Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica

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Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica

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Mario Tronti

Il nano e il manichino La teologia come lingua della politica

I edizione: giugno 2015

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Avvertenza

Il testo che segue è la trascrizione di quattro lezioni tenute all'Istituto per gli Studi Filoso/ici di Napolz; nel marzo del2010. Il tempo serve per far consumare ilsuper/luo e conservare l'essenziale. Alla fine se ne è ricavato uno scarno andamento propositivo, nella /orma discorsiva del parlato. Il titolo di allora recitava: Una teologia politica per la crisi della politica. E voleva significare questo: che la politica, per uscire dalla sua grande crisz; doveva provvisoriamente uscire da se stessa e inoltrarsi in terrenz; e in linguaggz; affini ed estranez;· per ritornare poi in sé, nella sua riabilitata professione e nella sua rz~ trovata vocazione. Progetto ancora aperto e con esiti assaipiù che incerti. Il discorso cammina su due gambe, con un passo diverso che bisogna saper registrare: il pensare politico e l'agire politico. Tenersi in equilibrio è un lavoro difficile ma entusiasmante. Dedico, allora, questo libro alle giovani generazionz; se ce ne saranno ancora, di intellettuali politici. M. T.

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Cari Schmitt. Teologia politica I

Che cos'è per me «teologia politica» lo ricaverà ciascuno di voi, autonomamente e creativamente, al termine delle quattro tappe del cammino. La butto qui, subito all'inizio, in un primo, unico e solo modo. La teologia politica è uno strumento ermeneutico indispensabile per la comprensione del Novecento. il secolo non l'ha generata, ma l'ha fatta vivere, o rivivere, ha fatto sì che divenisse pensiero vissuto, pensiero incarnato nella Storia, la quale anche per mezzo di questo è assurta a grande Storia. C'è un rapporto fra teologia politica ed età delle guerre civili europee e mondiali, che bisogna in primo luogo avere presente. Va colta e preservata una dimensione tragica del problema, senza la quale mancheremmo il colpo della comprensione dell'epoca. La rinascita della teologia contemporanea si colloca tra il1914 e il1945, fra l'inizio della Prima e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ci sarà un seguito, con una caduta di intensità, nel corso della terza guerra, fino al1989-1991 . Il crollo del socialismo chiuderà una volta per tutte l'orizzonte teologico-politico. E permetterà a noi, nottola di Minerva, di valutarne l'intero percorso; ma anche di scrutarne un nuovo, possibile - magari provvisorio - uso. 7

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Oggi possiamo usare il teologico-politico per decifrare il passaggio di crisi della politica che ci attraversa. Il rimando alla storia del problema è molto utile per comprendere. Non serve certo per superare il presente, per uscire quindi dallo stato di crisi. Ma interpretare è già un po' trasformare. Per parafrasare un mio autore di riferimento, si tratta di fare un passo indietro per poter farne due avanti. Ripartire da Carl Schmitt è la prima mossa intellettuale obbligata. Non è la sua persona, è il suo pensiero a risultare centrale su questo tema. Si può separare il pensiero dalla persona? Penso di sì. È un' operazione politicamente scorretta. E allora proprio per questo va fatta. La politica è per sua natura - per la sua natura moderna - un comportamento di pensiero e di azione scorretto rispetto alla Storia: perché si contrappone ad essa, non accetta il suo corso e si propone di deviarlo. l l La mia idea di politica- avverto- pensa per capire, ma capisce per cambiare. «Tecnico del diritto e scienziato della politica», ha \ detto di Schmitt Gianfranco Miglio. Il suo pensiero arriva a conclusione della civiltà giuridica moderna e al tramonto della grande storia dello Stato moderno. Verifica, certifica, l'atto di decesso di un'epoca. Ma allora questo non è Schmitt. È il Novecento, il Novecento del Weltburgerkrieg. Pensiero della fine. Non è forse la teologia politica pensiero della fine? Nel1922 esce Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità. Il capitolo III porta propriamente il titolo Teologia politica. È celebre il suo incipit: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». La definizione di teologia politica scaturi8

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ta, prodotta, incarnata storicamente dal Novecento sta tutta qui. Nella Premessa alla seconda edizione (1933)- notate intanto le date, anni Venti-Trenta- troviamo la specificazione cronologico-concettuale del processo di secolarizzazione. È questo, siamo ancora qui dentro. La grandezza del Novecento è stato il tentativo eroico di arrestare e addirittura rovesciare questo processo. La sconfitta di tale tentativo ha fatto sì che il corso del processo riprendesse, verso altri esiti più stabili e sicuri, e contemporaneamente degradanti. Ecco la Storia, la sua potenza, fatta di quotidiana lunga durata, con questa sua escatologia profana, eterno ritorno, non però del sempre eguale ma del sempre diverso, l'antico nuovo del moderno, inattaccabile, invincibile. In quella Premessa si scandisce così il processo di secolarizzazione: «dal teologico all'umano-moralistico e all'economico, attraverso il metafisica». Il concetto è espresso meglio in L'epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni (1929)_: d~l te~lo~ico al metafisica, da qui al morale-umamtano e mfme all' economico e al tecnico. Da qui in avanti faremo parlare molto i testi, di per sé più eloquenti di qualunque possibile commento. Si veda, a questo proposito, Le categorie del «politico» (il Mulino, Bologna, 1972, pp. 169-172). La successione dei diversi centri di riferimento esprime, in quattro secoli, «quattro grandi, semplici passi secolari». Questi non vanno intesi come passaggi di storia del pensiero o di storia della civiltà. N on vanno le tti nel senso di leggi di filosofia della storia, non come la linea progressiva verso l'alto o verso il basso, come crescita o declino; e neppure come se ogni volta 9

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non fosse esistito che un solo centro di riferimento, sussistendo sempre, piuttosto, una coesistenza plu. ralistica di diversi processi già in svolgimento. «lo non parlo della civiltà degli uomini nel suo complesso, o del ritmo della Storia universale e non posso dire nulla né dei cinesi, né degli indiani o degli egiziani». Insomma, si sta approntando non una gabbia di sistemazione, ma un criterio di descrizione per quattro secoli di frastagliata, e tuttavia unitaria, storia europea: come sono mutate le élite-guida, come è cambiata l'evidenza delle loro convinzioni e dei loro argomenti, il contenuto dei loro interessi spirituali, il principio della loro azione, il segreto dei loro successi politici e «la disponibilità delle grandi masse a lasciarsi influenzare da determinate suggestioni».

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«Chiaro e particolarmente significativo come conversione storica unica è il passaggio dalla teologia del XVI secolo alla metafisica del XVII, in quell'epoca altissima dell'Europa, non solo dal punto di vista metafisica ma anche scientifico: la vera e propria età eroica del razionalismo occidentale». Ma anche le straordinarie conoscenze matematiche, astronomiche, di scienza naturale, si strutturavano in sistema metafisica «e perfino la superstizione caratteristica del tempo era cosmico-razionalistica, nella forma dell' astrologia». «Il successivo XVIII secolo, con l'aiuto delle costruzioni di una filosofia deistica, accantonò la metafisica e divenne volgarizzazione in grande stile, illuminazione (Aufkliirung), appropriazione da parte di comuni scrittori dei grandi risultati del XVII secolo,

umanizzazione e razionalizzazione». Il pathos specifico del Settecento si esprime nella pratica teorica del concetto di virtù (Tugend), la parola mitica diventa vertu, dovere (Pflicht). Poi, nell'Ottocento, segue un secolo di commistione apparentemente ibrida e impossibile di tendenze romantico-estetiche e tecnico-economiche. In realtà, il Romanticismo del XIX secolo significa solo la fase intermedia dell'estetica tra il moralismo del Settecento e l'economismo dell'Ottocento. Non è solo l'estetismo romantico che funziona al servizio dell' economia; ancora di più in unione con questa compare «l'elemento tecnico come industrialismo». Esempio caratteristico di ciò è la concezione materialistico-storica del marxismo, che nelle sue volgarizzazioni tende a spiegare il rapporto economico in base al mezzo tecnico impiegato. Ma «nel complesso, il marxismo vuole pensare in termini economici e perciò resta nel XIX secolo, che ' ssenzialmente eco om-ieo>:r.- Sotto l'enorme suggestione di sempre nuove, sconvolgenti scoperte e conquiste, sorge una religione del progresso tecnico. Per le grandi masse dei Paesi industrializzati la fede nel miracolo e nell'aldilà si trasformò in una religione del miracolo tecnico. «In tal modo una religiosità magica trapassa in un tecnicismo altrettanto magico. Il XX secolo appare così, fin dall'inizio, come il secolo non solo della tecnica, ma anche di una fede religiosa nella tecnica». Ma riprendiamo Teologia politica del1922: Teologia politica I, che ha indirizzato una buona parte del dibattito teorico-politico novecentesco. La terza parte - quella che porta il titolo specifico Teologia politica - si apre con la decisiva, fondativa, definizione, già richiamata: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna teoria dello Stato sono concetti teologici

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Quattro passaggi di/asi d'epoca

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secolarizzati». n moderno ha considerato come l'essenziale superamento del passato il trasferimento concettuale dal teologico al politico. Il Dio onnipotente diventa l'onnipotente legislatore. Lo stato d' eccezione acquista per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo. L'idea del moderno Stato di diritto si realizza con i.Ycfei~. È Léibniz, nella Nova . methodus (1667), a esprimere più chiaramente il senso filosofico dell'analogia. La giurisprudenza non ha più a che fare con la matematica e la medicina: «A buon diritto abbiamo trasferito il modello della nostra ripartizione dalla teologia al diritto, poiché è straordinaria l'analogia delle due discipline». Hanno entrambe un duplex principium, la ratio e la scriptura: come c'è una teologia naturale, così c'è una giurisprudenza naturale; come c'è un libro di rivelazioni divine, così c'è una costituzione di comandamenti umani. Ma la più interessante esposizione politica di queste analogie «si trova nei filosofi dello Stato cattolici: in Bonald, de Maistre e Donoso Cortés» (Le categorie del «politico», cit., pp. 61-62).

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La quarta parte di Teologia politica I riguarda questi autori. I romantici tedeschi- dice Schmitt- hanno come caratteristica peculiare quella di coltivare «il dialogo eterno»: Novalis e Adam Miiller, per esempio. Ma questi filosofi dello Stato cattolici «avrebbero certamente considerato il dialogo eterno come un prodotto fantastico di orribile comicità. Infatti, ciò che caratterizza la loro filosofia controrivoluzionaria dello Stato è la consapevolezza che il tempo richiede una decisione e, con un'energia che raggiunge il suo apice fra le due rivoluzioni del 1789 e del1848, il concetto di decisione viene a occupare il punto centrale del loro pensiero».

Bonald è il fondatore del tradizionalismo. «Mai tuttavia in lui la fede nella tradizione diventa qualcosa come la filosofia della natura in Schelling, la mescolanza degli opposti di Adam Miiller o la fede nella Storia di Hegel. Per lui la tradizione è l'unica possibilità di conquist~re il contenuto che la fede metafisica dell'uomo può accettare, poiché la ragione del singolo è troppo debole e misera per giungere da sola alla verità». La differenza con i romantici tedeschi si rintraccia nel quadro pauroso con cui Bonald rappresenta il cammino dell'umanità attraverso la Storia: «Un gregge di ciechi, guidato da un cieco che procede a tentoni appoggiato a un bastone». De Maistre punta dritto sul concetto di sovranità, che per lui significa decisione. E l'essenza della decisione è l'infallibilità. I due termini, «infallibilità» e «sovranità», sono «perfettamente sinonimi». Ogni sovranità, sia essa Stato o Chiesa, ordinamento statale o ordine spirituale, «si comporta come se fosse infallibile, ogni governo è assoluto (una massima che avrebbe potuto essere espressa con le stesse parole, seppure da un punto di vista diverso, da un anarchico)». Le dottrine anarchiche, da Babeuf a Bakunin, a Kropotkin, dicono: «li popolo è buono e il magistrato è corruttibile». Al contrario, de Maistre dichiara buona l'autorità in quanto tale, per il solo fatto che sussiste: «Ogni governo è buono una volta che è stabilito». Perché nell'esistenza dell'autorità è presente l'atto della decisione e «nelle cose più importanti conta più che si decida, che come si decide». Lo sviluppo da de Maistre a Donoso Cortés è il passaggio dalla legittimità alla dittatura. Una crescita del radicalismo controrivoluzionario che accompagna l'analoga crescita del radicalismo rivoluzionario, da quello del terzo stato, del1789, a quello del

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proletariato, del1848. «Questa crescita radicale si manifesta nella sempre maggiore importanza che vengono acquisendo le tesi assiomatiche intorno alla natura dell'uomo. Ogni idea politica prende una certa posizione nei confronti della «natura» dell'uomo e presuppone che esso sia «per natura buono» o «per natura cattivo»». Cortés ha polemicamente radicalizzato il dogma del peccato originale. Qui è più luterano che tridentino. Opera un punto di rottura con gli stessi altri due filosofi cattolici dello Stato. «li suo disprezzo per gli uomini non conosce limiti; la loro cieca ragione, la loro vacillante volontà, lo slancio ridicolo delle loro voglie carnali gli appaiono tanto miserevoli che tutte le parole di tutti i linguaggi umani non bastano a esprimere per intero la bassezza di questa creatura[ ... ]. La stupidità delle masse gli riesce altrettanto straordinaria della stupida forza dei loro capi» (Le categorie del «politico», cit., pp. 75-79). Tra questi pensatori della Restaurazione- perché questo sono i filosofi cattolici dello Stato - Donoso Cortés è senz' altro quello che Carl Schmitt ha più nelle sue corde. Per quattro volte, con scritti che vanno dal 1922 e al 1944, Sèhmitt ritorna su questo «Hobbes dell'Ottocento». Nel1950 riunirà in volume tali scritti, pubblicandoli con una Introduzione. E proprio in questa troviamo una ridefinizione del concetto di teologia politica: «Con esso si intende la trasposizione di immagini e concetti teologici nell' ambito del pensiero laico-politico, trasposizione che ricalca all'incirca lo stile della formula un Dio, un Signore del mondo». Ritroveremo questa formula nell'analisi del contrasto Peterson-Schmitt. Qui la questione viene evocata perché riguarda il presente storico e sociologico, «da cui restiamo sopraffatti». li presente di allora, il1950, è ancora il nostro, rea-

lizzato e aggravato, sia pure in altre forme politiche. «Si tratta della mitizzazione degli impulsi e degli ideali di grandi masse, che sono pilotati da piccoli gruppi». È accaduto che dall'awio della teologia trinitaria della Storia, cioè della dottrina di Gioacchino da Fiore, il secondo stadio, il regno del Figlio, che ha preso il posto di quello del Padre, invece che passare a quello dello Spirito Santo, si è spinto e prolungato molto oltre. Questo presente «non ha più bisogno di ricorrere a concetti teologici e nemmeno a concetti teologici secolarizzati. Per le masse è diventata in gran parte del tutto owia una condizione di pura mondanizzazione. Sono diventate- non oserei servirmi di tale espressione, se non fosse già stata formulata dal padre gesuita Alfred Delp - inette a Dio. In questo stadio le masse non richiedono più né teologia né morale» (C. Schmitt, Donoso Cortés, Adelphi, Milano, 1996, pp. 14-15). Donoso ha sempre davanti a sé, da cogliere e da conoscere, le conseguenze estreme. «Egli vede che con il teologico scompare il morale, e con esso l'idea politica e perciò ogni decisione morale e politica viene paralizzata nell'aldiquà paradisiaco di una vita immediata e naturale, e di una corporeità libera da problemi». Schmitt parlava così di Donoso già nella Teologia politica del1922. E questo gli ispirava profezie ben awerate: Heute ist nichts moderner als der Kampf gegen das Politische. «Oggi non c'è nulla di più moderno della lotta contro la politica. Finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarco-sindacalisti si uniscono nel chiedere che venga messo da parte il dominio non obiettivo della politica sulla obiettività della vita economica. Ormai devono esistere solo compiti tecniCo·organizzativi e sociologico-economici, ma non problemi po-

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litici. n tipo oggi dominante di pensiero tecnico-economico non consente nemmeno più di percepire un'idea politica. Lo Stato moderno sembra essere diventato ciò che Max Weber vide in esso: una grande fabbrica» (Le categorie del «politico», cit., pp. 84-85). Contro questa deriva della Storia in atto, per Schmitt-Donoso la teologia va considerata come l'unico fondamento saldo di ogni teoria politica. Senza la teologia, la politica moderna perde il suo fondamento e allora è destinata alla crisi che oggi la sta distruggendo.

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Carl Schmitt. Teologia politica II

Sottotitolo: La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica. Data di uscita: 1970. È la risposta al libro di Erik Peterson, Il monoteismo come problema politico, uscito nel1935, ma è anche la discussione della letteratura sull'argomento sviluppatasi nel frattempo, che, nel complesso, aveva dato luogo a quella «leggenda». La vera leggenda che però Schmitt vuole contestare è quella che aveva preso avvio dal libro di Peterson, aveva avuto larga diffusione nel secondo dopoguerra, poi è sopravvissuta allo stesso Schmitt, ed è ancora oggi presente e dominante: secondo tale leggenda, la teologia politica schmittiana degli anni Venti era stata un precedente teorico, quasi di fondazione, della soluzione totalitaria in Germania. Schmitt era stato accusato di occasionalismo da Katl Lowith, anche se di un occasionalismo «in forqia decisionista e non romantica» (si veda Decisionismo politico, in K. Lowith, S. Valitutti, La politica come destino, Bulzoni, Roma, s.d.). La sua «decisione» si ritroverebbe come sospesa in aria, ·perché non sorretta da altro che da se stessa, con un contenuto dato solo dalla casuale occasio delle situazioni politiche. Qui c'è il grande tema del rapporto tra politica e contingenza, tema machiavelliano e hobbesiano, e 17

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poi marxiano, nella lettura che Althusser ha dato del Marx politico. È vero che das Politische schmittiano ha, come sostiene Lowith, un accento esistenziale, come l'estetico, l'etico e il religioso kierkegaardiano, nel senso che non si può dire dove si trovi precisamente; senz'altro, però, si trova in un tratto di esperienza vitale. Ma essendo un qualcosa che sovrasta il tutto, è un neutro, l'unico, che può combattere la neutralizzazione, il politico che annulla la spoliticizzazione. In realtà, Schmitt, nel giovanile Politische Romantik (1968), aveva già fatto i conti con «l'occasionalismo soggettivo» dei romantici. Aveva rilevato da Malebranche ((il particolarissimo concetto di occasio in contrapposizione a quello di causa». Causa indica un legame teologico, una necessità spirituale e morale, origine di ((relazioni adeguate». Occasio accenna a un effetto incommensurabile, privo di oggettività, relazione a-razionale, la ((fantasia» romantica. ((Ogni fatto concreto può essere l' occasio di un effetto imprevedibile: ad esempio, la vista di un'arancia è stata per Mozart il pretesto per comporre il duetto Là ci darem la mano» (C. Schmitt, Romanticismo politico, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 126-127). Ma riprendiamo la Legende della liquidazione della teologia politica. Ci troviamo di fronte alla leggenda della liquidazione di Schmitt, ((pensato re nazista». Un modo comodo per non fare i conti con un pensiero scomodo. Un pensiero forte, sulla linea della grande tradizione del realismo politico, da Machiavelli a Hobbes, a Weber, una posizione oggi inaccettabile ai più, perché antiliberale, non democratica, non progressista, non umanitaria e quindi non borghese moderna.

Del resto, viviamo in un tempo in cui la Storia si serive sui giornali invece che sui libri. E allora dobbiamo riprenderei una libertà di movimento del pensiero, dentro la dittatura dell'opinione maggioritaria, fuori dal coro del senso comune intellettuale di massa. Peterson, coetaneo di Schmitt, era morto nel1960. Perché alla fine degli anni Sessanta si avverte il bisogno di riprendere il filo della riflessione sulla teologia politica? Siamo ancora dentro le guerre civili mondiali: la con/rontation tra capitalismo e socialismo è nella fase della coesistenza pacifica come nuova forma della Guerra Fredda. Schmitt si è ormai immesso nella ricerca/ridefinizione, tardonovecentesca ma sempre rivoluzionario-conservatrice, del nomos della terra. La globalizzazione avanza, i grandi spazi, da politico-ideologici, si fanno economico-finanziari: ultimo stadio, supremo, di spoliticizzazione e neutralizzazione, a livello mondiale. La geopolitica si ritraduce . . m geoeconom1a. I duellanti Peterson e Schmitt si ritrovano sul campo. Diamo uno sguardo. Scrive Schmitt: ((Nei mutevoli raggruppamenti di amico-nemico della Storia mondiale la teologia può diventare politica altrettanto bene in una situazione caratterizzata dalla rivoluzione quanto viceversa in un'altra caratterizzata dalla controrivoluzione». E aggiunge una cosa molto importante: ((Ciò è pro- '\ prio delle tensioni incessantemente mutevoli e delle formazioni di fronti polemico-politici ed è una que- \ stione di intensità» (Teologia politica II, Giuffrè, Milano, 1992, p. 17). Ecco. Le tensioni polemologiche della politica, nella loro incessante mutevolezza, non si misurano

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sul tratto che le caratterizza - rivoluzione o reazione -ma sulla loro intensità, n concetto di «intensità» del momento politico è, r secondo me, il segno che decide la possibilità teorica della teologia politica, la sua possibile applicazione al tempo storico. Il criterio del politico, quello «rappresentabile scientificamente» è dato dal «grado di intensità», si dirà sempre in Teologia politica II, «di una associazione o di una dissociazione», riguardo alla distinzione di amico-nemico (ivi, p . 20). È nota la tesi di Peterson, che poi è la ripresa delle tesi di Origene prima, di Eusebio poi. «Nella premessa all'ottavo libro della sua Dimostrazione dell'annuncio evangelico [§ 3] Eusebio sostiene che come segno della venuta di Cristo era stata profetizzata la pace: la cessazione del pluralismo politico nella forma degli Stati nazionali, l'abbandono del culto politeistico e demoniaco degli idoli e il pio riconoscimento che esiste soltanto un solo Dio sopra tutti gli uomini. Per cui il monoteismo è iniziato in linea di principio con la monarchia di Augusto. All'Impero Romano, che pone fine alle nazionalità, appartiene metafisicamente il monoteismo». Quanto iniziò con Augusto divenne realtà con Costantino. Dopo la sconfitta di Licinio, Costantino, confutando in alcuni discorsi il paganesimo, ha trasmesso la dottrina della monarchia divina. E non l'ha solo trasmessa: ha imitato, con la sua monarchia, la monarchia divina. «All'unico re sulla terra corrisponde l'unico re in cielo e l'unico Nomos e Logos sovrano» (E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, Queriniana, Brescia, 1983, p. 60). Le idee di Eusebio hanno avuto un'enorme influenza storica. Si ritrovano ovunque nella letteratu-

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ra patristica: in san Giovanni Crisostomo, in Diodoro, in Prudenzio, in Ambrogio, soprattutto in Orosia e quindi in un certo arianesimo. Augusto viene cristianizzato, Cristo viene romanizzato, diventa civi·s romanus. «Il senso politico di questa costruzione è evidente. Deve essere affermata la conciliabilità tra monoteismo cristiano e Impero Romano». Orosio andrà oltre quando ricondurrà la fondazione di Roma al monoteismo dei cristiani. Il Dio unico e vero fondò il potere romano, forte, con la scelta di un povero pastore, debole. Poi, quando si manifestò la debolezza dell'ordine stabilito, con gli sconvolgimenti politici del V secolo, allora cominciò a circolare il dubbio se non fosse stata proprio la cristianizzazione dell'impero la causa del suo sgretolamento interno. Ma dietro c'era l'altra domanda: «Era esatto vedere nella fede cristiana soltanto il monoteismo?». È attraverso l'uso che facevano gli ariani del concetto di monarchia divina che si può scorgere una risposta a questo problema. Per l'arianesimo, «il monoteismo è un'esigenza politica, una parte della politica dell'impero». «Nel momento in cui il concetto della monarchia divina, che era soltanto il riflesso dell'immagine della monarchia terrena nell'Impero Romano, entrava in contrasto con il dogma cristiano della Trinità, la disputa su questo dogma doveva necessariamente tradursi in lotta eminentemente politica». Senza la sostenibilità teologica del monoteismo non era garantita la continuità politica. Il cristianesimo finiva per manifestarsi come «rivoluzione», nell'ordine teologico come nell'ordine politico. È quanto aveva previsto Celso. «Si comprende così come fosse un urgente interesse politico a spingere in un primo mo21

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mento gli imperatori dalla parte degli ariani, e come, d'altro canto, gli ariani dovessero diventare i teologi della corte bizantina. La dottrina ortodossa della Trinità minaccia seriamente la teologia politica dell'1m' pero Romano» (Peterson, op.cit., pp. 69-70). Peterson riporta in nota (ivi, p. 101), dalla Patrologia greca, il pensiero di Gregorio Nazianzeno, che conviene riportare per intero: «Le tre più antiche opinioni intorno a Dio sono l'anarchia, la poliarchia e la monarchia. Con le prime due si divertono i figli dell'Ellade e lasciamo che ancora si divertano. L' anarchia significa disordine, la poliarchia rivolta (e perciò ancora anarchia e disordine). Entrambi si risol, vono nel medesimo disordine e dissoluzione. Noi onoriamo la monarchia, ma non una sovranità contenuta in una sola persona. Poiché anche una sola persona può essere in lotta con se stessa, mossa da forze diverse, ma onoriamo quella sovranità che è costituita da uguaglianza di natura, da unanimità di giudizio, da identità di volere e dal concorso delle persone a formare una cosa sola con quella dalla quale derivano, il che è impossibile nella natura creata». \ Nello stesso periodo, i Padri della Chiesa prendono coscienza dell'origine giudaica del monoteismo e la dottrina della Trinità diventa il fronte di lotta al tempo stesso contro giudei e pagani. A questo punto, dice Peterson, «il monoteismo come problema politico è teologicamente finito [ . .. ] . Ma con ciò era stato teologicamente spezzato il legame tra annuncio cristiano e Impero Romano» (ivi, p . 70). «Il monoteismo come problema politico era emerso dalla trasformazione ellenistica della fede giudaica in Dio». Il Dio dei giudei venne fuso con il principio monarchico della filosofia greca. Questo concetto politico-teologico fu adottato dalla chiesa

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mentre si espandeva nell'Impero Romano. Esso si incontra poi con quella teologia pagana secondo cui il monarca divino regna mentre gli dèi nazionali governano. Ma per i cristiani gli dèi nazionali non potevano governare perché l'Impero Romano aveva annullato il pluralismo nazionale. Sta in queste contraddizioni l'ambiguità della pax romana, soprattutto come pax augusta. La stessa operazione che i Padri greci fanno sul concetto di Dio, Agostino fa allora sul concetto di pace, in più passi della Civitas Dei. Per citarne uno: «Quale sfrontatezza, quale audacia, quale impudenza, quale insipienza, o piuttosto quale demenza la loro, per cui non addossano ai propri dèi quelle sventure, e addossano queste al nostro Cristo! Le atroci guerre civili, più triste, anche per riconoscimento dei loro autori, di qualsiasi altra guerra straniera e consid erate non una calamità ma l'assoluta distruzione della repubblica, scoppiarono assai prima della venuta di Cristo [ ... ]. Anche Augusto infatti guerreggiò con molti concittadini, e quelle guerre fecero anche molte vittime illustri, come Cicerone, l'eloquente maestro dell'arte di governo» (Agostino, La città di Dio, Einaudi-Gallimard, Biblioteca della Pléiade, Torino, 1992, III, 30, pp. 137-138). Conclude Peterson: «Ma la dottrina della monarchia divina doveva fallire di fronte al dogma trinitario e l'interpretazione della pax augusta di fronte all'escatòlogia cristiana. In tal modo non soltanto è finito teologicamente il monoteismo come problema politico e la fede cristiana è stata liberata dal suo legame con l'Impero Romano, ma s1 è anche realizzata la rottura con ogni "teologia politica", che abusa dell' annuncio cristiano per giustificare una certa situazione politica. Soltanto sul terreno del giudaismo e del paga23

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nesimo può esistere qualcosa come una "teologia politica". Ma l'annuncio cristiano del Dio unitrino si po\ ne al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divil nità stessa, non nella creatura umana. Così come la pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui il quale è "più alto di ogni ragione"» (ivi, p. 72). È solo nell'ultima nota del testo che Erik Peterson esplicita l'obiettivo polemico della sua ricerca: «il concetto di "teologia politica" è stato introdotto nella letteratura, per quanto io ne sappia, da Carl Schmitt, Politische Theologie, Monaco, 1922. Le sue brevi considerazioni di allora non erano impostate sistematicamente. Qui abbiamo fatto il tentativo, sulla base di un esempio concreto, di dimostrare l'impossibilità teologica di una "teologia politica"» (ivi, pp.103-104). Torniamo allora a Teologia politica II, e proprio al punto in cui Schmitt, mettendo a confronto Eusebio e Agostino, si riferisce a Civitas Dei, III, 30. In realtà questo capitolo, con la sottovalutazione di Ottaviano, rimpicciolito a nipote adottivo del grande CesareOtt.§lviano che viene a patti con Antonio per uccidere Cicerone e con lui la libertà, Cicerone, d'altra parte, caecus atque improvidus /uturorum -, dimostra niente di più che la superiorità di giudizio di uno nato dopo riguardo alle vicende accadute prima. Ma «il futuro di domani è», come dice giustamente Julien Freund, «solo il passato di dopodomani». Comunque il punto vero è un altro: «La pace mondiale dell'imperatore Augusto, che Eusebio glorifica, non ha posto termine agli orrori delle guerre e delle guerre civili [ ... ] . Né Cesare né Augusto né Costantino Magno erano in grado di porre fine alle guerre e alle guerre civili». Ma la pace veramente cristiana di Agostino,

che Peterson oppone alla pace di Augusto, ha potuto fare ciò? «il millennio di papi e imperatori cristiani e di una teologia della pace agostiniana riconosciuta da entrambi fu parimenti un millennio di guerre e di guerre civili [ ... ] . Le guerre civili confessionali dell'epoca della Riforma, nel XVI e XVII secolo cristiano interessano lo ius re/ormandi della Chiesa cristiana; esse riguardano controversie teologiche interne, perfino cristologiche interne. Il Leviatano di Thomas Hobbes è il frutto di un periodo in modo specifico teologico-politico. A ciò seguì un'epoca di ius revolutionis e di secolarizzazione totale. La frase di Hegel secondo cui è "da considerare una follia dei tempi più recenti" l'aver fatto una rivoluzione senza una riforma e il pensare che possa trovare in sé requie e armonia una costituzione dello Stato contrapposta alla vecchia religione e alla sua sacralità (Enciclopedia,§ 552) deve essere intesa come un'asserzione teologico-politica, e la teologia della Storia di Gioacchino da Fiore è un'interpretazione teologicopolitica del dogma della Trinità» (C. Schmitt, Teologia politica II, cit., pp. 72-75). Le tre proposizioni conclusive di Peterson -la dottrina della monarchia divina fallisce di fronte al dogma trinitario; in tal modo è liquidato teologicamente il monoteismo come problema politico; soltanto sul terreno del giudaismo e del paganesimo può esistere qualcosa coma la teologia politica - sono proposizioni, tutte e tre, che parlano il linguaggio della teologia. Non parlano il linguaggio della politica, pur essendo proposizioni eminentemente politiche. «Una teologia che si distacca risolutamente dalla politica, come fa a liquidare teologicamente una grandezza politica o una pretesa politica? Se il teologico e il politico sono due ambiti oggettivamente separati- toto coelo

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diversi-, allora una questione politica può essere liquidata solo politicamente» (ivi, p. 86). Liquidazione, dice Schmitt, non è un termine teologico. È semmai un termine politico. Allora si dovrebbe dire non che è liquidato teologicamente il monoteismo come problema politico. Si dovrebbe dire che è liquidato politicamente il monoteismo come problema teologico. «Un conflitto è sempre una disputa di organizzazioni e istituzioni nel senso di ordinamenti concreti, una disputa di istanze e non di sostanze. Le sostanze devono prima aver trovato una/orma, devono essersi in qualche modo formate, prima di potersi contrapporre l'un l'altra come soggetti capaci di disputa, come parties belligérantes». Le due parti conflittuali, per non cadere nelle guerre civili, devono concordare fra di loro su una reciproca determinazione, sia essa spaziale, cuius regio eius religio, sia essa giuridica, lo ius publicum europaeum. «La dottrina agostiniana dei due diversi regni si troverà fino al Giorno del Giudizio sempre di nuovo davanti a questo doppio punto della domanda che resta aperta: Quis iudicabit? Quis interpretabitur? Chi decide in concreto per l'uomo che agisce nell'autonomia creaturale la questione di che cosa è spirituale e cosa temporale e come si regola nelle res mixtae, che ormai nell' interim tra la venuta e il ritorno del Signore formano tutta quanta l'esistenza terrena di questa doppia essenza spirituale e temporale che è l'uomo? È la grande domanda di Thomas Hobbes». La Teologia politica del1922, a questo doppio punto della domanda, rispondeva con la teoria del decisionismo e dell'autonomia dell'esecuzione: «È, come si vede, la questione della legittimazione della Riforma e della Rivoluzione, dello ius re/ormandi e quindi, nello stadio seguente, la questione strutturalmente diversa dello ius revolutionis» (ivi, pp. 86-88).

Il concetto di teologia politica è stato introdotto nella letteratura nel1922, ma la teologia cristiana esiste nella Storia dall'avvento dell'eone cristiano. Spicca il volo nell'incontro/scontro tra irruzione ed espansione del cristianesimo da una parte e decadenza e crisi dell'Impero Romano dall'altra. Da allora, il suo dispositivo teorico entra in gioco quando il conflitto sale a grandezze epocali. Non è il monoteismo che verifica il dispositivo, come non è il trinitarisma che lo falsifica. Non è al solo livello teorico che si inscrive la sua esistenza e sussistenza. _È piuttosto il grado di inte ità_delp.olitico che iusÙfica la necessità del teologico. Ci vuole la compresenza di due forti sovramta, ìdue blocchi di potenza, d1 ue 1verse e opposte concezioni delrnondo e della vita, animate dal criterio dell'amico-nemico. La teologia politica non poteva entrare nella letteratura, cioè arrivare a coscienza, o ad autocoscienza, che nel grande Novecento, nell'età delle guerre civili europee e mondiali. Quando la Storia scende di livello, quando le alternative antagoniste si spengono, la teologia politica non ha più ragione di esistere. Allora emerge non l'impossibilità teologica, ma l'impraticabilità politica della teologia politica. ' quant:OaCcade oggi. La rivisitazione storica clelia disputa sul concetto di teologia politica serve, certo, per conoscere una stagione di vero pensiero, ma serve soprattutto per utilizzare quell'apparato teorico-storico ad altri fini. I suoi sviluppi novecenteschi post-schmittiani ci aiutano ad affrontare i termini dell'attuale crisi della politica moderna. Ci aprono alla riflessione su quel pianeta sconosciuto che è la dimensione antropologica del pensare e dell'agire politico. Per questa via, ci indirizzano a rimettere in gioco un concetto su cui nessuno più oggi spende il pensiero, perché ritenuto ac-

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quisito una volta per tutte dentro le regole democratiche delle istituzioni occidentali. Parlo dell'idea di libertà generalmente umana. Essa può trovare le sue radici in tanti luoghi. Qui se ne assume nascostamente uno: quel giovane Marx che, mettendo sotto critica la condizione di alienazione, dal lavoratore operaio in fabbrica all'essere umano in società, esalta con metodo economico-filosofico la necessità storica di un processo di liberazione. Quella che stiamo facendo qui è una sorta di Per la critica della teologia politica sul modello della marxiana Per la critica dell'economia politica. Per concludere questa parte, occorre tin'avvertenza di metodo, con le parole dello stesso Schmitt: «La teologia politica è un ambito estremamente polimorfo; inoltre essa ha due diversi aspetti, uno teologico e uno politico, ciascuno si orienta verso i suoi specifici concetti. Ciò è dato già con il vincolo lessicale del termine. Ci sono molte teologie politiche, poiché da un lato ci sono diverse e numerose religioni, e dall'altro numerose specie e metodi diversi di politica. In un campo così duplice e bipolare, una discussione oggettiva è possibile solo quando le asserzioni sono univoche e le domande come le risposte sono chiaramente precisate» (Teologia politica II, cit., p. 41).

Walter Benjamin. Frammento teologico-politico'':

Un testo giovanile, datato forse 1920-1921, anche se, per un equivoco, all'inizio postdatato, perché fu letto per la prima volta ai coniugi Adorno, a Sanremo, alla fine del1937 o agli inizi del1938, e quindi considerato coevo alla stesura delle Tesi sulla Storia. Inoltre, il ~ontenuto sui temi del messianismo sembrava accennare a quella fase del suo pensiero. In realtà l'occasione fu la lettura del Geist der Utopie, che Bloch aveva composto durante la Grande Guerra, tra il1915 e il1917, e pubblicato nel1918. Di questo testo l'autore dirà, in un'intervista del 1974: «Scritto contro la Prussia, contro l'Austria, indulgente con l'Intesa, relativamente indulgente, ma violentemente polemico contro il contesto capitalistico e imperialistico» (si veda, in apertura, la traduzione italiana di Nuova Italia, eseguita sulla seconda edizione del 1923).

,., Theologisch-politisches Fragment, in Gesammelte Schrz/ten , Suhrkamp, Francoforte sul M., 1974-1989, II, pp. 203-204; trad. it. Frammento teologico-politico, in Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, Einaudi, Torino, 1982, pp. 171-172; inSulconcetto diStorta, Einaudi, Torino, 1997, pp. 254-255; in Scritti politici, Editori Internazionali Riuniti, Roma, 2011, pp. 67-69). 28

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Benjamin aveva conosciuto Bloch nel1919, a Berna, e aveva avuto con lui lunghe conversazioni. Il suo interesse per i problemi della politica nasce da questo incontro. Di quel libro aveva scritto una critica, non pubblicata e andata perduta. Ma ebbe modo di dire che «dieci volte migliore del suo libro è l'autore». Non gli piaceva la forma espressionista del pensiero e dello stile del Bloch di quel periodo. Forma ancora più presente in un altro grande libro, Thomas Muntzer als Theologe der Revolittion, del1921, che nell'intenzione di Bloch doveva rappresentare lo sviluppo della parte finale di Karl Marx, der Tod und die Apokalypse. Voglio dare un esempio, a uso dei giovani scrittori, di questo stile di scrittura, che, secondo Stefano Zecchi, autore dell'Introduzione all'edizione italiana, «si innesta nel ceppo linguistico della mistica tedesca di tradizione eckhartiana». Zecchi riporta opportunamente quello che Bloch diceva del linguaggio di Hegel: «Spezza la grammatica usuale solo perché esso deve esprimere l'inaudito, per il quale la grammatica finora non offre alcun appiglio [ .. . ].La sintassi della parola viene infranta là dove non appare adeguata all'unica sintassi che può fornire regole alla filosofia: la sintassi logico-dialettica». Il Thomas Muntzer si conclude con queste parole: «Alto sopra le macerie e le infrante sfere della civiltà di questo mondo splende lo spirito della non sradica bile utopia: nella dimora dell'assoluta manifestazione-del-noi. Si uniscono così finalmente marxismo e sogno dell'incondizionato nello stesso percorso e nello stesso progetto di spedizione; in quanto forza del viaggio e termine di ogni luogo in cui l'uomo era un essere oppresso, disprezzato, di-

sperso; in quanto ricostruzione del pianeta Terra e appello, creazione, conquista con la forza del Regno: Miintzer, con tutti i chiliasti rimane la voce che chiama a questo tempestoso pellegrinaggio. E non soltanto una nuova vita comincia nella vecchia realtà: aperta è diventata ogni esuberanza, aperto è il mondo e l'eternità[ ...]. Ne abbiamo avuto abbastanza di storia del mondo [ ... ]. Si dilegua l'angusto sfondo della scena storica, della scena politica, della scena civile, penetra invece la luce dell'anima [ .. . ], E inarrestabile la nostra strada della decisione procede di là, fino a quella segreta immagine di senso, verso la quale fin dal principio dei tempi si muove l'oscura, inquieta, pesante terra» (E. Bloch, Thomas Muntzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 201-202) . Chiliasmo, millenarismo, apocalittica messianica, voci provenienti dalla tradizione mistica tedesca, appunto, eckhartiana: Benjamin ha la fortuna di incontrarle giovanissimo sul sùo cammino. Spirito dell'utopia si apre con le parole: «lo sono. Noi siamo». Il Thomas Muntzer, invece, con le parole: «Noi vogliamo essere sempre soltanto con noi». È una rivendicazione della libertà dello spirito contro l'oggettività materiale che ci domina, che ci opprime. Benjamin parte da qui. Poi riprenderà i temi del messianismo alla fine degli anni Trenta, in un altro passaggio apocalittico. Ma in quel periodo iniziale- 1919-1920 -legge Sullo spirituale nell'arte di Kandinskij, scopre quelle necessità interiori del linguaggio che ritroverà nel suo Klee. Non lo convince la cristologia rivoluzionaria biochiana, ma quando ritornerà sul messianico, lo farà sulla base della sua adesione, più che al marxismo, al comumsmo.

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Un precedente immediato del Frammento teologico-politico è Zur Kritik der Gewalt, scritto tra ill920 e il1921, e nel1921 pubblicato nell'Archiv /ur Sozialwissenschaft und Sozialpolitik. Ora, si sa, Gewalt è 'violenza', ma è anche 'potere', 'dominio', 'forza'. Forza che, attraverso la violenza, si fa potere e potere che, attraverso il diritto, si giustifica come dominio. Dietro c'è la lettura di Bakunin, di Stammler, di Sorel. Soprattutto di Sorel. Benjamin affronta la teologia politica dal lato opposto rispetto a Schmitt: invece che dall' alw, potremmo dire che la prende dal basso. Come farà poi Taubes. Tipica, idealtipica è la distinzione benjaminiana tra violenza miti ca e violenza divina. È la stessa distinzione che corre tra diritto e giustizia e tra destino e carattere. Schicksal und Charakter è un altro breve scritto di questo periodo. «Se la violenza mitica pone il diritto, la violenza divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue» (si veda Per la critica della violenza, in W.B., Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1976, p. 25). C'è un arco che porta da qui - attraverso gli studi sul Trauerspiel e soprattutto attraverso il lungo lavoro intorno al Passagenwerk- alle Tesi politiche sulla Storia. Analizziamo questo Frammento teologico-politico: niente di più che una paginetta, concentrata, intensa, fulminea, coma la violenza divina. «La novità delle novità» lo definiva, mentre lo leggeva a Adorno, inducendolo in errore, come se lo avesse scritto allora, 32

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tra il193 7 e il1938 (rimando alla nota dei curatori nell'edizione. italiana in Sul concetto di Storia, cit., p. 203) . La teologia politica, ancor prima dell'uscita di Teologia politica I, era tornata al centro non solo della filosofia, ma della storia del tempo. E quale tempo! Anzi, quale epoca! Si è discusso molto, e si è anche fatta un po' di ironia, su quel trattino fra «teologico» e «politico»: separa e/o unifica? A tal proposito, si veda Teologia e politica. Walter Benjamin e un paradigma del moderno (a cura di M. Porzi e B. Witte, Aragno, Torino, 2006), dove il tema è abbastanza approfondito. lo penso che il trattino separi e unifichi nello stesso tempo. teologico e il politico si incontrano sul terreno dell'accadimento storico, quando il momen- 1 to della contingenza prende la forma dello stato d' ec- " cezione, e allora la necessità della decisione, la ne- \ cessità oggettiva di una sovranità soggettiva sale in primo piano. Allo stato normale, si separano. Così, \ invece, il teologico e il politico entrano, nello stesso tempo, ognuno per conto suo, in crisi. Oggi, in uno stato normale, non c'è solo una crisi ddl;politica, c'è anche una crisi dellateOiogia. ilicongiungerle è il compito messianico attuale. e il tempo storico non riprende il tnpo-m~s-si.anicG,-tl.Ofl­ c~èsperanza c e si esca dalla crisi della politica. ··Ma entriamo nel testo, leggiamo o insieme. E componiamolo con altri testi benjaminiani. Utilizziamo la tr~duzione che si trova in Sul concetto di Storia, dove troviamo anche le Tesi. Inizia così: «Solo il Messia stesso compie tutto l'accadere storico e precisamente nel senso che egli soltanto redime» (p. 254). La relazione tra l'accadere storico e il messianico non può essere posta dall' accadere storico stesso. Ma non può essere posta

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nemmeno da un regno di Dio indicato come «telos della dynamis storica». Un ordine del profano costruito guardando come meta il regno di Dio significherebbe dare alla teocrazia un senso politico, in/ vece che «unicamente un senso religioso». «Aver negato con la massima intensità il significato politiJ co della teocrazia è il più grande merito del Geist der Utopie di Bloch» (p. 255). È necessario un chiarimento di questo difficile passo. Direi meglio, un'interpretazione soggettiva è possibile trovarla nell'importante Tesi VI, riguardo al concetto di Storia: «Il Messia, infatti, viene non solo come il redentore, ma anche come colui che sconfigge l'Anticristo» (Sul concetto di Storia, cit., p. 27). Prendiamo l'accadere storico come l'accaduto, come passato storico. Ci torneremo. Qui non si tratta di coglierlo così come è stato: si tratta di trattenere l'immagine del passato, impossessandosi del ricordo «come balena in un attimo di pericolo». Il pericolo, che è quello di «prestarsi ad essere strumento della classe dominante», minaccia l'esistenza della tradizione e, di conseguenza, i suoi destinatari. «In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla». «La scintilla della speranza» sta solo in quel passato storico, «compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere» (ivi, p . 27). Il Messia è colui che nel combattimento escatologico sconfigge l'Anticristo. L'uso rivoluzionario del passato storico è l'arma decisiva di questa lotta. Il messianico compie l'accadere storico, introducendo nella storia vincente delle classi dominanti la scintilla della speranza, patrimonio delle classi oppresse. Il

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messianico è lotta. Essenziale è che il regno di Dio non sia, «dal punto di vista storico», das Zie!, la meta, bensì das Ende, la fine. Non il kratos ma illogos, dopo il the6s. Teologia, non teocrazia. Si legga il frammento Mondo e tempo, anch'esso immediatamente legato alla lettura di Bloch, datato quindi 1919-1920: «Il problema del cattolicesimo è quello della (falsa, terrena) teocrazia. L'assioma qui è: l'autentico potere divino può manifestarsi in modalità · diversa da quella distruttiva soltanto nel mondo a venire del compimento. Là dove invece il potere divino entra nel mondo terreno, questo respira distruzione. Perciò in questo mondo non si deve fondare nulla di durevole e nessun assetto, per non dire poi del dominio come suo principio supremo» (ivi, p. 282). «La mia definizione di politica: il compimento dell'umano non intensificato»: non potenziato, non durevole, senza volontà di potenza(?), senza dominio (!) (ivi, p. 283). Può darsi che questa lettura sia arbitraria. Se lo è, non ce ne importa più di tanto. Leggiamo il teologico-politico del Fragment alla luce delle Thesen sulla Storia, perché così si deve e soprattutto perché così ci serve. Tra i primi anni Venti e gli ultimi anni Trenta sono accadute molte cose. Siamo nell'età delle guerre civili europee e mondiali. E il politico si carica di intensità, come accade nello stato d'eccezione. Il tragico invade la Storia: non l'abbassa, la solleva. Benjamin è arrivato da Bloch a Marx: cammino perfetto. Bloch senza Marx non funziona, come non funziona Marx senza Lenin. La dialettica del compimento ha le sue leggi. Bisogna meritarsele per scoprirle. Il percorso di Benjamin è dal ( teologico al politico attraverso il messianico: pe~cor­ so originalissimo, che ne fa tuttora un autore d1 culto per le giovani mentalità antagoniste. I nomi che qui 35

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chiamiamo in campo - Schmitt, Benjamin, Taubes hanno questo in comune: sono pensatori del tempo, del proprio tempo. Pensatori forti in questo senso, che stanno col pensiero dentro la Storia; e non la storia delle dottrine, delle discipline, ma la Storia degli eventi e dei conflitti. Solo chi apprende col pensiero il proprio tempo è pensato re /iir ewig. Dal Fragment alle Thesen il pensiero politico di Benjamin si radicalizza: nulla meglio del dialogo con Scholem documenta questo sviluppo. Scholem certifica proprio quello che vede in Benjamin: non è il metafisica che si traveste di politico, il teologo che si maschera da ) materialista storico; è il passaggio da un campo all'altro, gettata la persona viva nella Storia in atto, che ne fa, tra l'altro, anche un interprete della teologia politica novecentesca. l Possiamo riprendere allora la lettura/commento del Frammento teologico-politico, dal secondo capoverso, che solo apparentemente cambia discorso: «L'ordine del profano deve essere edificato guardando all'idea di felicità» (p. 255). La relazione tra l'ordine profano e il messianico, il rapporto tra il Messia e l'accadere degli eventi, è elemento essenziale di una / filosofia della Storia. Se leggiamo hegelianamente la filosofia della Storia come fenomenologia dello spi/ rito, se ne deduce una relazione, conflittuale, tra or/ dine del profano e disordine messianico. Il Messia, portando la redenzione degli oppressi, disordina l'ordine degli oppressori. «L'intensità messianica>~foP­ -damen-taleconcetto benjaiJ;~~!lQ, ha co_m_~ ~cop_9 «la_ ricerca di felicità deH'umanità libera». Disordinando, --diCiamo nelpostro- linguaggio, ìl .rapporto- difo;a ~ra l'alto e il basso, tra il sopra e il sotto, tra dominant1 e dominati, dall'ìnterno dello stesso ordine profano diventa possibile «promuovere l'avvento del re-

gno messianico». Il profano allora «non è certo una categoria del regno, ma una categoria- e certamente una delle più pertinenti - del suo più silenzioso approssimarsi». Nella felicità dell'umanità libera, «tutto ciò che è terreno aspira al suo tramonto» e in quella felicità è destinato a trovarlo. «Mentre certo l'immediata intensità messianica del cuore, del singolo uomo interiore, procede nel senso dell'infelicità, nel senso del soffrire». Vediamo come Benjamin parla qui con il linguaggio concettuale dello Hegel della Fenomenologia (Sul concetto di Storia, cit., p. 255). Nella fase sua più matura, questo linguaggio va corretto con la lingua del materialismo storico. Tesi XVIIa: «Nell'idea della società senza classi, Marx ha secolarizzato l'idea del tempo messianico. Ed era giusto così» (ivi, p. 53). La sciagura successiva, ancora · più che presente, fu l'elevazione a «ideale» (zum Idea!) di questa idea, la sua definizione come kantiano unendliche Aufgabe, come «compito infinito». Il «tempo omogeneo e vuoto» divenne un'anticamera di attesa di una futura situazione rivoluzionaria. Ma «non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria» (ivi, p. 55). In ogni secondo va colta e attraversata