Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger : Chiesa, modernità e diritti dell’uomo 9788858104415, 8858104412

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Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger : Chiesa, modernità e diritti dell’uomo
 9788858104415, 8858104412

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Quadrante Laterza 189

Vincenzo Ferrone

Lo strano Illuminismo di Joseph Ratzinger Chiesa, modernità e diritti dell’uomo

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione febbraio 2013 2

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Edizione 6 7

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0441-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Prefazione

Appositamente argomentato come un polemico pamphlet, questo piccolo libro1 vuole denunciare l’uso disinvolto della storia da parte delle gerarchie vaticane quando si tratta di fare i conti con la modernità, i diritti dell’uomo e il cosiddetto post-moderno. Un uso, condotto a fini strategici e di grande ambizione politico-culturale sul futuro della Chiesa, che, in taluni casi, sconfina sempre più nell’abuso mistificatorio. Tutto ciò in un momento politico cruciale per l’umanità: un momento in cui la storia, a fronte della crisi di scienze umane e sociali come l’economia e la sociologia, sta tornando finalmente a essere una risorsa importante per la conoscenza della realtà, per il dibattito pubblico e i suoi processi di formazione. Com’è noto, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso la

1   Una prima versione del testo, qui aggiornata e corretta, è stata presentata e discussa, anche con toni talvolta aspri e polemici, il 6 febbraio 2004 in un apposito seminario organizzato dalla Fondazione Michele Pellegrino presso l’Università di Torino. Vi parteciparono molti studiosi, personalmente o con l’invio di commenti, tra cui Paolo Prodi, Antonio Padoa-Schioppa, Luciano Guerci, Silvio Ferrari, Giovanni Miccoli, Giovanni Conso, Oreste Aime, Giorgio Bouchard, Corrado Vivanti, Ermis Segatti, Massimo Firpo, Antonio Rotondò, Gustavo Zagrebelsky, Roberto Repole, Claudio Ciancio, Leopoldo Elia, Franco Bolgiani, Edoardo Tortarolo, Daniele Menozzi, Antonio Trampus, Mario Dogliani, Pietro Scoppola, Francesco Traniello e altri ancora. Gli atti complessivi del seminario, con i commenti dei partecipanti, furono poi raccolti dalla Fondazione Michele Pellegrino nel volume Chiesa cattolica e modernità, a cura di F. Bolgiani, V. Ferrone e F. Margiotta Broglio, Bologna 2004.

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vexata quaestio del post-moderno – che era stata precedentemente dibattuta nel Nord America soprattutto in campo artistico e letterario – è divenuta oggetto specifico di riflessione filosofica e storica in ogni angolo d’Europa. Tutto ha avuto inizio in Francia nel 1979, con La condition postmoderne di Jean-François Lyotard. In quelle pagine si teorizzava l’avvento di una svolta epocale dei saperi nelle società più sviluppate: la crisi e il superamento definitivo della «narrazione dei Lumi», delle filosofie emancipatorie dominate dall’idea di progresso di matrice positivistica, idealistica e marxista, con la conseguente liquidazione delle antiche forme di legittimazione dei vincoli sociali2. Il contributo italiano più significativo al dibattito apparve nel 1985, con la pubblicazione del volume di Gianni Vattimo La fine della modernità. L’obiettivo dichiarato era quello di arruolare Nietzsche e Heidegger tra i profeti del nuovo culto postmoderno: il già formidabile arsenale a disposizione era arricchito di riferimenti al definitivo superamento dell’Io e alla denuncia degli effetti perversi della scienza e della tecnica nei processi di disumanizzazione e nelle moderne logiche di dominio. Da teorico del “pensiero debole”, Vattimo invitava a ripensare la verità come esperienza sociale, estetica e retorica e non più razionale e scientifica. Questo, soprattutto, significava fare finalmente i conti con la «fine della storia». Il segno autentico della nuova età post-moderna stava proprio lì, nella definitiva presa di coscienza che la storia, intesa come processo unitario, progressivo, capace di legittimare una possibile e concreta lettura del mondo, era definitivamente evaporata. Esplicito era in tal senso il richiamo di Vattimo ad Arnold Gehlen che, nei suoi lavori sulla post-histoire, rivendicava il superamento della nozione di storicità alla base di tutta la costruzione della modernità3. Quel secolare modo di concepire la realtà pareva infatti come   Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1981.   Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura postmoderna, Milano 1985. Sulla polemica in Italia cfr. C.A. Viano, Va’ pensiero: il carattere della filosofia italiana contemporanea, Torino 1985; e soprattutto le acute considerazioni di P. Rossi, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Bologna 1989, in particolare laddove sinteticamente, ma con efficacia, afferma che «il pensiero debole è in realtà solo una sottospecie dell’antiilluminismo forte» (p. 23). 2 3

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scomparso d’incanto di fronte alla sostanziale stasi delle nuove società virtuali, in cui dominavano le comunicazioni di massa e la potenza delle tecnologie. E tuttavia il paese in cui con maggiore serietà, profondità e passione civile furono dibattute le ragioni e le conseguenze del postmoderno fu certamente la Germania. Ne furono protagonisti teologi, artisti, letterati come Günter Grass – autore, nel 1984, di una serie di conferenze sul tema in cui erano acriticamente rilanciate le tesi della Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer; il titolo era quanto mai significativo: Miserie dell’Illuminismo4. Jürgen Habermas fu innegabilmente tra quanti s’impegnarono di più in quello spinoso e difficile confronto che avrebbe potuto rimettere in discussione il modo stesso in cui la Germania stava facendo i conti con il suo passato. Lo fece a partire dal 1980, ammettendo con sincera inquietudine che «da allora questo tema, assai discusso e ricco di sfaccettature, non mi ha più dato pace»5. E in effetti la posta in gioco era quanto mai alta e avrebbe condizionato a lungo tutta l’opinione pubblica internazionale. Sostenitore della tesi della modernità come «progetto incompiuto» e semmai da completare esplorando ulteriormente limiti e potenzialità della ragione e dell’agire comunicativo, Habermas tentò vanamente di limitare gli effetti corrosivi prodotti dal libro celeberrimo di Adorno e Horkheimer, i quali – mescolando arbitrariamente storia e filosofia – avevano segnalato una fragorosa e insospettabile paternità illuministica nella nascita dei totalitarismi e nelle terribili tragedie del Novecento; lo fece ricostruendo autore dopo autore tutto il discorso filosofico della modernità, mettendo in guardia da coloro che nascondevano la «complicità con una veneranda tradizione del contro-illuminismo, spacciandola per post-illuminismo»6. Un compito di denuncia, questo, oltremodo difficile, arduo da comunicare alle orecchie sorde di molti 4   Cfr. G. Grass, Der Traum der Vernunft. Rede zur Eröffnung der Veranstaltungsreihe «Vom Elend der Aufklärung» in der Akademie der Künste Berlin, in Essays und Reden 1980-2007, Göttinger Ausgabe, Göttingen 2007, vol. 12, pp. 120-125. 5   J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari 20032, p. vii. 6   Ivi, p. 5. Su questi temi cfr. S. Petrucciani, L’Illuminismo “autocritico” di Jürgen Habermas, in «Hermeneutica», 2010, pp. 47-66.

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laici e progressisti che non avevano mai amato l’Illuminismo, e certamente del tutto vano nel caso del mondo cattolico. Il clamoroso successo mediatico di quelle pagine e più in generale della querelle sul post-moderno che anche ad esse – ma non solo ad esse – si ispiravano è infatti stato colto dal mondo cattolico come un via libera a un’insperata opera di aggiornamento di antiche, rabbiose polemiche contro i Lumi, rimesse a nuovo con il ricorso continuo e ossessivo alle raffinate argomentazioni postmoderniste e alle pagine più controverse e discutibili di Adorno e di Horkheimer. Non c’è ormai un solo parroco di campagna mediamente colto o uno studente universitario cattolico, per quanto sprovveduto, che non sappia far tesoro di apologia delle tesi della scuola di Francoforte, attingendo ai francofortesi per inchiodare il povero Voltaire – per non parlare di Rousseau – alle sue responsabilità nella Shoah e nei totalitarismi più sanguinari. Ma il frutto più succoso e seducente in questa direzione, per via della sua sottile ed elegante struttura intellettuale, era maturato sin dal 1980 con un puntuale intervento dell’allora cardinale Joseph Ratzinger. Si trattava niente meno che di una proposta di teologizzazione dell’Illuminismo il cui fine era di impedirne la fatale degenerazione totalitaria. Sulla base di una franca ed entusiastica condivisione delle analisi di Adorno e Horkheimer circa l’inevitabile tralignamento totalitario della ragione illuministica allorché essa si trasforma in autonoma ragione «positiva del pensiero funzionale», l’attuale pontefice candidava la Chiesa del nuovo millennio postmoderno, forte del suo rinnovamento teologico, a trovare un’inedita missione salvifica sospendendo «nella dialettica dell’Illuminismo [...] le condizioni dell’Illuminismo»7, salvandone la prima fase dialettica, quella emancipatoria settecentesca, e condannandone le derive posteriori. In tal modo la Chiesa non solo si proclamava di fatto erede legittima di quella prima fase, ma si attribuiva il compito di evitare il dialettico capovolgimento del progresso della ragione in quel terrifico futuro post-moderno già annunciato dal totalitarismo del secolo scorso e che appariva inevitabile qualora si fosse continuato a voler escludere Dio dalla storia.

7   Cfr. il saggio Teologia e politica della Chiesa in J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica. Nuovi saggi di ecclesiologia, Milano 1987, p. 154.

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È in questo contesto teorico, innegabilmente suggestivo, che ha preso corpo l’inattesa campagna filosofica e storiografica volta a cristianizzare l’ingombrante Illuminismo dei diritti dell’uomo: quello della sacrosanta battaglia per la libertà religiosa, la tolleranza e la neutralità dello Stato, tanto odiato e combattuto invece in passato da generazioni di papi, vescovi e frati come un’evidente opera del demonio. Dimenticando con disinvoltura il rilievo che ebbero per l’Illuminismo la tradizione classica, le grandi opere pagane della letteratura greca e latina, la scoperta del Nuovo Mondo, la Rivoluzione scientifica, Ratzinger non ha mai mostrato alcuna esitazione nel rivendicare l’esistenza di improbabili radici cristiane dei Lumi, tacendo di questi ultimi l’autentica dimensione di autonomia e di forte discontinuità, che storicamente ne fece una vera e propria rivoluzione culturale rispetto all’identità moderna dell’Europa: «L’Illuminismo è di origine cristiana – così sintetizza una perentoria affermazione del 2005 – ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana»8. Persino il cardinale Camillo Ruini, che pure la storia, quella vera, la conosce assai bene, ha dovuto seguire l’impegnativa linea teologico-politica imposta dal nuovo pontefice, annunziando gaudio magno una paradossale santificazione di Voltaire: «È pertanto merito dell’Illuminismo aver riproposto, per lo più in polemica con la Chiesa, quei valori di razionalità e libertà che trovano alimento nella fede cristiana»9. Come stupirsi allora del crescente sviluppo e del successo di una storiografia internazionale – soprattutto americana, più recentemente10, ma già prima tedesca, 8   J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture, in «Il Regno-documenti», 9, 2005, p. 218. 9   Prefazione di Ruini a J. Ratzinger Benedetto XVI, Fede, ragione, verità e amore. La teologia di Joseph Ratzinger. Un’antologia, a cura di U. Casale, Torino 2009, p. 6. Il curatore dell’imponente e meritevole antologia, don Casale, non esita nel risvolto di copertina ad affermare che «Ratzinger ha proposto un illuminismo sinonimo di intelligenza e di ricerca della verità, espressione dell’uomo che, grazie alla conoscenza della verità di cui è capace, acquisisce sia la propria dignità “trascendente”, sia il proprio potere critico e demistificatore, entrambi sinonimi di libertà». 10   Cfr., ad esempio, D. Sorkin, The Religious Enlightenment. Protestants, Jews, and Catholics from London to Vienna, Princeton 2008. Sull’Illuminismo cattolico v. anche il recente A Companion to the Catholic Enlightenment in

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francese e italiana – decisa ad esplorare e a imporre lo studio della katholische Aufklärung nelle università del mondo intero? È forse inutile sottolineare quanto questo archetipo astrattamente filosofico, degno della migliore tradizione della teologia politica agostiniana impastata sapientemente con la teoria hegeliana del “superamento” – che ricorre in molti degli interventi successivi del teologo Ratzinger sino ai giorni nostri, dando forza e sostanza teorica anche a importanti documenti ufficiali della Chiesa11 –, stia creando non pochi problemi nella ricerca della verità storica, costretta quasi sempre a piegarsi alle forti torsioni teologiche indicate dalle gerarchie. Nel saggio che segue – come pure altrove, forse con maggiore agio di analisi12 – abbiamo cercato di spiegare che quell’inattesa teologizzazione dei Lumi e più in generale lo sforzo di cristianizzare in qualche modo la modernità non sono stati affatto una brillante trovata da liquidare con un sorriso, come è stato fatto sino ad oggi,

Europe, a cura di U.L. Lehner e M. Printy, Leiden-Boston 2010. Com’è noto, nella Germania cattolica l’Illuminismo è stato rivalutato solo nei primi decenni del Novecento ad opera dello storico della Chiesa Sebastian Merkle, nel saggio Die katholische Beurteilung der Aufklärungszeitalters, del 1911, ora in Id., Ausgewählte Reden und Aufsätze, Würzburg 1965. 11   Cfr. ad esempio l’enciclica Spe salvi, dove forte è l’influenza delle idee di Guardini e ricorrenti sono i suoi espliciti riferimenti a Bacone, ad Adorno e all’Illuminismo. Sempre all’Illuminismo e ai diritti dell’uomo sono dedicate pagine significative che denunciano inopinatamente il «concetto anarchico di libertà» del povero Rousseau, accusato di aver portato la Rivoluzione francese a diventare «inevitabilmente una dittatura sanguinaria», stigmatizzando le sue gravi responsabilità nell’aver trasformato – attraverso la «radicalizzazione della tendenza individualistica dell’illuminismo» – l’aborto in un diritto di libertà delle donne (cfr. J. Ratzinger, Libertà e verità, in Id., Fede, ragione cit., pp. 537 e sgg.). Inutile dire che ogni riferimento alla verità storica è puramente casuale. Rousseau, oltre a essere un fervente credente, era pure contrario all’aborto. Sempre sulla «dialettica dell’età moderna» di Adorno, costantemente citata con favore neanche fosse il vangelo, cfr. ivi, La sacralità della vita umana, pp. 551 e sgg. Più in generale su questi temi, e in particolare sul continuo ricorso alle tesi di Adorno e Horkheimer e alla riflessione di H. Staudinger, Christentum und Aufklärung, in «Forum Katholische Theologie», 6, 1990, pp. 192-206, cfr. J. Ratzinger, Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Cinisello Balsamo 1992, pp. 140 e sgg. 12   Mi permetto di rinviare al capitolo Postmoderni e anti-illuministi: dal confronto tra Cassirer e Heidegger alla katholische Aufklärung di Benedetto XVI, in V. Ferrone, Lezioni illuministiche, Roma-Bari 2010, pp. 53 e sgg.

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bensì qualcosa di molto serio e preoccupante, un vero e proprio progetto politico e culturale di restaurazione di un’idea egemonica della cristianità. Un progetto finemente argomentato, dotato di radici forti e profonde, guidato dalla necessità di proiettare la Chiesa nel nuovo millennio con una rinnovata funzione storica nello spazio pubblico. Esso è stato alimentato dalle considerazioni della Nouvelle théologie in merito a quella che era una improcrastinabile “svolta antropologica” dopo gli orrori e gli errori del totalitarismo; a orientarlo, le amare riflessioni di settori del cristianesimo liberale circa le insufficienze della Chiesa nei confronti dell’Olocausto, come pure le opere pionieristiche e profetiche del teologo Romano Guardini, assai presenti nei dibattiti del Vaticano II. Sin dal 1951 (quindi molto prima che si mettessero all’opera le chiassose e fumose falangi filosofiche post-moderne con cui siamo costretti a discorrere) Guardini aveva pubblicato a Würzburg un volume dal titolo quanto mai significativo, La fine dell’epoca moderna, denso di toni apocalittici e di argomentazioni simili a quelle dei francofortesi e di quanti, tra i seguaci di Heidegger, scorgevano la corrusca alba di una nuova angosciosa epoca – ancora peraltro tutta da definire. Guardini fu tra i pochi a indicare chiaramente, dopo la tragedia dell’Olocausto, il presunto fallimento della modernità illuministica che aveva preteso di emancipare l’uomo attraverso l’uomo, aveva escluso il dito di Dio dalla storia e aveva finito così col liberare il campo al nazismo, alimentando la volontà di potenza disumana e tecnocratica dell’uomo del Novecento. Di fronte alla prospettiva nichilistica e post-moderna incombente, egli vide lucidamente il vuoto immenso che si stava aprendo, e con esso la possibilità e soprattutto la necessità di un pronto rientro in scena della Chiesa, armata di una consapevole e nuova cultura storica e antropologica, impegnata nello spazio pubblico a difesa della persona e forte della rivendicazione dei propri diritti nel campo della politica e della bioetica. Insomma, non stupisce affatto che le questioni poste dai protagonisti del dibattito sul post-moderno abbiano trovato facilmente orecchie sensibilissime da parte delle gerarchie vaticane, e in particolare da un fedele allievo di Guardini come Ratzinger, rivelatosi da subito particolarmente abile nel capovolgere, ad maiorem Dei gloriam, molti dei temi allora dibattuti. E tuttavia, nell’immediato secondo dopoguerra, il problema non era certo il dibattito sul post-moderno ancora di là da venire, ­­­­­xi

ma semmai il bisogno di chiudere una volta per tutte, dopo la costante e furibonda demonizzazione del passato, la pratica fastidiosa della modernità, senza eccessive perdite, e con qualche credibilità in vista del rilancio cruciale della rinnovata funzione della Chiesa nello spazio pubblico: e in particolare di quella modernità dei diritti dell’uomo, della nuova scienza del Galileo processato e condannato dalla Santa Inquisizione, della democrazia, della libertà religiosa e del superamento dello Stato confessionale che era la modernità politica. È innanzitutto a questo tema specifico che è dedicato questo volume. La storia della Chiesa e del suo rapporto strumentale e incestuoso con il post-moderno, ancora tutta da scrivere, la lasciamo volentieri ad altri13. Per molto tempo si è pensato che il Vaticano II potesse finalmente aver avviato con il mondo moderno una nuova fase di sereno dialogo e di reciproco ascolto: «Una vera conciliazione tra Chiesa e modernità»14, per riprendere le parole ireniche di Ratzinger. In realtà solo ora si è cominciato a capire che quelle 13   Sul tema non sono comunque mancati interventi, ma quasi sempre sfuocati e reticenti, come il recente libro di G. Mannion, Chiesa e postmoderno. Domande per l’ecclesiologia del nostro tempo, Bologna 2009. Con toni di rimprovero, l’autore non solo non vede traccia di un disegno della Chiesa cattolica rispetto alle urgenti questioni del post-moderno, ma anzi sollecita la Chiesa a prendere finalmente posizione. Esattamente la tesi opposta alla nostra, che mira invece a denunciare l’evidente e consapevole strumentalizzazione, da parte di settori specifici delle gerarchie vaticane, proprio dell’arsenale post-moderno a fini restaurativi. Sempre su questi temi cfr. anche M. Junker-Kenny, Chiesa, modernità e postmoderno, in «Concilium», XXXV, 1999, pp. 145-154; C. Dotolo, La relazione tra teologia e post-modernità: problemi e prospettive, www.carmelodotolo. eu/relazione_teologia_postmoderno.pdf. Da notare che già nel 1996 Patrick Evrard e Pierre Gisel, nella loro Présentation a La théologie en postmodernité (Actes du 3e cycle de théologie systématique des Facultés de théologie de Suisse romande, Genève, Labor et Fides, 7-10, 9), scrivono di quattro “filoni” della teologia post-moderna, di cui quello «restaurateur» sarebbe rappresentato da Peter Koslowski e Robert Spaemann, al quale si riallaccerebbe l’allora cardinale Ratzinger «faisant fond sur la “fin des temps modernes” annoncée par Romano Guardini». Da segnalare anche F.-X. Kaufmann, La Chiesa cattolica e le sfide della postmodernità, in Il fenomeno religioso oggi. Tradizione, mutamento, negazione, Città del Vaticano 2002, pp. 39-51, dove sostiene che l’ostilità di Ratzinger verso l’interpretazione della storia umana come evoluzione naturale è una battaglia di retroguardia, dal momento che la post-modernità ha decretato la fine delle ideologie totalizzanti, siano quelle razionalistiche o quelle fideistiche. 14   Cfr. J. Ratzinger, L’Europa nella crisi delle culture cit., p. 218.

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speranze erano probabilmente mal riposte e che ben altro stava inaspettatamente prendendo corpo: e cioè un vero e proprio congedo definitivo, consacrato e teologicamente sancito, dalla modernità, da parte di quel settore più conservatore dei vertici della Chiesa risultato vincitore nello scontro tra le differenti possibili interpretazioni del concilio, dopo la morte di Paolo VI. Un congedo all’insegna dell’appropriazione e dell’abuso più sfrontato: una vera e propria cristianizzazione integrale della modernità – quella positiva dei diritti dell’uomo e delle lotte emancipatorie e per la democrazia, opportunamente separata da quella negativa, senza Dio, che avrebbe favorito i totalitarismi – che ha finito con il trovare, più o meno consapevolmente, una sponda preziosa in quello che, nelle pagine che seguono, abbiamo sinteticamente definito il nuovo paradigma storiografico conciliare elaborato da autorevoli storici che si rifanno ai valori e alla cultura del cristianesimo. Va da sé che quando si parla di storiografia, di ricerche condotte nel rigoroso rispetto delle regole del gioco, e non di certi prodotti avariati di un filone neotradizionalista e clericale che qui abbiamo volutamente escluso da ogni valutazione, tutti i punti di vista sono legittimi. Spetta infatti alla comunità scientifica valutare la bontà delle prove presentate e le argomentazioni addotte da chi pensa che la tanto bistrattata modernità occidentale sia frutto naturale del cristianesimo. Si può discutere – e lo abbiamo fatto in questo pamphlet anche con forte spirito polemico – se le tesi prospettate siano valide: se davvero è possibile ricostruire la storia della libertà in Occidente mettendo in primo piano, quasi fosse un programma teologicamente pensato e storicamente realizzato, il cosiddetto dualismo dei poteri (tanto caro già alla storiografia germanica all’inizio del Novecento e oggi rilanciato con nuova enfasi da quella italiana), prospettato per la prima volta nella storia dal cristianesimo con la pericope evangelica che attribuisce a Gesù Cristo le celebri parole: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo, 22,21). Se davvero è accettabile che si rivendichi alla cultura cristiana la genesi del moderno linguaggio dei diritti dell’uomo, del costituzionalismo, dell’idea di libertà, di democrazia, della stessa scienza moderna, dimenticando che per secoli ebbero grande successo nel cuore e nella mente degli intellettuali cattolici europei le celebri parole di un grande reazionario come Louis de Bonald: «La rivoluzione è cominciata con la procla­­­­­xiii

mazione dei diritti dell’uomo e finirà soltanto con la proclamazione dei diritti di Dio» (Législation primitive, Paris 1802, p. 184). Ciò che invece non è accettabile è l’abuso di quelle tesi, ancora tutte da verificare e comunque assai discutibili, da parte dei vertici della Santa Sede nella sfera pubblica e in particolare nel delicato confronto tra religioni e civiltà differenti. L’attuale pontefice ad esempio – senza dubbio la vera testa pensante del gruppo che ha costruito in questi decenni, pezzo dopo pezzo, l’interpretazione restauratrice, e per il momento vincente, del Vaticano II15 – non ha mai esitato a contrapporre nei suoi discorsi l’Occidente dualista, in cui grazie al cristianesimo la politica è stata teologicamente separata dalla religione16, al ferreo monismo dell’Islam incarnato nel califfato; sino ad accusare recentemente quella religione di non avere solide basi razionali nel suo codice genetico17: forse perché nella sua secolare storia non ha mai conosciuto la katholische Aufklärung! Un altro esempio significativo di abuso della storia nello spazio pubblico lo si può riscontrare anche nella questione dell’inserimento di un preciso riferimento alla religione cristiana nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel 2000. A ben vedere, quella pretesa, avanzata con forza dal Vaticano, non aveva molto senso né dal punto di vista storico né da quello giuridico. Eppure ha suscitato un grande clamore e alimentato non poche confusioni. Nessuno si è mai sognato di negare il rilievo e l’importanza – positiva e negativa a seconda delle epoche, dei punti di vista e delle questioni in gioco – del cristianesimo nell’identità molteplice dell’Europa: anche il vecchio Diderot, che certo non amava i 15   Sul ruolo centrale di Ratzinger cfr. G. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, Roma-Bari 2011. 16   Contro la sostenibilità storica di questa tesi e a favore di una corretta interpretazione subordinazionista della pericope evangelica «rendete dunque a Cesare...» cfr. V. Ferrone, La “sana laicità” della Chiesa bellarminiana di Benedetto XVI tra “potestas indirecta” e “parresia”, in «Passato e Presente», XXVI, 2008, pp. 21-40. Più in generale su questi temi cfr. il fascicolo di «Contemporanea», X, 2007, dedicato al tema La laicità tra storia e tempo presente, a cura di F. Traniello e F. De Giorgi. 17   Cfr. il Discorso del Santo Padre in occasione dell’incontro con i rappresentanti della Scienza durante il viaggio apostolico a München, Altötting e Regensburg, in J. Ratzinger, Fede, ragione cit., pp. 685 e sgg.

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preti, non aveva avuto mai esitazioni al riguardo, ammettendo l’esistenza nel tempo di un’«Europe sauvage», cui era subentrata un’«Europe payenne», poi un’«Europe chrétienne» e infine quella dei Lumi, l’«Europe raisonnable». E tuttavia, rispetto al sacrosanto riconoscimento del ruolo del cristianesimo nell’identità europea, ben altra cosa era quel furibondo rivendicare un ruolo esplicito della Chiesa nella carta dei diritti, e quindi nella lotta per la libertà, la democrazia, la tolleranza: mistificando il passato, trasformando ad arte l’Inquisizione e il concilio di Trento in fulgidi esempi di modernità al servizio di efficaci pratiche di disciplinamento sociale investite di valore razionale e progressivo. Il fatto è che la Chiesa ha sempre avuto problemi con la storia, definita da Vico, nel De Constantia iurisprudentis, come la testimone del tempo («Historia autem est temporum testis»), e in particolare con la verità storica. Non a caso per secoli si è opposta alla nascita di cattedre di storia della Chiesa e del cristianesimo al di fuori dei collegi ecclesiastici, quasi avesse qualcosa da nascondere. Anche in questo caso bisognerà infatti attendere il XVIII secolo per vedere nascere i primi insegnamenti universitari in questo campo. Da quel momento in poi la guerra tra storici e teologi, avviata all’indomani degli esiti clamorosi della moderna critica filologica nel campo dell’esegesi biblica e dell’epocale separazione voluta dagli illuministi tra storia sacra e storia profana, non ha più avuto fine. Oggi i teologi paiono in vantaggio18. Essi conoscono   La pretesa di “verità” degli storici e la sua pericolosità per l’ortodossia è particolarmente presente nella riflessione di Ratzinger del natale 2005, che ne ha fatto un punto cruciale della sua reinterpretazione del Vaticano II nel suo complesso rapportarsi alla modernità. Cfr. l’importante Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla Curia Romana in J. Ratzinger, Fede, ragione cit., pp. 675 e sgg. «Innanzitutto occorreva definire – scrive Ratzinger – in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l’ultima parola nell’interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato». Più in generale, contro i fautori dell’«ermeneutica della discontinuità» era subito chiarito che «Il Concilio Vaticano II con la nuova definizione del rapporto tra la fede e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto e approfondito la sua intima natura 18

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la seconda delle Considerazioni inattuali di Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, e sanno bene quanto la storia sia importante per l’esistenza e per l’agire politico: conoscono i pericoli di un passato che non vuol passare e che sempre impone al presente l’onere della verità e si comportano di conseguenza. Sta semmai agli storici reagire. Con spirito profetico e onestà che gli va riconosciuta, Giovanni Paolo II mostrò di avere consapevolezza dell’urgenza della questione per la credibilità stessa del futuro ruolo della Chiesa nello spazio pubblico. Lo fece pubblicando in occasione del Giubileo del 2000 un’importante lettera apostolica, Tertio millennio adveniente, sulla «purificazione della memoria», in cui invitava i cattolici a compiere finalmente, in vista del nuovo millennio, «un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani». Non ebbe alcuna risposta significativa. I laici non lo presero neppure sul serio. Dai sacri palazzi si è preferito invece glissare, ignorare l’invito, arroccandosi e continuando ad abusare della storia. Certo Galileo è stato recentemente riabilitato e financo santificato, senza però mai interrogarsi sul fatto che quel processo – seppure in forme differenti – potrebbe ancora ripetersi in futuro se le questioni profonde che esso ha sempre celato non verranno coraggiosamente affrontate19. Tra mille cautele e forti reticenze, pochi coraggiosi hanno cominciato ad esplorare le responsabilità del Vaticano nei confronti dei totalitarismi e dell’Olocausto20. E tuttavia da parte delle gerarchie forti sono rimasti la tendenza e il vezzo di attribuire alla moe la sua vera identità». Sulla «sovrana noncuranza della storia che costituisce un aspetto caratteristico del magistero di Benedetto XVI» cfr. G. Miccoli, La Chiesa dell’anticoncilio cit., pp. 336 e sgg. 19   Cfr. gli atti dei convegni tenutisi a Torino e a Firenze, rispettivamente nel marzo e nel maggio 2009: Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana, a cura di G.M. Bravo e V. Ferrone, Roma 2010; Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica, a cura di M. Bucciantini, M. Camerota e F. Giudice, Firenze 2011. 20   Per un primo quadro generale dello stato della ricerca a livello internazionale cfr. gli interventi di G. Miccoli, G. Verucci, L. Mangoni, W. Schieder e L. Klinkhammer in La chiesa cattolica e il totalitarismo. Atti del Convegno presso la Fondazione L. Firpo. Torino, 25-26 ottobre 2001, a cura di V. Ferrone, Firenze 2004.

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dernità illuministica dei “senza Dio” ogni autentica responsabilità nei confronti degli orrori del Novecento. Salvo poi proclamarsi in ogni occasione eredi di quel mondo di valori, padri naturali della libertà, della democrazia e dei diritti dell’uomo, continuando però imperterriti a non voler applicare questi ultimi all’interno della Chiesa. Basti pensare al triste epilogo della tormentata vicenda dei teologi della Liberazione in America Latina, duramente repressi da Giovanni Paolo II e dall’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, Joseph Ratzinger. Forse bisognerà davvero attendere un nuovo papa, meno teologo, meno competente nella raffinata “dialettica dell’Illuminismo”, per sperare di veder finalmente rispettato per intero lo spazio valoriale dei non credenti21, la loro autonomia morale, il bisogno esistenziale, il significato profondamente umano e quindi sacro della verità storica, indispensabile anche, e soprattutto, per quei cattolici riformatori di una Chiesa «nunquam reformata, semper reformanda». Una Verità senza la quale è impossibile auspicare per il futuro quella tolleranza e quella libertà di pensiero necessarie per “camminare insieme”, credenti e non credenti, cristiani ed eredi dei valori emancipatori dell’Illuminismo, secondo l’auspicio di un grande storico e intellettuale cattolico, vescovo di Torino, mai troppo rimpianto, come il cardinale Michele Pellegrino. Questo saggio è dedicato a due amici carissimi, Paolo Rossi e Massimo Firpo. Dal primo, recentemente scomparso, ho appreso la necessità di una storiografia militante in difesa della verità; dal secondo quanto sia difficile, ma anche affascinante, il mestiere dello storico. Bonzo, Alpi Graie, dicembre 2012

21   A tal proposito cfr. V. Ferrone, La laicità, spazio di valori. Interrogativi d’un laico sulle tesi del card. K. Lehmann, in «Il Regno», L, n. 967, 2005, pp. 282 e sgg.; E. Bianchi, Per un’etica condivisa, Torino 2009.

Lo strano Illuminismo di Joseph Ratzinger Chiesa, modernità e diritti dell’uomo

1.

Il Vaticano II e la nuova storiografia conciliare

Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è creatura del Buon Dio, egli è il prezzo della Redenzione divina, è il servitore di Dio, destinato a vivere per Dio quaggiù, e con Dio in cielo. E il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio, non è che la Chiesa. Allora la Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero appartiene alla Chiesa, perché tutto intero appartiene a Dio. Non c’è dubbio su questo punto, per chi non voglia negare tutto. Pio XI, 18 settembre 1938, discorso alla delegazione della Conféderation française des syndacats

È risaputo che la Chiesa non ama presentare le sue secolari vicende in termini di discontinuità, di rotture. Le rivoluzioni, i mutamenti epocali sono fenomeni estranei alla sua cultura, intrisa di costanti appelli alla tradizione, all’immobile magistero dei Padri, alle eterne certezze del depositum fidei, alla sua simbolica autorappresentazione agostiniana quale popolo di Dio in provvisorio transito attraverso la città terrena. E tuttavia, per chi guarda dall’esterno con occhi di storico insensibile al fascino misterioso della Provvidenza, riesce veramente difficile consi­­­­­3

derare il concilio Vaticano II qualcosa di differente da una potente rivoluzione: un’autentica svolta. Una rivoluzione che, al di là delle sue molteplici e talvolta contraddittorie interpretazioni successive volte a depotenziarne gli effetti, appare destinata a influire profondamente e in positivo sui destini dell’Occidente e del mondo intero. Oggi, dopo secoli di dure e impietose condanne, di implacabili requisitorie, la Chiesa parla chiaramente e in ogni occasione ufficiale il linguaggio dei diritti dell’uomo, rivendica con orgoglio di aver ormai «allargato la sua azione di difesa dal campo della Christianitas – e della protezione dei suoi diritti e dei suoi membri – al campo della societas hominum, per tutelare i diritti di tutti gli uomini»1; discute con sincera passione di democrazia e spiega agli storici laici, ancora attardati su polverose posizioni anticlericali, la sua funzione strategica e i suoi meriti nell’aver creato gli stessi presupposti della modernità, e in particolare di quella libertà di coscienza di cui i popoli cristiani godono, ad esempio, rispetto alle nazioni islamiche. Il fatto è che risulta francamente difficile contestare o discutere queste perentorie affermazioni se non si comprendono bene le discontinuità, le ragioni profonde dell’abisso che separa i contenuti dottrinali del Sillabo di Pio IX dalla Pacem in terris di Giovanni XXIII, o si presta acritica attenzione ai risultati delle ricerche di tutta una storiografia internazionale (ormai assimilabile a una sorta di autentico paradigma storiografico conciliare) che ha accompagnato la diffusione dei messaggi fondamentali del Vaticano II. Tra i protagonisti di questo inedito modo di pensare all’identità e alla funzione della Chiesa nel nuovo millennio spicca certamente la figura del teologo e attuale papa Joseph Ratzinger. Dopo secoli di condanne e di anatemi, proprio da una figura di tale autorevolezza sono venuti interessanti segnali di un atteggiamento assai più complesso e problematico rispetto al passato verso la cultura dei Lumi e il suo progetto emancipatorio di salvezza dell’uomo attraverso l’uomo, che prescinde dall’azione della grazia e relega Dio a un ruolo lontano e distaccato di semplice osservatore. Ratzinger non ha infatti esitato a riconoscere che «il 1   Cfr. La Chiesa e i diritti dell’uomo, Pontificia Commissione «Justitia et pax», documento di lavoro n. 1, Città del Vaticano 1975.

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primo passo della storia moderna è stato il sapere aude, usa la tua ragione, dell’Illuminismo», e che l’idea stessa di libertà ha in definitiva acquistato «il suo profilo concreto attraverso l’epoca moderna aperta dall’Illuminismo che intende inaugurare la storia della liberazione dopo una lunga storia della schiavitù e della superstizione»2. Va da sé che queste pur importanti concessioni non rappresentano certo una folgorante conversione sulla strada di Damasco al deismo o alla religione naturale e civile dell’umanità cara a Rousseau, a Voltaire e a Diderot. Con la sua raffinata sensibilità filosofica e l’acuta percezione della necessità di ridefinire il senso autentico della nuova frontiera di quel dialogo con la cultura moderna avviato dal concilio, l’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ha dato l’impressione di voler esorcizzare l’Illuminismo facendolo diventare una sorta di figlio – seppure impertinente e un po’ ribelle – del cristianesimo: «Anche l’ethos dell’Illuminismo, che tiene ancora insieme i nostri Stati, vive dell’influenza postuma del cristianesimo, il quale gli ha trasmesso le basi della sua razionalità e della sua struttura interna»3. Sulla base di una personale interpretazione delle teorie filosofiche di Adorno e di Horkheimer circa la natura dialettica dei Lumi e il suo inevitabile tralignamento totalitario – allorché la ragione, divenuta autonoma, si trasforma in ragione «positiva del pensiero funzionale», pretendendo persino di «sostituirsi alla ragione divina» –, Ratzinger ha sviluppato, ad maiorem Dei gloriam, la tesi di una Chiesa che «nella dialettica dell’Illuminismo sospende le 2   Cfr. J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica cit., p. 175. Successivamente Ratzinger è tornato sull’argomento (cfr. il lungo intervento, Dio fede e ragione, sulle pagine culturali del quotidiano «la Repubblica», 22 settembre 2000) difendendo Giovanni Paolo II dall’accusa di voler continuare a demonizzare i Lumi ritenendoli all’origine del comunismo e, più in generale, del progetto di una società atea. In realtà proprio sulla vexata quaestio della responsabilità storica dell’Illuminismo nella genesi della Rivoluzione francese e delle moderne rivoluzioni, la posizione di Giovanni Paolo II sembra essere molto più intransigente di quanto Ratzinger voglia fare apparire. Sul tema, a partire dall’analisi delle tesi espresse dal pontefice nel volume intervista Varcare la soglia della speranza (Milano 1994, pp. 60 e sgg.), cfr. V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea. Storia e storiografia, Roma-Bari 2002, pp. 93-94. 3   J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica cit., p. 203. Contro questa ipotesi riduttiva cfr. il gran libro di P. Gay, The Enlightenment: An Interpretation. The Rise of Modern Paganism, New York 1966.

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condizioni dell’Illuminismo»4: che cioè ne impedisce la degenerazione, salvandone il vero messaggio emancipatorio generato dal Logos. A fronte di un Illuminismo laico e secolare, incarnato dai philosophes e dai loro seguaci, dimentico delle sue radici cristiane, destinato inevitabilmente a degradare in totalitarismo, veniva a tal fine indicata l’esistenza storica di una troppo a lungo sottovalutata katholische Aufklärung. «Io ritengo perciò giusta – spiegava il dotto teologo – la tesi di Martin Kriele secondo cui la teologia cristiana, se impiegata correttamente, deve essere considerata una forza dell’Illuminismo»5. Al di là delle speculazioni filosofiche, spettava comunque agli storici cattolici il compito di riportare in vita quel mondo misconosciuto che nel Settecento aveva sventolato per conto della Chiesa la bandiera della libertas philosophandi e del razionalismo contro la superstizione e il dispotismo, valorizzando così un tassello importante del contributo cristiano alla modernità6. 4   J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica cit., p. 154. Il riferimento di Ratzinger è al celebre libro di Adorno e Horkheimer, Dialektik der Aufklärung, apparso nel 1947. Un altro testo onnipresente nelle riflessioni della storiografia cattolica è quello assai discutibile di R. Koselleck, Kritik und Krise. Ein Beitrag zur Pathogenese der bürgerlichen Welt, del 1959. Sulla presenza di Reinhard Koselleck al colloquio voluto dal pontefice a Castel Gandolfo nell’agosto del 1996 per riflettere sul tema Illuminismo oggi, cfr. il rendiconto sul quotidiano «la Repubblica», 12 agosto 1996. 5   J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica cit., p. 148. Sulle pagine di «Repubblica» citate precedentemente, rispondendo a una domanda sul fatto che restava comunque fuori discussione il dato storico del conflitto che aveva visto nei secoli contrapposti la Chiesa e i Lumi, con spirito irenico e conciliatorio Ratzinger ha risposto: «È naturale che questo sia accaduto. Nel senso che il secolo dei Lumi è una cosa, l’illuminismo è un’altra. C’è anche stato un illuminismo cristiano». 6   Autonomamente, sin dal congresso di storia ecclesiastica comparata tenutosi a Varsavia nel giugno del 1978, con l’intento di dare un seguito alle indicazioni conciliari che invitavano ad avviare il confronto ravvicinato con i percorsi della modernità, gli storici cattolici hanno dedicato ampio spazio alle correnti cristiane dell’Aufklärung in Europa tra la fine del Seicento e la piena età della Restaurazione. La questione è stata lucidamente delineata nei suoi presupposti storiografici nel volume a cura di M. Rosa, Cattolicesimo e Lumi nel Settecento italiano, Roma 1981. Allo stesso Rosa si devono molti contributi sul cosiddetto «illuminismo cattolico» italiano, ora raccolti in Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Venezia 1999. Sul tema sono fondamentali le riflessioni di B. Plongeron, Les églises au défi de la modernité à la charnière des 18e et 19e siècles, in Deux mille ans d’histoire de l’Église, numero monografico

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E tuttavia dove l’allora arcigno custode del depositum fidei ha dato il meglio di sé, legittimando e auspicando gli sviluppi della nuova storiografia conciliare, è stato certamente nell’entusiastica adesione alla teoria del nuovo «dualismo» tra Chiesa e Stato come solida base per interpretare proficuamente la delicata relazione tra il cristianesimo e il concetto di libertà che ha caratterizzato l’identità profonda dell’Occidente. Secondo Ratzinger la frase del vangelo, «rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo, 22,21), non fu solo una «svolta nella storia del rapporto tra politica e religione», bensì qualcosa di straordinario e mai visto nella storia dell’umanità intera per quanto riguarda il modo stesso di organizzarsi della società in funzione del rispetto dei diritti individuali grazie alle condizioni realizzate dalla dialettica tra la potestà ecclesiastica e quella statuale: «Il nuovo dualismo in essa contenuto rappresenta l’inizio e il fondamento persistente dell’idea occidentale di libertà. Poiché da allora esistono due comunità reciprocamente ordinate, ma non identiche, di cui nessuna ha il carattere della totalità». Nulla di simile è dato riscontrare in altre civiltà e in particolare tra le nazioni musulmane, dove la «costruzione sociale dell’Islam è teocratica, quindi monistica e non dualistica»; dove la mancata separazione tra sacro e profano, tra politica e religione, ha finito con il negare l’individuo rendendo la democrazia impossibile. «La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano»7. Una simile impostazione che confonde la causa con gli effetti e il prodotto storico di un contesto con l’enunciazione a posteriori di un principio astratto come il dualismo – tra l’altro oggetto di frequente sospetto da parte della Chiesa nelle sue età di più duro arroccamento teocratico – ha trovato interpreti d’eccezione in molti settori della storiografia cattolica internazionale. In della «Revue d’histoire ecclésiastique», XCV, 2000. Personalmente ho forti perplessità sull’uso di questa categoria, che introduce elementi di confusione nel quadro storiografico settecentesco. Rinviando ad altra sede per una discussione approfondita che l’argomento certamente merita, occorre segnalare un primo e importante contributo chiarificatore sulle lontane origini tardosettecentesche, di evidente matrice apologetica e gesuitica, del concetto di «illuminismo cattolico» venuto dal libro di A. Trampus, I gesuiti e l’Illuminismo. Politica e religione in Austria e nell’Europa centrale (1773-1798), Firenze 2000, pp. 145 e sgg. 7   J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica cit., pp. 154-156.

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ricerche recenti concetti come “desacralizzazione” e “secolarizzazione”, che avevano tormentato generazioni di storici cattolici obbligati dalla politica culturale della Santa Sede a subire sempre e comunque la Chiesa come nemica e ostacolo del mondo moderno8, sono diventati come d’incanto, dopo il Vaticano II, punti di riferimento obbligati del nuovo paradigma storiografico conciliare. Dal rifiuto e dalla demonizzazione dell’odiata modernità si è passati repentinamente alla sua comprensione, al suo studio approfondito, a una sorta di scoperta e talora impudica appropriazione e cristianizzazione di essa, secondo il celebre e collaudato schema del De civitate Dei di Agostino: risolvere l’antitesi fra cristianesimo e paganesimo acquisendo al piano provvidenziale la prestigiosa eredità culturale, politica e sociale dell’impero romano e dell’antichità in generale, e con ciò superandola9. La tanto temuta e denunciata (in passato) «desacralizzazione della politica» è divenuta in tal modo il «frutto del cristianesimo occidentale»10. Inventore del termine «secolare», amante della «disciplina», e di fatto «primo teorico dell’Inquisizione»11, Agostino è apparso nelle più recenti interpretazioni anche nella veste di padre nobile della modernità, della stessa de-magificazione, grande ideologo della Chiesa-istituzione fondata sull’attributo imperiale dell’auctoritas, frutto del compromesso tra le esigenze escatologiche e gli obblighi imposti dal secolo, appositamente attrezzata per accompagnare il cristiano nel suo tormentato pellegrinaggio terreno in attesa del giudizio finale. Il feroce rifiuto agostiniano del modello settario della Chiesa dei puri voluta dai donatisti, così come la sua implacabile opera di persecutore dell’eresia pelagiana che troppo concedeva al libero arbitrio, hanno fatto del vescovo d’Ippona un protagonista della nascita di quel potere temporale necessario al 8   Cfr. al riguardo D. Menozzi, La Chiesa e la modernità, in «Storia e problemi contemporanei», n. 26, 2000, pp. 19 e sgg. Cfr. ora, dello stesso autore, Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, Bologna 2012. 9   Cfr. al riguardo il gran libro di P. Brown, Agostino d’Ippona, Torino 19712, pp. 301 e sgg. Brown è comunque studioso autorevole del tutto estraneo a tentazioni di natura apologetica. 10   P. Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Bologna 1992, p. 13. 11   Cfr. P. Brown, Agostino d’Ippona cit., p. 236.

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popolo di Dio per “vivere” nel mondo restando allo stesso tempo “distaccato” da esso12. Alla luce di questa nuova immagine della funzione libertaria e modernizzante del dualismo, il diritto canonico e l’Inquisizione come strumenti della Chiesa (comunità di credenti, corpus e societas perfecta) sono stati sempre più spesso analizzati nella veste inedita di veicoli di civilizzazione e di libertà. La stessa cosiddetta «rivoluzione papale» di Gregorio VII, lungi dal rilanciare la vocazione teocratica della Chiesa, attraverso le misteriose vie della Provvidenza, avrebbe in realtà alimentato nella storia dell’Occidente la potente opera benefica del dualismo tra potere sacro e potere secolare favorendo la nascita del moderno laicato urbano dei comuni, il rafforzamento delle istituzioni dello Stato13, la positiva dialettica tra chierici e laici. Ma è sulla crisi religiosa del Cinquecento, sulle origini dell’Europa contemporanea e sulla funzione strategica assunta dal concilio di Trento nei processi di modernizzazione che questa storiografia ha dato il meglio di sé, fino a condizionare non poco il dibattito internazionale e lo stesso operato di molti storici di matrice liberal-democratica e marxista. In questa direzione, a partire dalla fine degli anni Sessanta, attraverso il confronto obbligato con le riflessioni d’inizio Novecento di Max Weber sulla forte specificità dei modelli di razionalità elaborati dall’Occidente e di Ernst Troeltsch circa l’origine storica della modernità, sono venute da parte della storiografia tedesca ipotesi di ricerca di grande fascino. In particolare, più che in riferimento a Troeltsch e alle sue idee che vedevano nella Riforma luterana un brusco ritorno al medioevo in quanto ostile 12   Non bisognerebbe mai dimenticare su questi temi i preziosi risultati raggiunti da E. Troeltsch (Le dottrine sociali delle chiese e dei gruppi cristiani, vol. I, Firenze 1941; vol. II, Firenze 1960) circa i tre tipi di conformazione sociale storicamente delineatisi nella religione cristiana: la chiesa, la setta, il modello mistico individuale. «La chiesa – precisava Troeltsch – è l’istituto di salvazione e di grazia, dotato del risultato dell’azione redentrice, che può accogliere masse e adattarsi al mondo perché fino a un certo punto può fare a meno della santità soggettiva e compensarla con il tesoro oggettivo della grazia e della redenzione»: ivi, vol. I, p. 681. 13   Cfr. H.J. Berman, Law and Revolution. The Formation of Western Legal Tradition, Cambridge (Mass.) 1983. Sul ruolo indiretto del diritto canonico nella liberazione dell’individuo insiste, ad esempio, G. Le Bras, La Chiesa del diritto. Introduzione allo studio delle istituzioni ecclesiastiche, Bologna 1976. E poi Böckenförde con la sua celebrazione della rivoluzione gregoriana come origine della modernità politica.

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al principio moderno dell’immanenza e dell’autonomia dell’individuo razionale, sono state proprio le tesi weberiane (quelle in merito ai meccanismi dell’oggettivazione razionale intesa come formulazione di norme che l’uomo stesso si pone sulla base di un calcolo degli scopi e dei mezzi per la condotta propria o di altri uomini) ad aprire la strada alla storiografia del disciplinamento e della confessionalizzazione come momenti chiave della modernità europea. Gli studi di Gerhard Oestreich del 1969, volti a ridefinire la natura dell’assolutismo, le sue differenze – evidenti sul piano storico – dal totalitarismo nonostante l’avvio della grande modernizzazione degli Stati europei miranti a coinvolgere le masse attraverso le pratiche di disciplinamento sociale negli eserciti, nell’apparato burocratico, nella vita di corte, culminate nelle riforme illuminate di Giuseppe II alla fine del Settecento14, hanno contribuito non poco a dar vita a una imponente storiografia cattolica e protestante sulla formazione confessionale delle Chiese territoriali in Germania e sulla confessionalizzazione cattolica avviata dal Tridentino in parallelo e come risposta al disciplinamento degli Stati. Wolfgang Reinhard, uno dei massimi protagonisti degli studi in questo campo, ha spiegato bene il percorso che la tradizionale storia della Chiesa ha fatto dallo storicismo al sociologismo storiografico passando da Jedin a Elias e a Foucault via Weber, da antiche questioni teologiche e politiche al tema complesso della società procedurale15. Ne è scaturita la presa d’atto che i processi di modernizzazione possono non solo essere voluti o apertamente contrastati, ma anche subiti o inconsapevolmente alimentati secondo le riflessioni foucaultiane sulla microfisica del potere, sulle tecnologie e le nuove pratiche del dominio che prescindono dalla nostra coscienza e volontà. Insomma la cosiddetta modernità che “ci pensa” nostro malgrado16. 14   Cfr. G. Oestreich, Problemi di struttura dell’assolutismo europeo, in Lo Stato moderno, I. Dal medioevo all’età moderna, a cura di E. Rotelli e P. Schiera, Bologna 1971, pp. 173 e sgg. 15   Cfr. W. Reinhard, Disciplinamento sociale, confessionalizzazione, modernizzazione. Un discorso storiografico, in Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi, Bologna 1994, pp. 106 e sgg. 16   Su questi temi del potere negativo e delle reti di potere impersonale cfr. M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Torino 1977, pp. 16 e

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È in questa nuova cornice (che si ispira anche alle teorie della modernizzazione di Talcott Parsons, fondate sui principi della diversificazione delle funzioni sociali, della razionalizzazione, dell’individualismo e soprattutto dell’addomesticamento dell’uomo e del controllo della natura) che, a partire dagli anni Novanta, è stata affrontata la questione cruciale del significato storico del concilio di Trento: tema scottante quanto mai, da sempre interpretato – con motivazioni contrapposte – sia dai cattolici tradizionalisti sia da quelli progressisti come l’avvio della secolare guerra tra la Chiesa e il «moderno». Il risultato è stato quello di capovolgere definitivamente l’antico giudizio17. Dal Tridentino, come ha spiegato Reinhard sulla base del mutamento dei quadri interpretativi di riferimento, non sono venuti solo «stimoli importanti alla modernizzazione relativa della Chiesa», ma apporti concreti alla «modernizzazione assoluta del mondo», in quanto i padri conciliari introdussero «una riorganizzazione e un disciplinamento burocratico della Chiesa che andavano di pari passo con la nascita dello Stato moderno». Alla ragion di Stato fu infatti contrapposta la ragion di Chiesa: si procedette risolutamente alla costruzione del tanto esecrato «totato», denunciato da Paolo Sarpi, che vi scorgeva la definitiva mutazione genetica del papato in direzione di quell’assolutismo ecclesiastico destinato a durare sino ai nostri giorni. Se la prima ha rappresentato un fattore decisivo di modernità nella storia europea, anche la seconda certamente lo fu. E ciò indipendentemente dalla volontà dei protagonisti. Il caso dell’istituzione dell’Index librorum prohibitorum risultava chiarificatore al riguardo: «Per un verso esso servì – precisava Reinhard – ad impedire la nascita delle idee “moderne”, per un altro fece da battistrada per un controllo burocratico “moderno” delle idee»18. sgg. È alla luce di questi schemi che il discorso dei Lumi in merito alle riforme emancipatorie del Settecento in campo medico e giudiziario svela, malgrado le intenzioni di partenza, la sua intima natura autoritaria e dispotica, destinata a sfociare nella nascita di nuove e più crudeli pratiche di dominio e di disciplinamento sociale autoritario. Cfr. al riguardo M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976. 17   Cfr. gli atti del convegno tenutosi a Trento, Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996. 18   Cfr. il saggio introduttivo di W. Reinhard, Il concilio di Trento e la modernizzazione della Chiesa, ivi, p. 33.

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Ciononostante, pur senza dimenticare i contributi pionieristici alla ricerca di evidenti segni di modernità nei fenomeni di adattamento politico e sociale delle Chiese nel Cinquecento venuti da Henry Outram Evennett19 e da John Bossy20, una sintesi originale, capace di coniugare ad alto livello il principio del dualismo con queste ed altre ricerche di area anglosassone (sempre riconducibili in qualche modo a quello che abbiamo definito il nuovo paradigma storiografico conciliare), è venuta soprattutto dall’Italia. Il riferimento d’obbligo è in tal senso ai libri di Paolo Prodi. Nei suoi lavori più recenti e significativi Prodi ha sempre fatto esplicito riferimento alla teoria dualistica e alla tesi del delicato equilibrio tra sacerdotium e imperium come base della modernità politica e sociale dell’Occidente. Nel volume sul Sacramento del potere, del 1992, le indicazioni di Ratzinger al riguardo erano esplicitamente richiamate a conforto della tesi che «la modernizzazione come processo rivoluzionario è insita nella struttura stessa del cristianesimo occidentale»21. «Io credo che la Chiesa cristiana – precisava Prodi – con la sua prospettiva dualistica e con il suo rifiuto a costituirsi in società iniziatica o setta giurata abbia aperto per l’Occidente, nonostante le contraddizioni e tentazioni storiche, la strada della laicizzazione della politica»22. Nel 1986, aprendo i lavori di un convegno dedicato al tema cruciale del rapporto tra cristianesimo e potere, cui partecipavano anche studiosi come Roberto Ruffilli, Franco Bolgiani e Luigi Sar  Cfr. H.O. Evennett, The Spirit of the Counter-Reformation, Cambridge 1968. 20   Cfr. di Bossy la recente raccolta di saggi tradotti in italiano Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino 1998. In particolare gli articoli riguardanti l’introduzione del confessionale e dell’obbligo della confessione auricolare come espressione del passaggio dal sentimento sociale medievale alla consapevolezza personale dell’individuo moderno. 21   P. Prodi, Il sacramento del potere cit., p. 415. Il riferimento a Ratzinger e alla teoria del dualismo si trova a p. 513. Il tema è ripreso e sviluppato ulteriormente in un successivo volume dello stesso Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna 2000, pp. 26 e sgg., con un ampio riferimento ai lavori di Franz Rosenzweig circa l’importanza storica del dualismo dei cristiani rispetto alle differenti concezioni della religione ebraica. 22   Cfr. P. Prodi, Il sacramento del potere cit., p. 25. 19

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tori, Prodi si era interrogato su quali strade dovesse prendere la riflessione dei cattolici dopo il Vaticano II in merito a una «nuova legittimazione della politica»: una riflessione critica sia verso il ritorno dell’individualismo (fosse pure nella forma del giusnaturalismo cattolico e democratico alla Maritain), sia verso le vecchie posizioni vetero-confessionali o tradizionalistiche alla Del Noce23. La risposta era indicata nella necessità di procedere a una puntualizzazione storiografica preliminare, rilanciando e approfondendo le classiche tematiche weberiane circa le cause dei caratteri unicamente occidentali dell’esperienza della democrazia e del mercato: attribuendone la ragione principale alla peculiare teologia politica del cristianesimo, al «dualismo introdotto dal Nuovo Testamento», al fatto che il pensiero dei Padri della Chiesa come Agostino nella lotta contro i pagani aveva comunque «impedito la formazione di un blocco organico e monolitico tra ideologia (teologia) e potere»24. Reduce da una preziosa ricerca di storia istituzionale sulla trasformazione in principato del dominio temporale dei papi nel corso della prima età moderna25, nei decenni successivi Prodi ha ulteriormente precisato e portato a compimento il suo ambizioso progetto, fino a proporlo come una personale sintesi di quel paradigma storiografico conciliare all’interno del quale possono essere collocate alcune recenti ricerche elaborate autonomamente da studiosi tedeschi, americani e francesi. Nel 1994, dialogando con Reinhard e i fautori della «nuova storia politica» del disciplinamento e della confessionalizzazione, egli tratteggiava il disegno di una più avanzata e problematica Verfassungsgeschichte che trovava il proprio criterio esplicativo appunto nel dualismo e nelle sue progressive metamorfosi nel tempo. Non bastavano infatti il solo disciplinamento sociale o il 23   Cfr. l’introduzione di Prodi al suo volume Cristianesimo e potere, Bologna 1986, p. 7. 24   Ivi, p. 4. In realtà le cose sono andate ben diversamente nel campo della storia della tolleranza e della rivendicazione della libertas philosophandi; cfr. al riguardo i risultati dell’imponente ricerca che è andato a lungo conducendo Antonio Rotondò, nonché l’opera La formazione storica dell’alterità. Studi di storia della tolleranza nell’età moderna offerti ad Antonio Rotondò, 3 voll., Firenze 2001. 25   Cfr. P. Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime. La monarchia papale nella prima età moderna, Bologna 1982.

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processo ecclesiastico di confessionalizzazione a connotare e chiarire in termini libertari la modernità del vecchio continente e gli sviluppi del «sistema costituzionale politico occidentale»26. Occorreva approfondire l’analisi. Bisognava capire come la libertà era stata comunque garantita dai mutamenti storici del dualismo tra Chiesa e Stato: attraverso quali percorsi si era giunti agli attuali ordinamenti giudiziari e alla drammatica crisi post-moderna della democrazia, con il fallimento del diritto positivo e della cosiddetta «illusione degli illuministi» che avevano sognato ad occhi aperti di creare un «nuovo Eden» dove coniugare davvero le istanze etiche e la prassi legislativa. A tal fine, nel volume Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Prodi ha esaminato oltre duemila anni di storia partendo dal presupposto che «l’ideale occidentale della giustizia che ora sta scomparendo è stato il frutto di un percorso molto più lungo di quello compiuto a partire dall’Illuminismo e dalle codificazioni»27. Un percorso intricato che parte dal mondo greco, in cui non esisteva «nessuna visione dualistica, nessuna alternativa oggettiva tra le norme dell’etica e le norme del diritto», per passare a quello ebraico, in cui per la prima volta la giustizia viene sottratta al potere secolare e collocata nella sfera del sacro, fino al processo di giuridicizzazione della Chiesa dei primi secoli tramite il rilievo giuridico attribuito al processo penitenziale. Nell’esaminare le tappe del lungo, accidentato processo sfociato nella crisi finale del giuspositivismo contemporaneo, Prodi si è soffermato soprattutto su due grandi momenti della storia europea che hanno visto la Chiesa protagonista, reinterpretandone il significato complessivo: la rivoluzione teocratica di Gregorio VII e il concilio di Trento. Nel caso di Ildebrando di Soana la definizione di «apprendista stregone» illustra bene la chiave interpretativa proposta. Le scelte radicali compiute durante il papato gregoriano a favore della creazione di una Chiesa modellata come società sovrana e centralmente organizzata avevano scatenato le reazioni dei laici contro i 26   Cfr. la presentazione di Prodi al volume Disciplina dell’anima, disciplina del corpo cit., p. 12. 27   P. Prodi, Una storia della giustizia cit., p. 12 (d’ora innanzi le pagine saranno indicate nel testo).

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chierici, finendo con il fornire ai principi lo stesso prototipo del futuro Stato moderno. E tuttavia la grande novità nell’ambito della storia della giustizia in Occidente stava soprattutto nella formulazione del diritto canonico. A parere di Prodi, la Chiesa cominciò proprio attraverso questo formidabile strumento – definito senza esitazione, e in aperta polemica con i fautori laici del cosiddetto mito storiografico del diritto comune, il «primo sistema giuridico occidentale moderno» – a unificare il foro della coscienza con il tribunale ecclesiastico, trasformando la giustizia di Dio in norma, il battesimo in un giuramento di fede e di fedeltà, la penitenza in sacramento e atto giudiziario. Con la creazione dell’Inquisizione e il diffondersi del processo inquisitoriale, capace con le sue regole di condizionare profondamente gli stessi sviluppi del diritto pubblico e penale degli Stati, aumentò la confusione tra la sfera del peccato e quella del crimine: ogni disobbedienza venne definita in termini di eresia, alimentando la progressiva sovrapposizione tra «il foro interiore della coscienza, il foro penitenziale e il foro della Chiesa» (p. 95). Ma questo intreccio – presto divenuto inestricabile – tra peccato, coscienza e reati civili, lungi dal condurre a un ordinamento giuridico comune tra impero e Chiesa alla luce del medesimo riferimento al concetto di Christianitas, alle medesime concezioni filosofiche e cosmologiche della cultura medievale, si cristallizzò invece in due specifici ordinamenti riferiti a due diverse autorità: «Il diritto umano statale e quello canonico – precisava Prodi – si distinguono soltanto in quanto il primo è emanato dai principi secolari e il secondo invece dai prelati ecclesiastici» (p. 145). E ancora: «Il diritto canonico è legge a tutti gli effetti spirituali e temporali nelle terre della Chiesa; nella terra dell’impero vigono le leggi secolari, ma è sempre il diritto canonico ad avere il sopravvento quando si tratta de peccato ed è soltanto la Chiesa a giudicare su questo» (p. 119). La rivoluzione teocratica, il suo modello politico-teologico portarono insomma a una forma di dualismo fondata sia sul pluralismo medievale degli ordinamenti giuridici sia sull’intreccio tra coscienza e diritto al loro interno. Il concilio di Trento segnò una svolta decisiva verso il compimento di una nuova metamorfosi del dualismo: dal conflitto di giurisdizione dell’età medievale si passò infatti al reciproco condizionamento delle forme di potere, destinato ad avviare la moderna e inarrestabile separazione tra coscienza e diritto, tra foro interno ­­­­­15

e foro esterno, che contraddistingue l’attuale primato del diritto positivo. Con la pace di Augusta e il trionfo del principio del cuius regio eius religio alla sacralizzazione dei principi corrispose la trasformazione in sovrano assoluto del papa. Rispetto al recente passato il dualismo assunse le sembianze di «un rapporto ben più complesso nel quale lo Stato moderno, nel suo periodo di gestazione, penetra l’istituzione Chiesa nel suo nucleo più impenetrabile, il papato, mentre a sua volta ne è impregnato assumendo caratteristiche e funzioni proprie della Chiesa medievale»28. Dopo Trento, e la definitiva rinuncia a perseguire una conduzione unitaria della respublica christiana, la formulazione di una innovativa dottrina ecclesiologica da parte dei padri conciliari mutò la Chiesa in societas perfecta, disciplinata, visibile e rigidamente gerarchica, con al vertice un papa-re dai poteri assoluti, con un ordinamento giuridico fondato sulle decretali del pontefice riservate all’ordine clericale secondo schemi del tutto simili al diritto positivo delle grandi monarchie nazionali. Il diritto canonico classico divenne in tal senso ius publicum ecclesiasticum, progenitore diretto del codice di diritto canonico del 1917 e del 1983. L’interpretazione del modello ecclesiologico tridentino come tappa fondamentale della modernizzazione dell’Occidente ha consentito a Paolo Prodi non solo di andare ben oltre le tradizionali tesi di Jedin («da questo punto di vista anche tutta la vecchia discussione sull’esistenza di una “preriforma cattolica” precedente alla riforma ci appare superata», ha scritto in proposito nel libro dedicato al tema della storia della giustizia), ma soprattutto di fare finalmente i conti con le ricostruzioni di Cantimori e di quei settori della storiografia laica che hanno visto negli eretici e nei fautori del cristianesimo radicale i padri spirituali dell’Illuminismo, della tolleranza e della libertà di coscienza. Prodi li considera invece dei pericolosi «conservatori [...] che guardano all’indietro e che si rifanno al principio della setta», ostacolando con il loro fondamentalismo e il loro fanatismo a favore di una Chiesa dei puri la modernità della “soluzione cattolico-tridentina”» (p. 222). Molto 28   Cfr. le anticipazioni dei temi che verranno poi trattati nel libro sulla giustizia in P. Prodi, Il concilio di Trento di fronte alla politica e al diritto moderno, saggio introduttivo al volume Il concilio di Trento e il moderno, a cura di P. Prodi e W. Reinhard, Bologna 1996, p. 14.

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ci sarebbe da dire su queste considerazioni venate da evidenti pulsioni apologetiche, che non tengono nel debito conto le logiche del contesto storico; e tuttavia il fascino e l’importanza complessiva del volume sulla giustizia stanno fortunatamente altrove. In particolare nell’appassionata e sorprendente critica della modernità che affiora in ogni pagina e che non risparmia né la storia della Chiesa né la storia dello Stato, direttamente chiamate in causa nella genesi del moderno positivismo giuridico e della crisi attuale dei regimi democratici, dove l’imperialismo della norma giuridica rischia di soffocare il delicato equilibrio tra i fori: vero fondamento, quest’ultimo, della libertà e dell’idea di giustizia in Occidente. A partire dal Cinquecento ambedue le istituzioni cardine della moderna vita politica e costituzionale dell’Occidente subirono, secondo Prodi, una svolta decisiva a favore della positivizzazione del diritto e della conseguente separazione tra foro interno e foro esterno. Da un lato lo Stato assoluto che, con la sua vocazione a disciplinare e controllare sul piano legislativo la pluralità dei fenomeni, si scontrò con il riemergere del moderno diritto naturale usato contro la sovranità dei principi con funzioni costituzionali; dall’altro lato la Chiesa del papa-re, che cercava di circoscrivere il dominio del diritto divino ampliando il potere legislativo del pontefice, come nel caso in cui il dovere di residenza dei vescovi venne ricondotto alla volontà politica del pontefice. Quest’ultima vicenda «costituisce un perfetto parallelo – ha spiegato Prodi – a quanto avviene nello stesso periodo nello sviluppo della sovranità: come il re può modificare con il suo intervento l’ordinamento senza essere impedito da leggi naturali o da norme fondamentali e immutabili, così il papa può avere il controllo assoluto sull’apparato ecclesiastico»29. La Chiesa aveva cominciato a incubare i germi della malattia giuspositivistica sin dal XII secolo con i primi canonisti, sempre più attenti a privilegiare la norma giuridica rispetto alla teologia. Lo scontro tra realisti e nominalisti aveva poi seguito la diffusione delle teorie di Guglielmo di Ockham a favore di una separazione tra diritto naturale e diritto divino, che avevano aperto la strada ai cosiddetti diritti naturali soggettivi provocando lacera  Ivi, p. 21.

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zioni profonde nel pensiero cristiano. La giuridicizzazione della coscienze, la tribunalizzazione della confessione come frutto della spinta contrapposta tra ierocrazia papale e statualità emergente inaugurarono per reazione la stagione della teologia morale, della riflessione etica culminata nella casistica dei gesuiti: un sistema completo di norme alternativo non soltanto a quello statuale, ma anche a quello canonico. Con caratteristiche peculiari anche la Chiesa fu protagonista della scoperta dell’individualismo moderno, della necessità di controllare e disciplinare le coscienze in un mondo dove sempre più il peccato si stava trasformando in reato, in semplice trasgressione della legge positiva. La funzione storica della seconda scolastica – definita con scoperta enfasi apologetica «il ponte sul quale la cultura europea passa dal medioevo al moderno trasmettendo ed elaborando i grandi concetti dei diritti naturali che saranno poi assimilati dal moderno giusnaturalismo e dall’Illuminismo» (p. 210) – va interpretata proprio in questa direzione secolarizzatrice. Furono infatti quei dotti padri domenicani e gesuiti alle prese con la potente monarchia spagnola a porsi il tema spinoso della obbligatorietà in coscienza della legge positiva del sovrano, favorendo la «sostanziale fuoriuscita del diritto naturale dal mondo giuridico concreto e il dominio della norma positiva anche nel foro della coscienza» (p. 201). Va detto con chiarezza che la Chiesa come societas juridice perfecta delineatasi nel corso dei secoli non piace affatto a Prodi. Al riguardo egli non esita un attimo a denunciare il pericoloso dilagare del veleno giuspositivistico nel suo corpo attraverso il progressivo attenuarsi nella pratica della vita cristiana di «ogni netto confine tra la colpa come peccato, come offesa fatta a Dio, e la colpa come trasgressione di una norma positiva ecclesiastica». A proposito egli cita il clamoroso caso dei preti accusati di pedofilia, la cui colpa tende a essere valutata solo dal punto di vista giuridico e non sul piano etico (cfr. p. 473). Chiesa e Stato hanno generato più o meno consapevolmente una modernità in cui sembra definitivamente giunto a crisi l’antico dualismo tra morale e diritto, minacciando così di soffocare quel «respiro tra il foro interno dell’uomo e il foro esterno» da sempre garanzia di giustizia e di libertà. Riflettendo sulle conclusioni della inquietante Lettera sull’umanismo di Heidegger, Prodi ritiene oggi filosoficamente «irrisolvibile» il dilemma di un nuovo rapporto tutto da ­­­­­18

costruire tra morale e diritto sulla base di principi universali. Solo dalla ricerca storica può invece venire qualche aiuto a risolvere la crisi della giustizia e del diritto positivo sotto forma di preziosi ammonimenti a salvaguardare in ogni modo l’antico dualismo tra Chiesa e Stato: «Per la sopravvivenza della nostra civiltà occidentale – scrive Prodi – è necessaria una dialettica tra le istituzioni portatrici di norme morali (o che in ogni caso permettano alle coscienze individuali di oggettivarsi in comportamenti sociali) e le istituzioni da cui emana il diritto come potere di coercizione. L’alternativa è soltanto nei fondamentalismi, nella fusione tra il sacro e il potere» (p. 464). A tal fine non basta, però, creare le condizioni politiche e istituzionali perché sopravviva sempre una qualche forma di dualismo: occorre anche una vigorosa revisione critica dell’identità della Chiesa dopo il Vaticano II. Non è più sufficiente aver avviato il superamento del modello ecclesiale tridentino ancora proclamato nel codice di diritto canonico del 1917. Quel mondo incarnato dal potere curiale e dalla figura dominante del sovrano pontefice, tutto fondato sulla «sopravvalutazione dell’aspetto giuridico-politico di appartenenza rispetto alla proclamazione del messaggio evangelico e al distacco dal mondo», resta infatti tuttora egemone. Già Bonhoeffer si era interrogato sui motivi per cui le Chiese nel mondo contemporaneo, e in particolare di fronte al totalitarismo, avevano perso la capacità di creare norme morali e di costituire una sede alternativa di giudizio, indicando nella debolezza del modello ecclesiastico protestante un limite invalicabile; Prodi estende questa valutazione alla Chiesa cattolica. Nei secoli essa ha perso la funzione storica di «polo istituzionale alternativo come “foro”, come luogo e autorità di giudizio sulle azioni dell’uomo». Per ritrovarlo e ricominciare a occuparsi di valori etici, del «tema del peccato nella sua realtà concreta», egli ritiene sia necessario trasformare molti aspetti della vecchia Chiesa territoriale facendola sempre più assomigliare a una moderna comunità evangelica. Senza perdere la sua natura istituzionale («storicamente il cristianesimo non esiste senza l’istituzione Chiesa che per sua natura è l’opposto della setta»), il nuovo modello ecclesiale dovrebbe anche attrezzarsi per testimoniare i suoi valori e la sua fede evangelica in un mondo ostile secondo uno schema di riferimento sinteticamente così delineato nelle parole venate di agostinismo ­­­­­19

del cardinale Ratzinger: «Forse dobbiamo abbandonare le idee di Chiesa nazionale o di massa. È probabile che davanti a noi ci sia un’epoca diversa della storia della Chiesa, un’epoca nuova in cui il cristianesimo verrà a trovarsi nella situazione del seme di senape, in gruppi di piccole dimensioni, apparentemente ininfluenti, che tuttavia vivono intensamente contro il male e portano il bene» (p. 479)30. Sebbene sia difficile non ammirare la finezza intellettuale con cui Prodi ha letteralmente reinterpretato la funzione decisiva della Chiesa nella storia dell’Occidente31 (funzione innegabile e comunque mai negata da parte della storiografia laica), facendola diventare allo stesso tempo la protagonista della modernizzazione del passato e l’istituzione di garanzia della libertà del futuro, è facile scorgere nel quadro generale delle sue analisi l’affiorare di una nuova e più agguerrita apologetica intenzionata a liquidare per sempre l’ingombrante pratica dell’Illuminismo, del suo programma di modernizzazione fondato sull’autonomia e sui diritti dell’uomo, sulle speranze di un umanesimo rinnovato e in particolare sull’interpretazione costituzionale e contrattualistica del giusnaturalismo. È questo un punto di grande interesse, meritevole di segnalazione, in quanto mostra bene la differenza filosofica e ideologica tra i capisaldi della storiografia conciliare auspicata da Prodi e quella, invece, elaborata contemporaneamente nel mondo anglo-americano, molto più sensibile a queste tematiche, e in particolare alla funzione decisiva della nascita del diritto soggettivo, del discorso politico dei diritti dell’uomo e del moderno costituzionalismo nel fondare la libertà in Occidente. Nel volume Una storia della giustizia – sulla scorta delle ricerche di Paolo Grossi circa l’importanza del «diritto senza Stato» in età medievale – molte pagine polemiche sono indirizzate contro il progressivo affermarsi dell’«assolutismo giuridico» negli ultimi due secoli: contro la «retorica dei positivisti e dei neo30   Il riferimento di Prodi è al libro di J. Ratzinger, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nella svolta del millennio. Un colloquio con P. Seewald, Cinisello Balsamo 1997. 31   Sempre in questa direzione di marcia, volta a ritrovare le radici teologiche e storico-religiose del capitalismo, si muove anche il recente contributo di P. Prodi, Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente, Bologna 2009.

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illuministi» che amano alimentare ancora oggi «l’illusione beota nella bontà di un diritto come monopolio dello Stato, come ordinamento completo autosufficiente». Una concezione inquietante e pericolosa, questa, ritenuta all’origine non solo delle grandi tragedie dei totalitarismi, ma anche dell’odierna crisi del diritto positivo, le cui radici storiche affondano direttamente nella fase della «fondazione giusnaturalistica del moderno giuspositivismo e sull’espropriazione di tutto il diritto da parte del legislatore» (p. 438) auspicata in primo luogo dagli illuministi nel corso del XVIII secolo32. Le loro grandi riforme, finalizzate a garantire politicamente il trionfo dei diritti umani, proprio perché realizzate con l’aiuto dei sovrani e delle monarchie assolute, non fecero che dar vita – secondo gli schemi classici della dialettica dei Lumi svelata da Adorno-Horkheimer e da Koselleck – a forme moderne di dispotismo, a veri e propri Stati di polizia. «I risultati della più recente storiografia che vede nei primi codici e progetti di codici penali dell’Europa assolutista del XVIII secolo la genesi del codice penale moderno hanno dimostrato – scrive Prodi – anche gli aspetti repressivi o autoritari di questi interventi». E ancora, riferendosi alle celebri e provocatorie tesi di Foucault: «Il secolo XVIII ha inventato senza dubbio le libertà e le garanzie, ma ha posto a loro fondamento e condizione l’adesione ad una società disciplinata che ha inghiottito la morale all’interno dello Stato e del diritto; l’invenzione della prigione moderna nell’assoggettamento del corpo, nella manipolazione e nella sorveglianza rappresenta la punta estrema di un’evoluzione che si manifesta nelle scuole, negli ospedali, nei ricoveri per mendicanti, nell’esercito. Anche da questo punto di vista non sembra esservi una cesura tra il periodo dell’assolutismo illuminato e la Restaurazione» ( p. 433). Con argomenti molto simili a quelli enunciati da Jacob L. Talmon, autore delle Origins of Totalitarian Democracy, o dal Koselleck di Kritik und Krise, che ha sottolineato in ogni occasione il legame tra la nascita della critica politica dei Lumi all’Antico regime e la crisi della moderna società borghese, Prodi rilancia, senza le necessarie cautele, i tradizionali schemi della storiografia 32   Tra i lavori di Grossi spiccano L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, e Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano 1998.

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reazionaria sul nesso Lumi-Rivoluzione francese o sulla rappresentazione di Rousseau come padre naturale del terrore giacobino e poi dei totalitarismi. Sono pagine, queste, assai deboli e persino sconcertanti, che rivelano non solo una conoscenza inadeguata della recente ed imponente storiografia internazionale su questi temi, ma anche un’ostinata volontà di interpretare un complesso fenomeno di natura storica come l’Illuminismo unicamente in chiave ideologica e filosofica, trascurando decenni di grandi ricerche d’archivio sull’argomento ad opera di Franco Venturi, Furio Diaz, Robert Darnton e Daniel Roche33. Pur di dimostrare i terribili costi impliciti nello sviluppo secolare dell’«assolutismo giuridico», di quel terribile leviatano creato dai fautori del moderno giusnaturalismo dei diritti e poi del positivismo giuridico, Prodi non esita a buttare via il bambino con l’acqua sporca. A farne le spese è, ad esempio, la nuova storiografia anglosassone post-conciliare, attenta a individuare e a rivendicare i meriti della canonistica e dei giuristi della prima e della seconda scolastica nella nascita del diritto soggettivo e nella creazione della moderna teoria dei diritti naturali dell’uomo. Benché ampiamente citata e discussa nello straordinario affresco del volume sulla storia della giustizia, quella storiografia non occupa infatti uno specifico rilievo nell’economia generale del libro: semmai è essa stessa, a ben vedere, non solo marginalizzata, ma addirittura considerata in qualche modo parte in causa: oggetto d’imputazione per la sua dichiarata simpatia verso una costituzionalizzazione della Chiesa dopo il Vaticano II proprio sulla base dei diritti soggettivi. Il fatto è che nella concezione di Prodi – debitrice sia degli schemi storicistici dell’idealismo italiano d’inizio Novecento, filtrati probabilmente attraverso il magistero di Dossetti, sia del paradigma tedesco della dialettica dell’Illuminismo – i valori della libertà e della giustizia emersi in Occidente, nonché la sua stessa identità profonda, non si difendono certo con il ricorso alla cosiddetta retorica dei diritti dell’uomo, bensì con il ben più concreto e realistico rispetto dell’antico dualismo rivendicato dalle parole di Gesù nel vangelo di Matteo: «Rendete dunque a Cesare quello 33   Al riguardo rinvio al saggio bibliografico finale curato da A. Trampus nel volume L’Illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone e D. Roche, Roma-Bari 2007.

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che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». E tuttavia occorre sottolineare che Prodi non è certamente il solo nel mondo cattolico a mostrare poco interesse (ove non talvolta fastidio) per la centralità dei diritti proclamata dalla Chiesa post-conciliare. Quell’ostilità viene da molto lontano e probabilmente ci vorranno molto tempo e pazienza per superarla, ammesso che ve ne sia la volontà.

2.

I diritti dell’uomo tra apologetica e verità storica

Com’è noto, l’implacabile polemica cattolica contro il diritto soggettivo e il costituzionalismo illuministico fondato sui diritti dell’uomo risale alle violente requisitorie contro la Rivoluzione francese e la carica eversiva presente nelle concezioni politiche dei Lumi. Essa si è alimentata nel corso dei secoli degli aspri e velenosi succhi della denuncia del cosiddetto individualismo egoistico borghese, così distante dall’antico modello sociale organicistico di matrice aristotelica rilanciato dalla cultura romantica della Restaurazione1. Epigoni di quella cultura che guardava con nostalgia al comunitarismo del medioevo, alle corporazioni e ai corpi intermedi dell’Antico regime hanno militato nei secoli scorsi a destra e a sinistra uniti da un solo grande odio proprio verso l’individualismo, lo Stato borghese, il mercato, la democrazia. Tra i giuristi cattolici, la consueta critica pre-conciliare della modernità si è accanita soprattutto contro la nascita del diritto soggettivo dell’individuo e del giusnaturalismo dei diritti, considerato alla stregua di una rottura insanabile con la tradizione tomistica all’origine dell’odierna crisi. In Italia un ascoltato portavoce di queste posizioni è certamente Paolo Grossi. Nelle sue opere si sprecano infatti i riferimenti contro «l’ottusa legalità moderna» 1   Cfr. V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea cit., pp. 30 e sgg.

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e le «favolette illuministiche»2 a favore di un presunto Stato ex parte civium, destinato invece a dar via libera al pernicioso «assolutismo giuridico» dei giuspositivisti d’oggi3. Sulla base della celebre concezione del diritto come fatto sociale e storico elaborata da Santi Romano nel 1918, secondo cui «non c’è società nel senso vero della parola, senza che in essa si manifesti il fenomeno giuridico (ubi societas ibi ius)»4, Grossi ha recentemente pubblicato, con grande successo, una nostalgica ricostruzione della cosiddetta «civiltà giuridica medievale», rilanciando tutte le sue critiche contro quel «pianeta moderno» destinato, «malgrado le grandi foglie di fico del giusnaturalismo sei-settecentesco e della codificazione ottocentesca, a immiserire il diritto, a legarlo e a condizionarlo al potere, a farne un instrumentum regni, a separarlo dal sociale»5. Diversamente dal progressivo affermarsi, dopo il XIV secolo, di una modernità giuridica contraddistinta da un «individualismo statalistico e da uno statalismo individualistico»6, il medioevo, proprio in virtù della felice assenza dello Stato e di un forte potere politico centrale, aveva consentito la nascita dal basso di molteplici ordinamenti giuridici prodotti dalle tante comunità e forme di vita sociale che spontaneamente si autordinavano. In quel contesto storico, il diritto aveva finalmente rivelato per intero la sua «autonomia» dal potere politico (il «potere politico viene dopo»), e soprattutto la sua sostanza autentica, sempre di tipo oggettivo e relazionale, intesa nel senso di una «realtà òntica, scritta nella natura delle cose», dove giganteggiava indiscussa la pratica dell’interpretatio da parte dei sacerdotes iuris a formidabile garanzia dell’«autonomia del giuridico»7. Altro elemento che   Cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale cit., pp. 154 e 181.   Cfr. P. Grossi, Epicedio per l’assolutismo giuridico, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XVII, 1988. 4   S. Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze 19462, p. 21. Su questa lettura di Santi Romano, da parte di Grossi, come salda base teoretica per revocare in dubbio ogni riferimento alla centralità dello Stato moderno ci sarebbe tuttavia molto da ridire. 5   P. Grossi, L’ordine giuridico medievale cit., p. 31. 6   Cfr. P. Grossi, Modernità politica e ordine giuridico, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXVII, 1998, p. 32. 7   Ivi, p. 16. Occorre segnalare che il carattere ideologico delle concezioni anti-illuministiche di Grossi emerge per intero soprattutto nel volumetto Mitologie giuridiche della modernità, Milano 2001. In questo testo, dopo aver precisa2 3

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caratterizzava felicemente l’esperienza giuridica medievale, e in particolare le teorie di Tommaso e della scolastica, era infine l’assoluta assenza di una concezione dell’individuo e dei suoi diritti. Forte di una dichiarata rappresentazione della discontinuità delle vicende storiche che interpreta medioevo e moderno come realtà incommensurabili, Grossi non ha mai avuto il minimo dubbio al riguardo: «L’individualismo è un vizio completamente estraneo al medioevo». Anzi, agitando l’accusa (capitale per uno storico) di anacronismo, egli non ha esitato a contestare frontalmente i risultati prodotti da quei settori della recente storiografia giuridica cattolica internazionale che si sono impegnati a vedere ovunque chierici intenti a proporre i diritti dell’uomo e il tanto vituperato diritto soggettivo come base per un miglior vivere civile. «L’Aquinate – ha scritto seccamente – insiste sull’autonomia e primazia del cosmo, sul primato dell’ordine universale; un primato che s’impone in forza della perfezione del tutto rispetto alla imperfezione d’ogni singola individualità»8. Solo nel 1300, con l’esperienza eversiva e inquietante dei francescani, cominciò, secondo Grossi, a comparire la gramigna del volontarismo e del soggettivismo nel diritto9. Il progressivo affermarsi di queste concezioni attraverso la «strategia giusnaturalistica» tutta politica e statuale in difesa degli astratti diritti dell’individuo avrebbe portato definitivamente fuori strada rispetto alla retta via indicata da san Tommaso: «Lo spigliato itinerario della modernità – ha precisato ripetutamente, e con sincero rimpianto verso un passato perduto per sempre – grazie alla intensificazione del politico ottenuta con il subdolo, ma efficace strumento della strategia to che «per la storia giuridica continentale il secolo XVIII è momento di rottura, di discontinuità profonda – pervicacemente voluta – con il passato», Grossi accusa l’«illuminismo giuridico» di non essere altro che propaganda politica, «la più intelligente, la più consapevole, la più abile fonderia di miti giuridici mai riscontrabile nella lunga storia giuridica occidentale» (p. 45). Per una efficace e condivisibile critica di queste posizioni, che di fatto rivelano una struggente nostalgia verso il mondo dell’Antico regime, dove regnava sovrana la sapiente mediazione dei sacerdotes juris, cfr. R. Ajello, L’illusione “òntica”. A proposito di un libro recente di Paolo Grossi, in «L’ape ingegnosa», I, 2001, pp. 7-29. 8   P. Grossi, L’ordine giuridico medievale cit., p. 78. 9   Cfr. P. Grossi, Usus facti. La nozione di proprietà nella inaugurazione dell’età nuova, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», I, 1972, pp. 287 e sgg.

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giusnaturalistica, si era risolto, per la storia del diritto, nel chiuso positivismo giuridico di cui nonostante il trascorrere del tempo siamo ancora le vittime»10. A livello internazionale le denunce più forti e autorevoli contro la modernità giuridica sono venute negli ultimi decenni soprattutto dal filosofo del diritto francese Michel Villey. Riduttivamente definito da taluni avversari come neotomista, Villey esprime invece una posizione originale che continua ad avere larga udienza tra gli specialisti: una posizione allo stesso tempo polemica sia contro il moderno giusnaturalismo dei diritti con la sua deriva giuspositivista, sia contro il modello giuridico ebraico-cristiano che ha sempre subordinato il diritto all’etica, alla teologia e ai dogmi della religione rivelata. La sua predilezione va infatti verso il cosiddetto «diritto naturale classico» illustrato nelle opere di Aristotele e di san Tommaso11. Un diritto ritenuto oggettivo, realistico, programmaticamente autonomo da condizionamenti della politica, della morale, della filosofia; inteso come giusta ripartizione tra gli uomini di beni esteriori, ricerca dell’ordine latente nella natura delle cose: «Il diritto è una cosa, un oggetto, è la parte che spetta a ciascuno»12, è suum cuique tribuere. Esso – secondo Villey, che non dimentica mai di sottolineare la fondamentale natura relazionale e sociale del diritto naturale classico come immediata espressione di un cosmo organicamente concepito – non andrebbe mai confuso con un sistema di leggi, o con l’organizzazione della forza e del potere, o, soprattutto, con la pretesa soggettiva di diritti dell’individuo da realizzare in spregio alla realtà. Al diritto spetta, insomma, unicamente il compito di occuparsi di beni 10   P. Grossi, Modernità politica cit., p. 39. La cosiddetta «medioevofilia ideo­ logica» di Grossi – per riprendere un’efficace immagine di Giovanni Tarello – e soprattutto il suo aspro anti-illuminismo risultano particolarmenti evidenti anche nel volume Scienza giuridica italiana. Un profilo storico, 1860-1950, Milano 2000, sia dove polemizza duramente con Bobbio, critico del valore complessivo delle opere prodotte dai giuristi italiani durante il fascismo, sia nel sottolineare la positiva «frattura» elaborata da molti giuristi del primo Novecento con «le dommatiche e le mitologie della concezione illuministica e post-illuministica del diritto così dura a morire in pieno secolo Ventesimo» (p. 218). 11   Sono curiose le forti assonanze su questo tema tra i lavori di M. Villey e quelli di L. Strauss (di cui si veda in particolare Diritto naturale e storia, Genova 1999). 12   Cfr. l’introduzione di Francesco d’Agostino a M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, Milano 1986 (I ed. Paris 1975), p. xii.

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materiali e non di beni spirituali, di fare giustizia attribuendo a ciascuno il suo: quel suum che i giudici, autentici sacerdotes iuris, di volta in volta hanno l’ufficio di definire con l’arma dell’interpretatio, applicando un concetto di equità in linea con i tempi. Quasi tutti i libri di Villey sono indirizzati a denunciare – con un furore polemico che pare fatto apposta per esaltare le frange più integraliste e settarie del mondo cattolico – «l’assassinio, continuamente ripetuto, del sistema del diritto naturale classico e la sua progressiva sostituzione col sistema del diritto soggettivo»13. In questa direzione le radici del male sono state individuate e denunciate, senza molta originalità, nello stoicismo e in Cicerone14. Fu infatti quella filosofia volontaristica, tutta centrata sull’uomo, sulla sua dignità (Cicerone nel De legibus I, 8 scriveva: «Est igitur homini cum Deo similitudo»), sull’etica del dover essere, che cominciò ad erodere le salde basi aristoteliche del diritto trasformandolo in un prodotto dell’uomo e non più della natura, confondendolo inopinatamente con la morale, la filosofia e la politica. Dopo aver contaminato, senza minarne le salde basi aristoteliche, il diritto romano nell’età repubblicana e imperiale, quel modo di concepire il diritto riapparve da trionfatore nel periodo rinascimentale. Furono gli umanisti a inventare di sana pianta e a diffondere in Europa una versione soggettivistica e razionalistica del diritto romano tutto impregnato di stoicismo, assai lontano dalla verità storica, aprendo di fatto la strada alla modernità giuridica. «Quanto però ai nessi tra lo stoicismo e la filosofia del diritto moderno, come metterli in dubbio? – si è retoricamente interrogato a proposito Villey – Il razionalismo, il legalismo, il diritto creato dal cervello dell’uomo dominatore della natura, il trionfo del diritto soggettivo di proprietà assoluto, fondato sul possesso, lo sviluppo sfrenato di una teoria del contratto fondato sul consenso, non sono forse i tratti dominanti del pensiero giuridico moderno?»15. Nel corso dei secoli successivi sono apparse le figure di Grozio,   Ivi, p. 581.   Su questi temi, e in particolare sulla nascita in Occidente del diritto soggettivo, resta infatti un classico il libro di G. Solari, Filosofia del diritto, I. Individualismo e diritto privato, Torino 1959 (I. ed. 1911); da vedere anche R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987. 15   M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno cit., p. 407. 13 14

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Hobbes, Locke, Kant e molti altri – guarda caso, nessun giurista di professione eccettuato l’olandese – a relegare sempre più ai margini il diritto naturale classico, elaborando la teoria dei diritti dell’uomo e la centralità dello Stato, il moderno leviatano. Chi tuttavia ha occupato un posto di assoluto rilievo nella ricostruzione storica di Villey, accanto alle acute pagine dedicate a Hobbes, ritenuto uno dei padri del moderno diritto soggettivo, è senz’altro il francescano Guglielmo di Ockham. Al grande filosofo del nominalismo, ripetutamente accusato e condannato per eresia, nonché portavoce dell’inquietante e turbolento pianeta francescano del XIV secolo, spetta infatti il merito – o meglio il grave demerito, dal punto di vista di Villey – di aver concentrato l’attenzione unicamente sull’individuo a discapito della società, dei gruppi e delle comunità, esaltando così quel pericoloso misticismo individuale latente nel cristianesimo dalle origini. Villey ha assistito con crescente preoccupazione, in anni recenti, al successo della teoria dei diritti dell’uomo a livello internazionale e soprattutto nel cuore stesso della cristianità, rappresentato dalla Chiesa cattolica post-conciliare. Nel 1990 la sua reazione contro la nuova e aggressiva storiografia che ascriveva, di volta in volta, alla Chiesa medievale, alla canonistica, alla prima e alla seconda scolastica il merito storico di aver generato il diritto soggettivo è esplosa in un pamphlet dai toni minacciosi e paradossali in cui egli è arrivato persino ad affermare – senza arrossire – che Hobbes e Locke (e a noi verrebbe voglia di aggiungere ironicamente, ma in linea con i suoi ragionamenti, i francescani e il povero Ockham) hanno più o meno aperto la strada ai totalitarismi, a Hitler e a Stalin16. Rilanciando gli attacchi contro i diritti dell’uomo che erano stati sferrati da Burke nei confronti di Paine, da Hegel nei confronti di Kant, riscoprendo le ironie di Bentham e la critica corrosiva di Marx, Villey ha richiamato all’ordine gli studiosi cattolici ricordando loro che Pio VI aveva subito definito i famigerati articoli della Dichiarazione dell’89 «contrari alla religione e alla società»17. Ai seguaci del tomista Jacques Maritain, che tanto si era adoperato nel dopoguer16   Cfr. M. Villey, Le droit et les droits de l’Homme, Paris 1990, p. 153. I diritti propagandati nei regimi borghesi moderni sono stati – secondo Villey – «la giustificazione dei regimi totalitari e degli ospedali psichiatrici». 17   Ivi, p. 10.

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ra per portare la Chiesa sulle posizioni che sarebbero state quelle del Vaticano II, ha ricordato l’assenza di ogni riferimento al diritto soggettivo nei testi di san Tommaso come in quelli dei domenicani e dei gesuiti della seconda scolastica: «La stessa espressione ‘diritti’ è rimasta, a mia conoscenza, assente da questa letteratura». «Non sembra proprio che il cattolicesimo sia stato la culla dei diritti dell’uomo – ha infine sentenziato, senza concedere alcuna possibilità di appello –. Ricordo che il papato, fino a un’epoca assai recente (fino a Giovanni XXIII, se non sbaglio), è restato costante nella sua attitudine di ostilità verso i diritti dell’uomo»18. A questa vera e propria dichiarazione di guerra, giunta tra l’altro al culmine di una folta serie di interventi polemici, le risposte di autorevoli storici del diritto cattolici e protestanti non si sono fatte attendere. Ne è nato un dibattito vivace e dagli esiti tanto incerti quanto decisivi per il cammino della Chiesa nei prossimi anni. Tra i massimi studiosi al mondo di diritto canonico, professore emerito di studi umanistici alla Cornell University, Brian Tierney si è rivelato a tutt’oggi come l’avversario più temibile ed efficace di Michel Villey e dei suoi numerosi seguaci in Italia e all’estero. La sua imponente produzione ha affiancato negli ultimi tempi la crescita di un vasto movimento storiografico in area anglosassone sulle origini della teoria dei diritti naturali19, divenendo un punto di riferimento fondamentale del dibattito. Nel volume The Idea of Natural Rights. Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law 1150-1625, del 1997, lo storico inglese ha attaccato le posizioni di Villey inquadrando con chiarezza l’orizzonte dei suoi studi nella prospettiva della nuova storiografia conciliare simpatetica verso la teoria dei diritti dell’uomo:   Ivi, p. 130.   Cfr. ad esempio, fra i molti lavori apparsi, R. Tuck, Natural Rights Theories. Their Origin and Development, Cambridge 1979; Id., Medieval Natural Rights Theories, Cambridge 1979; K. Minogue, The History of the Idea of Human Rights, in The Human Rights Reader, a cura di W. Laqueur e B. Rubin, New York 1979; A Culture of Rights, a cura di M.J. Lacey e K. Haakonssen, Cambridge 1991; A.S. Brett, Liberty, Rights and Nature. Individual Rights in Later Scholastic Thought, Cambridge 1997. Un’ampia rassegna di questi lavori si trova, oltre che nello stesso libro di Tierney, anche in R. Martin, J.W. Nickel, A Bibliography on the Nature and Foundations of Rights 1947-1977, in «Political Theory», VI, 1978, pp. 395-413. 18 19

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Le parole di un papa del nostro tempo, Giovanni XXIII – ha precisato in proposito –, potrebbero essere prese come compendio del tema principale di questo libro. Secondo la dottrina della Pacem in terris, i diritti naturali e il diritto naturale derivano entrambi non da una qualche visione della natura cosmica («le leggi [...] che regolano le cieche forze elementari dell’universo»), ma dalla nostra percezione della natura umana come «dotata di intelligenza e di libero arbitrio». I diritti e i doveri, scrive papa Roncalli, scaturiscono come conseguenza della natura umana così intesa. Queste idee non sono nuove. I papi del nostro tempo, che hanno abbracciato così entusiasticamente l’idea dei diritti naturali, dopo che i loro predecessori l’avevano condannata per molti anni come un’aberrazione empia dell’Illuminismo, hanno fatto ritorno, forse senza saperlo, ad una tradizione radicata nella giurisprudenza cristiana e nella filosofia del medioevo20.

Con esemplare onestà intellettuale, egli ha riconosciuto ampiamente i meriti storici dell’Illuminismo; allo stesso tempo, tuttavia, non ha esitato ad accusarne i fautori di aver completamente dimenticato le origini religiose della moderne teorie sui diritti dell’uomo: «La dottrina dei diritti individuali non fu un’aberrazione tardomedievale a partire da una precedente tradizione del diritto oggettivo o della legge morale naturale. Ancor meno fu un’invenzione del XVII secolo ad opera di Grozio o di Hobbes o di Locke. Al contrario – ha seccamente sottolineato Tierney –, ciò che intendo sostenere è che tale dottrina fu il prodotto caratteristico di una grande epoca di quella giurisprudenza creativa che nel XII e nel XIII secolo pose le fondamenta della tradizione giuridica occidentale»21. Attraverso raffinate e impervie analisi filologiche delle glosse di giuristi come Rufino, Riccardo e Uguccione, lo studioso inglese ha cercato di provare la sua tesi riportando in vita il linguaggio canonistico dei diritti. Contro la rigida e irriducibile contrapposizione di Villey tra il diritto naturale classico e il moderno diritto soggettivo, Tierney ha insistito sulla possibilità di 20   Cfr. l’edizione italiana del volume di Tierney, L’idea dei diritti naturali. Diritti naturali, legge naturale e diritto canonico 1150-1625, Bologna 2002, p. 479. 21   Ivi, p. 69. Secondo Tierney, «l’idea dei diritti naturali si sviluppò – forse in origine avrebbe potuto svilupparsi solo – all’interno di una cultura religiosa che integrava l’argomentazione razionale sulla natura umana con una fede in cui gli uomini erano visti come figli di un Dio amorevole» (p. 489).

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scorgere già nel diritto romano, così come nei testi di Tommaso, tracce importanti di diritto soggettivo, dando così ragione a Maritain e a quei seguaci della filosofia tomista assillati dalla necessità di non rompere in alcun modo con la tradizione cattolica. L’ipotesi continuista di una secolare, carsica presenza del diritto soggettivo accanto a quello oggettivo nella cultura giuridica ecclesiastica, destinata a riaffiorare in forme differenti a seconda dei contesti storici, è stata infine ribadita nell’analisi di tre momenti decisivi della storia dell’Occidente cristiano: la disputa sulla povertà fra il papa e i francescani; il dibattito sulle teorie conciliariste elaborate da Jean Gerson; l’elaborazione dei testi scritti pro e contro i diritti degli indiani nell’età della seconda scolastica e del descubrimiento del Nuovo mondo. Certo, è difficile appassionarsi a questa dotta discussione a colpi di citazioni per chiarire chi abbia ragione in merito alla priorità circa le origini dell’idea dei diritti umani. Se pare condivisibile l’obiettivo di Tierney di spostare finalmente sul piano della ricerca storica le recenti considerazioni di filosofi e di politologi sulla natura universalizzante o meno dei diritti22, stabilire se siano stati per primi i canonisti o i francescani, oppure Ockham, Gerson o Suarez, a delineare convincenti teorie nell’ambito del diritto soggettivo non pare affatto una questione capace di eccitare la curiosità e l’interesse della storiografia laica. Da quest’ultimo versante si potrebbe facilmente replicare rinviando alle ancora insuperate analisi di Troeltsch sulla grande differenza tra l’individualismo religioso cristiano, fondato sull’intimo rapporto di coscienza tra Dio e uomo, e l’individualismo razionalistico di matrice stoica e pagana, tutto proiettato sulla dimensione sociale e politica dell’uomo, destinato a infondere un energico e decisivo soffio vitale al moderno giusnaturalismo dei diritti23. È risaputo quanto siano stati 22   Questo tema è oggi al centro della riflessione di molti filosofi e politologi che s’interrogano sulla questione se i diritti siano solo un prodotto della cultura occidentale o se tracce siano presenti anche in altri contesti. La tesi universalizzante è, ad esempio, sostenuta da A. Gewirth, Reason and Morality, Chicago 1978. Contro si sono schierati in molti, e in particolare A. MacIntyre (Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano 1988), secondo cui i diritti umani sono solo «mere finzioni». Ai suoi occhi credere ai diritti, come fanno oggi in Occidente, equivale a credere all’esistenza di streghe e unicorni. 23   Cfr. E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese cit., in particolare, nel vol.

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importanti per la nascita della cultura giuridica dell’Illuminismo Cicerone e gli scritti prodotti dall’Umanesimo e dal Rinascimento, con la loro scoperta degli ideali della civiltà pagana e la continua esaltazione del valore e della dignità della persona umana24. Nessuno dubita – e lo vedremo meglio più avanti – che esista una differenza netta tra il modo di concepire il diritto naturale da parte della scuola tomista e dei teologi gesuiti o domenicani della seconda scolastica, anche quando fanno riferimento al diritto soggettivo, e il giusnaturalismo di Voltaire, di Diderot, di Filangieri25. Insomma – ammesso che abbia ragione Gabriel Le Bras quando afferma che l’idea dei diritti naturali risale, in ultima analisi, ad Adamo ed Eva26 –, per lo storico, avventurarsi sulla tematica delle origini presenta sempre dei pericoli da non sottovalutare. Franco Venturi ha più volte denunciato il rischio della confusione: di perdere di vista le peculiarità, le differenze, i tratti originali da parte di tutti coloro che amano «risalire alle origini, ritornare ai punti di partenza. Esattamente il contrario cioè di quello che debbono fare e fanno gli storici dei movimenti intellettuali e politici»27. Lungo la strada della ricerca delle origini qualcuno potrebbe, ad esempio, approdare alle tesi paradossali di Walter Ullmann – uno dei maestri di Tierney –, secondo cui «non è possibile capire né la Costituzione inglese, né la Dichiarazione del 1776, né la Costituzione americana se non si tiene il debito conto dell’influenza che II, il capitolo Il moderno diritto di natura classico e profano. Sempre su questa distinzione, su cui avremo modo di tornare, cfr. anche la classica opera di A. Passerin D’Entrèves, La dottrina del diritto naturale. Saggio di interpretazione storico-critica, Milano 1954. 24   Cfr. al riguardo P. Gay, The Enlightenment: An Interpretation cit.; V. Ferrone, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell’uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari 2008. 25   Cfr. quanto afferma E. Troeltsch, Le dottrine sociali delle chiese cit., vol. I, p. 425, riferendosi al diritto naturale della tomistica: «Non si tratta di un diritto naturale rivoluzionario che soltanto sulla base della ragione scoperta trasformi il mondo come fu il diritto di natura dell’Illuminismo o come sono le moderne teorie politiche e sociali, è invece un diritto naturale conservatore organicisticopatriarcale, che sta sotto la tutela della Chiesa ed è comprensibile appieno soltanto alla ragione cristianamente illuminata». 26   Cfr. la discussione di questa tesi fatta da M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Paris 19754, p. 226. 27   F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino 1969, p. xiv.

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le concezioni feudali, proprio per il fatto di essere così intensamente praticate, hanno esercitato sulle successive generazioni»: «Gli Stati Uniti – ha sentenziato Ullmann – sono l’erede di diritto del medioevo europeo»28. Tierney, va subito precisato, non appartiene alla folta schiera degli apologeti a oltranza del medioevo cristiano quale sorta di età dell’oro. Assai più scaltra e agguerrita si presenta la sua riflessione epistemologica sulla questione della ricerca delle origini e sul rapporto tra linguaggi e contesti. Ciò non toglie che accettare acriticamente il suo terreno di discussione, e magari replicare rifacendosi ai vecchi e consunti schemi anticlericali ottocenteschi, insistendo sul primato dell’Illuminismo nell’elaborazione della moderna teoria dei diritti, non porterebbe da nessuna parte. Anzi, a ben vedere, sarebbe persino un grave errore, in quanto significherebbe non aver capito l’importanza capitale della posta in gioco. Il duro confronto storiografico in corso sulla funzione della Chiesa e della giurisprudenza cristiana nella nascita della teoria dei diritti dell’uomo rappresenta infatti un capitolo affascinante del dibattito post-conciliare tra quanti accettano il dialogo con la modernità, seppure con diversità di accenti e d’interpretazioni, e coloro che invece persistono in un rifiuto frontale. Tierney sa bene che le fonti del diritto canonico stanno da sempre nella Rivelazione e nella Tradizione: nella parola di Cristo divino legislatore così come nei testi dei Padri della Chiesa, nelle decretali dei pontefici e nelle decisioni dei concili. Ritrovare tracce di diritto soggettivo nel tomismo, scoprire, e addirittura documentare, l’origine stessa della teoria dei diritti naturali nelle glosse dei canonisti significa automaticamente rafforzare la legittimità e l’autorevolezza delle scelte fatte dal Vaticano II a favore dei diritti umani. Rispetto alle posizioni reazionarie di Villey e dei suoi seguaci non v’è il minimo dubbio che le tesi di Tierney costituiscano uno straordinario e apprezzabile passo in avanti. Un passo in avanti che però si arresta bruscamente, e non a caso, dinanzi alla necessità di interrogarsi sulle ragioni storiche e filosofiche del granitico rifiuto opposto dalla Chiesa, alla fine del Settecento, alla moderna teoria dei diritti dell’uomo con la ferma condanna dell’Illuminismo e della   W. Ullmann, Individuo e società nel Medioevo, Roma-Bari 1983, p. 127.

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Rivoluzione francese29. Quel rifiuto netto e irriducibile ha pesato lungamente sulla storia europea – in particolare sulle drammatiche vicende della flebile opposizione ecclesiastica ai fenomeni totalitari del Novecento, al fascismo e al nazismo, mentre il comunismo fu aspramente combattuto – e per certi versi continuerà ancora a pesare se non si cercherà di comprendere i motivi per cui, ad esempio, sin dal XVII secolo la Chiesa cattolica, definitivamente trasformata dall’applicazione del Tridentino in una ferrea monarchia papale, passò al mondo protestante il testimone della riflessione sul diritto soggettivo. Non v’è dubbio che fare definitivamente i conti con l’Illuminismo, la vera bestia nera, il cuore della modernità, è questione difficile e sgradevole: un vero boccone indigesto; e tuttavia hoc opus, hic labor se si vuole veramente chiarire che cosa la Chiesa d’oggi intenda per diritti umani e quindi quali siano i margini di collaborazione tra i suoi fedeli e quei non credenti che da tempo hanno sposato la causa dei diritti dell’uomo.

29   Su questo punto cfr. le riflessioni giustificative del cardinale J.-M. Lustiger, Dieu merci, les droits de l’homme. Articles, conférences, homélies, interviews, 1948-1985, Paris 1990.

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La Chiesa di fronte ai totalitarismi

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’89 ha suggellato il trionfo del moderno diritto soggettivo proclamando solennemente, dinanzi al mondo intero, la dignità, la centralità e l’autonomia dell’uomo come punto di riferimento e fonte primaria della legge. A partire da quella data, per ampi settori della cultura laica dell’Occidente, il fondamento ultimo del diritto non sta più nei comandamenti di Dio o nelle consuetudini della storia, ma solo nell’uomo, nella sua volontà e libertà. Titolare di diritti e di obblighi verso i suoi simili alla luce del principio d’eguaglianza e dell’etica della responsabilità individuale, l’uomo diventava finalmente libero di esercitare con spirito critico la ragione in ogni campo, di scegliere tra ipotesi differenti e di costruire autonomamente il proprio destino1. Se nel 1783, in polemica con la mentalità e con le strutture corporative e cetuali dell’Antico regime, Kant aveva invitato l’individuo ad uscire dalla minorità emancipandosi da ogni sudditanza verso il tradizionale modo di concepire l’autorità, la Rivoluzione francese, inverando larga parte delle originali idee repubblicane e costituzionali dei Lumi in merito ai diritti 1   Cfr. su questi temi le riflessioni di H. Arendt (Les origines du totalitarisme. L’impérialisme, II, Paris 1982, pp. 271 e sgg.), che scorge giustamente nella Dichiarazione dell’89 il momento cruciale in cui come fonte della legge viene indicato l’uomo stesso e non più i comandamenti o le consuetudini della storia.

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dell’uomo, spinse Hegel a scrivere parole toccanti sul significato straordinario di quegli eventi per la storia dell’umanità: Da che il sole splende sul firmamento e i pianeti girano intorno ad esso non si era ancora scorto che l’uomo si basa sulla sua testa, cioè sul pensiero, e costruisce la realtà conforme ad esso. Anassagora era stato il primo a dire che il Nous governa il mondo; ma solo ora si pervenne a riconoscere che il pensiero doveva governare la realtà spirituale. Questa fu dunque una splendida aurora. Tutti gli esseri pensanti hanno celebrato concordi quest’epoca. Dominò in quel tempo una nobile commozione, il mondo fu percorso e agitato da un entusiasmo dello spirito come se allora fosse finalmente avvenuta la vera conciliazione del divino con il mondo2.

Tra tutti gli esseri pensanti i massimi esponenti della Chiesa cattolica furono tra i pochi a rifiutare di celebrare qualsiasi aspetto di quel grandioso evento, scorgendovi semmai da subito i segni del demonio all’opera, come non esitò a scrivere Joseph de Maistre nelle Considérations sur la France del 1796; anzi per i decenni a seguire i vertici ecclesiastici vi si opposero frontalmente e in termini irriducibili. Non traggano in inganno le solitarie e marginali prese di posizione di preti come Nicola Spedalieri a favore della teoria dei diritti3. Nel marzo 1791, nell’enciclica Quod aliquantum, scritta contro la Costituzione civile del clero emanata dall’Assemblea nazionale, Pio VI chiarì subito le ragioni di quell’inevitabile conflitto, mai ufficialmente concluso, dichiarando: «Quale stoltezza maggiore può immaginarsi quanto ritenere tutti gli uomini uguali e liberi?». La cosiddetta «libertà naturale» dell’uomo, il diritto fondamentale alla base di tutti i diritti, teorizzata e proclamata dagli illuministi, non era mai esistita: 2   Cfr. la citazione e il commento ad essa in V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea cit., pp. 33 e sgg. 3   Cfr. N. Spedalieri, De’ diritti dell’uomo. Libri VI ne’ quali si dimostra che la più sicura custode de’ medesimi è la religione cristiana e che però l’unico progetto utile alle presenti circostanze è di far rifiorire essa religione, Assisi 1791. Il libro costituisce in realtà uno degli attacchi più intelligenti e feroci alla cultura illuministica dei diritti dell’uomo. Contro gli uomini dei Lumi Spedalieri scriveva con astio: «Con quale mezzo la Setta è giunta a distruggere in Francia la Religione ed il Principato? Col cangiare le opinioni del popolo. E come le ha cangiate? Co’ libri che ha fatto circolare liberamente per le mani di ogniuno» (p. 435).

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lì si celava semmai la radice vera di tutti i mali moderni. Non a caso Dio stesso nell’intimare ad Adamo la pena di morte se, disobbedendo, «avesse gustato i frutti dell’albero della scienza del bene e del male», l’aveva esplicitamente negata sin dall’origine dei tempi opponendovi un chiaro e fermo «freno»: «Ove è dunque quella libertà di pensare e di operare che i decreti dell’Assemblea attribuiscono all’uomo vivente in società come un diritto immutabile della natura?». Pio VI chiariva che il potere, l’autorità, la legittimità di ogni governo derivavano solo e unicamente da Dio e non certo da un contratto fra uomini che, incredibile arroganza, si definivano liberi ed eguali; contro costoro i sacri testi largheggiavano di esempi contrari, come quello della consegna per mano divina delle tavole della legge a Mosè o le celebri parole dell’apostolo Paolo che, nella lettera ai romani, aveva definitivamente consacrato ogni forma di autorità civile nel segno di Dio («non est potestas nisi a Deo»). Il nuovo modo d’intendere la libertà da parte dei rivoluzionari, e prima ancora degli illuministi, secondo Pio VI minava alla base la nozione tradizionale di Chiesa come societas di origine soprannaturale e per questo gerarchicamente superiore alla società civile4. Lungo questo tragitto di aperta contestazione dell’idea moderna e illuministica di libertà che di volta in volta avrebbe infiammato la storia europea, s’incamminarono a lungo i papi successivi. Nell’enciclica Mirari vos, del 1832, Gregorio XVI utilizzò le considerazioni di Pio VI per condannare la corrente del cattolicesimo liberale del giornale «L’Avenir» di Lamennais, Lacordaire e Montalembert che osava propugnare il principio della separazione fra Stato e Chiesa quale occasione storica e unica risposta possibile alla crisi della Restaurazione e alla rivoluzione del 18305. Il gran tema che ossessivamente ritornava nella Mirari vos era ancora una volta soprattutto quello della libertà di coscienza, destinato a costituire in quanto «errore velenosissimo»6, sino al Vaticano 4   Cfr. l’enciclica Quod aliquantum, in Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, a cura di U. Bellocchi, Città del Vaticano 1994, II, pp. 150-182. 5   Su questi temi cfr. G. Verucci, Félicité Lamennais. Dal cattolicesimo autoritario al radicalismo democratico, Bologna 19882. 6   Cfr. Mirari vos, in Enchiridion delle Encicliche (1740-1998), 8 voll., a cura

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II, la pietra d’inciampo dell’atteggiamento di Roma verso i diritti dell’individuo: prova evidente della difficoltà per il cattolicesimo ortodosso di rinunciare all’ideale medievale e controriformistico di uno Stato cattolico deciso a consegnare in toto la propria consistenza etica all’ufficio magisteriale della cattedra di Pietro. Nel denunciare l’idea stessa del contratto sociale tra uomini liberi ed eguali, il pontefice scorgeva i primi germi della malattia nel pensiero protestante, nello spirito settario delle conventicole ereticali valdesi e lollarde e nella loro esecrabile vocazione alla disobbedienza, alla rivendicazione incessante della libertà di coscienza dell’individuo7. Tenacemente questi temi ricorrono in tutte le encicliche del XIX secolo. Basti pensare a quelle celebri di Pio IX (Quanta cura, 1864, posta a premessa del Sillabo) e di Leone XIII (Libertas, 1888). Da un lato stava sempre la concezione illuministica e liberale della libertà come diritto soggettivo e innato dell’individuo di scegliere «fra due termini», dall’altro il concetto teologico e tomistico di «vera libertà», intesa come adesione alla «sempiterna legge divina», opzione per il Bene e accettazione indiscussa della Verità insegnata dalla Chiesa, «libertà dall’obbligo naturale di scegliere il termine negativo» accettando la Rivelazione e la funzione decisiva della «grazia divina»8 secondo gli antichi di E. Lora e R. Simionati, vol. 2, Bologna 1972, pp. 41 e sgg. Gregorio XVI denunciava il persistente deismo e il continuo riferimento, da parte degli epigoni del pensiero illuministico e liberale, alla nozione di religione naturale e universale attaccando «l’indifferentismo, ossia quella perversa opinione [...] secondo la quale si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto» e rivendicando il fatto che «esiste un solo Iddio, una sola Fede, un solo Battesimo». «Di questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato» (corsivi miei). 7   Cfr. ivi, p. 46. 8   In tal senso nel Sillabo, al paragrafo VII, Errori intorno all’etica naturale e cristiana, si tuonava contro coloro che affermavano: «Le leggi morali non hanno bisogno di sanzione divina, e non è affatto necessario che le leggi umane si conformino al diritto di natura o ricevano da Dio la forza di obbligare» (cfr. Enchiridion Symbolorum, a cura di H. Denziger e P. Hünermann, Bologna 1995, p. 1037). Contro l’idea di libertà naturale elaborata dal «liberalismo» e dal «razionalismo», Leone XIII, nell’enciclica Libertas (Enchiridion delle Encicliche

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schemi della veemente e perennemente attuale polemica di Agostino contro Pelagio. L’uomo libero, artefice della sua legge e del suo destino, come pure il principio dell’autonomia della ragione alla base dell’idea illuministica dei diritti soggettivi sacralizzati nella Dichiarazione dell’89, resteranno sempre autentiche bestie nere per tutti i teologi della curia romana. Anche il contesto generale della Rerum novarum del 1891, l’enciclica che per la prima volta si confrontava con la questione sociale, più che sui diritti di libertà, mai citati, mostra come si preferisse insistere sui doveri, concedendo qualcosa ai diritti sociali dei lavoratori invocati dai sindacati; sempre però all’interno di una concezione organicistica della società ostile verso l’individualismo liberale9. Va da sé che la lotta feroce al modernismo nei primi decenni del secolo non era certamente lo sfondo più adatto a far maturare un diverso atteggiamento verso quella teoria dei diritti considerata – a ragione – la base di partenza per le perniciose concezioni democratiche e socialiste elaborate dalla modernità politica. E non potevano essere, come vedremo, né Pio XI, grande restauratore del mito dello Stato cattolico, del Regno in terra di Cristo Re, né Pio XII, in gioventù tra i principali compilatori del primo Codice di diritto canonico, promulgato nel 1917 – dove era ribadito punto per punto il potere assoluto e autocratico del papa, e assorbito tra le righe lo stesso giuramento antimodernicit., vol. 3, Bologna 1999, pp. 434 e sgg.) ribadiva che l’uomo è veramente libero solo quando cerca il bene indicato dalla Chiesa e rifiuta il male, altrimenti è schiavo del peccato. Ne discendeva che il rifiuto dei diritti soggettivi si fondava per intero sulla negazione del diritto di libertà nel senso illuministico: «non è assolutamente lecito invocare, difendere, concedere una ibrida libertà di pensiero, di stampa, di parola, d’insegnamento o di culto, come fossero altrettanti diritti che la natura ha attribuito all’uomo. Infatti, se veramente la natura li avesse concessi, sarebbe lecito ricusare il dominio di Dio, e la libertà umana non potrebbe essere limitata da alcuna legge». 9   Cfr. Rerum novarum, in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 3, pp. 601 e sgg., in particolare la polemica contro il socialismo «falso rimedio» alla «questione sociale» in quanto negazione del diritto di proprietà, definito esplicitamente un «diritto di natura» inalienabile. Il modello sociale alternativo proposto si fondava sulla carità e la fratellanza cristiana, nel rispetto dell’«ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel vangelo»; e comunque se aperture vennero fatte, fu in direzione di quelli che oggi definiremmo i diritti sociali dei lavoratori, non certo in direzione di quelli civili, di libertà dell’individuo.

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sta –, a cambiare un atteggiamento di critica e di sostanziale rifiuto dei cosiddetti diritti di libertà consolidatisi nei secoli. A mutare per sempre la storia della Chiesa e il suo atteggiamento nei confronti dell’uomo, della moderna teoria dei diritti, del contrattualismo democratico, repubblicano e costituzionale invocato dagli uomini dei Lumi furono soprattutto gli esiti sconvolgenti dei totalitarismi, con la loro scia di sangue e di orrori, e in particolare la tragedia dell’Olocausto; a seguirli, la tormentata presa di coscienza del fallimento storico di un modello ecclesiale autoritario, superato dai tempi, colpevolmente flebile e distratto di fronte ai crimini delle dittature di destra e di sinistra. Solo quegli eventi drammatici ebbero la forza dirompente di scuotere antiche e granitiche certezze, aprendo una stagione dagli esiti ancora oggi incerti. Gli studiosi sanno che a quel terribile appuntamento con la storia la Chiesa arrivò con una concezione della sua funzione e della sua identità ancora tutta ispirata alle suggestioni del Tridentino e al modello assolutistico della monarchia spirituale del papa – identità tatticamente aggiornata, di volta in volta, con le necessità imposte dalla lotta frontale contro lo Stato liberale e i suoi incontrollabili e inquietanti sviluppi democratici. Tutti i progetti di restaurazione cattolica formulati dai diversi pontefici dopo la Rivoluzione francese e culminati con il Sillabo del 1864 e con il Vaticano I, dove vennero solennemente proclamati il principio d’autorità e l’infallibilità del papa in materia di fede e di morale, si scontrarono tuttavia con i processi di secolarizzazione degli Stati europei e anche con la stessa effervescenza del laicato cattolico, simpatizzante per le idee liberali, democratiche e socialiste10. Sin dal 1863 l’organo ufficiale dei gesuiti, «La Civiltà cattolica», dovendo fare i conti con la nascita dei movimenti e dei partiti cattolici e allo stesso tempo con il rapido affermarsi delle teorie liberali e costituzionali favorevoli alla definitiva separazione tra Chiesa e Stato, elaborò la strategia della parziale apertura, come male minore, a forme di intervento dello Stato nei campi delicatissimi dell’opinione pubblica, della libertà di stampa e 10   Cfr. su questi temi D. Menozzi, La Chiesa e la secolarizzazione, Torino 1993; G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto Chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato 1985.

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dell’insegnamento. In questa direzione, con esemplare chiarezza, Leone XIII, nell’enciclica Libertas, pur continuando a rivendicare orgogliosamente il ruolo della Chiesa come «colonna e firmamento di verità, incorrotta maestra di moralità», concedeva sul piano dell’opportunità politica, obtorto collo, spazi inattesi allo Stato, rifacendosi a uno schema politico e strumentale (che avrebbe diretto la posizione ufficiale del papato sino a Giovanni XXIII) fondato sulla celebre distinzione dialettica fra “tesi” (il principio dogmatico della Chiesa a favore di uno Stato integralmente cattolico) e “ipotesi” (il necessario adattamento alle circostanze): «Se poi accade – scriveva il pontefice – che, per particolari condizioni dello Stato, la Chiesa si adegui a certe moderne libertà, non perché le prediliga in quanto tali, ma perché giudica opportuno permetterle, nel caso che i tempi volgessero al meglio, adotterebbe certamente la propria libertà e persuadendo, esortando, pregando si dedicherebbe come deve, all’adempimento della missione a lei assegnata da Dio che consiste nel provvedere all’eterna salute degli uomini»11. In realtà, al di là di momentanee fasi di confronto meno aspro, la guerra senza esclusione di colpi tra la Chiesa tridentina, a vocazione autoritaria, e lo Stato liberale, accusato da Leone XIII di voler essere «padrone assoluto e onnipotente», rappresenta uno dei pochi fili rossi a disposizione degli studiosi per dipanare l’intricata matassa rappresentata dalla storia religiosa e politica dell’Europa del XIX secolo12. L’accusa allo Stato di volere ridurre la Chiesa ad «associazione privata», a una delle tante «associazioni civili», dimenticando la sua natura divina di «suprema e perfetta società [...] con vero potere di far leggi, giudicare, punire»13, riecheggiò forte nelle encicliche di tutti i papi dell’Ottocento. Nella Rerum novarum lo scontro conobbe però un salto di qualità decisivo. La secolare sfida tra Chiesa e Stato si spostò dalle cancellerie al piano 11   Libertas cit., p. 491. Ma sull’argomento è ancora fondamentale la ricostruzione storica di Francesco Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna 1992, pp. 125 e sgg. La prima edizione di questo grande libro apparve a Torino nel 1924. 12   Per quanto riguarda l’Italia cfr. G. Verucci, La Chiesa cattolica in Italia dall’Unità ad oggi, Roma-Bari 1999. 13   Cfr. Libertas cit., pp. 473 e sgg.

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del controllo sociale e della direzione politica delle masse popolari, sempre più atomizzate e abbandonate a se stesse di fronte ai rapidi mutamenti economici che dissolvevano l’antico ordine sociale. Dopo aver finalmente delineato il nuovo «concetto cristiano dello Stato» nell’enciclica Immortale Dei (1885), prendendo nettamente le distanze dall’idea liberal-democratica che «la sovranità non è altro che la volontà del popolo» espressa attraverso l’elezione dei propri rappresentanti e indicando «libertà di coscienza, libertà di culto, libertà di pensiero, libertà di stampa» come «fonte e principio di tutti i mali», Leone XIII avviava, con la Rerum novarum, l’ennesimo tentativo di ricristianizzazione dell’Occidente su basi nuove e più efficaci. L’enfasi posta sull’associazionismo cattolico, allora in piena espansione, e in primo luogo il costante riferimento al «santuario della famiglia» minacciato dal moderno leviatano, divennero il saldo punto d’appoggio per l’auspicata riscossa dei cosiddetti corpi intermedi. Il principio della sussidiarietà dello Stato rispetto al primato delle forme autonome e spontanee di sociabilità civile, tra cui la Chiesa stessa e le sue associazioni collaterali, venne per la prima volta brandito come temibile arma politica: destinata, va detto, a grande fortuna soprattutto ai giorni nostri, dove la parola Stato è oramai divenuta qualcosa di simile a una insopportabile bestemmia. E ciò nondimeno solo con Pio XI la ferrea determinazione della Santa Sede a rivendicare il controllo integrale della società (il controllo totalitario della società, si vorrebbe dire, perlomeno nel senso del discorso pronunciato nel 1938 e messo in epigrafe a questo saggio) si dispiegò per intero. Le encicliche Ubi Arcano (1922) e Quas Primas (1925) sono di esemplare chiarezza al riguardo. Il carnaio della Grande guerra fu interpretato da Pio XI come l’occasione storica per una prima resa dei conti con il «laicismo», con la modernità secolarizzata degli illuministi, finalmente messi dove meritavano, e cioè sul banco degli imputati. «Si è voluto che le leggi e i governi fossero senza Dio e senza Gesù Cristo – dichiarò con toni apocalittici il pontefice –, derivando ogni autorità non da Dio, ma dagli uomini»; ne erano risultati una lotta di classe feroce, un nazionalismo cieco ed esasperato, e poi materialismo, miserie, guerre e odi inestinguibili, famiglie e scuole senza Dio. Di fronte a questa bancarotta dell’umanità occorreva reagire con vigore attraverso la «restaurazione del regno di Cristo» tra gli uomini, rilanciando il primato della Chiesa, «mae­ ­­­­­44

stra e guida di tutte le altre società [...], istituto che appartiene a tutte le nazioni, che a tutte è superiore e che è dotato di massima autorità». Il modello di riferimento ideale era indicato ancora una volta nel medioevo, mitica età dell’oro dominata da «quella vera società di nazioni che fu la cristianità»14. Nella Quas Primas il disegno totalitario di una completa restaurazione teocratica stretta intorno al magistero supremo del vicario di Cristo in terra («volere del papa, volere di Dio», amava dire sant’Alfonso de’ Liguori, nuovamente tornato di moda a inizio Novecento) veniva ulteriormente precisato. Il tema della regalità di Cristo, della necessità per il «popolo cristiano» di riportare il «soavissimo nome del nostro Redentore, sia nelle adunanze internazionali, sia nei parlamenti», era coniugato alla contestazione del «venir meno del principio d’autorità e del rispetto del pubblico potere» causato dalla dimenticanza in tutti i governanti del principio solennemente enunciato da Paolo nel Nuovo Testamento, «non est potestas nisi a Deo». In questa direzione, la richiesta di istituire nel 1925 la festa di Cristo Re incrociava abilmente sacro e profano, le due spade, il potere secolare e quello religioso. Gesù Cristo non si era autoproclamato re annunciando che «a lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra»? Un potere di natura eminentemente spirituale, certo, ma non solo: «Sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo-uomo il potere su tutte le cose temporali»15. Da qui la simpatia, quando non l’aperta attrazione, verso quelle forze politiche e sociali di destra che in tutta Europa auspicavano soluzioni autoritarie, restaurazioni nel nome di Dio, della patria, e della famiglia: a favore di una società ricattolicizzata, gerarchizzata e disciplinata, programmaticamente ostile alla tradizione individualistica liberal-democratica, al discorso illuministico dei diritti dell’uomo, secondo schemi che hanno fatto scrivere pagine importanti sul fenomeno del fascismo clericale come categoria storica16.   Cfr. Pio XI, Ubi Arcano, in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 5, Bologna 1995, pp. 21 e sgg. 15   Quas Primas, ivi, pp. 166 e sgg. Su questi temi cfr. D. Menozzi, Liturgia e politica: l’introduzione della festa di Cristo Re, in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. Melloni, D. Menozzi, G. Ruggieri e M. Toschi, Bologna 1996, pp. 607-656. 16   Cfr. G.L. Mosse, La cultura dell’Europa occidentale nell’Ottocento e nel Novecento, Milano 19872, pp. 424 e sgg. 14

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Alle spalle di Pio XI stavano i pontificati di Pio X e Benedetto XV, protagonisti di ulteriori misure verso l’accentramento ecclesiastico della Santa Sede con il rafforzamento delle congregazioni romane e della Segreteria di Stato17. Nel nuovo Codice di diritto canonico del 1917, la Chiesa, «società perfetta» che aveva vittoriosamente sgominato la pestilenza modernista con le armi dal Sant’Uffizio, celebrava trionfante il primato assoluto del sovrano pontefice18. A ben vedere, al di là del pericolo comunista, sempre invocato per giustificare ogni tipo di cedimento, un robusto filo rosso, il cui capo veniva da lontano, e in particolare dal Tridentino e dalla guerra settecentesca ai Lumi, legò in quegli anni terribili il persistere dell’antico rifiuto dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà di coscienza alla politica concordataria con gli Stati totalitari e le loro nuove religioni politiche. Più o meno direttamente, pur con tutte le necessarie distinzioni e cautele storiche, anche la Chiesa diede insomma, con la teoria dello Stato cattolico, il suo significativo contributo a quelle che potremmo definire le origini intellettuali, politiche e sociali dei totalitarismi di destra nel Novecento. Basti pensare alle reticenze, ai silenzi, alla stupefacente incapacità di capire la gravità della situazione dei diritti umani in Occidente, prima e soprattutto durante la guerra, per rendersi conto di quanto fossero del tutto inadeguati la cultura e il modello ecclesiale dei vertici romani nei confronti delle destre europee19. Semmai proprio dal basso, dalle viscere profonde del   Non bisognerebbe mai dimenticare la centralità dell’enciclica sul modernismo, Pascendi, di Pio X, che ribadiva, secondo schemi controriformistici bellarminiani, l’assoluto dominio del papa nell’ambito delle controversie e sulle gerarchie ecclesiastiche. 18   Sul significato del Codex Iuris Canonici del 1917 come definitivo rafforzamento del primato del papa cfr. C. van De Wiel, History of Canon Law, Louvain 1989. Il canone 218 attribuiva al pontefice «la giurisdizione suprema e più completa in tutta la Chiesa, sia in materia di fede e morale sia in ciò che afferisce alla disciplina e al governo della Chiesa in tutto il mondo». Il canone 392.2 confermava al solo papa il diritto di nominare i vescovi. 19   Riferendosi alla feroce e sanguinaria politica delle conversioni forzate in Croazia da parte dei seguaci di Pavelić, benevolmente tollerata dal Vaticano, G. Miccoli (I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, Seconda guerra mondiale e Shoah, Milano 2000, p. 83) ha giustamente insistito sul fatto che tutta la politica della Santa Sede in quegli anni pare sempre condizionata da una tradizione ideologico-diplomatica, «anacronistica», ispirata da un lato all’idea dello Stato 17

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popolo cristiano, vennero invece segnali importanti di un possibile mutamento degli orizzonti di riferimento in merito ai diritti dell’uomo e alla democrazia finalmente da assumere come valori universali. Segnali, tuttavia, quasi sempre trascurati, destinati a miglior sorte solo nel secondo dopoguerra. Da molteplici fonti documentarie sappiamo, ad esempio, che durante gli anni della guerra da ogni angolo dell’Europa giungevano in Vaticano testimonianze dettagliate, e quasi sempre inascoltate, delle atroci persecuzioni naziste e dello sterminio di milioni di ebrei20. Secondo un paradigma preciso – quasi una sorta di riflesso condizionato che da sempre ha fatto parte della cultura profonda e dell’identità della Chiesa dopo Tommaso e la scolastica – contro le prevaricazioni delle autorità civili dello Stato vescovi, nunzi e semplici sacerdoti invocavano nelle loro denunce le ragioni del diritto naturale dei popoli. Lo avevano fatto con straordinaria raffinatezza giuridica nel Cinquecento e poi nel Seicento, contro la nascente vocazione dispotica dei moderni Stati assolutisti, i protagonisti della cosiddetta seconda scolastica, come Francisco de Vitoria, Melchor Cano, Domingo de Soto e i gesuiti Possevino e Bellarmino; lo rifacevano i vescovi e i sacerdoti del Novecento di fronte al nuovo barbarico dispotismo dello Stato. Esemplare resta in tal senso la lettera pastorale dell’arcivescovo di Tolosa, Louis Saliège, scritta il 23 agosto 1942 per denunciare le tragiche razzie di ebrei a Parigi: «Esiste una morale cristiana – rivendicava il prelato –, esiste una morale umana che impone doveri e riconosce diritti. Questi doveri e questi diritti sono connessi alla natura dell’uomo. Vengono da Dio. Si può violarli [...]. Ma nessun mortale ha il potere di sopprimerli. Che bambini, donne, uomini, padri e madri siano trattati come vile gregge, che i membri di una cattolico autoritario e dall’altro da una prospettiva di tipo «ecclesiocentrica, attenta in primo luogo agli interessi, alle possibilità e alle prospettive della presenza cattolica, alla loro tutela, nello sforzo costante di garantirsi e salvaguardare l’influenza della gerarchia e del clero, di non far nulla che potesse in qualche modo indebolirla». Sulla pulizia etnica che ebbe ad oggetto 487.000 serbi ortodossi e 27.000 zingari barbaramente massacrati dagli ustascia di Pavelić, molte volte guidati da fanatici frati francescani, cfr. J. Cornwell, Il papa di Hitler. La storia segreta di Pio XII, Milano 2000, pp. 367 e sgg. 20   Sulla conoscenza da parte della Chiesa di questi fatti già tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943 cfr. G. Miccoli, I dilemmi cit., pp. 105 e sgg.

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stessa famiglia siano separati gli uni dagli altri e imbarcati per una destinazione sconosciuta, era riservato al nostro tempo di vedere questo triste spettacolo! Perché il diritto d’asilo delle nostre chiese non esiste più? Perché siamo dei vinti?»21. Testimonianze dello stesso tenore, con il medesimo e inedito linguaggio di franca rivendicazione dei diritti umani, vennero allora pronunciate in Germania e in altre località dell’Europa per dare voce e senso filosofico, giuridico e politico alla protesta. Ovunque – sempre dal basso clero, però, ma anche da vescovi, unicamente dalla periferia – si assistette al ricorso spontaneo alle ragioni del diritto naturale, nel senso moderno di una rivendicazione dei diritti soggettivi dell’uomo. Assai differente fu invece l’atteggiamento dall’alto, da parte dei vertici. Benché ricevesse molti di questi messaggi che chiedevano a viva voce un radicale mutamento nelle categorie interpretative della realtà, la curia romana continuò imperterrita a privilegiare gli antichi schemi diplomatici e politici della ragion di Chiesa, della difesa della presenza istituzionale del cattolicesimo, quasi che – come ha scritto efficacemente Giovanni Miccoli – Auschwitz non fosse altro che «una forma più dura di ghetto»22, uno dei tanti episodi della ferocia umana nella secolare e tragica storia del mondo. Per capire quanto abissalmente distante fosse la cultura della curia e di certi episcopati rispetto alla consapevole assunzione di una nuova strategia di difesa dei diritti dell’uomo dalle efferatezze del demone totalitario è sufficiente ricordare la spinosa questione dell’antisemitismo e della cosiddetta legittimità sostanzialmente garantita dalla Chiesa alle legislazioni speciali per gli ebrei. Se infatti è vero che in ogni occasione Roma condannò apertamente il razzismo nazista, altrettanto vera resta tuttavia la vigorosa e inquietante presenza, sempre autorevolmente ribadita, della legittimità di un antisemitismo cattolico di tipo politico e religioso che denunciava il rifiuto ebraico di accettare l’assimilazione e la conversione23. Certo Pio XI, seppure tardivamente, con l’encicli  Citato ivi, p. 333.   Ivi, p. 322. 23   Cfr. G. Miccoli, Santa Sede, questione ebraica e antisemitismo fra Otto e Novecento, in Storia d’Italia. Annali XI, Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, Torino 1997, pp. 1371-1574. 21 22

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ca Mit brennender Sorge del 1937 comprese assai più dei pontefici precedenti quanto pericolose e ambigue potessero divenire le posizioni sostenute dall’antisemitismo religioso dei cattolici: come ci si poteva del resto opporre efficacemente allo sterminio degli ebrei partendo da quelle premesse? Malgrado ciò nessun reale mutamento di prospettive fu deciso. La stessa celebre e misteriosa enciclica contro Hitler commissionata prima della morte da Pio XI e subito fatta sparire dal nuovo pontefice, alla luce di quello che si sa, non era affatto destinata a rivoluzionare completamente le tesi cattoliche sull’antisemitismo spirituale ed etico caro ai gesuiti della «Civiltà cattolica»24. Nel novembre del 1938 l’introduzione delle leggi speciali contro gli ebrei in Italia venne contestata da parte cattolica non certo ricorrendo alla teoria dei diritti dell’uomo, ma sulla base di presunte violazioni alle norme giuridiche concordatarie circa il divieto dei matrimoni misti, con la conseguente negazione della validità civile al matrimonio religioso fra ariani e non ariani25. Alla ragion di Stato, quindi, si continuava a contrapporre unicamente la ragion di Chiesa e non certo quella dei diritti dell’uomo, sistematicamente violati dai regimi totalitari. E che questi episodi di assoluto disinteresse verso la teoria dei diritti da parte della curia costituissero la norma, il modo stesso di riflettere sulla realtà, lo testimonia la lettera di rassicurazione dell’ambasciatore di Vichy presso la Santa Sede al maresciallo Pétain in occasione della nuova legislazione contro gli ebrei francesi. La Chiesa, spiegava Léon Bérard, non aveva mai accettato quella bizzarra teoria dell’eguaglianza dei diritti per tutti gli uomini, al di là delle differenze religiose e di nazionalità, sostenuta dagli illuministi: Roma «non ha mai sostenuto che i medesimi diritti dovevano essere accordati o riconosciuti a tutti i cittadini. Non ha mai cessato di insegnare la dignità e il rispetto della persona umana. Ma essa non intende queste cose, si può esserne sicuri, allo stesso modo [...] degli eredi di Rousseau e di Condorcet»26. Il fatto è che di fronte alla tragedia dei popoli europei, al martirio e alla generosità di tanti singoli cri  Cfr. G. Miccoli, I dilemmi cit., pp. 320 e sgg.   Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1961, pp. 336 e sgg. 26   Cfr. J. Nobécourt, «Le Vicaire» et l’histoire, Paris 1964, p. 361. 24 25

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stiani che compresero per tempo cosa stava succedendo, la Santa Sede preferì sempre rifugiarsi in una logica di tipo istituzionale, di pura conservazione del potere politico e di confronto diplomatico tra Stato e Stato. E dire che sin dal 1934, di fronte al nazismo e ai suoi chiari programmi di sterminio e di attacco frontale alla civiltà europea, il gesuita tedesco Friedrich Muckermann, fuggito in Olanda, scriveva con spirito profetico invitando la Chiesa a rompere gli indugi, ad abbandonare la logica diplomatica degli Stati e a prendere la bandiera dei diritti dell’uomo e della difesa dell’umanità contro il ritorno della barbarie. Noi non dobbiamo dimenticare che furono i papi a chiamare i popoli alla crociata e alla guerra santa ogni volta che la cultura dell’occidente cristiano si trovò minacciata. Senza dubbio epoca e spirito sono cambiati. Ma il sentimento è rimasto, della responsabilità di Roma, come grande potenza religiosa e morale, nella difesa del cristianesimo e della civiltà. Questo sentimento oltrepassa i limiti del popolo dei fedeli; esso è condiviso da tutti coloro che vedono nel cristianesimo una garanzia dei loro diritti umani. Una grande ora suona oggi per la Chiesa. I diritti dell’umanità sono in pericolo. Nessuna voce osa più levarsi contro questi despoti che trattano gli uomini come schiavi. Davanti allo spettacolo dei campi di concentramento, degli assassini, delle violazioni brutali della libertà nessuno osa più pronunciare la divina parola: «Questo è proibito!». Il giorno in cui la Chiesa la dirà, essa si mostrerà fedele alla sua più alta missione. La risposta sarà un’eco di entusiasmo su tutta la terra [...]. Se noi dovremo quel giorno subire il peggio, sarà per l’uomo che avremo sofferto, per l’immagine di Dio e di fratello di Cristo. E tutti gli uomini risponderanno con un grande grido di riconoscenza: liberi pensatori, comunisti, socialisti, tutti i milioni che oggi dubitano della Chiesa27.

Se quell’invito fosse stato accolto, se lo spirito profetico della Chiesa avesse prevalso sulle ragioni politiche della monarchia pontificia di matrice tridentina e delle sue logiche di potere così care alla curia, oggi la storia dell’Occidente sarebbe certamente diversa. Quell’occasione mancata – perché tale è da considerare – di legare per sempre, difendendoli con il proprio corpo e con   Cfr. G. Miccoli, I dilemmi cit., pp. 154-156.

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le proprie membra, sino al sacrificio estremo, i diritti dell’uomo universale alle sorti della Chiesa avrebbe certamente donato a quest’ultima la rappresentanza legittima e indiscutibile di tutte quelle idee e quei principi che sono alla base del mondo moderno. Nulla di tutto questo avvenne. Anzi, basta ripercorrere il famoso radiomessaggio di Pio XII del natale del 1942, là dove finalmente si sottolineava la necessità di difendere la «dignità e [i] diritti della persona umana» (senza però mai accennare esplicitamente alle responsabilità di nazisti e di fascisti o levare quelle tanto attese parole di scandalo adeguate ai drammatici eventi in corso), per ritrovare comunque una rassicurante aria di famiglia; e cioè in primo luogo i consueti toni del sovrano pontefice: di chi parla di cose divine e dei disegni secolari della Chiesa spiegando i ritmi eterni e misteriosi della storia a una umanità dolente che sta tragicamente sperimentando in corpore vili i segreti disegni della divina Provvidenza. Nelle frasi di Pio XII non v’è traccia di quell’indignazione e di quella denuncia che alcuni forse allora si attendevano, bensì trova posto la solenne enunciazione di un grande disegno di «restaurazione cristiana». Un disegno fondato sulla definitiva configurazione di tutte le armi approntate dalla Chiesa nel corso del XIX secolo per contrastare l’individualismo liberale e le nuove ideologie collettivistiche di una modernità sempre percepita come un fatto ostile e inquietante da esorcizzare.

4.

La lezione dei totalitarismi nella Chiesa preconciliare

Nel radiomessaggio del 1942 molteplici e decisivi erano i richiami al magistero della Quadragesimo anno di Pio XI. E non poteva essere diversamente. Quel pontefice aveva davvero fatto i conti con la crisi del vecchio Stato liberale, rivelatosi inerme di fronte al tumultuoso e incontrollabile «risorgere di tendenze corporative»1 e più in generale dell’associazionismo professionale e politico, proponendo soluzioni in linea con i tempi. Lo aveva fatto aggiornando sapientemente le scelte di filosofia sociale formulate nella Rerum novarum, delineando una sorta di terza via tra l’esecrabile «vizio dell’individualismo» e il comunismo, una terza via fondata sul valore strategico che doveva assumere il «principio di sussidiarietà» in un nuovo modello di società organica, fatta non più di individui atomizzati e massificati, lasciati soli di fronte al terribile leviatano moderno e agli eccessi dell’utilitarismo capitalistico, bensì di comunità, di societates naturales, di corporazioni, di istituzioni, di corpi intermedi, e soprattutto di personae intese a un tempo nel 1   Cfr. il saggio di Santi Romano del 1909, Lo Stato moderno e la sua crisi, in Scritti minori, a cura di G. Zanobini, Milano 1990, pp. 380 e sgg. Dinanzi al ritorno delle corporazioni e di gruppi sociali organizzati occorreva, secondo Romano, formulare una più attuale concezione del diritto rispondente alla realtà sociale del primo Novecento. La soluzione “istituzionalista”, presentata dallo stesso Romano nel gran libro L’ordinamento giuridico, del 1918, trovava qui le sue prime importanti ragioni.

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senso di humana persona e di ens sociale: termine medio, insomma, tra l’individuo e la società2. «Com’è illegittimo togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità – precisava Pio XI –, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare»3. In quella rappresentazione della società, straordinariamente simile al mai troppo rimpianto Antico regime o all’aurea età medievale, la politica, lo Stato erano invitati a ritirarsi in buon ordine di fronte al “sociale”, ad agire solo e sempre in forma sussidiaria rispetto ai diritti e alla capacità d’iniziativa dei corpi intermedi e delle persone. Dalla Quadragesimo anno, insomma, emergeva un rinnovato modello sociale, corporativo, fortemente gerarchizzato, nonché la richiesta di uno Stato minimo – secondo un’espressione cara questa volta a un settore del mondo liberale già da tempo simpatetico verso il principio di sussidiarietà – dove la Chiesa come comunità naturale rivendicava i suoi legittimi diritti al pari delle altre istituzioni e dei diritti individuali4. Questi precisi riferimenti della nuova dottrina   Il “personalismo”, com’è noto, ha radici antiche e forti nel pensiero cattolico europeo dell’Ottocento e in particolare nella ripresa di studi sul concetto di persona nell’ambito delle teorie neotomistiche. Per l’Italia basti pensare al Rosmini. Agli inizi del nuovo secolo, in Francia, dopo le riflessioni di Ch. Renouvier in Le personnalisme (1903), furono soprattutto Emmanuel Mounier, nel suo manifesto Révolution personnaliste et communautaire, del 1934, e il movimento cattolico d’avanguardia della rivista «Esprit», nata nell’ottobre del 1932 per riflettere sulla drammatica crisi del ’29 e il crollo di Wall Street, a sviluppare gli aspetti etici e politici del personalismo filosofico in aperta critica soprattutto all’individualismo borghese e liberale. Nel secondo dopoguerra, in polemica con marxisti e idealisti, commentando e sviluppando in senso personalistico le tesi esistenzialistiche di Kierkegaard, Scheler e Berdjaev, Mounier andava oltre spiegando che nelle sue concezioni «la persona non si oppone al noi, che la fonda e la nutre, ma al pronome impersonale irresponsabile e tirannico [...] La persona di tutte le realtà è la sola che sia propriamente comunicabile, che sia verso altri e anche in altri, verso il mondo e nel mondo, prima di essere in sé» (E. Mounier, Che cos’è il personalismo?, Torino 1949, p. 62). 3   Quadragesimo anno (1931), in Enchiridion Symbolorum cit., p. 1313. 4   Occorre sottolineare l’aspetto autoritario e gerarchizzante di questo modello di società. «Quanto più perfettamente sarà mantenuto l’ordine gerarchico tra le diverse associazioni conforme al principio di sussidiarietà – affermava Pio XI nell’enciclica –, tanto più forte sarà l’autorità e l’efficienza sociale». Sul principio di sussidiarietà elaborato nell’ambito del cattolicesimo sociale tedesco nel corso del XIX secolo la bibliografia è ormai vastissima. Una preziosa rasse2

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sociale cattolica vennero usati anche nelle encicliche di denuncia del pericolo comunista e nazista. Contro il primo, nel 1937, Pio XI spiegò la necessità di definire l’uomo come «persona»: «Dio l’ha dotato di molteplici prerogative: diritto alla vita, all’integrità del corpo, ai mezzi necessari all’esistenza; diritto di tendere al suo ultimo fine nella via tracciata da Dio; diritto all’associazione, alla proprietà [...]; ma Dio ha in pari tempo ordinato l’uomo anche alla società civile richiesta dalla sua stessa natura»5. Contro i nazisti, rivendicando il ritorno al diritto naturale, il pontefice invitò a riconoscere «il fatto fondamentale che l’uomo, in quanto persona, possiede diritti dati da Dio, che devono essere tutelati da ogni attentato della comunità che avesse per scopo di negarli, di abolirli e di impedirne l’esercizio»6. Rispetto alle suggestioni personalistiche e al modello organicistico e corporativo di società delineato nelle encicliche del suo predecessore, Pio XII non aggiunse nulla di veramente originale quando rivendicò nel radiomessaggio la «dignità e [i] diritti della persona umana». Semmai, da esperto canonista, completò l’opera rendendo ancor più trasparenti le matrici giuridiche di molte di quelle idee, che affondavano le loro radici nell’antico rifiuto della versione del diritto in chiave soggettiva elaborata dagli illuministi europei e dai rivoluzionari – che, quando parlavano di diritti naturali, intendevano sempre l’uomo in quanto individuo. Pio XII non dedicò molto spazio alle consuete denunce della Chiesa contro i fautori di quei “diritti di libertà” che, a parere di molti, erano miseramente naufragati nel 1929, nella crisi economica delle democrazie capitalistiche subordinate all’utilitarismo e allo «stimolo gna si trova in M. Mistò, La sussidiarietà quale principio di diritto ipotattico da Aristotele alla dottrina sociale della Chiesa: per una ricostruzione storico-ideale del concetto, in «Justitia», LV, 2002, pp. 31-103. Fondamentale resta il libro del consigliere di Pio XI, O. von Nell-Breuning, Die soziale Enzyklika. Erläuterungen zum Weltrundschreiben Papst Pius’ XI. über die gesellschaftliche Ordnung, Köln 1932. 5   Pio XI, Mit brennender Sorge (14 marzo 1937), in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 5, p. 1109. 6   Pio XI, Divini Redemptoris (19 marzo 1937), ivi, p. 1109 (corsivi miei). Sul “personalismo” nella dottrina sociale della Chiesa da Pio XI in poi cfr. W. Weber, Società e Stato, problemi della Chiesa, in La Chiesa nel ventesimo secolo, Milano 1995, pp. 169 e sgg.

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del guadagno»7 individuale. La resa dei conti era invece con i nostalgici del vecchio Stato liberale e del suo «positivismo giuridico», che attribuiva «un’ingannevole maestà all’emanazione di leggi puramente umane», e in particolare con la risposta statalista dei regimi totalitari ancora dominante. La guerra stava tragicamente falsificando quell’esperimento sociale. L’opinione pubblica aveva dinanzi agli occhi i risultati di uno «Stato che tutto domina e regola l’intera vita pubblica e privata, penetrando fino nel campo delle concezioni e persuasioni e della coscienza». Tempo era arrivato di pensare a un nuovo «ordinamento giuridico della società» e a uno «Stato secondo lo spirito cristiano». A favore di questo disegno non vi erano solo i giuristi cattolici con le loro teorie sul personalismo e sul principio di sussidiarietà illustrate nelle encicliche di Pio XI. In Germania, in Francia, in Italia, autorevoli studiosi, anche laici, avevano in quegli stessi decenni elaborato nuove concezioni del diritto di tipo istituzionalista e transpersonalista, prendendo le distanze dalla centralità assoluta dello Stato e dell’individuo, rivalutando i fenomeni storici e sociali, attribuendo diritti altrettanto originari e perfetti agli individui e ai corpi intermedi8. Da esperto 7   Cfr. la pubblicazione del radiomessaggio, Il Supremo Pastore espone le norme fondamentali dell’ordine interno degli Stati e dei popoli, in «L’Osservatore Romano», 25 dicembre 1942. 8   Il riferimento è ai libri di Maurice Hauriou, al positivismo sociologico in campo giuridico che vide in Francia, sulla base del grande successo delle teorie di Durkheim, ripensare al diritto come fatto sociale. In Germania la scuola storica aveva da tempo, in polemica con le concezioni costituzionalistiche dei Lumi, rilanciato l’idea del diritto come prodotto storico collettivo dei popoli e dei gruppi sociali preesistenti agli Stati e all’onnipotenza delle norme scritte. Varrebbe tuttavia la pena di riflettere sugli effetti perniciosi per la difesa della democrazia e della libertà che talvolta la critica contro l’individualismo e il diritto soggettivo ebbero da parte di taluni epigoni di queste concezioni del diritto, che finirono con l’alimentare le ragioni dell’organicismo fascista e nazista (basti pensare a C. Schmitt). Mi paiono del tutto condivisibili in tal senso le argomentazioni di A.M. Hespanha, Introduzione alla storia del diritto europeo, Bologna 1999, pp. 243 e sgg. Tra l’altro, si tende troppo spesso a dimenticare che il principio di sussidiarietà venne per la prima volta introdotto in Italia proprio nella Carta del lavoro fascista del 21 aprile 1927. Delineando i fondamenti dello «Stato corporativo e della sua organizzazione», l’art. IX così recitava: «L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata» («Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia», 30 aprile 1927, p. 1795).

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giurista, Pio XII conosceva tali teorie, che parevano sposarsi bene con il ritorno al diritto naturale classico e oggettivo dei neotomisti e allo schema di uno Stato sussidiario funzionale a una società organica di persone, di corpi, di istituzioni; da esse traeva facilmente conforto e certezze sulla giustezza del suo progetto di restaurazione cristiana nel «segno di Cristo Re» di cui aveva chiaramente parlato nella sua prima enciclica, Summi pontificatus. Egli riteneva di essere perfettamente in linea con i segni del tempo, e che comunque il futuro non stava certo dalla parte dei teorici dello Stato laico e democratico innalzato sulle presuntuose dichiarazioni dei diritti dell’uomo formulate alla fine del XVIII secolo. Dalla crisi dei modelli totalitari si poteva uscire, insomma, solo guardando con occhi nuovi al passato. «Sono cadute le orgogliose illusioni di un progresso indefinito», aveva scritto compiaciuto nel 1939: la diffusione del regno di Dio nel mondo si sarebbe edificata «sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione»9. Ieratico papa-re, erede naturale del Tridentino, Pio XII soffriva le pene dell’inferno a pronunciare la parola democrazia. E infatti raramente la pronunciò, preferendo ribadire il disinteresse della Chiesa verso specifiche forme di governo10. Mai avrebbe preso in considerazione la necessità di confrontarsi da pari a pari con gli epigoni dell’Illuminismo in merito alla sovranità popolare, al contrattualismo e alla legittimità democratica del potere, alla libertà di coscienza degli individui, all’autonomia della ragione di fronte al bene e al male. E invece quella era ormai una strada obbligata se ci si voleva davvero lasciare alle spalle, per sempre, l’esperienza drammatica dei totalitarismi, nati storicamente proprio sulla base del rifiuto dei diritti dell’uomo e del contrattualismo democratico e costituzionale di matrice illuministica. Coloro che invece avevano compreso per tempo che la Chiesa doveva ormai fare i conti con la modernità illuministica, con il suo progetto emancipatorio dell’uomo attraverso l’uomo, con 9   Pio XII, Summi pontificatus, in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 6, Bologna 1995, p. 59. 10   Sulle critiche di Pio XII a ogni concezione individualistica e contrattualistica della democrazia e a favore di forme di governo che sempre privilegiassero la natura organica e gerarchica della società cfr. comunque W. Weber, Società e Stato, problemi della Chiesa cit., pp. 179 e sgg.

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l’eredità complessiva dell’89 in termini differenti dal recente passato, furono, soprattutto in Francia, personaggi come Mounier, Daniélou e Maritain, animatori della rivista d’avanguardia cattolica «Esprit», fondata nel 1930. Nell’ambito della loro ricerca di una «terza forza» (qualcosa di simile a un’alternativa progressista al capitalismo e al comunismo), essi intuirono – prima di molti cosiddetti laici non credenti – che la strada obbligata era quella di un inevitabile confronto diretto, e semmai di un superamento in chiave cristiana dell’esperienza illuministica, considerata all’origine sia dell’individualismo liberale sia dell’esperimento ateistico e collettivista sovietico. In questa direzione, Mounier sognò tutta la vita di approdare a una nuova Déclaration des droits des personnes et des communautés capace di andare al di là di quella del 1789. Come capo della delegazione francese all’Unesco, Maritain divenne uno dei protagonisti della formulazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata nel 1948 dalle Nazioni Unite11. Ed è proprio la contrastata vicenda intellettuale di Maritain all’interno della comunità cattolica, quel suo tentativo audace di voler cristianizzare la modernità superando una secolare avversione, che merita un’attenzione specifica, perché rivela bene, ancora una volta, le difficoltà e le molteplici ambiguità di fondo, tuttora persistenti – come cercheremo di spiegare più avanti –, che hanno accompagnato nella seconda metà del Novecento il definitivo trionfo del linguaggio dei diritti all’interno della Chiesa. Maritain aveva iniziato la sua carriera da posizioni di destra vicine all’Action française12. Filosofo, esponente del neotomismo, egli si era impegnato a indagare la crisi del mondo moderno, sempre più drammaticamente avvertita nei circoli intellettuali europei tra le due guerre mondiali, indicandone le cause nella cosiddetta naturalizzazione e laicizzazione del cristianesimo, nell’arrogante pretesa di autonomia dell’umano dal divino apertamente sostenuta dai fautori del nuovo ateismo di massa. Nel 1922 aveva scritto 11   Cfr. l’introduzione di Maritain al volume collettaneo Dei diritti dell’uomo. Testi raccolti dall’Unesco, Milano 1952 (I ed. Paris 1949). 12   Prima di diventare un suo amico durante la guerra di Spagna, ancora nel 1930 don Luigi Sturzo, esule a Parigi, lo considerava tra i membri della «troupe des catholiques français réactionnaires». Cfr. F. Malgeri, Sturzo e Maritain, in Jacques Maritain e la società contemporanea, Milano 1978, pp. 259-274.

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Antimoderne, e pochi anni dopo un volumetto, Trois réformateurs, subito tradotto e pubblicato in Italia, per i tipi della Morcelliana, per precisa volontà del giovane Montini. Al centro di quelle analisi stavano sempre, quasi ossessivamente, il tema illuministico della centralità dell’uomo nella storia, la ricerca del significato autentico del suo essere, la tragedia dell’umanesimo moderno che pareva aver definitivamente smarrito ogni speranza di futuro. In questa prima fase della sua ricerca, fermo sul messaggio eminentemente soprannaturale del cristianesimo, e a partire dalle solide certezze razionali della sintesi tomista, egli non faceva tuttavia che ricalcare strade antiche e polverose, denunciando le gravi responsabilità di Lutero, di Cartesio e di Rousseau nell’aver dato vita alla crisi del mondo moderno. Il primo perché aveva circoscritto la teologia ad una iniziativa di Dio che salva il credente individualmente; il secondo colpevole invece di aver sostenuto l’autonomia del pensiero umano; il terzo, il peggiore e il più pericoloso di tutti, in quanto discepolo dell’eresia pelagiana, per aver creato una sorta di teologia umanistica assoluta, attribuendo l’esistenza del male alla società, negando quindi efficacia alla grazia, creando i presupposti per le moderne religioni civili e politiche. Con la pubblicazione nel 1936 del grande capolavoro di Maritain, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté13, lo scenario però cambiava radicalmente. La critica al «vizio radicale dell’umanesimo antropocentrico», bollato per la sua negazione del significato religioso della vita, si spostava dalla consueta e stucchevole contestazione del povero Rousseau («l’uomo del liberalismo borghese»), di Kant, di Comte, di Marx, di Freud, all’aspra e coraggiosa denuncia dei «totalitarismi fascisti e [del] totalitarismo comunista», in franca opposizione alle arroganti pretese di Mussolini, secondo cui «tutto [è] nello Stato, niente contro lo Stato, nulla al di fuori dello Stato»14. Di fronte alla «tragedia dell’uomo» moderno scatenata dalla «dialettica dell’umanesimo antropocentrico», approdato ormai alle sue 13   Sull’importanza di questo libro per i giovani cattolici europei che combattevano il nazismo e il fascismo molto si è scritto: cfr. ad esempio Jacques Maritain en Europe. La réception de sa pensée, a cura di B. Hubert, Paris 1996. 14   Cfr. J. Maritain, Umanesimo integrale. Problemi temporali e spirituali di una nuova cristianità, Torino 1962, pp. 291 e sgg.

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estreme conseguenze, la Chiesa era attesa alla prova suprema del radicale cambiamento della sua missione nel secolo. Con toni profetici giustificati dai rivolgimenti epocali in corso, Maritain citava le parole dell’amatissimo Péguy: «Quando l’angoscia appare è la cristianità che ritorna»15. Il suo era un bisogno antico di religiosità nel segno di Cristo, da soddisfare però attraverso l’ipotesi di un grande progetto di rinnovamento: con la creazione dell’«ideale storico di una nuova cristianità», di un vero «umanesimo integrale» alternativo a quello falso e pericoloso avviato dai Lumi. Questa «nuova cristianità» doveva occuparsi anzitutto, e con idee originali in linea con i tempi, dell’uomo nella storia: raccogliere il lascito positivo della modernità occidentale evitando di trasformarsi, com’era fino ad allora avvenuto, in strumento della reazione e di un passato ormai remoto. «Nel sistema dell’umanesimo cristiano – precisava Maritain, cominciando a delineare le fondamenta di una filosofia cristiana della storia profondamente segnata dalle teorie storicistiche del superamento – c’è posto non per gli errori di Lutero e di Voltaire, ma per Voltaire e per Lutero che malgrado gli errori hanno contribuito nella storia degli uomini a certi accrescimenti»16. All’individualismo liberale, che faceva «di ogni individuo astratto e delle sue opinioni la fonte di ogni diritto e di ogni verità», andava indicata la strada maestra alternativa del personalismo nella sua variante comunitaria e tomista («ogni persona singola, ci dice san Tommaso, ogni persona umana stessa è verso la comunità come la parte verso il tutto e dunque a questo titolo è subordinata al tutto»17), ma senza contrapposizioni laceranti e chiusure integraliste, proponendo il «pluralismo», la tolleranza (quella che era stata predicata in passato con scarsa fortuna da eretici e philosophes, aggiungiamo noi), la prospettiva di «un’opera pratica in comune» tra credenti e non credenti. Solo in questo modo si sarebbe potuto rispondere in positivo alla mentalità totalitaria e alle sue drammatiche conseguenze, creando alla fine del processo uno «Stato laico cristiano», fondato sulla ricerca del bene comune. «Ma proprio perché profana e non sacrale – precisava Maritain – quest’opera comune non esige da nessuno,   Ivi, p. 193.   Ivi, p. 134. 17   Ivi, p. 173. 15 16

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come entrata in giuoco, la professione di tutto il cristianesimo. Al contrario comporta nei suoi tratti caratteristici un pluralismo che rende possibile il convivium dei cristiani e dei non cristiani nella città temporale»18. Nel 1939 Maritain fuggiva negli Stati Uniti con la moglie di origine ebraica per sottrarsi alle persecuzioni razziali. Tre anni dopo pubblicava a New York un tassello rilevante del suo progetto di una nuova cristianità, Les droits de l’homme et la loi naturelle. In quel volumetto la resa dei conti con l’eredità illuministica (o meglio, con quella che veniva presunta tale) era chiaramente delineata sin dalle prime battute, dove si contestava quella «falsa filosofia dell’emancipazione» che, lungi dal mirare al bene comune, aveva invece indicato come suo obiettivo politico primario soprattutto la libertà dell’individuo. La Dichiarazione dei diritti dell’89, «nella prospettiva interamente razionalistica della filosofia illuministica e della Enciclopedia»19, era considerata un momento importante, ma anche una svolta assai pericolosa nella storia dell’Occidente. Fondare – come in quel celebre testo era stato fatto – i diritti dell’uomo non sulla legge naturale, ma sul diritto soggettivo, e poi porre al centro di ogni cosa la libertà dell’individuo e la sua volontà autonoma e onnipotente senza alcun vincolo divino, aveva aperto la strada alla crisi del mondo moderno e alle tragedie dei secoli successivi. Rilanciando le consuete accuse del vasto repertorio reazionario europeo (tutte molto attente a dimenticare la realtà storica e a tacere sulla funzione costituzionale e di limite della politica assolutistica che la teoria dei diritti soggettivi aveva assunto sin dalle sue prime formulazioni nella lotta tra gli illuministi e il dispotismo di principi e sovrani durante la crisi dell’Antico regime), Maritain traduceva finalmente in linguaggio tomista la teoria settecentesca dei diritti dell’uomo. Per fare ciò egli introduceva una netta distinzione tra legge naturale e sua conoscenza nel tempo: «La legge naturale è una legge non scritta. La conoscenza che l’uomo ne ha aumenta a poco a poco con i progressi della coscienza morale»20. Ciò poteva spiegare i ritardi   Ivi, p. 232.   J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, Milano 1977, p. 73. 20   Ivi, p. 57. Su questa tesi di Maritain, ritenuta da molti commentatori estranea all’autentico pensiero tomistico, cfr. H. Barreau, Maritain, les droits 18 19

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della Chiesa nel riconoscere l’importanza dei diritti all’interno del giusnaturalismo scolastico e la sua legittimità ad assumere per il futuro il ruolo di autentica interprete della modernità politica. «L’idea del diritto naturale è una eredità del pensiero cristiano e del pensiero classico – rivendicava Maritain –. Non risale alla filosofia del XVIII secolo, che l’ha più o meno deformata, ma a Grozio e prima di lui a Suarez e a Francisco de Vitoria; e più oltre a san Tommaso d’Aquino; e più oltre ancora a Cicerone, agli stoici, ai grandi moralisti dell’antichità e ai suoi grandi poeti, a Sofocle in particolare. Antigone è l’eterna eroina del diritto naturale, che gli antichi chiamavano legge non scritta, ed è il nome che meglio le conviene»21. Sulla base delle recenti spiegazioni personalistiche e comunitarie dell’organico ordine cosmico tomista, i diritti dell’uomo erano declinati e fondati come diritti della persona22. E per la precisione: 1) come «diritti della persona umana», garantiti dal destino ultraterreno di agente spirituale e libero dell’essere cui già il vangelo rivendicava la trascendenza rispetto allo Stato e alla politica; 2) come «diritti della persona civica», membro e cittadino di una comunità da riorganizzare sulla base della partecipazione e dell’eguaglianza politica sullo sfondo della distinzione scolastica tra diritto naturale, diritto delle genti e diritto positivo; 3) de l’homme et le droit naturel, in Jacques Maritain face à la modernité. Enjeux d’une approche philosophique, a cura di M. Bressolette e R. Mougel, Toulouse 1995, pp. 145 e sgg. 21   J. Maritain, I diritti dell’uomo cit., p. 55. 22   «La vera filosofia dei diritti della persona umana si fonda dunque sull’idea di legge naturale», precisava Maritain (ivi, p. 61). Nel corso dei decenni successivi la rigorosa distinzione introdotta da Maritain tra diritti della persona (nella sua fondazione tomistica) e diritti dell’uomo (di matrice individualistica e illuministica) venne progressivamente lasciata sullo sfondo. Con sospetta disinvoltura, quasi volesse porsi a legittima erede dei Lumi, la Chiesa cominciò ad utilizzare senza distinzione alcuna ambedue le espressioni. In molte encicliche, nella stessa pagina, ritroviamo in effetti citate in termini interscambiabili le espressioni «diritti dell’uomo», «diritti umani», «diritti della persona». Cfr. ad esempio Paolo VI, Dignitatis humanae, in Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo, G. Dossetti, P.-P. Joannou, C. Leonardi e P. Prodi, Bologna 1992, p. 1005, oppure Giovanni Paolo II, Laborem exercens, in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 8, Bologna 1998, pp. 305 e 309, ma soprattutto l’enciclica fondamentale sul tema dei diritti di Giovanni XXIII, Pacem in terris, in Enchiridion Symbolorum cit., pp. 1443 e 1459.

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come «diritti della persona operaia», ormai ampiamente previsti dalla dottrina sociale della Chiesa a favore delle organizzazioni sindacali, di una revisione critica del diritto di proprietà e delle rivendicazioni verso un giusto salario. Di fronte alle degenerazioni del comunismo marxista, che aveva sempre irriso alla teoria dei diritti dell’uomo – smascherati ideologicamente, all’interno dello schema della lotta di classe, come diritti borghesi23 –, come pure alla tradizione liberale capitalistica, incapace di aprirsi verso una compiuta democratizzazione delle masse e dei processi economici, Maritain reclamava alla nuova filosofia politica del cristianesimo la bandiera dell’emancipazione e del progresso morale e civile dell’umanità. Mentre il mondo contemporaneo si avviava a un tracollo definitivo molto simile a quello del mondo antico con i suoi valori pagani, spettava al nuovo «umanesimo politico» cristiano raccogliere, dopo la tragedia dei totalitarismi, il lascito positivo dei Lumi e andare finalmente oltre la Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’89. La Chiesa, insomma, doveva rispondere alle sfide della storia non più invocando un impossibile ritorno al passato, al medioevo, ma guardando con fiducia al futuro, riproponendosi come guida e interprete della modernità. Nel libro Christianisme et démocratie, del 1943, il progetto di cristianizzare la modernità, abbandonando per sempre al loro destino l’Antico regime e lo schieramento reazionario, si precisava definitivamente. Il collasso delle democrazie occidentali di fronte allo «schiavismo totalitario» era considerato da Maritain frutto delle loro ambiguità di fondo, dei gravi ritardi accumulati, della loro incompiutezza: «La tragedia delle democrazie moderne consiste nel fatto che esse non sono ancora riuscite a realizzare la democrazia». Ciò era avvenuto, certo, per motivi materiali: esse non avevano posto rimedio allo «sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo», misconoscendo i diritti sociali della persona, rinunciando a criticare un modello di società fondata solo sul consumo e sull’individualismo. Dietro tutto questo si profilavano però importanti motivi spirituali. La democrazia invocata dagli illuministi, ad esempio, aveva sempre rinnegato «il vangelo e il cristianesimo 23   Sulla critica ai diritti dell’uomo, e più in generale sul “superamento” storicistico dei Lumi da parte del comunismo, formulata da Marx, cfr. V. Ferrone, D. Roche, L’Illuminismo nella cultura contemporanea cit., pp. 38 e sgg.

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in nome della libertà umana». E questo sentiero ostile alla religione era stato percorso anche da larga parte del movimento operaio socialista e comunista nel secolo XIX. Tempo era venuto di ripristinare la verità: «L’ispirazione cristiana e l’ispirazione democratica si riconoscano e si riconcilino»24. L’essenza e l’origine storica dell’ideale democratico non stavano né tra i pagani del mondo greco e romano, né tra gli illuministi del tardo Settecento, bensì nel vangelo. Maritain non aveva alcun dubbio sul fatto che «questo ideale di vita comune che si chiama democrazia deriva dall’ispirazione evangelica, senza la quale non può esistere». La democrazia intesa, secondo la celebre definizione di Lincoln, come «governo del popolo, da parte del popolo e per il popolo» era parte integrante e decisiva del cristianesimo: essa era «sorta nella storia umana come manifestazione temporale dell’ispirazione evangelica»25. Ancora una volta, come nel caso dei diritti dell’uomo, il rispetto della verità storica non costituiva un problema per il filosofo e teologo Maritain. Quello che contava era invece l’opera immanente dello «spirito cristiano» nel secolo, al di là delle sue apparenti e contraddittorie forme storiche. Assolutamente convinto che nel «messaggio evangelico» fosse «implicito un contenuto politico e sociale che deve ad ogni costo realizzarsi nella storia», e che pertanto occorresse finalmente distinguere tra un «cristianesimo come credo religioso e come via alla vita terrena» e un cristianesimo inteso invece «come lievito della vita sociale e politica dei popoli», egli interpretava ogni segnale di progresso e di avanzamento nell’emancipazione umana come un tratto del disegno divino: il «lavoro oscuro dell’ispirazione evangelica»26. Esemplare il caso dei presunti meriti storici da sempre attribuiti all’Illuminismo e ricondotti, invece, all’opera misteriosa dell’«impulso evangelico»: «Alla fine del XVIII secolo, quando i diritti dell’uomo venivano proclamati in America e in Francia e davanti alle nazioni veniva innalzato l’ideale della libertà, dell’eguaglianza, della fraternità, una grande sfida era lanciata sul terreno della politica: la sfida del popolo, dei diseredati, dell’innocenza e della fede, e insieme un ideale di generosità universale, contro tutti i potenti di questo   Cfr. J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, Milano 1950, p. 26.   Ivi, p. 24. 26   Ivi, p. 35. 24 25

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mondo e il loro sperimentato scetticismo. L’impulso evangelico che in tal modo faceva irruzione portava l’impronta di un cristianesimo laicizzato»27. Al socialismo di Proudhon non era riservata miglior sorte: «Proudhon credeva che la sete di giustizia fosse il privilegio della Rivoluzione e l’oggetto dei vigili timori della Chiesa. La sete di giustizia è stata invece scavata nell’anima dei secoli cristiani dal vangelo e dalla Chiesa; ed è proprio dal vangelo e dalla Chiesa che abbiamo imparato ad obbedire solo a ciò che è giusto»28. Nonostante la scoperta volontà apologetica e le vere e proprie mistificazioni storiche, tali pagine profetiche e appassionate di Maritain, che sacralizzavano la democrazia come parte essenziale del messaggio evangelico, segnavano indubbiamente un momento straordinario nella storia della Chiesa. Intere generazioni di giovani cattolici che lessero Christianisme et démocratie insieme con Humanisme intégral cominciarono ad abituarsi all’idea che la modernità non era solo opera del demonio e che la nostalgia verso il medioevo andava rimossa. Per coloro che lottavano nel deserto contro i totalitarismi, l’utopia di una nuova cristianità nel segno dei diritti e della democrazia rappresentò una vitale sorsata d’acqua fresca: il ritorno alla speranza di un mondo terreno migliore. Le reazioni al progetto di una «nouvelle chrétienté» da parte delle gerarchie ecclesiastiche furono assai forti e negative sin dall’inizio. Nel 1951 il Sant’Uffizio definiva nei suoi documenti riservati il cosiddetto maritainismo un «grave pericolo»29. Cardinali e vescovi s’impegnarono a sostenere le accuse contro le teorie inquietanti del «nuovo Lamennais»30. La dicotomia spirituale 27   Ivi, p. 34. «Il cristianesimo – precisava Maritain – vivifica oscuramente la storia terrena, è nondimeno alleandosi a ideologie erronee e a tendenze aberranti che essa [la democrazia] ha fatto la sua apparizione nel mondo. Né Locke, né Jean-Jacques Rousseau, né gli enciclopedisti possono passare per pensatori fedeli all’eredità cristiana nella sua integrità» (p. 33). 28   Ivi, p. 38. 29   Cfr. J.D. Durand, Jacques Maritain et l’Italie, in Jacques Maritain en Europe cit., p. 48. 30   Cfr. l’intervento critico del cardinale A. Ottaviani, Doveri dello Stato cattolico verso la religione, Roma 1953, p. 23. Contro Maritain si schierò larga parte dell’episcopato italiano: cfr. A. Riccardi, Il potere del Papa da Pio XII a Giovanni Paolo II, Roma-Bari 1993, pp. 56 e sgg. L’immagine di Maritain come nuovo Lamennais venne diffusa dagli impietosi attacchi del gesuita Antonio Messineo sulla «Civiltà cattolica» a partire dal 1950.

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e temporale presente nei suoi lavori, tra un piano della fede e un piano dell’azione politica – il filosofo francese amava sempre distinguere tra il «cristianesimo come tesoro delle verità divine custodito e propagandato dalla Chiesa» e il «cristianesimo come energia storica che opera nel mondo»31 –, irritava e preoccupava chiunque aveva vissuto la drammatica stagione del modernismo e della sua implacabile repressione. Si tornò, non a caso, a parlare di peste, di virus, di perversione del cristianesimo, di sottovalutazione della grazia e della dimensione soprannaturale del messaggio evangelico, del personalismo come cavallo di Troia del neoilluminismo, di concessioni assurde e pericolose al liberalismo e al laicismo: concessioni che avrebbero finito con il travolgere ogni cosa. Eppure, malgrado le mille difficoltà e gli attacchi – che continuano ancora oggi –, la diffusione e il rilievo delle concezioni di Maritain furono enormi: particolarmente tra i giovani dirigenti cattolici italiani della Fuci, impegnati dapprima nella lotta contro il fascismo e poi nella costruzione di una moderna democrazia32. E non poteva essere diversamente, visto il ruolo strategico attribuito dal filosofo francese al laicato cattolico nella vita politica, per la prima volta nella storia del cristianesimo. Direttamente coinvolti nella formulazione di una costituzione finalmente capace di garantire i diritti dell’uomo, i dirigenti della Democrazia cristiana sperimentarono da vicino quello «choc subito dal pensiero cattolico nel rapporto con l’Illuminismo»33 che in precedenza aveva turbato e tormentato Maritain e i suoi amici della rivista «Esprit». Fare davvero i conti con la Dichiarazione dei diritti dell’89 e con il pensiero politico e costituzionale illuministico che vi era sotteso non era sicuramente facile dopo le plateali condanne della Chiesa. Certo la guerra aveva mutato profondamente la mentalità dei cattolici rispetto alla democrazia e alle libertà dell’individuo rivendicate alla fine del Settecento34. Più che tra i laici neoillumi  J. Maritain, Cristianesimo e democrazia cit., p. 31.   Cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1997. 33   Cfr. P. Pombeni, Individuo/persona nella Costituzione italiana. Il contributo del dossettismo, in «Parolechiave. Persona», X-XI, 1996, p. 203. 34   Cfr. F. Traniello, Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1990, pp. 170 e sgg. 31 32

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nisti attardati in strumentali dispute filosofiche del tutto prive di ogni elemento originale, il giusnaturalismo era clamorosamente tornato al centro delle riflessioni dei giuristi cattolici italiani35. L’esperienza del teologo francese e la sua concezione della democrazia fondata sui diritti della persona restavano però uno dei pochi punti di riferimento possibili da cui muovere. Basta scorrere i testi delle proposte dei costituenti democristiani alla «Commissione dei 75» o nel «Codice di Camaldoli» per ritrovarne ovunque suggestioni e temi36. A Guido Gonella – che non perdeva occasione di proclamare con spirito di crociata che «la libertà moderna sorta dall’Illuminismo è fallita. La libertà cristiana è una nuova e costruttiva esperienza di una democrazia animata dal fervore spirituale [...]. È il cristianesimo che attua la rivoluzione democratica contro il conservatorismo degli uni [i liberali] e il classismo degli altri [comunisti e socialisti]»37 – si affiancarono i ben più problematici e meditati interventi di La Pira, Mortati, Moro, Ambrosini, Vanoni, Fanfani ed altri ancora. La Pira – e non era il solo tra i cattolici – riconobbe con grande onestà intellettuale, in tutti i suoi discorsi, la perdurante attualità della Dichiarazione dell’89 e della tradizione illuministica dei diritti dell’uomo. Con la sua «idea cristiana» di abolizione della pena di morte Beccaria, ad esempio, aveva visto giusto e con largo anticipo; gli stessi totalitarismi erano nati in primo luogo dalla feroce negazione di quei diritti. Semmai i principi dell’89 erano ritenuti «incompleti»: «Senza la tutela dei diritti sociali – diritti al lavo35   Il tema del giurista cattolico di fronte alla legge ingiusta degli Stati totalitari e più in generale sui limiti del principio di legalità venne riproposto dal civilista Francesco Santoro Pastorelli e da Giuseppe Capograssi alla fine della guerra, suscitando un vasto dibattito. Cfr. P. Grossi, Scienza giuridica italiana cit., pp. 279 e sgg. 36   Sull’importanza di Maritain tra i costituenti democristiani cfr. L. Elia, Maritain e la rinascita della democrazia, in Jacques Maritain e la società contemporanea cit., pp. 220-234; R. Ruffilli, “La costituzione italiana”. L’apporto del personalismo alla costruzione europea, Milano 1980, pp. 159 e sgg.; P. Pombeni, Il gruppo dossettiano e la fondazione della democrazia italiana (1938-1948), Bologna 1980. 37   Queste dichiarazioni, pronunciate nell’ambito della Settimana sociale di Firenze su Costituzione e Costituente, ottobre 1945, sono riportate in I cattolici democratici e la costituzione, a cura di N. Antonietti, U. De Siervo e F. Malgeri, 3 voll., Bologna 1998, vol. II, p. 734.

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ro, al riposo, all’assistenza ecc. – la libertà e l’indipendenza della persona non sono effettivamente garantite»38. Per raccogliere l’eredità dei Lumi e andare oltre la «democrazia individualistica» e l’«atomismo» di Rousseau occorreva rilanciare una «concezione organica della società», il personalismo: accettare il pluralismo degli ordinamenti giuridici, la sussidiarietà dello Stato, il rispetto dei «diritti essenziali delle comunità naturali», dalla famiglia alla Chiesa, alla nazione39. Un capitolo fondamentale della stagione costituente vissuta dai seguaci italiani di Maritain fu senza dubbio quello concer-

38   Cfr. G. La Pira, Deve essere premessa nella Costituzione una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ivi, pp. 814 e sgg. La Pira era anche consapevole delle responsabilità, seppure indirette, che la teoria dei diritti riflessi, elaborata in polemica con il costituzionalismo illuministico (e con l’assurda idea «non lo Stato per l’uomo, ma l’uomo per lo Stato»), aveva avuto nel facilitare l’affermazione dei totalitarismi. Di notevole interesse è l’uso che egli faceva di autori come il socialista G. Gurvitch (cfr. La dichiarazione dei diritti sociali, Milano 1949) per avvalorare la sua tesi per un superamento, da sinistra, dei principi dell’89. In realtà la questione dei diritti sociali nella cultura politica dell’Illuminismo è ancora oggi tema storiograficamente aperto: cfr. V. Ferrone, La società giusta ed equa cit., pp. 350 e sgg. 39   G. La Pira, Deve essere premessa cit., p. 815. Visti i risultati finali, se l’obiettivo dei costituenti era stato sin dall’inizio, secondo La Pira, la formulazione di un testo in grado di tutelare «i diritti della persona umana e delle comunità naturali» privilegiando, rispetto alla libertà dell’individuo, il tema della giustizia sociale, allora aveva ragione Dossetti a rivendicare soprattutto ai giuristi cattolici il merito storico di aver fatto una Costituzione «che in effetti si discosta per tanti punti dall’individualismo, dall’egoismo capitalistico, dall’accentramento statale del regime liberale» (articolo di Dossetti del 1947 su «Temponostro», ora in I cattolici democratici e la costituzione cit., vol. III, p. 1018). Su questi temi cfr. N. Antonetti, Dottrine politiche e dottrine giuridiche. I cattolici democratici e i problemi costituzionali (1943-1946), ivi, vol. I, pp. 109 e sgg. A testimonianza della circolazione di questi temi, nel 1943, un giovane seminarista come padre Balducci scriveva con convinzione: «Essere democratici cattolici non significa accettare la filosofia da cui sono sorti i “diritti dell’uomo”, cioè il materialismo degli illuministi» (E. Balducci, Diari 1940-1945, a cura di M. Paiano, I, Firenze 2002, p. cii). Infine, sul fatto che la Costituzione italiana sia stata soprattutto il grande capolavoro politico dei giuristi cattolici insiste – a mio avviso giustamente – P. Pombeni, Individuo/persona nella Costituzione italiana cit., pp. 198 e sgg. La prova di questa tesi sta tutta, ad esempio, nell’abile e accorta formulazione dell’articolo 3 della Costituzione italiana: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

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nente la questione concordataria, in cui molteplici e tutti spinosi erano i temi in gioco. Ma anche in questo caso un canonista colto e raffinato come Dossetti ebbe buon gioco ad appellarsi pubblicamente, nei momenti decisivi, alla moderna e vincente teoria istituzionalista del pluralismo degli ordinamenti giuridici formulata da Santi Romano per chiedere il rispetto dei diritti di una comunità come la Chiesa. Superata definitivamente la concezione ottocentesca dello Stato come fonte esclusiva del diritto, la strada era infatti spalancata all’idea che «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». L’insigne giurista Francesco Ruffini (su cui avremo modo di tornare), ripetutamente invocato, aveva del resto dimostrato efficacemente sul piano storico e giuridico «il concetto della originarietà dell’ordinamento canonico» e i limiti del modello storico della separazione tra Chiesa e Stato rispetto a quello del nuovo giurisdizionalismo liberale. Il concordato, inteso «come formula rigorosamente tecnica del riconoscimento reciproco della originarietà dei due ordinamenti», poteva e doveva quindi rappresentare un terreno comune di confronto, una sfida positiva per entrambi i contraenti, invitati a dialogare, ed eventualmente a scontrarsi, per meglio definire e difendere le rispettive sfere di competenza. «Nel riconoscimento della necessità di una disciplina bilaterale – precisava Dossetti40 – è la vera separazione tra Chiesa e Stato»: nessun primato dell’uno sull’altro, perfetta distinzione e piena parità. In realtà quella sfida venne percepita come tale solo dal mondo cattolico, che nel corso dei decenni successivi tenne alta la guardia di fronte all’insipienza e al progressivo disfarsi della cosiddetta tradizione laica italiana, sempre più incapace di reggere il confronto. Da parte dei seguaci di Maritain, l’opzione concordataria venne allora sostenuta e vissuta con grande entusiasmo e passione civile, soprattutto come espressione del moderno pluralismo democratico, fase storica comunque da superare nel tempo, in vista di quella «nuova cristianità» in cui, secondo Dossetti, «la Chiesa non si accorderà con i principi o con il parlamento, ma si accorderà con le masse popolari»41. La decisione di confrontarsi con la 40   Cfr. l’intervento di Dossetti in I cattolici democratici e la costituzione cit., vol. III, pp. 1092 e sgg. 41   Ivi, p. 1112.

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cultura laica e di sfidare la modernità senza timori reverenziali si alimentava, insomma, della consapevolezza del definitivo superamento storico dello Stato confessionale e di ogni disegno egemonico in chiave eminentemente politica da parte della Chiesa: ben altro doveva essere il terreno di confronto. «Il sogno di Eusebio di Cesarea – ha ribadito ancora Dossetti – che ha idealizzato l’opera di Costantino e il regime di Teodosio, con le prime grandi linee di una struttura cristiana dell’impero, è finito, irrimediabilmente finito, è finito dappertutto. L’Italia ne ha conservati alcuni rottami sino ad ora; ma erano rottami non più giustificati neppure nella coscienza di alcuni politici»42. Parole, queste, tanto profetiche quanto inascoltate da parte di una gerarchia ecclesiastica pervicacemente ostile ad abbandonare definitivamente la tradizionale strada dello scontro frontale e delle tentazioni integraliste a favore di una nuova strategia della cristianizzazione della modernità nel segno del dialogo e della tolleranza. E dire che la Pacem in terris di Giovanni XXIII resa pubblica nell’aprile del 1963 conteneva segnali importanti in quest’ultima direzione. Per la prima volta un’intera enciclica affrontava temi e questioni capitali affidando una funzione cruciale a quel linguaggio dei diritti naturali destinato a diventare la grande novità della Chiesa del secondo dopoguerra. Il testo, infatti, legava in maniera indissolubile la realizzazione di una pace giusta sulla terra al riconoscimento e al rispetto dei diritti dell’uomo in ogni angolo del pianeta. Solennemente, sacralizzandole, con la Pacem in terris la Chiesa si affiancava alle Nazione Unite e alla celebre Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del dicembre 1948, nel riconoscere e diffondere la cultura dei diritti come punto di riferimento basilare del nuovo ordine internazionale. «Ogni essere umano – affermava quel grande pontefice, ricalcando volutamente passo dopo passo gli articoli principali della carta dell’Onu, senza però mai accennare alla Dichiarazione dell’89 – ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure medi  Cfr. L. Pedrazzi, Sette giorni a Sovere, Bologna 2002, p. 102.

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che, i servizi sociali necessari»43. Accanto ai diritti dei lavoratori e delle donne, Giovanni XXIII ribadiva però anche la necessità di salvaguardare i diritti delle società naturali, della famiglia, delle nazioni, dei «corpi intermedi»; estendeva poi il principio di sussidiarietà dai rapporti all’interno delle singole comunità politiche alle relazioni internazionali, rispetto alle quali auspicava il rafforzamento dell’Onu come suprema e legittima autorità politica mondiale; ma soprattutto, in quelle pagine che miravano a ridefinire la stessa rappresentazione della realtà della futura cristianità aggiornandone il linguaggio, si gettavano semi preziosi a favore del moderno costituzionalismo e del principio democratico. Finalmente, il dogma paolino secondo cui ogni autorità traeva la sua legittimità unicamente da Dio era reinterpretato in linea con il mutato contesto storico: «Non ne segue – precisava a proposito l’enciclica – che gli esseri umani non abbiano la libertà di scegliere le persone investite del compito di esercitarla; come pure di determinare le strutture dei poteri pubblici, e gli ambiti entro cui e i metodi secondo i quali l’autorità va esercitata. Per cui la dottrina sopra esposta è pienamente conciliabile con ogni sorta di regimi genuinamente democratici»44. Con la Pacem in terris l’integralismo e il fondamentalismo cattolico, sempre in agguato nel pensiero e nei desideri nascosti di larga parte delle gerarchie vaticane, subivano un duro colpo. Giovanni XXIII rilanciava in quelle pagine l’ecumenismo, l’accettazione del pluralismo, il dialogo e la collaborazione in vista del «bene comune», tanto «con i cristiani separati da questa Sede Apostolica, quanto con esseri umani non illuminati dalla fede in Gesù Cristo». Scaturivano da quelle parole concessioni che si sarebbero rivelate cruciali nei decreti del Vaticano II a favore della libertà religiosa e della libertà di coscienza. Non si dovrà «mai confondere l’errore con l’errante, anche quando trattasi di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale e religioso», affermava, con uno spirito di straordinaria umanità, un papa sicuramente destinato a subire, in tempi precedenti, le attenzioni dell’Inquisizione. «L’errante è sempre e anzitutto un   Giovanni XXIII, Pacem in terris, in Enchiridion Symbolorum cit., p. 1443.   Ivi, p. 1457.

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essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona»45. E tuttavia, com’è tradizione in questi testi dove convivono sempre a forza innovazione e continuità, la Pacem in terris non apriva solo con coraggio nuovi sentieri, ma tracciava anche con mano ferrea quelli che potremmo definire i definitivi e rassicuranti confini tomistici della teoria dei diritti dell’uomo, ufficialmente accettata dal magistero ecclesiastico solo in termini di diritti della persona («ogni essere umano è persona» e come tale titolare di «diritti e di doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili»). Quei diritti naturali soggettivi, secolarizzati e trasformati dagli illuministi in strumenti rivoluzionari di lotta per instaurare un nuovo regime politico e sociale, limitare il dispotismo e il potere politico, rispecchiavano oggettivamente, secondo l’interpretazione dei neotomisti fatta propria dall’enciclica, la legge naturale dell’universo voluta da Dio, sommo legislatore. Essi trovavano fondamento ultimo e legittimità solo come riflesso dello status dell’uomo nell’armonia generale dell’universo. Un’armonia e una legalità sempre da «restaurare» di fronte alle «deviazioni» e al «disordine che regna tra gli esseri umani»46 a causa di una modernità male interpretata e peggio vissuta. Alla luce del diritto naturale oggettivo elaborato da Tommaso, spettavano unicamente alla Chiesa il magistero morale e la guida nel decifrare il disegno divino e i segni del tempo, giudicando i nessi prodotti dalla storia tra la lex divina, la lex naturalis e le legislazioni positive: indicando, quindi, quali erano da considerare diritti naturali e quali non erano da ritenere tali. In questa direzione l’enciclica precisava con durezza che «l’ordine morale – universale, assoluto e immutabile nei suoi principi – trova il suo oggettivo fondamento nel vero Dio» e non nell’uomo come individuo, nella sua presunta autonomia, volontà e libertà, come pretendevano gli   Ivi, p. 1467.   Ivi, p. 1441. Sull’interpretazione tomistica dei diritti dell’uomo la bibliografia è ormai assai vasta. Cfr. ad esempio gli Atti del IX Congresso tomistico internazionale. Etica, sociologia e politica d’ispirazione tomistica, Città del Vaticano 1991, e in particolare R.M. Pizzorni, Modernità ed attualità della dottrina del diritto naturale secondo s. Tommaso d’Aquino, pp. 62 e sgg.; K. Wroczyński, Droits de l’homme dans la perspective thomiste, pp. 85 e sgg. Molto vi sarebbe da dire sull’arbitrarietà e gli anacronismi storici di queste spericolate interpretazioni. 45 46

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illuministi47. Con esplicito riferimento alle dichiarazioni dei diritti messe in testa alle moderne costituzioni a partire dal tardo Settecento, la Pacem in terris ribadiva conseguentemente il suo rifiuto netto del contrattualismo democratico e dell’individualismo come fondamento dei diritti dell’uomo e del moderno rapporto tra politica e morale: «Certo non può essere accettata come vera la posizione dottrinale di quanti erigono la volontà degli esseri umani, presi individualmente o comunque raggruppati, a fonte prima e unica donde scaturiscono diritti e doveri e donde promana tanto la obbligatorietà delle costituzioni che l’autorità dei poteri pubblici»48. E ancora, in un passo successivo, riaffermando il principio della teoria bellarminiana della potestas indirecta della Chiesa sulla società civile, si sanciva perentoriamente: «Non si deve, infatti, dimenticare che compete alla Chiesa il diritto e il dovere non solo di tutelare i principi dell’ordine etico e religioso, ma anche d’intervenire autoritativamente presso i suoi figli nella sfera dell’ordine temporale, quando si tratta di giudicare dell’applicazione di quei principi [del diritto naturale] ai casi concreti»49.

  Giovanni XXIII, Pacem in terris, in Enchiridion Symbolorum cit., p. 1451.   Ivi, p. 1459. 49   Ivi, p. 1467. 47 48

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«Non vi è libertà nei confronti di Dio»: il Vaticano II, i diritti di Dio e il diritto alla libertà religiosa

Con la Pacem in terris la lunga marcia per acclimatare positivamente, senza particolari costi e lacerazioni, il potente linguaggio dei diritti sulle rive del Tevere sembrava definitivamente conclusa. In realtà – e lo si vide subito negli ardui e spinosi confronti tra i padri conciliari del Vaticano II – cominciava solo allora, e continua tuttora impregiudicato, il vero e tormentato confronto con l’impianto dialettico della modernità, il cui filo rosso, non solo politico, stava certamente nella lettura illuministica della teoria dei diritti. Di fronte alle grandi questioni, la rassicurante veste tomistica e il fondamento personalistico – sapientemente costruiti per neutralizzare gli effetti eversivi di quel pericoloso strumento di lotta che nelle mani degli illuministi aveva messo a ferro e fuoco l’Europa d’Antico regime – si rivelarono subito inadeguati e forieri di compromessi, di ambiguità irrisolte, di vere e proprie mistificazioni della verità storica. Del resto, dopo secoli di chiusura, non era impresa di poco conto riportare la Chiesa a dialogare con la modernità: la ridefinizione del confine tra ortodossia ed eterodossia, la stessa identità profonda della comunità ecclesiale non potevano restare immuni dal vaglio critico e dai tentativi di aggiornamento dottrinari da parte dei rappresentanti del popolo di Dio riuniti in San Pietro. Al riguardo, l’appassionato dibattito sulla libertà religiosa come diritto naturale dell’uomo costituì certamente un primo esempio di straordinaria eloquenza. Sappiamo che intorno a quel tema scabroso – non a caso intrecciato con il problema De Judaeis et de non christianis, del su­­­­­75

peramento dell’antisemitismo cattolico e della creazione di solide basi per l’avvio di una sincera politica ecumenica, lasciandosi definitivamente alle spalle l’esperienza dei totalitarismi – si combatté nelle sessioni conciliari un’accesa battaglia senza esclusione di colpi tra riformatori e conservatori: una battaglia assolutamente decisiva per la Chiesa del terzo millennio. In gioco non vi erano infatti solo questioni filosofiche e teologiche concernenti la libertà dell’uomo nel disegno escatologico, ma la natura stessa dei rapporti tra Chiesa e Stato, il giudizio sulla vicenda storica del cattolicesimo, sull’opera di tanti pontefici, sul futuro delle scelte ecclesiastiche nei confronti dell’umanità intera. Dopo la presentazione delle prime bozze di discussione, particolarmente avare di novità, si ebbe con immediatezza la percezione dell’inevitabilità dello scontro1. Da un lato si comprese che non si poteva più ormai contemperare con disinvoltura la dottrina dello Stato cattolico (ostile a ogni forma di libertà religiosa per le altre confessioni, cui si concedeva unicamente lo statuto della semplice «tolleranza») con la nuova enfasi posta sull’ecumenismo, sulla difesa dei diritti dell’uomo moderno; dall’altro lato occorreva però ribadire con forza la verità della Rivelazione e il carattere missionario della Chiesa. Tra i padri conciliari, anche chi ammetteva la necessità di andare oltre la tradizionale dottrina dello Stato confessionale s’arrestava alla fine incerto e smarrito sul come fosse poi possibile convincere il concilio e il popolo di Dio, titolare della «verità», a lasciare a cuor leggero agli eretici la libertà di errare, di scegliere il male. La libertà religiosa – spiegò a nome dei conservatori il cardinale Ruffini – non può mai essere separata dalla verità: se la verità è una e indivisibile, ad essa sola spetta il diritto di libertà. In agguato stavano – secondo molti autorevoli pareri – lo scetticismo, l’inquietante pericolo rappresentato dal relativismo, vera anticamera del nichilismo dei contemporanei. «Può un concilio   Una preziosa ricostruzione di quegli eventi si trova in G. Miccoli, Due nodi. La libertà religiosa e le relazioni con gli ebrei, in Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 5 voll., Bologna 1995-2001, vol. IV, pp. 119 e sgg. Per constatare quanto fossero arretrate le posizioni iniziali della curia cfr. il documento presentato dal padre Rosaire Gagnebet del Sant’Uffizio, vicino alle posizioni del cardinale Ottaviani: De libertate religiosa (septima et octava Congregatio, 19-20 iunii 1962), in Acta et documenta Concilio Oecumenico Vaticano II Apparando, vol. II, Città del Vaticano 1968, pp. 657 e sgg. 1

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ecumenico osare di dire che ad ogni eretico compete il diritto di adescare i fedeli?», chiese provocatoriamente il cardinale Gilroy in una delle sessioni più arroventate. «Non vi è libertà di fronte a Dio», di fronte alla Rivelazione, fu la generale risposta degli intervenuti al dibattito. «Solo il Cristo è maestro», tuonò il cardinale Arriba y Castro2. Rispetto ai superiori diritti di Dio non poteva che esservi la resa totale, incondizionata. E tuttavia, seppure a fatica, si fece progressivamente strada l’opinione che il tema non poteva più essere affrontato solo alla luce dei tradizionali fondamenti evangelici e teologici – dopo la Pacem in terris specialmente. La definitiva accettazione della teoria dei diritti dell’uomo, del costituzionalismo e del principio democratico comportava scelte dolorose, ma inevitabili nell’aggiornamento dottrinario. Come conciliare libertà e verità senza mettere a repentaglio le granitiche fondamenta della tradizione e in particolare il dogma della «scuola romana» circa l’immutabilità della dottrina? Come armonizzare i diritti naturali dell’uomo e i diritti soprannaturali della Chiesa, da sempre compendiati e contrabbandati nella suggestiva formula dei «superiori diritti di Dio»?3 Nelle ovattate stanze vaticane cominciarono insomma ad aggirarsi ospiti indesiderati, i fantasmi di Voltaire, di Rousseau, di Jefferson, di Beccaria: l’Illuminismo, dopo due secoli di condanna, stava per prendersi un’inattesa quanto inconfessabile, e soprattutto poco pubblicizzata, rivincita. In realtà lo scontro finale era iniziato già da tempo e coinvolgeva direttamente questioni geopolitiche, come il mutato rapporto di forze tra il cosiddetto partito romano, appoggiato dagli episcopati europei più ostili alle innovazioni, e la Chiesa cattolica del Nord America. Sin dalla fine della guerra il cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio e autorevole canonista, aveva duramente represso le tesi a favore della libertà religiosa e del superamento dello Stato confessionale formulate dal gesuita John Courtney Murray4. Nell’arco degli anni Cinquanta la Chiesa   Cfr. G. Miccoli, Due nodi cit., pp. 138 e sgg.   L’espressione ricorre ancora frequente – come vedremo – nella Dignitatis humanae personae. Declaratio de libertate religiosa, in Conciliorum oecumenicorum decreta, cit., p. 1008. 4   Sulla persecuzione inquisitoriale nei confronti di Murray cfr. G. Martina, L’église, la société moderne et les droits de l’homme, in Deux mille ans d’histoire 2 3

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americana, sempre più insofferente, si era cimentata più volte nel tentativo di attenuare la franca ostilità (basti pensare alla messa in guardia di Leone XIII contro i pericoli dell’americanismo) verso il modello politico costituzionale degli Stati Uniti, fondato sulla separazione tra Chiesa e Stato e sul celebre primo emendamento della Costituzione federale del 1787 che proclamava, seguendo le indicazioni di Jefferson, l’illuministico diritto dell’individuo alla libertà religiosa. Le dure reazioni contro queste esigenze dei cattolici americani, da sempre accusati in patria di essere estranei allo spirito democratico della nazione, non mancarono. Nel 1952 i gesuiti della «Civiltà cattolica» coinvolsero nei loro attacchi tutto il fronte dei riformatori, da Maritain a Congar a Murray, denunciando anche i pericolosi tentativi americani volti a interpretare in termini individualistici la teoria personalistica dei diritti. Solo il concilio ebbe la forza di riaprire, su più equilibrate posizioni di forza, il duro confronto5. In tal senso l’arrivo in Vaticano di Murray, nell’aprile del 1963, come esperto al seguito del cardinale Spellman, e lo schieramento compatto nelle votazioni del ricco e potente episcopato americano, appoggiato dai riformatori europei, contribuirono non poco a decidere le incerte sorti della battaglia conciliare a favore della libertà religiosa. Dopo una tormentata fase di contrasti, che vide la parallela sconfitta dei conservatori e della suggestiva ma troppo audace proposta di Yves Congar – fondata su una nuova lettura teologico-biblica della libertà come storia della salvezza, processo esistenziale ed educativo dell’uomo attraverso la fede in Cristo, in un Dio perenne fonte di libertà prima ancora che di obbedienza, che coinvolgeva pericolosamente la stessa natura della Chiesa6 –, il concilio trovò il suo punto di sintesi finale nel decreto Dignitatis de l’Église cit., pp. 609 e sgg.; J.A. Komonchak, The Silencing of J.C. Murray, in Cristianesimo nella storia cit., pp. 657 e sgg. 5   Cfr. J.A. Komonchak, Religious Freedom and the Confessional State. The Twentieth-Century Discussion, in Deux mille ans d’histoire de l’Église cit., pp. 635 e sgg. Più in generale su questi temi cfr. Cl. Fohlen, Catholicisme américain et catholicisme européen: la convergence de l’«Américanisme», in «Revue d’histoire moderne et contemporaine», XXXIV, 1987, pp. 215 e sgg. 6   Tra le differenti letture di tipo teologico, politico e filosofico avviate direttamente o indirettamente sul tema della libertà religiosa dal concilio, di grande interesse mi paiono le riflessioni filosofiche di matrice esistenzialistica proposte,

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humanae personae. In quel testo difficile e tormentato, innovativo ma anche rassicurante, volutamente reticente su questioni delicatissime, Paolo VI faceva sostanzialmente proprie le posizioni di personalità dello schieramento riformatore come Murray, Pavan, Colombo, Maritain. Del gesuita americano, infatti, il pontefice accettò l’impostazione giuridica e costituzionale che mirava a trattare il diritto di libertà come parte decisiva del moderno giusnaturalismo cattolico: baluardo verso future tentazioni totalitarie e base di riferimento del nuovo ecumenismo. Nelle posizioni espresse dall’amato Maritain, appositamente interpellato7, Paolo VI trovò invece la conferma di quanto fosse preziosa, per la Chiesa del terzo millennio, la teoria dualistica circa la missione, temporale ed escatologica insieme, del cristianesimo elaborata dallo studioso francese. In quella direzione, la libertà religiosa poteva essere ripensata alla luce della differenza esistente tra ambito politico e ambito ecclesiale, tra società civile e comunità dei credenti, tra Stato e Chiesa: assai diverse erano del resto le responsabilità verso la verità e la Rivelazione. Nel volumetto dedicato al tema, Cristianesimo e democrazia, dopo aver praticamente sacralizzato il principio democratico, individuandone le radici e l’essenza ultima nel vangelo, Maritain aveva spiegato bene la sua posizione rassicurando chi temeva un’inquietante estensione delle sue idee democratiche e libertarie alla vita interna della Chiesa, con il rischio di stravolgerne la struttura gerarchica: «Per quel che concerne i rapporti tra politica e religione – ebbe a precisare – è chiaro che il cristianesimo e la fede cristiana non potrebbero mai essere resi vassalli da nessun sistema politico e neppure dalla democrazia, né come forma di governo né come filosofia di vita umana e politica. Ciò procede dalla distinzione fondamentale fatta da Cristo tra le cose che sono di Cesare e le cose che sono di Dio»8. Insomma, un conto erano i diritti dell’uomo, il costituzionalismo, il princiad esempio, da L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995, in particolare le pp. 295 e sgg., dedicate al rapporto tra la libertà e Dio. 7   Sull’intervento di Maritain cfr. R. Burigana, G. Turbanti, L’intersezione: preparare la conclusione del concilio, in Storia del concilio Vaticano II cit., vol. IV, pp. 570 e sgg. Su questi temi di grande interesse è il volume di S. Scatena, La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003. 8   Cfr. J. Maritain, Cristianesimo e democrazia cit., p. 30.

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pio democratico e soprattutto la libertà religiosa degli uomini in quanto cittadini di uno Stato sovrano nell’ambito politico; altro erano le stesse condizioni laddove toccavano i cattolici in quanto fedeli della verità insegnata dalla Chiesa di Roma. Il decreto Dignitatis humanae venne costruito abilmente su queste precise basi dualistiche, che vale la pena di esaminare in dettaglio. Il testo si apriva con toni ed espressioni lessicali degni del miglior Voltaire, di Diderot, di Filangieri, di quel Mario Pagano impiccato e dato in pasto ai lazzari napoletani scatenati dai Borbone e dai sanfedisti del cardinale Ruffo, nel 1799, per aver osato anticipare i tempi: «Tutelare e promuovere gli inviolabili diritti dell’uomo è dovere essenziale di ogni potestà civile»9. Sulle solide basi tomistiche della «legge divina, eterna, oggettiva e universale», lo Stato doveva garantire a ogni persona la libertà religiosa. Il «publico potere» non poteva mai, per nessuna ragione, costringere un uomo ad «agire contro la propria coscienza». Superando di fatto, dopo secoli, silenziosamente, senza particolari clamori all’esterno, la dottrina dello Stato confessionale10, il decreto illustrava i fondamenti teologici cristiani della libertà religiosa «alla luce della Rivelazione», ribadendo in ogni riga che il «diritto alla libertà religiosa si fonda sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della parola di Dio rivelata sia tramite la ragione». Cristo era stato chiarissimo al riguardo. Tutto il vangelo mostrava che la perentoria affermazione secondo cui «chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvo, chi invece non avrà creduto sarà condannato» non prevedeva in alcun modo forme di coercizione. Il messia aveva predicato e reso testimonianza alla verità sempre ribadendo il suo «rispetto» verso la libertà dell’uomo «nell’adempimento del dovere di credere alla parola di Dio»: «Nessuno quindi può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Infatti l’atto di fede è volontario 9   Cfr. Dignitatis humanae personae cit., p. 1005. Il decreto affermava di voler trattare il tema della libertà religiosa alla luce della «dottrina dei sommi pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all’ordinamento giuridico della società». 10   L’idea stessa che la Chiesa potesse cambiare dottrina su di un tema così delicato suscitò comunque durissime resistenze all’interno del concilio da parte del partito romano. Cfr. G. Miccoli, Due nodi cit., pp. 124 e sgg.

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per sua stessa natura, giacché l’uomo, redento da Cristo salvatore e chiamato in Cristo Gesù ad essere figlio adottivo, non può aderire a Dio che si rivela, se attratto dal Padre non presta a Dio un ossequio di fede ragionevole e libero». La verità andava insomma testimoniata, mai imposta. Le fonti teologiche non ammettevano dubbi di sorta. Il regno di Dio – concludeva questo importante testo, destinato a rompere una secolare tradizione risalente a Tertulliano e Agostino, che avevano incitato a usare il ferro e il fuoco contro gli eretici – «non si difende con la spada, ma si costruisce testimoniando e ascoltando la verità»11. E tuttavia come mettere d’accordo la teologia con la storia, con la tradizione tutt’altro che libertaria della Chiesa, senza aprire la strada a rovinose revisioni e pentimenti, a confusioni tra la «vera libertà» del cristiano di fronte alla verità e quella laica e secolare del cittadino sottoposto all’autorità dello Stato? A tal riguardo la chiave di volta dell’intero decreto poggiava sull’enfasi e sul rilievo attribuiti alle parole di Gesù riferite da Matteo: «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Sulla base di questa dichiarazione di dualismo avverso a confusioni di ruolo tra politica e religione, a modelli teocratici ormai divenuti inaccettabili, ma ancora di bruciante attualità, ad esempio, nel monismo islamico, la Chiesa rivendicava apertamente il suo ruolo di fondatrice e madre della libertà in Occidente, conciliando abilmente, in tal modo, le sue responsabilità del passato, la necessità di un futuro rispettoso dei diritti dell’uomo nell’ambito civile e il mantenimento della propria identità di comunità ecclesiale. Con stupefacente disinvoltura storica, dimenticando secoli di persecuzioni ereticali, di genocidi compiuti nel nome di Cristo, di roghi inquisitoriali, di offese atroci alla libertà degli individui, di pretese teocratiche, il decreto illustrava in questa direzione una fantasiosa storia di apostoli e di successori di Pietro sprezzanti verso le lusinghe del potere temporale, refrattari all’uso di «tutte “le armi carnali”», attenti a seguire fedelmente in ogni occasione «l’esempio di mansuetudine e di modestia di Cristo» nel testimoniare la verità12. La Chiesa del Vaticano II, «peregrinante e missionaria»,   Cfr. Dignitatis humanae personae cit., pp. 1007-1008.   Ivi, p. 1008. Ad onor del vero c’è un punto del decreto (p. 1009) in cui l’estensore, per evitare di arrossire troppo dalla vergogna, è costretto a qualche 11 12

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«maestra di verità», scopertasi all’improvviso anche maestra di libertà – aggiungiamo noi dopo aver letto con qualche stupore la Dignitatis humanae –, testimone del messaggio salvifico di Cristo «fino all’effusione del sangue», proprio perché riteneva di aver avuto da sempre nel suo patrimonio teologico e nel suo codice genetico dualista il rispetto della libertà di coscienza dell’individuo, poteva permettersi di rivendicare – o almeno riteneva di poterlo fare – accanto alla libertà religiosa della persona anche quella delle comunità naturali. In linea con le moderne concezioni giuridiche istituzionaliste, l’Onu, i singoli Stati, il potere civile erano invitati a far rispettare in ogni angolo del mondo la libertà delle comunità religiose e della Chiesa in particolare: i suoi diritti (sempre intesi come espressione dei «superiori diritti di Dio» di fronte a Cesare) a predicare liberamente la verità, a istruire i popoli con tutti i mezzi. Le stesse richieste erano avanzate per la famiglia, concepita come «società che gode di un diritto proprio e primordiale»: «Dal potere civile – si precisava – deve essere riconosciuto ai genitori il diritto di scegliere, con vera libertà, le scuole e gli altri mezzi di educazione, e per questa libertà di scelta non devono essere loro imposti, né direttamente né indirettamente, oneri aggiuntivi». Il fatto è che, alle prese con un tema lacerante e pericolosissimo come la libertà religiosa, il concilio finiva con il produrre un documento epocale, forse troppo reticente e ambiguo, talvolta pure mistificatorio agli occhi della storiografia laica, ma certamente di straordinaria efficacia politica e teoretica nel posizionare in modo originale e inatteso la Chiesa nel difficile avvio del suo viaggio attraverso il terzo millennio. Nel decreto Dignitatis humanae pressoché nulla si diceva sulla libertà religiosa all’interno della Chiesa: salvo ribadire l’adesione volontaria come atto di fede. Nessuno dei padri osò allargare il tema della universalità della teoria dei diritti dell’uomo in ambito civile alla revisione e all’aggiornamento del diritto canonico, ai cosiddetti «diritti del cristiano» come individuo. La perdurante repressione del dissenpiccola ammissione. Ed è quando afferma che, benché «attraverso le vicissitudini della storia umana, di quando in quando si sia avuto un comportamento poco conforme allo spirito evangelico, anzi contrario, tuttavia ha sempre perdurato la dottrina della Chiesa che nessuno dev’essere costretto ad abbracciare la fede». Sarà, ma le vittime dell’Inquisizione non se ne sono accorte!

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so dottrinale da parte delle gerarchie insensibili alla libertà di coscienza dei singoli credenti non venne minimamente sfiorata nel dibattito13. Paradossalmente, proprio quel dualismo – che, come abbiamo già visto in precedenza, Ratzinger subito definì «l’ini-

13   Negli ultimi mesi del concilio Paolo VI avanzò la proposta di dare anche alla Chiesa una costituzione, una moderna «Lex Ecclesiae fundamentalis», basata su diritti e doveri del cristiano. Stranamente, ma non troppo a ben vedere, la proposta raccolse solo rifiuti ed ostilità, soprattutto da parte degli stessi dossettiani e seguaci di Maritain, convinti che la «Chiesa ha la sua costituzione nel Vangelo» e che le sue leggi non sono in alcun modo assimilabili a quelle di uno Stato (cfr. la testimonianza di G. Alberigo in «la Repubblica», 8 novembre 2001, p. 41). Nel codice di diritto canonico, promulgato con costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges del 25 gennaio 1983, la solenne ratifica della centralità dei diritti dell’uomo da parte dei padri conciliari non pare aver comportato grandi modifiche rispetto alle tradizionali concezioni della Chiesa come societas iuridice perfecta, gerarchizzata, inegualitaria, disciplinata. «Nei tribunali canonici di sempre, anche in quelli odierni, – ha precisato P. Grossi (L’ordine giuridico medievale cit., p. 120) – sarebbe inconcepibile la scritta “la legge è uguale per tutti”, che noi laici amiamo ostentare con ingenua vanagloria nelle nostre aule giudiziarie, perché la legge canonica non può essere uguale per tutti se tutti non sono concretamente uguali». In questa direzione si comprendono i motivi per cui nel nuovo codice di diritto canonico si fa solo un generico riferimento a «una vera eguaglianza nella dignità e nell’agire» (can. 208) e al diritto dei fedeli a vedersi riconosciuta dallo Stato «quella libertà che compete ad ogni cittadino» (can. 227). Intatto è infatti rimasto nei presupposti filosofici del codice lo schema dualistico che distingue tra le due città, tra la comunità politica e la comunità ecclesiale: riferite al medesimo soggetto, che è l’uomo, la Chiesa e la comunità politica si estendono su differenti piani secondo modalità giuridiche che hanno certamente la medesima fonte, cioè Dio, ma diversi canali d’espressione, e che soprattutto riguardano fini diversi. I diritti appartengono pertanto alla sola sfera del politico e non alla sfera della salvezza eterna, dove regna sovrana la volontà del pontefice e delle gerarchie ecclesiastiche. E tuttavia, a conferma del fatto che i conti comunque non tornano, le polemiche tra i canonisti sul mancato adeguamento della «vecchia Chiesa autoritaria del passato in una moderna Chiesa di diritto», alla luce di una corretta interpretazione della teoria dei diritti dell’uomo, non sono mai mancate. Cfr., ad esempio, il polemico intervento di P. Bellini, I diritti fondamentali dell’uomo e i diritti fondamentali del cristiano, in «Ephemerides juris canonici», XXXIV, 1978, pp. 211 e sgg. Sulla medesima questione cfr. anche G. Dalla Torre, Diritti dell’uomo o diritti del cristiano?, in I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Atti del IV congresso internazionale di diritto canonico (Friburgo, 6-11, X, 1980), Milano 1981, pp. 125 e sgg. Un maggiore spirito irenico di conciliazione è presente in R. Bertolino, La libertà di coscienza e i diritti umani, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, Napoli 1997, vol. IV, pp. 77 e sgg.

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zio e il fondamento persistente dell’idea occidentale di libertà» – metteva la Chiesa al riparo da ogni richiesta di riforma di tipo democratico connessa alla logica eversiva dei diritti universali di libertà della concezione illuministica. Il necessario rispetto della dualità per garantire la libertà di tutti era infatti tanto più efficace quanto più erano differenti e contrapposte le identità e le finalità dei poli di riferimento: ciò che valeva nell’ambito della comunità civile poteva insomma non valere in ambito ecclesiale. Un conto era lo Stato, ben altra cosa era la Chiesa. Solo dalla conferma del loro dualismo era nata e poteva continuare a esistere la libertà. «È giusto – ha precisato in proposito Ratzinger – che il cristiano non veda nella democrazia l’ultima parola della libertà umana: egli cerca di fatto la libertà superiore e più vasta dei figli di Dio nel regno di Dio». Se già nel mondo greco la parola libertà (ε̉λєυθερία) non si esprimeva affatto nell’idea moderna della scelta, bensì indicava uno status, per il fedele cattolico quella parola polisemica significava in primo luogo appartenenza: una «condizione dell’essere». Nella concezione biblica e paolina, «libertà [...] è soprattutto partecipazione, partecipazione a una realtà sociale, il popolo di Dio»14 che adempie alla legge di Gesù Cristo. In realtà, la moderna idea di libertà occidentale (intesa, nel senso proposto dal prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, come «legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano»), trasformando la Chiesa in garante istituzionale contro ogni ritorno al totalitarismo, non solo finiva con il preservarne l’identità e l’autonomia, ma rafforzava i suoi poteri d’intervento nel contrastare l’operato dello Stato sul piano del magistero morale e del cosiddetto foro interno. «La Chiesa deve avanzare delle pretese nei confronti del diritto pubblico e non può semplicemente ritirarsi nell’ambito del diritto privato»15, ha precisato più volte Ratzinger, delineando l’interpretazione autentica del nuovo dualismo: un dualismo del tutto asimmetrico rispetto ai diritti dell’uomo (verrebbe voglia di dire che l’uomo cristiano è antropologicamente altro rispetto all’uomo universale) e tale da permettere un rilancio strisciante e molto pericoloso della bellarminiana potestas indirecta per cui,   Cfr. J. Ratzinger, Chiesa, ecumenismo e politica cit., p. 185.   Ivi, p. 157.

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semplificando molto, la Chiesa è nello Stato, ma lo Stato non è mai nella Chiesa16. In realtà chi aveva compreso per tempo, e con grande acutezza, quali fossero davvero i nodi da sciogliere nel secolare confronto tra la Chiesa e la spinosa questione della libertà religiosa era stato, sin dagli anni Venti, Francesco Ruffini. Dopo la grave crisi delle cattedre di diritto canonico a seguito della chiusura, nel 1873, delle facoltà di teologia, questo grande giurista liberale, sincero ammiratore dell’Illuminismo e dei suoi valori, si era posto l’obiettivo ambizioso di rifondare in Italia il diritto ecclesiastico sulla base del riconoscimento della libertà religiosa come diritto naturale dell’individuo, bene assoluto da tutelare da parte dello Stato laico di fronte a tutte le confessioni, senza alcuna distinzione. Mentre in ambito curiale, e in particolare in quegli Stati che si avviavano a esperienze di tipo totalitario, cresceva l’interesse verso le teorie istituzionaliste del diritto, verso i diritti delle società naturali, dei cosiddetti “corpi intermedi”, delle corporazioni, delle organizzazioni di ogni tipo, Ruffini denunciava, assolutamente inascoltato, i pericoli per la democrazia e la libertà impliciti in talune interpretazioni di quelle concezioni ritenute all’avanguardia in quegli anni tumultuosi. Il progressivo abbandono del modello classico, liberale e democratico della rappresentanza individuale, a favore della rappresentanza organica di classe e di gruppi d’interesse, sembrava ai suoi occhi l’inizio della fine per la civiltà giuridica dell’Occidente: un incredibile ritorno ai privilegi cetuali e alle gerarchie naturali dell’Antico regime17. «La fonte di ogni diritto è, e non può non essere, nell’individuo – cercò, invano, di spiegare – 16   Quello della democrazia all’interno della Chiesa resta un tema scottante, su cui torneremo più avanti. Basti dire che il domenicano e riformatore Chenu, che pure aveva sofferto personalmente la persecuzione del Sant’Uffizio, non ha esitato a ribadire che la Chiesa è una «comunità gerarchica, e il suo magistero è condizione ineluttabile del suo comportamento come la colonna vertebrale è interna al corpo» (M.-D. Chenu, Le Saulchoir. Una scuola di teologia, Casale Monferrato 1982, p. xxxv). Il caso Chenu è interessante perché, pur avendo teorizzato nei suoi studi il nesso tra storia e teologia, sembra non voler vedere che proprio l’asserita storicità del cristianesimo potrà dare in futuro spazio a coloro che sperano in una maggiore apertura verso il principio democratico. 17   Una intelligente e condivisibile lettura che smaschera bene la natura di privilegi implicita nella “moderna” rivendicazione di diritti per le comunità e le società naturali si trova in G. Lombardi, Fondamento dei diritti e forme so-

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perché solo l’individuo è un essere reale, libero e responsabile»18. Nei rapporti tra le Chiese e gli Stati il «termine fondamentale del problema» era sempre stato e doveva restare «l’uomo e l’assoluto rispetto della sua individualità»19. Da qui la sua celebre definizione giuridica di libertà religiosa come diritto di scelta tra opposti, e quindi anche «diritto alla irreligione, all’aconfessionalità, alla miscredenza e alla incredulità»20. vranazionali di tutela, in Riformare lo Stato, a cura di S. Labriola, Milano 2003, pp. 355 e sgg. 18   F. Ruffini, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna 1992 (I ed. Torino 1924), p. 222. Su questi temi va però soprattutto letta la denuncia contenuta nel volumetto Diritti di libertà, apparso nelle edizioni gobettiane, nel 1926, dopo le leggi “fascistissime” dell’anno precedente. In quelle pagine Ruffini tentava di rilanciare le ragioni del diritto soggettivo in Italia in franca polemica sia contro il modello organicistico e corporativo di società tanto caro alla Chiesa, sia contro la cosiddetta «teoria organica dello Stato» del fascismo, formulata allora da Alfredo Rocco. All’origine del mito dello Stato onnipotente e totalitario che i fascisti si apprestavano a creare egli poneva l’influenza nella penisola del diritto pubblico germanico dell’età di Bismarck, e in particolare dei libri e delle teorie sui diritti dell’uomo, non già come originari e inalienabili, bensì come diritti riflessi (Reflexrechte) concessi dallo Stato. Queste teorie, secondo Ruffini, erano state formulate a partire dalla metà dell’Ottocento da Gerber e poi dal liberale conservatore Jellinek, in reazione al terrore suscitato dalle esperienze rivoluzionarie europee del 1848. Vittorio Emanuele Orlando, il padre della scuola italiana di diritto pubblico, aveva provveduto a diffonderle nella penisola. Nel suo generoso quanto vano tentativo di rilanciare i diritti di libertà, Ruffini tentava anche di elaborare «il fondamento giuridico dei diritti di libertà» sulla scorta di una particolare interpretazione delle tesi istituzionaliste di Santi Romano che forse meriterebbe maggiore attenzione da parte degli specialisti (cfr. ivi, pp. 120 e sgg.). 19   Ivi, p. 74. 20   Cfr. ivi, p. 217. «La Libertà religiosa – scriveva Ruffini – non prende partito né per la fede né per la miscredenza, né per l’ortodossia, ma in quella lotta senza tregua, che fra di loro si combatte da che l’uomo esiste, e si combatterà forse finché l’uomo esiste, essa si pone assolutamente in disparte. Non diciamo al di sopra. Poiché il suo intento non è così alto: non è, come per la fede, la salvezza oltremondana; non è, come per il libero pensiero, la verità scientifica. Il suo intento è subordinato invece a codesti due trascendenti fini, ed è assai più modesto e tutto quanto terreno e pratico. E sta in creare e mantenere nella società un ordinamento giuridico tale che ogni individuo possa perseguire e conseguire a sua posta quei due fini supremi, senza che gli altri uomini, o separati o raggruppati in associazioni o Chiese, o anche impersonati in quella suprema collettività che è lo Stato, gli possano mettere in ciò il più piccolo impedimento o arrecare per ciò il più tenue danno. Emerge da tutto questo, che la libertà religiosa non è, come il libero pensiero, un concetto o un principio filosofico, non

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Polemico contro il prevalere tra i giuristi contemporanei delle concezioni giuspositivistiche, dogmatiche, formalistiche, a favore di un diritto astratto e disincarnato dal contesto, ritenuto scientificamente autonomo e neutrale, Ruffini aveva solidamente fondato le sue teorie soprattutto sulla ricerca storica. In pagine densissime e ancora oggi affascinanti egli ricostruì le secolari vicende della libertà religiosa individuando due diverse matrici: il fondamento teologico mistico, come libertà interiore della coscienza, e il fondamento filosofico scettico. A questo secondo filone di pensiero, per larga parte «laico», attribuì il merito maggiore nell’aver dato i natali alla moderna idea di libertà religiosa. La sua genealogia, infatti, muoveva dallo scetticismo dei primi, i filosofi pagani, per passare all’umanesimo razionalistico, alla tappa decisiva dei sociniani italiani, «degni antenati spirituali» degli enciclopedisti del Settecento, all’origine di quel «sano e cosciente Illuminismo eminentemente individualista»21 confluito poi, attraverso Grozio, Locke e Jefferson, nelle prime costituzioni americane che proclamavano solennemente, e per la prima volta, il diritto naturale dell’uomo alla libertà religiosa. Quel fatto epocale, «decisivo per la storia politica dei popoli», aveva inaugurato un modo del tutto nuovo e rivoluzionario di pensare al diritto. Nelle Costituzioni di fine Settecento non vi era più il consueto appello alla tradizione e alle antiche leggi quando si trattava di rivendicare diritti – come, ad esempio, era ancora accaduto in Inghilterra con la Petition of Rights del 1627 o il Bill of Rights del 1689 – bensì il pieno riconoscimento della funzione legittimante della teoria dei diritti innati e naturali dell’uomo universale propagandata dagli illuministi: «Quelli che in addietro erano semplicemente diritti obiettivi – e cioè fondati sopra una legge preesistente, che si invocava, sì, come vigente, ma di cui non si contestava affatto la possibile mutazione per opera degli organi legislativi esistenti – si trasformavano in diritti subiettivi dell’uomo e del cittadino; diritti connaturali e è neppure, come la libertà ecclesiastica, un concetto o un principio teologico; ma è un concetto o un principio essenzialmente e prettamente giuridico». 21   Ivi, p. 177. Questa concezione di un lungo illuminismo affascinerà anche studiosi del calibro di Delio Cantimori – che la rilancerà nel suo celebre Eretici italiani del Cinquecento (1939) –, nonché di Eugenio Garin e H. Trevor Roper.

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assoluti, intangibili e imprescrittibili, che, di conseguenza, nessun legislatore potrà mai né togliere né limitare»22. Parallelamente, nella sua ampia e dotta ricostruzione storica della genealogia della libertà religiosa, un ruolo assolutamente minore, e per larga parte negativo, spettava invece alla Chiesa e più in generale a tutte le confessioni, compresi taluni settori del mondo protestante come quei calvinisti sempre pronti a rivendicare solo per la propria comunità di santi la libertà religiosa, riservando agli altri il rogo salvifico23. Ruffini denunciava il carattere strumentale delle invocazioni dei primi padri alla libertà religiosa nei confronti delle persecuzioni dei pagani ricostruendo i momenti decisivi del passaggio all’intolleranza religiosa quando, con Teodosio II, l’eresia, concetto estraneo al mondo pagano, divenne un crimen pubblicamente perseguito. E tuttavia, a ben vedere, il suo principale obiettivo polemico era soprattutto il modello autoritario del sovrano pontefice, la vexata quaestio del primato assoluto del papa romano contro cui avevano vanamente protestato già Tertulliano e Gregorio Magno e poi, nei secoli successivi, quel movimento episcopale, sempre sconfitto, descritto non a caso con grande simpatia. Contro le concezioni giuridiche della curia, dominate da un movimento di pensiero «sempre più autoritario, gerarchico, accentratore del governo della Chiesa», Ruffini rilanciava il tema decisivo della centralità dei diritti soggettivi del «fedele»24. La concezione universalizzante della libertà religiosa come diritto naturale dell’individuo da riconoscere e tutelare nell’ambito del diritto ecclesiastico degli Stati andava in tal senso estesa, a parer suo, a ogni tipo di ordinamento giuridico e quindi posta a fondamento anche di una revisione complessiva dello stesso diritto canonico e delle istituzioni della monarchia pontificia. Nulla di simile avvenne però nei decenni successivi. Nel decreto Dignitatis humanae, l’enunciazione del dualismo, l’applicazione   F. Ruffini, La libertà religiosa cit., p. 206.   Contro la celebre tesi formulata nel 1895 da G. Jellinek circa l’origine dei diritti dell’uomo nella rivendicazione del mondo protestante della libertà religiosa cfr. G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cura di G. Gozzi, Roma-Bari 20075. 24   Sulla questione cfr. le citazioni e l’interessante introduzione di S. Ferrari a F. Ruffini, La libertà religiosa cit., pp. 16 e sgg. 22 23

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asimmetrica della teoria dei diritti, il rifiuto sostanziale del diritto di libertà come diritto soggettivo e universale dell’individuo a favore della tradizionale cornice giuridico-filosofica del tomismo, infatti, andavano risolutamente in direzione opposta a quella auspicata da Ruffini. Si badi bene: non che siano mancati, mezzo secolo dopo, in concilio, passi innanzi verso una maggiore collegialità nel governo della Chiesa rispetto allo spirito reazionario del Vaticano I o al modello ecclesiale trionfalistico e autoritario di Pio XII. La costituzione dogmatica Lumen gentium, faticosamente varata nella sessione del 21 novembre 1964, ridefinì su punti decisivi il profilo della Chiesa rispetto al recente passato. «Colonna e fondamento della verità», voluta da Cristo «come organismo visibile sulla terra» per svolgere il suo compito messianico e missionario, essa era finalmente concepita dal basso come «popolo di Dio» in cui trovavano spazio e legittimità l’uno accanto all’altro chierici e «laici», umili fedeli e granitica gerarchia; ma proprio perché destinata ad avanzare «nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo», se ne ribadivano con toni perentori la necessità di conservare la secolare struttura giuridica di «società perfetta», nonché il carattere verticistico e antidemocratico: «La Chiesa è una società gerarchicamente organizzata»25. Alla lotta senza esclusione di colpi per una maggiore collegialità tra la curia e i vescovi riformatori venne concesso assai poco e sempre con formulazioni ambigue, come quella in cui si affermava: «Quando il romano pontefice o il corpo dei vescovi con lui definiscono una dottrina, essi lo fanno in accordo con la Rivelazione alla quale tutti devono attenersi e conformarsi». Poche righe prima era però chiaramente ribadito, a scanso di pericolosi equivoci, che «la piena e suprema potestà su tutta la Chiesa» restava saldamente nelle mani del pontefice, cui spettava «integralmente la potestà spirituale su tutti, sia pastori, sia fedeli»26, e quindi in primo luogo la possibilità di convocare e presiedere i concili, nominare vescovi e cardinali, intervenire, pure da solo, con carattere d’infallibilità in materia dottrinale. Ciononostante, anche se la mala pianta assolutistica del Triden25   Cfr. Lumen gentium, in Conciliorum oecumenicorum decreta cit., pp. 863 e sgg. 26   Ivi, p. 866.

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tino ha continuato a vivere rigogliosa nei giardini del Vaticano II condizionando tutto e tutti27, quel concilio, fortemente voluto da Giovanni XXIII per «aggiornare» senza scosse e traumi la Chiesa, ha finito con il rappresentare davvero una grande occasione di autentico rinnovamento, una decisiva «svolta antropologica»28: una porta coraggiosamente spalancata sul mondo e sull’uomo con l’obiettivo dichiarato – dopo secoli di rifiuto frontale della modernità – di volere finalmente «scrutare i segni del tempo e interpretarli alla luce del vangelo»29. Su questi temi, la Gaudium et spes fu un testo importante, che merita la massima attenzione.

27   Il riferimento è alla stupefacente Nota explicatoria previa, voluta dalla curia e firmata dal cardinale Pericle Felici, che spiegava al popolo di Dio come andava rettamente interpretata la Lumen gentium. Quella Nota, destinata impropriamente ad accompagnare il testo conciliare, e che ancora oggi inquieta molti cattolici, ribadiva punto per punto la «volontà di Cristo» a favore di una concezione gerarchica della Chiesa, precisando ossessivamente che «il sommo pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può esercitare la sua potestà in ogni tempo a suo piacimento come è richiesto dallo stesso suo incarico»: ivi, p. 900. 28   Cfr. i giudizi in questa direzione di H. Jedin, M.-D. Chenu, H.-I. Marrou, K. Rahner. Quest’ultimo, riflettendo sul carattere di novità della definizione di Chiesa come popolo di Dio e l’avvio di una strategia di «amicizia con l’umanità», paragonò il Vaticano II al momento in cui Paolo spostò l’epicentro del cristianesimo da Gerusalemme a Roma. Secondo il domenicano francese Chenu, quattro e tutti innovativi erano i cardini della teologia conciliare: «La priorità del mistero sull’istituzione; il riconoscimento del valore irriducibile del soggetto umano nell’architettura e nella dinamica della salvezza; la coscienza della Chiesa della propria esistenza nella storia e il riconoscimento del valore della realtà terrestre» (citato in G. Alberigo, Transizione epocale?, in Storia del concilio Vaticano II cit., vol. V, pp. 628 e sgg.). 29   Cfr. Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Gaudium et spes, in Conciliorum oecumenicorum decreta cit., p. 1074. Essa fu approvata l’ultimo giorno del concilio da 2037 vescovi, contro il parere di 75.

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Magistero autoritario o dialogo?

Nelle pagine della Gaudium et spes venivano a precipitazione decenni di dibattiti sull’identità, la funzione, i ritardi e le responsabilità della Chiesa rispetto al mondo e all’uomo; dibattiti resi ancora più acuti e drammatici nel corso del Novecento dopo la crisi del modernismo, la restaurazione organizzata dal partito romano su salde basi tomistiche e a partire da un’accentuazione assolutistica del diritto canonico nel periodo fascista, dal forte travaglio suscitato dalle esperienze dei totalitarismi e dell’Olocausto. Tra le righe di quel testo affiorava ovunque la voce di quanti, vanamente repressi, avevano dato vita alla cosiddetta «nouvelle théologie», al rinnovamento di tutto il pensiero cristiano attraverso la riscoperta di una cristologia rinnovata, con al centro Cristo adulto, vero Dio ma anche vero uomo, e una nuova ecclesiologia che superasse finalmente la concezione autoritaria della Chiesa come corpo mistico di Cristo in direzione di una teologia del laicato, dell’ecumenismo, del rilancio della funzione episcopale, della stessa formula felice (di matrice agostiniana, coniata nel 1937 dal benedettino Anschaire Vonier) di una Chiesa come «popolo di Dio», peregrinante nella storia. Contro l’irrigidimento antimodernista della curia romana, decisa a resistere a ogni novità dietro il solido bastione della metafisica neotomista e di una teologia dogmatica collocata al di fuori di ogni tempo e di ogni spazio, la pubblicazione di opere importanti scritte da personaggi come von Balthasar, de Lubac, Rahner, Chenu, Maritain, Marrou, Congar e tanti altri aveva susci­­­­­91

tato dibattiti sempre più difficili da sopire e da controllare. Benché quegli studiosi fossero così diversi tra di loro, un filo rosso legava in qualche modo idealmente le loro ricerche: la rivalutazione della storia, ad esempio, e, parallelamente, dell’esistenza umana come luogo teologico; un’ipotesi controversa e sempre osteggiata da Roma1. Nei loro scritti, attraverso l’attenzione al dato storico, fermentava forte la necessità, ormai irrinunciabile, di ridurre la contrapposizione tra incarnazione ed escatologia, tra il messaggio salvifico e il fluire delle vicende sempre più drammatiche dell’umanità2. In quella direzione umanistica, di un nuovo umanesimo integrale e cristiano, vennero rafforzati gli studi di esegesi biblica e presero corpo nuove iniziative, prestigiose dal punto di vista critico-filologico, nel campo della patristica, della storia delle origini del cristianesimo; nacquero straordinarie ricerche filosofiche e teologiche capaci d’interpretare i «segni del tempo» e di replicare, assai meglio di tanti cosiddetti filosofi laici, ai fautori del moderno nichilismo sulla base di un coraggioso esistenzialismo cristiano attento ai lavori di Kierkegaard e di Heidegger. La Gaudium et spes ha rappresentato senza dubbio il punto d’arrivo di tutti i più importanti dibattiti suscitati dalla «nouvelle théologie»: quel documento ne ha come racchiuso e distillato i 1   La riconsiderazione della storicità del cristianesimo, e quindi il rilievo da attribuire al nesso storia-teologia, era tuttavia già cominciata agli inizi del Novecento, prima che prendesse corpo la «nouvelle théologie». Ad esempio, negli anni Trenta, rivalutando gli studi di esegesi biblica di padre Lagrange, il fondatore della prestigiosa École biblique de Jérusalem, il domenicano Chenu, lanciò un vasto programma di ricerche sul cristianesimo «come storia e teologia confessante», alimentando un forte movimento destinato a contare nelle vicende della Chiesa. Cfr. la nota introduttiva di G. Alberigo al volume di M.-D. Chenu, Le Saulchoir. Una scuola di teologia cit., pp. ix e sgg. Nell’edizione italiana di questi suoi vecchi saggi, che tanto scandalo e condanne avevano suscitato a Roma alla loro apparizione, Chenu scriveva compiaciuto: «Uno dei meriti principali del Vaticano II è quello di aver misurato la dimensione storica della Chiesa; lo stesso termine historia, assente dal vocabolario del magistero, vi è utilizzato 63 volte. Il metodo di Le Saulchoir introduceva la storia nella teologia, come quarant’anni prima, e contro le stesse opposizioni, padre Lagrange aveva introdotto il “metodo storico” nell’intelligenza della scrittura. Il Concilio ha convalidato entrambe le imprese» (p. xxxiv). 2   Per un quadro generale su questi temi cfr. É. Fouilloux, Il cattolicesimo, in Storia del cristianesimo, a cura di J.-M. Mayeur, Ch. Pietri, A. Vauchez e M. Venard, vol. 12, Roma 1997, pp. 159 e sgg.

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fermenti migliori e il messaggio complessivo più vero, di autentico e orgoglioso confronto a distanza rispetto al vecchio umanesimo illuministico, nel quadro di una cristologia rinnovata nel profondo. «Si tratta di salvare la persona umana, di edificare l’umana società – era precisato, non a caso, proprio in avvio del documento, con toni che avrebbero entusiasmato Voltaire e Diderot –. È l’uomo dunque, ma l’uomo singolo e integrale, nell’unità di corpo e di anima, di cuore e di coscienza, di intelletto e volontà che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione». Da qui le domande cruciali che avevano già angosciato gli uomini dei Lumi: «Cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che malgrado ogni progresso continuano a sussistere?»3. Le risposte erano tutt’altro che scontate e tradizionali in quanto mutati radicalmente, rispetto al passato, erano soprattutto l’analisi e il giudizio sul mondo contemporaneo. La modernità non era più individuata e denunciata come il male assoluto, l’opera del demonio da esorcizzare, bensì come la realtà con cui fare i conti: una sfida e allo stesso tempo un’opportunità per la cristianità rinnovata del terzo millennio. Di fronte al potere sbalorditivo della scienza e della tecnica, che aveva stravolto l’ordine sociale, economico e politico delle nazioni, ai nuovi strumenti di comunicazione di massa, alla crescita esponenziale di beni di consumo in Occidente con i suoi innegabili effetti positivi, ma anche in grado di accentuare squilibri, di rompere l’armonia sociale provocando ingiustizie, malesseri, tragedie e genocidi nel terzo mondo, l’uomo tornava clamorosamente al centro del discorso storico e teologico della Chiesa. Un uomo «a un tempo potente e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso e del regresso, della fraternità o dell’odio». I padri conciliari raccoglievano senza timori reverenziali, anzi con schietto cipiglio aggressivo contro i sommessi borbottii degli epigoni dell’eredità illuministica, la sfida della modernità, convinti di avere nella nuova cristologia – più attenta al lato umano, in «Cristo, l’alfa e l’omega» rivisitato e fatto conoscere – la risposta più giusta e attuale al dilagante disagio esistenziale, alla crisi profonda dell’umanità, al vuoto nichilistico di senso della   Gaudium et spes cit., p. 1074.

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storia prodotto dal fallimento del progetto illuministico di salvare l’uomo solo attraverso l’uomo stesso e non attraverso la grazia e la Rivelazione. Nel documento, il progetto di una possibile e auspicabile cristianizzazione della modernità muoveva dalla considerazione, ritenuta assolutamente centrale, che Dio aveva fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza indicandogli la via della salvezza. Da quel legame derivavano il sacro rispetto della dignità umana e, soprattutto, la riscoperta del fondamento evangelico dei diritti della persona. Al di là del compimento del processo escatologico e della diffusione del messaggio salvifico, l’obiettivo finale della «missione della Chiesa nel mondo contemporaneo» diveniva così il «mondo da costruire e da condurre al suo fine»4. Finalmente padrona del linguaggio dei diritti all’interno di una rassicurante cornice teologica e di un efficace schema storico di tipo dualistico, la Chiesa poteva in tal modo tornare al centro della scena e interpretare la realtà, meglio di chiunque altro, affrontando i gravi problemi dell’«uomo moderno», raccogliendo di fatto quell’eredità dei Lumi sempre più dimenticata e abbandonata dai cosiddetti laici affascinati dal nichilismo e dai teorici del pensiero debole, interrogandosi sui diritti di libertà dei popoli, sulla funzione sociale della proprietà, sui diritti sociali, su come affrontare la sete inestinguibile di giustizia e di equità del mondo intero. E tuttavia, indipendentemente dai contenuti innovatori elaborati nelle sessioni, o dallo strascico di «equivoci, compromessi, ambiguità» (subito onestamente ammessi e denunciati, ad esempio, da Dossetti5), come tutti i grandi concili anche il Vaticano II ha iniziato a rivelare per intero le sue potenzialità d’impatto (positive o negative a seconda dei punti di vista) solo nei decenni successivi, in primo luogo – e non potrebbe essere diversamente, perdurando la struttura assolutistica della gerarchia ecclesiastica – nell’opera dei pontefici chiamati a darne l’interpretazione autentica. Il ritorno tanto atteso e auspicato a un’analisi meno preconcetta della realtà storica da parte della Chiesa, che di per sé resta comunque una grande conquista dei vescovi riformatori, ha lasciato infatti aperte e impregiudicate due strade fortemente   Ivi, p. 1135.   Cfr. G. Alberigo, Transizione epocale? cit., p. 629.

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divergenti. La strada dell’ascolto dell’altro, del dialogo sincero e responsabile tra mondo e Chiesa, di quel camminare insieme in vista del bene comune che presuppone la possibilità di un reciproco e positivo condizionamento nel cercare e vivere liberamente la verità; e la strada, invece, dell’imposizione dogmatica e autoritaria di una verità data una volta per tutte, ritenuta immobile e granitica di fronte all’ingiuria della storia (la grande metastasi della teologia), limitandosi a concedere all’altro i necessari aggiornamenti imposti dal tempo, ma al solo fine di meglio sviluppare lo spirito e la propaganda missionaria con nuovi e più raffinati strumenti di comunicazione sociale. Va da sé che al termine di questa seconda strada, che mira a strumentalizzare di fatto il recente approdo dualistico e il riconoscimento dei diritti dell’uomo nell’ambito della comunità politica e civile per impedire parallelamente ogni sostanziale riforma all’interno della Chiesa, non vi potrà essere che l’ennesimo conflitto, la chiusura inevitabile alle ragioni del mondo, ai bisogni degli stessi cristiani, e quindi il declino definitivo della Chiesa. È infatti impensabile che nel terzo millennio, senza l’avvio di una onesta strategia del dialogo, la logica implacabile dei diritti – capace di mettere in crisi e liquidare l’Antico regime – non sgretoli dall’interno le solide fondamenta dell’attuale Chiesa, “società perfetta” e gerarchica, ancora prigioniera dello spirito del Tridentino. Cosa succederà quando l’interpretazione autentica della «svolta antropologica» auspicata dalla «nouvelle théologie», la teoria universale dei diritti, il principio etico dell’eguaglianza e della democrazia penetreranno davvero, e polemicamente, nelle mura del Vaticano, divenendo finalmente armi micidiali nelle mani delle donne escluse dal sacerdozio, dei chierici obbligati al celibato, dei cristiani costretti a obbedire alla volontà e alle decisioni del papa-re, del sovrano pontefice, ultimo signore assoluto e infallibile, nel delicato campo dei comportamenti morali pubblici e privati profondamente condizionati dai mutamenti della storia? Probabilmente assisteremo all’ennesima rovinosa rivoluzione dovuta a qualche novello Lutero e alla miopia degli uomini di curia, e dal “paradiso degli illuministi”, sempre che esista, Voltaire, Diderot e Lessing si fregheranno le mani, consapevoli di aver anticipato il futuro e di aver compiuto, da buoni seguaci della religione naturale, la missione cui il Dio di tutti gli uomini li aveva appositamente destinati. ­­­­­95

Al di là delle facili battute, questo dilemma connesso alla problematica gestione del linguaggio dei diritti da parte della Chiesa, in particolare rivolto al proprio interno, apparve subito chiaro all’indomani del Vaticano II. Non è casuale, in questa direzione, l’atteggiamento inquieto e titubante di Paolo VI, deciso a chiudere al più presto un effervescente concilio durato troppo a lungo, e a demandare le questioni scabrose e difficili ad apposite commissioni maggiormente controllabili dalla curia romana6. Quel pontefice, la cui opera complessiva è stata innegabilmente segnata dalla scelta di percorrere per lunghi tratti la strada del dialogo e del confronto con la modernità enunciata da Giovanni XXIII7, non ebbe mai il coraggio di andare oltre il dualismo. Portando a compimento il disegno di Maritain, egli dedicò una specifica attenzione soprattutto a radicare all’esterno della Chiesa il principio democratico8, ad affermare in ogni occasione i diritti della persona tra i popoli. Solo con Giovanni Paolo II si è avuta la prima lettura del Vaticano II destinata a segnare profondamente le sorti della Chiesa del terzo millennio. Peccato, però, che al di là di un’apparente modernizzazione nella forma, nel linguaggio e negli strumenti di propaganda usati, essa stia rivelando con lo scorrere degli anni la sua complessiva natura conservatrice, in taluni casi francamente reazionaria, volta a proclamare in ogni occasione il vecchio e anacronistico principio d’autorità tridentino intimamente connesso alla figura del sovrano pontefice. Il progetto di quella che potremmo definire la grande Restaurazione del primato morale e spirituale della Chiesa nel mondo contemporaneo è stato limpidamente enunciato da Giovanni Paolo II sin dalla prima enciclica, Redemptor hominis del 1979, quando, commentando la svolta antropologica del concilio, egli ha subito messo in chiaro che «l’umanesimo autentico è strettamente colle6   Cfr. R. Burigana, G. Turbanti, L’intersezione: preparare la conclusione del concilio cit., pp. 565 e sgg. 7   Cfr. questa volontà di dialogo con la modernità, esplicitamente e pubblicamente dichiarata sin dall’inizio del pontificato, in Insegnamenti di Paolo VI. 1965, Roma 1966, III, pp. 712 e sgg. 8   Per l’interesse di Paolo VI verso la democrazia cfr. ad esempio il suo intervento, attraverso il segretario di Stato Cicognani, alle settimane sociali dei cattolici francesi, in Semaines sociales de France. 50e session - Caen 1963, La société démocratique. Compte rendu “in extenso”, Lyon 1963, pp. 5 e sgg.

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gato a Cristo», e quindi agli insegnamenti del suo vicario in terra e delle gerarchie ecclesiastiche. La «regalità» dell’uomo, i suoi «oggettivi ed inviolabili diritti», il significato ultimo della vicenda umana sono intimamente connessi al mistero della redenzione: «Il senso essenziale di questa “regalità” e di questo “dominio” dell’uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come compito dallo stesso Creatore, consiste nella priorità dell’etica sulla tecnica, nel primato della persona sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia»9. Al contrario, tutti questi elementi sembrano esser stati banditi da una realtà che mostra in ogni aspetto la profonda crisi morale dell’uomo d’oggi, il «grande dramma» degli individui ridotti a merce senz’anima, a soggetti inconsapevoli nel «quadro della civiltà consumistica» dominata dalla logica del profitto e dell’utilitarismo individuale. Una crisi esistenziale dove il progresso materiale, non accompagnato da quello spirituale, e il trionfo della tecnica e della scienza, lungi dal risolvere i problemi dell’umanità, hanno finito con il rendere schiavo l’uomo, alimentando le sue angosce, l’alienazione «nei suoi rapporti con la natura», la sua ormai irrefrenabile paura di vivere: «L’uomo non può rinunciare a se stesso – ha denunciato Giovanni Paolo II con nobili parole e toni profetici assolutamente condivisibili anche da parte di chi continua a credere nei valori e negli ideali dell’umanesimo illuministico – né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti». La scienza e la tecnica sono nate per servire l’uomo e non viceversa10. E tuttavia, se nelle pagine della Redemptor hominis appaiono quanto mai opportune e condivisibili la cruda diagnosi dei mali del pianeta, la denuncia del vuoto morale, della perdita di senso prodotta da una modernità male intesa, priva di valori e dimentica dei diritti dell’uomo, sconcertante e inaccettabile è invece la cura 9   Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 8, pp. 89 e sgg. 10   In realtà, storicamente questa è sempre stata anche la tesi degli illuministi, le cui concezioni scientifiche sono state troppo spesso confuse ad arte con quelle dei positivisti della seconda metà dell’Ottocento; cfr. al riguardo V. Ferrone, Una scienza per l’uomo. Illuminismo e Rivoluzione scientifica nell’Europa del Settecento, Torino 2007.

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proposta. Essa si fonda principalmente sulla tradizionale concezione paolina della minorità ontologica dell’uomo macchiato dal peccato originale, sull’accusa di aver alzato gli occhi e osato conoscere senza timori (per riprendere l’oraziano sapere aude reso celebre da Kant), prescindendo dal rispetto del disegno salvifico, affrancandosi dalle auctoritates con un inaccettabile peccato d’orgoglio di matrice pelagiana. Da qui, dalla presunzione della sostanziale sconfitta storica del progetto emancipatorio illuministico, nasceva l’indicazione verso un rinnovato e formidabile ruolo di guida e di tutela del magistero morale e spirituale della Chiesa, chiamata (anche grazie agli “aggiornamenti” del Vaticano II) a dar vita a una «nuova primavera» del cristianesimo dopo gli orrori dell’Olocausto e gli sbandamenti tragici di un’errata esegesi della modernità: «La Chiesa non può abbandonare l’uomo, la cui “sorte”, cioè la scelta, la chiamata, la nascita e la morte, la salvezza o la perdizione, sono in modo così stretto ed indissolubile unite in Cristo»11. Tutto il pontificato di Giovanni Paolo II è stato, a ben vedere, dominato dall’assillo di cristianizzare la modernità, rilanciare la sfida, rafforzando e attrezzando la Chiesa, «soggetto sociale della responsabilità per la verità divina», ai nuovi compiti di cura, d’indirizzo, di promozione, e allo stesso tempo di evangelizzazione, di un’umanità impaurita e disperata, ormai priva di riferimenti credibili. A tal fine, condizionato dal suo temperamento di combattente, di miles fidei, esperto in comunicazioni sociali, ma anche abile stratega, Giovanni Paolo II ha ritenuto necessario rimettere ordine prima in casa propria, tra le sue confuse, stanche e sempre più sbandate truppe, per muovere poi coraggiosamente alla riconquista missionaria del mondo. Novello Mosè alla testa di una «Chiesa in cammino» nel deserto, tra ostacoli e nemici di ogni genere, egli ha ricordato al «popolo di Dio» le leggi, il fondamento divino del principio d’autorità, il dovere dell’obbedienza di fronte alla verità e alle gerarchie ecclesiastiche. Non a caso, quasi tutte le sue encicliche sono soprattutto dirette all’interno della Chiesa, a catechizzare un «popolo» sempre più indisciplinato, turbato, inquieto, pericolosamente contaminato dai virus della società   Giovanni Paolo II, Redemptor hominis cit., p. 67.

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consumistica e dai suoi disvalori. Dalla Dives in misericordia del 1980, alla Dominum et vivificantem del 1986, alla Redemptoris mater del 1987, alla Redemptoris missio del 1990, alla Veritatis splendor del 1993 e alla Fides et ratio del 1998, sino alla Ecclesia de eucharistia del 2003, tutti i dogmi fondamentali e i nodi nevralgici dell’arsenale dottrinario cattolico elaborati a Trento sono stati riconfermati, punto per punto, con lo stesso spirito acritico e la candida determinazione con cui i vecchi parroci amavano, nel secolo scorso, indottrinare gli ingenui e creduli fanciulli degli oratori delle campagne e delle periferie urbane. Nulla è stato risparmiato: dalla riproposizione integrale della pratica di tutti i sacramenti, anche quelli ormai in disuso, al dogma trinitario, al peccato originale, alle novità del culto mariano (fatte probabilmente apposta – si perdoni la facile ironia – per rilanciare l’ecumenismo nei confronti delle Chiese protestanti che mai le accetteranno), cui è stato attribuito un rilievo teologico straordinario e particolare nel disegno salvifico. Nel campo della morale sessuale, del costume delle famiglie, del controllo delle nascite, dei diritti dei gay, del celibato dei preti – e si potrebbe continuare ancora con altri esempi –, la chiusura della Chiesa è stata intransigente, pressoché assoluta. All’identità e al conseguente rafforzamento dell’originario impegno missionario della Chiesa sono state dedicate grandi attenzioni. Basta leggere pochi passi della Redemptoris missio per cogliere l’energia esplosiva, la passione e la veemenza con cui Giovanni Paolo II ha cercato di mobilitare la Chiesa alla lotta e allo «slancio missionario» verso i non credenti: «Noi non possiamo tacere – ha tuonato citando il Vecchio Testamento e rimproverando coloro che osano ridurre il cristianesimo “a una sapienza meramente umana, quasi scienza del buon vivere” – l’autentico messaggio salvifico che lega intimamente la promozione umana all’evangelizzazione. Alla nuova Chiesa, “sacramento di salvezza per tutta l’umanità”, spetta il compito di spiegare a tutti i popoli della terra che la redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità e il senso della sua esistenza nel mondo»12. 12   Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, in Enchiridion delle Encicliche cit., vol. 8, p. 855.

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All’opera di proselitismo e propaganda della nuova Chiesa, Giovanni Paolo II ha dedicato certamente i suoi sforzi migliori. Dialogo ecumenico, promozione dei diritti dell’uomo nel mondo, ma allo stesso tempo ferreo arroccamento identitario e neodisciplinamento sono stati i punti qualificanti del suo pontificato. Efficacissimo nella veste di grande comunicatore, questo sovrano pontefice venuto dalla Polonia non ha esitato a rilanciare in forme ammodernate e spregiudicate antichi modelli e vecchi stereotipi devozionali (vedi padre Pio) pur di esercitare la sua funzione di pastore mondiale di anime. Preoccupato di nulla scartare dell’eredità storica della Chiesa, ha proposto la beatificazione di Pio IX e quella di Giovanni XXIII. Incurante dell’accusa – venuta soprattutto da ambienti cattolici e protestanti abituati a forme più sobrie e composte di religiosità – di favorire, seppure inconsapevolmente, pericolosi processi di fanatizzazione religiosa delle folle, egli si è impegnato in una stupefacente produzione industriale di santi come non si era mai visto in passato, così come nella riscoperta dei miracoli e della presenza di Satana nella vita quotidiana, o, ancora, in adunate oceaniche di fedeli ripresi in mondovisione (per lo più giovani in delirio), degne di essere comparate ai concerti delle più celebrate e scatenate rockstar. Ma è a una granitica, autoritaria concezione della verità e alla rigorosa difesa del primato del pontefice, custode della secolare continuità del magistero, che Giovanni Paolo II ha affidato una parte importante della sua interpretazione del Vaticano II. Dopo la Veritatis splendor, è stato soprattutto nella Fides et ratio del 1998 che il suo personale astio contro l’Illuminismo, contro quel progetto di modernità politica colpevole di aver sempre predicato l’autonomia dell’uomo, l’emancipazione dell’individuo dalla tutela ecclesiastica, è sgorgato prorompente e irrefrenabile, rivolto, ancora una volta, soprattutto all’interno della Chiesa, agli smarriti e inquieti filosofi e teologi cattolici affascinati prima dall’umanesimo dei Lumi, poi dall’esistenzialismo e, da ultimo, dalle post-moderne filosofie «del nulla». Ai frastornati epigoni della «nouvelle théologie» Giovanni Paolo II ha ricordato, con parole severe, l’importanza del «rinnovamento tomista e neotomista», il ruolo ancillare e subordinato della filosofia, come «amore per la saggezza», nei confronti della teologia. Alla filosofia – ma il discorso vale anche, e a maggior ragione, per la storia – spetta il solo compito di aiutare ­­­­­100

i vescovi a testimoniare la verità, ad assistere il vicario di Cristo nel suo «secolare cammino di comprensione della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla luce dell’insegnamento biblico e dell’intera tradizione patristica»13. Al centro di ogni processo critico che prevede l’uso della ragione sta insomma, secondo gli insegnamenti della Fides et ratio, la fede assoluta nella verità del messaggio evangelico: «La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l’uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica». A difesa di questa verità che rende davvero liberi («conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» [Gv, 8,32]) non può esservi che la Chiesa: «Il magistero ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio discernimento nei confronti delle filosofie e delle affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana»14. Molti pontefici sono stati chiamati a questo difficile compito in passato; con malcelato orgoglio, senza esitazioni, Giovanni Paolo II ha rivendicato la totalità degli interventi censori (definiti, con grazia e leggerezza tutta curiale, «preziosi contributi») dei suoi «venerandi predecessori» contro i Lumi del Settecento e poi contro le filosofie moderne dei secoli successivi, troppo sbilanciate verso l’autonomia dell’uomo da Dio; sino all’ultimo, suo personale “prezioso contributo” al trionfo della verità e della singolare concezione della libertà religiosa riservata all’uomo cattolico, contro «alcuni teologi della liberazione»15, duramente repressi nel nome dell’ortodossia. E ciò nondimeno, accanto a questa politica autoritaria di disciplinamento e di vero e proprio arroccamento identitario della Chiesa al suo interno, su cui molto vi sarebbe da dire dopo le speranze suscitate dal concilio, un capitolo decisivo della potente opera di rilancio della cristianità da parte di Giovanni Paolo II è stato riservato soprattutto all’esterno: alla costruzione di un nuovo rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo funzionale alla svolta antropologica del Vaticano II. In quest’ambito la strategia missionaria del pontificato, fondata programmaticamente sullo stretto   Fides et ratio, ivi, p. 1825.   Ivi, p. 1899. 15   Ivi, p. 1909. 13 14

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binomio tra evangelizzazione e promozione umana, si è sviluppata, da un lato, attraverso l’uso costante e privilegiato del linguaggio dei diritti dell’uomo elevato a strumento pastorale; dall’altro, con la precisa volontà di giungere alla resa dei conti finale della secolare sfida contro l’umanesimo e la modernità illuministica. Non v’è infatti documento ufficiale della Santa Sede che non ricorra ormai con ossessivo spirito propagandistico al linguaggio universale dei diritti per parlare a tutti i popoli sulla terra. Allo stesso tempo, però, unanimemente accreditato nella stampa internazionale come portavoce e campione dei diritti umani nel mondo, Giovanni Paolo II non ha mai rinunciato, in tutte le occasioni, a fornire la sua interpretazione autentica in merito alla delicata questione della natura oggettiva dei diritti dell’uomo all’interno del cosmo tomista, sottolineando la loro intima relazione con i diritti di Dio. Non a caso, la straordinaria forza politica di quel linguaggio è risultata particolarmente evidente ed efficace soprattutto nel campo delle encicliche sociali. In questo specifico settore la Chiesa aveva del resto riconosciuto per tempo – e lo abbiamo già segnalato – il rilievo dei diritti sociali dei lavoratori, le ragioni dei sindacati, i diritti dei corpi intermedi. Abilmente (e anche meritoriamente, va riconosciuto) Giovanni Paolo II ha ulteriormente ammodernato e reso più penetranti le tradizionali posizioni della Chiesa, facendola diventare, di fronte a una sinistra mondiale afona, irresoluta, imbelle e priva di idee, l’unica autorevole voce critica contro il capitalismo selvaggio, la degenerazione della legge del profitto, il consumismo che degrada l’uomo a merce. Sin dalla Laborem exercens, del 1981, la dignità dell’uomo e i suoi diritti sono stati rivendicati contro l’economicismo imperante e il culto fanatico del nuovo Dio pagano rappresentato dal mercato. Incurante delle mode, in quelle pagine appassionate Giovanni Paolo II chiedeva una franca revisione critica del «rigido capitalismo [...] sotto l’aspetto dei diritti dell’uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro»16. Nella Sollicitudo rei socialis, del 1987, sempre usando il linguaggio dei diritti, egli levava il suo sguardo critico al modello di sviluppo capitalistico che condannava interi popoli alla povertà e alla miseria. Ma è stato soprattutto nella Centesimus   Laborem exercens, ivi, p. 305.

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annus, del 1991, che Giovanni Paolo II ha compiuto il capolavoro politico di collocare la Chiesa all’avanguardia della contestazione alle ingiustizie dell’attuale ordine sociale ed economico mondiale. Grande protagonista della vittoriosa lotta al comunismo, egli si è concesso il lusso (di fronte a una sinistra internazionale divisa tra quanti si attardano nel seguire i vecchi schemi della lotta di classe e quelli che ancora non hanno compreso le potenzialità eversive della teoria dei diritti, preferendo inseguire la moda del “pensiero unico” dominato dalla lex mercatoria) di citare con favore Marx e le sue critiche all’alienazione umana prodotta dal capitalismo, quasi a volerne ereditare idealmente lo spirito rivoluzionario ed emancipatorio. Nell’enciclica tutto l’arsenale sociale e politico della Santa Sede è stato dispiegato per intero alla luce della promozione dei diritti nel mondo: dalle denunce dell’anima totalitaria dell’economicismo e di un malinteso esercizio della democrazia, al superamento dell’odiato statalismo attraverso il ricorso al principio di sussidiarietà e ai diritti dei corpo intermedi. Dove però la costruzione e la strategia di Giovanni Paolo II hanno mostrato crepe vistose e difficoltà insuperabili, anche agli occhi degli stanchi e avviliti epigoni della tradizione laica ormai abituati a subire passivamente la martellante offensiva pontificia, è stato nel campo dei diritti civili degli individui, nella valutazione dei comportamenti etici, pubblici e privati. Il fatto è che la trionfale vittoria sul comunismo nel 1989 aveva probabilmente convinto il papa polacco e la curia romana che fosse giunto il momento di portare a segno l’attacco finale e risolutivo alle radici stesse della modernità illuministica, denunciandone la falsa concezione dei diritti e l’idea sbagliata di libertà come «scelta tra due termini». Nell’enciclica Evangelium vitae, del 1995, la requisitoria contro gli eredi dei Lumi è esplosa durissima e implacabile su questi temi spinosi. In opposizione alla pretesa laica di legittimare il controllo delle nascite, l’aborto, l’eutanasia, sulla base della teoria soggettiva dei diritti dell’uomo, Giovanni Paolo II ha negato che si potessero attribuire diritti unicamente a individui liberi e capaci di piena autonomia prescindendo da «qualsiasi tradizione ed autorità»17, come invece aveva proclamato solennemente Kant   Evangelium vitae, ivi, p. 1453.

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in Was ist Aufklärung?. Quell’ipotesi non era più un grave errore filosofico e teologico solo perché relegava ai margini il magistero ecclesiastico e negava i diritti di Dio sull’uomo, ma soprattutto perché, trasformando la società in «un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, senza legami reciproci», apriva la strada agli egoismi individuali, al materialismo, all’utilitarismo, all’edonismo, alla violenza; minava la convivenza civile, impediva la tutela dei soggetti strutturalmente deboli come il «nascituro o il morente», creava i presupposti di un nuova e più terribile esperienza totalitaria: «Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte nel suo insieme tradisce una concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la libertà dei “più forti” contro i deboli destinati a soccombere». Nessuno Stato, nessuna democrazia avrebbe mai potuto legittimare questi crimini fondati sull’«oblio di Dio» e delle sue leggi. «La democrazia, – ha scritto con autentica ira Giovanni Paolo II – ad onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo»18 quando vota a favore dell’aborto e disubbidisce agli insegnamenti della Chiesa, maestra di etica. Nell’Evangelium vitae finalmente, i nodi venivano al pettine. La rivendicazione della potestas indirecta sulle decisioni in campo etico dei governi democraticamente eletti svelava la deriva teocratica del nuovo dualismo. Criminalizzare i fautori dell’aborto, delegittimare le leggi democraticamente votate con toni da crociata, infatti, metteva in luce il contrasto irriducibile tra Chiesa e Stato su chi debba essere ritenuto l’autorità ultima e sovrana nel campo dei diritti. Già nel 1946 Costantino Mortati aveva lucidamente posto la questione scrivendo che non esiste un codice «di principi di diritto naturale ben determinati cui ci si possa riferire obiettivamente; è necessario affidarne la determinazione ad un interprete»19: la corte costituzionale. La questione è stata riproposta in un dialogo sulla Rivoluzione francese e l’Illuminismo tra François Furet e il cardinale Jean-Marie Lustiger: il primo ha in  Ivi, p. 1455.   C. Mortati, I diritti pubblici subiettivi, in I cattolici democratici e la costituzione cit., vol. II, p. 715. 18 19

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sistito sulla funzione dirimente e interpretativa delle democrazie e delle supreme corti costituzionali, mentre il secondo ha ribadito la fondazione in Dio dei diritti, attribuendo la loro legittima interpretazione al magistero ecclesiastico20. Giovanni Paolo II sembra non avere il minimo dubbio sul fatto che spetti anzitutto alla Chiesa decidere in questo campo. Non a caso, anche la carta dei diritti dell’uomo dell’Onu è stata frontalmente investita dalla sua inarrestabile vocazione pedagogica con l’accusa di aver privilegiato un impianto teorico di tipo individualistico, dimenticando i diritti oggettivi delle società naturali come la famiglia e, soprattutto, le nazioni21. Senza mai accennare ai meriti di primogenitura dei Lumi e della cultura laica verso la teoria dei diritti, nel volume intervista Varcare la soglia della speranza, del 1994, il «programma illuministico», considerato all’origine di tutti i moderni mali con la sua errata visione antropologica, è stato platealmente accusato dal papa polacco di aver colpito al «cuore tutta la soteriologia cristiana»22 con la sua idea di una indistinta religione naturale, centrata sull’ipotesi di un Dio assente dal mondo, disinteressato delle vicende umane. Alla dialettica dei Lumi, così 20   Cfr. J.-M. Lustiger, Dieu merci, les droits de l’homme cit., pp. 123 e sgg. In realtà il problema della incompatibilità tra la democrazia e la verità religiosa – perché di questo si tratta – era già stato posto da Hans Kelsen a Jacques Maritain negli anni Cinquanta. La questione è stata rivisitata da G. Zagrebelsky, Il «crucifige!» e la democrazia, Torino 1995, e da G. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino 2000. Ponendosi dal punto di vista della necessaria creazione di uno spazio pubblico e di una democrazia procedurale e discorsiva capace di garantire il pluralismo dei valori e delle fedi, Rusconi ha giustamente rilanciato la sfida dal sapore illuministico del luterano Dietrich Bonhoeffer, che dalla prigione nazista, prima di morire, scriveva con grande coraggio: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo etsi Deus non daretur. Dio stesso ci costringe a questo riconoscimento della nostra situazione. La conquista della maggiore età ci porta dunque al vero riconoscimento della nostra situazione. Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza di lui» (p. 137). 21   Cfr. il discorso in tal senso di Giovanni Paolo II alla cinquantesima assemblea generale delle Nazioni Unite e il commento di G. Filibeck, Il magistero della Chiesa e la Dichiarazione del 1948, in «L’Osservatore Romano», 4 dicembre 1998, p. 12. In generale sui problematici rapporti tra la Chiesa e le Nazioni Unite cfr. E.J. Gratsch, The Holy See and the United Nations 1945-1995, New York 1996. 22   Giovanni Paolo II, Varcare la soglia cit., p. 65.

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cara a Joseph Ratzinger, alla sua reificazione dell’uomo, egli, come del resto molti altri esponenti nella comunità cattolica, non ha mai esitato ad attribuire la responsabilità intellettuale verso la genesi del totalitarismo23. Insomma, chi si attendeva, dopo le pubbliche richieste di perdono per le colpe della Chiesa in passato e la sofferta riabilitazione del povero Galileo, la trionfale canonizzazione in massa dei philosophes, dovrà attendere ancora a lungo: almeno fino al concilio Vaticano III. 23   Negli ultimi anni la letteratura cattolica contro l’Illuminismo è molto cresciuta, dopo le ultime prese di posizione del pontefice in campo etico; cfr., ad esempio, il delirante intervento di padre G. Mucci, La coscienza antilluministica dei cattolici, in «Civiltà cattolica», CXLVII, 1996, pp. 17 e sgg.

7.

Conclusioni

Che dire di fronte a questa sapiente restaurazione dell’antico «totato» di sarpiana memoria, ammodernata dalla televisione e dai satelliti? Quando Giovanni Paolo II, nella Evangelium vitae, afferma con cipiglio autoritario che «la libertà rinnega se stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità», non lascia molto spazio a quanti – tra credenti e non credenti – vorrebbero «camminare insieme» in vista del bene comune. La sua secca e perentoria alternativa tra il nulla o il medioevo lascia sgomenti. Davvero non esistono alternative ragionevoli tra la conversione più o meno forzata al magistero teocratico della Chiesa, «incorrotta maestra di moralità», secondo le orgogliose parole di Leone XIII nell’enciclica Libertas, dominatrice delle coscienze in un medioevo prossimo venturo, e i post-moderni profeti del cosiddetto pensiero debole, di una flebile conversione al nulla? La sconcertante criminalizzazione totalitaria del programma emancipatorio illuministico in atto e le manipolazioni storiografiche che mirano a collocare in un cono d’ombra il merito storico dei Lumi nell’aver dato vita alla moderna teoria dei diritti dell’uomo non paiono lasciare scampo ai fautori di quel dialogo libero e sereno auspicato da Giovanni XXIII. E invece quel dialogo va ripreso con coraggio e determinazione. Mai come in questo momento credenti e non credenti hanno bisogno gli uni degli altri: di riflettere insieme superando le reci­­­­­107

proche diffidenze e soprattutto riconoscendo le attuali reciproche debolezze. Se infatti il mondo cosiddetto laico attraversa una drammatica crisi di fiducia nei suoi stessi valori, nell’etica della responsabilità individuale, e i tradimenti dei suoi chierici si susseguono senza soste, il mondo cattolico non sta molto meglio. Non traggano in inganno le luminarie di piazza San Pietro perennemente accese o i raduni oceanici di folle osannanti: la verità sullo stato di salute della Chiesa è assai più oscura di quanto non appaia. Tra qualche decennio, probabilmente, si prenderà coscienza che il celebratissimo e trionfale papato di Giovanni Paolo II e quello attuale, così grigio e stanco, hanno soltanto funzionato da tappo: bloccando un drammatico, ma inevitabile processo di reale aggiornamento della Chiesa di fronte alle sfide autentiche della modernità. La lettura politica del nuovo dualismo fatta da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI per evitare ogni riforma all’interno non reggerà a lungo. Il dialogo tra tutti gli uomini di buona volontà dovrà riprendere su basi nuove e di reciproco rispetto. E a tal fine va subito detto che, a parte l’opinione di qualche attardato anticlericale, è ormai maturata la profonda convinzione dello straordinario ruolo positivo che la Chiesa – conquistata finalmente ai valori della democrazia e alle ragioni dei diritti dell’uomo – può svolgere per l’emancipazione dell’intera umanità. Ma questo importante compito comune tra credenti e non credenti va svolto nella chiarezza d’intenti, nell’assoluta trasparenza delle posizioni di partenza, nel reciproco rispetto della verità storica, intesa come dato necessario e fondativo di un sereno dialogo e di una proficua collaborazione. Da queste considerazioni traggono origine le stesse motivazioni di questo pamphlet, condotto polemicamente con la tecnica, franca, e magari provocatoria, dello smascheramento ideologico di alcune delle mistificanti operazioni storiografiche presenti nei documenti vaticani degli ultimi decenni1. 1   Ma non solo vaticani, si badi bene. Come esempio del persistente astio di matrice post-tridentina e neoguelfa contro la modernità politica dei diritti dell’uomo, ammantato di suggestioni revisionistiche, cfr. l’ambizioso progetto storiografico delineato da C. Mozzarelli nell’introduzione al volume collettaneo da lui curato Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, Roma, 2003, pp. 13-36. Il volume è stato realizzato in collaborazione con il Servizio nazionale per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana.

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La storia è una disciplina pericolosa, diceva Flaubert nello Sciocchezzaio, e la Chiesa lo ha sempre saputo: pericolosa per la teologia, pericolosa per chi vuole imporre la propria opinione falsificando i fatti. In primo luogo agli storici e agli intellettuali cattolici spetta pertanto un compito difficilissimo, ma allo stesso tempo decisivo: dare basi conoscitive solide e condivise ai futuri dialoghi tra credenti e non credenti. Ciò vale in particolare nello sforzo comune di approdare alla verità storica senza smarrire la propria identità e le proprie convinzioni. È insomma necessario che si prenda definitivamente congedo da una concezione della storia della Chiesa come aedificatio corporis Christi, disciplina che allo stesso tempo «è teologia e storia»2 in grado di assorbire indenne le lacerazioni e le drammatiche contraddizioni che il doppio lealismo di uomo di studio e di uomo di fede comporta da parte dello storico cattolico. Ma può la Chiesa d’oggi affrontare, senza pagare dei costi alla modernità, un coraggioso tentativo di storicizzare se stessa e andare oltre il dualismo asimmetrico praticato da Giovanni Paolo II e le volute barocche di un raffinato cultore della dialettica dell’Illuminismo come Benedetto XVI? 2   Cfr. H. Jedin, Chiesa della fede Chiesa della storia, Brescia 1972, p. 7. Interrogandosi sul compito dello storico della Chiesa, nell’assoluta convinzione che «nella vita della Chiesa agisce qualcosa che è superiore alla storia», Jedin affermava: «Tutti sono d’accordo nel riconoscere che la storia della Chiesa sia anzitutto e soprattutto teologia, e precisamente teologia storica, avendo come oggetto la Chiesa di Cristo, il cui concetto essa trae dalla dogmatica. In quanto però si propone di seguire lo sviluppo della Chiesa nel tempo e nello spazio, la sua azione come portatrice di verità e di grazia, essa è storia, e come tale opera con il metodo storico» (p. 19). Molto più problematica sul nesso tra teologia e storia appare la posizione di altri storici cattolici. Cfr., ad esempio, la prefazione di G. Alberigo, Nuove frontiere della storia della Chiesa, al volumetto di H. Jedin, Introduzione alla storia della Chiesa, Brescia 1973, pp. 17 e sgg.

Indici

Indice dei nomi

Adorno, Theodor W., vii-viii, x, 5-6, 21. Agostino d’Ippona, 8, 13, 41, 81. Aime, Oreste, v. Ajello, Raffaele, 27. Alberigo, Giuseppe, 45, 62, 76, 83, 90, 92, 94, 109. Ambrosini, Gaspare, 67. Anassagora, 38. Antonietti, Nicola, 67. Arendt, Hannah, 37. Aristotele, 28, 55. Bacone, Francesco (Francis Bacon), x. Balducci, Ernesto, 68. Balthasar, Hans Urs von, 91. Barreau, Hervé, 61. Beccaria, Cesare, 34, 67, 77. Bellarmino, Roberto, 47. Bellini, Piero, 83. Bellocchi, Ugo, 39. Benedetto XV, papa, 46. Benedetto XVI, papa, viii-xii, xivxv, xvii, 4-7, 12, 20, 83-84, 106, 108-109. Bentham, Jeremy, 30. Bérard, Léon, 49. Berdjaev, Nikolaj Aleksandrovič, 54.

Berman, Harold J., 9. Bertolino, Rinaldo, 83. Bianchi, Enzo, xvii. Bismarck, Otto von, 86. Böckenförde, Ernst-Wolfgang, 9. Bolgiani, Franco, v, 12. Bonald, Louis Jacques Maurice de, xiii. Bonhoeffer, Dietrich, 19, 105. Bossy, John, 12. Bouchard, Giorgio, v. Bressolette, Michel, 62. Brett, Annabel S., 31. Brown, Peter, 8. Bucciantini, Massimo, xvi. Burigana, Riccardo, 79, 96. Burke, Edmund, 30. Camerota, Michele, xvi. Cano, Melchor, 47. Cantimori, Delio, 87. Capograssi, Giuseppe, 67. Cartesio, vedi Descartes, René. Casale, Umberto, ix. Cassirer, Ernst, x. Chenu, Marie-Dominique, 85, 9092. Cicerone, Marco Tullio, 29, 34, 62. Cicognani, Amleto Giovanni, 96.

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Colombo, Carlo, 79. Comte, Auguste, 59. Condorcet, Jean Antoine Nicolas de, 49. Congar, Yves, 78, 91. Conso, Giovanni, v. Cornwell, John, 47. Costantino I, imperatore, 70. D’Agostino, Francesco, 28. Dalla Torre, Giuseppe, 83. Daniélou, Jean, 58. Darnton, Robert, 22. De Arriba y Castro, Benjamín, 77. De Felice, Renzo, 48. De Giorgi, Fulvio, xiv. Del Noce, Augusto, 13. De Maistre, Joseph, 38. Denziger, Heinrich, 40. Descartes, René, 59. De Siervo, Ugo, 67. De Soto, Domingo, 47. De Vitoria, Francisco, 47. Diaz, Furio, 22. Diderot, Denis, xiv, 5, 34, 80, 93, 95. Dogliani, Mario, v. Dossetti, Giuseppe, 22, 68-70, 94. Dotolo, Carmelo, xii. Durand, Jean-Dominique, 65. Durkheim, Émile, 56. Elia, Leopoldo, v, 67. Elias, Norbert, 10. Eusebio di Cesarea, 70. Evennett, Henry O., 12. Evrard, Patrick, xii. Fanfani, Amintore, 67. Felici, Pericle, 90. Ferrari, Silvio, v, 88. Filangieri, Gaetano, 34, 80. Filibeck, Giorgio, 105. Firpo, Massimo, v, xvii. Flaubert, Gustave, 109. Fohlen, Claude, 78. Foucault, Michel, 10-11, 21.

Fouilloux, Étienne, 92. Freud, Sigmund, 59. Furet, François, 104. Gagnebet, Rosaire, 76. Galilei, Galileo, xii, xvi, 106. Garin, Eugenio, 87. Gay, Peter, 5. Gehlen, Arnold, vi. Gerber, Carl Friedrich von, 86. Gerson, Jean, 33. Gewirth, Alan, 33. Gilroy, Norman Th., 77. Giovanni XXIII, papa, 4, 31-32, 43, 62, 70-71, 73, 90, 100, 107. Giovanni Paolo II, papa, xvi-xvii, 5, 62, 65, 96-105, 107-109. Gisel, Pierre, xii. Giudice, Franco, xvi. Giuseppe II, imperatore, 10. Gonella, Guido, 67. Gozzi, Gustavo, 88. Grass, Günter, vii. Gratsch, Edward J., 105. Gregorio I Magno, papa, 88. Gregorio VII, papa, 9, 14. Gregorio XVI, papa, 39-40. Grossi, Paolo, 20-21, 25-28, 67, 83. Grozio, Ugo (Huig De Groot), 29, 32, 62, 86. Guardini, Romano, x-xii. Guerci, Luciano, v. Guglielmo di Ockham, 17, 30, 33. Gurvitch, George, 68. Haakonssen, Knud, 31. Habermas, Jürgen, vii. Hauriou, Maurice, 56. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 30, 38. Heidegger, Martin, vi, x-xi, 18, 92. Hespanha, António Manuel, 56. Hitler, Adolf, 30, 47, 49. Hobbes, Thomas, 30, 32. Horkheimer, Max, vii-viii, x, 5-6, 21. Hubert, Bernard, 59.

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Hünermann, Peter, 40. Ildebrando di Soana, vedi Gregorio VII, papa. Jedin, Hubert, 10, 16, 90, 109. Jefferson, Thomas, 77-78, 87. Jellinek, Georg, 86, 88. Joannou, Perikles-Petros, 62. Junker-Kenny, Maureen, xii. Kant, Immanuel, 30, 37, 59, 98, 103. Kaufmann, Franz-Xaver, xii. Kierkegaard, Søren, 54, 92. Klinkhammer, Lutz, xvi. Komonchak, Joseph A., 78. Koselleck, Reinhard, 6, 21. Koslowski, Peter, xii. Kriele, Martin, 6. Labriola, Silvano, 86. Lacey, Michael J., 31. Lacordaire, Henri Dominique, 39. Lagrange, Marie-Joseph, 92. Lamennais, Félicité Robert de, 39, 65. La Pira, Giorgio, 67-68. Laqueur, Walter, 31. Le Bras, Gabriel, 9, 34. Lehmann, Karl, xvii. Lehner, Ulrich L., x. Leonardi, Claudio, 62. Leone XIII, papa, 40, 43-44, 78, 107. Lessing, Gotthold Ephraim, 95. Liguori, Alfonso Maria de’, santo, 45. Lincoln, Abraham, 64. Locke, John, 30, 32, 65, 87. Lombardi, Giorgio, 85. Lora, Erminio, 40. Lubac, Henri de, 91. Lustiger, Jean-Marie, 36, 104-105. Lutero, Martin, 59-60, 95. Lyotard, Jean-François, vi. MacIntyre, Alasdair C., 33.

Malgeri, Francesco, 58, 67. Mangoni, Luisa, xvi. Mannion, Gerard, xii. Margiotta Broglio, Francesco, v. Maritain, Jacques, 13, 30, 33, 58-69, 78-79, 83, 91, 96, 105. Marrou, Henri-Irénée, 90-91. Martin, Rex, 6, 31. Martina, Giacomo, 77. Marx, Karl, 30, 59, 63, 103. Mayeur, Jean-Marie, 92. Melloni, Alberto, 45. Menozzi, Daniele, v, 8, 42, 45. Merkle, Sebastian, x. Messineo, Antonio, 65. Miccoli, Giovanni, v, xiv, xvi, 42, 46-50, 76-77, 80. Minogue, Kenneth R., 31. Mistò, Marco, 55. Montalembert, Charles Forbes de, 39. Montini, Giovanni Battista, vedi Pao­lo VI, papa. Moro, Aldo, 67. Moro, Renato, 66. Mortati, Costantino, 67, 104. Mosse, George L., 45. Mougel, René, 62. Mounier, Emmanuel, 54, 58. Mozzarelli, Cesare, 108. Mucci, Giandomenico, 106. Muckermann, Friedrich, 50. Murray, John C., 77-79. Mussolini, Benito, 59. Nell-Breuning, Oswald von, 55. Nickel, James W., 31. Nietzsche, Friedrich, xvi, 91. Nobécourt, Jacques, 49. Oestreich, Gerhard, 10, 88. Orestano, Riccardo, 29. Orlando, Vittorio Emanuele, 86. Ottaviani, Alfredo, 65, 76-77. Padoa-Schioppa, Antonio, v. Paiano, Maria, 68.

­­­­­115

Paine, Thomas, 30. Paolo VI, papa, 59, 62, 79, 83, 96. Paolo, apostolo, 39, 45, 90. Pareyson, Luigi, 79. Parsons, Talcott, 11. Passerin d’Entrèves, Alessandro, 34. Pavan, Pietro, 79. Pavelić, Ante, 46-47. Pedrazzi, Luigi, 70. Péguy, Charles, 60. Pelagio, monaco, 41. Pellegrino, Michele, v, xvii. Pétain, Philippe, 49. Petrucciani, Stefano, vii. Pietri, Charles, 92. Pio VI, papa, 30, 38-39. Pio IX, papa, 4, 40, 100. Pio X, papa, 46. Pio XI, papa, 3, 41, 44-46, 48-49, 53-56. Pio XII, papa, 41, 46-47, 51, 55, 57, 65, 89. Pizzorni, Reginaldo, 72. Plongeron, Bernard, 6. Pombeni, Paolo, 66-68. Possevino, Antonio, 47. Printy, Michael, x. Prodi, Paolo, v, 8, 10-23, 62. Proudhon, Pierre Joseph, 65. Rahner, Karl, 90-91. Ratzinger, Joseph, vedi Benedetto XVI, papa. Reinhard, Wolfgang, 6, 10-11, 13, 16. Renouvier, Charles Bernard Joseph, 54. Repole, Roberto, v. Riccardi, Andrea, 65. Riccardo Anglico, 32. Rocco, Alfredo, 86. Roche, Daniel, 5, 22, 25, 38, 63. Romano, Santi, 26, 53, 69, 86. Rosa, Mario, 6. Rosenzweig, Franz, 12. Rosmini, Antonio, 54. Rossi, Paolo, vi, xvii. Rotelli, Ettore, 10.

Rotondò, Antonio, v, 13. Rousseau, Jean-Jacques, viii, x, 5, 22, 49, 59, 65, 68, 77. Rubin, Barry, 31. Ruffilli, Roberto, 12, 67. Ruffini, Francesco, 43, 69, 76, 85-89. Ruffo, Fabrizio Dionigi, 80. Rufino, 32. Ruggieri, Giuseppe, 45. Ruini, Camillo, ix. Rusconi, Gian Enrico, 105. Saliège, Louis, 47. Santoro Pastorelli, Francesco, 67. Sarpi, Paolo, 11. Sartori, Luigi, 12-13. Scatena, Silvia, 79. Scheler, Max, 54. Schieder, Wolfgang, xvi. Schiera, Pierangelo, 10. Schmitt, Carl, 56. Scoppola, Pietro, v. Seewald, Peter, 20. Segatti, Ermis, v. Simionati, Rita, 40. Sofocle, 62. Solari, Gioele, 29. Sorkin, David J., ix. Spaemann, Robert, xii. Spedalieri, Nicola, 38. Staudinger, Hansjürgen, x. Strauss, Leo, 28. Sturzo, Luigi, 58. Suarez, Francisco, 33, 62. Talmon, Jacob L., 21. Tarello, Giovanni, 28. Teodosio I, imperatore, 70. Teodosio II, imperatore, 88. Tertulliano, 81, 88. Tierney, Brian, 31-35. Tommaso d’Aquino, santo, 27-28, 31, 33, 47, 60, 62, 72. Tortarolo, Edoardo, v. Toschi, Massimo, 45. Trampus, Antonio, v, 7, 22. Traniello, Francesco, v, xiv, 66.

­­­­­116

Trevor-Roper, Hugh, 87. Troeltsch, Ernst, 9, 33-34. Tuck, Richard, 31. Turbanti, Giovanni, 79, 96. Uguccione da Pisa, 32. Ullmann, Walter, 34-35. Vanoni, Ezio, 67. Vattimo, Gianni, vi. Vauchez, André, 92. Venard, Marc, 92. Venturi, Franco, 22, 34. Verucci, Guido, xvi, 39, 43. Viano, Carlo Augusto, vi.

Vico, Giambattista, 15. Villey, Michel, 28-35. Vivanti, Corrado, v, 48. Voltaire (François-Marie Arouet, detto), viii-ix, 5, 34, 60, 77, 80, 93, 95. Vonier, Anschaire, 91. Weber, Max, 9-10. Weber, Wilhelm, 55, 57. Wiel, Constant van de, 46. Wroczyński, Krzysztof, 72. Zagrebelsky, Gustavo, v, 105. Zanobini, Guido, 53.

Indice del volume

Prefazione

v

1. Il Vaticano II e la nuova storiografia conciliare

3

2. I diritti dell’uomo tra apologetica e verità storica

25

3. La Chiesa di fronte ai totalitarismi

37

4. La lezione dei totalitarismi nella Chiesa preconciliare

53

5. «Non vi è libertà nei confronti di Dio»: il Vaticano II, i diritti di Dio e il diritto alla libertà religiosa

75

6. Magistero autoritario o dialogo?

91

7. Conclusioni

107



113

Indice dei nomi