Marginalità vissuta tra carcere e strada. Analisi, sfide, idee per una progettazione educativa oltre la detenzione 9788820768522, 9788820768539

Partendo da una ricerca esplorativa svolta sul territorio di Bologna, riguardante la presenza di esperienze di detenzion

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Marginalità vissuta tra carcere e strada. Analisi, sfide, idee per una progettazione educativa oltre la detenzione
 9788820768522, 9788820768539

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Frontespizio
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Indice
Introduzione
1. Marginalità sociale e devianza: un’ermeneutica complessa
2. Vivere senza dimora
3. Detenuti in dimissione dal carcere, future persone senza dimora?
4. Percorsi di progettazione educativa post detentiva
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MARGINALITÀ VISSUTE TRA CARCERE E STRADA Analisi, sfide, idee per una progettazione educativa oltre la detenzione

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Comitato scientifico: Serenella Besio (Università della Val d’Aosta), Mario Biggeri (Università di Firenze), Fabio Bocci (Università Roma Tre), Edoardo Boncinelli (Università San Raffaele di Milano), Andrea Canevaro (Università di Bologna), Luciano Carrino (Kip International School – ONU), Roberto Dainese (Università di Bologna), Diego Di Masi (Università di Padova), Della Ferri (University of Maynooth), Lani Florian (University of Edinburgh), Valeria Friso (Università di Bologna), Elisabetta Ghedin (Università di Padova), Anthony Giannoumis (University of Oslo), Walter Omar Kohan (Università Statale di Rio de Janeiro), Elias Kourkoutas (Università di Creta), Giuseppe O. Longo (Università di Trieste), Maura Striano (Università di Napoli), Lorella Terzi (Roehampton University), Simone Visentin (Università di Padova).

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I volumi pubblicati in questa collana sono preventivamente sottoposti a una procedura di “peer rewiew”

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2. Comunità

I. Titolo

II. Collana

III. Serie

Aggiornamenti: ———————————————————————————————————————— 2025 2024 2023 2022 2021 2020 2019 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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Indice 1

Introduzione

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Capitolo primo Marginalità sociale e devianza: un’ermeneutica complessa

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1.1 Elementi introduttivi, p. 5; 1.2 Principali teorie della devianza, p. 9; 1.3 Interpretare la marginalità sociale, p. 22; 1.4 L’approccio pedagogico alla marginalità e alla devianza, p. 30

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Capitolo secondo Vivere senza dimora 2.1 Il fenomeno delle persone senza dimora, p. 37; 2.2 Problematizzare denominazioni e definizioni, p. 43; 2.3 L’ecologia dell’homelessness, p. 48; 2.4 Le persone senza dimora e i servizi a loro dedicati secondo la rappresentazione Istat, p. 55; 2.5 Gli interventi in risposta alla deprivazione abitativa, p. 63

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Capitolo terzo Detenuti in dimissione dal carcere, future persone senza dimora? 3.1 Esplorazione della letteratura scientifica nazionale e internazionale, p. 69; 3.2 L’indagine condotta a Bologna, p. 74; 3.3 Il contesto studiato: il territorio di Bologna, p. 76; 3.4 La presenza del fenomeno sul territorio, p. 81; 3.5 Il Progetto dimittendi e i dati della ricerca, p. 87; 3.6 Riflessioni sui dati, p. 105; 3.7 La definizione di fragilità post scarcerazione, l’ampliamento educativo del Progetto dimittendi e la tutela abitativa, p. 107; 3.8 L’ampliamento educativo del progetto: le difficoltà della fase iniziale, p. 113

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Capitolo quarto Percorsi di progettazione educativa post detentiva 4.1 Le coordinate della progettazione inclusiva, p. 122; 4.2 Una progettazione orientata alla comunità, p. 129; 4.3 L’approccio delle capability, p. 134; 4.4 La dimensione relazionale e i vissuti emotivi negli interventi in contesti di marginalità, p. 138; 4.5 Deprivazione abitativa e fine pena: riflessioni conclusive sulla proposta sviluppata con il Progetto dimittendi, p. 143

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Introduzione Il presente volume è il risultato della rielaborazione e dell’approfondimento di una parte del lavoro di ricerca svolto durante il percorso di dottorato, nella prospettiva teorica della Pedagogia della marginalità e della Pedagogia dell’inclusione. La scelta del tema trattato, che incrocia storie di marginalità vissute tra carcere e strada, trae origine dal percorso personale e professionale di chi scrive, sollecitato negli anni a interrogarsi sul senso della marginalità e dell’esclusione sociale nelle nostre comunità, a partire dall’incontro con persone che quello “scarto” dalla società (assieme a numerose privazioni) lo vivono quotidianamente. L’origine di questo percorso risale così ai momenti di ascolto dei loro racconti basati sulle proprie esperienze, spesso presentati in forma frammentaria, narrati con timore, con vergogna, con rassegnazione o, talvolta, con spavalderia, ma sempre nella prospettiva di chi abita quei luoghi di emarginazione estrema, in primis la strada. Prima ancora che una domanda di ricerca – “parte delle persone in uscita dal carcere diventa senza dimora?” –, ciò che ha mosso l’interesse per questa ricerca è stato il coinvolgimento nell’incontro “con chi” e nell’ascolto “di chi” quelle storie le ha vissute direttamente, oltre alla curiosità di approfondire quei frammenti di esperienze di esclusioni multiple così poco conosciute, per poi immaginarsi percorsi in direzione opposta. Nasce così l’esigenza di capire e di agire, due termini che costituiscono il corpo di questo volume e ne caratterizzano le parti in cui è composto: capire i fenomeni di marginalità, nella loro accezione più ampia e nella particolarità della vita in strada, e agire nella costruzione di percorsi al termine della reclusione, partendo dalla doppia ricerca condotta a Bologna sulla presenza in strada di persone senza dimora con un passato di detenzione e dall’analisi del Progetto dimittendi, un progetto del Comune di Bologna, nato nel 2014. Capire e agire per poi approfondire a livello teorico e pratico la possibilità di una progettazione educativa (ma anche socio-educativa) a supporto dei percorsi inclusivi in grado di mettere in dialogo la persona e la comunità, nel passaggio dalla vita ristretta alla libertà. Da qui il sottotitolo del volume, analisi, sfide, idee per una progettazione educativa oltre la detenzione. Le due parti determinano anche a chi primariamente si rivolge questo volume: certamente agli studenti in formazione, in particolar modo coloro che si approcciano per la prima volta a tematiche riguardanti la povertà, la marginalità, la devianza, l’esclusione sociale e le possibili conseguenze della

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INTRODUZIONE

privazione della libertà; ma anche ai professionisti in ambito educativo e sociale già coinvolti nella progettazione di percorsi d’uscita dal carcere al termine della reclusione o in attività di educazione non formale e informale, spesso sostenute dal mondo del volontariato. La lettura critica della complessità che accompagna i fenomeni di marginalità sociale qui presentati, complessità spesso oggetto di semplificazioni e riduzionismi, è funzionale alla proposta di un cambiamento culturale dentro e fuori il carcere, in grado di promuovere la dignità umana di chiunque, in qualsiasi contesto, aumentando il grado di inclusione e di partecipazione civile e democratica. Il suggerimento di questo volume è quello di approcciarsi a questi temi non in un’ottica assistenziale, priva di tensione evolutiva, né in un’ottica vincolata all’individuo, quasi fosse limite e misura di ogni azione, ma secondo un approccio partecipativo e comunitario, che orienti tutte le azioni allo sviluppo della comunità, oltre che inclusivo, volto al superamento delle condizioni di marginalità. Facendo riferimento ai processi inclusivi già sviluppati negli ambiti della disabilità e della multiculturalità, una ipotesi di questo lavoro è quella di affiancare al concetto di reinserimento sociale, quello di inclusione. Un’ipotesi abbozzata, carica di potenziale, ma ancora da approfondire in molteplici direzioni. Indubbiamente l’approccio proposto contribuisce ad aumentare il livello di complessità della progettazione dei percorsi di libertà e ritorno alla vita sociale. La società, spesso lontana dalle riflessioni sulla produzione di criminalità o da quelle sui percorsi sul ritorno alla libertà, ignorando le posizioni di chi sostiene che il carcere alimenti aspetti antisociali (Santoro, 2004) e facendo nuovamente appello a un modello sanzionatorio e retributivo di carcere (Caldin, Cesaro, 2015), è portata a chiedere maggiore sicurezza attraverso l’incremento del controllo sociale, legittimando ciò che Michel Foucault chiama il potere disciplinare e i relativi dispositivi disciplinari, di cui il carcere è una possibile espressione dedicata agli “illegalismi”. Questi promettono di uniformare il comportamento degli individui e di “aumentare la produzione, sviluppare l’economia, diffondere l’istruzione, elevare il livello della moralità pubblica” (Foucault, 2007, p. 226), secondo un’idea di società in cui criminali, pazzi, viziosi, oziosi, indigenti, malati, operai, bambini sono tutti considerati potenziali devianti da disciplinare e rendere nuovamente produttivi, per massimizzare la felicità del maggior numero di persone, come ben evidenziano le proposte di Jeremy Bentham, padre dell’utilitarismo, uno dei riferimenti teorici cardine dello Stato liberale ottocentesco e dell’attuale neoliberismo. Le esigenze di ordine, per una società disciplinare e disciplinata, tutt’oggi continuano a favorire la nascita di strategie di controllo e di dispositivi, anche solo linguistici, sempre più anonimi e sempre meno individuabili, basati sulle

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distinzioni fra anormalità e normalità, devianza e adattamento, pazzia e sanità mentale, ribellione e docilità, con conseguenti interdizioni applicate a coloro che non sono nella norma. Non a caso al vivere in condizioni di povertà sono tuttora attribuite diverse responsabilità individuali, che rendono la persona colpevole del proprio stato, mentre fatica a diffondersi una lettura sistemica del fenomeno che consideri la presenza di processi di progressiva rottura sociale e di impoverimento non esclusivamente materiale, sguardo necessario per poter affrontare le sfide della povertà, delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale troppo spesso interpretate come “problemi” del persona. La richiesta di controllo sociale pone tra le proprie priorità quella di ripristinare un modello sanzionatorio e retributivo di carcere, lontano dalla prospettiva del reinserimento sociale, quantomeno nella sua attuale accezione. Tra gli eventi che negli ultimi anni hanno posto un limite a questa interpretazione e alla preminenza della funzione retributiva nelle misure di privazione della libertà si possono indicare alcune sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), tra le quali spicca per importanza la sentenza sul caso Torreggiani e altri c. Italia1 del 2013, riguardante il problema del sovraffollamento e della condizione penitenziaria in generale. Con questa sentenza lo Stato italiano fu condannato per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in particolare per trattamenti inumani o degradanti subiti da sette persone detenute, nonostante la stessa Costituzione italiana preveda un orientamento analogo all’articolo 272; tuttavia, al di fuori della cerchia degli esperti, l’impatto culturale di questa e altre sentenze è risultato minimo: complice anche il periodo storico, l’incessante richiesta di sicurezza ha continuato a essere formulata nei termini di maggiore severità delle misure privative della libertà e allontanamento del momento dell’uscita dagli istituti detentivi, quasi fosse un evento evitabile, mentre la diffusione di un pensiero critico su cosa questo modello comporti, sulle condizioni di vita di chi è privato della libertà in Italia e sui risultati che la detenzione produce al suo termine parrebbe non essere percepita come prioritaria. La scelta compiuta in questo volume è quella di proporre un discorso sul ritorno alla libertà, al termine della sua temporanea sottrazione, progettando interventi che rispecchino un orientamento comunitario, limitando l’eccessivo ricorso a una progettazione individuale, focalizzata esclusivamente sul singolo, spesso connotata dall’attribuzione di responsabilità della persona rispetto alla propria condizione non aderente alla sua reale mancanza di 1

Ricorsi nn. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10. Art. 27 Costituzione, comma 2: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. 2

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INTRODUZIONE

potere e, al contempo, del rischio della ricerca di un protagonismo immaturo, non in dialogo con il contesto socio-economico-culturale. Quella progettazione individualistica può, infatti, acuire gli aspetti di esclusione, producendo un ulteriore scollamento fra la persona e la collettività. Ripartendo, invece, dal considerare la realtà umana costitutivamente in relazione e in dialogo, in antitesi a quella dell’homo oeconomicus intento a massimizzare il proprio interesse individuale, qui si è voluta promuovere una progettazione centrata sulla persona in relazione, inserita in diversi gruppi sociali e nella comunità locale. Una progettazione socio-educativa integrata orientata a promuove il progetto di vita della persona, incrementare sia il suo grado decisionale, sia la sua possibilità di agire, ma che al contempo si occupi di potenziare – per quanto possibile – il livello di empowerment dell’intera collettività in cui la persona ai margini abita e in cui vive relazioni interpersonali, organizzative, istituzionali. Una progettazione di interventi socio-educativi che superi un modello di socializzazione standard uguale per tutti, divisivo ed escludente, per approdare a un modello in grado di includere le diversità e distribuire in maniera più equa ogni tipo di risorsa.

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1. Marginalità sociale e devianza: un’ermeneutica complessa

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1.1 Elementi introduttivi Marginalità e devianza sono termini riferiti a specifici fenomeni sociali studiati nell’ambito delle scienze umane, in prevalenza secondo la prospettiva delle discipline criminologiche, sociologiche, psicologiche, filosofiche e pedagogiche. Si tratta di due categorie concettuali permeabili l’una all’altra, che hanno mantenuto contorni poco nitidi e, spesso, sono state usate per definire gruppi sovrapposti. Di certo si tratta di due categorie difficili da cogliere nella loro “essenza”, e per nulla scontate. Con la categoria della devianza – definita da alcuni autori come “onnicomprensiva” (Berzano & Prina, 2018, p. 9) – sono indicati tutti quei comportamenti di una persona o di un gruppo che violano una o più norme (o valori o usi) esplicite o implicite accettate e considerate “normali” (conformi alle consuetudini) da una specifica collettività, a cui segue una qualche forma di reazione escludente e/o repressiva, messa in atto come protezione da quella minaccia. In tal senso i comportamenti devianti sono comportamenti disapprovati o illeciti per una specifica collettività, mentre al termine devianza viene attribuito il significato di “scostamento o trasgressione rispetto a tutto ciò che costituisce la ragione e la base di un ordinamento sociale” (Sartarelli, 2002, p. 99), tanto che i fenomeni a essa associati sono stati definiti anche nei termini di “delitto, reato, crimine, delinquenza, anomia, ribellione, dissenso, patologia, misfatto, eresia, anticonformismo, eccentricità, disadattamento, emarginazione, marginalità, diversità” (Berzano & Prina, 2018, p. 9), alla stregua di varianti presentatesi nel corso della storia. “Con questa espressione [devianza] si vuole segnalare l’allontanamento dalle norme sociali, la distanza rispetto alle attese, la trasgressione rispetto a valori e a stili di vita socialmente diffusi, la scelta personale di una condotta alternativa, la ricerca e la costruzione di una identità autonoma ed indipendente, l’affermazione incondizionata della propria libertà di espressione, l’esito voluto o indesiderato di un condizionamento psico-socio-educativo, il frutto di una situazione di deprivazione sociale, culturale, economica e formativa, l’inca-

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MARGINALITÀ

VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

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sellamento in una situazione di marginalità, il risultato finale di un processo di esclusione sociale” (Resico, 2010, p.15).

Proprio a causa della marcata mutevolezza del fenomeno deviante, si è da tempo affermata l’interpretazione relativistica secondo cui non esisterebbe una definizione univoca di devianza (Valenti, 2007), poiché si tratta di un termine immerso nella storia, riferito alla società e alla cultura di un determinato tempo. “Nessuno è in grado di fornire un quadro di riferimento perenne e immutabile alla devianza” (Sartarelli, 2002, p. 99), poiché i fenomeni a cui ci si riferisce come “devianti” cambiano continuamente e non sono rappresentabili una volta per tutte. La devianza si sviluppò a partire dai temi della norma e della patologia nel XVI secolo, secondo un originario approccio finalizzato a rifiutare ogni diversità, escluse dall’orizzonte del “normale”: allora nacquero le dialettiche fra follia e ragione, malattia e salute, anormalità e normalità, per citare solo alcune delle polarizzazioni più note, conflitti in parte ancora attuali e certamente più ampi. Laura Cavana propone per le “varie figure di marginalità e di devianza” un discorso analogo: “in ogni società i vari tipi di marginalità tendono ad assumere nel tempo aspetti e volti diversi, poiché i confini tra normalità e anormalità, tra inclusione ed esclusione, tra integrazione ed emarginazione non sono mai così netti e definitivi come in apparenza può sembrare” (Cavana, 2010, p. 205).

Si cercherà – per quanto possibile – di affrontare in maniera distinta i due fenomeni associati alla devianza e alla marginalità, nonostante la permeabilità delle due categorie e le evidenti intersezioni che si manifestano nella comune esperienza di esclusione vissuta dai soggetti percepiti come differenti dal resto della comunità e, proprio in forza della loro diversità, posti ai margini della società. Al fine di rendere più agevole tale distinzione è necessario introdurre un’ulteriore specifica, vale a dire quella riguardante l’illecito. Le categorie della devianza, della marginalità e dell’illegalità, pur avendo in comune tra loro il contravvenire a una norma e l’essere sempre relative a un determinato contesto sociale, storico e culturale, non sono concetti totalmente coincidenti, non condividono tra loro una definizione formale unica e sono associate a tre distinti soggetti: il deviante, l’escluso (o emarginato) e il responsabile di un reato (o reo). Un comportamento deviante potrebbe non essere considerato illegale in un determinato tempo e luogo (ne sono esempi odierni l’eresia, il nomadismo, la maternità di una donna nubile, l’omosessualità, ecc.) e, viceversa, un comportamento illegale potrebbe non essere considerato deviante in una determinata cultura, luogo

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SOCIALE E DEVIANZA: UN’ERMENEUTICA COMPLESSA

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e tempo (come lo strozzinaggio, il delitto d’onore o la condotta mafiosa). In tal senso si capisce quanto sia instabile il confine fra il comportamento criminale e il comportamento deviante, ma facendo ricorso alla distinzione fra norme sociali e norme giuridiche è, tuttavia, possibile ricomporre un quadro più coerente, che agevoli la distinzione delle due categorie. Quando una norma sociale viene codificata e inserita all’interno dell’ordinamento giuridico di un determinato Stato, allora si può parlare di comportamento illegale e di criminalità, poiché il comportamento deviante viola anche il codice civile, penale o amministrativo di quella società. Non prima. La trasgressione della norma sociale si configura come una “diversità”, una mancanza di conformità, che può comportare una marginalità (in taluni casi legati ad aspetti di stigma, violenza e repressione); differentemente, la trasgressione di una norma giuridica è un reato (fatto giuridico) e comporta una sanzione definita a livello legislativo, che può o meno produrre effetti emarginanti. Là dove la norma sociale non è obbligatoria, la norma giuridica richiede obbligatorietà, imponendo o vietando un determinato comportamento e, al contempo, prevedendo sin da subito una sanzione da applicare al trasgressore. La categoria della marginalità si distingue ulteriormente dalle precedenti, pur avendone aspetti comuni, poiché indica soggetti che vengono esclusi dalla società nella maggior parte dei casi a causa della loro esistenza, prima ancora che per un loro comportamento. Ad esempio, il pregiudizio radicato nei confronti di alcuni gruppi sociali può produrre allontanamento e emarginazione: basta semplicemente essere identificati con quel gruppo per vivere un processo di marginalizzazione sociale. In altre parole, si attribuisce al termine marginalità una connotazione sociale di esclusione causata da processi indipendenti al soggetto emarginato ed escluso, che possono incidere anche sull’impoverimento della persona e della sua vita culturale e sociale. Come spiegato Sergio Tramma (2012), queste tre categorie (devianza, marginalità e illegalità) pur essendo intrecciate tra loro e presentando importanti punti d’intersezione, non sono considerabili coincidenti. “Apparentemente, tutte le illegalità potrebbero essere fatte rientrare nel novero delle devianze, pur non trasformandosi automaticamente in condizioni di marginalità per chi le pratica; anzi ci sono casi in cui l’illegalità rende possibile occupare la posizione centrale del contesto sociale in cui si esprime (per esempio il successo massmediale e le diffuse simpatie che ricevono alcuni soggetti e comportamenti poco virtuosi). Nello stesso tempo, non tutte le marginalità sono considerate devianze, per esempio la condizione di deprivazione economica dovuta a normali (e legali) percorsi di impoverimento” (Tramma, 2012, p. 28).

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

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Non essendo categorie univoche, ma permeabili, caratterizzate da confini labili e nomenclature variabili, altri autori preferiscono utilizzare termini diversi per rappresentare concetti analoghi, come nel caso di Antonella Valenti (2007, p. 7), la quale parla di disagio, devianza e delinquenza. Secondo questa suddivisione, la devianza è legata ai comportamenti in contrasto alla norma, ma senza reato, la delinquenza rappresenta la violazione di norma formalizzata (ad esempio del codice penale), e il disagio rappresenta una difficoltà ad affrontare specifici compiti evolutivi emersi durante il processo di crescita di ogni persona. Così “ogni deviante è considerato un diverso, un marginale” (Valenti, 2007, pp. 6-8), poiché è portato a vivere un’esperienza di esclusione, al pari di altre esperienze di marginalità, come riportato anche da altri autori. “Il fenomeno della devianza, come già abbiamo osservato a proposito della percezione e del trattamento dell’handicap nella storia delle società umane, si intreccia così con quello del potere che definisce l’anormale, il patologico, l’illegale e ne decreta un destino di marginalità sociale” (Resico, 2010, p. 18).

Prima di procedere con l’analisi di ciò che, successivamente, si considererà nei termini di devianza e marginalità, è bene chiarire un ultimo aspetto. Le classificazioni proposte dai diversi paradigmi interpretativi sui fenomeni di devianza si sono avvalse finora di tre elementi caratteristici: (a) il soggetto con comportamenti devianti, (b) la norma trasgredita e (c) il gruppo sociale che ha sancito tali norme. Il fenomeno deviante è “riferito ad un sostanziale allontanamento dalla norma/normalità, in quanto espressione di un modo di essere ed agire che si distanzia, quando non si contrappone del tutto, ai modelli comportamentali e culturali dominanti” (Valenti, 2007, p. 6), sia per le discipline sociologiche, sia per quelle psicologiche, ma all’interno di questi confini, le teorie sociologiche hanno maggiormente enfatizzato il contesto sociale in cui il soggetto assume comportamenti devianti, contesto talvolta degradato, diseguale o bisognoso di un rinnovamento affidato a visionari e innovatori, e pertanto le forze che caratterizzano tali percorsi, mentre le teorie psicologiche hanno valorizzato l’individuo e la sua evoluzione psichica. Siccome nessuna di queste prospettive prese singolarmente è in grado di restituire la complessità dei fenomeni a cui la devianza fa riferimento, di seguito verranno riprese sinteticamente le principali prospettive disciplinari e le teorie sviluppate in quegli ambiti, componendo così una visione d’insieme necessaria per poter sviluppare ciò che viene definito un approccio integrato o, più precisamente, un approccio olistico, necessario per tutti coloro che esercitano professioni sociali.

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SOCIALE E DEVIANZA: UN’ERMENEUTICA COMPLESSA

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1.2 Principali teorie della devianza

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È già stata affrontata la natura polisemica del termine devianza. Al fine di ricostruire l’evoluzione del suo significato o, più correttamente, dei suoi significati non immediatamente sovrapponibili, si ritiene opportuno introdurre oltre ai significati stessi, anche le scuole e le correnti di pensiero che hanno influito sulla sua costruzione. “Tra le diverse teorie criminologiche, quella della “scuola classica” del XVIII secolo viene considerata come la prima teoria che abbia interpretato il problema dell’ordine sociale con categorie indipendenti dai saperi filosofici e metafisici medievali. Questa teoria è legata al contesto illuministico del Settecento, durante il quale anche il diritto e la pratica della giustizia subirono profondi rivolgimenti, nel passaggio da una visione medievale della pena quale strumento per ristabilire la “lesa maestà” del sovrano, dello Stato e della religione, a una visione razionale della pena retributiva e deterrente” (Berzano & Prina, 2018, p. 17).

Il paradigma illuministico, motore della scuola classica, iniziò ad interrogarsi sulle cause dei delitti, dando così il via a una corrente di studi che, nei secoli successivi, in diverse modalità e attraverso diversi successivi paradigmi scientifici, si sviluppò attorno al concetto di devianza. All’interno di questa scuola vi è una radicata concezione dell’uomo libero e capace di scegliere, un modello antropologico esplicitato all’interno delle opere dei suoi più illustri esponenti, come quelli afferenti alla scuola partenopea o a quella milanese, tra i quali si ricorda Cesare Beccaria, uno dei massimi esponenti dell’Illuminismo italiano, a cui fanno successivamente eco altri importanti autori, come Jeremy Bentham, padre dell’utilitarismo inglese, accomunato ai primi non tanto per omogeneità di pensiero, quanto per aver collaborato al “grande movimento riformatore contro l’oscurantismo, l’arbitrarietà, la crudeltà del sistema penale precedente” (Berzano & Prina, 2018, p. 17). In estrema sintesi, per i rappresentati di questa scuola, il reato è commesso per scelta razionale e personale e, in forza di ciò, tutta la riflessione prodotta ruotò attorno all’individuo, alle sue decisioni e alla scelta di infrangere le norme per seguire un proprio interesse personale ben ponderato e valutato. Con la nascita delle scienze sociali, Novecento del secolo scorso, questo approccio venne messo in discussione, in quanto non era più possibile accogliere l’assunto acritico della capacità dell’uomo di scegliere liberamente in ogni situazione, senza considerare le influenze esterne, cioè senza entrare in contraddizione con la concezione di uomo emergente, l’uomo sociale, e considerare le più recenti scoperte scientifiche secondo le quali ogni evento

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è causato da un evento precedente (Berzano & Prina, 2018). Vennero sviluppate teorie con approcci innovativi, dalla statistica morale al positivismo biologico, che contribuirono alla costruzione della futura criminologia e della medicina legale. La statistica morale si occupò di analizzare la distribuzione del crimine ed ebbe come massimi esponenti il francese André-Michel Guerry e il belga Adolphe Quételet, colui che coniò l’espressione “uomo medio”, concezione astratta di uomo formato dalla media di tutte le qualità dei singoli individui. Tra le tesi di questo approccio, vi sono alcuni importanti passaggi che hanno contribuito a comprendere la devianza e ne hanno segnato la sua evoluzione: i crimini sono prodotti dalla società; la disuguaglianza sociale è direttamente proporzionale al tasso di criminalità; i crimini sono strettamente legati all’età (giovane) e al sesso (maschile) del criminale, ma anche ad altri elementi come le stagioni e il clima, ovvero i crimini sono influenzati da fattori di varia origine, non necessariamente collegati all’evento criminale (Berzano & Prina, 2018). Con questa impostazione la devianza passò dall’essere un fatto soggettivo, legato alle caratteristiche del deviante, a qualcosa di più complesso e relativo alla condizione di una presunta normalità postulata come termine di confronto oggettivo1 (Izzo, Mancaniello, & Mannucci, 2003). Sul versante del positivismo biologico, costituito al fine di spiegare i fenomeni sociali attraverso dati biologici, i soggetti con comportamenti devianti sono geneticamente predisposti a essere criminali, in quanto sono tali a causa di molteplici tratti biologici caratteristici. Anche in questo caso si possono sintetizzare alcune tesi degli autori di questa scuola: “[…] forza dei fattori biologici ereditari nella genesi del delitto; idea del delinquente nato; pessimismo sulla possibilità di intervenire nel settore della criminalità, se si eccettuano misure eugenetiche a lunga scadenza; rifiuto di ogni considerazione morale nella interpretazione del delitto e nel trattamento dei delinquenti” (Berzano & Prina, 2018, p. 45).

La tendenza antisociale del soggetto, detta “tendenza al crimine”, secondo questo approccio sarebbe di origine ereditaria e potrebbe essere identifica tramite un’accurata analisi di alcuni tratti corporei, come la dimensione del cranio e i tratti somatici proposti da Cesare Lombroso, uno degli esponenti più importanti del positivismo biologico. Lombroso catalogò le ricorrenze delle caratteristiche somatiche nei soggetti devianti, tentando di risalire 1 Nell’applicazione del metodo statistico alla devianza (intesa come anormalità statistica) è necessario non reificare (considerare concreto l’astratto, come se fosse un oggetto concreto) la categoria teorica, in quanto questa rimane “un fenomeno dovuto ad una molteplicità di circostanze e di cofattori” (Izzo, Mancaniello, & Mannucci, 2003, p. 107).

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all’archetipo originario, ovvero ai soggetti criminali chiamati “tipi criminali”, attraverso un’accurata analisi comparativa dei tratti somatici, proponendo una lettura medico-biologica della devianza, costruita a partire da una serie di dati antropometrici, raccolti su criminali e folli. Tale determinismo biologico, attraverso anomalie fisiche, tentava di sviluppare la teoria dell’uomo delinquente, anche conosciuta come teoria del delinquente nato:

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“[…] l’ipotesi di un tipo antropologico specifico, il delinquente nato, riconoscibile per la presenza di alterazioni, malformazioni, irregolarità e destinato necessariamente a compiere atti criminali, una sorta di individuo rimasto bloccato ad un livello evolutivo primitivo” (Resico, 2010, p. 20).

Pur sospendendo la ricerca di atavici paradigmi bio-somatici, tutt’oggi esistono alcuni studi in ambito biologico e neurologico, che tentano di individuare una correlazione fra aspetti biologici e comportamento deviante, in particolar modo criminale, a partire dalle evidenze riscontrate rispetto all’influenza della genetica sul comportamento, sebbene “in nessun caso è stato finora possibile ottenere la certezza di una causalità diretta necessaria, sostituita invece da una causalità sistemica di variabili singolarmente considerate e globalmente integrate” (Resico, 2010, p. 21). In tal senso, non si è sviluppata una “biologia della devianza” o una “biologia del comportamento criminale”, ma sono stati individuati dei fattori correlati al patrimonio generico, come la resistenza alla frustrazione, che possono agire da fattori di rischio. Questo successivo filone di studi, con rimandi indiretti al biologismo lombrosiano, non è, tuttavia, rappresentativo dell’approccio alla devianza sviluppato successivamente dal pensiero scientifico, il quale rimane caratterizzato da un marcato orientato umanista e relativista, volto a valorizzare gli aspetti legati alla relazione individuo-società, e meno propenso ad accogliere i risultati di approcci deterministi di origine biologica, neurologica o genetica. Con la nascita della sociologia, così denominata dal filosofo e sociologo positivista francese Auguste Comte, in quanto scienza dei fenomeni sociali, delle loro manifestazioni (i fatti), delle loro cause e dei loro effetti, anche l’indagine sulla devianza (e sui fenomeni devianti) subì una nuova svolta. La radice della sociologia non fu esattamente antitetica alla corrente del positivismo biologista, in quanto quest’ultimo fu l’espressione di quella che si delineò successivamente come sociologia giuridica e criminale, una sorta di protosociologia di cui Cesare Lombroso e molti altri studiosi italiani erano i più illustri esponenti europei. L’idea lombrosiana del deviante e del delinquente tuttavia non si radicò, poiché gli sviluppi successivi della sociologia seguirono altre teorie, in discontinuità al paradigma positivistico biologista, considerato marcatamente di matrice determinista. Al contrario, si affermò

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la teoria funzionalista sviluppata da Émile Durkheim, tra quelle di maggior successo all’epoca. Il funzionalismo considera la società come un insieme di parti interconnesse (un sistema), che interagiscono in modo funzionale (adeguato, rispondente a determinate esigenze) per assicurare l’equilibrio all’insieme (la società), poiché ogni compito assegnato a una parte concorre a preservare il corretto funzionamento dell’insieme stesso. Affinché ciò proceda correttamente è necessaria la condivisione di regole e valori all’interno del sistema: il processo di socializzazione è ciò che permette la condivisione di tali regole e valori, che rendono effettivo l’equilibrio sistemico, mentre la devianza non è altro che l’interruzione di questa condivisione all’interno della società, cioè del processo di socializzazione. Per tale ragioni la devianza potrebbe essere considerata come un elemento disfunzionale al sistema. Per il sociologo francese Durkheim, la devianza non è tuttavia da considerarsi un’eccezione o un errore del sistema, bensì qualcosa di insito al sistema sociale stesso. Per spiegarlo, egli introdusse nel lessico scientifico umanistico il termine anomia, letteralmente “assenza di regole”, a cui attribuì diversi significati. “L’anomia è crisi valoriale connessa da un primo punto di vista alla rarefazione delle rappresentazioni condivise ovvero al prevalere delle coscienze individuali su quella collettiva; da un secondo punto di vista alla disgregazione delle relazioni sociali; da un terzo alla dimensione soggettiva con un individuo che fatica a trovare dei riferimenti valoriali e religioso, con l’estrema conseguenza del suicidio anomico” (Sbraccia & Vianello, 2010, p. 13)

Nel suo testo Il Suicidio (Durkheim, 2008), Durkheim affronta la definizione di suicidio anomico, da lui stesso concepita, in contrapposizione ad altre nozioni utilizzate fino a quel momento (suicidio egoistico e suicidio altruistico2), sottolineando come il suicidio sia un fatto sociale, al pari delle sue cause. Così facendo il sociologo francese uscì da una spiegazione dell’evento totalmente legata alla vita del singolo e a una anomalia di questi, in cui era stato confinato il dibattito teorico fino a quel momento, per porre il suicidio come fatto sociale. Durkheim giunse a questa conclusione analizzando i dati del fenomeno, i quali confermavano una sostanziale stabilità del numero di suicidi nel tempo e attribuì a essi una nuova valenza 2 Il suicidio egoistico rappresenta quell’atto legato a persone centrate su se stesse, non integrate nella società, abituate a fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse, ma non in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. Il suicidio altruistico rappresenta quell’atto legato a persone troppo inserite nel tessuto sociale, tanto da togliersi la vita pur di soddisfarne le richieste: il gruppo e i suoi valori sono più importanti della propria vita. Il soggetto risponde così a un dovere morale.

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sociale, benché fino a quel momento fossero stati spiegati come anomalie del singolo. Del resto, come può spiegarsi una tale stabilità quantitativa nel tempo? Se si trattasse di anomalie del singolo e, pertanto, di un fatto storicamente legato all’individuo, una volta che questi è defunto (e con lui tutto il resto degli individui con “anomalie”), dovrebbero presentarsi sempre meno fatti analoghi, quasi fino alla scomparsa del fenomeno, anziché alla sua costanza nel tempo. Per tali motivi il sociologo francese approfondì le cause del suicidio come fatto sociale, ricercandole come tali e non più come fatti individuali3, partendo dalla consapevolezza che gli individui di una società, aggregandosi, danno vita a una nuova individualità psichica: la coscienza collettiva del gruppo. Così, fra le cause sociali del fenomeno suicidogeno furono individuati i momenti di crisi (depressioni) o di sviluppo (sovrabbondanza) economici, caratterizzati da bruschi cambiamenti sociali, che comportano lo sgretolamento dei valori e delle norme culturali di riferimento. In tal senso, il suicidio anomico è individuabile nei periodi di forti cambiamenti sociali, poiché è un fatto che avviene a seguito di una situazione anomica, nella quale vi è una mancanza di norme di riferimento, intendendo con anomia la disgregazione delle rappresentazioni collettive. Si tratta della dissociazione del soggetto dalla coscienza collettiva, cioè il non considerare più la collettività come un punto di riferimento; in tal modo l’anomia metterebbe in luce le difficoltà del soggetto a comprendere le regole della collettività e ad adattarvisi, diventando così un soggetto disorientato, angosciato e insoddisfatto nei suoi desideri, non più regolati, né controllati e, di fondo, inappagabili. Il soggetto deviante sarebbe alla ricerca di qualcosa non realizzabile e, pertanto, costantemente insoddisfatto, vivendo “l’incapacità di controllare la propria condotta che può giungere fino al gesto estremo del suicidio” (Valenti, 2007, p. 23). Durkheim descrive il soggetto deviante senza ipotizzare a priori una connotazione negativa, ma riconoscendo a questi un ruolo di mutamento sociale, poiché l’anomia si mostra come anticipazione di una futura innovazione: il soggetto non è altro che una costruzione della società, frutto dell’ambiente sociale, e, pertanto, il soggetto deviante diventa un “agente del mutamento sociale” (Sbraccia & Vianello, 2010, p. 14). Da condizione insana e distruttiva, la devianza si trasforma in elemento costitutivo della vita sociale, strumento utile a diverse funzioni: marcare i confini di ciò che è “possibile” (lecito); rinsaldare la coesione sociale tra “giusti”, in risposta al comportamento deviante, creando solidarietà sociale e aumentando la conformità alle norme; immette3

Non si nega l’esistenza di cause legate alla psiche del soggetto suicida, ma queste sono in secondo piano rispetto alla portata sociale, e non individuale, del fenomeno.

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re elementi per costruire nuove rappresentazioni condivise, anticipando così cambiamenti futuri (funzione adattiva della devianza). Robert K. Merton, esponente americano del funzionalismo, riprese le intuizioni e le ricerche di Durkheim, proseguendo l’indagine sulla devianza secondo l’approccio conosciuto come funzionalismo critico. Il sociologo americano modificò la nozione durkheimiana di anomia, trasformandola da condizione di assenza di norme, a divario strutturale tra fini (valori finali) e mezzi (valori strumentali), una discrepanza “tra le mete socialmente condivise ed i mezzi socialmente accettati in vista del loro raggiungimento” (Valenti, 2007, p. 23). Per Merton, alcuni soggetti non dispongono dei mezzi socialmente legittimi per raggiungere fini socialmente legittimi, così coloro che hanno posizioni sociali meno abbienti vivono una tensione, poiché la struttura sociale non garantisce loro la possibilità di avvalersi di mezzi legittimi per raggiungere le mete desiderate, inducendoli in tal modo a trovare soluzioni “deviate”. Il comportamento deviante sarebbe, pertanto, una risposta del soggetto a una tensione a monte rispetto le vicende personali, una tensione esistente a livello collettivo fra la struttura culturale (le mete importanti per tutti) e la struttura sociale (le reali possibilità di raggiungerle). In altre parole, la devianza è indotta dalle varie situazioni di anomia presenti nella società, poiché le soluzioni possibili per uscire da quella condizione implicano una deviazione sul piano dei mezzi legittimi oppure su quello delle ambizioni legittime (Martire, 2009). La teoria della tensione sviluppata dal funzionalismo critico di Merton approfondì anche i differenti comportamenti generati dalla tensione, classificando cinque diversi modi di adattamento, a seconda delle azioni messe in atto dal soggetto in risposta all’accettazione, o al rifiuto, delle mete desiderabili e legittime, e dei mezzi a sua disposizione per raggiungerle: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia e ribellione4. Tra questi cinque diversi modi di adattamento, l’innovazione (accettare le mete, ma raggiungerle con mezzi nuovi) e la ribellione (creare un progetto alternativo) costituiscono due modalità di comportamento adattivo “spia”, poiché forniscono una lettura ambivalente dell’anomia (Sbraccia & Vianello, 2010, p. 18): in risposta a situazioni di anomia, vengono attivati processi di trasformazione funzionale della società. Il comportamento deviante, allora, non distrugge quella 4 Le modalità di comportamento adattivo descrivono: “conformità”, quando il soggetto accetta mezzi e obiettivi socialmente legittimi e considera ogni altro soggetto che non aderisce a quei mezzi e obiettivi un deviante; “innovazione”, quando il soggetto cerca di raggiungere gli obiettivi socialmente legittimi con altri mezzi; “ritualismo”, quando il soggetto abbandona gli obiettivi, ma è ancorato alle norme che regolano i mezzi legittimi; “rinuncia”, quando il soggetto si allontana da mezzi e obiettivi; “ribellione”, quando il soggetto rifiuta mezzi e obiettivi socialmente legittimati e li sostituisce con altri.

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particolare società, ma la cambia, come uno dei meccanismi endogeni di equilibrio (Martire, 2009). Gli sviluppi sulla devianza del pensiero funzionalista furono influenzati anche dagli studi della Scuola di Chicago sulle subculture, frutto di un precedente ripensamento complessivo del ruolo della sociologia e della sua metodologia in campo sociale. A partire dalle osservazioni sui gruppi giovanili, sulla criminalità organizzata, sul vagabondaggio (hobo), sulle migrazioni e altre situazioni analoghe, i risultati degli studi portarono diversi studiosi a considerare la città come un laboratorio ecologico, in cui la devianza non è più un elemento di esclusivo contrasto, bensì una fonte di alimentazione per la crescita della città stessa. Questa impostazione, interessata non più ai singoli individui, né alla società nel suo insieme, ma alla comunità e alle relazioni concrete vissute dai suoi membri, portò Robert Park a sviluppare il concetto di città come insieme di “area naturale” e di “universi culturali” (culture di riferimento o subculture) (Berzano & Prina, 2018, p. 70). Le aree naturali sono spazi fisici omogenei nella struttura urbana (Park fa l’esempio dei sobborghi, dei ghetti, delle colonie di immigrati), dove si concentrano individui che si sentono e considerano simili per fattori etnici o fattori sociali, e vengono chiamate “naturali” in quanto non pianificate, cioè spontanee, e accessibili all’osservazione scientifica. “L’attributo «naturale» per l’autore serve a indicare che la formazione, le caratteristiche e le funzioni di queste aree non sono completamente volute e pianificate; inoltre, in esse la popolazione urbana è selezionata e segregata in gruppi omogenei come risultato di una combinazione di forze competitive e distributive naturali: ogni area raccoglie dal flusso dinamico della popolazione in competizione individui particolari che le sono destinati. Essi a loro volta conferiscono all’area un carattere particolare sviluppando stili di vita, costumi, istituzioni e simboli propri, che diffondono un ordine sociale e morale basato sulla comunicazione, il consenso e scopi comuni che disciplinano gli impulsi e attenuano la lotta naturale per l’esistenza; in questo modo l’area naturale si trasforma in un’area culturale” (Acocella, 2010).

Le subculture sono, invece, la rappresentazione degli eterogenei mondi culturali esistenti all’interno della città, caratterizzati da costumi, stili, codici, norme. “La città offre rifugio e insieme nuove possibilità di sviluppo ai devianti: il genio, il criminale, l’anormale e tutte quelle figure che nella piccola comunità erano represse o appena tollerate (Berzano & Prina, 2018, p. 70), poiché all’interno di questa città esistono numerose aree naturali, caratterizzate sia spazialmente, sia culturalmente. A guidare i cambiamenti nei gruppi sociali e nella città sono i processi naturali di specializzazione

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e di differenziazione, in grado di rendere la posizione degli individui e dei gruppi dinamica, sia culturalmente, sia rispetto alle aree vissute. Così, mentre la teoria funzionalista si occupò di ricercare i macromodelli riguardanti la devianza, a partire dalla struttura sociale, la Scuola di Chicago scelse di indagare i micromodelli di devianza, con un approccio più orientato all’analisi ecologica del fenomeno e all’osservazione sul campo. Lo sviluppo di questo pensiero partito con Merton fu ripreso dalla successiva riflessione funzionalista, la quale con Albert Cohen (1963; 1969) sviluppo l’analisi sulla devianza secondo una dimensione collettiva e non più individuale. Secondo la teoria delle subculture devianti di Cohen non sono i singoli individui a essere sottoposti alla pressione esercitata dallo scostamento tra mete desiderabili e mezzi leciti, bensì i gruppi sociali. La mancanza di uguali possibilità nel poter raggiungere le mete culturali desiderabili riguarda i gruppi e la devianza è una risposta collettiva: sono i gruppi a ricercare soluzioni che si traducono in comportamenti devianti, la quale si manifesta come un prodotto del conflitto fra classi sociali alte e classi basse (es. cultura borghese e cultura operaia). Cohen approfondì le subculture giovanili in ambito urbano, individuando le differenze fra i giovani con educazione adeguata alla cultura dominante (cioè aderenti a quel sistema simbolico-valoriale) e giovani svantaggiati, coinvolti in piccoli reati, con un minor livello sociale, ma soprattutto con minori opportunità per raggiungere gli status sociali aspirati. I gruppi non sono così ricondotti al conflitto di classe esclusivamente in termini economici, ma anche valoriale, caratterizzandosi così come gruppi culturali. All’interno della subcultura di appartenenza, i giovani sviluppano valori alternativi a quelli della classe media, in grado di attenuare la frustrazione crescente nel non poter raggiungere le mete desiderabili imposte dalla cultura dominante, compensando così la conseguente perdita della stima di sé. Si tratta di un nuovo sistema simbolico-valoriale: “nuove norme, nuovi criteri per definire gli status [e per] legittimare le caratteristiche possedute ed i comportamenti che si è capaci di perseguire” (Cohen, 1963, p. 66), dandosi all’interno del gruppo dei pari nuovi obiettivi, in contrasto con quelli dominanti, caratterizzati da “immediatezza dei progetti, distruttività, malignità, permissività, dipendenza dal gruppo” (Berzano & Prina, 2018, p. 87), in grado di garantire uno status sociale . Si tratta di una reazione negativa ai valori che non possono essere raggiunti, in quanto proposti come desiderabili sebbene irraggiungibili a partire dalle condizioni economiche e simboliche della classe di appartenenza. In tal senso è mancata una corretta educazione ai valori della società, compensata da una formazione reattiva non in opposizione alla cultura dominante, ma distorcente, in grado di dare soluzione ai problemi altrimenti

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rimasti irrisolti e senza risposta. La subcultura deviante nasce così con una funziona adattiva, in risposta a una difficoltà, nell’interazione fra individui accomunanti da una frustrazione:

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“[…] appartenendo ad essa il ragazzo può finalmente acquisire uno status (meta sociale da raggiungere) anche se negativo; inoltre può ripudiare, come fonti di qualificazione sociale, proprio coloro i quali lo hanno ripudiato” (Valenti, 2007, p. 26).

Tuttavia la teoria non spiega come mai, a parità di condizioni sfavorevoli, in primis economiche e di classe sociale, alcuni giovani aderiscano alla subcultura deviante, mentre altri no, non aderendo alla proposta di un nuovo sistema simbolico-valoriale. Altri autori hanno ripreso gli studi di Durkheim e di Merton, similmente a quanto ha sviluppato Cohen, individuando tre specifiche tipologie di subcultura giovanile delinquenziale: la subcultura criminale, la subcultura conflittuale e la subcultura astensionista. È la teoria delle bande delinquenti, formulata dai sociologi americani Richard Cloward e Lloyd Ohlin, secondo cui le subculture giovanili sono originate dal bisogno di aggregazione in una struttura sociale che impedisce ai soggetti meno abbienti, appartenenti alla classe operaia, di raggiungere le mete socialmente accettate e accedere ai ruoli sociali legittimi con mezzi leciti. La subcultura criminale lega giovani appartenenti a bande criminali dedite a piccoli reati (furto, estorsione, rapina, ecc.), mezzi illegali per procurarsi denaro, nelle quali è possibili accedere a una carriera delinquenziale; la subcultura conflittuale è, in assenza di criminalità organizzata, caratterizzata dalla violenza come mezzo di ascesa sociale, in risposta alla deprivazione sociale, per distruggere i simboli dell’esclusione nella cultura dominate e per trovare nel conflitto con altre bande, un proprio status sociale e uno spazio fisico dove vivere; infine, la subcultura astensionista, caratterizzata dal rifiuto sociale e culturale di tutto ciò che ha creato frustrazione, rispondendo in modo controculturale attraverso la fuga e il rifugio nell’uso di sostanze psicoattive (alcol e altre sostanze). In quest’ultimo caso la sconfitta è doppia, in quanto non è stato possibile adattarsi né alla cultura dominante, né a una delle altre possibili subculture e, pertanto, si è rinunciato sia ai mezzi, sia alle mete di queste. Altro autore significativo nell’indagine sulla devianza è Talcott Parsons, principale esponente della corrente struttural-funzionalista, o funzionalismo sistemico, basata sul funzionalismo di Durkheim, con collegamenti a Max Weber. A Parsons si deve lo sviluppo della teoria del controllo sociale, con cui viene indicato l’insieme delle norme e dei valori di una società e le relative sanzioni necessarie per farli rispettare, teoria posta all’interno di una

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più ampia comprensione della società e dei problemi dell’integrazione. La lettura sociale formulata da Parsons si basa sull’assunto che ogni sistema, per sopravvivere e per progredire, deve sviluppare quattro funzioni: la funzione adattiva, la funzione del raggiungimento dei fini, la funzione integrativa e la funzione di mantenimento del modello latente. La società è un sistema complesso formato da sottoinsiemi integrati e al suo interno la famiglia e la scuola (agenzie educative) ne svolgono la trasmissione dei valori generali all’interno della società (funzione di mantenimento dei modelli latenti), promuovendo la socializzazione5 dei suoi membri e garantendo stabilità al sistema sociale. In questo approccio la devianza si presenta come un difetto di socializzazione nell’interiorizzazione dei valori e il comportamento deviante è “la tendenza motivata di un soggetto agente a comportarsi contravvenendo a uno o più modelli normativi istituzionalizzati” (Parsons, 1981, p. 260). “La devianza, sia che si tratti di nevrosi o di malattie psico-somatiche, di criminali o di altro, è il risultato di meccanismi di tipo psichico o che si trovano nell’ambito delle relazioni madre-bambino” (Berzano & Prina, 2018, p. 90).

Questo totale o parziale difetto nell’interiorizzazione dei valori può riferirsi sia a un difetto della socializzazione primaria, quella sviluppata nei primi anni di vita durante la formazione della personalità, quando si apprendono i valori e le norme basilari e si sperimentano i primi ruoli, sia alla socializzazione secondaria, che avviene lungo il corso della vita, nel momento in cui la persona apprende nuovi ruoli e competenze sociali specifiche entrando in contatto con i diversi contesti. Le cause del comportamento deviante sono così tutte ricondotte alla dimensione della socializzazione sperimentata sin dall’infanzia, mentre non sono presi in considerazione altri elementi come lo status sociale, la stratificazione sociale e le disuguaglianze. Questa interpretazione della devianza, come esperienza individuale di disadattamento, “rende i comportamenti devianti marginali al sistema e tali da poter essere corretti con i meccanismi di controllo sociale” (Berzano & Prina, 2018, pp. 90-91). Ne consegue una legittimazione dei rapporti di potere anche quando risultano essere sbilanciati, ad esempio in senso repressivo. La teoria della scelta razionale (rational choice perspective) sviluppatasi all’interno del paradigma razionale ha tentato di collegarsi alla Scuola classica, riproponendo la concezione del comportamento deviante come risultato di scelte libere e indipendenti da influenze esterne, un’azione criminale razio-

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Il concetto di socializzazione era già stato introdotto da altri sociologi a indicare il processo di integrazione sociale degli individui.

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nale dettata dalla possibilità di avere vantaggi infrangendo le norme sociali (Berzano & Prina, 2018). La novità interpretativa apportata dalla teoria della scelta razionale non è rispetto al contenuto, quanto al metodo di studio: viene infatti sviluppato un approccio aperto alla ricerca empirica, confutabile, in cui l’analisi della “mentalità criminale” (Berzano & Prina, 2018, p. 23) prende in considerazione anche elementi esterni al soggetto, nonostante gli assunti inziali di un soggetto libero nelle proprie scelte. Valorizzando nel comportamento deviante l’opportunità di ottenere maggiori benefici con strumenti illegali, al posto di quelli legali, questa teoria ha contribuito a mettere in discussione l’interpretazione patologica della devianza, negando l’esistenza di elementi psicologici o sociali che distinguano l’individuo deviante da ogni altro soggetto. Sempre nell’ambito delle interpretazioni sociologiche della devianza, ma all’interno dell’approccio interazionista simbolico, negli anni Sessanta è stata sviluppata la teoria dell’etichettamento (Labelling theory) che vede nei gruppi sociali i responsabili della creazione del soggetto criminale. Secondo una impostazione classica, la devianza si manifesterebbe come un comportamento in violazione alle norme del gruppo sociale, la cui disapprovazione è stata indotta dalla non osservazione delle aspettative sociali. Al contrario, la teoria dell’etichettamento mette in discussione la definizione del comportamento deviante, etichettato come tale da chi detiene abbastanza potere per affermare una tale definizione (il gruppo dominante): al contrario, il comportamento deviante sussisterebbe esclusivamente come risposta sociale scaturita nell’interazione tra un soggetto e il contesto e mai in termini assoluti. Sono i gruppi sociali che interpretano il comportamento contrario alle loro norme come deviante e innescano un processo di creazione della devianza, basato sul giudizio, talvolta introiettato fino a far parte dell’identità della persona etichettata che si identifica come deviante. “Non si dà devianza al di fuori di una relazione che comprende la definizione di ciò che è deviante, la violazione e l’attribuzione di un’etichetta di devianza del soggetto che viene pubblicamente individuato nei suoi comportamenti non conformi” (Sbraccia & Vianello, 2010, p. 35).

Attraverso questa chiave di lettura Howard Becker (2003) approfondì il concetto di carriera criminale, intuendo che le motivazioni devianti non preesistono al comportamento. Nel proprio percorso esistenziale il soggetto etichettato come deviante trova la motivazione dei propri atti in seguito al proprio comportamento e una volta che l’etichetta di deviante gli sarà stata attribuita e introiettata in termini identitari, difficilmente potrà essere rimossa, ma continuerà ad agire come stigma, restringendo il suo possibile

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margine d’azione (lecite opportunità di vita). Nemmeno gli enti preposti a rimuovere o limitare le stigmatizzazioni sociali (come le istituzioni totali) sono immuni a questa attribuzione, poiché nel loro esercizio contribuiscono indirettamente al processo di formazione dell’identità deviante. Unica possibilità d’uscita, rispetto ad attività lecite sempre più precluse (es. lavoro), è l’associazione con altri soggetti stigmatizzati, con i quali verrà condivisa la ripetizione del comportamento deviato, se non la possibilità di un passaggio da questo a forme di devianza più gravi. Per l’approccio promosso dalla teoria dell’etichettamento, le analisi statistiche sulla devianza perdono di significatività, in quanto non corrispondono al dato complessivo, che dovrebbe includere le diverse forme di devianza (primaria e secondaria)6, ma che al contrario si limitano a registrare esclusivamente quella devianza già codificata dagli agenti preposti al controllo sociale. Al contrario, sarebbe necessario approfondire l’analisi sulla reazione sociale, dei modi in cui questa è esercitata e delle forme di esclusione sociale messe in atto. In questo quadro generale, dopo un ampio spazio dedicato ai risultati della sociologia, è necessario dedicare qualche parola all’interpretazione

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Edwin Lemert argomentò il motivo per cui alcuni soggetti sono definiti devianti, mentre altri no, a partire dal rifiuto dell’idea di patologia come discriminante per la suddivisione degli esseri umani in “normali” e “patologici”. Il sociologo ipotizzò che il controllo sociale fosse esso stesso implicato nella stabilizzazione dei comportamenti devianti e nella nascita del soggetto deviante e, per spiegarlo, distinse due concetti: quello di devianza primaria e quello di devianza secondaria. La devianza primaria consiste in un allontanamento più o meno temporaneo del soggetto dai valori o dalle norme sociali e giuridiche, che non influisce sulla ridefinizione di sé per chi le mette in pratica, poiché non viene considerato un comportamento significativo. Al contrario, la devianza secondaria consiste in un processo di introiezione sempre più importante dell’etichetta di deviante, a seguito del giudizio negativo sul comportamento, fintantoché il soggetto non adeguerà il proprio ruolo sociale a quello deviante. Non si tratta della stessa categoria, poiché le istituzioni del controllo sociale non definiscono come devianti tutti gli appartenenti alla prima categoria (devianza primaria). L’identità deviante si formerà esclusivamente nei soggetti che, in diverse occasioni, saranno ripetutamente posti di fronte a una reazione sociale negativa, di disapprovazione, di isolamento, di esclusione sociale, di fronte alle loro forme di devianza primaria. Come conseguenza di queste sanzioni sociali, il soggetto deviante primario modificherà la propria psiche, compiendo un’interazione che in una qualche misura influisce sull’autodefinizione del sé (Valenti, 2007), rendendo potenzialmente sistematici quegli episodi di devianza primaria, che tutti gli esseri umani vivono in forme occasionali o ricorrenti. Per la teoria dell’etichettamento perdono d’importanza le cause dell’atto deviante, atti comuni privi di conseguenze nella vita di un soggetto non stigmatizzato socialmente e non inserito in un processo di definizione del proprio sé; al contrario diventano importanti le reazioni sociali messe in atto dalla società, che in un qualche modo concorrono alla creazione del soggetto deviante. Tale suddivisione fra devianza primaria e devianza secondaria mette in luce, inoltre, l’esistenza di una soglia di tolleranza nei confronti della devianza, superata la quale il soggetto viene stigmatizzato poiché scatta un allarme sociale.

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psicologica della devianza. Le cause del comportamento deviante vengono ricercate studiando i comportamenti e la personalità del soggetto deviante, sotto vari profili: qui si ricordano alcune delle ricerche svolte in questo ambito, all’interno della scuola comportamentista, della prospettiva psicoanalitica (l’eccesso di senso di colpa di Sigmund Freud, il mancato sviluppo dell’inibizione morale di Melanie Klein e le successive ricerche di Donald Winnicott) e della psicologia sociale. Il comportamentismo ha affrontato la questione della devianza, approfondendo la correlazione tra frustrazione e aggressività negli studi condotti da John Dollard e Neal Miller, benché aggressività e devianza o aggressività e criminalità non siano concetti sovrapponibili (Valenti, 2007). Secondo questi studi il comportamento aggressivo e lo stato di frustrazione sarebbero variabili dipendenti e causa l’uno dall’altra. Dai risultati ottenuti è stata enfatizzata la presenza di una scarsa tolleranza alle frustrazioni nei soggetti criminali o di una loro più frequente esposizione alle frustrazioni, rispetto ad altri soggetti, tanto da comportare una maggior propensione dei soggetti criminali ad assumere atteggiamenti aggressivi. La psicoanalisi ha ricondotto la questione della devianza all’interiorità del soggetto, nello sviluppo dell’apparato psichico, rappresentato dal modello Es, Super-io e Io: lo sviluppo psicosessuale (pulsioni), lo sviluppo dei valori morali (autocontrollo) e quello del contatto con la realtà interna ed esterna. Ogni uomo, secondo l’approccio psicoanalitico, deve passare la fase edipica della vita, dove avviene la formazione più consistente del Super-io, la struttura di controllo morale della persona. Il soggetto deviante non avrebbe portato a termine questo compito, avendo così sviluppato un Super-io fragile, “espressione di una difettosa interiorizzazione delle norme causata dall’identificazione con una figura genitoriale particolarmente carente o negativa” (Valenti, 2007, p. 34), come l’assenza della funzione del Padre simbolico di Lacan, cioè il riferimento fondativo delle norme. Il comportamento deviante e il reato sarebbero così espressione di un ipotetico modello virile forte, in opposizione a quello introiettato di una figura paterna debole, ma anch’esso sarebbe caratterizzato da uno stato di fragilità, poiché “non essendo supportato da un’adeguata interiorizzazione, si irrigidirebbe nella stereotipia ed esploderebbe nell’agito aggressivo” (Valenti, 2007, p. 34). Il comportamento deviante, in quest’ottica, non sarebbe altro che una dimostrazione di virilità, basata su una fragilità del soggetto. Freud sviluppò l’interpretazione psicanalitica della devianza dell’eccesso di senso di colpa, secondo cui il soggetto metterebbe in atto azioni devianti come tentativo di provare sollievo in presenza di un opprimente senso di colpa. Quest’ultimo avrebbe origine nel complesso edipico irrisolto (uccidere il padre e avere rapporti sessuali incestuosi con la madre). Il processo messo

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in atto dal soggetto sarebbe, pertanto, quello di compiere azioni criminose, per poter essere puniti e, così, alleviare il senso di colpa, non legato al fatto compiuto in quanto tale, ma simbolicamente collegato a quello irrisolto nel passato. Questa interpretazione psicoanalitica analogamente riguarderebbe anche il soggetto criminale privo di inibizioni morali, situazione di cui si è occupata la psicoanalista Klein. Essendo lo sviluppo delle inibizioni morali strettamente collegato alla compiuta risoluzione positiva della fase edipica del bambino, durante la quale ogni bambino mostra tendenze antisociali, anche in questo caso vengono lì ricercate le motivazioni del comportamento deviante privo di senso di colpa e angoscia. Per Klein questi, infatti, sarebbero solo apparentemente assenti, in quanto percepiti come troppo intensi: l’angoscia per i propri impulsi e l’aggressività associata alle frustrazioni non risolte durante lo sviluppo affettivo, accentuate da una strutturazione rigida del Super-io crudele, sono rimossi dalla propria coscienza, benché continuino a influire sulle scelte della persona, anche nei comportamenti criminali. Winnicott riprese le ricerche sulla mancanza del senso di colpa, collegandola alla tendenza antisociale. All’analisi squisitamente intrapsichica svolta da Klein, Winnicott aggiunge un fattore esterno: la deprivazione affettiva vissuta durante l’infanzia da parte del soggetto che, in futuro, compirà atti antisociali, interpretati psicoanaliticamente come tentativi di guarigione (Valenti, 2007) rispetto a un amore non ricevuto da parte dell’ambiente circostante durante i primi anni di vita, una manifestazione dei propri bisogni e una richiesta di cure. La deprivazione d’affetto nei primi anni di vita è stata ampiamente affronta dalla psicologia sociale, in particolare negli studi sull’attaccamento di John Bowlby. In una prospettiva sviluppata a partire dagli stili di attaccamento da lui formalizzati (sicuro, insicuro evitante, insicuro ambivalente, insicuro disorganizzato), il comportamento aggressivo e deviante sarebbe la manifestazione della distruzione dei legami di attaccamento per carenza di cure e la difficoltà a costruire nuove relazioni affettive. Da ultimo, nella prospettiva ecologica elaborata da Urie Bronfenbrenner (1986), viene ribadita l’esistenza di un adattamento reciproco fra soggetto e ambiente, pertanto anche il comportamento deviante può essere compreso solo a partire da questa correlazione, composta da complesse costruzioni sociali, e non da fattori patologici individuali (Resico, 2010).

1.3 Interpretare la marginalità sociale È certamente più complesso ripercorrere l’evoluzione del pensiero sulla marginalità, rispetto a quello riguardante la devianza, tenendo conto di

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una maggiore “sfuggevolezza” dell’oggetto d’analisi, a partire dalla messa a fuoco del problema. Esiste, infatti, una significativa disomogeneità dei fenomeni di marginalità, nelle multiformi manifestazioni in cui essi si presentano, “avventure umane” (Migliori, 2007, p. 13) accomunate da episodi di esclusione sociale e da disuguaglianze, a cui non di rado seguono discriminazioni e stigma. Da un punto di vista lessicale si parla di marginalità in riferimento alla condizione di chi è distante dal centro o, nello specifico della marginalità sociale, di chi è ai margini della società. In altri termini, la marginalità sociale è la condizione di chi è marginale rispetto al centro del sistema sociale di riferimento, quasi si trattasse di un concetto topografico riguardante la posizione reciproca di diversi elementi: coloro che sono al centro, ovvero i soggetti integrati, e coloro che sono ai margini, ai confini del sistema sociale, indicati come “marginali”. Per molti studiosi parlare di marginalità e di fenomeni di marginalizzazione (o di emarginazione) equivale a interrogarsi sulla società e sui suoi processi, e non limitarsi a riflettere sulla disuguaglianza sociale. La marginalità può, infatti, essere descritta come il risultato di un processo di esclusione7 di un soggetto o di un gruppo che, all’interno di un 7 Robert Castel (2003) problematizza l’uso del termine esclusione, considerato troppo generico per via dell’eterogeneità dei suoi usi. “Parlare di esclusione finisce per rendere autonome situazioni limite che hanno senso solo se vengono ricollocate in un processo” (p. 195), in quanto riguardano “lo stato di tutti coloro che si trovano fuori dai circuiti vivi degli scambi sociali” (p. 195), una definizione analoga a quella di marginalità. Castel sottolinea che “questi «stati» non hanno significati in se stessi. Sono il risultato di traiettorie diverse di cui portano i segni”. L’esclusione palesa una degradazione avvenuta rispetto a una condizione precedente, solitamente di vita integrata. Il sociologo propone, pertanto, tre usi più rigorosi del termine esclusione: nel corso della storia le pratiche di esclusione hanno significato (1) l’allontanamento totale della comunità, sia come espulsione (es. ebrei, mori spagnoli), sia attraverso la condanna a morte (es. eretici o criminali) o il genocidio, forma estrema di esclusione come “estirpazione totale” (p. 203); (2) la costruzione di “spazi chiusi estranei alla comunità ma nel cuore stesso della comunità” (es. ghetti, lazzaretti, manicomi, carceri, apartheid); (3) l’imposizione di uno status speciale che permette ad alcune categorie della popolazione “di coesistere nella comunità, ma le priva di determinati diritti e della partecipazione ad alcune attività sociali” (p. 203) (es. indigeni americani durante la conquista dell’America, privazione del diritto di voto femminile). L’esclusione così schematizzata da Castel “è il risultato di procedure ufficiali e rappresenta un vero e proprio codice normativo” (p. 204), discriminazioni ufficiali e codificate. Gli usi impropri del termine esclusione sono, invece, il risultato di vulnerabilità create, ad esempio, dal degrado nella perdita del lavoro, per il quale sarebbe più appropriato il termine precarizzazione, o da altri processi di destabilizzazione. Le categorie della popolazione impropriamente definite escluse, tuttavia, “subiscono un deficit di integrazione, con riferimento al lavoro, all’abitazione, all’educazione, alla cultura ecc.” (pp. 204-205) e sono realmente minacciate di esclusione: i processi di marginalizzazione possono “sfociare nell’esclusione propriamente detta, cioè in un trattamento esplicitamente discriminatorio di tali categorie” (p.

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determinato contesto storico-geografico, viene percepito come diverso dal resto della collettività. Sin dagli albori della civiltà umana, ai tempi dei gruppi nomadi di cacciatori e di raccoglitori, allontanati dai territori più rigogliosi e fertili dai popoli stanziali, e spinti verso quelli maggiormente inospitali, le società mettono in atto processi di esclusione, che creano disuguaglianze e determinano marginalità sociale. Gli stranieri, i nomadi, i mendicanti, coloro che esercitavano mestieri vili (come l’affossatore, il macellaio, l’usuraio, la prostituta, il menestrello, ecc.), gli eretici, i pagani, gli ebrei e altre minoranze etniche, i nativi americani, le streghe, i folli, i lebbrosi, i disabili, gli omosessuali, i figli illegittimi, i poveri, tutti costoro hanno vissuto un processo di marginalizzazione in determinati contesti storici e geografici. Esiste, tuttavia, un altro modo di leggere la marginalità, non come manifestazione tipica di tutta la storia sociale dell’uomo, ma in quanto specifica espressione delle trasformazioni in atto nelle società industriali e postindustriali, dello sviluppo del capitalismo, dell’urbanizzazione e, più in generale, del processo di modernizzazione. I due diversi modi di intendere la marginalità, spesso utilizzati in maniera sovrapposta, hanno in più occasioni generato ambiguità, tanto che a questa categoria viene attribuita “una storia complessa e contrastata in quanto da una parte è considerata centrale per interpretare le disfunzioni della modernità (anche in chiave di critica radicale) e dall’altra è attaccata per l’assenza di rigore scientifico” (Giardiniello, 2016, p. 85), una sorte condivisa con altre categorie analoghe, come nel caso dell’esclusione (Tuorto, 2017). Così, mentre per alcuni studiosi la marginalità sociale è una condizione intimamente connessa al sistema economico contemporaneo, strettamente connessa alla struttura della disuguaglianza sociale e ai rapporti fra classi sociali in termini di reddito e di status sociale, per altri la marginalità abbraccia ben più ampi orizzonti rispetto alla sola dimensione economica, essendo legata ai “modelli culturali di accettazione o di rifiuto della diversità che ogni individuo ha interiorizzato nel proprio processo formativo” (Ulivieri, 1997, p. IX), ammettendo così anche forme di marginalità non riconducibili alla povertà, sorte a partire da un rifiuto, negazione o rimozione delle diversità, che generano disuguaglianze e marginalità (Caldin, 2018). Chiara Giustini distingue tre diverse esperienze di marginalità non omogenee fra loro, associate a vissuti diversi, classificate in un’unica ampia categoria teorica. Secondo questa impostazione, vi sarebbero soggetti mar-

205), secondo una delle modalità presentate nella precedente tripartizione (come può avvenire nei riguardi delle persone senza dimora), ma solo in forza di ciò possono essere considerate categorie escluse e non per via dei processi di destabilizzazione (o di marginalizzazione) che li hanno generati, a meno di non confondere tra loro due logiche (processi) eterogenee.

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ginali che vivono la condizione di marginalità sin dalla nascita, esperienze di soggetti marginali che subiscono la condizione di marginalità a causa di meccanismi di esclusione sociale, e – infine – esperienze di soggetti marginali tali poiché in contrapposizione e in contestazione alla/con la cultura dominante (Giustini & Tolomelli, 2012). Ciò rende più evidente la permeabilità esistente fra questa categoria e quella di devianza, affrontata all’inizio di questo capitolo. Quella di Giustini non è, tuttavia, l’unica classificazione possibile: Gramigna e Righetti (2001) rappresentano le esperienze di emarginazione secondo diversi raggruppamenti, strutturati in quattro categorie teoriche: i marginali “per forza”, i marginali “per definizione”, i marginali “per natura” e i marginali “per protesta”. In questo caso la classificazione di gruppi omogenei di marginalità è funzionale allo sviluppo delle proprie analisi. Ad esempio, la schiavitù e la servitù8, interpretate come marginalità forzate, mostrano assieme in che termini il processo di marginalizzazione, posto in essere da un gruppo sociale su un altro, sia funzionale al mantenimento dei privilegi del gruppo dominante, ovvero come “la schiavitù sia funzionale alla libertà, proprio come la povertà alla ricchezza o, detto in termini attuali, la marginalità alla «normalità»” (Gramigna & Righetti, 2001, p. 41). Vi è un vero e proprio sapere (nel caso della schiavitù esplicitato da alcuni filosofi greci) che sostiene la necessità che alcuni uomini siano mezzi, per raggiungere il fine di altri uomini (essere liberi, cioè felici). A ciò si accompagna l’interiorizzazione del pregiudizio vissuto dal gruppo marginale, fintantoché il pregiudizio (idea) diventa essenza (idea ontologica) e, conseguentemente, quest’ultima diventa identità, come nel caso del servo, che fa del suo essere servile un proprio atteggiamento mentale e un tratto 8 Per gli schiavi, privi di libertà materiale, sottoposti a una marginalità forzata, tale la condizione è stata messa in crisi con la nascita del Cristianesimo e della sua dirompente risignificazione del termine libertà, posta su un piano interiore e spirituale, anziché su quello squisitamente sensibile del pensiero greco e della legge romana. Questo mutamento culturale ha permesso allo schiavo – privo di un‘identità personale – di considerarsi (ed essere) libero interiormente e, nei secoli, di concretizzare questa libertà ideale sul piano materiale e giuridico. Alla figura dello schiavo, seguì quella del servo, caratterizzato dalla condizione servile che implica l’interiorizzazione del pregiudizio e, di riflesso, la nascita di un’identità. “Assai più dello schiavo, il servo sembra interiorizzare il pregiudizio che accompagna la sua situazione, anche perché il Cristianesimo, ormai istituzionalizzato, ha perso la sua carica rivoluzionaria separando sempre più nettamente l’uguaglianza dinnanzi Dio, che è certa ma spetta alla vita ultraterrena, dalla diseguaglianza su questa terra, che altro non è può essere se non il frutto di un imperscrutabile disegno del cielo” (Gramigna & Righetti, 2001, p. 43). L’immagine chiarificatrice di questa diversità è quella del guerriero fatto prigioniero e schiavo, ma subordinato al legittimo proprietario esclusivamente negli atti esteriori e non nella propria dignità, messa a confronto con quella dell’uomo servile, privo di dignità, propenso alla sottomissione verso il padrone.

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identitario. Altro caso è lo straniero, collocato tra gli esempi di marginalità “per definizione”, immagine delle molte contrapposizioni esistenti tra una cultura dominante e una cultura altra (greci-barbaro, romano-barbaro, cristiano-pagano, civile-selvaggio), spesso non riconosciuta nemmeno come tale. Lo straniero o il barbaro mostrano, al contempo, sia il rafforzamento della propria identità, sia il relativismo della marginalità: mutando l’assetto storico-geografico, muta il significato del termine straniero, poiché l’identità di questi nasce “da una visione etnocentrica sostanzialmente intollerante e diffidente sin dall’inizio” (Gramigna & Righetti, 2001, p. 46). Dal significato originario di estraneo o esterno, lo straniero diventa il diverso, il lontano, il nemico e l’inferiore, in quanto “in errore, rozzo, bestiale, cattivo: per questo deve essere schiavizzato, cristianizzato, civilizzato” (Gramigna & Righetti, 2001, p. 46). Non essendo un pari, lo straniero può solo essere colonizzato e, con lui, non vi è alcuna possibilità di dialogo. In questa articolata suddivisione, proposta da Gramigna e Righetti, le persone senza dimora emergono nella società contemporanea come la rappresentazione emblematica della marginalità sociale, il marginale “per definizione”, “[…] giunto fino a noi, sperimentando fino in fondo sulla propria pelle i benefici della società democratica matura. Niente più internamento forzato, niente più lettere di denuncia che comportino la carcerazione senza processo; ma la libertà di morire per strada, in stazione, tra i rifiuti, di fame o di freddo, di malattia o per mano di qualche folle «giustiziere» notturno” (Gramigna & Righetti, 2001, p. 49).

La persona senza dimora vive una condizione definita di povertà estrema, in quanto situata al di sotto di ciò che viene considerato il minimo livello sostenibile per la propria sussistenza, ben oltre la soglia degli indici statistici riguardanti la povertà (relativa e assoluta), come verrà meglio approfondito nel capitolo successivo. L’espressione “senza dimora” rimanda direttamente alla mancanza di una casa, elemento materiale incluso fra le necessità principali dell’essere umano e collocato tra i bisogni di sicurezza, alla base della piramide dei bisogni di Maslow. Colui che vive una deprivazione abitativa così radicale, svela il nesso esistente fra strutture urbane e disgregazione dei gruppi sociali, come risulta anche dai racconti riguardanti ladri, prostitute, rapinatori e altri soggetti “fuori margine”, oggetto di studio di Giulio Salierno (2001), persone accomunate da una vita nei “quartieri del disagio”, a servizio della criminalità come manovalanza, caratterizzate da forti disuguaglianze prodotte dal capitalismo, nei termini di ingiustizie sociali, disoccupazione e sfruttamento,

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che finiscono per alimentare comportamenti considerati devianti. Maurizio Bergamaschi (2016), nei suoi studi di sociologia urbana, riprende il discorso sulla povertà proprio a partire dai volti della povertà urbana, tra cui sono presenti le persone senza dimora. All’interno di un ampio discorso sulle fratture fra il centro e le periferie, egli evidenzia come queste ultime siano diventate ancor più i luoghi dove si manifestano le distanze sociali e territoriali delle comunità, le quali appaiono sempre più socialmente frammentate, in termini economici e di capacità di collaborazione. Nel caso delle persone senza dimora, Bergamaschi critica l’uso strumentale di una lettura escludente del fenomeno, che comporta una sua separazione dai processi di precarizzazione e di vulnerabilizzazione, senza i quali “il senza dimora viene radicalmente de-socializzato e de-politicizzato” (Bergamaschi, 2017, p. 9), concretizzando quell’esclusione non agìta nella realtà. Non si fa diretto riferimento alla nozione di marginalità, ma all’analoga categoria dell’esclusione, la quale avrebbe eroso buona parte del sapere sviluppatosi attorno alla nozione di povertà e, una volta sovrapposta o sostituitasi a quest’ultima, avrebbe esaltato gli aspetti immateriali del disagio e della vulnerabilità, a discapito di quelli materiali, rendendo così la persona senza dimora “fuori luogo”, in quanto priva di uno spazio sociale condiviso con il resto della popolazione e, per questo, diversa e separata, oggetto di interventi specifici e mirati, creando artificiosamente al contempo “uno spazio sociale coeso e impermeabile rispetto a ciò che gli è esterno” (il resto della società), oltre “ad alimentare uno sguardo vittimizzante” (Bergamaschi, 2017, p. 9) sulla persona senza dimora, privata perfino della capacità di agire (agency). L’approccio metodologico utilizzato dalla sociologia (e microsociologia) urbana segue il percorso inaugurato dalla Scuola di Chicago, interessata ad indagare i fenomeni di devianza e di marginalità, in particolare a partire al contesto americano di inizio Novecento, durante un importante processo di urbanizzazione e industrializzazione. All’interno di questa scuola, orientata ad approfondire i processi di marginalizzazione, più che le categorizzazioni di particolari gruppi sociali marginalizzati, William Thomas propose una lettura della marginalità incentrata sull’elaborazione simbolica del soggetto che vive il processo di marginalizzazione: “[…] nessun individuo o gruppo, anche se oggettivamente deviante in relazione a certe determinanti culturali, è deviante senza che egli definisca la sua situazione come tale. Ugualmente si potrebbe affermare che marginale non è di per sé il povero, il disoccupato, il diverso, il giovane di periferia, il frustrato ecc. La definizione di marginalità non si dà su un individuo o su un fatto in sé, ma su una situazione definita “rispetto a”, e sulle sue conseguenze. Il povero, il giovane sbandato, il precario possono ben definire la loro situazione rispetto

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al loro stato, ma non per questo essi hanno definito la loro marginalità come situazione, anche se la definizione del loro stato può portare ad una vera e propria perdita di identità” (Berzano & Prina, 2018, p. 69).

Nessun individuo o gruppo è marginale se non si percepisce o definisce la propria condizione come tale, e – nel momento in cui definirà la propria condizione come marginale in riferimento a qualcosa (es. l’accesso ai diritti civili) – allora saranno reali le conseguenze di quella situazione per l’individuo o il gruppo. Secondo questo filone di studi, nella definizione marginalità agirebbero almeno tre elementi: “fattori condizionanti oggettivi (ad esempio, crisi del mercato del lavoro), effetti individuali oggettivi (ad esempio, un disoccupato), conseguenze soggettive (presa di coscienza della propria marginalità lavorativa)” (Berzano & Prina, 2018, p. 69). Così, se da una parte l’intreccio fra marginalità e altri elementi specifici – nell’esempio riportato sopra, il lavoro – non può essere banalizzato nella riflessione sulle cause e sugli effetti (marginalità come effetto del mercato del lavoro e della disoccupazione o sua causa?), dall’altra nemmeno si può scadere nel considerare i processi di marginalità come processi deterministici. Se alla base della marginalità esistono situazioni dinamiche, a partire dalla sua stessa composizione multifattoriale, allora queste negano ogni possibile interpretazione fatalistica. La marginalità in sé, come concetto astratto, aprioristico, trascendente, non ha alcun significato, ma, considerata come “relativa e multiforme, è la rappresentazione individuale della propria emarginazione” (Berzano & Prina, 2018, p. 70). Tra i soggetti coinvolti nei processi di marginalizzazione vengono incluse anche le organizzazioni sociali. Secondo gli studi sul potere e le tecnologie di potere, queste non sono distaccate o neutrali, ma a loro può essere attribuito un importante ruolo rispetto alla costruzione del sapere, l’esercizio del potere e la disciplina, elementi approfonditi a partire dagli studi sulla follia e sulla detenzione di Michel Foucault. In quelle analisi egli approfondì i meccanismi di potere, considerando fra questi sia i dispositivi di esclusione, una rete di elementi eterogenei9 che separa e distingue, allontana e segrega gli individui, come i dispositivi ideati per affrontare la lebbra (Foucault, 2007), sia i meccanismi di inclusione che analizzano e ricercano l’ordine razionale, come quelli ideati per affrontare la peste10, i quali hanno rafforzato 9

Foucault fa alcuni esempi, come le leggi, le misure amministrative, le istituzioni, le strutture architettoniche, i discorsi, gli enunciati scientifici, includendo in questo insieme sia l’esplicito, sia l’implicito. 10 “Alla peste risponde l’ordine: la sua funzione è quella di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia, che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si

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il binomio normale e patologico (o normale e deviato) sviluppatosi nell’ambito delle scienze mediche e, successivamente, in quello politico di controllo dei corpi. “I nostri sistemi di tutela sociale assoggettano gli individui a un determinato modo di vivere, e ogni persona o ogni gruppo che, per una ragione o per un’altra, non voglia o non possa accedere a questo modo di vita si trova emarginato proprio dal gioco delle istituzioni” (Foucault, 1998, pp. 189-190). Il potere non è, tuttavia, univoco e imposto dall’alto. I processi che generano potere non sono riconducibili a una singola istituzione (es. lo Stato), quanto a un reticolato diffuso che investe tutti, poiché le dinamiche di potere sono onnipresenti, come Foucualt stesso spiega nel periodo più maturo della sua ricerca. “Con potere non voglio dire “il Potere”, come insieme d’istituzioni e di apparati che garantiscono la sottomissione dei cittadini in uno Stato determinato. Con potere, non intendo nemmeno un tipo di assoggettamento, che in opposizione alla violenza avrebbe la forma della regola. Né intendo, infine, un sistema generale di dominio esercitato da un elemento o da un gruppo su un altro, ed i cui effetti, con derivazioni successive, percorrerebbero l’intero corpo sociale. L’analisi in termini di potere non deve postulare, come dati iniziali, la sovranità dello Stato, la forma della legge o l’unità globale di una dominazione, che ne sono solo forme ultime. Con il termine potere mi sembra che si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e scontri incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema […] La condizione di possibilità del potere, o comunque il punto di vista che permette di rendere intellegibile il suo esercizio, fin nei suoi effetti più “periferici”, e che permette anche di utilizzare i suoi meccanismi come griglia di intelligibilità in campo sociale, non bisogna cercarla nell’esistenza originaria di un punto centrale, in un centro unico di sovranità dal quale si irradierebbero delle forme deviate e discendenti; è la base mobile dei rapporti di forza che inducono senza posa, per la loro disparità, situazioni di potere, ma sempre locali ed instabili. Onnipresenza del potere: non perché avrebbe il privilegio di raggruppare tutto la sua invincibile unità, ma perché si produce in ogni istante, in ogni punto, o piuttosto in ogni relazione fra un punto ed un altro. Il potere è dappertutto; non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove. E “il” potere, in moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un potere onnipresente e onnisciente, che si suddivide, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade. Contro la peste che è miscuglio, la disciplina fa valere il suo potere che è di analisi” (Foucault, 2007, p. 215).

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quel che ha di permanente, di ripetitivo, di inerte, di autoriproduttore, non è che l’effetto d’insieme che si delinea a partire da queste mobilità, la concatenazione che si appoggia su ciascuna di esse e cerca a sua volta di fissarle. Bisogna probabilmente essere nominalisti: il potere non è un’istituzione, e non è una struttura, non è una certa potenza di cui alcuni sarebbero dotati: è il nome che si dà ad una situazione strategica complessa in una società data” (Foucault, 1984, pp. 81-83).

“Il potere non limita ma incalza” sintetizza Valeria Pirè (2014, p. 58), in quanto – nell’elaborazione proposta da Foucault – non è interpretabile come potere repressivo (obbligante e impedente), bensì come potere produttore (manovrante e disciplinante). Nello spazio delle relazioni di potere viene così esercitata la biopolitica, la quale riguarda i rapporti fra tutti i soggetti della società e non solo alcuni di essi. In questa amministrazione dei corpi, che determina anche la costruzione del normale e dell’anormale e si esprime attraverso diversi dispositivi, si origina la marginalità sociale: chiunque non rientri nei parametri della norma definita dalla pratica biopolitica, viene estromesso dall’orizzonte della normalità, per rientrare in quello dell’anormalità da disciplinare e, così, essere marginalizzato.

1.4 L’approccio pedagogico alla marginalità e alla devianza La marginalità e la devianza afferiscono a un’ampia gamma di situazioni di svantaggio, di disagio, di vulnerabilità e di povertà (Migliori, 2007), rientranti nel campo concettuale delle diversità e del dis-ordine11. Queste situazioni, spesso considerate disfunzionali in quanto prive di aderenza alle norme sociali e interpretate alla luce di rigide categorie polarizzate (normali e anormali, sociali e antisociali, inclusi ed esclusi, integrati ed emarginati), 11 “La diversità, attraverso la pratica dell’internamento, assume dunque il volto della follia, coagulando intorno a tale definizione una molteplicità di soggetti caratterizzati da una sostanziale eterogeneità: la popolazione che affollava gli spazi degli istituti deputati all’internamento era ascrivibile alle più svariate configurazioni sociali di ribelli, fannulloni, bugiardi, ubriaconi, mendicanti, impudichi, bestemmiatori, profanatori, libertini, deliranti. La possibilità di costringere assieme tante e differenti figure nello spazio coercitivo della reclusione dell’internamento, è data dal cambiamento della percezione sociale intorno al rapporto tra povertà e lavoro e dalla conseguente codificazione morale dei comportamenti riconducibili al rifiuto di un ordine economico e sociale che va affermandosi: la dimensione della diversità si colloca nell’orizzonte economico e morale della necessità del lavoro e della regolamentazione di quella popolazione inoperosa che costituisce un costante pericolo per l’ordine pubblico” (Barone 2011, pp. 26-27).

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hanno stimolato gli studi delle scienze umane, in particolar modo quelli delle discipline psicologiche, sociologiche e antropologiche, rispetto al “compito di riconoscere, legittimare ed affrontare le condizioni di insorgenza dei fenomeni di devianza”, coinvolgendo solo in un secondo tempo la pedagogia, per “occuparsi, in riferimento a tale problematica e alle varie età e fasi di sviluppo, delle dimensioni riguardanti il trattamento correzionale e/o la sorveglianza preventiva” (Cavana, 2010, p. 205). Si è trattato di un mandato pedagogico asservito alle istanze disciplinari dominanti e, di conseguenza, un esercizio acritico delle funzioni educative12, visibile già a partire dall’assunzione priva di senso critico della lettura stereotipata dei fenomeni di marginalità e devianza, mutuata dai saperi psico-socio-antropologici, nonostante le loro difficoltà nella delimitazione dell’oggetto di studio e nella comprensione di questi sfuggenti e mutevoli fenomeni (Barone, 2011; Resico, 2010). “Spiegare la devianza e intervenire sui devianti ha significato per lungo tempo stabilire norme e valori attraverso cui prescrivere le giuste condotte e gli stili di vita conformi, correggere le storture delle personalità eccedenti, superegoiche, perverse, morbose, insensibili, sancire la marginalità e la pericolosità sociale delle diversità e delle differenze, azzerare il valore dei microconflitti sociali” (Barone, 2011, p. 96).

Come ricorda Laura Cavana, il contesto scientifico e culturale in cui sono stati sviluppati i temi della marginalità e della devianza è “rappresentato da una centralità dei saperi bio-medici, medico-giuridici, antropologici, sociologici e psicologici ed è totalmente interno al paradigma positivista che, in nome di una presunta oggettività scientifica, rinvia a riferimenti teorici e concettuali di tipo deterministico, causale ed eziologico”, i cui esiti sono classificabili come “derive riduzioniste e predittive” (Cavana, 2010, p. 205), spesso basate sul pregiudizio. Storicamente questi esiti hanno avvallato un’azione educativa repressiva, mirata alla “rieducazione” del soggetto attraverso un trattamento correzionale e coercitivo. L’approccio pedagogico tradizionale ha così abbinato educazione e oppressione, educazione e reclusione, educazione e correzione perseguendo obiettivi tutt’altro che inclusivi: un’eredità severa, in parte ancora presente e da “smascherare”, specialmente in riferimento alla stratificazione delle nozioni di marginalità

12

Rispetto alla legittimazione della pedagogia, Barone affianca la subordinazione di questa ai saperi psico-socio-antropologici, all’altra storica subordinazione – altrettanto limitante e svilente – riguardante “una metafisica che pretendeva di risolvere la questione del Soggetto all’interno di una concezione valoriale e morale, denotando la pedagogia come una scienza dei valori e configurandola come appendice prescrittiva del sapere” (Barone, 2011, p. 97).

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e di devianza “come manifestazioni di una patologia sociale e psichica” (Barone, 2011, p. 24) che legittimano quelle funzioni storicamente assunte. Il discorso educativo non si è ancora del tutto affrancato e rischia di applicarsi nuovamente in pratiche di controllo sociale attraverso l’esercizio di un potere normalizzante e disciplinante. Come osserva Pierangelo Barone (2011), “si educa punendo, si educa per correggere, si educa per curare: il castigo, la punizione, la sanzione non appartengono forse, in modo significativo, al lessico pedagogico?” (p. 46). I paradigmi positivisti e disciplinari continuano a proporre un’interpretazione delle condizioni di marginalità e di devianza secondo “ragione e necessità” e, sebbene il dibattito interno a tutte le scienze sociali faticosamente continui l’opera di liberazione da alcune delle categorie proposte, la loro presa sulla cultura diffusa è ancora forte. Permangono così le richieste di ordine e normalizzazione che sollecitano l’esercizio di una funzione disciplinante per il controllo sociale, sebbene con un approccio maggiormente defilato rispetto al passato (più invisibile e meno esplicito). Tenendo conto di ciò, la pedagogia che oggi si occupa dei fenomeni di marginalità trova ancora resistenze nell’essere considerata una interlocutrice alla pari, in quanto dall’occuparsi meramente dell’azione, nella maggior parte dei casi secondo paradigmi interpretativi già dati, cerca di partecipare al dibattito teorico, all’analisi interpretativa dei fenomeni e alla fase decisionale sugli interventi con altrettanta autorevolezza di altre discipline. In Italia, Piero Bertolini è stato tra i primi pedagogisti ad aver compiuto questo cambiamento teorico e pratico, formalizzando la propria proposta educativa all’interno del testo Per una pedagogia del ragazzo difficile, a cui seguirono diverse revisioni editoriali (Bertolini & Caronia, 1993). A partire dall’incontro fra la pedagogia e la fenomenologia husserliana, Bertolini costruì una prospettiva educativa “radicalmente opposta al paradigma positivista e alle semplificazioni prodotte dai suoi nessi causali”, in quanto basata “su linee interpretative e operative centrate sulla complessità del soggetto” (Cavana, 2010, p. 206), un’impostazione che ha profondamente segnato un cambio di passo all’interno della Pedagogia della marginalità e della devianza. Una proposta intrecciata ad altre ricerche prodotte negli anni Ottanta, in Italia, e sviluppate non esclusivamente in ambito educativo; nuove proposte caratterizzate da un profondo mutamento paradigmatico nell’analisi della devianza, il cui fulcro era la restituzione della “complessità e specificità epistemologica al campo teorico e pratico della devianza per uscire definitivamente dalle pretese riduzioniste e deterministe di oggettivazione scientifica del problema della devianza, prodotte nei differenti saperi delle scienze umane” (Barone, 2011, p. 95). Un’ampia produzione scientifica centrata sulla devianza giovanile, che restituì complessità al fenomeno

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valorizzando il soggetto, riconoscendo la sua intenzionalità, considerandolo parte attiva dell’intervento educativo e abbandonando la pretesa della sua oggettivazione (ovvero il tentativo di rendere qualcuno un oggetto di studio); compiendo – in altri termini – una complessa problematizzazione teorica della marginalità e della devianza. L’idea stessa di devianza, un termine da sempre controverso, è stato nel tempo criticato e talvolta sostituito da altre espressioni in ambito pedagogico, per favorire un cambiamento culturale (Bertolini & Caronia, 1993; Canevaro, 1970; Barone, 2011). Prendendo il caso di Bertolini, egli introdusse l’espressione “ragazzi difficili”, preoccupandosi di “adottare un diverso sistema di rilevanza e focalizzare come pertinente ciò che precede l’individuazione delle differenze sul piano del loro comportamento: la percezione di una difficoltà” (Bertolini & Caronia, 1993, p. 11). Per alcuni autori l’idea stessa di devianza, oltre a essere controversa e sfuggente, appare “una forzatura inammissibile già sul piano della riflessione teoretica in ragione dell’assenza normativa e fenomenologica di una “normalità”, anche questa non compiutamente definibile” e – pertanto – si preferisce farla rientrare “nell’ambito dell’orizzonte pedagogico e morale della differenza nella misura in cui la natura umana si presenta in forme infinitamente plurali (mai pienamente prevedibili e programmabili) ed è permanentemente aperta all’educabilità, alla trasformazione all’integrazione” (Resico, 2010, p. 16). Un cambio interpretativo e di concezione del mondo analogo a quello già intrapreso (e mai interamente compiuto) nei confronti della disabilità, una strada storicamente intrapresa agli inizi dell’Ottocento dal medico e pedagogista francese Jean Marc Gaspard Itard nel suo incontro con Victor, un ragazzo cresciuto nei boschi dell’Aveyron (centro-sud della Francia), conosciuto anche come “il ragazzo selvaggio”, considerato dagli esperti dell’epoca come “ineducabile” in quanto vissuto fino al momento del ritrovamento in modo istintivo, privo di lessico, camminando a quattro zampe ed emulando lo stile di vita animale. Si tratta di una vera e propria rottura teorico-pratica messa in atto dal paradigma pedagogico, come argomenta ampiamente Pierangelo Barone (2011), che ha visto il ripensamento dell’intervento educativo a partire da una radicale critica del modello culturale dominante di stampo repressivo e moralistico. Il percorso storico italiano di questo cambiamento può essere rappresentato sinteticamente attraverso due tappe fondamentali. La prima riguarda la devianza minorile, nel passaggio da una rigida considerazione morale del minore deviante, a una valutazione psico-sociale e individuale del giovane deviante, che comportò parimenti la transizione dal trattamento correzionale alla rieducazione, a cui seguì un ulteriore passaggio da questa al reinserimento sociale (risocializzazione), come sua più precisa interpretazione.

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La seconda riguardante la nascita del filone di pensiero critico sulle istituzioni totali, l’istituzionalizzazione e la deistituzionalizzazione, al cui apice si trovano gli scritti di Erving Goffman (2010) degli anni Sessanta, a partire dall’analisi sulla realtà psichiatrica di quei tempi, e le sperimentazioni di deistituzionalizzazione che nacquero in diversi parti del mondo, fra cui per radicalità spicca l’esperienza italiana realizzata da Franco Basaglia, medico psichiatra, che promosse la totale chiusura dei manicomi in Italia13, considerati luoghi di contenimento sociale. Tra la metà degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta questi cambiamenti, trasversali a diversi ambiti sociali, influenzarono profondamente lo sviluppo del nuovo paradigma pedagogico: mentre in Italia autori come Piero Bertolini si sono occupati dello sviluppo della riflessione pedagogica sulla devianza minorile, nel panorama internazionale si affermò la pedagogia degli oppressi di Paulo Freire (2002), la cui eco negli anni Settanta non si limitò al Sudamerica, ma si espanse fino a diventare uno dei cardini fondamentali dell’attuale Pedagogia della marginalità. Freire analizza i rapporti tra oppressori e oppressi (interpersonali e intrapersonali), sostenendo lo sviluppo di una pratica educativa liberatrice (per la liberazione degli uomini), in grado di favorire la coscientizzazione14 del singolo e della comunità, nei termini di un loro inserimento nel processo storico e democratico (anche in termini decisionali). Attraverso questa prospettiva, attenta a non scindere gli aspetti di deprivazione materiale e relazionale, l’intervento educativo ha assunto “una funzione autenticamente rivoluzionaria nel delineare le possibilità di emancipazione delle classi marginali dalle condizioni di sfruttamento e di subordinazione al potere” (Barone, 2011, p. 101). La stessa educazione entra in questo processo e necessita di una liberazione, passando da una impostazione depositaria anti-dialogica, che vede nell’altro un vaso da riempire acriticamente, a una impostazione dialogica e critica, ovvero una educazione problematizzante. La problematizzazione emerge come elemento trasversale alle diverse impostazioni pedagogiche riguardo alla marginalità e alla devianza. Bertolini sottolinea come, di fronte a un vissuto caratterizzato da esperienze “tutte dello stesso segno”, l’azione educativa deve tendere a dilatare il campo delle esperienze, agendo al contempo una destrutturazione delle abitudini del passato e una ristrutturazione intenzionale delle possibilità che aprono al cambiamento attraverso esperienze di segno opposto (Cavana, 2010; Ber13

Legge 180/1978 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”. Coscientizzazione sia come consapevolezza della realtà socio-culturale che influisce sulla vita delle persone e dei gruppi, sia come consapevolezza della capacità di trasformazione della realtà (sviluppo critico della coscienza). 14

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tolini & Caronia, 1993). Freire punta sulla dialogicità e la coscientizzazione per un superamento interiore e relazionale dell’oppressione. Secondo una diversa prospettiva, formulata da Domenico Resico, “la ragion d’essere della pedagogia della devianza si innesta su quel bisogno di formazione della persona (come Bildung, ovvero come «possibilità dell’essere umano di divenire se stesso»), forse mai interamente soddisfatto, e su quella responsabilità educativa, non sempre pienamente esercitata (non solo per difetto, mancanza o trascuratezza, ma, a volte, per un eccesso di attenzioni, di premure, divieti e proibizioni, inibenti la conquista della fiducia di base e dell’autonomia) che, in qualche caso, in condizioni di fragilità personale, di deprivazione sociale ed affettiva, di condizionamento culturale, di carenze ed abbandoni istituzionali, hanno contribuito a produrre condotte e stili di vita alternativi, a volte antisociali, talora bizzarri, talvolta criminali, tollerati o condannati, qualche volta persino apprezzati, in ragione delle diverse temperie culturali, comunque contrassegnati da un difetto di adattamento o di integrazione personale e sociale, ovvero come coscienza del proprio avvertirsi integri e integrati” (Resico, 2010, pp. 36-37).

Gli elementi essenziali di questo paradigma pedagogico riguardano la visione di essere umano, che si afferma esclusivamente come fine e mai come mezzo, da cui si evince sia il valore della persona come soggetto di diritti, sia la costante ricerca della sua umanizzazione e dignità. Una proposta educativa non può che includere la formazione di questi uomini e donne come soggetti responsabili dei propri atti (agire intenzionale), in un processo permanente verso “una progressiva conquista di umanità, di autonomia, di identità, come libera espressione delle proprie potenzialità ed anche come liberazione dai vincoli del passato e di un contesto disumanizzante, alienante, tendente all’anomia e alla chiusura solipsistica” (Resico, 2010, p. 38). Tuttavia questo approccio, attento all’individuo portatore di diritti fondamentali, incontra forti limiti qualora non prende in considerazione altri presupposti legati alla vita sociale e alla condizione di deprivazione, esclusione e marginalità. Una delle condizioni necessarie affinché sia possibile realizzare un intervento educativo in contesti di marginalità sociale è, infatti, l’osservazione e la presa di coscienza dello stato di deprivazione vissuto, ugualmente nelle sue manifestazioni materiali o immateriali. Là dove l’intervento in ambito educativo mira ad allargare gli orizzonti, aprendo nuove possibilità, suggerendo esperienze in grado di modificare la visione del mondo (es. la fiducia, la sospensione del giudizio, lo stare nei gruppi, ecc.), incrementando le conoscenze e le competenze del soggetto, lavorando in chiave progettuale sul futuro, risulta impraticabile non dare risposta a quelle necessità impellenti vissute dal soggetto ai margini al momento presente. Agire in contesti di

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marginalità, assumendo come proprie anche queste sfide e trasformando l’intervento educativo in intervento socio-educativo, significa anche cercare modalità non assistenziali per dare risposta a quei bisogni primari che rappresentano (o sono vissute come) ostacoli allo sviluppo della persona, la cui sola presenza contrasta la promozione dei processi di liberazione e di coscientizzazione, di partecipazione e di responsabilizzazione, senza che venga meno la specificità pedagogica. Tale specificità, al contrario, si manifesta nel ripensare le categorie e le rappresentazioni che nel passato e nel presente caratterizzano i saperi (anche pedagogici) in rapporto alla normalità e alla anormalità (devianza, marginalità, ecc.), “evidenziandone gli effetti teorici e pratici sul terreno della formazione del soggetto” (Barone, 2011, p. 107), nelle produzioni discorsive, nella diffusione di immagini stereotipate della marginalità e della devianza, negli impliciti, nell’uso del potere. Infine un riferimento alla comunità, ulteriore presupposto all’intervento socio-educativo. Le cause della deprivazione vissuta dal singolo, siano esse materiali o immateriali, non riguardano soltanto questi, ma anche la comunità e la società. Se la Pedagogia della marginalità rivolgesse la propria azione esclusivamente all’individuo, inteso come soggetto distinto e indipendente da altri soggetti, passando oltre alla sua dimensione relazionale e sociale, ignorando il contesto, a partire dai gruppi a lui più prossimi (microsistemi relazionali), fino ad arrivare alla società più ampia, alle norme e ai valori da questa prodotti (macrosistema), senza considerare l’influenza che tutto ciò ha sulla vita di ognuno, riprodurrebbe l’ennesima colpevolizzazione, esclusione, marginalizzazione del singolo, idealizzato all’esterno di un sistema relazionale, in una condizione del tutto innaturale e impossibile, ulteriormente privato di un potere decisione da esprimere a livello comunitario. La Pedagogia della marginalità assume fra il proprio orizzonte di intervento anche le sfide al superamento (mai concluso) dei giudizi, dei pregiudizi, dei vincoli, dei disvalori, delle abitudini, delle norme inique e dei processi opprimenti che generano malessere in chiunque viva una condizione di esclusione, andando successivamente a ricercare, ipotizzare e costruire, assieme alla collettività, nuove risposte culturali, valoriali, normative, di politiche sociali, di pratiche, in grado di generare ben-essere per tutti, a partire dal ben-essere comunitario e dal livello complessivo di empowerment.

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2. Vivere senza dimora

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2.1 Il fenomeno delle persone senza dimora Il fenomeno delle persone senza dimora ha catturato l’interesse della comunità scientifica internazionale e delle discipline sociologiche e psicologiche intorno la metà degli anni Settanta del secolo scorso, affermandosi pienamente nei successivi anni Ottanta. Per decenni il fenomeno è stato considerato espressione della volontà di alcuni di separarsi dal resto della società, una sorta di rottura relazionale volontaria dettata da ragioni del tutto personali, ma, con la riscoperta della povertà avvenuta negli anni Ottanta (Bergamaschi 1999, p. 45), che comportò una sua complessiva risignificazione, questa interpretazione fu messa in discussione e completamente riconsiderata dalla letteratura scientifica. Da una classificazione dell’homelessness come fenomeno di deliberata separazione sociale, scelta libera e volontaria, si è giunti all’idea che l’homelessness sia l’estrema conseguenza di processi d’impoverimento e di deprivazione materiale, che agiscono all’interno delle società contemporanee (Bergamaschi, 1999; Saraceno, 2002; Zuccari, 2007; Giustini & Tolomelli, 2012; Bergamaschi, 2017). A ben vedere, in passato la sociologica americana aveva già evidenziato il legame esistente fra povertà e fenomeni di estrema esclusione sociale e abitativa, a partire dalle ricerche sui vagabondi (hobo), studiati a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento del secolo scorso, con gli approfondimenti sulla Grande depressione americana, studiata negli anni Trenta, e con i successivi studi sui bassifondi e sui quartieri malfamati (skid row) delle grandi città americane (Lee, Tyler, & Wright 2010), ma in tutti questi casi non si era mai arrivati a definire un fenomeno come quello a cui oggi ci riferiamo con il termine homelessness1: la vita in strada era considerata un effetto deviante di quegli specifici eventi, che non rientravano in una visione sistemica più ampia. Quando i bassifondi delle grandi città americane iniziarono a restringersi, mentre la presenza delle persone in strada andava aumentando (Shlay & Rossi, 1992), si comprese che le realtà fino a quel 1

Sostantivo privo di corrispettivo italiano, traducibile come “la condizione di senza dimora”.

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momento studiate avevano caratteristiche differenti dal fenomeno emergente, tanto che alcuni autori misero l’aggettivo “nuovo” alle loro ricerche, per marcare la discontinuità con le precedenti: vennero definite the “new” research on homelessness (Shlay & Rossi, 1992) e il fenomeno new homelessness (Lee et al., 2010), non più interpretabile con le vecchie categorie utilizzate per la old homelessness (Shlay & Rossi, 1992) dei lavoratori americani impiegati in attività occasionali e temporanee, perennemente in movimento verso la nuova destinazione dove lavorare e in cerca di soluzioni abitative a basso costo. Gli studi contemporanei orientati a questo nuovo approccio accantonarono l’idea romantica della persona senza dimora in rottura con la società, uno stereotipo tuttora presente e ben radicato nell’immaginario comune come mito della “scelta di vita” (Gui, 1995; Meo, 2009), una sintesi fra l’affermazione della propria volontà e la ricerca di comodità ottenute con l’astuzia per un tornaconto personale, che sottintende una libera scelta compiuta da un ribelle, un fannullone o un approfittatore. Per il nuovo paradigma interpretativo questa è un’ipotesi infondata. Come scrive Luigi Gui: “Sono tuttora diffuse una mentalità ed una letteratura ricche di note romantiche o connotazioni ideologiche che eleggono il vagabondo a simbolo della libertà, della piena indipendenza, della contestazione radicale della società e delle sue soffocanti regole: colui che sa vivere degli avanzi di un mondo opulento ed egoista” (Gui, 1995, p. 23).

Le ricerche hanno, invece, individuato alla base di queste situazioni estreme forti disuguaglianze e disparità di ricchezza. Vale a dire che le condizioni di vita del singolo sono l’effetto di disuguaglianze in grado di innescare un processo di impoverimento che, partendo da elementi socioeconomici, si estendono fino ad intaccare le “reti relazionali di riferimento e di sostegno” della persona (Giustini & Tolomelli, 2012, p. 107) e non sono, al contrario di una certa lettura individualistica del fenomeno, frutto di una responsabilità personale e morale. “La povertà estrema e la vita in strada trasformano il corpo e la mente, logorano giorno dopo giorno la forza di volontà e le capacità individuali, distruggono i legami sociali, i desideri e i sogni delle persone, conducono a uno stato di apatia in cui i soggetti possono perdere anche l’attaccamento alla vita che alla fine risulta priva di senso, in un processo in cui si restringono progressivamente i gradi di libertà e i margini di uscita” (Giustini & Tolomelli, 2012, p. 107-108).

Esistono processi che agiscono a monte delle scelte individuali e, pertanto, la riflessione di vari sociologi (Tosi, 2009; Saraceno, 2015; Bergamaschi, 2017) è spostata dal singolo al più ampio tema delle povertà e dei processi

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SENZA DIMORA

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che destrutturano la società, quei processi che producono esclusione sociale e abitativa. Questi studi, dando ampio spazio agli aspetti materiali della condizione di indigenza vissuta dalle persone senza dimora e da altri soggetti (esclusione abitativa), evitano di esaltare gli aspetti immateriali di chi vive in strada (perdita dei legami relazionali e sociali) e, al contempo, provano a interrompere gli occulti processi di vittimizzazione e inferiorizzazione che agiscono sulle persone senza dimora, quando separate dal resto della popolazione in situazioni meno estreme. “Oscurando il peso dei processi di precarizzazione e di vulnerabilizzazione che costituiscono lo sfondo della nostra quotidianità, il senza dimora viene radicalmente de-socializzato e de-politicizzato, ai fini della sua inclusione. Tali operazioni contribuiscono ad occultare sia la molteplicità delle situazioni di povertà e di diseguaglianza, sia i loro meccanismi e “luoghi” sotterranei di produzione”(Bergamaschi, 2017, p. 9).

Ad esempio, la sociologia urbana bolognese descrive il fenomeno della grave emarginazione attraverso la crisi della società salariale, sulla scia delle riflessioni di Robert Castel sulla désaffiliation2 e del fallimento del welfare a partire da tutte le fasce di popolazione impoverite, senza escluderne a priori qualcuna come le persone senza dimora, le quali vivono una condizione socio-economica simile e in sostanziale continuità con il resto della popolazione (Bergamaschi, 2017). Si svilupperebbe così un punto di vista universale sul tema delle povertà, delle disuguaglianze socio-economiche e dell’impoverimento della società, con forti ricadute sulla vita urbana, in quanto la vulnerabilità si trasforma in possibili fratture nei legami sociali in termini di identità e appartenenza sociale. A questo approccio sociologico, orientato a interpretare il fenomeno a partire dai macroprocessi presenti all’interno delle società, si affiancano gli studi sviluppati in ambito medico e psicologico, maggiormente orientati ad approfondire le cause dell’homelessness in termini di caratteristiche individuali. Sono sostanzialmente due le letture in tal senso: quelle basate sui 2 Essa si contrappone alla nozione di esclusione sociale, poiché mentre quest’ultima rende statica la condizione, dividendo tra inclusione ed esclusione, la désaffiliation indica l’assenza di lavoro e l’isolamento sociale progressivo all’interno di un processo di vulnerabilizzazione, strutturato come assenza di relazioni primarie (come legami relazionali significativi) e mancanza di politiche pubbliche di protezione sociale. Désaffiliation indica sia l’esito del processo di transizione dalla vulnerabilità alla marginalità, sia la traiettoria di questo, tra integrazione, vulnerabilità e – appunto – désaffiliation. In questo senso per Bergamaschi (1999) la désaffiliation costituisce un elemento chiave per comprendere e spiegare l’esclusione, non più partendo da quest’ultima, bensì studiando i meccanismi dell’inclusione.

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

deficit intrapsichici e quelle basate sullo stato di crisi del soggetto (Lavanco & Santinello, 2009). Le teorie basate sui deficit intrapsichici, perlopiù sviluppate in contesto americano, propongono una lettura dell’homelessness in stretta correlazione ai disturbi psicopatologici e all’uso e abuso di sostanze psicotrope. Per quanto concerne i disturbi psicopatologici non è chiaro se questi possano essere considerati cause dell’homelessness oppure siano conseguenze della vita di strada e del complessivo stato di deprivazione: diversi studi hanno valorizzato l’uno e l’altro percorso. In generale, questo approccio avrebbe la tendenza a sovrastimare l’incidenza delle malattie psichiche nella popolazione senza dimora, tanto che alcuni autori hanno messo in discussione che i disturbi psicopatologici e l’uso di sostanze psicotrope possano essere un metro di distinzione fra persone senza dimora e persone con dimora in stato di povertà, vista l’analoga incidenza del fenomeno nelle due popolazioni (Lavanco & Santinello, 2009). Anche altri deficit personali sono stati presi in considerazione da queste ricerche: il basso livello d’istruzione, la disoccupazione, lo stato di salute fisica, difficoltà nelle relazioni interpersonali (Lavanco & Santinello, 2009), ma in nessun caso si è riusciti a correlare in maniera stringente la presunta causa (il deficit) all’effetto (la vita in strada): l’approccio evidence-based ha prodotto perlopiù risultati contraddittori. L’altro filone di ricerca orientato a valorizzare le caratteristiche individuali della persona senza dimora riguarda, invece, le teorie sullo stato di crisi del soggetto sviluppate in ambito medico e psicologico. Questi studi hanno evidenziato come nelle storie delle persone senza dimora vi sia un’alta frequenza di stressful life event (Muñoz, Panadero, Santos, & Quiroga, 2005), situazioni stressanti di vita dovuti a eventi critici. Partendo da questa evidenza quantitativa e considerando lo stress come il processo d’interazione fra la persona e l’ambiente, e non solo una risposta dell’organismo a un evento percepito come avverso, è stato ampliato il precedente discorso sui deficit, non più considerati in astratto, ma contestualizzati. “Queste ricerche enfatizzano il ruolo del contesto e la sua capacità di esercitare un’influenza sul benessere e sull’adattamento dell’individuo; inoltre, introducono la centralità del concetto di evento critico come momento che richiede una organizzazione degli strumenti cognitivi, relazionali e strutturali, abitualmente usati nella gestione dei propri eventi di vita” (Lavanco & Santinello, 2009, p. 27).

Secondo questa impostazione, l’elaborazione di ogni evento della vita richiede l’impiego di strumenti personali e sociali; se al presentarsi di uno specifico evento, questi strumenti sono carenti, assenti, o semplicemente

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non ancora strutturati, allora quell’evento diventa problematico e, successivamente, critico: uno stressful life event. Gli eventi non sono critici in sé, per caratteristiche intrinseche all’evento stesso, ma lo diventano nell’interazione di più fattori: quello che accade, il contesto in cui gli eventi sono vissuti, gli strumenti cognitivi, relazionali, materiali e simbolici a disposizione della persona in quel momento (patrimonio personale), nonché la memoria degli eventi già vissuti in precedenza, sia positivi sia negativi. Ogni cambiamento può risultare stressante nella misura in cui richieda risorse superiori a quelle possedute dalla persona (Meo, 2000) e, così, se la perdita del lavoro o l’interruzione di relazioni significative (per morte, separazioni, contrasti, ecc.), in particolare quelle familiari, sono eventi comunemente vissuti come critici (sebbene non conducano automaticamente a esperienze estreme di esclusione sociale), anche altri (potenzialmente infiniti) eventi possono risultare critici e stressanti, come una malattia, il passaggio all’età adulta, una psicopatologia, l’uso di sostanze psicoattive, problemi economici di varia natura o la detenzione, per fare qualche esempio, poiché non è il problema in sé a essere “doloroso” e critico, quanto la “scarsa capacità [della persona] di attivare delle risposte adeguate al problema insorto e, quindi, di utilizzare capacità di coping per far fronte al problema e/o ottenere sostegno interpersonale” (Lavanco & Santinello, 2009, p. 27), intendendo per capacità di coping le strategie di adattamento messe in atto dalla persona per far fronte ai problemi personali e ridurne lo stress. “La crisi innescata dal verificarsi di un evento doloroso incide diversamente sulla persona a seconda delle sue risorse” (Lavanco & Santinello, 2009, p. 28) e per alcuni ciò può tradursi in un’esperienza di homelessness. Una serie di stressful life event, perfino quelli derivanti da eventi traumatici vissuti dall’infanzia all’adolescenza (Muñoz et al., 2005), possono aver contribuito alla perdita della casa e a vivere l’esperienza di vita in strada e, secondo questa impostazione teorica, affrontare l’homelessness comporta necessariamente affrontare anche questi nodi. Il dibattito accademico nato a partire dalle posizioni qui esposte è stato articolato e complesso, susseguendosi nel corso degli anni (Zuccari, 2007; Tosi, 2009; Lee et al., 2010; Pleace, 2016). A ben vedere non si tratta esclusivamente di un dibattito accademico, in quanto ai due “approcci” seguono precise rappresentazioni della persona e modelli d’intervento assai differenti tra loro. I modelli nel corso degli anni hanno riportato successi e insuccessi tali da evidenziare limiti su entrambi i fronti: sia nell’eccessiva enfasi sugli elementi individuali immediatamente osservabili a prescindere dal contesto, sia nel considerare l’homelessness come risultato finale di processi totalmente estranei da lui, tanto da renderla una persona impotente

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(powerless) di fronte a forze fuori dal suo controllo e, pertanto, incontrastabili. Per alcuni studiosi questa fase è stata superata a partire dagli anni Novanta, quando è nata la proposta di un modello integrato chiamato “new orthodoxy” (Fitzpatrick, 2005; Pleace, 2016), secondo cui la vita in strada è il risultato dell’interazione fra fattori strutturali e fattori individuali, che comprendono il mercato del lavoro, il mercato immobiliare, i sistemi di welfare, i sistemi sanitari e di social housing, elementi culturali generatori di ingiustizia (sessismo, razzismo e altre forme di discriminazione), assieme ai bisogni personali, alle caratteristiche individuali, ai comportamenti e alle esperienze personali, elementi successivamente sintetizzati da Pleace (2016), attraverso la formalizzazione di tre fattori principali: le capacità personali, l’accesso al supporto formale (sanità, welfare, social housing e altri tipi di servizi) e l’accesso al supporto informale (partner, famiglia, amici, ecc.). La comprensione dell’homelessness si è pertanto spostata dalla patologia individuale e, più in generale, dagli elementi individuali, agli elementi strutturali, per poi giungere a una sintesi, la new orthodoxy, a sua volta messa in discussione per mancanza di precisione, in quanto considerata una teoria troppo vaga e non scientificamente coerente e verificabile (Pleace, 2016). Joanne Neale (1997), criticando il modo di affrontare la questione homelessness attraverso un dualismo semplificato o approcci che richiamano quel dualismo, come la new orthodoxy, propone di approfondire e aumentare la comprensione del fenomeno homelessness attraverso altre prospettive teoriche alternative, come il femminismo, il post-strutturalismo, il postmodernismo e la teoria critica, le quali darebbero alla riflessione accademica la possibilità di ripensare e migliorare le politiche messe in atto a favore della popolazione senza dimora. Il dibattito, in tal senso, è ancora aperto. Questa trattazione non può, tuttavia, prescindere da quelle che sono le attuali strategie di intervento nazionali e sovranazionali. Nel 2015 il Governo italiano ha emanato le “Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia” (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, 2015), un documento di svolta sia dal punto di vista operativo e di prospettiva futura del lavoro con le persone senza dimora, sia da un punto di vista della realizzazione del documento stesso, nato da un processo bottomup, sintesi dei lavori svolti dal Ministero stesso, assieme a un rappresentante per ogni città italiana con più di 250.000 abitanti, dodici in tutto, e Fio. PSD, la Federazione italiana organismi persone senza dimora, per circa due anni. In questo documento vengono presi in esame i risultati della più recente ricerca Istat (2015) riguardante le persone senza dimora in Italia, costruita a partire dalla classificazione ETHOS (Classificazione Europea sulla grave esclusione abitativa e la condizione di persona senza dimora – Eu-

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ropean Typology of Homelessness and housing exclusion), e i modelli di intervento più diffusi sul territorio nazionale, andando ad indicare le strategie ritenute maggiormente efficaci per il contrasto del fenomeno e l’inclusione (housing first, housing led e il modello strategico integrato, di cui si parlerà più avanti). Come ricordato in precedenza, per alcuni sociologi questo eccessivo utilizzo del processo di categorizzazione pone le persone senza dimora al di fuori della società, isolate fittiziamente da coloro che condividono condizioni analoghe, come un target group di intervento necessitante un intervento di inclusione (Bergamaschi, 2017). “La priorità attribuita agli interventi socio-assistenziali a favore della povertà estrema e dei senza dimora rischia, inoltre, di occultare le crescenti disuguaglianze di reddito presenti nel sistema sociale. Concentrando l’intervento sulle condizioni di maggiore deprivazione si minimizzano, indirettamente, le situazioni di povertà invisibile e “integrate”, e si riconducono tutti i problemi sociali alla loro unica forma estrema” (Bergamaschi, 2017, p. 11-12).

Le Linee di indirizzo nazionali rimarcano, inoltre, ciò che Antonio Tosi definisce una costruzione “restrittiva” dell’homelessness, in quanto identifica il fenomeno a partire da “situazioni estreme dal punto di vista della (mancanza di) sistemazione abitativa e situazioni estreme di marginalità sociale” (Tosi, 2009, p. 355), sovrapponendo, appunto, in senso restrittivo le due differenti posizioni di chi considera la vita in strada una problematica abitativa e chi la considera una problematica sociale e relazionale, con il conseguente “invito a interventi mirati e ad approcci “integrati”(Tosi, 2009, p. 356).

2.2 Problematizzare denominazioni e definizioni All’interno dei Principi guida delle Nazioni Unite su povertà estrema e diritti umani pubblicati nel 2012, la povertà estrema è stata definita come “una combinazione di penuria di entrate, sviluppo umano insufficiente ed esclusione sociale” (A/HRC/7/15, par. 13), un impedimento all’acquisizione dei propri diritti di persona e cittadino conseguente a “un disagio complesso, dinamico e multiforme” (Istat, 2011). E proprio la complessità, la dinamicità e la multiformità di questo fenomeno ne obbliga una lettura problematizzante, in grado di comprendere e di sintetizzare le diverse sfumature in gioco. Alla mancanza di una definizione univoca del fenomeno homelessness, si aggiunge anche la molteplicità degli interventi rivolti a chi vive la condizione di senza dimora, i quali non presentano modalità operative e finalità omogenee. Per contrastare i fenomeni di grave emargina-

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zione è necessario insistere sui macro processi di deprivazione economica e abitativa oppure sui deficit personali? Strutturare interventi individuali o collettivi? Dedicati a chi vive una condizione di emarginazione o pensati per l’intera comunità locale? Il linguaggio utilizzato per indicare le persone che vivono in strada è stato più volte rielaborato, passando da vocaboli dispregiativi o negativi3 come accattone, povero, mendicante, vagabondo, barbone4 o miserabile (Stagni 1975), a termini meno carichi di stigma come senzatetto, senza casa, senza dimora o senza fissa dimora, quest’ultimo legato alla formale definizione anagrafica e legislativa, e i corrispettivi termini internazionali clochard, sans-abri, sin hogar, roofless, homeless, assieme ad altre espressioni tecniche come povertà estrema o la più attuale grave emarginazione adulta. Una ricchezza di linguaggio che, via via, ha sempre più messo in evidenza ciò che intuitivamente è il problema di chi vive in strada: la mancanza di un alloggio. Persone in condizioni economiche agiate di fronte alla perdita della propria casa a causa un evento inaspettato (es. un terremoto, un’alluvione o un incendio), probabilmente troveranno strumenti idonei per ricollocarsi abitativamente in un tempo relativamente breve (Lee et al., 2010), non vivendo una esperienza di vita in strada, come accade a chi vive già in uno stato di povertà o di significativo impoverimento. Al di là della polarizzazione finora rappresentata, fra definizioni che considerano maggiormente il problema abitativo e dei processi socio-economici e definizioni che privilegiano il problema sociale e relazionale, vi sono aspetti problematici ancor più radicali nella definizione di homelessness, in termini di tempi, luoghi e – paradossalmente – soggetti che possono essere inclusi o meno in questa definizione. Influendo sulla definizione del fenomeno, questi aspetti possono variare sensibilmente le stime che lo misurano. Prendendo in esame i luoghi vissuti dalle persone senza dimora, ci si accorge che, mentre esiste una discreta convergenza nel considerare pertinenti un marciapiede, un portico, una stazione ferroviaria, una sala d’attesa di un pronto soccorso o di un aeroporto, in quanto luoghi non adibiti alla vita domestica, non vi è altrettanto consenso nel considerare tali altri spazi 3

“Quasi tutti sono adagiati in uno stato di passività e di dipendenza: sono strutturalmente degli “assistiti”. Giustificano il loro stato con le traversie della vita che li hanno portati alle soglie della disperazione: c’è spesso del vittimismo” (Commissione d’indagine sulla povertà e l’emarginazione 1992, p. 94). 4 “Il barbone considera la strada la sua casa. In un certo senso egli è stato “adottato” dal luogo dove vive. Anche se vecchio e malato tende a rifiutare in ogni modo categorico un ricovero che lo vincoli nella sua libertà” (Commissione d’indagine sulla povertà e l’emarginazione 1992, p. 93).

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come un accampamento, un container (unità abitativa prefabbricata), una roulotte o un camper o analoghe situazioni abitative precarie. Nemmeno le strutture preposte all’accoglienza temporanea di altri target group, come ad esempio quelle per la transizione abitativa familiare, per le vittime di violenza domestica, per donne sole con minori, sono facilmente collocabili all’interno di una rigida divisione degli spazi per persone con dimora o persone senza dimora (Lee et al., 2010) e, a queste, si potrebbero aggiungere altre situazioni abitative ambivalenti, come gli edifici abbandonati occupati illegalmente. In Europa gli studi abitativi hanno provato a dare risposta a questa complessa casistica, attraverso un approccio estensivo che prenda in considerazione l’esclusione abitativa “non solo come mancanza di una casa ma anche come mancanza degli elementi che “fanno” una casa” (Tosi, 2009, p. 356). FEANTSA (Federazione europea delle organizzazioni nazionali che lavorano con persone senza dimora – Fédération Européenne d’Associations Nationales Travaillant avec les Sans-Abri) ha adottato questo approccio estensivo, realizzando nel 2005 la classificazione europea già citata in precedenza, ETHOS, adottata dalle Linee di indirizzo nazionali. Il lavoro svolto per arrivare a questa classificazione è partito dalla individuazione dei tre domain che rendono un luogo abitato “casa”, in mancanza dei quali si formano diversi gradi di deprivazione abitativa: physical domain, social domain e legal domain (Edgar, Meert, & Doherty, 2004), declinati da Antonio Tosi rispettivamente come “avere uno spazio abitativo decente; essere in grado di mantenere la privacy e di realizzare relazioni sociali; avere un possesso esclusivo e sicurezza di occupazione” (Tosi, 2009, p. 356). Dalla mancanza di uno o più domain si compongono sette differenti condizioni di deprivazione abitativa, sette modelli teorici con un’idea di progressività delle condizioni, a partire da coloro che vivono una mancanza di tutti e tre gli elementi che identificano una casa, collocati nella categoria rooflessness, seguiti da coloro che si trovano in uno spazio abitativo adeguato (physical domain), come un centro d’accoglienza, ma vivono un’esclusione degli altri due piani (social domain e legal domain), rappresentati dalla categoria houselessness, fino a considerare tutte le situazioni di insicurezza e inadeguatezza abitativa che si compongono dall’intreccio delle mancanze di uno o più domain (Edgar et al., 2004). Questi sette modelli teorici sono stati successivamente raggruppati in quattro categorie concettuali in grado di rappresentare complessivamente una definizione schematica di senza dimora ed esclusione abitativa (vedi Tabella 1): senza tetto (roofless), senza casa (houseless), abitazioni insicure (insecure housing), abitazioni inadeguate (inadequate housing).

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Tabella 1: ETHOS – Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, 2015. Categoria concettuale Senza tetto

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Senza casa

Categoria operativa

Situazione abitativa

Definizione generica

1

Persone che vivono in strada o in sistemazioni di fortuna

1.1

Strada o sistemazioni di fortuna

Vivere per strada o in sistemazioni di fortuna senza un riparo che possa essere definito come una soluzione abitativa.

2

Persone che ricorrono a dormitori o strutture di accoglienza notturna

2.1

Dormitori o strutture di accoglienza notturna

Persone senza abitazione fissa che si spostano frequentemente tra vari tipi di dormitori o strutture di accoglienza.

3

Ospiti in strutture per persone senza dimora

3.1

Centri di accoglienza per persone senza dimora

3.2

Alloggi temporanei

3.3

Alloggi temporanei con un servizio di assistenza

In cui il periodo di soggiorno è di breve durata.

4

Ospiti in dormitori e centri di accoglienza per donne

4.1

Dormitori o centri di accoglienza per donne

Donne ospitate a causa di esperienze di violenza domestica, in cui il periodo di soggiorno è di breve durata.

5

Ospiti in strutture per immigrati, richiedenti asilo, rifugiati

5.1

Alloggi temporanei/centri di accoglienza

5.2

Alloggi per lavoratori immigrati

Immigrati in centri di accoglienza ospiti per un breve periodo a causa della loro condizione di immigrati.

Persone in attesa di essere dimesse da istituzioni

6.1

Istituzioni penali (carceri)

6.2

Comunità terapeutiche, ospedali e istituti di cura

6.3

Istituti, case famiglia e comunità per minori

7.1

Strutture residenziali assistite per persone senza dimora anziane

6

7

Persone che ricevono interventi di sostegno di lunga durata in quanto senza dimora

7.2

Alloggi o sistemazioni transitorie con accompagnamento sociale (per persone precedentemente senza dimora)

Non sono disponibili soluzioni abitative prima del rilascio Soggiorno che diviene più lungo del necessario a causa della mancanza di soluzioni abitative al termine del percorso terapeutico. Mancanza di una soluzione abitativa autonoma (ad esempio al compimento del 18° anno di età) Sistemazioni di lunga durata con cure per persone precedentemente senza dimora (normalmente più di un anno) anche per mancanza di sbocchi abitativi più adeguati

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Categoria concettuale Sistemazioni insicure

Categoria operativa 8

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Sistemazioni inadeguate

Persone che vivono in sistemazioni non garantite

Persone che vivono a rischio di perdita dell’alloggio

Situazione abitativa

Definizione generica

8.1

Coabitazione temporanea con famiglia o amici

8.2

Mancanza di un contratto d’affitto

8.3

Occupazione illegale di alloggio o edificio o terreno

La persona utilizza un alloggio diverso per indisponibilità del proprio alloggio abituale o di altre soluzioni abitative adeguate nel comune di residenza. Nessun (sub)affitto legale, Occupazione abusiva/ illegale. Occupazione abusiva di suolo/terreno.

9.1

Sotto sfratto esecutivo

9.2

Sotto ingiunzione di ripresa di possesso da parte della società di credito

Dove gli ordini di sfratto sono operativi. Dove il creditore ha titolo legale per riprendere possesso dell’alloggio.

10 Persone che vivono a rischio di violenza domestica

10.1 Esistenza di rapporti di Dove l’azione della polizia è polizia relativi a fatti violenti atta ad assicurare luoghi di sicurezza per le vittime di violenza domestica.

11 Persone che vivono in strutture temporanee/non rispondenti agli standard abitativi comuni

11.1 Roulotte

12 Persone che vivono in alloggi impropri

12.1 Occupazione di un luogo dichiarato inadatto per uso abitativo

Definito come inadatto per uso abitativo dalla legislazione nazionale o dalle regolamentazioni sull’edilizia.

13 Persone che vivono in situazioni di estremo affollamento

13.1 Più alto del tasso nazionale di sovraffollamento

Definito come più alto del tasso nazionale di sovraffollamento.

11.2 Edifici non corrispondenti alle norme edilizie 11.3 Strutture temporanee

Nel caso non sia l’abituale luogo di residenza per una persona. Ricovero di ripiego, capanna o baracca Capanna con struttura semi-permanente o cabina (ad es. marina).

Le quattro categorie concettuali, a loro volta divise in un totale di tredici categorie operative, costruite sulle reali situazioni abitative vissute nei diversi stati europei, mostrano il livello di complessità dell’approccio estensivo. ETHOS solleva una serie di riflessioni teoretiche e operative su cui ci si potrebbe soffermare, ma in questa analisi ci si focalizzerà esclusivamente su tre punti: 1.

2.

non c’è soltanto una grande varietà di sistemazioni abitative associate alla vita senza dimora, ma anche l’esistenza di un consistente numero di processi di esclusione differenti tra loro; la classificazione proposta da FEANTSA “solleva in modo visibile la questione (ben nota negli studi sulla povertà) di quali siano le relazioni di continuità/discontinuità tra le diverse situazioni, in

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3.

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particolare tra quelle estreme e quelle di più moderato disagio” (Tosi, 2009, p. 357), situazioni di rischio, che Tosi stesso definisce “homelessness potenziale”; l’aspetto temporale non è un elemento trascurabile, né può essere considerata una costante.

Rispetto a quest’ultimo punto, spesso le indagini condotte sulla popolazione senza dimora hanno restituito un’immagine alterata del fenomeno, a causa di una sovrarappresentazione della popolazione in condizione di cronicità (Lee et al., 2010), quando “come per la povertà in generale, anche per la homelessness si tratta spesso di situazioni temporanee, di diversa durata e con frequenti movimenti in entrata e in uscita” (Tosi, 2009, p. 357). Esiste un forte turn over fra le persone senza dimora, caratterizzato da diversi tipi di esperienze di vita in strada: temporanea, transitoria, episodica, o legata a un vero e proprio problema cronico e permanente (Shlay & Rossi, 1992). Questa ripartizione è stata formalizzata secondo tre modelli: un’esperienza transitoria o temporanea (un’unica esperienza breve di vita in strada come evento irripetibile, once-in-a-lifetime event), un’esperienza episodica (un ciclico entrare e uscire dalla vita di strada, perlopiù per brevi periodi), un’esperienza cronica (prossima a essere permanente) (Culhane, Metraux, Park, Schretzman, &Valente, 2007; Lee et al., 2010). Attraverso questi modelli legati all’aspetto temporale del fenomeno, non è difficile intuire l’esistenza di una continuità fra popolazione con e senza dimora: esiste, in altri termini, una linea sottile che divide la popolazione senza dimora e quella con dimora in condizioni precarie, al limite dell’esclusione abitativa, la quale si trova a essere a rischio di diventare anch’essa senza dimora. Sono storie di marginalità convergenti. Se il fenomeno delle persone senza dimora viene così considerato “non solo come un insieme di percorsi individuali di emarginazione e povertà, ma anche come il frutto di politiche poco capaci di cogliere le trasformazioni […] e di dare risposte di tipo materiale non residuali ma rispondenti a bisogni primari come ad esempio la sicurezza abitativa” (Zuccari, 2007, p. 21), allora risulta necessario affrontare entrambi gli aspetti attraverso approcci il più possibile integrati in grado di osservare, descrivere e dare risposte sia ai singoli soggetti coinvolti, sia alle società che vivono dinamiche sotterranee alimentanti il fenomeno con continue nuove esperienze.

2.3 L’ecologia dell’homelessness Un fenomeno così rappresentato, associato a numerosi fattori di rischio biopsicosociali, che si prestano a diverse letture interpretative, richiede una

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prospettiva teorica in grado di tenere assieme i numerosi risvolti derivanti dall’interazione fra l’uomo e l’ambiente, che consideri l’evoluzione del singolo strettamente legato a tutto ciò che lo circonda, in una dimensione sistemica progressivamente più ampia, che includa la dimensione intrapersonale, interpersonale, emotiva, ambientale, storico-culturale, socio-politica (Capurso, 2008). Quello descritto è un sistema “concepito come un insieme di strutture incluse l’una nell’altra, simili a una serie di bambole russe” (Bronfenbrenner, 1986, p. 31), così come ripreso dalla prospettiva ecologica. Questa affonda le sue radici nell’analisi psicosociale di Kurt Lewin (1972) sul concetto di spazio di vita, rappresentato dalla formula S = (P+A), in cui ambiente (A) e persona (P) costituiscono assieme quell’ambiente psicologico (rappresentazione psicologica dell’ambiente) in cui la persona vive, precisamente lo spazio di vita (S). Le ricerche di Lewin misero in luce questa interdipendenza esistente fra ambiente e persona, la cui rappresentazione simbolica è espressa nell’equazione C = ∫ (P, A), in cui i comportamenti sociali di un individuo (C) non sono attribuibili esclusivamente a quest’ultimo, ma sono risultato (e quindi funzione ∫) della persona (P) e dell’ambiente psicologico5 (A) e della loro interazione in un tempo dato. Secondo questa prospettiva, la vita di un soggetto non può essere scissa dalla società in cui questi vive, poiché il comportamento umano è correlato, in ugual misura, da fattori soggettivi, da fattori sociali/ambientali e dalla loro reciproca influenza. A partire da questo nucleo teorico, nato all’interno della psicologia sociale, in cui le relazioni interdipendenti prendono il posto di un individuo isolato e indipendente, si sviluppa una prospettiva ecologica al cui apice si trova la teoria ecologica dello sviluppo umano di Bronfenbrenner (1986)6, in grado considerare l’ambiente, i gruppi, la cultura, le regole, lo sviluppo individuale e l’apprendimento personale come strettamente correlati e interdipendenti (Capurso, 2008). In questa direzione si sviluppa la prospettiva ecologica applicata all’homelessness, la quale considera questo fenomeno come il risultato di percorsi personali costellati da molteplici fattori di rischio individuali e macro socioeconomici, tentando così di superare gli ostacoli di una comprensione eziologica limitata a un solo polo causale. La proposta di una prospettiva ecologica applicata all’homelessness può essere individuata in un articolo dei primi anni Novanta (Toro, Trickett, Wall, Salem, 1991), in cui si cercava di superare l’approccio person-based pro5

L’insieme degli oggetti, delle persone e delle attività in relazione, in un dato momento. Per un approfondimento dei contenuti dell’Ecologia dello sviluppo umano di Bronfenbrenner (1986) si rimanda al Capitolo 4. 6

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blem delle ricerche sull’homelessness in ambito psicologico, per giungere a un approccio person-environment transactions, il cui interesse di ricerca diventano le reciproche influenze esistenti fra gli individui e i diversi livelli del contesto sociale. Gli autori dell’articolo definiscono l’orientamento ecologico (forma mentis ecologica) attraverso una serie di caratteristiche emerse nel corso del tempo dalle diverse proposte di prospettiva ecologica, come l’ecologia dello sviluppo umano di Urie Bronfenbrenner (1986), e ne enfatizzano cinque a loro parere imprescindibili (Toro et al., 1991): 1.

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2.

3. 4. 5.

il risalto sulla descrizione del contesto ecologico, che circonda il comportamento individuale; la concezione di un ambiente ecologico concettualizzato su diversi livelli di analisi, ognuno dei quali può influenzare il comportamento in modo indipendente; la comprensione che anche gli ambienti dello stesso tipo differiscono molto l’uno dall’altro; la nozione che il comportamento individuale è transazionale e non può essere compreso senza riferimento al contesto; la convinzione che gli interventi devono essere adattati alle ecologie specifiche in cui sono implementati.

Seguendo tali caratteristiche e formulando un esempio preso dalla quotidianità delle persone senza dimora, due dormitori, per quanto simili e basati su un medesimo approccio metodologico, non sono uguali, in quanto possiedono proprie specificità, che richiedono interventi pensati per quel contesto e mirati a esso. Vent’anni dopo Roger Nooe e David Patterson (2010), riprendendo l’orientamento ecologico appena descritto, hanno formulato un modello ecologico applicato all’homelessness con l’obiettivo di restituire complessità al fenomeno, sia individuale, sia familiare, a partire dalla costruzione della mappa delle relazioni e delle interazioni dinamiche degli elementi che lo compongono. Questo modello si compone di quattro componenti primarie per rappresentare la mappa concettuale ecologica nel suo complesso (vedi Figura 1): a) b) c) d)

i fattori di rischio biopsicosociali, le conseguenze (outcomes) individuali e sociali dell’homelessness, la dimensione temporale; gli esiti abitativi.

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Figura 1: Modello ecologico dell’homelessness Fonte: Nooe, Patterson, 2010.

Una delle particolarità del modello ecologico proposto da Nooe e Patterson è l’adozione del paradigma biopsicosociale, uno strumento sviluppato all’interno della psicologia della salute per valutare lo stato di salute della persona, concepita come realizzazione di sé. Il modello biopsicosociale (Engel, 1977; Engel, 1981) compie la valutazione attraverso un approccio sistemico, contestualizzando la persona all’interno di un preciso ambiente psicosociale, in contrapposizione al modello biomedico, che in ambito sanitario aveva mostrato forti limiti ermeneutici. Alla base del modello biomedico c’è, infatti, una visione dualistica dell’uomo, radicalmente scisso in mente e

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corpo, in linea con la tradizione filosofica cartesiana. Tenuto conto di questo assunto, l’interesse medico è assorbito in toto dai processi biologici ed è al contempo distolto da ogni altro elemento, come la dimensione psichica della persona. La medicina si occupa esclusivamente del corpo biologico concepito come una macchina e la malattia viene rappresentata come un guasto del corpo-macchina (deviazione dalla norma). Conseguentemente, al medico spetta il compito di ripristinare l’equilibrio perduto dal corpo, andando ad individuare quelle variabili biologiche disequilibrate (cause biologiche oggettivamente identificabili) e cercando di ripristinarle nel loro assetto originario (la norma). Ciò che caratterizza questa impostazione è che la salute equivale all’assenza di malattia o, tornando alla metafora del corpo-macchina, all’assenza di difetti nella macchina. Si tratta di un modello meccanicista, doctor-centred, con una chiara separazione dei ruoli fra medico e malato, del tutto privo di una riflessione ambientale. Un modello solido, facilmente trasmissibile, con un chiaro metodo clinico, il quale, tuttavia, presenta un chiaro limite ermeneutico emerso da una costatazione: i corpi esposti a un medesimo agente patogeno rispondono in maniera diversa. Alcune persone si ammalano, mentre altre non lo fanno. Da questa osservazione è entrata in crisi l’idea di uno sviluppo meccanico della patologia nel corpo e si è aperta la strada per un approccio diverso, cosciente dei limiti imposti da una visione strettamente concentrata sul dato biologico. È stato così sviluppato il paradigma biopsicosociale, in cui ai fattori biologici vengono affiancati quelli psicologici e sociali (ignorati nel modello biomedico), i quali possono modulare l’efficacia della risposta del malato. L’interesse per il modello biopsicosociale ha superato l’ambito sanitario, ad esempio diventando un riferimento per l’attuale riflessione della pedagogia speciale, ed è stato assunto anche nella proposta ecologica di Nooe e Patterson (2010) qui analizzata. Il motivo di tale scelta può essere individuato nella rappresentazione teorica di una persona complessa e multidimensionale, portatrice di bisogni, desideri e aspirazioni individuali, ma anche direttamente interconnessa alla collettività (ad esempio alle politiche pubbliche di welfare, salute, educazione e lavoro). Nel modello ecologico viene proposta una suddivisione ordinata dei fattori di rischio biopsicosociale legati all’homelessness: a)

l’occupazione e la perdita del lavoro, la bassa remunerazione, la povertà, la perdita di sussidi pubblici, il costo delle abitazioni e l’accesso al mercato immobiliare, l’instabilità abitativa familiare, la deistituzionalizzazione, il costo della sanità, le discriminazioni, come fattori strutturali;

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b)

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l’età, lo stato civile, lo stato della salute, l’istruzione, i disturbi psicopatologici, l’abuso di sostanze, l’appartenenza a minoranze etniche o ad altre forme di minoranza come quelle legate all’orientamento sessuale, come caratteristiche o condizioni individuali, assieme a diverse esperienze personali come i traumi infantili e gli affidi, le violenze e i conflitti familiari, gli abusi sessuali, la detenzione, i maltrattamenti o l’aver prestato servizio militare.

Per avvalorare la scelta sui fattori di rischio biopsicosociale inclusi all’interno del modello, gli autori presentano una raccolta di studi assai recenti (dalla metà degli anni Novanta in poi) che descrive ognuno di essi; decine di studi che, al contempo, costituiscono la forza e il limite del modello, in quanto si basano su ricerche svolte in un unico contesto geografico, quello statunitense, e pertanto non sono immediatamente significativi per altri contesti, come quello europeo. Ad esempio, la presenza o l’assenza di tutele nel mondo del lavoro statunitense o nel suo sistema sanitario, come nel caso delle persone con disabilità, non permettono la sovrapposizione acritica del fenomeno osservato negli Stati Uniti d’America, con quello presente in Italia o in Europa. Lo stesso vale per le discriminazioni o le esperienze personali, le quali possono essere molto connesse alla cultura locale, come nel caso delle minoranze o del servizio militare. Certamente un limite per il lettore europeo, ma un valore rispetto all’orientamento ecologico, in quanto una delle caratteristiche emerse è proprio quella che gli ambienti dello stesso tipo differiscano l’uno dall’altro, a maggior ragione in contesti geografici così distanti. Proseguendo con la descrizione delle componenti primarie del modello ecologico proposto, una volta identificati i fattori di rischio biopsicosociali che, interagendo fra loro, conducono a una esperienza di homelessness, vengono presi in esame le specifiche conseguenze negative individuali e sociali, che la persona o la famiglia senza dimora si trovano a vivere a causa della loro condizione. Vi sono conseguenze sulla persona come l’incremento dei danni alla salute e la sua compromissione, l’insorgere di disturbi psicopatologici, l’abuso di sostanze, l’isolamento sociale, la compromissione dell’istruzione e delle conoscenze, l’incremento degli abusi sessuali, dei maltrattamenti, un maggiore esercizio dell’attività criminale, ma anche una maggiore esposizione a esserne vittima, la perdita del lavoro, l’autolesionismo e la morte, mentre sul fronte delle conseguenze sociali si evidenziano l’aumento della povertà, dei problemi di pubblica sicurezza, dei reati contro il patrimonio, della prostituzione, della violenza di strada e dell’elemosina, l’aumento dell’uso di alcol, un generale affaticamento dei servizi sanitari, un aumento della filantropia comunitaria,

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come del suo opposto in termini di discordia comunitaria di fronte al fenomeno. Anche in questo caso, gioca un ruolo centrale il contesto in cui sono state svolte le ricerche a cui gli autori fanno riferimento, sia nella selezione degli outcomes da prendere in considerazione, sia nel peso dato a questi elementi. La dimensione temporale del fenomeno, una delle componenti primarie del fenomeno, è riconosciuta come fortemente variabile. “Prima volta”, breve, situazionale, transitoria, episodica, cronica, sono alcuni dei termini più utilizzati dagli studi scientifici per descrivere l’esperienza di vita senza dimora, quantificata in giorni, settimane, mesi, anni. La proposta degli autori è quella di valorizzare la varietà delle esperienze attraverso l’uso di tre categorie, che richiamino un’esperienza unica nella vita, una ricorrente e una approssimativamente vicina alla permanenza. Le categorie utilizzate sono “prima volta”, “episodica” e “cronica”, sostanzialmente in linea con quanto presentato in precedenza. Per ultimo, oltre alla dimensione temporale, vengono presi in considerazione i luoghi e le alternative abitative a disposizione della persona o della famiglia senza dimora. In questo caso, la scelta degli autori è stata quella di rappresentare il continuum esistente fra le varie modalità di vita vissute dai soggetti senza dimora. Per farlo sono stati evidenziati i percorsi di transizione attraverso la rappresentazione visiva delle connessioni esistenti (reali o potenziali) tra una categoria abitativa e un’altra, tenendo presente che ognuno di questi percorsi è nuovamente collegato agli outcomes individuali e sociali, in quanto anch’essi contribuiscono a incrementare o ad attenuare tali conseguenze negative. Per descrivere la dimensione abitativa vengono prese in considerazione la strada, la condizione di vita maggiormente visibile, a cui segue tutto l’insieme delle situazioni di abitazione condivisa e perlopiù nascosta alle indagini statistiche, i rifugi d’emergenza, le carceri e le celle, l’ospedalizzazione, gli appartamenti di transizione, gli alloggi solidali permanenti (es. quelli dei programmi di housing first), infine, gli alloggi affittati autonomamente o altre sistemazioni non transitorie. Le potenzialità del modello ecologico di Nooe e Patterson sono prevalentemente legate alla chiarezza espositiva in grado di rappresentare la complessità del fenomeno, avendo ordinato e interconnesso tra loro i risultati di numerosi studi incentrati su specifici aspetti dell’homelessness. Il valore aggiunto non è quindi rappresentato da approfondimenti specifici o dati inediti, bensì dall’elaborazione di un modello olistico di secondo livello, in grado di prendere gli studi pregressi e di elaborarli in maniera interconnessa. Nelle intenzioni degli autori questa costruzione eviterebbe di cedere ai riduzionismi teorici delle posizioni polarizzate e promuoverebbe la possibilità di interventi multisistemici. La proposta teorica di un approccio ecologico

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applicato all’homelessness non ha, tuttavia, avuto un forte impatto sulle pratiche. Secondo Nicholas Pleace (2016) gli studi legati alla new orthodoxy hanno da tempo superato la polarizzazione delle posizioni teoriche, rendendo l’approccio ecologico e altri analoghi tentativi di sintesi oramai obsoleti7. Sempre Pleace (2016) vede un altro limite di questo approccio nella forte dipendenza dal contesto americano, limite superabile solo attraverso una totale riscrittura del modello su dati europei, i quali, tuttavia, sono scarsi a confronto di quelli prodotti negli Stati Uniti d’America o, ad esempio, in Canada, dove si trova un tentativo di declinare l’approccio ecologico al contesto nazionale (Piat, Polvere, Kirst, Voronka, Zabkiewicz, Plante, Isaak, Nolin, Nelson, & Goerin, 2015). Nondimeno, la prospettiva ecologica può essere considerata un solido strumento chiarificatore per chi opera direttamente con le persone senza dimora (incluso l’educatore socio-pedagogico) e si interfaccia con un fenomeno così complesso, poiché offre al professionista una visione complessiva di ciò che il suo intervento può e deve prendere in considerazione per non limitarsi alla dimensione individuale e diventare, così, un intervento dannoso, oltre che inadeguato, insufficiente e produttore di ulteriore stigma e segregazione. La prospettiva ecologica, in estrema sintesi, ricorda che l’ambito di intervento è necessariamente plurale (persona e contesto) e multidimensionale (dalle interrelazioni gruppali più prossime alla persona senza dimora, alla cultura dominante).

2.4 Le persone senza dimora e i servizi a loro dedicati secondo la rappresentazione Istat Prima di analizzare gli interventi in risposta alla deprivazione abitativa, vengono presentati gli ultimi dati Istat (2015) frutto della seconda indagine (follow-up) sulla condizione delle persone che vivono in povertà estrema in Italia realizzata nel 2014. La prima fu svolta nel 2011. La loro presenza è stimata in 50.724 persone, cifra calcolata a partire da coloro che nei mesi di novembre e dicembre 2014 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o accoglienza notturna nei comuni italiani in cui l’indagine è stata condotta8. Istat (in accordo agli 7 Non si è d’accordo con Pleace (2016) nel posizionare la proposta di Nooe e Patterson fra gli studi etnografici che enfatizzano la patologia individuale. 8 Una nota nel report Istat (2015) esplicita alcune delle categorie escluse dall’indagine: “tale stima esclude, oltre alle persone senza dimora che nel mese di rilevazione non hanno mai mangiato presso una mensa e non hanno mai dormito in una struttura di accoglienza, i minori, le popolazioni Rom e tutte le persone che, pur non avendo una dimora, sono ospiti, in forma più o meno temporanea, presso alloggi privati (ad esempio, quelli che ricevono

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altri soggetti promotori della rilevazione statistica, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, la Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora – Fio.PSD e la Caritas italiana) ha adottato una definizione descrittiva di persone senza dimora per selezionare i servizi a loro dedicati. “Una persona è considerata senza dimora quando versa in uno stato di povertà materiale e immateriale, che è connotata dal forte disagio abitativo, cioè dall’impossibilità e/o incapacità di provvedere autonomamente al reperimento e al mantenimento di un’abitazione in senso proprio. Un individuo senza dimora è portatore di un disagio complesso, dinamico e multiforme” (Istat, 2011).

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La complessità, dinamicità e multiformità del disagio vengono approfondite attraverso quattro elementi ricorrenti nella condizione di senza dimora: “multifattorialità (presenza contemporanea - concause di esclusione - di bisogni e problemi diversi come ad esempio malattia, tossicodipendenza o alcoolismo, isolamento dalle reti familiari e sociali); progressività del percorso emarginante (le condizioni di disagio interagiscono, si consolidano e si aggravano divenendo un processo di cronicizzazione che si autoalimenta); esclusione dalle prestazioni di welfare (accresce la difficoltà nel trovare accoglienza e risposte appropriate nei servizi istituzionali per le elevate barriere di accesso); difficoltà nello strutturare e mantenere relazioni significative (si vivono le relazioni come funzionali alla sopravvivenza oppure caratterizzandole per una loro intrinseca superficialità)” (Istat, 2011).

La scelta di focalizzarsi in maniera esclusiva sui servizi di mensa e di accoglienza notturna è stata presa in seguito dei risultati di una fase della ricerca riguardante la mappatura dei servizi esistenti in Italia, antecedente alla prima rilevazione dei dati sulle persone. Istat (2011) nel 2010 ha individuato 727 enti e organizzazioni (soggetti privati o pubblici titolari delle attività del servizio) che hanno erogato servizi alle persone senza dimora nei 158 comuni italiani coinvolti dalla rilevazione, per un totale di 3.125 servizi presenti in Italia nel 2010. “Gli enti pubblici erogano direttamente il 14% dei servizi, raggiungendo il 18% dell’utenza. Se ad essi si aggiungono i servizi erogati da organizzazioni private che godono di finanziamenti pubblici, si raggiungono i due terzi sia dei servizi sia dell’utenza” (Istat, 2011).

ospitalità da amici, parenti o simili). La stima è di tipo campionario ed è soggetta all’errore che si commette osservando solo una parte e non l’intera popolazione: l’intervallo di confidenza all’interno del quale si colloca il numero stimato di persone senza dimora varia, con una probabilità del 95%, tra 48 mila 966 e 52 mila 482 persone” (Istat, 2015).

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Il servizio è considerato una tipologia di prestazione erogata presso una determinata sede dell’organizzazione (che può averne più di una).

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“È necessario che l’erogazione delle singole prestazioni avvenga: i) in maniera distinta da qualsiasi altra prestazione (deve essere possibile identificare il luogo fisico di erogazione, l’orario di erogazione e il personale dedicato); ii) in maniera continuativa o ripetuta nel tempo (ad esempio un gruppo di volontari che una tantum e autonomamente decide di distribuire vecchi indumenti ai senza dimora che dormono alla stazione non è un servizio così come non lo è quello del parroco che, quando dispone di vecchi indumenti offerti dai parrocchiani, decide di metterli a disposizione di chi ne ha bisogno); iii) socialmente riconosciuta e fruibile (i potenziali utenti possono reperire informazioni sull’esistenza e le modalità di accesso)” (Istat, 2011).

È fornita una classificazione delle 32 tipologie di servizio individuate durante la mappatura, a loro volta suddivise in 5 macrotipologie (vedi Tabella 2): a) b) c) d) e)

servizi servizi servizi servizi servizi

di di di di di

supporto in risposta ai bisogni primari; accoglienza notturna; accoglienza diurna; segretariato sociale; presa in carico e accompagnamento.

Tabella 2: suddivisione per macrotipologia dei servizi per persone senza dimora (Istat, 2011), con descrizioni tratte dalle Linee di indirizzo per il contrasto alla grave emarginazione adulta in Italia. Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, 2015. A – Servizi di supporto in risposta ai bisogni primari 1. Distribuzione viveri - strutture che distribuiscono gratuitamente il sostegno alimentare sotto forma di pacco viveri e non sotto forma di pasto da consumare sul posto.

2. Distribuzione indumenti - strutture 3. Distribuzione farmaci - strutture che distribuiscono gratuitamente che distribuiscono gratuitamente vestiario e calzature. farmaci (con o senza ricetta).

4. Docce e igiene personale - strutture che permettono gratuitamente di usufruire dei servizi per la cura e l’igiene della persona.

5. Mense - strutture che gratuitamente distribuiscono pasti da consumarsi nel luogo di erogazione dove l’accesso è sottoposto normalmente a vincoli.

6. Unità di strada - unità mobili che svolgono attività di ricerca e contatto con le persone che necessitano di aiuto laddove esse dimorano (in genere in strada).

9. Dormitori - strutture gestite con continuità nel corso dell’anno che prevedono solo l’accoglienza degli ospiti durante le ore notturne.

10. Comunità semiresidenziali strutture dove si alternano attività di ospitalità notturna e attività diurne senza soluzione di continuità.

7. Contributi economici una tantum – è una forma di supporto monetario a carattere sporadico e funzionale a specifiche occasioni. B – Servizi di accoglienza notturna 8. Dormitori di emergenza - strutture per l’accoglienza notturna allestite solitamente in alcuni periodi dell’anno, quasi sempre a causa delle condizioni meteorologiche.

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58 11. Comunità residenziali - strutture nelle quali è garantita la possibilità di alloggiare continuativamente presso i locali, anche durante le ore diurne e dove è garantito anche il supporto sociale ed educativo.

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12. Alloggi protetti - strutture nelle quali l’accesso esterno è limitato. Spesso vi è la presenza di operatori sociali, in maniera continuativa o saltuaria.

13. Alloggi autogestiti - strutture di accoglienza nelle quali le persone hanno ampia autonomia nella gestione dello spazio abitativo (terza accoglienza).

15. Comunità residenziali - comunità aperte tutto il giorno che prevedono attività specifiche per i propri ospiti anche in orario diurno.

16. Circoli ricreativi - strutture diurne in cui si svolgono attività di socializzazione e animazione, aperte o meno al resto della popolazione.

18. Servizi informativi e di orientamento - sportelli dedicati specificamente o comunque abilitati all’informazione e all’orientamento delle persone senza dimora rispetto alle risorse e ai servizi del territorio.

19. Residenza anagrafica fittizia - uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e che sono riconosciuti dalle anagrafi pubbliche a i fin i dell’iscrizione all’anagrafe fittizia comunale.

20. Domiciliazione postale - uffici ove è possibile eleggere il proprio domicilio e ricevere posta.

21. Espletamento pratiche - uffici atti al segretariato sociale specifico per le persone senza dimora.

22. Accompagnamento ai servizi del territorio - uffici di informazione e orientamento che si fanno carico di una prima lettura dei bisogni della persona senza dimora e del suo invio accompagnato ai servizi competenti per la presa in carico.

C – Servizi di accoglienza diurna 14. Centri diurni - strutture di accoglienza e socializzazione nelle quali si possono passare le ore diurne ricevendo anche altri servizi. 17. Laboratori - strutture diurne ove si svolgono attività occupazionali significative o lavorative a carattere formativo o di socializzazione.

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D – Servizi di segretariato sociale

E – Servizi di presa in carico e accompagnamento 23. Progettazione personalizzata uffici di informazione e orientamento che si fanno carico di una prima lettura dei bisogni della persona senza dimora e del suo invio accompagnato ai servizi competenti per la presa in carico.

24. Counselling psicologico - uffici con servizi professionali di sostegno psico-sociale alle persone senza dimora mediante tecniche di counselling.

25. Counselling educativo - uffici con servizi professionali di presa in carico educativa delle persone senza dimora mediante tecniche di counselling.

26. Sostegno educativo - uffici con possibilità di presa in carico ed accompagnamento personalizzato da parte di educatori professionali.

27. Sostegno psicologico - uffici con possibilità di offrire sostegno psicoterapeutico alle persone senza dimora.

28. Sostegno economico strutturato - uffici con possibilità di offrire sostegno economico continuativo alle persone senza dimora sulla base di un progetto strutturato di inclusione sociale.

29. Inserimento lavorativo - uffici con possibilità di offrire alle persone senza dimora inserite in un percorso di inclusione sociale opportunità di formazione lavoro, di lavoro temporaneo o di inserimento lavorativo stabile.

30. Ambulatori infermieristici / medici - servizi sanitari dedicati in modo specifico alla cura delle persone senza dimora, in modo integrativo rispetto al servizio sanitario regionale.

31. Custodia e somministrazione terapie - struttura presidiata da operatori sociali per la custodia e l’accompagnamento delle persone senza dimora nell’assunzione di terapie mediche.

32. Tutela legale - uffici con possibilità di offrire tutela legale alle persone senza dimora per il tramite di professionisti a ciò abilitati.

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Sebbene la rete dei servizi presenti una certa fluidità rispetto alla loro apertura e alla chiusura, con un elevato turn over riscontrabile anche solo considerando i servizi di mensa e di accoglienza notturna (Istat, 2015), è significativo considerare la composizione che questi servizi presentavano nel 2010 (vedi Tabella 3) per costruire una sorta di bussola d’orientamento rispetto agli interventi più diffusi. In assenza di un osservatorio permanente è, tuttavia, complesso ricostruire la rete nazionale dei servizi o registrarne i movimenti, se non attraverso il ricco sguardo d’insieme della Fio.PSD, l’associazione che unisce i principali enti pubblici e privati impegnati nella lotta alla povertà estrema, alla grave emarginazione adulta e nella solidarietà con le persone senza dimora. Tabella 3: Servizi e utenza del servizio per macrotipologia nel 2010. Fonte: Istat, 2011. Supporto in risposta ai bisogni primari

Accoglienza Accoglienza Segretariato Presa in carico e notturna diurna sociale accompagnamento

Servizi (composizione percentuale)

34,0

16,6

4,1

24,1

21,2

Servizi (valori assoluti)

1.061

520

128

754

662

Utenza (composizione percentuale)

49,9

2,9

1,8

21,7

23,7

I servizi di supporto in risposta ai bisogni primari (macrotipologia A) raggruppano un terzo (34%) di tutti i servizi dedicati alle persone senza dimora: il loro scopo è in prevalenza quello di distribuire beni di prima necessità come viveri, indumenti, coperte, farmaci, prodotti per l’igiene personale o garantendo servizi per il soddisfacimento di tali bisogni (mense, docce). Ad esclusione delle unità di strada, questi servizi generalmente erogano prestazioni di tipo assistenziale. A questi servizi si rivolge la metà dell’utenza complessiva (49,9%). I servizi di accoglienza notturna (macrotipologia B) raggruppano il 16.6% di tutti i servizi, raggiungendo tuttavia una parte irrisoria dell’utenza totale (2,9%). All’interno di questa macrotipologia, i dormitori ordinari e quelli d’emergenza rappresentano il 39% del totale dell’offerta, a fronte dell’accoglienza del 76% dell’utenza (oltre dieci volte quelli accolti negli alloggi e cinque volte quelli accolti nelle comunità residenziali). Il 33% dei servizi della macrotipologia sono comunità residenziali o semiresidenziali, mentre il 28% alloggi protetti o autogestiti. I servizi di accoglienza diurna (macrotipologia C) raggruppano appena il 4.1% di tutti i servizi: sono così considerati un servizio marginale, per numero e utenza raggiunta, presente perlopiù nelle grandi città.

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I servizi di segretariato sociale (macrotipologia D) raggruppano un quarto (24.1%) dei servizi erogati, raggiungendo una percentuale di utenza analoga (21,7%). In questo caso è interessante evidenziare come il 52% di questi sia erogato direttamente da un ente pubblico e il 41% da privati con finanziamento pubblici. I servizi di presa in carico e accompagnamento (macrotipologia E) raggruppano un quinto (21.2%) dei servizi erogati, raggiungendo anche in questo caso una percentuale di utenza analoga (23,7%). Rispetto alle modalità d’accesso ai servizi è necessario fare una premessa. Le tradizionali modalità di accesso ai servizi (rispetto a orari, protocolli, attese, linguaggio, ecc.) spesso risultano disfunzionali nell’approccio con le persone senza dimora, rappresentando vere e proprie istanze refrattarie, che compromettono irrimediabilmente la raggiungibilità e l’efficacia stessa del servizio a partire dalle regole e dalle procedure. Abbassare i vincoli e le barriere dei servizi è stato l’obiettivo del modello d’intervento sociale chiamato a bassa soglia o, per esteso, a bassa soglia d’accesso, che ha promosso una riduzione intenzionale della distanza tra servizi e utenza. Secondo questo modello di potenziamento della fruibilità, un servizio rivolto a persone senza dimora deve adottare una metodologia d’intervento basata principalmente su due principi: a) b)

la riduzione dei criteri di accesso, per promuovere la massima accessibilità; la riduzione degli ostacoli alla relazione, per promuovere la prossimità relazionale.

Tabella 4: Modalità d’accesso ai servizi per macrotipologia, in percentuale. Fonte: Istat, 2011. Supporto in risposta Accoglienza Accoglienza Segretariato ai bisogni primari notturna diurna sociale

Presa in carico e accompagnamento

Accesso libero

79,2

31,0

53,1

76,1

55,0

Accesso previo appuntamento

6,5

16,9

14,8

9,8

22,7

Accesso presentazione da operatore

6,9

32,5

18,0

6,5

13,4

Altro

7,4

19,6

14,1

7,6

8,9

Rispetto alle modalità d’accesso ai servizi (vedi Tabella 4) Istat (2011) riporta tre categorie: accesso libero, accesso previo appuntamento e accesso attraverso la presentazione della persona da parte di un operatore di altro servizio. La modalità di accesso libera è la prevalente, sebbene non sia specificato in quale misura questa rappresenti una metodologia riconducibile alla bassa soglia. Questa è una mancanza che si riscontra in generale rispetto agli

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orientamenti e alle modalità d’intervento dei servizi. Sebbene alcuni di questi servizi richiami esplicitamente un approccio assistenziale (es. distribuzione beni primari), non viene riferito se gli altri siano orientati ad approcci come lo staircase approach (modello a gradini) o l’housing first approach (modello housing first), modelli che saranno presentati nel paragrafo successivo. L’organizzazione di un servizio è già di per sé portatrice di significato nei suoi aspetti culturali strutturali e dinamici e queste modalità non sono indifferenti a chi usufruirà di tali servizi: queste condizioneranno la vita della persona e la quale si adatterà alle esigenze del servizio. “Ne deriva, per la persona, un condizionamento che inibisce gradualmente la capacità di sviluppare autonomia e autodeterminazione” (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2015, pp. 25), ovvero un condizionamento che può incrementare o diminuire il livello di passivizzazione e, inversamente, di attivazione (empowerment). Le Linee di indirizzo forniscono un chiaro esempio a riguardo. “Risulta evidente come la risposta emergenziale del dormitorio protratta nel lungo periodo sia predittiva di una regressione del livello di “capacitazioni” e di “funzionamenti” della persona e come progressivamente la inducano a rinunciare ad un percorso progettuale di uscita dalla propria condizione di senza dimora” (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2015, pp. 25-26).

Rimane da capire chi siano le 50.724 persone senza dimora stimate da Istat (2015) nel 2014, il “2,43 per mille della popolazione regolarmente iscritta presso i comuni considerati dall’indagine, valore in aumento rispetto a tre anni prima, quando era il 2,31 per mille” (Istat, 2015). Le caratteristiche principali della sua rappresentazione statistica (vedi Tabella 5) raffigurano la persona senza dimora come un uomo (85,7%), straniero (58,2%), con meno di 54 anni (75,8%) e con età media di circa 44 anni; con titolo di studio basso (39,6% licenza media inferiore, 16,4% licenza elementare, 9,4% privo di titolo di studio) e in genere solo (76,5%). Poco più della metà (51%) degli intervistati ha dichiarato di non essersi mai sposato. Appare interessante anche il dato rispetto alla suddivisione dei servizi e delle persone per ampiezza del comune (vedi Tabella 6): oltre la metà degli intervistati vive nelle grandi aree metropolitane (62,5%), sebbene in quegli stessi territori sia presente circa un terzo dei servizi nazionali (36,5%), mentre nei comuni con 70-250 mila abitanti, dove è cospicua la presenza di servizi (47,3%), è presente un terzo degli intervistati (32,6%). È tuttavia possibile che questo dato sia stato alterato da un diverso livello di turn over dei servizi, più frenetico nelle aree metropolitane, più lento negli altri comuni. In tre anni (ovvero il tempo trascorso dalla prima indagine al follow-up) sarebbe considerevolmente incrementata la presenza di chi vive in strada da oltre due anni, aumentando così il rischio della cronicizzazione (vedi Tabella 7).

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“La durata della condizione di senza dimora, rispetto al 2011 si allunga: diminuiscono, dal 28,5% al 17,4%, quanti sono senza dimora da meno di tre mesi (si dimezzano quanti lo sono da meno di 1 mese), mentre aumentano, le quote di chi lo è da più di due anni (dal 27,4% al 41,1%) e di chi lo è da oltre 4 anni (dal 16% sale al 21,4%)” (Istat, 2015). Tabella 5: Risultati principali dell’indagine condotta nell’anno 2014. Fonte: Istat, 2015. Valore assoluto

Composizione percentuale

Maschile

43.468

85,7

Femminile

7.257

14,3

Straniera

29.533

58,2

Italiana

21.259

41,9

18 – 34

13.012

25,7

35 – 44

12.208

24,1

45 – 54

13.204

26,0

55 – 64

9.307

18,4

65 e oltre

2.994

5,9

Nord est

9.149

18,0

Nord ovest

19.287

38,0

Centro

11.998

23,7

Sud

5.629

11,1

Isole

4.661

9,2

4.789

9,4

Licenza elementare

8.305

16,4

Licenza media inferiore

20.088

39,6

Diploma di scuola media superiore o oltre

16.585

32,7

957

1,9

Da solo

38.807

76,5

Con figli e/o coniuge/partner

3.035

6,0

Con altri familiari e/o amici

8.730

17,2

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Sesso

Cittadinanza

Classe di età

Ripartizione geografica

Titolo di studio Nessuno

Nessuna informazione Con chi vive

Nessuna informazione Totale

152

0,3

50.724

100.0

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SENZA DIMORA

Tabella 6: Servizi e persone senza dimora per ampiezza del comune di appartenenza. Fonte: Istat, 2015.

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Servizi

Persone senza dimora

Valore assoluto

Composizione percentuale

Valore assoluto

Composizione percentuale

Aree metropolitane

280

36,5

31.710

62,5

Comuni periferici delle aree metropolitane

28

3,6

386

0,8

Comuni con 70-250 mila abitanti

363

47,3

16.559

32,6

Comuni capoluogo con 30-70 mila abitanti

97

12,6

2.069

4,1

Totale

768

100,0

50.724

100,0

Tabella 7: Durata della condizione di senza dimora tra gli anni 2011 e 2014 (Istat, 2015) 2011

2014

Valore assoluto

Composizione percentuale

Valore assoluto

Meno di 1 mese

6.806

14,3

3.730

7,4

Tra 1 e 3 mesi

6.748

14,2

5.058

10,0

Tra 3 e 6 mesi

5.669

11,9

5.318

10,5

Tra 6 mesi e 1 anno

7.620

16,0

7.593

15,0

Tra 1 e 2 anni

6.897

14,5

7.487

14,8

Tra 3 e 4 anni

5.413

11,4

9.967

19,7

Oltre 4 anni

7.615

16,0

10.833

21,4

881

1,9

738

1,5

47.648

100.0

50.724

100.0

Nessuna informazione Totale

Composizione percentuale

2.5 Gli interventi in risposta alla deprivazione abitativa Indipendentemente da come l’homelessness sia socialmente costruita, vi è un sostanziale accordo sul fatto che il fenomeno debba essere affrontato (Lee et al., 2010). Manca, tuttavia, il consenso su quale sia il modello d’intervento più efficace. L’interpretazione del fenomeno ha indubbiamente un peso decisivo nella costruzione delle politiche di welfare o nelle scelte del privato sociale e, come si è visto, solo recentemente si sta convergendo su interpretazioni multidimensionali, optando conseguentemente per interventi olistici. Così, se in passato erano predominanti gli interventi emergenziali, non continuativi e limitati nel tempo, caratterizzati da azioni di riduzione del danno per dare “tregua” dalla vita in strada e, in alcuni casi, affrontare singoli aspetti di natura sanitaria, attualmente sono favoriti gli interventi di lungo termine, centrati sull’abitare stabile, con azioni pianificate assieme alla

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persona senza dimora e svolte nel corso degli anni. Non si tratta, però, di avanzamenti progressivi di modelli sempre più “raffinati”, ma di una vera e propria stratificazione di modelli che si possono trovare assieme anche all’interno di una stessa realtà locale, il che non sarebbe problematico se offrissero risposte diverse a bisogni diversi, ma lo diventa nel momento in cui gli effetti delle azioni producono risultati che vanno dal miglioramento delle condizioni di vita della persona senza dimora, alla sua maggiore esclusione sociale e permanenza in quella condizione. Prendendo in esame i modelli di intervento abitativo più diffusi in Italia, proposti all’interno delle linee di indirizzo ministeriali (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, 2015), si possono individuare tre distinti approcci metodologici alla deprivazione abitativa e l’homelessness: – – –

l’approccio emergenziale; lo staircase approach; l’housing first approach.

L’approccio emergenziale consiste nell’attivazione di risorse a favore di persone senza dimora al verificarsi di stati d’emergenza (si prenda ad esempio l’emergenza freddo attivata durante il periodo invernale). Sebbene questo approccio sia molto diffuso, è tendenzialmente considerato privo di una strategia complessiva, anche di breve periodo, se non quella fornita dai risultati immediati. L’emergenza freddo è, ad esempio, nata per evitare che le persone senza dimora muoiano in strada durate i periodi invernali con temperature rigide9, benché questa sia una falsa emergenza in quanto ogni anno, per alcuni mesi, le temperature presentano questa criticità. Superati i giorni con le temperature più rigide, le persone tornano in strada, riprendendo la vita precedente. Gli interventi ad approccio emergenziale sono perlopiù interventi di riduzione del danno, finalizzati al soddisfacimento dei bisogni primari indifferibili, in quanto si presume che sia a rischio l’incolumità della persona. Tale approccio non ha la finalità di arrestare il processo di impoverimento, né di incidere quantitativamente o qualitativamente sul fenomeno; pertanto, se non inquadrati all’interno di un piano strategico più ampio, gli interventi emergenziali possono risultare inefficaci, benché promossi come misure salvavita. Tra le metodologie più strutturate, lo staircase approach (approccio a gradini) ha dominato le politiche di contrasto all’homelessness in USA, in Europa

9 Questa idea d’intervento emergenziale si è consolidata a seguito del provvedimento d’urgenza emesso dal Presidente del Consiglio dei ministri nel 2000: “Disposizioni urgenti per fronteggiare la grave emergenza riguardante le persone che versano in stato di povertà estrema e che si trovano senza dimora” (n.18 del 24-01-2000).

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e in altri paesi occidentali negli anni Novanta, mantenendo ancora oggi una certa importanza essendo una delle metodologie di intervento più diffuse. Lo staircase approach nasce in ambito psichiatrico, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, come nuovo approccio deistituzionalizzante mirato al supporto dei pazienti in uscita dagli ospedali psichiatrici verso altri servizi gradualmente sempre meno strutturati, fino al raggiungimento della piena indipendenza di vita (da qui l’idea dello staircase of transition, come scala di transizione verso un’ideale emancipazione del soggetto istituzionalizzato). Questo approccio strutturato per stadi, intesi come “una successione di interventi propedeutici l’uno all’altro, dalla prima accoglienza sino al reinserimento sociale” (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 2015, p. 26), benché sia nato con finalità deistituzionalizzanti e emancipatorie, nella pratica ha favorito interventi di segno opposto, incapaci di far emergere la soggettività dei beneficiari dei servizi e il confronto con la propria volontà; ciò si è tradotto in interventi di depotenziamento (disempowerment) del potere già scarso delle persone senza dimora, con il risultato di “fissarle” nelle proprie carenze (aumentando la lettura stereotipata della loro condizione), all’interno di percorsi sempre più standardizzati, con requisiti di accesso allo stadio successivo rigidi, trasformandosi così da strumento di emancipazione a ostacolo in grado di frenare quell’autonomia inizialmente prospettata (Pleace, 2016). Prendendo come esempio di staircase approach quello svedese proposto da Sahlin (2005), sono evidenziati quattro gradini: la sfera abitativa informale (composta da ospedali, carceri, sistemazione da parenti o amici, ecc.), il mercato dei centri d’accoglienza (composto da dormitori notturni, dormitori diurni e notturni e altre forme di accoglienza assistenziale), il mercato abitativo secondario (degli alloggi di transizione o di altre forme alloggiative intermedie) e il mercato abitativo regolare (composto dai contratti d’affitto e dagli appartamenti di proprietà). La principale implicazione dei risultati di diversi studi a cui Sahlin fa riferimento è che questo modello di staircase of transition, sebbene abbia l’obiettivo di includere le persone senza dimora nel mercato abitativo regolare, non riesce mai a raggiungerlo e, al contrario, aggrava la situazione di queste persone, compromettendo la loro percezione di capacità di vivere in modo indipendente (capability of independent living), ovvero le loro capacità abitative (housing capabilities), facendone emergere le abilità di sopravvivenza, più che supportarne l’autonomia. La sorveglianza, le restrizioni e il rispetto delle regole imposte all’interno di questi percorsi sono di ostacolo alla persona, prima ancora che alla salita della scala, e non di rado si traducono in mezzi per espellere i beneficiari dai servizi, i quali si trovano così a dover ricominciare la scalata ogni volta, sempre che conservino la volontà di ricominciare, mentre chi adegua il proprio

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comportamento alle norme deve comunque attendere diversi anni prima di poter di ottenere una propria abitazione, che nella maggior parte dei casi non arriverà, aumentando la sfiducia della persona senza dimora nel servizio e negli enti che lo gestiscono (Sahlin, 2005). A ben vedere il discorso di Sahlin parte dall’esperienza dello staircase approach, ma constata un fatto ben più ampio: trattando coloro che sono esclusi dal normale mercato immobiliare (libero mercato degli affitti) come “incapaci” di essere inquilini, gli enti locali (o altri soggetti privati) confermano, rafforzano e legittimano le presunzioni negative dei proprietari di casa sulle persone senza dimora e, di conseguenza, le loro “politiche” di esclusione. E su questo punto la new orthodoxy ha duramente criticato lo staircase: i servizi che si rifanno a questo approccio hanno fallito il proprio obiettivo, poiché spesso hanno preferito enfatizzare i comportamenti individuali e riprodurre idee stereotipate sulle persone senza dimora (Pleace, 2016), anziché supportare e orientare la persona verso l’autonomia. Infine l’housing first approach, basato sul programma l’housing first (“prima la casa” o “prima l’alloggio”), un programma di intervento che più di altri, in questo momento storico, sta venendo promosso in Europa e negli Stati Uniti d’America, dove è stato ideato per via dell’alto grado di successo (Tsemberis & Eisenberg, 2000; Tsemberis, 2010; Cortese, 2016; Molinari & Zenarolla, 2018). A differenza dello staircase approach, con cui condivide la genesi in ambito psichiatrico (Tsemberis, 1999), l’housing first parte dalla casa come primo elemento dell’intervento da garantire nel minor tempo possibile (rapid re-housing), essendo stato pensato come approccio innovativo per supportare l’uscita dalla vita in strada delle persone restie ad intraprendere percorsi lineari di inserimento abitativo (linear residential treatment model) o incapaci di stare alle regole richieste da quei servizi. L’housing first riconosce nell’abitare un diritto umano universale10: quello è il punto di partenza per lo sviluppo dell’intero intervento. Alla persona senza dimora viene offerto di trasferirsi dalla strada a un’abitazione adeguata, senza la necessità di particolari garanzie o percorsi graduali. Non vi è alcun tipo di giudizio sulla persona rispetto alla condizione che sta vivendo (Pleace, 2016). Si promuove, invece, una lettura positiva della persona, in contrasto con altre interpretazioni che esaltano le mancanze da dover colmare (o “riparare”) prima di poter considerare la persona affidabile e in grado di accedere a un alloggio (Lee et al., 2010), poiché non considera le persone senza dimora 10

Il diritto all’abitare (o diritto alla casa) è espresso all’art. 25 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e all’art. 11 della Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali dell’ONU.

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(Tsemberis parla specificamente persone senza dimora con psicopatologie) troppo fragili o troppo clinicamente instabili per far fronte a una vita “normale” (Tsemberis, Eisenberg 2000). In forza di ciò, l’alloggio è consegnato alla persona senza vincoli di tempo, dando modo alla persona di ricostruirsi una propria dimensione abitativa e sociale in assenza di restrizioni imposte dall’esterno, se non quelle legate alla comune convivenza. È possibile identificare otto principi chiave su cui il programma housing first è basato: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

abitare è un diritto umano; diritto di scelta e di controllo per i partecipanti; distinzione tra soluzione abitativa e trattamento; orientamento al recovery (recovery orientation); riduzione del danno; coinvolgimento attivo e non coercitivo; progettazione centrata sulla persona; supporto flessibile per tutto il tempo necessario.

Sono i beneficiari del servizio (o partecipanti) a scegliere: il servizio ascolta e rispetta la loro volontà, a partire da dove abitare. Secondo le indicazioni del programma originale, al beneficiario del servizio è offerto il supporto necessario per individuare e selezionare l’appartamento in cui andrà ad abitare, scegliendone la posizione in base alla disponibilità sul libero mercato immobiliare. Il programma originale prevede perfino la firma diretta del contratto d’affitto tra la persona senza dimora e il proprietario di casa, con un supporto nella stipula del contratto di locazione, nell’arredamento e durante la fase di trasferimento. Questo spazio decisionale, che può includere altri aspetti come la scelta di abitare soli o in compagnia e l’eventuale scelta dei coinquilini, riguarda anche gli aspetti sanitari: vi è, infatti, una netta separazione fra l’abitare e il trattamento. Ad esempio, a chi fa abuso di alcol o ne è dipendente non è richiesta la sua adesione a programmi di trattamento per poter entrare nella casa: al contrario, una volta entrata, si inizierà un dialogo che potrà portare la persona a decidere autonomamente di iniziare un percorso terapeutico. Così, assieme al decostruire la colpa nei confronti della persona senza dimora, i servizi di housing first rilevano il fabbisogno abitativo come correlato a fattori strutturali, soddisfacendolo come prima azione del programma e, successivamente, rimangono in ascolto della persona per affrontare assieme altri tipi di bisogni correlati a fattori individuali, garantendo un supporto, nel rispetto delle scelte del beneficiario del servizio e dei suoi tempi (Pleace, 2016). In questo senso housing first è particolarmente vicino all’approccio teorico della new orthodoxy (Pleace, 2016).

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Nel programma originale ai beneficiari del servizio è richiesta l’adesione a due requisiti: un minimo di due incontri mensili con gli operatori del servizio e la costruzione di un piano di gestione del denaro (Tsemberis, Eisenberg 2000). Questi requisiti sono applicati a tutti, ma in maniera flessibile, in modo da orientare il servizio alla persona e non viceversa. Tsemberis riporta l’esempio di chi, dopo anni di vita in strada, è restio a condividere la gestione del denaro, ma vi sono anche flessibilità costruite in base al contesto, come nel caso di quei paesi che non forniscono alcun reddito alle persone senza dimora o che partecipano con fondi pubblici alle spese di gestione e affitto della casa. Gli incontri con gli operatori del servizio sono richiesti per mantenere un costante dialogo aperto con la persona, con intensità diverse a seconda di ciò che è richiesto. Rispetto ai temi sanitari, l’housing first non ha l’obiettivo di interrompere il consumo delle sostanze, ma di ridurne il danno, aiutando il consumatore gestirne l’uso. La centralità della riduzione del danno all’interno dell’housing first approach ha permesso di svincolare gli aspetti sanitari da quelli abitativi, comportando sia la possibilità di esprimere una volontà contrastante, sia la negoziazione delle regole, mettendo in pratica un coinvolgimento della persona senza coercizioni. Questo continuo ribadire l’importanza dell’autodeterminazione della persona si esprime anche con l’orientamento dell’housing first al recupero progressivo del benessere personale (recovery orientation), inteso come ricerca dello scopo di vita. Anche in questo caso non vi sono direzioni prefissate: agli operatori del servizio è chiesto di valorizzare il potenziale della persona, incoraggiando l’idea che un cambiamento positivo è possibile. Lo scopo è quello di fornire (e non imporre) alla persona gli elementi fondamentali affinché possa vivere una vita sociale a lei congeniale, di inclusione comunitaria e di benessere personale, compresi gli aspetti lavorativi ed economici. Il recovery così inteso si pone come un obiettivo di riflessione aperta e continua sul senso, sulla direzione e sui significati della propria vita, a partire dal quotidiano.

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3. Detenuti in dimissione dal carcere, future persone senza dimora?

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3.1 Esplorazione della letteratura scientifica nazionale e internazionale È difficile stabilire che tipo di correlazione esista fra carcere e vita in strada. La produzione scientifica ha provato negli ultimi quarant’anni ad approfondire l’argomento, alimentando il dibattito con numerosi elementi colti da prospettive e ambiti disciplinari diversi. Di seguito si cercherà di perlustrare i risultati di tali indagini, dando ampio spazio alla letteratura anglosassone. In Italia la ricerca in tal senso è molto limitata e si riscontra esclusivamente quanto riportato da Bergamaschi (2017) rispetto ai lavori della Commissione di indagine sull’esclusione sociale nel 2003. Questa aveva indicato “una crescente correlazione tra i fenomeni di povertà estrema e l’occorrenza, nelle bibliografie delle persone senza dimora, di periodi di detenzione e/o internamento in strutture psichiatriche” (Bergamaschi, 2017, p. 58). Il Rapporto sulle politiche contro la povertà e l’esclusione sociale ha sostanzialmente ribadito che “un numero elevato di ospiti delle strutture di accoglienza notturna del territorio, rivolte in genere alle persone emarginate e in difficoltà, è composto proprio da persone dimesse dalle carceri” (Commissione di indagine sull’esclusione sociale, 2003, p. 159), elemento che Bergamaschi riscontra anche all’interno della ricerca svolta a San Marcellino, prendendo in considerazione un arco temporale di trent’anni. La lettura longitudinale dei dati a disposizione di questa ricerca indica un aumento dell’incidenza delle esperienze di detenzione fra le persone senza dimora accolte a San Marcellino, le quali passano da 11,2% tra il 1983/1989, a 15,5% tra il 2010/2014 (Bergamaschi, 2017, p. 58). Questi dati, come si vedrà, trovano conferma nella letteratura internazionale. La rivista Psychiatric Quarterly nel 1974 ha pubblicato due articoli sul tema carceri, dormitori e persone senza dimora, uno europeo di stampo psichiatrico (Gunn, 1974), l’altro americano inserito nel paradigma antropologico (Cumming, 1974). Mentre il primo articolo propone un’inversione di rotta nell’approccio alle persone considerate inadeguate, antisociali, senza dimora

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e in genere povere, passando da realizzare “ciò che si pensa essi vogliano” a “scoprire ciò che le persone coinvolte vogliono veramente”, il secondo articolo problematizza i limiti del discorso riguardante le persone che vivono in aree fatiscenti delle città, mettendo in luce la forte mobilità che porta questa popolazione a spostarsi di continuo fra celle, dormitori, ospedali psichiatrici, centri per alcolisti e missioni religiose, senza mai trovare collocazione stabile. Prendendo in considerazione il numero di coloro che sono stati coinvolti in ricerche, circa un terzo del campione diventerebbe irrintracciabile appena dopo un anno dallo svolgimento delle indagini (Cumming, 1974). Tuttavia, questo tentativo di fornire una sintesi a riguardo delle persone senza dimora, a partire dalla condizione delle persone di bassa estradizione sociale (skid road man), abitanti dei bassifondi (skid row o skid road) delle grandi città statunitensi, porta con sé numerosi limiti. In primo luogo, tutto è orientato al controllo: si parla delle persone senza dimora come di soggetti disadattati, con cui non si sa come comportarsi1, se non all’interno di vecchie logiche istituzionalizzanti2. L’ospedalizzazione sarebbe la migliore soluzione avvallata dalla letteratura e dai dati presentati nell’articolo, venendo così (ri) proposto il ricovero in clinica psichiatrica delle persone senza dimora, dove sarebbe possibile fornire loro le cure minime necessarie e rispondere ai bisogni espressi, in tal modo prevenendo altre possibili soluzioni come il ricorso alle missioni religiose o all’uso massiccio delle carceri (Cumming, 1974, p. 503). Ogni altra soluzione sperimentata sarebbe stata rigettata dagli irriducibili (unreformed skid row men). In questo articolo la correlazione fra carcere e vita in strada viene in tal senso presa in considerazione come fatto molto probabile, dovuto al disadattamento delle persone senza dimora rispetto a quanto richiesto nella società americana; un elemento lapalissiano, inevitabile se non attraverso il ricorso ad altre forme di istituzionalizzazione, come nel caso dell’ospedale psichiatrico. Non a caso il carattere “eccentrico” delle persone senza dimora negli Stati Uniti d’America fu oggetto di repressione da parte di varie leggi ancora in vigore nel 1972, le quali prevedevano, fra le altre misure, l’arresto per vagabondaggio e anticonformismo, nonché le leggi sul consumo di alcolici e il contenimento dell’ubriachezza in pubblico. Circa vent’anni dopo, Shlay e Rossi (1992), analizzando la letteratura americana prodotta fino a quel momento sul tema homelessness, misero in luce come una parte consistente della popolazione senza dimora avesse avuto nella propria storia almeno un’esperienza detentiva. L’alta percentuale di persone 1

“We do not know what to do with him” (Cumming, 1974, p. 502) “It does seem that if we cannot cure them, that is, persuade them to conform to our standards” (Cumming, 1974, p. 503). 2

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

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senza dimora detenute negli Stati Uniti d’America, il cui dettaglio verrà presentato in seguito, viene spiegata nei termini di insofferenza del sistema verso le persone senza dimora, spesso incarcerate per reati minori o messi in cella per infrazioni legate alla loro stessa condizione di povertà, con condanne in gran parte inferiori a un anno. Questo legame fra vita in strada e detenzione rimane immutato anche in presenza di pene più lunghe: vi è la possibilità che l’ex detenuto diventi una persona senza dimora, mantenendo uno status da emarginato, pur passando da una comunità coatta alla comunità libera. Dopo ulteriori vent’anni, un gruppo di ricercatori (Baldry, McDonnell, Maplestone, & Peeters, 2006) ha proposto un articolo specialistico sul tema, Ex-Prisoners, Homelessness and the State in Australia, nel quale vengono considerate le implicazioni insite nella scarcerazione di detenuti, a partire dall’impatto sociale sulla comunità. L’articolo si focalizza sulla situazione australiana poco dopo gli anni Duemila, durante i quali l’attenzione dello Stato è stata posta sull’integrazione sociale a fronte di un numero crescente di detenuti e di un alto tasso di recidiva. Tale ricerca suggerisce di concentrare le forze nei processi riabilitativi (rehabilitative processes during their time in prison) che portino a un reale inserimento in comunità (transition back into the community) a partire dal tema abitativo (housing). Inoltre, i risultati della ricerca evidenziarono alcune dinamiche legate alla homelessness, la più interessante delle quali è l’uso improprio del carcere per affrontare problemi di natura sociale o sistemica, soprattutto attraverso brevi periodi di detenzione. Perlopiù i problemi sistemici sarebbero legati al tema della casa, tema mai realmente affrontato rispetto a chi fa uso di droghe, né a chi ha difficoltà a trovare un impiego e, in generale, demandato alle famiglie e alle comunità locali. L’articolo Incarceration and Homelessness (Metraux, Roman, & Cho, 2008) affronta lo stesso tema constatando come in venticinque anni le popolazioni statunitensi detenute e senza dimora fossero aumentate esponenzialmente, arrivando a comprendere oltre ai singoli individui, anche intere famiglie senza dimora. A fronte di una percezione di sovrapposizione dei due fenomeni da parte degli operatori del settore, supportata da numerose storie di vita (anecdotal evidence), la consapevolezza di questo nesso da una prospettiva di ricerca sarebbe relativamente recente. Vengono pertanto prese in esame due tematiche: la prima riguardante le persone senza dimora come soggetti maggiormente esposti a un rischio di incarcerazione e, viceversa, la dimissione dal carcere come evento in grado di influire negativamente sulla vita delle persone particolarmente vulnerabili, tanto da essere un fattore di rischio e causa di homelessness; la seconda riguardante la centralità delle abitazioni e dei supporti all’abitare nella prevenzione alla homelessness, ma anche nella prevenzione alla criminalità e, di conseguenza, al rientro in carcere (contenimento della recidiva).

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

Anche l’articolo The New Homelessness Revisited (Lee et al., 2010) ha evidenziato i risultati di alcuni studi che pongono in forte correlazione la vita in strada con l’uscita da percorsi all’interno di istituzioni, tra le quali vi è anche il carcere. Al termine della detenzione, concludendo un percorso senza alcuna meta, scarsamente orientato a fornire elementi socializzanti (inadequate prerelease preparation), le persone con un recente passato di detenzione si ritrovano con mezzi economici deboli, con relazioni sociali atrofizzate o recise, e con uno stigma tale da inficiare sia la ricerca del lavoro, sia quella della casa. Particolarmente interessante è la proposta dell’applicazione dell’approccio ecologico alla homelessness (Nooe & Patterson, 2010), già presentato nel corso del Capitolo 2, in cui viene dedicata una sezione al tema della detenzione. Questa viene considerata uno degli elementi che compongono i fattori di rischio biopsicosociali che conducono alla condizione di senza dimora. L’approccio ecologico impone un ragionamento bidirezionale rispetto a questa relazione: come la vita di strada può agire da fattore di rischio per la detenzione, quantomeno nel contesto statunitense preso in esame dagli autori, così anche il carcere può condurre alla vita in strada, poiché la persona scarcerata ha un rischio maggiore di diventare senza dimora al termine della detenzione. Gli autori dell’articolo prendono in esame una serie di ricerche scientifiche che ritengono maggiormente esposti al rischio di detenzione gli individui con bassi livelli socioeconomici. In tal senso la loro detenzione, inclusa quella delle persone senza dimora, comporta un ulteriore isolamento dalla comunità rispetto a quella già vissuta in precedenza per ragioni socioeconomiche, nei termini di una riduzione aggiuntiva delle possibilità di reinserimento nella società. Inoltre, essere senza dimora e avere disturbi psichici aumenterebbe il rischio di diventare detenuti: almeno per quanto riguarda il contesto americano, le carceri avrebbero preso il posto dei manicomi, ma con un’aggravante. Se una persona con disturbi psichici e con dimora finisse in carcere a seguito di un reato, è molto alto il rischio che perda la dimora, diventando senza dimora una volta terminato il periodo di detenzione. L’articolo Homeless and incarcerated: An epidemiological study from Canada (Saddichha, Fliers, Frankish, Somers, Schuetz, & Krausz, 2014) propone uno studio esplorativo in ambito psichiatrico per indagare l’esistenza di una correlazione fra vita in strada e detenzione. Oltre la metà delle persone senza dimora in Canada, stimate fra 1,5 e 3 milioni di persone, soffrirebbe di disturbi psicopatologici o di disturbi causati dall’uso di sostanze psicoattive, ma, soprattutto, sarebbe accomunato da storie di incarcerazioni precedenti alla vita in strada. L’articolo prova pertanto a identificare i fattori di rischio a cui è esposta la popolazione più vulnerabile, per evitare un aumento delle

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

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persone senza dimora incarcerate e suggerire ai sistemi sanitari e giudiziari un approccio al tema diverso rispetto a quello attualmente applicato. Infine Homelessness and Housing Insecurity Among Former Prisoners (Herbert, Morenoff, & Harding 2015), uno dei più recenti studi sull’argomento, sostiene un’altra prospettiva: dagli studi longitudinali effettuati sui casi di libertà condizionale (parolees) in Michigan nel 2003, risulterebbero essere relativamente pochi i casi di approdo definitivo in strada (outright homelessness), a fronte di alti tassi di insicurezza abitativa (housing insecurity), un fattore di rischio che meglio rispecchia l’attuale fluidità abitativa che comprende sia esperienze transitorie di vita in strada (once-in-a-lifetime events), sia esperienze episodiche (o cicliche), caratterizzate da ingressi e uscite dalla vita in strada, anche solo per brevi periodi (Lee et al., 2010). Rispetto alla quantificazione del fenomeno, l’articolo di Gunn (1974) parla di una popolazione detenuta nel Regno Unito con un’esperienza di vita senza dimora precedente all’incarcerazione pari al 16% del totale: “Our census also indicated that some 16% of prisoners were homeless at the time of their arrest” (Gunn, 1974, p. 507). La prassi proposta rispetto a questo fenomeno è quella di non incarcerare e/o istituzionalizzare le persone senza dimora, se possibile, “Do not incarcerate or institutionalised people if it can possibly be avoided” (Gunn, 1974, p. 510), tenendo presente che questa non è un’idea nuova, ma certamente rimane un’idea costosa in termini di personale, di tempo e di sforzo, a fronte di un problema sociale non risolto: “The dream turned to a nightmare and woke us up in a real world, full of difficult people who just won’t go away” (Gunn, 1974, p. 510). L’articolo di Shlay e Rossi (1992) prende in considerazione venti studi differenti effettuati negli Stati Uniti d’America e le medie dei risultati di questi, quantificando in 18% la percentuale di popolazione senza dimora statunitense che ha avuto un’esperienza in carcere a seguito di un reato, percentuale che sale al 41% considerando tutte le esperienze di detenzione, sia in carcere a seguito di reati, sia in cella (ovvero in una stazione di polizia) per via di infrazioni che non comportano la detenzione, ma solo l’arresto temporaneo, o reati minori. Spesso negli studi internazionali vengono prese in considerazione entrambe le tipologie di detenzione, quella in carcere e quella in cella, benché quest’ultima sia più legata ad azioni di deterrenza messe in atto dalle forze di polizia, per contrastare il comportamento delle persone senza dimora ritenuto bizzarro o pericoloso per sé stesse o per gli altri. Tali risultati sono stati pressoché confermati in un altro recente studio americano (Kushel et al., 2005), il quale ha stimato lo stesso dato in 23,1%. Lo studio fornisce anche il lasso di tempo trascorso mediamente fra una detenzione e l’altra, circa 6,4 anni, e quantifica il periodo medio di vita passata in carcere in circa 4 anni. Un’altra ricerca pubblicata pochi anni dopo ha sostanzialmente confermato

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

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questa percentuale, affermando che quasi il 20% della popolazione senza dimora avrebbe avuto un passato di detenzione (Metraux et al., 2008) e, prendendo in esame la sola città di New York, tale soglia verrebbe alzata a 23,1%, tenendo in considerazione solo le esperienze detentive avvenute nei due anni precedenti lo studio (Metraux et al., 2008). Le percentuali presentate in questi studi, prevalentemente condotti in contesti anglosassoni e comprendenti un arco temporale di oltre trent’anni, stimano il fenomeno tra 16% e 23%. È un’oscillazione relativamente contenuta, di cui non si conosce un corrispettivo italiano. La prima parte della ricerca è stata pertanto orientata a stimare, attraverso un’indagine esplorativa, l’entità del fenomeno a Bologna.

3.2 L’indagine condotta a Bologna La letteratura scientifica internazionale offre un inedito punto di vista sul fenomeno delle persone senza dimora con esperienze di privazione della libertà. Ipotizzare che, in uscita dal carcere, alcune persone diventino senza dimora a causa di questa esperienza non è più una supposizione troppo azzardata. Quanto meno in diversi paesi occidentali ciò succede. Una parte delle persone in uscita dal carcere diventa senza dimora? Questa domanda non ha una risposta nei dati ufficiali del Ministero della Giustizia che si occupa delle persone detenute, né nel Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che si occupa (assieme ad ISTAT) di monitorare le persone senza dimora in Italia. La domanda che ha mosso la ricerca è tuttavia un’altra: ipotizzando che in Italia, come nel resto dei paesi occidentali, il carcere possa produrre maggiore esclusione sociale, fino ad incrementare la vita in strada, ci si chiede quali strategie adottare per contenere il fenomeno della vita in strada fra le persone uscite dal carcere? È possibile immaginare una serie di azioni educative e socio-assistenziali, ma anche strategie politiche, per limitare il più possibile questo fenomeno? Lo studio presentato in questo volume è stato sviluppato grazie a una ricerca di tipo qualitativo con intervento, finalizzata cioè a introdurre cambiamenti migliorativi per risolvere attraverso l’intervento, per quanto possibile, la situazione problematica oggetto di studio (Coggi & Ricchiardi, 2005), in particolare avvalendosi dell’approccio della ricerca-azione. Lo studio è stato circoscritto al territorio del Comune di Bologna, dove sono presenti più di un istituto di restrizione della libertà (per la precisione una casa circondariale, un carcere minorile e una REMS3), ma ai fini della ricerca è stata coinvolta 3

Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS).

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IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

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esclusivamente la Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. Sono stati coinvolti in questa ricerca i soggetti istituzionali che si occupano di entrambi gli ambiti di marginalità, detentiva e di vita in strada, ragionando assieme sulla costruzione di percorsi d’uscita dal carcere che limitassero il più possibile l’approdo alla vita in strada al termine della reclusione. La ricerca non ha prodotto un percorso da considerarsi concluso, ma, al contrario, un processo di cambiamento tuttora in atto, da cui sono nate una serie di riflessioni, in evoluzione, utili per una nuova progettazione dei servizi rivolti ai soggetti ristretti vulnerabili, in uscita dal carcere (non esclusivamente quelli a rischio di homelessness). Inoltre, è stata un’occasione per ampliare la riflessione sull’azione dell’educatore professionale socio-pedagogico all’interno dei servizi rivolti agli adulti che vivono una grave marginalità sociale, siano essi funzionari giuridicopedagogici impiegati all’interno degli istituti di reclusione, siano essi educatori sociali impiegati in altri campi del contrasto alla marginalità sociale. La ricerca risponde alla seguente domanda di ricerca: a Bologna sono presenti alcune persone senza dimora divenute tali al termine di un periodo di detenzione. L’ipotesi della presenza di persone senza dimora con recenti passati detentivi in contesti prevalentemente anglosassoni è stata presentata in precedenza. L’idea di contestualizzare questa ipotesi sul territorio di Bologna, oltre ai motivi già edotti di una presenza significativa di persone senza dimora rispetto al totale della presenza nazionale e di una casa circondariale di significative dimensioni, è anche frutto della narrazione dei professionisti coinvolti nei servizi dedicati alle persone senza dimora, un importante elemento preliminare all’indagine. La ricerca è stata pertanto strutturata in due fasi: una prima fase esplorativa con l’obiettivo di fare emergere la presenza del fenomeno sul territorio di Bologna, andando a riportare, per quanto possibile, il vissuto di alcuni di coloro che quel percorso lo hanno provato; e una seconda fase operativa, con l’obiettivo di sviluppare interventi mirati a contenere il disagio al momento dell’uscita dal carcere (in termini di analisi, implementazione e monitoraggio delle azioni previste), con i soggetti istituzionalmente incaricati di operare con le persone adulte recluse e con quelle senza dimora. Entrambe le componenti della ricerca, l’indagine esplorativa e la ricerca-azione, sono state promosse dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna4 e dall’Area Benessere di Comunità del Comune di Bologna. Questa collaborazione è stata formalizzata attraverso una convenzione stipulata fra l’Università di Bologna e il Comune di Bologna il 25/11/2015 4

Il Dipartimento ha in tal modo supportato lo sviluppo di uno degli obiettivi strategici dell’Università di Bologna rispetto alla terza missione, esplicitati all’interno del Piano strategico 2016-2018: promuovere lo sviluppo culturale e l’innovazione economico-sociale.

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

(prot. n. 2050) per la definizione di una attenta analisi, al fine di individuare con più efficacia, prima dell’uscita, i soggetti più fragili che rischiano di trovarsi senza fissa dimora, sviluppando quanto previsto dal Protocollo operativo integrativo del protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Emilia Romagna per l’attuazione di misure volte all’umanizzazione della pena e al reinserimento sociale delle persone detenute. L’indagine esplorativa è stata condotta dallo scrivente assieme ai servizi di prossimità del Comune di Bologna operanti durante il Piano freddo 2015/2016 e il Piano freddo 2016/2017. Il gruppo che ha partecipato alla ricerca-azione è stato costituito dai membri già presenti all’interno del “Tavolo carcere” del Comune di Bologna, in particolare i rappresentanti tecnici delle istituzioni (Comune di Bologna, ASP Città di Bologna, Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna e AUSL di Bologna), assieme ad alcuni operatori dei servizi comunali rivolti a detenuti (il Progetto dimittendi e lo Sportello informativo e di mediazione in carcere) e, in specifiche fasi della ricerca, assieme ad alcuni operatori provenienti dai servizi comunali di prossimità rivolti alle persone senza dimora (Help Center, Servizio Mobile di Sostegno e Unità di strada). Università di Bologna e Comune di Bologna hanno congiuntamente sollecitato i membri del gruppo a riflettere sullo specifico tema della scarcerazione, già affrontato in passato da alcuni soggetti istituzionali coinvolti in questa ricerca, su sollecitazione della Regione Emilia-Romagna e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia-Romagna (attualmente PRAP Emilia Romagna-Marche). A quel tempo il tema fu posto nei termini di strutturazione di azioni volte a rispondere ai bisogni delle persone in dimissione dagli istituti di pena in Emilia-Romagna, in generale. Nel 2014, grazie a un finanziamento della Regione Emilia-Romagna, nacque il Progetto dimittendi, programma d’intervento rivolto a tutti detenuti in uscita dal carcere, nel tempo orientato maggiormente alla costruzione di progetti con detenuti vulnerabili. La ricerca-azione si è svolta in continuità a tale percorso, benché sia stata focalizzata maggiormente sui soggetti vulnerabili a rischio di homelessness, al termine della detenzione.

3.3 Il contesto studiato: il territorio di Bologna Il territorio di riferimento della ricerca è quello del Comune di Bologna, una città di circa 390.000 abitanti residenti5, esclusi gli studenti dell’U5

Nel 2016 sono 388.367 i residenti regolarmente registrati in anagrafe, ma se si considera l’intera area metropolitana gli abitanti residenti superano il milione (1.009.210 abitanti residenti).

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IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

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niversità di Bologna, domiciliati, ma non residenti6. Secondo i dati più recenti forniti da Istat (2015), in questo stesso territorio vive il 2% della popolazione senza dimora italiana, circa 1.032 persone. Un dato importante, ma ritenuto sottostimato dai tecnici comunali responsabili delle politiche sociali rivolte alla popolazione in grave emarginazione. Il Comune di Bologna dichiara, infatti, una presenza di 4.740 persone senza dimora sul suo territorio nel 2016, includendo in questo dato solo coloro che hanno effettuato almeno un accesso a un servizio pubblico dedicato alla marginalità del Comune di Bologna o di ASP Città di Bologna (vedi dettaglio Tabella 8). Quella di Istat è una stima risultato di un’indagine statistica condotta per un periodo di trenta giorni, nell’inverno 2014/2015, basata su un campione di persone intervistate in alcuni luoghi specifici dedicati a persone senza dimora, scelti rispetto alla tipologia del servizio offerto: mense e accoglienze notturne, pubbliche e private. I numeri forniti dal Comune di Bologna sono, invece, un’estrapolazione di dati annuali inseriti all’interno del database ufficiale della municipalità da tutti i servizi pubblici presenti in città e rivolti alle persone senza dimora (che includono ben più servizi, diversi da accoglienze notturne e di mense). In aggiunta, sono riferiti a un periodo successivo rispetto a quello dell’indagine Istat. Il dato dell’Istituto statistico, probabilmente soggetto a una sottostima, ha il pregio di rendere comparabili le diverse realtà territoriali oggetto di studio, sui cui è stato applicato lo stesso criterio e, inoltre, proporziona la distribuzione delle risorse previste a livello nazionale per contrastare il fenomeno della homelessness. Il dato del Comune di Bologna restituisce, invece, la situazione vissuta in quel momento dal territorio bolognese e probabilmente si avvicina maggiormente al dato reale delle presenze sul territorio. Non esiste una descrizione delle caratteristiche delle persone senza dimora presenti sul territorio di Bologna, ma si può ipotizzare che queste non siano dissimili da quelle rappresentate da Istat (2015) rispetto all’intero territorio nazionale e precedentemente descritte (vedi Paragrafo 2.4).

6 Nell’anno accademico 2016/2017 sono oltre 84.000 gli studenti iscritti a corsi di studio (lauree, lauree magistrali, lauree magistrali a ciclo unico, lauree vecchio ordinamento), di cui poco meno della metà, circa 41.000, provenienti dalla Regione Emilia-Romagna, mentre il 45,8% da fuori regione, a cui si sommano i circa 5.000 studenti internazionali. Nello stesso anno accademico devono essere considerati circa ulteriori 4.000 studenti iscritti a corsi post lauream (dottorati, scuole di specializzazione, master di primo e secondo livello, corsi di alta formazione e formazione permanente).

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

Tabella 8: presenza di persone senza dimora a Bologna nel 2016. Fonte: dati del Comune di Bologna. Descrizione Beneficiari complessivi dei servizi (senza duplicati)

4.740

Utenti adulti dei servizi marginalità adulta e del Servizio sociale bassa soglia

2.930

Utenti adulti dei Servizi sociali territoriali (quartieri)

1.055

Utenti adulti Protezioni internazionali1

929

Utenti adulti Servizio PRIS2

412

Utenti adulti servizi marginalità adulta avviati e/o inseriti in servizi residenziali (tutte le tipologie di servizi residenziali: accoglienza a bassa soglia, accoglienza per bisogni indifferibili e urgenti, accoglienza abitativa, transizione abitativa e housing first)

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Utenti adulti del Servizio sociale a bassa soglia in servizi residenziali di Piano freddo

1.963

542

Durante il periodo in cui è stata svolta la ricerca (2015 – 2016), i servizi del Comune di Bologna erano articolati secondo le seguenti tipologie di servizio, riprese dalle Linee di Indirizzo per il Contrasto alla Grave Emarginazione Adulta in Italia (Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, 2015): accoglienza e protezione sociale (residenze notturne o notturne e diurne), servizi abitativi inclusivi avanzati, servizi di prossimità, laboratori di comunità e servizi sociali. Si tratta di tredici servizi così suddivisi all’interno di queste tipologie di servizio: –

– –



servizi di accoglienza e protezione sociale •฀ accoglienze temporanee e a bassa soglia d’accesso (Casa Willy); •฀ accoglienze di lunga permanenza (Rifugio notturno della solidarietà, Centro Beltrame, Riparo notturno Madre Teresa di Calcutta); •฀ accoglienze di lunga permanenza per lavoratori (Centro Zaccarelli); •฀ accoglienze brevi per persone con gravi problemi socio sanitari, all’insorgere di una necessità indifferibile e urgente (Centro Rostom); servizi abitativi inclusivi avanzati •฀ servizi di housing first (Housing first Co.Bo.); servizi di prossimità •฀ servizi con sportello stanziale (Help center della Stazione di Bologna centrale); •฀ servizi mobili rivolti alla popolazione senza dimora (Servizio mobile di sostegno); •฀ servizi mobili rivolti alla popolazione con consumo problematico di sostanze (Unità di strada); laboratori di comunità •฀ Laboratorio E20, in zona est, limitrofa al centro storico (Santo Stefano – Murri); •฀ Happy Center, in zona nord, limitrofa al centro storico (Navile – Bolognina);

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servizi sociali specialistici dedicati alle persone senza dimora e a quelle non residenti •฀ Servizio sociale bassa soglia.

Questa composizione rappresenta un assetto organizzativo dei servizi completamente differente da quello presente in città appena dieci anni prima (Pavarin, 2006): allora i servizi di Bologna erano fortemente orientati all’utenza consumatrice di sostanze psicotrope in strada, perlopiù eroina e alcol, e alla conseguente riduzione del danno. In quell’assetto orientato alle dipendenze e al consumo in strada, era minore l’attenzione per il fenomeno delle persone senza dimora, se non in quanto riflesso di politiche orientate alle tossicodipendenze, senza cioè considerare l’insieme più ampio del disagio vissuto in strada. L’eccezione era costituita dai servizi privati, come il servizio di strada denominato Servizio mobile di sostegno dell’associazione Amici di Piazza Grande, dedicato alla popolazione senza dimora non accolta in strutture. Tenendo in considerazione il mutamento qui rappresentato, non è avvenuto esclusivamente un cambiamento dei principali beneficiari dei servizi, dai consumatori di sostanze psicotrope in strada (in particolare di eroina e di alcol), alle persone senza dimora, i cui bisogni possono certamente includere la riduzione del danno per uso, abuso e dipendenze da sostanze, ma non si limitano a questi; i mutamenti del sistema dei servizi hanno riguardato anche la tipologia di servizi offerti, molto più vari e articolati, come riportato sopra, e l’approccio metodologico di questi. Se in passato l’intervento riservato alle persone senza dimora era strutturato con interventi emergenziali (o residuali) stagionali, interventi di bassa soglia e riduzione del danno, e interventi con approccio a gradini (staircase approach), oggi è formalizzato un approccio strategico orientato alla grave emarginazione, basato su un mix approach, strutturato con interventi emergenziali per bisogni denominati indifferibili e urgenti7, interventi di bassa soglia e riduzione del danno, interventi basati sull’approccio multidimensionale e orientati alla capacitazione individuale e di gruppo, nonché interventi con approccio housing first. L’aspetto che più ha connotato questo cambiamento è stata la dimensione comunitaria e cittadina, attualmente coinvolta attraverso i laboratori di comunità rivolti a persone con e senza dimora (dove si pratica sport in palestre popolari, teatro, attività ricreative, attività formative, ecc.) e nel processo di reinserimento abitativo del programma housing first (Cortese, 2016), dove è sostenuto il radicamento 7 I bisogni denominati indifferibili e urgenti vengono trattati in maniera analoga a quanto avviene all’interno dei pronto soccorso per le cure urgenti ed essenziali, a partire dal diritto di poterne usufruire, sia in termini di risposta al bisogno, sia in termini di accoglienza rivolta a chiunque si trovi sul territorio, senza vincoli riguardanti la regolarità dei documenti.

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

della persona nel quartiere e nel condominio, costruendo forti relazioni con gli altri soggetti che abitano gli stessi luoghi. Rispetto alla condizione delle persone private della libertà personale, Bologna presenta tre istituti di detenzione: la Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna, l’Istituto penale per minorenni (IPM) di Bologna e la REMS (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Bologna “Casa degli Svizzeri”. La ricerca si è focalizzata sul primo istituto, la Casa circondariale aperta nel 1985, decentrata rispetto alla precedente collocazione all’interno del centro storico, nella quale vengono detenute persone in attesa di giudizio, persone condannate a pene inferiori ai cinque anni (o con un residuo di pena inferiore ai cinque anni) e, in minor numero, persone ristrette con pene più lunghe, anche legate a reati di tipo associativo e detenute in alta sicurezza (sottoposte a una sorveglianza più stretta). L’istituto prevede la presenza di alcune sezioni specifiche, tra le quali una sezione femminile e il Polo universitario penitenziario, oltre a sezioni dedicate ai momenti finali della detenzione: la sezione semiliberi e quella dimittendi8. Nel 2017 è stato aperto, come sperimentazione nazionale, un reparto psichiatrico femminile all’interno dei locali dell’ex nido d’infanzia. La capienza regolare della Casa circondariale di Bologna è di 492 posti. Le presenze reali (il numero di detenuti presenti in struttura in un dato giorno dell’anno) sono largamente superiori a tale capienza massima. I dati ufficiali del Ministero della Giustizia riportano una presenza di 754 persone detenute al 31 gennaio 20179. Sempre i dati ministeriali riportano la presenza di 6 educatori, rispetto a un organico previsto di 11 educatori10. Il Comune di Bologna, in cofinanziamento alla Regione Emilia-Romagna all’interno del “Programma Carcere” regionale, garantisce alla popolazione detenuta della Casa circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna due servizi: lo Sportello informativo e di mediazione in carcere, progettato alla fine degli anni Novanta, per interventi rivolti prevalentemente alla popolazione straniera, e il Progetto dimittendi, costituito nel 2014 come progetto specifico rivolto alle persone prive di risorse familiari/relazionali al di fuori del carcere e agli ex detenuti presenti sul territorio comunale, uno degli oggetti di studio di questa ricerca. 8

Benché sia chiamata in questo modo, fra i reclusi all’interno di questa sezione e coloro che vengono seguiti dal Progetto dimittendi, oggetto di questo studio, non vi è coincidenza. 9 I dati sono estrapolati dalla “Schede trasparenza istituti penitenziari – 2017” (fonte consultata il 18/04/2018). 10 Antigone riporta dati più aggiornati: il numero di educatori previsti in pianta organica è di 12, di cui solo 5 sono presenti a tempo pieno, mentre 1 è distaccato altrove. Disponibile da http://www.antigone.it/osservatorio_detenzione/emilia-romagna/84-casa-circondarialedi-bologna-dozza (fonte consultata il 18/04/2018).

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3.4 La presenza del fenomeno sul territorio La prima parte della ricerca ha riguardato un’indagine esplorativa in linea con le ricerche internazionali, cioè in grado di rilevare l’esistenza del fenomeno: l’obiettivo è stato quello di verificare la presenza o l’assenza di persone recentemente scarcerate e divenute senza dimora sul territorio di Bologna. L’indagine è stata strutturata esclusivamente per rendere visibile il fenomeno e non per misurarlo. Lo strumento utilizzato è stato quello del questionario a risposta chiusa, somministrato in forma anonima a un gruppo casuale di persone senza dimora rivoltesi ai servizi di prossimità durante il Piano freddo 2015/2016 del Comune di Bologna. Il Piano freddo è una delle misure di prevenzione e riduzione del danno attivate ogni anno durante il periodo invernale, compreso fra dicembre e il successivo mese di marzo, dal Comune di Bologna, così come accade in alti comuni italiani, specie quelli di grandi dimensioni e ubicati al centro nord (per ragioni climatiche). Il Piano freddo 2015/2016 ha avuto a disposizione 258 posti letto, disponibili a scaglioni fino alla capienza massima, su cui hanno dormito un totale di 734 persone. Di costoro sono state intervistate 132 persone (vedi Tabella 9), il 18% del totale delle persone accolte durante tutta l’apertura, scelte in maniera casuale tra coloro che hanno usufruito del servizio, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo. Come criterio di selezione si è scelto di intervistare esclusivamente le persone che, avendo già ottenuto in precedenza un posto letto per quindici giorni, sono tornate ai servizi di prossimità per chiedere il rinnovo dei giorni a disposizione, per poter usufruire nuovamente del posto letto ottenuto in precedenza. In tal modo si è cercato di avvicinare persone non in attesa di una sistemazione emergenziale, durante i mesi più rigidi dell’inverno, ma già con un periodo di tutela. I servizi scelti per l’indagine sono stati l’Help Center della Stazione di Bologna centrale e lo sportello diurno dell’Unità di strada. Le interviste sono state raccolte in una finestra temporale di circa quattro settimane. L’anno seguente è stata svolta una seconda indagine, durante il Piano freddo 2016/2017, questa volta esclusivamente all’interno dell’Help Center, con un numero più ridotto di interviste. Tale modifica è stata necessaria in quanto è avvenuto un cambiamento nella pianificazione del sistema d’accoglienza invernale, il quale è passato da due punti di distribuzione di posti letto ad accesso libero nel 2015/2016, a un punto unico di distribuzione dei posti letto nel 2016/201711. Un altro cam11

È stata lasciata alle unità di prossimità che operano in strada (Unità di strada e Servizio mobile di sostegno) la possibilità di distribuire alcuni posti letto dedicati alle persone che con

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VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

biamento ha riguardato le settimane dedicate alla rilevazione, ridotte a due, poiché la ricerca è arrivata alle sue fasi conclusive poco dopo l’inizio del Piano freddo 2016/2017. È stato pertanto intervistato un numero minore di persone: 55 in tutto (vedi Tabella 9), il 9,5% del totale su un totale delle persone accolte durante tutta l’apertura (579 persone accolte). Tabella 9: esperienze detentive fra un gruppo di persone senza dimora intervistate a Bologna

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Piano freddo 2015/2016

Piano freddo 2016/2017

(0)

Persone intervistate

(1)

Maschi

97,7%

(129)

89,1%

Femmine

2,3%

(3)

10,9%

(6)

Italiani

16,7%

(22)

30,9%

(17)

Stranieri

72,0%

(95)

67,3%

(37)

Dato non rilevato

11,3%

(15)

1,8%

(1)

Hanno avuto esperienze detentive

23,5%

(31)

20,0%

(11)

Non hanno avuto esperienze detentive

62,9%

(83)

78,2%

(43)

Non ha risposto

13,6%

(18)

1,8%

(1)

(2)

(3)

(132)

(55) (49)

Durante il Piano freddo 2015/2016, il 23,5% delle persone senza dimora intervistate ha avuto un’esperienza detentiva alle spalle (vedi Tabella 9, punto 3). Una percentuale elevata, da contestualizzare e problematizzare, sebbene non abbia alcun valore statistico, ma sostanzialmente in linea con i valori riportati nelle ricerche internazionali. L’anno successivo, benché sia stato intervistato un numero più ridotto di persone, la percentuale sul campione selezionato è rimasta dello stesso ordine di grandezza (20%). Durante il Piano freddo 2015/2016, il 38,7% delle persone intervistate con un passato di detenzione ha avuto una esperienza di reclusione a Bologna (vedi Tabella 10, punto 5). Questa percentuale sale al 54,5% quando si prende in considerazione il dato raccolto l’anno successivo. Prendendo in considerazione il dato regionale, durante il Piano freddo 2015/2016 il 51,6% delle persone intervistate con un passato di detenzione ha avuto una esperienza di reclusione in Emilia-Romagna, mentre l’anno successivo il dato locale e regionale hanno coinciso.

loro avevano in essere progetti specifici o, in alcuni casi, alle persone incontrate durante le uscite pomeridiane e notturne, che autonomamente non sarebbero arrivate all’Help Center.

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

83

Tabella 10: dettagli sulle esperienze detentive di un gruppo di persone senza dimora intervistate a Bologna Piano freddo 2015/2016 Piano freddo 2016/2017 (4) (5)

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(6)

Intervistati maschi con esperienze detentive

100,0%

(31)

90,9%

(10)

Intervistate femmine con esperienze detentive

0,0%

(0)

9,1%

(1)

Detenute a Bologna

38,7%

(12)

54,5%

(6)

Detenute in altri istituti dell’Emilia-Romagna

12,9%

(4)

0,0%

(0)

Detenute nel resto d’Italia

19,4%

(6)

27,3%

(3)

Detenute all’estero

19,4%

(6)

18,2%

(2)

Non ha risposto

9,6%

(3)

0,0%

(0)

Dimesse dal carcere nel 2016

19,4%

(6)

18,2%

(2)

Dimesse dal carcere nel 2015

29,0%

(9)

9,1%

(1)

Dimesse dal carcere prima del 2015

42,0%

(13)

63,6%

(7)

Non ha risposto

9,6%

(3)

9,1%

(1)

-

(4)

-

(1)

(7)

Dimesse a Bologna nel 2016

-

(3)

-

(1)

(8)

Persone accompagnate gradualmente all’uscita

12,9%

(4)

27,3%

(3)

Persone non accompagnate gradualmente all’uscita

51,6%

(16)

45,4%

(5)

Non ha risposto

35,5%

(11)

27,3%

(3)

Dimesse a Bologna nel 2015

Emerge, inoltre, che 11 dei 31 intervistati del primo anno d’indagine e 3 degli 11 intervistati l’anno successivo sono stati scarcerati nel 2015 o nel 2016. Essendosi trattato di interviste anonime, non c’è modo di sapere se esistano corrispondenze fra i soggetti intervistati nei due anni o se si tratti di persone distinte. Proseguendo l’analisi e circoscrivendo questi dati a coloro che hanno dichiarato di essere usciti dalla Casa circondariale di Bologna in quegli anni, i numeri scendono rispettivamente a 7 nel 2015 e 2 nel 2016. Si ipotizza con ragionevole certezza che queste siano alcune delle persone prive di un percorso di reinserimento sociale che, in mancanza di strumenti adeguati, hanno utilizzato il Piano freddo come strumento di tutela dalla vita in strada durante il periodo invernale. Continuando l’analisi, solo 4 persone su 32 nel Piano freddo 2015/2016 e 3 persone su 11 nel Piano freddo 2016/2017 hanno dichiarato di aver ricevuto un accompagnamento graduale all’uscita dal carcere (vedi Tabella 10, punto 8), senza tuttavia specificare in cosa sia consistito l’accompagnamento nel proprio percorso d’uscita, poiché non previsto nel tipo di rilevazione. L’indagine esplorativa ha costituito la fase preliminare della ricerca. La sua funzione principale ha riguardato il reperire dati necessari ad orientare le successive fasi della ricerca, in particolare della ricerca-azione. I risultati segnalano la presenza sul territorio di Bologna di un fenomeno analogo a quello indagato dagli studi internazionali. L’indagine esplorativa non ha avuto finalità quantificative del fenomeno, né si è soffermata sulla vita dell’in-

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tervistato precedente alla carcerazione, la quale potrebbe essere già stata una vita in strada oppure no. Attraverso di essa si dimostra la presenza di persone senza dimora con una recente esperienza detentiva sul territorio di Bologna, non più legata esclusivamente alle narrazioni degli operatori che lavorano nei servizi di prossimità. Inoltre, si è data maggiore solidità alla percezione sviluppata in sede di colloquio, ascoltando quotidianamente le esperienze di chi vive in strada e accede ai servizi. Dalla ricerca esplorativa condotta in due diversi anni è emerso che a Bologna sono presenti persone senza dimora divenute tali al termine di un periodo di detenzione, anche temporalmente recente. Oltre a rilevarne la presenza, è sembrato opportuno ascoltare la voce di coloro che hanno vissuto una tale esperienza, dando spazio alla narrazione, per comprendere alcuni passaggi critici della loro storia detentiva e post detentiva. Realizzare questa fase della ricerca è risultato particolarmente arduo. La prima difficoltà riscontrata è stata quella di intercettare persone disponibili a fornire un’intervista con registrazione. Nemmeno un primo contatto positivo, più informale, è servito a garanzia del successo dell’intervista, in quanto di frequente la persona in strada nel giro di poco tempo (anche nella stessa giornata) è diventata irrintracciabile. Si è tentato di superare questa reticenza selezionando un gruppo di persone attraverso i servizi coinvolti in questa ricerca. Anche in questo caso, nonostante i diversi e ripetuti tentativi di realizzare un’intervista, molti appuntamenti sono andati deserti e solo a fatica sono stare realizzate cinque interviste, le quali hanno fatto emergere una seconda difficoltà, legata ai limiti linguistici delle persone coinvolte, indipendentemente che si trattasse di intervistati italiani o stranieri e, di conseguenza, ai limiti strutturali dello strumento di ricerca utilizzato (l’intervista). Ciò ha comportato che le persone intervistate abbiano faticato a narrare e a descrivere la propria esperienza in maniera articolata, sebbene avessero vissuto periodi di detenzione anche di anni. I cinque intervistati avevano tutti molteplici esperienze di reclusione alle spalle e una bassa istruzione (licenza media inferiore o qualifica estera equivalente, spesso analfabeti di ritorno). Le interviste sono state svolte prevalentemente in setting informali (salette riservate messe a disposizione dalla struttura dove si è svolta l’intervista oppure all’aperto, avendo cura che non ci fossero altre persone in ascolto), attraverso lo strumento delle interviste semistrutturate, in modo tale da lasciare spazio all’intervistato e al ricercatore di approfondire, ogni qualvolta fosse necessario, il discorso aperto a partire da una specifica domanda. I temi toccati dalle interviste hanno riguardato la descrizione dei mesi conclusivi dell’ultima detenzione, la relazione costruita con gli educatori penitenziari (ora funzionari giuridico-pedagogici) durante quell’esperienza

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di reclusione, approfondendo la frequenza e il contenuto degli incontri, l’eventuale supporto ricevuto in preparazione all’uscita dal carcere, con una sua descrizione, e la partecipazione nella costruzione del percorso o progetto d’uscita dal carcere. Le ultime domande hanno riguardato la vita prima di entrare in carcere e quella immediatamente successiva all’uscita, assieme a una richiesta di descrizione dell’attuale situazione vissuta dalla persona senza dimora intervistata (di seguito PSD/numero progressivo). Di seguito saranno valorizzate due tematiche: quella riguardante la relazione con i funzionari giuridico-pedagogici e quella riguardante i percorsi di uscita. L’incontro e la relazione fra gli intervistati e i funzionari giuridicopedagogici è stato quasi sempre narrato come difficile da realizzare, anche quando esplicitamente richiesto alla direzione tramite istanza scritta (questa viene chiamata in gergo “domandina”). Gli intervistati non hanno saputo esplicitare come mai nessuna figura istituzionale si sia interfacciata a loro, al di là degli agenti di polizia penitenziari, mentre da coloro che hanno narrato l’esistenza di una relazione con un educatore, probabilmente a fronte di pene considerevoli, considerandola una relazione significativa, è stata fornita una lettura di quegli incontri in termini opportunistici. In ogni caso, la progettazione di percorsi di uscita al carcere, funzionali al reinserimento sociale del detenuto, sembrano essere assenti in quasi tutte le interviste. In un anno e sette mesi di detenzione a Bologna, uno degli intervistati (PSD/05) racconta di aver incontrato il proprio educatore solamente una volta, prima di Natale, al decimo mese di reclusione, nel momento in cui, terminato l’appello in giudizio, la pena è diventata definitiva. Una procedura corretta formalmente, ma che lo ha lasciato senza interlocutori per lungo tempo. In quell’occasione l’educatore gli ha presentato l’assistente sociale del Progetto dimittendi. Dopo di che l’intervistato non ha avuto altri incontri, nemmeno quando li ha formulati tramite richiesta scritta. In un caso, l’intervistato ha dichiarato di aver incontrato il proprio educatore di riferimento più volte, preparando assieme a lui l’uscita dal carcere. Si trattava di un soggetto con una lunga reclusione di nove anni e mezzo in “alta sicurezza”. Con lui sono state realizzate tappe intermedie di preparazione all’uscita dal carcere, benché tale percorso non sia riuscito a impedire che l’ex detenuto, alla fine della pena, si trovasse a vivere in strada. L’ultimo anno l’ho passato in un penalino, che mi hanno declassificato dall’alta sorveglianza […] e mi hanno messo nel penalino, per circa sei mesi, diciamo. Poi dopo, d’accordo già con l’educatore che mi faceva andare nei semiliberi, e dopo tre mesi sono riuscito ad andare nei semiliberi. E lavoravo interno, però, non esterno (PSD/04).

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Nel suo ultimo periodo di detenzione, l’intervistato ha svolto lavori di pulizie per il carcere, ricevendo in cambio uno stipendio, ma questa azione non è bastata a sostegno del processo d’uscita. È, tuttavia, possibile che questo elemento, assieme alla progressiva uscita da aree di detenzione con maggiori restrizioni, abbia contribuito alla costruzione di una relazione positiva fra il funzionario giuridico-pedagogico e il detenuto, permettendo a quest’ultimo di riconoscere il ruolo dell’educatore penitenziario in termini positivi e funzionali alla propria vita. Ne sono un esempio alcune delle espressioni utilizzate per descrivere questa figura di riferimento: mi ha aiutato ad andare là, nei semiliberi. Mi ha consigliato di fare la domanda per la declassificazione dall’alta sorveglianza al giudiziario, e infatti gli ho dato retta e ci son riuscito; dopo quasi nove anni e mezzo ho pigliato un permesso di nove giorni (PSD/04).

Un intervistato non ha mai avuto la possibilità di incontrare il proprio educatore di riferimento, sebbene sia comunque stata realizzata una progettualità all’uscita dal carcere attraverso una volontaria, la quale in autonomia ha segnalato il detenuto all’assistente sociale del Progetto dimittendi. Un altro intervistato racconta di non aver avuto alcun accompagnamento all’uscita nella sua ultima detenzione durata un anno. Le precedenti detenzioni, cinque in tutto, di quattro o cinque anni l’una, hanno permesso all’ex detenuto di incontrare più volte un educatore, anche se non si riesce a quantificare il numero di volte in cui si sono incontrati durante l’ultima detenzione, né è chiaro se entrambi gli interlocutori si stiano riferendo alla stessa persona, poiché l’intervistato fatica a distinguere i ruoli dell’educatore, dello psicologo e del mediatore. È certo che in nessuna di queste occasioni si sia parlato di un percorso di inserimento sociale, ma i temi ricordati dall’intervistato sono altri, perlopiù generici: il fatto del carcere, di come funziona, educazione che dovevamo… capito? [incomprensibile] Di tutto. Parliamo. Hai bisogno di qualcosa? Ti danno una mano. [incomprensibile] dagli psichiatrici, quelli, dallo psicologo per esempio, vai a sfogare, a parlare di tuoi problemi. E loro ti sollevano un po’. […] Si discute dei tuoi problemi (PSD/02).

La mancanza di elementi narrativi aumenta parlando dell’uscita dal carcere. Il più aspro commento riguardante l’assenza di una progettazione del percorso di uscita e di reale reinserimento sociale, dura e sintetica al tempo stesso, è stata: Finita la condanna, esci. Basta (PSD/01).

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Nella maggior parte dei casi non esiste una progettazione in tal senso e non tutti gli ex detenuti intervistati sono stati coinvolti nel Progetto dimittendi. Quelli che non sono stati coinvolti nella progettualità di questo nuovo servizio dedicato, semplicemente si sono trovati in strada al termine della pena, senza alcuna protezione sociale. Rispetto alle azioni svolte dal Progetto dimittendi, in un’intervista si parla di supporto alla regolarizzazione dei documenti, avviata su richiesta della persona. Perlopiù sono descritti interventi di breve durata, di tutela all’interno di un centro d’accoglienza per circa quindici giorni. In una sola intervista, ottenuta tramite il raccordo con il Progetto dimittendi, la narrazione del percorso di reinserimento sociale ha avuto altre prospettive: [l’assistente sociale del Progetto dimittendi] me l’ha presentata lui [l’educatore], l’ha fatta venire, abbiamo parlato, le ho spiegato tutta la mia situazione, e così mi, [l’assistente sociale] mi ha aiutato. Io gli ho detto: però a Bologna non ci voglio stare, voglio andare a [omississ, Modena]. Gli ho … [detto] e allora mi fa lei: e allora ti metto in contatto con un’altra assistente, là di Modena (PSD/04).

Sebbene questa persona al momento dell’intervista fosse formalmente ancora senza dimora, la progettazione co-costruita con lui, a partire dall’incrocio fra suoi bisogni e le sue aspirazioni con le possibilità a disposizione al momento della sua uscita, ha garantito sia la sua adesione al progetto, sia la riuscita di quest’ultimo. Il percorso d’uscita è stato articolato a partire dalla ripresa dei contatti con i familiari, interrotti durante la detenzione, e l’individuazione di una sistemazione alloggiativa temporanea. Per il sostentamento economico è stato attivato un percorso di tirocinio formativo e sono stati presi i contatti con i servizi sociali del territorio in cui la persona ha chiesto di essere trasferito, per essere più vicino ai familiari. L’approfondimento del lavoro svolto dal Progetto dimittendi è stato oggetto di una seconda fase della ricerca, propedeutica alla fase iniziale della ricercaazione, al fine di produrre una raccolta di dati in grado di rappresentare il lavoro svolto da questo servizio, impegnato dentro e fuori il carcere, ed andare ad individuare i punti di forza e di debolezza su cui operare.

3.5 Il Progetto dimittendi e i dati della ricerca Il Progetto dimittendi rientra all’interno degli interventi della città di Bologna, rivolti alle persone detenute nella Casa circondariale di Bologna prossime

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alla scarcerazione. Costoro, secondo il linguaggio tecnico-penitenziario, sono chiamati “dimittendi”. Il quadro normativo a cui fa riferimento il Progetto dimittendi è composto (1) dalla legge 354/1975 Norme sull’Ordinamento penitenziario e successive modifiche, (2) dal Protocollo d’intesa tra Ministero di Grazia e Giustizia e la Regione EmiliaRomagna per il coordinamento degli interventi rivolti ai minori imputati di reato e agli adulti sottoposti a misure penali restrittive della libertà, approvato con DGR n. 279 del 10/03/1998, (3) dalla legge regionale n. 3 del 19/02/2008 Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della regione Emilia-Romagna, e (4) dal Protocollo operativo integrativo del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Emilia-Romagna per l’attuazione di misure volte all’umanizzazione della pena e al reinserimento sociale delle persone detenute, approvato con DGR 44/2014 e siglato in data 27/01/2014. L’Ordinamento penitenziario prevede all’art. 46, Assistenza post-penitenziaria, la predisposizione di “un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo”. Si assume che tale “particolare aiuto” possa svilupparsi nella forma di un accompagnamento post detentivo, in linea con quanto suggerito dalla Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee all’art. 107 “Liberazione dei condannati” (una fonte del diritto priva di efficacia vincolante, che fornisce orientamenti politici specifici): 1. I condannati devono essere aiutati, al momento opportuno e prima della scarcerazione, con procedure e programmi specialmente concepiti per permetter loro il passaggio tra la vita carceraria e la vita rispettosa del diritto interno in seno alla collettività. 2. Per quanto concerne più specificamente i condannati a lunghe pene, devono essere prese misure per assicurare loro un rientro progressivo nel mondo libero. 3. Questo scopo può essere raggiunto grazie ad un programma di preparazione alla scarcerazione o ad una liberazione condizionale sotto controllo accompagnata da un’assistenza sociale efficace. 4. Le autorità penitenziarie devono lavorare in stretta collaborazione con i servizi sociali e gli organismi che accompagnano ed aiutano i detenuti liberati a ritrovare un posto nella società, in particolare riallacciando legami con la vita familiare e trovando un lavoro. 5. I rappresentanti di questi servizi o organismi sociali devono poter entrare in istituto quando necessario ed intrattenersi con i detenuti per preparare e pianificare la loro liberazione e organizzare l’assistenza postpenale.

Tenendo conto che per quanto riguarda questo aspetto legislativo non esiste al momento una politica nazionale a riguardo e, pertanto, non esiste

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un’applicazione univoca della norma, assumono un’importanza centrale i tre documenti di competenza regionale, nei quali a più riprese viene ribadito che gli interventi regionali, prevalentemente sociali, sanitari o di raccordo fra servizi e istituzioni, sono finalizzati a promuovere e ad assicurare il rispetto dei diritti delle persone private della libertà personale e favorirne il loro reinserimento sociale, in accordo con quanto stabilito dall’attuale Ordinamento penitenziario. Tra questi interventi, la Regione Emilia-Romagna promuove il supporto dei detenuti nella fase della dimissione dal carcere, in particolare attraverso il protocollo operativo approvato con DGR 44/2014, che vede il coinvolgimento della Regione e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) dell’Emilia-Romagna (attualmente Emilia Romagna-Marche). Riconoscendo l’importanza e la delicatezza del periodo che precede la dimissione (art. 6, “Azioni di supporto nella fase della dimissione”), il PRAP si impegna a istituire sezioni dedicate a persone in uscita dal carcere (persone dimittende) e facilitare l’ingresso di operatori pubblici e privati “che possano utilmente contribuire al concreto reinserimento sociale dei dimittendi” nei reparti dedicati, mentre la Regione Emilia-Romagna, nell’ambito della propria programmazione sociale e della ripartizione delle risorse del fondo sociale regionale, si impegna a promuovere “strumenti di comunicazione e raccordo con i servizi territoriali, finalizzati alla preparazione e accompagnamento della fase di reinserimento sociale in tutti i suoi aspetti (casa, lavoro, salute, ecc.)”. In questa cornice legislativa e di intenti nasce il Progetto dimittendi. La Regione Emilia-Romagna ha finanziato progetti specifici legati al tema delle dimissioni detentive, supportando l’autorganizzazione delle realtà cittadine locali. Sono stati così sviluppati diversi progetti municipali, come il percorso formativo Cittadini sempre Modena – Formare cittadinanza accogliente. Formazione congiunta per coprogettare percorsi di accoglienza e accompagnamento per dimittendi e persone in misura alternativa alla detenzione della Città di Modena, promosso dal Centro servizi volontariato (CSV), e il Progetto dimittendi del Comune di Bologna. La funzione principale del Progetto dimittendi, attivo su Bologna da novembre 2014 in un assetto sperimentale, è quella di costruire relazioni tra l’interno della struttura detentiva e l’esterno, con particolare attenzione alla rete dei servizi pubblici e privati presenti sul territorio bolognese, ma includendo anche un raccordo con le realtà presenti in altri territori. Sin dalla sua nascita il progetto si è rivolto esclusivamente ai detenuti con pena definitiva e si è occupato in via prioritaria di creare un raccordo fra detenuto in fase di scarcerazione e servizi sociali del comune di residenza, qualora fosse esistita una regolare residenza ancora valida, oppure fra detenuto e Servizio sociale bassa soglia del Comune di Bologna, qualora la persona in dimissione fosse priva

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di residenza o risultasse irregolare. Il progetto è stato incardinato all’interno del Servizio sociale bassa soglia, servizio specialistico sociale ed educativo rivolto a persone maggiorenni, prive di reti sociali, in condizione di emarginazione estrema e grave povertà, temporaneamente presenti sul territorio di Bologna, oppure stabili, ma non residenti anagraficamente a Bologna o, infine, cittadini residenti a Bologna sia in via Mariano Tuccella12 (una via fittizia), sia all’interno di uno dei centri di accoglienza di ASP Città di Bologna. Il mandato del Progetto dimittendi si differenzia da quello dell’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna Bologna13 (UIEPE, ex UEPE, Ufficio di esecuzione penale esterna) in quanto:

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l’Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna Bologna si occupa perlopiù di interventi relativi all’esecuzione penale di sanzioni non detentive (es. messa alla prova, lavori di pubblica utilità) e di misure alternative alla detenzione (affidamento in prova ai servizi sociali, detenzione domiciliare, semilibertà); il Progetto dimittendi si occupa di tutti i detenuti con pena definitiva in stato di elevata fragilità, non necessariamente senza dimora, e in prossimità della propria scarcerazione, i quali non hanno avuto accesso a misure alternative, in quanto mancanti dei requisiti minimi (es. un alloggio), e saranno privi di sostegno al termine della detenzione, pertanto a rischio di homelessness.

Entrambi, con mandati e funzioni diverse, dovrebbero occuparsi del reinserimento sociale del detenuto, concretizzandolo, secondo quanto previsto dell’Ordinamento penitenziario all’art. 46 “Assistenza post-penitenziaria”: “I detenuti e gli internati ricevono un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo. Il definitivo reinserimento nella vita libera è agevolato da interventi di servizio sociale svolti anche in collaborazione con gli enti indicati nell’articolo precedente.

12

Dal febbraio 2009 il nome della via virtuale o fittizia del Comune di Bologna, in precedenza chiamata via Senzatetto, è intitolata a Mariano Tuccella, una persona senza dimora morta a Bologna la notte il 30 settembre 2007 a seguito di gravi percosse ricevute da tre ragazzi che lo hanno aggredito in via Ugo Bassi, luogo in cui abitualmente il sig. Tuccella dormiva, riparandosi sotto i portici. 13 Competente per le regioni Emilia-Romagna e Marche e dal 2015 articolazioni territoriali del Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, separato e distinto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), a cui afferiva in precedenza.

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I dimessi affetti da gravi infermità fisiche o da infermità o anormalità psichiche sono segnalati, per la necessaria assistenza, anche agli organi preposti alla tutela della sanità pubblica” (art. 46 o.p.).

Il Progetto dimittendi prevede uno stretto collegamento con lo Sportello carcere di intermediazione linguistico-culturale, orientamento e informazione (ora Sportello informativo e di mediazione in carcere), con l’équipe educativa della Casa circondariale e la Direzione, con i servizi territoriali pubblici (servizi sociali, anagrafici, sportelli del lavoro, centri per l’impiego, ecc.) e privati e, assieme a questi, costruisce percorsi di uscita dal carcere. La fase iniziale del progetto riservava la possibilità di segnalare i detenuti al Progetto dimittendi esclusivamente ad alcune figure professionali presenti nella Casa circondariale di Bologna: potevano attivarsi in tal senso solo i professionisti dell’area educativa, dell’area sanitaria e dello sportello di mediazione. In un secondo momento, in concomitanza alla partenza di questa ricerca, tale possibilità è stata estesa anche ad altri soggetti, come le associazioni di volontariato operanti all’interno del carcere, sebbene gli agenti di polizia penitenziaria (area securitaria) non abbiano preso parte al progetto. Per ognuna delle persone segnalate al progetto sono fissati uno o più colloqui, durante i quali l’assistente sociale conosce il detenuto e ascolta le sue principali necessità. Parallelamente, è raccolto il maggior numero di informazioni sulla storia detentiva del recluso, in raccordo con i principali attori coinvolti nel percorso trattamentale. Obiettivo di questa fase del progetto è individuare una risposta il più possibile attinente ai bisogni della persona, in particolare quelli che si presenteranno al momento dell’uscita dal carcere, siano essi espliciti, siano eventualmente non verbalizzati (es. la presenza di bisogni sanitari complessi in situazioni di irregolarità sul territorio, privi di tutela sanitaria continuativa al di fuori del carcere). La fase di raccolta delle informazioni è necessaria in quanto non è escluso che i settori educativo, sanitario, formativo e lavorativo, qualora presenti, siano in dialogo fra loro e conoscano l’uno il percorso progettato e/o realizzato dall’altro. Uno dei limiti più evidenti è, ad esempio, l’esistenza di una molteplicità di database, non in grado di dialogare fra loro e la impossibilità per alcuni soggetti afferenti a un ente di accedere al lavoro svolto con la stessa persona, nello stesso contesto, ma da un altro ente. Vi è una importante parcellizzazione delle informazioni, spesso causa di incomprensioni fra professionisti, molteplici errori, ostacolo nella realizzazione di una sintesi del lavoro a favore della persona reclusa. Riconoscendo tuttavia indispensabile il raccordo fra diversi settori e enti, questo è stato sviluppato attraverso:

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il recupero e l’aggregazione delle informazioni; la condivisione con gli altri soggetti istituzionali (operatori penitenziari, operatori sanitari, ecc.) della valutazione professionale sulle condizioni della persona e le possibili proposte progettuali; il contatto con i familiari, qualora la persona lo richieda e questi siano raggiungibili o vogliano esserlo; il contatto con il servizio di riferimento che aveva in carico la persona prima della detenzione oppure che ne ha la competenza, una volta che questa uscirà dal carcere; la condivisione delle possibili risorse attivabili nel territorio di Bologna; la costruzione di percorsi con il privato sociale o aziende, eventuali risorse successive alla dimissione; l’incontro con la persona detenuta in colloqui finalizzati a condividere il percorso che si sta costituendo con i diversi servizi coinvolti; un costante rimando ai soggetti segnalanti riguardo le possibilità e le proposte di intervento, oltre a un raccordo sugli interventi effettuati.

Fin qui lo stato generale del progetto incontrato prima dell’inizio della fase della ricerca finalizzata a produrre una raccolta di dati in grado di rappresentare il lavoro svolto da questo servizio. In contemporanea all’inizio del progetto è stato diffuso un documento del PRAP per l’Emilia-Romagna con oggetto “I bisogni delle persone in dimissione dagli istituti di pena in Emilia Romagna” (prot. n. 407, del 08/01/2016), in cui è stato analizzato il lavoro svolto nell’intero territorio regionale sui soggetti in dimissione dalle carceri in alcuni mesi di quell’anno (al 20 dicembre 2015), basando l’analisi su un campione di 176 casi. Si è trattato di una raccolta dati che ha coinvolto tutti i detenuti in dimissione e non solo quelli con fragilità. Il PRAP ha suddiviso i 176 casi in tre macro gruppi: gli italiani, gli stranieri comunitari o non comunitari regolari rispetto al permesso di soggiorno (“stranieri regolari”), e i non comunitari irregolari (“stranieri irregolari”). Tale tripartizione è stata voluta in quanto il Provveditorato ha ritenuto che lo status di cittadinanza influisca significativamente sui progetti di accompagnamento all’uscita. L’analisi è stata suddivisa in: – – – – –

prospettive occupazionali al momento della scarcerazione; disponibilità di un domicilio al momento della scarcerazione; residenza; stato della documentazione formale; disponibilità economica al momento della scarcerazione;

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– – – – – –

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situazione familiare; possibilità di incrementare i contatti con la famiglia; condizione psico-fisica; stato delle misure alternative e modifiche della pena in corso; prospettive penali; assistenza legale.

L’impostazione di questo documento è stata particolarmente utile per la costruzione dell’analisi del lavoro svolto dal Progetto dimittendi di Bologna. A partire da alcune delle indicazioni lì presenti, è stata redatta una scheda delle attività del progetto, in grado di rappresentare al meglio il lavoro svolto, e successivamente compilata rispetto a tutti i casi incontrati in dodici mesi di attività tra il 2015 e il 2016. L’assistente sociale impegnata nel progetto è stata coinvolta nella ricerca sin dalle prime fasi, sia nella strutturazione e stesura della scheda, sia nella compilazione della scheda nei dodici mesi di attività analizzata, ma anche in tutta la discussione ai tavoli in cui si è svolta la ricerca-azione, per condividere assieme al ricercatore le riflessioni nate alla luce dei dati ricavati. Gli obiettivi condivisi dell’analisi del Progetto dimittendi sono stati tre: a) b) c)

comprendere il lavoro svolto dal Progetto dimittendi, anche per rendere coscienti i lavoratori interessati di quanto agito e portato a termine; sistematizzare il lavoro del progetto, a partire da quanto già praticato senza una chiara e definita impostazione metodologica; rendere i soggetti istituzionali coinvolti nella ricerca-azione informati del lavoro svolto dal Progetto dimittendi, formulando all’interno del Tavolo carcere del Comune di Bologna, luogo di monitoraggio e coordinamento, alcuni correttivi mirati a potenziare e a rendere più efficace le azioni previste al suo interno, pertanto rivedendo la complessiva organizzazione del progetto stesso.

I dati raccolti hanno riguardato una breve parte anagrafica del detenuto, seguita da approfondimenti tematici su quattro aree: casa, lavoro, salute e socialità. Per ognuna delle quattro aree sono state previste una serie di domande a risposta multipla, generalmente chiusa, con la presenza di una nota finale, una per ognuna delle aree, dove si è dato spazio ad annotazioni rispetto alle azioni ipotizzate nella costruzione del progetto d’uscita dal carcere. All’interno dell’area casa sono state individuate tutte le informazioni riguardanti l’abitazione come luogo fisico di residenza e domiciliazione (residenza, alloggio precedente alla detenzione, ipotesi alloggiativa post scarcerazione), come legame a elementi di natura amministrativa (stato civile, domicilio familiare, presa in carico di eventuali servizi) e, infine, come sim-

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bolo del microsistema riguardante gli affetti (contatti con partner, contatti con figli minorenni e maggiorenni). All’interno dell’area lavoro sono state individuate tutte le informazioni riguardanti il livello d’istruzione e formazione (istruzione italiana all’ingresso, livello di conoscenza della lingua italiana, istruzione in carcere), la condizione di regolarità sul territorio italiano (permesso di soggiorno) e la condizione lavorativa ed economica del detenuto (situazione lavorativa all’ingresso, prospettive lavorative alla scarcerazione, accesso all’art. 21 riguardante il lavoro esterno al carcere, presenza di altre risorse economiche). All’interno dell’area salute sono state raccolte le informazioni riguardanti lo stato di salute della persona detenuta (condizione generale, presenza di dipendenze, pregresse dipendenze, presenza di disturbi psicopatologici), compresi gli atti compiuti dal detenuto contro la sua stessa persona (autolesionismo e tentativo di suicidio), l’attivazione dell’assistenza sanitaria a qualunque titolo e l’eventuale stato d’ansia precedente alla scarcerazione. Infine, l’area socialità ha raccolto le informazioni riguardanti gli aspetti detentivi che possono aver influito sulla vita sociale del detenuto (l’accesso a misure alternative, altre esperienze passate di carcere, le attività interne al carcere) e la narrazione della propria rete sociale da parte del detenuto stesso (i contatti amicali esterni al carcere, i contatti associativi/parrocchiali in carcere o fuori dal carcere). I percorsi di vita studiati nei dodici mesi di attività di osservazione sono stati in tutto 39. L’incontro fra l’assistente sociale e ognuno di questi detenuti è avvenuto tramite segnalazione di quest’ultimo al progetto da parte di un soggetto terzo. Al momento della rilevazione di questi dati, l’efficacia del progetto si reggeva sulla capacità del soggetto terzo di selezionare e comunicare correttamente segnalazioni coerenti con il mandato del progetto, in quanto mirate, corrette ed esaustive nelle informazioni fornite. Queste segnalazioni sono state perlopiù prodotte dai funzionari giuridico-pedagogici dell’Area educativa, seguite da quelle dello Sportello informativo e di mediazione in carcere. Il resto delle segnalazioni ha soltanto carattere residuale (come indicato nella Tabella 11). Nel corso dei dodici mesi di attività di osservazione è emerso con chiarezza che le segnalazioni non sempre erano frutto di scelte oculate e sistematiche, ma di un approccio più destrutturato, privo di criteri chiari, dettato da parametri arbitrari, con la conseguenza che, il più delle volte, le informazioni consegnate all’assistente sociale erano lacunose e frammentate, nella quasi totalità dei casi da integrare, per diversi elementi essenziali per la progettualità futura. A calce di ognuna delle quattro aree analizzate, sono state appuntate le annotazioni raccolte durante i colloqui e le azioni

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ipotizzate nella costruzione del progetto d’uscita. Nel corso dell’analisi si proporranno alcune di queste integrazioni da parte dell’assistente sociale coinvolta nel progetto. Dei 39 soggetti esaminati, l’82,1% dei detenuti segnalati è di sesso maschile, mentre il 17,9% femminile, come mostrato nella Tabella 11. Non sono stati registrati casi di persone transessuali o transgender, indipendentemente dal possibile tipo di transizione (FtM o MtF). L’età media delle persone segnalate è di 36 anni, con gli estremi che vanno dai 21 ai 54 anni, mentre la nazionalità è italiana nel 46,1% dei casi e straniera, europea o non comunitaria, nel 53,9% dei casi. Il tempo medio di detenzione delle persone incontrate è di 17 mesi, con pene massime di 10 anni. La pena residua ipotizzata al momento della segnalazione è mediamente di 4 mesi, con gli estremi che vanno da qualche giorno prima, a 17 mesi prima della scarcerazione. Tabella 11: Dati generali dei casi del Progetto dimittendi presi in esame Item

Specifiche

(0)

Casi presi in esame

(1)

Sesso

Valore 39

Maschi

82,1%

Femmine

17,9%

(2)

Età

(media in anni)

36 anni

(3)

Nazionalità

Italiana

46,1%

Straniera

53,9%

(4)

(5)

Tempo in carcere

Segnalato da

Tempo di detenzione medio

17 mesi

Tempo di detenzione massimo

10 anni

Pena residua media

4 mesi

Area educativa

74,3%

Area sanitaria / promotori salute

2,6%

Sportello mediazione culturale

20,5%

Volontari

2,6%

Avvocati / Garante

0,0%

Prima di entrare nel dettaglio dei dati nelle quattro aree, vanno fatte ulteriori specifiche. Alla sua origine il Progetto dimittendi non è stato pensato esclusivamente per le persone senza dimora, in quanto entrate come tali in carcere, bensì per un gruppo di beneficiari più ampio: tutti coloro che, in uscita dal carcere, hanno necessità di un sostegno strutturato, la popolazione in dimissione tutta, come indicato dal PRAP nel documento precedentemente citato. L’attenzione particolare per le persone senza dimora o quelle a rischio di homelessness e, più in generale, alla popolazione detenuta vulnerabile in dimissione dal carcere, nasce per una marcata sensibilità dei professionisti operanti sul territorio e si svilupperà nel corso di questa ricerca, anche

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MARGINALITÀ

96

VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

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attraverso la finalizzazione di alcune risorse dedicate a questa porzione di popolazione maggiormente vulnerabile. Al momento della rilevazione di questi dati, il 61,6% delle persone segnalate risultava senza dimora in quanto (a) anagraficamente “senza fissa dimora”, poiché prive di residenza, (b) con residenza presso una via fittizia, nel caso di Bologna via Mariano Tuccella, oppure (c) con residenza temporanea presso la Casa circondariale, mentre la restante parte ha mantenuto una residenza anagrafica presso un luogo fisico sul territorio nazionale (vedi Tabella 12). Nel gruppo di persone formalmente definibile senza dimora, il 23,1% dei detenuti è italiano (6 in assenza di dimora e 3 con residenza presso la Casa circondariale), mentre il restante 38,5% (15 persone senza dimora in tutto) è composto da persone straniere, sia europee, sia non comunitarie. Tabella 12: area casa del Progetto dimittendi Item (6)

(7)

(8)

(9)

Residenza

Alloggio precedente

Ipotesi di uscita

Presa in carico all’uscita

Specifiche

Valore

Attualmente senza dimora (irreperibile, mai avuta, irregolare)

53,9%

Residente a Bologna in via Mariano Tuccella

0,0%

Residente a Bologna presso la Casa circondariale di Bologna

7,7%

Residente nel Comune di Bologna (tranne carcere e via fittizia)

17,9%

Residente nella Città metropolitana di Bologna

15,4%

Residente in altro comune fuori dalla Città metropolitana

5,1%

Strada o sistemazioni di fortuna

23,1%

Dormitorio temporaneo (piano freddo, bassa soglia)

2,6%

Centro d’accoglienza, con soggiorno di media o lunga durata

7,7%

Ospite da parenti

23,1%

Ospite da amici, associazioni, parrocchie

12,8%

Con dimora in Italia (affitto o proprietà)

17,9%

Situazione alloggiativa estera

7,7%

Altra sistemazione (campo sinti, comunità terapeutica…)

5,1%

Strada

28,2%

Ospite da parenti

20,5%

Ospite da amici, associazioni, parrocchie

15,4%

Supporto all’uscita con il terzo settore (appartamento AVOC)

18,0%

Formulazione di una tutela fornita dal Progetto dimittendi

7,7%

Alloggio in affitto o di proprietà

5,1%

Nessuna ipotesi al momento della compilazione

5,1%

Servizio sociale bassa soglia (temporanea o di lunga durata)

41,0%

SST / SerT nel Comune di Bologna

10,3%

SST / SerT in altro comune

15,4%

USSI disabili adulti3

2,6%

Accertata autonomia della persona

7,7%

Nessuna ipotesi al momento della compilazione

23%

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

Item (10)

(11)

Assenza di legami familiari

(12)

Incontri con partner

(13)

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Stato civile

(14)

Figli minori

Figli maggiorenni

97

Specifiche

Valore

Celibe / Nubile

59,0%

Coniugato/a

25,6%

Divorziato/a o separato/a legalmente

12,8%

Vedovo/a

2,6%

(non ci sono rapporti significativi)

20,5%

Regolari (uno a settimana)

12,8%

Irregolari (più di uno al mese)

10,3%

Sporadici (più di uno ogni sei mesi)

18,0%

Assenti

46,1%

Dato mancante

12,8%

Presenti, con contatti frequenti

0,0%

Presenti, con contatti irregolari o sporadici

2,6%

Presenti, ma senza contatti

25,6%

Presenza di un servizio sociale minori

5,1%

Assenza di figli minori

66,7%

Presenti, con contatti frequenti

2,6%

Presenti, con contatti irregolari o sporadici

2,6%

Presenti, ma senza contatti

15,3%

Assenza di figli maggiorenni

79,5%

Dallo studio condotto sui 39 soggetti presi in esame, per i cittadini italiani esiste una correlazione fra ingresso in carcere dalla strada e possibile uscita dal carcere in strada: di 9 persone in questa condizione, 7 già si trovavano in strada al momento dell’ingresso, mentre per gli stranieri la situazione è differente: meno della metà di loro (6 persone su 15) è entrata in carcere con alle spalle una esperienza di homelessness. Di tutti i casi studiati, il 28,2% delle persone in via di scarcerazione è tornato in strada (4 persone italiane, 7 straniere), mentre il 25,7% è approdato a un progetto, pubblico o del terzo settore, di accompagnamento all’uscita. Fra coloro che hanno avuto accesso a progetti personalizzati, 8 persone sono italiane e 2 sono straniere, ribadendo numericamente le difficoltà esistenti nell’immaginarsi percorsi efficaci di reinserimento sociale per persone straniere scarcerate, spesso prive di permesso di soggiorno regolare, quindi con ostacoli burocratici enormi rispetto a una qualsiasi attività progettuale. Vi è, infatti, una certa reticenza a investire risorse in questi percorsi in quanto ritenuti di ardua risoluzione. Il 41,0% delle persone in via di scarcerazione ha trovato una risorsa abitativa in autonomia, fra risorse proprie come un alloggio di proprietà o un affitto, oppure grazie al sostegno di una rete parentale, amicale o sociale più ampia (es. parrocchie o associazioni non legate a progettualità post detentive). Nella schematizzazione qui proposta, l’area casa simbolicamente indica anche il sistema delle relazioni affettive e familiari. Il 59,0% delle persone in

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MARGINALITÀ

VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

via di scarcerazione è celibe o nubile, mentre il 25,6% è coniugato. In carcere sono ammessi colloqui con familiari (coniuge, ex convivente indipendentemente dal sesso e parenti) o “terze persone”, purché abbiano “ragionevoli motivi” per incontrare la persona detenuta, sempre e solo su autorizzazione della Direzione, a seguito di una domanda scritta da parte del detenuto, il quale ha a disposizione in tutto sei colloqui mensili di un’ora, alla presenza di massimo tre persone contemporaneamente. Per quanto riguarda i colloqui con i familiari, la domanda viene considerata automaticamente approvata dalla Direzione, se non per motivi legati alla mancanza dei prerequisiti, mentre per l’accesso a colloqui con “persone terze”, non familiari in senso stretti, anche se in presenza di legami affettivi, è a discrezione del Direttore autorizzare o meno la possibilità che possa svolgersi tale incontro. Considerato questo regolamento, risulta interessante affiancare al dato anagrafico quello riguardante la percezione della tenuta dei propri legami familiari e quello della frequenza di incontro del partner. Nel 20,5% dei casi, il detenuto ritiene di essere privo di legami familiari significativi (5 persone italiane, 3 persone straniere). Intrecciando questo dato con quello delle ipotesi di uscita post carcere, solo 1 persona finirà in strada, mentre le altre otterranno ospitalità presso parrocchie, associazioni o progetti del terzo settore. Soffermandosi sulla frequenza di incontro del partner (più comunemente coniuge o ex convivente), circa la metà delle persone incontrate dal Progetto dimittendi non ha incontri di questo tipo. Fra costoro, sono le persone italiane a riscontrare maggiori difficoltà: delle 18 persone prive di incontri in carcere, 11 sono italiane e 7 sono straniere. Sempre fra costoro, 7 sono persone senza dimora. Nel 18,0% dei casi tali incontri sono invece sporadici, ovvero al massimo uno al mese. Per quanto riguarda il tema della genitorialità, le persone accompagnate all’uscita in prevalenza non hanno figli minori (66,7%), né figli maggiorenni (79,5%). Nei casi in cui questi siano presenti, il più delle volte non vengono incontrati, poiché non ci sono più contatti (25,6% rispetto ai figli minorenni, 15,3% rispetto ai figli maggiorenni). Le note sintetiche legate all’area casa il più delle volte riportano tre macro progettualità: la segnalazione al servizio specialistico e/o territoriale di competenza, l’accompagnamento verso il rimpatrio, l’accoglienza con posto letto per dimittendi, argomento approfondito in seguito. Se ne riportano alcuni esempi: In accordo con SST [servizio sociale territoriale] e Sert competenti, si propone alla persona un periodo di dormitorio (posto dimittendi) per permetterci di prendere contatti con i suddetti servizi e con l’ex datore di lavoro. Si ipotizza rientro in Romania e nell’attesa posto dimittendi.

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

99

Si dà disponibilità posto dimittendi per 15 giorni con l’obiettivo di tornare in Albania. In carico a Sert Zola Predosa. Si ipotizza breve periodo presso AVOC. Si consiglia inoltre al suo servizio di segnalarla per strutture del privato sociale a Bologna. Non vuole dormitorio, né suore. In carico a Unità di strada e Sert. Si ipotizza inserimento in dormitorio. Si offre posto letto dimittendi per 15 giorni, per riprendere rapporti con la compagna o eventualmente raggiungere la famiglia in Germania. Presa in carico dell’USSI [unità socio sanitaria integrata] disabili. Si ipotizza accoglienza presso Avoc. Si predispone ingresso posto dimittendi, fino al rientro in Romania con contributo di SBS [servizio sociale bassa soglia]. Il Sert, che ha la presa in carico, ipotizza soluzioni alloggiative dopo la dimissione. Si ipotizza accoglienza presso l’Albero di Cirene. Avoc dà la disponibilità a tenerlo per un breve periodo. Si ipotizza il rientro in struttura d’accoglienza, per tutelare le fragilità della ragazza. Si ipotizza un aggancio all’Unità mobile (da cui è già conosciuto) e si offre sostegno per rientro in Tunisia.

Rispetto alla tenuta dei legami familiari, il più delle volte il percorso detentivo è considerato un ostacolo e non un’opportunità da cui ripartire e manca un’attenzione dedicata al tema durante gli anni di reclusione. Risulta molto complesso riprendere le fila al termine della pena. Solo in un caso risulta evidente questo tipo di progettualità, immediatamente sostenuta dal progetto anche a livello economico per cercare di trasformare positivamente l’incontro: Il detenuto afferma che si recherà dalla figlia per un periodo per poi tornare a Bologna. Si propone dormitorio (posto dimittendi) per un periodo.

Nelle note sopra riportate si riscontra una certa adesione da parte del detenuto alla progettualità proposta, ma raramente emerge dalle note sintetiche la volontà della persona contattata dal Progetto dimittendi, i desiderata. In questi casi, come nel caso della persona che rifiuta dormitori e contatti con le suore, la volontà del detenuto è così riportata: La persona è ben conosciuta dal Sert Imola, da cui ha dichiarato di voler tornare. Vuole trovare lavoro. Date indicazioni per rivolgersi ai dormitori di bassa soglia. Non vuole tornare in Romania. Riferisce di voler tornare in Germania dove vive da molti anni.

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MARGINALITÀ

100

VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

Non chiede aiuto rispetto alla libertà, ma solo rispetto la detenzione domiciliare che vorrebbe ottenere, ma non ha un luogo dove scontarla. Ha interrotto tutti rapporti con la famiglia. Dice che quando uscirà accetterebbe il dormitorio. Il detenuto riferisce di voler tornare a Barletta. Il Sert interno del carcere sta predisponendo aggancio con Sert di Barletta. Mai avuto un lavoro in regola, chiede lavoro. Chiede di poter lavorare in carcere. Non ci sono prospettive lavorative all’uscita. La situazione del permesso di soggiorno per motivi familiari non è regolarizzabile a causa della perdita della potestà genitoriale.

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In rari casi, nella nota sintetica emerge esclusivamente una difficoltà burocratica: La presa in carico all’uscita dipende dalla residenza, al momento in cancellazione. Tabella 13: area lavoro del Progetto dimittendi Item (15)

Titolo di studio

Specifiche

Valore

Senza titolo di studio

38,5%

Licenza elementare

15,4%

Licenza media inferiore

33,3%

Diploma superiore

7,7%

Laurea o titolo superiore

0,0%

Dato non disponibile

5,1%

(16)

Lingua italiana

Analfabeta o analfabeta di ritorno

33,3%

(17)

Istruzione in carcere

Istruzione secondaria di primo grado

10,3%

Istruzione secondaria di secondo grado

7,7%

Università

0,0%

Dato sconosciuto

82,0%

Disoccupato

79,5%

Occupato in maniera irregolare (anche lavoro nero)

7,7%

Occupato saltuariamente

5,1%

Tirocinio formativo o altre forme di inserimento lavorativo

0,0%

Occupato a tempo determinato

0,0%

Occupato a tempo indeterminato

7,7%

Disoccupato

89,7%

Occupato in maniera irregolare (anche lavoro nero)

0,0%

Occupato saltuariamente

2,6%

Tirocinio formativo o altre forme di inserimento lavorativo

7,7%

Occupato a tempo determinato

0,0%

(18)

(19)

(20)

Lavoro precedente

Lavoro all’uscita

Articolo 214

Occupato a tempo indeterminato

0,0%

Conferma attività lavorativa esterna

0,0%

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

Item (21)

Altre entrate economiche

101

Specifiche

Valore

Pensione di invalidità

2,6%

Altri sussidi

0,0%

Risparmi

0,0%

Sostegno familiari e amici

12,8%

Nessuna altra entrata economica

84,6% (14)

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(22)

Permesso di soggiorno

Irregolare

78,6%

Regolare (con permesso, in fase di regolarizzazione)

7,1%

Carta di soggiorno

14,3%

L’87,2% delle persone conosciute dal Progetto dimittendi ha uno scarso livello di istruzione (vedi Tabella 13). Nel 33,3% dei casi si può parlare perfino di analfabetismo di ritorno. Nonostante ciò, di fronte a questo panorama, nell’82,0% dei casi non si possiedono dati riguardanti gli eventuali studi e percorsi formativi compiuti in carcere. L’ipotesi più avvalorata rispetto a questa mancanza di informazioni è che vi sia una mancanza di continuità fra percorsi di studio e formazione in carcere e percorsi di studio e formazione per adulti esterni al carcere, benché non di rado gli enti erogatori di tali servizi siano gli stessi. La disoccupazione registrata al momento dell’ingresso in carcere è del 79,5% e aumenta con la scarcerazione (89,7%). Chi aveva un posto di lavoro a tempo indeterminato (7,7%) lo ha perso (0,0%), mentre qualcuno è riuscito ad accedere a un tirocinio formativo o ad altre forme di inserimento lavorativo in vista della scarcerazione (7,7%). L’accesso alle misure dell’art. 21 dell’Ordinamento penitenziario per la popolazione coinvolta in questo progetto è risultato del tutto precluso (0,0%). L’84,6% delle persone segnalate è uscita dal carcere in assenza di un reddito di qualche tipo. Solo il 2,6% ha accesso a una pensione di invalidità (1 persona), mentre il 12,8% dei casi ha un sostegno economico garantito da amici e familiari (5 persone, di cui 2 hanno come ipotesi di uscita la strada). Sono stati attivati in tutto 3 tirocini formativi finalizzati all’inclusione sociale (una delle misure di supporto all’inserimento lavorativo nella Regione Emilia-Romagna), per tre beneficiari che hanno potuto contare di percorsi strutturati all’uscita in accoglienza presso parenti, amici o associazioni. Delle 14 persone straniere non comunitarie incontrate dal Progetto dimittendi, il 78,6% risulta irregolare, in quanto privo di un permesso di soggiorno valido. È possibile fare richiesta di un nuovo permesso di soggiorno durante il periodo di reclusione, entro 60 giorni dalla scadenza del precedente permesso, ma la procedura risulta complessa e spesso i detenuti non sono informati. Qualora fosse passato il periodo di tempo utile per chiedere il rinnovo, in

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MARGINALITÀ

102

VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

linea teorica sarebbe comunque possibile farne richiesta dichiarando lo stato di detenzione e la mancanza di informazioni su come avanzare una simile richiesta dal carcere, ma, in ogni caso, la condizione di irregolarità risulta difficilmente sanabile. Le note sintetiche dell’area lavoro sono state strutturate in maniera non dissimile da quelle dall’area casa. In tal senso, vengono di solito riportate le ipotesi di attivazione di tirocini formativi o l’impossibilità di procedere a un reinserimento lavorativo. In qualche caso, emergono le richieste del detenuto.

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Si ipotizza inserimento in tirocinio formativo in carico a SBS [servizio sociale bassa soglia]. Il Sert dà la disponibilità all’attivazione di un tirocinio. La detenuta afferma di avere buone possibilità di essere di nuovo assunta dall’azienda dove lavorava prima. Si ipotizza l’attivazione di un tirocinio “programma carcere”. Ha decreto di espulsione. Non è ipotizzabile alcun percorso lavorativo. Uscirà con qualche soldo proveniente dal lavoro in carcere. Per un periodo sarà accolto da Avoc e con loro cercherà lavoro. Chiede aiuto per trovare lavoro all’uscita. Andrà dalla sorella che vive in provincia di Bologna. Chiede aiuto per trovare un lavoro. Chiede l’art. 21. Si discuterà il caso in équipe dimittendi. Si ipotizza segnalazione per un tirocinio formativo “programma carcere”. Tabella 14: area salute del Progetto dimittendi Item (23)

(24)

(25)

(26)

Salute generale

Dipendenze

Disturbi psichiatrici

Ansia da scarcerazione

Specifiche

Valore

Buona salute

48,7%

Invalidità superiore al 74%

5,1%

Presenza di patologie croniche senza invalidità superiore a 74%

28,2%

Presenza di problemi sanitari la cui entità è ancora in definizione

18,0%

In stato di guarigione

0,0%

Dipendenze da sostanze psicoattive con terapia

28,2%

Dipendenze da sostanze psicoattive senza terapia

23,1%

Presenza di dipendenze di altro tipo (ludopatia…)

0,0%

Non presenti o nessun dato fornito a riguardo

48,7%

Certificati con terapia

10,3%

Certificati senza terapia

0,0%

Sono ipotizzati, ma non diagnosticati

10,3%

Non presenti o nessun dato fornito a riguardo

79,5%

Si rileva o si ipotizza uno stato d’ansia da scarcerazione

2,6%

Non si rileva, né si ipotizza uno stato d’ansia da scarcerazione

97,4%

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

Item (27)

(28)

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(29)

Autolesionismo

Tentativi di suicidio

Assistenza sanitaria

103

Specifiche

Valore

Ha compiuto atti di autolesionismo durante la detenzione

2,6%

Non ha compiuto atti di autolesionismo durante la detenzione

0,0%

Nessun dato fornito a riguardo

97,4%

È stato tentato numerose volte

2,6%

È stato tentato una sola volta

0,0%

È stato tentato all’ingresso in carcere

0,0%

Nessun episodio

97,4%

È seguito regolarmente

33,3%

Ha fatto uso dell’infermeria

12,8%

Non è seguito, né ha usato l’infermeria

53,9%

La metà delle persone detenute in uscita dal carcere segnalate al Progetto dimittendi (48,7%) non presentava alcun problema di salute (vedi Tabella 14). Della metà con problemi di salute, il 28,2% presenta una invalidità (secondo la definizione fornita da INPS, una riduzione della capacità lavorativa parziale) inferiore al minimo punteggio per poter accedere a prestazioni di tipo economico da parte dell’Istituto previdenziale, mentre il 5,1% rientra fra coloro che possono beneficiare di questo sostegno. In questo caso il progetto si è occupato di attivare le pratiche, qualora non siano già state attivate in precedenza. Il 18,0%, pur avendo problemi non transitori di salute, sia a livello organico, sia a livello psichico, non ha alcun punteggio riconosciuto. Nel 48,7% dei casi non sono state rilevate dipendenze da sostanze psicoattive, né dichiarate dal detenuto o dall’area sanitaria, né emerse durate la detenzione, mentre la restante parte è seguita con terapia per dipendenze da sostanze psicoattive (28,2%) o, pur avendo la diagnosi, non ha avuto accesso a una terapia o l’ha rifiutata (23,1%). Non sono state dichiarate altre forme di disturbi del comportamento, come la ludopatia. Diverso è il discorso riguardante i disturbi psichiatrici, perlopiù non presenti o non dichiarati (79,5%) oppure ipotizzati, ma senza alcuna diagnosi (10,3%). Soltanto il 10,3% dei detenuti segnalati presentava una patologia psichiatrica diagnosticata, con accesso a una terapia farmacologica. Il 97,4% dei detenuti segnalati non ha presentato ansia da scarcerazione, né ha messo in atto gesti di autolesionismo durante la detenzione, né ha tentato il suicidio. Le note afferenti all’area sanitaria sintetizzano lo stato di salute fisico e psichico della persona, contenendo qualche dettaglio farmacologico. Pertanto non sono state qui riportate.

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104

VISSUTE TRA CARCERE E STRADA

Tabella 15: area socialità del Progetto dimittendi Item (30)

(31)

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(32)

(33)

(34)

Accesso alle misure alternative

Precedenti carcerazioni

Contatti con amici

Contatti con associazioni

Attività prevalente in carcere

Specifiche

Valore

Nessuna

74,3%

Sì, andate a buon fine

2,6%

Sì, non andate a buon fine

23,1%

Nessuna esperienza

33,3%

In presenza di recidiva, senza accesso a passate misure alternative

20,5%

In presenza di recidiva, con accesso a misure alternative in passato

41,0%

Dato mancante

5,2%

Regolari (uno a settimana)

2,6%

Irregolari (più di uno al mese)

2,6%

Sporadici (più di uno ogni sei mesi)

2,6%

Assenti

92,2%

Regolari (uno a settimana)

5,1%

Irregolari (più di uno al mese)

15,4%

Sporadici (più di uno ogni sei mesi)

7,7%

Assenti

71,8%

Attività lavorative interne al carcere (spesino, scrivano, mensa…)

20,5%

Attività lavorative in ditte presenti in carcere (es. sartoria)

2,6%

Incontri e laboratori con volontariato

0,0%

Formazione scolastica

5,1%

Formazione professionale

7,7%

Altre attività non lavorative (es. teatro)

0.0%

Altro

5,1%

Nessuna dichiarata

59,0%

Raramente la persona detenuta segnalata al Progetto dimittendi ha avuto un accesso a misure alternative durante la sua permanenza in carcere. Per il 74,3% questa strada è stata semplicemente preclusa (vedi Tabella 15). Il 23,1%, pur avendone avuto accesso, non ha portato a termine positivamente l’esperienza e, pertanto, la misura gli è stata revocata. Solo 1 persona (2,6%) ha usufruito positivamente di questi benefici di legge. Solo un terzo delle persone incontrate (33,3%) non ha avuto esperienze detentive precedenti a quella in corso. Tutti gli altri detenuti segnalati stavano scontando una pena legata a una reiterazione del reato (recidiva). Ai fini del reinserimento sociale è interessante far emergere che il 20,5% non aveva avuto accesso a misure alternative durante quella detenzione, mentre il 41,0% aveva avuto accesso a misure alternative. Non è tuttavia stato possibile risalire alla tipologia di misure alternative attivate, né alla progettualità collegata ad esse.

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DETENUTI

IN DIMISSIONE DAL CARCERE, FUTURE PERSONE SENZA DIMORA?

105

Durante la detenzione si è riscontrato una pressoché unanime assenza di contatti con amici (92,2%), mentre i contatti con associazioni o altre realtà analoghe sono stati più frequenti, anche quando non regolari (15,4%). Rispetto all’attività prevalente svolta in carcere, nella maggior parte dei casi (59,0%) non è stato dichiarato nulla. Seguono le attività lavorative interne – come l’addetto alla spesa (in gergo “spesino”), l’addetto alla stesura di documenti o richieste interne (in gergo “scrivano”), l’addetto al servizio mensa, al giardinaggio e alla pulizia – che hanno impegnato saltuariamente il 20,5% dei detenuti segnalati al progetto. In pochi hanno segnalato come attività prevalente la formazione professionale (7,7%) o scolastica (5,1%). Le note sintetiche dell’area socialità sono carenti nei contenuti e insufficienti nel numero. Le già scarse annotazioni sono osservazioni prive di progettualità, sebbene quasi tutte strettamente legate al vissuto del detenuto, ai suoi desideri o ai bisogni espressi. Poco realistico riguardo alle difficoltà del mondo esterno. Chiede supporto psicologico all’uscita (che già aveva). La squadra di rugby vorrebbe tenerlo una volta scarcerato. Scrive sul giornale. Non ha programma di trattamento poiché sta in infermeria.

3.6 Riflessioni sui dati Dall’analisi dei 39 percorsi studiati in questa ricerca si evince come le azioni di osservazione e di raccolta dati del progetto abbiano un peso nettamente maggiore rispetto alle azioni di progettazione e realizzazione dei percorsi di reinserimento sociale nel territorio di origine o di elezione (in prevalenza Bologna). L’attività principale del progetto, a distanza di un anno dalla sua nascita avvenuta negli ultimi mesi del 2014, è necessariamente ancora quella di ricostruire la storia della persona negli aspetti riguardanti la vita detentiva, che sta per concludersi, e negli aspetti riguardanti i legami di quel soggetto con il territorio in cui si collocherà. È probabilmente questa una delle cause per cui si evidenziano spesso percorsi di uscita ancora troppo stereotipati, legati alla soddisfazione dei bisogni primari, alcuni di quelli che nella piramide dei bisogni di Maslow sono indicati alla base, i bisogni fisiologici (cibo, acqua, sonno, omeostasi), nonostante l’obiettivo primario del progetto sia la maggiore inclusione territoriale del soggetto scarcerato, dalla sua preparazione all’accompagnamento nel reinserimento sociale (come previsto dall’art. 6 del Protocollo operativo integrativo del Protocollo d’intesa tra il Ministero della Giustizia e la Regione Emilia-Romagna per l’attuazione di misure volte all’umanizzazione della

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pena e al reperimento sociale delle persone detenute). Dare risposta ai bisogni primari è certamente il primo passo per poter rispondere ai bisogni più complessi, legati in senso più ampio all’abitare, alla salute, al lavoro, e ancor di più all’appartenenza sociale e comunitaria, ma, pur tenendo conto di ciò, soluzioni standardizzate come quelle del riparo notturno temporaneo e del sostentamento economico di qualche settimana, se prive di una progettualità personalizzata di medio-lungo respiro, co-costruita assieme alla persona detenuta o scarcerata, possono diventare mere soluzioni assistenziali. Un intervento nato per facilitare il rientro sul territorio della persona scarcerata, a causa delle risorse e dei limiti temporali di cui dispone, pur mantenendo un approccio strategicamente orientato, può diventare un intervento emergenziale, non perché attivato in risposta a un’emergenza imprevista (es. alluvione), ma in quanto tempestivo nella risposta ai bisogni imminenti e, al contempo, privo di un’articolazione successiva all’intervento rispetto al qui ed ora. Il rischio di appiattimento delle progettualità individuali su percorsi ripetitivi e burocratizzati, di corto respiro, è ulteriormente aggravato da ostacoli di diverso ordine, estrinseci al progetto. Ad esempio, vi sono limiti imposti dalle municipalità che non favoriscono progettualità a medio-lungo termine. Nel caso del Comune di Bologna la possibilità di poter lavorare in questa prospettiva si concentra prevalentemente su persone legate al territorio prima dell’ingresso in carcere, benché il progetto sia chiamato a rispondere a tutti i detenuti con fragilità in uscita dalla Casa circondariale, al termine di una pena definitiva. A persone non residenti è proposta una progettualità di altro tipo, più orientata al rientro nel territorio di provenienza precedente la detenzione. Nel caso in cui una persona senza residenza manifestasse un interesse fermo a voler rimanere sul territorio, allora il progetto dovrebbe farsi carico di ulteriori aspetti legati al tema della residenza anagrafica. Quest’ultima, in Italia, è un elemento progettuale di enorme importanza, in quanto da essa dipendono alcuni diritti fondamentali14 direttamente connessi all’iscrizione al sistema sanitario nazionale, all’accesso alle consulenze del medico di medicina generale e alle misure di welfare, all’esercizio del voto (non avendo una circoscrizione in cui votare), alla possibilità di ottenere un documento d’identità, una tessera sanitaria, un permesso di soggiorno (o il suo rinnovo), all’iscrizione ai centri per l’impiego, alla possibilità di aprire una partita iva, all’accesso al

14

Il diritto all’uguaglianza formale e sostanziale (art. 3 Cost.), il diritto al lavoro (art. 4 Cost.), il diritto alla libertà personale e dell’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), il diritto alla libertà di fissare la propria residenza nel territorio dello Stato (art. 16 Cost.), il diritto alla difesa (art. 24 Cost.), il diritto alla salute (art. 32 Cost.), il diritto all’assistenza e alla previdenza sociale (art. 38 Cost.), il diritto al voto (art. 48 Cost.).

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gratuito patrocinio legale, per fare alcuni esempi. La residenza anagrafica su un territorio locale (substatale) permette alla persona di esercitare i diritti che ha come cittadino italiano e cittadino europeo, dando la possibilità di usufruire di tali status (Gargiulo, 2013). L’iscrizione anagrafica è, pertanto, un diritto soggettivo, non vincolabile a condizioni particolari; eppure la prassi ha portato le amministrazioni locali a valicare il compito di mero accertamento della richiesta di una residenza anagrafica presso il luogo in cui la persona ha abituale dimora o vuole eleggerla, malgrado non sia previsto a livello legislativo alcun margine di discrezionalità, prassi consolidata per motivi di spesa pubblica: ogni iscrizione anagrafica ha un costo. Alcuni comuni hanno introdotto una via fittizia, come previsto per legge, mentre nella maggioranza dei casi questa possibilità non esiste al di fuori dei grandi comuni italiani15. Nondimeno anche l’accesso anagrafico a una via fittizia è filtrato e non immediato, tanto che le progettualità costruite con le persone senza dimora devono tenere in considerazione questo limite, benché si tratti di un aspetto pragmatico, burocratico e accessorio rispetto alle ben più complesse sfide di natura relazionale, culturale e sociale che il soggetto in dimissione dal carcere e/o in strada dovrà affrontare. L’accesso rapido alla residenza fittizia rimane così un’opzione raramente presa in considerazione, preferendo valutare una serie di interventi in base all’indifferibile necessità sociale e urgenza16 (es. il rischio di overdose nei primi giorni di scarcerazione), comunque finalizzati all’accompagnamento verso un altro territorio (di provenienza, di ultima residenza, ecc.). Il caso dei cittadini stranieri non comunitari, specie se privi di regolari documenti (es. permesso di soggiorno), complica ulteriormente la possibilità di intervento, a meno di non occuparsi in via esclusiva del percorso di regolarizzazione, là dove possibile, in sinergia all’attività legale.

3.7 La definizione di fragilità post scarcerazione, l’ampliamento educativo del Progetto dimittendi e la tutela abitativa Uno dei primi passi della ricerca-azione ha riguardato il concetto di fragilità post detenzione e, di conseguenza, l’ampliamento della finestra temporale di tutela garantita all’ex detenuto ritrovatosi a vivere in strada. Prima dell’avvio 15

Bologna ha istituito via Mariano Tuccella (vedi nota 33).

16

Le due condizioni di indifferibilità e urgenza del bisogno sono definite dal Regolamento generale in materia di servizi sociali del Comune di Bologna del 01/09/2008, in particolare all’articolo 4 l’indifferibile necessità sociale e all’articolo 22 gli interventi in emergenza.

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della ricerca-azione veniva distinto il momento immediatamente successivo alla scarcerazione, considerato di emergenza per un periodo variabile dalle due alle quattro settimane, durante le quali veniva fornita una protezione abitativa, con quello seguente, caratterizzato da una forma più vaga di fragilità riconosciuta per qualche mese, ma non necessariamente tutelata. Lo stesso Ordinamento penitenziario prevede la tutela dei detenuti “nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo” (art. 46 O.P.), non andando tuttavia a quantificare tali periodi di tempo in maniera precisa. Gli Stati Generali sull’esecuzione penale17 hanno evidenziando una sostanziale mancanza di attuazione dell’art. 46: percorsi “fino a oggi quasi mai garantiti” (Stati Generali sull’esecuzione penale, 2016, p. 39), costituiti dalla “preparazione” al rientro nella società libera e dal “sostegno” da offrire ai detenuti con fragilità sociali nel periodo immediatamente precedente e successivo alla scarcerazione. La soluzione proposta all’interno del documento finale degli Stati Generali è quella di varare “norme ordinamentali e regolamentari”, oltre alla “predisposizione di un protocollo di dimissione che sia in grado di raccogliere dati utili per tracciare i punti di forza e quelli di debolezza delle biografie di ognuno dei detenuti in dimissione […] per attenuare l’impatto dell’uscita” (Stati Generali sull’esecuzione penale, 2016, p. 39). In entrambi i casi sono assenti indicazioni temporali rispetto al periodo di tutela da fornire all’ex detenuto. Questo tempo è necessario per affrontare diversi aspetti problematici della vita detentiva, derivanti dal processo di istituzionalizzazione. A tal riguardo sono stati individuati diversi fattori di rischio che possono influire sulla condizione del soggetto detenuto in dimissione dal carcere o da poco scarcerato. Fra questi si evidenziano: – il processo di disculturazione (Goffman, 2010) caratterizzante l’esperienza detentiva, che introduce il soggetto recluso nella subcultura detentiva, contemporaneamente allontanandolo dalle situazioni tipiche nella società libera e “disabituandolo” a rispondere a queste; 17 Alla vigilia dei quarant’anni dell’Ordinamento penitenziario e a seguito della sentenza Torreggiani, con cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumano e degradanti (CEDU, sent. 8 gennaio 2013), il Ministero della Giustizia ha promosso un’assemblea nazionale di funzionari penitenziari, magistrati, accademici ed esperti professionisti e volontari, chiamata Stati Generali sull’esecuzione penale (2016). I lavori dell’assemblea, svoltasi da maggio 2015 ad aprile 2016, sono stati divisi in 18 tavoli tematici che hanno affrontato in maniera critica molteplici aspetti dell’esecuzione penale detentiva o alternativa, le cui osservazioni e proposte sono confluite all’interno di un documento finale a libero accesso, redatto da un comitato di esperti.

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lo sfilacciamento relazionale, talvolta isolamento relazionale, consolidatosi negli anni di reclusione; la mancanza del lavoro e la difficoltà a potervi accedere, sia in termini di mancanza di competenze specifiche e perdita di quelle trasversali (attraverso il processo di disculturazione), sia in termini di stigma e di incremento delle discriminazioni (Nooe, Patterson, 2010).

Vi sono poi altri elementi di vulnerabilità al momento della scarcerazione, non legati al processo di istituzionalizzazione:

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la possibile interruzione delle terapie farmacologiche, non più garantite ad alcuni soggetti (es. stranieri, persone senza dimora prive di residenza) alla pari di quanto accadeva in carcere; l’alto rischio di overdose, solitamente derivante da abuso di eroina, soprattutto nei giorni immediatamente successivi alla scarcerazione, quando il soggetto consumatore ha una bassa tolleranza (ovvero l’organismo ha un basso livello di difesa nei confronti della sostanza assunta) e potrebbe essere privo di copertura farmacologica; la presenza sul territorio dei soggetti stranieri non regolari al momento dell’ingresso in carcere o divenuti tali durante la detenzione.

L’insieme di uno o più di questi elementi può comportare anche la difficoltà ad accedere a risorse abitative. Sono stati riconosciuti gli effetti negativi prodotti dal processo di istituzionalizzazione nella vita della persona detenuta, in forza dei quali è necessario fornire un periodo di sostegno maggiore, al pari di quanto già avviene a Bologna con le dimissioni dagli ospedali di persone senza dimora o con le azioni di riduzione del danno messe in atto durante i mesi invernali. Prendendo in considerazione questi elementi, tra i risultati della ricercaazione è stato definito che le persone dimesse dagli istituti di pena siano considerate fragili nei 6 mesi successivi dalla scarcerazione, in particolar modo se senza dimora, sommando a questo arco temporale il periodo di affiancamento interno al carcere di 12 mesi (finestra temporale potenzialmente riducibile grazie alla liberazione anticipata18). In tal modo, il soggetto con fragilità avrà una garanzia di tutela sul territorio di Bologna e potrà essere seguito dal Progetto dimittendi per un totale di 18 mesi, durante i quali i servizi del territorio potranno collaborare per costruire con il soggetto un progetto di accompagnamento più solido. 18

Si tratta di una misura alternativa, uno sconto di pena di 45 giorni calcolati ogni semestre di condanna e sottratti solo a fronte della “buona condotta” del detenuto.

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Le azioni del Progetto dimittendi, collocate all’interno di una definizione temporale manifesta e garantita, possono essere considerate come una delle risposte aggiuntive messe in atto per contenere il rischio di recidiva (reiterazione del reato) dei soggetti scarcerati. Considerando l’alto livello di preoccupazione sociale rispetto al tema della recidiva, una risposta di questo tipo, messa in atto solo in mancanza dell’attivazione delle più idonee ed efficaci misure alternative alla detenzione, può contenere i danni derivanti dall’abbandono istituzionale che i soggetti detenuti vivono al termine della pena, ritrovandosi privi di una collocazione sociale nella comunità, a meno di non averla mantenuta grazie a risorse proprie. La quantificazione temporale, tuttavia, solleva qualche dubbio: sebbene la sua definizione sia un elemento di chiarezza importante nel percorso di accompagnamento e reinserimento sociale, nonché una garanzia per l’esercizio di una reale assistenza post-penitenziaria da offrire alla persona in fase di scarcerazione o recentemente scarcerata, è certamente limitativo presentare un arco temporale espresso in termini uniformi e uguali per tutti, anziché individualizzato e calibrato sui bisogni e i tempi della persona. È un “confine stretto” quello che si è definito, ma necessario per contenere l’eccessiva discrezionalità con la quale si interpreta il periodo “immediatamente precedente la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo” (art. 46 O.P.) richiesto per legge. Il convergere della ricerca-azione verso una precisa quantificazione temporale della “presa in carico” è stato, pertanto, un elemento importante per la crescita del progetto, ma in futuro potrebbe risultare una scomoda recinzione. A fianco a ciò è stato necessario rivedere anche il metodo di incontro dei detenuti, fino a quel momento basato sulla segnalazione di specifiche situazioni da parte di soggetti terzi (perlopiù gli educatori penitenziari) al Progetto dimittendi, secondo criteri non condivisi. Le persone segnalate al Progetto dimittendi erano, infatti, poche e non sempre pertinenti. La presenza di componenti fortemente discrezionali da parte del soggetto segnalante poteva tradursi anche in discriminazioni, poiché, a parità di condizioni, un detenuto veniva segnalato e uno no, per motivi del tutto estrinseci dalla condizione di questi. Inoltre alcune persone con bisogni importanti, all’uscita dal carcere si sono rivolte direttamente ai servizi di prossimità, attivando da lì il progetto, rimanendo cioè invisibili all’interno della Casa circondariale. Il gruppo coinvolto nella ricerca-azione ha pertanto elaborato queste informazioni e ha presentato alla Regione Emilia-Romagna una richiesta di finanziamento per una figura professionale aggiuntiva a quella già presente all’interno del Progetto dimittendi, passando così da un assistente sociale a un assistente sociale e a un educatore sociale. L’obiettivo è stato quello di

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migliorare il raccordo fra carcere e servizi territoriali esterni, fornendo un supporto nel vaglio metodico delle persone in uscita dal carcere con pena definitiva e il loro tempestivo inserimento all’interno del sistema di accoglienza per adulti, qualora fosse necessario. Evitare, cioè, che il detenuto, una volta scarcerato, fosse esposto al rischio di grave esclusione sociale e diventasse senza dimora, senza aver ricevuto alcun tipo di sostegno. Nella proposta progettuale “azioni di sostegno alle persone in uscita dal carcere per prevenire la condizione di senza dimora” sono state avanzate delle ipotesi d’azione che l’educatore sociale, in raccordo e in sinergia all’assistente sociale, avrebbe compiuto:

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costante aggiornamento della lista delle persone con reati definitivi, in via di dimissione; reperimento delle informazioni sociali, giuridiche e sanitarie aggiornate su ogni persona in lista; raccordo con il funzionario giuridico-pedagogico di riferimento per un colloquio di introduzione; colloquio diretto fra detenuto, educatore sociale e assistente sociale, solo qualora il funzionario non avesse previsto un incontro; co-costruzione con l’assistente sociale di un progetto di uscita, condiviso con la persona detenuta.

Queste azioni, ipotizzate prima dell’estensione del progetto a una figura educativa, avevano la necessità di integrare l’azione già presente in Casa circondariale con una più mirata, afferente al Progetto dimittendi, mantenendo una chiara distinzione di ruoli e funzioni fra l’educatore sociale comunale e il funzionario giuridico-pedagogico ministeriale. Leone e Scaffidi (2010) elencano alcune significative differenze esistenti fra le due figure, tra le quali si evidenziano: –



il forte orientamento dei funzionari giuridico pedagogici alla pedagogia penitenziaria, “che considera in particolare gli interventi relativi all’osservazione e al trattamento dei detenuti” (Leone & Scaffidi, 2010, p. 207), a fronte di una solida formazione educativo pedagogica degli educatori sociali; il “ruolo strettamente educativo che implica un rapporto personale significativo con il detenuto” (Leone & Scaffidi, 2010, p. 207), da parte dell’educatore sociale, a fronte di una relazione maggiormente burocratica amministrativa, e solo marginalmente educativa, da parte dei funzionari giuridico pedagogici.

A queste distinzioni si può aggiungere che al funzionario giuridicopedagogico, il cui ultimo concorso pubblico è stato bandito nel 2003, quando

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ancora era riconosciuto come profilo professionale di educatore (educatore penitenziario), veniva richiesto un titolo di studio specialistico in Scienze pedagogiche o Scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua o Programmazione e gestione dei servizi educativi e formativi, oppure un diploma di laurea in Giurisprudenza, Lettere, Scienze politiche, nonché lauree della facoltà di Magistero o lauree equipollenti. Un intervallo di possibilità molto ampio, tutte afferenti a titoli di studio in area umanistica, ma non necessariamente con una solida impostazione pedagogica. Sempre all’interno della proposta progettuale presentata alla Regione Emilia-Romagna, sono stati esplicitati i criteri attraverso cui individuare i soggetti a cui il Progetto dimittendi è rivolto, per cui è necessario intervenire e costruire un progetto d’uscita: – – – – –

– – –

ipotesi di permanenza sul territorio di Bologna; mancanza di alloggio alla scarcerazione; mancanza di una rete sociale di supporto; presenza di problematiche sanitarie (psichiatriche, dipendenze…); interesse ad uscire dal territorio, ma con necessità di supporto economico per lasciare il paese o per ricongiungersi con la famiglia/ parenti in altre zone d’Italia; supporto economico per il rinnovo dei documenti; richiesta di mediazione familiare dopo la detenzione; validità di una residenza non nel Comune di Bologna e necessario raccordo con i servizi competenti.

La proposta è stata finanziata dalla Regione Emilia-Romagna tramite delibera n. 1224/2016 e ha portato all’assunzione di un educatore sociale ad agosto 2016 per un anno. La popolazione scarcerata maggiormente esposta e bisognosa di tutela mirata al momento dell’uscita dal carcere è quella a rischio di diventare senza dimora o già tale al momento dell’incarcerazione. Pertanto, in aggiunta alla risorsa educativa e alla definizione del periodo di assistenza di 18 mesi rivolto ai detenuti in dimissione e a quelli recentemente scarcerati, il progetto è stato ulteriormente potenziato tramite l’assegnazione di posti letto dedicati ai beneficiari del servizio, presso alcune strutture di accoglienza pubbliche del Comune di Bologna. L’opportunità di garantire alcuni posto letto dedicati a ex detenuti privi di possibilità abitative all’uscita, a scapito di altri soggetti senza dimora, è stata argomentata a partire dal fatto che questa particolare fascia di popolazione è de facto senza dimora e, sebbene vadano incontro a difficoltà identiche a quelle di ogni altra persona senza dimora, in aggiunta vivono una serie di problematiche relazioni e riguardanti

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le capacità quotidiane, accumulatesi nel processo di disculturazione. Il tentativo non è pertanto quello di dare una risposta abitativa definitiva, opzione impossibile a partire dalle risorse a disposizione del progetto, ma di offrire una tutela abitativa limitata nel tempo, durante la quale ristabilire un clima relazionale sano, disponibile al dialogo, attento a riprendere dimestichezza con le abitudini “indispensabili nella società libera” (Goffman, 2010, p. 100), in grado cioè di ridurre gli effetti desocializzanti della disculturazione. Al termine della ricerca sono stati finalizzati a questo uso tre posti letto.

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3.8 L’ampliamento educativo del progetto: le difficoltà della fase iniziale L’educatrice coinvolta nel Progetto dimittendi ha redatto un breve diario di bordo, al fine di poter valutare ex post le azioni compiute all’interno della Casa circondariale ed eventualmente ricalibrare il lavoro educativo lì svolto. Se ne propongono alcuni stralci commentati, seguendo le prime fasi dell’ampliamento educativo di un progetto inserito in una cornice istituzionale formale e con ridotti margini d’azione, fasi caratterizzate dall’esigenza di distinguere il ruolo dell’educatore sociale, da quello dell’educatore penitenziario ministeriale (funzionario giuridico-pedagogico), per ridurre al minimo il rischio di confusione da parte dei detenuti beneficiari del progetto, e da quella di potenziare il lavoro di rete interno alla Casa circondariale, al pari del lavoro di rete costruito dall’assistente sociale sul territorio, per poter realizzare una sempre più forte connessione fra “dentro e fuori” il carcere. Nelle prime settimane l’educatrice si è occupata di un lungo lavoro di ricostruzione dei dati riguardanti i soggetti beneficiari del progetto o potenzialmente tali, andando a formare una lista delle persone in dimissione dal carcere pensata appositamente per il Progetto dimittendi, secondo i nuovi criteri proposti alla Regione Emilia-Romagna. Ottenere la lista delle persone in dimissione (lista dimittendi) dalla Casa circondariale nei successivi 12 mesi è abbastanza semplice, attraverso una semplice query del database dell’istitituto, mentre non lo è altrettanto avere informazioni riguardanti costoro, poiché non è detto che queste siano mai state raccolte. L’esiguo numero di operatori dell’Area educativa non permette a quest’ultima di conoscere in maniera approfondita ogni detenuto con pena definitiva, ma spesso si attiva su sollecitazione esterna, per razionalizzare le poche risorse a disposizione. La prima fase di lavoro è consistita nella presa visione della lista dimittendi tramite la quale si sono tracciate le priorità di indagine riguardanti il numero di detenuti, la possibilità o meno che fossero stati “colloquiati” dagli educatori

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del carcere, quali informazioni disponevamo in merito e quali le prospettive progettuali per ognuno di loro (in particolare modo di coloro molto prossimi all’uscita e quindi in cima alla lista). La lista presentava 76 nomi, per ognuno di loro sono state cercate informazioni all’interno del sistema operativo al quale si ha accesso dall’ufficio dello Sportello Informativo […] Il lavoro in questa prima fase è consistito nell’entrare nel profilo […] di ogni detenuto dimittendo, annotarsi per ognuno la presenza o meno di informazioni e la provenienza delle stesse (se dalla scheda mediatori e/o educatori). Questi i primi risultati: su 76 dimittendi presenti nella lista, 26 avevano informazioni relative alla raccolta dati svolta dagli educatori. Di questi 76 tutti gli stranieri erano stati visti dai mediatori culturali. In conclusione risultava che 50 di 76 detenuti dimittendi non fossero stati mai “colloquiati” dagli educatori. […] è cominciata una seconda indagine […] che ha portato al reperimento di nuove informazioni riguardanti i dimittendi. Con questa seconda indagine il numero dei detenuti di cui non si ha nessuna informazione scende a 13.

Nel costruire la lista dei soggetti con pena definitiva, 76 detenuti in tutto, all’interno dei colloqui individuali fra questi e l’educatrice sociale è emerso che almeno 13 di costoro non avevano mai avuto un contatto con l’educatore penitenziario di riferimento. A loro era stato garantito esclusivamente il colloquio di primo ingresso, svolto nei primi giorni di detenzione per orientare il soggetto all’interno del carcere e valutare le esigenze del detenuto nuovo giunto, a cui non sono seguiti altri incontri. Probabilmente quelle persone non sarebbero mai state segnalate al Progetto dimittendi, poiché non conosciute a causa dei tempi stretti fra la sentenza di condanna penale definitiva e la data di scarcerazione. Attraverso questo approccio, che è passato da un’attivazione del progetto “al bisogno”, a una attivazione sistematica per tutti coloro che rientrano all’interno di determinati parametri, anche i soggetti meno conosciuti o marginali sono stati inclusi e incontrati a colloquio. Ciò ha permesso di raggiungere un più ampio numero di potenziali beneficiari del servizio, al contempo evidenziando gli effetti negativa di una presenza ridotta dei funzionari giuridico-pedagogici, insufficienti a poter rispondere a tutti i soggetti ristetti che legalmente ne avrebbero diritto. La relazione con i funzionari giuridico pedagogici (educatori penitenziari) è fondamentale per la riuscita del progetto, sia nei casi in cui è possibile un confronto, sia nei casi in cui il confronto si limiti a chiedere un coinvolgimento di questi negli ultimi mesi, settimane o giorni di detenzione, come nel caso appena riportato. […] si è dimostrato fondamentale iniziare un dialogo costruttivo con l’equipe degli educatori al fine di reperire le informazioni mancanti per quei 13 detenuti e per arricchire quelle carenti di alcuni altri prossimi all’uscita. […] È stato svolto un nuovo incontro, questa volta alla presenza di tutti gli educatori,

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in cui è stato nuovamente spiegato il progetto, le sue finalità e gli strumenti utilizzati per il raggiungimento degli obiettivi comuni. Gli educatori si sono dimostrati da subito collaborativi e propositivi chiarendo però la loro posizione soprattutto nei confronti dei detenuti che hanno una pena breve, ed entrano quindi subito nel circuito dei dimittendi, per quanto riguarda l’impossibilità di vederli tutti per via della scarsità del tempo a loro disposizione e dell’ingente mole di lavoro attribuibile agli altri detenuti a loro assegnati.

Vi è certamente un rischio nell’ingresso in carcere di un educatore sociale (o di un’assistente sociale) estraneo al sistema dell’esecuzione penale: questi “prima di essere una risorsa, è un elemento che turba un equilibrio” (Leone & Scaffidi, 2010, p. 207). In parte questa situazione è emersa durante la ricerca, proprio sul tema segnalazioni. In quel caso specifico, dopo un confronto con il responsabile dell’Area educativa, è stato convocato un incontro per presentare ulteriormente il Progetto dimittendi, rinnovato nelle sue modalità d’azione, a partire da quelle di segnalazione, e nell’organico accresciuto di una figura educativa non ministeriale. Questo cambiamento ha creato un certo spaesamento fra educatori penitenziari, timorosi che l’incremento di richieste pervenute da parte dell’educatrice del Progetto dimittendi potesse gravare ulteriormente sul loro lavoro, già appesantito e in sofferenza per via dell’estrema carenza di personale. La presentazione della ratio, seguita nelle richieste formulate ai funzionari giuridico pedagogici e l’esplicitazione degli obiettivi del progetto, ha prodotto una sinergia fra l’équipe ministeriale e quella locale. Da quel momento è stato possibile costruire un metodo condiviso di lavoro, basato su un costante raccordo e scambio di idee, attraverso comunicazioni digitali, incontri e tavoli di lavoro mensili. In seguito a questo incontro è cominciata la terza fase di lavoro nella quale si sono divisi i nominativi dei dimittendi presenti nella lista in base all’educatore di riferimento e scrivendo a ciascuno di loro una mail con la lista dei detenuti a loro assegnati […] Questo ci ha permesso di cominciare a reperire da ciascun educatore le informazioni carenti o non presenti […] e di lasciare loro un promemoria su ogni detenuto e sulla data di fine pena a lui assegnata. Questa metodologia ha permesso agli educatori di avere una fotografia in tempo reale dei detenuti in uscita a loro assegnati e di produrre un numero molto più alto di segnalazioni tramite l’apposita scheda dimittendi. […] nonostante la lista dimittendi subisca variazioni continue per via delle numerose cause che intervengono a mutare la vita giudiziaria e penitenziaria del detenuto (liberazioni anticipate, affidamenti in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, spostamenti in altri istituti, etc), ad oggi abbiamo un discreto monitoraggio delle informazioni rispetto ad ognuno di loro.

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Al momento in cui la ricerca-azioni si è conclusa, la lista dimittendi fornita dalla Casa circondariale era costituita da 64 nomi, 8 donne e 56 uomini, 25 italiani e 39 stranieri, di cui 23 segnalati al progetto e, fra questi, 14 persone già incontrate a colloquio. La selezione delle persone da incontrare è stata fatta secondo criteri temporali (data di fine pena) e criteri operativi (particolari criticità o situazioni particolarmente complesse). Questa soluzione, tuttavia, ancora non convince. Il carcere è caratterizzato dalla privazione della libertà dei soggetti reclusi al suo interno e, tenendo conto di ciò, i detenuti non sarebbero in grado di usufruire autonomamente di uno sportello a libero accesso posto all’esterno delle sezioni, ma dovrebbero farlo attraverso il filtro di uno o più soggetti: lo “scrivano” di reparto per la domanda scritta da fornire per ogni tipo di autorizzazione richiesta all’amministrazione, gli agenti di polizia penitenziaria e la Direzione stessa. Viene, in altri termini, sottostimato l’effetto inabilitante del carcere, a seguito privazione della libertà esercitata al suo interno. La possibilità di uno sportello a libero accesso sarebbe pertanto problematica e poco funzionale. Non di meno è necessario che l’educatore sociale in carcere abbia una possibilità di colloquio con tutti i detenuti e le detenute in lista dimittendi, poiché non è detto che le informazioni in possesso dell’Area pedagogica, soprattutto quelle raccolte “in emergenza”, cioè su richiesta, e non frutto dell’attività di osservazione, siano in grado di rappresentare appieno le preoccupazioni della persona detenuta sul suo futuro. Il Progetto dimittendi, sebbene si rivolga a tutta la popolazione detenuta in dimissione dal carcere, ha come obiettivo principale quello di dare una risposta ai soggetti maggiormente vulnerabili, soli, privi di risorse e a rischio di homelessness. Tenendo conto di ciò, è risultato decisivo favorire i colloqui a quella fascia di popolazione ricorrendo a una strategia d’incontro capillare e “a tappeto”, attraverso cui è stato possibile orientare un maggior numero di persone, fornendo loro indicazioni iniziali e ascoltandole, dando così spazio alla loro voce e alle loro richieste.

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Percorsi di progettazione educativa post detentiva La finalità di un progetto di reinserimento sociale post detentivo è quella di agevolare, per quanto possibile, il processo di ritorno alla comunità e alla vita sociale libera delle persone in uscita dal carcere, promuovendo la loro inclusione tramite lo sviluppo dell’interdipendenza relazionale con gli altri soggetti della comunità locale e l’accesso agli strumenti necessari per realizzare il proprio progetto di vita1, favorendo l’emancipazione, limitando le inabilitazioni sociali che potrebbero essere state sviluppate durante la detenzione (Stati Generali sull’esecuzione penale, 2016) e rimuovendo gli ostacoli materiali, sociali e culturali presenti in precedenza alla reclusione. In questo senso si può parlare di una progettazione educativa oltre la detenzione che non si limiti all’orizzonte dell’istituzione detentiva, né a quello dell’inserimento, ma determini nel territorio le condizioni affinché ogni persona, anche la più fragile e marginale, possa trovare una propria collocazione come cittadino e non ritorni nuovamente nelle condizioni originarie di svantaggio o in condizioni peggiori. 1

Il concetto di “progetto di vita”, mutuato dalla Pedagogia speciale con particolare riferimento alle persone con disabilità, esprime la agency di un soggetto, ovvero l’esercizio del potere decisionale derivato da un percorso di presa di coscienza individuale, attraverso l’esplicitazione di una condizione desiderata e di come questa può essere raggiunta, dando priorità ai diversi obiettivi necessari. La sua realizzazione non richiede un percorso individualistico, ma un processo marcatamente intersoggettivo, che nella libertà di scegliere fra una serie di vite possibili, accresce la scoperta di sé e della propria identità, oltre che delle priorità di vita (bisogni, aspirazioni, desideri, valori). Tale intersoggettività è individualizzabile sia come dato d’ingresso, sia come risultato, nella costruzione e nella realizzazione del progetto stesso. La definizione degli obiettivi e delle priorità del progetto di vita nasce, infatti, nel confronto con gli altri (ad esempio in un gruppo di pari o di auto mutuo aiuto), durante il quale è richiesta una elaborazione personale che possa motivarli anche all’esterno, rendendoli sempre più realistici e concreti, e successivamente la loro formulazione e ricerca di attuazione può sollecitare la comunità nel modificarsi in senso più inclusivo (ad esempio nelle proprie norme o nell’uso delle risorse a disposizione). Il progetto di vita è pertanto uno strumento per aumentare l’autodeterminazione, mentre il livello di agency (cioè di potere decisionale) e le capability (le possibilità di poter accedere e utilizzare le risorse per mantenere e/o migliorare la propria qualità di vita) a disposizione del soggetto sono gli strumenti per poterlo realizzare. In forza di ciò, il progetto di vita richiede una progettazione educativa che apra l’orizzonte delle possibilità, promuovendo un processo di sviluppo e di emancipazione della persona dagli inizi del percorso scolastico, all’integrazione sociale e lavorativa nella vita adulta.

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Il Progetto dimittendi presentato nel capitolo precedente prova ad assumere questa prospettiva nella propria progettazione. Riprendendo le categorie operative di ETHOS, questo servizio tenta di dare risposta primariamente a coloro che si ritrovano nelle condizioni descritte all’interno della categoria operativa 6 “Persone in attesa di essere dimesse da istituzioni”, con particolare riferimento al punto 6.1 “Istituzioni penali (carceri)”, ovvero a quei soggetti che sono a rischio di aggravamento delle proprie condizioni, un possibile “scivolamento” verso condizioni di maggiore povertà e fragilità abitativa, al cui estremo si trovano la strada e le sistemazioni di fortuna. Il Progetto dimittendi interviene là dove non sono disponibili soluzioni abitative prima del rilascio, andando a costruirle assieme al soggetto in via di scarcerazione tra diverse possibili traiettorie che comprendono il contesto cittadino o altre mete, contribuendo così a diminuire il rischio di nuovi di reati e il fenomeno del revolving door, ovvero il continuo uscire e ritornare alla vita in strada. Per strutturare un percorso di questo tipo è tuttavia necessario incominciare dalla conoscenza della persona e dall’ascolto di ciò che questa ha da dire. Infatti, sebbene il “trattamento rieducativo” intramurario indicato nell’Ordinamento penitenziario abbia tra i suoi obiettivi principali e come fine ultimo il reinserimento sociale del detenuto, nelle pratiche ordinarie dei percorsi detentivi non si trova riscontro di ciò, in quanto le pratiche educative in ambito penitenziario sono maggiormente orientate ad assolvere obblighi di natura giuridica, come l’osservazione penitenziaria, quest’ultima indispensabile per produrre gli atti giuridico-amministrativi richiesti dai tribunali di sorveglianza. Non vanno inoltre confuse le due finalità finora esposte: da una parte l’inserimento sociale (art. 1, O.P.) sancito nell’Ordinamento penitenziario, un diritto entro il cui orizzonte agisce anche il mandato costituzionale della effettiva promozione dell’uguaglianza di tutti i cittadini (art. 3, Cost.); dall’altra la prospettiva inclusiva, che orienta l’intervento educativo alla partecipazione della comunità nella diversità, secondo un punto di vista radicalmente etico ed equo, intervenendo prima di tutto sui contesti, i luoghi e le relazioni di esclusione, per interessarsi anche ai processi attivi al loro interno. In quest’ottica, sebbene sia presente un reato, simbolo della rottura di un patto, del danneggiamento dei legami sociali e della produzione di sofferenza in tutti i soggetti coinvolti, compresa la comunità, la prospettiva inclusiva pone al centro della discussione la possibilità che per tutti possa realizzarsi un cambiamento, che per tutti sia possibile accedere ai diritti e, ancora, che le risposte specifiche possano essere trasformate in un patrimonio comune a tutti, concetti consolidati nel paradigma inclusivo nell’ambito della disabilità, a partire dalle prime riflessioni di Stainback e Stainback (1990). La prospettiva inclusiva qui presentata, al contempo ipotesi e proposta da verificare, allontanandosi

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progressivamente dal concetto di giustizia retributiva e avvicinandosi di pari passo ad altre forme di giustizia, come quella promossa dalla giustizia riparativa, ricerca e promuove una possibile giustizia sociale, ripartendo dai diritti da garantiti a tutti, tenendo conto delle diverse situazioni di ognuno, senza concentrarsi sulla ricerca di un “buon” risultato (si può fare riferimento al diffuso riferimento alla riduzione del rischio di recidiva), ma impegnandosi principalmente nella cura dei contesti e dei processi (Friso, 2017). Una progettazione così intesa, mantenendo uniti diversi piani d’azione, potrebbe garantire un intervento più ampio:

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quello della risposta ai bisogni primari, a partire da quelli abitativi, senza i quali non si può costruire alcun tipo di progettazione strutturata; quello della gestione del momento attuale, affrontando tutte le difficoltà derivanti dal passaggio da una vita eterodiretta, quantomeno nei tempi scandita da altri, a una vita autonoma, basata sulla propria organizzazione personale; quello del ben-essere personale, delle relazioni interpersonali (ostacolate, rallentate, assopite, interrotte, perdute o mancate), delle abilità e delle competenze perdute e acquisite durante la detenzione, sebbene disfunzionali; quello del contesto, nella sua capacità di generare occasioni di integrazione, di cambiamento e di possibili futuri.

Il tentativo di un progetto di reinserimento sociale oltre il carcere sarebbe, pertanto, quello di dare supporto e strumenti per il cambiamento alle persone private della libertà in vista della scarcerazione, contribuendo a sviluppare e potenziare loro l’autonomia, l’interdipendenza relazionale e quella comunitaria, attraverso interventi inclusivi che accrescano il potere decisionale e il margine d’azione del singolo nella comunità, promuovendo la loro piena partecipazione alla vita sociale. Al di là del reato, senza rinnegarlo, sottovalutarlo o rimuoverlo, la prospettiva inclusiva vuole affrontare una situazione di ingiustizia più ampia, riconoscendo anche al soggetto vulnerabile o marginale privato della libertà i diritti che fino a quel momento gli sono stati disconosciti, per genere una maggiore e più diffusa cultura democratica. Gli strumenti pedagogici a disposizione sono quelli della relazione (in particolare la relazione d’aiuto) e della comunicazione interpersonale, attraverso una costante apertura alla interpretabilità degli eventi e delle esperienze emotive, nonché alla negoziazione intersoggettiva di queste interpretazioni (Bertolini & Caronia, 1993, pp. 157-158; Decembrotto, 2015; Iori, 2009a). Contrariamente a questa prospettiva, ma anche alla stessa funzione rieducativa della pena, il ruolo della funzione repressiva è rimasto preminente

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all’interno del carcere: non di rado gli specialisti e gli osservatori esterni constatano come la detenzione risulti essere fine a se stessa, una separazione priva di quella tensione precedentemente richiamata, tanto da rendere l’obiettivo del reinserimento sociale irrealizzabile e la scarcerazione un mero termine delle misure di privazione della libertà. Le cause di una simile situazione non possono essere individuate esclusivamente nella scarsità delle risorse messe a disposizione degli istituti e nell’insufficienza del personale educativo impiegato, ma riguardano più ampiamente diversi aspetti culturali legati all’istituzione detentiva, come traspare dalla formazione specifica dei suoi operatori, in gran parte fondata su modelli giuridico-amministrativi funzionali all’adempimento di pratiche burocratiche e a un approccio educativo distante dall’attuale epistemologia pedagogica, reso ancor più evidente se si prendono in considerazione le scarse occasioni di dialogo con i più recenti approcci educativi (il Problematicismo pedagogico, la Pedagogia critica, la Pedagogia fenomenologica, l’Educazione freiriana problematizzante e dialogica, ecc.) e gli attuali nodi problematici sociali, culturali, educativi da questi evidenziati, preferendo il ricorso a modelli di educazione inattuali, spesso appressi con la prassi, in assenza di un solido supporto critico, una distanza ancor più visibile se si considera che la denominazione del profilo professionale dell’educatore penitenziario è stata formalmente modificata sul Contratto collettivo nazionale integrativo del personale non dirigenziale del Ministero della Giustizia del 2010 in funzionario della professionalità giuridico-pedagogica o, più informalmente, funzionario giuridico-pedagogico (Lentini, 2012; Benelli & Mancaniello, 2014; Mancaniello, 2017). Le misure alternative alla detenzione (L. 354/1975) hanno contribuito significativamente a contenere queste lacune, avendo come scopo primario quello di agevolare il percorso risocializzativo della persona privata della libertà attraverso un suo graduale reinserimento sociale; tuttavia il ricorso a tali pratiche è stato osteggiato sin da subito sul fronte politico a causa dell’interpretazione che le vorrebbe impiegate come strumento premiale, anziché come opportunità di diritto finalizzata ad aumentare il grado di successo dei percorsi di reinserimento2. Ancora oggi si succedono fasi di ampio ricorso a questo strumento, a fasi di significativo contenimento alimentate da un’ostilità culturale e politica. Tali misure di comunità (community sanction), che includono un insieme di sanzioni non segreganti o parzialmente privative della libertà3, sono messe in discussione sia nel modo in dovrebbero 2 È difficile ricostruire cosa accada nella vita di coloro che hanno terminato un periodo di detenzione, in quanto gli studi sulla recidiva sono carenti e poco aggiornati (Leonardi, 2007). 3 Costituiscono le misure alternative alla detenzione o di comunità: l’affidamento in prova ai servizi sociali, la detenzione domiciliare (tra cui quella speciale, per madri di bambini

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ottenere i risultati prefissati, cioè attraverso un ampio coinvolgimento della comunità che raramente viene messo in atto, sia nel messaggio educativo e politico che veicolano, nel promuovere una pena non retributiva (ovvero non orientata alla sofferenza) e inclusiva, anziché escludente e separatoria. Vi sono, inoltre, degli impedimenti all’accesso alle misure alternative che contribuiscono a depotenziare questo strumento, come quelli legati ai reati commessi (condizioni ostative) o quelli basati sulla situazione soggettiva della persona. In questo secondo caso l’accesso alle misure alternative è ostacolato dalla scarsità di risorse in possesso della persona o dall’impossibilità ad accedere alle risorse minime, come avviene per le persone senza dimora recluse, le quali non hanno un’abitazione sicura dove poter risiedere per scontare una eventuale misura alternativa. Esclusioni problematiche che secondo il dibattito sollevato durante gli Stati Generali sull’esecuzione penale (2016) possono essere causa di ulteriore desocializzazione. “Produrrebbe un effetto ulteriormente desocializzante per il condannato dover costatare che, a parità di meriti e di volontà di partecipazione di altri, gli è di fatto preclusa la via delle misure alternative per cause indipendenti dal suo impegno e dalla sua volontà di reinserimento sociale (si pensi agli homeless, agli stranieri, ai Rom, ecc.)” (p. 10).

Se il programma del “trattamento rieducativo” (parte del trattamento penitenziario) “deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto” (art. 13 O.P.), non necessariamente collegati al reato commesso, allora si registra una sostanziale inadempienza nel raggiungimento di questo obiettivo nei confronti dei soggetti maggiormente vulnerabili. Là dove i soggetti con più risorse personali, materiali (economiche, abitative, lavorative, ecc.) e immateriali (relazionali, cognitive, culturali, sociali, professionali, ecc.), possono aspirare a concludere l’esperienza detentiva senza peggiorare la propria condizione di partenza, ai soggetti fragili e svantaggiati ciò è generalmente precluso. Coloro che hanno accesso a maggiori risorse e possiedono capabilities più solide, hanno anche maggiori possibilità d’accesso alle opportunità presenti nell’istituto in cui sono reclusi, come nel caso delle offerte lavorative di imprenditori esterni o il raggiungimento dei più alti gradi d’istruzione. Coloro che, al contrario, vivono situazioni di vulnerabilità più marcate e condizioni di marginalità multiple paradossalmente faticano a ottenere il riconoscimento dei propri con età inferiore ai dieci anni), il regime di semilibertà e la liberazione anticipata, a cui si aggiungono la liberazione condizionale e l’espulsione, per i cittadini stranieri irregolari non appartenente all’Unione europea.

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bisogni e dei propri diritti (Stati Generali sull’esecuzione penale, 2016), ma anche l’accesso ai percorsi che potranno sostenerli al termine della reclusione. Il Progetto dimittendi assume questo obbligo e lo traduce in una proposta strutturata, che prende in considerazione la preparazione alla scarcerazione del detenuto e il suo accompagnamento nel territorio, con il sopporto di professionisti dedicati.

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4.1 Le coordinate della progettazione inclusiva Un progetto di reinserimento sociale di soggetti privati della libertà personale e in condizioni di vulnerabilità e svantaggio sociale, isolati dal resto della collettività per un periodo di tempo più o meno lungo, può svilupparsi in molteplici azioni a supporto delle diverse dimensioni della vita umana, privata e pubblica, affettiva, professionale, politica, di cittadinanza, ecc., richieste o necessarie per raggiungere gli obiettivi condivisi, intervenendo trasversalmente in diverse aree (casa, lavoro, sostentamento/reddito, istruzione e formazione, salute, socialità, cultura, sport, svago, per citare alcune esemplificate nella Tabella). Fulcro di questa progettazione è la promozione dell’essere umano attraverso l’accesso ai diritti, a partire dalle libertà e dai diritti fondamentali (diritto alla vita e all’integrità della persona, diritto alla dignità umana, diritto alla salute, diritto all’istruzione, diritto alla libertà personale, alla libertà di coscienza e alla libertà di manifestazione del pensiero), intessendo relazioni con la comunità locale nella quale questi diritti saranno vissuti e riconosciuti negli altri, al termine della pena. Non si tratta pertanto di programmare e sviluppare un percorso riabilitativo o correttivo, bensì di un percorso personalizzato di empowerment e di cittadinanza attiva, per la costruzione di un più ampio ben-essere collettivo. Tabella 1 – Schema delle possibili aree di intervento di un progetto di vita nel processo di reinserimento sociale post detentivo, con obiettivi ed esempi di interventi educativi Area

Obiettivi

Esempi di interventi socio-educativi

Casa

Ricerca di una soluzione abitativa ottimale

Monitoraggio della condizione abitativa Supporto alla gestione domestica e acquisizione delle competenze necessarie (es. pulizie, lavaggio, cucina, riordino della casa) Supporto alla gestione economica del bilancio familiare (es. pagamento utenze) Mediazione della convivenza e dei conflitti domestici Mediazione dei rapporti con il vicinato

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Area

Obiettivi

Esempi di interventi socio-educativi

Socialità

Inserimento in contesti significativi, incontri di gruppo (es. associazioni di volontariato, gruppi informali, gruppi di auto mutuo aiuto)

Rapporto dialogico, relazione d’aiuto, ascolto e restituzione feedback mantenuto nel tempo con frequenza regolare

Partecipazione a eventi o manifestazioni d’interesse, in cui tessere relazioni*

Supporto alla socializzazione e promozione alla partecipazione ad attività sociali (es. volontariato) o ricreative

Ricostruzione dei legami familiari, amicali e/o comunitari

Acquisizione o rinforzo di soft skill (autonomia, fiducia di sé, resistenza allo stress, comunicazione, pensiero critico e problem solving, pianificazione, leadership, attitudine al lavoro di gruppo, adattamento, spirito d’iniziativa, ecc.)

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Partecipazione a eventi pubblici della comunità locale e promozione alla partecipazione alle questioni di pubblico interesse Supporto nella realizzazione di eventi pubblici Partecipazione a eventi della comunità di riferimento Supporto emotivo e alla gestione dell’aggressività Supporto nella gestione delle relazioni negative Negoziazione delle regole nella relazione e in considerazione dei diversi contesti Istruzione e formazione

Acquisizione di conoscenze e competenze

Sostegno nell’accesso all’educazione scolastica o alla continuazione dei corsi/percorsi già intrapresi

Acquisizione di un titolo di studio o di una qualifica professionale

Acquisizione o rinforzo di competenze tecniche, informatiche, artistiche, organizzative, ecc. Sostegno nell’accesso alla formazione professionale iniziale o rinforzo alla formazione professionale continua Acquisizione o rinforzo di competenze professionali

Lavoro

Assunzione in un posto di lavoro remunerato

Informazione e orientamento professionale

Attivazione di forme contrattuali a supporto Orientamento nel mercato del lavoro territoriale dell’inserimento lavorativo (es. tirocini formativi) Sostegno nei contatti con enti di selezione del personale Raccordo con il tutor aziendale, verifica dell’andamento progettuale e affiancamento nella risoluzione degli eventi critici Promozione di esperienze di auto imprenditoria individuale o di gruppo, anche attraverso il reperimento di risorse pubbliche Reddito

Salute

Accesso a forme di reddito continuative da lavoro e/o d’integrazione del reddito familiare

Accompagnamento nella raccolta della documentazione necessaria per accedere a benefici di legge

Accesso a forme di sostegno al reddito non continuative

Supporto alla gestione dei contanti e dei risparmi

Raccordo fra articolazioni del SSN interne ed esterne dal carcere

Sostegno nella costruzione di una cartella sanitaria e al mantenimento/non interruzione delle cure

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Obiettivi

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Esempi di interventi socio-educativi Individuazione di un medico di medicina generale e supporto all’attivazione di altri servizi sanitari specializzati solo se concordato Promozione della cura dell’igiene personale Riduzione del danno Disponibilità ad affrontare dipendenze e ad accompagnamenti sanitari mirati Monitoraggio di aspetti legati alla disabilità o a malattie invalidanti (es. favorendo l’accessibilità del contesto abitativo) Promozione di un’alimentazione corretta

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Cultura, sport e svago

Partecipazione a eventi o manifestazioni d’interesse, in cui tessere relazioni*

Supporto alla costruzione e gestione del tempo libero

Ampliamento dei possibili interessi culturali, sportivi, ludici, spirituali, ecc. Promozione di attività significative per la persona

In questo percorso progettuale, finalizzato a rendere un’esperienza positiva il processo di ritorno alla vita sociale libera, si possono individuare due attori principali: la persona in uscita dal carcere e la comunità. A questi si aggiungono i professionisti socio-educativi e gli esperti di altri settori professionali, che lavorano con i due soggetti per facilitare i processi comunitari di inclusione e di partecipazione, in particolar modo quando questi coinvolgono attori svantaggiati, da dover sostenere e rinforzare sia rispetto al potere decisionale, sia rispetto all’espansione delle opportunità per poterle realizzare (Sen, 1994; Sen, 2000), sia per migliorare la qualità di vita e il soddisfacimento dei bisogni del singolo, sia per aumentare complessivamente il livello di empowerment e di ben-essere di comunità. L’alto grado di complessità presente in questo tipo di progettazione, può essere reso esplicito attraverso il ricorso a teorie ecologiche o sistemiche, che affrontino le interrelazioni dinamiche tra i fattori personali e ambientali e offrano chiavi di lettura sulla comunità e i cambiamenti sociali. Ad esempio, la teoria ecologica di Bronfenbrenner (1986) e il relativo modello ecologico articolano la composizione delle relazioni tra persone e contesti all’interno delle comunità attraverso una lettura sviluppata su più livelli chiamati sistemi: –

il microsistema, con cui si indica qualsiasi contesto di vita di gruppo (familiare, lavorativo, amicale, domestico, di vicinato, di auto-mutuo aiuto, ecc.), al cui interno i soggetti fanno esperienza di interazione diretta (ambiente immediato) essendone coinvolti attivamente, con un impatto diretto sulla propria vita, le attività, i ruoli e le relazioni;

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il mesosistema, che rappresenta la qualità delle interconnessioni tra i microsistemi, come possono essere le relazioni che intercorrono fra diversi servizi o i contatti fra questi e la famiglia e che influenpedzano la vita della persona a cui fanno riferimento; l’esosistema, con cui si individuano i diversi contesti sociali in cui la persona in uscita dal carcere non è partecipante attivo, non avendone esperienza diretta, ma che lo influenzano (ambiente indiretto), come potrebbero essere il caso dei servizi sociali e dei servizi sanitari che, nei loro incontri non specifici sulla persona, di riflesso hanno un impatto sulla sua vita, in forza di scelte non immediatamente riconducibili a lui; il macrosistema, costituito dai valori sociali e culturali, dalle leggi, dagli usi, dai pregiudizi e dalle diverse subculture che compongono la cultura con cui il soggetto in dimissione dal carcere interagirà, poiché regolando i contesti di vita, diventano anche orientamenti per la sua vita; il cronosistema, con cui si indica la dimensione del cambiamento individuale, storico e sociale nel tempo, il cui impatto può essere notevole e imprevedibile se si considerano i mutamenti che possono avvenire nella persona e nei contesti durante il tempo di una reclusione.

Questo modello permette all’educatore di tenere ampio l’orizzonte progettuale, non limitandosi a considerare come soglia programmatoria la persona e i suoi bisogni primari o quelli più immediati4 (magari imputando erroneamente alla volontà di questa una serie di condizioni e di processi vissuti dalla genesi ben più complessa), ma allargando quell’orizzonte per considerare tutti gli attori in gioco, loro relazioni che stabiliscono e le forze sinergiche che concorrono a promuovere, limitare o ostacolare l’iniziativa e l’atteggiamento proattivo della persona. In tal senso, il modello ecologico suggerisce di sviluppare una visione integrata non solo dei gruppi in cui la persona interagisce, ma anche delle interazioni di questi gruppi, fino ad arrivare a interrogarsi sui contesti, le loro influenze socio-culturali e i cambiamenti che tutti questi sistemi hanno nel tempo. A partire dal modello ecologico, ci si può interrogare sui successi e i fallimenti vissuti dalla persona, provando a descrivere per ogni area (casa, lavoro, sostentamento/reddito, istruzione e formazione, salute, socialità,

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Ad esempio Andrea Bobbo (2010) individua il bisogno di riconoscimento, il bisogno di individuazione, il bisogno di strutturare il tempo e il bisogno di significato.

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cultura, sport, svago, ecc.) quali siano stati i fattori che hanno influito sul risultato positivo o fallimentare, prendendo in considerazione i fattori micro e quelli macro, senza contrapposizioni, così come i fattori individuali e quelli strutturali, valorizzando le continue e reciproche influenze esistenti fra persona e contesto. Queste considerazioni tengono conto dell’età evolutiva della persona e dei suoi cambiamenti5, abbracciano l’analisi del contesto e dei cambiamenti macro-socio-economici, non limitandosi a considerare i bisogni primari come unico elemento dell’intervento, con il rischio di scivolare in una prestazione assistenziale o emergenziale. La prospettiva educativa, anche quando riferita a un progetto di reinserimento sociale post detentivo che può prevedere singoli interventi assistenziali in risposta a specifici bisogni primari, parte da questi per proiettarsi nel futuro e favorire il cambiamento e l’emancipazione, perché

5 Esempi presi dall’ambito della psicologia del ciclo di vita sono quelli concernenti lo sviluppo umano e dell’identità, come gli otto stadi dello sviluppo psicosociale di E.H. Erikson o la teoria dello sviluppo della storia della vita di McAdams. Entrambi gli autori forniscono un’interpretazione dello scorrere della vita come di una sequenza cumulativa di esperienze e di crisi, possibili chiavi interpretative delle condizioni di chi vive in una situazione di marginalità. Nella teoria sviluppata da Erikson, l’intero arco della vita della persona è stato suddiviso in otto differenti stadi d’età, durante i quali si presentano conflitti basati su crisi (o compiti) psicosociali, descritti nei termini di binomi tematici antitetici: queste sono le fasi dello sviluppo psicosociale, in cui l’identità personale si struttura come risultato della risoluzione sequenziale delle crisi. Pur presentandole sequenzialmente con lo scorrere dell’età, secondo un processo cumulativo, il modello di Erikson non esclude che tali crisi possano ripresentarsi in altri momenti della vita, per essere rimesse in discussione, anche se già affrontate; in tal mondo un qualsiasi fallimento potrà essere rielaborato nel continuum del ciclo di vita, continuando a generare nuove possibilità. Si riporta una versione sintetica del modello degli stadi: •฀ neonati da 0 a 1 anno: sviluppo del senso fondamentale di fiducia opposto alla sfiducia; •฀ prima infanzia da 1 a 3 anni: sviluppo dell’autonomia opposta alla vergogna e al dubbio; •฀ seconda infanzia da 3 a 6 anni: sviluppo dello spirito di iniziativa opposto al senso di colpa; •฀ terza infanzia da 6 a 12 anni: sviluppo dell’industriosità opposta al senso d’inferiorità; •฀ preadolescenza e adolescenza da 12 a 20 anni: sviluppo dell’identità e della contestazione opposta alla dispersione; •฀ prima età adulta da 20 a 35 anni: sviluppo dell’intimità e della solidarietà opposta all’isolamento; •฀ seconda età adulta da 35 a 65 anni: sviluppo della generatività opposta alla stagnazione e all’auto-assorbimento; •฀ età anziana da 65 in poi: sviluppo dell’integrità dell’Io opposto alla disperazione. Per McAdams la costruzione dell’identità può, invece, essere affronta nei termini di una storia di vita. Le nostre identità si costruiscono attraverso la narrazione, in un continuo dialogo tra esperienze e mondo interiore, e conoscere la storia narrata equivale al più profondo senso del conoscersi e del conoscere l’altro.

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“ha nel cambiamento la sua tensione motrice: in qualsiasi sua accezione, sia essa di formazione, istruzione, cura, crescita, l’educazione tende al cambiamento. Ma il cambiamento altro non è che individuazione e attuazione di alternative, di altro rispetto al dato” (Biffi, 2006, p. 197).

La dimensione progettuale è finalizzata alla riduzione dello spontaneismo e della casualità, per riportare tutti gli attori a una programmazione sul futuro orientata al benessere di ognuno, evitando così la frammentazione degli interventi (anche di servizi diversi) e pianificando l’agire in modo intenzionale e guidato dalle priorità di volta in volta stabilite. Di contro, un’azione lasciata all’immediatezza del momento e alla risposta all’imprevisto, equivale a rinunciare alla progettualità per occuparsi dell’emergenza prioritaria, una strategia possibile in alcune situazioni, ma distante dal realizzare processi di reinserimento sociale efficaci. “Quando l’azione educativa si realizza in contesti di grave emergenza socioculturale, incontrando una densità di storie difficili, che esprimono le plurime e complesse conseguenze di questa difficoltà (svantaggio culturale, traumi infantili, deficit cognitivi, disadattamento, devianza), il rischio maggiore è rappresentato dalla possibilità concreta di essere travolti e di lavorare in assenza di una progettualità solo per tamponare e arginare in qualche modo l’emergenza” (Sabatano, 2015, p. 104).

Ciò non toglie che una buona progettazione possa essere fluida e ricorsiva. Lo scopo dell’intervento non è, infatti, quello di raggiungere un obiettivo fissato una volta per tutte, vincolandosi ad esso fino al suo assolvimento, ma di armonizzare le fasi di ideazione, realizzazione, revisione e verifica del progetto in riferimento agli obiettivi di volta in volta individuati, nei tempi pattuiti ed eventualmente rinegoziati, agevolando la partecipazione a ogni attività della persona ai margini e degli altri attori coinvolti. Lo sfondo in cui tutto questo si realizza contempla un passaggio evolutivo del paradigma da una progettazione più classica sulla persona, in cui qualcuno ha il potere di progettare la vita altrui, o più moderatamente per la persona (con servizi alla persona), a un più recente e inclusivo approccio con la persona, in cui più volontà si incontrano e, in base alle disponibilità materiali e immateriali, definiscono obiettivi per il cambiamento della condizione personale e collettiva. Il progettare, dal latino proiectare che significa “gettare oltre, fare avanzare”, è pertanto un processo orientato al futuro, complesso e in continuo perfezionamento, il cui grado di difficoltà è influenzato anche dal livello di emarginazione e compromissione a cui il soggetto marginale è stato sottoposto e dalla capacità di questi di poter individuare gli obiettivi nella ricerca del proprio benessere, per la costruzione del proprio progetto

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di vita. Abbandonata l’idea di un percorso sviluppato per conto dell’altro, la co-progettazione qui proposta si basa sull’orientare la persona verso scelte consapevoli, favorendone l’assunzione di un ruolo sempre più attivo, potenziando il ruolo di agency, come potere decisionale, e la consapevolezza di essere colui che ha il potere decisionale (decision-making) sul proprio progetto di vita. Passando a un esempio concreto e prendendo in considerazione il macro obiettivo occupazionale, una progettazione in questa area si tradurrà in interventi che superino l’offerta di un’opportunità occupazionale, riconducibili a un paradigma basto su interventi di problem solving esterni, per costruire una ricerca del lavoro in cui la persona è soggetto attivo, in grado di compiere scelte lavorative e formative in base alle proprie inclinazioni. “[Ciò] implica prendere coscienza di sé, delle proprie competenze, dei propri interessi, attitudini, motivazioni magari attraverso la partecipazione ad un percorso di orientamento così come proposto dagli esperti” (Di Rico, Maiorano, De Amicis, & Lolli, 2016, p. 170).

Tra i processi capacitativi per accrescere il grado di potere decisionale del soggetto, in grado di aumentare l’accesso alle risorse e il loro uso per mantenere e migliorare la propria qualità di vita (Sen, 2000), è necessario prendere in considerazione la dilatazione del campo d’esperienza (Bertolini & Caronia, 1993) costruita a partire da nuove opportunità relazionali. Ogni relazione educa il soggetto, anche quello privato della libertà, a porsi relazionalmente con sé, con gli altri e con il mondo circostante in diverse modalità, e spesso chi vive in situazione di marginalità si trova a esprimersi attraverso esternazioni polarizzate come “da me faccio dipendere la vita (degli altri)” o “io dipendo dagli altri” (Bobbio, 2012, p. 149). Si tratta di una costruzione del proprio stare nel mondo basato sull’interazione con diverse agenzie educative informali, spesso non identificate, non considerate educative e prive di intenzionalità, sebbene contribuiscano significativamente a formare (anche se in modo inconsapevole) attitudini, valori, conoscenze delle persone a partire dall’esperienza quotidiana. La mediazione fra bisogni, aspirazioni e risposte possibili del contesto implicherà diversi atteggiamenti che verranno assunti dal soggetto (Bobbio, 2010; Bobbio, 2012) a partire da quelle esperienze: l’atteggiamento dativo (il soggetto riceve ciò che gli viene offerto), quello propositivo (il soggetto sceglie in base a quanto gli viene proposto, in una interazione responsiva), quello progettuale (assieme si sceglie, concorda e realizza il progetto) e quello prospettico (si sceglie di essere, nella comprensione dell’altro e del reciproco apprezzamento). Si tratta di diverse posizioni esistenziali che chiamano in causa tutti i soggetti della relazione, non solo la persona che vive un tale posizionamento, e inevitabilmente deve

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rientrare al cuore della riflessione educativa: “il passaggio da una posizione esistenziale all’altra, come mostrano le ricerche di Piaget, Kohlberg, Erikson, presuppone la convergenza di un insieme di fattori: maturativi, educativi, di socializzazione, culturali e valoriali” (Bobbio, 2012, p. 151). In questo senso dilatare il campo dell’esperienza significa sperimentare nuove modalità di stare nella relazione interpersonale, nella relazione di gruppo e nella comunità, aumentando la qualità di quelle relazioni e, al contempo, a partire da quelle esperienze, ampliare le possibilità progettuali nel futuro.

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4.2 Una progettazione orientata alla comunità Nel corso dei primi capitoli è stata descritta la condizione di marginalità, risultato di fenomeni di emarginazione, anche chiamati processi di marginalizzazione. Chi vive in condizioni di marginalità viene a trovarsi lontano dal centro di un sistema (il centro economico, lavorativo, politico, culturale, ecc.), venendo relegato ai confini della società. Si parla più specificatamente di marginalità sociale in riferimento alla condizione di chi, vivendo nelle grandi aree urbane, subisce gli effetti dei processi di marginalizzazione strettamente connessi alle modalità di sviluppo economico di quei contesti. In questo secondo caso la condizione di marginalità è data dall’allontanamento dal mercato del lavoro e dal conseguente impoverimento culturale e sociale, una tipica forma di esclusione delle società contemporanee. Secondo la lettura proposta da Zygmunt Bauman (2005), la storia odierna è caratterizzata dalla produzione di “vite di scarto”, un effetto collaterale ineludibile dell’attuale ordine sociale basato sull’incessante ricerca del progresso economico e orientato alla costruzione di una società del benessere (inteso come ordine sociale per migliorare le condizioni esistenti). Tutti i soggetti in esubero, coloro che sono ritenuti inutili e, conseguentemente, al di fuori dei circuiti produttivi, i “rifiuti umani” in quanto materiale di scarto da smaltire, vengono messi da parte, eliminati dai centri di potere e progressivamente privati dei mezzi necessari alla sopravvivenza, poiché hanno un “difetto”: essi non si sono adattati, né saranno adatti in futuro, al progetto della modernità e alla sua proposta di miglioramento delle condizioni di vita esistenti, ovvero alla costruzione di un nuovo ordine e alle sue regole. Un fenomeno di dominazione, sopruso e disumanizzazione dei più deboli, che Bauman chiama i moderni “rifiuti umani”, mentre Paulo Freire (2002) indica come oppressi. I processi di emarginazione sociale, basati sulla stigmatizzazione e l’allontanamento, operano secondo un moto spiroidale discendente che incrementa progressivamente il grado di povertà e le diverse deprivazioni vissute dal

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soggetto marginalizzato, producendo effetti immediati ed effetti intergenerazionali (secondo il principio della trasmissione intergenerazionale della povertà). Le persone più vulnerabili e con minor resilienza6, la cui disponibilità di risorse materiali, cognitive, relazionali, ecc. per affrontare e risolvere positivamente eventi critici complessi (come la perdita del lavoro o della casa, una grave malattia, la disgregazione dei legami familiari e amicali, l’aver compiuto un reato, ecc.) o periodi di prolungata difficoltà è significativamente limitata, sono maggiormente esposte ai processi di emarginazione, di compromissione della sfera economica, delle reti sociali, delle capabilities e di altri importanti fattori7. Questa esposizione influirà sulle loro condizioni di vita, le quali peggioreranno, diventando via via sempre più estreme, fino alle più gravi forme di esclusione sociale. Per affrontare una tale forza magnetica esercitata dai processi di emarginazione, processi dinamici di impoverimento e di erosione dei diritti fondamentali, è necessario sviluppare una particolare attenzione alle interazioni sociali e alla cultura come processo, per adottare strumenti progettuali in grado di intervenire in maniera integrata sugli individui, sulle relazioni e sui contesti. Limitarsi alla costruzione di una progettazione individualizzata e personalizzata8, concentrata esclusivamente sulla persona senza tener conto del micro e macro contesto sociale, rischia di attribuire responsabilità esagerate al singolo, addossando a questi e alle sue azioni (e talvolta inazioni) tutte le ragioni della propria condizione, evitando così di affrontare le altre cause presenti nel fenomeno, vale a dire quelle riconducibili al contesto. Riconosce che sono in corso processi di impoverimento (economico, culturale, relazionale, materiale, ecc.) significa esaminare, analizzare, far fronte e combattere tutte le cause sociali che producono e consolidano quelle condizioni di emarginazione che si vorrebbe superare e conseguentemente 6

La capacità di affrontare e superare positivamente un evento critico o un periodo di difficoltà. 7 Ad esempio la progressiva perdita di assunzione di ruoli sociali alternativi (anch’essa una capability), che si manifesta nella difficoltà a “coordinare motivazioni e credenze eterogenee legate alle molteplicità dei ruoli” (Sciolla, 1994, p. 23), aggravata in presenza di processi di stigmatizzazione, che “diffondono auto ed etero rappresentazione semplicistiche della realtà” (Acocella, 2009, p. 92). Altri esempi sono la non reattività e il rischio di cronicizzazione, che aumentano il livello di fatalismo e il livello di dipendenza dai servizi (Acocella, 2009). 8 Si ha una progettazione con approccio individualizzato qualora garantisca il diritto all’uguaglianza, promuovendo il raggiungimento dei medesimi obiettivi, raggiunti attraverso l’impiego di strategie differenti, mentre si ha una progettazione con approccio personalizzato qualora si garantisca il diritto alla diversità, con obiettivi determinati in funzione delle potenzialità e l’interesse di ognuno, raggiunti attraverso strategie e stimoli differenti, i più consoni alle condizioni della persona. È possibile integrare i due approcci, in forme di progettazione d’intervento volto sia a ribadire l’uguaglianza delle persone in un gruppo, sia a valorizzarne le specificità.

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mettere in atto quei cambiamenti necessari a limitare o superare gli effetti di tali processi. Pertanto affrontare la dimensione personale della condizione di esclusione, sebbene sia necessario, non basta, poiché i fenomeni di esclusione sociale riguardano persone che non partecipano più ai fondamentali processi produttivi, decisionali e solidaristici della società. Durante gli Stati Generali sull’Esecuzione Penale (2016) è stato sottolineato come “l’esperienza della detenzione può trasformarsi in una sorta di “moltiplicatore” delle vulnerabilità dei soggetti svantaggiati” (p. 34) privati della libertà, i quali, al momento dell’uscita dal carcere, oltre a subire un marcato stigma sociale comune a tutti coloro che hanno conosciuto e vissuto direttamente il carcere, possono manifestare forme di disagio ulteriori e “paradossali”. Ne sono esempi il trovarsi frastornati all’interno dei contesti di vita urbana, anche in quelli ben conosciuti prima della detenzione, o il ricercare, più o meno esplicitamente, un luogo in cui ottenere facilmente le risposte ai propri bisogni primari (la stabilità, l’alimentazione, le cure sanitarie, ecc.) e relazionali, arrivando a rivalutare la reclusione come “rifugio” preferibile alla condizione di libertà. Mentre la socializzazione mirerebbe a far tornare la persona reclusa nella società con strumenti maggiori rispetto al momento dell’incarcerazione, “l’istituzione del carcere crea un ambiente artificiale, che non favorisce il raggiungimento di tale obiettivo”, scrive Daniela Testa (2010, p. 35). “Le persone, ad esempio, che escono di prigione dopo un lungo periodo detentivo, non sono completamente capaci di muoversi nel traffico: inciampano, cadono dai marciapiedi. Il carcere può portare ad una condizione disabilitante” (p. 35).

Nel corso delle interviste raccolte a conclusione della ricerca presentata nel capitolo precedente, sono emerse alcune considerazioni analoghe: La fragilità si evidenzia al momento della dimissione dal carcere, poiché il fatto di essere stato recluso comporta una difficoltà a “muoversi” all’interno della città e a recuperare relazioni e opportunità. Alcuni detenuti mostrano particolare ansia quando si avvicina il momento dell’uscita, soprattutto chi ha scontato pene lunghe e che ha perso qualsiasi contatto con l’esterno o che non ha alcuna certezza rispetto quello che lo aspetta.

Durante la detenzione sono in opera processi di disculturazione (Goffman, 2010) contrari alla partecipazione attiva, alla manifestazione del potere decisionale o all’atteggiamento proattivo, alla responsabilizzazione personale,

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alla mediazione delle posizioni per l’individuazione di una posizione di gruppo condivisa, e processi di desocializzazione (risocializzazione rispetto agli usi e alle norme interne) basati sull’esibizione di eccessiva ossequiosità, sull’uso strumentale del vittimismo o sul ricorso al potere come forza per opprimere l’altro. Parte della sfida educativa e sociale è, pertanto, quella di riconoscere gli effetti di questi processi, per poterli affrontare e cambiarne gli esiti, mostrando alternative possibili, là dove queste non esistono a priori. Luogo privilegiato in cui poter costruire tutto ciò e assieme elaborare l’identità, la reciprocità, la fiducia e la solidarietà, è la comunità sociale o, più opportunamente, la comunità locale e questa nei suoi numerosi sottoinsiemi: i gruppi9. Se la comunità, luogo privilegiato della progettazione educativa per l’emancipazione personale e l’inclusione sociale, è un insieme di persone unite tra loro da numerosi vincoli tra cui i rapporti sociali, allora il punto di partenza di questo percorso è la problematizzazione del modello di persona e dei presupposti antropologici su cui si basa quella comunità. Sebbene il paradigma dell’umano egoista e razionale concepito della teoria economica classica, protagonista indiscusso della scena culturale europea neoliberista dagli anni Ottanta a oggi, sia stato messo in discussione in più occasioni, ancora oggi esercita un discreto influsso nell’immaginario collettivo, economico e politico. L’homo oeconomicus (espressione coniata da John Stuart Mill) è un individuo astratto guidato unicamente dalla ricerca del massimo interesse personale (talvolta nei termini di utilità individuale, talvolta di felicità individuale), rintracciato attraverso uno schema logico-razionale incentrato sul possesso dell’informazione completa. Secondo questo modello neoliberista la relazione umana originaria, manifestata all’interno della comunità, sarebbe la competizione: l’uomo si realizzerebbe massimizzando la funzione d’utilità individuale, vale a dire ottimizzando la propria ricchezza ed estendendo il proprio potere. Le sue scelte (quantomeno quelle che guidano la sua vita) non sono condizionate dal contesto in cui egli si trova. La comunità a cui si fa qui riferimento non è, tuttavia, quella in cui vige la “mutua indifferenza” rispetto all’altro, ma – al contrario – quella in cui si ricerca la muta interdipendenza relazionale attraverso cui realizzare una solida emancipazione. Il principio antropologico cardine dell’essere umano passa così dalla massimizzazione dell’utilità individuale alla relazione interpersonale, secondo una prospettiva che dall’individualismo passa all’intersoggettività (Buber, 2004). 9 Ci si riferisce ai gruppi secondo la descrizione prodotta da Kurt Lewin (1972), “il gruppo è qualcosa di più, o per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con altri gruppi. Quel che ne costituisce l’essenza non è la somiglianza o la dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre” (p. 125).

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Risultato di queste riflessioni è la proposta di un intervento socio-educativo che non consideri più la comunità alla stregua di una miniera da cui estrarre risorse, ma come un corpo vivo e dinamico, da conoscere nei suoi principali processi sociali e in cui concertare azione e potere, al fine di sviluppare nei cittadini, inclusi quelli ai margini, consapevolezza di sé, controllo sulle proprie decisioni e azioni, nonché accrescimento di potere, cioè l’empowerment di comunità (al contempo l’obiettivo e il processo per raggiungerlo). Considerare la comunità “come fonte di soluzioni collettive definite dall’interno” (Branca, Colombo, 2003). La proposta è, pertanto, quella di strutturare una progettazione multidimensionale che contempli al suo interno anche lo sviluppo di comunità. Le aree di coprogettazione e di intervento socio-educativo indicate nel capitolo precedente (esemplificate nella Tabella 1), che costituiscono una possibile risposta multidimensionale alla complessità della condizione di emarginazione, sono finalizzate sia allo sviluppo e al potenziamento delle capacità della persona vulnerabile al termine del proprio percorso detentivo, sia all’incremento del potere negoziale di questi in quanto cittadino. Si tratta di ampliare gli spazi d’esercizio dei propri diritti (diritto all’abitare, diritto al lavoro, diritto alla salute, ecc.), fulcro di una società di cittadini liberi ed eguali e, al contempo, di creare spazi comuni d’apprendimento, di cambiamento e di apertura a nuove possibilità e di nuove modalità d’essere e stare con gli altri. La realizzazione di ciò richiede un ambito sociale, collettivo e comunitario, in cui realizzare interventi inclusivi in risposta ai bisogni del singolo e, al contempo, di tutta la comunità, ad esempio in risposta alle sue legittime paure. In riferimento al caso oggetto di studio di questo volume, si tratta di sviluppare un progetto allo scopo di prevenire il ritorno (o l’approdo) alla vita di strada e gli effetti di altre forme di marginalità correlate alla storia personale del recluso in dimissione, contenere la reiterazione di reati, dare risposta ai bisogni più urgenti (non solo quelli primari), ma – al contempo – di sviluppare un progetto orientato a promuovere l’inclusione offrendo occasioni di sviluppo formativo e culturale trasversale, attraverso l’incontro nelle reti formali e informali, l’espansione, l’irrobustimento e il potenziamento del tessuto relazionale comunitario. Un modello di intervento multidimensionale e di comunità presenta delle sfide rispetto ai valori, alle norme sociali, alle immagini che riguardano i soggetti detenuti (e quelli emarginati) presenti in quelle stesse comunità. Non si tratta esclusivamente di erogare un servizio, ma di affrontare queste sfide promuovendo l’interazione positiva delle persone tra loro, nelle comunità d’appartenenza, incentivando la partecipazione comunitaria di chi in un qualche modo è stato allontanato da questa. Queste esperienze di comunità (è bene ribadirlo, di comunità

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locale) possono esprimersi anche in piccole situazioni quotidiane, come la partecipazione a eventi pubblici, l’interazione con i vicini di casa, con i negozianti o gli impiegati nei servizi di quartiere, ma anche nell’assunzione di un ruolo attivo e proattivo comunitario, ad esempio all’interno di associazioni o gruppi di auto-mutuo aiuto. È in quelle situazioni che può essere verificata la possibilità dell’esercizio del potere e i suoi cambiamenti nel tempo, sia rispetto al potere decisionale (deliberare un orientamento per le proprie scelte di vita e influenzare il contesto), sia al potere di agire, nonché l’elaborazione critica di tutte le forme di limitazione che ognuno sperimenta nella propria vita. È attraverso lo sviluppo di comunità che può maturare quel senso di responsabilità sociale in grado di rendere tutti “corresponsabili di fronte ai vari problemi che possono presentarsi nella comunità” (Branca, Colombo, 2003), inclusi i fenomeni di esclusione sociale, e disponibili a immaginare inedite possibilità per il loro superamento10.

4.3 L’approccio delle capability Il capability approach (approccio delle capacità) elaborato dall’economista Amartya Sen e successivamente ripreso e sviluppato dalla filosofa Martha Nussbaum, offre al discorso educativo sulla marginalità un’ulteriore riflessione sulle capacità di una persona e le opportunità offerte dai fattori ambientali, ponendo così al centro della riflessione teorica il tema dell’educabilità umana e il quello dello sviluppo e della crescita come autorealizzazione. “L’approccio delle capacità considera ogni persona come un fine, chiedendosi non tanto quale sia il benessere totale o medio, bensì quali siano le opportunità disponibili per ciascuno. È incentrato sulla scelta o libertà, ritenendo che il bene fondamentale delle società consista nella promozione per le rispettive popolazioni di un insieme di opportunità o libertà sostanziali che le persone possono poi mettere in pratica o meno: la scelta rimane comunque la loro. Quindi l’approccio punto al rispetto del potere di definizione di sé delle persone” (Nussbaum, 2012, pp. 26). Attraverso il capability approach si agevolerebbe il processo di acquisizione della libertà di scegliere11 fra una serie di vite alternative possibili che la persona potrebbe condurre, ciò che Sen chiama funzionamenti (modi di essere 10

A tal riguardo Branca e Colombo (2003) considerano l’empowerment come una fonte di pluralizzazione di possibilità, cioè un processo di ampliamento delle possibilità. 11 In riferimento al capability approach è importante sottolineare come la libertà sia intesa nella sua duplice veste di assenza d’impedimenti (libertà “da” o libertà negativa) e di autodeterminazione (libertà “di” o libertà positiva).

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e modi di agire già acquisiti12) di rilievo, da cui dipendono la qualità della vita e il benessere individuale. Sen (1994; 2000) sviluppa a partire dagli anni Settanta la nuova teoria basata sulle capacità, la quale riflette le combinazioni possibili dei diversi funzionamenti che la persona può acquisire (la realizzazione di uno stato potenziale). Al concetto di funzionamento (functioning), “le condizioni di vita che siamo in grado o meno di realizzare” (Bergamaschi, 1999, p. 32), si affianca quello di capacità (capabilities), l’abilità (e la possibilità) di acquisire funzionamenti (condizioni di vita), cioè la libertà di scegliere fra una serie di vite possibili. Il termine capability è pertanto utilizzato per indicare tutte le capacità/possibilità della persona di poter accedere e utilizzare le risorse per mantenere e/o migliorare la propria qualità di vita, nel modo che ritiene più consono. Nel caso in cui non fosse possibile orientare le proprie scelte verso condizioni diverse da quelle attuali, si verrebbe a creare uno svantaggio, come nel caso dei gruppi marginalizzati o in quelli che vivono una deprivazione materiale, scardinando così l’equivalenza tra povertà e basso reddito. “La deprivazione relativa nello spazio dei redditi può implicare una deprivazione assoluta nello spazio delle capacità. In un paese che è in generale ricco, può essere necessario un reddito maggiore per comprare merci sufficienti ad acquisire le stesse funzioni sociali, come «apparire in pubblico senza vergogna». Lo stesso può dirsi per la capacità di «prendere parte alla vita della comunità»” (Sen, 2000, p. 94). Capacità significa, in sostanza, opportunità di scelta: promuovere capacità significa aumentare le “libertà sostanziali” (Sen, 2000). Sen non determina una lista universale di capacità, né di funzionamenti rilevanti. Esiste una pluralità di fini e di obiettivi che le persone possono prefiggersi e questi sono dipendenti dal contesto, secondo un approccio pluralistico e relativista. Al contrario, Nussbaum (2012) elenca dieci capacità ritenute fondamentali (dieci capacità centrali) in quanto costitutive di una vita autenticamente umana, cioè capacità generali facilitanti la piena realizzazione umana. Una lista universale13 che determina la dignità della 12

Riferendosi ai funzionamenti si parla di una componente dinamica, modi di agire, che richiama l’azione dell’individuo e di una componente statica, modi di essere, che richiama l’idea di uno stato d’esistenza. 13 “Un buon ordinamento politico deve garantire a tutti i cittadini almeno la seguente soglia di dieci capacità centrali. 1. Vita. Avere la possibilità di vivere fino alla fine una vita di normale durata; di non morire prematuramente, o prima che la propria vita sia limitata in modo tale da risultare indegna di essere vissuta.

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vita, una “ragionevole base” aperta costruita sulla persona singola, poiché “le capacità appartengono agli individui e solo per derivazione ai gruppi” (p. 40), secondo l’idea che ogni persone è fine a se stessa. Le dieci capacità centrali sono, inoltre, legate alle libertà fondamentali e, in tal senso, sono anche il fondamento dell’approccio alla giustizia sociale della filosofa: “il

2. Salute fisica. Poter godere di buona salute, compresa una sana riproduzione; poter essere adeguatamente nutriti e avere un’abitazione adeguata. 3. Integrità fisica. Essere in grado di muoversi liberamente da un luogo all’altro; di essere protetti contro aggressioni, comprese la violenza sessuale e la violenza domestica; di avere la possibilità di godere del piacere sessuale e di scelta in campo riproduttivo. 4. Sensi, immaginazione e pensiero. Poter usare i propri sensi, poter immaginare, pensare e ragionare, avendo la possibilità di farlo in modo «veramente umano», ossia in un modo informato e coltivato da un’istruzione adeguata, comprendente alfabetizzazione, matematica elementare e formazione scientifica, ma nient’affatto limitata a questo. Essere in grado di usare l’immaginazione e il pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzione di opere autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura religiosa, letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente tutelati dalla garanzia di libertà di espressione rispetto sia al discorso politico che artistico, nonché della libertà di culto. Poter fare esperienze piacevoli ed evitare dolori inutili. 5. Sentimenti. Poter provare attaccamento per persone e cose oltre che per noi stessi; poter amare coloro che ci amano e che si curano di noi, poter soffrire per la loro assenza; in generale, amare, soffrire, provare desiderio, gratitudine e ira giustificata. Non vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie e paure (sostenere questa capacità significa sostenere forme di associazione umana che si possono rivelare cruciali per lo sviluppo). 6. Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita (ciò comporta la tutela della libertà di coscienza e di pratica religiosa). 7. Appartenenza. a) Poter vivere con gli altri e per altri, riconoscere e preoccuparsi per gli altri essere umani; impegnarsi in varie forme di interazione sociale; essere in grado di immaginare la condizione altrui (proteggere questa capacità significa proteggere istituzioni che fondano e alimentano tali forme di appartenenza e anche tutelare la libertà di parola e di associazione politica). b) Disporre delle basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattati come persone dignitose il cui valore eguaglia quello altrui. Questo implica la tutela contro la discriminazione in base a razza, sesso, tendenza sessuale, religione, casta, etnia, origine nazionale. 8. Altre specie. Essere in grado di vivere in relazione con gli animali, le piante e con il mondo della natura, avendone cura. 9. Gioco. Poter ridere, giocare e godere di attività ricreative. 10. Controllo del proprio ambiente. a) Politico. Poter partecipare in modo efficace alle scelte politiche che governano la propria vita; godere del diritto di partecipazione politica, delle garanzie di libertà di parola e associazione. b) Materiale. Essere in grado di avere proprietà (sia terra che beni mobili) e godere di diritto di proprietà in modo uguale agli altri; avere diritto di cercare lavoro alla pari degli altri; essere garantiti da perquisizioni o arresti non autorizzati. Sul lavoro, essere in grado di lavorare in modo degno di un essere umano, esercitando la ragion pratica e stabilendo un rapporto significativo di mutuo riconoscimento con gli altri lavoratori” (Nussbaum, 2012, 39-40).

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rispetto della dignità umana richiede che i cittadini raggiungano un alto livello di capacità, in tutte e dieci le sfere specificate” (p. 41). Il capability approach apre numerose sfide sul fronte educativo, a partire dalla finalità stessa dell’educazione, marcatamente connessa con la libertà umana (Ghedin, 2009).

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“Un’educazione è veramente adatta alla libertà solo se è tale da formare cittadini liberi, cittadini che sono liberi non grazie alla loro ricchezza o alla loro nascita, ma perché sono in grado di orientare autonomamente la propria razionalità” (Nussbaum, 2006, p. 327).

La riflessione educativa viene stimolata nell’espandere la propria area d’azione, tradizionalmente legata alla trasmissione e allo sviluppo di conoscenze e competenze in ambito lavorativo, per interessarsi alle abilità della vita14 (life skill) necessarie per lo sviluppo umano, quelle stesse compromesse nel processo di vulnerabilizzazione. Inoltre è chiamata a compiere il passaggio da una valutazione della qualità della vita basata sulle risorse materiali a disposizione della persona, a una in relazione alla possibilità di scelta e di capacità di trasformare le risorse in benessere, cioè alla capacità di acquisire funzionamenti di rilievo. La povertà ancor prima di essere una mancanza di risorse materiali, è riconosciuta come privazione di libertà. Interventi mirati esclusivamente a soddisfare i bisogni materiali lasceranno la persona priva di potere, senza possibilità di modificare il proprio stato, senza cioè poter dare corpo alla propria realizzazione umana. Nel continuum esistente tra la persona e la comunità si gioca la sfida nella ricerca del benessere, tra risposte ai bisogni individuali attraverso interventi personalizzati e risposte collettive attraverso lo sviluppo di comunità, unico soggetto che può realmente contrastare i processi di impoverimento e marginalizzazione, aumentando la capacità di fare e incrementando il potere di scegliere, dando così la possibilità ai soggetti in relazione di combinare potenzialità (con risorse condivise) per obiettivi personali e collettivi.

14 Rientrano all’interno delle life skill l’autonomia, la fiducia di sé, la consapevolezza emotiva, la gestione emotiva (autocontrollo e autoregolazione), l’empatia, le capacità comunicative (ascolto e comunicazione efficace), la gestione delle informazioni, il senso critico, la capacità di risolvere i problemi (problem solving), la capacità di pianificazione, la capacità di prendere decisioni, l’attitudine allo stare in gruppo, la resistenza allo stress, l’adattamento, spirito d’iniziativa, la creatività, la leadership, ecc.

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4.4 La dimensione relazionale e i vissuti emotivi negli interventi in contesti di marginalità La progettazione qui presentata si basa sulla composizione di un’articolata serie di interventi, strutturati in diverse aree, non necessariamente guidati da chi facilita la pianificazione della co-progettazione o ne segue gli sviluppi e le verifiche in itinere. Nondimeno esiste un quid specifico che caratterizza colui che esercita la funzione socio-educativa (come l’educatore socio-pedagogico) occupandosi del benessere della persona nel suo contesto di vita, inclusi i contesti di marginalità sociale, e lo distingue da altre figure professionali coinvolte nella realizzazione del progetto nel suo insieme: si tratta del ricorso alla relazione interpersonale intesa non come generica interazione sociale, ma in quanto atto educativo distinto per attribuzione di significato. Sebbene l’essere in relazione sia un’esperienza umana comune o, più precisamente, archetipica del genere umano, tanto che già Aristotele parlava dell’uomo nei termini di animale sociale (o animale politico), poiché necessita di associarsi agli altri esseri umani, in quanto è incapace di vivere solo, esplicitando al contempo la sua interdipendenza relazionale, quando ci si riferisce alla relazione educativa si allude a una relazione qualificata da determinate caratteristiche, che modellano quella comune esperienza archetipica in una esperienza specifica e ne fanno uno specifico strumento professionale. Secondo il filosofo e pedagogista dell’intersoggettività Martin Buber (2004), il rapporto educativo è un rapporto puramente dialogico, pertanto la cura della qualità relazionale nell’incontro con l’altro da sé è la chiave di volta su cui regge l’intero edificio educativo: all’educatore o al professionista degli interventi socio-educativi è richiesta un’evoluzione della propria capacità dialogica e relazionale, nel passaggio dai rapporti caratterizzati da unilateralità (il rapporto strumentale Io-Esso, in cui l’Io rimane individuo e si realizza nel monologo), ai rapporti caratterizzati da reciprocità (il rapporto dialogico Io-Tu, in cui l’Io diventa persona e incontra altre persone). L’esperienza educativa a cui si fa riferimento è, tuttavia, confinata all’interno di atti intenzionali e direzionati, che la caratterizzano globalmente come razionalmente fondata (Bertolini, 1988), voluta e studiata, “conseguenza di scelte, valori, strategie” (Iori, 2000, p. 113), anche qualora fosse necessario ricorrere all’improvvisazione: in tal senso si può parlare di un’educazione intenzionale esercitata dall’educatore in quanto tecnico dell’intenzionalità (Bertolini, 1988), un’esperienza educativa distinta da altre esperienze educative spontanee. Una delle modalità in cui si realizza la relazione educativa finora presentata, a supporto dei processi di cambiamento e di sviluppo, è la relazione d’aiuto.

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“Una relazione in cui almeno uno dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato nell’altro. L’altro, in questo senso, può essere un individuo o un gruppo. In altre parole, una relazione di “aiuto” potrebbe essere definita come una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto ed una maggiore possibilità di espressione” (Rogers, 1970, p. 68).

Questo metodo si è sviluppato a partire dai lavori di Carl Rogers (1970) sulla qualità relazionale, l’autoconsapevolezza, l’autoregolazione, la promozione e lo sviluppo delle potenzialità personali. Nel promuovere questo processo la relazione d’aiuto richiede una serie di condizioni: accettazione positiva incondizionata dell’altro, applicandosi nell’epochè (sospensione del giudizio) come capacità di non formulare giudizi, ascolto e comprensione empatica, assumendo temporaneamente come proprio il punto di vista dell’altro, creando così una costantemente prossimità, ma anche congruenza nel rimanere coerenti con se stessi, in contatto con il proprio vissuto emotivo e le proprie rappresentazioni cognitive. Affinché si realizzi ciò è necessario che questa relazione sia consapevole, controllata e intenzionale, anche qualora appaia attuata con spontaneità in un contesto atipico o di marginalità (Decembrotto, 2015). Quando si opera in una relazione d’aiuto, il professionista competente nell’aiuto esercita il proprio ruolo con un soggetto di cui promuove la crescita, lo sviluppo, la dignità e l’emancipazione, affrontando le questioni e le sfide via via emergenti nelle diverse tappe del ciclo di vita, stimolando la maturazione della stima di sé e la realizzazione (e la conoscenza) delle potenzialità presenti, secondo una pratica educativa liberatrice, mutuando l’espressione dall’intuizione di Paulo Freire (2002), poiché in grado di favorire la sua coscientizzazione, senza considerare l’altro come un contenitore da riempire con il proprio sapere, così come farebbe un’educazione depositaria e anti-dialogica, basata su rapporti “verticali”. Benché questa relazione sia originariamente asimmetrica, non solo per età, genere, conoscenze specifiche, esperienze e responsabilità, ma anche a causa di una sbilanciata distribuzione del potere attribuita ai diversi ruoli, tale asimmetria non rappresenta il fondamento su cui basa e realizza, a meno di non cedere a una relazione dominante (nell’esercizio del potere e dell’autorità, nel creare una dipendenza, ecc.). Al contrario, senza negare la presenza di dislivelli, ma facendo ricorso alla riflessione e alla problematizzazione freiriana, la relazione d’aiuto può evolversi secondo una prospettiva non dominante, in grado di promuove lo sviluppo dei processi di empowerment (possibilità di incrementare la capacità di autodeterminazione e autoorganizzazione della

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persona) e di resilienza, in contrasto ai processi di disumanizzazione attivi in tutti i contesti, in particolar modo quelli operanti all’interno dei contesti di esclusione sociale, nel produrre violazione dei diritti, ingiustizia sociale e mancato accesso alla conoscenza, per fare alcuni esempi.

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“Per l’educatore/educando, che è dialogico, che problematizza la realtà, il contenuto programmatico dell’educazione non è l’elargizione o un’imposizione (un insieme di nozioni da depositare nell’educando) ma la restituzione organizzata, sistematica e arricchita agli individui di ciò che essi più desiderano sapere” (Freire, 2002, p. 84).

Sebbene la relazione educativa sviluppata da Paulo Freire all’interno della Pedagogia degli oppressi non sia propriamente riconducibile alla relazione d’aiuto, è possibile attingere alla prima per ampliare il significato della seconda e indagarne le possibili applicazioni nei contesti di marginalità. Per Freire, l’aiuto consiste nel porre l’altro in grado di aiutare se stesso, fornendogli gli strumenti necessari per costruire una posizione critica rispetto alla propria condizione e ai propri problemi, stimolando la riflessione e l’azione sulla realtà – anche comune – e, così, attivando un processo di liberazione. Tuttavia la relazione d’aiuto può anche promuovere la coevoluzione dei soggetti in relazione, un concetto chiave introdotto da Andrea Canevaro (1999; 2015), che indica il superamento di una modalità statica e assistenzialista, per la valorizzazione reciproca, lo stare e agire nella realtà producendo un processo di cambiamento in sé e nel contesto, valorizzando e accrescendo le competenze di ciascuno. In tal senso, attraverso la coevoluzione di parti interagenti, l’aiuto contribuisce al riconoscimento e alla costruzione di un’identità al plurale, manifestantesi in più ruoli, indipendentemente dal grado di compromissione del soggetto che vive gli effetti dell’esclusione sociale. Identità al plurale secondo una composizione di elementi mai rigida, mai data una volta per tutte, sempre aperta a riceverne di nuovi o a mutare quelli già presenti. La direzione opposta al riconoscimento delle identità aperte (Canevaro, 1999) della relazione d’aiuto è quella del confinamento dell’altro all’interno di uno stereotipo, che costituirà la sua l’identità chiusa e predeterminata, avviando così quei processi di disumanizzazione tipici di una educazione depositaria. È evidente che un ricorso continuo all’ascolto delle emozioni, proprie, altrui o dei gruppi, ponga degli interrogativi sull’opportunità che l’esperto di interventi socio-educativi nei contesti di marginalità si trovi solo a gestire un “mondo” culturalmente associato all’interiorità e alla riservatezza, nonostante sia così strettamente connesso al proprio lavoro e alla propria professionalità. Diversi autori (Iori, 2009a; Sabatano, 2015) da tempo hanno

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evidenziato la necessità di esplicitare il ruolo delle emozioni e delle esperienze emotive vissute all’interno del lavoro socio-educativo, nonostante la difficoltà a decodificarle, anche a causa di una interpretazione che le reputa ininfluenti, quando non dannose, poiché non adatte all’ambito professionale.

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“I sentimenti, nei luoghi professionali, sono stati ridotti all’insignificanza o sono diventati oggetto di attenzione soltanto quando costituiscono un tale disturbo, nella prassi quotidiana, da compromettere l’efficienza degli operatori e il funzionamento delle organizzazioni” (Iori, 2009b, p. 30).

Non si tratta di stabilire una nuova gerarchia fra ragione ed emozioni, ma di prendere atto che l’essere umano conosce in ugual misura attraverso le emozioni e da queste è influenzato, analogamente a quanto accade nel campo sociale con gli stereotipi, rappresentazioni positive o negative della realtà che condizionano il giudizio rispetto ad alcuni gruppi sociali (Villano, 2003) e che continuano ad agire anche nel lavoro professionale socioeducativo. Si tratta di prendere coscienza rispetto alla coesistenza nell’essere umano della dimensione emotiva e di quella razionale, con le potenzialità e le contraddizioni che queste comportano. Come ha già chiarito Maurice Merleau-Ponty (2005), non vi è altro modo di conoscere e fare esperienza. “Tutto ciò che so del mondo, anche tramite la scienza, lo so a partire da una veduta mia o da una esperienza del mondo senza la quale i simboli della scienza non significherebbero nulla. Tutto l’universo della scienza è costruito sul mondo vissuto e se vogliamo pensare la scienza stessa con rigore, valutarne esattamente il senso e la portata, dobbiamo anzitutto risvegliare questa esperienza del mondo di cui essa è l’espressione seconda” (Merleau-Ponty, 2005, p. 16-17).

In questo senso, “la soggettività non compromette l’agire scientifico e la professionalità” (Iori, p. 28), tradizionalmente ricondotti all’oggettività della ragione, ma ne costituisce un’ulteriore dimensione, cioè quella emotiva. Le implicazioni derivanti da questo diverso approccio sono innumerevoli e applicabili a ogni contesto umano; qui, tuttavia, viene introdotto esclusivamente per interrogarsi sulle relazioni in ambito educativo e l’impossibilità di ignorare parte dell’esperienza. Nei diversi contesti, inclusi quelli riguardanti la marginalità sociale, la dimensione emotiva non può infatti essere negata senza il legittimo dubbio che si stia compiendo un atto di mistificazione, consapevole o meno, con il rischio che le emozioni si mascherino “sotto le mentite spoglie della neutralità e dell’oggettività” (Iori, 2009b, p. 31), tanto nei casi di un coinvolgimento eccessivo, quanto in quelli riguardanti la perdita del contatto con le proprie emozioni e di quelle altrui, offuscando nel

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quotidiano la capacità di discernere di chi ne è in balia. Diventa pertanto necessario prendere consapevolezza e interrogarsi sul significato delle esperienze emotive e delle emozioni vissute, equilibrando il rapporto tra la sfera personale e quella professionale e trovando strumenti adatti a esplorare e verbalizzare il più possibile il proprio vissuto, aumentando così la capacità di agire responsabilmente nella relazione. Tutto ciò assume la massima importanza nei contesti di marginalità, la cui complessità accresce il livello di difficoltà delle sfide socio-educative già presenti e, tra queste, la gestione della dimensione emotiva: la repulsione, la compassione, la rabbia, il fascino, la frustrazione, la commozione, la paura, l’innamoramento, la delusione e molte altre esperienze, come all’interno delle dinamiche della triangolazione, possono travolgere e destabilizzare chi lavora “con” e “nelle” relazioni. Quando il professionista non è più in grado di gestire questo bagaglio di vissuti entra in gioco il burnout, l’esito patologico di un processo che ha deteriorato le emozioni vissute in ambito lavorativo, alle quali viene associato esclusivamente un ruolo negativo sulla resa professionale. Eppure il mondo emotivo, se adeguatamente compreso e interrogato, può contribuire a migliorare la qualità delle relazioni, anziché costituirne un ostacolo, diventando così una risorsa anche nelle situazioni più complesse, ad esempio all’interno dell’ascolto empatico. Una difficoltà che deve essere posta al centro dei percorsi formativi è dunque quella di riconoscere i propri e gli altrui vissuti e trovare ogni volta, in ogni diversa situazione, quella “giusta distanza” o “giusta vicinanza” tra la fuga nell’impersonalità e l’accesso di coinvolgimento.” (Iori, 2009b, p. 30).

La consapevolezza del “limite” e dei limiti, propri e altrui, rientra all’interno del bagaglio di competenze da acquisire per poter realizzare un’autentica relazione educativa. Demolire il proprio senso di onnipotenza, a cui facilmente si ricorre nel lavoro in contesti di marginalità, oppure non cedere allo sconforto di fronte agli insuccessi, sono due possibili esempi di come affrontare il limite a seguito della presa di coscienza di questo. La “giusta vicinanza” (e la complementare “giusta distanza”) relativa ai soggetti, al contesto e a quel preciso momento, non conosciuta a priori, non data una volta per tutte e, pertanto, rinegoziabile, anche in funzione della continua scoperta della propria consapevolezza emotiva, rientra all’interno di queste strategie, non come una misura finalizzata a negare, rimuovere o neutralizzare la dimensione emotiva, ad esempio attraverso il ricorso improprio all’asimmetria relazionale o all’anaffettività, ma come uno strumento orientato a creare uno spazio maturo e responsabile per poter compiere scelte consapevoli anche nei contesti più ardui.

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In questa prospettiva diventa impellente identificare i luoghi in cui “il sentire diventa sapere” (Iori, p. 36), attraverso la formazione e la condivisione in ambiti protetti, nei quali le esperienze emotive da interiori e solitarie si trasformano attraverso il lavoro di gruppo in un patrimonio collettivo, ad esempio come quello della supervisione esperienziale. Condividere le esperienze emotive, attraverso momenti dedicati alla narrazione dei vissuti, significa compartecipare alla responsabilità dell’intervento e delle scelte, bilanciando la forza centripeta di alcune relazioni vissute in solitudine, ma anche svelare vissuti emotivi comuni, trovare forza nel gruppo di lavoro, interrogarsi nuovamente sui limiti, prendersi cura di sé e degli altri, aumentando il senso di sicurezza attraverso la fiducia reciproca.

4.5 Deprivazione abitativa e fine pena: riflessioni conclusive sulla proposta sviluppata con il Progetto dimittendi Non avendo beneficiato di un percorso di reinserimento sociale durante la detenzione, alla maggior parte dei soggetti reclusi non rimane altro che costruirsi in autonomia un percorso di uscita basandosi sulle proprie risorse relazionali, economiche, occupazionali e abitative, affrontando anche aspetti delicati e importanti come la continuità delle cure sanitarie o la prosecuzione dei percorsi formativi iniziati in carcere. Il Progetto dimittendi nasce a Bologna con l’intento di promuovere l’emancipazione, la capacitazione e l’empowerment di coloro che non hanno le risorse autonome per costruire una progettualità futura, cioè si rivolge a coloro che sono o potrebbero ritrovarsi in condizioni di emarginazione complessa a causa di carenze economiche, culturali, relazionali, affettive, sanitarie, ecc. riconducibili a se stesse e ai contesti di vita. Tale complessità, che denota un elevato livello di multiproblematicità personale e del contesto, con quest’ultimo incapace di soddisfare alcune o tutte le esigenze basilari della persona (alimentarsi, dormire, essere protetti, ecc.), assieme alla scelta di non limitarsi a offrire una protezione alloggiativa e cure sanitarie minime in risposta a quei bisogni primari, ma di esplorare in senso più ampio i bisogni e le aspirazioni della persona, apre a numerosi interrogativi pedagogici e sociali, ma anche riflessioni più operative. Di seguito sono riportate alcune di queste riflessioni aperte, per la costruzione di progetti inclusivi. –

Gli stereotipi. Anziché rimarcare o prendere nota esclusivamente della severa compromissione della persona, tutta da verificare e diversa da individuo a individuo nell’interazione con i diversi contesti, la scelta ermeneutica di un approccio inclusivo è quella

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di valorizzare le risorse già presenti nella persona, potenziando i suoi punti di forza spesso ignorati, come le conoscenze, le competenze, le resilienze, la capacità di adattarsi ai cambiamenti, le potenzialità, lasciando spazio a un’immagine alternativa e inedita che possa far emergere abilità sviluppate anche nell’esperienza di povertà e di (temporanea, episodica o cronica) deprivazione abitativa, nelle tante e diverse storie di vita che di per sé già descrivono bisogni complessi da prendere in considerazione. Si tratta di una scelta orientata a leggere i fenomeni di emarginazione complessa come dinamici, con aspetti positivi già presenti e altri potenziali da scoprire, anziché statici e stereotipati, orientandosi dal presente al futuro, anziché rimanere solo sul passato e su ciò che si è perso. La prospettiva inclusiva della progettazione. Indipendentemente dalla scelta delle persone, a partire da quella di fermarsi sul territorio o di allontanarsi da questo per recarsi altrove, il paradigma inclusivo si muove per interviene sui contesti, trasformandoli. Ciò sta a indicare la direzione di senso pedagogico e metodologico: se da una parte questa trasformazione riguarda l’accesso ai diritti, senza negare la diversità di ognuno, dall’altra richiama un preciso imperativo etico: agire sempre in modo da accrescere il numero delle possibilità di scelta (von Foerster, 1987). L’autodeterminazione. L’idea stessa di progettazione è in evoluzione: si è passati dal progettare “sulla” (al posto della) persona un futuro, al progettare con la persona un futuro. In questo tipo di coprogettazione si esprime l’autodeterminazione della persona non tanto perché questa svolga le azioni da sola, quanto perché lei è l’agente causale del processo decisionale (Friso, 2017). La responsabilità educativa e sociale si trasferisce così nel rendere possibile ciò, certamente fornendo gli strumenti progettuali, ma anche rimuovendo le barriere che impediscono alla persona di accedere alle risorse e alle opportunità presenti sul territorio, ma ancor di più quelle che ostacolano la partecipazione alla vita comunitaria. L’accesso ai diritti. Affrontare la questione dell’accesso ai diritti, a partire dall’accesso alla residenza anagrafica e al diritto all’abitare (o diritto alla casa), nel caso delle persone senza dimora. Il primo diritto di una persona senza dimora è certamente quello di uscire dalla condizione di marginalità, come affermato al primo punto della Carta dei diritti delle persone senza dimora (Homeless Bill of Rights). Il primo passo per la realizzazione concreta di tale superamento è rappresentato dalla libertà di potersi iscrivere nell’anagrafe di in un

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qualsiasi comune del territorio nazionale, quello di dimora abituale, un diritto e un dovere di ogni cittadino. In assenza di un’abitazione fisica in cui poter prendere la residenza, è possibile accedere a una via fittizia dall’equivalente valore legale. L’assenza di un’abitazione limita l’esercizio di questo diritto, procurando alla persona un mancato accesso ad altri diritti: il diritto all’uguaglianza e il diritto alla casa, il diritto al lavoro, il diritto alla difesa legale (non potendo accedere al gratuito patrocinio), il diritto alla salute (potendo accedere solo ad alcune misure sanitarie, come quelle emergenziali o salvavita), il diritto all’assistenza e alla previdenza sociale, il diritto al voto; anche l’accesso alla carta d’identità, obbligatoria per tantissimi servizi pubblici e privati, è vincolata alla presenza di una residenza anagrafica. L’accesso ai diritti è certamente la base su cui poter pianificare e realizzare un progetto di vita sostenibile. I limiti dell’intervento. L’accesso ai diritti non è una questione di “contorno” alle risposte più immediate. La sfida dell’inclusione incomincia quando alla persona è riconosciuta la medesima dignità di ogni altro cittadino, a partire dal libero accesso ai suoi diritti e al riconoscimento comunitario del suo status sociale, per sviluppare da quel suo status un’effettiva partecipazione alla vita comunitaria. Eppure esistono fattori che possono precludere questa strada, come la presenza irregolare per i cittadini stranieri, fattori che interpellano l’educatore rispetto a cosa sia necessario fare e proporre alla persona con cui si sta pianificando un progetto. Situazioni di mancato accesso ai diritti per lungo tempo possono comportare un senso di impotenza e frustrazione vissuti dalla persona soggetta a quelle limitazioni, talvolta espressi in rassegnazione, talvolta in rabbia per la propria condizione. La possibile riorganizzazione complessiva della progettualità verso altri obiettivi, che tengano conto delle reali possibilità del momento, come la valutazione di quali strategie adottare per una possibile regolarizzazione o la costruzione di un percorso di rimpatrio, qualora si opti per il ritorno al paese di origine, non può essere considerato come la massima espressione dell’intervento. L’azione inclusiva richiede, infatti, un intervento a partire dal contesto, per eliminare le barriere che generano l’esclusione. Inoltre, si impegna per rendere ordinarie quelle risposte specifiche, un patrimonio comune a tutti coloro che si trovano nelle medesime condizioni. Il tempo. Non vi sono chiare indicazioni rispetto alla durata temporale di un percorso di reinserimento sociale rivolto a detenuti in uscita dal carcere. L’Ordinamento penitenziario sancisce che sia

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predisposto “un particolare aiuto nel periodo di tempo che immediatamente precede la loro dimissione e per un congruo periodo a questa successivo” (art. 46 O.P.), non quantificando questo “un congruo periodo” di tempo. È possibile individuare un riferimento normativo indiretto all’interno della Legge Smuraglia (L. 193/2000), la quale, nel normare gli incentivi all’attività lavorativa dei detenuti, pone un periodo di sei mesi successivo alla scarcerazione come tetto massimo di applicazione degli sgravi fiscali alle aziende che assumono ex detenuti. Il Progetto dimettendi ha considerato questo tempo come congruo, sebbene sei mesi siano probabilmente una finestra temporale troppo limitata per affrontare anche solo le situazioni di minore svantaggio e marginalità, le quali comunque presentano ostacoli culturali come lo stigma rispetto alla recente esperienza detentiva; se si prendono in considerazione i percorsi in uscita dal carcere delle persone a rischio di deprivazione abitativa, allora questo periodo è certamente da considerare insufficiente. Il processo di accompagnamento. L’orientamento generale nella progettazione dei servizi rivolti alle persone senza dimora è di un supporto flessibile per tutto il tempo necessario, in base alle condizioni della persona nei diversi contesti, condizioni variabili e discontinue anche a causa dei mutamenti nelle politiche sociali. Ad esempio, il diritto all’abitare non ha ancora trovato una sua affermazione piena e anche là dove è possibile ricevere una risposta alla necessità abitativa, una qualsiasi fragilità che incida sugli aspetti economici può comportare la fuoriuscita da progetti faticosamente costruiti. Lo stesso può dirsi per il lavoro, tenendo conto che la ricerca della massima produttività aziendale difficilmente si armonizza con la presenza di soggetti svantaggiati all’interno delle imprese e, qualora esistano, spesso si tratta di persone le cui posizioni lavorative risultano essere precarie, particolarmente esposte agli effetti perturbativi delle crisi economiche. Parlare di un accompagnamento per tutto il tempo necessario non equivale a un accompagnamento permanente, né a un accompagnamento costante. La richiesta di flessibilità rivolta a tutti i servizi coinvolti nel progetto di vita del singolo è una proposta di modularità da non limitarsi alla dimensione temporale, ma da intendersi in senso più ampio, ad esempio rispetto al livello di intensità dell’affiancamento da fornire in quel tempo o rispetto alla necessità di rimodulare il progetto e approcciarsi ai diversi obiettivi secondo supporti differenti, in uno sfondo in cui la comunità gioca il ruolo principale per l’effettiva inclusione.

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Nel Progetto dimittendi l’educatore che accompagna il progressivo avanzamento del percorso di vita svolge un ruolo “ponte” fra realtà distanti, al fine di avvicinare coloro che sono stati privati della libertà al resto della comunità (cittadini, organizzazioni e istituzioni). Questo tipo di accompagnamento, per non ricadere nel più classico ambito assistenziale, abbraccia una prospettiva evolutiva, di trasformazione e di possibilità da aprire e rendere accessibili; non necessariamente percorse, ma potenzialmente avverabili. Spesso il limite dell’applicazione della prospettiva evolutiva è che questa si esaurisce esclusivamente nella ricerca di cambiamenti attribuibili alla persona: è lei che deve cambiare, deve adattarsi, deve trasformarsi, deve dar prova dei mutamenti in atto, deve convincere. Al contrario, all’interno di un approccio inclusivo, la prospettiva evolutiva è applicata in primo luogo ai contesti, in tutte le loro dimensioni materiali e relazionali, passando per i processi, da quelli di socializzazione, attraverso cui una persona si integra in un gruppo sociale o in una comunità, passando per tutti i processi di trasmissione e di interiorizzazione di valori, ruoli, norme, conoscenze, aspettative e credenze sociali che compongono la realtà condivisa e l’immaginario sociale. Le persone possono evolvere se un contesto glielo permette, se c’è qualcuno che ha immaginato una possibilità diversa, se è permesso loro assumere un ruolo diverso, se esistono spazi di cittadinanza attiva, responsabile e con margine decisionale. Si tratta di realizzare una visione coevolutiva, una progettazione educativa inclusiva oltre la detenzione. Persino nei contesti di maggiore marginalità sociale, sempre più prossimi all’esclusione, l’approccio inclusivo opera per un impatto complessivo sulle sfere educative, sociali e politiche, intervenendo prima sui contesti e poi sugli individui. Il suo costante riferimento alla democratizzazione della società, alla partecipazione e all’empowerment rappresenta una strada maestra anche per i percorsi più complessi, come quello che vede la persona in uscita dal carcere costruire un proprio progetto di vita all’interno di una comunità, percorsi che dovrebbero portarla oltre la passata esperienza detentiva e non solo temporalmente “dopo” un’esperienza di privazione della libertà, in condizioni altrettanto caratterizzate da emarginazione, allontanamento o esclusione. Anticipando qualcosa che ancora non è, la costruzione di un progetto di uscita dal carcere inclusivo può oggi rappresentare una delle possibili frontiere in cui sviluppare questa utopia comunitaria.

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Biòtopi Progetto Editoriale di Educazione Inclusiva

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diretto da Marina Santi e Roberta Caldin

“Biòtopi” è un progetto che si pone come obiettivo la co-costruzione e la diffusione di una cultura inclusiva in ambito educativo, attraverso la valorizzazione del concetto di “coevoluzione”. Il “biòtopo” è un ambiente la cui struttura dinamica prevede una continua interazione e adattamento reciproco tra gli elementi, realizzando un equilibrio costante, seppur sensibile ad ogni perturbazione. Il biòtopo, come unità di base dell’ambiente, è anche il luogo in grado di includere in sé la vita. Questa metafora sta all’origine del nostro progetto editoriale e ne orienta lo sviluppo, aprendolo alla possibilità di modificare il suo percorso “strada facendo”, proponendo opere che rispondano alle provocazioni del cambiamento e dell’alterità. Non solo dunque libri entro una tradizionale “collana”, ma prodotti costruiti intorno ad iniziative ed eventi che “includano” forme diverse e alternative di costruzione della conoscenza e che testimonino e rendano manifeste espressioni molteplici della differenza. Differenza che il progetto affronta a partire dalla riflessione e dalla ricerca sulla disabilità, ma che viene in esso riconosciuta e valorizzata come cifra propria dell’umanità e traccia della limitatezza costitutiva e intrinseca alla vita. Disabilità, differenza, diversità, cambiamento, dipendenza e reciprocità divengono dunque costrutti relativi ad ambienti e a culture e alle loro risposte adattive. L’educazione inclusiva è una risposta necessaria alla sfida, all’impegno e al desiderio di abitare mondi “vivibili”, perché co-evolventi e sostenibili, in cui lo sviluppo di tutti abbia origine e sfoci nel benessere di ciascuno. La collana si rivolge a studiosi e a ricercatori impegnati nell’ambito della disabilità, ma anche nell’arte e nella cultura e nei luoghi sensibili alle differenze. Il Comitato di Referaggio della collana è composto da: Consuelo Agnesi (Studio in Movimento); Renato Anoè (ex USR Veneto - MIUR); Pietro Barbieri (FISH); Claudio Bitelli (AIAS Bologna); Elena Bortolotti (Università di Trieste); Paola Caldironi (Fondazione Hollman); Donatella Camedda (University of Edinburgh); Sergio Canazza (DEI, Università di Padova); Carola Carazzone (Human Rights Office, VIS-Volontariato Internazionale per lo Sviluppo); Roberta Cardarello (Università di Modena-Reggio Emilia); Alessandra Cesaro (Università di Padova); Alessia Cinotti (Università Europea di Roma); Simona D’Alessio (Disability Studies - GRID); Luigi d’Alonzo (Università “Cattolica” di Milano); Luca Decembrotto (Università di Bologna); Fabio Dovigo (Università di Bergamo); Enrico Emili (Università di Bologna); Angelo Errani (Università di Bologna); Luca Ferrari (Università di Bologna); Flavio Fogarolo (Associazione Lettura Agevolata); Giampiero Griffo (European Disability Forum); Evert-Jan Hoogerwerf (AIAS Bologna); Carlo Lepri (Centro Studi Genova); Daniela Lucangeli (Università di Padova); Michele Mainardi (SUPSI – Svizzera Italiana); Lilia Manganaro (ANFFAS); Margherita Merucci (Direction Pédagogique Licence de Psychologie, Université Catholique de Lyon); Alioscia Miotto (Università di Padova); Rinalda Montani (UNICEF); Ferdinando Montuschi (Università Roma Tre); Anna Pileri (IUSVE – Venezia); Stefania Pinnelli (Università di Lecce); Enrica Polato (Università di Padova); Gabriele Righetto (Centro di Ecologia Umana – Legambiente); Giulia Righini (Università di Bologna); Giorgia Ruzzante (Università di Padova); Patrizia Sandri (Università di Bologna); Fabrizio Serra (Fondazione Paideia); Carlos Skliar (FLACSO - Buonos Aires); Paolo Valerio (SINAPSI, Università di Napoli); Tiziano Vecchiato (Fondazione Zancan); Renzo Vianello (Università di Padova); Eleonora Zorzi (Università di Padova)

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1. E. Ghedin, Ben-essere disabili. Un approccio positivo all’inclusione 2. S. Visentin, Pluridisabilità tra famiglia e servizi. L’aver cura nel vissuto dei genitori 3. M. Biggeri, N. Bellanca (a cura di), Dalla relazione di cura alla relazione di prossimità. L’approccio delle capability alle persone con disabilità 4. L. d’Alonzo, R. Caldin (a cura di), Questioni, sfide e prospettive della Pedagogia Speciale 5. R. Caldin (a cura di), Alunni con disabilità, figli di migranti 6. A. Errani, M. Mazzetti (a cura di), Terre di mezzo. Permanenze e cambiamenti nella realizzazione professionale delle persone disabili 7. S. Visentin, Progetti di vita fiorenti. Storie sportive tra disabilità e Capability 8. S. Pergolesi, Accanto all’evento inatteso. Dal percorso della comunicazione della diagnosi alla quotidianità familiare e sociale 9. A. Cinotti, R. Caldin (a cura di), L’educare dei padri. Teorie, ricerche, prospettive e disabilità 10. D. Di Masi, Polisofia. Progettare esperienze di cittadinanza in una prospettiva inclusiva 11. A. Cinotti (a cura di), Padri e figli con disabilità. Incontri generativi, nuove alleanze 12. E. Ghedin, Felici di conoscere. Insegnamento inclusivo e apprendimento positivo a scuola 13. L. Decembrotto, Marginalità vissute tra carcere e strada. Analisi, sfide, idee per una progettazione educativa post detenzione

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artendo da una ricerca esplorativa svolta sul territorio di Bologna, riguardante la presenza di esperienze di detenzione tra la popolazione senza dimora, il volume propone una riflessione critica e problematizzante più ampia sulla progettazione educativa in uscita dal carcere. Perché al termine di un periodo di privazione della libertà e nel momento del suo riottenimento, qualcuno si ritrova a vivere in strada? Cosa può essere fatto per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 comma 2, Cost.)? Come restituire voce e potere decisionale alle persone più vulnerabili e marginalizzate all’interno del carcere e fuori dal carcere? La proposta è quella di un cambiamento culturale trasversale, dentro e fuori il carcere, al fine di promuovere la dignità umana di chiunque, in qualsiasi contesto, aumentando il grado di inclusione, di ascolto e risposta ai bisogni, alle aspettative e alle aspirazioni della persona, e potenziando il grado di partecipazione civile e democratica di ognuno. Una proposta di progettazione educativa post detentiva, oltre la detenzione.

L

uca Decembrotto è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università di Bologna, dove si occupa di Pedagogia della marginalità e di Pedagogia dell’inclusione. Negli ultimi anni si è dedicato ai contesti sociali riguardanti le persone senza dimora, le persone detenute e le persone con disabilità, approfondendo le tematiche dell’emarginazione, dell’esclusione e dei processi inclusivi fra gli adulti.

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