L'ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio [1 ed.]
 9876543210

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PROFILI

Teorie & Oggetti della Filosofia 54 Collana diretta da Roberto Esposito

Gianluca Solla

L’ombra della libertà Schelling e la teologia politica del nome proprio

;

Liguori Editore

Il presente volume è pubblicato con un contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Verona.

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Prima udizione italiana Marzo 2003 Liguori Editore, Srl Via Posillipo 394 I 80123 Napoli

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Liguori Editore, Srl, 2003

Solla, Gianluca : L’ombra della libertà. Schelling e la teologia politica del nome proprio/Gianluca Solla Napoli : Liguori, 2003 ISBN 88 - 207 - 3502 - 4

1. Immemorabile 2. Comunità I. Titolo. Ristampe: 9876543210

2011 2010 2009 2008 2007 2006 2005 2004 2003

Questo volume e stampato in Italia dalle Officine Grafiche Liguori - Napoli su carta inalterabile, priva di acidi, a pii neutro, conforme alle norme Iso 9706 In lui è il più profondo abisso, e il cielo più elevalo, ossia ambedue i centri'*. Qui sta l’equilibrio segreto: ogni azione libera ha luogo unicamente Ivi, pp. 362-363; tr. il. pp. 99-100. Corsivo inio.

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nel bilico dei due centri a cui l’uomo contemporaneamente appartiene. L’esistenza trova la sua regola in questa sproporzione che la abita e che la rilancia tra «il più profondo abisso» e «il ciclo più elevato». In questo senso, il suo agire è costantemente in ascolto di ciò che gli ricorda che il divario non è mai colmato13. Accade come per la bilancia, la cui misura è data unicamente dal fatto che i due piatti non vengono mai a porsi sulla stessa linea. Solo nella loro differenza si dà la misura nella forma di una comune dismisura-, solo questa è in grado di indicare la libertà - la misura della libertà e la libertà come misura. E questa misura vaie tuttavia in quanto la libertà si inscrive nell’ordine dell’incommensurabile. E solo il divario tra «abisso» e «cielo» a far sì che l’uomo possa rapportarsi al «più profondo centro», pur non coincidendo con nessuno dei due. Non a caso le Ricerche sono prive di definizioni dell’uomo: questa mancanza è il segno stesso dell’esistenza libera - libera innanzitutto da una propria essenza. Da nulla meglio che da questa irriducibilità dell’esistenza a un’essenza è segnalala la libertà come fatto^ come effettualità: come ciò che si dà unicamente nell’eccesso, nell’eccedenza tra sé e sé di una singolarità, di un fatto singolare, sempre singolare, mai ripetibile. Se anche la libertà fosse l’essenza dell’uomo, essa non consisterebbe in nient’altro che nel fatto di un uomo libero da ogni essenza. E proprio nel divario tra abisso e cielo che ha luogo l’azione nella sua singolarità: nessuna scelta è in grado di interrompere questa doppia misura, anzi essa si dà unicamente al suo interno. Nessuna azione sarà mai tutta per il bene o per il male, ma costantemente in rapporto al suo «doppio centro». «Malinconia» è il nome con cui Schelling indica la duplice non-identità dell’uomo, con il bene c con il male. In questo modo - e in una forma certo paradossale - un certo depotenziamento dell’uomo passa attraverso un apparente raddoppiamento della sua potenza. Al­ l’uomo appartengono infatti entrambi i centri, gli appartiene la doppia potenza del «principio tenebroso» e della «forza della luce». Ma proprio questo raddoppiamento della potenza costituisce il motivo per cui, ciò che in Dio appare compiuto una volta per tutte, risulta nell’uomo ancora e sempre da compiere: ancora c sempre «indeciso». E questo perché l’uomo non è né solo luce né solo l’oscuro principio. Contemporaneamente, proprio questa doppia potenza misura la capacità dell’uomo di corrispon­ dere - unica tra le «creature» - al «profondo centro». E proprio nello spazio stretto del divario di luce e tenebre, in quello spazio singolare che è ” Per questa figura dell’oscillazione cfr. anche Hans Urs von Balthasar, A/fokatylise der deutschen Sette, 1. Der deulsche Idealismus (1937), Johannes, Freiburg 1998, pp. 208 sg.

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centro»: la libertà come conflitto

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capace di tenerle insieme nella loro contraddizione insolubile, che ha luogo tale corrispondenza. A una «voce segreta» sembra essere demandato il compito di parlare all’uomo di questa sua appartenenza alla contesa tra principi. Questa voce è un «canto irresistibile», un incontro inevitabilmente fatale:

quasicché una voce segreta sembri chiamarlo perché si precipiti giù, oppure come, secondo l’antica favola, il canto irresistibile delle sirene risuona dal profondo, per attirare il navigante nel vortice. [...] L’angoscia della vita stessa strappa l’uomo dal centro nel quale è stato creato; poiché questo, come la purissima essenza di ogni volere, è fuoco distruttore per ogni volere particolare; per poter vivere in esso, l’uomo deve morire a ogni individualità [aller Eigenheil absterben]. Di qui la generale necessità della colpa c della morte, come del reale morire dell’individualità [...]. Nonostante questa generale necessità, il male rimane sempre una scelta propria dell’uomo: il male, come tale, non può costituire il fondamento, e ogni creatura cade per propria colpa".

Ciò che Schelling indica come «male» non risiede nell’abbandono della «volontà universale», se non perché questo abbandono coincide con il trionfo dell’unilateralità sulla differenza che invece dimora, nella forma del «doppio centro», nella singolarità delle esistenze. Per questo l’unica alternativa reale al potere del «vortice» e rappresentata dal «morire a ogni individualità» - o, più letteralmente, dal «morire a ogni proprietà»: in questo morire la prospettiva del volere individuale è interrotta nella pretesa di assumerla come nonna determinante e decisiva. «Morire» c qui ciò che sospende la vigenza di una legge, e innanzitutto della legge della “consistenza” dell’individuo. Non è tanto o solo il gesto di una rinuncia, questo «morire a ogni individualità», quanto piuttosto il senso stesso di una singolarità libera (e libera innanzitutto da se stessa)1’.

H Schelling, Ricerche filosofiche, cit., p. 381; tr. it. pp. 111-112. Mi discosto dalla tr. cit. 15 Qui risiede l’cfl'cttivo motivo di prossimità teoretica, c non genericamente culturale, tra Schelling e la tradizione mistica renana. In Bòhme l’io (/eh) diventa quell'/c/ito che solo una lettera distingue dal nulla del Nichts. Se certo l’io è il negativo, è anche l’opposto del nulla. F. stato Hegel, Vorltsungen iiber die Geschichte der Philosophie III, in W'erke 20, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1971, pp. 107-119, a sottolineare la portata teorica di questa posizione speculativa. Indicando sia il Figlio (che è coscienza e autocoscienza), ma anche Lucifero (che è «ribellione», «furore», «asprezza»), V Ichts custodisce il senso del conflitto c contempo­ raneamente la vera radice del negativo, testimoniata nel «trapasso deHV’«]» **• Questo fallimento - con tutto ciò che esso ‘Salpi dire” - dovrà essere tenuto costantemente presente nel corso di questo lavoro, come ciò che rivela il particolare destino di un tempo che non è semplicemente il XIX secolo, ma un tempo che, partendo almeno dall’idealismo tedesco, si prolunga fino a un oggi ancora largamente inesplorato. La difficoltà principale sta nel comprendere cosa significhi che la libertà - questo «fatto singolare» che sembra non avere altra consistenza che nell’essere esposto a un rimando senza termine finale, puramente an-archico - rappresenti contemporaneamente il «centro della totalità dell’Essere» e con ciò il «centro del sistema»3’. Ma come tenere realmente insieme queste due determinazioni contraddittorie? Se solo l’esperienza della contraddizione indica l’eflettiva esperienza della libertà, ne consegue che la libertà esiste unicamente quale esperienza di «un effettivo conflitto»3’, ossia che essa esiste unicamente nell’esperienza dell’unità di an-archia e totalità. D’altra parte, è proprio dinanzi a questa libertà come contraddizione che si è chiamali in causa, come davanti alla contraddizione che ognuno rappresenta. Il «conflitto» non è dunque mai uno nel quale la libertà sia coinvolta, ma costituisce invece tutta la libertà,

concetto sia rinviata a d’un contesto concettuale più ampio non è segno della sua incompletezza e limitatezza, perché invece è solo col ritorno a un contesto concettuale più ampio che il concetto riceve la sua ultima determinatezza scientifica, cioè assolutamente fondata» (Ivi, pp. 23-24; ir. it. p. 57; corsivo mio (GA, p. 34)). È a partire dalla prossimità tra «rinvio» e «ritorno» che occorrerebbe pensare questa scena. Heidegger vi insiste nel senso che il rimando o rinvio si riferisce a una provenienza, che tuttavia non indica mai il luogo di una propria «origine». Proprio questa incapacità di far coincidere «provenienza» c «origine» segnala in che senso l’impossibilità di una determinazione esclusiva di un concetto sia non una mancanza, ma un compito. v' Ivi, p. 25; tr. it. pp. 58-59 (GA, pp. 36-37). 1 Heidegger legherà questa impasse all’incapacità di Schelling di pensare positivamente la finitezza dell’uomo. Lascio, qui inesplorata la possibilità di rovesciare su Heidegger la critica che egli rivolge all’«indiflcrenza» schellinghiana come fallimento (epocale) del progetto delle Ricerche. M «Possiamo in qualche modo valutare quale rovesciamento doveva avvenire negli sforzi in vista del sistema allorché fu suscitata la questione del sistema della libertà, allorché venne posta la domanda se la libertà, che in un certo è senza fondamento [grundlos] e rompe sempre ogni connessione, non debba essere il centro del sistema, e circa il modo in cui essa potrebbe essere un tale centro». Ivi, pp. 58-59; tr. it. p. 99 (GA, p. 84). Corsivo mio. 31 Ivi, p. 70; tr. it. p. 113 (GA, p. 101).

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centro»: la libertà come conflitto

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com’è indicato nell’espressione «facoltà del bene e del male» dalla con­ giunzione “e”. Ed è proprio in questo conflitto - nella contraddizione iscritta in ognuno - che occorrerebbe imparare a leggere il segno di una superiore «coappartenenza» E per questo stesso motivo che la libertà non costituisce mai semplicemente l’oggetto \Gegensland\ della filosofia né di nessuna disciplina. Più che davanti alla libertà, è piuttosto nella libertà che il pensiero si fa: essa ne rappresenta il suo stato «lo stalo della filosofia, la contraddizione aperta in cui essa si mantiene c che essa ristabilisce sempre di nuovo»’'. Ci si può porre di fronte alla libertà unicamente in quanto si è già da sempre al suo interno ossia unicamente in quanto se ne condivide la contraddizione necessaria, unicamente in quanto l’unica condizione di cui si dispone è la sua contraddizione’". Iniziare a pensare la libertà significa iniziare a comprendere che lo «stato», ogni stato, è sempre un «conflitto». Esistiamo proprio in questa coappartenenza, in questa «contraddi­ zione aperta»: L’uomo è [...] quell’essere che può rovesciare gli elementi costitutivi della propria essenza, la commessura ontologica del suo esserci c scompaginarla. Egli si tiene nella commessura del suo Essere così da avere a disposizione, in

M.

Ivi, p. 137; tr. il. p. 196 (G/\, p. 198). Ivi, p. 69; tr. it. p. 112 (GA, p. 100). Nel passo in questione andrebbe rimarcata questa opposizione tra Gegenstand, oggetto, c ^ustand, stato ovvero situazione, più che quella tra libertà c necessità. La libertà non è ciò che “sta dinanzi” alla filosofia, ma la filosofia si rapporta alla libertà come al proprio stato, letteralmente: come a ciò dalla cui parte essa sta: zìi etwas (o zn jemandem) stehen significa stare dalla parte di qualcosa (o di qualcuno): significa, di fatto, mantenersi in quella prossimità che la preposizione gegen respinge per principio. Ritorno su questo scarto tra oggetto e condizione nel successivo Intermezzo. ‘ Sarebbe interessante sviluppare questo passaggio in riferimento al privilegio implicito o esplicito che Heidegger - almeno questo Heidegger del ’36 - assegna all’interrogazione filosofica ossia alla filosofia in quanto interrogazione. Qui a margine annoto unicamente il fatto che non solo la filosofia non si arresta di fronte a nulla, dunque neppure dinanzi alla contraddizione, ma che essa giunge addirittura, nella radicalità che la caratterizza, a fare della contraddizione, in un certo senso, la sua dimora. E ciò istituzionalizzando la contraddizione quale condizione fondamentale della filosofia; facendo dunque della con tra­ dizione una con-dizionc c della condizione autentica una contraddizione permanente. Del resto, l’assunzione della questione della libertà costituisce la responsabilità filosofica tout court, c può essere pertanto assolta solo dalla filosofia. La filosofia è il vero soggetto della libertà. In questo modo sembra che il discorso venga come a rovesciarsi: non solo la libertà (come conflitto) è la condizione della filosofìa, ma è vero anche il contrario, e cioè che la filosofia è la condizione della libertà. Qui il discorso sulla libertà si fa discorso sulla c della filosofia.

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maniera del lutto determinata, questa commessura e la sua compaginazionc

I

La possibilità di trovare la misura della propria esistenza sta per l’uomo in relazione con l’appartenenza alla «commessura» che di conti­ nuo rimanda al dissidio, alla contraddizione, alla discordia (per quanto sempre c comunque a una «supcriore discordia», nella quale consiste l’autentica «concordia»). E proprio nel segno di questa duplice apparte­ nenza, alla concordia c alla discordia insieme, che l’uomo è in grado di «rovesciare gli elementi costitutivi della propria essenza». In questo si esprime la libertà: nei fatto che essere liberi significa innanzitutto essere liberi da una «essenza» e soprattutto da una “propria” essenza, da una propria natura. Se c’è davvero libertà, nessuna essenza è in grado di trattenerla; se c’è libertà, ogni essenza può essere rovesciata; se c’è libertà, dev’essere incondizionata c sospendere la condizione dell’essenza: la sua chance sta appunto nel poter prescindere da ciò che è già dato. Non essendo trattenuta da un’essenza dell’uomo, la libertà è sempre una libertà che l’uomo non ha: che non ha mai in suo potere, che non rientra semplicemente nel novero delle sue possibilità, ma che è piuttosto una libertà di cui è soggetto. In questo senso, ancora una volta, la libertà (oltre che la singolarità) è la sua condizione - la sua condizione im-propria. E in questa libertà come contraddizione è ancora una volta la formula della «facoltà del bene e del male» a risuonare. Del resto, Heidegger indica la capacità di male dell’uomo proprio nell’«cstrema scissione e avversione contro l’ente nella sua totalità c all’interno dell’ente nella sua totalità»1". Ora, che questa «scissione» non sia insediata da qualche parte, ma «all’interno dell’ente», e precisamente «all’interno dell’ente nella sua totali­ tà», avverte che il male non è nulla di estrinseco rispetto alla totalità dclfesscre. Il male fa questione proprio perché insediato già da sempre all’interno stesso della «compagine» dcH’Essere, perché è da esso che l’uomo può attingere la misura del suo vivere. Dal bene e dal male (che tuttavia in Schelling non ha mai la forma di un’indifferenza del tipo “dal bene come dal male”, ma sempre e solo quello di una contemporaneità conflittuale, di una «comune unità» discordante)". Ivi, pp. 173-174; ir. il. p. 242 (GA pp. 249-250). ** Ivi, p. 214; tr. il. p. 292 (Die Melafdiysik des deutschen Idealisnius, p. 171). “ «Quando perciò la libertà viene definita come la facoltà del bene e del male (non «o»), Schelling non intende la libertà di scelta, bensì la libertà come disposizione | metafisica e legame alla discordia \^u.'ielracht\ stessa, come lotta e sopportazione della lotta». Ivi, p. 215; ir. it. p. 292 {Die Metaphysik des deutschen Idealismus, p. 171).

Il «doppio centro»:

la libertà come conflitto



Ora, questa coincidenza di sistema e di rottura, di commessura e di interruzione risulta del resto già inscritta nella parola tedesca Fuge. Essa indica, infatti, tanto la commessura quanto il taglio che la attraversa: la commensura non si lascia mai separare dal taglio che la abita, se non in forza di quello stesso taglio12. Una geometria della libertà, se esiste, ha il suo centro nella coincidenza di sistema (o commessura) e incrinatura - che è tuttavia proprio ciò che minaccia il sistema. E lo minaccia in profondità - come «profonda incrinatura». Se, tuttavia, «discordia» c «conflitto» sono due dei nomi adeguati della libertà umana, jicllc Ricerche tutto ciò è sviluppalo all’ombra di Dio, all’ombra della perfetta ed esemplare libertà di Dio. All’ombra di una libertà che è insieme esemplare e inarrivabile. Per l’uomo, la libertà di Dio è la libertà d’altri. Se è costantemente sullo sfondo, lo è in quanto insieme troppo presente e troppo assente. La tesi che invece Heidegger intende far valere nel corso del ’36 è che «le determinazioni supreme sono ottenute per analogia con l’uomo»” e che la stessa idea di Dio è costruita in riferimento a quella di uomo. Ma più del «pregiudizio antropologico» che Heidegger denuncia in Schelling, sorprende che, in un testo dedicato espressamente alla «essenza della libertà umana», la libertà faccia la sua comparsa piuttosto nella forma dcU’esemplarità divina che non in quella aporclica e finita della libertà umana. Il limite sta nel voler pensare la libertà umana c nel riuscire a pensare prevalentemente quella divina: nel pensare più l’esemplare perfezione che non l’aporia. Questo indica, forse, il fallo che alla libertà dell’uomo stia sempre sullo sfondo la libertà di Dio, in questo rapporto impossibile che è insieme di esemplarità (Dio come modello) e di irraggiungibilità (Dio come perfezione inaccessibile, imprati­ cabile): l’impossibilità di sussistere in se e per sé". L’inatiingibilc esempla­ rità trattiene l’uomo, nonostante tutto, sul luogo della sua finitezza. Solo così la perfezione della libertà divina, che appare sullo sfondo della contraddizione aperta di bene e male, non si lascia pensare come la compensazione delle aporie dell’esistenza umana.

*■’ «Qui è la più profonda incrinatura che minacci un «sistema», cioè la oùuraotg dell’ente. Ed e proprio questa incrinatura che deve essere spiegala come tale metafìsicamente e compresa come commessura del sistema. Non si tratta di attenuare questa scissione» (ibidem. Corsivo mio). " Ivi, p. 196; tr. il. p. 269 (GA, p. 282). Più precisamente, ('espressione di Heidegger è aus der Enlsprechung: per corrispondenza con l'uomo. ” Qui si applica il paradosso dell'esemplarità - di ciò che indica, da un lato, l'eccellenza che vale come modello e, d'altra parte, ciò che, appunto in virtù di questa sua eccellenza, fa “caso a sé”, isolalo dalla media dei casi. Dunque: modello di una pratica (e come tale esposto alia ripetizione), ma contemporaneamente caso unico, irripetibile.

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E, al di là del dubbio sollevato da Heidegger - che, cioè, questa concezione di Schelling sia “perduta” in anticipo a causa della sua deriva immanentista - la questione vera e propria resta quella della trascendenza della libertà. La libertà è tale perché rapporta l’uomo, al di là di una “propria” essenza, a ciò che egli non controlla né comanda né possiede. Ma, in questo modo, contemporaneamente, essa rimanda l’uomo alla sua esistenza, esposta alla doppia vertigine del «più profondo abisso» e del «ciclo più elevato». L’esistenza, se è libera, lo è unicamente in ragione di questa esposizione al doppio centro, a «ambedue i centri». Se c’è qualcosa come un “senso dell’esistenza”, esso dimora in questa esposizione a ciò che resta, per l’esistenza, resto inattingibile, eccesso, dis-misura. Del resto, proprio la difficoltà in cui le Ricerche si imbattono nella determinazione della libertà umana (rispetto a quella divina) testimonia della difficoltà stessa di pervenire a una definizione dell’uomo. Questo è il punto che la critica di Heidegger di «pregiudizio antropologico» fallisce. Perché nelle Ricerche non Dio viene costruito sul modello dell’uomo, ma piuttosto l’uomo è “assente” unicamente nel senso che non fa modello a niente, tantomeno a Dio, alla “costruzione” di nessun Dio. “Assente” non vuol dire qui che non ci sia, che non sia presente. Piuttosto, resta ancora da dire che cosa egli sia — ammesso che lo si possa fare. Decisiva risulta l’indicazione, per ora solo accennata, del genitivo oggettivo nell’espressione “libertà dell’uomo”, il suo essere non solo soggetto della libertà, malanche soggetto alla libertà. Se la libertà non è un possesso né indica una hie (ter Myl/iotogit (Die Mylhologie), cit., pp. 153-154.

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Al di là dell’opposizione di memoria e di oblio, il pensiero può avere luogo unicamente nella regione in cui e di cui non c’è memoria — preceduto dunque dall’oblio, non come mera dimenticanza, ma come ciò che interrompe la cogenza di una pura, totale Er-innerung (la memoria totalizzante e ossessiva, su cui tomo più avanti)3. In questa anticipazione, in questo ritardo irrecuperabile, di cui la coscienza testimonia, è lo stesso concetto di “essere” a venire anticipato. L'immemorabile non solo non si lascia pensare come l’“esscre”, ma è proprio quanto viene prima di quell “‘essere” nel quale o a partire dal quale si dà il pensiero. Non ha dunque neppure la forma del “non essere” (ciò che riporterebbe sostanzialmente alla discussione del Sofista platonico), ma quella di una «infinita mancanza di essere»6. E la formula di questa «mancanza» a indicare più di ogni altra cosa il fondo immemorabile di ogni «inizio» — infatti «nel concetto di ogni inizio si trova il concetto di una mancanza [Mangel\»‘ — perché già nell’inizio, in ogni inizio, l’immemora­ bile ha inscritto la sua traccia da sempre (e dunque nell'inizio e, contempo­ raneamente, prima di ogni inizio) e ve l’ha inscritta appunto come «mancan­ za», come ciò che lascia infinitamente differire ogni inizio dall’“origine”. La relazione tra pensiero ed essere, senza venire dismessa, appare sospesa nel “pre” deU’im-/»?-pensabile, in ciò che indica il ritardo costituivo in cui si fa ogni pensiero. Proprio questa relazione paralizzata, esposta alla sua invalidità, rivela l’immemorabile come ciò che sempre di nuovo anticipa il pensiero e la sua memoria. Anteriorità assoluta, «passato eterno», «passato che non è mai stato presente, che era passato già nel primo inizio c da tutta l’eternità» , l’immemorabile, precedendo la stessa distinzione tra essere c nulla, consegna il pensiero al regno del neutro, deH’indetcrminato, al luogo in cui ogni inizio è stato

Questa concezione della memoria si riflette - in un senso marcatamente etico c politico - nella critica dell’apprendimento mnemonico, contenuta nelle Vorlesungen ilber dìe Methode des akademischen Sludiums (1803), in SW III. pp. 231-374; tr. it. di C. Tatasciore, Lezioni sul metodo dello studio accademico, Guida, Napoli 1989, cfr. pp. 76-79. Cfr. Schelling, Philosophie der Mythologie (Philosophische Einleitung), cit., p. 294 («all’inizio c’è solo mancanza... fame di essere») e Philosophie der OJJenbarung (SW XIII), cit., p. 206; tr. it. p. 343 («ogni volere è propriamente un vuoto, un difetto \Mangel\, direi quasi una fame»). Per delle ragioni che nel corso del capitolo andranno chiarendosi, questa «fame di essere» non corrisponde propriamente alla «fame di essenza» dei Weltalter. Fragmente, cit., Il, pp. 57-58), e anzi il passaggio dall'una all’altra espressione segnala una precisa evoluzione interna del pensiero schcllinghiano. Schelling, ÌJber die Gollheilen von Samothrake (1815), SW Vili, p. 352. 8 Schelling, Philosophie der Mythologie (Philosophische Einleitung), cit., p. 498. Cfr. Xavier Tilliette, L’Absolu et la philosophie. Essais sur Schelling, Puf, Paris 1987, p. 237.

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svuotato della sua inizialità, al luogo in cui ogni origine è esposta alla sua insufficienza. In questo senso è impossibile assumere la tradizione come ^principio” o come “fondamento” del pensiero. O meglio: nell’apertura alla tradizione e alle sue figure (qual è testimoniala dalla Filosofia della mitologia e dalla Filosofia della rivelazione) è in gioco precisamente l’apertura a un passato più passato del passato, di un passato tanto passato da risultare inappropriabile alla memoria interiorizzante della Er-innening. L’immagine che qui si dà a pensare è innanzitutto quella di una tradizione finita, abbandonata dalla pretesa di valere assolutamente, di valere come princi­ pio. Se le sue figure assumono una precisa valenza, ciò accade perché esse permettono di leggere in controluce quanto costituisce il precedente indimenticabile d’ogni pensiero. In questa forma - in ciò che unisce l’immemorabile alla tradizione e la tradizione all’immemorabile — si rivela un compito ambizioso, che è anche l’unico possibile: quello di ri-iniziarc la tradizione. Solo questo gesto può del resto escludere ogni romanticismo dell’“originc”: solo il gesto che assuma il compito di iniziare ancora una volta l’inizio, sapendo che l’inizio è però già “più vecchio” di ogni inizio - sapendo che nell’inizio è la voce dell’immemorabile, e non quella della novità, a parlare. Proprio questo è il compito che Schelling assegna alla filosofia «come la scienza che incomin­ cia assolutamente daccapo»: «nella filosofia si deve ritornare, da parte di ciascuno, al minimo possibile di conoscenza, o al pieno non-sapere» . Se la filosofia è quella scienza che sempre di nuovo ri-inizia, a questa esperienza non può mai essere posto limite: nella circolarità di questo iniziare sempre di nuovo, in un «daccapo» cui l’atto stesso della filosofia sarà costante­ mente tenuto, il suo senso è quello di una ricerca in-compiuta, nella quale nulla è raggiunto, se non la consapevolezza che l’unico senso possibile sta proprio in questa irraggiungibilità del suo oggetto. Che questo movimento fondamentale del pensiero sia indicato da Schelling nella sua necessità soggettiva, non ha nulla a che fare con l’idea che in filosofia ne vada dell’esercizio delle proprie capacità personali c che il pensiero si risolva nell’applicazione di tali capacità. Si tratta, piuttosto, di vedervi la forma dell’aderenza del pensiero - c di ogni pensiero nella sua singolarità - all’immemorabile inizio, aderenza che è tale in quanto incompiuta, in quanto sostanzialmente impossibile, in quanto non realizza nessun sapere ultimo*". E proprio l’aporia di un «passato che non è mai stato presente» che consegna 1’“oggetto” di una ricerca alla sua irraggiungibilità. Schelling. Philosophif dee OJfmbarung (SW XIII), cil., p. 198; tr. it. p. 329. Cfr. Schelling, Die WellaUer (1815), cit., p. 270; tr. it. pp. 108-109: «I lettori o gli uditori vengono in tal modo fatti retrocedere dalla pregiudizievole opinione secondo la quale l’autore

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Sottoporre l’inizio alla necessità della sua ripetizione equivale a desti­ tuirlo della sua nuzialità, equivale a privarlo di ogni originarictà. La ripetizione di ciò che per definizione sarebbe irripetibile sospinge ogni origine verso l’abisso della sua non-originarietà. Proprio questo è il movi­ mento. lo slittamento dell’origine sino al bordo della sua non-originarietà, che coinvolge il pensiero, incapace di sottrarsi a quanto lo costringe a ripetere l’inizio. Quest’an-archia è ciò che indica la mancata coincidenza tra l’inizio e se stesso: l’ordine o l’accordo che l’inizio dovrebbe costituire è già da sempre (“fin dall’inizio”) sovvertito da ciò che (nell’inizio) non è inizio". In questa an-archia si inscrive la coincidenza tra ripetizione dell’inizio e non-sapere e, dunque, tra filosofia e non-sapere. Sin dall’inizio, la filosofia si precisa come identica al non-sapere ossia è segnata da questo scarto tra sapere e non-sapcre (nel sapere di non-sapere), dallo scarto, cioè, tra l’inizio e ciò che nell’inizio si dà come necessità della ripetizione. Pensare da una tradizione e “al suo interno” significa allora rimetterla ogni volta in discussione. Impedendo che sia assunta come principio, rimmemorabile ne annulla ogni pretesa uitimità, impedendo anche che il pensiero stesso coincida (proprio “in nome della tradizione”) con l’inizio. Questo sfondamento immemoriale che già da sempre consuma l’eventuale imposizione della tradizione come principio, non è tuttavia una condi­ zione meramente negativa. Esso costituisce, anzi, la reale apertura dello spazio del ricordo. Se ha luogo qualcosa come un “dialogo” con la tradizione, ciò avviene esclusivamente ncU’impossibilità della tradizione di valere come orizzonte infinito di senso, come totalità conclusa.

3. Pensiero e stupore: l’aporia della passività L’immemorabile, dice un passo sopra citato, è «una fatalità il cui esito imprevisto coglie di sorpresa la volontà». Nella sorpresa si infrange ogni sapere, aprendo lo spazio per il riconoscimento del non-sapcre. E questo

avrebbe idealo ogni cosa con la sua testa c vorrebbe comunicare ad altri una sapienza scoperta da solo [...]. Doppiamente auspicabile sarà una simile aderenza alla tradizione per chi non vuole imporre nessuna nuova opinione ma soltanto tornare a fare valere una verità esistente da lungo tempo, anche se rimasta nascosta, e ciò in un’epoca che ha davvero smarrito tutti i concetti stabili». Ha scritto Massimo Cacciali, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 139: «poiché qualcosa si dà, l’inizio non può essere Inizio qualcosa si dà, a condizione di poter rimuovere l’inizio, di muoverlo “al tempo’ del rivelarsi-manifestarsi di Dio, della definitiva vittoria di Dio sul proprio essere oscuro, nascosto, sulla propria “Vcrborgcnhcit”».

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rapporto tra la sorpresa e l’immemorabile che ci permette di leggere la ripresa del motivo per cui «la meraviglia è la passione del filosofo». Sviluppata in maniera tanto poco fedele a Platone ovvero poco o per nulla nella direzione dell’anamnesi, cioè di una memoria che si stupisca di sapere (già) e di poter sapere, questa meraviglia assume piuttosto una connotazione che, attraverso l’idea di nctOog, definisce il gesto del pensiero a partire dalla propria passività.

È una sentenza nota di Platone: «la passione del filosofo (xò nczOog xoù cpikooózpov) è la meraviglia (xò Oaupàt,Eiv)». Se questa sentenza è vera e profonda, allora la filosofia sentirà piuttosto la tendenza a trapassare da ciò che essa deve riguardare come necessario, che pertanto non provoca nessuna meraviglia, a ciò che sta fuori e al di sopra di ogni esame e conoscenza necessari: la filosofia non troverà nessuna pace, prima di essere arrivata a qualcosa che sia degno di un’assoluta meraviglia12. Nel passo risulta centrale il rimando al modo della necessità. La meraviglia non può essere provocata da ciò che è semplicemente necessa­ rio: l’attenzione del filosofo dovrà volgersi «a ciò che sta fuori e al di sopra di ogni esame c conoscenza necessari». Il necessario — che non provoca alcuna meraviglia - non è neppure capace di provocare il pensiero. In quanto anticipabile c prevedibile, ciò che accade perche deve accadere, non provocando meraviglia, non suscita nessun pensiero, il cui spazio è quello libero ma inquieto di ciò che è oltre ogni necessità. Ma in questa meraviglia il pensiero fa esperienza di sua duplice, costitutiva impossibilità: quella di ricordare e quella di dimenticare. L’inaudito, il sorprendente, che provoca la meraviglia, non si lascia né incordare né dimenticare: e questo perché la sua “presenza” (a volerne chiamare così l’evento) è indimentica­ bile, ma, contemporaneamente, tale da situarsi al di là di ogni semplice presenza nella memoria (ossia tale da non lasciarsi contenere nell’atto del ricordo). Tutto ciò e (orse meno un’esperienza del pensiero, che non la destituzione stessa di ogni esperienza', è il carattere sempre in-esperto del pensiero. Se rappresenta l’impossibilità di un’esperienza (ripetibile per definizione attraverso un atto di memoria), non e tuttavia possibile elu­ derne la constatazione. u Schelling, Philosophie der Ojfcnbarung (SVV XIV), cit., pp. 12-13;- ir. it. pp. 898-899. Cfr. anche Erlangcner Vortriige in den fahren 1821-1825, in SVV IX, pp. 207-252, qui pp. 229-230; ir. it. di L. Pareyson, Conferenze di Erlangen, in 1*'.WJ. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., pp. 195-226, qui p. 213. Il passo platonico è Teeteto, 155, d. A questo proposito, cfr. Jean-l’rant^ois Marquct, lÀbertf et existence. Elude sur la fonnation de la philosofìliie de Schelling, Gallimard, Paris 1973, pp. 399-403.

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Solo a margine dell’interruzione del “normale” funzionamento della ragione, rappresentata dalla meraviglia, si mostra qualcosa di immemora­ bile. Nell’interruzione, nella sospensione, in quello strano stato che è rappresentato dalla meraviglia, occorre dunque ritrovare, accanto alla disperazione della ragione, la chance del pensiero. Questa risulta - più che dalla padronanza dei “propri” mezzi concettuali - dall’esposizione stessa del pensiero alla sua «passione», al pathos della meraviglia come ciò a cui si è sempre impreparati. Se lo stupore precede l’origine della filosofia e vi si inscrive, è solo dalla sua aporia iniziale che sarà possibile ripensare la ‘ filosofia c il suo destino, ossia unicamente a partire dal limite stesso della pensabilità, dal margine esterno che la costituisce - dal suo “fuori”. Si consideri l’afTermazione per cui il progetto di una filosofia della rivelazione risulta compreso nella sentenza platonica della meraviglia come passione del filosofo". Che questa allusione non si lasci intendere come un’accidentale consonanza, significa che si dà una rivelazione unicamente a partire dallo scarto tra OJJènbarung e OJJcnbarkeit, tra rivelazione e rivelabilità: c’è una rivelazione unicamente se la sua possibilità non è già data o, meglio, se la sua realtà non è già data con la sua possibilità". In altre parole: se essa è irrivelabile. C’è rivelazione solo se c’è stupore. C’è rivelazione unicamente nell’impossibilità di una rivelazione. Dunque nell’i­ nadeguatezza a contenerla da parte di ogni misura possibile. Altrimenti sarà qualcos’altro: sarà deduzione, esposizione, trattazione, ma non OJJen­ barung. Ma la meraviglia non può essere nemmeno prodotta dalla realizza­ zione di una pura possibilità, anch’essa prevedibile e anticipabile. La vera meraviglia non può provenire neanche dalla novità, da una pura novità intesa in senso temporale. Se si dà meraviglia, essa è legata unicamente alla determinazione ontologica delfini-possibilità, di ciò che non si lascia mai e in nessun caso anticipare nei termini di una possibilità, per la quale l’incertezza riguarderebbe al più il fatto che essa trovi o no la sua realizzazione. Tutto questo corrisponde a un “evento”, che accade senza essere né necessario né possibile. E che si dà come inatteso, nell’esperienza di ciò che accade senza premesse, nclfesperienza im-possibile di ciò che accade prima della sua possibilità. In questo senso, lo stupore rappresenta per il pensiero la cosa più ’’ Schelling, Philosophie der OJJenbarung (SW XIV), cit., p. 12; tr. il. p. 899. H Ha accennato a questo motivo, senza svilupparlo ulteriormente, Jacques Derrida, Fede e sapere, in Zzr religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 3-73, p. 23. Ciò che nel corso di questo capitolo cercherò tuttavia di fare, è di mettere in relazione questo scarto in(de)finito tra rivelazione e rivclabilità con il ripensamento della stessa categoria di “possibilità”.

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propria e quella più estranea. Questa contemporaneità segnala la prossi­ mità tra pensiero e impensabile, come se proprio l’“origine” dei pensieri facesse segno al limite della pcnsabilità. Nello stupore, inizio c fine, possibilità e impossibilità, proprio e improprio sembrano appartenere a una medesima costellazione. Lo stupore include e insieme esclude il pensiero. E lo esclude proprio nell’atto di renderlo necessario. Quale gesto più dialettico dell’assunzione dell’estraneità come “la cosa più propria” in nome della filosofia? (Occorrerà prendere sul serio questa aporia iniziale. Pensare la filosofia significherà non solo pensare questa aporia, ma forse proprio pensare attraverso questa aporia.) Né la meraviglia né «l’estasi della ragione» che ne consegue sono una forma di pensiero: entrambe non si lasciano abitare dal pensiero. Proprio questo abitare o abitudine del pensiero nell’estasi è la soluzione della teosofia (che Schelling critica aspramente e, certo, tanto più aspramente quanto maggiormente ne avverte la prossimità alle sue posizioni). L’estasi è meno una forma di pensiero, quanto piuttosto ciò che interrompe il pensierola. Se essa mostra qualcosa, è unicamente l’inassumibile passività a cui il pensiero è costantemente esposto — il silenzio che ne rende visibile il limile.

4. Il passato più passato di ogni passato

Lo stupore lascia apparire l’idea che il pensiero si dà unicamente al di là e prima della sua stessa intenzione. Lo stupore stesso è qui già prima di ogni sua possibile apprensione. In questo “già prima” il pensiero è consegnato al suo jidOog costitutivo, abbandonalo allo smarrimento immemorabile della “propria” memoria. FldOog è il nome di ciò che sospende la memoria stessa nella sua vigenza: questa non è infatti in grado di stabilire nessuna analogia tra lo stupore e un caso passato, perché — in ogni caso — lo stupore sarà incomparabilmente più remoto di ogni passato remolo. Questo remoto passato remoto, questo «passato che non è mai stalo presente» e che, come tale, si costituisce a partire da un suo “già” più originario di ogni passato, è anche l’ossessione che anima le pagine di un progetto a cui Schelling darà il titolo di Le età del mondo. Incompiuto, e come tale fallimentare, di questo progetto esiste, oltre all’introduzione, un’unica parte, sotto forma di diverse redazioni, intitolata non a caso «Passalo». Niente meglio che questo fallimento mostra la necessaria Cfr. J.-E. Connine, Estasi della ragione, cit.» p. 344.



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im-possibilità di un pensiero dell’immemorabile16 e, insieme, la sua posta in gioco: il ripensamento della partizione ontologica della tradizione occidentale. Celebre è la formula con cui si apre V Introduzione: Il passato è conosciuto, il presente è constatalo, il futuro è presentito. Il conosciuto è raccontato, il constatalo è esposto, il presentilo è profetizzato.

Racconto, esposizione, profezia sono le tre dimensioni nelle quali l’articolazione dei tempi trova la sua espressione. Il loro accordo è dato dalla comune radice passata del participio, nel quale si esprime l’articola­ zione dei tempi. È dunque innanzitutto il passato (di un participio) a rendere possibile l’articolazione in base alla quale passato, presente e futuro esistono nella loro differenza. Questo passalo non è tuttavia uno dei tempi (quello che si chiama appunto «passato»), ma rappresenta la deter­ minazione essenziale della temporalità in quanto tale. Nel passato del comune participio risiede la possibilità fondamentale di tutti c tre i tempi, la possibilità che essi esistano nelle loro reciproche differenze1'. Ed è su questo passato che il tempo si può “misurare”. Questo significa che la misura del presente e del futuro è compresa nella differenza tra il presente dell’esposizione e il futuro della profezia, sulla base di questa comune radice di un passato originario. Lo stesso passato non si misura altrimenti che su di essa. In questo senso, la differenza dei tempi precede la loro successione. Essa precede, come passato “originario”, lo stesso passato e dunque l’articolazione dei tempi nella loro totalità1'. Se a fondo dell’articolazione dei tempi permane un passalo più passalo del passato, ossia se i tempi si articolano unicamente sul fonda­ mento di un comune “essere-passato”, non si tratta di contrapporre a questa articolazione un non-articolato che l immcmorialc sarebbe. E in­ vece l’emergenza stessa dell’immemorabile nel tempo che occorre risco­ prire, pensando evidentemente anche gli effetti (filosofici, ma anche poli­ tici) di questo riconoscimento. E del resto, su nicnt’altro che sul fondamento di questo passalo indimenticabile che è possibile ricordare. Ma ciò che permette la memoria, le resta inaltingibilc. Nelle Età, la cesura tra tempo e memoria si approfondisce a partire dalla possibilità - presente 16 Cfr. Xavier Tilliette, Schelling. Une philosophie en devenir, I, Vrin, Paris 1992, p. 583. ” Cfr. Schelling, Philosophie dei Offenbarung (SW XIV), cil., p. 108; ir. it. p. 1061. Sarebbe interessante approfondire somiglianze e differenze tra questo gesto e quello del confessarsi di Agostino. Questo tentativo dovrebbe necessariamente passare per un ripensamento della stessa formula schellinghiana del «divenire dell’eterno».

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nell’uomo - di ripercorrere la strada verso «la più profonda delle notti»: c’è in lui, in ogni uomo, qualcosa che gli consente di mantenersi prossimo a ciò che non si lascia “semplicemente” ricordare. Ancora una volta, è alla compresenza di due principi che occorre riannodare l’evento di questa memoria: uno «superiore», che preserva il ricordo di tutte le cose, e un altro «inferiore», che limita il precedente". Proprio la coesistenza di questi due principi indica la coappartencnza della verità a una doppia misura, dell’interiorità e dell’esteriorità insieme. In essa sta quella «necessaria misura» a cui l’uomo è di continuo chiamato a rapportarsi'". Doppia e insieme necessaria misura: nel loro essere frammisti, tali principi impedi­ scono al ricordo di esistere nella sua purezza. In questo senso, il passalo segna, irriducibile a ogni presenza, la finitezza stessa del sapere, della constatazione e della profezia. Il principio «superiore» è quello da cui dipende il «ricordo di tutte le cose», un ricordo che conservi i «rapporti originari» delle cose. Qui la memoria appare la fonte stessa del «significato» e, in quanto tale, il principio stesso dell’economia di senso. Ma questa memoria di tutte le cose donne nell’uomo. La mancata consapevolezza ne disperde il «significalo». Qui la sua purezza e chiarezza iperbolica si trovano oscurate dal secondo principio. Tuttavia è solo con questo secondo principio - che pure Schelling non cesserà di definire «estraneo», «inferiore», etc. - che fa la sua comparsa quella differenza che consente di scomporre l’esercizio della memoria, permettendo a questa di «separare, dividere, differenziare, articolare» la totalità dei ricordi. Abbandonata alla sola purezza del «principio supcriore», la memoria sarebbe incapace di articolare la plura­ lità di ricordi, che custodisce in sé. E solo la sua finitezza a permettere di articolare c dunque di ricordare. Ora, questo secondo principio è proprio quello che la memoria stessa non è capace di convertire in contenuto mncstico. Quando la memoria fa la sua comparsa, è già stata preceduta da qualcosa che non è oggetto di nessuna memoria, da ciò che non si

*** Schelling, Die Weltalter (1815), cit., pp. 200-201; ir. il. pp. 40-41 (ini discosto dalla tr. cit.): «Questo quadro originario delle cose donne nell'anima, oscuralo c dimenticato, se non del tutto spento. E forse non si rianimerebbe mai più se in quello stesso principio oscuro non dimorassero l'intuizione e la nostalgia della conoscenza. (...) il principio supcriore nota che l'inferiore non gli è dato come associato per rimanergli incatenato, bensì affinché esso stesso ne abbia un altro, nel quale possa osservare, rappresentare e compren­ dere se stesso. Infatti in lui tutto è senza differenziazione, in un primo momento, come unità; nell'altro, invece, egli può separare, dividere, differenziare, articolare ciò che in lui è uno». 711 Schelling, Die Weltalter. Fraginente, cit., Il, p. 15.

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lascia ricordare e che, come tale, sarà piuttosto da chiamare “oblio”. E questo non come mera dimenticanza, ma come ciò la cui venuta imme­ morabile non si lascia né ricordare né anticipare da nessun ricordo. Paradossalmente, proprio la dimensione totalizzante della memoria rivela la necessità di questo “oblio” per poter ricordare. Nel dover escludere il «passato più passato di ogni passato», che pure ne costituisce la misura immemorabile, si delinea il limite della sua totalizzazione. Riconoscimento di ciò che eccede l’orizzonte della memoria e di cui tuttavia questa ha bisogno, il secondo principio (il «principio inferiore») è quanto, nella memoria ossia all’interno della memoria, ma come altro dalla memoria, le impedisce di imporsi come orizzonte totalizzante. Ciò con­ sente un’articolazione di quella iperbolica «presenza di tutte le cose», articolazione senza la quale questa /> Weltalter (1815), cit., p. 259; tr. it. p. 97.

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cristianesimo, nella fedeltà ebraica al Dio di Mosè, nello stesso Olimpo greco, è in questo «dio vivente» che egli spera di imbattersi. Ogni altro incontro non sarebbe che la delusione di un surrogato. Rispetto a quest’e­ sigenza, ogni concetto fallisce il compito di una mediazione effettiva tra cielo e terra, fallisce, anzi, nell’apertura di questo spazio proprio in quanto spazio indefinito, aperto per un incontro che non si lascia anticipare dalla cogcnza del concetto. Come pensare allora questo “spazio”?

J1 concetto di Dio non può essere enunciato con una sola parola. In Dio vi è necessità e libertà. [...] Benché il Dio necessario c il Dio libero siano lo stesso Dio, fra loro non v’è medesimezza1".

La questione si sposta sulla domanda se vi sia un concetto capace di unire nella brevità di una parola questi due aspetti aporeticamente con­ nessi. Se vi sia una parola unica in grado di dire necessità e libertà che sono dello «stesso Dio», anche se «fra loro non v’è medesimezza». Non solo manca un concetto adeguato: la stessa possibilità di enunciare «Dio» dovrebbe inoltre mantenersi nell’unità contraddittoria di libertà e necessità e, mantenendovisi, dime contemporaneamente i due aspetti contrari, nella semplicità di una sola, inesistente parola. Semplicità impossibile perché essa non potrebbe in nessun caso “dimenticare” la loro contrarietà, non potrebbe dunque “dimenticare” quella differenza tra dio e dio, che è pur sempre «Dio» e che non si lascia “ricordare” nella semplicità dell’£rinnerung. Del resto è proprio questa semplicità che la parola «spirito» aspira a incarnare, in tutta la tradizione occidentale. Ma che parola c «spirito», un concetto o piuttosto un nome? E a un ricordo che Schelling affida questo passaggio, al ricordo dei «più antichi teologi»:

I più antichi teologi insegnano espressamente che col termine “spirito” Dio non viene posto in una classe o categoria particolare di esseri, per esempio in quella dei cosiddetti puri spiriti, o eventualmente nel senso che sarebbe ^spirito solo in opposizione alle cose naturali. Dio è al di sopra di tulli gli spiriti, è il più spirituale degli spirili, puro soffio c inafferrabile; è per così dire lo spirilo di ogni spirito". La parola «spirito» .sarebbe in grado di designare nientemeno che la stessa realtà di Dio. Tuttavia, non appena tale parola indica Dio, non

"* Ivi, p. 209; ir. il. p. 51. " Ivi, pp. 236-237; ir. it. p. 76.

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appena si comporta da nome di Dio, ecco che qualcosa accade: la stessa parola o nome di «spirito» inizia a significare in un modo eccezionale. Questa trasformazione accade dal momento che «spirito» inizia a indicare «Dio» come «spirito di ogni spirito». Ciò mette in atto un senso iperbolico della parola «spirito». Iperboleggia lo spirito: Dio potrà essere considerato «spirito» e la parola «spirito» sarà l’unica veramente adeguata solo nel senso iperbolico, per il quale Dio è sì spirito, ma in senso totalmente differente da quello per cui vi sono degli «esseri» che vengono chiamati «puri spiriti». E solo perché «spirito» indica ciò che non è legato a nessuna dctcrminazione, dunque al limite nemmeno a quella di «spirito», che esso si presenta come un possibile nome adeguato per l’«assoluta libertà» di «Dio». «Spirito» rappresenta un nome che indica contemporaneamente il suo invalidarsi, la sua scomparsa, proprio perche indica la «piena libertà», la «completa e perfetta libertà» di Dio come ciò che si sottrae a ogni figura determinata . La parola «spirito» si riferisce è dunque alla realtà di Dio unicamente nella sua iperbolicità, che, a sua volta, cerca di corrispon­ dere all’altra iperbolicità, quella di Dio rispetto alla parola «spirito». In questa relazione di incommensurabilità, la parola indica innanzitutto l’iperbolicità del significato e - come nome - l’iperbole dell’esistenza^ la sua assoluta singolarità. Questo implica che l’indicazione formale resta inavvicinabile. Vale unicamente nella sua intangibilità. Significa che Dio è «spirito», ma non nel senso comune, nel senso di spirilo: è «spirito di ogni spirilo», spirilo più spirituale di lutti gli spirili, è insomma spirito senza spirito, perche nella semplice parola «spirilo» risuona inevitabilmente l’indicazione dello spirito “normale”. L’iperbole indica l’incommensurabilità che si introduce nella stessa parola, quando questa viene assunta come nome, quando con «spirilo» si indica «Dio stesso». Il nome sembra valere unicamente in questo frammezzo, in cui è preso in mezzo tra lo «spirito» iperbolico rispetto a ogni spirito “normale” e l’incommensurabilità di Dio rispetto alla parola stessa «spirilo», incommensurabilità che è tuttavia indicala più adeguatamente che da ogni altra proprio dalla parola «spirito». Essa finisce così con l’indicare quell’incommensurabilità rispetto a cui ogni nome si trova a essere, a un tempo, inscritto ed escluso, adeguato c finito. L’unica adeguatezza che il nome «spirito» sembra possedere per sé è appunto legata al fatto di indicare l’inadeguatezza del nome - di ogni nome - a localizzare Dio, per esempio opponendolo alla natura o alla 12 Schelling, Philosophie der Oflcnbarung (SW XIII), eh., pp. 270-271; tr. il. pp. 453-455.

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materia. «Spirito» sarà nome di Dio, ma appunto nel senso per cui esso rimane incommensurabile rispetto a una comune misura tra spiriti. L’indi­ cazione del nome ha luogo unicamente rendendo impossibile ogni univoca denotazione. La sua adeguatezza sembra consistere proprio in questa inadeguatezza, in quanto indica Dio come indeterminabile e indica questa indeterminatezza come l’indefinibilità stessa del nome: se «spirito» si riferisce a uno spirito che non ha nulla in comune con gli altri spiriti, la “spiritualità” di Dio deve restare segreta, perché indica innanzitutto l’evanescenza inaccessibile dello spirito. (Resto ancora impensato, la con­ statazione che, là dove è questione dello spirito, siano in molti ad apparire, molti spiriti, quasi questa unicità o singolarità dello spirito potesse essere colta unicamente a partire dalla pluralità dei molti, indeclinabili secondo il movimento di quell’unico spirito. La questione ora sarebbe: che cosa dice questo a riguardo del nome? Questa pluralità è forse la ripetizione in un unico nome, la sempre possibile ripetizione del contrassegno stesso della singolarità?) L’iperbolicità del nome significa anche che il nome non è mai la donazione del nominato, per esempio in forma della sua “essenza”. A maggior ragione ciò sarà impossibile, se questa iperbolicità è quella incondizionata dello «spirilo» . La pronuncia di un nome non svela ciò che si mantiene nella riserva delle sue «profondità». Nella possibilità di pronunciare un nome, che è - come òuvaptg — un segno di potenza, permane tuttavia l’impossibilità, che qui ha forma di non-sapcre, permane la sua ùòuvajiia. Questa sapienza superficiale, ma decisiva, del nome rende vana ogni pretesa di esaurire in sé ciò che nomina: l’epifania del nome «presuppone un non-essere-manifesto», sotteso a ogni rivelazione".

4. Mitologia del nome

In che senso, a quale condizioni e con quali conseguenze, allora, «spirito» sia un nome, sembra dirlo un’analisi della «tautegoria», il principio-guida della Mitologia, secondo cui «gli dei sono esseri realmente esistenti, [...] non sono ne significano qualcosa d’altro, ma [...] solo significano ciò che essi sono»1". Se la tautegoria esprime la verità della mitologia in quanto vera

11 Cfr. Schelling, Weltaltar. 1-ragmeiite, cit., Ili, p. 199. '* Cfr. Schelling, Philosophù der Mylhologie [Die Mythologie), cit., p. 394. 15 Schelling, Phitosophu drr Mylitologie {Historisch-kritisdu Kinleilung), cit., pp. 195-196.

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per se stessa e non in riferimento ad altro (di cui essa sarebbe il rispecchia­ mento), anche i nomi degli dei andranno pensati in una prospettiva rigorosamente tautegorica. Questo vuol dire: tali nomi non esprimono altro né altro significano, «ma solo significano ciò che essi sono». Signifi­ cato e esistenza appaiono saldamente uniti e il nome di questa unità è appunto quello di «tautegoria». Ma questo significato, a sua volta, non significa nulla al di là del fatto di esistere. Privo di una verità al di là di questa indicazione di esistenza, il nome fa segno innanzitutto al fatto dell’esistenza, dicendone la tautegoricità ovvero che essa ha senso unicamente in quanto esistenza. Il nome dice che il senso dell’esistenza è la stessa esistenza''. In questo modo, al di là dell’insidia del senso e della coazione a spiegare, si tiene libero dalla certezza dcllV/)7»ow, esposto piuttosto alla dimensione dell’aver senso, alla mortalità di un’esistenza che è esistenza e null’altro: non spiega nulla, non partecipa di nessun sapere, attestando in questa forma la verità della «tautegoria». In questo senso, il nome, oltre indicare questa esistenza, “non significa nulla”: non fa senso per sé, anzi si sottrae all’insidia di rappresentare un qualche significato. Certo, nelle intenzioni di Schelling, il principio della tautegoria permetterebbe innanzitutto di salvaguardare l’univocità del nome. Come tutta una tradizione, Schelling oscilla tra questa consapevo­ lezza del valore denotativo del nome (che prende in lui la forma del principio tautcgorico) e il desiderio di aggiungere un contenuto alla nuda indicazione formale. Nella mitologia questo è reso possibile dal fatto che un nome non compare mai se non come parte di un racconto. E questo racconto ad attribuire al nome un significato storico specifico: se non esiste un gesto capace di dare significato attraverso il nominare, il senso stesso di un nome dipende piuttosto dalla narrazione di un racconto, nel quale il nome compare. Ma il nome di per sé precede questa attribuzione di senso, avendo luogo già prima di ogni significare. Se è dalla tradizione che riceve tanto la sua legittimazione quanto la sua valenza evocativa, il nome non si esaurisce tuttavia nelle estensioni codificate da questa. E questa stessa oscillazione che viene testimoniata dalla ricerca di un etimo per i nomi degli dèi. La ricerca etimologica ha luogo unicamente in 16 Cfr. a questo proposito la tesi di Walter Benjamin, Uber Sprache Uberhaupt und Uber die Sprache der Menschen, in Gesammelte Schri/len, 11/1, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, pp. 110-157, p. 114, secondo la quale «il nome è ciò attraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua stessa si comunica in maniera assoluta». Nessun contenuto può, dunque, costituire la ragione per la quale un nome è o si dà. Così il nome come lingua indica l’essenza dell’uomo, ma unicamente in quanto essa non ha nulla a che fare con una «trasmissione [Mitleilung]» che non comunica nulla, ma solo accade.

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vista di un'origine come fonte del significato, come fosse la provenienza linguistica di un nome la sua verità. D’altra parte, pur nell’inanità del suo tentativo, all’ambiguità sottostante la ricerca etimologica si accompagna la possibilità di mostrare la concretezza storica dei nomi e il loro ancorarsi a una realtà effettiva. Solamente, in questa rincorsa verso l’origine, non le viene incontro nessun punto su cui possa arrestare la sua ricerca. Ben più che alla scarsezza dei suoi mezzi, ciò è dovuto piuttosto al fatto che, nella storia come storia dei nomi (e nei nomi stessi come storia), il circolo non si lascia agevolmente chiudere su un punto che ne costituisca l’origine. Che il nome si riveli nella sua trasparenza, è per l’appunto la pro­ messa sottesa a ogni quéte etimologica. Promessa di attingere il senso dalla sua stessa fonte, promessa che quel senso sia attingibile e la fonte stessa generosa, in essa il nome mostrerebbe il suo senso, a supporre che ne abbia almeno uno e uno solo. E, anzi, mostrerebbe - è l’idea di Schelling - «il significato originario di una divinità»1'. Indicazione dell’unica prove­ nienza veritiera della parola, essa presuppone indubbiamente la fiducia nella possibilità di eleggere questa provenienza a origine di senso. E presuppone se stessa come capacità di far emergere il nucleo originale di senso custodito in ogni parola. Ma è proprio in quanto nel nome risiede la promessa di un accesso a quella tradizione che gli sta “alle spalle”, che esso può essere assunto come la forma linguistica della memoria11. Questo potere evocativo del nome è appunto la promessa di un accesso al di là dell’opacità delle cose, la promessa di poter chiamare ogni cosa “per nome” e di poterla richiamare eventualmente anche dal passato. Qui revocazione appare chiaramente come una forma della òuvaptg. Ma proprio questa promessa fa cenno a una frattura insanabile, più originaria di ogni unità che possa precederla: la frattura tra il nome in quanto indica unicamente l’esistenza di fatto (nella sua genericità) c lo stesso nome in quanto caricato della promessa di “proprietà”, di un apprensione delle cose nella loro determinatezza inequi­ vocabile (per esempio, nella ricerca etimologica)”. Certo, la domanda è se questo iato tra la determinazione generica e forse astratta del nome (dunque necessariamente sempre “impropria”) c la promessa “proprietà” della sua virtù evocatrice non sia parte integrante del nome. La connota-

” Schelling, Philosoph'u der Mylhologie {Die Mythologie), cit., p. 353. ,a Cfr. Roland Barthes, Proust et Ics noms, in Nouveaux Essais Critiques, Seuil, Paris 1972; ora in (JEuvres complètes, 11 (1966-1973), Seuil, Paris 1994, pp. 1368-1376, qui p. 1370. 19 A questo proposito cfr. John Stuart Mill, A System of Is/gic. Ratiocinalive and hiductive, Routlcgdc & Kcgan Paul, Toronto-Bulfalo 1973, libro I, cap. Il {OJNames), § 5, pp. 30-41.

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zione si dà unicamente qui, in questa discrepanza tra la promessa di un’identità ‘^propria” e l’improprietà del nome, ovvero unicamente nello spazio lasciato libero da ogni identità20. Così il nome proprio significa unicamente senza dire nulla, senza esprimere alcun significato. Alla gene­ ricità del nome comune il nome proprio sembra rispondere aderendo alla singolarità del designato. Tuttavia, si consideri come questo non avvenga in forza di una tessitura di relazioni logiche c grammaticali (come invece per il nome comune): pertanto il nome proprio è tale unicamente nel suo essere costantemente esposto alla possibilità di venire espropriato della sua “proprietà”, ovvero dell’esclusività con cui si riferisce al nominato. Il sistema di differenze nel quale il nome proprio c sempre inscritto lo espone nella sua proprietà, lo abbandona alla revoca della sua invocazione, della sua stessa voce. Ma è unicamente in questa sempre possibile revoca della Voce che lo nomina, che il nome proprio significa - unicamente in quanto finito, in quanto esposto alla sua scomparsa.

20 Appropriata, in lai senso, l’osservazione di Curtius ripresa da Ixro Spitzcr, Stilstudien II, Hucbcr, MUnchcn 1928, p. 434, che il nome rappresenti una specie di «modulo in bianco»: «i nomi propri sono, per usare un’espressione di Curtius, “moduli in bianco [Blankoformulare]", che Proust può riempire con sensazioni, perché non sono ancora razio­ nalizzati dalla lingua». «Moduli in bianco» i nomi lo sono innanzitutto perché corrispon­ dono a uno stadio che la lingua non ha ancora razionalizzato: i nomi propri sono non ancora significato, precedono la dimensione del significato c, in questo senso, quella di ogni razionalizzazione. Nella lingua essi costituiscono dunque l'eccezione di un'istanza rhe non è più solo segno, ma non è ancora significalo. Ma così viene meno anche la critica di Barthes nei confronti del nome come designazione che non significa. Non che non significhi nulla (Barthes pensava a Peircc e a Russell): piuttosto il nome precede la significazione e proprio in questa anticipazione temporale affonda le sue radici il potere evocativo di un nome proprio (come Barthes con Proust sa bene: «le Nom est en clfet catalysable», cfr. Proust et les noms, cit., p. 1372). Contemporaneamente, il nome non è un segno tra altri: la sua intraducibilità fa segno a questa sua impossibilità di inscriversi come segno nel discorso (ciò che Derrida ha ben visto attraverso Benjamin nel suo De tours de lìabel, in Psyché. Inveii tions de l'autre, Galiléc, Paris 1987, pp. 203-235 - ncU’aporia della necessità della traduzione c della sua impossibilità). E precisamente per questa ragione che non potrei sottoscrivere l'affermazione di Barthes, Proust et les noms, cit., p. 1371, secondo la quale il nome proprio sarebbe «pourvu de tous les caracteres du nom commuti». Non ho qui la possibilità di analizzare né le riflessioni di Barthes né il loro debito nei confronti di Ixvi-Slrauss. Un eventuale punto di partenza per un’analisi di questo tipo potrebbe essere costituito dall'uguaglianza tra nome proprio e nome comune.

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5. Per una teologia politica del nome proprio

Un nome impossibile La scena decisiva, su cui Schelling costantemente tornerà, è quella del roveto ardente del libro Esodo (3, 14). Qui tutto parte da una strana richiesta di Mosè, fatta nelle sue vesti di guida di Israele. Questa richiesta riguarda nientemeno che il nome di Dio. E, precisamente, quello con cui Mosè si dovrà presentare al popolo, come segno della legittimità della missione di cui è stato investito. Con che nome dovrà presentarsi Mosè ai suoi? In nome di chi o di cosa potranno quelli ritenere la sua autorità valida? Da quale segno si lascia riconoscere questa legittimità?'1 E dal roveto ardente giunge a Mosè una risposta che, benché si lasci inscrivere nei termini del Patto c dunque della confidenza accordata da Dio al popolo di Israele, è tale da gettare nella costernazione: «Dio disse a Mosè: “Io sarò colui che sarò!”. Poi disse: “Dirai agli Israeliti: lo-Sarò mi ha mandato a voi”». Ciò che qui si dà a pensare è innanzitutto l’unità di segreto e di rivelatezza, di manifestazione e di nascondimento, in cui sembra consistere la potenza paradossale del nome. E questo paradosso del nome si accom­ pagna con la coincidenza “impossibile” di forza c debolezza, in cui la òùvaptc; si lega alla sua àòuvapta: la forza del nome che Dio confida a Mosè è tutf altra da quella dei nomi propri dei potenti della terra. Essa fa piuttosto segno a un’assoluta debolezza del nome’2. Il quale si fa presente

21 È stato A.-M. Dubarlc, Im signijication dii nom de iahweh, in “Rcvuc des Sciences philosophiques et thcologiqucs”, XXXIV/1951, pp. 3-21, a indicare per primo con chiarezza la posta teologico-politica di questa scena, sia pure senza svilupparne ulterior­ mente le implicazioni. 'I ra i testi che ho tenuto presente per questa sezione, i più importanti - oltre quelli citati più avanti sono Franz Rosenzwcig, «Der Eurige». Mendelssohn und der Gotlesname (1929), in Die Srhrijl. Aufsfilze, Ubertragungen und Brieje, a cura di K. Thiemc, Europaische Verlagsanstalt, Frankfurt a.M. 1964, pp. 34-50; tr. it. a cura di G. Bonola, Di scrittura. Saggi da! 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991; S.D. Goilein, viiwii thè passionate. The monotheistic Meaning and Origin of thè j\'ame yiiwh, in “Vetus Tcstamcntum”, 1956, pp. 1-9; Otto ELssfeldt, ’ÀHEYÀH ,XSÀR ’ÀHEYÀH und ’EL ‘Ó1ÀM (1965), in hleine Schrijten, IV. J.C.B. Mohr (Paul Siebcck), ì’obingen 1968, pp. I93J98; Werner II. Schmidt. Der Jahivename und Ex 3, 14. in Textgemìiss. Aufsfitze und Beitrage zur Henneneutik des A.T, Vandcnhocck & Ruprecht, Góttingen 1979, pp. 123-138. " Sul tema della «forte debolezza», cfr. Schelling, Bhilosophù der Ojfrnbarung (SW XIV), cit., p. 26; tr. it. p. 921.

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unicamente nell’impossibilità (per Mose) di ripeterlo: di rispondere “uma­ namente”. Debolezza (che è forza) di ciò che si dice senza lasciarsi ripetere, di ciò che è rivelato nella sua irrivclabilità e in cui dono e sottrazione, rivelazione e nascondimento coincidono. E in questo nome di Esodo 3, 14, è nel paradosso di una forza che è debolezza, e viceversa, che risiede la misura opportuna per lutti gli altri nomi. E su questo nome, infatti, che tutti gli altri devono essere misurati, come Schelling si esprime. Ma questo paradosso, in cui òvvaptg c ctòuva.iiia coincidono, consegna un nome che è innanzitutto un nome impossibile. «Io sarò colui che sarò» non è un nome con cui Mosè possa presentarsi al popolo. Non è un nome di cui possa farsi forza. Emblematico è che il libro dcll*£Wo racconti unicamente in sintesi indiretta il rivolgersi di Mosè al suo popolo, mentre sono sempre riferite le apparizioni di Dio a Mose c ad Aronne: evidente­ mente, un nome come «Io sarò colui che sarò» non si presta, in virtù della prima persona nella quale la formula è declinata, a essere ripetuto da altri che da Dio. Se Mosè dicesse «Io sarò colui che sarò» non farebbe che rimandare alla propria persona e non a Dio. I linguisti indicano questa particolarità della prima persona singolare — che indica sempre il pariante c nessun altro al di fuori di lui - come shijler l’“io” assolve nella frase alla funzione di indicatore nel senso di riferirsi in assenza di una denotazione fissa - unicamente al soggetto parlante e a nessun altro. Come tale, può essere pronunciato da chiunque parli, ma sempre c soltanto in riferimento a se stesso. Mosè non lo pronuncerà appunto mai. Oltretutto, caratteristica del nome è proprio la sua itcrabilità - che è l’itcrabilità della voce che lo pronuncia. Ora, il nome di Esodo 3, 14 non è ripetibile. In quanto tale, non è la risposta alla richiesta di Mosè o, meglio, ne è la risposta paradossale, accoglitele unicamente come si accoglie un paradosso. L’atto performativo della donazione sembra qui smarrirsi nella pcrformazionc dcH’imperformabilc. Nel punto in cui la guida di un popolo (c del popolo eletto) chiede di poter parlare “in nome di Dio”, il nome alla cui richiesta pure avrebbe potuto rispondere il solo silenzio - si lascia dire solo in modo impossibile. Proprio questa contemporaneità è la cosa più difficile da pensare, la contemporaneità tra quest’impossibilità e il fatto che una voce paria a Mosè, non restando muta di fronte alla sua richiesta, inscrivendo così il Nome nella storia. Questo punto in cui la possibilità del nome pare risiedere unicamente nella sua impossibilità - come se dono c impronunciabilità facessero tutl’uno è quello in cui non un nome, ma un pronome, ossia ciò che sostituisce un nome, ciò che ne fa le veci, si rivela a Mosè come l’unico nome adeguato del suo Dio: questa sostituzione implica, inoltre, una vera c propria

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soppressione della possibilità di dire “io”. È questa possibilità a essere qui sottratta al soggetto in ciò che gli è “più proprio” è già all’opera la voce del totalmente altro. Qui, nel pronome, il nome si assolutizza e, contem­ poraneamente, scompare come tale. Il posto che “spetta” al nome non significa più (come nel nome “Signore”), ma assume invece una funzione strettamente indicativa. In quanto tale, indica sempre qualcosa che è o assente o a venire: rimanda al futuro, si definisce come pre-nome, antici­ pazione di ciò che non si lascia anticipare. Ancora una volta, il nome sembra associarsi a una radicale espropriazione del suo aspetto denotativo (cioè della sua “proprietà”), nome al di là del nome, che si dà unicamente come perifrasi. Questo dono paradossale, segno dell’elezione di Israele, non si lascia pensare che nell’unità contraddittoria di questi contrari: forza e debolezza stanno insieme in una rivelazione, che è quasi il raddoppiamento del suo segreto. Questa consapevolezza appare irrimediabilmente compromessa nella versione alessandrina che traduce Esodo 3, 14 con èyd> ètpt ó òv, io sono l’esistente, il veramente esistente. Al di là del malinteso contenuto nella traduzione dei Settanta, appare decisiva la ripetizione del verbo “essere”, quale coincidenza di rivelazione e segreto, di rilievo e revoca nel medesimo istante: una ripetizione che, a rigore, non appartiene più al piano semantico, ma a ciò che lo sovverte ’.

La Voce Sospesa al suo dirsi, la Voce di Esodo 3, 14 consuma la parusia nello stesso gesto con cui le dà luogo. Clamans in deserto è questa Voce in quanto infrange il suo stesso essere voce (cd è, dunque, al di qua della stessa opposizione voce/scrittura). Votata alla perdila, l’articolazione della Voce produce il nome unicamente come inappropriabile. Produce l’inappropiabilità del nome. Nel breve ma fatale dialogo tra JHW”H c Mosè, il nome divino non si lascia assumere come l’assicurazione di una certezza, ma unicamente nell’abissalità di una questione aperta su se stessa. Mose riceve risposta alla sua domanda non ricevendola o, meglio, ricevendone una in forma d’abisso.

n E importante sottolineare come la stessa forma futura del verbo “essere” indichi, piuttosto che un Nome originario, il tentativo di una spiegazione teologica. Gfr. Friedrich Niewòhner, Der Marne und die Mamen Gottes, in “Archiv ftir Bcgrilìsgeschichtc”, XXV/1981, p. 140.

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È una precisa esperienza del nominare - l’esperienza dell’intenziona­ lità di un gesto che precede ogni significato - a farsi qui visibile. Questa esperienza del voler-dire, questa intenzione precedente ogni significare non è semplicemente insensata, ma è piuttosto ciò che apre lo spazio della significazione. Con ciò non è detto che il nominare escluda il significato, ma che esso non è ancora significalo c che, tuttavia, si pone in rapporto a esso. Ne differisce senza esserne indifferente ossia non è più semplicemente assenza di significalo. E, piuttosto, un gesto che si inserisce tra l’uno e l’altro, tra un non più c un non ancora, nella temporalità scissa di una duplice negatività: e questa inserzione o produzione di temporalità avviene paradossalmente in un enunciato nominale che è, di per sé, non tempora­ le2’. E nella costitutiva ambiguità tra l’attribuzione al nome di un signifi­ calo (a cui Schelling, come tutta una tradizione, non rinuncerà mai) e il ri-chiamo di tutti i suoi possibili significali che occorre leggere la forma stessa del nome proprio in quanto appartiene a una dimensione che, senza essere insensata, è senza senso. Proprio questa duplice dimensione costitutiva del nome, proprio la sua duplice temporalità negativa (fatta di un non più e di un non ancora) esprime il punto in cui nome e stupore appaiono insieme, ovvero il punto in cui il nctOog — la passione, la passività - costituisce la dimensione stessa del significare . Pensare il rilievo teologico-politico del nome proprio significa, senza dubbio, pensarlo a partire da ciò che non è ancora significato, ma neppure sola intenzioneOccorre, in altri termini, pensare la teologia politica appunto a partire dall’avvento di una Voce che parla unicamente trattenendosi nello spazio tra questo nc/né, nell’appartenenza a una doppia istanza negativa. In questa Voce che lo dice, il nome è sempre

21 Per l’enunciato minimo del nome che è prima del senso anche se non insensato, cfr. Émilc Bcnvcniste, Problema de linguistii/iie generate, I, Gallimard, Paris 1966, p. 166. In un saggio su cui occorrerebbe potersi soffermare più a lungo, Benno Jacob, Mose am Dominiseli. Die beiden Hauplbeiceisstellen der Quellenscheidung im Pentateueh Ex 3 und 6, in “Monatschrift fùr Geschichte und Wissenschaft des Judcntums”, 1922. qui p. 32, ha riconosciuto come «senso e significalo del nome» si accompagnino necessariamente a un «all’etto |/l//fA/|» e che anzi si lasciano riconoscere unicamente in forza di questo «allctto», a prescindere dal l’atto che sia «di meraviglia, rimprovero, sfida, disprezzo, ma anche di ammirazione e lode». [', la speculazione dei cabalisti a illuminare questo aspetto decisivo. Il Nome è posto dai cabalisti al centro del linguaggio unicamente come insensato: perche la rivelazione c eventualmente la comunicazione del senso possono aver luogo solo se c’è qualcosa che, eccedendo il senso, lo rende possibile e, dunque, reale. 11 Nome svolgerebbe questa funzione, permettendo il linguaggio pur ritirandosi dalla sensatezza di questo, sottraendosi alla lingua in quanto lingua degli uomini. Cfr. G. Scholem, Il Nome di Dio, cit., pp. 88-89.

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esposto alla sua revoca e alla sua morte*'. Qui la finitezza del nome c il suo significare risultano legati a un istanza che non comunica altro al di fuori di se stessa. Mentre la parola ha un contenuto e un oggetto, il nome ‘‘non dice nulla”, la sua comunicazione si esaurisce nel suo comunicarsi, che precede ogni significare, nell’eco di un dirsi che non esprime nessuna essenza. Epifania prima del significato, rivelazione del nudo “ecco”, pura esteriorità del segreto, il nome non indica che questa nudità: l’improprietà che assedia l’esistenza, il suo essere finita - la morte, come ciò per cui non c’è nome, ma a cui ogni nome costantemente allude.

Il futuro, listante, la Legge

Ora, nell'Esodo, tutto accade nell’istante in cui il nome di Dio si dona. Questo istante fa tuti’uno con quello della sua impronunciabilità. Esso corrisponde, nella sua implacabilità, al tempo in cui vige la Legge - ogni istante - e al modo in cui essa vige: è all’istante che la colpa colpisce il trasgressore, anche quando la punizione si lasci attendere. Lingua e Legge mostrano qui la loro costitutiva vicinanza: lo stesso comandamento del decalogo - «non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano» - si lascia pensare nel senso di un’impossibilità strettamente linguistica. La legge traduce in termini teologici c giuridici l’impossibile nominabilità del nome di Traduce l’assenza di una denotazione fissa dcll’«Io sarò colui che sarò». Qui teologia e lingua - teologia c grammatica - si toccano nella maniera più decisiva c mostrano la loro origine comune, declinan­ dosi insieme nell’esperienza della I-cgge. La proibizione del decalogo riguarda l’impossibilità dell’io, ovvero l’impossibilità di pronunciare “io” senza intendere “Dio” c dunque l’im­ possibilità di dire Dio o di chiamarlo senza identificare io (che parlo) con Dio. La loro vicinanza denuncia come nell’atto di nominare Dio stia sempre in agguato la sostituzione blasfema dcll’“io” a “Dio”. E questo particolarmente nel contesto di Mose, in riferimento al suo compilo di guida del popolo eletto. In un certo senso, l’elezione non fuga il rischio di una parola che, per essere santa, si renda blasfema. Anzi, reiezione, come luogo di una santità incomparabile, è anche l’unica condizione nella qualela parola umana possa veramente estendersi sino alla blasfemia.

Sulla relazione tra mone, nome c linguaggio, cfr. Jacques Derrida, hi voix el le phénomhu (1967), Puf. Paris 1993, p. 61.

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E, tuttavia, visto che la potenza del nome sta ncll’indicarc, qualcosa pure indica questo nome di Esodo 3, 14, al di là o, meglio, insieme alla sua impossibilità. Questa indicazione si riferisce precisamente al futuro, se­ condo Schelling, e dunque allo stesso destino del mondo: non c’è spiegazione del nome di Dio più documentata di quella che proprio il vero Dio ha dato al legislatore di Israele. Infatti quando questo gli chiese con che nome dovesse chiamarlo (chiamare il vero Dio) davanti al popolo, Egli rispose: chiamami: Io sarò colui che sarò, questo è il mio nome. E anche il nome Jchovah, che per lo meno a partire dai tempi di Mosè fu attribuito in tutto il Vecchio Testamento al vero Dio, non ha altro significalo '.

E nella nota che segue si precisa: L’«Io sarò colui che sarò» può significare: o «Io sarò quello che voglio» (se venisse preso sensu neutro'. Io sarò ciò che voglio), oppure, se si intende il tempo ebraico come aoristo: «Io sarò colui che sono», cioè io sarò c rimarrò sempre lo stesso, io sarò senza pregiudizio c senza mutamento di me stesso.

È al futuro che Schelling guarda, per pensare adeguatamente il nome di Dio. Non basterà dire che in questo egli segua la tradizione inaugurata dalla traduzione di Lutero. Determinante è la presenza del futuro nel senso di ciò che non c e che, non essendo ancora, può, al limite (al limite della possibilità), trattenersi nel non essere, può estendere la sua potenza sino a coincidere con l’àòuvapia. Nel futuro di «Io sarò colui che sarò», il nome proprio sembra essere richiamato indietro: in un solo gesto, il nome è detto c ritiralo, rimandalo a un futuro che, per il presente, non è che il tempo del non ancora '. In questo senso, il futuro sarebbe il tempo adeguato per esprimere l’intangibilità di ciò che si annuncia come venturo ". Una certa idea di ” Schelling, Philoso/diie der Offenbarung (SW XIII), cit., pp. 270-271; tr. il. p. 453. Mi discosto dalla tr. cit. r‘ l-i definizione ebraica del - Nome come imi ha-meforai riflette proprio questa unità contraddittoria di manifestazione e nascondimento nel nome. Come ha ricordato G. Scholcm, Il Nome di Dio, cit., pp. 23-25, «da una lato, infatti, il participio passivo ine/orai può voler dire sia “comunicato”, sia “spiegato esplicitamente”, sia infine, semplicemente (cioè secondo le lettere), “pronuncialo”; dall'altro, in questo contesto, può significare anche “separato” o addirittura “nascosto”. |...| Il fatto che uno stesso termine possa designare sia il noine esplicito, sia quello segreto c occulto non è il paradosso meno singolare della terminologia religiosa». Schelling, Pliilo.uqdiie der Mvlhologie (Hislorisch-kritische Kinleitung), cit., p. 171.

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messianismo incornicia queste pagine: «Il vero Dio è quello che sarà, questo è il suo nome». 11 nome di Dio, il suo nome proprio è anche il suo futuro: è più precisamente «il nome del futuro [der j\'ame des ^ukiinfigen], dell’ora solamente diveniente, che un giorno sarà, e anche tutte le sue affermazioni si riferiscono al futuro»31. Il futuro del nome significa l’awenirc di ciò che, nel suo essere presente, è ancora a venire: l’avvenire di ciò o di colui che è sempre «der Zjdpinftige»' colui che «un giorno sarà»3*. In questo senso indica una precisa tensione che dimora nel tempo, differen­ done costantemente la presenza. Futuro di un presente, sospeso all’alea dell’evento, il nome stesso vi partecipa, condividendo il doppio aspetto delle «affermazioni nel senso di essere, da un lato, affermativo e, contemporaneamente, di rivolgere la sua affermatività sempre al futuro. Perché indica non solo raffermazione in quanto tale, ma anche la promessa. Indica la promessa che è sempre celata (eforse dimenticata) nell’indicativo di ogni asserzione. Più che a un particolare tipo di affermazione, occorrerà pensare l’afferma­ zione in quanto tale - dunque anche quella del nome - nel senso della promessa. Occorrerà sospettare la presenza di un rimando al futuro, di una promessa, di un impegno a-, appunto nella certezza o nell’assicura­ zione che ogni indicativo esprime. E, dunque, occorrerà pensare nel cuore stesso dell’assicurazione la presenza nascosta di ciò il cui compimento corrisponde alla dilazione di una parola data. E proprio nclforizzonte della profezia e della promessa che si inscrive il nome. Nient’altro che «promesse [ Verheifiungen\» sono tutto ciò che Abramo ha in un primo momento51. E la figura del messia che si annuncia sotto queste insegne. Forse lo stesso nome non è consegnato ad altro che all’intersezione tra la denotazione c la promessa, dunque tra presente e futuro, senza essere semplicemente né l’uno né l’altro51. Ma come proIvi, p. 172. ’* Ivi, pp. 172-173. Nessun gesto può tuttavia semplicemente identificare il senso del futuro con l’avvento del messia. Occorre invece tenere insieme la convergenza di tre caratteri tra loro contraddittori: il messia è infatti a) senza inizio; b) sempre presente, c) sempre futuro. Cfr. Schelling, Philosophù der Mythotogu {Die Mythologie), cit., pp. 316-318. Ovvero: il senso di questa idea rimanda non solo a ciò che ancora non c’è e che come tale non è ancora compiuto. Qui come altrove, il suo senso è dato solo in forma apocalittica, nella forma del “già-e-non-ancora”, dunque nel senso di qualcosa che si mantiene tra la presenza e l’assenza. Schelling, Philosophù der Mythologie {Historisch-kritische Einleilung), cit., p. 172. M Le Età del mondo pongono il nome di Dio in relazione con l'articolazione storica deH’etcmiià: «I-a coscienza dcU’ctcrnità non può che esprimersi nella fonnula: Io sono colui che esisteva, che esiste ed esisterà; oppure, in modo più profondo, nel nome intraducibile che il sommo Dio si è dato di fronte a Mose e che, nella lingua originale

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messa veritiera (dato che è la voce di Dio a parlare), «Io sarò colui che sarò» costituisce anche una profezia. Promessa, profezia ed elezione appaiono qui nel loro intreccio inestricabile: del resto, l’elezione non definisce, a rigore, nient’altro che il luogo di questo intreccio. Ora, questo differimento temporale del futuro non corrisponde, a sua volta, che al luogo stesso della voce, ovvero al caso nel quale il nome viene proferito nell’invocazione: il vocativo (e casus indica in latino sia l’articola­ zione della grammatica che l’evento imprevisto, la combinazione della sorte). Il “non ancora” del futuro fa segno alla sospensione del significato e del significare nella quale “avviene” il nome. Qui la voce mostra la sua decisiva prossimità con l’afonia - si mostra come voce afona. Qui sospen­ sione ed evento si corrispondono in una vertiginosa coincidenza, il cui luogo non è che quello della (arenazione di questa Voce.

Nome doppio: il più proprio e il più comune

Nelle pagine delle Età del mondo, la possibilità di questa sospensione assume la forma di un’imbarazzante compresenza di due nomi di Dio all’interno della tradizione veterotestamentaria: Elohim e JHW”H. Schelling spiega come sia stato solo dalla terza delle generazioni bibliche che sia comin­ ciato l’uso del secondo nome. Prima non lo si distingueva in generale da Elohim, si confóndevano le due esistenze e dunque i loro rispettivi atti. Tutto ciò riproduce ancora una volta l’imbarazzo di fronte a una risposta, riproduce l’abissalilà di un'incognita più che la garanzia di un riscontro1'. All’interno della soluzione indicala da Schelling - nella quale reste­ rebbe da pensare la silenziosa e non ovvia “traduzione” che si opera da JHW”H a Jehovah - occorre valutare l’altro elemento, per cui questo «Io sarò colui che sarò» non è altri che lo stesso dio dei padri: «Elohim dei padri vostri». Se JHW”H e il «dio dei padri» (£y 3, 15), all’interno della rottura rappresentata dalla rivelazione del Nome senza nome si realizza la esprime con le medesime parole i diversi significati: Io sono coltri che ero, Io ero colui che sarò, lo sarò colui che sono. La coscienza di una simile eternità è impossibile senza una distinzione temporale» (Schelling, Die Weltaller (1815), cit., pp. 263-264; ir. il. p. 102). L’intraducibilità del nome fa segno all’articolazione della temporalità in tre momenti differenti e irriducibili: essa “significa” appunto questa differenza che abiterebbe, articolan­ dola, la stessa eternità divina. C’.fr. Jean-Francois Connine, L'interfnétation schellingienne d’Exode 3, !4. Zz dieu en devenir et Cètre à venir, in Celili qui est, interfirelalions juives et chrétiennes d'Exode 3, 14, a cura di A. de Libera e E. Zum Brunii, Cerf, Paris 1986, pp. 237-264, p. 246. *’ Schelling, Die Weltaller (1815), cit., pp. 272-273; tr. it. pp. 110-111.

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continuità della tradizione e della elezione di IsraeleM>. Paradossalmente, proprio questa continuità sancisce il raddoppiamento del nome, nella forma di un et/et. In un solo passo, un doppio movimento: il nome dato a Mose non è il nome di un'altra divinità (non è, dunque, il nome dell’infedeltà di Israele al Patto), ma quello del «dio dei padri», dunque della santità stessa della tradizione di Israele. Contemporaneamente, questa tradizione viene illu­ minata diversamente, in una luce improvvisamente nuova, dalla luce che le proviene da questo “nuovo” nome. Essa attesta di non essere il possesso sicuro di certezze, ma che là nel punto che si vorrà ancora chiamare “tradizione”, qualcosa accade. Non si tratta né di sola continuità né di una pura novità. Piuttosto, è la novità nel corpo stesso della tradizione e come tradizione. Un’interruzione senza interruzione, tanto più percettibile quanto più sottile, mantiene e sospende, nello stesso istante, tutti i nomi. Questa “strana” situazione - che attiene all’evento del nome - trova un’ulteriore conferma in una lunga considerazione a proposito del logos del prologo di Giovanni: Qualcosa di pienamente analogo con questo senso di ó Xóyog è quell’uso degli Ebrei per cui essi dicono D^n [has’sém] (il Nome) e con ciò intendono Jehovah stesso. Come qui il Nome significa il nome che si eleva sopra tutti i nomi, il nome xax'è^oxnv, sotto il quale però è inteso colui che sta sublime sopra di tutto (anzi, questo è subentrato tanto al posto del nome reale, che se essi vogliono dire: «Jehovah ci ha punito o egli ci ha castigato», dicono: «il Nome ci ha castigato o confortato»); come qui il Nome è posto in generale in luogo de) nome determinalo, c invero con l’articolo enfatico in luogo del nome elcvantcsi sopra tutti gli altri, così è, nell’inizio del Vangelo di Giovanni, anzitutto la parola elcvantesi sopra ogni altra, sotto di cui però viene inteso l’oggetto o la Persona che si eleva sopra ogni altro1'.

In questo passaggio c la sostituzione per cui «il Nome è posto in generale in luogo del nome determinato» ad attirare l’attenzione. Al posto del nome determinato ha luogo un nome «generale», il nome del Nome. Cos’è questo Nome che vale «in generale»? E come può valere «in generale» la particolarità sempre singolare del nome - e a maggior ragione nel luogo in cui la valenza enfatizzante dell’articolo (il Nome) concorre a rilevarne l’assoluta unicità? ' Che tutto ciò sia da intendere nel senso del “segno” c non della “prova”, l’ha espresso lucidamente Martin Buber, J)er Glaube drr froptuten, Schneider, Ilcidellxrrg 1984, pp. 200 sg” Schelling, Philosophu der (Jffmbarung (SVV XIV), cit., p. 92; tr. it. pp. 1035-1037.

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La valenza enfatica o enfatizzante dell’articolo determinativo implica una serie di conseguenze dirette e indirette. Il nome come Nome risulta inaccessibile a ogni considerazione analogica. Tuttavia, questa sua assoluta singolarità sembra lasciarsi dire unicamente nell’identità paradossale che il nome realizza tra l’assoluta unicità - la singolarità senza comunanza - c la generalità di un nome “improprio”. E come se rilevare l’unicità del póvog fteóg testamentario significasse realizzare contemporaneamente il doppio senso della parola rilevare', come risalto ossia rilievo dato alla sua irriduci­ bile alterità rispetto a ogni altro nome c come “toglimento” di questa assoluta unicità a favore di una generalità o genericità senza confini. Così né nome né Nome sono mai la proprietà di un “nome proprio”. Se addirittura quell’assoluta, incomparabile unicità si lascia indicare solo dalla genericità di ciò che non è nome proprio, ma parola generica, questo paradosso si impone come costitutivo di un pensiero del nome. Più d’altri, questo punto sembra indicare una certa confluenza della speculazione ebraica sull’innominabile nome di Dio con la tradizione cristiana, con­ fluenza codificata nel De divinis nominibus di Dionigi l’Areopagita, nella forma dell’insufficienza di tutti i nomi ". Se nessun nome è adeguato a Dio, proprio questa inadeguatezza di ogni nome indica l’abissalità attiva nel nome, di trascorrere dalla sua proprietà all’abissale improprietà dell’in­ nominabile '. w In Dionigi compaiono due classi di nomi: quelli preceduti dall’a privativa (attributi negativi) c quelli preceduti dal prefisso Ùjteq (attributi positivi o esaltativi). riflessione occidentale sul nome si è incanalata appunto nel binario indicalo dal De divinis nominibus, oscillando tra la negazione assoluta e l'affermazione iperbolica, senza essere tuttavia mai in grado di tracciare una linea di divisione netta tra l'una e l'altra. In questo modo, l'a privativa e I'ùmeq dell'iperbolicità si mostrano profondamente intrecciali, più di quanto la loro opposizione non lasccrcbbc sospettare, e non si escludono mai veramente. È in Mcistcr Eckart che questo motivo compare nella sua massima chiarezza e paradossalità, in forma di coincidenza tra l'assoluta innominabilità c l'altrettanto assoluta onninominabilità di Dio (cfr. Exposilio Mòri Exodi, in Lateinische IfrrAr II. Kohlhammer, Stuttgart 1992, pp. 15-12, e particolarmente p. 41). Notevole che l’indicibililà non escluda la nominabilità: si può nominare ciò che non si può dire, proprio perché il nome non dice nulla. Fedele a questa tradizione, Etienne Gilson, L’cilhéisme difficile, Vrin, Paris 1979. p. 59, ha potuto scrivere che la formula di Es 3, 14 è «la sola formula che non dice assolutamente niente e che dice assolutamente tutto». Questo passaggio è stato indicato con maggior rigore da Hegel nei paragrafi della Enyklopiidie, cit., § *161, dedicati alla memoria. Questa è infatti, innanzitutto memoria di nomi ovvero è la capacità singolare di ognuno di conservare il «significato» dei nomi attraverso il ricordo. Ma come intendere questo «significato»? Cosa significa il significato dei nomi che la memoria conserverebbe? Quando si tratta di svolgere la questione, certo decisiva anche per la definizione dello statuto stesso della facoltà mnemonica, Hegel scrive (§ 462) che «l'associazione dei nomi particolari è implicata nel significalo delle determina-

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6. Senzanome Questa coincidenza tra un parola generale, e anzi la più generale e comune, c la sua assunzione a nome proprio è di continuo “lavorata” dall’irripetibilità del Nome rivelato: già gli amichi traduttori hanno reso questo leonine [JHVV”H] con xùptog; il Signore è divenuto quindi nelle lingue moderne, come nell’ebraico Jehovah, il vero e proprio nome di Dio, che non è il puro esistente, ma il Signore del suo essere c quindi di ogni essere’".

.Assunta come nome proprio, la parola non dismette la generalità del nome comune. Nella proprietà che il nome promette, non cessa di risuonare la genericità che intacca inevitabilmente l’esclusività della sua referenza. Una costellazione non dissimile si ripete in una situazione ben diffe­ rente, quella della mitologia, nella quale uno stesso nome indica una pluralità di figure mitologiche. Con ciò viene meno lo stesso presupposto fondamentale del significare nominale: l’univocità della sua referenza. Il caso di Dioniso è forse esemplare da questo punto di vista. Il nome “Dioniso” indica una serie di personalità mitologiche, diffezioni dell’intelligenza in quanto questa è sensibile, rappresentativa o pensante». Decisivo risulta qui l’accostamento tra significato (che deriva dalle determinazioni secondo le quali l'intelligenza nella varietà delle sue forine è capace di operare) e associazione di nomi. Ma se l’implicazione è tra significato e associazione, i nomi significano unicamente come parti di quelle costellazioni di senso che chiamiamo appunto «associazioni»: «In quanto la connes­ sione dei nomi è implicata nel significato, il suo collegamento con l’essere in quanto nome è ancora una sintesi». Se l’operazione di sintesi è l’unica in grado di dar luogo al significato in quanto «connessione», il nome in quanto tale non fa senso. Da solo non è in grado di produrre senso: è piuttosto «sinnlos, senza senso». Il senso giacerà sempre fuori del nome o fuori dei nomi, esattamente nello spazio vuoto della loro «connessione». Dunque questa assenza di senso del nome, questo suo essere sinnlos non implica affatto che esso sia insensato (unsinnig. si direbbe in tedesco), ma al limite, “significa” proprio questo: che è libero per il senso, per quel senso che da solo, nella sua singolarità di nome, non è in grado di produrre. E che dunque “significa" unicamente in quanto di per sé non ha senso. Del resto, nello scritto sulla differenza tra il sistema di Fichte e quello di Schelling (1801), in fenaer Schriften (1801-1807). Werke 2, cit., p. 15, Hegel sostiene che la signoria di Adamo sugli animali dipese dai nomi che egli diede loro, perche con ciò veniva negata la loro indipendenza. Il nome - pensato come ciò che sussiste da sé, indipendentemente dall’esistenza dell’oggetto nominato - introduce alla differenza radicale tra sé e la “cosa” nominata, come indipendenza dell’uno dall'altra. Ciò testimonia di come il nome abbia significato solo nel momento in cui viene meno la sua funzione di indicatore - e dunque quando da proprio diviene comune -, c come indicare c significare si presentino sempre separati. Schelling, Philosophie der Ojfenbarung (SW XIV), cit., p. 295; tr. it. p. 493.

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remi tra loro, ma fondamentalmente riconducibili a uno stesso denomina­ tore comune, quello per cui tutte sono ugualmente “Dioniso”. Un tale nome non è perciò patrimonio esclusivo di un solo dio, ma ne indica invece le molteplici manifestazioni. Contemporaneamente, il nome “Dio­ niso” indica anche ciò che riunisce quella molteplicità: “Dioniso” sarà in questo senso il «nome generale»' . Se il nome proprio non è qui altro che un nome comune, resta da chiedersi a cosa corrisponda questa generalità. Allo stesso modo il nome arabo della dea Urania, Alilat, «non è un nomen proprium ma significa la dea in generale», in quanto «al è, com’è noto, l’articolo arabo che si trova in molte altre parole arabe passate nelle lingue occidentali moderne, come “algebra”»'2. Che ancora una volta sia l’arti­ colo determinativo a fare la differenza, implica la considerazione del «generale», dell’indefinito: senza l’articolo, il nome resta l’indeterminato stesso. Ciò che è stato sempre assunto come nomen proprium, appare invece piuttosto come nome comune, anzi come il nome più generale e generico. Come se solo la genericità di un articolo fosse in grado di significare la divinità. Il nomen proprium sembra custodire il segreto della sua determina­ zione singolarissima nello scrigno dell’indeterminatezza stessa, nella gene­ ralità di un indefinito nome comune. Questa costellazione di pensieri Schelling la articola in senso strettamente temporale:

Per ritornare ora a Dioniso, che ancora oggi sembra esercitare il suo influsso fatale, [...], ho dimostralo a sufficienza che il dio è più antico del suo nome e che il suo influsso è antecedente al suo riconoscimento come dio ossia che la sua presenza nella coscienza è più antica della sua completa realizzazione in essa". È come un differimento tra il dio e il suo nome, tra Dioniso e “Dioniso”, a farsi largo nelle pagine della Mitologia. A questo differimento è affidata l’espressione stessa della temporalità, in una duplice direzione, tanto in avanti quanto indietro: “indietro” perché il dio è sempre più antico del suo nome e il riconoscimento del dio è improntato all’intempestività e al ritardo; “in avanti" perché, aldilà del significato religioso di Dioniso e, in generale, aldilà dei limiti temporali c storici del politeismo, quel nome, il nome di “Dioniso” mantiene una sua forza evocativa «ancora oggi». In questo senso, “Dioniso” conserverebbe il suo potenziale di redenzione,

' Schelling, Philosophie der Mythologie {Die i\lythologie), cit., p. 255. ” Ivi, p. 256. “ Ivi, p. 281.

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identificandosi con la figura del liberatore per eccellenza. La forte conno­ tazione messianica presente nel Dioniso di Schelling connota quel differi­ mento “in avanti”, tra nome c dio: Dioniso vi è indicato come «il venturo». Ma lo spazio di questo differimento, tra la presenza del dio c il suo riconoscimento, è, ancora una volta, lo spazio dello stupore, che esclude in sé la possibilità di dare un nome a ciò che lo provoca. Nel suo primo apparire, «[il dioj non può essere immediatamente riconosciuto come tale, non appena si riveli alla coscienza o cominci ad agire, né può immediata­ mente avere un nome. Fino a questo punto egli è piuttosto un ente incomprensibilc alla coscienza»”. Tra l’evento di questo dio e la sua denomina­ zione, «stupore» è il nome non tanto o non solo di un affetto psicologico, quanto dello spazio vuoto, di un intervallo irrecuperabile, che attiene però al nome proprio in quanto tale. In gioco c’è dunque la non contempora­ neità tra Dioniso come evento anonimo (come presenza del dio) e “Dio­ niso” come nome. Passività essenziale della «coscienza mitologica» che nulla inventa, ma che tutto riceve in dono, essa ha anche la forma di una violenza con cui la divinità si impone alla coscienza, ciò che evidente­ mente esclude la pura libertà di accettare o di rifiutare ciò che le si rivela. Per la «coscienza» è sempre troppo tardi per tirarsi indietro rispetto a ciò che le si impone, “cadendole” dall’alto. Ed è proprio la violenza di questo evento a rimanere “senza nome”. La stessa pluralità delle persone di Dioniso non sarà riconosciuta con questo nome che molto più tardi: c’è come una pausa, un’interruzione tra la venuta del dio c la sua denomina­ zione. E lo spazio di una «follia», nella quale l’avvento del dio non è la rassicurante certezza di una fede, ma ciò che accade nella forma dell’av­ vento dello straniero, dell’altro. Spazio della passività, di ciò che non è in potere della coscienza né di arrestare ne di determinare diversamente, oltre che indicare che la stessa violenza umana (come potere sulla realtà) è indifesa, esso segnala il volto straniero di ciò che precede il nome. Ma per Schelling, come per tutta una tradizione, il processo della denominazione coincide con un processo ontologico. Il dio senza nome è un dio senza funzione: in quanto tale «non è ancora realmente entrato nell’essere»”. Presenza dimezzata, quella del “senzanome”, la sua esi­ stenza non coincide con la “pienezza” dell’essere. Secondo una delibera­ zione a suo modo classica e tradizionale, la presenza del nome è messa in relazione con la completezza ontologica, mentre l’assenza di nome è " Ivi, p. 277. Ivi, pp. 259-260.

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l’esclusione dallo stesso statuto di essere o comunque un’inclusione monca, insufficiente, forse anche pericolosa: a segnalare che, quanto si presenta senza nome, apre al pericolo dell’inadcguato, all’abisso della sproporzio46 ne . Eppure proprio l’anonimato si rivela la porta stretta da cui occorre passare - sia che compaia nel senso di un dio non ancora conosciuto, sia che costituisca la prova dell’improprietà di tutti i nomi. Il messia stesso è «anonimo (àvwvvpog)»'7. Ma questa figura, che Schelling introduce sulla scorta del Paolo dell’Areopago, appare in profondo contrasto con quella cultura classica greca, all’interno del cui pantheon l’apostolo cerca di ritagliare uno spazio per il suo dio. Tale cultura, infatti, pur non facendo mancare nemmeno al “dio sconosciuto” l’attenzione dovuta a tutti gli dèi, esemplifica la propria “salute” proprio nella resistenza contro l’indetermi­ natezza di quanto non ha nome'1. Non che Schelling, nella Mitologia o altrove, senta il bisogno di dover prendere lui stesso precauzioni contro l’evento di questo caos, del caos dell’innominato. E piuttosto il senso di un’appartenenza a prevalere: l’appartenenza a una cultura “classica”, la cui sopravvivenza sarà stata la migliore delle garanzie contro quella presenza fluttuante e non identificata del “senzanome”: ciascuno degli dèi, la cui figura e il cui significato erano prima mutcvoli, ottenne la sua figura definitiva, la sua determinala funzione, il compito a lui solo spettante, così come la dignità a esso associata e naturalmente anche il nome

Ncl suono di qucll’«ormai» fa veramente eco il senso di una tradizione che è riuscita a dare un nome aH’innoininato, che è riuscita a interrom­ pere la violenza dcH’evento attraverso la violenza della lingua, la cultura non essendo che l’avvento di un’altra violenza. Qui la «dignità» non appartiene più solo a una «figura» divina, ma è la conquista di una tradizione cui Schelling si sente di appartenere. La «figura» dotata di *” Che al nome corrisponda la totalità dell’essere e che proprio attraverso il nome sia consentito l’accesso alla totalità in quanto tale, è l’immagine classica che la stessa teoria del potere evocativo dei nomi inevitabilmente rillcttc. Si prenda il celebre epigramma di Goethe, citalo nella A litologia: «con un nome vuoi afferrare il ciclo e la terra / io li chiamo Sakuntala c tutto è detto». Und so ist alles gesagt: è per la prima volta nel nome che il linguaggio risulterebbe perfettamente coniugalo con la totalità. * Ivi, p. 320. Cfr. l’analisi, molto differente, svolta da Hans Blumcnbcrg, Arbeil am .\lythos, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1979/1996, pp. 281-2» I. “ Schelling, Philosofihie der Alyl/iologie (Die Alythologie), cit., p. 662.

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nome fissa la mutevolezza spettrale delle figure senza volto che abitavano la coscienza mitologica. Tutto ciò - «funzione», «significato», «compito» e «dignità» - si rapprende infatti attorno al nome, quale reazione contro l’anarchia dell’indistinto. In questa scena, è l’economia di una giustizia distributiva a curarsi del fatto che «a ciascuno [sia] attribuito il proprio nome proprio e il suo significato»’’0. Su di essa si misura la reale consi­ stenza politica della mitologia nella quale, gli dèi c i loro nomi costitui­ scono, quale presenza tcsaurizzabilc di un «patrimonio comune»’1, la stessa salvaguardia della comunità. Questa scena anch’essa “classica”, nella quale i popoli si riuniscono attorno ai propri dèi, implica che l’appello agli dèi — la nominabilità del loro nome — rappresenti una riserva intatta di senso, la garanzia ultima dcH’agire politico (ci torno nel prossimo capitolo)3*.

7. Nome, volto, icona A margine di una delle etimologie proposte nella Mitologia, Schelling indica nel nome la presenza di una «connotazione simbolica». Nel caso in questione, il nome Arpocrate rimanderebbe all’immagine di un dio «dai

» Ivi. p. 590. Ivi, pp. 373-374. Cfr. ivi, pp. 308-309. La particolare vicinanza che intercorre tra vópoq c dvopa testimonia del radicarsi del nome in una concreta situazione storica. I.a vicinanza tra il nome del dio c la legge indica la capacità del primo di erigersi a nomos della comunità, dunque in grado di tenere insieme la città, i suoi abitanti, le sue istituzioni. Qui il nome appare come Legge: lo spazio inaugurato dal nome del dio coincide con lo spazio della legge della comunità. Lo stesso sacrificio tributato in suo onore non sarebbe altro, secondo Schelling, che reiezione costantemente ripetuta del suo nome a centro della comunità, scongiurando il pericolo di un ritorno dell'anarchia arcaica, nello spazio senza legge c senza nomi della vita nomade (ivi, p. 323). Nella sua interpretazione della divinità fenicia Mclkarth, Schelling e capace di vedere sino a che punto la vita cittadina, nella sicurezza che essa e capace di istituire, mantenga in fondo, al suo fondo, la memoria dell'inquietante. La sicurezza della vita cittadina, cinta di mura, attorniata alla vittima sacrificale e all’invoca­ zione rituale del nome del dio, si può mantenere unicamente in quanto essa evoca c, contemporaneamente, revoca la memoria di questo inquietante. È sul fondo di questa angoscia che ogni città edifica la sua protezione, fondando la sua sicurezza nel nomos del nome. Per la coappartenenza di vópog e Óvopu si può vedere anche Cari Schmitt, Nomos Nahme - Nome, in Staal, Gro/haum, Nomos. Arbeiten aus den Jahren 1916-1969, a cura di G. Maschkc, Duncker & Humblot, Berlin 1995, pp. 573-586; tr. it. di G.L. Solla, Nomos - presa di possesso - nome, in “Con-tratto”, 1997/6, pp. 287-302; ora anche in C. Resta, Stalo mondiale e nomos della terra, Pellicani, Roma 1999.

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piedi fragili», rimanderebbe, cioè, simbolicamente alla caratteristica im­ maturità del dio, ancora incapace di muoversi con le sue forze . Proprio la «connotazione simbolica» è la posta, implicita o esplicita, della ricerca etimologica. Il cui risultalo può essere dato unicamente dalla relazione simbolica tra il nome e l’origine di senso. E in questa pretesa originarietà del senso che ogni etimologia trova la sua legittimazione, nel presupposto che a fondo dei nomi si celi un’indicazione simbolica c che il nome indichi, al di là della sola persona di un dio, come in questo caso, il suo significato simbolico. Qui si fonda il motivo dell’equiparazione, da Schelling spesso ripetuta, tra nome e «funzione» degli dèi. Se il nome corrisponde alla «funzione», ciò è possibile unicamente in virtù della sua portata simbolica. Di questo concetto di simbolo - affrontato qui unicamente riguardo al nome - la Mitologia offre la seguente definizione: Simbolo è un segno sensibile — com’c evidente anche nel senso comune della parola, che indica ciò che noi chiamiamo un contrassegno, una tessera - un segno ad esempio da cui l’amico assente riconosce l’assente quando esso gli viene mostrato; per cui ciò che cade sotto i sensi può certo diventare simbolo di ciò che non cade sotto i sensi’’. Nella scena è in gioco un riconoscimento, il quale non avviene direttamente ovvero “di persona”, ma attraverso un segno. In quanto serve a questo scopo, il simbolo è un segnale, che parla solo a coloro che lo sanno riconoscere. Riconoscere il simbolo - o ciò che nel simbolo è segnale - significa riconoscervi la figura dell’amico assente. In questo senso, non c’è mai simbolo senza mittente, ma neanche senza destinatario, sia pure ignoto. Un segno di riconoscimento vale sempre nelle due direzioni, sia nel verso dell’amico assente sia in quello degli amici dell’a­ mico assente. Già questo raddoppia evidentemente la posta in palio e, con essa, il valore e la portata del simbolo. Che questo sia l’aspetto decisivo, lo illustra più precisamente il fatto che sia affidato a un tale esempio (quello dell’amico come amico assente) di chiarire il valore del simbolo. Nell’as­ senza di un amico, il simbolo parla per lui, c lo fa però solo presso gli amici. E nel vincolo dell’amicizia che quel simbolo sostituisce l’amico assente e nefa le veci. Nessun altro sarebbe in grado di leggerne il rimando all’amico lontano. Solo l’amico può riconoscere l’altro amico - l’assente — dal

*’ Schelling, Pliiloso/diie der t\lylitologie (Die Alvthologie), cit., pp. 378-379. '* Ivi, p. 639. Altrove occorrerà sollennarsi su questa doppia assenza, là dove Schelling scrive deir«ainico assente |chc| riconosce l'assente» quando gli viene mostrato il simbolo.

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simbolo, solo lui può vedere nel simbolo il segnale di quello. Solo nell’orecchio dell’amico risuona il nome dell’altro amico. Il simbolo sup­ pone dunque. nell’assenza c nella lontananza, sempre una prossimità che, sola, permette di vedervi la figura dell’assente. La corrispondenza simbo­ lica è dunque tutt’altra da una corrispondenza mimetica: il simbolo vale non come raddoppiamento di una presenza, ma unicamente sul fonda­ mento di un’assenza che in quello diviene «segno» ”. Ciò implica non la perfezione di un calco, quanto l’impossibile riproduzione dell’assente nella forma di una trascrizione, di una mediazione di ciò che resta irrimediabil­ mente prossimo e insieme lontano. Implica che nel simbolo la voce dell’amico sia sostituita e che, in questa sostituzione, risuoni l’eco della sua assenza. E proprio questa assenza - che è il luogo stesso della corrispon­ denza simbolica - a non lasciarsi né sostituire né integrare: essa “parla” attraverso il simbolo che fa le veci dell’assente. Proprio qui si mostra quella prossimità tra il simbolo e il nome, che può essere pensata a partire dall’idea di una «vera Icon» - dall’idea del volto umano come icona'6. La particolarità del volto umano consiste nel fatto che esso produce «un particolare terrore, anche se misto a reveren­ za»: ha qualcosa di «barbarico», anche se sembra che lo abiti «qualcosa di particolarmente divino» ". E la contemporanea presenza di incanto c di terrore che scaturiscono dal volto umano che fa di questo «una vera Icon». Un particolare interdetto sembra colpire (c insieme proteggere) i tratti del volto. Quando l’arte si era già evoluta verso forme maggiormente accurate, i tratti del volto rimasero quelli di un’età precedente, in modo da creare la strana contraddizione, all’interno della stessa opera, di una compresenza di stili differenti. E come se l’artista volesse trattenersi nella propria abilità dallo scolpire i volli con il naturalismo usato per i corpi. Per pensare adeguatamente questa tendenza, nota Schelling, occorre metterla in relazione con l’intenzione di non rappresentare il divino, «ma di celarlo aggiungendovi qualcosa di extra-umano c di non-umano qualcosa di estraneo c di circondarlo di un certo carattere perturbante [mit Unheinilichkeit] » La vera Icon è tale perché libera da ogni imitazione (dell’umano). Ma, ancora di più, la verità di questa icona (c di questa visione) consiste Ivi, p. 640. Ivi, p. 657. L’espressione «vera Icon» si ricollega al terna tardomcdievale della raffigura­ zione del volto di Cristo e, precisamente, alla riproduzione miracolosa clic ne avrebbe offerto il telo della Veronica. '7 Ibid.. Ivi, p. 658.

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proprio nel liberare il tratto umano dalla sua umanità, facendo risaltare ciò che nel volto rimane extra-umano. Schelling intuisce che, nella storia dell’arte, i tratti del volto umano non appaiono come tratti dell’«umano puro c semplice», ma che l’arte consista appunto nel loro innalzamento a «tratti e proporzioni del sovrumano»”. E qui che il volto mostra un’in­ quietante parentela con la maschera. La rappresentazione della «vera Icon» non solo c una rappresentazione non mimetica; per di più, essa si dà come volto, come non umanità (o super umanità) del volto. E proprio il ritorno di questo carattere inquietante, anzi della stessa «inquietudine» in persona a segnalare la vicinanza ancora impensata tra immemorabile, immagine e nome. L’immagine della «vera Icon» non può venire anticipata da nessuna memoria, proprio perché ha soq^assato i confini dell’umanità, c dunque si dà come analogon di nulla: perciò in­ quieta lo spazio nel quale essa soggiorna. E questo “spazio” non si lascia pensare, ancora una volta, che nel senso della im-potenza - come òùvapig c àÒvvapia al tempo stesso. Immemorabile è, appunto, l’impossibilità di distinguere l’uno dall’altro, senza che non si dia già qualcosa. Se il nome è òvvapig, “poter di-”, potere “in nome di” cui si parla, questa òvvequg non si lascia separare dalla sua àóvvcqiia, dalla sua impossibilità costitutiva, dalla passività/passione che ne accompagna la voce. Qual è tuttavia questa àòvvequa del nome? Si potrà forse indicarla leggendo nel ritiro del vocativo la traccia dell’immemorabile? E leggendo nel nome il suo ritiro e con esso l’immemorabile che si fa traccia? Se il nome è immemorabile (senza che sia mai possibile scrivere qualcosa come: il nome e l’immemorabile), è perché in esso òvvequg c ciòvvapici coincidono. L.a òvvauig del nome - la sua dicibilità - appare nel ritiro del vocativo: è, contemporaneamente, la sua òóvvapia, l’impossibilità stessa del nome proprio. Ma forse proprio in questo motivo si lascia scoprire la presenza di una «connotazione simboli­ ca». Che è tale proprio perché in essa òùveque e àòvvequa (del nome) vengono a coincidere: perché nel nome (nella sua «connotazione simboli­ ca») il potere di dire e demandato aH'impoienza, in quanto concerne sempre e comunque un altro elemento, un terzo: come se il significato non fosse, appunto, che nella misura in cui esso è donato da altri, nella misura in cui esso av-viene come dono. Nome, dunque, di ciò che non ha nome, di ciò la cui «connotazione simbolica» si compie e si esaurisce nell’indicare la sua radice come rindimenticabilc dono che non può essere ricordato'*'. Ivi, p. 660. Ncll'iinirc il «significato simbolico» del nome con la sua «provenienza immemorabi­ li*», PhiloMì/dùc der Mylitologie (Hì.\loriscli-krilische Einlritniig), rii., p. 106, Schelling riconferma anclic una certa ambiguità nella quale vorrà sempre permanere: escludendo, da un lato, che

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Escludendo ogni mimesis, la vera /con riluce unicamente in forza dell’as­ senza che essa segnala. Questa è la sua valenza simbolica. Essa è capace di segnalare il luogo nel quale differenza e contatto appaiono le due metà di una stessa cosa, le facies inseparabili di uno stesso volto. Come nella Veronica dipinta da Van Eyck, in questo luogo l’immagine e la sua kenosi fanno tutt’uno, indistinguibili metà di una stessa icona". Così il nome, come «tessera» dell’amico, vige aldilà di ogni riproduzione mimetica: significa senza assomigliargli, ma anche senza esserne radicalmente dissi­ mile. Al di qua di ogni mimesis: questo è l’unico “spazio” nel quale si lascia pensare la portata simbolica del nome. La conseguenza di ciò è il fatto che qualunque cosa, se segnala all’amico l’altro, l’amico assente, può assumere una connotazione simbolica. E tuttavia solo nel vincolo dell’amicizia che l’uno può avvertire in un segno qualsiasi il segno dell’altro, il «contrasse­ gno» dell’amico assente. E solo l’amico che può sentire che il segno sensibile è tale, è un segno, e non una cosa qualsiasi, in quanto è contrassegnato dall’amico assente. Qui si apre uno spazio ulteriore per pensare la prossimità di nome c anonimato. Nel nome proprio balena l’amico assente (il nome è il nome dell’amico), unicamente in quanto questo nome reca il contrassegno dell’amicizia. Altrimenti quel nome stesso, non contrassegnato, permarrebbe sul fondo del suo anonimato. In questo modo, la «tessera» del nome proprio risulta doppiamente segnata: il doppio contrassegno che essa porta è, da un lato, quello dell’assenza e dcH’alterità, e, d’altro lato, quello dell’amicizia. Qui l’amico non è mai l’intenzione di una soggettività, ma ciò che segna (c contrassegna) l’evento del senso. In questo senso, il senso non ha mai senso per sé (ossia grazie a un proprio contenuto), ma sempre per altri-, per c grazie ad altri. Senso che, se si dà, si dà unicamente contrassegnato da ciò che esso stesso non è. In questo intreccio, è nei contrassegni che ne marcano la Voce che il nome appare.

il mito sia figura o segno di qualcos’altro da sé, dunque escludendo che esso possa valere come figura archetipica, custode della verità immcmorialc, egli manterrà, d'altra parte, sempre aperta la possibilità di pensare il mito come speranza di un accesso aH’immemorabilc. Certo: l’immemorabile lilx*ra innanzitutto da ogni pretesa di originarietà, in quanto resto incontenibile nel “semplice” gesto del pensiero. 'Tuttavia perdura la seduzione che, attraverso il mito come attraverso il nome, si possa accedere a un sapere eccezionale dell’origine, celato nell’alirimenti del «non sapere». **' A questo proposito cfr. Jean-Luc Marion, Ia croisée du visitile, Puf, Paris 1996, pp. 110-126.

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Excursus. Hermann Usener e il nome come evento Se un’intuizione sorregge il libro di Usener sui nomi divini, è quella a cui esso deve la sua fama: l’intuizione di una connessione ancora impensata tra il divino e la temporalità dell’attimo02. Gli Augenblicksgòtter, gli dèi dell’istante non sono altro che la figura in cui questa connessione si mostra nella sua forma esemplare. Si tratta di divinità le quali appaiono inattese, all’istante, e la cui istantaneità rappresenta per l’antichità lo stigma indubi­ tabile della loro natura. Nella categoria di Augenblicksgòtter, istante, evento e inatteso appaiono intrecciati strettamente come mai prima d’ora, c tanto più strettamente quanto più tale categoria vale per Usener come accesso privilegiato al divino in generale. Sia composto di Augenblicksgòtter o di altri dei, il cosmo delle divinità ha infatti l’inattesa venuta come suo contrasse­ gno.

Quando la sensazione istantanea per ciò che ci sta dinanzi, che ci rende consapevoli della immediata vicinanza di una divinità, e della condizione nella quale non ci troviamo, dell’effetto che ci meraviglia, misura il valore c il potere di una divinità, allora è avvertito e creato il dio dell’istante. Nell’assoluta immediatezza la singola apparizione viene divinizzata, senza che in qualche modo entri in gioco un concetto di genere ancora così limitalo: quella cosa che vedi davanti a le, quella slessa cosa e nessun’altra è il dio'". Alla sensazione, come capacità di cogliere all’istante ciò che è nell’i­ stante, è demandato il compito di avvertire la gloriosa, ma assolutamente precaria coincidenza tra un istante qualsiasi e l’apparire della divinità. In gioco è proprio una coincidenza eccezionale, tra il qualsiasi dell’istante (il qualsiasi istante che ogni istante è) e il miracolo di una divinità che vi si fa presente. A questa sensazione è demandato perciò nientemeno che il compito di «misurare il valore c il potere di una divinità», dove «misu­ rare» ha il senso di attribuire il «valore» c il «potere» che le sono propri. E proprio l’ambiguità di questo passaggio ad avvertire della sua posta in gioco, ma anche del rischio sempre immanente a ogni pensiero dell’e­ vento. L’idolatria depistante gli sta immediatamente alle spalle. Né è possibile escludere a priori questo rischio. Esso rappresenta piuttosto l’incognita che occorre assumersi per pensare l’evento in quanto tale. Questo compito passa, nel brano citato, proprio attraverso la versione del

''' Hennann Usener, GOltemamen. Versuch einer L-hre von der religitiscn Begrìffsbitdung, F. Cohen, Bonn 1896. Ivi, p. 280. Corsivo mio.

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Ding, della nuda cosa, presentata come divinità. Ciò introduce la conside­ razione di un cosino religioso in(de)finito, perché non limitato dalla rigorosa prescrizione di un dogma né dal vincolo di un concetto pur generico. Ben più che una metafora, la «cosa» rappresenta la nudità di ogni evento, tanto “nudo” da non permettere che vi si applichino delle metafore. L’esempio introdotto da Usener a questo proposito è quello dei contadini prussiani ai quali i covoni appaiono «divini», perché «nascon­ dono» delle divinità”’. Come un ago, la divinità si nasconde nel pagliaio, ma solo per farsi trovare dai contadini. Essa, dunque, può essere dovun­ que e in ogni istante, proprio perché, se si rivela, ciò non può avvenire che nel luogo c nel tempo indeterminato, che sono il qualsiasi di ogni luogo e il qualsiasi di ogni istante. Certo, per i contadini prussiani di Uscncr il covone non è semplicemente una realtà qualsiasi: è il centro del lavoro di lutto il raccolto, dunque il centro del loro mondo. Ma questo elemento non fa che precisare come il qualsiasi in cui la divinità ha luogo non si lasci mai pensare come espressione di indifferenza. E come anzi il qualsiasi si dimostra accogliente unicamente in quanto dimora incliminabile c inesau­ ribile nell’esistenza del mondo. In questo senso si ripropone il problema, se la sporgenza del divino sul mondo non si lasci pensare unicamente come cancellazione, e questo non nel senso della teologia negativa, quanto proprio nel senso di una traccia anonima, il cui nome sono tulli i nomi e nessuno. E però alla distinzione d’apertura dei Gìitlemamen, quella tra Worl c Begriff. tra parola c concetto, che occorre andare per pensare la provedei nomi in quanto tali: nienza - l’origine L’eccitazione spirituale produce un essere che ci si viene incontro nel mondo esterno; essa è nello stesso tempo l’impulso e il mezzo della denominazione. Impressioni sensitive solo quelle che l’io ottiene dallo scontro con un non-io, e tra queste le più vivaci spingono da sole verso una esplicazione fonetica: esse sono i fondamenti delle singole denominazioni, che il popolo parlando tenta. Ma è innanzitutto con il fatto che le impressioni dello stesso non-io si ripetono che ciò che è regolare e duraturo, ciò che nelle manifestazioni esteriori resta essenziale per l’osservatore si distingue dal casuale, dall’eccezionale, daH’inessenziale. Ed è innanzitutto con il fallo che le identiche impressioni vengono raccolte e sintetizzale, che si possono fissare delle denominazioni"’. Tale resta sino in fondo il singolare atteggiamento di Uscncr: aver

Ivi, p. 281. Ivi, p. 3.

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creduto nella possibilità non solo di percepire, ma addirittura di descrivere un fenomeno sino ad allora ignorato, quello degli Augenblicksgòlter, e dunque di una presenza che si compie e si esaurisce nell’istante, per rigenerarsi nell’istante, ogni volta nuova. Questo costituisce il vero motivo di interesse del testo di Usener: che egli intraprende non semplicemente il tentativo di interpretare i nomi divini (c di dar loro un significato), ma piuttosto quello di descrivere la metamorfosi c il rinnovarsi delle parole. Ma, d’altra parte, la possibilità di descrivere questo fenomeno sconosciuto si accompagna in lui all’ideale di composizione dei numerosi esempi che porta a sostegno della sua tesi, composizione che solo la forma di una legge potrebbe garantire. Ed ecco che, sotto l’influenza di questo ideale, revento del divino nell’istante non regge alla sua eccezionalità, anzi deve proprio lasciare il posto a ciò che, nell’istante o, meglio, nella catena degli istanti, resta «duraturo», immutabile, «essenziale». All’inatteso della «assoluta immediatezza» segue l’esigenza della ripetizione, che sola garantisce la possibilità del nome. Ovvero: l’«assoluta immediatezza» resta anonima, traccia senza nome, incognita dell’istante, mentre ogni qualvolta un nome fa la sua comparsa, è in virtù di un processo ossia di una costanza regolare e osservabile. E questo processo di «denominazione», che è, contemporaneamente, il vero c proprio processo di «divinizzazione», a costituire il maggior limite dei Góllemamen. L’antropocentrismo della nozione di «divinizzazione» per­ mette che il nome assurga, in Usener, a «struttura primordiale» della storia delle religioni, «struttura» che evidentemente trascende le differenze tra le singole confessioni. Nel tratto universalizzante di questa riflessione incomincia a segnalarsi quella categoria di “religioso”, che come “numinoso” Rudolf Otto rilanccrà quale categoria centrale, a testimonianza della perdita orinai avvenuta della consapevolezza del carattere scritturale delle religioni e a tutto vantaggio dell’esperienza sentimentale, sostanzial­ mente antropocentrica, quando non definitivamente psicologica. Ciò è reso possibile, in Usener, dall’analisi etimologica dei nomi degli dei (tentativo che, l’abbiamo visto, ha tutta una sua preistoria prestigiosa). Sarà dunque il nome dichiarato in principio incompatibile con ogni concettualità a permettere di trovare la regola della costruzione concettuale del pensiero mitico: il nome come ciò la cui emergenza permette di individuare delle «leggi strutturali» che regolano il particolare””. Solo quest’ultimo tratto permette qualcosa come “una scienza del nome” o dei Ivi, p. VI. Evidentemente la stessa allìnilà tra «nome» e «l'unzione» teorizzata da Schelling per le divinità della Mitologia si mantiene prossima a questa aporia.

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nomi, se è vero il classico principio per cui de singularibus non estJacta sdentici. Contemporaneamente, il prezzo inevitabile di questo bisogno di scienza e della sua aderenza alla legge (e dunque all’universale) costituisce la perdita del singolare in quanto tale: il suo sacrificio epistemologico. Questo aspetto sostanzialmente sacrificale lo ritroviamo nel fatto che il nome stesso vale unicamente in vista di una Begrijjsbildung, di una costruzione concettuale, di cui esso sarà la prima pietra. Qui si inscrive l’aporia di fondo del tentativo di Usener: il tentativo di individuare una generalità non può mai essere sufficientemente fondato attraverso un ricorso all’em­ piria e alle prove che questa fornisce, perche proprio questo ricorso — con il suo futuro apporto di nuovi dati empirici - è ciò che pone in questione quella generalità nei suoi confini. Su questa sintassi storicistica si misura il limite imposto all’evento dalla riflessione di Usener e, in fondo, la tentazione di riportare la nudità del Ding alla regolarità promessa dalle definizioni della “scienza”. Ma è proprio su tale sintassi che si misura anche la distanza che intercorre tra tale tentativo e i suoi discendenti accertati più illustri. E, per esempio, tra l’universalismo della scienza dei Gotlemamen e l’ideale della Alnemosyne warburghiana, di una dinamizzazione senza sosta del cosmos teologico. O tra gli stessi Gotlemamen c le nozioni di “nome”, “idea” e “costellazione”, sulle quali si articola la Premessa gnoseologica del Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin, figure di una verità il cui accesso resta precluso a ogni intenzionalità scientifica, figure di una verità fragile ma non meno vera.

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Se l’equivalenza di òvopa e òvvaptg risulta già da sempre insidiata dall’im­ proprietà che segna il nome, sono gli effetti di quest’ultima che restano ancora da pensare. Da quali effetti si lascia riconoscere questa sospensione della potentid? E come pensare tale equivalenza rispetto alla presenza inquieta dell’immemorabile, che mette in questione ogni potenza del nome? Un elemento delle Ricerche consente di affrontare questa serie di domande: quello di «un bene sconosciuto e senza nome»1. Perche il bene a cui aspiriamo è definito da Schelling «senza nome»? Heidegger, commen­ tando a lezione nel 1936 il passo delle Ricerche, liquida sostanzialmente la questione, riportandola a una connotazione del «desiderio eterno» che, per esistere come tale, non deve cessare di essere desiderio, ossia di tenersi nella dimensione di un “non ancora”'. E proprio quest’ultima, infatti, che, impedendogli di coincidere con il suo oggetto, lo mantiene in vita, appunto nella tensione rispetto alla sua meta irraggiunta. «Senza nome» è pertanto inteso da Heidegger nel senso di un’incapacità costitutiva del desiderio, che gli permette tuttavia di esistere in quanto tale. Ancora una volta, tutto ciò si appunta alla questione del “soggetto”: finche il desiderio resta tale, finché il soggetto è bloccalo nella mancata realizzazione del suo desiderio, è qualcosa come la sospensione della padronanza di sé che si dà qui a vedere. Questa ha il suo conciato necessario nel fatto che il bene resta «senza nome» e dunque, eccedendo la capacità eminentemente soggettiva di nominare, espone la potentia stessa Schelling, Ricerche filosofiche, cil., p. 360; tr. il. pp. 97-98. Il passo completo suona: «aspiriamo a un bene sconosciuto c senza nome, c che si muove presago, come un mare agitalo c ondeggiante, simile alla materia di Platone, secondo una legge oscura c incerta, incapace, per sé, di produrre qualcosa di duraturo». M. Heidegger, Schelling, cit., p. 218; ir. it. cil. p. 213. Nel commento è detto: «Il desiderio eterno è una tensione che da sola non può mai pervenire ad una configurazione stabile, perché il desiderio vuol rimanere sempre desiderio; in quanto tensione priva di intelletto, esso non intende nulla e non ha nulla che possa rendere stabile e permanente, nulla che possa nominare come qualcosa di determinato e unitario; il desiderio è «senza nome», esso non conosce alcun nome e non è in grado di nominare ciò verso cui tende; gli manca la possibilità della parola».

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alla sua nudità. In questo senso, il «bene sconosciuto e senza nome» non indica semplicemente la chimera del desiderio, come vorrebbe intendere Heidegger. Si tratta, piuttosto, di una dimensione del reale, il cui essere «senza nome» fa segno a ciò che, nell’esistente, eccede il senso stesso della sua esistenza e del suo “essere” (da qui la tentazione di intenderlo come miraggio del desiderio). E, in altre parole, ciò che eccede la sensatezza che un soggetto sarebbe in grado di conferirgli. Rispetto all’equivalenza di fivopa e òùvapig, è forse proprio questa insorgenza del «senza nome» a poter sovvertire la prospettiva soggettivi­ stica che ancora grava su molta parte della riflessione politica. Non solo il nome libera una tensione non riducibile al concetto: esso libera anche se stesso dal soggetto che ne vorrebbe/potrebbe articolare la donazione. «Senza nome» è, allora, il sigillo di quanto nel nome stesso non si lascia ridurre alla sola soggettività in quanto resiste alla de-nominazione impo­ stagli da un soggetto che parla. In questo senso, non è mai nemmeno solo Perfetto di potenzialità padroneggiabili, per esempio, da un soggetto politico, sia esso il “popolo”, la “classe”, la “società”... In questo senso, la revoca della óuvaptg passa per una revoca dell’e­ quivalenza di fivopa e òùvaptg: questa, a sua volta, assume l’aspetto di un passaggio dal vocativo all’ablativo ossia dai caso dell’invocazione a quello della sottrazione. Non che l’invocazione sia privata dei suoi mezzi, della sua “voce” né che quell’equivalenza venga annullata. Piuttosto, il nome arretra, lasciando risuonarc nel vocativo l’ablativo. 11 che non significa appunto che il nome resti muto, incapace di invocare. Piuttosto l’invoca­ zione, lo “spazio” in cui ha corso il nome, ha luogo unicamente nella sua sospensione. Qui il nome non risulta condannato aH’indiflercnza di ciò che non sene. Piuttosto, è solo il nome che, nella forma di una perdila, è capace di esprimere c di rendere effettiva la responsabilità di chi è coinvolto in prima persona e, contemporaneamente, di indicare il senso comune di una tale responsabilità: comune nel senso che tocca tutti indistinta­ mente, nel ^tu” generico secondo cui vale una chiamala o un’ingiunzione. Se il nome ricorda che la responsabilità è sempre singolare c, in un certo senso, solitaria, la sua “scomparsa” (o “improprietà”) fa invece segno al fatto che questa responsabilità attiene al senso condiviso di una libertà, che si lascia declinare unicamente nei modi di ciò che già da sempre eccede ogni “intenzione” come ogni “possibilità” personale*. Il significato tcologico-politico di questa sequenza si lascia misurare unicamente sulla linea che unisce e tiene in tensione la scomparsa del nome proprio con la sua «santifica* zionc» (quest'ultima pensata come spazio dell’osservanza della legge e, dunque, come luogo della libertà come obljedienza). Questa linea si prolunga, nella tradizione cristiana,

Volta

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È nel segno del «senza nome» che si lascia compiere una sorla di smontaggio delle stesse dinamiche del politico. Del resto, come pensare altrimenti gli effetti della equivalenza “sospesa” di nome e potenza, se non facendo riferimento al suo riflesso politico? Ma è solo tenendo costantemente presente la vicenda del «senza nome», come realtà eterogenea^ ma non esterna al politico, che quest’ultimo si lascia pensare come una realtà al di là della “semplice presenza” di soggetti impegnati in un’“opcra” collettiva. E proprio in questa realtà del politico che risuona il senso della àòvvapia, radice nascosta di ogni potenlia, radice nascosta di una realtà sempre eccedente le sue possibilità.

nell’idea del martirio come luogo di questa «santificazione del nome». Come ricorda F. Niewòhner (Der Manie und die Manien Gottes, cit., p. 1-18), questa tradizione si rivolge innanzitutto al Satino 44, 21-23, che mette in relazione il nome di Dio con la constatazione «per te ogni giorno siamo messi a morte, stimati come pecore da macello». L’espressione «santificazione del nome» è ricorrente nei testi che hanno pensato l'ebraismo nella serietà di una domanda filosofica. In questo senso occorrerebbe una ricerca che metta in relazione la attività della Akademie Jìlr die Wissenschqfì des Judenlums con la centralità di questo tema. Cfr., oltre a Franz Rosei rzweig, Der Sterri der Erliisung, cit., pp. 426-427, Dos IFewn des Judmluins (1923) di Leo Baeck (ora in IlevAr, a cura di A. 1 1. Friedlandcr, voi. I, Gutersloher Vcrlagshaus, Gtltcrsloh 1998, p. 190); Hermann Cohen, Die Religion der Vernunjl aus dea QueUrn des Judenlunis (1928), Mclzer, Darmstadt 1966, pp. 402-403.

Seconda parte

4 Mito, popolo, filosofia

i. Mito e verità Misurare la ricaduta politica del “nome proprio” significa confrontarsi con la dimensione del politico nella concretezza di una delle sue determina­ zioni fondamentali. Ora, il punto preciso in cui queste due esigenze si incrociano è costituito dal nome di “popolo”. E all’interno della Filosofia della mitologia che Schelling iscrive le sue riflessioni sul “popolo”. Questo atto corrisponde nientemeno che al tentativo di far coincidere la verità del popolo con la verità della mitologia e, dunque, di leggere la vicenda del popolo nella prospettiva della “verità”. La mitologia, per quanto “ragione­ volmente” assurda, è infatti di per sé vera: non solo ha una sua verità, ma, più precisamente, ha la sua verità in se stessa. E questo il carattere che la parola «tautcgoria» indica: la «mitologia si spiega da sé» e, come tale, non ha bisogno di spiegazioni che vengano dall’esterno1. Questa autotraspa­ renza per cui mito è logos a sé comporta l’autonomia di questo logos su ogni altra ermeneutica, che sarà inevitabilmente ctcronoma. Per Schelling, «gli dèi [della mitologia] sono esseri realmente esistenti, che non sono né significano qualcosa d’altro, ma solo significano ciò che essi sono»*. E in ragione dell’identità di mitologia c di esistenza effettiva che la mitologia esprime la verità, e precisamente una verità letterale: la lettera della verità che i miti, raccontandosi, pronunceranno. Questi sono letteralmente veri, in quanto racconto senza finzione, racconto la cui chiarezza integrale non si lascia velare da nessuna finzione. Ma questa impostazione, per neutrale che sia, mantiene sullo sfondo l’intenzione polemica contro ogni tentativo

Schelling, Philosol>hie der Mythologie (Die A tylitologie), cit., p. 139. Sulla precarietà della distinzione tra mito c logos, cfr. Adolf Allwohn, Der Mylhos bei Schelling, Heisc, Charlottcnburg 1927. 1 Schelling, Philosoldùe der Mylhologie (Hislorisch-kritische Einleitung), cit., p. 195-196. Sulla tautcgoria, cfr. Vladimir Jankclcvitch, L'odyssée de la conscience dans la dentiere philosophie de Schelling, Alca», Paris 1932.

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di intendere i miti come allegoria o come trascrizione simbolica di verità che rimangono celate o, addirittura, come invenzione filosofica o poetica . È, del resto, proprio questa polemica a lasciar intendere la reale posta in gioco delle lezioni sulla Mitologia-, il tentativo di pensare la mitologia nella sua verità. Figura irrimediabilmente negativa, l’allegoria incarna sempre l’ambiguità di un rimando che, come tale, vorrebbe far passare la verità attraverso il piccolo imbroglio di uno spostamento di piani. La mitologia, invece, esclude ogni possibile trascrizione della verità in un altro ordine formale’. Verità/finzione, proprio/improprio, naturale/artificiale: è secondo l’articolazione di queste opposizioni che non ammettono un terzo termine che Schelling pensa la mitologia in quanto contenuta integralmente nel primo dei due termini. La pensa, dunque, come l’apparizione necessaria di una verità a cui è estranea ogni forma d’arbitrio. Inoltre, se la spiegazione allegorica rappresenta il «sensum improprium», giocoforza indi­ care nel proprium della verità la dimensione stessa della mitologia. E neU’indivisibilità di «forma» e «contenuto», di «materia» e «rivestimento», che si rafforza quest’idea. Se la forma è altrettanto originaria del conte­ nuto, essa non rappresenta mai semplicemente una forma di traduzione o di travestimento1. E se «forma» e «contenuto» non si lasciano separare, nemmeno proprietà e senso saranno da distinguere: nella mitologia il senso sarà sempre la sua proprietà, sarà sempre sensum proprium . Schelling. Philosophie der Mythologie (Historisch-kritische Einleitung), cit., pp. 195-196. Impegnato a liberare la mitologia dal pregiudizio che essa sia un’invenzione e con ciò a superare il dualismo mito/realtà che inscrive il mito unicamente nell’ordine della finzione, Schelling trascura ogni altra alternativa da quella deH’identificazionc tra allegoria c artificio. In questo modo, è a sua volta vittima di un pregiudizio e precisamente di quello “classicistico” (indicato distintamente da Walter Benjamin nel Dramma barocco tedesco, in GesammelU Schriften. 1/1. cit., pp. 336-340; tr. il. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, pp. 134-138), per cui l'allegoria non sarebbe «espressione», ma solo artificio ossia convenzione. E questo accade perché la distinzione tra mitologia e inventivilà viene pensata in analogia a quella tra naturalità e innaturalità. Schelling, Philosophie der Mythologie (Historisch-kritische Einleitung), cit., p. 195. Cfr. ivi, p. 196: «In passato proprietà e senso dottrinale erano opposti l’uno all’altro ma entrambi (proprietà e senso dottrinale) non si lasciano dividere secondo la nostra spiegazione e al posto di sacrificare la proprietà per il bene di un qualche significato dottrinale o di salvare la proprietà ma a prezzo del senso dottrinale, come [fa] l'intenzione poetica, noi siamo al contrario costretti dalla nostra spiegazione a determinare la comune unità c l’indivisibilità del senso». È inevitabilmente un principio “economico” quello che si impone attraverso la tautegoria, quello di una economia propria della coscienza. D'altra parte, l’impossibile distinzione tra una «forma» c un «contenuto» è sempre sbilanciata sul secondo. Proprio in questo sbilanciamento si mostra un’apparenza di dualismo, a riprova che l’identità dei due fattori non c mai realmente compiuta.



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In questa aderenza irripetibile tra la parola del racconto e la “cosa” dell’evento - aderenza che sembra essere lo stigma stesso della mitologia i miti sono tuttavia in pieno possesso della loro verità solamente “alla fine”, quando la storia della mitologia e terminata. La mitologia fornisce la sua chiave di lettura solamente nell’ora del suo tramonto c come tale esiste, più che all’inizio, alla fine, perché solo in quel punto finale esiste come mito-/qg/a, solo lì può identificarsi con il suo logos . Al di là dei miti che ne compongono la trama, essa si identifica piuttosto con il “luogo” simbolico in cui quei miti sono stati; si identifica, in altri termini, con il “passato” di quei miti. E solo nel loro passare che resta disponibile lo spazio per il senso della tautcgoria8. Ma se la mitologia è regolata dal principio della tautcgoria e non necessita in generale di nessun contributo esterno, perché parlare di una «filosofia della mitologia»? Nel 1835, a Monaco, la necessità della filosofia è giustificata come la necessità di quello sguardo capace di cogliere la totalità della storia ovvero la storia stessa come totalità . Assumendo su di sé la trasparenza della tautcgoria, la filosofia è in grado di rivelare alla mitologia il proprio senso compiuto, l’unità dei suoi miti all’interno della storia dell’umanità. Movimento che, inevitabilmente, cioè nonostante la stessa tautcgoria, finisce per tenere insieme la filosofia della mitologia come mitologia della filosofia"1. È sempre ed esclusivamente in nome del logos Sul tema cfr. Xavier Tilliettc, Im mythologie compóse. L'interprétation schellingienne du paganisnu, Bibliopolis, Napoli 1984. “ Vincenzo Vitiello, Filosofia teoretica, Bruno Mondadori, Milano 1997. pp. 196-197 c 132-133, ha indicato nella tautcgoria l’anticipazione del principio di Marx, secondo cui è il dopo che fa comprendere il prima e la scienza è un andare a ritroso rispetto al tempo reale. Nel raccogliere questa segnalazione, ne propongo un’altra, relativa a un |X)ssibilc precur­ sore della tautcgoria: Lutero e la sua concezione della Scrittura quale «per sese certissima, Jaatlima, apertissima, sui ipsius interpres, omnium probans, judicans et illuminans». Il principio luterano della «sola Scriptum» rappresenta, infatti, l'intreccio autosufìicientc di ermeneutica c teologia, che ricomprende la prima nella seconda, presupponendo una sostanziale identità tra il principio della «sola Scriptura» c quello della «sola Fide». Schelling, 1a philosophie de la mythologie (Secretali), cit., pp. 7-10. E proprio questo movimento ad articolarsi successivamente nel progetto di una philosophische Rcligion, di una religione filosofica che tenga insieme mitologia c rivelazione (su cui cfr. Schelling, Philosophie der Mythologie (I/islorisch-kritische Einleitung), cit., p. 250 e (Philosophische Einleilung), pp. 568-569). Si tratta, forse, di un lontano riflesso del progetto di una «mitologia della ragione, cioè filosofica» che, a prescindere dalle questioni sulla presunta “paternità” del Più antico programma dell'idealismo tedesco, doveva essere noto a tutti e tre gli amici dello SliJÌ di Tubingen - testo la cui decisività risulta appunto nel tenere insieme mito e ragione, secondo la misura di una loro “rivoluzionaria” prossimità. Cfr. Christoph Jammc, Mythologie der Vernunjl. llegels "Altestes Systemprogramm des deutschen Ideali-

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filosofico che può essere superata la soglia del tabù platonico nei confronti del mito. In nessun istante è questione per Schelling di una mitologia che esista senza la sua comprensione filosofica. Ecco perché «solo questo titolo di Filosofia della Mitologia attribuisce alla mitologia un valore e un senso»". Nel titolo di Filosofia della Mitologia, non dimora nulla di casuale. Esso è il «nome legittimo» di tale progetto: senza di esso la mitologia è un’associa­ zione fortuita di clementi eterogenei. E questo perché solo la filosofia può comprendere i miti nella loro necessità, vale a dire nel processo della coscienza di cui essi sono espressione. È sotto questo titolo di Filosofia della Mitologia che osserviamo la comparsa di qualcosa che non appartiene al canone tradizionale delle dottrine filosofiche. Contemporaneamente, vi si lascia riconoscere qual­ cosa di profondamente intimo alla tradizione del sapere filosofico occiden­ tale. Mito-Zogrò indicherà la capacità di dare alla disseminazione dei racconti mitici una forma unitaria e questa forma sarà ciò che Schelling chiama «coscienza»12. E per questo che non esistono mai semplicemente dei miti, ma solo una mitologia. E questo loro essere immediatamente presenti alla coscienza come assoluta presenza a se stessa, che ne certifica la compiuta aderenza al loro logos. E all’interno di questa cornice che Schelling cerca di pensare il concetto di "popolo”, nel quale è possibile vedere riflessa e operante la legge de! «proprio» che la tautegoria rivendica come l’autentico logos della mitologia. In questo senso, il popolo costituisce il luogo della corrispon­ denza tra il principio ermeneutico della tautegoria e l’effettività del poli­ tico. Nel popolo, nella sua costituzione è infatti iscritto il motivo del «proprio» e la legge dell’autonomia del senso, di cui la tautegoria offre un modello esemplare. In un certo senso, la tautegoria si propone come la verità di entrambi, del mito come del popolo: la verità di due cose diflèrenti ovvero la verità comune alla loro differenza. Si propone come il segno comune che congiunge una certa determinazione della mitologia al politico e che tiene insieme l’origine della mitologia con la «nascita» dei popoli. Qui un concetto strettamente politico risulta sottomesso a un principio ermeneutico di ordine narrativo. Contemporaneamente, in que­ sta applicazione, riconosciamo, ancora una volta, un tratto a suo modo classico della tradizione del pensiero filosofico occidentale: la realizzazione

smus’\ Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1984; Frank-Pctcr Hanscn, “Dos dltette Systemprogramm des deutschen Idealisrnus”. Rezeptionsgeschichte und Inlerpretation, de Gruyter, Berlin 1989. “ Schelling, philosophie de la mythologie (Amiel), cit., p. 195. Cfr. Schelling, Mtilosophie der Mythologie (Hìslonsch-kritische Einteilung), cit., pp. 201-202.

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del soggetto politico come immanenza della verità. Si tratterà ora di mostrare quali conseguenze politiche si inscrivano in un simile gesto.

2. Babele: il nome mitico del popolo È la scena di Babele e della costruzione della torre a tenere insieme il mito e l’autodeterminazione di una comunità nella forma di un popolo. Questa scena ha la forma di un dilemma:

I costruttori si dicono l’un l’altro: lasciateci costruire una fortezza e una torre, la cui sommità giunga sino al ciclo, affinché cifacciamo un nome, a meno che non ci piaccia venire dispersi per la terra intera". All’origine dei popoli sta questa ingiunzione sovrana che ha la forma di una alternativa senza scelta o senza decisione: o “l'arsi un nome” o accettare la scomparsa, la dispersione. Non c’è realmente alternativa: da una parte, l’opportunità di una realtà da costruire, dall’altra, l’orrore del nulla14. In questo senso, questa decisione del popolo non è veramente una scelta per l’una o per l’altra cosa, ma piuttosto la scelta del popolo per se stesso: la sua autodeterminazione. “Farsi un nome” vuol dire, innanzitutto, “divenire famosi”, “acqui­ stare fama”. La torre sarebbe allora l’espediente tramite il quale porre in atto il desiderio di avere un nome famoso. In quanto tale, sarebbe in seguito assurta a simbolo esemplare della hybris umana che vuole valicare i confini ad essa assegnati. Di fronte alla citazione di Babele, Schelling si impegna, tuttavia, in un senso che apre a un’altra interpretazione dell’e­ vento stesso (un’interpretazione, lo anticipo, che mi sembra abbandonare quella appena esposta e il suo segno antropologico, venendo piuttosto a indicarne come fatalità l’aporia necessariamente connessa con la «nascita» di un popolo). Questa prima ipotesi viene infatti subito dopo diversamente articolata, mostrando come l’equivalenza tra il “farsi un nome” e il “divenire famosi” presupponga un più immediato significato della parola “nome”:

Li massa clic qui parla non può tuttavia ancora pensare [...] di diventare famosa prima che essa abbia un nome, cioè prima che essa sia un popolo. Ivi, p. I 16. Corsivo mio. " Per il significalo politico della «paura», origine delle «prime istituzioni civili», ivi, p. 115.

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come anche nessun uomo potrebbe farsi un nome [cioè divenire famoso], come si dice, qualora egli non ne avesse già uno1 ’.

Si potrà divenire famosi, si potrà rendere famoso il proprio nome solo presupponendo di averne già uno. Solo se il nome c’è già, l’espressione “farsi un nome” potrà essere tradotta con “divenire famosi”. Altrimenti si do\Tà prenderla letteralmente. Così letteralmente da dover supporre es­ serci stata al principio «un’umanità senza nome». C’è dunque un nome in senso letterale c ce n’è uno in senso metaforico, nel senso della fama, della notorietà. E evidentemente solo al primo, al senso letterale, che qui viene fatto riferimento. Ancora una volta, la lettera prevale nel testo a ogni eteronomia del senso, in fedeltà al principio della tautegoria. È il nome che distingue, diride un popolo come un individuo dagli altri, ma proprio perciò lo tiene contemporaneamente unito. Le parole «affinché noi ci facciamo un nome» significano di conseguenza nient’akro che «affinché noi diventiamo un popolo»"’.

Il percorso di questa “origine” è, in effetti, lineare: i costruttori di Babele agiscono con lo scopo ben preciso di «farsi un nome». Ma questo non vuol dire “divenire famosi”, perché la fama riguarderà un nome (e un “soggetto”) che già ci deve essere e che, tuttavia, nel racconto di Babele, non solo non c’è ancora, ma è proprio l’oggetto in questione, il line di tante fatiche. Il nome è ciò che deve essere costruito. E questo nome non riguarda una sola persona, ma più uomini. Questi appaiono uniti in comunità proprio in forza del nome - quale prestazione fondamentale della sua òuvaptg. Questo motivo è decisivo: senza nome non c’è popolo. E per questo che l’espressione «stirpe senza nome» significa «non ancora diventata popolo»1'. Ma di quale nome si tratti e cosa significhi il nome proprio di un popolo, tutto questo resta ancora da pensare. 15 Ivi, p. 116. Ibid. «Diventare un popolo» possiede il senso del “diventare qualcosa”, secondo l’espressione di Qu’est-ce qui le tiers élal? dell’abbé Sieyès: «Cosa domanda (il terzo stato]? D’essere qualcosa». Ora, «qualcosa» non indica, come pure è stato detto, un obiettivo modesto. «Qualcosa» è invece l’istanza a prendere parte alla vita politica, vale a dire a esistere politicamente, da parte di uno “stato” che, fin ad allora, non è stato «niente» (pur essendo invece «tutto», questo il celebre paradosso che articola lo scritto). E il terzo stato sarà «qualcosa» rinunciando a se stesso, al proprio nome, prendendo invece un nome nuovo, quello dell’Asscmblca nazionale, e assumendo così il senso della totalità della Nazione, contenuta fino ad allora nella persona del Re. Analogamente il «popolo» passa all’assunzione di valenza politica attraverso il suo nome. J' Schelling, Philoìophù der Mythologu (Hùtorisch-krilisclu Einleilung), cit., p. 159.

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Caratteristico di ogni popolo è il possesso di una propria mitologia. Questo è, almeno, il legame che Schelling pone alla luce del contempora­ nco sorgere della mitologia e dei popoli1". Questo essenziale legame tra mitologia e popolo è così descritto:

[per il popolo] la mitologia non è determinala dalla sua storia. È vero mvece il contrario: è la mitologia a determinarne la storia. O, piuttosto, questa non determina, ma è essa stessa il suo destino (come il carattere di un uomo è il suo destino), il fato toccatogli in sorte fin dall’inizio1 E così si specifica la caratteristica temporalità di questo evento:

Così ogni popolo esiste in quanto tale innanzitutto dopo che esso si c determinalo e deciso in relazione alla sua mitologia 0. La mitologia è dunque il destino di un popolo e questo non sarà tale prima di essersi deciso (determinalo e deciso) in relazione alla sua mitologia. «Fin dall’inizio» essa suscita la storia di un popolo, la ispira, accompagnandovisi come la sua ombra. In quanto tale, la “storia” sarà sempre storia di un “popolo” o dei “popoli”: avrà sempre il “popolo” come soggetto della sua memoria. E solo giunti a questo stadio, che ha inizio la storia. Prima del popolo non c’è storia, c’è del tempo che non fa ancora storia, che non ha ancora forma di “storia”. In questo senso, la storia ha luogo unicamente sul fondamento della «separazione tra popoli», unica­ mente sul fondamento della «crisi» che interrompe l’unità indifferenziata dell’umanità dei primordi1. Così l’avvento della “storia” coinciderà con l’atto con cui la mitologia si dà a un popolo: a un popolo che non è ancora, che ancora non c’è. Coinciderà, dunque, con questo impossibile inizio. La decisione ha a che fare con la divisione: «si decide in relazione alla mitologia» vuole allora dire che il popolo si divide, si separa (dagli altri popoli, dall’indistinto genere umano) e, così facendo, si determina in quanto “popolo”. E questa decisione accade «in relazione alla sua mitolo­ gia», cioè a partire dai suoi dèi (già suoi, cioè già di un popolo che pure non esiste ancora, che esisterà solo dopo la decisione: anticipazione di un’aporia su cui torno subito). Perciò la mitologia non risulta dalla storia in

Ivi, p. 119. Ivi, p. 65. Corsivi mici. 2» Ivi, p. 109. Corsivo mio. ” Cfr. ivi, pp. 232-233.

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di un popolo, ma piuttosto la fa, la decide: è il popolo che si origina dalla sua mitologia, non questa da quello: _Ma che cos’è innanzitutto un popolo o cosa rende qualcosa un popolo? Indubbiamente non la mera coesistenza spaziale di un numero più o meno grande di individui fisicamente simili, bensì la comunità di coscienza tra di loro. Questa ha nella lingua comune solo la sua espressione immediata; ma dove dovremmo trovare questa comunità o il suo fondamento se non nella comune visione del mondo? E questa dove può essere contenuta e data originariamente a un popolo se non nella sua mitologia? Perciò sembra impossibile che una mitologia si aggiunga a un popolo già presente, sia mediante invenzione di singoli che appartengono al popolo, sia che essa nasca attraverso una produzione comune di natura istintiva. Anche questo pare impossibile, perche è impensabile che si dia un popolo senza mitolo­ gia’.

Nel corso del capitolo indicherò con “popolo” (tra virgolette) proprio questo popolo che si decide per sé e in quanto tale si differenzia dagli altri in relazione alla sua mitologia. Le virgolette indicheranno il popolo nella sua decisa unità Quale sia la temporalità segreta della relazione tra il “popolo” c la sua mitologia, lo rivela Schelling stesso quando scrive che quest’ultima «non può dunque quindi sorgere nel tempo nel quale la separazione era già compiuta e dopo che esso era già divenuto popolo» *. Sarebbe troppo tardi. Il popolo ha bisogno già prima della mitologia, come condizione fondamentale di quella decisione. In quanto tale, essa e già là, paradossal­ mente prima del popolo di cui sarà mitologia. Insieme alla lingua, essa garantisce l’unità necessaria a una «comunità della coscienza», unità che non è data dalla mera coesistenza spaziale di una massa, ma unicamente come «visione comunitaria del mondo»*’. E la mitologia, c null’altro all’infuori della mitologia, a garantire la condizione dell’esistenza di un popolo, la sua «legge originaria»2’. In quanto tale, ne garantisce anche la sensatezza: la «comunità della coscienza» è sempre e inevitabilmente una comunità di senso. A voler rispondere alla domanda come accada di fatto questa separa­ zione, ci si avvede subito che essa ha a cele fare con la questione del nome Ivi, pp. 62- 63. Su questo tema, cfr. l’analisi attenta di Erich Voegelin, Rosse und Staat, Mohr, Tùbingen 1933, soprattutto pp. 149-151. 1 Schelling, Philosoj/hie der My litologie (Historisch-kritische Eitdeilung), cit., p. 109. Ivi, p. 114. Ivi, p. 64.

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proprio di ogni singolo popolo. Ciò che ha rilievo non è, tuttavia, tanto il fatto che un popolo sia detto “alemanno”, un altro “gallo” c così via. La parola non è qui intesa in senso etnico né si può credere che sia una colorazione etnica ex posi a renderla politicamente ambigua. Del resto, questi aggettivi consentono una distinzione tra popolo e popolo unica­ mente a partire dal presupposto comune per cui entrambi sono un “popolo”, cioè unicamente in quanto entrambi si sono decisi per sé. Solo una volta divenuto “popolo”, cioè in seguito a questa decisione determi­ nante, solo allora esso avrà il suo nome. Ma se seguiamo il ragionamento di Schelling, è vero anche il contrario: che cioè solo in quanto dotato di nome, esso sarà divenuto “popolo”. “Popolo” e “nome” appaiono contem­ poraneamente, non si può stabilire una priorità; dov’è l’uno, è anche l’altro. Ma qual è questo “nome del popolo”? Schelling non pronuncia nessuna soluzione. Solo, è evidente che nomi come “francese”, “italiano”, “tedesco” non indicano altro che l’essere “popolo” del popolo, cioè il suo essere raccolto per il tramite di una decisione in unità: «E il nome che distingue, divide un popolo dagli altri, ma proprio perciò lo tiene contem­ poraneamente unito»'”. Quel che forse si potrebbe scrivere anche così: il nome del popolo è il nome di “popolo’3. Figura dell’autoidentificazione del popolo nell’immanenza del suo fondarsi, il nome indica un’unità, quella del popolo, a partire dalla mitologia che è mitologia propria ed esclusiva di un popolo. Ma, contemporaneamente, ciò che dovrebbe indicare una proprietà, qualcosa di caratteristico c di irripetibile, è attraversato dalla sua impossibilità: il nome non indica nulla (di esclusivo) di un popolo, se non il suo essere “popolo”; non è un “nome proprio”, ma proprio l’impossibilità di questa proprietà del nome. Non esclude nulla se non l’esclusività pretesa dal nome. Qzzz la verità del "popolo” si mostra nella sua pura differenza senza contenuto. Questa scena realizza una sorta di tautegoria del “politico” poiché la verità del “popolo” non ha luogo altróve che nel “popolo”, ossia nel fatto che questo non rimanda ad altro né per la sua esistenza né per la sua comprensione. Qui la tautegoria dichiara il suo carattere tautologico''. Questa aporia del nome ne pone in evidenza un’altra, a cui essa è strettamente connessa. Nella scena di Babele ogni popolo esiste solo dopo che esso si è determinato c deciso. Il popolo deve essere già popolo per Ivi, p. 116. In questo senso, risulta esatta la formulazione di Jan Assmann, La memoria culturale, Einaudi, 1 orino 1997, p. 1 15, per cui il «nome» sarebbe innanzitutto «l'incarna­ zione e i simbolo principale di un'identità etnopolitica». In questo senso, il popolo evidenzia la dimensione tautologia implicita nella stessa tautegoria, su cui ha insistito Slavqj Zifcck, Der nie aujgehende Resi. Eia Versuch iiber Schelling und die danài zummmenhìingenden Gegenstiinden, Passagcn, Wicn 1996, pp. 133-134.

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poter essere “popolo”, altrimenti non potrebbe diventarlo. E questo perche il popolo si decide per sé, si autodetermina. Ma se esso si è determinato e deciso, se cioè ha determinato se stesso, doveva pure già esserci. Tutto accade sul crinale dell’istante decisivo, da cui dovrebbe aver inizio qual­ cosa di nuovo: l’istante nel quale quello (il popolo) si è pronunciato e deciso come “popolo” in quanto tale e come “questo popolo”: sarà dunque già popolo per poter(si) definire come “popolo”, altrimenti, se non lo è già, non lo sarà mai. E la struttura paradossale di qualcosa che si decide e che esiste solo dopo essersi deciso. Questo è il paradosso nel quale resta inscritta (come impossibile) qualsiasi autofondazione - ancorché necessaria e addirittura già compiuta - anche la stessa dichiarazione dei diritti di un popolo che ancora non esiste, ma che deve esistere per dichiararsi e che deve dichiararsi per esistere’8. Il paradosso non sarebbe evidentemente eliminato dicendo che non il popolo si decide per sé in quanto popolo compiuto - ciò che esso sarà solo dopo la decisione — ma la tribù, la stirpe. Anche in questo caso si tratterebbe di decidersi per se stessi, dcH’autolcgittimarsi come unità a partire da questa stessa unità come già data in precedenza. Inoltre questa unità sarebbe data unicamente dalla mitologia, la quale è invece sempre e solo mitologia di un popolo2’. Questa aporia qualifica più d’altro il concetto di “popolo”, la cui realizzazione dipende dal suo esserc-già, dal fatto che esso si precede, precede se stesso: che per costituirsi precede la sua costituzione, cioè insieme la segue (ne è infatti l’efTctto, la conse­ guenza) e la precede. E tuttavia il “popolo” è, contemporaneamente, ciò che nella sua autodeterminazione intende porsi come assoluto inizio, non preceduto da nulla: come ciò che crea o inventa il suo stesso contesto da zero. Vi è come un doppio popolo che lavora dall’interno il concetto di “popolo”: vi è il popolo e il suo nome di “popolo”. Travagliata al suo interno dalla doppiezza di quello che dovrebbe a rigore essere il suo unico soggetto, la comunità del “popolo” rinvia alla constatazione che ogni comunità, ogni appartenenza non è (ancora c mai) compiuta. “Popolo” rappresenta, da questo punto di vista, un dispositivo che fa passare per * Com’è noto, ha sviluppato analoghe aporie, a partire dalla “Dichiarazione” ameri­ cana, Jacques Derrida, Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politit/ue dii noni propre, Galilcc, Paris 1984; ir. it. di R. Panattoni, Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, Il Poligrafo, Padova 1993. La paradossalità di questa decisione possiede una forte assonanza con il luogo del Dii contrai social, in Oeuures complètes, 111, Gallimard, Paris 1964, p. 359, in cui Rousseau commenta «fatto in virtù del quale un popolo è popolo».

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autonomia la sua insufficienza a se stesso. Non c’è autonomia ne autarchia possibile nella mancata coincidenza tra popolo e “popolo”. Nonostante tendano a riunirsi nel compimento politico della proprietà (del nome, della mitologia), non coincidono mai. “All’origine”, se c’è un’origine, diciamo: nella scena dell’origine, vi è una contraddizione immanente al popolo. Questo, nonostante si formi e si moduli secondo una rigorosa aderenza alla legge del proprio, ha però bisogno di altro, di ciò che abbiamo chiamato il “popolo”, ovverosia della sua forma politica. Se questa sorge, da un lato, seguendo quella legge del proprio, anzi essendone la massima espressione, d’altro lato, proprio questo raddoppiamento dà parola a quella contraddizione strutturale con cui viene qui identificata l’alba del politico: il popolo esige, per essere tale, per costituirsi come tale, un raddoppia­ mento di sé in popolo e “popolo”, esige quest’altro “popolo” perché solo al suo interno si compie quella volontà “originaria” di avere un nome proprio. Che il politico sia, nel suo tratto decisivo, l’utilizzazione ovvero la cancella­ zione della differenza che intercorre tra questi due piani, è l’impensato che Schelling ci consegna. Ma è la questione del nome a lavorare dall’interno l’unità del popolo come tale. La nominabilità del nome, che corrisponde poi all’csistcre politico del popolo, lascia aperta la via alla non-coincidenza del popolo con il “popolo”. L’uno non è l’altro, anche se l’uno non si presenta né rappresenta mai senza l’altro. Presenza interrotta dal lavoro del differire che neppure permette la sovrapposizione ovvero la perfetta coincidenza dal popolo al “popolo” essa costituisce non una questione tra altre ma, da un certo punto di vista almeno, la questione stessa del politico. Questa dualità tende sempre a ricomporsi nella direzione del “popolo”, nella forma di esistenza supcriore, che è sin dall’inizio lo scopo di Babele. Essa tende a essere assorbita, senza peraltro potere eliminare l’ultimo gesto/resto di resistenza, nella compiuta politicità che il nome (il nome “popolo”) dovrebbe essere in grado di indicare. Riassorbire il dissidio che travaglia quella nozione significa qui ri(con)durrc il fattuale alla sua denominazione (politica), il corpo del

w Cfr. Ulrich K. PrcuB (a cura di), ‘jim Rcgriff der Verfassung. Die Ordnung dcs Politischcn, Fischer, Frankfurt a.M. 1994, pp. 7-33, soprattutto pp. 10/20-21, a firma del curatore del volume. I-i Costituzione vi e intesa come «forza istituzionale dell’autocoscienza politica di un popolo come popolo», di un popolo che si dichiara tale, che guadagna il nome di "|M»polo” attraverso il superamento della frattura interna (la “società”). Solo questo «popolo come popolo» ha appunto esistenza politica. Per un excursus di carattere storico dalla cui lettura emerge l’anfibolia del concetto di popolo, cfr. l’articolo Zz peupte di Jacques Julliard, nell'opera, a cura di Pierre Nora, Zzar tieux de mémoire, II, Gallimard, Paris 1997, pp. 2359-2393.

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popolo al suo corpo politico, il “popolo”, a ciò che costituisce il primo come tale perché ne fonda l’unità (Io fonda in unità). Ciò che è, però, l’inserzione politica del popolo in quanto “popolo”, rinuncia sin da principio a ogni memoria della sua costituzione fisica, nel nome del principio per cui solo qualcosa di geistig, di spirituale è capace di fare di un popolo un “popolo”11. Questo dualismo tra popolo e “popolo” codifica il fatto per cui non c’è popolo senza “popolo”, cioè non c’è popolo senza la forma di “popolo”, non c’è popolo “naturale” senza l’unità politica (di cui “popolo” ritradur­ rebbe nella dialettica del nome la storia delle origini). 11 “popolo” incarna quella dimensione del politico, a cui sin da sempre il popolo tende. La volontà del popolo si compie nel “popolo”. Questo raddoppia continuamente il primo, seguendolo come un’ombra. Ma nello stesso istante, in cui questo “compimento” sembra darsi, il popolo mostra la sua impossibilità a essere riassorbito totalmente nella pura politicità del “popolo”.

3. La «legge originaria» e il suo tempo Qui la mitologia appare come la «legge originaria» di un “popolo”, una legge più originaria di tutte le altre, una legge che precede tutti gli usi, i costumi e i codici in genere. Questa legge al di là della legge, questa legge dal carattere indeterminato e, tuttavia, supcriore alle leggi che seguiranno, risulta inscritta già da sempre nella costituzione di un popolo, ossia nell’atto con cui un popolo si costituisce in “popolo”*2. Come «legge originaria», sarà evidentemente più originaria del popolo di cui essa è legge. È, del resto, proprio dalla mitologia che dipende il nome del popolo, la sua denominazione ossia la natura politica di un popolo come "popolo”. Nome e mitologia si presentano qui ancora una volta uniti nella òùvcqug delle loro forze costitutive:

vi chiedo se il greco sia ancora greco c l’egiziano ancora egiziano, se noi gli togliamo la sua mitologia. Non hanno dunque né ricevuto la loro mitologia da altri né l’hanno prodotta da loro stessi, dopo che erano greco o egiziano, ma divennero greco o egiziano solamente con questa mitologia, con il fallo che questa mitologia divenne loro propria".

Cfr. Schelling, Philosophie der Mythologu (iiislorisch-krilisdu Einleitung), cit., p. 100. w Cfr. ivi, p. 64. "Ivi, p. 64-65.

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L’identità costitutiva di un “popolo” nasce e cade con la sua mitologia. Il suo nome è connesso alla sua mitologia più strettamente che a ogni altra cosa. Questa ne custodisce l’identità in forma di una tautologia, per cui il popolo è uguale al “popolo”, al suo “se stesso”. La mitologia rappresenta la trascrizione del circolo di questa immanenza e, insieme, ciò che ne garantisce il funzionamento. In questo senso, è «legge originaria» perché consegna al suo “popolo” la sua unità indivisa: perché lo consegna all’unità - come unità di sé con sé. Tautologia e politicità mostrano qui la loro decisiva prossimità. Così, tra Egiziani e Greci, è l’esempio di Schel­ ling, non c’è il rapporto che intercorre tra originale e copia, unicamente perché ogni popolo è “originale” a se stesso, nella propria identificazione a sé. E questa irriducibile “originalità” il discorso di Schelling la identifica nientemeno che con la dimensione politica del “popolo”. E, d’altra parte, questo “popolo” può essere “originale” unicamente nel senso di non poter essere copia di null’altro se non di se stesso, rispecchiamento di sé, suo proprio doppio. Ma se come «legge originaria» la mitologia precede sempre il popolo di cui sarà mitologia, la dimensione, nella quale si realizza il loro incontro, sarà, ancora una volta, proprio quella dell’impossibilità temporale che segna la «nascita dei popoli»: l’impossibilità di decidere, all’istante o nell’istante, se accettare o meno una mitologia. Questa, piuttosto, si impone senza scelta:

La mitologia di ogni popolo può sorgere solamente insieme [zugleich] a esso. Dunque, poiché la mitologia non esiste in nessun modo in abstracto. le diverse mitologie e il politeismo in generale non possono sorgere che contem­ poraneamente [zugleich] ai popoli1. In questo zugleich c’è tutto il senso di un’imbarazzante contempora­ neità della mitologia e del “popolo”. Vi è collcgata l’indecisione nella sua impossibilità: zugleich sembra infatti indicare piuttosto l’elisione del tempo, l’assenza di un tempo reale in cui prendere una decisione.

Ivi, p. 555: «uguale» è una citazione da Lutero, Prefazione alla lettera ai Romani.

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legge gli si risolve in morte; la legge fa il gioco della morte. Per lui, per l’uomo, per ogni singolo, la legge e questo gioco della morte. La legge fa la sua morte', dinanzi a questo “gioco” mortale, non è data evidentemente la possibilità di restarle indifferenti. Si tratta invece di ciò che sta più a « cuore» all’uomo. Davanti alla legge, davanti a ciò che lo ha in suo potere, il cuore si arresta. E proprio questo arresto a ricordargli la sua insuffi­ cienza a colmare il vuoto, cui la legge fa segno — la (doppia) finitezza, sua e della legge. Che la legge sia l’incompiutezza stessa in figura, è segnalato, tra l’altro, dal fatto che presuppone ciò che è essa stessa incapace di dare. Del resto, la legge è la figura stessa dell’incompiutezza in quanto, senza «disposizione morale», la legge rimane lettera morta, non fa testo, non si inscrive nella realtà fattuale dell’uomo. Contemporaneamente, questa «di­ sposizione morale» non è oggetto di legge, non è materia di legislazione, né è prodotta in forza di una disposizione di legge. Qui, nel «cuore» della legge, appare ciò che sempre si accompagna alla legge: la necessità dell’irraggiungibile ossia dell’impossibile, come ciò che non lascia l’uomo indifferente. E proprio questa coincidenza tra il «cuore» della legge e ciò che sta a cuore all’uomo a segnalare la prossimità essenziale dell’uno all’altra. Per questo ogni legge è sempre legge di morte. Per questo ogni legge fa il gioco della morte. Per questo la condanna a morte non è un caso tra gli altri della legge, ma la sua apparizione più radicale. Incapace di «pace», nulla o nessuno può resisterle. La morte, figura della necessità dell’impossi­ bile, come se un’impossibile necessità potesse mai apparire in figura.

6. La sostituzione — l’al di là dello Stato

E quale gesto sarà adeguato rispetto a questa legge, restandole sempre fuori misura? Quale gesto sarà cioè in grado di rapportarsi a qucll’“al di là della legge”, mantenendosi contemporaneamente cosciente della spropor­ zione che esso deve costantemente assumersi? E in che modo fa segno questa sproporzione alla felicità? Dottrina della vita beata: secondo la celebre indicazione di Spinoza, l’etica non è null’altro che ciò che concorre alla realizzazione di quella che Schelling chiama Seligkcit, beatitudine, o anche Gliickseligkeil. La sua realiz­ zazione risulta estranea ai fini dello Stato. Quale gesto, allora, può tentare, nella finitezza della sua misura, di rapportatisi? Quale gesto corrisponde all’assunzione, al di là di ogni «moralità in quanto propria», di una “moralità altrui” che, forse, è ancora da inventare?

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Propongo la tesi che questo gesto sia quello della “sostituzione”. Per verificare questo assunto occorre rinvenire le tracce nelle pagine in cui Schelling sembra circoscrivere questo tema, pur senza porlo mai esplicita­ mente. Il riferimento polemico di queste pagine è precisamente, ancora una volta, l’etica kantiana. Se sostituzione vuol dire letteralmente “pren­ dere il posto” di qualcuno, di altri, di questo motivo l’etica kantiana non sa nulla. Nella prospettiva dell’universalizzazione di un’azione non c’è posto per la sostituzione, che non si lascia riportare alla sola legalità, e la cui eticità non è mai l’eticità di una legge, fosse pure della più “santa”. E «la sofferenza di una morte terribile», quella del Cristo, a costituire ciò che mette in questione il concetto kantiano di legge". Come spiegarla in termini strettamente kantiani? Per ottenere una risposta, Schelling fa entrare in gioco «un teologo peraltro egregio» che tuttavia «non sapeva sottrarsi all’influsso dei concetti kantiani». Questo teologo rimarrà anonimo. La citazione che segue è appunto la risposta di questo “tipo”, il “tipo” del “teologo kantiano”: «Il Figlio di Dio doveva morire affinché fosse vinto ogni dubbio che una grazia piovuta senza merito sull’umanità avrebbe potuto suscitare contro la santità della legge, e affinché l’onore della legge, al quale almeno in questo modo si dava soddisfazione, venisse mantenuto»12. L’urgenza pre­ minente è, dunque, innanzitutto quella di salvare la legge nella sua purezza e universalità. Garanzia della legge, nel doppio senso del genitivo: la legge sarà sempre la migliore garanzia di se stessa, secondo un circolo autoreferenziale, che è forse un altro aspetto della sua «autonomia». Citazione vera o falsa che sia, essa lascia intendere che qualcosa come «una grazia» fa sorgere un sospetto che si ritorce contro la legge morale. La legge deve essere inflessibile proprio per garantirsi — per garantire innanzitutto se stessa - dal dubbio che ogni eccezione vi produce, contrav­ venendo la regolarità, alla cui assicurazione essa è impegnata. Essa provvede, per prima cosa, a che nessuna eccezione intervenga a disturbare la sua regolarità. Il dubbio ne intacca la «santità» c I’«onore»: come legge morale avrà fallito la mansione assegnatale lasciandolo avvicinare troppo al suo dettato, alla sua normalità. Scena magistralmente messa in atto da Schelling, essa racconta, produce o inventa il mancalo assalto del dubbio alla legge. Mancato perché la legge corre anticipatamente al riparo, ristabilendo la sua econo­ mia. Il passo si impernia, infatti, sul concetto di merito senza il quale 41 Schelling, Philosophù der Offenbarung (SW XIV), cit., p. 199; ir. il. pp. 1211-1213. " Ivi, p. 200; tr. it. p. 1213.

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«senza merito» — tutta la costruzione crolla miseramente: bisogna meri­ tarsi la salvezza, la felicità etc., e ciò è possibile unicamente attraverso la legge. Ma che la morte del Cristo - ossia quella sostituzione a cui Schelling conferisce un valore esemplare - possa essere necessaria «per consolidare in noi la salutare convinzione sulla santità della legge», indica piuttosto la contraddizione dcll’al di là della legge come spazio di un’etica possibile:

Secondo questa teoria, [...] il fine di questa morte diventa completamente un fine soltanto pedagogico; anche se, peraltro, è poi discutibile che si consegua anche solo questo, poiché Dio si sarebbe mostrato al di sopra dello spirilo della legge, la quale dice che solo il colpevole deve soffrire per se stesso, ma non un colpevole per un altro e tanto meno l’innocente per il colpevole! Meravigliosa disposizione, quella che da un lato vuole porre più sicura la santità della legge, mentre dall’altro viola nel modo più clamoroso proprio questa legge!"

Qui la contraddizione consiste nel fatto che l’atto che viola la legge dovrebbe al contempo garantirne la santità. Questa contraddizione in­ tacca l’esigenza di salvare la legge a ogni costo, anche al prezzo di far passare la morte del Cristo come la rappresentazione di una regolarità e di un ordine — dell’ordine della legge — rispetto a un certo disordine della grazia, del gratuito e dell’inatteso. Se la legge raccomanda che il colpevole soffra per la sua colpa e che vi sia una corrispondenza tra colpa e pena, l’innocenza accade tuttavia sempre «al di sopra dello spirilo della legge» ossia eccedendo la corrispondenza tra colpa e pena. Se la legge pensa la sua giustizia come l’identità tra il punito e il colpevole, è solo «al di sopra dello spirilo della legge» che un innocente può pagare - e non certo in seguito a un errore - la pena al posto d’altri. La sostituzione è proprio l’assunzione della colpa all’interno dell’innocenza, assunzione non solo non comandala da nessuna legge, ma anche che va contro ogni dettato di legge. La «purezza» della legge rimanda al suo contrario, a quanto essa vorrebbe eliminare in nome della sua «santità» e del suo «onore» e a cui è comunque costretta — malgrado tutto — a rapportarsi. L’aporia risulta dalla contemporaneità diacronica di «santità» e di «violazione» all’interno della stessa legge, senza che questa possa mai costituirne la sintesi. Vi è all’opera una tensione di elementi che si corrispondono unicamente nel­ l’impossibilità di stare insieme. Questa aporia, dando forma al concetto Ibid.

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stesso di «legge morale», costituisce l’esito adeguato del concetto, ciò che fa ancora una volta segno alla necessità di un’etica come ciò che non si lascia comandare. Ossia ciò la cui necessità — fosse anche quella della legge - non si lascia mai separare dal suo “contrario”, da ciò che sta «al di sopra dello spirito della legge» e, in quanto tale, fuori dalla legge. Da ciò che - come impossibile - trasgredisce la legge. Ora, se Cristo è una figura della sostituzione, è evidente che il suo fondamento è un fondamento teologico. Contemporaneamente, tuttavia, questa sostituzione costituisce, di fatto, il gesto di una esemplare, ma anche, irripetibile sostituzione. Esemplare e irripetibile: l’unità contraddittoria di questi due momenti rappresenta lo stigma stesso àeWimitatio Chrisli, di cui Schelling si appropria, senza forse avvedersene sino in fondo. Vedremo a che conseguenze conduca tutto ciò - ossia la referenza teologica e, insieme, il suo carattere aporetico. La prima caratterizzazione di questa sostituzione che la crocifissione di Cristo rappresenta (in quanto la sua morte, coincidendo con la reden­ zione del peccato, è intesa teologicamente come una morte per tutti gli uomini) è costituita dalla constatazione secondo cui nessuna legge avrebbe potuto comandare un tale gesto. Nessuna legge potrebbe mai avere come contenuto quello che impone la sostituzione come atto giusto. Si tratta di un caso che la legge, nella sua universalità, non riesce a contemplare. E un caso eccezionale, tanto eccezionale da non poter neppure essere pensato come “caso”, dunque all’interno di una tipologia: è incondizionato, ma in maniera superiore a quella contemplata e richiesta dalla legge morale (kantiana). In questo senso, la sostituzione verifica una lacuna della legge, lo spazio vuoto che è forse il suo centro inconfessato. Verifica l’abissalità di ogni sostituzione agli occhi della legge. Cristo «per se stesso non aveva alcuna necessità di morire»1*. Indispensabile - perche tale è quell’atto ma di una indispensabilità che non è del medesimo genere della necessità con cui la legge si impone, la sostituzione non si lascia leggere allora neppure all’interno di un’economia (c, per esempio, dell’economia sacrifi­ cale). Nemmeno nella severità rigorosa del «tu devi» si trova un possibile “fondamento” della sostituzione. La legge è anzi mula di fronte a tale evento: non può obbligarvi ma nemmeno proibirlo, tantomeno è in grado di spiegarlo. Nella sostituzione appare per la prima volta il senso c la forma di una responsabilità che supera la legge e che è, dunque, non solo fuori legge, ma, al limile, contro la legge. Per essere responsabili, occorre “ Ivi, p. 204; tr. it. p. 1219.

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andare al di là dell’etica, al limite contro Velica. Questa aporia della responsabilità (e, certo, dell’etica stessa) appare sul luogo dcll’irrinunciabile sostituzione, nella forma di un’etica impossibile a codificarsi o a coman­ darsi. Forse dovremmo dire: nella forma dell’impossibile dell’etica - come se un’etica si potesse dare appunto unicamente a partire da questo impossibile. Questo nuovo evento, quest’altro evento non compreso dalla legge, Schelling lo dice quasi en passant laddove - proprio a ridosso della trattazione della legge kantiana - scrive: «Cristo non è morto semplice­ mente per noi - per il nostro bene - ma al nostro posto (il che in quella prospettiva [kantiana] cade completamente)»1’. E la semantica del «per», del Jìir a reggere la frase: “per qualcuno” significa “a vantaggio di-”, ma anche “al posto di-”. Sono due significati del «per» che in quella morte si fanno presenti. «Per noi» non significa solamente «per il nostro bene»: più a fondo, indica la sostituzione come assunzione di ciò che, in principio, sarebbe toccato altrimenti ad altri (in questo caso: a «noi»). Ma il senso di questo «per» come «per noi» non c contenuto unicamente nella sua traduzione in formule come “a nostro vantaggio”, “a fin di benef’. Il fatto è che ci troviamo a pensare quell’evento unicamente in quanto non solo ci sta davanti, ma vi restiamo “all’interno”. Necessità e difficoltà di pensare il cristianesimo e tutto ciò che di “cristiano” accade davanti a noi, perché l’eredità sarà tanto grande da accadere, al contempo, in noi stessi ossia, appunto, «per noi». Di fronte a questa stessa difficoltà ci pone appunto una (o là) sostituzione di cui noi stessi ci troviamo a “profittare”. Esclusa qualsiasi indifferenza o oggettività dinanzi a un “puro fenomeno”, una delle scommesse di tale riflessione consisterà nel pensare quella sostitu­ zione dalla parte dei destinatari della sua realizzazione - dalla parte di quel «noi», che nel «per» vi è strettamente implicato. Tutto ciò «cade completamente» nella «prospettiva» kantiana. Di­ nanzi alla sostituzione e al suo “esempio” - il «Figlio di Dio» che assume l’oltraggio della croce, ossia in un solo colpo la follia di un abbandono e lo scandalo della carne -, «Kant» ammutolisce. Certo, può ancora una volta ricorrere alla legge morale, spiegando tale morte come atto a favore della santità della legge, affinché l’onore di questa non venga annullato da quanto parrebbe invece smentire ogni corrispondenza tra colpa e pena. Stretto dalla necessità (che è l’economia della legge stessa) di non ammet­ tere alcuna gratuità, ne fa alla fine il supplemento di ciò che viene a personificare una potenza indipendente c si introduce come «idolo». *' Ivi, p. 200; tr. it. p. 1213.

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Personificare la legge vorrà dire, allora, poter rendere ragione anche di ciò che appare totalmente assurdo, come la morte del Cristo. Significherà salvare la “ragione” ammettendo che tutto, anche l’assurdo, accade se­ condo la legge"’. Come se, per legge, anche l’assurdo potesse essere convertito in ragione e alla ragione. Come se, in forza di legge, si potesse dare sempre e comunque un senso. E come se, in forza di questa ratio Jortiori, il resto - la mone, l’abbandono, la sofferenza - fossero piuttosto delle aggiunte spurie. Proprio questa spiegazione conduce a vedere nella sostituzione, così Schelling, null’altro che una sceneggiata:

Che Cristo abbia subito la punizione al nostro posto, sarebbe in fondo, secondo la nostra concezione moderna, solo una finzione. Poiché da parte di Dio la punizione era propriamente già condonata e non necessaria, Cristo la prese su di sé solo perché noi non traessimo dalla nostra esenzione dalla pena una falsa conclusione ai danni della legge; propriamente, dun­ que, egli la prese su di sé solo per l’apparenza. E prosegue: Proprio come (non ci si può sottrarre al paragone) in altri tempi per un giovane principe c’era un compagno che si teneva per lui per questo scopo, il quale doveva subire la punizione corporea che quello aveva meritalo, solo perché egli vedesse la serietà della legge”.

Paradossalmente, è l’attribuzione a questo evento di una connotazione esemplare che Schelling denuncia come spiegazione riduttiva. Tale morte sarebbe Vesempio di cui l’umanità avrebbe bisogno. Sarebbe la traduzione simbolica di un nuovo patto tra dio e gli uomini. Ma quest’esemplarità finisce per ridurre la ’^posa” a esempio, ovvero all’apparenza di una finzione dotata di valore pedagogico. Essa vale nella generalità del suo significato, ma unicamente al prezzo di una perdita totale di significalo in quanto evento singolare, irriducibile a un “caso” tra altri. E da qui che si potrebbe partire per pensare la continuità strettissima tra esempio - caso esemplare — ed economia del sacrificio. Ciò mostra anche la perversione sempre possibile del «per»: il “pren­ dere il posto” ha raggiunto qui la consistenza di una rappresentazione teatrale, nella quale si tratta appunto sempre di ruoli c di attori. O ha addirittura l’elegante inconsistenza degli usi di corte, diventando gioco

*' Ibid. Ivi, p. 201; ir. it. p. 1215.

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della rappresentazione dovuta a un «principe». Diventa - da atto libero, gratuito, inatteso - ordine ricevuto o, forse, solo mestiere. La sua fattualità concreta viene ridotta alla contingenza di un episodio, alla sua pura probabilità. Che la sostituzione rinvìi a un al di là dalla legge, non significa che essa sia indifferente alla legalità stessa della legge né al fatto che l’esistenza umana vi sia sottoposta in maniera inevitabile. Ha luogo un’effettiva sostituzione solo là dove essa si sottopone a una legge - c alla «più dura» legge - che vale al di là di ogni legge morale: la morte. Ciò comporta che la sostituzione, se ha luogo, si spinga fino alla morte. Essa riguarda perciò il rapporto tra legge e morte che si annuncia a ogni apparire della legge. Se Cristo voleva davvero operare una sostituzione radicale dell’uomo davanti al suo peccato, doveva innanzitutto sottoporsi alla morte, assu­ merla liberamente, mentre per l’uomo essa è una «maledizione» necessaria. In questo contatto con la «più dura legge», Cristo stesso deve sottoporsi alla morte, certo passandole attraverso. La sostituzione può aver luogo solo come condivisione della secchezza della terra: perciò è detto «figlio dell’uomo» in quanto «figura ignobile c disprczzata», spodestata della sua divinità precedente’8: «Senza la morte, la sottomissione non era affatto completa, era solo una sottomissione con riserva»’’. In questo senso, l’incarnazione si compie interamente non nella nascita, ma unicamente nell’ingiustizia del dolore. Di questa assunzione libera, Schelling è addirittura in grado, alla fine della trentunesima lezione della Rivelazione, di indicare l’esito: la «libertà» come «possibilità guadagnata per lui [per l’uomo] [...] di restaurare in sé la vita divina»’". E all’interno di una semantica del debito - e di un debito inesauribile - che viene pensata la sostituzione. E di questo debito (del «peccato») che ne va nell’assunzione della sostituzione. Nell’accettazione del debito o della colpa altrui si tratta di farsi garanti per altri. In questo ci si espone all’aporia di un debito che non è proprio, ma di cui si assumono le conseguenze: Chi presta malleveria per un altro, non è egli stesso debitore o il debitore, eppure è un debitore: egli è dunque l’incolpevole (non debitore) debitore \der unschtddig- (nielli sduddig-) Schuldige] ' .

Gir. Schelling, Phdosol>hie der Afyt/iologie (Die Mythologie), cil., p. 318. *” Schelling, Dhilowlfliie dcr Offènbantng (S\V XIX7), cil., p. 203; ir. il. p. 1217. *’ Ivi, p. 205; ir. it. p. 1221. 41 Ivi, p. 81; tr. it. p. 1017.

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Al di là del fatto che qui come altrove l’idea del debito e quella della colpa si trovano uniti, occorrerà rimarcare questa aporia a cui la sostitu­ zione sempre si espone, per cui si è «debitori non debitori» ossia «colpe­ voli non colpevoli». E unicamente assumendo qucst’aporia che si garanti­ sce per altri, per coloro la cui parola non vale come garanzia, per coloro che sono senza parola. La sostituzione sembra non consistere in altro che in questo gesto: Il mallevadore [...] è colui che risponde per un altro, lo protegge rispetto al diritto e alle pretese pressanti del creditore; egli non è il vero colpevole, eppure lo è'\

Questo intreccio di innocenza e colpa si rivela irrinunciabile, quasi null’altro indicasse meglio la sostituzione che l’aporia di questa coinci­ denza di contrari. L’innocenza da sola non può mai essere la prova di se stessa. Essa richiede la sostituzione come necessaria e, insieme, come la propria perdita._Qui la sostituzione appare non come la virtù di una scelta, ma piuttosto come l’impossibilità di escludere qualcosa, la necessità di essere apertura a tutto: l’impossibilità per l’innocenza di escludere la colpa. La scelta implica sempre l’accettazione di qualcosa e l’esclusione di altro, mentre nella sostituzione occorre accettare tutto. Essa non ammette altra scelta, perché non ammette scelta. Forse proprio qui si dà a vedere, ancora una volta, la diffìcile figura di una libertà al di qua di ogni scelta. E, infatti, solo in nome della libertà che «egli si è fatto debitore per noi, egli è divenuto per noi malcdctto»j3. Per sostituire veramente occorre andare al di là di ciò che la scelta indica come desiderabile. Occorre perciò andare anche contro la corrente delle lingue, delle dicerie, andare contro le benedizioni e le lingue benedicenti, esattamente come contro le maledizioni. Di tutto ciò la sostituzione deve fare a meno. Perche, letto sullo sfondo dello Stato, il gesto della sostituzione non può che apparire come il gesto della sovversione. Come il gesto di ciò che supera c sovverte ogni economia della legge, che è sempre economia del debito c del credito — ossia del “proprio”. Nella figura della sostituzione si dà a leggere il motivo di un contropotere differente dalla potenza della òvvapig. borse proprio questo altro potere è il potere del «senza nome» a cui la sostitu52

Ivi, p. 197; tr. it. p. 1207. Corsivo mio. Non che questo atto o assunzione elimini la morte dalla terra. Piuttosto, nota Schelling, da allora si muore «di una morte totalmente diversa». In questo passaggio, certo rapido, si inscrive la consapevolezza di una condivi­ sione della morte, più che la pretesa di una sua soluzione dialettica. Ivi, p. 81; tr. it. p. 1015, dove sono indicati i due luoghi Gal 3, 13 c 2 Cor 5, 21.

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zione è chiamata costantemente a corrispondere, in un gesto che richiede la messa in gioco della “proprietà” del nome. Un gesto che, dunque, è in vista di ciò che non ha nome, ma che implica il rischio del proprio nome e di tutto ciò (reputazione, stima, credito, ctc.) che al nome si lega. E unicamente in questo gesto che potrà avere luogo un’etica dell’eccesso un’etica che ecceda il semplice esercizio di possibilità già date. Tuttavia, se per agire in maniera veramente morale occorre andare al di là della morale e della legge, in quanto questa non contempla la sostituzione, quest’ultima è possibile solo sul fondamento della sua abissalità. Come atto assolutamente libero, essa non si lascia infatti né coman­ dare ne ispirare in nome della legge. Ma come pensare allora questa assunzione dell’impossibile che caratterizza la sostituzione? Come imitare la sostituzione che ha avuto luogo «per noi»? Essa vale appunto unica­ mente ncll’aporia di un’esemplarità che è tuttavia inimitabile ossia insosti­ tuibile. Dove nessun mimetismo è possibile, non è neppure possibile l’assunzione di una morale c dei suoi precetti. Essa resta affidata alla sua assoluta singolarità, alla sua inimitabilità. Affidata, cioè, piuttosto all’in­ venzione che ha luogo nella totale assenza di indicazioni o di riferimenti. O, meglio, ha luogo nell’imitazione di un modello inimitabile. Del Cristo stesso non è, dunque, possibile farne un modello che a prezzo di una violenza culturale ossia di una pedagogia del terrore. Il Cristo resta inimitabile, modello che non fa da modello. L’imitazione non solo non sarà mai adeguata, ma neanche in cerca del suo adeguamento. Tutto ciò si riflette anche ncW/iommage che Schelling tributa alla monarchia e, in particolare, alla figura del re, il quale rappresenta l’opportunità più unica che rara di una mediazione tra i singoli (quali sudditi) c la legge. Questa mediazione può avere luogo, infatti, unica­ mente, nello spazio di eccezione, rappresentato dalla sovranità: La monarchia rende possibile ciò che è impossibile in forza di legge. Infatti, poiché per esempio le leggi non valgono nello Staio anche per lo Stato, deve esserci una persona poiché c necessario ci sia una responsabilità - che sia responsabile (dinanzi a un più alto scranno di giudice che quello della legge): il re, che per cosi dire si olire in sacrificio Opfer\ per il suo popolo. Inoltre la ragione c la legge non amano, solo la persona può amare, questa personalità può essere però nello Stalo solo il re, dinanzi al quale tutti sono uguali’1.

mio.

Schelling, Philosophie der Mylhologie (Philosophùche Einleitung), cit., pp. 569-570. Corsivo

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deixa libertà

La figura del re è quella di colui che porta la responsabilità «per il suo popolo». Lo fa addirittura sino al «sacrificio». Ponendosi in prima persona davanti alle legge, questo re inedia tra i singoli (suoi sudditi) e l’istanza della legge. L’eccezionaiità di questo atto sarebbe da mettersi in relazione appunto con il fatto che il re in quanto tale porta la responsabilità per altri («per il suo popolo») e la assume in quanto dona se stesso «come vittima» (che è un altro dei sensi dell’espressione zum Opfer). Nonostante tale eccezionalità - nella quale il re è presente non certo quale singolo, ma nella regalità della sua persona: come Re - ancora una volta è la figura della morte ad apparire in filigrana accanto a quella della legge. Se la monarchia ha qualcosa come un fondamento, questo è rappresentato dal Re. Da un Re che, al limite, in quanto offerto «in sacrificio», è già morto. Se il Re è da sempre offerto, tra la legge e il popolo, per la loro unità, la monarchia stessa non è fondata su nient’altro che sulla morte del suo re. Al di là della consapevolezza reale di Schelling, il suo gesto teoretico è tale da abbracciare, in un colpo solo, lo Stato e la morte. Si tratta, in altri termini, di un gesto capace di esibire la complementarità di vita c di morte all’interno dello Stato e delle istituzioni politiche in genere. Come se il politico stesse esattamente nel punto in cui vita e morte si congiungono ossia nel punto della loro estrema differenza, indicato (ancora una volta) dalla doppia negatività di un nc/né: né vita né morte, esclusivamente, ma appunto il luogo della loro inerenza55. Tutto ciò ha a che fare con l’eccezione come spazio della libertà. Qui ha luogo la realizzazione di «ciò che è impossibile in forza di legge». Qui assistiamo all’alchimia dell’impossibile, nella forma della chance, che il re e solo lui sarebbe in grado di operare nella forma di una sostituzione. La scena trova il suo centro simbolico appunto attorno alla realizzazione dell’impossibile. Ciò è possibile, per il re, perché la legge non vale per lui, non è sottoposto alle leggi'6. La sua persona singolare forma uno spazio d’eccezione rispetto a quello della legge. E, contemporaneamente, questa eccezione ha però la forma non di una romantica fuga dalla realtà, ma dell’assunzione di una più dura legge, che è quella della morte. La morte che lo tocca indica l’abissalità su cui ogni sostituzione ha luogo. Ma è il caso di Prometeo a rivelare la connessione decisiva della Seguendo un altro percorso, Roberto Esposito, Zz/ religione Ira comunità e immunità, in “Micromega", 2000/2, p. 1 17, ha indicato in questa congiunzione di vita c di morte, che è un nc/né, il luogo stesso della teologia politica come di ciò che «non sta per definizione né dalla parte dell'immanenza né da quella della trascendenza, né nell’unione né nella separazione, né nella vita né nella morte». Cfr. Schelling, Philosophie der Mythologie (Ehiloso//hi.sehe Einleitung), cit., p. 348.

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sostituzione con l’innocenza’7. Qui la sostituzione si lega al dono (il dono del fuoco all’umanità). È per questo dono che Prometeo deve pagare: «Egli paga per l’intera umanità». Il senso di questo «per» non solo costituisce il segno della sostituzione (come “per l’altro”): soprattutto denuncia l’innocenza (c la necessità) dell’innocente. Solo questi è infatti in grado di assumere pienamente la colpa. Rispetto al caso di Cristo, quello di Prometeo lascia intravedere una certa, interessante ambiguità, la quale indica la prossimità - la zona grigia - che passa tra la colpevolezza c l’innocenza. Prometeo è infatti, agli occhi di Zeus, colpevole, avendo trasgredito la sua legge. Contemporaneamente, per pensare adeguata­ mente questa situazione, occorre anche riconoscere che Prometeo c nel suo diritto [/// seinem Rechi]. Nella situazione in cui si trova, egli non poteva agire diversamente. Ciò che ha fatto, lo doveva fare, poiché vi era costretto da una necessità morale’".

Come leggere questa aporia? Come pensare la coincidenza impossibile di colpevolezza e di innocenza in Prometeo? Come interpretare l’indica­ zione secondo la quale «Prometeo è nel suo diritto»? Di che diritto si tratta? Tutto ciò sembra avere a che fare da vicino con l’idea stessa dcH’aporia, come coincidenza di contrari, a cui il passo rimanda. Vi si può infatti riconoscere la presenza di «una contraddizione» che non si lascia levare \aujheben], dunque che non è padroneggiabile dialetticamente. Con­ traddizione permanente c necessaria, essa indica forse nieni’altro che il fatto stesso dell’innocenza come assunzione di colpa. Indica, cioè, che solo nella forma di questa contraddizione necessaria ha luogo l’innocenza della sostituzione come esposizione dcirinnoccntc all'accusa. Ma, insieme, come ciò che crea diritto -- Rechi: il diritto e la sua giustizia.

Excursus. Dietrich BonhoeJJer, Pa/toria della sostituzione E l’incompiuta Etica di Bonhocffer il testo che più d’altri ha il merito di aver pensato la tensione indissolubile tra lo Stato - e l’obbedienza che questo richiede - c il gesto della sostituzione, come ciò che è, al limite, orientato contro la legge e, dunque, contro lo Stato stesso. “Elico” sarà quel gesto che, senza far parte né rientrare in nessuna

v Gir. ivi, pp. 182-186. w Ivi, p. 185.

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casistica, si assume il rischio di una scelta che ha luogo non tra la giustizia e l’ingiustizia - o tra il bene e il male - ma tra un diritto e l’altro, tra una (in)giustizia c l’altra. Gesto dunque etico in quanto inanticipabile nel senso di un’etica che Io convalidi in anticipo, gesto abissale in quanto non giustificato da nulla, esso si compie «rinunciando ad ogni valida autogiustificazionc, rinunciando appunto a una conoscenza ultima del bene e del male» '. Questa rinuncia compiuta nei confronti di ogni dimostrazione in proprio favore marca tale gesto, perché lo costringe sul fondamento della propria abissalità ossia sul fondamento della propria assenza di fonda­ mento. Solo questa situazione apre lo spazio della libertà. Tuttavia la sua essenziale “anarchia” non è tale che nella misura in cui mantiene in tensione il gesto etico nel varco — nello spazio intermedio — tra la libertà propriamente detta e l’obbedienza alla legge. Dove questa tensione cessi, cessa anche la responsabilità. L’obbedienza indipendente dalla libertà condurrebbe all’etica kantiana del dovere, mentre la libertà indipendente dall’obbedienza darebbe un’elica del genio. L'uomo ligio al dovere e il genio hanno la loro giustificazione in sé stessi. L'uomo responsabile invece si trova fra l’obbligo e la libertà, deve osare di agire in libertà pur essendo vincolato, e non trova la propria giustificazione né nell'obbcdienza né nella libertà, ma soltanto in colui che lo ha collocalo in quella situazione unicamente insostenibile e che esige che egli agisca''".

Si tratta di una situazione che non è né l’una nell’altra cosa, né solo obbedienza né solo libertà, ma che si mantiene nella tensione di un doppio né. Non si tratta neppure, cioè, di un aut/aul, ma ancora una volta piuttosto del gesto (e della sua difficile necessità) deìl’el/el che non si lascia scindere nei termini semplici che lo costituiscono. Etico è, innanzitutto, il gesto che sappia rapportarsi a questa complessità, come ciò che, come una firma, segna la responsabilità in quanto tale. Nel «deve osare di agire in libertà pur essendo vincolato», è il senso del «pur» che segnala meglio d’altri il gesto della responsabilità come gesto di un’avversativa necessaria. «Pur» è il limile di un’opposizione ma anche il senso della sua necessità, la sua insolubilità dialettica. Impossibile necessità del «pur», essa segnala che se c’è un luogo nel quale la responsabilità accade, questo è dato dallo spazio stretto di quella che Bonhoeflcr chiama

Dietrich Bonhoeflcr, Ethik, in Werke 6, a cura di I. Tòdt, H.E. 'Iodi, E. Fcil e C. Green, Kaiser, Munchcn 1992, pp. 284-285; ir. it. di A. Comba, Etica, Bompiani, Milano 1969, p. 209. Ivi, pp. 288-289; tr. it. p. 212. Corsivo mio.

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la «situazione insostenibile», i cui clementi non disegnano un’alternativa, ma neppure lo spazio indisturbato del quietismo morale. L’insostcnibilità della situazione si definisce in rapporto all’urgenza di una decisione che non si lasci differire ulteriormente nel tempo: una decisione per cui non si dà nemmeno tempo per decidere. Essa richiede, invece, e questo con la forza necessitante di una cogenza imparagonabile a quella di un comando, il gesto della responsabilità proprio in questa situazione, ossia proprio nella sua impossibilità. Se per Bonhoefler il fondamento c al tempo stesso l’abisso di questa scena risiede in «Dio», in ciò non si lascerà vedere semplicemente Patteg­ giamento del teologo c tantomeno un’intenzione edificante. Ciò rivela innanzitutto che l’«affidare» le proprie azioni appartiene a un gesto che non ha il proprio equilibrio in se stesso, ma fuori di sé. Gesto struttural­ mente squilibrato, esso non sarà mai né solamente un gesto tout court estraneo (inumano) né uno “proprio” dell’uomo, ossia le cui possibilità riposino sul sicuro possesso della sua umanità. Ma che in questo gesto obbedienza e libertà non si lascino separare l’una dall’altra come due cose estranee, ci costringe a pensare con Bonhoeffer lo Stato stesso come una delle componenti necessarie di quello spazio stretto nel quale l’assunzione di responsabilità ha luogo. Lo Stato non vi si lascia identificare semplicemente con la legge e il suo esercizio. Con Schmitt, Bonhoefler sa bene che la vita delle istituzioni è continua­ mente interrotta, nel suo normale funzionamento. Questa situazione ecce­ zionale è tuttavia, paradossalmente, ciò che garantisce la vita dello Stato, ma che contemporaneamente sfugge alla positività delle leggi che lo reggono. La situazione eccezionale è, dunque, al tempo stesso nello Stato e fuori di esso. Piuttosto

la necessità eccezionale fa appello alla libertà dell’uomo responsabile. Non esiste nessuna legge di cui egli possa farsi scudo; non esiste peraltro neppure una legge che dinanzi a una necessità di quel genere possa imporgli questa o quella decisione. Egli può soltanto rinunciare a qualsiasi legge, sapendo però di dover prendere decisioni che comportano rischi, confessando di commettere una violazione della legge, ammettendo che la necessità non ha legge e riconoscendo la validità della legge nell’atto stesso della sua violazio­ neni . La cogcnza di questa «necessità» è tanto più forte di quella della legge, perché essa permette di tenere insieme la violazione della legge con la sua Ivi, p. 274; tr. it. p. 201.

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validità. E, anzi, di tenere insieme qucst’ultima proprio nel gesto che la interrompe. Il rischio che questa scelta illegale comporta misura, tuttavia, la sua responsabilità «nell’essere solidali con la colpa di un altro uomo per amor suo»"2. L'anarchia della libertà in quanto vincolata alla necessità della responsabilità non si lascia semplicemente articolare nel senso del disinteresse o dell’indifferenza, né nel senso dell’arbitrio o nella forma di un’«autogiustificazione» cui non interessi altro che di realizzare la propria veridicità. Essa ha inevitabilmente la forma dell’assunzione dell’altrui destino sul proprio. Anzi, non ci sarà un destino proprio se non nella misura in cui questa assunzione dell’altrui si realizza nella e come sostitu­ zione. Se tutto ciò non ha nulla a che fare né con l’arbitrio di un singolo né con il compimento di un dovere, le cui tappe siano prescritte da un’etica. La forma di questo gesto è nell’assunzione del carattere vicario proprio di ogni esistenza'1. E, paradossalmente, per Bonhoeffer è la «sostituzione vicaria» a rappresentare il gesto stesso di un’ineguagliabile aderenza alla realtà: «un atteggiamento conforme alla realtà, mentre la libertà si esprime nc\V autocritica della vita e dell’azione e nel rischio della decisione concreta»"1. Se la portata critica della libertà appartiene a tutta una tradizione di pensiero, l’idea della sostituzione come conformità al reale, come «vin­ colo» esprime nella sua forma concisa la consistenza inaggirabilc di un’aporia. Si tratterà ora di riconoscere in questa aporia la realtà stessa della sostituzione, forse la forma stessa di un’etica. La colpa altrui si lascia infatti assumere unicamente sulla propria innocenza c questa assunzione legittima la stessa innocenza, come ciò il cui senso è demandato esclusiva­ mente da tale assunzione. Un’innocenza, che si compiaccia della propria purezza, ha già perduto di per sé ogni residua innocenza. Essa ha luogo, se mai si dà, unicamente nella contraddizione insolubile, nella «tensione insuperabile» che la tiene insieme alla colpa”. Senza che sia qui possibile seguire gli sviluppi ulteriori di questa riflessione in Bonhoeffer (per esempio, rispetto alla critica alla veridicità kantiana), l’aporia della sostituzione consiste non solo nell’assunzione di ciò che è inassumibilc, la colpa altrui, ma anche nel fallo che essa accade in un luogo che è insieme nello Stato e ai di là di esso, al di là di ciò che è “comandabile” in generale. Qui il gesto della sostituzione mostra il suo

*" Ivi, ivi, w Ivi, “ Ivi,

p. p. p. p.

276; 258; 256; 281;

ir. ir. ir. ir.

it. il. il. il.

p. p. p. p.

203. 190. 189. 207.

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essere «al di là dello Stato» e questo non tanto perché al di fuori di tutte le regole e dunque anche di tutte le leggi dello Stato. Piuttosto, la sostituzione infrange il dogma stesso su cui si fonda ogni Stato moderno: ['insostituibilità dei singoli. Protezione dei diritti, ina contemporaneamente meccanismo di rappresen­ tazione di una totalità, questa insostituibilità si presenta nella forma di una possibilità di riprodurre i singoli come parli - pezzi - di una comunità politica e di controllarli come tali. Rispetto al dogma dell’inconfondibilità dei singoli (ossia alla loro assoluta riconoscibililà), rispetto alla loro identifi­ cazione operata dallo Stato, principalmente in vista della loro imputabilità penale, il gesto della sostituzione rende la mancata coincidenza di ognuno con se stesso, consegnato com’è nella sua “propria” sensatezza al suo “fuori”, al suo lato esterno. Qui “sostituzione” appare il nome adeguato per la libertà, il nome di ciò che, non lasciandosi ridurre alla sola misura dell’interiorità, tiene costantemente aperto il singolo al “mondo” - a tutto ciò che lo eccede in quanto singolo. Non che si tratti per questo motivo di revocare la singolarità. Piuttosto si dovrebbe pensarla come parte della rappresentazione, secondo cui funziona lo Stalo. Ma tutto ciò mostra, innanzitutto, a titolo della libertà o della responsabilità, ciò che nello Stato resiste allo Stato.

r :

Intermezzo

Dalla liberta in quanto tale all' ecclesia visibile

Su nicnt’altro Schelling avrà edificato le sue considerazioni politiche, se non sulla rovina dello Stato ossia sul fatto che lo Stato, ogni Stato c già da sempre in rovina. E, del resto, proprio questo sarebbe innanzitutto il compito del filosofo, di vedere rovine là dove altri non vedono che l’ascesa trionfale dcll’una o dell’altra ragione dominante. E di vedere questa rovina non come l’azione di una “follia” totalmente estranea, ma come l’impen­ sato che ognuno - anche il filosofo - porta nella sua singolarità. Come se innanzitutto questa potesse essere ciò che, nel mondo, è “in comune”. Lo Staio non è dunque che uno stato, una condizione. Tutta la vita statale si declina perciò sul registro di questo participio passato: sul suo essere passato. Eppure non si tratta di una questione propriamente tempo­ rale. Schelling sa che la politica - che egli identifica a più riprese con la dimensione statale - si fonda innanzitutto sulla sua immanenza a sé. Con­ temporaneamente, tuttavia, senza la religione, lo Stato va in rovina. Ciò significa che lo Stato sarà già da sempre quella rovina, quel tracollo cui la religione impedisce di arrendersi definitivamente, trattenendolo come parte integrante del mondo. Questo aspetto assume la sua forma decisiva nell’idea apocalittica di ecclesia, come la realtà di qualcosa che è nello Stato e, insieme, al di là dello Stato. Wecclesia Schelling dedica gli ultimi due capitoli della Rivelazione. Essi costituiscono - a più di quarantanni di distanza - una vera e propria ripresa delle Ricerche sull'essenza della libertà umana. Tuttavia qualcosa annun­ cia il profondo mutamento intercorso, se la riproposta della domanda intorno alla libertà umana avviene ora nel contesto profondamente diffe­ rente rappresentato dall’istituzione storica della chiesa. Non si tratta, evidentemente, di una semplice traduzione in termini concreti della que­ stione della libertà. E il passaggio da un ambito strettamente teoretico a uno di natura tcologico-politica, nella concretezza di una forma storico­ fattuale, a riformularc tale questione in termini nuovi. Attraverso la considerazione di qualcosa che non è più la libertà umana in generale,

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ossia quella astratta, tipica delle Ricerche, ma la fattualità di una forma istituzionale storica, la domanda viene sollecitata in un senso sconosciuto alle Ricerche, interessate ancora alla dimensione del iiberhaupl, della libertà “in quanto tale”. Questo senso viene indicato come quello del tempo storico. È nei termini di una conflittualità non dialettica, ossia non risolvibile, tra legge e libertà che le ultime due lezioni della Rivelazione seguono e incalzano questa costellazione di pensieri. La legge costringe la libertà a uscire allo scoperto, la costringe a rapportarsi a una forma istituzionale e concreta, ossia storica. Abbandonata la secca teoretica dc\V iiberhaupl, è costretta verso la dimensione della visibilità della storia: è costretta a mostrarsi nei suoi effetti. Rispetto al disegno idcal-tipico delle Ricerche, la libertà singolare reca inscritta in sé un’altra dimensione che la precede, quella delT“in comune”1. E questa si approfondisce non solo nel senso della comunità, ma più precisamente in quello di una comunità che esiste solo nella contraddizione necessaria dei suoi momenti costitutivi. .Al di là dell’impostazione ancora vagamente dialettica del “contro lo Staio”, tale dimensione si approfondisce in una direzione capace di offrire più di un motivo di “sfondamento” tanto della sola idea di libertà, quanto del concetto stesso di autorità. E forse nell’arco che divide e tiene insieme in tensione le Ricerche c le lezioni suHVccZfjù? che si fanno leggere, più che altrove, i risultati del tentativo schellinghiano di una filosofìa post-idealistica'. E proprio il concetto di libertà ad aver costituito, infatti, il campo di battaglia dell’idcalismo tedesco, per il quale pensiero e libertà sono equivalenti, e la libertà costituisce il fondamento stesso della possibilità del pensiero di superare i propri limili. In altri termini, il pensiero è assunto come assoluto in quanto espressione di una libertà che permette di consumare l’aflermazione di ogni immemorabile. Rispetto a questa impostazione, coniugare immemo­ rabile e libertà diventa la sfida di ogni filosofìa post-idealistica. Parlare di una libertà del pensiero significa riconoscere la libertà in ciò che tiene aperto il pensiero, esponendolo all’alea dell’evento: esponendolo al senso stesso come evento, al di là di ogni significato acquisito. Qui il 1 Cfr.Jcan-Luc Nancy, Étre singulier pluriel, Galiléc, Paris 1996; tr. il. di D. Tarizzo, Essere singolare e plurale, Einaudi, 'forino 2001; Roberto Esposito, libertà in comune, introduzione a Jean-Luc Nancy, L'esperienza della libertà, cit., pp. VII-XXXV, qui p. XI. Per il concetto di “filosofia post-idealistica”, cfr. Walter Schulz, Die Voltendung des deutschen Idealismus in dcr Spatpbilosophie Schellings, Kohlhammer, Stuttgari-Kòln 1955; Hein­ rich M. Schmidinger, Nachidealutische Philosophie und christliches Denken. £ur b'rage nacb flfr Denkbarknt des Unvordenklichen, AJbcr, Freiburg i. Hr. 1985.

Intermezzo

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senso si presenta sempre segnato dalla sua finitezza, come da ciò che, in ogni significato, ne rimette in gioco il senso. La stessa interpretazione non ha altro luogo che questo eccesso: l’eccesso rispetto a ogni luogo, la deriva nel luogo in cui ogni significato è già da sempre liberato. Si tratta, in altri termini, di liberare il senso trattenuto in ogni significato, là dove questa “liberazione” non si lascia dire nei termini di una possibilità che a prezzo di un totale fraintendimento: essa costituisce, piuttosto, la dimensione reale — anche quando celata — della sensatezza.

6 A venire: ecclesia, parusia, eschaton

i. Pietro e Paolo: Vecclesia come polemos Due figure appaiono incise su un antico sigillo: Pietro da un lato, Paolo dall’altro. E questo il sigillo che rappresenta la chiesa, nel senso di simboleggiarla, ma anche di farne le veci. Qui l’immagine vale sia come raffigurazione sia come segno dotato di valore legale: vale come figura in forza del potere di conferire validità a quanto ne rechi l’impressione, ossia vale insieme come diritto c come rovescio, come medaglia c come calco. Su questo sigillo - che è insieme immagine, marchio e timbro - su questo sigillo che rappresenta la chiesa quale istituzione, Pietro e Paolo appaiono insieme: entrambi gli apostoli erano visibili l’uno accanto all’altro. Pietro a sinistra, nel posto della preminenza alla maniera orientale, Paolo a destra, dove dunque non si discorre di alcun primato esclusivo del primo, fino a che più lardi solo l’apostolo Pietro si trova nel sigillo dei Papi1.

È unicamente alla compresenza delle due figure che c consegnata la rappresentazione legale della chiesa di Roma. Pietro e Paolo, «l’uno accanto all’altro» si dividono il campo simbolico del potere. Più che di una figura senza centro, siamo al cospetto di una figura il cui centro non appartiene a nessuno: un centro doppio o, meglio, due centri, nessuno dei quali può pretendere l’esclusività. «Più tardi» Paolo è scomparso. Senza che nessuno lo sostituisca, è stalo semplicemente tirato via dall’immagine, dal corpo del sigillo. «Più laidi» Pietro vi compare «solo», unica immagine della chiesa di Roma, suo unico principio. In cfl'ctti, a Pietro appartiene un incontestabile primato: egli è la roccia che fornisce la base, il «fondamento» all’edifica­ zione della chiesa. Allorché si tratta di edificarla, Pietro è l’imprescindibile

1 Schelling, Philoso/thu der Oflcnbarung (SVV XIV), cit., p. 302; ir. it. p. 1383.

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pietra che fa da fondamenta. Questo primato non è tuttavia «esclusivo». In quanto tale occorre saperlo distinguere da una dominazione perma­ nente di Pietro: nelle conclusioni che sono state tratte, a favore di un primato permanente, dalle parole rettamente interpretate, sono stali confusi concetti che sono ben

distinti: quelli di priorità [Priorità!] e di superiorità [Superiorità!]. Il primato [/dròm/], o piuttosto il principato [Principat] che viene attribuito a Pietro attraxerso queste parole, contiene in sé tutt’akro che una dominazione permanente, costante". «Primato», «principato» e «priorità» non si lasciano confondere con la «superiorità». Questa catena di delimitazioni semantiche ordina e regola un discorso che vuole essere il più rigoroso ed esatto possibile, per corrispondere all’esattezza della gerarchia. Mediante questa serie di deli­ mitazioni, il senso del «fondamento» è definito come necessario, ma non esclusivo, ossia necessario, ma di per sé non sufficiente3. E proprio questo paradosso a definire la figura di Pietro. Del resto, il primato del «fonda­ mento» e la sua necessità si lasciano pervertire non appena tale primato venga «elevato o dilatato» al di là della sua funzione1. Ciò che regge una costruzione, non può costituirne la totalità degli aspetti. E unicamente nell’intreccio di molti elementi (primato, autorità, libertà, legge) che si dà a x'edere la reale estensione - il corpo - àe\Vecclesia. In questa prospettiva, il «primato» del fondamento è tale solo se lo si pensa nel senso di ciò che sta sotto e sorregge. Come tale, Pietro «non esclude un secondo, nuovo principio». Ed c proprio di questa compre­ senza inaudita di due sovrani in uno stesso regno che parla il sigillo. Che si tratti di due principi distinti, lo segnala il fatto che questo secondo è «nuovo» ossia non ripete semplicemente il primo, piuttosto lo integra c lo arricchisce: «Paolo fu dunque aggiunto a Pietro come un membro che lo completa»5. Ma anche a Paolo resta preclusa l’esclusività. E in virtù di questa loro 3 1x4, p. 301; tr. it. pp. 1379-1381. Se la rigorosa definizione di «fondamento» implica - come abbiamo \4sto nel cap. 2 l’andare a fondo rispetto a ciò di cui si è «fondamento», in questa implicazione possiamo scorgere il tratto comune che connette questa idea di «fondamento» con la definizione classica di soggetto come vjiozeQievov, sub-jectum. Questa è la definizione di quanto ha per­ manenza, sussistenza per sé, ma unicamente in quanto sottomesso, dipendente, dunque, unicamente nella coincidenza aporctica di sovranità e passività. 4 Ivi, p. 301; tr. it. p. 1381. Ivi, p. 302; tr. it. p. 1383.

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“uguaglianza” che il sigillo presenta entrambe le figure, l’una accanto all’altra. Da questa simultanea presenza il sigillo attinge il suo valore. In tal senso, se nessuno dei principi è «esclusivo», la duplicità è connaturata allo stesso primato di Pietro. Il «fondamento» resta così aperto a ciò che viene. E come se proprio il suo carattere irrinunciabile ne testimoniasse l’insufficienza. Perciò esige almeno un secondo principio e, anzi, nel caso in questione, anche un terzo: oltre Paolo, anche Giovanni appartiene al numero dei «rappresentanti» delle «tre età della chiesa cristiana»:

Fra i tre apostoli, Pietro sta parallelo a Mose, egli è il legislatore, il principio dello stabile, colui che pone la base. Paolo [...] è l’Elia del Nuovo Testa­ mento, il principio del movimento, dello sviluppo, della libertà nella chiesa. L’apostolo Giovanni, infine, è parallelo a Giovanni Battista; come quest’ul­ timo, egli è apostolo del futuro, colui che annuncia il futuro".

Non è solo questa divisione dei ruoli a indicare la struttura stessa dell’edificio della chiesa. E neppure la loro indispensabile convergenza, ossia la loro intrinseca inseparabilità. Il passo presenta un terzo elemento cruciale: che le figure della chiesa, ponendosi accanto a quelle del Primo Testamento, introducono nella costituzione dcll>rrZw/« l’aspetto irrinuncia­ bile dell’eredità ebraica (ci torno più avanti). Decisivo risulta, inoltre, il fatto che Pietro e Paolo siano legati tra loro in forza di un contrasto che si lascia descrivere innanzitutto come contra­ sto tra la libertà (Paolo) e la legge (Pietro). Se l’unità dei due principi prende il nome di ecclesia, questa unità è data unicamente nella forma di un’insanabile differenza, di un polemos per cui non c’è né compensazione né conciliazione dialettica. Paolo afferma di aver ricevuto la sua missione non da un uomo, ma direttamente da Dio e di non dipendere, dunque, da nessun’al tra istanza. Ponendo la sua vocazione alle dirette dipendenze di Dio, egli si libera di fatto da qualsiasi altra autorità. Così parla Paolo in tutti i passi che lo riguardano. E non si tratta semplicemente di passi autobiografici. Tramile loro, Paolo rafforza la convinzione che tutto in lui abbia luogo «per ordine del Signore» e che anche il suo scrivere autobio­ grafico corrisponda a un disegno superiore'. D’altro lato, questa superio­ rità di Paolo non deriva da nicnt’allro che dal riconoscimento di Pietro come suo «fondamento», che sempre lo precede e che solo lo rende

'■ Ivi, p. 303; ir. it. p. 1385. Ivi, p. 306; tr. il. p. 1389.

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possibile. Ossia dal riconoscimento di Pietro come l’altro principio della chiesa, che non si lascia né “levare” dialetticamente né semplicemente as­ sumere nel gesto di cui Paolo si sente portatore. Il contrasto di cui il sigillo testimonia risulta, in questo senso, altrettanto “originario” che la chiesa. Rimosso quello, questa va incontro alla sua perversione.

2. La libertà, la legge, l’ellisse Se quel sigillo è Vecclesia, la forma che ne risulta è inevitabilmente quella di una figura con due centri (lasciando per il momento sospesa la questione di Giovanni, rappresentato come a venire), ecclesia ha forma di ellisse. Figura geometrica del conflitto, essa impedisce ogni discorso che voglia riportare la questione della chiesa alla “semplicità” di uno dei suoi principi. Essa mostra, piuttosto, come l’edificazione della chiesa abbia luogo solo come contesa. La vigenza stessa del sigillo è da riportare alla figura dell’ellisse, alla contesa tra i due “fuochi” che si dividono la sua superficie. Il valore legale del sigillo come la vigenza stessa àe\Vecclesia hanno “fondamento” unicamente in quella opposizione. Tuttavia proprio la contesa — l’irriducibilità reciproca di Paolo e Pietro - testimonia della loro reciproca accettazione: di un’accettazione che ha forma di polemos. Ma chi è il Paolo di Schelling? Questo Paolo romano, questo Paolo insediatosi nella chiesa romana come uno dei suoi due principi non è né il Paolo “antimosaico” di gran parte della tradizione ma nemmeno un Paolo antiromano, cioè antiimperiale8: se il Paolo di Schelling è antiromano, lo è innanzitutto nel senso di essere “antipctrino”. Tuttavia solo a fatica si riuscirebbe a identificarlo con il Paolo eroico della Riforma, nonostante non manchino analogie c certo una determinante influenza storica. E proprio il senso di questo “ami-” che resta da determinare. Vi si intravede tuttavia già qualcosa come la figura dell’ecclesia. In questa figura ne va, evidentemente, dello stesso rapporto tra libertà e legge: Ma ambedue si presuppongono. Pietro resta il fondamento; ma perche questo fondamento non resti infruttuoso, si deve costruire su di esso. Pietro postula quindi Paolo. Ma anche Paolo non sarebbe nulla senza Pietro’. " Com’è, per esempio, in Jacob Taubcs, Die Politische 'Dieologie des Paulus, a cura di A. c J. Assmann, Fink, Munchcn 1993; tr. il. di P. Dal Santo, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano 1997. Schelling, Philosophie der Offenbarung (SW XIV), cil., p. 305; tr. it. p. 1387.

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Questo doppio presupposto specifica l’insolubile tensione che lega insieme i due principi, articolandola sul motivo della vocazione di Paolo e, dunque, della sua eccezionale autonomia. E in ragione di questa voca­ zione che la chiesa si struttura simbolicamente: l’eccentricità della voce (della chiamata) dilata la perfezione del cerchio sino all’estensione dell’el­ lisse. Del resto, il solo «fondamento» sarebbe incapace di storia: per questa occorre un’altra forza, un principio eccentrico capace di affrancarsi ri­ spetto a una pura adesione passiva alla legge. Questa immagine di Paolo indica a sua volta la libertà nella forma per cui essa è tale unicamente insieme alla legge, si accompagna alla legge che regge (come «fondamento») la comunità, senza per questo cessare di essere libertà. In questo senso, la libertà non comincia mai da zero. La legge la precede da sempre: è già da sempre là, figura dcH’inanticipabilc, figura dell’altro. Il primo atto della libertà ne è il riconoscimento: Paolo si sottomette a Pietro, pur riaffermando la propria autorità"'. È in ragione di questa tensione di fattori che l’appello di Paolo all’autonomia della sua libertà non si risolve in arbitrio. Esso si fonda invece su una legge supcriore alla legge, superiore, al limite, a ogni legge. Egli si appella all’autorità di una libertà che proviene direttamente da Dio. Tutto ciò ha la forma di una corrispondenza a una legge superiore: Paolo è libero in forza di un «ordine» che viene da altrove — è libero «per ordine del Signore»". E unicamente nell’ascolto di questo ordine che si realizza la sua libertà. Per essere veramente libera, la libertà deve far sì che i suoi atti non siano quelli della legge, anche se non sono senza legge. Essa non è né la legge né nella legge, ma neppure senza la legge. Paolo è al fondo di questo movimento senza conciliazione dialettica, nel quale legge e libertà si corrispondono, senza identificazione né conclusione. Perché, per appli­ care la legge, per corrisponderle, la libertà dovrà comunque inventare, partire un contesto sempre nuovo, da una situazione senza sostegno. La libertà è tale unicamente in quanto “libera” la legge, in quanto si inventa al di là della legge, dandole così un senso. E nel conflitto che risiede la possibilità di fare esperienza della libertà, come se proprio l’aporia del confuto liberasse l’esperienza nella sua esperibilità. (Tutto ciò sancisce definitivamente la lacerazione dell’unità kantiana di imperativo e libertà: legge c libertà si corrispondono sul fondo della loro coappartenenza, ma questa non è mai risolta nella forma di una massima universale. Piuttosto, esse si corrispondono senza contenuto, vale a dire: non comandando l’una 10 Ivi, p. 306; tr. it. p. 1389. " Ibid.

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che la libertà in quanto tale; non liberando l’altra che l’obbligatorietà stessa della legge.) Se, secondo un certo ethos politico classico, la legge precede la libertà, ovvero se essa mantiene sulla libertà un primato incontrastabile, neWecclesia ciò avviene senza adeguamento possibile. Senza, cioè, che sottostare alla legge significhi la necessità di uguagliarla: la corrispondenza tra legge e libertà è già da sempre finita e non costituisce mai, in questo senso, una pura identità. Questo polemos ha luogo in quanto l’autonomia di Paolo è equivalente al principio petrino. Non si tratta, perciò, di un’opposizione che possa trovare nella maggiore forza di uno dei contraenti la sua soluzione. L’unica “‘soluzione” possibile, a volerla ancora chiamare così, è costituita dal permanere stesso del contrasto: Lo spirito di Dio non è così strettamente legato, nei suoi mezzi, da poter agire unicamente in modo uniforme; al contrario, è proprio òt’ èvavricov, per ina di contrari, che egli produce ciò che c’è di più grande. Egli, che in lutti i contrasti resta pur sempre il potente, l’invincibile Uno. Già mentre i due apostoli continuavano a vivere si manifestò quel contrasto che invece in Cristo era unità1*.

È «per via di contrari» che Vecclesia si produce come evento storico ossia in forza di una contraddizione operante nell’ecclesia e come ecclesia. Proprio in questa capacità di tenere insieme i contrari dimora la sua realtà. Ma questo contrasto è tale perché i contrari sono raccolti in unità - un’unità polemica - nella figura del /ptoróg. E unicamente sullo sfondo di questa coappartenenza che ha luogo il loro polemos. D’altra parte, questa unità non solo lascia accadere il polemos, ma lo necessita. La realtà di questa figura è Vecclesia. In quanto tale, essa non può rinunciare a nessuno dei due principi perché il contrasto tra Pietro e Paolo è la sua stessa esistenza13. In altre parole, Vecclesia appare non solo nell’unità degli opposti, ma proprio come unità degli opposti, che passa tra Pietro e Paolo, mantenendoli irriducibili". E rispetto alla «centralità» di Pietro che Paolo risulta essere «cccentri” Ivi, p. 305; tr. it. p. 1387. Corsivo mio. ” Cfr. Ivi, p. 308; tr. it. p. 1393. 14 In questo passaggio si lascia certo leggere una certa anticipazione del concetto di una complexio oppositorum formulato da Cari Schmitt in Riimischer Katholizismus und politische Form [1923/1925], Klctt-Cotta, Stuttgart 1984; tr. il. di C. Galli, Cattolicesimo romano e forma politica, Giuflrè, iVlilano 1986. Cfr. Klaus-Michael Kodalle, Polilik ats Macht und Mythos, Kohlhammer, Stuttgart-Berlin 1973, pp. 109-122; Jtìrgcn Manncmann, Cari Schmitt tiber die Kraft des Reprdsentativen im romischen Katholizismus, in ‘Jahrbuch Politische Thcologic”, 1997/2, pp. 272-285.

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co»15. Movimento che tende al distacco, senza che questo possa veramente compiersi, esso indica il permanere in tensione o, più precisamente, indica la stessa tensione (tra Pietro c Paolo) come condizione: come situazione. E questa tensione lo spazio nel quale Vecclesia ha luogo. Se Pietro è «il coq)o, la centralità, ciò che dà unità», in Paolo predomina invece lo spirilo, «l’idealità», la libertà. Come «centralità» necessaria ma non esclusiva, Pietro deve accogliere al suo interno ciò che, come «eccentrico», lo contraddice. Questa accoglienza della contraddizione è quanto dilata il centro ossia la «centralità» del potere di Pietro quale capo della chiesa. Essa allarga il punto o la puntualità di questo centro in una macchia scura, che non è più punto c non è neppure più centro in senso esclusivo. Forse proprio questo allargamento o slargo è la Torma di quel sigillo di piombo che ricomprende Pietro c Paolo, «l’uno accanto all’altro». Tutto ciò è, del resto, già prefigurato nella dualità che divide il sigillo e, dividendolo, ne fa l’espressione simbolica dc\Vecclesia. Il suo equilibrio sta tutto nello squilibrio di un doppio centro. Contemporaneamente, occorre ravvisare nel sigillo, più di quanto non faccia Schelling stesso, la figura di una sempre possibile inversione delle parti, di un’inversione che non sia, anzi, solo possibile, ma appunto già inscritta nella natura stessa del sigillo. L’impressione delle figure - di Pietro e Paolo - sulla ceralacca (ciò che garantisce all’oggetto marcato il suo valore legale) significa la loro inver­ sione: Pietro passa da destra a sinistra, Paolo lo incrocia sul cammino inverso, V? inversione è la conseguenza stessa del sigillare del sigillo, ovvero della pratica dell’autorità c della sovranità a cui corrisponde l’uso del sigillo. Nell’immagine del sigillo - già segnata dalla doppia presenza di Pietro c Paolo - si aggiunge un’altra doppiezza, quella dcll’Mz-màwe delle figure nell’atto stesso del sigillare. E lo stesso sigillare - l’atto stesso della legge, il gesto di una mano della legge - che provoca Vinversione della posizione delle figure. Come se la legge c l’autorità che proviene da essa non escludessero mai del tutto l’inversione, e, anzi, come se la richiedes­ sero proprio in quanto tali, inversione si inscrive nel gesto della legge. Qui si dà a vedere ancora una volta una realizzazione della legge al di là della legge. Proprio questi due sigilli (in positivo c in negativo) e le loro quattro figure alludono già all’immagine di un'ecclesia che è, contemporaneamente, nel mondo e fuori dai mondo. Immagine nella quale assenza e presenza, dentro e fuori si corrispondono nella forma apocalittica di una parusia che, fedelmente al suo significato greco di «presenza», si dà costantemente nel " Schelling, Philosoldùe der OJJenbaning (SVV XIV), cit., p. 309; tr. it. p. 1393.

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mondo. Così le figure del sigillo valgono tanto sull’anello quanto sulla ceralacca nelle quale appaiono invertite. Nel sigillo stesso è presente, in altri termini, l’eccesso che capovolge, fin dal suo uso “normale”, le posizioni, rendendone figura c movimento, identità e rovesciamento inse­ parabili l’uno dall’altra16. Questa tensione sembra far segno alla tensione apocalittica e messianica che abita il tempo del mondo e che trasfigura le sue forme storiche, esprimendosi proprio nell’inversione del segno del mondo, nell’inversione della sua identità e delle singole “posizioni” delle cose. Che il sigillo sia un’immagine messianica, lo conferma, oltre una specifica ricorrenza all’interno delle Scritture1', anche il fatto che l’impronta del sigillo vale - e ne rivela l’effigie - proprio in assenza del sigillo, Essa riflette la figura di una parusia che vale nel tempo, è nel tempo, ma unicamente sul fondamento dell’assenza del messia.

3. L’autorità e il fuorilegge

Il «primato» di Pietro - «la preminenza con autorità» — trova la sua legittimazione nella difficoltà inerente al suo compito. Si tratta infatti del «compito più difficile», proprio di chi inizia e di chi pone le fondamenta. E il lavoro «dell’iniziare e del fondare»1”. Non che a Paolo manchi un «compilo [BeruJ\»\ è però piuttosto alla semantica della «vocazione [Berufung\» che, secondo l’indicazione di Schelling, occorre guardare. Al di là di ogni prossimità lessicale, è la loro differenza a segnalarsi come decisiva. Se il primato di Pietro non è «esclusivo», tale è invece la sua autorità. Questa deve concentrarsi tutta in una persona o in un’istanza. Ma proprio questo - nota Schelling - «è in contrasto [im Widerspruch] con la straordi­ naria vocazione di Paolo». Il compito del Berti/, cioè la professione del compito, e la vocazione della Berufung, dunque la chiamala straordinaria, sono visibilmente «in contrasto» o, meglio, come indicato dall’espressione im Widerspruch, decisamente «in contraddizione». Se l’autorità - esclusiva e concentrata «tutta» in una sola persona - considera un’inammissibile Sul valore del doppio nella tradizione messianica ebraica, cfr. Sicgmund Hurwitz, Die Gettali des sterbenden Messias, Raschcr, Ztirich-Stuttgart 1958. ” Nel solo Paolo il termine oipQayig e i suoi derivati ricorrono in luoghi decisivi, circa la missione di cui è investito, quali 1 Cor 9, 2; 2 Cor 1, 22; Rm 4, 11 ; 2 Tm 2, 19. Cfr. Karl Bardi, Der Riìmerbrùf, Evangclischcr Veriag Zollikon, Ztirich 1954; tr. it. di G. Miegge, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1989, p. 62. Schelling, Philosophie der OJjenbarung (SVV XIV), cit., p. 313; tr. it. p. 1401.

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eccezione fuorilegge quanto non le si sottometta, Paolo ritiene la sua straordinaria vocazione motivo sufficiente per opporsi alla parola della legge. Che questo contrasto teologico-politico fosse avvertito nella sua problematicità, è provato appunto dalla sparizione di Paolo dal sigillo. Tale sparizione dimostra quella «contraddizione» immanente al cristiane­ simo - che la Riforma doveva poi approfondire - già da sempre all’opera nel corpo originario della comunità cristiana. Dal sigillo, nel quale origina­ riamente affiancava Pietro, Paolo scompare. La presenza dei due centri, infatti, «non impedì che la chiesa, nel momento in cui pose le proprie basi storiche, si ritirasse sempre più nell’autorità esclusiva di Pietro»19. Ciò corrisponde di fatto alla decapitazione di uno dei due capi dell’ecclesia. Corrisponde a un tradimento della parola o del polemos originario. Sacrifi­ cato a Roma (e da Roma), Paolo lascia il posto a un’aficrmazionc unilaterale dell’autorità, rappresentata dal «solo» Pietro, quasi che questa cancellazione potesse rimuoverne la traccia dalla costituzione ecclesia. Questa duplicità dei principi, a cui la chiesa di Roma seppe rappor­ tarsi solo nell’unilateralità di una scelta esclusiva in favore dell’autorità, è presupposta del resto dalla stessa Riforma. E questo perché Vecclesia - la «vera chiesa» — può esistere unicamente nel mantenersi in atto della «contraddizione» tra i due principi: La chiesa di Pietro è il severamente legale. Tutto deve cominciare con severa legalità. Ma una chiesa libera e indipendente dal principio di Pietro, divenuto esclusivo, era già prevista con la chiamata di un apostolo libero e j ,i„ n: indipendente da Pietro’".

19 Ivi, p. 314; tr. it. p. 1401. Sul contrasto tra Pietro c Paolo sarebbe da tenere presente un altro passo della Rivelazione, ivi, pp. 251-252; tr. it. pp. 1297-1299, relativo alla questione del male e del principio del male: «La libertà da ogni potere cosmico, la dottrina della piena vittoria su Satana attraverso Cristo fu annunziata in particolare dall’apostolo Paolo. Questa dottrina può essere stata dannosa, come qualche altro vangelo della libertà, alle anime deboli (ipuyaì àoTqQtXTOi) c averle indotte a una vita senza legge (...) essi non hanno paura di deridere le maestà (...) essi disprezzano la Signoria (la Signoria simpliciter, senza altra aggiunta)». Che la libertà valga senza legge, è la conclusione delle «anime deboli». Se questa convinzione produce effetti disastrosi, è perché la liberazione dal principio materiale non è semplicemente il suo abbandono. La libertà non solo non prescinde dalla legge, ma il suo gesto consiste nclfappcllarsi a una legge di cui essa è libertà: di cui essa è la liberazione. La legge vale - perniane nella sua vigenza - in quanto essa stessa “liberata’' dalla libertà. Questa, infatti, è unicamente nella misura in cui libera ovvero emancipa la legge. Qui la libertà senza legge equivale all’oltraggio c all’offesa della maestà in quanto tale. Schelling, Philosophie der Ojfenbarung (SW XIV), cit., p. 315; tr. it. p. 1405.

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Né Paolo né Pietro possono essere sacrificati senza che con ciò non si rinunci anche alla chiesa tout court. Se Pietro è l’autorità, se egli incarna il principio su cui Vecclesia si fonda, è evidentemente l’istituzionalizzazione il rischio a cui questa è sempre esposta. Contemporaneamente, è solo l’istituzione a garantire alla chiesa la sua presenza nel mondo, indispensa­ bile sino al ritorno del messia. Che questa condizione del fondamento sia necessaria ma non sufficiente, è la verità di Paolo. La cui “eliminazione” si ritorce, appunto, contro la chiesa stessa, non realizzando né la sua unità (la quale si dà unicamente come unità di contrari) né tantomeno la «vera chiesa». Questa esiste invece solo come pluralità insacrificabile, nel gioco delle differenze che ne mettono costantemente in discussione il primato c la pretesa di essere il soggetto ultimo della storia del mondo. Contro tutta una storia di rimozioni, Schelling si indirizza a una memoria difficile del doppio e inestricabile legame nel cui intreccio tcologico-politico si defini­ sce la chiesa. Ecco perché ci sono necessariamente (almeno) due chiese:

Se qualcosa deve svilupparsi, è il suo fondamento che deve innanzitutto essere conservalo. Ed è l’autorità che ha reso e ancora oggi rende al Cristianesimo questo servizio negativo, mentre la chiesa di Paolo era piuttosto una chiesa nascosta, che certo non cessò mai di essere compresa in quella visibile e sempre si conservò in essa, senza però potere comparire, per lungo tempo, come tale'1. Nella comunità vi è un’altra comunità. Schelling sembra assumerla come legge stessa della comunità: che all’interno di ognuna ne dimori un’altra. Così, anche per la chiesa, c’è una chiesa visibile, che è l’istitu­ zione fondata sull’autorità (su Pietro). Ma c’è anche un’altra chiesa, invisibile, ritirata all’interno della prima. Essa vi si nasconde sino a che il suo tempo non sia arrivato''. Protetta dall’invisibilità che la visibilità della prima le garantisce, contemporaneamente la insidia dal di dentro, salvo esserne a sua volta insidiala. E la prima, la chiesa visibile, non si mantiene in rapporto alla «vera chiesa» che nella misura in cui essa si mantiene in rapporto con l’altra sua metà, con la chiesa invisibile. Contrapposte, dunque né mai totalmente pacificate né mai totalmente estranee, si fronteggiano come l’illegale, ciò che è fuorilegge è contrapposto alla legge, la quale a sua volta lo richiede proprio in quanto legge. E la figura di ciò 21 Ivi, p. 314; ir. il. p. 1403. Qui assume una |>oriata decisiva quella visibilità della chiesa in cui, per esempio, la kantiana Religion innerhalb der Grenz/m der blojìen Vemunft non vedeva altro che una «insilili* ciente rappresentazione c preparazione» del Regno a venire.

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che pone in questione la legge in quanto tale, senza per questo annullarla, che si dà a pensare nella congiunzione della libertà paolina c della chiesa invisibile. La cancellazione della legge in quanto tale - l’anomia - non corrisponderebbe al trionfo della libertà, ma alla sua perversione. E unicamente la loro contraddizione che custodisce il senso di questa ecclesia. Questa cesura sembra essere inscritta fin dal principio all’interno della chiesa. In un certo modo, essa nasce da questa cesura, da un taglio che non smetterà di percorrerla, lungo il suo corpo istituzionale. La rottura la precede e, in un certo modo, Vecclesia non si produce altrimenti che come rottura, senza che sia in suo potere revitame le conseguenze più gravi. Ma ne l’una né l’altra chiesa, né quella visibile né quella invisibile, sono in sé assolutamente vere: «ambedue sono soltanto parti intermediami di queiru­ nica e vera chiesa, che sarà»23.

4. La «vera chiesa», la spada, il mondo

Nel contrasto originario di Pietro e Paolo è infatti prefigurata la storia stessa della chiesa, per esempio la lotta che vedrà opposti riformatori e romani, Paolo quale principio della Riforma luterana, Pietro quale sim­ bolo del potere di Roma. Che il loro contrasto sia reale ossia storico, indica sino a che punto esso corrisponda alla contraddizione costitutiva della chiesa in quanto tale. E sempre all’immagine raffigurata dal sigillo che Schelling torna per riflettere sulla storia stessa della chiesa c sulla moderna nascita di chiese, là dove prima dominava l’unità assoluta di Roma. In questo procedimento si lascia leggere il caratteristico intreccio di una dimensione storica con una simbolica - ovvero una certa simbolizza­ zione della storia - che costituisce la trama stessa delle lezioni della Rivelazione. In questo senso, la Riforma non fa che corrispondere inconsapevol­ mente, nella sua polemica antiromana, all’opposizione di Pietro c Paolo, che dimora nella chiesa in quanto tale, non sapendo reagire all'unilatera­ lità pietrina di Roma se non attraverso lo squilibrio di un'analoga aflermazionc unilaterale del solo principio paolino. Appellandosi a Paolo, essa non c capace - esattamente come non lo è Roma — di rapportarsi alla «contraddizione» costitutiva dell’ecclesia. D'altro canto, tuttavia, essa agi-

Schelling, Pliilosoldiie der Offcnbarung (SVV XIX7), cit., p. 316: ir. it. p. 1405.

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sce unicamente all’interno delle possibilità che la chiesa stessa - nella con­ flittualità dei suoi due principi - prevede:

l’indipendenza che la nuova comunità fu costretta ad assumere nei riguardi della chiesa divenuta troppo rigida, non fu quindi una vera separazione dalla vera chiesa, la quale non fu distrutta da questi contrasti, ma ne ebbe piuttosto soltanto un senso più alto''. Questo «senso più alto» dimora nel mezzo della contesa che oppone la Riforma a Roma. Perché, a ben vedere, entrambe le chiese particolari avranno inevitabilmente mancato il loro obiettivo (quello di essere identi­ che alla «vera chiesa»): quella romana perché espressione di un’unità semplicemente esteriore, il cui merito «è di avere conservato questa sostanza, il rapporto storico con Cristo [...] senza però comprenderla»2’; quella riformata in quanto il suo compito di liberazione non può prescin­ dere dalla necessità della legge e dell’autorità (e, dunque, di Roma). La legittima protesta contro l’ordine meramente autoritario e mondano della chiesa di Pietro è infatti possibile unicamente nell’assunzione di quell’elemento accidentale, concreto (e, in definitiva, storico) che la Riforma vorrebbe invece annullare. E, del resto, proprio attraverso l’assunzione del peso della «pietra» fondatrice che passa la corrispondenza al messia che viene. E dunque impossibile accordare la preferenza a una delle forme della chiesa storica: la «vera chiesa» non è né la chiesa di Roma né quella luterana o una di quelle riformate. Essa è dovunque e, contemporanea­ mente, da nessuna parte, non potendosi identificare con nessuna di queste. In nessuna di esse risiede la «vera chiesa», in quanto nessuna può pretendere per sé l’esclusività, proprio come Pietro non esclude Paolo, ma lo esige come “avversario” indispensabile. Analogamente nessuna delle chiese si lascia escludere dalle altre. Esse, piuttosto, si richiamano e si corrispondono reciprocamente: La vera chiesa non è in nessuna di queste forme in modo esclusivo: essa è quella che, partendo dal fondamento posto da Pietro, giunge attraverso Paolo a quella fine costituita dalla chiesa di Giovanni ó.

Se c’è qualcosa come una «vera chiesa», la si trova unicamente in 2*

2v

Ivi, p. 315; tr. it. p. 1405. Corsivi miei. Ivi, p. 322; tr. it. p. 1417 Ivi, p. 310; tr. it. p. 1395.

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quella dispersione che è il destino storico delle chiese. La si trova nella forma di una pluralità senza sintesi. A partire da questa pluralità, ognuna ha il diritto di rivendicare la propria singolarità irrinunciabile, che nessuna conciliazione dialettica sarebbe in grado di riprodurre. Per questo motivo il discorso di Schelling si organizza nell’intreccio dell’insieme di “e... e... e”: la chiesa di Pietro e la chiesa di Paolo e la chiesa di Giovanni, nel presupposto che tutte quelle chiese costituiscono la «vera chiesa» solo nella loro molteplicità indefinita* . «Vera chiesa» può esserci solo nell’opposizione secondo cui si articola la radicale differenza tra Pietro e Paolo. La storia di questa chiesa, il suo stesso presente non esistono altrimenti che nella forma di una contraddi­ zione aperta. In questo senso, né la chiesa è il modello di una comunità perfetta né essa ne è la realizzazione. D’altra parte, se non ha una valenza esemplare, è tuttavia impossibile, così Schelling, attribuire a una semplice casualità storica i casi di cui la chiesa è state attrice e testimone. Così sarebbe insufficiente attribuire tutti i mali alla mondanità della chiesa di Roma «come se fosse in suo potere accettare o non accettare quella posizione politica che essa si è data nel mondo». Quando la potenza dell’impero romano fu infranta c dissolta, la chiesa, che già esisteva, dovette prendere il posto, rimasto vuoto, dclfindispcnsabile potere politico, di fronte a quei popoli che come flutti del mare spinti qua c là da un soffio invisibile, inondavano il mondo occidentale. E divenendo una potenza del tutto esteriore, una potenza del mondo, essa compì anche per sé la parola di Cristo: «lo non sono venuto a portare pace, ma la spada». Dove c’è potere politico, là c’è anche la spada: anche alla chiesa fu necessaria la spada di Pietro*8. Il posto del potere politico non appartiene alla chiesa. In esso, anzi, si

27 Questa molteplicità, nella quale sola si dà a vedere il motivo della «vera chiesa», non si dà nella semplice successione temporale, ma costituisce ciò che si divide il tempo presente. Trascurare questo motivo significa occultare la differenza che passa tra le pagine della Rivelazione e la rappresentazione gioachimita delle età della storia o l'immagine di tre chiese che si dividono tutto il tem|X) mondano della chiesa, per cui cfr. Ferdinand C. Baur, Die christliche Lehre von der lersòhnung in ihrer geschichtlichen Entwicklung (1838) c Die Epochen der kirchlichen Geschichtsschreibung (1852). Questo motivo costituisce la maggiore obiezione ri­ spetto alla ricostruzione - di carattere strettamente dialettico - di Henri de Luhac, La Postérité spinluelle dejoachim de Flore, I. De Joachim à Schelling, Dessain et Tolra, Paris 1979; tr. it. di F. di Ciaccia, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore. 1. Dagli Spirituali a Schelling, Jaca Book, Milano 1980, pp. 446-465. ■" Schelling, Philosophie der OJJenbarung (SVV XIV), cit., p. 310; tr. it. pp. 1395-1397. Mi discosto dalla ir. cit.

L'ombra

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della libertà

compie una sua degradazione a «potenza del tutto esteriore». Tuttavia l’assunzione di un potere corrisponde a una certa evoluzione storica (europea, di fatto) a cui la realtà della chiesa non poto restare indifferente. Nel peso della «spada» si confondono, dunque, una certa decadenza della chiesa con quella responsabilità storica, di cui essa si fece carico, giun­ gendo tuttavia a confonderei con l’«onnipotenza politica» e facendo del suo servizio «un proprio strumento». Pretendendo non di servire, ma di servirsi di quella storia a cui era chiamata a corrispondere, essa venne a sua volta strumentalizzata proprio in conseguenza della pretesa di poter­ sene semplicemente servire. La funzione vicaria, il «prendere il posto [...] del potere politico» si sostituisce al potere politico che resta indispensabile al mondo e, d’altra parte, fondamentalmente estraneo alla missione della chiesa"*. In questa situazione, essa non può che essere travolta dalle contraddizioni tipiche del «potere politico». Su questo doppio registro la Rivelazione sviluppa le sue considerazioni sulla storia della chiesa. Vi si legge, da un lato, il motivo della necessità e della responsabilità storica; dall’altro lato, la considerazione dei rischi teorici e reali di questa assunzione. Ma nulla meglio dell’assunzione di quella responsabilità e dei suoi rischi illustra la missione dcWecclesia, la quale, pur non appartenendo al mondo, non ha luogo da nessuna altra parte che nel mondo: e questo perche il messia non viene altrove che nel mondo. In questo senso, nonostante tra le due intercorra un’irriducibile diffe­ renza, la chiesa storica non si lascia contrapporre alla «vera chiesa». Non solo questa non può essere considerata come l’ideale rcgolativo di quella, ma neppure esiste una «vera chiesa» al di fuori di quella storica ossia al di fuori di quella, al limite, prona all’idolatria del potere. D’altra parte, l’idea di una «vera chiesa» consuma ogni pretesa assolutezza della chiesa storica. L’idolatria del potere, la strumentalizzazione reciproca di chiesa c potere politico, tutto quanto possa apparire una sconfessione della sua missione primitiva, non fanno venire meno la realtà della chiesa come «vera chiesa». Quegli stessi tratti si inscrivono, pure o proprio nella loro spropor­ zione, nella sua storia come tradizione: le appartengono intimamente proprio come «contraddizioni». Questa è l’aporia irrinunciabile che le pagine finali della Rivelazione pongono come il vero impensato: che Vecclesia sia la realtà di qualcosa che c nel mondo, senza appartenergli che essa appartenga al mondo c alla storia unicamente nella sua appartenenza a un altro ordine. E perciò che Vecclesia non si pone in concorrenza ne con lo Stato né con la società. I^e appartiene, invece, un altro dire, un altro agire, r
c*ie costante­ mente lo differisce da sé. Se teniamo presente questo carattere, l’inimici­ zia, di cui parla Rosenzweig, è il luogo in cui ogni identità è sospesa: così tra cristiani ed ebrei non ha luogo una pura contrapposizione tra nemici. In nome delle singole identità, essi fanno causa comune (e il nome di questa causa comune è appunto «... regno»), nella sospensione delle loro reciproche identità, ciò che li trattiene “in vista” dello stesso messia’5.

Tuttavia, il differente compito, assunto da cristiani ed ebrei, evita che la tensione scivoli in una coincidenza degli opposti, come sarebbe altri­ menti inevitabile in questa assenza di identità. Se i cristiani assumono su di sé la storia del mondo come propria storia, gli ebrei hanno come compito quello di rinunciare ad avere una propria storia, per stare presso Dio. Questi ultimi indicano pertanto la meta escatologica raggiunta sin da sempre in forza dell’elezione. Compito è, in questo senso, ciò di cui resta escluso ogni possesso, come sa bene Rosenzweig quando definisce il compilo di Israele un «giogo»' ossia la condizione in cui non è più questione di una signoria del soggetto, ma della soggettività nella sua fondamentale passività. Ora, nella lettera a Ehrenberg, la santità di ebrei e pagani consiste nel fatto di ricordare alla ecclesia Iriumphans che, nel favore che il mondo le accorda, essa non può neppure per un istante cessare di essere «stoltezza c scandalo»: Chc rimanga una stoltezza si curano i Greci, allora come ora e per il futuro. [...] e quando l’ultimo Greco sarà divenuto muto a causa dcll’agirc della chiesa nel tempo, allora la parola della croce - alla fine del tempo, ma pur sempre dentro al tempo - non sarà più una stoltezza per nessuno. Ma uno scandalo rimarrà immutabilmente anche in quel momento' ’. Se Israele, in forza della sua elezione, resiste a