Manuale di storia greca. Con e-book [3 ed.] 8815258825, 9788815258823

Il manuale fornisce un quadro chiaro ed esauriente della storia della Grecia antica, dalle origini alla conquista romana

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Manuale di storia greca. Con e-book [3 ed.]
 8815258825, 9788815258823

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CINZIA BEARZOT

Manuale di storia greca Terza edizione

EDIZIONE DIGITALE

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il Mulino Manuali

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Manuale di storia greca Il manuale fornisce un quadro chiaro ed esauriente della storia della Grecia antica, dalle origini alla conquista romana. Il testo privilegia la ricostruzione degli avvenimenti politici (presupposto necessario per la comprensione degli aspetti economici, sociali e culturali) con una particolare attenzione per la storia delle relazioni internazionali e per la difficile ricerca di un equilibrio panellenico. Prefazione alla terza edizione. - I. La formazione della civiltà greca. - Il. La Grecia tardo-arcaica. - III. Il quinto secolo. - IV. Il quarto secolo. - V. Alessan­ dro e l'ellenismo. - V I. La Grecia e Roma. - Letture consigliate. - Cronologia. - Indici.

INDICE DEL VOLUME:

CINZIA BEARZOT è docente di Storia greca presso la Facoltà di Lettere e filoso­ fia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Con il Mulino ha pubblicato anche «La polis greca» (2009) e «Il federalismo greco» (2014).



Su web e su tablet, Pandoracampus (www.pandoracampus.it) propo­ ne il testo completo del manuale insieme a risorse integrative e servizi interattivi per approfondire, verificare l'apprendimento e fare lezione.

ISBN

€ 30,00

978-88-15-25882-3

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9 788815 258823

CINZIA BEARZOT

Manuale di storia greca

il Mulino

ISBN 978-88-15-25882-3

Copyright© 2005 by Società editrice il Mulino, Bologna. Terza edizione 2015. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Prefazione alla terza edizione

I.

La formazione della civiltà greca

1. 2. 3. 4. 5. Il.

Preistoria e protostoria La civiltà minoica La civiltà micenea L'«età oscura» (1100-800 ca.) L'alto e medio arcaismo

La Grecia tardo-arcaica

1. 2. 3. 4. 5.

I Greci d'Asia e delle isole La Grecia centro-settentrionale Atene Sparta e il Peloponneso I Greci d'Occidente

lii.

Il quinto secolo

IV.

Il quarto secolo

1. 2. 3. 4.

Le guerre persiane: uno scontro di civiltà Atene e Sparta: il modello della doppia egemonia Democrazia e imperialismo La guerra del Peloponneso: due blocchi a confronto

1. L'egemonia spartana e le sue contraddizioni 2. La pace comune del 387/6: lautonomia come principio

di convivenza internazionale

7 11

11 13 15 19 23 59

59 62 67 79 87 95

95 111 124 137 169

170 184

INDICE

6

3. La Seconda lega ateniese 4. L'egemonia tebana e la rinascita degli stati federali 5. La fine delle egemonie cittadine e l'ascesa della Macedonia:

ffi�ll 6. Siracusa, la tirannide dionisiana e la nascita dello stato territoriale

V.

Alessandro e l'ellenismo

1. Alessandro e il sogno dell'impero universale 2. Il problema della successione e la formazione degli stati ellenistici:

dal 323 al 281

3. La Sicilia: Agatocle 4. Le monarchie territoriali: dal 281 al 220 ca. VI. La Grecia e Roma

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Le guerre illiriche La prima guerra macedonica (215-205) La seconda guerra macedonica (200-196) La guerra siriaca (192-188) La terza guerra macedonica (171- 168) La «quarta guerra macedonica» e la guerra acaica L'ordinamento provinciale

187 190 �

214 233 233 244 249 251 275

276 279 283 291 301 309 312

Letture consigliate

323

Cronologia

327

Indici

345

Prefazione alla terza edizione

La terza edizione del Manuale di storia greca non si discosta, nell'impostazione generale, dalle due edizioni precedenti (2005 e 201 1 ). 11 manuale è stato pensato soprattutto come uno strumento didattico, che intende rispondere a esigenze di relativa agilità e, soprattutto, di chiarezza espositiva: a questo scopo, a partire dalla seconda edizione il testo presenta una scansione più articolata, messa in evidenza da titoletti che offrono una guida alla lettura. L'esposizione privilegia la storia evenemenziale: la conoscenza dei fatti è, a mio parere, il presupposto necessario per la comprensione della storia economica, sociale e culturale della Grecia antica come di ogni altro periodo storico. Il taglio della ricostruzione adotta, come chiave di lettura, la storia delle relazioni internazionali e della difficile ricerca di un equilibrio all'interno del complesso «sistema» ellenico: una prospettiva della cui parzialità sono consapevole, ma che trova giustificazione nell'interesse che le stesse fonti antiche le hanno riservato. Ho cercato, nella misura del possibile, di dare spazio alla voce delle fonti, letterarie e documentarie, sulle quali si basa la nostra conoscenza degli avve­ nimenti principali della storia greca, facendo spesso riferimento ad esse nel testo e talora citandole ampiamente; ho invece potuto soltanto accennare al complesso lavoro di analisi e di critica della tradizione, operato dagli studiosi moderni, che è il presupposto della ricostruzione offerta. 11 manuale si articola in sei capitoli, dedicati alla formazione della civiltà greca (cap. 1 ) , alla Grecia tardo-arcaica (cap. 2), al V secolo dalle guerre persiane alla fine della guerra del Peloponneso (cap. 3 ) , al IV secolo dal 403 a.C. alla morte di Filippo II di Macedonia (cap. 4), ad Alessandro e all'ellensimo fino al 220 a.C. ca. (cap. 5) e al rapporto fra la Grecia e Roma (cap. 6). Al loro interno, lesposizione è articolata in sottocapitoli e paragrafi, a loro volta suddivisi in brevi sottoparagrafi con titoletti a margine, che mi auguro possano offrire una chiara organizzazione del materiale e, quindi, favorire l'apprendimento della disciplina.

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

La bibliografia proposta alla fine di ogni capitolo è stata integrata, rispetto alla seconda edizione, con diversi contributi usciti tra il 201 1 e oggi, sempre esclusivamente in lingua italiana. Si tratta di una scelta certamente discuti­ bile, alla quale mi hanno condotto diverse considerazioni. Poiché il materiale bibliografico disponibile è ormai enorme, l'obiettivo della completezza non è perseguibile e ogni selezione rischia comunque di essere arbitraria; d'altra parte, gli studiosi italiani hanno dato e continuano a dare un contributo molto qualificato agli studi di storia greca, ancorché non sempre considerato con la dovuta attenzione dai colleghi stranieri, specialmente di area anglosassone; in ogni caso, dai loro studi è quanto mai agevole, per chi lo desideri, risalire alle indicazioni bibliografiche principali in altre lingue (mentre raramente è vero il contrario). Ritengo dunque che si faccia un servizio migliore agli studenti universitari, e si incoraggi più efficacemente il loro desiderio di approfon­ dire la materia, orientandoli in prima istanza sulla bibliografia in italiano (o, laddove possibile, tradotta in italiano). In chiusura del volume, segnalo una serie di letture di carattere generale, consigliate a chi voglia avvicinarsi allo studio della storia greca. La vera novità di questa terza edizione è la pubblicazione sia in formato cartaceo, sia su supporto digitale sulla piattaforma Pandoracampus (www.pandoracampus.it). La versione digitale riproduce quella cartacea e la integra con una serie di risorse aggiuntive: fonti e documenti ulteriori rispetto a quelli inseriti nel testo, carte interattive, documentazione iconografica, linee temporali, glossario, test di autovalutazione. Ho accolto volentieri l'invito dell'editore ad avvalermi di questa piattaforma, nella convinzione che l'in­ novazione tecnologica possa giovare alla didattica, consentendo al docente di comunicare più efficacemente i contenuti della disciplina e agli studenti di raggiungere un livello superiore di preparazione. Le riviste sono indicate con le abbreviazioni usate nell'Année Philologique. Le raccolte epigrafiche cui si fa riferimento nel testo sono: •

IG P

=

Inscriptiones Graecae. Editio tertia, I, Berlin, 1 98 1 ;

• ML= R . Meiggs e D. Lewis, A Selection o/ Greek Historical Inscriptions to the End o/ the Fifth Century B.C., Oxford, 1 9882;

Moretti ISE = L. Moretti, Iscrizioni storiche ellenistiche, I-II, Firenze, 19671 976; III, Roma, 2002; • Syll.3 W. Dittenberger, Sylloge Inscriptionum Graecarum, I-IV, Leipzig, 1 9 15- 1 9243;



=

RDGE = R.K. Sherk, Roman Documents /rom the Greek East, Baltimore, 1 969; • Rhodes-Osborne = P.J. Rhodes e R. Osborne, Greek Historical Inscriptions: 404-323 BC , Oxford, 2003 ; •

• Tod= M.N. Tod, Greek Historical Inscriptions /rom the Sixth Century B.C. to the Death o/ Alexander the Great in 323 B.C , I-II, Oxford, 1 946- 1 948. .

9

Per gli accenti delle parole greche translitterate si è preferito, secondo un criterio ormai frequentemente adottato, non indicarli, se non nel caso di parole tronche (koin{); a questa decisione si è giunti per la difficoltà di tro­ vare un sistema che sia insieme coerente con laccentazione originaria (il che vorrebbe, per esempio, basileis) e perspicuo per chi non conosce il greco (il che richiederebbe invece basilèis). Tutte le date, qualora non diversamente indicato, si intendono avanti Cristo. Ringrazio Franca Landucci per l'aiuto fornitomi per la revisione della parte ellenistica, su cui le sue competenze sono ben note; devo molto anche ai colleghi che hanno adottato il testo e che, in base alla loro esperienza, mi hanno fatto giungere osservazioni di vario genere su di esso. Il dott. Paolo A. Tuci ha dato, grazie alla sua esperienza didattica, un notevole contributo alla revisione del testo e dei suoi apparati (cartine, tavola cronologica e indici); a lui e alla dott. Livia De Martinis va il merito di aver preparato i diversi materiali confluiti su Pando­ racampus. Ringrazio entrambi per il lavoro svolto, per le puntuali osservazioni e per i preziosi suggerimenti.

La formazione della civiltà greca

In questo capitolo: •

Preistoria e protostoria



La civiltà minoica



La civiltà micenea



L'«età oscura» (1100-800 ca.)



L'alto e medio arcaismo

1 . PREISTORIA E PROTOSTORIA Durante il Paleolitico, circa 40.000 anni prima di Cristo, tracce di occupazione Dal Paleolitico al umana si riscontrano in Grecia a partire dalle zone settentrionali e, in parti­ Neolitico (40000colare, dalla.Tracia, dalla Penisola Calcidica e dalla Tessaglia, per estendersi 3000) poi alla Beozia, all'Argolide, all'Eubea e alle isole ioniche. Gli abitanti sono cacciatori e raccoglitori e conducono vita seminomade. Con il VII millennio (7000-6000) inizia il processo di sedentarizzazione che conduce al Neolitico, periodo che in Grecia copre l'arco cronologico dal VI al IV millennio (6000-3000). Si formano comunità stabili, riunite in villaggi di case costruite in mattoni crudi su basamento di pietra (nelle regioni me­ ridionali) o con la tecnica del graticcio rivestito di argilla (in Tessaglia e in Macedonia); la popolazione è dedita all'agricoltura (cereali come grano e orzo, legumi, alberi da frutta come fichi, meli, peri, mandorli) e all'allevamento (buoi, maiali, pecore, capre); compare la ceramica (vasellame e figurine an­ tropomorfe e zoomorfe). Gli strumenti (asce e accette) sono in pietra levigata; nel Neolitico recente predomina l'ossidiana, proveniente dall'isola di Melo. A questa stessa epoca compaiono anche i primi oggetti in metallo (rame e oro) martellato e levigato. I siti neolitici più importanti si trovano nelle regioni settentrionali (Macedonia, Tessaglia) e nelle isole (Chio, Samo, Cicladi).

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CAPITOLO 1

Ci si è domandati se i cambiamenti che si registrano nel corso del Neolitico vadano collegati con l'apporto di nuove popolazioni, non ancora indoeuro­ pee. Fin dalla preistoria, infatti, il bacino dell'Egeo appare caratterizzato da intense relazioni, intrattenute dalle popolazioni che vi abitano con quelle di territori limitrofi o anche più distanti: esplorazione e scambi sono favoriti dalla situazione geografica, grazie alla profonda compenetrazione di terra e di mare, dal frazionamento insediativo, collegato anche con una struttura orografica che divide il territorio in distretti regionali di varia entità, e dall'esigenza di reperire risorse primarie. Le caratteristiche degli insediamenti neolitici e, in particolare, della ceramica inducono, in alcuni casi, a ipotizzare relazioni con regioni del Vicino Oriente, come l'Anatolia o la regione siro-palestinese (per la Tessaglia e la Grecia centrale), e con l'area balcanica (per la Macedonia); altrove, come in Argolide, sembra più probabile che i mutamenti siano dovuti a sviluppi di carattere locale. Il Bronzo antico La transizione dal Neolitico all'Età del Bronzo, nella seconda metà del IV (3000-2000 ca.) millennio (3500-3000), corrisponde a un notevole ampliamento dei circuiti di scambio, verso l'Egeo orientale e l'Europa centrale. I centri più importànti si spostano dalle zone settentrionali (Tessaglia, Macedonia), che si riducono a un ruolo marginale, a quelle meridionali (Peloponneso, Cicladi, Creta): proprio qui si svilupperanno le grandi civiltà dell'Età del Bronzo, quella minoica a Creta e quella micenea nella Grecia peninsulare. Nel corso dell'Età del Bronzo, che dall'inizio del terzo millennio (3000 ca.) va fino all'XI Secolo ( 1 100- 1000), si assiste a un'ulteriore crescita delle relazioni e degli scambi. Un ruolo importante nella loro promozione spetta alla diffusione della metallurgia: la scarsità di metalli in area egea spinge infatti a cercare il rame a Cipro, in Sardegna, nel Lazio, in Spagna, lo stagno nell'Europa centro-settentrionale (isole britanniche, Bretagna, Boemia, Sassonia) e in Asia (Caucaso, Alto Eufrate). Grazie allo sviluppo dei contatti reciproci, durante il Bronzo antico diverse comunità mostrano analoghi sviluppi, consistenti nel passaggio da un'economia agro-pastorale di pura sussistenza a una crescente utilizzazione delle risorse non agricole e nell'insediamento in villaggi con case a pianta diversificata, difesi da mura, spesso stabiliti in siti mai occupati in precedenza, che sono stati classificati come «centri proto-urbani». Si formano così diverse aree regionali (Grecia continentale, Creta, Egeo, Asia Minore), accomunate da elementi culturali di carattere «internazionale». Se ogni area mostra una produzione artigianale specifica (in area egeo-cicladica, per esempio, gli idoletti in marmo e i piatti in terracotta denominati «padelle per friggere», spesso recanti la figura di una nave), il ricorrere di forme comuni fa pensare a un'ampia circolazione di oggetti, di tecniche e anche di individui. Un ruolo fondamentale di ponte sembra essere stato svolto dalle Cicladi e dai loro artigiani e marinai: su molte «padelle» cicladiche compare infatti la raffigurazione di una nave, spinta da una quarantina di rematori, che attesta un notevole progresso della marineria.

·

LA FORMAZIONE DEllA CMl.T.

GlECJ.

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2. LA CMLTÀ MINOICA Verso la fine del III millennio (2000 ca.) l'equilibrio caratteristico del Bronzo antico si rompe, dando luogo a profondi cambiamenti; l'Egeo si scinde in due aree, che nel corso del Bronzo medio seguono uno sviluppo diverso. Creta e le Cicladi sono caratterizzate dall'espansione delle città, dall'adozione del sistema palaziale e dal mantenimento di un intenso livello di scambi; nel Peloponneso e nella Grecia centrale e settentrionale si registra invece una significativa regressione culturale. L'isola di Creta, rimasta indenne dagli sconvolgimenti della fine del III millennio, svolge per tutta la prima metà del II (2000-1450 ca.) un ruolo di primo piano, sia durante il periodo dei primi palazzi (2000- 1700 ca.) , edificati in forme relativamente semplici a Pesto e a Cnosso, sia soprattutto durante quello dei secondi palazzi ( 1700-1450 ca.), che rappresenta l'apogeo della civiltà minoica. Durante la seconda fase palaziale i palazzi già esistenti, dopo una grave distruzione attribuibile a cause naturali oppure alle conse­ guenze di lotte interne, vengono ricostruiti in forme più complesse; nuovi insediamenti vengono inoltre creati a Mallia, Zakros e Haghia Triada. Tale fase è caratterizzata dall'egemonia di Cnosso, che impone sull'isola una significativa unità culturale: la denominazione deriva dal mitico re cnossio Minosse, ricordato da Tucidide, nella cosiddetta «archeologia» (la breve storia della Grecia arcaica tracciata all'inizio delle sue Storie, in I, 2-19), come il più antico possessore di una flotta e thalassokrator («dominatore del mare») in area egea: Minosse fu il più antico, a quanto sappiamo per tradizione, a possedere una flotta, a dominare per la maggior parte il mare che ora è greco, a governare sulle isole Cicladi e a diventare il primo colonizzatore della maggior parte di esse, dopo averne scacciato i Cari e avervi installato come capi i propri figli. E per quanto gli fu possibile eliminò la pirateria dal mare, com'è naturale, perché gli giungessero rendite in maggior quantità (I, 4; cfr. I, 8, 2). La descrizione dell'impero marittimo di Minosse, modellata sull'esperienza dell'impero ateniese del V secolo e quindi con elementi anacronistici, trova tuttavia parziale conferma nel vasto raggio d'azione commerciale di Creta, attestato archeologicamente. Il sistema palaziale, già presente nel Vicino Oriente, è un sistema di organiz­ zazione politico-sociale fortemente centralizzato, basato appunto sul palazzo e sulle sue diverse funzioni: sede del potere politico, esso svolge anche fun­ zioni economiche (di organizzazione della produzione agricola e artigianale, di raccolta delle materie prime, dei prodotti della terra e dei manufatti, di ridistribuzione degli strumenti di lavoro e delle diverse risorse disponibili), religiose e culturali. L'adozione del sistema palaziale a Creta è stata collegata, oltre che all'influenza orientale, a un'evoluzione interna legata a fattori diversi, come l'introduzione delle colture della cosiddetta «triade mediterranea» (vite, ulivo, cereali), che avrebbe creato la necessità di organizzare la produzione,

Dal Bronzo antico al Bronzo medio (2000 - 1 600 ca.): il secondo millen­ nio

La civiltà minoica nel periodo dei primi e dei secondi palazzi (2 0001450)

14

CAPITOLO 1

la raccolta delle eccedenze e la loro ridistribuzione, e lo sviluppo di un arti­ gianato altamente specializzato. Dal punto di vista architettonico, il palazzo ha una struttura complessa, che è alla base della tradizione cretese sul Labirinto. Intorno a un grande cortile centrale, di forma rettangolare e orientato in direzione nord-sud, si raggruppano stanze di servizio, d'abitazione e di ricevimento, sale di culto e «teatri», magazzini, uffici, laboratori; un ampio cortile lastricato introduce alla facciata monumentale, collocata sul lato occidentale; molti ambienti presentano una ricca decorazione ad affreschi policromi. L'inserimento nel contesto naturale è particolarmente curato: il palazzo è aperto sull'ambiente circostante e sull'abitato che lo circonda, capace di ospitare una popolazione numerosa; particolare attenzione è posta all'aerazione e all'illuminazione. La mancanza di fortificazioni sembra indicare una certa sicurezza rispetto alle aggressioni esterne. Un elemento fondamentale nello sviluppo del sistema palaziale è costituito dai progressi dei sistemi di notazione, dall'uso dei sigilli a quello della scrittura. Creta ha restituito sigilli in pietra, avorio e oro e cretule d'argilla con impronte di sigilli, presenti a Pesto fin dall'epoca protopalaziale: apposti a vasi, forzieri, porte, i sigilli consentivano di controllare la raccolta e la ridistribuzione dei beni. La scrittura, necessaria per la contabilità palaziale, era già nota in Meso­ potamia e in Egitto, ma i Cretesi approntarono un sistema autonomo: prima una scrittura ideogrammatica, definita da Arthur Evans, lo scopritore dell'ar­ chivio di Cnosso, «geroglifica» e attestata in epoca protopalaziale a Mallia e a Cnosso (la cui principale testimonianza è il cosiddetto «Disco di Pesto»), poi la cosiddetta «Lineare A», presente non solo a Creta ma anche nelle Cicladi e a Samotracia. Si tratta, in entrambi i casi, di scritture sillabiche, che esprimono una lingua non greca e che non è stato possibile finora decifrare. Nel 1450 circa fa invece la sua comparsa a Creta la «Lineare B», elaborata dagli abitanti della Grecia continentale; la sua presenza a Creta è ritenuta testimonianza della con­ quista dell'isola da parte dei Micenei intorno alla metà del XV secolo (1450 ca.). La religione è un aspetto fondamentale della vita del palazzo, tanto che Evans ne fu indotto ad avanzare l'ipotesi di una «teocrazia» minoica, guidata da un re-sacerdote. Se questa ipotesi non sembra trovare riscontro sicuro, certo il palazzo riservava al culto ambienti specifici e dedicava ad aspetti cultuali parte della decorazione; diversi oggetti hanno una specifica destinazione cultuale, tra essi la labrys, l'ascia bipenne destinata al sacrificio. La religione sembra avere una forte impronta naturalistica; le figurine interpretabili come divinità sono femminili e rappresentano una Potnia («signora») affiancata da animali (serpenti, uccelli, leoni). Notevole è l'impulso dato dal sistema palaziale alla produzione artistica: la centralizzazione della struttura economica garantisce la fornitura di materie prime e di strutture di servizio agli artigiani, favorendo il progresso di tec­ niche come l'uso del tornio, l'incrostazione, la placcatura e la granulazione. Nell'ambito della produzione cretese si segnalano la ceramica del cosiddetto «stile di Kamares», decorata con motivi naturalistici, tra i quali prevale il polipo, e preziosi manufatti di metallurgia e oreficeria.

LA FORMAZIONE OELLA CMLTÀ GRECA

15

La documentazione archeologica, in sostanziale accordo con la visione tucidi- La civiltà minoica dea della «talassocrazia» di Minosse, attesta i rapporti dell'isola di Creta con oltre Creta l'Egitto, con Cipro, con le coste dell'Asia Minore (Rodi, Coo, Mileto, Iaso), con le isole dell'Egeo: i Cretesi possono essere identificati con i Ke/tiu dei testi egiziani e con i Kaptara di quelli del Vicino Oriente. Nelle Cicladi, la diffusione della cultura minoica è notevole, soprattutto a Tera, dove è stato messo in luce un insediamento palaziale con splendidi affreschi, andato distrutto nelle catastrofiche eruzioni vulcaniche datate ora alla fine del XVII secolo (1600 ca.); a Citera e a Rodi sono forse documentabili veri e propri insediamenti minoici. Le Cicladi continuano così a svolgere il ruolo tradizionale di ponte tra Creta e la Grecia continentale.

3. LA CMLTÀ MICENEA Diversamente che a Creta, in Grecia il passaggio dal Bronzo antico al Bronzo medio, intorno al 2000, reca tracce di profondi sconvolgimenti: molti villaggi sono distrutti, altri vengono abbandonati; scompaiono le for­ tificazioni; la casa ad abside semicircolare sostituisce gli edifici di struttura più complessa; scompaiono i magazzini; si generalizza la tomba individuale del tipo «a cista» (sepoltura individuale o collettiva costituita da una cassa, generalmente rettangolare, di lastre di pietra infisse nel terreno) e i corredi, già modesti, quasi scompaiono; compare una ceramica lavorata al tornio di colore grigio uniforme e a superficie liscia, detta «minia»; viene introdotto il cavallo domestico. Questi cambiamenti sono stati attribuiti all'arrivo di popolazioni parlanti lingue indoeuropee, tra cui un proto-greco; tuttavia, rivolgimenti interni ed evoluzione locale possono spiegare altrettanto bene alcuni cambiamenti, tanto più che, come è stato sottolineato, è difficile collegare elementi della cultura materiale con un preciso gruppo linguistico ed etnico. L'interpre­ tazione dei pur significativi mutamenti intervenuti nel passaggio al Bronzo medio tende quindi a privilegiare (in questo caso come in quello del transito all'Età del Ferro, con la frattura dell'XI secolo e della cosiddetta «invasione dorica») processi evolutivi di lunga durata rispetto all'idea di un'invasione violenta e massiccia. Il carattere graduale della transizione induce a pensare più probabilmente a infiltrazioni, più che a vere e proprie invasioni, di genti parlanti una lingua greca, che si sovrapposero a un sostrato etnico e linguistico precedente in un momento e con modalità difficili da stabilire per noi: ciò sembra trovare conferma nella tradizione, che mostra coscienza che la civiltà greca era nata da una mescolanza di elementi autoctoni (come i Pelasgi di cui parlano Erodoto I, 56-58 e Tucidide I, 3 ) e di elementi sopraggiunti in seguito attraverso migrazioni. In ogni caso, anche la Grecia del Bronzo medio, afflitta da gravi turbolenze, non sembra regredire a forme di completo isolamento: sono attestate relazioni con Creta e con l'ambiente insulare, con l'Anatolia, il Levante e addirittura

Il passaggio al se­ condo millennio nella Grecia con­ tinentale

16

CAPITOLO, _____________________________

Micene

con alcune aree dell'Europa continentale. Anche se della civiltà micenea sono oggi particolarmente valorizzate, senza escludere apporti esterni, le radici continentali, queste relazioni non furono prive di influenza sulle trasforma­ zioni che, nella seconda metà del XVIII secolo (1750- 1700), si verificarono in Grecia portando alla nascita della civiltà micenea. Lo sviluppo della civiltà micenea muove dall'Argolide e dalla Messenia, per investire poi altre aree regionali come la Laconia, l'Attica e la Beozia. In Ar­ golide, in particolare, sorgono nel corso del XVIII secolo ( 1 800- 1700) diversi centri nuovi, come Argo, Tirinto, Midea, Micene. A partire dalla prima metà del XVII secolo ( 1700- 1 650), quest'ultima assume un'eccezionale impor­ tanza, come risulta dai ricchissimi corredi delle tombe cosiddette «a pozzo» (sepoltura a cui si accede attraverso un'imboccatura a pozzo, verticale od orizzontale), proprie di una élite aristocratica di guerrieri che sembra volersi distinguere dal resto della popolazione, cui sono riservate tombe più povere, del tipo «a fossa» (scavate direttamente nel terreno e di forma generalmente quadrangolare) o «a cista». Particolarmente importanti sono, a Micene, le tombe a pozzo dei cosiddetti circoli A e B: il circolo A, scoperto da Heinrich Schliemann nel 1 876 e comprendente sei grandi tombe databili tra 1570 e 1500, giustifica pienamente, con i suoi corredi comprendenti tra l'altro la «maschera di Agamennone», la definizione omerica di Micene come «ricca d'oro»; il circolo B, venuto alla luce nel 1 952 e più antico, comprende venti­ quattro tombe a fossa, su un arco di tempo che va dal 1650 al 1550. I ritrovamenti sono di varia provenienza: materie preziose come oro, argento, elettro '(una lega di oro e argento), ambra vengono importate dall'Egitto, dall'Asia Minore, dai Carpazi (oro), dall'Inghilterra sud-occidentale (ambra lavorata); l'influenza cretese nei manufatti di oreficeria (le maschere d'oro di Micene, le tazze d'oro di Vaphiò in Laconia) risulta preponderante, anche perché Creta funge da ponte per il commercio con l'Egitto e l'Oriente; ma una funzione importante era svolta anche dagli empori occidentali (Isole Eolie, golfo di Napoli) e da quelli del mar Nero fino alla Georgia, l'antica Colchide famosa per i suoi giacimenti aurei. L'eccezionale importanza dei reperti di Micene giustifica l'uso del nome di «micenea» per la civiltà che fiorisce a partire dall'Argolide; ma sviluppi del tutto analoghi troviamo anche nel resto del Peloponneso (Messenia), in Attica e in Beozia. L'ascesa improwisa dei primi Micenei, con la loro grande ricchezza, si colloca in un periodo che corrisponde alla seconda fase palaziale cretese. Per spiegare le origini di tale ascesa, molto discussa, sono state formulate di­ verse ipotesi. Le ricche sepolture del circolo A di Micene sarebbero, secondo alcuni, l'esito di incursioni a Creta, da dove sarebbero stati portati materie prime e artigiani, oppure della massiccia invasione di genti indoeuropee; ma altri tendono a privilegiare l'idea di uno sviluppo interno, come nel caso della civiltà minoica (introduzione della «triade mediterranea» e, di conseguenza, aumento della popolazione e sviluppo della metallurgia, dell'artigianato, delle forme di comunicazione). Eventuali apporti esterni potrebbero essere legati al ruolo di intermediazione della Grecia continentale tra il commercio

LA FORMAZIONE DELLA CIVILTÀ GRECA

marittimo gestito dai palazzi cretesi e il commercio terrestre verso l'Europa continentale (probabilmente i Micenei rifornivano l'Egeo di stagno e oro). Tra il XVI e la prima metà del XV secolo ( 1600-1450 ca.) si sviluppa l'organizzazione di comunità micenee in vaste aree della Grecia meridionale e centrale. I reperti più significativi sono costituiti da tombe, di tipo a tholos (camera circolare preceduta da un corridoio d'accesso) e con ricchi corredi, come la tomba dei Leoni e la cosiddetta «tomba di Egisto», che nel XVI secolo (1600- 1500) prendono il posto, a Micene, delle tombe a pozzo del circolo A; si è discusso se si trattasse di comunità a conduzione monarchica oppure oligarchica, come sembra piuttosto far pensare l'alto numero di tombe monumentali. Il ritrovamento di sigilli suggerisce, anche in assenza di tavolette, lo sviluppo di procedure amministrative di tipo palaziale. In questo periodo l'influenza minoica appare sempre notevole, soprattutto in ambito religioso: tanto che, prima della decifrazione della Lineare B, che ha fornito le prove dell'autonomia della religione micenea, si tendeva a parlare di una religione minoico-micenea. In realtà, molte divinità del futuro Olimpo greco, come Zeus, Era, Atena, Artemide, Ares, Dioniso, sono già note presso i Micenei; fra esse, un ruolo particolare hanno le divinità femminili (Potniai) e Posidone; ora, la pubblicazione delle tavolette di Tebe ha mostrato l'importanza, nella Beozia micenea, del culto di Demetra e Core. Nel corso del XV secolo ( 1500-1400) inizia l'espansione micenea nell'Egeo. Allo sviluppo di centri come Micene, Pilo, Tebe fa riscontro l'inserimento a Rodi e a Creta, dove larrivo dei Micenei è testimoniato dall'archivio di tavolette scritte in Lineare B di Cnosso e dalla ricostruzione del palazzetto di Haghia Triada secondo modelli continentali (l'epoca della conquista micenea corrisponde al periodo neopalaziale della civiltà minoica, che va dal 1450 al 1380). A Cipro, in Asia Minore e in Egitto i Micenei sostituiscono la loro presenza a quella cretese: accanto ai Ke/tiu, nei testi egiziani compaiono i Tanaja ( Danai?), poi la menzione dei Ke/tiu è sostituita da quella degli uomini provenienti dalle «isole in mezzo al mare». In Occidente, ceramica micenea è stata ritrovata nel Basso Tirreno (isole Eolie, isole del golfo di Napoli) e nel mar Ionio, dove probabilmente i Micenei cercano risorse metallifere; i ritrovamenti di ambra baltica a Micene attestano rapporti, almeno mediati, con le zone di origine della materia prima; tuttavia, i ritrovamenti di manufatti di tipo miceneo in Europa sono troppo sporadici per giungere a conclusioni sicure. Nel XIV-XIII secolo (1400-1200) la cultura micenea, con lo sviluppo dell'architettura palaziale, è al suo apogeo a Micene, Tirinto, Pilo, Atene, Tebe, Orcomeno. Con la conquista di Creta, la cui civiltà declina dopo la distruzione, nel 1380 circa, del palazzo di Cnosso, i Micenei subentrano nella gestione delle rotte commerciali del Mediterraneo orientale. È questo il momento della massima espansione della ceramica micenea in Oriente, che prelude alla sua diffusione anche nel Mediterraneo occidentale. I palazzi micenei, come quelli minoici, costituiscono il centro del potere, della vita religiosa, dell'amministrazione, dell'economia e delle forze militari. Le nostre informazioni sulle strutture della società micenea derivano dalle

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L'espansione dei Micenei in Grecia

L'espansione dei Micenei nell'Egeo

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Il sistema pala­ ziale miceneo

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CAPITOLO 1

tavolette, soprattutto quelle di Pilo e di Cnosso. La documentazione che esse offrono è limitata, perché le tavolette che ci sono state conservate (quelle cotte nell'incendio dei palazzi) rappresentano solo una piccola parte degli archivi e riguardano una documentazione mensile o al massimo annuale. Si tratta di registrazioni amministrative, relative a persone legate al palazzo, a razioni di grano o di olio, ad affitti di terre, a tributi, a offerte, a oggetti e materiali vari (lana, lino, metalli). La scrittura, la già ricordata Lineare B, proviene certamente da Creta, in quanto costituisce l'adattamento della Lineare A a un dialetto greco; essa venne decifrata nel 1 952 da Michael Ventris eJohn Chadwick. Rispetto ai modelli minoici, si nota la tendenza a collocare gli insediamenti in luoghi ben difendibili e a fortificarli: il timore di attacchi esterni è dunque ben presente rispetto a Creta. Il cuore del palazzo, il megaron, in cui si trova il focolare, è la struttura di rappresentanza del signore, il wanax (wa-na-ka); una struttura analoga, ma secondaria, è riservata al lawagetas (ra-wa-ke-ta), un capo militare il cui nome è collegato con quello del popolo in armi, lawos/ laos (ra-wo). Sia il wanax che il lawagetas sono assegnatari di una porzione di terra, il temenos (te-me-no); sotto di loro vi sono altri funzionari assegnatari di terre, i telestai (te-re-ta); sembra presente un'aristocrazia di capi militari, «compagni» del re, gli hepetai (e-qe-ta). La base produttiva è garantita da personale dipendente, che comprende il damos (da-mo: popolazione residente nelle singole unità territoriali e nei villaggi, che paga le tasse ed è dotata di una certa autonomia) e i servi o douloi (do-e-ro), ampiamente attestati. La produzione agricola (grano, olio, vino) e l'allevamento (con produzione di lana e miele) sono controllati rigidamente dal palazzo, così come l'industria tessile (che produce in abbondanza anche lino) e metallurgica. Il palazzo funge da centro di un sistema economico di tipo ridistributivo, che controlla un territorio statale ampio, in cui sono integrati principati e regni più piccoli. Le nostre informazioni migliori riguardano Pilo, località in cui tavolette e reperti archeologici forniscono una serie di dati: il regno di Pilo risulta suddiviso in due province, a loro volta divise in otto distretti guidati da un koreter (ko-re-te), che rappresenta il potere centrale. In altri casi le fonti sono lacunose o assenti, ma è comunque possibile tracciare una specie di carta politica della Grecia micenea, comprendente l'Argolide, divisa in due regni, Micene e Tirinto; la Messenia (Pilo); l'Attica (Atene); la Beozia, anch'essa divisa in due regni, Tebe e Orcomeno; la Tessaglia (Iolco). Il controllo del territorio appare più ampio che nel caso dei palazzi minoici: è stato sottolineato che ci troviamo di fronte al primo esempio di una politica a vasto raggio in Grecia, come del resto anche Tucidide mostra di sapere quando, nell'«archeologia», parla di un accrescimento della potenza greca sotto il dominio di Agamennone, segnalato dalla capacità di operare interventi comuni fuori dalla Grecia vera e propria, come la guerra di Troia (I, 8, 3 ss.). L'espansione dei Nel XIV-XIII secolo (che, come si è detto, è l'epoca di massimo sviluppo della Micenei nel Me­ civiltà micenea) i Micenei si proiettano verso l'esterno, creando progressiva­ diterraneo mente relazioni complesse e articolate, in modo sempre più sistematico, fino a raggiungere un'area geografica vastissima. Tali relazioni variano dai contatti

occasionali agli scambi sistematici di materie prime e manufatti (documentati nei due sensi sul piano archeologico), fino a forme di interscambio culturale più o meno incidenti sulle culture locali. In Asia Minore, dove si giunge, sulla costa, alla totale sovrapposizione della presenza micenea a quella minoica, rari appaiono invece i ritrovamenti nell'in­ terno, in area ittita. In ogni caso, l'ipotesi dell'identificazione degli abitanti della terra denominata Akhiyawa nei testi ittiti fra il tardo XV e la fine del XIII secolo ( 1400-1200 ca.) con gli «Achei», quindi probabilmente con gli Achei della Grecia continentale o con gruppi di Micenei stanziati nell'Egeo orientale, pur non potendo essere rigorosamente provata, va ritenuta molto probabile. I testi in questione identificano con Akhiyawa un'entità politica occidentale rispetto agli Ittiti, politicamente indipendente e dedita ad attività marinare; inoltre, le citazioni ittite sono concentrate in un'epoca che corri­ sponde alla massima potenza micenea, caratterizzata da intense relazioni con il Mediterraneo orientale. Ben testimoniate sul piano archeologico sono le relazioni con Cipro (che offre una documentazione micenea ricchissima, dovuta ad attività intense di scambio) e larea siro-palestinese, l'Egitto e la Libia; contatti con l'Occidente risultano a proposito della Sicilia e dell'Italia meridionale (Puglia, Basilicata, Calabria); vi sono indizi per includere nelle aree di navigazione micenea la Sardegna e la stessa penisola iberica. La complessità delle vie commerciali battute dai Micenei è attestata da relitti di navi contenenti lingotti di rame e di stagno e materiali provenienti da regioni diverse (Mesopotamia, Siria, Cipro, Africa), nonché ambra, spezie e derrate varie. I.: esigenza principale che spinge i Micenei sulle vie del mare è, ancora una volta, la necessità di reperire metalli, materiali preziosi come avorio e ambra, tessuti pregiati, legname per le navi, in cambio dei quali la produzione micenea offre olio, vino, manufatti di bronzo e di ceramica, tessuti di lana e di lino. Se l'idea di un vero e proprio «impero coloniale» miceneo è stata ridimensionata dalle più recenti ricerche, che hanno rilevato l'assenza di abitati di fondazione e cultura esclusivamente micenee, certo l'estensione delle rotte commerciali e la costituzione di una rete di empori resta indicativa di una grande capacità, da parte della civiltà micenea, di espandere la propria influenza e di interagire con altri soggetti nell'ambito del bacino del Mediterraneo, costruendo una significativa unità culturale.

4. L'«ETÀ OSCURA» (1 100-800 CA.) Nel corso del XIII secolo ( 13 00- 1200), i palazzi di Pilo, Micene, Tirinto, Tebe La caduta dei pa­ subiscono una prima distruzione, mentre Atene e !oleo vengono risparmiate. lazzi micenei Dopo la ricostruzione, intorno al 1200 si ha una seconda ondata di distru­ zioni: larcheologia e le tavolette testimoniano una serie di opere difensive di emergenza (fortificazioni, controllo delle coste, fabbricazione di armi) che sembrano far pensare alla percezione di un pericolo proveniente dal mare.

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Le conseguenze di queste nuove distruzioni sono molto gravi per il sistema politico, sociale ed economico che fa perno sui palazzi: l'unità culturale ca­ ratteristica del periodo minoico-miceneo va incontro a una grave frattura. I palazzi e le fortificazioni decadono e scompaiono, sostituiti da diverse e più semplici tipologie abitative; con la fine del XII secolo ( 1 1 00 ca.) l'abbandono dei siti e lo spopolamento caratterizzano la maggior parte del continente greco e delle isole, se pure con modalità e tempi diversi su base regionale. Nel corso dell'XI secolo una serie di importanti innovazioni segnala il pas­ saggio a nuove forme di civiltà: il cambiamento degli usi funerari, con la scomparsa delle tombe a tholos e a camera, sostituite da tombe individuali a fossa, e con l'introduzione dell'incinerazione; il cambiamento degli stili ceramici e soprattutto l'introduzione dello stile geometrico; il passaggio dalla metallurgia del bronzo a quella del ferro, disponibile in Grecia, diversamente dal rame e soprattutto dallo stagno necessari per la lega bronzea. Quest'ultimo passaggio, insieme alla scomparsa degli oggetti di lusso di importazione dai corredi funerari, attesta la fine dei grandi viaggi di scambio: con una significativa inversione di rotta rispetto all'età micenea, la cosiddetta «età oscura» (Dark Age) è caratterizzata da uno spiccato (anche se non generale) isolamento. La frattura cul­ Le distruzioni subite dai palazzi e i cambiamenti introdotti negli stili ceramici, tu rale dell'Età negli usi funerari e nella metallurgia sono stati collegati in passato con l'arrivo del Ferro e le sue di popoli invasori. All'ipotesi, lungamente accreditata, dell'invasione dal Nord cause di popolazioni di stirpe e dialetto dorici sembravano portare con relativa sicurezza la coincidenza tra la distribuzione linguistica dei dialetti dorici e nord-occidentali, affini tra loro, e la leggenda del ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso. Secondo Tucidide I, 12, 3 , essi sarebbero giunti nella penisola, alla guida dei Dori, ottant'anni dopo la guerra di Troia (e dunque, secondo la tradizione cronografica ellenistica che fissava la caduta di Troia al 1 1 84, alla fine del XII secolo): Dopo la guerra di Troia la Grecia fu ancora teatro di spostamenti di popoli e di colonizzazioni, così da non potersi sviluppare tranquillamente. Infatti il ritorno dei Greci da Ilio, awenuto dopo molto tempo, produsse molti cambia­ menti e generò nelle città per lo più lotte interne, in seguito alle quali gli esuli andavano a fondare nuove città. E i Beoti di ora, sessant'anni dopo la guerra di Troia, cacciati da Arne dai Tessali colonizzarono l'attuale Beozia, che prima era chiamata terra di Cadmo [. . . ]e i Dori, ottant'anni dopo, colonizzarono il Peloponneso sotto la guida degli Eraclidi. Tale ipotesi sembra però scontrarsi con la difficoltà di collegare sicuramente con i Dori innovazioni come l'incinerazione, l'uso del ferro e lo stile geome­ trico, dato che essi non risultano distinguibili, sul piano della cultura materiale, dal complesso della popolazione greca. Un'altra spiegazione per la distruzione dei palazzi micenei è stata individuata nelle scorrerie dei «Popoli del Mare», che nello stesso periodo minacciarono seriamente l'Egitto e provocarono la caduta, alla fine del XII secolo, del

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regno ittita: ma il legame di queste popolazioni con la Grecia resta del tutto ipotetico. Più probabile si è fatta allora l'ipotesi che vede nelle distruzioni la conseguenza di terremoti e incendi, seguiti da carestie che avrebbero messo in crisi il si­ stema centralizzato dell'economia palaziale. Tale economia era orientata sul commercio internazionale e quindi molto vulnerabile; la chiusura di alcune rotte commerciali potrebbe averla gravemente danneggiata; secondo alcuni, il numero eccessivo di personale da mantenere avrebbe portato a uno sfrut­ tamento spropositato delle superfici agricole utili, con notevole riduzione della produttività agricola. Ne sarebbe conseguita un'epoca di grave insta­ bilità, caratterizzata da una accentuata mobilità delle popolazioni: in questo quadro andrebbe inserita anche l' «invasione dorica», da intendere come uno spostamento di popolazioni nell'area egea più che come una vera e propria invasione. Di questi spostamenti sarebbe rimasto il ricordo nella tradizione sui «ritorni» (nostoi ) degli eroi dalla guerra di Troia e sull'instabilità che essi avrebbero provocato nel quadro insediativo della Grecia, ricordata ancora una volta da Tucidide (I, 12, 1 -3 ) . L a fine della civiltà micenea sarebbe stata così l'esito di una serie di cause convergenti, che provocarono una lenta e inesorabile recessione. A partire dalla fine del XII secolo la crisi dell'economia palaziale e l'abbandono dell'agricoltura fecero della pastorizia la principale risorsa e determinarono la riduzione e la dispersione della popolazione sul territorio; si creò così una società decentralizzata, tendente all'autosufficienza sul piano economico e caratterizzata, sul piano della civiltà, da un accentuato regionalismo, causato dall'abbandono dei viaggi di scambio e dei contatti interculturali, che si con­ trappone alla vivacità di relazioni dell'età micenea. Sul piano politico, questa società è caratterizzata da una forte instabilità e dalla competizione tra capi rivali o basileis, sulla base delle capacità personali e della pratica del dono. Ma soprattutto, la frattura tra la civiltà micenea e l'Età del Ferro è evidenziata dalla perdita delle capacità tecniche in ambito architettonico e della conoscenza della scrittura in tutta l'area egea. Le premesse per la ripresa che porterà alla fioritura della civiltà greca arcaica, La ripresa della che ci appare già ben visibile nell'VIII secolo, sono comunque rintracciabili mobilità e la «mi­ nel corso dell'età oscura e sono legate, ancora una volta, alla permanenza di grazione ionica» forme di interscambio. L'arrivo di nuove popolazioni da una parte, gli spostamenti di gruppi di Mi­ cenei alla ricerca di nuove sedi dall'altra mantennero viva la mobilità, che si riscontra anche per alcune categorie di artigiani, come ceramisti e bronzieri. Più consistenti flussi migratori sembrano identificabili in direzione est, verso la Ionia, e nord, verso la Calcidica e la Tracia: il popolamento di queste zone contribuì non poco alla ripresa sistematica dei viaggi fra IX e VIII secolo e, ben più della presenza negli empori del Levante, il cui ruolo è stato in parte ridimensionato, costituisce il presupposto del movimento coloniale dell'VIII secolo. Protagoniste di questo popolamento, e promotrici di contatti tra Greci e stranieri, furono l'Eubea (centro di scambi con l'Oriente) e l'Attica

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(particolarmente avanzata sul piano culturale, come mostrano la ceramica e la metallurgia), ma anche Creta, Rodi, Corinto, Samo. La cosiddetta «migrazione ionica», che, partendo dall 'Attica e dall'Eubea, porta al popolamento della Ionia d'Asia, nell'area tra Smirne e Mileto, si col­ loca già sullo scorcio dell'XI secolo, intorno al 1000 ca. Per Tucidide (I, 12, 4) questa migrazione, come poi la grande colonizzazione dell'VIII secolo verso l'Italia e la Sicilia, fu la conseguenza delle rinnovate condizioni di tranquillità in cui la Grecia venne a trovarsi dopo i sommovimenti legati alle vicende della cosiddetta «invasione dorica». La migrazione che attraversò l'Egeo verso la Ionia acquisì alla cultura greca le coste dell'Asia Minore e contribuì alla nascita di un'identità ionica, defi­ nitasi a quanto pare proprio in sede microasiatica, con la formazione della Dodecapoli ionica riunita intorno al santuario di Posidone a Capo Micale, il cosiddetto Panionion; in seguito, Atene si appropriò della tradizione sulla migrazione ionica, attribuendone la guida ai figli del re attico Codro (Erodoto I, 145- 147), per accreditarsi come madrepatria e paladina degli Ioni d'Asia. Analogamente, il nome degli Eoli, stanziatisi alla stessa epoca nella parte settentrionale della costa anatolica, nacque probabilmente in Asia Minore e fu applicato solo in seguito alle zone di origine dei coloni, la Beozia e la Tessaglia, in ragione delle affinità linguistiche e culturali tra l'Eolide microa­ siatica e queste zone della madrepatria. In Asia Minore i Greci realizzarono comunque una significativa omogeneità culturale, al di là delle differenziazioni di carattere linguistico; anche in questa zona, un importante ruolo identitario fu svolto dai centri santuariali, come quelli di Era a Samo, di Artemide ad Efeso e di Atena Lindia a Rodi. I santuari, luoghi La Grecia, regredita, dopo l'apertura mediterranea del periodo minoico e di incontro e di miceneo, al regionalismo dell'età oscura, torna così a imboccare, attraverso scambio culturale la ripresa della mobilità, degli scambi commerciali e dei contatti culturali, la via che porterà allo sviluppo della città e della navigazione transmarina, che Tucidide nell'«archeologia» individua acutamente come il principale indicatore di progresso della civiltà greca, che porta lo stile di vita dei Greci a differenziarsi da quello dei barbari. Merita di essere sottolineato, a questo proposito, il ruolo di incontro e di mediazione culturale svolto dai santuari, ruolo che emerge proprio nel corso dell'età oscura. Santuari microasiatici come il tempio di Era a Samo, che conteneva un gran numero di dediche di provenienza orientale, mostrano il contributo dei Greci d'Asia all 'interazione con le popolazioni non greche dell'Asia Minore. Ma i santuari cominciano a promuovere l'incontro di realtà eterogenee anche nella madrepatria, come rivela l'importanza progressivamente assunta da santuari peloponnesiaci come quello di Era Argiva o di Posidone lstmio, ma soprattutto da quelli panellenici di Olimpia e di Delfi: il primo, santuario prettamente greco e dorico, portatore di una concezione esclusiva dell'ellenismo; il secondo, invece, «oracolo degli uomini», secondo la definizione presente nell'Inno pseudomerico ad Apollo Delfico (vv. 247 ss., 287 ss.) , e aperto quindi anche a influenze straniere.

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5. L'ALTO E MEDIO ARCAISMO In gen:ere, la cronologia dell'età arcaica distingue fra alto arcaismo, tra 730 e 580, e tardo arcaismo, dal 580 alle guerre persiane. Secondo la cronologia adottata da Domenico Musti, invece, l'alto arcaismo copre il periodo che, dalla fine dell'XI secolo ( 1 000 ca.) , giunge fino all'ultimo terzo dell'VIII (730 ca.); a esso segue il medio arcaismo, che dal 730 scende fino al 580 ca. L'interesse di questa prospettiva risiede nel fatto che l'età oscura viene a essere in parte compresa nell'alto arcaismo: ne risulta illuminato il suo ruolo fondamentale, benché per noi assai sfuggente, nella formazione e nella definizione della civiltà greca. Con le prime fasi del periodo alto-arcaico, la Grecia si awia a superare la regressione determinata dalla caduta dei palazzi micenei, attraverso fenomeni complessi quali il progressivo superamento delle condizioni di isolamento, la ripresa dell'attività agricola, la crescita demografica, lo sviluppo dei centri di culto, la formazione delle prime comunità cittadine, la riscoperta della scrittura. La Grecia alto-arcaica ha ancora una spiccata caratterizzazione regionale. Sono distinguibili zone diverse: una Grecia occidentale complessivamente arretrata, priva di siti importanti, dove però, fin dal X secolo ( 1 000-900), acquisisce grande rilievo, nel Peloponneso, il santuario di Olimpia; una Grecia centrale (Tessaglia, Locride, Beozia) relativamente unitaria sul piano culturale; l'Attica, zona che in questo periodo appare molto avanzata sul piano tecnologico, nel campo della ceramica e della metallurgia del ferro, e aperta a contatti con l'Oriente; l'Eubea, ricca di ferro e quindi in posizione privilegiata, dove è assai importante il sito di Lefkandi, le cui necropoli hanno restituito materiali provenienti dal Mediterraneo orientale e costituiscono la più significativa testimonianza di interscambio commerciale fra Grecia e Oriente; infine, il Peloponneso orientale, dove acquisiscono importanza notevole centri come Corinto, Argo, Megara, Sidone, Egina, Epidauro e dove si affermano santuari come quelli di Posidone lstmio e di Era Argiva. La caratterizzazione regionale della Grecia di quest'epoca si riflette anche nella lentezza del processo di formazione del nome con cui i Greci si defi­ nivano in età storica (Hellenes: cfr. Tucidide I, 3 , 1 -3 ) . In Omero, il nome «Elleni» identifica genti della Grecia settentrionale, stanziate in Epiro o in Tessaglia; per designare i Greci nel loro insieme, Omero usa denominazioni diverse, come «Danai», «Argivi» e soprattutto «Achei». Quest'ultimo etno­ nimo, il più diffuso in assoluto, è particolarmente interessante in quanto trova riscontro nel coronimo ittita Akhiyawa e nell'etnonimo Eqwesh delle fonti egiziane. La progressiva affermazione del nome «Elleni», che può dirsi compiuta solo nel VII secolo, ormai in pieno medio arcaismo, sembra legata al fatto che esso, diversamente da «Achei», comprendeva, insieme agli Eoli e agli Ioni, anche i Dori (relegati da Omero nelle sedi della Doride originaria, a Creta e a Rodi) ed era quindi rappresentativo delle tre grandi stirpi greche.

Questioni di cro­ nologia

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LA FORMAZIONE DELLA CIVILTÀ GRECA

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Fonte: S. Settis (a cura di), I Greci. Storia cultura arte società, 4.1, Torino, 2002, pp. 4-5.

La G recia d i Omero

Da un punto di vista istituzionale, la maggior parte delle nostre notizie sulla Grecia di quest'epoca deriva dai poemi omerici. La poesia di Omero, come è noto, riflette una realtà storica stratificata, comprendente elementi dell'età micenea, della successiva età oscura e dell'epoca contemporanea alla stesura dei poemi stessi: stesura che va collocata, con ogni probabilità, in area ionica tra il IX (per l'Iliade) e l'VIII secolo (per l'Odissea). Non è questo il luogo per addentrarsi nella «questione omerica»: certo i poemi mostrano una evidente volontà arcaizzante, che propone lo stile di vita dell'età degli eroi (cioè dell'Età del Bronzo) come modello per l'aristocrazia contemporanea, ma fa eviden­ temente riferimento, sul piano istituzionale, cultuale e della vita quotidiana, a un livello cronologico assai più basso. Particolarmente stridente appare il contrasto tra il wanax miceneo e la regalità omerica dei basileis (nel miceneo qa-si-re-u indica semplicemente un generico «capo», anche di strutture mo­ deste come le corporazioni) : in Omero il re non è un sovrano assoluto, ma è un primus inter pares, con funzioni militari, religiose e giudiziarie, accanto al quale si individuano un consiglio di anziani e un'assemblea del popolo in armi; il privilegio di cui gode (gheras), per esempio nella spartizione del bottino e nell'assegnazione di terre e doni, è riconosciuto dalla comunità. La situazione istituzionale della città dei Feaci, il cui re, Alcinoo, ha accanto a sé altri 12 basileis, non appare molto diversa da quanto emerge dalla poesia di Esiodo (VIII-VII secolo), che riflette una società in cui diversi basileis esercitano, ormai prevalentemente, il ruolo di giudici. Sulla scorta di Pierre Carlier, è ragionevole ritenere che il «mondo di Odisseo» corrisponda, nelle sue grandi linee, ad alcune società greche dell'alto arcaismo. Il potere del re viene così progressivamente limitato dalla formazione di una aristocrazia (il termine significa «governo degli aristoi, dei migliori»), la cui ricchezza è basata sulla proprietà della terra e sull'allevamento: da qui denominazioni caratteristiche come gamoroi/gheomoroi (possessori di terra) , hippobotai (allevatori di cavalli) , hippeis (cavalieri), pacheis (grassi). L'aristocrazia appare suddivisa in casate (ghene) e in fratrie (phratriai), strutture basate sulla discendenza da un antenato comune e quindi organiz­ zate sulla base della parentela: il fatto che si tratti di una parentela spesso fittizia non vieta che intorno a essa si formino solide identità di carattere aggregativo, cioè legate al riconoscimento di uno o più elementi in comune. Più complesso appare il problema delle strutture, cronologicamente più re­ centi, denominate tribù (phylai: il termine è assente in Omero). Esse hanno in origine un carattere etnico e sono attestate presso le genti ioniche (con le quattro tribù degli Opleti, Argadei, Egicorei e Geleonti; ma in alcuni contesti ne sono attestate anche altre due, Bori e Enopi) e doriche (con le tre tribù degli Illei, Dimani e Panfili, menzionate dal poeta Tirteo intorno al 640) come forme di suddivisione della popolazione in ambito militare e territoriale, mentre sono assenti presso i popoli della Grecia eolica e nord­ occidentale. Mentre in passato veniva sottolineato il carattere precittadino di queste diverse strutture di aggregazione, esse vengono ora collegate con lo sviluppo della città.

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La prevalenza dell'aristocrazia, con la formazione di latifondi, la decadenza della piccola proprietà, l'indebitamento dei piccoli contadini liberi e la loro riduzione allo stato di braccianti salariati o addirittura di schiavi determina una situazione sociale difficile, accentuata dai soprusi legati a una ammini­ strazione della giustizia assai discutibile, che si riflette nell'immagine esiodea dei re giudici «divoratori di doni» ed erogatori di sentenze «storte» (Esiodo, Opere e giorni, 220-22 1 ) . Un'accelerazione particolare dei processi che conducono l a Grecia fuori Città e santuari dall'età oscura si registra in Attica, in Eubea, in Argolide, nella zona dell'Istmo, con la formazione delle prime città. La polis, da un punto di vista insediativo, presenta da un lato strutture di eredità micenea, come l'articolazione tra l'acropoli (la rocca fortificata in cui ha sede non più il palazzo del wanax, ma il tempio della divinità poliade: è questo il senso originario del termine polis, già presente in Omero) e la città bassa (asty, termine anch'esso presente in Omero), dall'altro novità nell'organizzazione del territorio, costituito dall'in­ terazione fra il centro cittadino, ancora l'asty, e la campagna coltivata, la chora, alla quale va aggiunto il territorio di confine, l' eschatid, destinato a pascolo o comunque a forme alternative di sfruttamento. Nel processo di formazione delle prime comunità cittadine, il fattore religioso si segnala come elemento primario di definizione dell'identità. Sullo scorcio dell'età oscura, lo sviluppo di luoghi di culto, di depositi votivi e di veri e propri templi appare un feno­ meno caratteristico; il culto degli eroi, che è spesso collegato a sepolture di età micenea, costituisce, da parte della comunità, un modo per definire la propria area spaziale e per affermare la proprietà ancestrale della terra. L'individuazione dello «spazio sacro» rappresenta così uno dei fenomeni più ri­ levanti del passaggio dall'età oscura ali' arcaismo. Le strutture più antiche sono rappresentate dal complesso costituito dal temenos e dall'altare a cielo aperto (il più antico altare noto, quello del tempio di Era a Samo, risale alla fine del IX secolo). In seguito si sviluppa un complesso di edifici e il santuario assume l'aspetto di un grande recinto, attraversato da una via sacra e contenente una serie di costruzioni, prima fra tutte il tempio, dimora della divinità principale e sede dell'aga/ma, la statua di culto (in origine semplici immagini in legno, denominate xoana, poi in pietra e marmo o addirittura in oro e avorio), davanti alla quale si trovava l'altare, per il culto che si svolgeva ali' aperto. La triade altare!tempio/temenos, di origine orientale e caratteristica del santuario greco «classico», si afferma nel corso dell'VIII secolo. La più antica testimonianza relativa a un tempio vero e proprio, nella sua forma monumentale, è costituita da un modellino in terracotta dell'inizio dell'VIII secolo, trovato nel tempio di Era a Peracora in Laconia, che ha forma di grande sala absidale coperta da un tetto e preceduta da un portico sostenuto da due colonne; verso la fine del secolo si impone, invece, la pianta rettangolare. A partire da questo momento, la monumentalizzazione del santuario costituisce una condizione necessaria per l'organizzazione dello spazio come luogo di mediazione con il divino e per il radicamento del culto; le divinità più coinvolte nello sviluppo dell'architettura santuariale sono Atena (soprattutto in area urbana) , Era, Apollo, Artemide.

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La scrittura

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Alla localizzazione dei santuari tra centro urbano, aree suburbane, chora e frontiere corrispondono diverse tappe dello sviluppo della città. Nella città arcaica, la posizione centrale del santuario poliade, che si riscontra per esempio per il tempio di Atena in Atene e per quello di Apollo a Corinto, è relativa­ mente rara; i santuari principali hanno spesso una collocazione suburbana o addirittura extraurbana. I templi della chora testimoniano l'appropriazione del suolo da parte della comunità e la sua trasformazione attraverso colture e insediamenti; con essi si affida alla divinità la protezione dello spazio agrario e del diritto a possederlo e sfruttarlo e si creano luoghi di integrazione tra città e campagna. I templi posti all'estremità della pianura ove si trova l'abitato, sul confine tra zona agricola ed eschatùi, costituiscono invece un'indicazione simbolica di frontiera tra zona qualificata dall'insediamento e dalle attività umane e zona indeterminata. Alcuni santuari si trovano poi in piena eschatùi, lo spazio che segna il passaggio al mondo esterno, e manifestano l'integrazione di quelle divinità che presiedono ai riti di passaggio di ragazzi e fanciulle all'età adulta (come per esempio, in Attica, Artemide Brauronia). Talora, infine, la posizione del santuario a notevole distanza dal centro della città, in zone rurali vere e proprie, è anche funzionale alla delimitazione dei confini o alla segna­ lazione simbolica del controllo del territorio (il tempio di Era Argiva segnala il controllo di Argo sull'intera Argolide; i templi di Artemide Brauronia o di Posidone al Sunio indicano l'unità dell'Attica sotto l'egida ateniese). Ai diversi fattori evolutivi fin qui ricordati, che caratterizzano l' uscita della Grecia dall'età oscura (il progressivo superamento dell'isolamento; la ripresa economica, dovuta alla massiccia espansione dell'agricoltura a danno dell'allevamento, attraverso la realizzazione di terrazze, bonifiche, disboscamenti, messa a cultura di terre marginali; la conseguente crescita demografica; lo sviluppo dei santuari e delle prime comunità cittadine) , va infine accostata l'acquisizione della scrittura alfabetica, la quale, radicalmente diversa dal sistema sillabico precedentemente impiegato, nasce, forse già alla fine del IX secolo, dall'adattamento al greco (con l'aggiunta dei segni per le vocali) dell'alfabeto fenicio (Erodoto V, 58): la più antica iscrizione greca, costituita da cinque lettere, di difficile interpretazione, rozzamente incise su un vaso proveniente dalla necropoli italica di Osteria dell'Osa nell'entroterra laziale, risale al 770 ca., mentre a partire dalla seconda metà dell'VIII secolo sono numerosi i documenti (per lo più graffiti su oggetti) provenienti da diverse zone del mondo greco (Pitecussa, Atene, Eretria, Egina, Corinto, la Beozia, Tera, Rodi). La conoscenza della scrittura era andata perduta nell'età oscura, che non aveva bisogno, in un contesto di generale regressione, di far ricorso a quei procedimenti di notazione che erano stati così importanti per la vita dei palazzi. Un ruolo fondamentale, in questo processo di acquisizione, fu svolto probabilmente dagli Eubei, presenti negli scambi tra Oriente e Occidente e in particolare nell'emporio greco di Al Mina, fondato nell'VIII secolo sulla costa siriana alla foce dell'Oronte per la ricerca dei metalli; ma anche Creta e la Ionia possono essere chiamate in causa come aree interessate al processo. La scrittura alfabetica, molto raffinata, non fu usata solo per scopi

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commerciali: essa trovò applicazione nell'uso privato (firme di vasai, epigrafi funerarie in versi, dediche agli dèi, maledizioni), nella redazione scritta di testi poetici (a cominciare dalla poesia omerica) e, infine, in ambito pubblico (codificazione delle leggi) e culturale (sviluppo di saperi nuovi rispetto a quelli tipici della civiltà orale).

5.1. ·Poleis� e stati federali Nel corso dell'VIII secolo, grosso modo, il mondo greco è interessato, come si è detto, dai processi di trasformazione caratteristici della fase di transizione e di assestamento che coincide con la nascita della polis: un fenomeno complesso, che dà alla Grecia classica il suo assetto caratteristico, consistente nella coe­ sistenza di una spiccata unità culturale (in senso etnico, linguistico, religioso, giuridico) e di un forte frazionamento politico, determinato dalla presenza di più di mille stati indipendenti, diversi per le dimensioni geografiche e la natura del territorio, per le caratteristiche socio-demografiche e insediative, per l'assetto urbanistico e monumentale, per le modalità di definizione della costituzione (politeia). Il processo di formazione della polis, che inizia prima dell'VIII secolo La fo rmazione (quando la colonizzazione implica l'esistenza di realtà cittadine) , si estende della polis per un lungo arco cronologico: alla seconda metà del VII secolo risale un'i­ scrizione cretese proveniente da Drero (ML 2), in cui si accenna a decisioni prese dalla polis e che ci offre quindi la prima attestazione sicura della città intesa come comunità politica. Tale processo presuppone alcuni fattori che segnalano il superamento delle condizioni caratteristiche dell'età oscura: la stabilità delle comunità sul territorio, lo sviluppo dell'economia agricola, la crescita demografica, il miglioramento del livello di vita. Il problema, che pure è stato posto, di «modelli» legati a contesti geopolitici particolari (l'Asia Minore, il Vicino Oriente), non deve essere enfatizzato: il fenomeno, infatti, interessa l'intera Grecia e ha un carattere non soltanto urbanistico, ma anche e soprattutto sociale. La natura complessa della polis, fenomeno urbano e soprattutto comunità civile, costituita da uomini che si riconoscono in culti e in leggi comuni, emerge già dalle diverse valenze semantiche del termine: «cittadella fortificata», «acropoli», «centro urbano», ma anche «entità statale», dotata di un centro politico, e soprattutto «comunità civica>>. La polis è definibile come una società politica strutturata intorno alla nozione di cittadinanza, nella cui formazione, più dell'assetto topografico e delle strutture urbanistiche, svolgono un ruolo primario elementi ideali come il culto poliade (che esprime, definisce e afferma l'identità della polis) e l'ideologia comunitaria (che si basa sulla nozione di koin6n o possesso comune e, insieme, di meson, spazio mediano e condiviso, terreno comune di discussione e di confronto). L'«ideologia della polis» comporta che territorio e popolazione siano sentiti come una cosa comune; che la popolazione debba partecipare alla sua gestione, come in una «società

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per azioni», secondo una felice espressione di Carmine Ampolo; che il potere debba essere esercitato per periodi definiti e a rotazione; che il suo esercizio debba essere conforme alle regole fissate dalla legge (nomos: il termine è etimologicamente legato al verbo nemein e alla nozione di «condivisione») . Proprio lassenza di simili forme di integrazione politica nelle città omeriche, pure dotate di strutture urbanistiche (mura, agord, porti, santuari: Odissea, VI, 262 ss.), ci consente di concludere per l'assenza di vere e proprie poleis in Omero. Organizzazione Il fenomeno della formazione della polis non può tuttavia prescindere dallo dello s p a z i o e sviluppo di strutture che richiedono un'adeguata organizzazione dello spazio. strutture urbani­ Con un movimento centripeto, definito «sinecismo», la realtà cittadina si or­ stiche ganizza intorno a un centro, attraverso l'aggregazione di diverse unità minori, i villaggi o komai. Tale aggregazione può avere carattere fisico e comportare trasferimento di popolazione e cambiamenti insediativi; oppure può avere carattere puramente istituzionale e lasciare sostanzialmente invariate le più antiche strutture di insediamento, come accadde nel caso di Atene. Nel centro urbano, luogo politico e religioso, hanno sede le principali strutture funzionali (il pritaneo, sede del focolare pubblico e delle magistrature; l'agord, luogo di incontro e di mercato; il bouleuterion, sede del consiglio; I' ekklesiasterion , sede dell'assemblea) e cultuali (templi, focolare comune, tomba del fonda­ tore). Significativamente, è lo «spazio religioso», cioè la porzione di territorio che la polis riserva alle manifestazioni collettive della sua religiosità, a dotarsi per primo di strutture architettoniche: gli edifici più antichi che compaiono nelle aree urbane (altari, heroa, santuari, che come si è già ricordato mostrano forme monumentali già nell'VIII secolo) affermano il primato dell'esperienza religiosa come fattore unificante della comunità, mentre solo in un secondo momento compaiono, con un'ulteriore specializzazione dello spazio civico in senso non solo religioso, ma anche politico, gli edifici di carattere più propriamente civile e amministrativo. Si tenga comunque presente che il centro urbano, protagonista del sinecismo, mantiene un rapporto di stretta dipendenza con la sua chora. Metà della po­ polazione, infatti, risiedeva nelle campagne, e Tucidide (Il, 14) ricorda che la decisione di Pericle di concentrare la popolazione all'interno delle mura cittadine all'inizio della guerra del Peloponneso fu assai male accolta dalla popolazione attica. Sul piano economico, la città greca non prescinde mai dall'attività agricola, anche in presenza di vasti interessi commerciali (come a Corinto e ad Atene); la proprietà della terra è una delle modalità della partecipazione del cittadino alla comunità, e la piccola proprietà (costituita da appezzamenti di quattro-cinque ettari) è in genere ampiamente diffusa. La terra, sfruttata in modo razionale attraverso l'integrazione della triade mediterranea (cereali, ulivo e vite) con altre culture (leguminose) e il ricorso ad alcune innovazioni tecniche (macine, presse, torchi, mulini a movimento rotatorio), costituisce un'adeguata fonte di sussistenza per il cittadino pro­ prietario. Allo stesso modo, la polis può trarre rendite dalla terra mediante l'affitto delle terre demaniali (circa il 10% del territorio) , assicurando alla città

un introito in denaro e in natura. Per la maggior parte delle città greche la chora prowede così ad assicurare il sostentamento dei cittadini (tanto i ricchi proprietari residenti in città, come l'Iscomaco protagonista dell'Economico di Senofonte, quanto i piccoli contadini che abitavano in campagna) e le risorse per far fronte alle esigenze della comunità. Tornando alla questione dell'organizzazione dello spazio, va rilevato che la presenza di un adeguato sviluppo urbanistico e architettonico non sembra aver avuto mai un ruolo significativo né nella definizione della polis in quanto tale, né nella distinzione fra poleis «grandi» e «piccole». Le fonti, infatti, mostrano indifferenza per le dimensioni spaziali e per le strutture urbanistiche: Pausania (X, 4, 1 ) ammette la definizione di polis per Panopeo, nella Focide, che pure «non ha edifici sedi di magistrature né ginnasi né un teatro né un'agord né condotte che portano l'acqua a una fontana»; mentre la misurazione della grandezza delle città in termini esclusivi di potenza politica risulta da Erodoto (I, 5) e soprattutto da Tucidide (I, 10, 2), il quale ricorda che se la polis degli Spartani venisse devastata e restassero solo i templi e le fonda­ menta degli edifici, dopo molto tempo i posteri con molta difficoltà potrebbero credere che la sua potenza eguagliasse la sua fama: eppure governa i due quinti del Peloponneso ed esercita l'egemonia sull'intera regione e su molti alleati esterni. Tuttavia, siccome la città non ha avuto il sinecismo e non ha né templi né ricchi edifici, ma è insediata per villaggi, secondo l'antico sistema della Grecia, potrebbe sembrare alquanto inferiore. Se invece lo stesso accadesse agli Ateniesi, la loro potenza sembrerebbe doppia di quel che è a causa del suo aspetto esteriore. Tale indifferenza per l'aspetto urbanistico e monumentale si comprende bene se si riflette sul valore primariamente sociale del concetto di polis: come Tuci­ dide (VII, 77, 7) fa dire all'ateniese Nicia sulla base di un topos letterario ben consolidato, «sono gli uomini a fare la polis, non mura o navi vuote di uomini». La stessa varietà che si riscontra nell'assetto esteriore delle poleis si ha anche Ordinamenti co­ nella definizione della costituzione (politeia), basata sulla nozione di apparte­ stituzionali nenza/condivisione («essere cittadini» si dice in greco metechein tes politeias, «partecipare alla politeia»). La composizione del corpo civico può essere de­ finita in modo più o meno ampio, sulla base di diversi criteri: nascita (essere figli di almeno un cittadino; in certi casi, di due cittadini), proprietà terriera, contributo militare, professione, svolgimento di un adeguato percorso di for­ mazione (come l'efebia ad Atene o l' agoghé a Sparta). Nella varietà estrema di forme, che comprende anche il caso di poleis governate autocraticamente o da governi oligarchici ristretti, la città così concepita - cioè basata sulla nozione di appartenenza e di condivisione - ha comunque in sé spinte propulsive di carattere egalitario: infatti, quanto più ciascun cittadino si sente partecipe del comune destino e a esso contribuisce fattivamente, tanto più richiede una condizione paritaria rispetto ai concittadini, quella che i Greci chiamavano isonomia («aver parte uguale»), e la partecipazione alla gestione della comu­ nità. La polis è dunque, come è stato osservato, un modello tendenzialmente

inclusivo, che tende al progressivo inserimento degli uomini liberi nell'ambito di un contesto politico paritario. All'affermazione di tendenze isonomiche nell'ambito della polis contribuì anche la cosiddetta «riforma oplitica», uno dei fattori chiamati in causa per spiegare il processo di formazione della città intesa come realtà sociale. Si tratta di una riforma militare - su cui dovremo ritornare più dettagliatamente a proposito della crisi delle aristocrazie - per cui il nucleo dell'esercito venne a essere costituito non più dalla cavalleria, ma dai fanti armati pesantemente, i cosiddetti «opliti» (il termine deriva da hopla, le «armi» che costituiscono l'armamento del fante). Il servizio nella falange oplitica era fornito dai membri della classe media, costituita da contadini liberi: combattendo insieme per la difesa della patria essi rafforzarono i loro reciproci vincoli di solidarietà e l'integrazione nella comunità (koin6n) e richiesero, di conseguenza, un trattamento paritario e una maggiore partecipazione politica. Il ruolo della riforma oplitica nella formazione della polis è stato molto discusso e alcuni hanno tentato di minimizzarlo, in base alla difficoltà di collocare cronolo­ gicamente una «riforma» che fu in realtà un processo di lunga durata. Ma l'importanza del fattore militare nei cambiamenti politici che hanno a che fare con la nascita della polis, intesa come appartenenza a una comunità in cui le prerogative politiche sono attribuite in base alla funzione militare, difficilmente può essere negata. Anche l'evoluzione del modo di combattere contribuì così a far emergere nella polis, indipendentemente dalla forma di governo, una sostanziale tendenza isonomica: tanto che «uguaglianza» diventerà una parola d'ordine sia per i cittadini della democratica Atene, che rivendicavano orgogliosamente la loro uguaglianza di diritti (isonomia) e di parola (isegoria), sia per quelli dell'oligarchica Sparta, che si definivano homoioi, «gli uguali». L'importanza della politeia nella definizione della polis può desumersi dal fatto che essa, nel IV secolo, viene caratterizzata da Isocrate come «anima della città» (psychè poleos), che «ha la stessa forza che ha l'intelletto sul corpo; decide su tutto, preserva i beni, evita gli insuccessi; da essa dipende tutto ciò che accade nelle città>> (Panatenaico, 138; dr. Areopagitico, 13-14); e da Aristotele (Politica, IV, 1 1 , 1295 a) come , forse nati da unioni extramatrimoniali tra donne spartane libere e schiavi; elementi servili sembrano coinvolti anche nella fondazione di Locri Epizefiri (680) da parte dei Locresi Ozoli. Importanti colonie in area occidentale furono Cirene, fondata da Tera in­ torno al 630, e Massalia, fondata da Focea intorno al 600: situata alla foce del Rodano, via di penetrazione per l'Europa continentale, e madre di diverse subcolonie, Massalia sostituì Etruschi e Cartaginesi negli scambi nell'area del golfo del Leone. In Oriente, Calcidesi e Corinzi colonizzarono le coste della Tracia, ricche di oro, argento, legname; Paro fondò Taso, per il controllo delle miniere della prospiciente costa tracica e della via degli Stretti; Mileto, Focea e Megara si impegnarono nella colonizzazione dell'area dell'Ellesponto e del mar Nero. La tradizione che fa capo a Strabone (XVII, 1 , 18) attribuisce ai Milesii la

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Madrepatria e co­ lonia

Conseguenze so­ ciali, economiche, culturali della co­ lonizzazione

fondazione, alla fine del VII secolo, sulla foce canopica del Nilo, dell'empo­ rio di Naucrati; Erodoto (II, 178) parla genericamente di Greci, ai quali il faraone Amasi avrebbe concesso l'area da colonizzare, e descrive Naucrati come un mercato/santuario. Nell'emporio naucratita cereali, papiro, lino, avorio venivano scambiati con vino, oli(), ceramica, argento. La spedizione destinata a fondare una colonia (apoikia) era guidata da un fondatore, l'«ecista», di cui spesso la tradizione conserva il nome e che era oggetto, dopo la morte, di un culto eroico. Suo compito era, dopo aver chiesto una sanzione religiosa all'impresa consultando l'oracolo di Delfi (il quale rivendicava una sorta di protettorato sulle iniziative coloniali), portare alla nuova destinazione il fuoco sacro tratto dal focolare pubblico della città d'origine e, una volta scelto il sito in base a diversi criteri (difendibilità, ac­ cessibilità dal mare, fertilità del suolo), distribuire la terra ai coloni, fondare i santuari, stabilire regole di convivenza e istituzioni nella nuova comunità. I coloni erano per lo più maschi, provenienti da una o più comunità; in genere erano pochi, il che poteva rendere necessario, in un secondo momento, un rincalzo coloniario (epoikia) che potenziasse la comunità sul piano demogra­ fico. Per quanto riguarda i rapporti tra madrepatria e colonia, le apoikiai di solito diventavano comunità del tutto indipendenti, mantenendo relazioni con la madrepatria solo sul piano linguistico, religioso e culturale; tali rela­ zioni venivano alimentate attraverso la creazione di un patrimonio comune di leggende, che inseriva le storie di fondazione della colonia nella tradizione mitografica della madrepatria. Isolato è il caso di Corinto, che tende invece a mantenere con le proprie colonie relazioni anche politiche, fino a urtarsi con esse, come avvenne nella ricordata guerra con Corcira del 664. La colonizzazione ebbe enormi conseguenze sulla storia della Grecia. Essa diede uno straordinario impulso alla produzione artigianale (si pensi alla dif­ fusione della ceramica corinzia), agli scambi commerciali, alla navigazione (le prime triremi furono costruite, secondo Tucidide I, 13, 2, a Corinto). La crisi delle aristocrazie terriere, dal cui potere divenuto intollerabile molti coloni cercavano scampo, la mobilità sociale e l'evoluzione in senso isonomico furono fortemente accelerate dal movimento coloniale e dalla fondazione di un grande numero di nuove comunità. La stessa diffusione della moneta, nata nel VII secolo in Asia Minore con le prime coniazioni in elettro, ma diffusasi poi a partire dal VI secolo con le coniazioni di Egina in bronzo e argento (le celebri «tartarughe»), non può essere sganciata dalla serie di fenomeni di sviluppo collegati con la colonizzazione. Come è stato riconosciuto, la moneta nasce non tanto in funzione degli scambi, quanto per uso pubblico (per la fiscalità, la retribuzione di mercenari, la fissazione di ammende, la costruzione di grandi opere) e per stabilire una situazione di equità nelle relazioni sociali, fissando con precisione il valore del lavoro e degli oggetti: rispetto ai rozzi oggetti in metallo usati in precedenza a questo scopo, essa identifica meglio il valore in quanto è garantita, sia nel peso che nella bontà della lega, dall'autorità che la conia. Tuttavia, la diffusione della moneta non poté non influire anche su fenomeni come lo sviluppo degli scambi e la mobilità sociale: dopo Egina,

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presero a battere moneta Corinto, Atene, Calcide, Eretria, Tebe, ma anche le colonie d'Occidente; al piede eginetico (g 6,16) si sostituì il piede euboico (g 4,36), che divenne il modello più diffuso. Inoltre, la colonizzazione ebbe grande importanza culturale, perché incentivò l'estensione delle conoscenze geografiche dei Greci, il contatto con altri popoli e l'estensione in tutto il Me­ diterraneo dello stile di vita cittadino (katà poleis, «per città», in opposizione a katà komas, «per villaggi») che caratterizzava l'uomo greco. Una particolare riflessione merita il rapporto dei coloni greci con le popola­ Greci e indigeni zioni indigene locali. La visione della colonizzazione come fenomeno della in area coloniale mobilità mediterranea arcaica, svoltosi in un clima di interazione sostanzial­ mente positiva tra Greci e indigeni, rischia di non tenere sufficientemente conto del fatto che le fonti attestano un accentuato ellenocentrismo e una forte convinzione della superiorità greca sugli indigeni. Proprio su questa base alcuni hanno colto nel confronto Greci/indigeni, verificatosi in area coloniale nell'VIII-VII secolo, uno degli stimoli per la definizione di quell'identità greca di carattere «oppositivo» che appare ormai affermata nel V secolo e che viene di solito collegata con le guerre persiane. In ogni caso, gli atteggiamenti ellenocentrici presenti nelle fonti intendono legittimare la colonizzazione stessa e i fenomeni che la accompagnarono, che mostrano talora il carattere di scontro violento (come accadde, per esempio, nella fondazione di Cuma o di Siracusa), talora di incontro pacifico (come si verificò a Cirene). Forme di violenza nell'occupazione dei siti e nella successiva espansione nel retroterra sono ampiamente attestate, accanto a forme di resistenza indigena anche molto forti; ma altrettanto ben attestate sono correnti di reciproco scambio culturale (per fare un esempio, i Siculi, ridotti in stato di servitù dall'aristocrazia dei gamoroi di Siracusa e duramente combattuti dal tiranno Ippocrate di Gela, ebbero poi rapporti generalmente più distesi con la democrazia siracusana e con il tiranno Dionisio I). In quasi tutte le aree coloniali, il contatto con i Greci produsse tra gli indigeni nuove forme di organizzazione sociale, politica e militare: ne derivarono una costante conflittualità, che produsse fenomeni di vera e propria «decolonizza­ zione» (come nell'acquisizione al mondo italico delle colonie greche dell'Italia meridionale), ma anche esperienze di incontro, di convivenza e di reciproca influenza tra Greci e indigeni (soprattutto negli empori commerciali, luogo privilegiato di incontro e di scambio). Anche attraverso i matrimoni misti, frequenti in terra coloniale in quanto i coloni non arrivavano in genere con la famiglia, si produsse in molte aree periferiche un processo biunivoco di assimilazione etnico-culturale. Nonostante i timori espressi dagli intellettuali greci, la progressiva «barbarizzazione» delle colonie greche nel campo della lingua e dei costumi venne in genere efficacemente controbilanciata dalla ellenizzazione degli indigeni, producendo una koiné culturale capace di realiz­ zare, tra i diversi elementi etnici delle zone interessate, livelli di interscambio impensabili nella assai meno aperta Grecia metropolitana.

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5.4. La legislazione Sotto i regimi aristocratici, i detentori del potere giudiziario erano depositari della legge in quanto esperti delle themistes, le norme di origine divina conser­ vate da una tradizione esclusivamente orale. L'amministrazione della giustizia da parte degli aristocratici era così sottratta a ogni controllo e diventava spesso espressione del loro prepotere, come attestano le lamentele contro i giudici ingiusti e corrotti che emergono dalle pagine esiodee. La crisi delle aristocrazie fece emergere così il bisogno di procedere a una codificazione delle leggi, resa possibile dall'acquisizione della scrittura e capace di garantire una maggiore certezza del diritto anche ai non privilegiati. Legislatori di area I più antichi interventi di carattere legislativo si registrano in area coloniale c o l o n i a l e : Z a ­ (anche se la tradizione parla di una legislazione del Bacchiade Filolao a Tebe leuco, Caronda, nella seconda metà dell'VIII secolo) , perché in comunità nuove più facilmente Diode si verificarono le condizioni per la fissazione di norme condivise e più forte era sentita l'esigenza di garanzie egalitarie: abbiamo così i nomi di Zaleuco di Locri, di Caronda di Catania, di Diocle di Siracusa. Della storicità di alcuni legislatori si è dubitato in passato, ritenendoli, anche a motivo dei loro nomi (Zaleuco, lo «splendente»; Licurgo, il «facitore di luce»), antiche divinità; di recente, si è tentato di ascrivere la codificazione delle leggi non all'iniziativa di singoli, ma alle comunità, che l'avrebbero poi attribuita a figure remote ed autorevoli, come gli antichi legislatori dell'Occidente e, nella madrepatria, a Licurgo di Sparta e a Dracone di Atene. Lo stato della tradizione, che offre dati biografici incerti e caratterizzati da sospetti elementi topici, può giustificare qualche scetticismo: ma non pare prudente respingere integralmente le notizie sull'attività dei legislatori, uno dei quali, Solone, è figura certamente storica, nonostante la tradizione che lo riguarda sia altrettanto sospetta. Secondo la tradizione, l'attività di Zaleuco di Locri risalirebbe alla seconda metà del VII secolo; Caronda di Catania sarebbe stato suo discepolo. Za­ leuco avrebbe legiferato per i Locresi Epizefiri, ispirandosi ali' autorevole modello cretese; caratteristiche della sua legislazione sarebbero state la limitazione della discrezionalità dei giudici e l'adozione di un linguaggio semplice e accessibile. Caronda avrebbe invece redatto un codice molto puntuale, che mitigava la prassi giudiziaria introducendo pene pecuniarie anche per reati di sangue. Tali pene erano graduate in base al patrimonio, il che sembra implicare una costituzione di tipo timocratico, con la divisione della popolazione in classi di censo. Regimi di questo genere sono attestati in diverse città calcidesi e confermano la tradizione che parla di un'adozione generalizzata delle leggi di Caronda in area calcidese: si tratta, con ogni probabilità, di quelle «istituzioni calcidesi» (chalkidikà nomima) di cui parla Tucidide (VI, 5 , 1 ) a proposito della fondazione di lmera. Poco sappiamo del codice di Diocle, se non che doveva essere molto arcaico, dato che già nel V secolo era ritenuto di difficile interpretazione; anch'esso fu adottato in diverse città della Sicilia.

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Un ruolo particolare tra i legislatori della madrepatria ha lo spartano Li­ Licurgo di Sparta curgo, la cui figura è da ritenere leggendaria. Le sue leggi, ispirate secondo la tradizione da Apollo e non prive di contatti con il mondo cretese, sono di datazione incerta (fra XI e VII secolo) e vanno ritenute, probabilmente, il prodotto di una lunga evoluzione. La legislazione di Licurgo, la cosiddetta rhetra, si occupava prevalentemente di definire i poteri delle diverse com­ ponenti dello stato spartano ed era all'origine del particolare ordinamento che caratterizzava Sparta e che era conosciuto come kosmos, l'«ordine» per eccellenza; essa non venne mai messa per iscritto, ma rifluì in parte nella Eu­ nomia del poeta Tirteo. Tucidide (I, 18, 1 ) attribuisce all a buona costituzione (eunomia) con cui Sparta si sarebbe governata a partire dalla fine del IX secolo il superamento dei dissidi interni e l'immunità dal fenomeno della tirannide che caratterizzarono invece le altre città greche. Alla fine del VII secolo fu attivo in Atene il legislatore Dracone (anno attico Dracone di Atene 62110: questo sistema di datazione è dovuto al fatto che l'anno attico iniziava in luglio, e pertanto ogni anno arcontale ateniese copre i secondi sei mesi di un anno giuliano e i primi sei del successivo). Oltre a una legislazione di cui si ricordava la particolare severità, egli avrebbe redatto anche una costituzione, i cui elementi (per esempio, l'esistenza di un consiglio dei Quattrocento) sono molto incerti perché attestati da una tradizione di IV secolo, fortemente influenzata dalla propaganda oligarchica. Meglio nota è invece la legge draco­ niana sull'omicidio, conservataci da un'iscrizione (IG P, 304) dell'anno 409/8, che ne costituisce la ripubblicazione. La legge sottraeva spazio al regime della vendetta privata, lasciando alla famiglia del morto l'iniziativa dell'azione pe­ nale, ma allo stato il diritto di irrogare la pena; mitigava le pene, cercando di ridurre al minimo l'applicazione della pena di morte e incoraggiando la tran­ sazione; soprattutto, distingueva i tipi di omicidio e le relative pene sulla base dell'atteggiamento soggettivo dell'omicida e, quindi, del grado di volontarietà dell'azione. Si trattò, quindi, di un rivoluzionario intervento nell'ambito del diritto penale, che tentava di superare i rigori dell'antica prassi della vendetta familiare riservando alla polis il ruolo principale, in una regolamentazione più attenta e prudente dei casi di omicidio.

5,5, la tirannide La codificazione delle leggi fu importante per allentare le tensioni sociali col­ legate con la crisi delle aristocrazie, ma non risolutiva. Alcuni intraprendenti capi politici seppero approfittare dei pennanenti contrasti sociali e politici e si misero alla guida del popolo contro gli aristocratici, acquisendo un importante ruolo personale. Alcuni di loro svolsero la funzione di mediatori tra interessi diversi, di «pacificatori» (i cosiddetti aisymnetai o diallaktai), e deposero il potere una volta realizzato il loro obiettivo (è il caso, di cui si parlerà in seguito più a fondo, di Solone in Atene); altri mantennero invece il potere e si fecero

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CA!'rrOl.O

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tiranni. Il termine «tiranno», forse di origine microasiatica, significa «signore» e identifica colui che esercita un potere assoluto; già nel VII secolo la parola assume una connotazione negativa, alludendo a un potere esercitato senza il consenso dei cittadini; in Erodoto (III, 80) appare ormai codificata l'imma­ gine topica del tiranno come incarnazione dell'illegalità (anomia), che deve molto sia alla tradizione aristocratica, sia, ormai, all 'opposizione tirannide/ democrazia caratteristica della cultura ateniese. Modelli di tiran­ Aristotele (Politica, V, 1305 a ss.), interrogandosi sull'origine dei governi tiran­ nide nici, individua diversi modelli: quello del tiranno demagogo che diviene tale appoggiandosi al popolo; quello del tiranno ex magistrato, che a partire da un ruolo istituzionale conquista un potere eccezionale; quello, infine, del tiranno il cui potere nasce dalla degenerazione di una monarchia o di una oligarchia. I moderni si sono interrogati sugli interessi che i tiranni rappresentano: al­ cuni hanno valorizzato il rapporto con i nuovi ceti artigiani e mercantili, altri quello con l'elemento militare oplitico e quindi con il ceto medio agrario. In realtà è difficile generalizzare, perché il fenomeno della tirannide interpreta e aggrega spinte diverse: la lotta contro le aristocrazie (dalle quali spesso gli stessi tiranni provengono, pur appartenendo a frange emarginate), il riscatto dei contadini poveri e indebitati, la nascita di nuove realtà economiche e di nuovi gruppi sociali. La tirannide come In genere i tiranni non intervennero sulla situazione costituzionale delle città, fattore evolutivo che rimase invariata; essi agirono piuttosto sulla situazione politica e sociale, della polis operando nel senso di un'integrazione degli esclusi attraverso la ridistribu­ zione della ricchezza, ottenuta attraverso una politica di opere pubbliche, di incentivazione dei traffici e di promozione della potenza politica e militare della città, anche attraverso le relazioni internazionali; non a caso, Tucidide (I, 13) inserisce la tirannide tra i fattori di sviluppo della Grecia arcaica, nel contesto di un superamento della debolezza e dell'isolamento originari favorito dall a crescita della potenza politico-militare (dynamis), della ricchezza, delle rendite provenienti dai tributi, della marineria. Esemplifica bene la valutazione di Tucidide la vicenda di Policrate, tiranno di Samo negli anni 538-522; rampollo di un'aristocrazia di proprietari terrieri che praticava il commercio e la pirateria, egli, nell'intento di promuovere gli interessi del popolo contro gli aristocratici, fece di Samo una grande potenza marittima, stabilendo relazioni con l'Egitto del faraone Amasi e con la Persia di Cambise; Erodoto (III, 122) lo considera il primo thalassokrator dei tempi storici. Interessante è anche la politica religiosa dei tiranni, che appare complessiva­ mente incline alla valorizzazione di culti panellenici e rurali rispetto a quelli poliadi e di culti misterici di carattere non gentilizio: ciò conferma da una parte gli orientamenti antiaristocratici della tirannide, dall'altra il suo inserirsi nella prospettiva internazionale valorizzata da Tucidide. Anche se non furono veri e propri riformatori sociali, i tiranni contribuirono così all'evoluzione della società verso forme più egalitarie, accelerando la crisi dei regimi aristocratici. Per questo motivo la tradizione, per lo più di marca

A_ GllELJ _ _ _ 4= 9_. LA FORMAZIONE DEllA _ _ _

aristocratica, li ricorda negativamente, oscurando quegli aspetti positivi del fenomeno di cui alcune fonti hanno tuttavia conservato traccia, per esempio nella tradizione più antica sulla tirannide di Pisistrato in Atene, di cui si parlerà in seguito più dettagliatamente. Nella madrepatria greca, le tirannidi più importanti sorsero nelle città dell'I­ stmo di Corinto, caratterizzate, grazie alla posizione che favoriva i traffici, da maggiore ricchezza e dinamicità. A Corinto si affermò, nel 658/7 secondo la cronologia tradizionale, la tiran­ nide dei Cipselidi, che ci è relativamente ben nota grazie alla testimonianza di Erodoto, e durò fino al 585/4 (la cronologia, tuttavia, è assai discussa a causa dell'incongruenza della tradizione, alcuni elementi della quale riportano l'attività di Periandro, figlio di Cipselo, alla seconda metà del VII secolo: la tirannide andrebbe così collocata tra il 620-610 e il 540 circa). Il capostipite, Cipselo (658/7-628/7), sottrasse il potere all'aristocrazia dei Bacchiadi, una famiglia di circa 200 membri che cercava di conservare il potere praticando l'endogamia e detenendo l'esclusiva delle cariche pubbliche, e la cui ricchezza si basava sul possesso della terra e sul controllo fiscale del commercio. Cipselo divenne tiranno attraverso la magistratura militare di polemarco, in un mo­ mento in cui Corinto doveva contrastare la crescita della potenza delle rivali Argo e Megara, con l'aiuto di altri aristocratici che mal sopportavano il governo dei Bacchiadi. Corinto era già da tempo awiata sulle rotte coloniali: Cipselo procedette a confische di terre, ma non realizzò una vera ridistribuzione della proprietà, tanto che le spedizioni coloniali continuarono sotto di lui, a motivo della forte crescita demografica, nell'area dello Ionio, con le fondazioni di Leucade, Ambracia, Anattorio. A Cipselo successe il figlio Periandro (628/7588/7 circa), il cui governo ebbe una forte impronta antiaristocratica, come testimoniano le leggi suntuarie, miranti a reprimere il lusso, e la politica di opere pubbliche; ritenuto dapprima, come il padre, un buon governante, tanto da essere annoverato tra i Sette Saggi, in seguito divenne invece oggetto di una vera e propria «leggenda nera». Sempre nella zona dell'Istmo, a Sicione si affermò intorno al 650 la dinastia degli Ortagoridi, il cui governo ebbe un carattere più spiccatamente popo­ lare. L'esponente più significativo della dinastia, Clistene (600-570 circa) , fu autore di una riforma delle tribù consistente nel ribattezzare le tre tribù doriche tradizionali con nomi di animali («maiali», «asini» e «porci») e nel creare una quarta tribù (quella degli archelaoi, «dominatori del popolo»), in cui furono inseriti gli Ortagoridi stessi. La riforma è stata spesso ritenuta di carattere antidorico, ma alcuni sostengono che sia stata dettata, più che da tensioni etniche, da esigenze militari e di sviluppo territoriale; considerando che nelle aree di insediamento dorico sono presenti sperequazioni sociali dovute alla sottomissione degli antichi abitanti da parte di invasori, l'ipotesi che Clistene abbia inteso intervenire su queste disuguaglianze non va esclusa. Clistene svolse anche un'attiva politica estera, in senso ostile ad Argo in area peloponnesiaca e, a livello panellenico, inserendosi, con la prima guerra sacra, nella grande politica internazionale, a difesa delle rotte del golfo di Corinto.

I Bacchiadi e i Cipselidi di Corinto

Clistene di S i ­ cione e Teagene di Megara

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CAPITOLO 1

Riprendendo alcuni aspetti dello stile di vita aristocratico, Clistene promosse la propria immagine in Grecia partecipando alle feste panelleniche e intessendo rapporti con grandi casate straniere, come rivela il matrimonio della figlia Agariste con l'ateniese Megacle, della grande famiglia degli Alcmeonidi. La dinastia ortagoride venne rovesciata intorno al 550 dagli Spartani. Ancora sull'Istmo va menzionata, infine, la tirannide di Teagene di Megara, un aristocratico divenuto capo del popolo e poi tiranno; intorno al 630, secondo la cronologia tradizionale, Teagene appoggiò il genero Cilone, che tentava di farsi tiranno in Atene; poco dopo il fallimento dell'impresa di Cilone il regime fu rovesciato e sostituito da un'oligarchia. Se però, come è stato proposto, la vicenda di Cilone va riportata agli inizi del VI secolo, anche la data della tirannide di Teagene deve slittare di conseguenza. La tirannide in La tirannide assunse caratteristiche parzialmente diverse nelle varie zone Asia Minore e in della Grecia. In Asia Minore, tiranni come il celebre Trasibulo di Mileto Occidente erano stati ora nemici, ora alleati dei re di Lidia; dopo la conquista persiana, i tiranni di quest'area furono spesso sostenuti dalla Persia, in quanto garanti del regolare pagamento del tributo che il Re richiedeva a quanti risiedevano nel territorio del suo impero. In Occidente, il fenomeno della tirannide non fu limitato all'età arcaica e fu legato all'instabilità politica e sociale delle città coloniali e, in Sicilia, alla presenza incombente del pericolo cartaginese. Il più antico dei tiranni sicelioti fu Panezio di Leontini, salito al potere nel 615/4 guidando il popolo contro i cavalieri, e dunque tiranno «demagogo»; un tiranno «pacificatore», chiamato a mediare tra le diverse componenti etniche della città, fu forse piuttosto Falaride di Agrigento (572-556), anch'egli oggetto di una consolidata «leggenda nera» che lo dipingeva come violento e crudele. Tiranni filopunici (corrispondenti ai tiranni filopersiani d'Asia Minore) sono attestati, nel VI secolo, a Selinunte e, più tardi, a Imera, entrambe città «di frontiera» della Sicilia occidentale, a ridosso della zona d'influenza cartaginese. Con l'inizio del V secolo si afferma invece, a partire da Ippocrate di Gela (498/7-49110), la tipica tirannide siceliota, autocratica e imperialista, incapace di mantenersi entro i ristretti confini della polis e protesa alla costruzione di estesi stati di carattere territoriale: un fenomeno che caratterizzerà la Sicilia greca anche nel corso dell'età classica e sul quale dovremo dunque ritornare.

5.6. Forme di coordinamento internazionale: leghe sacre e alleanze

militari

L'estrema frammentazione del mondo politico greco rese fin dall'inizio ne­ cessarie forme di collaborazione tra i diversi stati: a partire da Tucidide, che nell'«archeologia» ricorda come i Greci non facessero spedizioni comuni, su piede di parità, in territorio straniero per aumentare la propria potenza, ma preferissero farsi guerra tra vicini (I, 15, 2-3), la tradizione sottolinea

LA FORMAZIONE DEllA CMII

insistentemente il collegamento tra la divisione interna del mondo greco e la sua debolezza politica, individuando, per contro, nella capacità di agire in comune un elemento di sviluppo e di rafforzamento. I Greci si videro perciò costretti a elaborare formule capaci di superare l'individualismo con cui le poleis concepivano e vivevano la loro dimensione politica. Un primo tentativo fu quello delle anfizionie, o leghe sacre di popoli vicini, che si riconoscevano in un culto comune; secondo Strabone (IX, 3 , 6), all'origine di queste esperienze vi fu il fatto che popoli e città vicini, bisognosi del reciproco aiuto, presero a celebrare insieme feste e incontri, dai quali si sviluppò un legame di amicizia. Alcune di esse ebbero un carattere spiccatamente etnico e culturale, come l'anfizionia ionica di Delo, intorno al tempio di Apollo, ricordata nell'Inno pseudomerico ad Apollo Delio (vv. 146 ss.); altre ebbero carattere locale, come quella che riuniva le popolazioni affacciate sul golfo Saronico, intorno al tempio di Posidone a Calauria. Un carattere panellenico ebbe, invece, l' Anfizionia per eccellenza, quella delfico-pilaica, una lega sacra di 12 popoli: Tessali, Focesi, Dori della Doride e del Peloponneso (questi ultimi rappresentati da Sparta), Ioni dell'Eubea, della Ionia e dell'Attica (questi ultimi rappresentati da Atene: veniva così riconosciuto, anche in ambito etnico, il particolare sviluppo cittadino del mondo dorico e ionico), Beoti, Achei Ftioti, Mali-Etei, Perrebi, Dolopi, Ma­ gneti, Eniani, Locresi. Essa si riuniva intorno al culto di Apollo a Delfi e di Demetra ad Antela (alle Termopili o Pylai: di qui il nome di delfico-pilaica). Ogni popolo veniva rappresentato, nelle riunioni che si tenevano due volte all'anno, in primavera e in autunno, da due ieromnemoni, mentre le poleis, non rappresentate, inviavano osservatori denominati pilagori. L'Anfizionia delfico-pilaica costituì, nel corso di molte fasi significative della storia greca, l'unico organismo panellenico capace di operare stabilmente e di fornire gli strumenti per un'azione comune: primo fra tutti la «guerra sacra», che poteva essere dichiarata dagli Anfizioni contro i violatori di norme anfizioniche di­ verse, e che si prestò in molti casi a patenti utilizzazioni politiche. L'Anfizionia fu sovente dilaniata dal tentativo di singole forze greche di egemonizzare la lega sacra e di mantenere sotto il proprio diretto controllo il santuario delfico, sia per le ricchezze che vi erano depositate (nei tempietti denominati «tesori>> eretti dalle diverse comunità), sia per la possibilità di utilizzare propagandi­ sticamente l'oracolo o anche semplicemente l'autorità morale promanante dal centro santuariale. Fra tali forze possiamo annoverare poleis come Atene, Sparta o Tebe ed ethne come quello dei Tessali, che con i loro «perieci» (i piccoli popoli stanziati ai confini della Tessaglia che si trovavano sotto la sua influenza: Achei Ftioti, Mali, Etei, Perrebi, Dolopi, Magneti, Eniani) costitui­ vano l'originaria anfizionia di Antela e che, dopo l' inglobamento del santuario di Apollo, detenevano la maggioranza nel sinedrio, o quello dei Focesi, nel cui territorio si trovava Delfi. Un tentativo su basi diverse, prive di immediati risvolti sacrali, fu quello delle leghe militari o symmachiai, di natura originariamente difensiva, nelle quali un gruppo di poleis riconosceva volontariamente la guida («egemonia») di

GilEC.A

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Le leghe sacre o anfizionie

Le leghe militari o simmachie

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CAPITOLO

1

un'altra polis (o anche, a partire dal IV secolo, di un singolo individuo): a essa venivano delegati il comando in guerra e la responsabilità di organizzare l'attività militare comune, in caso di attacco a uno degli stati membri. Di questa natura furono la Lega di Corinto, costituita nel 481 dai Greci decisi a contrastare l'invasione dei Persiani; la Lega del Peloponneso, che riuniva diversi stati peloponnesiaci sotto l'egemonia di Sparta; le due leghe navali costituite sotto la guida di Atene nel V (Lega delio-attica) e nel IV secolo (Seconda lega ateniese). In sé il concetto di egemonia, che originariamente implica solo il comando in guerra, volontariamente ceduto dagli alleati alla città definita appunto «ege­ mone», ha carattere strettamente tecnico ed è perfettamente compatibile con il principio dell'autonomia delle poleis: il fatto di detenere l'egemonia, infatti, non implica una condizione di superiorità. Tucidide (I, 120, 1), a proposito della Lega del Peloponneso, fa dire ai Corinzi che compito dell'egemone è am­ ministrare i propri interessi sulla base dell'uguaglianza di diritti rispetto agli alleati, riservando una cura particolare agli interessi comuni: il rapporto tra egemone e alleati era dunque impostato su un'attenta mediazione tra interesse del singolo stato e interesse dell'intera lega. Tuttavia, il ruolo dell'egemone nell'ambito delle leghe può cambiare, mutando la sostanza della relazione tra egemone e alleati e, con essa, anche la natura dell'alleanza. Da alleanza di tipo difensivo, su piede di parità (epì isois kai homoiois), in cui l'autonomia dei singoli stati membri è rispettata e i contraenti sono obbligati all'intervento armato in favore dell'egemone o di un membro della lega solo in caso di aggres­ sione, o comunque in seguito a una decisione comune degli alleati, essa può mutarsi in alleanza offensiva e difensiva, sbilanciata in favore dell'egemone, in cui gli stati membri sono costretti a condividere integralmente la politica estera dell'egemone, rinunciando ad averne una propria (il greco esprime questa situazione con la formula «avere gli stessi amici e gli stessi nemici»). In questo caso, l'autonomia e l' eleutheria delle città alleate vengono gravemente lese dall'egemone, il cui interesse viene a prevalere su quello comune. La tendenza delle poleis egemoni a utilizzare a proprio vantaggio le leghe militari, provocando uno sbilanciamento del rapporto con gli alleati, si fece sentire costantemente nell'ambito della storia greca, riducendo sensibilmente il valore di queste strutture per la realizzazione di un efficace coordinamento dei Greci fra loro. Spesso le leghe militari, pur nate su un piano paritario, degenerarono in strutture egemoniche di carattere tirannico, in cui all' ori­ ginaria impostazione difensiva si sostituì la costrizione a seguire l'egemone in guerra in ogni caso, indipendentemente da attacchi esterni (l'accusa di obbligare gli alleati ad «avere gli stessi amici e gli stessi nemici», portata contro Atene nel V secolo, investe, a partire dagli inizi del IV, anche Sparta, >, 34 (1985), pp. 387-43 1; M.D. Campanile, La vita cittadina nell'età ellenistica, in Settis (a cura di), I Greci. Storia cultura arte società, 2.III, cit., pp. 379-403 ; R. FOrtsch, /;immagine della città e l'immagine del cittadino, ibidem, pp. 405-465; M. Mari, La tradizione delle libere «poleis»

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terre, insediamenti e persone nell'Anatolia ellenistica. Documenti recenti e problemi antichi, in «Dike», 4 (2001), pp. 233-255. • Aspetti sociali: C. Franco, La società ellenistica, in Storia d'Europa e del Mediter­ raneo. Il mondo antico, III. I.:Ecumene romana, V. La res publica e il Mediterraneo,

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Attalidi: B. Virgilio, Gli Attalidi di Pergamo, Pisa, 1993 .

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' ----- ALESSANDRO E L B.IDllSMO 273

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e antichità classiche. Quaderni ticinesi», 15 (1986), pp. 13 1 - 153 . • Cleonimo: L. Braccesi, I.:avventura di Cleonimo. A Venezia prima di Venezia, Padova, 1990. • Spedizione di Pirro in Sicilia: V. La Bua, La spedizione di Pirro in Sicilia, in «Miscellanea greca e romana», 7 (1980), pp. 179-254. • Ierone II di Siracusa: G. De Sensi, Ierone II. Un monarca ellenistico in Sicilia, Palermo, 1977; Ead., La Sicilia dal 289 al 210 a. C. , in La Sicilia antica, 11. 1 , Napoli, 1980, pp. 343-3 70; A.M. Prestianni Giallombardo, Aspetti istituzionali e segni di regalità della basileia di Ierone II, in «Atti dell'Accademia Peloritana», 69 ( 1993 ) , Suppi. 1 , pp. 495 -509. • Regalità in ambito siceliota: S.N. Consolo Langher, Aspetti giuridici del potere regale in Sicilia. Diritto successorio, trasformazioni socio-culturali e agrarie e natura e ruolo della monarchia da Agatocle a Cerone II, in Origine e incontri di culture nell'antichità. Magna Grecia e Sicilia, Atti dell'Incontro di studi, Messina, 2-4

dicembre 1996, Messina, 1999, pp. 3 3 1 -349.

P E R C O R S O •

D I

A U T O V E R I F I C A

Il progetto politico di Alessandro e i suoi oppositori, greci e macedoni.

• Il

complesso periodo dalla morte di Alessandro alla battaglia di Ipso.



Stati territoriali, federazioni e città in età ellenistica.



Regno di Macedonia, federazioni acaica ed etolica e città greche.



La Sicilia da Agatocle a Ierone II.

La Grecia e Roma

In questo capitolo: •

Le guerre illiriche



La prima guerra macedonica (215-205)

• •

La seconda guerra macedonica (200-196)

La guerra siriaca (192-188)



La terza guerra macedonica (171-168)



La «quarta guerra macedonica» e la guerra acaica



L'ordinamento provinciale

Polibio scrisse le sue Storie per «conoscere in che modo e con quale costitu­ zione i Romani riuscirono, in meno di cinquantatré anni, a vincere e a ridurre sotto il loro dominio quasi l'intero mondo conosciuto, cosa mai accaduta in passato» (I, 1 , 5). I cinquantatré anni di cui parla lo storico acheo sono quelli che vanno dal 220 al 167, dalla guerra annibalica alla sottomissione della Macedonia. Polibio riteneva che i Romani, in questo arco di tempo, aves­ sero elaborato e sistematicamente realizzato un piano di espansione avente come obiettivo la progressiva unificazione dell'ecumene. Egli fu dunque, in un certo senso, il primo a porsi il problema, tanto dibattuto, del cosiddetto «imperialismo» romano. Negli ultimi decenni la questione è stata ampiamente ridiscussa, ora revo­ cando in dubbio la possibilità stessa di utilizzare con riferimento alla storia romana il concetto di «imperialismo», ora invece riaffermando il carattere imperialistico della politica romana e contestando i fondamenti della teoria dell'«imperialismo difensivo», secondo cui Roma si sarebbe impegnata in Oriente per sventare le minacce che da quell'area provenivano effettivamente o che come tali venivano percepite, sulla base della nozione di guerra preventiva. La discussione ha condotto a un equilibrato ridimensionamento della teoria imperialistica. La reale incidenza della preoccupazione difensiva nella condotta

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CAPITOLO 6

romana, la presenza di una forte componente etica nella decisione politica relativa all'entrata in guerra, il peso di motivi ideali come quello, celeberrimo e troppo spesso ridotto al livello di puro pretesto, della libertà dei Greci, e di disposizioni «culturali» come il filellenismo sembrano, infatti, da ammettere. Allo stesso modo, Roma svolse una coerente politica di non annessione e di «clientela» nei confronti della Grecia e dell'Oriente ellenistico, allo scopo di garantire il mantenimento di un equilibrio politico generale: la realizzazione di questo equilibrio va quindi ritenuta il vero obiettivo del dominio romano fino alla fondazione della provincia di Macedonia e conservò anche in seguito, per una parte della classe dirigente romana, una sua validità, pur scontrandosi con l'emergere di una mentalità espansionistica nei gruppi finanziari e commerciali, nelle masse meno abbienti e in coloro che si facevano sostenitori delle loro ri­ vendicazioni. L'incidenza dei fattori economici, del resto, non va soprawalutata, giacché, se la conquista apportò indubbi vantaggi economici, non fu però, a quanto sembra, una politica economica a guidare la condotta romana. Un irrigidimento della politica romana e una progressiva affermazione dell'u­ tilitarismo, con la spregiudicata accettazione dell'impero e dei suoi vantaggi e con il passaggio da una fase propriamente «imperialistica», sembrano da individuare a partire dal 167 o addirittura dal 172. Tale svolta fu del resto già colta dalla tradizione antica, che indicava nella guerra contro Perseo il momento dell'affermazione, peraltro non incontestata, di una nuova condotta politica, la nova sapientia di cui parla Livio (XLII, 47, 2-9).

1 . LE GUERRE ILLlRICHE L'intervento romano in Illiria costituì il primo passaggio dell'Adriatico com­ piuto in armi dai Romani e offrì la prima occasione di interventi diplomatici presso città greche (Polibio Il, 12, 7 ) . Le sue motivazioni sono state diver­ samente valutate. È stato posto l'accento soprattutto su aspetti di carattere economico, come il desiderio di proteggere i commerci dei mercanti italici in Adriatico; ma sono state prese in considerazione anche questioni più stretta­ mente politiche, collegate con la minaccia costituita dalla possibile formazione di un forte stato illirico. Una valutazione equilibrata deve, più probabilmente, tenere in considerazione l'incidenza di fattori diversi e concomitanti.

1.1. La prima guerra illirica (229-228) In espansione fin dal 240 sotto la guida del re Agrone, gli Illiri praticavano la pirateria in Adriatico disturbando seriamente i commerci dei mercanti italici. Nel 23 1 il loro accordo con la Macedonia di Demetrio Il, in funzione antietolica, ne ripropose la minaccia sulle coste balcaniche. Infine, nel 230, essi giunsero a impadronirsi della capitale epirota, Fenice, poi di Corcira e

LA GRECIA E

misero l'assedio a Epidamno (Durazzo) e a Issa, minacciando l'intero Adria­ tico meridionale. I Romani, sollecitati nel 230 dalle lamentele dei mercanti italici e forse, se­ condo una tradizione dubbia, da un appello degli Issei, inviarono alla vedova di Agrone, la regina Teuta, un'ambasceria composta da Lucio e Gaio Corun­ canio: ma l'iniziativa diplomatica non ebbe successo e anzi uno dei delegati venne ucciso. Il fatto decise Roma all'intervento, che awenne nel successivo 229: con l'appoggio del dinasta di Faro, Demetrio, le forze militari romane (peraltro notevoli: 200 navi, 20.000 fanti e 2.000 cavalieri) guidate dai consoli Gneo Fulvio Centumalo e Lucio Postumio Albino ebbero ragione degli Illiri, grazie anche alla deditio in /idem (resa a discrezione) di alcune città greche e di popolazioni locali. Sulle cause dell'iniziativa romana la tradizione appare discorde. Polibio (II, 8, 1 -2) pone in primo piano le pressioni esercitate sul senato dai mercanti italici, disturbati nei loro commerci dalla pirateria illirica, che andava facendosi sem­ pre più aggressiva e che, con l'espansione verso sud, arrivava a minacciare le rotte, commercialmente importantissime, del canale d'Otranto. Tali rotte, a suo tempo efficacemente difese dalla monarchia epirota in collaborazione con le città greche della costa adriatica, si trovavano ora in grave pericolo dopo la caduta dell'ultima sovrana eacide, Deidamia (233/2) . Appiano ( Guerre illiriche, 7 ) motiva invece l'intervento romano con la necessità di rispondere all'appello rivolto a Roma dagli Issei minacciati. Il racconto di Polibio è parso alla maggioranza dei moderni più credibile, anche se non sono mancati tentativi di rivalutare Appiano, che conserva il nome dell'ambasciatore isseo Cleemporo: in ogni caso, la presenza di preoccupazioni commerciali non esclude l'incidenza di motivazioni più latamente politiche. Nel vuoto di potere creatosi in Adriatico, Roma era chiamata a intervenire per la sua stessa ascesa a maggiore potenza adriatica in seguito alla vittoria contro Pirro: la decisione appare del resto coerente con gli interessi adria­ tici dimostrati dalla fondazione della colonia di Brindisi (244) e dalle prese di contatto con gli Apolloniati (che fin dal 266 inviarono un'ambasceria, probabilmente a proposito delle relazioni commerciali con l'Italia) e con gli Acarnani (che forse nel 237 chiesero aiuto contro gli Etoli, ottenendo un intervento diplomatico) . Il problema politico che sta a monte dell'intervento romano non sembra tanto quello macedone, come pure è stato ipotizzato, ma piuttosto quello dell'espansionismo illirico verso sud, che rischiava di portare alla formazione di un forte regno sulle coste dell'Adriatico orientale, con possibili minacce alla sicurezza delle coste italiane. Il risultato della vittoria fu la costituzione di un protettorato romano sulle coste illiriche, in seguito alla deditio di Apollonia, Epidamno, Corcira, dei Partini e degli Atintani; Faro e alcune località costiere e isolane a nord di Lisso, tra cui probabilmente Issa, furono date a Demetrio di Faro. Con il trattato del 228 gli Illiri si impegnavano a versare un tributo e a non far navigare a sud di Lisso più di due navi, e disarmate: con ciò la pirateria illirica in Adriatico veniva stroncata.

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L'ambasceria ro­ mana a Teuta e l'intervento mi­ litare

Le m otivazioni dell'intervento

Un protettorato romano al di là dell'Adriatico

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Una conseguenza importante dell'attestarsi di Roma (pur senza acquisizioni territoriali né stanziamento di presidi) al di là dell'Adriatico fu la presa di contatto con diversi stati greci: ambascerie furono inviate agli Etoli e agli Achei, ai Corinzi (che avevano sofferto la pirateria illirica, avevano tentato senza fortuna di proteggere Corcira nel 229 ed erano dunque certamente ben disposti verso i Romani vincitori) e agli Ateniesi, e dovunque accolte con cordialità; i Romani furono ammessi ai Giochi Istmici del 228 (Polibio II, 12, 8) .

1.2. La seconda guerra illirica (220-219)

La violazione di Demetrio di Faro e l'intervento ro­ mano

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Le motivazioni dell'intervento

Dieci anni dopo, nel 2 19, mentre in Grecia infuriava la cosiddetta «guerra sociale», la violazione del trattato del 228 a opera di Demetrio di Faro provocò un secondo intervento romano. In Macedonia, Antigono Dosone era morto nel 22 1 e sul trono macedone se­ deva il giovanissimo Filippo V (22 1-179) . La Lega di Egion aveva proclamato, nel 220, la guerra sociale, voluta da Filippo e dagli Achei contro gli Etoli. Demetrio di Faro, alleatosi con Antigono Dosone già nel 225 circa, nel 22 1/0, dopo aver usurpato il trono degli Ardiei assumendosi la tutela del giovane Pinne, figlio di Agrone, superò Lisso con 90 navi (50 sue e 40 del signore di Skodra, Scerdilaida), attaccò località appartenenti al protettorato romano e riprese le azioni piratesche. I Romani inviarono subito un contingente guidato dai consoli Lucio Emilio Paolo e Marco Livio Salinatore: l'intervento si concluse, dopo la conquista di Dimale e di Faro da parte romana Oe due città furono poste nella condizione dei dediticii del 228), con l'espulsione del principe illirico dai suoi dominii e la sua fuga presso Filippo V. Una stabilizzazione della situazione in Illiria (che Roma aveva dovuto abbandonare in tutta fretta per il precipitare della situazione in Occidente) si ebbe nel 2 16, con il passaggio di Scerdilaida dall'alleanza macedone a quella romana. La concomitanza con la guerra sociale e la probabile preoccupazione che Filippo V, ammonito da Demetrio di Faro, doveva nutrire per la presenza romana in Illiria hanno fatto pensare che dietro la ribellione del Fario, e quindi dietro l'intervento repressivo di Roma, potesse celarsi, più ancora in questo secondo conflitto che non nel primo, il problema macedone. In realtà, indipendentemente dal coinvolgimento macedone che non sembra in alcun modo dimostrabile all 'epoca della violazione di Demetrio, la reazione romana a tale violazione si spiega bene con la minaccia della sicurezza in Adriatico che derivava dall'espansionismo di Demetrio e con il momento particolarmente difficile in cui Roma, nell'imminenza della guerra annibalica, si trovava, e quindi con la necessità di prevenire un possibile accordo illirico-cartagi­ nese. È possibile che anche in questo caso abbiano avuto peso le pressioni dei mercanti, minacciati dalla pirateria di Demetrio di Faro: ma l'incidenza di

LA GRECIA E ROMA 279

preoccupazioni di ordine economico e commerciale non sembra da soprav­ valutare e la volontà di assicurare la posizione dell'Italia in vista della guerra annibalica deve aver largamente prevalso. L'assenza di volontà espansionistica è comunque messa in evidenza dal fatto che non si fece ricorso ad annessioni territoriali e che non furono stanziati presidii.

2. LA PRIMA GUERRA MACEDONICA (2 1 5-205) Le preoccupazioni di Filippo V in merito alla presenza romana in Illiria non gli impedirono, almeno fino al 2 1 7 , di occuparsi esclusivamente delle vicende della Grecia. Ma la fuga di Demetrio di Faro presso di lui, nel 2 19, fece sì che egli cominciasse a interessarsi maggiormente alla realtà romana, realtà che, nel 2 14 , gli appare ben nota nelle sue caratteristiche più significative, quali la disponibilità a estendere la cittadinanza e ad assimilare il diverso sul piano etnico e sociale; in quest'anno egli scrive infatti agli abitanti di Larissa, in Tessaglia, su questioni di politica di cittadinanza, proponendo l'esempio dei Romani (come attesta l'iscrizione IG IX, 2, 5 17 Syll.3, 543 ) . =

2.1. Filippo V fra Roma e Cartagine Quando, nell'estate del 2 1 7 , Filippo ricevette la notizia della sconfitta romana del Trasimeno, il momento dovette sembrargli opportuno per espellere gli sgraditi ospiti dalla costa orientale dell'Adriatico. Il re chiuse la guerra sociale concludendo con gli Etoli, grazie alla mediazione di Tolemeo IV d'Egitto, la pace di Naupatto (alla fine dell'estate del 2 1 7 ) e si ritrovò libero di agire nell'area balcanica, nonché di volgere lo sguardo ad Occidente e al conflitto che opponeva Roma a Cartagine. La possibilità di ingerirsi nel confronto per ottenerne vantaggi personali tu considerata da Filippo in una prospettiva interamente adriatica, senza le aperture occidentali che pure sono state supposte. Gli stessi contenuti dell'accordo tra Filippo e Annibale, che viene fatto comunemente risalire al 2 15 (ma che forse era già stato stabilito prima della battaglia di Canne, tra il 2 1 7 e il 2 16) e il cui testo ci è stato conservato da Polibio (VII, 9), confermano tale prospettiva. Dal testo dell'accordo risulta che il problema che stava a cuore a Filippo era appunto l'Illiria. Esso prevedeva infatti, a guerra terminata, di concludere la pace a condizione che i Romani non siano più padroni dei Corciresi, degli Apollo­ niati, degli Epidamni, di Faro, di Dimale, dei Partini e dell'Atintania; tutti gli amici che sono nel koin6n dei Romani saranno dati a Demetrio di Faro (Polibio VII, 9, 13-14).

La pace di Nau­ patto

L'accordo tra Fi­ lippo V e Anni­

bale

280 CAPITOLO 6

L'obiettivo di Filippo era dunque quello di ottenere da Annibale un aiuto a espellere i Romani dall'area illirica, contando sul fatto che l'Italia era invasa dai Cartaginesi e che sarebbe stato relativamente facile ottenere il risultato. In questa stessa area egli iniziò a muoversi già nel 2 16, presentandosi con una flotta di 100 lemboi (piccole navi del genere di quelle utilizzate dai pi­ rati) costruita durante l'inverno, per battere poi precipitosamente in ritirata all'awicinarsi di una flottiglia romana, chiamata da Scerdilaida; e fu ancora in quest'area che, nel 2 14, si aprirono effettivamente le ostilità.

2.2. Le vicende della guerra

Quando il patto tra Filippo e Annibale fu reso noto a Roma, Marco Valerio Levino fu incaricato di sorvegliare il canale d'Otranto con 50 navi. Nel 2 14 Filippo fece la prima mossa e attaccò per mare Apollonia e Orico, ma fu battuto da Levino (gli abitanti della zona avevano fatto appello ai Romani), perse la flotta e si ritirò via terra; ciò non gli impedì, in seguito, di impadronirsi di Lisso per parte di terra, conquistando I' Atintania e il paese dei Partini, guadagnandosi, tra 2 1 3 e 2 12 , un importante sbocco al mare e portando una minaccia effettiva al protettorato romano in Illiria, oltre che, nell'ipotesi che fosse riuscito a ricostruire la flotta, alla sicurezza delle coste adriatiche dell'Italia. Non potendo impegnare grandi forze in Illiria, i Romani cercarono alleati in Grecia, per isolare Filippo su base diplomatica e tenerlo occupato in Grecia, scongiurando così la possibilità che egli si trovasse libero di intervenire a fianco di Annibale. Il t r a t t a t o r o ­ Nel 2 12 (che alcuni collocano nel 2 1 1 : la data resta incerta) Valerio Levino mano-etolico si rivolse agli Etoli, la potenza greca più idonea a coagulare un fronte anti­ macedone, e concluse con essi un'alleanza (ratificata dal senato romano solo due anni dopo), il cui testo ci è stato conservato in un importante documento epigrafico ritrovato a Tirreo in Acarnania (Moretti ISE II, 87 ), parzialmente difforme dal corrispondente testo liviano (XXVI, 24, 8- 14). Gli Etoli si impegnavano ad attaccare Filippo per terra, i Romani a fornire un appoggio navale; in caso di vittoria, gli Etoli avrebbero ottenuto il territorio tra l'Etolia, Corcira e I'Acarnania; le conquiste territoriali sarebbero state incorporate dalla lega etolica, con un'annessione vera e propria oppure su base paritaria a seconda delle modalità di acquisizione. Da ciò risulta chiara l'intenzione dei Romani di non operare alcuna annessione territoriale. Il bottino di guerra sarebbe spettato ai Romani; esso sarebbe stato spartito solo nel caso di conquiste operate in comune. Livio riporta anche altre clausole, che l'iscrizione (peraltro mutila) non contiene: il divieto per i contraenti di fare pace separata con Filippo e la possibilità di aderire al trattato, divenendo amici et socii («amici e alleati») del popolo romano, per gli Spartani, gli Elei, Attalo I di Pergamo (tutti in

L'inizio delle osti­ lità

buoni rapporti con gli Etoli), Scerdilaida e suo figlio Pleurato. L'autenticità di queste clausole è stata discussa, soprattutto per quanto concerne la prima, perché dalla sua presenza o meno nel trattato del 2 12 dipende la valutazione giuridica del comportamento degli Etoli (che arrivarono effettivamente a una pace separata con Filippo nel 206) nelle fasi successive della guerra. Quanto all'elenco dei potenziali amici, esso, se è autentico, coincide in parte con la lista degli adscripti (aderenti) della pace di Fenice: il loro inserimento nella pace del 205 costituirebbe quindi la parziale realizzazione dell'impegno già assunto dai Romani nel 2 12 (impegno che non venne mantenuto verso gli Etoli, colpevoli di aver violato il trattato accordandosi separatamente con il Macedone). Come si è visto, nel trattato si parla di bottino di guerra, il che presuppone saccheggi: in effetti i Romani, non ancora intenzionati ad assumere un coe­ rente atteggiamento filellenico né a condurre in Grecia una politica di ampie e lungimiranti prospettive, non rifuggirono da comportamenti non privi di durezza, saccheggiando tra il 2 1 1 e il 208 Egina, Oreo, il territorio tra Corinto e Sidone. Gli Elei, i Messeni, gli Spartani (cioè i Peloponnesiaci ostili agli Achei) e Attalo I (preoccupato degli sforzi di Filippo di crearsi una flotta efficiente) si schierarono con le forze antimacedoni; sull'altro fronte, Filippo sostenne gli Achei e i loro alleati nelle difficili campagne del 209 e del 208. Alcuni tentativi di mediazione da parte dei neutrali (l'Egitto, Rodi, Chio, forse la stessa Atene) nel corso del 208 non ebbero successo. A partire dal 207 Roma, che dal 2 1 0 manteneva nell'Egeo una flotta al comando di Publio Sulpicio Galba, introdottavi con l'appoggio di Attalo, si disimpegnò progressivamente dal campo greco, dove Filippo giunse a di­ struggere Termo, la capitale degli Etoli, e dove gli Achei, sotto la guida dello stratego Filopemene di Megalopoli, colsero un lusinghiero successo contro Macanida di Sparta a Mantinea (207).

2.3. La pace di Fenice

Nel 206 gli Etoli, scoraggiati e non sufficientemente sostenuti né dai Romani né da Attalo, contro il quale la Macedonia aveva suscitato Prusia I di Bitinia, accettarono di trattare con Filippo. La decisione degli Etoli, dettata dall'i­ solamento in cui essi vennero a trovarsi, fu considerata a Roma come una defezione e come una violazione del trattato del 2 12 . Preoccupati, anche se tardivamente, dell'evoluzione della guerra in Grecia, i Romani inviarono un forte contingente (35 navi, 1 .000 cavalieri, 1 0.000 uomini) al comando di Publio Sempronio Tuditano in Illiria, dove si diresse anche Filippo e dove, con la mediazione epirotica, si trattò, nel 205, la pace di Fenice (Livio XXIX, 12, 8- 16) . I contenuti del Sull'Illiria la pace stabilì un compromesso, in base al quale, delle acquisizioni trattato di pace territoriali realizzate durante la guerra, Filippo conservò l'Atintania, ma che in

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(APITOL0 6

sostanza permise a Roma di riaffermare la propria presenza sulle coste orientali dell'Adriatico. Ma il problema più importante collegato con questa pace è la sua natura di koinè eirene (pax communis, secondo la terminologia di Livio XXIX, 12, 8), che da più parti è stata messa in dubbio, benché l'espressione pax communis, incomprensibile nel vocabolario latino, sembri difficile da spiegare se non come traduzione del greco koinè eirene. È chiaro che la diversa valutazione della natura della pace di Fenice cambia completamente le prospettive del rapporto tra Roma e la Grecia a partire dal 205. Se a Fenice fu conclusa una koinè eirene, con essa Roma entrava a pieno titolo, e stabilmente, nell'universo politico greco come garante di una pace comune sottoscritta da un'ampia serie di contraenti e acquisiva il diritto (anzi, il dovere) di intervenire nelle vicende politiche greche ogniqualvolta la pace venisse violata e alla sua autorità si facesse appello; se a Fenice fu invece concluso un semplice trattato bilaterale tra Roma e Filippo, cui si associò una serie di adscripti, solo l'effettiva violazione delle clausole del trattato stesso avrebbe potuto autorizzare Roma a un inter­ vento militare. La valutazione della legittimità del comportamento romano all'epoca dello scoppio della seconda guerra macedonica dipende dunque strettamente dalla natura di questa pace e dalle premesse giuridiche che da essa discendevano. Secondo Livio, furono inclusi nel trattato, per iniziativa macedone, Prusia di Bitinia, gli Achei, i Beoti, i Tessali, gli Acarnani e gli Epiroti; per iniziativa romana, Attalo I, Pleurato, Sparta (dove a Macanida era subentrato Nabide), gli Elei (già compresi, se la tradizione liviana sul trattato romano-etolico è accettabile, fra i potenziali amici et socii dei Romani del 2 12 e qui riproposti proprio in seguito all'impegno allora assunto), i Messeni e anche gli Ateniesi e gli Iliensi. L'inclusione nella lista di questi ultimi, che non avevano par­ tecipato alla guerra, suscita dubbi, in quanto potrebbe derivare da motivi propagandistici: Atene, che fece appello a Roma all'epoca della seconda guerra macedonica, potrebbe essere stata inclusa nel trattato di Fenice per legittimare il comportamento romano in quell'occasione; la presenza di Ilio, invece, potrebbe essere collegata con lo sviluppo della leggenda delle origini troiane di Roma, che diventa particolarmente attuale a partire da questi anni. La questione è destinata a rimanere aperta: in ogni caso, ricordiamo che i rapporti con questi stati assumono carattere diverso a seconda della natura della pace di Fenice. Se la pace del 205 era un semplice trattato bilaterale, Roma conservava con essi rapporti di amicitia, che non la impegnavano giuridicamente a intervenire in Grecia; se, come è probabile, essa era invece una koinè eirene, allora la pace era suscettible di trasformarsi in un'alleanza militare difensiva contro i violatori, che impegnava i garanti (Roma da una

parte, Filippo dall'altra) all'intervento.

La politica romana, inserendosi nelle migliori tradizioni greche, diventava a questo punto una politica di tutela della Grecia nella sua totalità ed ereditava il diritto/dovere alla difesa dei valori di libertà e autonomia che avevano guidato la Grecia delle poleis e che conservavano la loro attualità.

I.A GRECIA E ROMA

La prima guerra macedonica mostra Roma piuttosto esitante sia nella con­ duzione della guerra sia nei comportamenti nei confronti del mondo greco. Non avendo ancora maturato una convinta politica ellenica, Roma, incapace di accostare al principio della guerra difensiva e di rivalsa quello, positivo, della difesa della libertà dei Greci che verrà progressivamente accolto e fatto proprio nel quindicennio successivo, sembra limitarsi a reagire alle provoca­ zioni portate da Filippo in Illiria e a rispondere alle sollecitazioni degli alleati (quindi di una parte soltanto del mondo greco), senza peraltro rifuggire da comportamenti impopolari che confermano lassenza di preoccupazioni propagandistiche. Tale esitazione rende ugualmente difficile valutare con precisione il carattere più o meno difensivo della prospettiva nella quale Roma si decise all'inter­ vento contro Filippo. Certo l'accordo punico-macedone, nonostante riveli una prospettiva rigorosamente adriatica da parte di Filippo, potrebbe aver fatto prendere in seria considerazione il pericolo di un'invasione dell'Italia da Oriente, con lappoggio della flotta macedone. L'obiettivo di Roma sembra dunque essere stato quello di tenere Filippo occupato in Grecia, scongiurando la possibilità che egli si trovasse con le mani libere per intervenire efficace­ mente a fianco di Annibale. La rinuncia deliberata alle annessioni territoriali che, come vedremo, risulta tanto dal trattato romano-etolico del 2 12 quanto dalla conclusiva pace di Fenice del 205, induce tuttavia a escludere lesistenza di una prospettiva propriamente imperialistica, del resto incomprensibile in un momento in cui Roma era gravemente impegnata per la propria soprav­ vivenza in Italia e in Spagna.

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Roma e la Gre­ cia all'epoca della prima guerra ma­ cedonica

3. LA SECONDA GUERRA MACEDONICA (200-196) 3.1. Filippo V, Antioco ID, Pergamo e Rodi Negli anni successivi alla pace di Fenice Filippo V si rivolse verso Oriente, impegnandosi attivamente nell'Egeo settentrionale, in Tracia e sugli Stretti (dove si impadronì di città libere come Lisimachia, Calcedone e Chio, alleate degli Etoli, di Perinto, legata a Bisanzio, e di Taso) e in Asia Minore (dove occupò Samo, che era fra I' altro una base navale lagide). Con questi atti di vero e proprio ingiustificato brigantaggio egli veniva a scontrarsi con gli interessi di Rodi (cui stava a cuore soprattutto la libertà di movimento sulla via degli Stretti) e di Pergamo (il cui re Attalo I, ingrandito il suo regno verso gli Stretti e verso la Ionia a danno dei Seleucidi, temeva l'espansionismo macedone nella zona): le due città si allearono e gli dichiararono guerra. Nel 201 Filippo fu sconfitto nella battaglia navale di Chio da Pergameni, Rodii, Bizantini e Ciziceni, ma risultò vincitore a Lade, di fronte a Mileto; attaccò il territorio di Pergamo e occupò la perea (il retroterra) di Rodi; tra­ scorse poi l'inverno del 201/0 in Caria, bloccato nel porto di Bargilia dalle flotte nemiche.

Fili p p o V in Oriente: le batta­ glie di Chio e di Lade

Il patto tra Filippo La sua attività destò malcontento e preoccupazione in Grecia: già nel 202 V e Antioco III gli Etoli, dopo la presa di Lisimachia da parte del Macedone, protestarono a Roma, dove però, a causa della violazione del trattato del 212, ebbero un'accoglienza assai fredda. Nell'autunno del 201 giunse a Roma un'amba­ sceria rodio-pergamena · che denunciava Filippo come violatore della pace di Fenice (Livio XXXI , 2, 1-2). I Romani allora cambiarono bruscamente orientamento, inviando sulle coste epirote un contingente navale guidato da Marco Valerio Levino e proponendo ai comizi la guerra. Ma i comizi (forse per la stanchezza della guerra appena finita) rifiutarono e il senato si limitò a inviare una missione diplomatica, composta da Gaio Claudio Nerone, Publio Sempronio Tuditano e Maéco Emilio Lepido, con un incarico esplorativo presso diversi stati greci. Secondo Appiano (Guerre macedoniche, 4) l'ambasceria rodio-pergamena aveva portato l'annuncio di un patto segreto tra Filippo V e il re seleucide Antioco III, recentemente tornato dall'Oriente, dove, negli anni fra 209 e 205 , aveva assi­ curato i confini orientali del regno sconfiggendo il re dei Parti Arsace III e il dinasta Eutidemo di Battriana

Si diceva che Filippo e Antioco, re di Siria, si erano accordati, Filippo per combattere insieme ad Antioco contro l'Egitto e Cipro, che allora governava Tolemeo IV detto Filopatore, ancora bambino, e Antioco per combattere insieme a Filippo contro Cirene, le Cidadi e la Ionia. E questa notizia, che sconvolgeva tutti, la denunciarono ai Romani i Rodii. Il patto prevedeva la spartizione del regno tolemaico, in grave crisi dopo la morte di Tolemeo IV, nel 205, e la successione del giovane Tolemeo V, la cui tutela era stata assunta da personaggi di dubbio valore, mentre il regno era agitato da tensioni etniche e da gravi problemi economici.

3.2. Le vicende della guerra

L' inizio d e l l a Nella primavera del 200 Filippo intervenne a favore degli Acarnani contro guerra (200) gli Ateniesi, che, soccorsi dai Rodii, dai Bizantini e da Attalo I, dichiararono guerra a Filippo e si appellarono ai Romani. In quel momento si trovava ad Atene l'ambasceria romana inviata nel 200, che aveva già visitato Epiroti ed Achei e si apprestava a recarsi a Rodi, in Egitto e presso Antioco III (Egitto e Siria stavano allora combattendo la quinta guerra siriaca e Roma, inter­ pellata diplomaticamente da Alessandria nel 203 , intendeva proporre la sua mediazione). Gli ambasciatori inviarono, attraverso il generale macedone Nicanore, un ultimatum a Filippo, in cui gli chiedevano di non far guerra ai Greci e di sottoporre a un arbitrato il suo conflitto con Attalo. Nel corso dell'estate del 200 i comizi, che all'inizio dell'anno avevano rifiutato di votare la guerra, espressero infine il loro parere positivo e fu dichiarata la seconda guerra macedonica.

Stati sotto l'influenza macedone

Battaglie principali

Protettorati romani

Stati indipendenti

seconda guerra macedonica.

1 9. l'Egeo alla vigilia della

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- Possedimenti dei Lagidi

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