, che si traduce nella tendenza a costruire il proprio racconto per quadri e scorci sicuramente suggestivi, ma irrilevanti ai fini della comprensione delle leggi profonde del mutamento storico. Nella seconda spiegazione – la passione per il racconto di Huizinga – vi è certamente qualcosa di vero, ma non è solo di questo che si tratta. Non è escluso infatti che, nella riluttanza a stabilire sistemi di cause troppo rigorosi per concentrarsi piuttosto sulle diverse forme che la cultura può assumere in una determinata società (e sui rapporti che legano le diverse forme), si possa scorgere un altro preciso influsso di Schopenhauer (ricordiamolo: il pensatore tedesco che aveva costruito il proprio sistema sull’attenta meditazione di quella filosofia indiana alla quale anche il giovane Huizinga si era dedicato per anni). Se l’ipotesi è giusta, l’inclinazione di Huizinga verso la morfologia deriverebbe da un preciso interdetto filosofico: quello di strappare il velo di Maya delle apparenze con i soli strumenti della ragione. Una volta stabilita la sostanziale autonomia dell’universo simbolico delle rappresentazioni dal piano della vita, allo storico non rimane infatti che concentrarsi sul modo in cui i diversi fenomeni si combinano tra loro nel grande flusso-spettacolo dell’esistenza senza poter presumere di risalire a quello che 54

si annida dietro di essi e che, in definitiva, condiziona il loro infinito agitarsi (la forza cieca che nella filosofia di Schopenhauer porta il nome di Wille, «volontà»). Quali ne siano le ragioni, quello su cui non possono esserci dubbi è che, tanto in Autunno del Medioevo quanto nei due saggi dell’anno successivo, Huizinga manifesta una speciale inclinazione per quello che potremmo definire un medioevo e un Rinascimento «plurali» e che questo pluralismo è al contempo il punto di forza (ma anche la potenziale debolezza) della sua storiografia. Ma, allo stesso tempo, proprio una tale, consapevolissima, volontà di non sopprimere le contraddizioni per giungere a un’unica determinazione filosofica di tutta la stagione tra Petrarca e Tiziano colloca di diritto lo storico olandese al confine tra la seconda stagione di riflessioni sul Rinascimento (quella della «Renaissance», dopo quella della «Rinascita delle belle arti») e la terza: che poi, appunto, è la nostra. Quando nel 1948 lo storico canadese Wallace K. Ferguson pubblicò una lunga monografia sull’evoluzione dell’idea di Rinascimento (dal Quattrocento in poi), i suoi primi lettori non si resero conto che il libro segnava virtualmente la chiusura di un’epoca (The Renais sance in Historical Thought, tradotto anche in italiano nel 1969). Da quel momento, ovviamente, non sono mancate le sintesi originali e gli studiosi hanno continuato a interrogarsi sulle cause della fioritura rinascimentale e sui suoi tratti decisivi, ma si è avvertito sempre meno il bisogno di «ridurre a concetto» l’intero periodo storico. In questo atteggiamento, più che il risultato della moltiplicazione degli studi particolari (che pure ha sicuramente influito rendendo più problematiche le risposte unilaterali), bisognerà vedere la 55

fine della battaglia militante su concetti come quelli di medioevo, Rinascimento e Riforma (anche le riflessioni di Gramsci, molto influenti nel dopoguerra in Italia, risalgono in fondo agli anni trenta). Persino chi, come Leonid M. Batkin, ha cercato – con scarso successo – di riportare a sintesi un campo ormai frammentato, non ha potuto che proporre di leggere nel presunto eclettismo rinascimentale la sua vera identità più profonda in quanto epoca segnata più di ogni altra da uno «spirito dialogico» («anche prima del Rinascimento ci fu il problema di una eredità culturale, ma non il problema di molteplici eredità»). E non è un caso, probabilmente, che negli ultimi anni tutte le formule più accattivanti siano venute al plurale: Rinascimenti in transito (Giancarlo Mazzacurati, 1996), Renaissances italiennes (Élisabeth Crouzet-Pavan, 2007), Rinascimento e classicismi (Amedeo Quondam, 2013). Segno che, anche a volersi limitare alla sfera della storia della cultura, il quadro rifiuta di lasciarsi ridurre a unità in termini troppo lineari. Di questo atteggiamento non scettico ma sicuramente guardingo nei confronti delle generalizzazioni frettolose Huizinga può essere considerato a tutti gli effetti uno dei precursori, se non addirittura uno dei padri. D’altra parte anche le belle pagine di prosa, che non fanno difetto né in Autunno del Medioevo né nei saggi sul Rinascimento, non sono nel suo caso uno stratagemma per eludere i problemi ma servono piuttosto a segnalare le difficoltà con le quali ogni storico deve fare i conti nel tentativo di tenere assieme un gran numero di vicende potenzialmente contraddittorie senza semplificarle in una fiaba per bambini. È il caso di Il problema del Rinascimento, dove la pagina più eloquente è 56

proprio quella in cui, nell’appressarsi della conclusione, Huizinga cerca di stringere tutti i suoi dubbi e le sue certezze in una immagine complessiva: Il Rinascimento è un cambiamento di marea. E il passaggio dal medioevo all’età moderna deve essere visto (e come potrebbe essere altrimenti?) non come una grande svolta, ma come una lunga serie di onde che vengono a frangersi sulla spiaggia: ciascuna si frange a una distanza diversa e in un momento diverso. Le linee di demarcazione fra vecchio e nuovo passano per punti sempre diversi; ogni forma di civiltà, ogni pensiero ricorre al suo momento, e la trasformazione non interessa mai tutto quanto il complesso della civiltà.

Huizinga non è il primo né il solo storico che negli ultimi due secoli ha trovato nel flusso delle onde il fenomeno naturale più adatto per rappresentare l’incessante opera di costruzione e distruzione del tempo e la difficoltà di dare un’adeguata trascrizione sulla pagina di quel viluppo di energia e di regolarità. Si tratta spesso delle stesse figure che abbiamo incontrato nelle pagine precedenti. Per Michelet la Rivoluzione francese è una forza senza precedenti che «rimescola il mare sino alla sabbia» e che realizza da sola, con il proprio compiersi, l’unica possibile educazione del popolo («l’esperienza»); più tardi Burckhardt ha ripreso dal De rerum natura di Lucrezio l’immagine dello spettatore che osserva il mare in tempesta per descrivere la condizione (quasi impossibile) dello storico che si eleva al di sopra delle passioni individuali e impara a trarre piacere dalla contemplazione disinteressata dei movimenti dello Spirito; più tardi ancora Fernand Braudel ha rivolto la propria attenzione ai diversi strati delle grandi masse d’acqua, per distinguere i ritmi lenti delle correnti oceaniche che agiscono nel profondo (la longue durée della geografia e dell’economia) dagli improvvisi cambiamenti della superficie battuta dal vento (l’histoire événementielle delle 57

battaglie e delle biografie individuali). Il modo diversissimo in cui ciascuno di questi grandi autori ha guardato al mare (spesso lo stesso mare) ci dice molto sul suo carattere e sul suo atteggiamento nei confronti del divenire storico: l’ottimismo vitalistico di Michelet, il pessimismo nichilistico di Burckhardt, la ricerca delle invarianti profonde di Braudel si manifestano tutti, in questi brevi passaggi, con la più grande chiarezza. Quanto a Huizinga, non c’è dubbio che a lui spetta sicuramente un posto di speciale rilievo in questa tradizione. Il suo paragone tra il cambiamento storico e le onde che si frangono sulla costa risulta particolarmente efficace, perché riesce, con una semplice immagine, a evocare allo stesso tempo la fragilità di tutte le costruzioni umane e l’energia infinita con cui una stessa forza invisibile non smette di sospingerle verso terra, ancora e ancora, in sagome e figure sempre nuove. C’è indubbiamente qualcosa di molto schopenhaueriano in questa scena (volontà e rappresentazione, ancora una volta), ma questo ormai non può certo più sorprenderci. E poco importa allora sapere se l’immagine gli sia stata suggerita dalla diretta contemplazione del Mare del Nord dalle coste della Zelanda o dalla meditazione su uno dei più celebri sonetti di Shakespeare, dove lo scorrere dei minuti è accostato direttamente al frangersi delle acque sulla spiaggia: Come incalzano le onde verso la spiaggia ciottolosa così i nostri minuti s’affrettano alla loro fine, ciascuno cambiando posto con quello che lo precede, e in affannosa sequela tutti s’accalcano in avanti. La nascita, appena nel mare della luce, striscia verso la maturità, e quando ne è coronata, contorte eclissi combattono contro la sua gloria,

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e il Tempo che diede distrugge ora il suo dono. Il Tempo trafigge la fiorita tinta che alla giovinezza è apposta e scava parallele sulla fronte della bellezza, si nutre delle perfette rarità della natura, e nulla sta in piedi se non per la sua falce che lo miete. E tuttavia contro i tempi futuri starà la mia poesia, lodando il tuo valore, a dispetto della sua mano crudele.

Quello che conta è l’immagine. C’è una vasta superficie d’acqua. E – come Michelet, Burckhardt e Braudel, prima di Huizinga – c’è lo storico che la contempla e ne trae le leggi del cambiamento: riconoscendo, a seconda dei casi, l’energia, la distruzione, la quiete o la pluralità che rifiuta di lasciarsi facilmente stringere in una sintesi soddisfacente. Sentimenti così diversi che viene da domandarsi se sia solo un caso che autori dalle indoli tanto distanti abbiano scelto lo stesso referente metaforico per mettere in scena il grande spettacolo della storia. È possibile, naturalmente. A meno che, invece, non si voglia leggere nella scelta comune dei quattro storici una medesima certezza che è al mare, e nient’altro che al mare, che occorre rivolgersi, perché la natura non offre niente di così difficile da rappresentare del moto, a tratti violento, a tratti appena percettibile, dei suoi flutti. Il movimento e la stasi. La minaccia e la fascinazione estetica. Il litorale e le profondità abissali. Il dettaglio e lo sguardo d’insieme. La storia – lo sappiamo – è tutte queste cose a un tempo. E un grande storico, non solo del Rinascimento, si riconosce anzitutto dal grado di consapevolezza della sfida che lo attende.

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Nota bibliografica

Per un’introduzione complessiva alla biografia e alla personalità di Huizinga ci si può rivolgere alla recente monografia di Willem Otterspee, Read -ing Huizinga, Amsterdam University Press, Amsterdam 2010 (in inglese). Nonostante le numerose traduzioni, Huizinga ha faticato a essere accolto dalla cultura italiana. Attaccato assai duramente da Delio Cantimori per ragioni eminentemente politiche, negli anni in cui lo storico aderiva ancora al fascismo («Leonardo», VII, 1936), pure presso gli intellettuali idealisti Huizinga non godette di grande considerazione. Il crociano Carlo Antoni, per esempio, indicò in lui una delle degenerazioni dello storicismo tedesco rispetto alla grande tradizione idealistica del secolo precedente (assieme a Wilhelm Dilthey, Ernst Troeltsch, Friedrich Meinecke, Max Weber e Heinrich Wölfflin); ma nel capitolo dedicato a Huizinga le accuse si fanno particolarmente pesanti: relativismo, biologismo, organicismo, assenza di spiegazioni causali… (Dallo storicismo alla sociologia, Sansoni, Firenze 1940). Analogamente, la traduzione di Autunno del Medioevo apparsa in Italia nel 1940 (Sansoni, Firenze) reca un’introduzione dell’allora gentiliano Eugenio Garin tanto riduttiva e cautelativa da sembrare quasi una stroncatura. A una maggiore comprensione dell’opera di Huizinga si 60

sarebbe giunti negli anni successivi, anche in seguito a uno spostamento dell’enfasi su Homo ludens. La migliore analisi di questa opera in lingua italiana rimane tuttora il saggio di Umberto Eco che fa da introduzione alla edizione einaudiana del 1973 (pp. VII-XXVII): un profilo acuto e bilanciato, tanto lucido nell’individuare le ambiguità teoriche di molte delle idee di Huizinga quanto disposto a riconoscergli il ruolo di precursore. A distanza di quarant’anni si può notare tuttavia che Eco parla da compagno di strada degli strutturalisti e che oggi la libertà un po’ anarchica e il modo spesso asistematico e non del tutto rigoroso con cui Huizinga procede può apparire persino più ricco di spunti di tanto rigoroso binarismo dell’antropologia che in quegli anni si rifaceva a Claude Lévi-Strauss. Un bel confronto di Arnaldo Momigliano tra Homo ludens e il concetto burckhardtiano di «agonalità» è raccolto nel Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1980, pp. 323-7: L’Agonale di J. Burckhardt e l’«Homo ludens» di J. Huizinga (1974). Tra i contributi stranieri occorre citare almeno: E. Voegelin, Review of Johan Huizinga. Homo Ludens. Versuch zu einer Bestimmung des Spielelements in der Kultur, in «Journal of Politics», X, 1948, pp. 179-87; G. Bataille, Siamo qui per giocare o fare sul serio? (1951), in Id., L’Aldilà del serio e altri saggi, a cura di F. C. Papparo, Guida, Napoli 2000, pp. 327-52; E. Gombrich, Huizinga (1972), in Id., Custodi della memoria: tributi ad interpreti della nostra tradizione culturale (1984), trad. it. di. A. Serafini, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 153-77. Si noti l’addensarsi di pubblicazioni attorno al centenario del 1972. Di speciale importanza per la riflessione odierna sulla 61

categoria di Rinascimento sono gli studi di Amedeo Quondam, di cui vanno visti in particolare: Tre inglesi, l’Italia, il Rinascimento. Sondaggi sulla tradizione di un rapporto culturale e affettivo, Liguori, Napoli 2006 (che si segnala per la valorizzazione della tradizione anglosassone, spesso marginalizzata nelle ricostruzioni della storia del concetto di Rinascimento) e Rinascimento e classicismi. Forme e metamorfosi della modernità, il Mulino, Bologna 2013 (importante anche per la ricognizione dell’uso dei concetti storiografici di «Revival», «Renaissance», «Rinascimento» e «Risorgimento» nei circa ottant’anni prima della monografia di Michelet). Dato il gran numero di edizioni disponibili, si è preferito indicare le citazioni dai tre classici ai quali più spesso si è fatto ricorso attraverso il numero del capitolo (e non della pagina). I passi citati sono comunque tratti da: J. Michelet, Renaissance et Réforme (1855), Laffont, Paris 1982; J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), trad. it. di D. Valbusa, Newton Compton, Roma 1995; J. Huizinga, Autunno del Medioevo (1919), trad. it. di F. Paris, Newton Compton, Roma 1992. Il saggio di Perry Anderson attende ancora di essere tradotto in italiano: The Origins of Postmodernity, Verso, London 1998; il libro di Fredric Jameson cui si fa riferimento è naturalmente Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo (1984), trad. it. di S. Velotti, Garzanti, Milano 1989. Lorenzo Geri ha raccolto sessantaquattro testimonianze del topos rinascimentale della renovatio in Testimoni della Rinascita, Bulzoni, Roma 2008. La retrodatazione dell’umanesimo alla Padova di fine Duecento si deve alla 62

fondamentale opera di Ronald G. Witt, Sulle tracce degli antichi. Padova, Firenze e le origini dell’umanesimo (2000), trad. it. di D. De Rosa, Donzelli, Roma 2005 (con un saggio introduttivo di chi scrive). Per il barocco come variante del classicismo lo studio di riferimento è: A. Quondam, Il Barocco e la letteratura, in Aa.Vv., I capricci di Proteo. Percorsi e linguaggi del barocco, Salerno, Roma 2002. Il saggio di Francesco De Sanctis richiamato nel testo è Settembrini e i suoi critici (1869), ora raccolto in Id., Verso il realismo, a cura di N. Bor-sellino, Einaudi, Torino 1965, pp. 294-317. Per Konrad Burdach faccio riferimento ai saggi raccolti in Riforma, Rinascimento e Umanesimo (1918), a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1935. Le contraddizioni di Zygmunt Bauman sono state illustrate bene da F. Benigno, Identità come problema, in «Meridiana», 55, 2006. In tutta l’opera di Benjamin il nome di Huizinga non è citato neanche una volta; certe precise assonanze tra Autunno del Medioevo e Il dramma barocco tedesco andranno dunque spiegate solo attraverso il clima culturale comune nel quale sono state concepite (per il recupero in chiave anti-realistica e anti-ottocentesca delle tradizioni precedenti si può pensare naturalmente anche al saggio di Benjamin su Leskov: Il narratore, in Id., Angelus novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995). I libri di Leonid M. Batkin, Francisco Rico e Amedeo Quondam cui si fa riferimento nel testo sono rispettivamente: Gli umanisti italiani. Stile di vita e di pensiero (1978), trad. it. di G. Alifredi, Laterza, Roma-Bari 1990 (citazione da p. 175); Il sogno dell’umanesimo. Da Petrarca a Erasmo (1993), a cura di G. M. Cappelli, trad. it. 63

di D. Carpani, Einaudi, Torino 1998; Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, il Mulino, Bologna 2010. Non sembra improprio intravedere una lontana (e magari inconsapevole) parentela di questi lavori (soprattutto quelli di Batkin e di Quondam) con Huizinga anche alla luce del seguente passo tratto da Civiltà e storia (a cura di G. Chiaruttini, Guanda, Modena-Roma 1946, p. 71): «Ciò che lo storico vede sono le forme della vita collettiva, dell’economia, della credenza, del culto, forme di diritto e di legge, forme di pensiero, forme di creazione artistica, della letteratura, della vita dello stato e del popolo, in una parola forme della civiltà. E queste forme sono sempre in actu. Ognuna è forma di vita, e perciò ogni forma contiene una funzione. E queste funzioni di vita e di civiltà lo storico non vuole ricondurre a schemi e a formule, ma solo rendere chiare nel loro visibile operare, nel tempo, nel luogo e nell’ambiente». La citazione di Friedrich Schlegel è tratta da Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, Einaudi, Torino 1998, p. 52. Anche senza sviluppare sistematicamente la questione del debito di Huizinga verso Schopenhauer basterà rilevare la somiglianza tra due passaggi come questi: «La musica è oggettivazione e immagine di tutta la volontà, tanto immediata quanto lo è il mondo stesso, anzi quanto lo sono le idee, la cui manifestazione moltiplicata costituisce il mondo delle cose particolari. La musica non è dunque affatto, come le altre arti, immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, di cui anche le idee sono l’oggettività. Perciò appunto l’azione della musica è tanto più potente e penetrante di quella delle altre arti: queste, 64

infatti, parlano solo dell’ombra, quella invece dell’essenza» (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione [1818], a cura di S. Giametta, Bur, Milano 2002, I, 52, p. 489), e «la comprensione storica non si presenta a noi come un riportare in vita come una comprensione che è molto vicina alla comprensione della musica, o, piuttosto, alla comprensione del mondo attraverso la musica» (J. Huizinga, Il compito della storia della cultura [1929], in Id., Le immagini della storia. Scritti 1905-1941, a cura di W. de Boer, trad. it. di T. Bruni e altri, Einaudi, Torino 1993, pp. 33-99). I passi in questione sono stati rapidamente accostati da Franklin Rudolf Ankersmit nel suo Sub lime Historic al Experience, Stanford University Press, Stanford 2005, p. 412. A quanto ne so, oltre ad Ankersmit, sino a oggi l’unico altro studioso a suggerire un possibile rapporto tra Huizinga e Schopenhauer è stato Walter Kudrycz (The Historic -al Present, Medievalism and Modernity, Bloomsbury, London 2011, p. 158: e anche in questo caso si tratta di una rapida suggestione, che non viene sviluppata oltre). L’antirinascimento di Eugenio Battisti è stato ristampato da Aragno nel 2005. Per una valorizzazione recente del concetto di anacronismo, si veda A. Nagel - C. S. Wood, Anachronic Renaissance, Zone Books, New York 2010. Io stesso ho cercato di offrire un rapido assaggio di una possibile storia «a stadi» del classicismo europeo nel mio Sulle tracce degli antichi?, in S. Luzzatto e G. Pedullà (a cura di), Atlante della letteratura italiana, I, Dalle origini al Rinascimento, a cura di A. De Vincentiis, Einaudi, Torino 2010, pp. 732-38. Per l’uso della parola «Rinascimento» al plurale: G. Mazzacurati, Rinascimenti in transito, Bulzoni, Roma 1996 65

ed É. Crouzet-Pavan, Rinascimenti italiani (1380-1500), Viella, Roma 2012. Per le metafore marine: J. Michelet, Cours au Collège de France (1845-1851), Gallimard, Paris 1995, p. 41; J. Burckhardt, Sullo studio della storia: lezioni e conferenze (1868-1873), trad. it. e cura di M. Ghelardi, Einaudi, Torino 1998, pp. 30-1. Peraltro Michelet, come è noto, ha anche dedicato un intero libro a Il mare (1861), a cura di J. Borie, il melangolo, Genova 2005. Il sonetto 60 di Shakespeare è citato nella traduzione di Alessandro Serpieri (Rizzoli, Milano 1991, p. 187).

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Il problema del Rinascimento

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Il problema del Rinascimento*

I Quando sente pronunziare la parola Rinascimento, il sognatore della bellezza antica vede porpora e oro. Un mondo festoso immerso in una luce serena, echeggiante di suoni armoniosi. Gli uomini si muovono con grazia e solennità, incuranti delle miserie dell’epoca e della voce dell’eternità. Tutto è maturità, tutto è opulenza. Se qualcuno dice: – Spiegamelo meglio – il sognatore balbetta: – Il Rinascimento è positivo in tutto e per tutto, ed è senza dubbio in do maggiore –. L’altro sorride. E allora il sognatore si ricorda di quello che ha imparato in merito al fenomeno storico che chiamiamo Rinascimento: la sua durata, la sua importanza per la storia della civiltà, le sue cause e le sue caratteristiche, e quasi controvoglia, ora che tutte quelle idee fanno ressa nella sua mente, recita il suo credo. Il Rinascimento è la comparsa dell’individualismo, il risveglio del desiderio di bellezza, il trionfo della mondanità e dell’allegria, la conquista della realtà terrena da parte dello spirito, la rinascita della gioia pagana di vivere, l’epoca in cui la personalità acquista coscienza di sé nei suoi rapporti naturali col mondo. Forse, mentre parla, il suo cuore si è messo a palpitare, quasi che egli stia confessando le 68

esperienze della propria vita. Oppure ha già avvertito che qualcosa non va? L’interlocutore non desiste. Come si chiamano quelle figure oniriche che vi sfilano dinanzi quando dico Rinascimento? Qui ognuno risponde in modo diverso, come se si fosse sul primo pinnacolo della torre di Babele. Io – dice uno – vedo Michelangelo iracondo e solitario. Io – dice un altro – vedo Botticelli languido e tenero. Stanno passando Raffaello e Ariosto, oppure sono Dürer e Rabelais? No, è Ronsard, è Hooft. Ci sono perfino di quelli che vedono san Francesco in testa a Jan van Eyck a metà del corteo. E c’è uno che dice: vedo una tavola, una rilegatura di libro e un campanile. Perché costui intende il Rinascimento in senso ristretto, come concetto stilistico, invece che in un senso più vasto, come concetto di civiltà. L’interlocutore sogghigna ancora, questa volta con una punta di gioia crudele, e dice: – Il vostro Rinascimento è un Proteo. Non siete d’accordo su nessuna delle questioni che lo riguardano: quando è cominciato, quando è finito; se la cultura antica è stata una sua causa o semplicemente un fenomeno accessorio; se il Rinascimento può essere distinto dall’Umanesimo oppure no. Il concetto di Rinascimento non è determinato né per la durata né per l’ampiezza, né per la sostanza né per il significato. È vago, incompleto e arbitrario, e al tempo stesso è una schematizzazione pericolosa, dottrinaria; è un termine che non si può usare. Allora i sognatori supplicano in coro: – Non ci togliere il Rinascimento! Come facciamo a stare senza? Esso è diventato per noi l’espressione di un modo di vita; vogliamo poter vivere in esso e di esso, ogni volta che ci aggrada. Non è qualcosa di tuo, caro interlocutore, questa parola 69

Rinascimento: è un concetto vitale, un ba-stone e un sostegno dell’umanità, e non un termine tecnico della sola storia. Come! – dice l’interlocutore – non è qualcosa di mio? Allora non sono stato io a insegnarvi quel termine? Allora l’assiduo esercizio della storia della civiltà non ha sviluppato, delimitato, determinato il concetto di Rinascimento? Anche se ora è finito in mano a una genia di maniaci che si rifiutano di obbedire alla scienza storica, soltanto questa ha il diritto di usare tale termine, e di usarlo dandogli il valore che merita: un’etichetta da apporsi quando si imbottiglia la storia e nulla più. Tuttavia, qui l’interlocutore non ha affatto ragione. Rinascimento non è, in origine, una denominazione scientifica. L’evoluzione del concetto di Rinascimento è uno dei più chiari esempi della poca autonomia della storia come scienza, cioè di quella situazione che è la sua debolezza e la sua gloria; la storia è indissolubilmente legata alla vita delle singole epoche. È per questo che il problema del Rinascimento, il problema di «che cosa è stato il Rinascimento», non può essere disgiunto dalla storia del termine con cui si indica quel fenomeno1. L’idea di una rinascita della cultura dello spirito, grazie alla quale in un determinato periodo il mondo inaridito e degenerato risorgerebbe, è molto antica ma al tempo stesso è relativamente recente. Antica come idea soggettiva di una civiltà, recente come concezione scientifica che aspira a una validità oggettiva. L’epoca che noi designiamo col nome di Rinascimento, in particolare la prima metà del Cinquecento, sentì se stessa culturalmente rinata, rivolta alle fonti più pure del sapere e 70

della bellezza, in possesso delle norme eterne della sapienza e dell’arte. Tuttavia, quella sensazione di rinascita interessò in modo diretto quasi esclusivamente la cultura letteraria: il vasto campo degli studi e della poesia, che veniva indicato col termine bonae literae. Rabelais parla della «restitution des bonnes lettres» come di un fatto compiuto e universalmente noto2. Per qualcuno quella rinascita era gloriosa opera dei principi che proteggevano l’arte e le lettere. «Vi sarà data lode – scrive nel 1559 Jacques Amyot a Enrico II nella dedica della sua traduzione di Plutarco (traduzione a cui tanto attinsero Montaigne e Shakespeare) – d’aver gloriosamente coronata e compita l’opera che quel grande re Francesco, vostro defunto padre, aveva felicemente inaugurato e cominciato, di far rinascere e fiorire in questo nobile regno le buone lettere»3. Altri vi riconoscono invece lo spirito dei grandi predecessori. Erasmo – si legge nella prefazione a un’edizione dei suoi Adagia4 – è stato colui che «quasi per primo ha curato le lettere che stavano rinascendo (renascentes bonas literas) e riemergendo dalla laidezza di una lunga barbarie». In Italia già da un secolo si parlava con gioiosa fierezza della rinascita della nobile cultura, e con ciò s’intendeva alludere anche alle arti figurative. Lorenzo Valla, nella prefazione delle sue Elegantiae linguae latinae – una prefazione che potrebbe essere definita il manifesto dell’Umanesimo – dice che si asterrà dall’esprimere un giudizio sul come sia avvenuto «che le arti più vicine alle arti libere, cioè la pittura, la scultura, l’architettura, siano dapprima per tanto tempo e tanto gravemente degenerate e quasi morte assieme alle lettere, mentre ora si risvegliano e rinviviscono, con una tal fioritura di buoni artisti e letterati. 71

Felici questi nostri tempi, in cui, sol che ci sforziamo ancora un poco, la lingua romana, a quanto io confido, fiorirà presto ancor più della stessa città, e con essa tutte le scienze saranno restaurate»5. La parola per indicare i nuovi cultori degli studi rinnovati, la parola «umanisti», bastava attingerla all’antichità stessa; già Cicerone parlava di studia humanitatis et literarum6. Risveglio a nuova vita, dopo l’avvilimento e il declino: questa è l’idea alla cui luce l’italiano, attorno al 1500, vede la propria epoca e il proprio paese. Machiavelli conclude il suo Dell’arte della guerra invitando i giovani a non scoraggiarsi, perché questa provincia [l’Italia] pare nata per risuscitare le cose morte come si è visto per la poesia, la pittura e la scultura7. Quale si pensa che sia la causa della grande rinascita? Non l’imitazione dei Greci e dei Romani in quanto tale. Il senso di rinascita nel Cinquecento è troppo universale e ha un contenuto etico ed estetico troppo forte perché anche quegli spiriti possano vedere il fenomeno come un semplice problema filologico. Tornare alle origini, ristorarsi alle pure fonti della sapienza e della bellezza: questa è la nota fondamentale di quel sentimento. E se ciò include il nuovo entusiasmo per gli antichi, l’identificazione del presente con l’antichità, ciò avviene perché sembra che proprio gli antichi possedessero quella purezza e originalità del sapere, quelle semplici norme di bellezza e virtù. Il primo a vedere chiaramente la rinascita come un fatto storico, connesso a un determinato periodo del passato, e anche a derivare dal latino renasci il termine a cui oggi corrisponde quello di Rinascimento, applicandolo in 72

particolare al rifiorire dell’arte e impiegandolo cioè come concetto della storia dell’arte, è stato Giorgio Vasari, l’autore delle Vite degli artisti (1511-74). La parola «rinascita» è divenuta per lui un termine fisso per indicare il grande avvenimento verificatosi di recente nella storia dell’arte. Egli scriverà «i lavori, le maniere e le condizioni di tutti quelli, che essendo già spente [le arti], l’hanno primieramente risuscitate, di poi di tempo in tempo accresciute, ornate e condotte finalmente a quel grado di bellezza e di maestà, dove elle si trovano ai giorni d’oggi»8. Chi ha visto la storia dell’arte salire e cadere ora potrà «più facilmente conoscere il progresso della sua rinascita, e quella stessa perfezione dove ella è risalita nei tempi nostri»9. Il Vasari vede l’epoca di massima fioritura dell’arte nell’antichità greco-romana, a cui poi fece seguito una lunga decadenza che era già avviata al tempo dell’imperatore Costantino. I goti e i longobardi non hanno fatto che abbattere quello che già da sé pencolava. Per secoli l’Italia non ha conosciuto che l’arte figurativa goffa, misera e dura dei maestri bizantini. Per quanto il Vasari noti qualche segno di ripresa assai presto, il grande rinnovamento si ha soltanto verso la fine del Duecento. Inizia con i due grandi fiorentini: Cimabue e Giotto. Questi abbandonano «la vecchia maniera greca», ossia la tradizione bizantina a cui il Vasari dà sempre l’epiteto di «goffa» contrapponendole «la buona maniera antica». Cimabue fu «quasi prima cagione della rinnovazione dell’arte»; Giotto «aperse la porta della verità a coloro che l’hanno poi ridotta a quella perfezione e grandezza, in che la veggiamo al secolo nostro»10. Parlando di perfezione della sua epoca, il Vasari pensa soprattutto a 73

Michelangelo. Ora, in che cosa consiste per il Vasari il grande rinnovamento introdotto da Cimabue e da Giotto? Nell’imitazione diretta della natura. Ritorno alla natura e ritorno all’antico sono, per lui, quasi la stessa cosa. L’eccellenza dell’arte antica dipendeva dal fatto che proprio la natura era stata suo modello e guida; imitare la natura è il principio dell’arte11. Chi segue gli antichi, ritrova la natura. È questo uno dei lati fondamentali di tutto il concetto di Rinascimento, nell’epoca che visse quella rinascita. Talvolta però si sopravvaluta l’importanza del Vasari per l’evoluzione dell’idea di Rinascimento. Il Vasari non esprimeva qualcosa d’inaudito né quando riconosceva l’importanza di Cimabue e di Giotto, né quando faceva derivare la rinascita da un ritorno alla natura. Già il Boccaccio esalta Giotto come colui che ha «ritornata in luce» l’arte di dipingere emulando la natura, arte «che molti secoli era stata sepulta». Lo stesso pensa di Giotto anche Leonardo da Vinci. Ed Erasmo, nel 1489, fa risalire la rinascita delle arti figurative già a duecento-trecento anni prima. Il Dürer ne parla come di cosa risaputa: la pittura è stata «riportata alla luce dagli italiani», che ne hanno «ripreso a tessere le fila»12. Anche in lui la ricerca della natura vera e l’interiore sensibilità per l’arte e la letteratura artistica degli antichi significano in fondo la stessa cosa. Durante il Seicento sembra che il concetto di rinascita della civiltà sonnecchi. Non s’impone più per esprimere il senso di entusiasmo per lo splendore ritrovato. Lo spirito, da un lato, è divenuto più rigido e più sobrio, dall’altro più arido e meno commosso. Ormai ci si è abituati al fasto della forma nobile, pura, alla parola sorprendente, maestosa, alla 74

pienezza di colori e suoni, alla chiarezza critica della ragione. Tutto questo non è più sentito come un nuovo, meraviglioso trionfo. La parola «Rinascimento» non è più sentita come parola d’ordine, e d’altra parte non si ha ancora bisogno di essa come termine storico tecnico. Quando l’idea di una rinascita della civiltà ricomincerà a guadagnare terreno, diverrà uno strumento della ragione critica, un mezzo per distinguere fenomeni storici. Il nascente Illuminismo riesuma nel Settecento questo termine che le generazioni del secolo precedente avevano accantonato. Tuttavia, l’idea di Rinascimento, ormai svuotata dalla vitalità che la caratterizzava quando era nata, è divenuta nel frattempo stranamente scolastica, formale, unilaterale e imprecisa. In Pierre Bayle, il cui Dictionnaire historique et critique rappresentò per l’Illuminismo un vero e proprio arsenale e filo conduttore, si trova un’idea del Rinascimento che già contiene, nella sua essenza, tutti gli elementi di quella concezione scolastica del Rinascimento che sopravvivrà nei manuali sin verso la fine dell’Ottocento. Quel che è certo, è che la maggior parte dei begli spiriti e dei sapienti umanisti che brillarono in Italia quando vi rifiorirono le umanità [in altre edizioni: quando le belle lettere cominciarono a rinascere] dopo la caduta di Costantinopoli, non avevano quasi religione. Ma d’altra parte la restaurazione delle lingue dotte e della bella letteratura preparò la strada ai Riformatori, come ben avevano previsto i monaci e i loro partigiani, che non cessavano di declamare e contro Reuchlin e contro Erasmo e contro gli altri flagelli della barbarie13.

Per il Bayle è dunque fuor di dubbio che l’Umanesimo in Italia abbia avuto un carattere profano e che sia stato provocato dalla caduta di Costantinopoli, vale a dire dall’arrivo di esuli greci, carichi di scienza greca. Di lì a qualche decennio, Voltaire aveva già superato di molto questo modo di vedere. Chi legga oggi nell’Essai sur 75

le mœurs et l’esprit des nations (un modello di storiografia moderna che, nonostante i suoi difetti, merita ogni rispetto) i passi in cui l’autore traccia un rapido quadro della storia delle arti e delle scienze dopo il medioevo, non può non restare stupito tanto dalla frettolosità, superficialità, incoerenza, parzialità, mancanza di penetrazione e d’impegno con cui egli dispensa legnate a dritta e a manca, condannando un fenomeno dopo l’altro e passando oltre, quanto dalla brillante lucidità con cui afferra e indica le grandi connessioni. Dire che il Burckhardt, nello scrivere la sua Civiltà del Rinascimento in Italia, abbia preso spunto da Voltaire14, mi sembra eccessivo; e tuttavia non si può negare che la concezione burckhardtiana si trova già in embrione nell’Essai. Tanto per Voltaire quanto per il Burckhardt, il terreno su cui è germogliato il Rinascimento è stato la ricchezza e la libertà delle città dell’Italia medievale. Mentre la Francia viveva ancora nella miseria, «non era così nelle belle città mercantili d’Italia. Lì si viveva con comodità e con opulenza; soltanto nel loro seno si godevano le dolcezze della vita. Le ricchezze e la libertà vi eccitarono infine il genio, così come elevarono il coraggio»15. Segue poi, nel capitolo dedicato alle scienze e belle arti del XIII e del XIV secolo, l’idea che per tanto tempo ha continuato a influenzare e a confondere: Dante, Petrarca e Boccaccio, Cimabue e Giotto sarebbero stati i precursori di una successiva perfezione. Già Dante, fiorentino, aveva illustrato la lingua toscana con il suo poema bizzarro, ma brillante di beltà naturali, intitolato «Commedia»; un’opera in cui l’autore si innalzò nei dettagli al di sopra del cattivo gusto del suo secolo e del suo soggetto [!], e piena di brani scritti con tanta purezza come se fossero del tempo dell’Ariosto e del Tasso.

In Dante e soprattutto nel Petrarca «si trova […] un 76

grande numero di quei tratti simili a certe belle opere antiche, che hanno insieme la forza dell’antichità e la freschezza del moderno». E analoga a quella della lingua e della poesia è la situazione delle arti figurative. Le belle arti, che si tengono quasi per mano e di solito periscono e rinascono insieme, uscivano in Italia dalle rovine della barbarie. Cimabue, senza alcun aiuto, era come un nuovo inventore della pittura nel XIII secolo. Giotto dipinse tavole che ancor oggi si vedono con piacere […]. Brunelleschi cominciò a riformare l’architettura gotica.

La forza motrice del rinnovamento è stata, per Voltaire, la vivacità del genio toscano. Si fu debitori di tutte queste belle novità ai toscani. Tutto essi fecero rinascere con il loro solo genio, prima che quel poco di scienza rimasto a Costantinopoli rifluisse in Italia con la lingua greca, in seguito alle conquiste degli Ottomani. Firenze era allora una nuova Atene […]. Di qui si vede che non si deve ai profughi di Costantinopoli la rinascita delle arti. Quei greci non poterono insegnare agli italiani che il greco16.

Erano, queste, idee nuove e feconde. Ci si attenderebbe che Voltaire, a questo punto, facesse seguire una descrizione del Quattro e del Cinquecento capace di illustrare questa evoluzione. Il materiale non gli mancava certamente. Tuttavia, nell’Essai non se ne trova traccia. L’abbozzo di questa prima fioritura viene bruscamente interrotto da una lunga digressione sulla restaurazione dell’arte drammatica. Si osserva soltanto, di sfuggita, che al Boccaccio si rifà tutta una serie di poeti, «passati tutti alla posterità», una serie che culmina nell’Ariosto. Quando, più avanti, Voltaire ritorna a descrivere la storia della civiltà del XV e del XVI secolo (cap. 121), invano si cerca uno sviluppo del quadro del Rinascimento così felicemente impostato. Le arti continuarono a fiorire in Italia, perché il contagio delle controversie non penetrò quasi in questo paese; e avvenne che mentre in Germania, in Francia, in Inghilterra la gente si sgozzava per cose che non capiva, l’Italia, tranquilla dopo il sorprendente sacco di Roma da parte dell’esercito di Carlo V, coltivò l’arte più che mai17.

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Questo è tutto, sul Cinquecento. Né Leonardo, né Raffaello, né Michelangelo, né Tiziano vengono nominati. Che cosa impedì a Voltaire di tracciare un quadro completo della civiltà del Rinascimento? Eppure egli era giunto a concepire un’epoca di fioritura delle arti e delle lettere chiusa in sé, gravitante attorno ai Medici nel Quattrocento e nel Cinquecento. Quest’epoca era per lui una delle quattro età felici – dice nel Secolo di Luigi XIV – che hanno conosciuto la perfezione delle arti e che, segnando le epoche della grandezza dello spirito umano, servono d’esempio agli uomini futuri»18. La prima è quella di Pericle, la seconda quella di Cesare e di Augusto, la terza quella dei Medici dopo la caduta di Costantinopoli. In quest’opera, che è del 1739, l’arrivo dei Greci a Firenze viene ancora considerato causa della rinascita: interpretazione che sarà rinnegata nell’Essai sur les mœurs. Ma lo splendore della terza età viene offuscato da quello del secolo di Luigi XIV, «il secolo più illuminato che mai ci sia stato». È questa l’epoca che Voltaire esalta più d’ogni altra, ancora più della propria; su quest’epoca egli appuntò tutto il suo interesse e la sua ammirazione, e per questo non riuscì a immedesimarsi nello spirito e nella bellezza del Rinascimento. Perciò Voltaire lasciò il quadro del Rinascimento allo stadio di abbozzo; e già la sua stessa epoca, considerando il passato, andò alla ricerca di altre visuali. Per interpretare più a fondo il Rinascimento non sarebbero bastati l’esprit e il senso critico che Voltaire possedeva, ma sarebbe occorsa una ben maggiore simpatia e un interesse che partisse dal cuore. E in questo campo di sentimenti e di sogni lo spirito sovrano non era quello di Voltaire, ma quello di Rousseau. Ma che cosa poteva rappresentare la colorita ricchezza di 78

forme dell’aristocratica civiltà rinascimentale per individui che non sapevano aggrapparsi ad altro che alla semplicità della natura e alla tenerezza e sensibilità del cuore? Il brusio delle querce e le nebbie montane di Ossian, la dolce compassione per le avventure psicologiche di Clarissa Harlowe riempivano a tal punto la mente, che non c’era posto per l’immagine soleggiata e chiassosa del Rinascimento. La fantasia del Romanticismo si rivolse quindi al medioevo, per cercarvi i vaghi e tristi effetti del chiarore lunare e delle nuvole in fuga, tanto cari al cuore. Il grande cambiamento di atmosfera, il «tono minore» del Romanticismo, interruppe e frenò per lungo tempo la nascita di una visione compiuta del Rinascimento. Soltanto uno spirito affine poteva ritrovare e spiegare all’umanità l’unità del Rinascimento. Forse Goethe, che, misurando ogni cosa, s’innalzò al di sopra del binomio Voltaire-Rousseau? No, neppure Goethe. Goethe naturalmente conosceva il concetto comune di rinascita dell’arte. Il cavaliere d’Agincourt a cui rese visita a Roma, era intento – annotò Goethe – a scrivere «una storia dell’arte dalla decadenza fino alla rinascita»19. Dal materiale che questo francese aveva all’uopo raccolto, si vedeva «come lo spirito umano sia sempre rimasto attivo anche durante le epoche torbide e oscure»20. Tutte queste cose le avrebbe potute dire anche il Vasari. L’interesse e l’ammirazione di Goethe si concentrano con forza sul Cinquecento. «Al principio del XVI secolo lo spirito dell’arte figurativa s’era innalzato completamente al di sopra della barbarie del medioevo; aveva raggiunto effetti di serena franchezza»21. In un passo dei suoi Diari egli vede Raffaello al vertice di una piramide22, il che non toglie che questi, in confronto a 79

Michelangelo, gli sembri già arcaico. Quando qualcuno dice che la Disputa è l’opera migliore di Raffaello, Goethe vede in questa affermazione un preannunzio della predilezione, più tardi consolidatasi, per opere della vecchia scuola, predilezione «che all’osservatore equanime [doveva apparire] come un sintomo di genialità mediocre e impedita e causargli un’invincibile antipatia»23. Il periodo di fioritura artistica che Goethe sente come unitario non include l’epoca che noi chiamiamo Rinascimento, ma piuttosto l’ultima fase del Rinascimento insieme alla prima del Barocco. Al centro della sua visione e del suo interesse stanno, accanto a Michelangelo, artisti posteriori: Benvenuto Cellini, Palladio, Guido Reni. E soltanto in misura ridotta quella grande fioritura gli si presenta come un problema storico. È per questo che Goethe ricerca tanto il valore immediato, indipendente, delle opere d’arte che contempla. Così l’Ottocento si apre senza che il concetto di «Rinascimento» si sia arricchito granché, rispetto al concetto che vigeva prima di Bayle e di Voltaire. Ancora esso non sta a indicare un periodo di civiltà in quanto tale. Ancora serve soltanto, per così dire, come appellativo, non come nome proprio; per lo più, quando si parla di rinascita, si sente il bisogno di precisare che cos’è che rinasce. Ancora è più o meno sullo stesso piano di locuzioni come decline and fail, origine e sviluppo e simili. È vero che racchiude in sé il compiacimento per una nuova vita, dunque un preciso giudizio di valore, ma nell’uso continua ad avere un suono relativamente indifferente e una validità generalmente limitata. Nella Histoire de la peinture en Italie di Stendhal (1817), l’espressione «la rinascita delle arti» indica quasi 80

esclusivamente il primo quarto del Cinquecento, a cui va tutto l’entusiasmo e l’ammirazione dell’autore, mentre l’arte fiorentina del Quattrocento impersona ancora «la bellezza ideale del medioevo». Guizot, nella sua Histoire générale de la civilisation en Europe (1828), parla di «rinascita delle lettere» senza che questo termine abbia una sfumatura che gli dia un significato diverso da quello che aveva in bocca a Voltaire o perfino a Rabelais e ad Amyot. Il Sismondi, con la sua Histoire de la renaissance de la liberté en Italie (1832), trasferisce il concetto sul piano del pensiero politico. Vedremo più oltre che l’idea di Rinascimento come idea politica è antichissima, ed anzi è stata una delle radici da cui è spun-tato tutto il concetto. Secondo Walter Goetz24, il primo a usare il termine Renaissance senza ulteriori precisazioni, dunque presupponendo che si sapesse che era un termine specifico per indicare un dato periodo della civiltà, fu il conte fiorentino Libri (di non gloriosa memoria), rifugiato in Francia, che nel 1838 scrisse un’opera dal titolo Histoire des sciences mathématiques en Italie depuis la Renaissance jusqu’à la fin du XVIIe siècle. Ma non è esatto. Il Libri non fece altro che seguire un uso linguistico che già aveva preso piede fra i letterati francesi. Circa dieci anni prima, Balzac aveva già usato la parola Renaissance come concetto autonomo della storia della civiltà, nella novella Le bal des Sceaux, datata dicembre 1829, in cui a proposito di uno dei protagonisti si dice: «Elle raisonnait facilement sur la peinture italienne ou flamande, sur le moyen-âge ou la renaissance». Medioevo e Rinascimento sono messi in esplicita antitesi, entrambi come fasi di civiltà. Il sistema di concetti in cui 81

d’ora in avanti buona parte della storia della civiltà europea verrà inquadrata prende a poco a poco una forma compiuta e un suono preciso. Prima di seguire l’ulteriore sviluppo del concetto di Rinascimento, sarà opportuno richiamare l’attenzione su un fatto singolare che, a mio avviso, trova riscontro in vari altri campi: cioè il fatto che l’idea scolastica del Rinascimento, la concezione «condensata» diffusa dai manuali, già allora era superata dall’idea che, del Rinascimento stesso, avevano gli storici. Penso che l’idea scolastica possa essere descritta come segue. Verso la fine del medioevo (medioevo inteso in senso razionalistico, come tenebra e barbarie), le scienze e le arti rinacquero, dapprima in Italia, perché nuclei di greci fuggiti da Costantinopoli rimisero l’Occidente in contatto con lo spirito dell’antica Grecia. Anche se a questi profughi non si attribuisce un’influenza eccessiva, nella visione scolastica il ritorno alla civiltà classica viene considerato come la causa e al tempo stesso la principale caratteristica materiale del Rinascimento. Il Rinascimento nacque perché si imparò a comprendere lo spirito degli antichi, e l’essenza del Rinascimento fu l’imitazione dell’arte e della letteratura classica. Alcuni, fra le cause della rinascita generale, hanno riservato un posticino anche all’arte della stampa e alla scoperta dell’America. Mi è stato detto che, in non so quale manuale scolastico, i capitoli sull’età moderna si aprivano con l’affermazione perentoria: «La rinascita dello spirito umano data dall’invenzione del fucile»; un marxismo a oltranza, a ben considerare. Ma, a prescindere da questo, l’opinione tanto diffusa una volta, secondo cui l’antichità fu l’alfa e l’omega del Rinascimento, non è mai stata nulla più che una 82

semplificazione di seconda mano delle idee di quei pensatori che vagheggiarono e portarono a maturazione il concetto. Abbiamo visto come già Voltaire avesse, del fenomeno della rinascita, una visione ben più vasta. Se si dovesse indicare qualcuno come responsabile della concezione scolastica, questi sarebbe Pierre Bayle. Passiamo ora a esaminare il concetto di Rinascimento nel suo pieno sviluppo. Nelle mani di Jacob Burckhardt il Rinascimento acquista una fisionomia ricca di colori, diviene un aspetto della vita che trascende di molto i limiti della pura e semplice storiografia. È noto che il grande svizzero fu ispirato dal veggente le cui visioni allucinate illuminarono la storia, per così dire, con bagliori di lampi: Jules Michelet. Nel 1855 era apparsa la settima parte della Histoire de France di Michelet: l’Histoire de France au seizième siècle, col sottotitolo Renaissance. Per ciò che riguarda la valutazione di quella grande svolta nella storia della civiltà, Michelet era ancorato al punto di vista dell’Illuminismo: in particolare di quell’Illuminismo che era trapassato nel liberalismo e che si rifletteva nello spirito brillante di Michelet. Che cosa ha portato il Cinquecento? La risposta, per Michelet, è ancora quella che davano i razionalisti del Settecento: luce! Luce sulla barbarica tenebra del medioevo. Per lui il concetto di Rinascimento non è altro che una voce secondaria della grande idea del Progresso, il quale ha cominciato la sua marcia trionfale quando lo spirito si è ridestato dall’aberrazione e dall’oppressione del dogma e del feudalesimo. Il Cinquecento portò due grandi cose: «La scoperta del mondo, la scoperta dell’uomo». Il XVI secolo, nella sua grande, legittima estensione, va da Colombo a

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Copernico, da Copernico a Galileo, dalla scoperta della terra alla scoperta del cielo. L’uomo ha ritrovato se stesso. Mentre Vesalio e Serveto gli hanno rivelato la vita, per mezzo di Lutero e di Calvino, di Dumoulin e di Cujas, di Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, egli è penetrato nel suo mistero morale. Ha sondato le basi profonde della sua natura. Ha cominciato a insediarsi nella Giustizia e nella Ragione25.

Dunque l’uomo, acquistando coscienza del suo rapporto vero, naturale con il mondo, imparando a comprenderne le qualità e il valore, ha anche imparato a capire il significato e le capacità della propria personalità. Da questo punto di vista Michelet non fa distinzione fra Riforma e Rinascimento: l’una e l’altro sono per lui felici albori dell’ideale dell’Illuminismo. Egli vede compiersi il risveglio nel Cinquecento. E fra i rappresentanti del grande rigoglio, a prescindere da Colombo e Galileo, non nomina nessun italiano! Perciò, se il Burckhardt ha potuto attingere a Michelet questa visione della svolta compiutasi nella storia della civiltà, lo ha fatto soltanto per applicarla a cose del tutto diverse. La formula Entdeckung der Welt und des Menschen, «scoperta del mondo e dell’uomo», che valeva per il Rinascimento, fu da lui adattata a fenomeni che per Michelet avevano solamente un interesse secondario; si può anzi affermare che quella formula fu da lui intesa in un senso fondamentalmente diverso da quello in cui la intendeva Michelet che l’aveva creata. Michelet l’aveva gridata ad alta voce come una parola d’ordine; non era uomo da addurre gran dovizia di prove particolari con cui motivarla storicamente. E forse la sua formula si sarebbe perduta come un grido nella notte, se non ci fosse stato il Burckhardt a raccoglierla. Una combinazione, come quella rivelata dal Burckhardt, 84

di saggezza e di profondità, di grande capacità di sintesi e di zelo paziente nel lavoro erudito di raccolta e di elaborazione del materiale, è un fenomeno ben raro nella storia della scienza storica. Il Burckhardt era inoltre uno spirito che con aristocratica riservatezza si asteneva dall’accogliere con calore le idee del momento solo per obbedire alla moda. Non si lasciava minimamente commuovere dalle banali idee di «progresso», e già per questo poteva penetrare molto più a fondo di Michelet. Fu il primo a vedere il Rinascimento svincolato dall’Illuminismo e dal «progresso», a vederlo non più come preludio e preannunzio di una futura eccellenza, ma come ideale di civiltà sui generis. In uno scritto giovanile di Jacob Burckhardt (del 1838: egli era nato nel 1818 a Basilea e vi morì nel 1897) si trova una frase in cui si parla di «cosiddetto Rinascimento»26. In quell’anno il Burckhardt era stato per la prima volta in Italia, ma ancora per qualche anno i suoi studi e la sua ammirazione furono rivolti all’arte medievale tedesca fiamminga: anche dopo un secondo soggiorno in Italia. Alla fine del 1852 uscì la sua opera sull’epoca di Costantino il Grande; nei due anni che seguirono, egli soggiornò di nuovo in Italia, e nel 1855 diede alle stampe il Cicerone, eine Anleitung zum Genuss der Kunstwerke Italiens27. Non ancora il grande quadro unitario del Rinascimento. Poi, nel 1860, segue Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch28. L’importanza del libro è dimostrata nel modo più eloquente dal ritmo in cui si succedettero le varie edizioni. La seconda edizione uscì nove anni dopo la prima, nel 1869, la terza e la quarta furono pubblicate ciascuna a distanza di otto anni: 1877, 1885. Dopo la quinta edizione, del 1896, 85

comincia la valanga: 1897, 1899, 1901, 1904, 1908, 1913, 191929. Soltanto la generazione successiva aveva raggiunto la maturità necessaria per comprendere quello che il Burckhardt offriva. La struttura di questo incomparabile modello di sintesi stori coculturale è solida e armonica proprio come quella di un capolavoro rinascimentale. Nella prima sezione, Lo Stato come opera d’arte, vengono gettate le fondamenta. Sono trattate le condizioni politiche e sociali che, già nel medioevo, determinarono negli Stati italiani la nascita di un atteggiamento più individualistico e più libero da parte del singolo nei confronti dello Stato e della vita in generale. Fin dall’inizio il lettore è messo in contatto con questo spirito di iniziativa personale e di libera conformazione della vita, che per il Burckhardt è la caratteristica essenziale del Rinascimento e che viene illustrato esaminando i tipi dei tiranni, dei condottieri, dei diplomatici, dei cortigiani e dei nipoti; e al tempo stesso il lettore ha un panorama, indispensabile, della storia politica. Poi lo scrittore passa a esporre e sviluppare il pensiero che è alla base della sua opera. La seconda parte, Lo svolgimento dell’individualità, inizia con una pagina che può essere considerata il credo del Burckhardt, e che qui ci limiteremo a riportare per intero: Nell’indole degli Stati, delle repubbliche e dei principati, di cui fin qui s’è tenuto discorso, sta, se non l’unica, certo la più potente causa, per cui gl’Italiani, prima d’ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono per questo di essere detti i figli primogeniti della presente Europa. Nel medioevo i due lati della coscienza – quello che riflette in sé il mondo esterno e quello che rende l’immagine della vita interna dell’uomo – se ne stavano come avvolti in un velo comune, come in sogno o dormiveglia. Il velo era tessuto di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni: veduti attraverso di esso, il mondo e la storia apparivano rivestiti di colori fantastici, ma l’uomo non aveva valore se non come membro di una famiglia, di un popolo, di un partito, di una corporazione, di una razza o di un’altra qualsiasi collettività.

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L’Italia è la prima a squarciare questo velo e a considerare e a trattare lo Stato e, in genere tutte le cose terrene, da un punto di vista oggettivo; ma al tempo stesso si risveglia potente nell’Italiano il sentimento del soggettivo: l’uomo si trasforma nell’individuo spirituale e come tale si afferma30.

L’individualità, secondo il Burckhardt, acquista coscienza di sé in ogni campo. Il capitolo Il perfezionamento della personalità indica in Leon Battista Alberti il tipo più perfetto d’uomo universale, che coscientemente ha sviluppato e coscientemente controlla tutte le proprie capacità. A questa evoluzione dell’individualità corrisponde anche «una nuova specie di valore estrinseco: la gloria nel senso moderno»31. La sfrenata ambizione di Dante e dei suoi personaggi, la celebrità del Petrarca, il culto dei grandi uomini della nazione: tutto questo è visto dal Burckhardt sotto il segno della nuova concezione della personalità e dei valori umani: questo, e anche il suo opposto: «La beffa e lo scherno moderno»32. Solo a questo punto inizia la terza parte: Il risveglio dell’Antichità. Superfluo, ormai, osservare che tale risveglio non fu, per il Burckhardt, la causa del Rinascimento. L’autore si ribella subito a una simile concezione: «Giunti a questo punto del nostro quadro storico della civiltà, ci tocca ora di mostrare quale parte vi ebbe l’Antichità, dal cui Rinascimento l’epoca intera, con denominazione invero parziale e ristretta, s’intitola»33. Non causa, dunque, e neppure essenza; ciò nonostante, un elemento indispensabile e vitale dell’evoluzione. «Il “Rinascimento” [il Burckhardt usa qui le virgolette per indicare che, in questo passo, impiega il termine nell’accezione ristretta di rinascita degli studi classici] non sarebbe stato quella suprema necessità mondiale che fu, se facilmente si potesse prescindere da esso»34. Subito dopo, però, si torna a limitare 87

il contributo dato dal classicismo al rinnovamento dello spirito: Ma ciò che noi dobbiamo stabilire fin d’ora, come un punto essenziale del nostro libro, è questo: che non la risorta Antichità da sé sola, ma essa e lo spirito del popolo italiano, già presente, compenetrati insieme, ebbero la forza di trascinare con sé tutto il mondo occidentale35.

Anche se il Burckhardt ha trattato compiutamente in questa sola sezione tutta l’influenza dell’antichità (a cui poco prima, nel 1859, Georg Voigt aveva dedicato la sua Wiederbelebung des klassischen Altertums oder das erste Jahrhundert des Humanismus: opera che però il Burckhardt non poté utilizzare), il materiale che ancora gli resta a disposizione è cospicuo. Segue ora La scoperta del mondo esteriore e dell’uomo. Qui il Burckhardt ha mostrato per la prima volta che cosa dovrebbe essere una storia della civiltà; come la scienza naturale si rivolge alla percezione, alla scomposizione e alla raccolta; come lo spirito acquista coscienza della bellezza del paesaggio; e poi la nascita della descrizione psicologica, dapprima con Dante, Petrarca, Boccaccio; e lo sviluppo della biografia, la nuova visione del carattere popolare e della varietà etnografica, e infine il sorgere del nuovo ideale di bellezza. Chi aveva mai pensato di valutare l’importanza della vita sociale, della moda, del dilettantismo, delle feste, dal punto di vista della storia della civiltà? Il libro si chiude con la sezione La morale e la religione. Qui emergono le conclusioni della concezione burckhardtiana; qui la figura dell’«uomo rinascimentale» riceve l’ultima pennellata. Lo smisurato individualismo, che diventa amoralità completa. L’atteggiamento soggettivo nei confronti della religione: tollerante, scettico, beffardo, talvolta decisamente ribelle. Il paganesimo del Rinascimento, la confusione di superstizione classica e di 88

libero pensiero moderno. Come nota finale, il nobile platonismo dei fiorentini nell’ambiente di Lorenzo de’ Medici. «Così si veniva forse maturando il miglior frutto di quella cognizione del mondo e dell’uomo, che basta da sola a collocare il Rinascimento italiano alla testa di tutta la nostra epoca»36. La parola Rinascimento ha così acquistato il suo pieno significato. Lentamente il pensiero del Burckhardt si fece strada e si impose anche in cerchie molto lontane da quella dei lettori del suo libro. E come sempre avviene in simili casi, quel pensiero, spogliato di tutte le sfumature che ne costituivano la vitalità e che al tempo stesso lo limitavano con la loro irriducibilità, divenne più rozzo, si irrigidì e si distorse nelle menti di coloro che l’assimilarono. Il Burckhardt aveva rievocato l’uomo rinascimentale come uno splendido peccatore dell’Inferno dantesco, demoniaco nella sua indomita fierezza, presuntuoso e temerario, uomo singolare37. Di tutto il suo libro, soltanto quella figura rimase impressa nella mente dei dilettanti. La sua visione dell’uomo rinascimentale fu associata a vaghe idee di impetuosa accettazione della vita e di dominio della vita. Ci si abituò a considerare tipica della civiltà rinascimentale la personalità libera, geniale, che s’innalza al di sopra della dottrina e della morale: la figura dell’uomo gaudente, altezzosamente frivolo, che nel gusto pagano per la bellezza coglie l’occasione per vivere secondo la propria norma. L’«artisticismo» della fine dell’Ottocento scovò, in quella fantasia storica, un’eco delle proprie aspirazioni. Perfino la diletta «ribellione», nei casi di confusione più gravi, penetrò nell’immagine del Rinascimento. Di tutto questo il 89

Burckhardt non aveva nessuna colpa. La melodia che egli aveva cantato fu strumentata, dalle generazioni successive, alla maniera di Nietzsche; Nietzsche che, come è noto, era stato un discepolo del Burckhardt. Mentre così, in tante menti, una superficiale esagerazione prendeva il posto del ricco quadro che era stato loro donato, la storia dell’arte e della civiltà non era rimasta ferma al libro del Burckhardt. Un’opera scaturita da una concezione così unitaria non può non essere unilaterale. I lati deboli della tesi burckhardtiana non potevano rimanere a lungo celati. Fissando l’intensa luce del sole del Quattrocento italiano, il Burckhardt non era più riuscito a vedere perfettamente quello che c’era più in là. Il velo che secondo lui ottenebrava lo spirito del medioevo era in parte dovuto a un difetto del suo obiettivo. Aveva veduto troppo netto il contrasto fra la vita della fine del medioevo in Italia e quella di fuori. Gli era sfuggito che anche in Italia, sotto la magnificenza del primo Rinascimento, la vita popolare genuinamente medievale continuava a sussistere nelle stesse forme in cui seguitava a sussistere in Francia e nei paesi tedeschi; e ugualmente gli era sfuggito che la nuova vita di cui salutava l’avvento in Italia cominciava a spuntare anche altrove, in paesi in cui egli non vedeva altro che vecchia oppressione e barbarie. Egli conosceva troppo poco la grande varietà ed esuberanza della civiltà medievale fuori dall’Italia. Perciò aveva tracciato in modo troppo rigido i confini spaziali del nascente Rinascimento. Tuttavia, ancora di più prestò il fianco alle critiche la sua delimitazione «temporale» del Rinascimento. Egli aveva posto attorno al 1400 la piena fioritura dell’individualismo, che a suo avviso era l’aspetto essenziale del Rinascimento. 90

La maggior parte del ricchissimo materiale con cui il Burckhardt illustra la sua tesi riguarda il Quattrocento e il primo quarto del Cinquecento. Tutto quello che c’è prima del 1400 è per lui preannunzio, germe promettente. La posizione che egli assegna a Dante e a Petrarca è ancora quella di «precursori» del Rinascimento, come già aveva pensato Michelet e fino a un certo punto anche Voltaire. Ora, il concetto di «precursore» di una corrente o di un movimento, nella storia, è sempre una metafora pericolosa. Dante precursore del Rinascimento: allora io posso anche affermare che Rembrandt è un precursore di Jozef Israëls; non avrò tutti i torti, ma nessuno mi seguirà. Quando si dà a qualcuno l’etichetta di precursore, lo si svelle dal suo tempo, nel quale invece deve essere compreso, e si scompagina la storia. Una volta partito dall’idea che il Rinascimento fosse l’individualismo, il Burckhardt fu costretto a salutarne l’avvento in ogni fenomeno che si distaccava dallo sfondo (grigio per lui) della civiltà medievale. L’arte decorativa dei Cosmati del XII secolo, l’architettura toscana del XIII secolo, la poesia viva, mondana e classicistica dei Carmina Burana del XII secolo, tutto questo diviene protorinascimen-tale. E ciò non vale soltanto per l’arte, ma anche per il carattere umano. Ogni uomo del medioevo che riveli una forte personalità cade sotto il raggio del grande faro del Rinascimento. «Già anche in epoche di molto anteriori, è facile notare qua e là in Italia uno sviluppo della personalità indipendente, quando al tempo stesso nei paesi al di là delle Alpi o non succede o non si rende manifesto. [Questo poi no: le saghe nordiche rivelano un’osservazione della personalità senza pari]. Il celebre gruppo di ribaldi del 91

secolo X che ci è dipinto da Liutprando, nonché più tardi alcuni contemporanei di Gregorio VII e alcuni avversari dei primi imperatori di Svevia, presentano tipi di questo genere»38. Perciò, dal capo iniziale, la linea del Rinascimento poteva essere prolungata all’infinito. La logica, come già aveva visto Michelet, voleva che ogni risveglio di vita spirituale, ogni barlume di nuova concezione della vita e del mondo nel medioevo, venisse segnalato come preludio del Rinascimento. E, in tale caso, il postulato semi-cosciente (che del resto in Michelet era dottrina apertamente professata) doveva essere che il medioevo, in sé, era stato una cosa morta, un tronco arido. E infatti questo continuo retrodatare il Rinascimento fu portato alle estreme conseguenze. Coloro che estrassero la radice quadrata del Rinascimento furono: Émile Gebhart, Henry Thode, Louis Courajod, Paul Sabatier. L’idea di queste «origini medievali» del Rinascimento maturava da tempo, come appare da The Renaissance di Walter Pater, il quale già nel 1877 incluse senza parere sotto il concetto di Rinascimento, come cosa ovvia, tutto quello che nel medioevo gli sembrava spontaneo ed efficace: per esempio l’operetta francese Aucassin et Nicoletie, del Duecento. Nel 1879 l’ottimo saggista e storico della civiltà Gebhart pubblicò Les origines de la Renaissance en Italie. Per quel che riguarda l’essenza del Rinascimento, egli condivideva la concezione del Burckhardt. Il Rinascimento in Italia non fu soltanto un rinnovamento della letteratura e delle arti, prodotto dal ritorno degli spiriti colti alle antiche lettere e da una migliore educazione degli artisti che ritrovarono alla scuola dei greci il senso della bellezza; esso fu l’insieme stesso della civiltà italiana, l’espressione propria del genio e della vita morale dell’Italia39.

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Ma quello che il Burckhardt aveva lasciato trasparire timidamente, il Gebhart lo accettò pienamente. «Il Rinascimento italiano inizia in realtà prima del Petrarca, perché già nelle opere degli scultori pisani e di Giotto, come pure nell’architettura del XII e XIII secolo, le arti si rinnovano […]. Le origini del Rinascimento sono dunque molto lontane e precedono di molto l’educazione dotta diffusa dai letterati del Quattrocento»40. Nel 1885, poi, in occasione della pubblicazione della traduzione francese, eseguita da Schmitt, della Civiltà del Rinascimento del Burckhardt, il Gehhart formulò la questione in modo ancora più reciso41. I punti di contatto fra il Rinascimento e il medioevo, egli dice, in Burckhardt si discernono a malapena; i due estremi del periodo trattato nel suo libro devono essere meglio illuminati. E personalmente il Gebhart cercò infatti di lumeggiare meglio gli inizi di quel periodo. Nella sua opera L’Italie mystique. Histoire de la renaissance religieuse au moyen âge (1892), che era in fondo una continuazione delle Origines, egli fece partire tutto quanto il movimento spirituale da Gioacchino da Fiore, il mistico calabrese della fine del XII secolo, e da Francesco d’Assisi. Sennonché, questa non era una novità. Anche qui Michelet, sia pur con gesto troppo ampio e violento, aveva lanciato la semente che altri avrebbe visto germogliare. Nello sfogo affannoso con cui Michelet inizia la parte che tratta del Rinascimento, è già impostata la questione: «Perché il Rinascimento sopraggiunge con un ritardo di trecento anni?»42. Eppure il Rinascimento si era già preannunziato più volte: nel XII secolo con la chanson de geste, con Abelardo, con l’abate Gioacchino, nel XIII con l’Evangelium aeternum (il libello dei Francescani radicali), 93

nel XIV con Dante. In pratica il medioevo era già morto nel XII secolo, dice Michelet, e soltanto l’accanita resistenza che fu opposta al ritorno alla natura dal «moyen âge» (è noto come Michelet ragionasse antropomorficamente) ritardò il Rinascimento. Grazie a Michelet queste idee erano dunque divenute di dominio comune, e si spiega così come mai già prima del Gebhart la tesi venisse sviluppata scientificamente e Walter Pater collegasse agevolmente il Rinascimento alla figura di san Francesco. Non era neanche tanto strano che la storiografia francese e quella tedesca, pur seguendo ciascuna la propria via, giungessero alle stesse conclusioni. Nel 1885 uscì l’opera di Henry Thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance in Italien. All’autore non interessava tanto il rinnovamento religioso in sé, che aveva preso le mosse da Francesco, quanto l’influenza che questo rinnovamento aveva avuto sull’arte. A suo avviso, tale influenza era grandissima. L’ardore lirico e la coscienza soggettiva di Francesco, il suo nuovo entusiasmo per la bellezza del mondo non avevano dato solamente impulso a un sacro senso dell’arte e fornito il materiale per nuove concezioni; anche sul piano sociale gli ordini questuanti erano stati motivo e sostegno del nuovo gusto di edificare. Il Thode cancellò consapevolmente il confine fra medioevo e Rinascimento. Da Giotto a Raffaello si è attuato uno sviluppo continuo, che ha avuto per fondamento un’unica concezione del mondo e di Dio. Far cominciare il Rinascimento con il 1400 e farlo precedere da un’arte «gotica», così come ancora si usa nei manuali di storia dell’arte, significa misconoscere la vita organica dell’arte stessa43.

Per il Thode il contenuto spirituale di quel processo 94

erano la liberazione dell’individuo «e una concezione soggettiva e armonica sia della natura che della religione: tutto ciò ancora mantenuto, in apparenza, entro i limiti della fede cristiana, ma inconsciamente già teso a oltrepassare quei limiti per acquisire un significato più generale»44. «L’impulso che ha reso possibile un tale miracolo è stato soprattutto il destarsi di un forte sentimento individuale»45. È ormai fuori discussione che la figura di Francesco è qui falsata, e che la sua influenza sull’evoluzione della civiltà italiana è sopravvalutata. Il padre spirituale della grande ammirazione che si nutrì per Francesco negli ambienti artistici, non fu però Henry Thode. Il suo libro non fu conosciuto che da coloro che s’interessavano di storia dell’arte, e così non fu senza una punta di rammarico che più tardi, nella prefazione alla seconda edizione (1904), egli rivendicò a sé l’onore di avere tracciato la nuova immagine di Francesco molto prima che il Sabatier conquistasse il mondo con la sua Vie de Saint François d’Assise (1893). L’opera di Paul Sabatier s’innalzava al di sopra della controversia relativa alle origini del Rinascimento, in quanto il primo intento dell’autore non era, come per Gebhart e per Thode, quello di determinare i rapporti tra Francesco e il Rinascimento, ma quello di descrivere direttamente la vita dell’affascinante santo in tutta la sua finezza e vivacità di colori e di atmosfera: Francesco come spirito liricosoggettivo, che riconquista alla pietà intima e commossa la bellezza del mondo, che introduce nella religione le esigenze della vita sentimentale individuale e che inginocchiandosi con ingenua devozione dinanzi alla vecchia e rigida Chiesa (la quale intuisce i pericoli di questa nuova 95

pietà), diverrà il mesto deluso, quasi il martire della propria anima sublime. Fu questa l’immagine commovente, e tuttavia inesatta, che il teologo protestante francese tratteggiò nel suo libro con soave poesia. Sennonché si trattava sempre, per l’appunto, di quelle qualità che a poco a poco ci si era abituati a collegare al concetto di Rinascimento: sensibilità individuale, accettazione del mondo e senso della bellezza, atteggiamento autonomo nei confronti della dottrina e dell’autorità. E così il Sabatier contribuì, forse più di chiunque altro, a deformare e a spostare nel tempo il concetto di Rinascimento. Ciò che s’intese con quel termine non fu più uno sviluppo essenzialmente intellettuale, bensì uno sviluppo del sentimento: l’aprirsi dell’occhio e dell’anima a tutto lo splendore del mondo e del proprio io. Così la tesi burckhardtiana dell’individualismo e della scoperta del mondo e dell’uomo fu portata alle estreme conseguenze. La rinascita della cultura classica, come fattore del processo del Rinascimento, passò definitivamente in secondo piano. Il fatto che Lorenzo Valla si attendesse ogni bene e ogni rinnovamento dalla restaurazione di una pura latinità, che il Poliziano poetasse nel più vivo e aggraziato latino mai scritto dal tempo di Orazio, che Platone venisse venerato a Firenze come il nuovo messia, questi e altri analoghi aspetti del Rinascimento sembravano divenuti elementi del tutto secondari. Che cosa era dunque accaduto? Il concetto di Rinascimento, ormai identificato con l’individualismo e la mondanità, era stato teso a tal punto che aveva perduto tutta la sua elasticità. In sostanza, non significava più niente. Non c’era grande fenomeno del medioevo che, almeno per 96

un rispetto, non venisse subito ricondotto al concetto di Rinascimento. A poco a poco, tutto quello che nel tardo medioevo appariva spontaneo e singolare era stato avulso dal medioevo e inquadrato fra le origini del Rinascimento. Era un processo di cui non si vedeva più la fine. Se l’apertura degli occhi, il risveglio dell’anima individuale era Rinascimento, perché allora accanto a Francesco, e anzi prima di Francesco, non si esaltava in quell’altro grande spirito lirico, in Bernardo di Chiaravalle, il primo glorioso rappresentante del Rinascimento? A ben considerare, forse un medioevo non c’era mai stato. Non restava che un passo da fare: staccare completamente il concetto di Rinascimento dalla sua base, la rinascita degli studi classici. Quel passo, nel campo della storia dell’arte in senso stretto, era già stato compiuto da tempo dal parigino Louis Courajod, storico dell’arte, discepolo di de La Borde. Nelle sue Leçons professées à l’école du Louvre 1888, soprattutto nella seconda parte che trattava delle «vere origini del Rinascimento», il Courajod aveva sviluppato questa duplice tesi: lo stile gotico si è rigenerato, in modo del tutto indipendente, rivolgendosi a un completo naturalismo, e di qui è scaturito il Rinascimento; in questo processo, né i modelli antichi né l’Italia hanno l’importanza che si attribuisce loro: già nel XIV secolo la nascita di nuove forme era avviata in vari punti d’Europa; per ciò che riguarda la Francia, furono soprattutto gli artisti fiamminghi a seminare il nuovo gusto per la natura e la realtà. Se altri avevano compendiato il concetto di Rinascimento nel termine «individualismo», ora si cominciò a usare il termine «realismo». Lo sbalorditivo, penoso realismo di Jan van Eyck: questo apparve ora, ad 97

alcuni, la manifestazione più significativa del vero spirito rinascimentale. Sulle orme del Courajod, un altro storico dell’arte, il belga Fierens-Gevaert, arrivò a dedicare un’opera a Melchior Broederlam, a Claes Sluter, ai van Eyck e ai loro predecessori, intitolandola La renaissance septentrionale (1905). La definitiva messa al bando dell’antichità come principio vivificatore del Rinascimento fu effettuata da uno storico dell’arte tedesco: Carl Neumann, autore di un sorprendente libro su Rembrandt. Studiando la civiltà bizantina, egli osservò che fra il virtuosismo formale degli umanisti italiani e l’aridità scolastica della morente Bisanzio46 esistevano affinità che lasciavano perplessi. Già preso dall’idea che le vere origini del vero Rinascimento fossero riposte nello sviluppo del senso della personalità, del gusto per la natura e per il mondo, egli giunse a questa concezione: l’imitazione dei classici non è stata affatto l’elemento fecondatore del Rinascimento, ma, al contrario, è stata una remora, addirittura un elemento funesto. Gli aspetti più tipici del Rinascimento nel senso vecchio, limitato, cioè la preziosa Schöngeisterei47 e lo snobismo letterario degli umanisti, non sono altro che arido bizantinismo, un’estraneazione dal vero e fecondo spirito della nuova civiltà occidentale, scaturita direttamente dal medioevo. L’antichità ha traviato il vero Rinascimento. «Ora, coscientemente, nella vita e nella morale si presero a modello gli antichi, ora si svuotò d’anima l’arte con la mania d’imitare le grandi arie monumentali, i maestosi gesti degli antichi, e la si alienò in un virtuosismo formale»48. Era giusta, questa completa trasformazione del concetto originario di Rinascimento? Oppure nemmeno la tesi del 98

Neumann, brillantemente esposta, era scevra da un certo bel esprit? Noi ci limiteremo a indicare un paio di difetti nelle sue premesse. Già Voltaire sapeva che il contributo dei profughi bizantini alla rinascita di una civiltà superiore non poteva essere stato che scarso. Se poi alcuni umanisti a Roma o a Firenze fanno pensare a Bisanzio, ciò non significa che essi abbiano attinto da Bisanzio. E anche ammettendo che Bisanzio abbia esercitato una qualche influenza sulla vita letteraria, è certo che il Rinascimento non riceve da Bisanzio l’antichità come modello per le arti figurative! E infine: se nella senile Bisanzio il classicismo conduce alla rigidità e al manierismo, ben diversi sono i suoi effetti in Italia, dove cade sul suolo quasi vergine di una vita popolare turgida di fecondità! No, cancellando con un frego blu l’elemento classico, non si chiarisce affatto il concetto di Rinascimento.

II Non era forse l’ora o di rinunziare al termine Rinascimento o di restituirgli il suo senso originario, limitato? Eppure dalle oscillazioni del concetto di Rinascimento doveva ormai esser chiaro che l’antitesi medioevo-Rinascimento, per quanto di continuo riproposta e per quanto sensata, non era mai stata formulata in modo adeguato. Sempre si partiva da una vaga idea di una civiltà medievale che sarebbe stata completamente l’opposto di quella del Rinascimento, sia che si facesse interrompere il medioevo un po’ prima, dallo sbocciare della nuova civiltà, sia che lo si facesse finire un po’ dopo. Ma si era mai cercato 99

di definire in maniera veramente esatta e concreta quel concetto di «civiltà medievale», quel presunto opposto del Rinascimento? In fondo, già da tempo si era abbandonata la visione negativa che del medioevo aveva avuto Michelet, secondo il quale esso era la somma di tutto ciò che v’era di rigido, di sciocco e di morto. E non soltanto dal lato medievale era imperfetta la delimitazione del concetto di Rinascimento. Anche il rapporto fra Rinascimento e Riforma come fenomeni culturali e civili era tutt’altro che definito con esattezza. Inoltre, con troppa facilità ci si era abituati a considerare il Quattrocento e la prima metà del Cinquecento, almeno in Italia, come il periodo del Rinascimento e basta. Ma si era forse studiato a sufficienza quanto degli antichi elementi medievali aveva continuato a sopravvivere fin nel Cinquecento e oltre, anche dopo il trionfo del nuovo spirito? E ancora: la fine del Rinascimento era forse una questione risolta? Se n’erano ricercate con zelo le origini, ma per ciò che riguardava il passaggio al barocco e alla Controriforma ci si accontentava di solito di genericità, il cui succo era che in Italia la spagnolizzazione e il gesuitismo avevano prematuramente soffocato la vera vitalità del Rinascimento, o l’avevano fatto degenerare nel manierismo, mentre si concedeva che oltralpe il suo spirito era sopravvissuto fino al Cinquecento inoltrato. Ma anche qui si sarebbe dovuto spiegare che cosa si voleva intendere con Rinascimento, e quali erano i suoi rapporti con le correnti spirituali e intellettuali del Cinquecento. E dietro questo problema, ne sorgeva ancora un altro: una buona volta bisognava pur decidersi a dedicare un po’ d’attenzione anche ai rapporti fra il Rinascimento e il grande 100

Illuminismo del Settecento: forse il Rinascimento n’era stato l’aurora? C’era un legame, fra Rinascimento e Illuminismo, oppure c’era opposizione? Involontariamente ci si cullava sempre nell’idea che il grande abisso fosse quello fra medioevo e Rinascimento (sebbene risultasse sempre più introvabile), e che l’uomo rinascimentale nei suoi tratti essenziali rappresentasse già l’uomo moderno. Ma c’era da chiedersi se a un più attento esame non si sarebbe scoperto un taglio almeno altrettanto profondo fra Rinascimento e civiltà moderna. A tutti questi problemi non è stata ancora data una risposta soddisfacente, e si può dire che, fino a un certo punto, non si è neppure provato. Il problema del Rinascimento è ancora ben lungi dall’essere stato esaminato da tutti i lati. Un tempo, il Rinascimento e la Riforma erano di regola considerati, insieme, come il preludio dell’età moderna. Era un modo razionalistico di guardare la storia. Senza rendersi conto di quanto si fosse ormai estraniata dal vecchio protestantesimo, una generazione di razionalisti liberali pensò di poter salutare in quei due movimenti la grande liberazione dello spirito, la caduta delle catene dalle braccia e delle bende dagli occhi. In entrambi si vedeva libertà e verità, di contro agli errori e alla costrizione della dottrina e della Chiesa medievale. Tuttavia, addentrandosi nei particolari, non ci si poteva nascondere che il contenuto e l’indirizzo del Rinascimento e della Riforma correvano paralleli, sì, ma in misura molto ridotta. Solamente in Francia le due correnti, nel tratto iniziale, erano confluite nello stesso alveo. Nell’entourage di Margherita di Navarra, la protettrice di Rabelais e di Clément Marot, di Lefèvre 101

d’Étaples e di Bonaventure Despériers, Rinascimento e Riforma presentano ancora tendenze indistinte; ma appena compare Calvino, quell’armonia finisce, e a lungo andare il contrasto fra la nuova dottrina e la civiltà rinnovata sarà ben più forte in Francia che nei paesi luterani: con Ronsard e i suoi seguaci il Rinascimento francese si ritrae interamente nel grembo della vecchia Chiesa. La devozione rigorosa, il senso puritano e il violento impulso dei riformati, di contro all’indifferenza desiderosa di quiete e spesso frivola degli umanisti, fecero della Riforma e del Rinascimento espressioni opposte, piuttosto che affini, di uno stesso spirito. Forse ciò che più d’ogni altra cosa distingue i due fenomeni è il contrasto tra il carattere schiettamente popolare dell’uno e l’esclusivismo cortese o erudito, talvolta snobistico, dell’altro. Si trattò dunque di uno sdoppiamento, e non di un’unità culturale moderna che si faceva strada in duplice forma. Questa concezione di uno sdoppiamento si rafforzò ancora più quando Ernst Troeltsch, in un convincente saggio, venne a sostenere che49: la Riforma non segna affatto l’inizio della civiltà moderna; il vecchio protestantesimo, per sua natura e tendenza, non è altro che una continuazione di ideali civili e culturali schiettamente medievali, mentre lo spirito moderno, che più tardi si farà strada con l’Illuminismo, con le idee di tolleranza e di diritto all’autodeterminazione spirituale personale, si prepara nel Rinascimento. Se si parte dall’idea che il pensiero medievale significa atteggiamento completamente passivo dello spirito, un atteggiamento che vede nella Chiesa l’incarnazione e l’organizzazione vivente della diretta rivelazione di Dio e che soltanto nell’aspirazione alla salvezza vede il fine del 102

singolo individuo e dell’umanità, senza preoccuparsi della civiltà terrena in quanto tale – allora effettivamente il medioevo continua a vivere nel protestantesimo, poiché senza riserve esso resta attaccato a un’autorità dottrinaria costrittiva, e per principio disprezza la civiltà terrena esattamente come faceva il cattolicesimo medievale. Così stando le cose, è ovvio che il Protestantesimo non può essere considerato l’avvio diretto del mondo moderno. Anzi, esso si presenta dapprima come un rinnovamento e un rafforzamento dell’ideale della costrittiva civiltà ecclesiastica, come una decisa reazione del pensiero medievale, che di nuovo ingoia quei primi rudimenti di civiltà liberale e mondana che già erano stati conquistati50.

Una Riforma, dunque, in radicale opposizione alle tendenze del Rinascimento. Una Riforma quasi kulturfeindlich51: a questo risultato giungeva la sorprendente concezione del Troeltsch. Il quale più tardi, rispondendo alle critiche sollevate da più parti, ha concesso che effettivamente in molti punti la Riforma, sia pure senza volere, creò un «terreno nuovo» su cui poggiarono le nuove formazioni politiche e sociali: e precisamente lo creò sganciando mezza Europa dall’universalismo papale, sopprimendo la gerarchia ecclesiastica e il monachesimo, abolendo la giurisdizione ecclesiastica, sequestrando i beni della Chiesa e utilizzandoli a fini politici e civili, abrogando il celibato e l’ascesi professionale. Tuttavia, a noi ora non interessa tanto l’attendibilità della tesi del Troeltsch in sé, né la grande distinzione che egli fa tra l’importanza (in sede di storia della civiltà) del calvinismo e del «battismo» da una parte, e del luteranesimo (da lui molto trascurato) dall’altra, quanto le conseguenze che il suo nuovo modo di vedere può avere per il problema del Rinascimento.

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Se davvero la civiltà medievale scorrendo sotto il Rinascimento trapassò nella Riforma, la linea di separazione fra medioevo e Rinascimento dovrebbe essere tracciata non soltanto verticalmente, ma anche orizzontalmente. In ben scarsa misura il Rinascimento significa allora inizio dell’età moderna. Fu proprio questo che il Troeltsch – giuste o meno che fossero le sue considerazioni sul protestantesimo – mise in rilievo con più chiarezza di quanto fino ad allora si fosse fatto: il Rinascimento non definisce la civiltà del Cinquecento nel suo complesso, ma soltanto un aspetto importante di quella civiltà. Chi dice Savonarola, Lutero, Thomas Münzer, Calvino, Loyola, ha già negato che Rinascimento significhi la stessa cosa che civiltà del Cinquecento. Tutti questi forti spiriti sono quanto mai cinquecenteschi e quanto mai non-rinascimentali. Il concetto di Rinascimento copre solo un lato del multiforme processo della civiltà, processo che non si limita davvero all’arte, alla scienza e alla letteratura. Esso illumina solamente un’élite, e forse, anzi, una sola parte della complessa e contraddittoria natura di quella élite. La civiltà continua a evolversi anche durante il Rinascimento. Il Rinascimento non è altro che un fenomeno molto superficiale; le fasi di passaggio vere, essenziali, si riallacciano direttamente al medioevo52. Ancora una volta, però, questa mi sembra un’esagerazione di un’idea in sé giusta. Ricordiamo, anche se ora con un intento diverso, le sagge parole del Burckhardt: «Il Rinascimento non sarebbe stato quella suprema necessità mondiale che fu, se facilmente si potesse prescindere da esso»53. Ciò nonostante, non si può negare: il Rinascimento fu un abito domenicale. O forse… vediamo ancora il Rinascimento in maniera 104

troppo meschina? Forse lo vediamo stagliarsi troppo nettamente sul grande sfondo della civiltà mondiale, e sopravvalutiamo la sua stravaganza e con ciò anche la sua modernità? Sulla nostra rètina resta ancora impresso – troppo a lungo – il quadro nitido, chiaro, tracciato dal Burckhardt, quel quadro i cui tratti principali sono: sfrenato e libero senso della personalità, gusto pagano del mondo, indifferenza e disprezzo per la fede. Potrebbe anche darsi, in fondo, che il Rinascimento sia stato molto più «medievale» di quel che di solito pensiamo. E allora il fossato che lo separa dalla Riforma, e che sembra tanto largo e profondo, non sarebbe, a ben considerare, così insuperabile. Effettivamente lo spirito del Rinascimento è molto meno moderno di quel che si è sempre portati a supporre. Una sicura differenza fra la civiltà medievale e quella moderna può essere questa: il medioevo impone norme autoritarie, vincolanti, a tutto ciò che riguarda lo spirito: non solo alla fede a cui tengono dietro la filosofia e la scienza, ma anche al diritto, all’arte, alle forme di contatto sociale e al piacere; invece l’età moderna rivendica all’individuo un diritto a determinare la vita, ad avere certe convinzioni e certi gusti. Bene, ma dove si trova allora il Rinascimento? Non certo dalla parte dell’età moderna54. Non solo il culto quasi cieco per l’eterna autorità ed esemplarità degli antichi è un marchio che dimostra come il Rinascimento sia una civiltà fondata sull’autorità; ma anche tutto il suo spirito è estremamente normativo, va sempre alla ricerca di misure universali di bellezza, di governo dello Stato, di virtù o di verità. Sia che si prenda il Dürer o il Machiavelli, l’Ariosto o Ronsard, tutti ricercano sistemi artistici o scientifici 105

impersonali, delimitati con precisione, non ambigui e formulati in maniera perfetta. Nessuno di loro ha coscienza dell’inafferrabile e inesprimibile spontaneità e contraddittorietà dei più profondi movimenti dell’uomo. E già qui si dovrebbe cominciare a dubitare che l’individualismo rinascimentale, accettato senza discutere, sia davvero un’ipotesi così plausibile come sembra a uno sguardo superficiale. Ma, per il momento, mettiamo a tacere questo dubbio. Prima di poter determinare con esattezza i rapporti fra Rinascimento e Riforma, bisognerebbe correggere, nell’immagine corrente del primo, un grosso errore: e cioè l’idea che esso abbia avuto un carattere pagano, o almeno sia stato indifferente nei confronti della religione. Certamente, quest’idea è dovuta in gran parte al Burckhardt. Egli dedicò particolare attenzione alle abitudini paganeggianti degli umanisti. Insisté fortemente sull’autodeterminazione spirituale e sul prepotente gusto del mondo dell’uomo rinascimentale, e già in queste qualità era implicito che quell’uomo non poteva passare in maniera davvero cristiana. E gli scritti degli umanisti – da Poggio e Valla, fino allo stesso Erasmo – non traboccavano forse di considerazioni beffarde sulla Chiesa e sui monaci, non traboccavano di scetticismo e di altezzosa «superiorità»? Del resto, già Bayle era convinto che tutta quella gente avesse avuto «poca religione». E così il Burckhardt poté affermare: «Nell’Italia dell’età del Rinascimento la religione sopravvive ancora in sostanza ormai solo come arte (oltre che come superstizione)»55. Qui entravano di nuovo in gioco gli equivoci. Innanzitutto, il vezzo di prendere in giro la Chiesa e il clero 106

o d’innalzarsene alteramente al di sopra non era affatto una specialità esclusiva degli umanisti. Quel vezzo era già molto diffuso al tempo della scolastica. Già nel Duecento accanto a Tommaso d’Aquino era fiorito l’averroismo. Già allora nelle aule dell’Università di Parigi, nelle città e nelle corti d’Italia, si aggirava una turba di eretici salottieri che si vantavano di negare l’immortalità, e che con cautela cercavano di stare in pace con la Chiesa. Erano quegli epicurei che troviamo nell’Inferno di Dante. Perfino Giotto, com’è noto, ne fu sospettato. Mai come qui appare chiaro quanto sia difficile tracciare limiti netti nella storia dello spirito. Lo stesso Dante, che nelle arche ardenti aveva visto accanto a Farinata degli Uberti il padre dell’amico Guido Cavalcanti, nel paradiso celeste vide fra le luci dei teologi il maestro dell’averroismo, Sigieri di Brabante, nientemeno che accanto a Tommaso56. Se questo può accadere a Dante, a maggior ragione dovremo andare cauti nel tacciare di non-cristiano il Rinascimento in base a qualche affermazione burlesca e a qualche frivolezza. Inoltre, gli umanisti che fanno i pii o gli empi non rappresentano tutto il Rinascimento. Se la vera natura e il contenuto più puro del Rinascimento si celasse davvero nella loro indifferenza, ci sarebbe una strana incongruenza in quel grande fenomeno culturale e civile visto nel suo complesso, poiché tutti devono riconoscere che per materia e contenuto, nonostante le pretese classicheggianti e profane, l’arte rinascimentale è stata ed è rimasta cristiana in grandissima parte, né più né meno dell’arte medievale che l’aveva preceduta e di quella della Controriforma che le succedette. Si prendano il romanico e il gotico, o la scuola senese e quella giottesca, o i fiamminghi 107

e i quattrocentisti, o Leonardo e Raffaello, o il Veronese e Guido Reni, fino al barocco inoltrato: sempre il fine sacro e l’argomento sacro sono stati il principale incentivo dell’arte. A proposito dell’arte medievale, tutti ammettono che essa sia scaturita dalla più profonda devozione. E nessuno dubita della rigida, sincera devozione di coloro che furono arsi in nome del cattolicesimo purificato da Trento e dai Gesuiti. E la vera arte del Rinascimento, fiorita in mezzo a questi due periodi, sarebbe stata salvo poche eccezioni ipocrisia e decorazione? L’arte più fiorente sarebbe scaturita dalla più debole ispirazione? Se così fosse, davvero il Rinascimento diverrebbe incomprensibile. Oh, quanto sarebbe meglio ricordare le singole figure e prescindere per un po’ da quella generica idea del paganesimo rinascimentale! Il paganesimo era la maschera che ci si metteva sul volto per darsi un certo tono; nei recessi più profondi del cuore, nella maggior parte delle persone, la fede era inconcussa. Anche qui l’eroica devozione di Michelangelo potrebbe essere il simbolo del cuore del Rinascimento. Si è troppo sopravvalutato l’elemento pagano del Rinascimento. A ben considerare, perfino nella letteratura umanistica, che è l’unico campo in cui prosperi rigoglioso, tale elemento non ha davvero l’importanza che forse si pensa. Si è fatta cadere troppa luce sulle arditezze paganeggianti, che spesso non erano altro che tirate di moda, e si sono lasciate nel buio la fede e la concezione cristiane, che pur sempre costituivano un vasto sfondo nelle opere degli umanisti, per nulla indebolite dalla patina stoica. Petrarca e Boccaccio hanno ancora voluto porre l’antichità al servizio della fede cristiana57. E anche negli scrittori 108

posteriori non esiste affatto, fra l’entusiasmo per l’antichità e l’entusiasmo per la fede cristiana, quel contrasto che si tende a supporre a un esame superficiale. Se una buona volta si riducesse la non-cristianità del Rinascimento alle sue giuste proporzioni, anche il contrasto tra Rinascimento e Riforma risulterebbe molto attenuato. Allora ci si accorgerebbe che, in fondo, quelle due correnti di civiltà ebbero in comune molto più di quanto traspare dalla diversità di atteggiamento nei confronti della vita e del mondo. Ora, proprio su questo punto, cioè sulla derivazione del Rinascimento e della Riforma da una medesima sfera d’idee, gli studi del filologo tedesco Konrad Burdach hanno rivelato cose quanto mai singolari. Il Burdach ha dimostrato come all’origine il Rinascimento e la Riforma (e in questo termine si deve comprendere anche la Controriforma cattolica) abbiano avuto in comune un’idea: un’aspettazione di salvezza, antichissimo germe della coscienza di un rinnovamento spirituale. Naturalmente, ciò non significa affatto che i due fenomeni siano stati la conseguenza di quell’idea. Nessuno vorrà essere così ultraidealista da pensarlo. Rinascimento e Riforma furono il prodotto di tutta quanta la fioritura civile del medioevo, in tutta la sua complessità, quindi il prodotto di fattori spirituali, economici e politici. Ma ciò che è importante è che le idee da cui si sentirono animati i rappresentanti di quei due grandi movimenti derivarono in parte da un unico germe. Intenzionalmente ho taciuto di questo fatto quando, più sopra, ho parlato di come i rappresentanti del Rinascimento, nel Cinquecento, abbiano avuto il senso di una rinascita, di una restituzione, di un rinvivimento o rinnovamento. Ora è il momento di mostrare come l’idea della restitution des 109

bonnes lettres, che troviamo formulata in Rabelais, sia stata semplicemente la riduzione, la restrizione di una molto più vasta speranza di rinvivimento che già da secoli aleggiava negli spiriti. Chi vede in Gioacchino da Fiore un precursore del Rinascimento trova ora un appiglio in una filiazione d’idee determinabile con precisione. Tutta quella fioritura d’idee trae la sua origine dall’idea di rinascita che c’è nel Nuovo Testamento, idea che a sua volta affonda le radici in idee di rinnovamento espresse da salmisti e profeti58. Con i Vangeli e con le Epistole lo spirito si era familiarizzato con concetti di «rinnovamento», «rinascita», «rigenerazione», che in parte si riferivano ai sacramenti (soprattutto il battesimo e l’eucaristia), in parte alla salvezza finale, e in parte all’uomo vivente che si rivolge ad accettare la grazia59. A questo proposito la Vulgata usava i termini renasci, regeneratio, nova vita, renovari, renovatio, reformari. Questa idea sacramentale, escatologica ed etica di un rinnovamento dello spirito, acquista un altro contenuto quando, alla fine del XII secolo, Gioacchino da Fiore la trasferisce all’aspettazione di una prossima reale trasformazione del mondo cristiano. Il primo stadio del mondo, quello del Vecchio Testamento, era stato lo stadio della Legge; la fase odierna è quella della Grazia, ma a questa seguirà presto la fase di una grazia più ricca, come promette il Vangelo di Giovanni (1: 16). Il primo periodo fu fondato sulla legge, il secondo sulla sapienza, il terzo lo sarà sulla perfezione della conoscenza. Il primo fu quello della schiavitù, il secondo quello della fanciullesca obbedienza, il terzo sarà quello della libertà. Nel primo ci fu paura, nel secondo fede, nel terzo ci sarà amore. La luce delle stelle illuminò il primo, l’alba il secondo, sulla terza trionferà lo 110

splendore del sole. Il primo produsse ortiche, il secondo rose, il terzo produrrà gigli. Nascerà un dux novus, un papa universale della nuova Gerusalemme, che rinnoverà la religione cristiana. Possiamo trascurare la questione della misura in cui le idee di Gioacchino influirono sullo stesso Francesco d’Assisi. Il fatto certo è che una parte dei suoi seguaci, gli Spirituali, ripresero quelle idee e le svilupparono ulteriormente; ed è anche certo che la predicazione francescana e la poesia e il misticismo francescani diffusero enormemente l’idea della renovatio vitae, idea in cui ormai l’accento cadeva sul rinnovamento interiore dell’individuo assai più che sul rinnovamento spirituale che ci si poteva attendere da un concreto avvenimento mondiale. Renovatio, reformatio, diviene una parola d’ordine della vita spirituale del Duecento. E così l’accoglie anche Dante. La sua Vita nuova non si può comprendere se non si tengono presenti quelle idee, che ne sono la base. Nella Commedia, tuttavia, l’idea di rinnovamento si è ampliata. Benché sia ancora fortemente sotto l’influsso degli Spirituali, in Dante essa ha acquistato, accanto all’importanza religiosa, anche un’importanza politica e culturale. Il Veltro che verrà, porterà la pace e libererà l’Italia. E ora l’idea cristiana della rinascita si combina, in modo singolarissimo, con un’antica e pura idea di rinnovamento, quella espressa da Virgilio nella quarta Ecloga: Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo. Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna; Iam nova progenies caelo demittitur alto.

Se già la vecchia teologia cristiana aveva interpretato 111

queste parole come un profetico annunzio della nascita di Cristo, Dante le riferisce al tanto sospirato rinnovamento politico, e al rinnovamento estetico di cui ormai si avvertiva il bisogno. Simbolo del mondo che aspira al rinnovamento e alla liberazione, tanto in Dante quanto in Petrarca, diviene l’afflitta Roma. Una scelta felice, perché Roma può essere vista sotto gli aspetti più diversi: come capitale dell’Italia, che è oppressa dalle fazioni e dalla violenza; come centro della Chiesa, che ha bisogno di essere purificata e riformata tanto al vertice quanto nelle membra; come culla delle antiche virtù civili e dell’antica civiltà: «Roma che il buon mondo feo»60. Alla base dell’idea è sempre il pensiero che il ritorno ai tempi passati sarà salutare. E non passa molto tempo che un ardente sognatore traduce quell’ossessione dell’antica Roma in azione politica: Cola di Rienzo. Nelle straordinarie lettere del tribuno del popolo, come ha messo in rilievo il Burdach, i concetti di renasci e renovari costituiscono il nucleo di tutti i ragionamenti, in parte in senso mistico-religioso, in parte in senso politico. Rienzo crolla per la sua stessa debolezza, e con lui crolla il suo prematuro tentativo, ma il simbolo Roma rinata continuò a vivere e a riempire lo spirito dei posteri. In quel simbolo ora prevale l’idea del ritorno alle istituzioni e alle virtù dell’antica Roma, ora quella della restituzione della latinità pura e delle arti nobili, ora quella di una purificazione ardentemente bramata della Chiesa e della fede. Il rinnovamento, il rinvivimento, la rinascita è già dunque l’aspirazione di un secolo, una nostalgia per l’antico splendore, ancora prima che nell’arte e nella scienza e nella vita abbiano luogo quei positivi mutamenti che più tardi 112

saranno indicati appunto con tali termini. Appena poi gli spiriti avvertono che in loro e attorno a loro qualcosa si sta veramente rinnovando, appena si sentono rappresentanti di un nuovo ideale artistico, di un gusto letterario più raffinato e dotato di mezzi d’espressione più ricchi, di un atteggiamento critico nei confronti della sacra tradizione, la coscienza si sottomette da sé allo splendore dell’idea di rinvivimento già esistente. Quando la fonte comincia a zampillare, l’anfora è già pronta. E così vediamo che da una parte gli umanisti, dall’altra i riformatori maneggiano concetti di restituzione e di rinascita che sono adattamenti parziali, riduzioni di un’idea di rinnovamento che in origine era vastissima. Nell’ambiente di Zwingli il termine renascens, applicato al Cristianesimo e al Vangelo, diviene quasi una parola d’ordine61 «O nos felices, si recta studia deum favore renascantur» («felici noi, se i giusti studi rinasceranno col favore degli dèi»), esclama Melantone. L’aspetto religioso-morale dell’ideale del Rinascimento e quello estetico-letterario trapassano l’uno nell’altro e si confondono (e l’innocente plurale deum usato da Melantone è quanto mai eloquente: e non per il carattere pagano, ma per quello cristiano dell’Umanesimo). «Nunc probitas, honestas, justitia, immo Evangelium, quod diu sub tenebris latuit, reflorescit, renascuntur bonae literae» («ora rifiorisce la probità, l’onestà, la giustizia, insomma il Vangelo che per tanto tempo è rimasto nascosto nelle tenebre, rinascono le belle lettere»): così scrive a Zwingli un amico. «Sperandum sit, veterum quandoque innocentiam renatum iri quemadmodum et eruditionem videmus» («si dovrebbe sperare che un giorno rinasca anche l’innocenza, così come vediamo rinascere l’erudizione»), scrive a sua 113

volta il riformatore svizzero a Beato Renano. Ed Erasmo, da cui erano scaturiti inizialmente questi pensieri, pone le tre grandi aspettazioni una accanto all’altra in una lettera a Leone X del 151662: «Saeculo huic nostro, quod prorsus aureum fore spes est, si quod unquam fuit aureum, ut in quo tuis felicissimis auspiciis tuisque sanctissimis consiliis tria quaedam praecipua generis humani bona restitutum iri videam: pietatem illam vere Christianam multis modis collapsam, optimas literas partim neglectas hactenus partim corruptas, et publicam ac perpetuam orbis Christiani concordiam, pietatis et eruditionis fontem parentemque» («A questo nostro secolo che promette di essere veramente un secolo d’oro, se mai uno d’oro ci fu, giacché vedo che in esso sotto i tuoi felicissimi auspici e per la tua santissima avvedutezza saranno ristabiliti tre principali beni del genere umano: la devozione veramente cristiana, in tanti modi decaduta le ottime lettere [un rafforzamento dell’espressione bonae literae] in parte finora trascurate, in parte guastatesi; e la pubblica e perpetua concordia del mondo cristiano, fonte e madre della devozione e dell’erudizione»). A noi che guardiamo indietro e giudichiamo le cose in base alle loro origini, l’abisso fra gli umanisti «letterati» e quelli «biblici» appare più profondo di quel che è stato realmente. L’idea che li anima reca un unico marchio, anche se lo spirito di uno può essere meno pio di quello di un altro. Tutti sono pervasi dallo stesso senso di nostalgia per una purezza antica, originaria, dallo stesso desiderio di rinnovarsi dall’interno. Sia che quelle esigenze si richiamino al primo Cristianesimo, sia che si richiamino alla nobile e ben governata Roma dei Catoni e degli Scipioni, oppure alla 114

pura latinità, alla poesia perfetta, all’arte ritrovata, è sempre un voler tornare indietro nel tempo: renovatio, restitutio, restauratio. Lo studio appassionato della fioritura dell’idea del Rinascimento, di cui qui abbiamo dato soltanto un rapido panorama, ha anche i suoi pericoli. Chi si sprofonda in opere come quelle del Burdach e del Borinski, che hanno esaminato la letteratura antica e medievale fin negli angoli più riposti per rintracciare gli anelli che formano la grande catena dell’idea della rinascita, non può non avere ogni tanto l’impressione che il problema centrale, la questione «che cos’è stato il Rinascimento, in che cosa è consistito?», tenda spesso a essere relegata in secondo piano. È utilissimo, anzi indispensabile per una giusta comprensione, sapere in qual modo l’idea di un fine e il senso di rinvivimento siano sorti negli spiriti, ma la grande questione, a cui ora dobbiamo tornare è sempre la stessa: che cos’è stata veramente la svolta culturale e civile che noi chiamiamo Rinascimento? In che cosa è consistito il cambiamento, che cosa ha prodotto? E qui c’è sempre la prima condizione pregiudiziale, non ancora adempiuta: definire con esattezza il contrasto fra medioevo e Rinascimento; e la seconda, adempiuta ancora meno: determinare con chiarezza i rapporti fra Rinascimento e civiltà moderna. Più sopra abbiamo mostrato come il concetto di Rinascimento rischiasse di restare svuotato di ogni significato, perché ci si vedeva costretti a respingere il Rinascimento sempre più addentro e addietro nel medioevo. Man mano che i più importanti fenomeni culturali e civili del tardo medioevo venivano rivendicati al Rinascimento, 115

come germi e origini, il quadro della civiltà medievale rischiava di sciogliersi e crollare come un pupazzo di neve. Tutto quello che c’era di vivo nel medioevo, finiva col chiamarsi Rinascimento; e che cosa restava allora al medioevo? Ma perché non stabilire chiaramente quali erano state le qualità essenziali del vero spirito medievale in tutte le sue manifestazioni – fede, pensiero, arte, società – ed esaminare poi in quali punti il Rinascimento aveva rotto con tutto ciò? Per la verità, una concezione che ritiene di veder con chiarezza e di poter definire con rigore quella grande frattura e quel fondamentale contrasto fra medioevo e Rinascimento, esiste. Non la si ritrova, a quanto mi consta, negli scritti scientifici degli storici della civiltà e dell’arte, ma vive come convinzione feconda nel cuore di molti artisti moderni. Chi mai oserà contestare loro il diritto d’intervenire e giudicare in siffatte questioni? Se dovessi nominare qualcuno di quelli che hanno dato vita a questa concezione, nominerei Viollet-le-Duc, e accanto a lui, forse, William Morris. Essa si riduce a questo. Il medioevo fu, in tutto, l’epoca del pensiero sintetico e del grande senso della comunità. La vera essenza della civiltà era il costruire insieme. L’arte sapeva che il suo compito era quello di dar forma alle più alte idee, non per vano piacere o per svago personale, ma per esprimere e glorificare ciò che tutti animava. Tutta l’arte figurativa era assoggettata all’architettura, e fu simbolica e monumentale; l’imitazione della realtà naturale non fu mai il fine ultimo. Si conosceva anche, e si applicava, la segreta forza formatrice dei rapporti geometrici. Nella cattedrale romanica, e ancora in quella del primo periodo gotico e 116

nell’arte musiva bizantina, trionfa il vero spirito medievale, esattamente come nell’opera intellettuale di Tommaso d’Aquino e nelle figurazioni del misticismo. Ora, l’avvento del Rinascimento, in questa concezione, significa il raffreddamento e la graduale scomparsa di tutti questi principi. Al posto della comunità che compie uno sforzo collettivo, subentra la persona che nutre aspirazioni individuali (qui la concezione collima con la tesi del Burckhardt). Già il realismo personale di Giotto è un regresso. Un’arte analitica, imperniata sul rendere la realtà, soverchia e sopprime la nobile vecchia arte sintetica e simbolica. L’affresco comporta già di per sé l’elaborazione del particolare insignificante, ma almeno mantiene ancora il legame con l’architettura. La pittura su tela abbandona completamente questo legame; il quadro diviene un mobile e una merce, aristocratica curiosità anziché parte di un organismo spirituale. Il naturalismo e l’individualismo (che sono considerati le caratteristiche per eccellenza del Rinascimento) non sono altro che fenomeni patologici di un grande processo di degenerazione. Non si può negare che questa concezione, nonostante la sua limitatezza per ciò che concerne l’evoluzione delle arti figurative, contenga elementi di profonda verità. Senza dubbio, questo modo di vedere il medioevo coglie ciò che di più essenziale vi fu nella civiltà di quei tempi. Tuttavia esso semplifica a tal punto il ricco ed eterogeneo materiale storico, da essere inutilizzabile come schema con cui comprendere la storia. Rientra nella serie dei grandi dualismi metafisici, preziosi certamente come sostegno della vita, ma non idonei come criteri scientifici. Chiunque conosca un po’ nei dettagli la storia della civiltà medievale sa 117

che essa si ribella a essere riassunta sotto i concetti di collettivismo e di sintesi. L’idea che le chansons de geste e le cattedrali siano state il prodotto di uno spirito popolare che agiva in modo misterioso e impersonale è in fondo un’eredità del Romanticismo. I conoscitori dell’età medievale l’hanno abbandonata da un pezzo. Ogni volta che la scarna tradizione ci permette di guardare un po’ più a fondo nelle opere dello spirito del medioevo, vediamo profilarsi individualità che ebbero aspirazioni e pensieri nettamente personali. Come si è potuto rivendicare l’individualismo al solo Rinascimento, quando al di là della linea di demarcazione si trovano figure come Abelardo, Gilberto di Nogent, Bertran de Born, Chrétien de Troyes, Wolfram von Eschenbach, Villard de Honnecourt e centinaia di altri? Perché l’idea di un medioevo collettivistico-sintetico sia uno strumento di rigorosa validità, bisogna cominciare col prescindere da… tre quarti della sua produzione spirituale, e limitarsi a un primissimo periodo del quale ci è giunto ben poco e del quale ancora meno sappiamo, sicché alla tesi manca completamente una base. Neppure la struttura sociale ed economica della vita medievale ci offre tutto quell’appoggio che si penserebbe, giacché anche qui studi recenti hanno dimostrato la presenza di molti aspetti individualistici, laddove prima si scorgeva soltanto un chiuso collettivismo63. Respingendo una così rigorosa e semplicistica contrapposizione fra medioevo e Rinascimento, si dà un grave colpo anche alle Kulturzeitalter del Lamprecht (che a suo tempo destarono tanto scalpore) nella misura in cui esse interessano le epoche di cui qui discutiamo. Propriamente, il Lamprecht, quando aveva promosso il medioevo a «età 118

tipica» (das typische Zeitalter) rispetto a quella «individualistica» che seguì, non aveva fatto altro che partire dall’individualismo di burckhardtiana memoria, inteso come tratto essenziale del Rinascimento, e aveva considerato caratteristico del periodo precedente tutto ciò che ne era la negazione. L’uomo medievale, al contrario del suo discendente del Rinascimento, sarebbe riuscito a cogliere solamente quello che vi è di tipico, cioè i contrassegni generali che legano fra di loro le cose, ma non ancora le particolarità distintive, quelle che fanno reagire lo spirito di fronte ad ogni cosa. Con il semplice concetto di «tipismo», che in realtà non era altro che l’inverso dell’individualismo, il Lamprecht pensò di poter definire tutta quanta la vita spirituale e intellettuale del medioevo. La tesi del Lamprecht ha fatto il suo tempo, e non è il caso di dilungarsi qui a confutarla; nessuno, per quel che ne so io, usa più l’espressione «das typische Zeitalter». Tutti ormai hanno capito che non si può negare al medioevo ogni individualismo. Bene, si dirà, ma ciò non toglie che il Rinascimento sia stato l’epoca individualistica per eccellenza, quella in cui più fortemente il singolo individuo si è basato sulle sue aspirazioni e sul suo pensiero personale. Anche se l’idea di un carattere collettivistico-sintetico del medioevo non ha quel valore che si pensava, l’aspetto essenziale del Rinascimento resta l’individualismo. Anche quest’opinione dev’essere combattuta. A torto, sulle orme del Burckhardt, si considera l’individualismo caratteristica essenziale e predominante del Rinascimento. Al massimo esso è un aspetto fra tanti, che s’intreccia con aspetti completamente opposti. Solo un’erronea 119

generalizzazione ha potuto elevarlo a principio esplicativo del Rinascimento. Per dimostrare la giustezza di quest’affermazione, o renderla verosimile, occorreranno ulteriori studi. Per il momento, ciò che importa è che si riconosca come in ogni caso, per prima cosa, si debba rinunziare a una formula semplicistica che spiegherebbe tutto. Si devono tenere gli occhi aperti alla multicolore molteplicità, magari contraddittorietà delle forme in cui il Rinascimento si esprime e si manifesta. Siccome l’individualismo è evidentemente un importantissimo fattore della storia, sia molto prima che molto dopo il Rinascimento, sarà meglio farne un tabù. Ancora una volta: il concetto di Rinascimento non è fisso, né per ciò che riguarda i suoi limiti temporali, né per ciò che riguarda il tipo e la sostanza dei fenomeni che interessa. Per determinarlo non si possono attingere i termini alla storia stessa del Rinascimen-to. Bisogna spostare di più i poli. Al medioevo bisogna contrapporre la civiltà moderna per domandarsi: quali sono le caratteristiche della civiltà che io penso di poter chiamare medievale? Per quali aspetti fondamentali la civiltà moderna si distacca da quella medievale? Fra queste due si trova il Rinascimento. Lo si suole chiamare epoca di transizione, ma involontariamente lo si pone troppo dalla parte dell’età moderna. Ormai noi precorriamo quasi sempre i tempi, nei nostri giudizi storici. Siamo così sensibili alla parentela che ci può essere fra il passato e fenomeni maturati più tardi e a noi comuni, che la scopriamo dappertutto e quasi sempre sopravvalutiamo gli elementi ancora acerbi di una civiltà. E le fonti ci devono correggere di continuo, mostrandoci che quei tempi erano 120

molto più primitivi, molto più onusti di vecchi elementi di quanto ci aspetteremmo. Il Rinascimento è un cambiamento di marea. E il passaggio dal medioevo all’età moderna deve essere visto (e come potrebbe essere altrimenti?) non come una grande svolta, ma come una lunga serie di onde che vengono a frangersi sulla spiaggia: ciascuna si frange a una distanza diversa e in un momento diverso. Le linee di demarcazione fra vecchio e nuovo passano per punti sempre diversi; ogni forma di civiltà, ogni pensiero ricorre al suo momento, e la trasformazione non interessa mai tutto quanto il complesso della civiltà. Dunque definire la posizione del Rinascimento fra medioevo ed età moderna richiederà il lavoro di molti. Qui, dove ci occupiamo semplicemente dello stadio attuale del problema, ci limiteremo a tratteggiare ancora, brevemente, le linee secondo cui si dovrebbero svolgere le ricerche, soprattutto fuori del campo dell’arte e delle lettere in senso stretto64. Quando – secondo la nostra consueta (e inevitabile) suddivisione – inizia l’età moderna, nessuna delle grandi forme del pensiero medievale è estinta. Nella vecchia e nella nuova fede e in tutto ciò che ad essa è connesso, anche nel Rinascimento, con tutto il suo tesoro di sostanza religiosa, resiste la mentalità simbolico-sacramentale che non ricerca in primo luogo il naturale legame causale delle cose, ma il loro significato nel quadro del piano universale divino. Due qualità fondamentali del pensiero medievale – il formalismo e l’antropomorfismo – si perdono lentissimamente. Machiavelli è ancora un formalista rigoroso, né più né meno di Gregorio VII. 121

La ricerca della verità, la formazione di una gnoseologia, per lo spirito medievale aveva significato sostenere con prove logiche certe verità date, indipendenti, sia che quelle verità fossero palesi, sia che fossero temporaneamente celate perché si erano dimenticate le buone vecchie fonti. Per ogni cosa tutta la verità può essere espressa in poche formule logiche, e la chiave per la decifrazione è da ricercarsi altrove, nelle Sacre Scritture, nell’antichità. È così che il medioevo concepisce la conquista della verità e della conoscenza. Per lo spirito moderno quella ricerca significherà: approssimarsi, sviluppare, definire verità ancora inespresse, ciascuna delle quali comporterà a sua volta nuovi problemi. Analizzare induttivamente, considerare la natura e il mondo come un mistero da svelare: così il pensiero moderno concepisce il proprio compito. C’è in questo una coincidenza con il Rinascimento? No. Leonardo da Vinci potrà anche essere un rappresentante del nuovo tipo di ricerca della verità; ma nel suo complesso il Rinascimento resta attaccato al vecchio atteggiamento, e crede nell’autorità. Qui un’inversione di rotta si avrà soltanto con Cartesio. Copernico introduce il concetto dell’illimitatezza dell’universo. Ma forse per questo la concezione geocentrica e antropocentrica del mondo scompare di colpo nel Cinquecento? Nient’affatto. Il Rinascimento, in modo diverso ma con lo stesso vigore delle età passate, pone la terra e l’uomo al centro dell’universo. Anzi, il pensiero antropocentrico fiorisce veramente soltanto nel Settecento: con la concezione teleologica della creazione come saggio sistema per avvantaggiare e istruire l’uomo. Su questo punto solamente nell’Ottocento si abbandonerà l’antico modo di pensare. O forse per nostra natura non potremo mai 122

rinunziare davvero a porre la terra e l’uomo al centro dell’universo? Altrettanto incerto è il limite temporale che separerebbe il rifiuto medievale del mondo dall’accettazione del mondo che contraddistingue il pensiero moderno. È così facile immaginare che tutto quanto il medioevo abbia professato il contemptus mundi e che poi, col Rinascimento, tutta l’orchestra abbia attaccato improvvisamente, con giubilo, il tema dello Juvat vivere, «è bello vivere». Ma ahimè, non sembra che in questo ci sia molto di vero. Innanzitutto, il pensiero cristiano medievale non ha mai respinto la bellezza e le gioie del mondo in maniera tanto assoluta come per lo più si ritiene. In mille modi i piaceri terreni trovarono un posto legittimo nella vita timorata di Dio. E del resto la concezione ottimistica ed estetica aveva già cominciato a soppiantare l’antico disprezzo per il mondo proprio negli spiriti più rappresentativi della scolastica: in Tommaso d’Aquino, in Dante. Certo, per ciò che riguarda questo punto è il Rinascimento quello che canta l’inno della grande e nuova gioia di vivere, con la voce di Pico, con quella di Rabelais e di cento altri. Ma se quelle voci dominano il loro tempo, di sicuro non coprono il frastuono di Lutero, di Calvino e di Loyola. E poi, è proprio questo il suono del Rinascimento nel suo complesso? Nella maggior parte degli esponenti del Rinascimento la nota fondamentale non risulterà forse molto più cupa di quel che pensiamo? Ancora una volta, la vittoria dell’ottimismo di principio (una vittoria di Pirro?) si avrà soltanto con l’Ottocento. Le due forme principali in cui quel pensiero si è incarnato, il concetto del progresso e il concetto dell’evoluzione, non appartengono né l’una né l’altra al Rinascimento. Anche qui il 123

Rinascimento non può essere affatto equiparato alla civiltà moderna. Tutto un insieme di atteggiamenti dell’individuo verso la vita e la società, atteggiamenti che costituiscono un importante sostegno della civiltà moderna, è stato estraneo al medioevo. L’impostazione di un’attività personale come Selbstzweck, come «fine autonomo», lo sforzo di formare la vita e la personalità sviluppando coscientemente tutte le capacità e le doti di cui si dispone. La coscienza dell’autonomia personale e la funesta illusione del diritto alla felicità terrena. E a ciò connessi: l’obbligo verso la società, la coscienza del fatto che l’individuo ha il compito di contribuire a proteggerla e conservarla o trasformarla e migliorarla, il desiderio di riforme, l’esigenza di giustizia sociale, e nei casi patologici l’accusa di principio, permanente, contro la società, qualunque sia la sua forma; accusa che si esprime in un senso di rancore per i torti che si pensa di subire, o in un senso di superiorità nei confronti della società stessa. Tutti questi sentimenti l’uomo del medioevo o non li conosce affatto o li conosce soltanto in forma di dovere religioso e di morale religiosa. E il Rinascimento che cosa conosce di tutto ciò? Null’altro che i germi. La coscienza dell’autonomia personale e della finalità autonoma l’uomo rinascimentale l’ha avuta, fino a un certo punto, anche se non così forte e così generale come ha creduto il Burckhardt. Ma al Rinascimento è mancato completamente tutto ciò che di altruistico vi era in quel fascio d’idee, è mancato insomma proprio il senso di responsabilità sociale. Dal punto di vista sociale, il Rinascimento è stato quanto mai sterile e immobile, e sotto questo rispetto, in confronto al medioevo 124

con la sua coscienza religioso-sociale, si deve parlare più di una stasi che di una rinascita. Una delle più importanti e profonde trasformazioni, nel passaggio dalla civiltà medievale a quella moderna, è l’alterazione e in parte il logorio dei concetti di «ceto», di «servitù» e di «onore». Si tratta di una trasformazione così complessa che non si può pensare di discuterla qui. Ci limiteremo soltanto ad accennare brevemente a due ben noti risultati di quel processo, per mostrare come neppure in questo campo il Rinascimento possa essere paragonato all’età moderna. La grande spiritualizzazione per cui la differenza fra condizione elevata e bassa condizione non era più determinata dal grado di potenza e di ricchezza, ma era trasferita sul piano etico e intellettuale, in realtà era già iniziata nel Duecento. Già la lirica cortese dei trovatori aveva elaborato l’idea della nobiltà del cuore. In seguito, la simpatia – simpatia molto teorica – per la vita semplice e laboriosa dell’uomo dei campi viene coltivata dalle fantasticherie della poesia pastorale. Tutti questi concetti il Rinascimento li ereditò dal medioevo, e li vivificò con tinte antiche. Ed ora ebbe luogo una fusione degli ideali di vita, un tempo separati e distinti: il gentiluomo cortese e colto, il monaco dotto che sa anche muoversi nel mondo, il ricco borghese col suo desiderio di sapere e il suo gusto per l’arte confluiscono nel tipo dell’umanista che si trova a suo agio presso tutte le corti, che ha familiarità con ogni forma di erudizione e con la teologia, che è idoneo o presume di essere idoneo a qualsiasi ufficio municipale o statale. Ma ciò non significa affatto che ora le vecchie forme indipendenti di vita cessino di esistere. L’ideale cavalleresco medievale, l’antico onore cavalleresco, e tutto ciò che vi è connesso, 125

non solo sopravvivono con uguale vigore nel Rinascimento, ma sono riempiti di nuova passione dall’Ariosto, dal Tasso e dai romanzi di Amadigi. Tanto nelle sue forme più rozze quanto in quelle più raffinate, il concetto di ceto resta in sostanza fin molto dopo il Rinascimento – anche se si arricchisce di sfumature – quello che era stato nel medioevo. Strettamente collegato al concetto di ceto è quello di servitù. Nella civiltà moderna è maturata l’idea che sia indegno dell’uomo servire qualcosa o qualcuno (servire veramente, in umiltà e obbedienza), salvo che Dio o l’interesse comune. Il medioevo conosce il vero servaggio e la vera fedeltà dell’uomo all’uomo (vista però sempre come un riflesso dell’asservimento a Dio); intende la servitù allo stesso modo in cui ancora la intende il cuore dei popoli orientali, almeno dove la propaganda occidentale non ne ha estirpato il concetto. Come si comportava sotto questo riguardo il Rinascimento? Esteriormente era ancora in tutto e per tutto dalla parte del medioevo. L’uomo rinascimentale, che di solito dipende dal favore della corte o dai mecenati, serve con zelo e piacere, con tutte le corde della sua lira e con tutte le scintille del suo pensiero; solamente, non col cuore. La fedeltà medievale è scomparsa dal suo cuore. Si veda come Erasmo di fronte all’amico Battus rinneghi Anna van Borselen, loro comune protettrice, e al tempo stesso indirizzi alla medesima lettere adulatrici e piene di lodi; oppure come l’Ariosto, tanto esaltato come uno degli spiriti più retti e indipendenti del suo tempo, nell’Orlando furioso innalzi alle stelle il ripugnante cardinale Ippolito d’Este, mentre lo censura nelle satire, che non sono destinate al grande pubblico. Se c’è un campo in cui il Rinascimento presenta le contraddizioni insolute di un rivolgimento 126

spirituale, è proprio questo. Nelle opere delle arti figurative e della letteratura, a chi guardi in superficie, la rottura del Rinascimento col medioevo appare definitiva e completa. Si avvertono una maturità e una pienezza che erano mancate alle epoche precedenti, un’ebbrezza di colori, una facilità d’espressione, una grazia e una maestosità, che tutte insieme danno un senso di moderno, di non più primitivo. Eppure, a ben considerare, tutto ciò (a prescindere dal fatto che lo si apprezzi di più o di meno della rigorosità e della riservatezza dell’arte antica) interessa semplicemente la qualità e non le fondamenta dell’arte stessa. Da questo punto di vista la continuità è molto maggiore di quanto di solito non ci si figuri. Col Rinascimento, in sostanza, nulla si è spento delle grandi forme dell’immaginazione di cui erano vissute l’arte e la letteratura medievali all’apice della loro fioritura. Nella letteratura l’elemento romanzesco-cavalleresco sopravvive fino al Seicento inoltrato. Tanto le arti figurative quanto le lettere continuano a coltivare la forma pastorale, che resta uno dei mezzi preferiti per esprimere il sentimentalismo: e questo fino al Settecento inoltrato. L’allegoria non abbandona il campo né nella letteratura né nelle arti figurative, anche se col Rinascimento viene un po’ sfrondata e ripulita, agghindata con un po’ più di gusto e di stile. D’altro canto, l’apparato mitologico della fantasia ha cominciato a sorgere molto prima del Rinascimento, e assieme all’allegoria è rimasto in auge fin molto dopo il Rinascimento. In breve, se si imposta il problema in modo da situare giustamente il Rinascimento fra la civiltà medievale e quella moderna, le questioni insolute o risolte in modo 127

insufficiente sono ancora numerose. Il Rinascimento non può essere considerato l’esatto contrapposto del medioevo, e neppure una zona di confine fra medioevo e civiltà moderna. Delle principali linee di demarcazione fra la vecchia e la nuova civiltà dei popoli occidentali alcune passano fra medioevo e Rinascimento, altre corrono fra Rinascimento e Seicento, alcune tagliano in due il Rinascimento, e più d’una solca già il Duecento o solcherà soltanto il Settecento. Svolta e incertezza, passaggio e fusione di elementi culturali e civili: questo è il quadro che ci si presenta del Rinascimento. Chi in esso ricerca un’unità spirituale perfetta, esprimibile in un’unica formula, non lo potrà mai comprendere in tutte le sue manifestazioni. Soprattutto si deve essere disposti ad accettarne l’intricatezza, l’eterogeneità e le contraddizioni, e a trattare in modo non unilaterale le questioni che esso solleva. Chi abbozza uno schema semplicistico per catturare questo Proteo, rischia di restare impigliato nelle maglie della propria rete. È fatica vana voler descrivere «l’uomo del Rinascimento». I numerosi tipi che quell’epoca doviziosa produsse, se possono essere accomunati da un certo individualismo, ancora di più sono distinti da altre caratteristiche. L’indagine deve rivolgersi alle particolari qualità della società rinascimentale, considerandole ciascuna a sé. Il Burckhardt ha inaugurato splendidamente questo metodo quando ha preso in considerazione l’ambizione e lo spirito beffardo del Rinascimento. Così si vorrebbe vedere trattati anche il coraggio, la vanità, l’onestà del Rinascimento, la sua sensibilità stilistica, il suo orgoglio, il suo entusiasmo, la sua coscienza critica. E con spregiudicatezza, come seppe fare il 128

Burckhardt, senza quella pomposa pesantezza che tanto spesso intralcia noi nordici quando cerchiamo di capire il Rinascimento. Poiché questo si deve sempre tener presente: il Rinascimento è uno dei trionfi dello spirito romanzo. Chi lo vuol comprendere deve saper cogliere quella combinazione di serietà stoica e ferma determinazione (piena di ben altre cose che di «volontà di vivere secondo le inclinazioni personali») e di leggera, spensierata gaiezza, squisita e aperta bonomia e ingenua irresponsabilità. Bisogna sapersi astenere dal ricercare dappertutto la propria anima, e sentire invece un robusto, diretto interesse per le cose. Bisogna saper godere dell’essenza delle cose, nella loro bella forma. Dietro il volto di uno Holbein o di un Moro bisogna saper avvertire il riso di Rabelais. *

Saggio pubblicato per la prima volta in «De Gids», LXXXIV, 1920, 10, pp. 107 sgg. e ivi, 11, pp. 231 sgg. Ristampato in J. Huizinga, Tien Studiën, Tjeenk Willink, Haarlem 1926, e poi in Id., Verzamelde Werken, IV, Cultuurgeschiedenis, Willink and Zoon, Haarlem 1949, pp. 231-75. Traduzione dall’originale olandese. 1 La storia del concetto di Rinascimento è stata studiata quasi esclusivamente da tedeschi. Benché in questo saggio si sia cercato di trattare il problema da un punto di vista un po’ più ampio di quanto questi non abbiamo fatto di regola, dobbiamo citare qui alcuni lavori dai quali abbiamo tratto profitto. W. Goetz, Mittelalter und Renaissance, in «Historische Zeitschrift», XCVIII, 1907; K. Brandi, Das Werden der Renaissance (discorso), Göttingen 1908; K. Burdach, Sinn und Ursprung der Worte Renaissance und Reformation, in «Sitzungsberichte der Königlich Preußichen Akademie der Wissenschaften», XXXII, 1910, pp. 594 sgg. [Significato ed origine dei termini Rinascimento e Riforma, in Id., Riforma, Rinascimento, Umanesimo. Due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, trad. it. di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1986]; Id., Über den Ursprung des Humanismus, in «Deutsche Rund -schau», CLVIII, 1914 [trad. it. Sull’origine dell’Umanesimo, in Id., Riforma, Rinascimento, Umanesimo cit.]; E. Troeltsch, Renaissance und Reformation, in «Historische Zeitschrift», CX, 1913; W. Weisbach, Renaissance als Stilbegriff, ivi, CXX, 1919; K. Borinski, Die Weltwiedergeburtsidee in den neuneren Zeiten, I, Der Streit um die Renaissance und die Entstehungsgeschichte der historischem Beziehungsbegriffe Renaissance und Mittelalter, in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften», 1919, 1.

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Gargantua, libro I, cap. 9. J. Amyot, Les vies des hommes illustres grecs et romains…, Paris 1578, f. a IIII [«On vous donnera la louange d’avoir glorieusement couronné et achevé l’œuvre que ce grand roy François votre feu père avoit heuresement fondé et commencé de faire renaistre et florir en ce noble royaume les bonnes lettres»]. 4 Erasmo, Adagia, Chesneau, Paris 1571. Sull’uso dei termini bonae literae e renascentia in Erasmo, si veda il mio Erasmus, Haarlem 1925, passim [Erasmus, trad. it. di A. Vita, Einaudi, Torino 1949, passim]. 5 L. Valla, Elegantiae linguae latinae, in Id., Opera, Bâle 1543. 6 Come i letterati del Quattrocento derivarono la parola humanista dal latino classico humanitas, così la storiografia tedesca dell’Ottocento ha derivato «Umanesimo» (Humanismus) dalla parola «umanisti», per indicare quella corrente spirituale. 7 N. Machiavelli, Opere, Luigi Mussi, Milano 1805, X, p. 294. 8 G. Vasari, Le Vite de’ più eccellenti pittori sculturi ed architettori… con nuove annotazioni e commenti di G. Milanesi, Firenze 1878, I, p. 1 (dedica del 1550 al duca Cosimo). 9 Id., Proemio delle Vite cit., p. 243. 10 Vasari, Vite cit., passim; «Vita di Cimabue», p. 257. 11 Ibid., pp. 216-7. 12 Decamerone, VI, 5; W. von Seidlitz, Leonardo da Vinci: der Wendepunkt der Renaissance, J. Bard, Berlin 1909, 2 voll., I, p. 381; Erasmus, Opus epistolarum, a cura di P. S. Allen e altri, Oxford-London 1906-58, 12 voll., I, p. 108; E. Heidrich (a cura di), Dürer’s Schriftlicher Nachlass, Bard, Berlin 1910, pp. 223, 250 [«wieder durch die Walchen an tag gebracht», «wieder angespunnen»]. 13 P. Bayle, Dictionnaire historique et critique, Amsterdam 1740, IV, p. 315 [«Ce qu’il y a de certain c’est que la plupart des beaux esprits et des savants humanistes qui brillèrent en Italie, lorsque les humanistes y refleurirent (in altre edizioni: “lorsque les belles lettres commencèrent à renaître”) après la prise de Constantinople, n’avoient guère de religion. Mais d’autre côté la restauration des langues savantes et de la belle litérature a préparé le chemin aux Reformateurs, comme l’avoient bien prévu les moines et leur partisans, qui ne cessoient de déclamer et contre Reuchlin et contre Erasme et contre les autres fléaux de la barbarie»]. 14 Così Borinski, Der Streit um die Renaissance cit., p. 90. 15 Voltaire, Œuvres complètes, XIV, Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, Paris 1819, cap. 81, p. 349 [«Il n’en était pas ainsi dans les belles villes commerçantes de l’Italie. On y vivait avec commodité, avec opulence: ce n’était que dans leur sein qu’on jouissait des douceurs de la vie. Les richesses et la liberté y excitèrent enfin le génie, comme elles élevèrent le courage»]. 3

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Ibid., p. 355 [«Déjà le Dante, Florentin, avait illustré la langue toscane par son poème bizarre, mais brillant de beautés naturelles, intitulé Comédie; ouvrage dans lequel l’auteur s’éleva dans les détails au-dessus du mauvais goût de son siècle et de son sujet [!], et rempli de morceaux écrits aussi purement que s’ils étaient du temps de l’Arioste et du Tasse»; «On trouve […] un grand nombre de ces traits semblables à ces beaux ouvrages des anciennes, qui ont à la fois la force de l’antiquité et la fraîcheur du moderne»; «Les beaux-arts, qui se tiennent comme par la main, et qui d’ordinaire périssent et renaissent ensemble, sortaient en Italie des ruines de la barbarie. Cimabué, sans aucun secours, était comme un nouvel inventeur de la peinture au treizième siècle. Le Giotto fit des tableaux qu’on voit encore aver plaisir […]. Brunelleschi commença à réformer l’architecture gothique»; «On fut redevable de toutes ces belles nouveautés aux Toscans. Ils firent tout renaître par leur seul génie, avant que le peu de science qui était resté à Constantinople refluât en Italie avec la langue grecque, par les conquêtes des Ottomans. Florence était alors une nouvelle Athènes […]. On voit par là que ce n’est point aux fugitifs de Constantinople qu’on a dû la renaissance des arts. Ces Grecs ne purent enseigner aux Italiens que le grec»]. 17 Voltaire, Œuvres complètes, XV, Paris 1819, p. 99 [«Les beaux-arts continuèrent à fleurir en Italie, parce que la contagion des controverses ne pénétra guère dans ce pays; et il arriva que lorsqu’on s’égorgeait en Allemagne, en France, en Angleterre, pour des choses qu’on n’entendait point, l’Italie, tranquille depuis le saccagement étonnant de Rome par l’armée de Charles-Quint, cultiva les arts plus que jamais»]. 18 Voltaire, Œuvres complètes, I, p. 187; XVII, Le siècle de Louis XIV [Il secolo di Luigi XIV, trad. it. di U. Morra, Einaudi, Torino 1951, p. 3]. 19 J. W. von Goethe, Werke, XXXII, Italienische Reise, III, 22 luglio 1787, H. Böhlau, Weimar 1906, p. 36 [«Eine Geschichte der Kunst von ihren Verfall bis zur Auf -lebung»] (Viaggio in Italia, prefazione di M. Fancelli, introduzione di I. A. Chiusano, trad. it. e note di E. Castellani, Garzanti, Milano 1997, p. 412). 20 [«Wie der Menschengeist während der trüben und dunkeln Zeit immer geschäftig war»]. 21 Ibid., p. 207 [«Zu Anfang des sechzehnten Jahrhunderts hatte sich der Geist der bildenden Kunst völlig aus der Barbarei des Mittelalters emporgehoben; zu freisinnigen heiteren Wirkungen war sie gelangt»]. 22 J. W. von Goethe, Tagebücher, I, p. 305, 19 ottobre 1786. 23 Goethe, Italienische Reise cit., III, pp. 67-8 [Viaggio in Italia cit., p. 434] [«Welche der stille Beobachter nur für ein Symptom halber und unfreier Talente betrachten und sich niemals damit befreunden konnte»]. 24 Goetz, Mittelalter und Renaissance cit., p. 46. 25 J. Michelet, Histoire de France, VII, Histoire de France au seizième siècle. Renaissance, Chamerot, Paris 1855, Introduction, pp. 14-5. [«Le seizième siècle,

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dans sa grande et légitime extension, va de Colomb à Copernic, de Copernic à Galilée, de la découverte de la terre à celle du ciel. L’homme s’y est retrouvé luimême. Pendant que Vésale et Servet lui ont révélé la vie, par Luther et par Calvin, par Dumoulin et Cujas, par Rabelais, Montaigne, Shakespeare, Cervantès, il est pénétré dans son mystère moral. Il a sondé les bases profondes de sa nature. Il a commencé à s’asseoir dans la Justice et la Raison»]. 26 Cit. in Goetz, Mittelalter und Renaissance cit., p. 40. 27 [J. Burckhardt, Il Cicerone, introduzione al godimento delle opere d’arte italiane, trad. it. di P. Mingazzini e F. Pfister, Sansoni, Firenze 1956]. 28 [Id., La civiltà del Rinascimento in Italia. Saggio, trad. it. di D. Valbusa, Sansoni, Firenze 1925, 2 voll.]. 29 Già dopo la seconda edizione il Burckhardt rinunziò alla revisione e rielaborazione del suo libro, affidandola a Ludwig Geiger, e non volle più né dar consigli né vedere bozze, benché si rallegrasse del successo dell’opera. A poco a poco, per l’aggiunta di excursus e per le modifiche, il libro cambiò fisionomia e crebbe di mole al punto da divenire quasi irriconoscibile. Ora esso è stato ripubblicato nella veste originale e così gli è stato impresso quel marchio di classicità che ben merita. 30 [Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., p. 125]. 31 [Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., p. 135]. 32 [Ibid., pp. 145 sgg]. 33 [Ibid., p. 161]. 34 [Ibid.]. 35 [Ibid.]. 36 [Ibid., p. 514]. 37 [In italiano nel testo]. 38 [Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia cit., pp. 125-6]. 39 É. Gebhart, Les origines de la Renaissance en Italie, Librairie Hachette et Cie, Paris 1879, p. 51 [«La renaissance en Italie n’a pas été seulement une rénovation de la littérature et des arts produite par le retour des esprits cultivés aux lettres antiques et par une éducation meilleure des artistes retrouvant à l’école de la Grèce le sens de la beauté; elle fut l’ensemble même de la civilisation italienne, l’expression juste du génie et de la vie morale de l’Italie»]. 40 Ibid., p. VII [«La renaissance italienne commence en réalité antérieurement à Pétrarque, car déjà dans les ouvrages des sculpteurs pisans et de Giotto, de même que dans l’architecture du XIIe et XIIIe siècle, les arts sont renouvelés […]. Les origines de la Renaissance sont donc très lointaines et précèdent de beaucoup l’éducation savante que les lettrés du XVe siècle répandirent autour d’eux»]. 41 É. Gebhart, La renaissance italienne et la philosophie de l’histoire, in «Revue des Deux Mondes», 1885, 72, p. 342; poi ripubblicato nella raccolta Études

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méridionales, Cerf, Paris 1887. 42 Michelet, Histoire de France au seizième siècle cit., pp. 142, 16 sgg., 69 [«Pourquoi la Renaissance arrive-t-elle trois cents ans trop tard?»]. 43 H. Thode, Franz Von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance in Italien, G. Groetsche Verlagsbuchhandlung, Berlin 1904, p. 62 [Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, a cura di L. Bellosi, trad. it. di R. Zeni, Donzelli, Roma 1993, p. 63] [«Von Giotto bis Raphael vollzieht sich eine einheitliche Entwicklung, der eine einheitliche Weltanschauung und Religionsauffassung zu Grunde liegt. Eine gothische Kunst, die bis 1400 reichte, absondern zu wollen von der mit 1400 beginnenden Renaissance, wie es in den Lehrhbüchern der Kunstgeschichte noch meist geschieht, heißt den Organismus des Ganzen verkennen»]. 44 Ibid., p. XVIII [Francesco d’Assisi e le origini dell’arte cit., p. 6] [«Das in einer subjektiven harmonischen Gefühlsauffassung der Natur und der Religion, im Großen und Ganzen noch innerhalb der Schranken des katholischen Glaubens, aber unbewußt schon über dieselben hinausstrebend, seine Rechte gegenüber der Allgemeinheit sich erobert»]. 45 Ibid., p. XIX [Francesco d’Assisi e le origini dell’arte cit., p. 7] [«Die innerste Triebkraft, die solche Wunder zu Wege bringt, ist das erwachende starke individuelle Gefühl»]. 46 C. Neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, in «Historische Zeitschrift», XCI, 1904, p. 215. 47 [«Bello spirito», bel esprit]. 48 Neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur cit. [«Jetzt nahm man bewußt in Leben und Moral die antiken Beispiele zum Muster, jetzt entseelte man die Kunst im Drang nach den großen monumentalen Airs, den vornehmen Gesten der Antike und veräusserlichte sie im Sinne formaler Virtuosität»]. 49 E. Troeltsch, Die Bedeutung des Protestantismus für die Entstehung der modernen Welt, in «Historische Zeitschrift», XCVII, 1906; accolto più tardi nella «Historische Bibliothek», come vol. XXIV, 1911. 50 Ibid. [«Unter diesen Umständen liegt es auf der Hand, dass der Protestantismus nicht unmittelbar die Anbahnung der modernen Welt bedeuten kann. Im Gegenteil, er erscheint zunächst als Erneuerung und Verstärkung des Ideals der kirchlichen Zwangskultur, als volle Reaktion mittelalterlichen Denkens, die die bereits errungenen Ansätze einer freien und weltlichen Kultur wieder verschlingt»]. 51 [«Ostile alla civiltà»]. 52 Così Troeltsch in una conversazione che ho avuto con lui nell’aprile del 1919. 53 [Si veda infra, p. 68, nota 34]. 54 Anche Troeltsch l’ha ammesso di sfuggita; si veda Id., Die Bedutung des

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Protestantismus cit., p. 7 e Id., Renaissance und Reformation cit., p. 534. 55 J. Burckhardt, Weltgeschichtliche Betrachtungen, a cura di J. Oeri, W. Spemann, Berlin-Stuttgart 1905, p. 158 [Meditazioni sulla storia universale, a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1959, p. 164]. 56 Inferno X; Paradiso X. 57 E. Walser, Christentum und Antike in der Auffassung der italienischen Früh renaissance, in «Archiv für Kulturgeschichte», IX, 1914, p. 273. 58 Sal, 103: 1, 4, 5; 104: 30; 51: 12 (Vulg. 102, 103, 50); Ez, 11: 19; 36: 25; Is, 43: 19. 59 Gv, 3: 3; Mt, 19: 28; Ap, 21: 1; Rm, 6: 4; Ef, 4: 22; Col, 3: 10; 1 Pt, 1: 23; 2 Cor, 4: 16; Rm, 12: 2 ecc. 60 Purgatorio, XVI, v. 106. 61 P. Wernle, Die Renaissance des Christentums im 16. Jahrhundert, Mohr, Tübingen 1914, pp. 1, 38. 62 Erasmus, Opera omnia, a cura di J. Clericus, III, col. 167; Id., Opus epistolarum cit., n. 566, p. 527. 63 Penso fra l’altro agli studi di Alfons Dopsch sullo sviluppo economico dell’età carolingia e di Henri Pirenne sulle prime forme di capitalismo. 64 Alcune di queste linee sono accennate negli studi sopra citati di Troeltsch.

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Rinascimento e realismo*

Se la formula del Burckhardt fosse sufficiente a farci intendere pienamente il Rinascimento, la questione dei rapporti fra i concetti di Rinascimento e di realismo sarebbe già risolta. E molti ritengono che lo sia. Se per realismo s’intende esigenza e capacità di rendere in parole o in immagini la realtà naturale, con la massima fedeltà possibile, e se Rinascimento significa scoperta del mondo e dell’uomo, nascita di una visione e di una concezione individuale, diretta, della realtà, ne consegue in apparenza che realismo e Rinascimento altro non sono che due fenomeni affini e paralleli. L’uomo acquista coscienza del suo rapporto naturale col mondo che lo circonda, e con ciò acquista la capacità di esprimere quel rapporto in modo chiaro e preciso. Il realismo, nel senso di fedeltà alla natura, di rappresentazione perfetta dei rapporti naturali, diviene un attributo e una caratteristica integrante del Rinascimento. Il Burckhardt appartiene da un pezzo al novero di quei maestri che si librano al di sopra della ragione o del torto; nessuno si chiede più quali siano le loro opinioni, ma quale sia il loro spirito. Oggi la storia della civiltà, sotto parecchi rispetti, deve cercare di distaccarsi dal Burckhardt, senza che con ciò s’intacchi minimamente la sua grandezza o si sminuiscano i suoi meriti, per i quali gli dobbiamo eterna 135

gratitudine. Già da tempo il concetto di Rinascimento non ci appare più così semplice come apparve dopo che il Burckhardt ebbe affrontato e risolto a suo modo il problema. Ha cominciato a sgretolarsi da tutte le parti. Ogni tentativo di definirlo urta contro la sua illimitatezza e relativa arbitrarietà. La cosa migliore, e più prudente, è usarlo nel senso convenzionale per indicare quella fioritura della civiltà europea che culmina poco dopo il 1500, che inizia e ha il suo centro in Italia, e s’irradia e si riflette in Francia, in Spagna, nei paesi germanici e in Inghilterra. Determinare il tipo e la natura di questa fioritura non è strettamente necessario per cogliere e dominare con lo sguardo il fenomeno in tutta la sua variopinta armonia. Il realismo pareva così inscindibile dall’individualismo, e a sua volta l’individualismo pareva caratteristica così fondamentale del Rinascimento, che ogni qualvolta si riscontrava nel medioevo una formulazione realistica ci si riteneva in dovere di vedervi un preannunzio del Rinascimento. Lo stesso Burckhardt aveva parlato in questo spirito della poesia dei clerici vagantes del XII secolo. Courajod impresse il marchio di «rinascimentale» all’arte di Sluter e dei van Eyck, trovando ascolto fino ai nostri giorni. Ma in questo modo il concetto di realismo si è semplicemente sostituito a quello di Rinascimento, e nessuno si è curato di chiedersi se i fenomeni a cui è stata apposta questa etichetta abbiano veramente la tonalità del Rinascimento, nel senso originario del termine. Da qualunque punto di vista si guardi, il Rinascimento resta un’idea storica sotto la quale si può registrare tutto ciò che si vuole. Il concetto di realismo, nell’accezione estetica 136

moderna in cui noi qui l’usiamo, può essere invece analizzato e descritto molto più oggettivamente, il che permetterà di definire i suoi rapporti col Rinascimento. Quale sia il significato corrente del termine realismo, risulta nel modo più chiaro da alcuni casi in cui è applicato e da alcune antitesi in cui viene adoperato. Realistici noi chiamiamo il giudice di villaggio egizio, la pittura olandese del Seicento, il romanzo di Flaubert. Realismo è usato come opposto di idealismo1, di romanticismo, di stilizzazione. Nella maggior parte dei casi sembra permutabile con «naturalismo», benché l’uso linguistico faccia distinzioni specifiche. Imitare una realtà esterna o interiore: questa sembra l’aspirazione che conduce a una rappresentazione realistica. Tuttavia, se si esamina la comparsa delle forme realistiche nella storia della civiltà, ci si accorge ben presto che il realismo non è affatto un atteggiamento spirituale universale e unitario che domina intere epoche alternandosi ai propri opposti. Anzi, risulta che esso è un prodotto della cultura più o meno secondario, che sboccia ora qua ora là, spesso all’improvviso, per poi riscomparire altrettanto improvvisamente. La rappresentazione realistica nella letteratura non procede affatto di pari passo con quella delle arti figurative, e altrettanto si deve dire per le arti figurative fra di loro. Un’epoca può produrre opere d’arte realistiche senza che il realismo sia un segno caratteristico del suo spirito. Un’epoca e uno stile possono esaltare come principio formale il più estremo idealismo e, accanto a opere figurative che traducono in pratica quel principio, produrne altre ispirate al più puro naturalismo. La civiltà egizia è sempre stata estremamente «realista», se si prende il termine 137

nel senso scolastico, vale a dire: rivolta all’universale, all’idea, al simbolo. Lo attesta anche la sua arte. Essa non rappresenta personalità, non rappresenta avvenimenti, ma tipi o idee2. E tuttavia questa medesima arte produce anche quegli infiniti esempi di nobile naturalismo di cui lo spettatore medio gode nel modo più vivo, sentendoli in tutto e per tutto «egizi». Un’opera d’arte realistica non ci dice nulla riguardo allo spirito che l’ha prodotta. L’artista ha reso l’apparenza naturale delle cose particolari perché gli è stato concesso di rappresentare così, perché non ha saputo fare altrimenti, perché ha padroneggiato quell’apparenza. Il realismo nell’arte non può neppure essere spiegato come un punto d’arrivo tecnico, la fase finale di un lungo esercizio, giacché lo troviamo all’inizio di tutta la storia dell’arte, nelle caverne del paleolitico. A confonderci ancora di più le idee, si aggiunge infine il fatto che al colmo della sua perfezione il realismo si tramuta inevitabilmente nel suo contrario: il concetto di realismo non è più applicabile alle sculture del duomo di Bamberga. Se si segue per un certo tratto la rappresentazione realistica nella letteratura, ecco venire alla luce in quel concetto un’altra frattura. Siamo partiti dal realismo come concetto estetico. Nella letteratura esso rivela anche un lato etico. Lo sforzo di rappresentare una data materia attenendosi fedelmente alla natura può scaturire da un irresistibile gusto di riprodurre, di imitare un frammento della realtà, o in forma plastica, o a colori, o con linee, o con parole o con note. Ma può anche dipendere dal bisogno di vedere e rendere la vita, gli uomini, il mondo, così come sono realmente e non migliori, spogliandoli di ogni rivestimento ideale o convenzionale, senza illusioni. In 138

quest’ultimo caso il realismo ha dunque anche un contenuto fortemente etico, o meglio pragmatico. Questo realismo etico è un fenomeno proprio della letteratura. Quando le arti figurative lo professano, per esempio nella rappresentazione dei cadaveri nel tardo medioevo, oppure in Hogarth o in Steinlen, ciò avviene, a quanto sembra, per un intento letterario. Di regola, almeno, le arti figurative non moraleggiano, quando sono realistiche. Esempi di questo realismo etico si trovano fra l’altro nella letteratura ascetica tanto dell’antica India quanto del Cristianesimo. Le descrizioni della superficialità della bellezza fisica, miranti a destare ripugnanza e disgusto (tema dei tanti trattati De contemptu mundi), si rifanno spesso, quasi alla lettera, a Giovanni Crisostomo. Strettamente imparentata, per fini e per mezzi, alla predica di penitenza e al trattato ascetico è la satira. Anche il suo realismo è di tipo etico. E uno stretto legame c’è anche fra satira e racconto popolare, ma in quest’ultimo l’impronta etica è divenuta negativa: il racconto popolare non esorta alla virtù, non deplora il vizio, ma narra burle ben riuscite. Il realismo dei Fabliaux francesi del Duecento sarà ancora da chiamarsi pragmatico, ma non più etico. A meno che non lo si voglia intendere come un cosciente rinnegamento dell’ideale della vita cortese di quel tempo. Fu davvero un «no» beffardo, gridato all’artificioso ed esaltato atteggiamento spirituale della courtoisie? Un tentativo di strappare la maschera a tutta la superiorità intellettuale e civile, di sbugiardare il sogno di una perfezione terrena, e di vilipendere di passaggio preti e monaci? In tale caso avremmo qui il realismo come protesta, come espressione di una decisa reazione alla convenzione, anzi addirittura allo stile di 139

quell’epoca stessa. A me sembra però un po’ eccessivo veder tutto questo nei Fabliaux. È ovvio che anche quando l’intento è di tipo etico, l’effetto realistico continua a dipendere dai mezzi estetici. La satira, il sermone morale e il racconto popolare saprebbero di poco, se il loro realismo non fosse che una tendenza. Dobbiamo ora esaminare attentamente il realismo come fattore puramente estetico. L’effetto è sempre quello della verità, della fedeltà alla natura, ma può essere di vario tipo e può essere ottenuto in vario modo. Può consistere in un’unica forte impressione, provocata da un unico forte particolare del quadro, oppure nell’illusione di una riproduzione completa e precisa di una chiara realtà. L’artista può essersi proposto questo effetto, può avere adottato il realismo consapevolmente, come mezzo artistico; oppure questo scaturisce dalla sua capacità raffigurativa senza volere, e magari inconsapevolmente. I mezzi per suscitare un’impressione di realtà possono essere la rappresentazione esauriente o l’accentuazione suggestiva di qualche aspetto pregnante dell’oggetto. La prima è sempre consapevole e intenzionale, la seconda può essere spontanea o premeditata. È indifferente che la realtà raffigurata trovi o non trovi una corrispondenza nel mondo in cui vive l’artista o lo spettatore, e ugualmente non importa che l’avvenimento si sia svolto proprio a quel modo. Flaubert non è meno realistico in Salammbô che in Madame Bovary. Fra il realismo che imita e quello che si fonda sulla suggestione non esiste un contrasto assoluto: in fondo, anche il primo può sempre procedere per semplice selezione. Ma per selezione procede già il nostro spirito 140

nell’interpretare le nostre percezioni sensitive: ogni immagine spirituale di qualcosa si fonda sulla selezione. Se si volessero distinguere queste due forme di rappresentazione realistica dando ad esse nomi diversi, si potrebbe parlare di un realismo analitico, descrittivo o illustrativo, contrapposto a un realismo enfatico o evocativo. Gli attributi che meglio esprimono la diversità, sono, a mio avviso, illustrativo ed enfatico. Si capisce subito che il primo si riferisce più che altro alla rappresentazione figurativa, e il secondo a quella verbale. A ben considerare, si deve riconoscere che il realismo enfatico è antico quanto la lingua stessa e le arti figurative. Ogni discorso, ogni riproduzione, serve a esprimere una situazione pensata come reale, e si avvale dei mezzi della scelta suggestiva. Quel tanto di realismo enfatico che si può indicare nella storia dell’arte e della letteratura altro non è che il punto più alto di un certo numero di grafici. La grande affinità degli effetti realistici raggiunti in tempi e paesi molto lontani fra loro, sia nel campo delle arti figurative, sia in quello della letteratura, è significativa ed è perfettamente spiegabile. Nell’antica saga islandese e nell’antica tradizione araba ci troviamo di fronte al tentativo di imprimere con precisione nella memoria determinati avvenimenti che si hanno ancora chiaramente dinanzi agli occhi e a cui si annette grande importanza. La grande affinità fra le forme espressive è qui dovuta non al carattere popolare o al livello di civiltà, ma all’affinità dell’intento spirituale. Gli abitanti di Medina, sotto la guida di Maometto, scavarono in fretta un fossato per difendersi dall’attacco dei Coreisciti. Racconta un cronista3: 141

Vidi i Musulmani scavare; la fossa era larga una pertica. I giovani portavano la terra in ceste poggiate sul capo, rovesciandola e ammucchiandola vicino al punto in cui stava Maometto; fatto questo, riempirono i canestri di pietre e ammonticchiarono anche queste lì sopra; le pietre erano l’arma principale per difendersi dai nemici […]. Anche Maometto trasportava terra; mentre lavoravano, gli uomini inventavano versi burleschi, e se qualcuno s’impigliava, lo deridevano.

Un altro cronista: Vidi il Profeta coperto di polvere a furia di scavare, ricevette una porzione di farinata d’orzo condita con burro rancido, e la mangiò dicendo: O Dio, il vero pane è quello della vita nell’aldilà […]. Noi Banu Salama improvvisammo dei versi mentre scavavamo; ma Maometto, che di solito non aveva nulla in contrario quando non c’era malignità, lo proibì a me e ad Hassan, perché noi due facevamo troppo i prepotenti con gli altri […]. Nessun uomo splendidamente vestito di porpora mi è mai parso più bello di quanto mi parve allora il Profeta seminudo. Era particolarmente bianco; la folta chioma gli scendeva sulle spalle; lo vidi portar terra sul dorso, finché la polvere m’impedì la vista […]. Vidi Maometto scavare, e la polvere posarsi sul suo dorso e sulle pieghe del suo ventre.

Riportiamo ora un passo della saga di Egill Skallagrimsson4. Egill ha vinto una battaglia per il re inglese Aethelstán, ma suo fratello Thórólfr è rimasto ucciso. A corte viene ordinato a Egill di prender posto sul seggio d’onore, di fronte al re. Egill si sedette e depose lo scudo ai propri piedi, aveva un elmo sul capo e si posò la spada sulle ginocchia; e di tanto in tanto la estraeva a metà dal fodero e poi la ringuainava; sedeva diritto ed era molto slanciato. Egill aveva una faccia larga, una fronte ampia, enormi sopracciglia; aveva un naso non lungo, e molto grosso, guance ampie e lunghe, il mento molto largo, e così pure le mascelle; aveva collo grosso e spalle robuste, sicché si distingueva nettamente dagli altri; aveva un aspetto aspro e truce, come se fosse adirato. Era ben fatto, e più alto di chiunque altro; i suoi capelli erano grigi come pelo di lupo e folti: ma divenne calvo presto. E sedendo lì a quel modo, le palpebre inferiori gli pendevano fin sulle guance, e quelle superiori erano tirate su fino ai capelli [qui l’accentuazione diviene esagerazione]. Egill aveva occhi neri e sopracciglia brune. Non voleva bere, benché gliene portassero, e di tanto in tanto abbassava le sopracciglia e poi le risollevava. Re Aethelstán stava assiso sul suo trono; anche lui si pose la spada sulle ginocchia. E quando furono rimasti così seduti per un certo tempo, il re estrasse la spada dal fodero, si tolse dal braccio un

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bracciale d’oro, grande e bellissimo, lo poggiò sulla punta della spada, discese dal trono e al di sopra del fuoco lo porse a Egill. Egill si alzò e sguainò la spada e fece un passo avanti; infilò la spada nel bracciale, lo trasse a sé e tornò al suo seggio. Il re risalì sul trono. Ed Egill, sedutosi, si mise il bracciale al braccio, e allora le sue palpebre ripresero la loro consueta posizione; egli depose allora la spada e l’elmo, prese il corno che gli veniva offerto e bevve.

Quest’ultimo esempio è importante e interessante soprattutto perché dimostra come non sia affatto necessario che il realismo letterario (che qui vediamo già passare dall’enfatico all’illustrativo) sia il prodotto di un’evoluzione e dell’esercizio delle belle lettere. E una cosa risalta con grande chiarezza: la letteratura medievale dell’Europa occidentale, fin verso il 1200, non produce nulla che per vigoria di realismo possa reggere il confronto con i due passi che abbiamo citato. La causa è da ricercarsi non in una mancanza di disposizione al realismo presso i popoli germanici e neolatini, ma nel fatto che qui l’antica tradizione retorica dominava completamente la letteratura, tanto quella di argomento religioso, quanto quella di argomento profano. Per una prosa figurativa di quel genere non c’era posto, non c’era la necessaria spregiudicatezza letteraria. Se si ha qualche descrizione realistica, questa è esclusivamente imitazione di modelli antichi: e di regola ha sempre qualcosa di scolastico e di limitato, non assurge mai a quella immediatezza e incisività che si notano nell’hadith e nella saga. L’osservazione e la rappresentazione realistica può riguardare la figura umana, i movimenti, le forme e i colori, i discorsi pronunziati, e infine l’ambiente nel suo complesso. Man mano che la civiltà medievale si dispiega, scorgiamo questo realismo spuntare qua e là, non come mezzo artistico consapevole, ma semplicemente a momenti; più nel modo di rendere le conversazioni o il comportamento, che in quello 143

di rendere l’aspetto esteriore o magari l’ambiente. E c’è sempre la possibilità che si tratti di un’imitazione da Svetonio o da qualche altro classico. Sarebbe tuttavia assolutamente errato voler vedere l’approssimarsi del Rinascimento in ogni tratto realistico. Il modello antico continuò per lungo tempo a ostacolare, più che favorire, la rappresentazione veramente realistica. E ad essa non fu propizio neppure il sistema del Minnesang; i motivi naturalistici all’inizio di una poesia significano ben poco, a questo riguardo. Il romanzo dette un impulso un po’ maggiore alla rappresentazione realistica, ma senza lasciarle prendere il sopravvento. Poi, improvvisamente, Dante presenta il realismo enfatico con un’urgenza così travolgente, in modo così vivo, così allucinante, che proprio la sua opera ci fornisce l’unità di misura per valutare il nostro concetto di realismo letterario. Tutto egli esprime e fa risaltare con la sua parola divina: le figure e il comportamento, i movimenti, i discorsi e il paesaggio. Come avviene con tutti i grandissimi, si direbbe che Dante, più che convalidare, infirmi i nostri ragionamenti. Ma egli può essere addotto come viva testimonianza del fatto che la rappresentazione realistica in quanto tale non ha nulla a che fare col Rinascimento nel senso usuale del termine. Sotto molti rispetti si può, volendo, scorgere in Dante un sicuro rapporto col Rinascimento: ma non nell’eccezionale acutezza del suo sguardo che nessuno ha mai eguagliato, e nella categorica incisività della sua parola. Nella scultura il termine realismo non serve molto. Si direbbe che qui il realismo più alto e l’idealità perfetta si escludano a vicenda, ogni qualvolta l’arte raggiunge una 144

vetta. Fra la stilizzazione e il naturalismo pittorico delle età arcaiche non c’è posto per la denominazione «realismo»; o meglio, essa può essere adoperata, ma non coglie l’essenziale5. C’è una perfezione che collega la scultura del duomo di Bamberga a Donatello, e questi a Sluter, ma quella perfezione è riposta in qualcosa di diverso dalla fedele rappresentazione della realtà naturale. Si possono constatare effetti realistici e dire, per esempio, che le figure di Naumburg sono più realistiche di quelle di Bamberga, ma la distinzione non ha molto senso. Nel realismo scultoreo l’accento cade sul suffisso -ismo; esso è un fenomeno di esagerazione e di deformazione. Ma non è affatto detto che compaia sempre alla fine di un’epoca. Subito dopo Niccolò Pisano, e prima della nitida armonia di Andrea, viene Giovanni con il suo smodato movimento, la sua composizione confusa e la sua smorfia. Il Ghiberti si perde già nelle sue vedute in bassorilievo, mentre la scultura del Quattrocento appena allora raggiunge la piena fioritura. Invece nella pittura il termine «realismo enfatico» si attaglia perfettamente a Giotto. E qui sembra che il rapporto fra realismo e Rinascimento si riveli finalmente con estrema decisione. Giotto: l’uomo del gesto sommamente espressivo, l’uomo che, come dice il Burckhardt, «ha colto in ogni dato di fatto il lato più significativo»6. Giotto è sempre stato definito il patriarca del successivo realismo, e proprio per quel realismo fu esaltato già dal Boccaccio come rinnovatore dell’arte. Con Giotto, dichiarò il Boccaccio, l’arte aveva ritrovato la via che conduceva alla natura e alla verità; e quel giudizio fu accolto da tutti. Anche Leonardo da Vinci, Erasmo, il Vasari fanno iniziare da Giotto la rinascita dell’arte7. Non sembra possibile separare Giotto e 145

il suo realismo dal sorgere del Rinascimento. Il presunto nesso fra Rinascimento e realismo troverebbe qui la sua conferma. Non dimentichiamo tuttavia questo fatto: che in realtà tutta la nostra concezione del Rinascimento è costruita sulle basi gettate dal Boccaccio e dal Vasari. Il suo presupposto più o meno assiomatico è tuttora, almeno nel Burckhardt, l’accettazione del giudizio espresso dal Boccaccio. Quello che noi attualmente sappiamo e scopriamo sull’evoluzione civile e culturale del tardo medioevo, corrisponde ancora davvero al postulato secondo cui Giotto, nella sua qualità di realista, fu il fondatore del Rinascimento? Il presente saggio non ha affatto la pretesa di risolvere l’intera questione. Esso si propone soltanto di esaminare se è proprio vero che il realismo, ossia una forma, è indissolubilmente legato al Rinascimento, che ha un significato spirituale. Qualora lo fosse, ogni manifestazione di realismo rilevata nell’arte e nella letteratura del tardo medioevo ci autorizzerebbe a definire rappresentante del Rinascimento lo spirito che l’ha prodotta. E proprio questa era la logica conclusione a cui conduceva la concezione del Rinascimento quale era stata finora. Così si era arrivati al punto di considerare Rinascimento l’arte dei van Eyck. Ma se si faceva questo, allora si doveva fare altrettanto con l’arte letteraria di Froissart e di Chastellain, contemporanei e compagni di spirito di Broederlam e di Jan van Eyck, e non meno realisti. Qui la rappresentazione letteraria ci offre un criterio più utile di quello che possono fornirci le arti figurative: ci permette infatti di apprezzare, assieme alla forma, anche lo spirito. I van Eyck sono realisti completi, come artisti che danno una forma, sì; ma del loro spirito non 146

sappiamo quasi nulla. Tutto quello che la moderna storia estetizzante dell’arte deduce in proposito dalle loro opere, non è altro che fantasia e parafrasi. Anche Froissart è realista, cerca la fedeltà alla natura, più che altro nel dialogo vivo, nell’osservazione semplice e diretta, nell’atmosfera di comuni contatti umani in cui situa le sue figure. Ma chi si sognerà mai di attribuire Froissart, per il suo spirito, al Rinascimento, senza accorgersi che ciò facendo distruggerebbe definitivamente il concetto di Rinascimento? Chastellain, il tronfio storiografo di corte dei Borgognoni, è un maestro nel conseguire effetti realistici impressionanti: un gesto, un gioco di luci, una situazione atmosferica, un bisticcio fra uomini, un paesaggio. Altrove ne ho dato vari esempi8. Il suo ritratto di Filippo il Buono, troppo lungo perché si possa citarlo qui9, è un modello di descrizione vigorosa, felice e sobria di una persona: una descrizione in cui lo stile vibra come una penna metallica, quasi per rendere ancora più suggestiva la ferrea figura del descritto. Ora, Chastellain si sforza sempre di essere, a suo modo, moderno, cioè classicheggiante, retorico, «magniloquente». In lui si possono distinguere per così dire due forme stilistiche: lo stile solenne, pesante, che gli ha procurato – immeritatamente – una certa considerazione nella storia della letteratura francese, e il succulento realismo fiammingo (anche se espresso in lingua francese). Senza dubbio è per il primo che egli si collega al Rinascimento. Egli cerca di trovare la nuova forma, ma ancora non sente per nulla il nuovo spirito. Il suo spirito è medievale, ed è da tale spirito medievale che scaturisce il suo realismo. Questo spunta in lui non come un frutto o un fiore del Rinascimento, ma piuttosto malgrado il Rinascimento. Se c’è un artista che 147

può servire a dimostrare che fra Rinascimento e realismo non c’è correlazione, questo è appunto Chastellain. Il realismo estetico, indipendente dal Rinascimento, si manifesta più volte nel corso del medioevo. Dove si ha coscienza di esso, lo si sente come qualcosa di nuovo, come una conquista dell’abilità artistica e delle capacità espressive. In un certo senso, era stata la scolastica a raccomandare allo spirito medievale la professione di un’arte realistica. Lo stesso Aristotele aveva detto: ἡ τέχνη μιμε ται τήν φύσιν, Ars imitatur Naturam in quantum potest. Non si pensi però che questa autorevole massima sia un elogio del realismo estetico. Sarebbe un’interpretazione troppo semplicistica. Innanzitutto, τέχνη-ars non è affatto l’arte nel senso moderno, ma ha un significato molto più vasto e più profondo (che non si era ancora perduto nel Settecento) e sta a indicare tutto ciò che l’uomo forma o fa. E inoltre, μιμεîται-imitatur non significa semplicemente «imita, ricopia», ma «segue, fa come». Così inteso, quel principio d’imitazione conduceva, attraverso la Natura, a Dio. Dante fa dire a Virgilio10: Filosofia, – mi disse – a chi la ’ntende, nota, non pure in una sola parte, come Natura lo suo corso prende da divino intelletto e da sua arte; e se tu ben la tua Fisica note, tu troverai, non dopo molte carte, che l’arte vostra quella, quanto puote, segue, come ’l maestro fa il discente; sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.

Dunque la dottrina dell’Ars imitatur Naturam era assai di più che una lode del realismo artistico; e tuttavia, in ultima analisi, includeva anche tale lode. Tanto per l’artista pratico 148

quanto per l’ingenuo spettatore, la parola era un mezzo quanto mai idoneo per soddisfare il naturale istinto alla rappresentazione, istinto che dev’essere profondamente radicato nelle umane disposizioni. Dice san Tommaso: «repraesentatio enim naturaliter homini delectabilis est»11; e se si riporta la «rappresentazione» sotto il concetto di «impersonare», nel senso grave e pieno che questo aveva per il pensiero medievale, anche il realismo estetico acquista una connotazione molto più profonda. Perciò è perfettamente comprensibile che per lungo tempo la nascente critica dell’arte non abbia saputo riconoscere altra eccellenza, nelle opere d’arte, che quella costituita da una riuscita imitazione della natura. Del resto, questo modo di valutare è attestato già dagli aneddoti che l’antichità ci ha tramandato sulla bravura di Zeusi, i cui dipinti parevano veri e traevano in inganno gli spettatori. Lo stesso Dante professa ancora quest’ideale artistico, laddove descrive i rilievi marmorei sulle coste e sul pavimento della montagna del Purgatorio12. Il Boccaccio dice di Giotto: Ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice, col continuo girar de’ cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto13.

La stessa ammirazione esprime il Villani14. Un secolo più tardi il genovese Bartolomeo Facio esalta con espressioni entusiastiche l’arte dei van Eyck – non senza un certo ingenuo stupore – per la loro completa fedeltà alla natura: capelli che superano i capelli veri, il raggio di sole che filtra attraverso una fessura, un’immagine riflessa, le gocce di sudore su un corpo, il paesaggio lavorato con precisione

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sullo sfondo. Passa un altro secolo, e il Castiglione tratta nel Cortegiano15 il problema se la preminenza, fra le arti figurative, spetti alla pittura o alla «statuaria». La controversia nel Castiglione è completamente imperniata sul fatto, accettato come principio fondamentale da tutti i suoi personaggi, che l’arte è «imitazion di natura». Uno degli interlocutori afferma che la palma spetta alla scultura, perché questa con le sue tre dimensioni si avvicina di più alla realtà. Più oltre, tuttavia, si conviene che la pittura può esprimere la natura in modo molto più completo, poiché essa non soltanto può rendere le forme, ma anche i colori, «i lumi e l’ombre», la distanza ecc. In questa ingenua teoria del realismo il Castiglione pensa soprattutto all’arte di Raffaello e di Michelangelo. Non si può davvero dire che a questo modo egli esprima quello che noi, in quell’arte, consideriamo elemento rinascimentale. È noto che la teoria e l’esigenza dell’imitazione della natura sono professate con zelo particolare proprio in quell’arte a cui più estraneo è il principio della raffigurazione, cioè nella musica. Nella storia della musica i concetti di arte e di virtuosismo sono legati più intimamente che altrove. Dal Trecento fino al Cinquecento inoltrato si amano le forme musicali che vogliono imitare i suoni della natura: lo strepito di una partita di caccia, il brusìo del mercato, il tumulto della battaglia. Non si vede che cos’abbia a che fare con lo spirito del Rinascimento questa tendenza al naturalismo musicale. Una cosa del tutto diversa è quando Tommaso Moro loda con queste parole la musica ecclesiastica di Utopia: Ma in una cosa sono senza dubbio molto più avanti di noi, e cioè nel fatto

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che tutta la loro musica, sia quella ch’è sonata con l’organo, sia quella ch’è modulata con la voce umana, a tal punto segue [= imita] ed esprime le passioni naturali, a tal punto adatta il suono alla circostanza, sia che si tratti di un’implorazione sia che si tratti di un discorso lieto, sereno, sconvolto, triste, adirato, a tal punto con la forma della melodia rappresenta un senso della situazione, che in modo mirabile colpisce, penetra, accende l’animo degli ascoltatori16.

Anche qui un realismo come ideale, ma con un intento del tutto diverso dall’ingenuo desiderio d’imitar così bene da trarre in inganno: un realismo che interessa il senso delle cose, e che potrebbe far da ponte fra il concetto scolastico di realismo e quello estetico moderno. Dietro le belle e semplici parole di Moro si possono udire, volendo, Mozart e Beethoven, tutta la musica dell’eterna Utopia, che è il vero regno delle note. Ben presto vedremo come un altro grande concordi stranamente con Moro nel modo di concepire il vero realismo. Un fatto sembra ora sicuro: realismo e Rinascimento procedono, fino a un certo punto di pari passo. A partire dal 1400 circa, artisti e pensatori acquistano sempre più coscienza del problema e del fine costituito dal realismo nell’arte. Paolo Uccello combatte con la prospettiva. Masaccio trova un modo di esprimere la verità naturale che supera e sopraffà la maniera giottesca. La pittura olandese raggiunge, nella rappresentazione materiale realistica, un’altezza mai eguagliata né prima né dopo. Nella letteratura il realismo rimane molto di più in secondo piano, e riguarda sempre più le cose che la forma. È ostacolato dal fatto che il nuovo classicismo rafforza, sì, la tendenza all’osservazione diretta, ma d’altro lato – e in misura molto maggiore – porta in primo piano l’elemento retorico della parola. In fondo, la lingua di Joinville o di Villani è più 151

realistica di quella del Machiavelli, per quanto realistico possa essere il pensiero di quest’ultimo. In breve, per il momento l’unica conclusione legittima sembra questa: le varie manifestazioni di realismo letterario e figurativo che si hanno qua e là a partire dal Duecento sono fenomeni simultanei che non risultano legati fra di loro né riducibili a un principio comune, che dovrebbe essere il Rinascimento. C’è uno sviluppo generale e graduale della tendenza istintiva e della capacità a rappresentare realisticamente. Tuttavia, se è vero che un fenomeno spirituale è contraddistinto soprattutto dal suo apice, viene spontaneo giudicare i rapporti fra realismo e Rinascimento. Lo sforzo di rendere direttamente le cose naturali, nella loro veste individuale, raggiunge il suo culmine prima di quel movimento spirituale e intellettuale che noi chiamiamo Rinascimento. Nessuno l’ha messo in rilievo meglio e con più chiarezza di Heinrich Wölfflin. Il secolo naturalistico è il Quattrocento, il Cinquecento non lo è già più. L’arte del Quattrocento italiano e quella dei fiamminghi sono collegate dalla minuta osservazione, dalla rappresentazione ampia e particolareggiata, dalla scrupolosa resa del dettaglio. Con tutto ciò, esse sono ingenue, giovanilmente arcaiche. Il Cinquecento, in cui culmina lo spirito del Rinascimento, sopraffà il realismo, e lo deve sopraffare per raggiungere ciò che più gli è proprio: la forma nobile, lo stile grande, l’atteggiamento epico-drammatico, l’armonia perfetta. In Michelangelo questa svolta e questo rivolgimento si erano compiuti con appassionata consapevolezza. Si dice che egli considerasse una mortificazione dell’arte riprodurre qualcosa di terreno nella sua limitatezza particolare, a meno che non si trattasse della più sublime bellezza. Il titanico 152

culto della natura di Leonardo generò il bizzarro naturalismo della sua pittura, ma questo naturalismo non fu altro che un germoglio – fra tanti – di uno spirito che nel suo complesso era molto al di sopra di un meticoloso realismo. Il suo realismo, dice Séailles, è in realtà il più sorprendente atto di fede nello spirito. Il realismo, se proprio si vuole, fu per il Rinascimento una preparazione, una fase di passaggio, non un risultato finale o una meta. Questo passaggio è impersonato dal Dürer, nella sua arte e in ciò che egli dice sul suo ideale artistico. Stando a quanto racconta Melantone17, il Dürer, verso la fine della sua vita, gli avrebbe descritto nel modo seguente la propria evoluzione di artista. In gioventù aveva fatto volentieri quadri multicolori e ricchi di forme, e dipinto figure deformi e bizzarre; in un’età più matura, però, aveva cominciato a osservare la natura e a imitarne il volto originario con la massima fedeltà possibile, e aveva capito come questa semplicità fosse il più sublime ornamento dell’arte, ma anche quanto fosse difficile non distaccarsi dalla natura. A prima vista, questa non sembra altro che un’indubitabile professione di naturalismo integrale, che del resto trova conferma in più d’un luogo degli scritti del Dürer. Ma la vita della Natura lascia intravedere la verità di queste cose. Guardala perciò con diligenza, rivolgiti ad essa e non ti staccare dalla Natura presumendo d’inventare meglio da te; poiché t’inganneresti. Ché veramente l’arte si cela nella Natura; chi riesce a cavarnela fuori, la possiede […]. Perciò non pensare mai più di potere o di voler fare un po’ meglio di quel che Dio ha dato alla Natura da lui creata il potere di fare. Ché la tua capacità è impotente rispetto a ciò che Dio ha creato18.

E altrove: «Se una cosa è contraria alla natura, è cattiva»19. 153

È quasi superfluo ricordare che effettivamente il Dürer, nella sua opera, si rivela di continuo uno dei più completi naturalisti che mai ci siano stati nella storia dell’arte. Ciò vale soprattutto per i suoi disegni; si pensi alle zolle erbose, al mazzolino di viole, all’ala della ghiandaia marina morta, alla lepre. Si pensi al modo in cui il Dürer rende un paesaggio o la veduta di una città, senza alcuna stilizzazione, senza alcun aggiustamento o riduzione: dopo di lui soltanto i francesi moderni hanno ripreso a dipingere così. Eppure, tutto ciò riguarda schizzi, esperimenti, e non la più alta e cosciente aspirazione artistica del Dürer. Se ci si chiede se anche le opere maggiori del Dürer confermano l’interpretazione che della propria evoluzione artistica egli fornì a Melantone, ecco che sorge un dubbio. Se veramente si fosse trattato di un volgere le spalle al fantastico e al bizzarro per rivolgersi alla semplice imitazione della natura, le sue opere più tarde dovrebbero presentare il massimo grado di naturalismo diretto, e in quelle precedenti si dovrebbe riscontrare un certo difetto di osservazione minuziosa della natura. Ma se si confronta la sua ultima opera, Gli Apostoli e gli Evangelisti, con una del periodo giovanile, per esempio col ritratto di suo padre, risulta piuttosto il contrario. Nell’opera giovanile si vede il realismo scrupoloso, la cura nel rendere tutti i particolari, come del resto egli stesso raccomandava: «Senza tralasciare le minime rughe e i minimi puntolini»20. Invece gli Apostoli rivelano un realismo al tempo stesso limitato, approfondito e nobilitato. Improvvisamente avvertiamo che, mentre nel caso del ritratto del padre il realismo sembrava equivalente al naturalismo, nel caso degli Apostoli ed Evangelisti il termine «realismo» forse calza ancora, ma non più il termine 154

«naturalismo». Il Dürer ha dunque errato nel valutare la propria evoluzione artistica, oppure Melantone ha frainteso e reso in modo inesatto le sue parole? Ma forse no. Il Dürer non aveva ricercato soltanto la natura, ma assieme ad essa, e in essa, anche la bellezza. «Che cosa sia la bellezza non so, benché rivesta tante cose»21. La bellezza è riposta nella natura, e al tempo stesso conduce più in là di questa. L’uomo non può afferrare la bellezza perfetta: «Ché io credo che non esista un uomo che nella più piccola creatura vivente possa cogliere il suo fine più bello»22. In realtà era accaduto questo: che il Dürer, acquistando sempre più consapevolezza, aveva a poco a poco giudicato inutili e molesti tutti quegli elementi casuali, ridondanti, strani e accessori che lo avevano affascinato in gioventù, e li aveva abbandonati per ricercare unicamente la semplicità eroica, la quiete completa e l’eloquenza diretta. E fu questo che nella sua conversazione con Melantone egli chiamò «il volto originario della natura». Passando a questo modo dalla molteplicità alla semplicità, il Dürer aveva vissuto in se stesso quella che fu la grande svolta del suo tempo; un’esperienza che lo fa assurgere a rappresentante del Rinascimento, che lo imparenta a Raffaello e a Michelangelo. Nella vittoria sul naturalismo ingenuo consiste l’essenza del Rinascimento; ed è qui che si cela l’errore che si commette quando s’include Jan van Eyck nel Rinascimento. Meglio sarebbe, allora, considerare ancora fondamentalmente medievale anche il Quattrocento italiano, proprio per il suo realismo. Il realismo rigoroso si afferma negli elementi accessori, e a lungo andare può continuare a sopravvivere in essi soltanto. 155

La grande arte è sempre l’arte che ha una determinazione e un senso, i quali vincolano e delimitano la sua forma espressiva. Affonda le sue radici nel culto23 o nella liturgia, e così è monumentale o ieratica. Quest’arte legata a uno stile di vita è di continuo costretta a sopraffare il realismo. Soltanto là dove gran parte dell’arte perde o sembra perdere qualsiasi legame con il culto, il realismo può svilupparsi indisturbato come forma artistica. È quello che avviene dopo il Rinascimento. Dopo il Rinascimento il realismo raggiunge di nuovo un culmine, e per lungo tempo, soprattutto nell’arte olandese. E qui sarà opportuno soffermarsi un momento sul più assoluto naturalista che sia mai esistito, Bernard Palissy. È certo difficile staccarlo dal Rinascimento, dato il tempo in cui visse (1510-1589) e l’ambiente in cui lavorò (la corte francese). Palissy fu ceramista, architetto di giardini e scrittore. Egli calpestò senza riguardo ogni principio della ceramica con i suoi vassoi disseminati di altorilievi raffiguranti lucertole, foglie, insetti, senza alcun ordine formale e alcuna stilizzazione decorativa. Purtroppo, delle sue creazioni in grande stile, in cui dava sfogo al medesimo naturalismo integrale, si è conservata solo la teoria. Le «grottes rustiques» che Palissy progettò per la regina, per il conestabile di Montmorency e per altri, le conosciamo esclusivamente dai suoi scritti singolari24. L’imitazione diretta della natura, a suo avviso, vale più di tutte le regole dell’architettura. Nelle sue grotte alberi veri vengono utilizzati come colonne, le pareti sono interamente smaltate con colori che si compenetrano, e levigate in modo che le lucertole e i gamberi vi si possono specchiare. Ma il naturalismo di Palissy va inteso secondo me non 156

tanto come espressione di un principio artistico del Rinascimento, quanto come espressione di una corrente di pensiero che, sebbene scaturita dallo spirito del Rinascimento, pure non rientra nelle sue manifestazioni artistiche. Il posto di Palissy è fra quegli ingegni che frugarono e scavarono con passione nella natura per scoprirne i segreti, preparando così la scienza naturale positiva. Anch’egli partecipò a questa ricerca: Bacone ha imparato da lui25. E quel clima di ricerca avventu-rosa, semimistica, alchimistica, in cui nacquero trattati di tecnica intitolati ancora Magia naturalis26, in cui visse Georg Agricola, il più grande tecnologo del Cinquecento, in cui le miniere si popolarono di dèmoni; quel clima che produsse il Cardano, Paracelso, Guillaume Postel e Jean Bodin, ma anche il Vesalio e il Dodoneo. È l’atmosfera spirituale in cui Leonardo compose le sue strane fantasie di forme animalesche, intraprese i suoi esperimenti e progettò invenzioni. Ma Leonardo, come artista, aveva ben altre doti e dette ben di più; era un ingegno universale, e un genio. Palissy fu un talento con dei limiti: fu più che altro un pensatore scientifico, che immolò l’arte al suo naturalismo27. Seguire il cammino del realismo nella letteratura è sempre più difficile che nelle arti figurative. Il realismo letterario nel senso di accurata ed esauriente descrizione di un frammento della realtà rimane un’eccezione, e per lo più è soltanto una moda passeggera. Il realismo, nel campo della parola, è già in se stesso un concetto molto più relativo che nell’immagine visibile. Quando ci si esprime col linguaggio, infatti, entra sempre in gioco l’idea, che costringe a scegliere, a interpretare, a limitare. Un realismo estetico coerente, nel linguaggio, si ridurrebbe a un nominalismo 157

adattato; ma il linguaggio, al pari dell’uomo stesso, non può vivere in un mondo nominalistico. E così la natura stessa del nostro modo di pensare e di parlare riconduce sempre il realismo descrittivo allo stadio di realismo evocativo o enfatico. Orbene, nel periodo di massima fioritura del Rinascimento accade nella letteratura ciò che è accaduto nelle arti figurative: le tendenze al realismo vengono sopraffatte e soffocate in nome di quel principio che è poi lo spirito stesso del Rinascimento, il principio dell’armonia. Quello che nella pittura si chiama Raffaello, nella letteratura si chiama Ariosto. Se si volesse esprimere con qualche nome la piena maturità del Rinascimento, questi due nomi sarebbero sufficienti. L’Ariosto è il poeta della fantasia perfetta e al tempo stesso il poeta della perfetta esattezza. Coglie ogni cosa con la parola primaria, immediata. Non vela, non sfuma. Non suggerisce e non allude. Tutto in lui appare chiaro, immediato, sereno e semplice nei colori come un cielo d’estate. Si direbbe che qui non ci sia posto per un’applicazione del concetto di realismo letterario. Eppure c’è nell’Ariosto un elemento realistico consapevole, a prescindere dal fatto che, volendo, si potrebbe designare con quell’epiteto il suo uso estremamente concreto della lingua. Sotto l’immagine fantastica si avverte più volte il desiderio premuroso di rendere con esattezza la realtà. Nonostante i giochi d’illusionismo, la topografia dell’Ariosto è scrupolosa e reale. Se si cerca di ricostruire gli itinerari che il poeta fa percorrere ai suoi eroi, soprattutto ad Astolfo, si scopre con stupore che talvolta è possibile seguirli con precisione su una carta geografica. Descrive Parigi, dove 158

non è mai stato, come se guardasse una pianta della città28: Siede Parigi in una gran pianura, nell’ombilico a Francia, anzi nel core; gli passa la Riviera entro le mura, e corre, ed esce in altra parte fuore; ma fa un’isola prima, e v’assicura della città una parte, e la migliore. L’altre due (ch’in tre parti è la gran Terra) Di fuor la fossa, e dentro il fiume serra.

Più sopra abbiamo avuto occasione di notare come, per lungo tempo, la nascente critica dell’arte abbia saputo ammirare quasi esclusivamente la pittura che riesce a ben riprodurre la realtà. A questo modo di vedere si attengono anche i contemporanei dell’Ariosto e del Tasso, nel giudicare la letteratura. Essi vanno d’accordo col curato del Don Chisciotte, che fra tutti i romanzi cavallereschi preferisce Tirante el Blanco perché «qui i cavalieri mangiano, e dormono e muoiono nel loro letto, e prima di morire fanno testamento, con tante altre cose che non si trovano negli altri libri di questo genere»29. Il Cinquecento rimprovera all’Ariosto e al Tasso inesattezze e inverosimiglianze: trova che Angelica è troppo disinvolta, Armida troppo passionale, Rinaldo troppo molle e Orlando troppo sensibile. Ancora Galileo, che ammira l’Ariosto e critica aspramente il Tasso, osserva che in quest’ultimo Erminia, quando descrive gli eroi, è troppo distante per poterli distinguere, e che non è naturale che i Cristiani dicano tutti insieme la stessa cosa. La serenità del Rinascimento non è realismo, perché la realtà che esso raffina e innalza a stile è torbida. Tuttavia, il realismo estetico, in luogo di essere innalzato a stile, può anche intensificarsi e divenire una specie di iper-realismo. 159

Quando si cercano i termini più efficaci per esprimere la realtà, necessariamente si esagera. L’espressione del volto umano diviene una boccaccia. E in effetti questo passo è già stato compiuto non soltanto dai grandi pittori olandesi del Quattrocento, ma già da Giotto. Hieronymus Bosch fa semplicemente di questa esagerazione un mezzo artistico. Nelle mani dei grandissimi, questo iper-realismo si traduce subito nella più grandiosa arte fantastica: Matthias Grünewald e Pieter Bruegel. Nella letteratura abbiamo Rabelais. Abel Lefranc, il più recente curatore di Rabelais, dedica un paragrafo della sua introduzione al «realismo» rabelaisiano30. Egli comincia con queste parole: «Uno dei più sicuri risultati delle recenti ricerche rabelaisiane è stato, senza dubbio, quello di mostrare in Rabelais il maggiore e il più abile realista, ossia lo scrittore che ha cercato, amato e rappresentato il vero, o meglio ancora la vita, con una passione, una continuità e una potenza senza eguali». Ecco un giudizio deciso. Non diversamente giudica Gustave Lanson: «Mai si è visto realismo più puro, più potente, più sicuro di sé […]. Egli è e rimane la fonte di tutto il realismo; fonte più larga di tutte le correnti che da essa trassero nascimento dopo di lui»31. Ora, poiché nessuno sarà disposto a staccare Rabelais da quel complesso fenomeno che noi chiamiamo Rinascimento, sembra che qui effettivamente ci sia, fra Rinascimento e realismo, un legame che ci costringe a ricrederci. A meno che, però, non risulti che ciò che il Lefranc e il Lanson intendono per realismo non corrisponde esattamente al concetto di realismo che qui, cammino facendo, abbiamo cercato di delineare con una certa precisione. 160

Il Lefranc vede il realismo di Rabelais nell’appassionato interesse che questi ha per tutte le cose del suo tempo: il governo, la politica, le scoperte, controversie del giorno, questioni religiose, polemiche erudite ecc. Lo trova nella precisione della sua anatomia, nel giusto uso dei termini marinareschi nel racconto della tempesta. E poi nella perfetta esattezza e precisione dell’espressione e nell’efficacia delle immagini, nella scioltezza del dialogo, nella curiosité infinie che si rivela in quei cumuli d’immagini e di parole, in quelle enumerazioni di giochi, di vivande, di mestieri, di capi di vestiario, di attività culinarie ecc. E soprattutto, per il Lefranc, il realismo di Rabelais è dimostrato dal fatto che tutta la storia della vita di Gargantua, per impostazione e contenuto, s’ispira al paese e alla storia della famiglia di Rabelais stesso. La giovinezza di Gargantua trascorre nella regione di Chinon, il possedimento di Grandgousier è La Devinière, dove viveva Antoine Rabelais, padre dell’autore. La guerra fra i pastori di Grand gousier e i panettieri di re Picrochole corrisponde a una vertenza giuridica fra il suddetto Antoine Rabelais e un certo Gaucher de Sainte-Marthe. Ogni cosa sembra realismo integrale e al tempo stesso pieno Rinascimento. In un’infinita marea di parole succose, spumeggianti, roboanti, ci turbina dinanzi tutta la realtà della vita. Di realismo si può parlare, guardando al materiale, al contenuto, all’oggetto. Tuttavia, se si guarda all’intenzione e alla forma, si può davvero dire che tutto questo è realismo, realismo nel senso di esigenza di rendere con esattezza la realtà? Il modo in cui Rabelais racconta la guerre picrocholine indica in fondo proprio il contrario. Egli parte da una realtà data, sì, ma intenzionalmente la 161

trasforma in una fantasia d’una bizzarria sfrenata e le dà una veste quasi eroica. E così fa dappertutto. Tramuta tutto in stravaganza. Gioca con la realtà, ne svisa le proporzioni con piacere infantile, ne fa una gigantesca fantasmagoria comica. Anche qui, dunque, il realismo è stato in verità sopraffatto; e anche qui è stato sopraffatto dal Rinascimento, vale a dire, qui, da quello spirito che voleva tornare al mitico, all’elementare, al ditirambico, all’eracleico, a tutte quelle cose che non si riuscivano più a esprimere nelle allegorie della Chiesa o del Roman de la Rose. Finché era prevalso lo spirito medievale, questa esigenza si era tradotta in forme semplicemente realistiche, spontanee e ingenue. Col Rinascimento la forma diviene eroica. Con la sua fantasia eroica Rabelais, sebbene rappresenti il caos, è strettamente imparentato all’Ariosto, a colui che rappresenta il kosmos, l’armonia. Ma la fantasia eroica collega tanto Rabelais quanto l’Ariosto a un artista che è più grande di entrambi: a Michelangelo. Rabelais e l’Ariosto si trovano ai due poli opposti del Rinascimento. Qui l’armonia, la serenità e la sonorità, la lieta chiarezza; là il caos ribollente, torbido, fumoso, in fermento, da cui un giorno, dopo Paracelso, sorgerà la nuova scienza, e che cela in sé anche Cervantes, Ben Jonson e Rembrandt. Michelangelo, nella sua arte, ha già scavalcato l’abisso che separa Rabelais dall’Ariosto: in lui non c’è più il dissidio fra la pace eterna dello stile grande, armonioso, e l’iper-realismo inquieto, in cerca di qualcosa. Ma gli manca il riso. Ogni volta che la mente ci conduce a voler penetrare l’essenza del Rinascimento si scopre che per coglierla e comprenderla il realismo non costituisce un criterio 162

eccessivamente utile. Esso accompagna per un certo tratto iniziale il grande rinnovamento della civiltà occidentale, ma poi, all’improvviso, quasi scompare, sembra perdere la sua importanza. In altre epoche culturali il realismo estetico si può essere presentato talvolta come una protesta, una reazione all’eccesso di stilizzazione della raffigurazione e del pensiero; ma per ciò che riguarda il Rinascimento esso è più che altro una semplice febbre di crescenza. Ingenuamente realista era sempre stato proprio il medioevo, fin dove poteva giungere con la sua tecnica espressiva. Nella storia della rappresentazione realistica, il Rinascimento non segna affatto una netta linea di confine. Lo sforzo di rendere con esattezza le forme della realtà (che a rigore si dovrebbe chiamare piuttosto nominalismo plastico) non significa altro, in generale, che graduale aumento della materia tecnica. Cresce nel giardino dell’arte come erba selvatica. Dal punto di vista del concetto scolastico di realismo, tocca soltanto l’apparenza delle cose. Ma la natura di queste, espressa nell’idea, vuol di continuo essere intesa in modo nuovo, e a tale scopo è necessario di tanto in tanto aguzzare nuovamente lo sguardo, nel considerare la realtà data. Max Scheler32 dice che periodicamente la civiltà umana ha bisogno di nuovi nominalismi. Dopo un certo tempo la sapienza e la scienza si trovano di nuovo a dover constatare che il mondo non è fatto semplicemente così come ce lo presentano la parola e il concetto. Ugualmente l’arte, per continuare a essere viva, ha continuamente bisogno di tornare alla natura: quel ritorno che noi, nel linguaggio quotidiano, chiamiamo realismo. Di regola, tale realismo, una volta raggiunto il massimo sviluppo, si disgrega e riscompare rapidamente per 163

fecondare proprio quelle tendenze a cui sembrava opporsi. Il più delle volte un nuovo simbolismo, una nuova ideografia, una nuova tipologia o un nuovo stile, devono il loro vigore proprio alla tenacia con cui affondano le radici in una precedente fase di realismo. Ciò vale per il Rinascimento, ma vale anche per il barocco, per il classicismo e per il Romanticismo. * Conferenza tenuta a Londra nel 1920 e poi, completamente modificata, a Basilea, Berna, Zurigo e Friburgo in Brisgovia nel 1926. Pubblicata in quest’ultima forma in J. Huizinga, Cultuurhistorische Verkenningen, Tjeenk Willink, Haarlem 1929, pp. 86-116, e ristampata in Id., Verzamelde Werken, IV, Cultuurgeschiedenis, Willink and Zoon, Haarlem 1949, pp. 276-97. Traduzione dall’originale olandese. 1 Non mi curo qui, per il momento, dei rapporti col concetto scolastico di realismo. Per comodità, nelle pagine che seguono, scriverò in corsivo i termini «realismo» e «realistico» quando saranno usati nel significato medievale. 2 Cfr. A. De Buck, Het typische en het individueele bij de Egyptenaren, Ijdo, Leiden 1929. 3 Al-Waqidi, Kitab al Maghazi, secondo la trad. ted. di J. Wellhausen, G. Reimer, Berlin 1882. 4 Seguo la traduzione che R. C. Boer dette a suo tempo nel suo Een reisdagboek uit Ysland, in «De Gids», I, 1914, 515. 5 Cfr. M. Dvořák, Idealismus und Naturalismus in der gotischen Skulptur und Malerei, in «Historische Zeitschrift», 1919, 119, pp. 1, 185. 6 [«Jeder Tatsache ihre bedeutendste Seite abgewonnen hat»]. 7 [Per questo e per ciò che segue, cfr. infra, Il problema del Rinascimento, pp. 51-100]. 8 Cfr. J. Huizinga, L’autunno del Medioevo (1919), trad. it. di B. Jasink, Sansoni, Firenze 1953, pp. 404 sgg. 9 G. Chastellain, Œuvres, VII, Œuvres diverses, a cura di K. de Lettenhove, Slatkine, Genève 1971, pp. 219-21. 10 Inferno, XI, vv. 97 sgg. 11 Summa Theologiae, IIa, q. 1, art. 9. 12 Purgatorio, X, vv. 31 sgg.; XII, vv. 64 sgg. Su Dante cfr. W. Seiferth, Zur Kunst lehre Dantes, in «Archiv für Kulturgeschichte», XVII, 1927, p. 194 e ivi, XVIII, 1928, p. 148. 13 Decamerone, VI, 5.

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[Istorie fiorentine], XI, 12. Il Cortegiano, I, 90. 16 T. Moro, Utopia, a cura di V. Michels e T. Ziegler, Weidmannsche Buchhandlung, Berlin 1895, p. 110. Poiché nella traduzione s’insinuano inevitabilmente ambiguità e inesattezze, ecco qui il testo latino: «Verum una in re haud dubie longo nos intervallo praecellunt: quod omnis eorum musica, sive quae personatur organis, sive quam voce modulantur humana, ita naturales adfectus imitatur et exprimit, ita sonus accommodatur ad rem, seu deprecantis oratio sit, seu laeta, placabilis, turbida, lugubris, irata, ita rei sensum quendam melodiae forma repraesentat, ut animos auditorum mirum in modum adficiat, penetret, incendat». 17 J. Manlius, Locorum communium collectanea a Ioanne Manlios per multos anno, tum ex lectionibus D. Philippi Melanchtonis tum ex aliorum doctissimorurn virorum relationibus excerpta, Basel 1562, p. 212. 18 [«Aber das Leben in der Natur gibt zu erkennen die Wahrheit dieser Dinge. Darum sieh sie fleißig an, richt dich darnach und geht nit von der Natur in dein Gut gedunken, dass du wöllest meinen das besser von dir selbs zu finden; dann du wirdest verführt. Dann wahrhaftig steckt die Kunst in der Natur, wer sie heraus kann reißen, der hat sie […]. Darum nimm dir nimmermehr für, dass du Etwas besser mügest oder wellest machen denn es Gott seiner erschaffnen Natur zu würken kraft geben hat. Dann dein Vermügen ist kraftlos gegen Gottes Geschöff»]. 19 E. Heidrich (a cura di), Dürer’s Schriftlicher Nachlass, Bard, Berlin 1910, pp. 270, 273, 277, 281-2 [«Dann so es der Natur entgegen ist, so ist es bös»]. 20 [«Die allerkleinsten runzelein und ertlein nit ausgelassen»]. 21 [«Die Schönheit, was das ist, das weiss ich nit, wiewol sie viel Dingen anhangt»]. 22 [«Dann ich glaub, dass kein Mensch leb, der da in der mindsten lebendigen Creatur sein schönstes End möcht bedenken»]. 23 Ciò resta vero anche se il culto diviene terreno in luogo di trascendentale. 24 B. Palissy, Œuvres complètes, a cura di P. A. Cap, Dubochet, Paris 1844. 25 Cfr. T. C. Allbutt, Palissy, Bacon and the Revival of Natural Science, in «Proceedings of the British Academy», VI, 1913-14, pp. 232 sgg.; si veda anche O. Auriac, Bernard Palissy et la science positive, in «La grande revue», luglio 1928. 26 Cfr. W. Sombart, Die Technik im Zeitalter des Frühkapitalismus, in «Archiv für Sozialwissenschaft», 34, pp. 721-60: 725. 27 Il Dürer si divertì a adottare un analogo naturalismo immediato in certi bozzetti per una colonna trionfale che doveva ricordare la repressione della rivolta contadina, e per la lapide di un ubriacone, che si ritrovano nella sua opera come disegni «von Abentheuer wegen aufgerissen» [«tracciati per gusto»]. Il bestiame 15

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circonda il piedistallo della Vittoria, la colonna è formata da un cumulo di attrezzi agricoli di ogni genere. Ma per il Dürer rimase uno scherzo quello che per Palissy fu scopo della vita. 28 Orlando furioso, XIV, 104. 29 Don Chisciotte, parte I, cap. 6. 30 F. Rabelais, Œuvres complètes de François Rabelais, a cura di A. Lefranc, Champion, Paris 1912-22, 5 voll., I, p. L. 31 G. Lanson, Histoire de la littérature francaise, Hachette, Paris 1918, pp. 258 sgg. [Storia della letteratura francese, trad. it. di S. Montanelli, Longanesi, Milano 1961, 2 voll., I, pp. 330, 333]. 32 M. Scheler, Die Wissensforrnen und die Gesellschaft, I, Probleme einer Soziologie des Wissens, Der Neue-Geist, Leipzig 1926, pp. 109, 117 [Sociologia del sapere, trad. it. di D. Antiseri, Abete, Roma 1966].

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Indice Abstract Biografia

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Frontespizio Copyright Indice Lo storico delle maree Introduzione di Gabriele Pedullà Nota bibliografica Il problema del Rinascimento Rinascimento e realismo

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