Lo spettatore addormentato

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Flaiano è stato un cronista teatrale d'eccezione in due particolari mo.. menti storici: gli anni della guerra e gli anni del boom economico. Ha ini.. ziato quasi per caso ed è diventato il critico di un teatro come quello italia.. no che è, ieri come oggi, impari alla società che lo ispira.

Flaiano a teatro di Gu1oo DAvico SoNINO Si prova una sana invidia dinanzi agli scritti teatrali di Ennio Flaiano, per il metodo cui si ispirano e la scrittura in cui si traducono. Il metodo è quello del cannocchiale ro­ vesciato: non l'immagine scenica in­ grandita, non l'ambizione della totalità, insomma, ma, all'opposto, l'affisarsi ad un puntolino, magari fuori dell'arco di proscenio (un cielo fra sole e nuvo­ laglia, a Venezia; il chiacchiericcio fur­ tivo con un'attrice, ad un bar di Piazza del Popolo) e da lì risalire, con calcola­ ta indolenza, per cerchi concentrici, al fatto teatrale, allo spettacolo. La scrittura è quella del "dilettante", ma come lo era la musica del "dilet­ tante" veneto Tommaso Albinoni: scrittura, innanzitutto, che s'appaga di se stessa, delle sue pigre volute, dei suoi ammicchi furbeschi, dei suoi scar­ ti bizzosi: ma che, pur concedendo tutto al proprio "diletto", è poi, come si usa dir oggi tra gente saputa, emi­ nentemente referenziale: scrittura dun­ que di diario, di letteralissimo giornale privato e, ad un tempo, di esemplare rendiconto. Chi di noi, affannatissimi cronisti d'og­ gi (ecco l'invidia), potrebbe guardare al teatro secondo una così personale prospettiva e con tanto agio di stile? Ma c'è di più: ed è che Flaiano- co­ me le due parti di questa raccolta di­ mostrano in modo inequivocabile ebbe del teatro nostro contemporaneo una visione lucida e insieme profonda: anche se, nella sua schermata elegan­ za, nel suo pudore e nella sua ironia, si guardò sempre dall'esplicitarla, da far­ ne il pretesto per una teorizzazione, da trarne programmi o bilanci. Il nocciolo di codesta visione (se la ri­ lettura di queste recensioni non mi trae in inganno) è che il teatro italiano, ieri come oggi, è impari alla società che lo ispira: che ne è lo specchio ap­ pannato, il riflesso spezzato, l'eco sof­ focata. Si ripercorrano le note del tempo di guerra, stupende per la discrezione melanconica (quasi ragguagli da un tempo di nebbia) con cui Flaiano trat­ teggia il tutto italiano scompenso tra la tragedia che infuria, con punte di si­ nibbio, in Europa e le commedie o far­ se che si recitano dentro quelle buie,

umide salette di Roma e Milano: com­ medie e farse, dico, non per l'apparte­ nenza a l'uno o l'altro "genere" tea­ trale, ma per mediocrità oggettiva, per irrimediabile goffaggine, per caparbio provincialismo. E si leggano, in parallelo, le cronache degli anni Sessanta, dove il talento mi­ metico di Flaiano si sfoga in una sor­ niona parodia dell'italica genialità tea­ trale, sicura delle sue istituzioni pro­ gressive, orgogliosa delle sue scoperte letterarie, tronfia dei suoi ritrovati sce­ nici. Fingendo di dormire (come lo spettatore medio, cui volle, prima di morire, intitolare questa silloge) Flaia­ no sta, invece, ad occhi bene aperti, non si perde nemmeno una battuta di quel tripudio: e a colpi di ben assestati paradossi demolisce (ma sempre con una riserva di rammarico, con un leg­ gero sgomento nella voce) quel gran castello di carta, anzi di cartapesta.

Ennio Flaiano

nato a Pescara nel 1910 e morto a Roma nel 1972. ha studiato architettu­ ra, passando poi al giornalismo e alla critica cinematografica e teatrale. Nel '47, col romanzo Tempo di uccidere ha vinto il Premio Strega. Dopo anni dedicati al cinema come autore di sog­ getti e sceneggiature, ha pubblicato due volumi di racconti e di satire: Dia­ rio notturno ( 1956) e Una e una notte (1959). Sono quindi usciti: Il gioco e il massacro ( 1970), che ottenne il Pre­ mio Campiello; Un marziano a Roma e altre farse (1971) e Ombre bianche (1972). Nelle c Opere di Ennio Flaia­ no • sono stati pubblicati, postumi, La solitudine del sa tiro ( 1973); Autobio­ grafia del blu di Prussia (1974); Diario degli errori ( 1976); Lettere d'amore al cinema (1978); Un bel giorno di libertà (1979); Un giorno a Bombay e altre note di viaggio ( 1980) e ripubblicate quasi tutte le sue opero precedenti.

In sovraccoperta: Aaiano in un dl8egno del 194 7 di Antonio Scordia (proprlet• prlvllta).

Opere di Ennio Flaiano a cura GIULIO

CAITANEO

di

e SERGIO

PAUTASSO

Ennio Flaiano

Lo spettatore addormentato

Rizzoli Editore MILANO 1983

©

Proprietà letteraria riJervata 1983 RiZZJJii Editore, Milano Prima edizione: marzo

1983

La scelta della Pane prima (1939-1942) è di Emma Giammattei; quella della Pane seconda (1963-1967) è di Fausta Bernobini.

Lo spettatore addormentato

Vado a teatro e non mi ritrovo perché sono escluso dalla storia la vanità mi conforta a dormire. Quelli sul palcoscenico !asciamoli dire. E. F.

Parte prima ( 1 939 - 1 942) scelta a cura di EMMA GIAMMATIEI

Riapertura Il vento della ''pusta " di Sandor H unyadi Dopo l'intervallo estivo, le nove muse dipinte nel 1 890 sul soffitto del Teatro Argentina hanno visto accorrere un pubblico dei più scelti al­ la prima della Compagnia Lanczy-Ninchi: anzi le muse più interessate alla faccenda, Melpomene e Talia, avvolte nei loro panneggi e raccolti i capelli a tuppo sulla testa, come modelle dell'ultimo Ottocento napoleta­ no, durante la recita hanno mostrato persino di ascoltare il dramma di Sandor H unyadi che si rappresentava sul palcoscenico: forse per ritro­ vare ognuna la propria parte di ispirazione. M a cosa pensassero nessu­ no può dirlo: non di certo il pubblico attentissimo e tanto meno noi che, molto occupati a seguire, per una giustificabile curiosità, la mimica e la dizione della signora Margit Lanczy, trascuravamo il filo della trama: forse l'autore, che si presentò a ringraziare tre volte, avrà capito qualco­ sa nel silenzio delle figlie di Giove. E certo non vorrà dirlo a tutti. Il vento della "pusta " racconta le gesta parallele di un sergente, di un'ostessa molto graziosa, e di un brigante invecchiato: l'azione si svolge in Ungheria, verso la metà dell'Ottocento e la "pusta", così abilmente messa in campo, ha soltanto il compito evocativo di un accompagnamen­ to in sordina. Ma il dramma più che occupare l'attenzione vuole eccita­ re la fantasia e alterna perciò bei colpi di scena a dialoghi preparatori ; però se non vale ascoltarlo, se la logica del quint'atto cede troppo alla cronaca e lo scioglimento si spezzetta in effetti minimi, rimane sempre uno spettacolo da guardare con molto piacere, così come si guarda una stampa ben colorata. Perciò, il consenso diretto all'autore e agli attori va anche a coloro che curarono la presentazione: impeccabile, infatti, ogni apparato, così pure l'imitazione del galoppo dei cavalli, fornito dagli ap­ parecchi Germini. Anche le scene piacquero, a meno che non si voglia tener conto del parere di quei bravi attori travestiti da gendarmi che, durante il drammatico arresto del protagonista, si videro precluso l'in­ gresso in scena da un basso e robusto arch itrave che frenò l'impeto dei 9

loro colbacchi. (Ma ciò senza pregiudizio dell'azione; i fuciletti furono spianati ugualmente dal di fuori e il bandito si arrese ai tutori della leg­ ge e alle esigenze del dramma.) Molti anni fa, chi scrive queste righe si trovò, portato dal destino, a dar vita, in una rappresentazione, alla nobile figura di un gendarme e, tra l'altro, cantò con voce incerta ma appassionata una buona romanza. Per ciò che, in seguito, gli è stato dato capire della natura poetica di si­ mili personaggi, reputa che ai gendarmi di Hunyadi, e non soltanto a loro, manchi appunto lo sfogo del canto. I sentimenti dai quali sono ani­ mati hanno l'iniziale maiuscola e a stento si possono costringere nel giro di una battuta seppure lunga: è quindi indubbio che Il vento della ''pusta , degnamente musicato (forse a questo pensava un illustre acca­ demico sprofondato a occhi socchiusi nella sua poltrona), terrebbe il campo con molto onore. I costumi si prestano, le azioni dettate dall'ira e dalla perfidia abbondano, il Dovere vi ha parte, la Generosità è chiama­ ta in causa, una soluzione che contenti tutti esiste: perché dun­ que non dare al melodramma una creatura che gli spetta per diritto na­ turale? Ma, tornando ai nostri gendarmi, il quadretto obbligato che essi composero nello spazio di una porta, dette il tono gentile al lavoro: e per il gusto, irrimediabilmente traviato, di qualche spettatore fu questo, for­ se, l'episodio notevole della serata. 14 ottobre 1939 "

Uno o due angeli Ho sposato un angelo di Vaszary Eccoci entrare per primi nella sala, leggere il programma, aspettare sereni e impazienti che il velario si divarichi; comincia io spettacolo e si può dire che non ne perdiamo una briciola, gli occhi attratti dalla perfi­ da eleganza delle scene (eseguite su disegni di Maria Signorelli), le orecchie carezzate dal concerto delle voci, il cervello dolcemente preso dai pensierini che quelle voci enunciano pur senza parere. Protetti dall'oscurità, tanto vale confessarlo subito, prendiamo appunti che il giorno dopo (ahi !) ci sorprendono per ingenuità e ottimismo; ma non importa: questo per dire che in noi l'entusiasmo del novizio è ancora de­ sto e operante. Ma ecco a metà dell'atto giungere affannato il nostro au­ torevole collega * * *, chiederci sottovoce in che teatro siamo, il titolo della commedia e come questa si svolge. Rispondiamo d'essere ali' Ar­ gentina, darsi la commedia di un ungherese, certo Vaszary, e che questa 10

commedia tratta di un direttore di banca il quale, disperato ormai di trovare una buona moglie, e invocando perciò retoricamente un angelo per consorte, se ne vede piombare uno in carne e ossa dai praticabili del soffitto, proprio sulla scrivania. La signora Margit Lanczy è infatti sul­ la scena, in costume d'angelo preraffaellita, pronta a farsi sposare. Il nostro amico, alle affrettate spiegazioni, sorride dolorosamente, poi chie­ de a bruciapelo se, in sede teologica, gli angeli sono maschi o femmine e se ricordiamo con precisione quanti angeli, secondo il sofisma, possono danzare sulla punta di un ago; e noi, per rispondere, perdiamo due o tre battute, di quelle comiche che scuotono tutta la platea come una sola pancia. Termina l'atto, comincia il secondo. L'angelo (operato delle ali) non · è adatto alla vita di società: lo confessa al pubblico lo stesso marito. In poche parole quella celeste creatura è insopportabile nella sua perfezio­ ne. Il nostro amico, vedendo entrare l'angelo in scena, ci soffia nell'orec­ chio il sospetto di una prossima esagerata esemplificazione, frase di cui afferriamo il significato in seguito, quando, durante l'intero atto, sentia­ mo l'angelo dire la verità a tutti, denunciare a voce alta (e un po' trop­ po energica) le sue opinioni sugli invitati, offendersi di ogni galanteria, eccetera. Le battute divertenti si susseguono a mitraglia e più il pubblico mostra di aver compreso più l'esemplificazione insiste: talché il nostro amico mugola e si rattrappa nella poltrona come se di tanto in tanto gli sparassero con un trombone caricato a sale nella schiena. Egli soffre ve­ ramente, e quando, con gli occhi buoni e liberi d'ogni ironia, ci doman­ da se la commedia è divertente, sentiamo quasi il dovere di consolarlo. Ma nel frattempo si è messo a disegnare sul margine di un giornale un elefante in tuba e frac, nella grazia del quale non è difficile riconoscere il primo attore, e sembra aver dimenticata la sua infelicità. Più tardi, appoggiato alle colonne di finto marmo del ridotto, a proposito di attori , citerà Boileau o i consigli che dà Amleto ai comici sulla necessità di non esagerare gli effetti e di non ridere per primi quando l'argomento è di già comico di per se stesso. Ma che vale ? Dopo l'intervallo la commedia riprende per concludere che l'angelo, ammaestrato dalla pervicacia degli uomini, comincerà a mentire e ad agire da donna: soddisfatto, il pubbli­ co sfolla nell'atrio neoclassico, gorgogliando di piacere. Il nostro collega rimasto di buon umore da quando la signora Lanczy passeggiando in veste da camera (decorata di draghi rossi e semiaperta) ha stabilito un punto a favore dei sostenitori del la natura fisica dell'angelo, ritorna gra­ ve e segreto. Eccolo scomparire verso la sede del suo giornale. Quanto a noi , fortunati e felici , prima di infilarci a letto guardiamo gli appunti che dicono: Ho Jposato un angelo è una commedia per signore troppo si ncere ... la "moralità" contenutavi un aforisma da cioccolatino che per la sua ovvia accettazione non allarma nessuno . . . eccetera , eccetera"· •

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Intanto il nostro collega, solo, con l'usciere che aspetta abbia finito, per chiudere la redazione, prima di decidersi a scrivere spunta un paio di pennini. 28 ottobre 7939

Ottimismo Vent 'anni di Sergio Pugliese Abitudine dei sovrani e dei festeggiati è di arrivare in teatro alla fine del primo atto; non perciò è da credere che capiscano meno, di quanto accade sulla scena, anzi pare che il loro piacere sia più vivo, appunto perché incompleto. Ci si permetta, allora, pure essendo fervidi ammira­ tori del teatro di prosa o proprio per questa nobile ragione, di pensare che ben presto prenderemo l'abitudine di andar via alla fine di ogni se­ cond'atto; poiché tutto quanto avviene, in seguito, nelle commedie è, ge­ neralmente, piacevole, ma ogni giorno minaccia di diventare più inutile. Tale inconveniente è maggiormente sentito in quelle nostre commedie che, desiderando svolgere una tesi ottimista, intessono le biografie dei loro personaggi in una trama di sovrumana purezza. Quelle stesse crea­ ture, che nei primi due atti erano preda delle macchinazioni più tenta­ triei, giunte al terzo vengono ricondotte (con una grazia ferma ma non priva di rimpianto) al rispetto di ogni legge e di ogni disposizione pre­ fettizia. L'autore rinfodera le sciabole, ossia caratteri, "atmosfere", psi­ cologia e sviluppi, e la battaglia è rimandata a un altro giorno. Insom­ ma, eccoli tutti pentiti. Per poco che ai tre atti soliti ne segua un al­ tro paio e siamo alla consegna delle ricompense, al processo di beatifi­ caziOne. Chi non ricorda quei pagliacci che, al circo, si mettevano in piedi sul parapetto della pista e, urlando, minacciavano di gettarsi a capofitto nella segatura, per poi scendere cautamente aiutandosi con le mani, e all'indietro ? Così sono i nostri personaggi: agitati e urloni ma, in fondo, tutti bravi, ubbidienti e privi di dubbi. Sorpassando i desideri del più se­ vero censore, gli astuti si scopriranno da se stessi , i maligni si pentiran­ no, i processi di separazione verrano mandati a monte. Cosicché essendo chiaro che queste cose avvengono alla fine di ogni dramma, la vita, nei terz'atti, è ferma e rosa, come la luce delle apoteosi. Il pubblico che applaude gli attori (talvolta anche l'autore ne appro­ fitta per farsi avanti sul boccascena) è contento, sì, che le cose si aggiu­ stino sempre per il meglio, ma rimane anche perplesso e sconcertato. Forse pensa se è veramente possibile che creature tanto eccezionali da 72

interessare uno scrittore, possano acquietarsi così docilmente nell'ultima mezz'ora e si domanda (poiché il pubblico va a teatro da molto tempo) come mai questa bonaccia, anzi questa dichiarata indifferenza degli ele­ menti, duri tanto a lungo. Talvolta, bisogna esser giusti, succede qualco­ sa. Ma allora gli autori precisano bene che i fatti narrati non sono pos­ sibili nel nostro paese, avvenendo generalmente all'estero; i personaggi hanno assunto nomi strani (quei nomi che si sentono al cinematografo), e si permettono ogni licenza: li vediamo divorziare o, peggio, avere amanti, ascoltiamo i loro aforismi leggeri e indifferenti: sono tipi, in­ somma, che non rinunciano a nulla e sparano persino colpi di rivoltella. Le fantasie dei commediografi, davanti a costoro, si aprono come corolle al sole e danno tutto il loro esperto e persuasivo profumo, del quale i personaggi si nutrono e vivono; confusamente, ma vivono. M a nel caso contrario, ahiloro, il più crudele e ingiusto destino li attende, quello che è presieduto dalla Noia (che nacque, secondo il poeta, in un giorno di uniformità). A tale destino sono pure andati incontro la signorina Silvia, dotto­ ressa in chimica, e il signor Andrea, architetto, principali animatori di Ven t 'anni, commedia di Sergio Pugliese data al Teatro Quirino e parti­ colarmente curata dalla Compagnia Tre Maschere: rinuncia alla "fol­ lia" e ritorno dell'una alla chimica e dell'altro all'architettura "raziona­ le". E ciò dopo due atti che facevano prevedere le più desiderate vittorie della passione nei loro animi esuberanti o, almeno, per Andrea, una re­ visione dei suoi princìpi estetici, la qual cosa vorremmo, se si fa ancora in tempo, vivamente consigliargli . A due atti ben avviati è successo, insomma, il "terzo": n e l quale l'ot­ timismo senza tregua e senza speranza profusovi dall'autore finisce con l'avere, dopotutto, un suo fascino. 1 1 novembre 1 939

Nebbia Un orologio si è fermato di Edoardo Anton Vedere annunciata una novità di Edoardo Anton ci fece piacere: poiché un punto debole nel nostro improvvisato sistema critico è il ge­ nere cosiddetto "poliziesco", contro il quale siamo, davvero, allegramen­ te indifesi . Toglieteci di Poe i Racconti straordinari, ma !asciateci il suo incantevole monsieur Dupin, ovvero, vada pure la Fantasia ma resti l' Intelligenza. Questa breve premessa è necessaria in quanto dello stesso autore avevamo, in alt ri tempi , seguito un romanzo d'appendice: un 13

"giallo" , per intenderei, in cui non si sapeva se ammirar più l'invenzio­ ne o l'abilità della stesura che, in un esordiente, erano ambedue colme di promesse. Anche il titolo del dramma odierno, Un orologio si è fer­ mato , ci dava garanzia di misteri ben svolti, per una certa assonanza coi titoli di opere per l'appunto famose; ma non basta: dobbi amo proprio confessare che la curiosità più ragionata ci veniva dal nome dell'inter­ prete, signora Emma Gramatica ? La sottigliezza umoristica o, come si vuole, la varietà d'umori di questa attrice è nota: anche noi ne abbiamo notato i segni in San ta Giovanna e, meglio, in Pigmalione, opera nella quale un lato piacevole e insospettabile del suo carattere fioriva come una rosa sul bordo di un cupo laghetto. Senza offesa, la parte "investi­ gativa" di un dramma poliziesco troverebbe nella nostra massima attrice (per quella disinvolta aderenza mentale che. rivela chi, abituato a far vivere creature in versi, ne debba animare in prosa) l'interprete più si­ cura. Purtroppo le nostre illusioni, basate su un solo elemento, non avreb­ bero retto a lungo: recatici la sera stessa al Teatro Argentina, trovammo che il dramma di Edoardo Anton, invece di svolgere abili e innocenti macchinazioni, si staccava a volo negli alti cieli della tesi e dell'indagine psicologica. Volo insospettato ma audace: anzi temerario. E non potem­ mo non rimanere senza fiato davanti alla decisione con cui l'autore si era spinto ad attaccare la difficile diligenza: nei suoi panni lo stesso Ibsen avrebbe preso più di una misura per non correre il rischio di sal­ tare addirittura dall'altro lato della carrozza. E forse i sinceri applausi del pubblico stavano andando più a questa indiscutibile audacia, che è infine una promessa di far meglio, che alla vicenda della signora Giu­ ditta, così com'era clinicamente narrata. Sparita, dunque, la sagacia del romanziere poliziesco, che pure face­ va capolino ogni tanto nei colpi di scena, ci sarebbe rimasto giudicare il dramma senz'altri preconcetti ; lavoro delicato, da rinviarsi. Usciti dal teatro trovammo la città presa in una nordica nebbia. Pas­ seggiando, giunti davanti alla papalina Manifattura dei Tabacchi, che è un grosso edifizio neoclassico, ci sembrò di « respirare aria di Piccadil­ ly » : poco dopo (avendo lungamente soggiornato in Inghilterra) nel truc­ cato palazzotto degli Anguillara ecco apparirci Edimburgo. Infine guar­ dando il Vittoriano, che nell'opaco chiarore aveva perso il suo spavaldo aspetto di calamaio, ci vennero alle labbra immagini così felici che, ora, quasi ci rimproveriamo di non averle annotate. Pieni d'ammirazione non ci saremmo ricondotti alla realtà che il giorno dopo, in piena luce; e i monumenti, in agguato dietro la nebbia, ci avrebbero davvero seguitato a suggerire allegorie imprecise, ma cariche di un significato variamente intendibile, se il nostro cattivo gusto dei paragoni non ci avesse insinua­ to che, come lo spiritualismo è facile amico dei grossi drammi , così la 74

nebb i a lo è degli edifizi stupidi. Subito, liberata la mole del suo mistero, rivedemmo i sogni-fatti-pietra dell'architetto Sacconi , i fregi zanelliani, il botticino brillare nella sua gloriosa solitudine; e . . . Ma l'altro termine del paragone lo lasciamo all'intelligenza del lettore, solo indicandogli che la nebb i a, nel nostro caso, potrebbe essere, per un sottile controsen­ so, proprio la limpida recitazione della Compagnia Gramatica. 78 novem bre 7939

Come piace a loro- La foresta disincantata

Le allegre comari di Windsor di William Shakespeare La foresta pietrificata di Robert Sherwood È stato Shaw a supporre il poco conto che Shakespeare faceva di quelle commedie da lui scritte per compiacere un po' la sua mania spe­ rimentale e più ancora il sanguigno e irrequieto pubblico del Globe. As you like it: ecco quello che fa per voi . Il titolo stesso doveva essere un giudizio sul gusto del pubblico. A una tale necessità appartengono anche Le allegre comari di Windsor che sono, appunto, un rapido omaggio al­ le commedie "attuali" che Decker e Ben Jonson avevanò inaugurato nel genere comico: e, perciò, queste Comari potrebb ero dirsi l'unica comme­ dia borghese che Shakespeare abbia scritta, se l'epiteto non si prestasse a moderne interpretazioni e se, infine, una classifica non risultasse inutile, visto che il suo teatro, per il solo fatto d'essere ancora utilizzabile fino " alla coda, sfugge a ogni malignità. (Soltanto, è una curiosa coincidenza che le periodiche "manifestazioni d'arte" si appoggino puntualmente a uno Shakespeare malgré lu�: segno, forse, che il gusto del pubblico non cambia di proposito.) Purtroppo, in queste esumazioni, l'errore che s pesso si commette a danno dell'autore (un errore che risale a Reinhardt) è quello di spostare Shakespeare nel tempo e nello spazio. Quasi sempre, egli , dalla Rina­ scenza inglese vien trasportato al Settecento viennese, dai robusti appeti­ ti elisabettiani alle gastralgie del rococò. Nominando Reinhardt ci riferivamo al suo Mercante di Venezia ar­ ricchito dagli "affreschi sonori" di De Sabata e da un inappuntabile bal­ letto mitteleuropeo: la colpa è un po' sua se, in seguito, Shakespeare da noi si è trovato periodicamente tra i décor russi e le correnti d'aria me­ lodrammatiche e se, credendo di farlo vivo ani mandolo sontuosamente, lo si è nascosto tra i merletti e le caramelle. L'odierna edizione delle Comari, inscenata con gran cura dalla 75

Compagnia del Teatro Eliseo diretta da Sharoff e Cervi, non ha rotto la consuetudine e così le immaginazioni poetiche di Shakespeare sono state tradotte in spettacolari . Il gusto per la lingua viva (gusto che le tradu­ zioni sono costrette a disconoscere o fraintendere), i suoi caratteri osser­ vati in una società aperta ad un paziente humour hanno brancolato fra le coreografie, la musica e le intenzioni troppo furbe. Dello sweet, witty, gentle poeta di Stratford, così camuffato, si sono visti appena gli spauriti occhi di lepre del ritratto apocrifo: il resto è servito agli sforzi della re­ gia come la Divina Commedia serve ai nostri bravi rilegatori per usare molto cuoio, borchie argentate e fermagli. Troppe preoccupazioni , in­ somma. E, forse, il concorso degli scenografi dell'Opera precisava abba­ stanza quanto fosse stato deciso il passo verso il pastiche e quale insana­ bile ferita sia il balletto russo nel cuore dei suoi coetanei. (È da notare, inoltre, che un critico, ricordando il Falstaff verdiano e lodando, tra pa­ rentesi, la riduzione a libretto del Boito come meno divagatrice della commedia, ci ha fatto benissimo apparire i pericoli nascosti in queste sontuose "manifestazioni".) L'interpretazione, tolti quei pochi difetti di sommarietà, è stata otti­ ma. Gino Cervi, volenteroso Falstaff, alzando talvolta i tacchi e pavo­ neggiando più del necessario, ricordò il suo precedente Fieramosca, ma sostenne il peso maggiore e meritò gli applausi del magnifico pubblico. Qualche anno fa La foresta pietrificata di Sherwood trasportata nel­ lo schermo piacque molto; non (s'intende) al pubblico del Cinema Ber­ nini, dove, imprudentemente, il film veniva presentato: piacque, dicia­ molo pure, agli intellettuali. Il pubblico normale, invece, non fu mai co­ me allora felice e convinto del suo giudizio negativo. E davvero Alan Squire e Gaby Maples erano eroi troppo diversi dai normali per essere gustati: il pubblico non amando le loro divagazioni pensò di divertirsi a suo modo: ricordiamo che non una battuta sfuggì al giudizio dei pasqui­ no che affollavano, appunto perciò, la sala. E furono contagiati, il che è francamente terribile, anche coloro che apprezzavano gli sforzi del film per uscire dall'abituale incoscienza del cinema. Quando il Teatro delle Arti incluse il dramma nel suo cartellone fu , in compenso, un vero successo: tanto che si è pensato di ripresentarlo quest'anno. Ma quali motivi hanno tolto, in questa seconda edizione, ogni fascino alla foresta ? Forse, per noi, uno solo: il tempo. Capitatoci tra le mani un atto di Vildrac (Le pèlerin ) e una novella di Anderson ( Tandy), nei due personaggi che certo Sherwood conosceva abbiamo ri­ visto l'inguaribile carattere del suo protagonista. Ma forse ciò non vale abbastanza. Diciamo, allora, che è stata la recitazione a scoprire gli al­ tarini, così come una sbadata dizione scopre i cattivi versi. Ricorda A. G. Bragaglia la faccia di quell'autore che al posto del 16

suo dramma trovò una commedia brillante perché gli attori degli « Indi­ pendenti,, (più di lui stesso) avevano "capito" i suoi personaggi ? La stessa faccia avrebbe fatto Sherwood l'altra sera davanti alla "chiarifica­ zione" dei suoi. Il poeta vagabondo, inappuntabile e discreto, più che dal deserto sembrava venire dal vicino Caffè Rosati (e doveva essere co­ sì) e le sue argomentazioni si perdevano nel luccichio della cravatta. (Strano come i vestiti smentiscono le idee di chi li indossa. ) Gli altri at­ tori, chi più chi meno, contribuirono allo svelamento: « nonno Maples », per esempio, con la sua camicia alla Robespierre, era un decoroso ospite delle Terme di Montecatini, più che un vecchio pioniere: « la signora Grisholm » fu particolarmente ironizzata e le cattive intenzioni dei gangster non convinsero del tutto: soltanto l 'amico Bonamano con un suo schioppo poggiato trasversalmente sulle ginocchia riuscì ad allarma­ re le prime file di poltrone. E allora, non più nascosti da una speciosa interpretazione, apparve­ ro chiari i "cattivi versi" di Sherwood: apparve chiaro, cioè, il suo voler conciliare Montparnasse, W alt Withman e La fan ciulla del West, Vil­ lon e David Belasco. È stato così , grazie agli attori del Teatro delle Arti, che un dramma ha cessato di usurpare un posto nel nostro cuore. 2 dicembre 1 939

Il cavalier Mimì Maggio Non ti scordar di

me

di M imì Maggio

Ogni tanto si vedono in giro le vecchie maschere della commedia: ma sono così mutate che il pubblico, il quale deve oltre tutto apprezzarle nelle ricostruzioni ideali , non può riconoscerle. Da una generazione all'altra quelle maschere gli si sono evolute sotto gli occhi cambiando co­ stumi, seppure restando fedeli agli usi, e non lo divertono più. D'altra parte, le maschere sospettano appena di trascinare un'eredi­ tà tanto curiosa e ricercata. Ancora vive non pensano nemmeno di esse­ re oggetto di studio, che persone d'ingegno, cioè, vorrebbero ricostruire quel segreto così naturale per loro nelle accademie e nei teatri di Stato. Se lo sapessero, forse, sarebbero felici di farsi sezionare, seppure il loro gesto sarebbe com preso. lncontrarle non è faci le: di quelle che si proclamano "maschere" da loro stesse c'è, a ragione , da diffidare. Le vere, spesso, formano una sola famiglia; e quando, per un comprensibile pudore, non sfuggono le gran17

di città, si accontentano di riempire gli spettacoli nei cinema popolari. Ma è la loro invincibile razza che le scopre. Per qualche sera per esempio, la Compagnia del cavalier Mimì Maggio ha recitato al Cinema Centrale. Nella recita d'addio, il cavalie­ re in persona è avanzato sul boccascena, a ringraziare, dicendo che « imprescindibili impegni , lo chiamavano altrove, ma ch'egli avrebbe portato con sé il ricordo di un pubblico che l'aveva onorato con la sua cara accoglienza. Mentre il vecchio attore, insolitamente impacciato, parlava, il pubblico di quel cinema, che è uno dei più generosi ed entu­ siasti della città, rimase attento e commosso (anche il ragazzo delle ga­ zose, che sino allora aveva camminato sulle nostre scarpe, mostrò col suo contegno un'anima suscettibile di perfezione). Quanto a noi , oltre tutto, pensando per contrasto al preoccupato pubblico dei teatri normali che passa i terz'atti col pastrano sulle ginocchia, pronto a fuggire alle pe­ nultime battute, per un attimo ci affacciammo il dubbio che nella crisi del teatro debba entrarci la maleducazione, che è una forma sgradevole d'indifferenza. Ma, a parte ciò, il cavalier Maggio, col suo discorsetto, non stava ri­ portando lo spettacolo ai termini d'un tempo, a uno scambio di simpatie e di responsabilità tra platea e palcoscenico ? Quando, tra gli applausi, sparì definitivamente nelle pieghe del sipario, il suo corpo legnoso era appunto quello di un propiziatorio imbonitore. Della Compagnia Maggio, attratti per puro caso dalla singolarità del programma che annunziava commedie « tratte da canzoni ,, abbiamo seguito le recite fedelmente. Per dei curiosi ricercatori delle fonti metafi­ siche del melodramma, come siamo, l'occasione non avrebbe potuto esse­ re migliore, e oltre a confortarci nell'idea che le vecchie maschere girano ancora ci è servita per conoscere nuovi procedimenti drammatici , davve­ ro CUriOSI. Nel costruire le sue commedie l'arzillo cavaliere non manca di idee e di fantasia. Una buona commedia, secondo Molière, dovrebbe descrivere caratteri e costumi, contenere comicità e sorprese, definire una morale: ebbene, a tutto ciò il cavalier Maggio aggiunge di suo il "sentimento". Perché i suoi attori sanno recitare e cantare (recitare con la naturale grazia dei napoletani e cantare con la loro appassionata convinzione) egl i non fa che imbastire un canovaccio entro il quale gli attori possono esaurire le loro attitudini comiche e al momento opportuno, se la scena lo richiede (e la scena lo richiede spesso), incastrare canzoni che si adat­ tino. Di regola la canzone che dà il titolo alla commedia è quella che viene spiegata con l'azione: è un risalire alla sorgente; un riprodurre l'ispirazione del compositore che non manca di logica. E del resto, que­ ste manipolazioni melodrammatiche, se aggiungono la generosa retorica 78

delle stampe popolari all'azione, non tolgono agli attori una radicata scioltezza di osservazioni. In Non ti scordar di me, per esempio, a un vecchio malaticcio che la padrona di casa vorrebbe mandare all'ospedale la moglie impone con sottigliezza chamfortiana di star tranquillo, di non ascoltare intimidazioni, di morire pure tranquillamente. E soltanto una maestria ereditata potrebbe permettere a questi attori di troncare, come fanno, le scene patetiche, quando seguitarle sarebbe intollerabile, con improvvise buffonerie che smontano gli effetti prece­ denti: né il gusto dei "ritorni", quel modo di battere a intervalli periodi­ ci su un punto efficace, potrebbe ro averlo appreso dagli esempi del tea­ tro d'oggi. Guardate come tutti tormentano il povero vecchio colpevole di aver « le orecchie piccole ,. (il che vorrebbe dire, ci viene spiegato, morte prematura) col rimproverargli di « non rispettare i proverbi ,._ Pian piano la battuta dà il ritmo alla scena, colma le pause, ottiene l'ilarità per forza meccanica. Pur se cambiate dal gusto del tempo, se passate attraverso il teatro borghese e veristico, queste maschere fanno capire di aver recitato "sem­ pre", di avere addirittura trovato il loro ruolo sul cuscino. Usufruendo di un'esperienza segreta, riescono a dire cose gradevoli né più né meno come due o tre secoli fa. E per questo, forse, soltanto il pubblico popola­ re, che non ha perso la memoria, è in grado di apprezzarle pienamente. Riconoscere Pulcinella nel giovane sfrontato dagli occhiali di falsa tartaruga, Colombina nella languida aspirante al cinema, Florindo nell 'operaio generoso e Pantalone in quello che « ha fatto la guerra ed è stato prigioniero,. è arduo, d'accordo; ma convince che tali maschere so­ no entrate nella vita e ne portano un'eco vivace sulla scena. E proprio nel non farsi riconoscere a prima vista sta tutto il segreto della loro con­ tinuità. 9 dicembre 1939

Amiel e Capuana

Fam iglia di Denys Arnie! Malia di Luigi Capuana Nel dopoguerra gli autori sentimental i , come le ditte che risorgono dal fallimento, cambiarono nome e si chiamarono "intimisti ". Le azioni degli uomini hanno fortuna a seconda del loro nome e tutto un ramo, quasi dimenticato, della retorica , si occupa di questa pratica. "lntimi­ smo" , allora, fu eufemisticamente ben scelto: suonò all 'orecchio disin79

cantato dell'epoca come ricerca scientifica, per assonanza coi diari e la conoscenza sistematica dell'Io. Nello stesso tempo, tra le voci ciniche di allora, ricordò astutamente i diritti dell'intimità, che oscillano da quelli dell'anima a quelli dell'arredamento. Nacque la fama di Géraldy e i fi­ danzamenti si conclusero a colpi di Toi et Moi. L'emicrania bastò a da­ re il tono intellettuale e sofferente a chiunque se ne accusasse vittima e, in questo senso, divenne il malessere più "intimista" che si potesse desi­ derare: dette un cachet anche alla più insipida creatura. La ricetta della commedia "intimista" è quanto di semplice e pur delicato possa esserci: è come cuocere due uova, esame pieno di difficol­ tà, dicono, per un aspirante cuoco. Queste commedie emanano un odore di cose buone: di regola i loro personaggi non fanno che volersi bene, compatirsi , rimproverarsi affet­ tuosamente: si tirano il ganascino l'un l'altro interpellandosi « vecchia canaglia! » ma finiscono, dopo essersi "compresi", accanto al caminetto in un silenzio gravido di tenerezza, mentre il velario si chiude. Il silen­ zio, come per la musica, è tutto per le commedie "intimiste". Però, quando a un autore che passa per il più abile del genere si ag­ giunge anche la figlia, quando Denys Arnie! viene aiutato da M. Arnie! Petry, il frutto di una così affettuosa e casereccia collaborazione non può essere che esageratamente sciroppato. I personaggi dovranno, per forza di cose, nuotare tra preoccupazioni di panna montata, risolvere proble­ mi di crema, sfondare muri di risotto e nausearsi di zucchero d'orzo. Tra le ventimila strade che portano alla Verità sceglieranno la più va­ nigliata. Tutta una bella fiducia nell'esistenza li conforterà; e anche gli avvenimenti giungeranno a rincuorarli, nella loro celestiale beatitudine. Come tutto va bene, per esempio, nella famiglia del signor Tavernier, come apre il cuore questo spettacolo di "moderna" grandezza d'animo! Cinque figli di papà che accettano la rovina del patrimonio con indiffe­ renza e subito si mettono al lavoro, quale esempio edificante! E guai agli autori se, per portare avanti l'assunto, vogliono insinuare il sospetto che la signora Tavernier abbia altri amori oltre quello per la famiglia. Ecco, allora, arrivare prontamente la spiegazione che riconforta tutti e permette un nuovo scambio di abbracci, di affettuosità e di tenerezze, mentre il sipario scende delicatamente. Se subito dopo vien fatto di pensare a De Amicis, alle sue lagrime­ voli opere, è soltanto perché al confronto appaiono come derivate dalla più nera sfiducia e dalla più ingrata negazione. Famiglia, per essere una commediola liscia e senza sospetti, è adatta per le serate a prezzi popolari : dopo lo spettacolo tutto il pubblico se ne tornerà a casa soddisfatto, senza volerlo sembrare, decidendo in cuor suo che occorre essere migliori, comprendere gli altri, adattarsi: e il meno che possa fare è di augurarselo sinceramente. 20

Abb i amo visto anche noi la commedia in una di tali serate: pensava­ mo di doverci introdurre tra un pubblico energumeno e appassionato, capace di enormi emozioni, un pubblico che più che coi personaggi amasse prendersela con gli attori. Queste serate, invece, radunano all'Argentina, ogni lunedì, una folla piena di discrezione e di buona vo­ lontà, composta di fidanzati, interi condominii e gruppi di sorelle: persi­ no le madri si lasciano convincere a uscire di casa, con questo freddo. È un pubblico che segue il teatro con interesse inesauribile, si tiene al cor­ rente delle novità, arriva puntualmente e, negli intervalli, esercita una critica istintiva piena di buon senso e discrezione, quale a noi, purtrop­ po, non riesce più. Qualche spettatore trova che Fam iglia è " leggerina, senza penetrazione ,., qualche altro se la piglia addirittura col carattere "in'-:erosimile" dei personaggi. Se a questi commenti si aggiunge la cu­ riosità dei grossi binocoli da campo e le pacate conversazioni delle signo­ re anziane (che si scambiano, c'è da scommettere, qualche ricetta) , ecco definirsi l'aria "intimista", meglio di quanto possa avvenire sul palco­ scemco. Tutto il pubblico in tali serate ha la licenza liceale: a pronunziare ad alta voce la metà di un verso, per esempio, del Pascoli, c'è il caso di sentirsi rispondere ad alta voce, in coro, con l'altra metà. Pubblico sicu­ ro, insomma, che apprezza ogni piccolo sforzo fatto per divertirlo: dite " svanziche ,. invece di denaro e sorriderà; dite comicamente: " siamo fre­ gati ,. ed esso, sul piano comico, accetterà la vostra maleducazione. Gli attori che ben lo conoscono si fanno in quattro per accontentarlo. Guar­ date come sono bravi, come cercano di non impaperarsi e di convincere; come sbirciano astutamente, nel ringraziare, il loggione e le gallerie che hanno fama di ospitare le persone di modesta condizione ma "intelligen­ ti". E come Luigi Cimara riesca a perdere la sua aria di fatuo rubacuo­ ri per entrare nei panni di un bravo figliolo, quanto la Maltagliati pianga sinceramente e che successo ottiene Franco Scandurra, facendo il beniamino di casa, il fratello scapato e di buon cuore. Insomma più che la commedia, a confortarci sull'esistenza della Bontà, sono gli attori e il pubblico, in queste serate a prezzi popolari. Parlando di Luigi Capuana, un critico francese del suo tempo lo disse "curioso", di una curiosità senza freni (que rien ne rebute). Oggi, dopo le indiscrezioni del teatro psicologico, della letteratura psicanalitica, dei diari e dei "documenti", la curiosità di Capuana appare di una di­ screzione che rasenta quasi l'indifferenza. Le sue "carni messe a nudo,. s'indovinano appena, nascoste da enormi cumuli di biancheria. E se il merito di Capuana come critico resta sempre quello di aver voluto indi­ rizzare la letteratura verso la scienza , di indurre al "caso clin ico" ogni intenzione letteraria, quello vero, come scrittore, appare nelle fiabe, cioè 27

nel campo opposto. Si ristampano oggi le sue novelle, per il centenario: invece le sue polemiche, le discussioni , il suo "indirizzo" restano delle curiosità. Il Teatro delle Arti dando Malia non ha certo voluto compiere più di un atto di omaggio, e il dramma, o meglio il bozzetto (perché rara­ mente l 'azione e i caratteri si sollevano al di sopra di un appunto), è piaciuto principalmente per la sua stringatezza e la decisa coloritura folcloristica. Chi parla di tradizione letteraria e spera di trovarla nelle agitazioni primordiali, nella rudezza della terra, potrebbe pescare nel dramma di Capuana i suoi elementi di giudizio. (Nel ridotto del teatro, persino una mostra di pittori albanesi esprime intenzioni simili ed opera un'azione di convincimento in questo senso sullo spettatore. ) Malia dunque è piaciuta benché, voltata i n italiano, abbia perduto in efficacia ciò che ha acquistato in falsa eleganza; e gli attori , so­ prattutto Antonella Petrucci , Nino Pavese e Flavio Diaz, hanno fatto miracoli. È seguita, per restare in argomento, La fattura di Teocrito detta da Giovanna Scotto, con formalistica e rara eleganza, in uno scenario greco tra erskiniano e monacense che ha riscosso anch'esso i suoi applausi. 76 dicembre 7939

Due riprese Pioggia di John Colton e Thomas Randolph (da W. S. Maugham) Molto rumore per nulla di William Shakespeare Pioggia è un dramma che si svolge in un'isola dei mari del Sud, una di q uelle isole soggette a un clima burocratico. In quei luoghi, durante la cattiva stagione, l'acqua cade con una regolarità che, se convince gli indigeni a vedere una relazione tra divinità e fenomeni atmosferici, d'al­ tro canto sconforta i "bianchi" che, dai pochi argomenti di conversazio­ ne, si vedono tolte persino le "previsioni del tempo". È noto che un tale (potrebbe essere lo stesso Maugham), chiedendo a un indigeno di quelle isole che strada prendere per giungere a un certo luogo, si sentì rispon­ dere di andar sempre diritto e, giunto alla seconda pioggia, voltare a de­ stra. Non ci passa per la testa di voler credere quest'aneddoto una bril­ lante invenzione. A Roma il vento di tramontana agisce soltanto col nu­ mero tre e i suoi multipli: dura, come tutti sanno, tre, sei o nove giorni. 22

E, inoltre, il Barbanera è in grado di predire i fenomeni atmosferici e i movimenti diplomatici molti mesi prima che si verifichino. La pioggia è un motivo caro ai romanzieri , per tacere dei poeti, e spesso viene trattata da personaggio. Nei romanzi di Marino Moretti , per esempio, se pure in apparenza fa bel tempo, s'infiltra sempre, legge­ ra, una pioggia da sottobosco per ripararsi dalla quale non occorre nem­ meno aprire l'ombrello; mentre nei romanzi di Moravia c'è la pioggia traditrice del cielo romano, con le grondaie che non riparano e le gocce che cadono sul collo e filano lungo la schiena. È perciò che talvolta il lettore arriva alla fine di certi libri coi piedi ghiacciati e un buon raf­ freddore. In Miss Thompso n , racconto di Maugham ridotto per le scene da Colton e Randolph, la pioggia, che dà il titolo, fa addirittura le veci del Destino e regola la psicologia dei personaggi . Induce al pentimento una peccatrice incallita e alla perdizione il reverendo che ha voluto conver­ tirla. Ma il sole, all'ultimo atto, entrando coi suoi raggi a fascio, come nelle "glorie" settecentesche, distruggerà in un momento la timida Tai­ de meteorologica. Un tale saggio di letteratura ebbe ai suoi tempi tanto successo da in­ durre M axwell Anderson a usare lo stesso meccanico procedimento in Winterset e l'attrice Greta Garbo a dichiarare alla stampa come l'unico suo piacere consistesse nel passeggiare sotto gli acquazzoni . Pioggia non era stata rappresentata d a quando l'italo-americana Maria Bazzi ne aveva dato l'ultima recita al Teatro Valle, nel 1 925. Costei era un'attrice sgargiante, impetuosa, con la capigliatura alla "Lola". Si chiamavano così , nel dopoguerra, quelle bambole che l'indu­ stria tedesca andava gettando sui mercati a piene mani, affinché tutti (e ormai non ce n'era più bisogno) avessero un "portafortuna". Se si esclu­ de il quadrifoglio dipinto sulla tonda pancetta, Maria Bazzi era proprio una "Lola" ingombrante, di una insensibilità aggravata dal peso fisico e dalla pronunzia: almeno tale ce la ricordiamo. L'interprete della nuova edizione, Diana Torrieri, è al contrario una signorina gentile e minuta. Al primo vederla, sulla scena, potrebbe sembrare una Miss Thompson convertita innanzi tempo. Pure quest'at­ trice ha convinto il pubblico, oltre che per l'abilità, per quella sua aria incantata che ha dato al processo psicologico del personaggio di Sadie una profonda verosimiglianza. È la prima volta che Diana Torrieri si trova con un personaggio di statura pari alle sue ambizioni; ed è riuscita pienamente anche se ha dovuto alzarsi sulla punta dei piedi e soprattut­ to costringere il naturale carattere, incline ai ruoli delicati . Le è stato abi le compagno Nerio Bernardi che ha detto la parte del reverendo Davidson con tutta la spiacevolezza necessaria. Non sono mancati gli spettatori che avrebbero volentieri rotto la testa al pastore 23

mentre enunciava il suo vangelo. Gli spettatori del Teatro delle Arti so­ no fatti così: impetuosi e cavallereschi, combattono l'ipocrisia anche nei personaggi e nemmeno la vista dell'abito talare (in questo caso, si badi bene, un abito di confessione protestante) potrebbe frenarli. Anton Giulio Bragaglia, parlandoci, prima che cominciasse lo spet­ tacolo, di due pappagalli che intendeva mettere a decoro della scena, ne aveva detto meraviglie, come attori e come pennuti. I due pappagalli, secondo il suo piano, avrebbero "fatto scenografia" e precisato il luogo dell'azione. Forse Bragaglia, pensando di mischiare due creature vive alla tela e al legno delle sue costruzioni, ossia di porre un elemento rea­ le in un ambiente fittizio, intendeva seguire la scia del pittore Mancini che incastrava pezzi di bottiglia e gioielli falsi nei suoi quadri. Ma, co­ me in quei quadri , anche in questa recita l'elemento reale ha finito col portar confusione. Dolenti, ci tocca dire che i pappagalli, rifacendo il verso degli attori, hanno dimostrato leggerezza, irresponsabilità e un senso d'incomprensione verso l'Arte Scenica che sarebbe appena scusabi­ le in due giovani canarini. In compenso si sono fatti ammirare per la bellezza e le proporzioni rilevanti; tanto che a prima vista si sarebbero potuti scambiare per attori abilmente truccati. Speriamo che la nostra constatazione soddisfi in Bra­ gaglia l'orgoglio del proprietario e mitighi lo sconforto dell'addomestica­ tore sfortunato. La difficoltà di dar vita ai ruoli comici è, oggi, molto sentita, se non dagli attori almeno dal pubblico: l'umore, il senso della comicità tendono sempre più a confondersi col paradosso facile e il fumismo di maniera. Guardate i film e i macchiettisti: non c'è cosa che da loro non sia detta maliziosamente con un gergo cifrato, un preciso e continuo riferimento: per soli iniziati. Un comico che faccia ridere grandi e piccini, che si ser­ va di un linguaggio accessibile, di un umorismo naturale, è raro; uno, poi, che sappia far ridere interpretando un ruolo classico, risuscitando un carattere, pur restando nelle righe, è addirittura introvabile. Per questo motivo, durante la rappresentazione di Molto rumore per nulla , Marcello Moretti, che impersonava il breve ruolo di Dogbery, ci ha da­ to un senso di sollievo. Dogbery nella commedia è la satira del regolamento di polizia in vi­ gore a Londra al tempo di Shakespeare, quel regolamento che all 'art. 22 proibiva ai cittadini di battere la moglie dopo le nove di sera per non disturbare i vicini . Alla lettura, il personaggio, appunto perché legato a una satira particolare del tempo, poco "risulta": ci si figuri che curiosa e avvertita intelligenza occorre per farlo vivere sulla scena. Marcello Moretti vi è riuscito; e la sua voce, il suo gestire, il modo pacato di trot­ tare attorno per il palcoscenico, quel suo contenere gli effetti, ci son par­ si propri di un compiuto attore comico. 24

Se si tien conto che egli fa parte di una Compagnia di attori giova­ nissimi (alcuni dei quali, anzi , tanto giovani da non saper pronunziare le dentali), c'è di che rallegrarsi. E infine, se si pensa che intenzione di questa Compagnia, formata da diplomati dell'Accademia d'Arte Dram­ matica, è di abolire i ruoli fissi e fare d'ogni attore un generico, si con­ clude che la prima smentita a tale presunzione è uscita, fortunatamente, dal suo stesso seno. Oltre al Moretti tra la schiera degli intelligenti atto­ ri vanno segnalati Tino Carraro e Bice M ancinotti: del resto, una spre­ giudicata e gaia intelligenza ha presieduto a questa impresa shakespea­ riana e animato ogni attore. Ciò è stato riconosciuto dallo stesso autore il quale, a detta del regista Brissoni (che lo riferisce in uno scritto del programma), è comparso medianicamente sul palcoscenico del Quirino durante le prove. E pareva, dicono, contento. Della regia, è piaciuta anche a noi la straordinaria vivacità che però in qualche punto ha sconfinato nell'irrequietezza. Qualche attore agita­ to, alcuni costumi troppo lambiccati (frate Francesco indossa un saio di satin lucido) e certi energici tagli nel testo hanno tolto qualche cosa al "rumore" della commedia, cioè la finzione drammatica che un regista dovrebbe in essa rispettare, se non altro per giustificarne il titolo. Ma poiché il successo è stato completo e il giudizio di Shakespeare positivo a noi non resta che inchinarci. 23 dicem bre 1 939

Artisti e letterati minori

I nemici dell'amore di Enzo Duse Lettere d'amore di Gherardo Gherardi Nel suo Contributo ad una biografia del Blu di Prussia Nalajof, sep­ pure superficialmente, indicava le cause che avevano diffuso la compar­ sa del "tormento creativo" negli artisti . Non staremo qui a ripetere le sottili induzioni dello sfortunato critico, anche perché ai più sembrano superate. Ma una sola di quelle induzioni, cioè lo squilibrio portato nell'arte dall'inflazione dei colori industriali e dal conseguente generale incoraggiamento alla pittura, ci sembra esatta e vale citarla. Interessa soltanto i pittori , è inteso, ma visto che la commedia di Enzo Duse, I nemici dell 'amore, rappresentata a Roma al Teatro di via Sicilia, tratta appunto di un pittore, ci sembra che a questa possiamo ri­ ferire i desiderosi d'approfondire la questione. Tanto più che questo pit­ tore è appunto un "tormentato" in eterne lotte con l'Io e la Coscienza, con l'ambizione di gloria e, forse, la necessità di guadagno. Nicola, così si chiama, vive in provincia, ha scritto libri di poes1a e 25

note estetiche, ha una moglie casalinga che lo ama ma, naturalmente, non lo "comprende" e, come abbiamo accennato, pensa alla Gloria, si strugge di raggiungerla. Noi , di pittori che sognano la Gloria, a dire il vero, per quanto la memoria e il taccuino degli indirizzi ci aiutino, non ne conosciamo. La Gloria, appena quarant'anni fa, si afferrava in un sol giorno, all'apertura del Salon; era la Gloria degli eroi di Bataille e dello sculto­ re Cifariello e apriva all'artista le porte del gran mondo. I critici che la decretavano, messi dentro grandi tight, si affollavano intorno al "capola­ voro" pestandosi i piedi come le comparse nei film di Charlot; e nelle loro note parlavano di " soggetto ben scelto, atteggiamento e rassomi­ glianza ». Ogni tanto scoppiava lo scandalo attorno allo scultore accusato di formare le sue statue sul corpo stesso delle modelle; le quali, da parte loro, assolvevano una funzione ispiratrice e sbrigavano le faccende do­ mestiche. Oggi, invece, la Gloria arriva addosso ai pittori pian pianino senza sorprese e il mondo non ne esulta perché non se ne accorge. Del resto anche gli artisti più entusiasti , giunti all'età della ragione, verso i sette anni, smettono di crederci e cercano di lavorare, se possibile, e dei loro tormenti poco trapela. Segno, forse, che esistono. E circa le modelle ha fatto fortuna quest'aforisma: « Il quadro è finito quando il pittore si ac­ corge che la modella è una donna ''· A muover le acque della vita di Nicola, giunge una ex compagna di scuola, Monica. Costei è uno spirito disilluso ma pieno di vita, a giudi­ care dalle proposte (le quali non osiamo riferire) che fa al nostro pitto­ re. In cambio, per mezzo delle sue conoscenze, lo « lancerà nell'ambiente internazionale» e, da qui, fama, onori e quattrini. Accetta, Nicola? Sì , e come! Da questo spunto un autore, così mal documentato sulle aspirazioni dei pittori d'oggigiorno, non potrà che cavare due conclusioni, l'una che spingerà l'altra. Prima conclusione, che l'Artista vorrà succhiare l'ani­ ma della propria vittima, utilizzandola ai suoi fini superiori , o ritraen­ dola sulla tela o studiando le reazioni del possibile personaggio da ro­ manzo (siamo ancora alla vecchia idea romantica dello spietato analiz­ zatore che prende appunti al capezzale dei familiari moribondi e tra­ sforma la vita che lo circonda in un casellario d'impressioni). La seconda conclusione, logica e "umana", sarà polemicamente con­ traria al Perfetto Egoista e concluderà la commedia. Infatti, Monica, pure se innamorata, si ribellerà al dominatore: " Non voglio più essere tua fonte di lavoro» gli grida in faccia. Questa frase, detta nel Teatro della Confederazione Professionisti e Artisti, potrebbe far pensare a una vertenza si ndacale, nuova ed elegan­ te. Invece la commedia si chiude subito, con l'accennata vittoria dei di­ ritti del l'anima sulle forze dell'ingegno. Monica piangente trova confor26

to sul seno materno, Nicola parte e, in seguito, c'è da scommettere che scriverà un romanzo, o meditazioni sparse, che Bruno da Osimo ornerà di xilografie. Tino Erler era Nicola e Antonella Petrucci Monica. Ambedue gli attori hanno con una persuasiva recitazione reso più persuasivi i difficili personaggi e aiutato il successo della commedia. Appare chiaro, però, che il titolo esatto di questa sarebbe "l nemici della pittura". Perché personaggi simili a Nicola, diciamolo pure, senza arte né parte, portano pregiudizio al buon nome della nostra arte: e Dio sa gli sforzi , le pole­ miche e i ricatti che deve già affrontare ogni giorno. Insomma, pittori come Nicola non ci piacciono. Sono vogliosi , insta­ bili, parlano ancora di « estro », di " racchiudere la luce in una pennella­ ta », accennano alla mancanza di ispirazione, vorrebbero fare il capola­ voro, ma intanto si rodono l'anima e lavorano pochissimo (parola d'ono­ re che nel suo studio non c'era più di un paio di quadri). Consumano invece in supposizioni errate e problemi già risolti un'energia che, im­ piegata normalmente, darebbe loro una posizione invidiabile e la stima personale di S. E. Ojetti. Non ci piacciono perché sono i discendenti di­ retti di Stelio Effrena e gli allievi di Lionello Balestrieri, i nemici natu­ rali di Cézanne e Fattori e, oltre tutto, incontentabili come sono, rendo­ no infelici i familiari, invece di ritrarli. Vivono da esteti, insomma, con i drappi di velluto sulle balaustre delle scale, il pianoforte, la maschera di Beethoven, l'amico che gli dà ragione e i dubbi. Oggi invece i pittori sanno ciò che vogliono e, special­ mente, ognuno sa d'essere più bravo di tutti gli altri, compresi gli amici. Se questa convinzione non fosse diffusa e radicata sarebb e peggio: più che del Tormento la pittura si vale della Certezza. Poco dopo che sulla scena del Teatro di via Sicilia era apparso il pittore Nicola, al Teatro Eliseo compariva Alberto Ghini Doria. Il no­ me di costui parla chiaramente di un dannunziano degenere, d'uno scrittore legato da forti contratti a grandi editori . Un grande letterato sulla scena non si chiamerà mai Vincenzo o Giuseppe, come pure è il caso di grandi letterati reali; ma Giorgio, Alberto e (limitatamente ai drammi di pensiero) persino Sergio. Il nostro Alberto, presentato da Gherardo Gherardi nella sua com­ media Lettere d'amore, è proprio come lo immaginavamo. È giunto al successo, sta per entrare all'Accademia e sposare una miliardaria ameri­ cana. L'unico pensiero che lo turba son certe lettere ch 'egl i scrisse da giovane a una donna. Le chiede, infatti, di ritorno e, rileggendole, si ac­ corge di aver tradito tutti gli ideali giovanili, di essere soltanto un arri­ vista, non un genio. E si pente. Ci spiace che questa conclusione pecchi di ottimismo, ché altrimenti basterebbe distribuire in giro vecchie lettere per vedere pa recchi pentit i .

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Ghini Doria e gli altri personaggi della commedia (tra i quali un poeta e due pittori : che settimana artistica!) sono costruiti con un difetto curioso. Ciò che colpisce nella natura di personaggi simili, e alludiamo anche a Nicola, è un dissidio che spesso l'autore non risolve. E, cioè, che possono intendersi presentati come curiosi documenti della nostra epoca o come normali eroi trascendenti. Nel primo caso stupisce la serietà, il credito che a essi fa l'autore; nel secondo sorprenderebbe il ridicolo in cui eroi rispettabili verrebbero a trovarsi per colpa del loro modo d'esprimersi . Questa considerazione faceva un nostro amico che desidera mantenere l'incognito, esaminando le figure del pittore Dala, di Annapia, del poeta Frateschi e, infine, del­ lo stesso Ghini Doria. E a noi non è restato che consentire. Poiché an­ che in questa commedia si insinua il linguaggio letterario della prece­ dente. Così si parla continuamente di "rinunzie" o di "chiarezza spiri­ tuale" come se fossero bottoni . E anche qui si è voluto afferrare la Glo­ ria da più di un personaggio: e di Gloria si parla spesso con amare con­ clusioni (se Nicola avesse potuto vedere questa commedia forse si sareb­ be comportato diversamente con Monica) . Inoltre i personaggi-pittori adoperano frasi da manualetto di conver­ sazione. (. Poi Benvenuto si dà a fare un bozzetto del Perseo senza curarsi di mettere un'armatura sul trespolo (il che non è uno dei segreti meno sor­ prendenti del grande maestro). Ma forse è preso dall'esempio di Mario Cavaradossi che quando dipinge, nel primo atto della Tosca , tiene gene­ ralmente la tavolozza a rovescio. Infine Benvenuto rivive le pagine dell'autobiografia che trattano la fusione della celebre statua con una furia artistica nella quale entrano, ognuno per conto suo, Murger e Pietro Cossa. Tentativi, come questi , di dar vita alle figure più note dell'arte sono encomiabili e ottengono un giusto successo. Forzano ne avrebbe ottenuto di più se, invece di scegliere Benvenuto Cellini, che è già abbastanza forzaniano di per se stesso, avesse scelto il Beato Angelico o un più calmo artista, un sordo-muto possibilmente. Adesso non ne ricordiamo il nome, ma ci dev'essere. 73 gennaio 7940

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Fascino

Fascino di Keith Winter In un romanzo di Galsworthy un personaggio, interrogato a tavola sul perché del suo silenzio, risponde: • Non vorrei essere troppo perso­ nale, ma ho il mal di testa ,. e torna a sprofondarsi taciturno nel proprio piatto. Questa frase ci è sempre parsa la fascetta da apporre al carattere inglese, il giorno che un editore avesse voluto fame un l ibro. E in questa opinione ci manteneva il luogo comune della flemma anglosassone non­ ché il giudizio di quell'autore francese che a un giovanotto partente per l' Inghilterra consigliava, tra l'altro, come unico mezzo per riuscire ac­ cetto in quella buona società, di starsene sempre zitto. La commedia di Keith Winter, data sere fa all'Eliseo, è stata infatti un colpo duro all'idea corrente della impassibilità dei personaggi i nglesi. I componenti la famiglia Linden sono sembrate persone molto precipito­ se nei loro impulsi e accese e sanguigne come se la prudenza del periodo vittoriano non avesse nemmeno sfiorato il carattere dei loro antenati. A un certo puqto l'attore Cervi, rompendo, in un accesso d'ira, mezza doz­ zina di piatti, ci ha persino ridato il piacere di ricordarci le care ore tra­ scorse in famiglia, fra gente, perbacco, viva e normale. O forse quest'im­ pressione era dovuta al fatto che in Fascino (così si chiama la comme­ dia) i personaggi nei rari momenti in cui non sono a tavola aspettano di mettercisi. Uno dei mezzi per giudicare la bontà di un'opera letteraria è di ap­ purare, con una coscienziosa lettura, l'importanza che l'autore ha riser­ vato ai pasti : questo, naturalmente, è un sistema personale che ha i suoi difetti ma non va disdegnato nei casi difficili. Nelle epoche in cui la vita scorre piana e matura e le idee sono chia­ re, gli autori non scordano mai di dar da mangiare ai loro eroi. I pro­ blemi vengono agitati e approfonditi ma non sino al punto da trascurare i diritti propri dello stomaco. Rabelais e Boccaccio hanno addirittura rimpinzato le loro creature, per non parlare degli antichi poeti. Soltanto col romanticismo i personaggi cominciano a perdere l'appetito. Se con­ sola l'odore di stufato e di pan bianco che emanano i Promessi sposi, ac­ cora d'altra parte il ricordo di madame Bovary che guarda suo marito sorbire la minestra soffiando, e ancor più dispiace il contegno degli eroi della letteratura moderna che mangiano tutti di nascosto. Da Panta­ gruel ai contemporanei la caduta è stata precipitosa, terribile; sarebbe ora di riconoscere che, oggi, muoiono di fame non soltanto gli autori ma anche i protagonisti princi pali. Ulisse e il signor Pickwick invece, guardateli , non saltano nemmeno 35

la più piccola colazione. Va bene che il signor Pickwick può essere con­ siderato un ulisside in pensione, ma come rincuora trovare a distanza di secoli due persone d'accordo in qualcosa. Da questo punto di vista, che forse la critica non vorrà prendere sul serio, Fascino deve esser ritenuta un'opera che si riallaccia alle più pure tradizioni. Sulla scena i personaggi attaccano prosciutto, panini, tè, bur­ ro, marmellata e pasticci freddi con un appetito che consola. E non è da dire che nel frattempo dimentichino il loro dovere e si lascino confonde­ re dalle pure gioie della gola: anzi si può dire che proprio a tavola risol­ vono le loro più delicate questioni, che sono le stesse dell'autore. Nella famiglia Linden accadono cose poco belle. L'affascinante mo­ glie di uno dei componenti fa innamorare di sé i due maschi della casa, suoi cognati; e anch'essa finisce col perdere la testa e dichiarare il suo amore, e proprio a quello che è già ammogliato. Ne deriva una situazio­ ne che sarebbe poco sostenibile se la moglie tradita, per non impedire un amore che ritiene "vero", non morisse in un incendio, e i due amanti non si convincessero che, dopo questo sacrificio, ogni rinuncia sarebbe inutile. L'autore lascia difatti intendere chiaramente che Gino Cervi e Andreina Pagnani fuggiranno per ubbidire ai diritti dell'amore. Pur non tenendo conto che l'incendio entra nella vicenda tirato pei capelli, proprio per giustificare la morte della povera signora Linden (e si potrebbe perciò definire incendio doloso) è chiaro che il dramma si mantiene nei limiti e rifiuta la soluzione più triste appunto perché i personaggi son legati a una visione terrena, solida, delle cose: e questa visione, si dica ciò che si vuole, ci sembra favorita in loro proprio dalle continue pratiche gastronomiche. Dopo aver mangiato, le cose, per definizione popolare, si "vedono" molto meglio ed è quindi senza paura che il pubblico accetta una prima minaccia di tragedia (quando Cervi dichiara, dopo la morte della mo­ glie, di voler anch'egli >) ben sic11ro che pensieri simili non vengono a nessuno dopo colazioni come quelle che il trovaro­ be aveva preparate per gli attori della Compagnia dell'Eliseo. Se tutto si aggiusta in questo caso perché non farne un po' di merito anche al prosciutto cotto e al signor Lipton ? I "quattro atti" , l'autore si è ben guardato dal definirli commedia o dramma, non hanno altre pretese da far valere: né una tesi , né una tro­ vata, né una moralità. Raccontano, con un buon mestiere, un semplice fatto senza arrivare alle altezze del romanzo per la descrizione dei tipi. Non si hanno lunghe tirate o profonde osservazioni né arguti aforismi, ma soltanto uno svolgimento cronistico cauto e discreto. Se una morale l'autore voleva metterei , ci pare d'aver capito che sia quella contenuta in una battuta: > ; cioè una Compagnia civile, benestante, mila­ nese, composta di attori che avevano l'aspetto felice di personaggi in vil­ leggiatura, erano ben pagati e istruiti a memoria nelle parti. Rappre­ sentava commedie per le quali erano soprattutto necessarie scenografie di giardini signorili e atrì di grandi alberghi. Era anche la Compagnia che avesse , allora, il più gran numero di bauli. Quei bauli avrebbero esercitato sul teatro una incommensurabile azione chiarificatrice e antiguittica: all'emulazione che seppero accende­ re nel cuore di tutti i nostri attori dobbiamo oggi buon numero di Com120

pagnie. Se si guarda da questo punto di vista, se contiamo i bauli, il progresso del nostro teatro e l'utilità di N iccodemi appaiono davvero in­ negabili. 24 maggio 194 1

Amabili sale

Siamo fatti così di Nelli e Mangini Il pubblico di Roma si allontana dai vecchi teatri. Sembra persino che voglia prendere alla lettera la battaglia che si combatte per dargli un "nuovo" teatro e, per conto suo, comincia a disa­ bituarsi alle vecchie e gloriose sale di una volta: increscioso equivoco sull'aggettivo. Il Teatro Manzoni, che nella nostra memoria è ancora legato alle prime recite dei fratelli De Filippo, è ora un cinematografo popolare a doppio programma e, quando ci mettiamo piede, melanconiche riflessio­ ni sul tempo che passa subito si rendono per noi inevitabili. Il Quirino regge ancora bene grazie alla sua aria tra floreale e secessionista; l' Ar­ gentina, costruito per il melodramma, "sta largo" alla prosa; il Valle, infine, segna da qualche anno il minimo possibile del successo. Le gran­ di Compagnie di prosa che appena dieci anni fa se lo contendevano, ora ne fanno a meno volentieri, quasi lo escludono. È più che certo che la buona architettura del conte Valadier, rispolverata di recente, i palchetti dorati, "l'ambiente raccolto", non ottengono più un buon effetto ammi­ nistrativo ora che il pubblico s'è abituato alle chiarezze del razionale (a ideali lucidi, templi lucidissimi). Un attore ha voluto spiegarci col soccorso della topografia le cause di questa disfunzione avvertendoci " che il centro è, oggi, alla periferia, dove abita cioè la maggior parte della popolazione e quindi teatri come il Valle si trovano a non essere più "centrali" "· Ecco perché al Valle, piccolo capolavoro del neoclassico romano, og­ gi fanno scalo soltanto le Compagnie di spettacoli gialli e di riviste, quelle che hanno maggiore probabilità di richiamare anche un pubblico normalmente pigro. Succede che invece della Gramatica o di Ruggeri su quel palcoscenico s'incontri più spesso Macario, l'unico attore che abb i a i mezzi per resistervi più di un mese. Sicché al Valle, vera università della prosa, invece di perfezionare la nostra modesta educazione teatrale, ogni tanto ci iniziamo daccapo ai misteri della rivista musicale. L'ultima rivista ospitata nel teatrino della cardinal izia famiglia è 12 1

Siamo fatti così di Nelli e Mangini; rivista allegra, ben dosata, con quel tanto di satira colorata artificialmente che serve oggi a giustificare gli attributi della rivista. In essa, attori cari al pubblico degli avanspettaco­ li, come i fratelli De Rege, la Scarano, Rubens, dimostrano come al soli­ to, filosoficamente, che il nostro è il migliore dei mondi possibili. È forse in questa perfetta aderenza al gusto del suo tempo, in quel correre avanti allegramente, che bisogna ricercare i pregi degli spettacoli musicali del genere ? Se così è, di questi pregi bisognerebbe tener conto se non altro per riportare al teatro parte di quell'enorme pubblico di­ strattogli dal cinematografo. Le "riviste" dovrebbero, in poche parole, servire da esca per riabi­ tuare il pubblico a quelle esigenze d'orario così leggermente abolite dalla macchina da proiezione, sempre pronta e istancabile a macinare sogni. Per riabituarlo soprattutto allo spettacolo inteso come premio non come vizio o distratta alimentazione quotidiana. Niente è più incomprensibile, per noi, delle code pomeridiane davanti ai cinematografi in attesa che i botteghini si aprano. Dio ci guardi dalla facile moralità: è piuttosto la mancanza di fanta­ sia di quel pubblico che ci preoccupa. Questa mancanza di fantasia, o il bisogno di nutrire a freddo la poca che si ha, non è una chiara allegoria difatti ben più gravi che succedono? Eccoci alla conclusione di dover incoraggiare, magari in vista di un risultato indiretto, le riviste: sono più necessarie di quanto normalmente si creda. Se non altro, necessarie a conservarci dal cinema sale amabili, veri monumenti civili, come, appunto, il Teatro Valle. 14 giugno 194 1

Intermezzi Nessuno, volendo parafrasare Balzac con una Fisiologia del Teatro, si è ancora chiesto perché il pubblico vada agli spettacoli. Molte doman­ de sono destinate a ricevere una risposta ovvia: circa il pubblico che va a teatro si è comunemente stabilito che ci va per divenirsi. Le ragioni, in­ " vece, sono almeno tante quante le lettere dell'alfabeto e, se vogliamo fer­ marci alla prima, ecco farsi avanti l'Abitudine. Non è questo il peggiore dei mali che affliggono il pubblico a sua in­ saputa ? All'Abitudine dobbiamo purtroppo certo gusto spicciolo, l'affer­ marsi delle mode !abili e, alla lunga, il disinteresse per ogni cosa che ri­ guardi da vicino il palcoscenico. Infatti, quando si è presa l'abitudine di andare a teatro, poco importa quello che vi succede e come vi succede, anzi a molti importa soltanto il contrario. I più convinti applausi , lo 122

scorso anno, ci toccò sentirli alla novità di un dilettante: mai come allora il pubblico abitudinario - quello delle "prime" - scoprì tanto il giuo­ co che preferisce; mai si videro tante facce allegre e occhi lustri. Il di­ vertimento procurato dalla puerile "novità" era finalmente genuino; e, invece di reagire rompendo le poltrone, ognuno applaudiva, facendo di tutto per far capire ai vicini di aver trovato un divertimento a rovescio. Francamente da preferire l'ingenuità dell'autore e la chiara buona fede. La mancata indignazione del pubblico, che si ripete del resto a ogni stentata prima rappresentazione, vien tenuta per un segno di civismo o di gusto. Di nessuna cosa è tanto prodigo il nostro pubblico quanto di consensi. Ma è forse in questa innaturale disposizione che va cercata una causa della crisi teatrale? Sì: a distanza di anni, si vede chiaramen­ te che l'aver tolto al pubblico il diritto di fischiare ha fatto più danno al Teatro di quel che gli avrebbe fatto la proibizione degli applausi. Una rivista teatrale avvisa i suoi lettori che, date le numerose richie­ ste, ha ristampate alcune commedie già pubblicate. Questa rivista ha, per la verità, nel suo elenco le migliori commedie degli ultimi vent'anni: ma ciò non toglie che la piccola lista delle sue commedie ristampate sol­ levi i veli al cosiddetto gusto del pubblico e induca a sconsolate conside­ raziOni. I nomi di quegli autori non interessano quanto i titoli delle loro commedie: titoli che non possono nascondere, anzi non cercano di na­ scondere affatto, quella certa volgarità nebulosa, che un tempo era ap­ pannaggio della letteratura d'armistizio. Nelle commedie che si fregiano di titoli simili si mandano generalmente mazzi di fiori per sbaglio, op­ pure una signora si accorge di aver tradito suo marito con lo stesso ma­ rito, o un signore di aver sposato sua moglie. Sono queste le commedie eleganti , che si svolgono in appartamenti con doppi servizi. I personaggi telefonano, commettono errori iniziali che provocano gli atti seguenti , passano il tempo a parlare d'amore e a trasferirsi da una scena all'altra in automobile. Brave persone, in fondo, che sembrano chiamarsi dispe­ ratamente tra di loro, costrette come sono a vivere in diverse commedie. Sempre abbiamo resistito al desiderio di scrivere una commedia per loro, la Commedia Definitiva. Scriveremmo la commedia delle comme­ die. Cento personaggi parlerebbe ro d'evasione, altri cento telefonerebbe­ ro, altri mille, con le loro sbadataggini, animerebbe ro la trama. La più intelligente delle nostre battute sarebb e : La colazione è pronta " oppure: No, il signor marchese non ha telefonato " oppure: Questo vestito vi sta a meraviglia eccetera. Le battute di spirito, gli aforismi sulla donna, l'amore, l'amicizia e il matrimonio li avremmo tutti, comprando un etto di cioccolatini. Il successo sarebbe senza prece•





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denti , attori e pubblico ci benedirebbero, il Cinema ci toglierebbe subito al Teatro e vivremmo tutto il resto della nostra vita senza far niente, il che francamente sarebbe giusto. 5 luglio 794 7

Baci perduti In queste settimane di sosta estiva non si va a teatro ed è più facile, quindi, pensare poco seriamente al Teatro. Confesso che se penso alle commedie viste nei mesi passati un solo ricordo di esse mi ritorna im­ provviso: il ricordo di tutte le porte viste sui palcoscenici. Sappia il letto­ re che la bontà, la ricchezza, la responsabilità di una Compagnia dram­ matica, come di una banca o di un istituto, si misurano dalle porte. E ci sono quindi porte e porte, ingenue e rispettabili, sovvenzionate e sul punto di sciogliersi. Per la verità bisogna dire che le antiche porte di carta sono ora qua­ si tutte sostituite da porte di finta noce massiccia che si aprono maesto­ samente (pesando sul cuore dello spettatore) e, se vengon chiuse, man­ dano allora un soffio dignitoso e grave. Sono soffi che talvolta garanti­ scono persino la bontà della commedia. Le porte lucide dicono chiaramente che molto teatro d'oggi (al con­ trario di ciò che si pensa) osserva la vita e la copia con diligenza e pro­ fitto. Beninteso per dare al pubblico la dolce impressione di non essersi allontanato da casa, di stare nel suo mondo preferito, di vivere ancora tra gli agi del conforto moderno. Quelle porte presuppongono quasi sempre termosifone, ghiacciaia, radio, ascensore e grossi stipendi lì, a portata di mano. Troppo attesi sono stati i regali della scienza applicata all'umanità perché il pubblico possa ora rinunciarvi anche per quei pochi istanti che va a teatro. Per un buon "interno di appartamento" oggi diamo volen­ tieri le scene boscherecce, la sala del trono, le piazze di Atene, i giardini italiani, i colonnati del Foro. Anzi, ci si facciano vedere mobili "distin­ ti", ci si diano idee sulla tappezzeria o sul modo di conciare la camerie­ ra e la "stanza di soggiorno". La società va a teatro per imparare, e da ciò la fortuna delle commedie che trattano la vita moderna e si adorna­ no di lucide porte: con le quali commedie, però, se non ci guadagna la ietteratura teatrale, ci guadagna sempre l'evoluzione dell'arredamento. Qualche volta due attori, per esigenze drammatiche, debbono baciar­ si sul palcoscenico. Si nota, in questi casi, che l'attore poggia le labbra unite sul mento della compagna, sta fermo un istante senza respirare e 724

poi, come se si fosse tuffato malvolentieri, ritorna a galla, finalmente salvo. Infatti, è salvo: guardatelo come si terge le labbra col fazzoletto, distintamente! Mettiamo il caso che in teatro vi siano degli adolescenti: che idea si faranno coloro di certe necessità, alla vista di quei baci neoclassici (amputati) e di quelle labbra cucite dalla deferenza ? Potranno conten­ tarsi del fatto che il bacio teatrale dev'essere simbolico, suggeritore e non veristico, come il bacio cinematografico ? Forse, ma allora andranno più volentieri al cinema. Il cinema, sotto questo aspetto, riesce però a infastidire per eccesso contrario. (Beninteso, il buon cinema: perché il cattivo cinema lascia in­ differenti, sempre.) La bontà del cinema americano, il favore raggiunto presso il pubblico, si potrebbero misurare dalle reazioni che determina­ vano le sue scene di baci. Gli urli che nelle sale rionali accompagnavano le effusioni di Joan Crawford (dispiace far nomi) fecero la fama di quell'attrice. Invece quando il pubblico accetta senza protestare state pur sicuri che è stato mal convinto. Il cinema italiano, sotto quest'aspetto, è il cinema dei baci perduti. Mai ancestrali gelosie ci rosero le viscere vedendo attori e attrici nostra­ ni darsi quegli sterili baci di gomma che prediligono. Come colpì giusto quella santa donna che al suo bambino curioso di sapere se i due "divi" stessero baciandosi, rispose: « No, si soffiano in bocca per scherzare ». Quasi a ogni novità c'è il signore che dorme. Spesso l'invidio, perché forse sta sognando ed è quindi il solo che in quel momento si trovi in un teatro e veda qualcosa di insolito. Purtroppo gli applausi lo svegliano e per cortesia applaude anche lui. Oh signore, vi prego, ricambiate la cor­ tesia, raccontatemi per scritto i vostri veri spettacoli. 72 /uglio 794 7

Rosso e nero

Rosso e nero di Giovanni Marcellini (da Stendhal) Arrivati a una certa età, benché si aggravi in ognuno il pericolo di cedere alla tentazione di scriverne, non si leggono più nuovi romanzi . Si rileggono al massimo quelli conosciuti , ma senza l'antico calore: piutto­ sto per cercarvi nuove idee, schiarire tra le righe il processo della crea­ zione o coordinare quei piccoli fatti o quelle osservazioni che soltanto possono dare la concl usiva visione dell'opera e giustificarne la necessità narrativa e morale. Quest'avventure il lettore le affronta d' istinto, e 125

spesso ci succede volentieri di saltellare tra le pagine di certi libri infini­ tamente letti, in cerca di qualcosa che supponiamo doverci ancora esse­ re. È tutto qui il piacere della lettura che diventa ginnastica o escursio­ nismo e rinforza i muscoli delle idee, se le idee hanno muscoli; e pertan­ to il destino dei libri troppo chiari è quello di essere quasi inevitabil­ mente noiosi e indecifrabili. Ovverossia: un'opera ha valore se possiede larghi margini per le letture successive e se, a ogni attento lettore, può dare la sensazione di averne capito un certo suo aspetto particolare in "quella" maniera. Dei Promessi sposi, per esempio, sempre ricerchiamo le brevi osservazioni dell'Anonimo, di buon animo lasciando Renzo, Lu­ cia e la peste alle riduzioni cinematografiche. Che importa il fatto di due giovani che tardano a sposarsi per gli intrighi di un signorotto ? Che importa se una signora russa, esaurite le sue esperienze, si getta sotto le ruote di una locomotiva e se una signora francese, per scontare le sue provinciali pazzie, ingoia più arsenico del necessario ? Di queste storie ciò che interessa è il segreto macchinario messo in moto dagli autori, l'animo con cui sono affrontate e investigate: il resto ritorna polvere. Perciò le riduzioni teatrali dei "capolavori " sono superflue, essendo destinate a togliere ai capolavori stessi proprio quel tanto che li giustifi­ ca e spinge i loro autori a gettarsi nella mischia del fatto di cronaca. Due strade rimarrebbero al riduttore: ridurre dai fatti minuti, dalle didascalie, dalle brevi osservazioni e fare tanti atti che siano altrettante vedute al microscopio di altrettanti particolari decisivi di un'opera; op­ pure completare in opera drammatica un cattivo romanzo, aggiungen­ dovi ciò che il cattivo autore non poté dargli , cioè i margini necessari al lettore per le sue ricerche. Nel primo caso occorre intelligenza, nel se­ condo genio. Ora non si può credere che tutti i riduttori siano sforniti tanto dell'uno che dell'altra; ma resta quasi convenuto che sempre im­ boccano la terza strada, quella che poi ci porta davanti a un Manzoni, un Tolstoj, un Flaubert che non vogliamo conoscere e che anzi aborria­ mo, per la loro improvvisa somiglianza con George Ohnet. Siccome son sempre il cinema e il teatro a chiedere e a usare ridu­ zioni di romanzi, bisogna credere che il pubblico di questi spettacoli , co­ me i piccoli lettori di Salgari, non ama le "descrizioni". E pertanto s'immagina l'amarezza del riduttore che deve saltarle di piè pari, e co­ me il suo dolore sia reso più acuto dalla competenza nell'argomento. S'immaginano, questa settimana, le amarezze di Giovanni Marcelli­ ni che ha ridato (dopo il successo invernale al Teatro delle Arti) una ri­ presa estiva del suo Rosso e nero, tratto dal romanzo di Stendhal e ri­ dotto in nove quadri , un prologo e un epilogo. S'immagina, cioè, quanto gli sarà dispiaciuto volgarizzare il suo vero Stendhal, quello ch'egli stu­ dia da anni e che si nasconde nelle sottolineature, nelle brevi osservazio726

ni, nei colpetti d'approvazione che dà ai suoi personaggi prima di !a­ sciarli all'intelligenza del lettore. Stendhal, più d'ogni altro gran scrittore, sfuma amabilmente se toc­ cato: una recente versione cinematografica di Van ina Vanini ha dato la dolorosa riprova che il milanese onorario esiste soltanto se esiste il buon lettore. Perché, infatti , tolto dalle pagine del suo romanzo Julien Sorel diventa un melanconico " giovane povero e ambizioso ,. e perde le sue virtù prospetti che ? Un nostro conoscente, poi impazzito (ma ciò poco conta) non tollera­ va che la sua cameriera spolverasse il suo scrittoio: temeva che il piumi­ no, passando sui fogli già scritti ne scompigliasse la punteggiatura. Ecco un apologo da regalare volen tieri a Marcellini. Detto questo, bisogna aggiungere che la riduzione da Il rosso e il ne­ ro è davvero ottima: se, per principio, ogni riduzione dispiace, nel caso particolare di Marcellini il rispetto con cui ha saputo affrontare la sua fatica e il gusto teatrale che è riuscito a darle sono evidentissimi. I nove quadri, il prologo e l'epilogo raccontano pertanto, con gusto di scorci e molto sapore dramm a tico, la storia che i lettori conoscono. Gli attori, specie Diana Torrieri, Adolfo Geri, il Martini e Lina Volonghi, hanno recitato con molta convinzione e il pubblico con altret­ tanta convinzione ha applaudito. Convintissimo i.noltre era il trovarobe (o "apparatore") che decorò la stanza di Julien con una Madonna del Morelli, il che fa pensare che l'illustre pittore napoletano a soli quat­ tr'anni dipingesse molto bene. 26 luglio 794 7

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capricci alessandrini

Quello che faremo può sembrare a prima vista un accostamento cu­ rioso: poco hanno in comune tra di loro Antonio Mancini e Sarah Bem­ hardt. Pure, specie per chi non ha conosciuto né l'uno né l'altra, ed è il caso di chi scrive, e quindi non cede ai tranelli affettivi, ecco un accosta­ mento che si giustifica e che forse un giorno avremmo dovuto inventare se un piccolo quadro della raccolta Gigli non dicesse che in realtà è av­ venuto. Verso il '73, Mancini andò a Parigi , conobbe Sarah, le fece un ritratto. Un bel ritratto, come si può vedere; ma non piacque e s'indovi­ na il perché. È necessario prima di tutto fissare gli umori paral leli del pittore na­ poletano e della tragicienne: ambedue ci appaiono, ogg i , troppo trasci­ nati da quei disordinati fiumi che allagavano più di un campicello e che nell'Ottocento si denominavano Sensibi lità, Desiderio di Gloria e Prepo127

tente Ispirazione. Ambedue possedevano « il gusto del cattivo gusto ,., una pericolosa trasandatezza d'idee e nessuna valvola per controllare gli scoppi dell'ingegno. Antonio, gran pittore, "colorista", come si diceva un tempo, in realtà perdeva la pittura come un serbatoio forato e il suo cammino ci sembra segnato da un glorioso filo di bava Lefranc. Dove non arrivava, tirava il pennello: spesso vi era costretto, non arrivando a capire alcune cose essenziali, quali, per esempio, la differenza che corre tra i giuochi d'illusionismo e la pittura. Com'è noto, si serviva di tutto per ottener tutto. Anticipò anche certe pratiche dei cubisti, ma con enor­ me ingenuità, incastrando pezzi di vetro, stoffa, pietre, piume e gusci d'uovo nelle sue composizioni. Ingenuamente, ripetiamo: perché così fa­ cendo credeva di aumentare la Pittura (di aprirle strade nuove e sedu­ centi), non di rinnovarla, ossia di liberarla dalle sovrastrutture a favore di un'idea generale. Mancini era troppo entusiasta per tanto "distinguere . Sarah agiva egualmente, anch'essa affascinata da tutto il luccicore teatrale del X I X secolo; né deve meravigliare se per circa sessant'anni rubò tutte le parti false alla letteratura drammatica e le tenne carissime quasi fossero vere. A furia di riservarsi ogni nuova invenzione e di met­ tere sullo stesso piano Tosca, Fedra, Giannettaccio, Clitennestra, l'Ai­ glon, Medea e Pierrot, divenne un enorme monologo di cattivi versi alessandrini, un capriccio. Anch'essa giurava sui gioielli di vetro e di stagnola, sulle stoffe e le piume per aumentare il valore delle sue com­ posizioni; e, a questo proposito, ci si perdoni la leggerezza passeggera, scrisse un libro di memorie intitolato Ma double vie e mai si accorse che avrebbe potuto intitolarlo Ma vie doublée. Sarah amava farsi ritrarre e peraltro non resta di lei una sola im­ magine (eccetto quella che porta la firma di Nadar, 1 859) che non sia un'esuberante illustrazione dei suoi ideali sbagliati. Ovunque gli ottoni e le conterie corrono a torrenti sul suo venerabile seno, misti a stoffe ara­ bescate, a paludamenti medievali: dentro l'imballaggio delle vesti il suo corpo palpita d' Ispirazione repressa. Spesso il suo viso, che cambia con­ tinuamente, e i suoi occhi , che non danno mai la versione giusta, si con­ fondono tra l'arazzo dei disegni e i diademi imponenti: nell'orpello la vita le sorrideva completamente. Circa i suoi ritratti: in quello di Bastien Lapage appare soffocata di trine e di intenzioni, come un colpevole levriero eretto sulle zampe po­ steriori. Le Gandara e Lairin ne fecero una gran dama; ma troppo gran dama, com'era regola allora. Lo strascico viene avanti nei due quadri, gira, ribolle e sembra voler uscire dalla cornice. Su in alto, ma per un pelo non lo dimenticavano, il viso aristocratico s'affaccia prima di co­ mi nciare la sua ascensione verso i cieli dell'Arte. Chartran la coprì di gigli e di bizantine tappezzerie. Insomma tutti la videro come essa stessa "

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volle farsi vedere, mai vera, sempre preoccupata di meravigliare, attrice dalla testa ai piedi, inventrice dell'emicrania, abbagliante nel fasto assi­ ro-babilonese delle sue "creazioni" e dominatrice di un mondo che l'adora. Quando recita, secondo Rostand, le labbra di Shakespeare scen­ dono a sfiorarle i gioielli delle dita in segno di devozione e di ricono­ scenza. Un'altra fotografia del 1 872 ce la mostra adagiata nella sua bara di legno rosa capitonné de sa t in blanc, finta mo;ta. Era una finzione di moda quella di non temere la morte e di prepararsi innanzi tempo gli accessori. Vicino, ha il teschio regalatole da Victor Hugo, e su cui il poeta aveva scritto dei versi: . . . Cage désert qu 'as-tu fai t / de ton bel vi­ seau qui chantait . . . In tutta la sua vita non disse che una frase degna di attenzione e cioè che « bisogna odiare poco altrimenti ci si stanca " e an­ che questa è una posa. Sarah era pubblicitaria, montò in aerostato, scrisse "impressioni", si fece costruire uno studio per scolpire e dipingere e q uando scoppiò lite tra lei e la Comédie disse che avrebbe guadagnata la vita lavorando quadri e statue. Figuriamoci se non ebbe qualcosa da dire allorché Mancini la ritrasse. Mancini arrivò a Parigi e conobbe Manet, intendo la pittura di Ma­ net: cosa poté importargli, dopo, di Sarah, che, nel suo camerino langui­ damente e astutamente gli posò dinanzi, la testa girata sulla spalla e gli occhi voltati per conto loro a osservare le pein tre napolitain ? Era quella l'epoca dei ''bozzetti": l'artista faceva il bozzetto e poi lo realizzava in grande lagnandosi che il quadro perdesse in efficacia. Era anche l'epoca delle scatole di sigaro: tutti dipingevano sui coperchi delle scatole di sigaro, dopo aver fumati i sigari. Fattori e i macchiaioli diffu­ sero la moda che anche Mancini avrebbe seguita. Su un coperchio di una scatola d'avana abbozzò leggermente Sarah , ma finalmente, dal­ l' esterno: la vide com'era, e così la lasciò sul legno: e il restante tempo dedicò a ritrarre il fondo, il giuoco degli specchi, le cineserie della loge. · Con una rara minuzia, a pennello asciutto, dipinse la parte superiore del quadro, e Manet gli teneva la mano. Non degnò Sarah di più atten­ zione del necessario e l'attrice dovette capirlo. Per finire questa storia, l'istrionismo di Mancini si moderò con l'età, fino a quasi scomparire. Vecchio, Mancini, seppe appassionarsi ai grigi e temperare la sua ispirazione in quadri castissimi. Sarah, invece, peg­ giorò e pretese altri allori di pezza e cattivi alessandri ni. All 'atto di con­ trizione del pittore oppose il cattivo gusto di recitare, ormai cadente e con una gamba di legno. • C'est elle . . . ,. disse una volta Forai n sentendo battere dietro il proscenio i tre col pi che annunziavano l'i nizio dello spettacolo. Sarah recitò sino alla fi ne ridotta ormai una maschera di bi129

stro e di rossetto. Recitò La gioire di Rostand e si ebbe, dopo, la gloria "aneddotica" degli attori. La gloria di Antonio Mancini più modesta, è ancora controllabile: il che dimostra che il nostro accostamento non esiste, perché abbiamo vo­ luto, al solito, sommare pere e susine. 2 agosto 794 7

L'ultima pietra Le cocu magn ifique di Fernand Crommelynck Questa settimana la Compagnia del Teatro delle Arti , che agisce all'Eliseo, ha tirato giù dagli scaffali Le cocu magnifique, ossia l'ultima delle commedie che ci saremmo aspettati di veder rappresentare. Sem­ bra che un tal coraggio abbia finito col rendere servizi a tutti : alla Com­ pagnia stessa, cimentatasi in un difficile lavoro; all'autore, uscito intatto da una "ripresa" decisa a tanti anni di distanza; in fine a noi che, causa la tenera età, avevamo deplorevolmente mancata la prima versione ita­ liana, data da Picasso intorno al '24. Resta una buona commedia, questa di Crommelynck ? A nostro giu­ dizio, sì: resta, anzi, una di quelle bombole di ossigeno che possono con­ fortare dalle esalazioni del teatro abitudinario; una bella scampagnata o, come vogliono i puristi dell'Accademia, un bel picnic teatrale. L'ultima pietra messa sull'edificio del cocu è proprio questa che Crommelynck posò, una ventina d'anni or sono, sulla fronte del suo in­ dimenticabile Bruno. Se non ad altro la ripresa sarà servita a dimostra­ re che costui rimane ancor oggi il più lirico, trascendente e patetico cor­ nuto che ci sarà mai dato conoscere; il più fragoroso e insistente, il vero bolero dei traditi : perché quando (in un personaggio) le corna raggiun­ gono tanta altezza fisica e metafisica, subito diventano degne della mas­ sima attenzione. Elargiscono, con la loro mostruosa presenza, un frater­ no insegnamento all'umanità. Il poeta, del resto, riesce a nobilitarle col suo canto, a trascinarsele dietro, ammansite: e, quando, come corone d'alloro, le poserà sul capo dell'Eletto, si potrà perfino credere che voglia farlo per tenergli lontana l'invidia, tanto esse appariranno dimostrative e araldiche. « Come solen­ ne, nella notte fresca, l'ombra delle tue corna è gigantesca , canta a se stesso Bruno nella romanza del terzo atto. Rispettiamo Bruno: è un personaggio che il teatro contemporaneo non onorerà mai abbastanza. Se ogni epoca teatrale ha i suoi infelici mariti, bisogna ammettere che, con Bruno, a noi c'è toccato il migliore. 730

Difatti, tragici mariti volle il Cinquecento inglese; inesorabili il Seicento spagnolo; ridicoli il Settecento francese; "legali" l'Ottocento europeo dei drammi a tesi, quando gli autori si preoccupavano di stabilire col codice alla mano se i loro "traditi" avessero o no diritto a uccidere le loro "infedeli". Per noi, invece, etto arrivare Bruno, il Magnifico: la reazio­ ne poetica al teatro verista doveva darci con costui il primo marito libero e disinteressato, il primo che avrebbe inventata e trattata la propria di­ sgrazia rigorosamente, e sollevate a fatto lirico le contingenze della sua cronaca. Con Bruno succede nella psicologia drammatica ciò che era successo nella critica delle arti figurative che, prima della reazione all'accademia, davanti a un'opera parlava di " soggetto ben scelto ,., " muscolatura ben studiata ,., " panneggio ben reso ,., e, dopo, discusse di "' convinzione ,., " intimità di toni .. , « rapporti ,.: si spostò l'interesse dai fenomeni esterio­ ri a più complessi fenomeni interni. Apparso Bruno i cornuti del teatro classico e romantico, ahiloro!, dovettero nascondersi. Anche l'ultimo " marito ,. (geloso in nome di un moralismo polemico), il marito de La sonata a Kreutzer, perse autorità al sopraggiungere del nuovo cornuto ideologico e sofista che poteva insegnargli a riscattare il ridicolo della propria disgrazia, favorendola oltre ogni limite. Le cocu magnifique predicò la nutrizione della propria gelosia e la sua elevazione a sistema: perciò, dinanzi a Bruno, Otello fece la figura di un noioso caprone; Dandin, di uno sciocco; i "tesisti", di fastidiosi spioncelli. Bruno soltanto, di tutta una schiera, sarebbe restato a soste­ nere le ragioni eterne dell'Arte per l'Arte. E per questo fatto il suo viri­ le travaglio ancora oggi merita rispetto e ammirazione. La commedia di Crommelynck, al suo apparire, fu riallacciata a in­ tenzioni pirandelliane. " Cos'è la verità ? E soprattutto, dov'è ? "• avrebbe dovuto chiedersi Bruno sulla falsariga di tanti dubbiosi che contempora­ neamente a lui affollavano i palcoscenici: (Bruno, difatti, senza peraltro venire a capo di nulla, per conoscere la verità sui sentimenti della pro­ pria moglie permette, anzi vuole, che tutti i maschi del villaggio la fre­ quentino). Oggi si vede che q uelle indicazioni erano, se non errate, troppo sug­ gerite dalla moda. In Crommelynck c'è meno Pirandello che ricordo della buona pittura fiamminga: ossia c'è più gusto per il paradosso por­ tato agli estremi confini letterari che tendenza a una raffi natezza filoso­ fica post-inflazione. Stella e Bruno sono ri ntracciabili in quelle kermesse innocenti e pornografiche dipinte secoli addietro da altri acuti Crom­ melynck. Stella e i suoi tradimenti senza col pa sono già in Brueghel e in Rubens e così Bruno, che si può, volendo, riconoscere anche in un sonet­ to baudelariano sui fiamminghi, tra quei tali che il poeta afferma d'aver 13 1

visti rongés d'un bizarre tourment / aboyer à la lune, assis sur leur der­ rière. È evidente che la bontà della commedia di Crommelynck, la sua ca­ pacità a resistere, va ricercata nelle sue ottime radici nazionali, nelle burlesche ispirazioni dei grandi fiamminghi. Ché s'è visto, al contrario, la fine fatta dai pirandelliani per convenienza. La ripresa del Teatro Eliseo è parsa abbastanza curata e fusa. Gli attori han tentato felicemente di spiegare al popolo tanto insoliti perso­ naggi e quel loro curioso modo di stare con un piede sul XVI secolo e un altro sul XX, senza rimanere squartati. Pertanto alla buona regia di Guglielmo Morandi ha corrisposto la buona interpretazione di Adolfo Geri e di .Diana Torrieri. 9 agosto 794 7

La scena povera Uno dei difetti che il Teatro ha ripreso frequentando il Cinemato­ grafo è l'ideale di una scenografia ricca e veristicamente costruita, che le sue deboli forze non possono mai permettersi a causa dei suoi fini, di­ versi da quelli del suo avversario. Vorremmo accennare ai risultati dei teatri d'opera, a quel che sono riusciti a fare certi tecnici: alle tempeste verosimili, alle nubi proiettate sulle cupole Fortuny, alle onde mosse elettricamente nel prim'atto dell'Otello: ma poco ci competono le follie melodrammatiche. L'ultima volta che salimmo sul loggione del Reale (quando ancora si chiamava Costanzi, e i posti costavano due lire) ci colpì il fatto che il panorama di Roma nell'ultim'atto della Tosca avesse una macchia d'umido, macchia che nelle successive edizioni di que­ st'opera, ci dicono, non si è più vista. Non credo che il vecchio professo­ re di scenografia che dipinse quel fondale fosse tanto illuminato da di­ pingervi anche la macchia d'umido, ma così mi piacerebbe che fosse, vi­ sto che una sola macchia può spesso frenare l'immaginazione del pub­ blico, facendogli subito capire che non è la vita, quella, ma una fantasio­ sa imitazione: poiché il compito dello scenografo non sarebbe tanto di copiare letteralmente la natura quanto di accennarla. Per esempio, nei palcoscenici cinesi il mare è rappresentato da un venerando vecchio che ostenta un pesce di carta: mentre in un teatro europeo, che non nomi­ niamo, occorrendo una simile indicazione, gli spruzzi d'acqua (e salata, per lo più) arrivano ai palchi di proscenio. Il realismo mette dei tragici limiti a ogni finzione; e, per conto pro­ prio, non raggiunge mai i suoi limiti. N ella scena quotidiana siamo arrivati a vere e proprie gare con gli 732

arredatori; e la necessità di certi nostri precedenti accenni a tutte le por­ te lucide che si vedono sui palcoscenici nelle scene di vita moderna trova un'insospettata conferma in un recente dramma di Cocteau: il quale, nelle didascalie, avverte il mettinscena che le porte debbono essere co­ struite " assez solidem ent pour qu ' elles puissent claquer "· Chi ci assicu­ ra che questo bel sogno non incoraggerà altre concezioni fotografiche di infissi e che non riavremo presto quei personaggi ineducati, rissosi (''a tesi" o "naturalisti") che sbatteranno certe porte tanto familiari con più violenza del necessario, riportando, naturalmente, con sé, sui palcosceni­ ci , i conflitti sociali, venerei, igienici e le altre piccole verità d'un tempo? Dovrebbe bastare il cattivo esempio di Antoine, che accese fuoco vero nei caminetti e fece montare serbatoi a perfetta tenuta d'acqua per le la­ vandaie di Zola e, una volta, per completare la scena di una macelleria, vi aggiunse veri quarti di bue, per impensierire: fu, infatti, quella l'epo­ ca in cui gli attori impararono a sputare e a morire con enorme eviden­ za, senza pudore, e fu anche l'epoca in cui, lasciato da parte lo spirito, il linguaggio degli autori divenne quello piatto e duro dell'esistenza, reto­ rico a rovescio. Fu allora che la lirica concezione teatrale dei classici e dei romantici scomparve in omaggio alla cosiddetta "quarta parete" e la più alta am­ bizione di molti drammaturghi divenne quella di poter dare allo spetta­ tore l'illusione di trovarsi in ascolto dietro la toppa di una serratura. Andare a teatro era un proseguire la lettura del giornale, che concede le emozioni delle notizie piccanti, dei fatti in tre righe e della cronaca ne­ ra. Il teatro, insomma, era snello quando erano le parole ad avere im­ portanza e successe il contrario quando la scena prese a copiare la vita, con sconsolante precisione. Perciò le nostre simpatie vanno per la scena "povera", che si limita a suggerire soltanto una parte della visione ri­ chiesta dagli avvenimenti, e a dare così un buon esempio da seguire ai giovani autori. Ma non si scambi la povertà con la castità, o saremmo daccapo. Lo sforzo del teatro moderno è, in definitiva, tutto diretto contro l' Inutile Puntualismo. Ed ecco perché ci piacerebbe rivedere qualche fondale macchiato d'umido, qualche segno, cioè, che la cacciata degli ar­ chitetti superflui dalla scena sarebbe possibile, oggi che il "verismo", bandito dai testi, minaccia di rientrare sul palcoscenico in veste di trova­ robe e di macchinista. 76 agosto 794 1

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Arie di Capri Il caso della signorina Springfield di Edwin Cerio Tanto amiamo le scene da credere che sia prudente ogni tanto un volontario allontanamento da esse; sicché, per noi , uno degli aspetti più cari di Capri è la mancanza che vi si nota di teatri, che non siano "naturali", beninteso. In quest'isola le manifestazioni estive hanno sem­ pre favorevolmente scarseggiato. E, se non si tiene conto di certi spetta­ coli di danze all'aperto, spettacoli in cui arte e natura si son stretta la mano per far contento il turismo, di teatro a Capri non si è mai seria­ mente parlato sino a poche sere fa. Nei giorni 8, 9, 1 0, nella sala dell'albergo Quisisana, ecco all'improvviso tre recite "promosse" dal Centro Studi Caprense. Biglietto d'invito alla mano, per arrivare alla sala degli spettacoli si costeggia la sala da pranzo dell'albergo, si ammirano silenziose persona­ lità curve sui loro piatti e ci si trova, alla fine, tra le braccia della Com­ pagnia del Teatro delle Arti. Questa Compagnia ha il deplorevole dono dell'ubiquità: )asciatala a Roma la ritroviamo a Capri dopo quarantott'ore, sul piazzale della fu­ nicolare, in fila indiana. È una Compagnia celere, armata di scenari che si schiacciano come un gibus e possono essere portati comodamente in tasca dal direttore di scena, Bonamano. Questa Compagnia, tanto abi­ tuata a destreggiarsi su palcoscenici larghi come un fazzoletto della spe­ sa, subito si è sentita a suo agio sul palcoscenico del Quisisana, che a prima vista fa pensare a un grosso caminetto, e ha sparato le tre recite sottogamba, con la consueta abilità. Delle tre commedie rappresentate, l'unica che non conoscevamo, Il caso della signorina Springfield, è opera di Edwin Cerio, cioè di un au­ tore che conosce Capri sopra e sotto e da anni ne è l'illustratore laurea­ to. Poiché l'azione di questa commedia si svolge sull'isola e per di più ai giorni nostri, era logico che alla sua recita vi accorresse quel particolare pubblico che soltanto Capri è capace di fornire, tutto vestito di tela e con scarpe di corda, come un ordine filosofico di allegri penitenti. Naturalmente il teatro a Capri è di casa. Dell'isola, ciò che colpisce subito è appunto la sua grande teatralità, la sua maniera di prestarsi all'immaginazione come fondale a tutte le vicende del teatro classico e romantico. Sotto questo aspetto, Capri è uno scenario in cerca di perso­ naggi, ma quali personaggi si azzarderanno a farvi scalo, che non siano già sicuri di essere sopraffatti dalla messinscena ? Impressione simile, ma contraria, la dà Venezia, dove non la scenografia, ma la ''battuta", l'imbroglio stesso, sono in aria a disposizione del signor Goldoni. Capri è piuttosto per il teatro muto, perfetto, che si esprime attraverso dida134

scalie: per intenderei , la scena è bella (perché Capri non è così brutta come i pittori la dipingono) ma tende a sommergere l'autore. Ciò si vede comunemente dimostrato da quei poeti, scrittori e artisti che guardano l'isola per chiederle "ispirazione" e riescono, nella mag­ gior parte dei casi , a rendere di essa soltanto la prepotenza convenziona­ le, il facile lirismo, la cromolitografia. In nessun luogo come a Capri si dovrebbe, invece, capire Raffaello, cioè le difficoltà cui va incontro il Su­ blime che vuoi avvicinarsi al Ridicolo senza cadervi, e come sia difficile spiegare le verità lampanti, o abbordare i temi comuni nella maniera giusta. Insomma Capri, più che un luogo d'ispirazione, è un tentativo fatto dalla natura per spiegare agli uomini i tranelli della cattiva arte: e mi­ glior partito ci sembra quello scelto da un nostro amico pittore che viene a Capri a dipingere fichi, pere, nudi femminili, ossia a "trasferire" gli insegnamenti del paesaggio su altri oggetti. Allo stesso modo Edwin Cerio sembra volersi servire di Capri nelle sue cronache romanzate e nelle sue divagazioni : facendo sostenere all'isola l'accompagnamento di chitarra e suonando lui il mandolino. Già altra volta dicemmo che ogni nazione dovrebbe avere i propri irlan­ desi , cioè: che ogni letteratura dovrebbe incoraggiare irlandesi onorari, che si assumano gli ingrati compiti della satira e stemperino il confor­ mismo della produzione corrente. Cerio (irlandese per davvero a metà e quindi esempio calzante) sembra essersi assunto queste funzioni verso la letteratura caprense. Volendo allegoricamente rappresentarlo, dovrem­ mo immaginarcelo su un piatto di bilancia a far da contrappeso a molte melate cataste di libri , quadri, articoli , amori celebri, attribuiti al fascino dell'isola. La sua Capri , che non è quella dei fichidindia e della falsa architet­ tura rustica, riguarda più gli uomini che le cose. E di uomini Cerio ne ha visti arrivare a Capri tanti quanti ve ne ha trasportati da Napoli, in ventitré anni , il capitano Canale col suo vaporetto: uomini d'ogni parte del mondo. Negli scritti di Cerio, quindi, il cosmopolitismo è una salsa che nasconde spesso la pietanza. Capri ci rimette gli onori del quadro ma fa ottima figura come fondale. È, secondo noi , un risultato raggiun­ to. Ci si perdoni la sciocca debolezza, ma ci sembra che Cerio sia riusci­ to a salvare Capri e cavoli. La sua commedia, per esempio, è una satira, ambientata a Capri per puro giuoco. Il "caso" della signorina S pri ngfield tratta invero un argomento che se piace alla prima metà di Cerio (la metà irlandese) do­ vrebb e spaventare addirittura la seconda metà: quella napoletana. S'in­ comincia col parlar di ceneri , morti, cimiteri sin dalla prima scena e si fi nisce all'ultima. La Morte è chiamata in causa per indicare (idea che avrebbe sedotto Butler) i pregi udizi e le formalità che gli uomini oppon135

gono ad un fenomeno tanto chiaro. La signorina Springfield (o Spring­ filde, come diceva l'attore Scepi) chiede morendo di essere sepolta a Ca­ pri . Una sua amica, fattone cremare il cadavere, porta le ceneri al par­ roco dell'isola per un'onorevole sepoltura: che, tuttavia, non può avveni­ re perché « la Chiesa non accetta di un cadavere le ceneri soltanto ». Il cimitero acattolico rifiuta egualmente l'urna per motivi di principio, es­ sendo la morta di religione cattolica. E, siccome al terz'atto interviene la legge per impedire all'amica "filantropa" di conservare presso di sé le rifiutate ceneri, sarà la stessa signorina Springfield, in forma di fanta­ sma, a ritornare sulla terra per riprendersele. Come si vede la satira è concepita con la necessaria ferocia. L'autore l'ha forse troppo insistita in alcuni punti, troppo voluta abbondantemen­ te spiegare, togliendole efficacia. Ma il pubblico caprense ha dimostrato di gustarla, secondo le cronache, meglio di quello romano. Succede forse per Cerio, come per il vino dei Castelli, che trasportato perde qualcosa del suo sapore. La serata, infine, fu lietissima benché l'argomento della commedia non lo lasciasse prevedere. L'autore fu invocato alla ribalta. Vi apparve rapidamente con un braccio teso verso il pubblico, tra le tendine dorate del sipario, terribilmente allegorico. Il pubblico applaudì anche la buona interpretazione della signorina Volonghi, di Dolfini, Diaz, Scepi , Della Noce, e in genere di tutta la Compagnia, che la mattina dopo era già partita per un'altra delle sue veloci avventure. A Capri rimase soltanto il direttore, Bragaglia, con due o tre copioni infilati nella bottoniera del­ la blusa. 23 agosto 194 1

I l mostro Uno dei temi meno costosi ad affrontare, parlando di teatro o di spettacoli in genere, è quello che tratta del pubblico; e poiché si è spesso d'accordo nel giudicare la sua immaturità, la sua indulgenza mal collo­ cata, le sue leggere abitudini, vien quasi naturale addossargli molta col­ pa del cattivo gusto e della mediocrità che ancora regnano sui nostri palcoscenici e sui nostri schermi. Secondo noi, a torto. Evidentemente, parlando di pubblico, non biso­ gnerebbe dimenticare che siamo noi, e non chi ci sta intorno, e che quin­ di le sue colpe sono in gran parte le nostre. Così considerato ci si accor­ ge che il pubblico non esiste, ma esistono vari individui, ognuno dei quali a sua volta è un pubblico vero e proprio, misto di intelligenza e di beata stupidaggine, di grazia e di insofferenza: non si spiegherebbe altri136

menti il piacere sincero che proviamo ascoltando i personaggi di è echov o di Pirandello e quello altrettanto sincero che ci dà l'apparizione di Macario nell'apoteosi finale delle sue riviste o la lettura degli atti unici di Peppino De Filippo. Il Pubblico (noi, in un certo senso) accetta tutto ciò che gli viene of­ ferto, non per noia o per cattiva abitudine, ma perché tutto gli è neces­ sario. Non potrebbe essere altrimenti. Molte esperienze fanno credere che persino commedie come Romeo e l'allodola o film come Boccaccio, che il nostro destino ci ha riservato in visione sere fa, possano aver sal­ vato delle anime, incontrato le loro mezze mele nel buio delle platee. Sembra infatti che il Dio di Maometto fondasse le sue speranze di una buona riuscita del mondo sulla varietà delle opinioni. Circa il pubblico e i suoi difetti , abbiamo letto, invece, sulla rivista Documento, " che sarebbe bene sottoporre ad un breve esame d'ammis­ sione tutti coloro che vogliono frequentare sale di spettacoli ». Non c'è dubbio che l'anonimo scrivente scherzasse, ma quali scherzi allarmanti non combina l'intolleranza ? Naturalmente sarebbe troppo facile rispon­ dere al redattore della proposta che maggiore utilità pubblica si avrebbe se all'esame si sottoponessero molti autori, attori , impresari e critici; ma d'altra parte, un certo disagio si prova al racconto delle brevi avventure occorsegli , che sono q ueste: a) alla ripresa di Una donna senza impor­ tanza , una distinta dama gli aveva sussurrato in tutta segretezza che Oscar Wilde è lo pseudonimo di un diplomatico specialista nella propa­ ganda antinglese; b) durante la rappresentazione di Casa di bambola l'intero pubblico dell'Eliseo, a una battuta del dottor Ranch , aveva agi­ tato chiavi e soldini simulando un esagerato terrore della jettatura; c) due signori si erano meravigliati che ne l' Otello di Shakespeare gli atto­ ri non cantassero e non vi fosse orchestra; eccetera. Lo scrivente aggiun­ geva che sono i grandi pubblici a fare i grandi autori e non viceversa: i pubblici cioè, che "chiedono" e non quelli che si lasciano servire. E da ciò la necessità di un esame che tranquillasse la Storia del teatro. Sarebbe facile sottoscrivere un tal paradosso a patto di non volerne tirare altre illazioni; e chiedersi, per esempio, se fu fatto prima l'Autore o il Pubblico e se nell 'accusa di incomprensione che si fa al pubblico non ci sia troppo lo zampino della rivolta romantica; infi ne se non sia prefe­ ribile l'innocenza alla presunzione. Il pubblico, quel certo pubblico, può ben permettersi di essere sciocco e ignorante, se lo fa a sue spese. È un organismo completo, il pubblico, che si presta a essere sfruttato e manipolato all'estremo, senza che nien­ te se ne sprechi. Generosissimo, di lui si utilizzano persino gli strilli, co­ sa che le macellerie nazionali di Chicago non sono ancora riuscite a uti­ lizzare nei loro maial i. Lasciamogli dunque le sue piccole gaffes, che 737

servono del resto a misurare il progresso del gusto teatrale, a stabilire un rapporto. Oltre tutto, la proposta del nostro collega arriva in ritardo. Oggi­ giorno il pubblico dà spesso prova di conoscere a memoria molte lezioni e di saperne impartire anche. Per esempio, lo scorso inverno, durante una rappresentazione di Wilder (al Quirino) la platea fece tacere due signori che ironizzavano, dall'alto di un palco, la tecnica di quegli atti unici. I due signori erano, riconoscibili a prima vista, commediografi, di quelli che scrivono commedie che, ahinoi , mai gusteremo interamente. Qualche anno fa succedeva precisamente il contrario. Ricordo, tra l'altro, Alberto Spaini, terribile difensore del teatro moderno, piantato come un molosso nel corridoio degli « Indipendenti » , in aperta polemica con quegli spettatori che rifiutavano di capire e di divertirsi. Era ancora l 'epoca in cui, tutto ciò che sorpassava la normale comprensione, veniva definito "futurista" o "strano". Ne seguiva che, come quel certo perso­ naggio di Poe, il pubblico viveva tra una quantità di cose strane; e che molti autori giocavano troppo a definirsi futuristi , per rientrare implici­ tamente nella definizione di intelligenti. Spaini difendeva tutti, come una gallina imparziale, e alle prime proteste le poltrone di vimini della sala volavano in aria. Una volta, a un giovane che sogghignava a certe battute, Spaini (per principio) urlò: « Ma va' al Salone Margherita! ». (In quel salone si davano ancora spettacoli di varietà.) Il giovane si alzò e rispose:« Che bella idea, ci vado subito ». È perfettamente inutile tentare di capire e giudicare il pubblico. Giorni fa quel giovane e Spaini si incontrano, ricordano l'episodio e concludono insieme inaspettatamente: « Che peccato che il Salone Mar­ gherita non funzioni più! ». 6 settembre 794 7

Scena vuota " Gli attori che mi sono rimasti più impressi , » diceva Petrolini « sono: Ferruccio Benini, Ferravilla, Maldacea e un mio amico di Ve­ tralla. Non ne dico il nome perché nessuno lo conosce. » Mai giudizio ammise tanto allegramente le difficoltà che un grande attore incontra per diventare "grande". È singolare che su questo punto Mark Twain abb i a la stessa opinio­ ne dell'attore romano, un'opinione umoristica e protestante: Capitan Tempesta, infatti , quando va in Paradiso si meraviglia che in quelle sfere sia un ignoto ciabattino a tenere il posto del più grande dramma­ turgo di tutti i tempi. « E Shakespeare, Sofocle, Lope de Vega ? » do738

manda. Un angelo risponde che quel ciabattino sarebbe stato migliore di ogni altro, se avesse scritto: a Dio bastano le intenzioni. Se gli angeli dicono il vero, il più sorprendente autore drammatico che avrò avuto la fortuna di conoscere, è un tale che si occupa, credo, di studi storici . Fece rappresentare un paio di commedie, tempo fa, e il di­ sinteresse del pubblico fu così profondo che sarebbe dovuto bastar questo fatto a insospettire i critici . Erano, bisogna aggiungere, commedie desti­ nate all'insuccesso, sbagliate d'indirizzo, dei monologhi impercettibili, ma pieni di teatro fino all 'orlo. Sembravano, e forse lo erano, commedie recitate in un'altra stanza e di cui soltanto brani staccati arrivassero agli ascoltatori. In un illustre personaggio trovai un grande regista. Questo perso­ naggio era tanto "in alto", purtroppo, da non potere scendere tutti i gradini che lo separavano da quella che sarebbe stata la sua vera profes­ sione e arte. Si contentava di girare nei corridoi dei palcoscenici, ansioso per le sorti della recita, tremando di furore agli sbadigli di un attore o alle disattenzioni di un operaio. Il teatro lo attirava a tal punto da ri­ dursi a fare il macchinista di nascosto. Molti anni fa, nel retroscena di uno sperimentale romano, me lo additarono: portava addosso una tuta da meccanico e stava dando martellate sul pavimento per fissare una quinta. Era bravissimo e i suoi colpi di una precisione assoluta; accetta­ va gli ordini con estatica sottomissione; gli occhi gli brillavano e col grosso naso aristocratico annusava la polvere del palcoscenico, come una rosa. Ma il suo ideale, dirigere un teatro, gli fu vietato e dovette accon­ tentarsi, per tutta la vita, di dirigere qualcosa di molto più importante. In un altro teatrino dovevo conoscere una delle più grandi attrici del nostro secolo. Son sicuro che colei, in cielo, reciterà le commedie dell'au­ tore-storico, sotto la direzione dell'illustre personaggio testé descritto. Era una ragazza dimessa e insignificante, venuta dalla provincia con l'idea di far l'attrice: ma volava così in alto che non le riuscì di atterra­ re. Non c'era niente da fare per lei. Chiese una prova, che le fu conces­ sa: e sbagliò così completamente, in modo tanto assoluto da sbalordire. Era al di là degli usi e costumi. C 'è un detto, « andare a caccia col can­ none " • che può dare l'idea dei mezzi spropositati che seppe adoperare. Quella ragazza recitava davvero col cannone, assaltò Ibsen e poi D'An­ nunzio e poi Pirandello, con una tale furia, un tale amore, una tale preoccupazione da mettere a disagio tutti i presenti. Il suo cuore si squinternava, volava a pezzi per l'emozione. Ci vergognavamo per lei , come ladri, incapaci di vedere dietro quegli eccessi le vere qualità dell'attrice: che sono la misura, l'ordine, la temperanza, eccetera. Quella ragazza era talmente ubriaca di teatro, così convinta che re­ citare significasse morire ogni sera di esaurimento, da restare istu pidita al lorché le si fece osservare che « non andava "· Ripensandoci : nessuno 139

rise di lei, come succede quando le ambizioni di una persona appaiono esagerate e fuori luogo. Ma, d'altra parte, non era nemmeno il caso di incoraggiarla, sarebbe stata la stessa cosa che incoraggiare un tubo di di­ namite a scoppiare meno. Perché "l'attrice", in lei, c'era: ma così enor­ me e sgradevole, così spropositata da far desiderare una cosa soltanto: che andasse via al più presto, che scoppiasse altrove. Oltre tutto, quella ragazza era sciaguratamente brutta e malinconi­ ca: e partì lasciando in tutti la confusa convinzione che a spaccarla in due le si sarebbe trovata dentro la più grande e bella attrice del mondo, chiusa in una terribile guaina, in eterna sofferenza. 7 3 settembre 794 7

La casa sull'acqua La casa sull'acqua di Ugo Betti Questa commedia di Ugo Betti , recitata al Teatro Quirino sere fa e benissimo accolta, fa pensare a un appuntamento mancato: ecco un'asso­ ciazione di idee molto elementare se si tien conto che La casa sull'acqua, scritta dodici anni or sono, soltanto oggi vede la luce in un teatro di one­ ste proporzioni: ma poiché col passare del tempo la commedia ha com­ messo il grave errore di lasciarsi dietro il clima poetico che l'ha tenuta a battesimo, di arrivare disemulsionata, con un linguaggio e dei simboli che scoprono le sue antiche ambizioni, non è inesatto rimproverarle di aver fatto aspettare invano il pubblico, il suo pubblico. Quello stesso che, applaudendola sinceramente, l'altra sera, dichiarava per conto suo di aver dodici anni di meno di quanto crede. Arrivare puntuali è la condizione indispensabile del teatro. Nel caso particolare del Teatro Quirino, la puntualità dovrebbe essere doverosa anche pei ritardatari, che l'altra sera furono numerosi e fastidiosissimi, ma è soprattutto necessaria agli autori in genere. Ché mentre il libro presuppone un lettore alla volta, la commedia vuole la folla, con la sua particolare psicologia, i suoi gusti e le sue fresche letture. Succede allora che il miglior merito, o l'unico, che una folla riconosce volentieri a un autore è quello di averla capita a tempo: il che vuoi dire arrivare in quel preciso momento, interpretare anzi il momento. Questa condizione aggrava il lavoro di ogni drammaturgo, poiché gli impone una moda da seguire o, alla meno peggio, gliene chiede un'altra in sostituzione: per colpa di essa il teatro rimane per lunghi intervalli senza poeti, quelli che ci sono essendo normalmente soltanto dei bravi versificatori, legati alle loro formule e spesso alle loro furberie. Questa condizione ha nociu740

to anche a La casa sull'acqua , facendola arrivare, a così poca distanza dalla sua nascita, coi passaporti già scaduti. Nuove mode hanno preso il posto di quelle che un tempo la ispirarono: il che non vuoi dire che sia­ no mode migliori. Chi aveva letto la commedia in una rivista drammatica, quando fu pubblicata, riportandone una felicissima impressione, ha corso il rischio di rimanere ingannato, come quelle brave signore che per caso scoprono crudeli fotografie, documenti freddi, di un'epoca che credevano sotto il segno della loro eleganza. Oggi, chi ha il cuore staccato dagli interessi letterari che hanno prodotto La casa sull 'acqua (anche se ha il cuore le­ gato ad altri interessi colpevoli a loro volta, ma diversamente colpevoli) riconosce facilmente gli elementi costitutivi della "poesia" di quel tem­ po, riesce a separarli e a smontarli uno alla volta: (benché il farlo sia forse sciocco). Riconosce alla base di quella " poesia", la reticenza, l'at­ mosfera, le prime tracce del problemino psicanalitico e, sul fondo, a ser­ vire da commento musicale, o da carta da parati, i toni bassi, patetici , dell'evasionismo: che fu la timida guerra condotta dall'ideale verso il reale quotidiano, nella buona letteratura del dopoguerra. Per queste sue preferenze Betti è il poeta della domenica dopopran­ zo (del momento caro agli evasionisti, che allora il loro sconforto si defi­ nisce e piglia forma poetica. « Datemi , » sentimmo dire da una signorina evasionista al commesso di un negozio di dischi « datemi Sombre diman­ che, sapete ... quella canzonetta che ha provocato venticinque suicidi a Budapest . . . »); il poeta dei cassetti che nascondono tesori immaginari; il poeta dei dialoghi convenzionali, ai quali il lettore dovrà dare peso tra­ ducendone il linguaggio da simbolico in poetico, se gli riuscirà. I suoi personaggi sono perciò preferibilmente degli insoddisfatti senza speran­ za, trascorrono per lo più la loro vita in provincia, fanno scampagnate tristissime, seggono per i giardini pubblici , e aspettano qualcosa di me­ glio che non viene. O che non verrebbe se talvolta l'autore non concedes­ se il miracolo all'ultimo momento, prima di calare il sipario, con certi colpi di coda che minacciano di rovesciare la commedia. Ma che otten­ gono l'approvazione di chi ama il lieto fine, la soluzione cosiddetta "umana". Nella muffita e veneranda casa che serve da luogo alla commedia in questione, vivono Francesco e Maria, con Luca, fratello del primo, arti­ sta fallito, persona appena tollerata dalla servitù. La vicenda mostrerà Elli, ragazza piena di vita, vero "raggio di sole", che capita in questa casa a mischiare le carte, facendo rinverdire nei due fratelli speranze e desideri da tempo addormentati. Quindi la rivalità si accende e ognuno dei due avanza i suoi diritti verso un'ideale tanto agognato. Maria risol­ verà la situazione tentando di uccidere Elli (che preci pita nel lago ma 74 7

vien salvata), il che decide Francesco a rinunciare alla ragazza, in favo­ re del "debole" Luca. L'autore dà un posto importante all'acqua, lo stesso che gli psicana­ listi. L'acqua qui vuoi simbolizzare la vita ferma, il pantano, dentro al quale la pietra Elli mette un po' di vita e stacca qualche foglia dal fon­ do. Ottima pietra, ripetiamo, ma tirata a troppi anni di distanza. Vo­ gliamo anche dire che si poteva tirar! a meglio di quanto hanno fatto gli attori scelti, che erano i fratelli Luigi e Nino Pavese, Eva Magni, Gio­ vanna Scotto ? La recitazione è parsa infatti buona, ma non di più. E commedie come queste, tutte affidate alla discrezione degli attori , alla loro disinteressata delicatezza, chiedono una recitazione ottima, in punta di piedi , senza di che perdono forma e colore. La regia era di Nino Meloni, le scene (migliore quella del primo at­ to) di Furiga. 7 7 ottobre 194 1

Orbite Orbite di Diego Fabbri Molti si sono occupati di combattere la frase e il luogo comune; cre­ do anzi che il maggior sforzo del poeta sia appunto di sfuggirne le sab­ bie mobili e i compiacenti tranelli. Ma, e il fatto comune ?; quel "fatto" che lo scrittore è disposto volentieri a prendere a esempio per le sue esercitazioni, convinto di poterlo rinnovare col linguaggio e che invece gli si impone con la forza della sua triste "esperienza" ? Chi si è preoc­ cupato di studiare abbastanza questo fenomeno, e di isolar! o ?; quali Bouvard e Pécuchet ci hanno saputo dare un elenco di tutte le situazioni risapute e degli incidenti evitabili che non soltanto la letteratura di ogni tempo ma la storia, il costume, la vita quotidiana hanno prodotto ? Il lettore vede che c'è lavoro per una generazione di certosini . Si tratta invece di pulirsi l'occhio dalle incrostazioni dell'abitudine, di inse­ gnarsi daccapo a vedere le cose e a collocarle nella loro giusta prospetti­ va: ma non è una faccenda tanto semplice. Forse sarebbe bene che i di­ zionari scolastici , insieme alle tavole che insegnano ai bambini a distin­ guere i funghi velenosi, ne avessero altre indicanti i limiti del conven­ zionale nelle azioni umane; appunto perché si possa da grandi agire fuori di quei limiti. Niente come il fatto comune tende a diventare vizio o, alla meno peggio, abitudine. L'infelicità è essa stessa un vizio. Succede a molti personaggi, e non soltanto da commedia, di essere infelici perché si ere142

dono obbligati a tanto dall' esame delle esperienze altrui; e molte nostn: reazioni ci vengono dettate inconsciamente, molti avvenimenti tenuti sot­ to la condanna di soluzioni già prestabilite.

E

a noi uomini, se periodi­

camente la Fantasia non venisse in aiuto, poco ci resterebbe da fan:. Ma perché questo prearnbolo ? Perché

è

sempre il cronista teatrale

che soffre maggiormente le colpe dei fatti comuni , che volentieri si dan ­

no appuntamento nelle commedie. Ora, fra tanti dannosi convenzionali­ smi, quello che fa più presa sui giovani autori

è

di ceno la ricerca a

freddo del "dramma " , attraverso l'impostazione di un paio di prrolemi psicologici che darà poi ai personaggi il modo di esprimersi secondo un ceno suggello letterario. Si badi bene: ricerca, ossia nella maggior parte dei casi la pigrizia dell'autore va a trovare ciò che le occorre negli esem­ pi del teatro stesso.

È

per questo che molte commedie (come specchi

messi a fronte che ci fanno conoscere copie sempre più sbiadite di noi stessi) riflettono tra loro una specie di automatica visione, un'ispirazione perpetua, bell'e fatta. L'autore che accetta di discutere obbedendo alle regole di questo ente Convenzionale, l'autore che parte, insomma , dalla scuola per mettere a fuoco la vita e non viceversa, comincia col sacrifica­ re al deprecato fatto comune. Seralmente abb i amo notizia di come la vi­ ta a teatro, vista dal teatro, tenda a diventare cavillosa, obbed iente persi­ no a leggi di indirizzi letterari, fuorché alle sue leggi . La commedia di Diego Fabbri ,

Orbite

(Teatro Quirino. Regia Nino

Meloni. Attori: Giovanna Scotto, Eva Magni, Miranda Campa, Celeste Zanchi, Luigi e Nino Pavese, Adelmo Cocco ) ri sente di questo difetto, forse capitale ma ceno scusabile se si riferisce all'età dell'autore e agli altri suoi meriti originali. L'aver insistito su di esso permette di dire su­ bito in compenso che Fabbri

è

apparso deciso sin da questa prima prova

ad affrontare il teatro con una serietà, un'intelligenza evidenti e il più grande rispetto. La sua commedia ha avuto il tono, ripetiamo, di cercarsi uno sche­ ma accreditato, di essersi fatto prestare, come si dice, il frac: sembra perciò più immaginata che completa, certamente più per

ecces so

di mo­

destia che per difetto, come chi , pur di non alzare la voce, rinunzi a di­ scutere. Si

è

parlato molto di "intimismo" tra le poltrone, che fu contempo­

raneo delle sciarpe di batik e che oggi , al pari di quelle, non si porta più. Se ne

è

parlato soprattutto q uando il regista ha tenuto la scena allo

scuro per quasi mezz'ora, mentre i personaggi si scambiavano confiden­ ze

che l'acustica del Quirino ha rispettato. Ma l'i ntimismo ci era già

stato preann unciato dal programma, dove i nomi di tutti i personaggi apparivano bisil labi e modesti : Lella, Alba, Lucio, Silvia, Lino: nomi che dichi aravano da soli (si esagera a vederci tanto ?) la tim idezza dal l 'autore, l'in vi ncibi le pudore messo nel l 'affrontare i suoi stessi fanta143

smi, e tutto sommato un encomiabile senso di responsabilità. È su que­ sta leggerezza di tocco che bisogna mettere la pallina bianca. La commedia può anche essere paragonata a una farfalla che non si decide a lasciare l'involucro. Ma la farfalla c'è, siamone certi: dentro lo schema convenzionale la materia drammatica si muove con una grazia precisa, e viva. Se questa commedia sarà stampata, metteteci per fascet­ ta: « Tradita dalle simpatie, salvata dall'istinto ''· In essa, i buoni mo­ menti abbo ndano e, per esempio, tutto il secondo atto e il finale del terzo sono scritti con una magnifica calma, mentre il tono è sempre mantenu­ to con naturale dignità. Il tema dibattuto è che noi uomini viviamo in orbite distinte, chiusi in una specie di egoismo astronomico e che basta che un'orbita si modi­ fichi perché le circostanti siano compromesse. Vi si dimostra infine che il sacrificio può ristabilire l'equilibrio del sistema: e fu qui che vedemmo apparire, trionfante, il fatto comune. Comunque Fabbri ha saputo interessare e persino suscitare proteste. È un merito che volentieri gli si deve riconoscere. Perché si comincia sempre così , quando non si finisce. 7 8 ottobre 7 94 7

Penultime notizie Si lagnava Voltaire della povertà degli spettacoli del suo tempo: « . . . le nostre sale difettano tutte nell'acustica, non conosciamo ancora co­ sa sia un'architettura teatrale ». Poi venne la grande architettura teatra­ le e, un secolo e mezzo dopo Voltaire, Appia interpretò l'animo dei suoi contemporanei dicendo che « non accorrevano apprestamenti, né archi­ tetture, soltanto sale nude e vuote al servizio del Teatro ». Ogni epoca vorrebbe il teatro che crede di meritarsi e non sa che, una volta attenutolo, l'epoca cambia. I malati immaginari muoiono ap­ pena guariti.

È accertato che in Argentina ogni drammaturgo, raggiunto un certo limite di servizio, si ritira in pensione. È la Società degli Autori che lo sussidia, indipendentemente dal successo che hanno avuto i suoi lavori , con un criterio che può apparire semplicista ma che è forse segretamen­ te giusto: il pensionato riceve un tanto per ogni atto scritto e rappresen­ tato. Se quest'usanza verrà introdotta anche da noi , il che è da sperare, si adotti il criterio contrario, cioè si dia all'autore un tanto di pensione per 744

ogni atto che può dimostrare di aver scritto ma non rappresentato. I sa­ crifici vanno premiati. Poiché il Tempo ama le allegorie e si diletta di apologhi, eccone uno dei più riusciti . L'anno in cui muore Michelangelo nasce Shakespeare. L'anno in cui muore Shakespeare m �ore anche Cervantes. E chi nasce ? Baldassar Castiglione, scrittore e pittore. I "sei personaggi" non dovrebbero tanto cercar un autore quanto un pubblico. La parte degli spettatori non è semplice come sembra, richiede quella partecipazione attiva che spesso da sola fa prosperare un'epoca teatrale. La volontà che spingeva Shakespeare a scrivere una trentina di opere era la stessa volontà del pubblico del Globe che quelle opere chie­ deva con affamato orgoglio e soprattutto con una certa prepotenza. Nes­ suna porta come quella del Teatro resta chiusa se non vi si bussa forte. Molière e Goldoni misero in scena i diritti all'immortalità della Parigi secentesca e della Venezia settecentesca; e perciò non esistono forse grandi autori ma soltanto grandi pubblici. Incoraggiamo dunque i gio­ vani pubblici , gli autori verranno di conseguenza. Si è riaperto a Roma il Teatro dell 'Università, annunziando per la sua stagione un repertorio polemico. Come spesso succede, quando la polemica c'entra pel suo verso, dell'inaugurazione l'aspetto più interes­ sante è stato il programma gentilmente inviatoci , che conteneva tra l'al­ tro un assennato discorsetto: " È l'ora di smetterla con le giovanili pole­ miche contro il teatro di cassetta . . . " « Si tratta di individuare un teatro italiano valido sul piano dell'arte, con una precisione che potrebb e appa­ rire semplicista, ma è critica e comunque positiva. " Più sotto si legge: " In questo momento nel Teatro Italiano ci sono degli uomini che qual­ cosa hanno dato e non sono affatto tramontati e nei problemi posti e in una certa validità letteraria; e ci sono dei giovani i quali ricercano una strada e non l'hanno ancora trovata. Un teatro di valori quindi e un teatro di tendenza, eccetera "· I cardini di queste serene dichiarazioni sono, il lettore ci faccia caso, "valido" , "validità", "valori ". Prelude l'uso di questo aggettivo e dei suoi derivati a un "validismo" teatrale ? Speriamo di no, la valigia è già troppo imbrattata di etichette. Il primo spettacolo comprendeva una novità di Rosso di San Secon­ do, La fuga, il primo atto di Nostra dea , di Bontempelli e All 'uscita , di Pirandello. Sono annunciati lavori di Ugo Betti , C. V. Lodovici , Stefano Landi, Tullio Pinelli, Diego Fabb ri e Siro Angeli. 22 novembre 1 94 T ·

·

745

Il princip ale Divorziamo di Vitaliano Sardou La Compagnia di Dina Galli ha iniziato le recite al Teatro Argenti­ na con Divorziamo di Sardou e, come succede spesso a ciò che è toccato dalla nostra attrice, il successo alla ripresa (ripresa davvero inaspettata) di questa commedia gaia e senza intoppi è stato completo. In un giorna­ le romano che ne informava i lettori si è parlato persino di "novità", nel senso di commedia mai rappresentata prima d'oggi: la quale svista, nel­ la sua professionale innocenza, contiene però una definizione abbastanza giusta di Sardou e della sua opera completa. Sardou è difatti sempre nuovo o almeno apparirà sempre tale, anche se dai tempi di quest'autore a oggi il Teatro è passato attraverso rivolu­ . zioni così laboriose e rapide che le antecedenti ne sono rimaste quasi oscurate. All'apparire di Sardou (ma non è necessario che sia proprio lui, pigliamolo come simbolo generico) il pubblico si riconosce e trova che dopo tutto le rivoluzioni sono noiose. Non ha torto (ed è triste che non lo abbia) perché esiste forse un sentimento comune che fa da piedi­ stallo al Sardou simbolico e al suo eterno pubblico ed è certamente il no­ stro bisogno innato di un divertimento che si mantenga nei limiti stabili­ ti dall'intelligenza media, ossia dalla natura. (La massima del teatro popolare, da non confondere col teatro per il popolo, è che un bel giuoco deve durar poco ed essere nello stesso tempo di agevole comprensione. Per ubbidire a questa massima, occorre non spingersi sino alle estreme conseguenze, non combinare guai , e non por­ tare niente alla luce, pena la noia. Il triste destino di un autore come Jarry non è la impopolarità ma il fatto che Ubu Roi , restando solo, deb­ ba finire con l'annoiarsi presto o tardi anche lui.) Alla Comédie-Française, verso il 1 890, un autore che si fosse pre­ sentato con un lavoro in tasca avrebbe sentito rispondersi: « Non abbia­ mo bisogno di nessuno: un anno Dumas, un anno Augier, un anno Sar­ dou e poi daccapo, questi tre ci bastano sino alla fine del mondo ». E do­ veva esser vero se è vero che ancor oggi gli equivalenti del terzetto, pur meno illustri , bastano e avanzano. I problemi attuali del Teatro sono ancora tali e tanti da suscitare le diffidenze del profano; ma la verità è che non esiste problema che non sia di successo. In nessun posto come a teatro rien ne réussit m ieux que le succès, e l'applauso del pubblico resta pertanto lo scopo di quell'arte che una volta era definita "grande", e che è l'arte di piacere. Sardou conosceva quest'arte, in mancanza delle altre, a perfezione. Prese d'assalto tutti i generi e li conquistò con la disinvoltura di un tra­ sformista geniale che si trucca soltanto a mezzo busto. Fece tragedie eli146

sabettiane, satire politiche, lavori a tesi, quadri storici , riesumazioni ar­ cheologiche, pasticci varii e farse. Il suo enorme buon naso fiutava i venti nuovi e li spiegava al popolo, ottenendo il successo completo dei volgarizzatori. Fu l'amico naturale del teatro: e nella sua forza si ritrova qualcosa della potenza e della stupidità di una locomotiva. Melpomene, a fianco a lui, può ricordare certe principesse del tempo costrette a un matrimonio morganatico col seduttore. Se queste righe arriveranno a Sardou (niente di più facile, si diletta­ va di spiritismo) avranno certo il potere di fargli ripetere quella risata da granatiere convinto che, secondo i biografi, riservava alle recensioni. Infatti due generazioni di redattori teatrali e di critici lo presero di mira senza mai gravemente colpirlo. Lo ferirono nei particolari; dissero, per esempio, che la sua scena meglio scritta è l'uccisione di Scarpia ne La Tasca, che è appunto una scena muta; dissero che mancava di forza let­ teraria, di necessità vitale, e che aveva in compenso soltanto un diabolico mestiere. Queste sembrano censure ma il guaio è che sono elogi . L'invulnerabilità di Sardou (anche le frecce hanno un'anima e un certo cavalleresco rispetto per i grossi bersagli) derivava dal fatto che colpirlo poteva essere facilissimo ma appunto perciò inutile. Non lo si sbagliava mai, benché raggiungerlo equivalesse raggiungere il pubblico, cioè nessuno. E ammesso anche che il pubblico possa cadere: chi se la sente di far rotolare la muraglia cinese per toglierne un mattone che gli garba ? Divorziamo è uno dei suoi innumerevoli scherzetti ch'egli scrisse a occhi chiusi, tra il dolce e la frutta, come faceva per i suoi quadri Luca Fapresto. In questa commediola seguì la voga di Labiche, aggiungendo­ vi quanto Labiche non sapeva incastrare nei suoi lucidi intrighi. Ag­ giungendovi la Donna, e per di più la Donna Contemporanea con le sue nuove curiose prospettive. Per questa sua magnifica abilità di afferrare il discorso altrui, di peggiorarlo ma di completarne le parti, Sardou comunica la stessa stu­ pefazione di una raccolta di proverbi: si pensa che ci son volute troppe esperienze per produrre siffatti monumenti di buon senso comune, ossia di mediocrità. Il genio, difatti , nasce improvvisamente, scoppia mandan­ do all'aria il secolo che lo circonda, ma la mediocrità ha ficcate le sue radici nella terra stessa e si sviluppa lentamente, con grande e inutile convinzione. Quando un grande mediocre muore, dalle sue ceneri sorgo­ no migliaia di nuovi modesti mediocri . Il pubblico li apprezza. Ma si diverte di più, quando vede il Principale in persona scendere a far quat­ tro chiacchiere. L'edizione che della commedia ha dato la Compagnia e l'interpreta­ zione che del personaggio principale ha fatto la Galli sono state, l'abbia­ mo già accennato, perfette. 29 n ouem bre 1 94 1

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L'ammalato La maggior parte del teatro che sta ancora in piedi è morto: almeno così vorrebbe che fosse chi ha a cuore le sorti non industriali del teatro. Fatti i conti, poco resta davvero all'uso normale del palcoscenico: il vec­ chio teatro comico è passato al cinema coi suoi ingenui bagagli e le sue armi scariche; il teatro di "pensiero" e quello di " poesia" , per naturale timidezza, non si fanno più vivi; il teatro cosiddetto borghese, coi suoi grossi congegni psicologici e la sua "vita" truccata da "arte" sembra prossimo alla fine anche lui. Se si tien conto che un altro colpo grave è stato dato al teatro dallo scadere implicito di molte sue convenzioni (il "dialogo", per esempio, la "scena" , la "trama": che alla mente di un onesto commediografo d'oggi si presentano non più come validi assisten­ ti pèr aiutarlo a ingabbiare il materiale, ma come superstizioni da scor­ dare) si ha il quadro di un'attività artistica arrivata contro il suo muro, che si sente tuttavia incapace di scalare. Più avanti è certo impossibile procedere su una tale strada. Lo stu­ dio dei casi "umani" (l'uso di tante virgolette è necessario) e dei senti­ menti relativi è stato fatto con tanta anatomica puntualità e così insi­ stente sapienza da lasciare al loro posto altrettante formule. Come nelle tele dell'ultimo barocco, ecco piedi di santi, scapole di martiri, braccia di papi e nasi di condottieri diventare rigorosi modelli di studio per le fu­ ture accademie di belle arti. Il teatro, su un piano morale, non è nemmeno più mezzo di discus­ sione: e questo lo dimostra la mancanza di grandi insuccessi. Non serve a diffondere nuove idee, anche paradossali , non ospita battaglie furiose e tonificanti. Non è d'altra parte il rifugio intellettuale di una società scel­ ta, e lo vediamo dal povero numero di autori cesarei. Non attira infine, come un tempo, i giovani. Nessun sedicenne oggi ruba le ore al sonno per scrivere tragedie in cinque atti, ma bensì scenari. L'amor nuovo ge­ nerale è il cinema. La gente che appena trent'anni fa scappava da casa con la Compagnia di prosa, oggi scrive al Regista. Che ne dObbiamo dedurre ? Fortunatamente, questo: che il cinema sta sostituendo di buon grado il teatro nelle sue funzioni meno ncibili. Perciò, se il teatro muore da un lato, è ora di gridargli un convinto evvi­ va dall'altro. Finalmente soli, potrebbe l'Autore Nuovo intitolare questa fase della storia drammatica che s'inizia. Non sono infatti che Lui e le forze origi­ nali del teatro a restare in campo. Gli amici, gli invitati , i mercanti e i curiosi si allontanano chiamati altrove. Solo, con le idee e il vocabolario, l'Autore si dà una fregatina alle mani prima di cominciare. Gli sta di­ nanzi , da meditare, da scoprire o, se gli garba, da buttar via, un mondo 148

senza meridiani e senza paralleli, pulito come il primo giorno. Auguria­ mogli buon lavoro. Abbiamo detto che i giovani non si interessano più del Teatro, ma subito aggiunto quali giovani: i più pericolosi, quelli che cominciavano con lo scrivere tragedie e finivano col farsele rappresentare. La verità è che soltanto i giovani oggi credono al teatro nuovo. In generale, essi non sanno bene cosa sarà, ma sanno benissimo cosa non dovrà essere. È già qualcosa, anzi è tutto. E più che sufficiente, per un buon inizio, essere convinti che la tecnica, il mestiere, sono colpe che un giorno o l'altro si scoprono. Come in poesia, come nelle arti figurative, unico documento per en­ trare dalla porta del palcoscenico, deve diventare la Necessità. Quando sento parlar di crisi del teatro, a bassa voce, col timore che l'ammalato non possa cavarsela, penso che la sfiducia degli specialisti e soprattutto la loro mancanza di immaginazione è infinita. Ma speriamolo, che non se la cavi! 6 dicembre 1 94 1

L'amico delle donne

L 'amico delle donne di Giuseppe Achille (da A. D umas figlio) L'altra sera all'Eliseo, mentre si recitava L 'am ico delle donne di Dumas, un signore ch'era nostro vicino (non è escluso che quel signore fosse il pingue scrittore Vincenzo Talarico) ci diceva che, in genere, non bisogna credere alla freschezza delle commedie che vengono riesumate ma piuttosto alla freschezza del pubblico. Sembra anche a noi che sia questa la verità; e quel che sapevamo da un pezzo e cioè che i discorsi sulle commedie nuove rischiano spesso di essere discorsi sul costume contemporaneo, ci si chiarisce, anzi, meglio: l'intesa perpetua, sotterranea, biologica tra spettatore e commedia è sempre subordinata alla perfetta innocenza di quest'ultima. Una com­ media può dirsi fortunata (pura ipotesi) se col tempo guadagna, al posto dell'intelligenza che perde, quel tanto di animale, di incoraggiante, di tenero che si chiama, a conti fatti, "umanità". Le commedie di Dumas danno proprio quest'impressione, di essere state un tempo molto intelligenti e poi , per cause che sfuggono a un'in­ dagine discreta, ridotte mal uccio ma fatte più buone d'animo; in una parola, corrette dall'esperienza. Sarebbero commedie di Osca r Wilde se invece di essere state , diciamo così , al levate in provincia avessero fallo 749

un più cinico tirocinio nei salotti cittadi ni, si fossero guastate le idee per amor di paradosso o per procurare meraviglia agli ascoltatori. Così co­ me si presentano a distanza d'anni meravigliano soltanto per la loro buona volontà, per il puntiglio continuo di affermare cose esatte e nem­ meno impertinenti . Eppure, alla fine, piacciono: se si eccettua il signor Talarico, il pubblico ci si diverte e anche sulle nostre labbra, combattute tra il dovere e il piacere, la coscienza ha sorpreso molto spesso, l'altra sera, larghi sorrisi di contrabbando. Il successo de L 'am ico delle donne appartiene agli attori , al pubblico che ama quegli attori e anche, in discreta misura, a Giuseppe Achille che ha curato la riduzione della commedia. Sfrondati dei particolari inutili, propri della loro epoca, cinque atti (o quattro ?) di Dumas sono diventati tre atti "moderni", il che vuoi dire che hanno acquistato non soltanto i lati inutili propri della nostra epoca, quelli che oggi fanno la fortuna di un lavoro, ma anche una giusta prospettiva storica. N el suo aspetto esteriore, l'epoca è infatti rimasta quella dell'origi­ nale: si son viste gonne abbondanti, livree, "cose di pessimo gusto", ecce­ tera. Che si voleva di più ? L'affettuosa riconoscenza verso i recenti an­ tenati , il gusto per la scoperta della seconda metà dell'Ottocento casalin­ go, è un sentimento che gli specialisti si trovano ormai a dividere con il pubblico dei teatri e anche con quello dei cinematografi . Si può esser certi che, come Emma Bovary concepiva meglio l'amore sullo sfondo di scenari alla W alter Scott o su paesaggi italiani, lo spettatore oggi conce­ pisce molto meglio intrecci, battute, dialoghi e personaggi, se posti su un piano retrospettivo. È il suo modo di reagire al verismo. L 'amico delle donne è una commedia che per l'accuratezza di esecu­ zione, la fragilità e l'inutilità ricorda troppo i lavori in legno traforato, a essa contemporanei. I l suo protagonista, il signor De Ryons, risulta il capostipite di tutta la famiglia dei galanti enunciatori che hanno calcato il palcoscenico dall'SO in poi. Parla per sentenze, aforismi, giudizi, co­ nosce le donne e anche gli uomini (naturalmente perché « gli uomini si conoscono attraverso le donne >>) , rientra nel genere com mis, al quale appartengono anche gli annoiati e micidiali personaggi di Wilde, Lord Illingworth e il duca Goring, per esempio. De Ryons, è chiaro, vive coi fondi segreti dell'autore, non è tanto un personaggio quanto un'autobiografia ideale. I suoi libri più consultati sono Le massime di La Rochefoucauld e L 'almanacco per ridere. Luigi Cimara l'ha reso alla perfezione. Non si scopre niente di nuo­ vo .dicendo che il vero amico delle donne, anzi delle spettatrici , è proprio lui, gaio, utile, paziente e bravissimo. Evi Maltagliati è stata anche lei perfetta. E tutti gli altri , in specie Calindri, Renata Negri, Tino Carra­ ro, hanno molto contribuito a divertire il pubblico riconoscente. 70 gennaio 7942 750

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mariti

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mariti di Achille Torelli

l mariti, di Achille Torelli, che la Compagnia di Daniela Palmer ri­ prende in questi giorni al Teatro Argentina, è una commedia che avan­ za negli anni delicatamente, senza sfasciarsi , mantenendosi netta e ag­ ghindata come certe trasparenti vecchiettine che, in segno di affetto, al­ zeresti in aria con una mano sola. Non c'è nei suoi cinque atti niente che stanchi o che sembri tanto superato da poterne fare a meno, ma anzi un gusto resistente e modesto, un'aria di buona educazione che la tesi non riesce ad affumicare, un piacevole senso di freschezza. Torelli la scrisse giovanissimo, a ventitré anni, e si direbbe invece la commedia di un autore incanutito negli intrighi e smaliziato dalle collaborazioni che, di colpo, voglia ravvedersi; una commedia dedicata agli amici. Di curio­ so in essa c'è questo: che ha la complicata struttura e anche l'equilibrio di un polittico. Nella distribuzione dei luoghi nei quali si svolge la sto­ ria, si avverte un certo puntiglio per l'ordine da parte dell'autore: il terz'atto, l'atto centrale, si svolge in un salotto; i due laterali , in una ve­ randa; i due estremi , in un atrio. Così architettonicamente inquadrata la sua storia, Torelli poté dipingerne le vicende usando la massima li­ bertà di gusto e di espedienti, nessuna fuga, da un simile reticolo, essen­ do ormai possibile ai suoi personaggi. Ed è per questo motivo che la commedia si risolve in una serie di variazioni sullo stesso motivo, in tan­ ti quadri legati da un'unità di intenzione ma diversi l'uno dall'altro nel tono e nel racconto. Che cosa dicono I mariti ormai lo schermo lo ha rivelato con il sor­ prendente e brutto sottotitolo: Tempeste d'anime, messo dal regista Ma­ strocinque alla sua versione cinematografica della commedia. Ma succe­ dono "tempeste" in questa commedia o piuttosto soltanto piccoli fortu­ nali aristocratici che la solidità delle nuove classi borghesi si affretterà a placare ? I "mariti" della buona società, afferma la tesi , sono corrotti e niente affatto nobili: trascurano, maltrattano, ingannano le mogli, mandano in aria le famiglie più rispettabili ; invece il "marito" borghese (l'erede di­ retto del Padrone delle ferriere e del Giovane povero) è tutt'altra cosa: essere fornito di buone qualità e di ottima educazione civile, si fa amare per le sue virtù solide e silenziose e, come Fabio Regoli (il cocco di casa Torelli) , è persino disposto a fiaccare un cavallo per non mancare un appuntamento con la propria moglie. Se si toglie quest'ingenuità sinistrorsa, giustificata dal disprezzo car­ ducciano verso i nobili e l'araldica in genere (nemmeno Tommaseo riu­ scì a perdonare il marchesato a Gino Capponi) la commedia raggiunge i suoi scopi in sede morale e sentimentale. Infatti essa afferma che " tocca ai mariti di guidare la barca ; che la colpa delle cattive mogl i è dei cattivi mariti; che il matrimonio è un contratto, eccetera • .

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È inutile aggiungere che ai lati del polittico, perché abbia maggior spicco, sono rappresentati in ginocchio il committente e sua moglie, cioè il duca e la duchessa d'Herrera. Costoro son lì a rappresentare la fedel­ tà coniugale, il rispetto reciproco, in uso nel vecchio mondo che scompa­ re. Anche Torelli (ma persino in una tavoletta caldea gli specialisti han potuto decifrare un'elegia per i bei tempi d'una volta), anche Torelli de­ dicava il suo ottimismo al passato, e non al futuro. Comunque, nel pal­ coscenico d'allora, fra le tante commedie ancora goldoniane, puntigliose ed intrigate, I mariti spiccano come un enorme e vario armadio napole­ tano, pieno di curiose novità e di fiducia nel nuovo teatro. Quest'edizione della Compagnia Palmer è apparsa soltanto un poco accesa e diseguale nella fantasia dei costumi e delle scene e un poco spenta, invece, nella recitazione di qualche attore, per esempio Randone e la stessa Palmer, Mario Gallina, la Sperani , Pierantoni , Pisu, Velia Galvani, (e specialmente il primo che ha avuto i suoi applausi persona­ li) si son meglio infervorati nella vicenda, che il pubblico ha gustato ma­ gnificamente. 7 7 gennaio 1942

Parte seconda ( 1 963- 1 967) scelta a cura di FAUSTA BERNOBINI

Prima del tramonto di Gerhart H auptmann Un'estate gonfia di festival approda ora a Venezia .per l'ultimo festi­ val, quello della prosa, che è alla sua ventiduesima edizione. « Il teatro muore e i festival aumentano » mi ha detto Raul Radice vedendomi un po' preoccupato nella platea della Fenice, forse per incoraggiarmi. Due mesi fa ero a Spoleto, un mese fa ad Atene e debbo dire che la preoccu­ pazione del teatro è stata sempre inferiore a quella di una vacanza che era necessario portare in fondo come un compito. Joyce,· Euripide e Ari­ stofane visti tra una gita e l'altra e dei quali si stivano i programmi nel­ la valigia assieme ai souvenir! Ormai ci divertiamo istruendoci; e un lie­ ve sospetto ci accompagna: quello di essere principalmente dei turisti. Per quanto riguarda il teatro, confesso le mie incertezze; è curioso questo destino di una società che organizza i suoi spettacoli molto me­ glio, giorno per giorno, nella sua vita privata. Perché vada anche a tea­ tro non si capisce. Conosce quasi tutti i testi e le possibili interpretazio­ ni. Non solo ha letto il libro, ma ha visto anche il film e, in qualche de­ plorevole caso, la riduzione musicale. Le sue abitazioni sembrano palco­ scenici addobb a ti per vicende che non riguardano più nessuno. Siamo diventati gli spettatori di noi stessi e non c'è dramma che non ci sembri di poter vivere o, nel peggiore dei casi, di poter scrivere. Lo stesso teatro d'avanguardia, così atroce e protestatario, vive benissimo di rendita, ac­ colto con tutti quegli onori che una volta toccavano ai bardi nazionali. È in effetti un teatro di retroguardia, che chiude la processione dell'eserci­ to in ritirata. Dopo le ultime pattuglie degli lonesco e dei Beckett, che fanno saltare i ponti , possiamo aspettarci soltanto di veder passare i di­ sertori , gli sbandati e quelli che durante la campagna hanno preso mo­ glie in terra nemica. Bene, il festival di Venezia è un prol ungamento dell'estate e anche il segno più vistoso che un altro anno è saltato. Ci prepariamo a credere nell'inverno, alla necessità di rimetterei al lavoro, sogniamo il bel prose­ guire dell'autunno, che verrà interrotto dal freddo improvviso e dalla 155

baraonda del benessere natalizio. Venezia è del resto la città ideale per questo genere di illusioni. Splendida, affettuosa e imprendibile, invasa e percorsa da pattuglie di avidi turisti che fotografano tutto (io penso di essere entrato casualmente in un centinaio d'istantanee) e che pure rie­ sce a restare attenta ai suoi interessi di ogni giorno. Quest'anno a Venezia danno dunque un nutrito programma, che comprende un Ruzzante, un Beckett, un Brecht, un David Levine. Massimo Dursi darà il suo Passatore, Zeffirelli metterà in scena Chi ha paura di Virgin ia Wooif? di Edward Albee, Francesco Rosi dirigerà in­ vece l'ultima commedia di Patroni Griffi In memoria di una signora amica. Ma per cominciare hanno scelto Gerhart Hauptmann, di cui lo scorso anno ricorreva il centenario della nascita. Un anno di ritardo dunque per l'autore e purtroppo trentadue anni per il dramma, che fu scritto nel '3 1 , e ha per titolo Vor Sonnenuntergang. Prima di andare a teatro ho letto precauzionalmente questo dramma, nella traduzione di Lavinia Mazzucchetti. È una traduzione probabilmente fedele e certa­ mente affettuosa: il consigliere di commercio Clausen, il protagonista, viene per esempio chiamato commendatore e anche comm. Clausen, senza allusioni alla statua di pietra, ma proprio ai nostri commendatori: per cui molte cose si sono chiarite nel testo, soprattutto la sua sconsolata inattualità. Il mondo drammatico di Hauptmann, almeno di quello che appare in questo lavoro, che è poi in Germania il più applaudito, risul­ ta imbalsamato e se riesce un poco a commuoverci è per le sue buone in­ tenzioni sentimentali. Non siamo cattivi. Suscita invece una strana am­ mirazione per il lavoro e la pena che dev'essere costato e per la somma di pazienza che chiede oggi agli spettatori. Prima del tramonto è la sto­ ria di un agiato settantenne che, rimasto vedovo, s'innamora, riamato, della giovane figlia del suo giardiniere. Il dramma scaturisce per l'oppo­ sizione dei familiari del vedovo, preoccupati (forse giustamente) per i lo­ ro interessi. Si giunge così a chiedere la interdizione dell'anziano inna­ morato per impedirgli di sposarsi . Ma Clausen non resiste all'oltraggio e in un accesso d'ira, dopo aver ribadito il suo diritto alla vita e alla li­ bertà, muore. Con questa sua romantica denuncia, Hauptmann mirava a due ber­ sagli: rendere un omaggio al "suo" poeta, a Goethe che in vecchiaia aveva dovuto rinunciare al suo amore per la giovane Ulrica, e descrivere la upper-middle class tedesca del suo tempo, gretta, ipocrita e incapace di slanci vitali. Per raggiungere il primo bersaglio si è accontentato di allusioni (i personaggi hanno nomi goethiani); per il secondo, di affer­ mazioni. Hauptmann era il capo della scuola naturalistica tedesca e nel ' 3 1 non si era ancora accorto che l'unico naturalismo possibile restava quello del cinema. Cioè, che il naturalismo, anche quello della denuncia sociale, s'era rifugiato in quella capacità descrittiva, tangibile, che è uni156

camente del cinema, dove anche un fatto mediocre come quello da lui immaginato può trasformarsi in fatto poetico, per virtù di immagini, di facce, di silenzi ipnotici, di minime constatazioni , e anche per la precisa banalità del dialogo, che mira a riprodurre la vita nei suoi momenti fu­ tili e irripetibili. Sul palcoscenico, le cose cambiano: e i fatti contano solo se hanno una loro filigrana; se, rinunciando ai particolari realistici, si guarda all'essenza segreta delle cose; se alla fine si crede di capire che dietro la storia ce n'è un'altra, più profonda, e valida oltre le apparenze e gli incidenti. Prima del tramonto vuoi dire soltanto ciò che racconta e alla fine si resta un po' imbarazzati, sinceramente dispiaciuti per le di­ sgrazie che capitano al povero commendator Clausen e per la sua incapacità di dominarle. La commedia era presentata dallo Schauspielhaus di Dusseldorf, per la regia del suo direttore, Karl Heinz Stroux. Una regia, diciamolo pure, ufficiale e commemorativa, come potrebbe farla il Poligrafico dello Stato, con scenografie sommarie e infine deludenti, se si pensa che una volta questo genere di teatro dava agli spettatori anche qualche consiglio sul modo di arredare casa. Gli attori invece erano impeccabili, c'era un cameriere bravissimo e fidato, sulle spalle del quale pesava tutto il ser­ vizio dei rinfreschi e delle cene, perché un altro debole del teatro natu­ ralistico è il gran rispetto per i pasti e per le bevute, anzi questa è la sua disinvoltura, la riprova che ciò che sta raccontando è vero. Il grande teatro si serve di nappi vuoti e di cibi finti e solo al teatro dialettale è permesso l'uso di cucina. Tra gli attori spiccava per le sue straordinarie qualità Emst Deutsch, un bel settantenne dal volto pallido e infantil­ mente sorridente, che ha avuto la forza di trattenerci fino alla fine ed è stato molto applaudito. ·

22 settembre 1 963

La piovana del Ruzzante Un complesso di circostanze mi ha riportato a Venezia per il secon­ do spettacolo del festival . La luce lagunare si è addolcita, piove, Venezia è piena di turisti bagnati. Molti sono avvolti nel cellophane e guardano il cielo. Il pericolo di scrivere di teatro è che si finisce per farsi una cultura sui propri articoli. Stavolta ho dovuto brush-up, spolverare un po' il mio Ruzzante. La Compagnia Stabile del Teatro di Ca' Foscari presenta in­ fatti una delle sue tre commedie classicheggianti, La pzovana, ossia la ragazza di Piove, che è un paese vicino a Padova, benché tutta l 'azione si svolga a Chioggia e si ispi ri a una commedia di Plauto, Rudens, che 757

si svolgeva invece a Cirene, cioè su un bel classico lido, con tempio di Afrodite. La scelta di Chioggia vi dice già come il Ruzzante concepisse l'imitazione e quanto volesse riscattarla facendola combaciare alla sua realtà "naturale" e antiletteraria. Era il primo poeta delle zone depres­ se, viveva tra la sua gente in un paese devastato dalle guerre e dalle ca­ restie; ne voleva conoscere a fondo i fatti, le passioni, la lingua e deve averlo attratto il giuoco di sostituire con i suoi tipi i personaggi minori e plebei di un'antica commedia: pirati, parassiti, servi e ruffiani. Non lo interessavano certo i personaggi convenzionali, che in questa commedia non mancano e sono appunto la ragazza rapita, il giovane di lei inna­ morato, i due padri di costoro. Il bello è che il giuoco attrae anche noi spettatori e alla fine eccoci toccati da una verità che sembra non debba mai finire di essere valida, da noi : la verità, diciamo così, analfabeta. Due letture ultimamente mi hanno colpito in questo senso: Autobio­ grafie della leggera, di Danilo Montaldi e Libera nos a malo, di Luigi Meneghello. Il primo libro è una ricerca sociologica sulle classi sociali nella bassa Lombardia, il secondo è l'affascinante ritratto di un paese veneto, qualcosa tra il catalogo, la rievocazione, l'indagine biologica, fi­ lologica e poetica. Da tutti e due viene fuori la galleria di un' Italia mi­ nore, senza nessun sospetto di speranza e di riscatto, ma infinitamente viva e amabile. Possono anche servire a illuminare certi personaggi della lunga commedia italiana, i servi, i ladri, gli spacconi , gli infingardi, i semplici, i furbi, gli eroi locali , cioè le maschere della commedia dell'ar­ te, finite poi in Francia come genere d'esportazione, edulcorate e siste­ mate persino nei balletti , mentre da noi sono ancora vive in abito civile. Diciamolo pure: i personaggi che più ci divertono sono sempre quel­ li che una volta animavano il sottobosco della commedia, i famigli, la variopinta canaglia. Anzi , da personaggi secondari sono diventati i per­ sonaggi principali, il servo è ormai l'eroe, vive e racconta esclusivamente la sua storia. Resta da vedere se ci è diventato per mancanza di prota­ gonisti o per volere del pubblico. O per tutte e due le ragioni. Certo è che Gassman si scopre una vena comica da grande maschera e diventa "popolare" più del suo teatro. E non parliamo di Sordi, Totò, Manfre­ di, Tognazzi, maschere naturali: ma sono i migliori attori che abbiamo, i portavoce di una vaga incoscienza nazionale, anzi di un rifiuto della coscienza in favore della sopravvivenza. Un teatro senza coscienza non può essere che disperatamente comico. Ecco che il nostro teatro (vi com­ prendo anche il cinema, che è spesso un teatro come lo vuole l'econo­ mia) resta di impegno "volgare", divertente per una smaccata astuta abiezione che è il suo fascino e anche il suo limite. Le possibilità che questi attori hanno di cogliere una certa realtà, nella quale siamo im­ mersi fino al collo, sono quasi infinite, tanto da poter pensare che i "servi" sono la nostra vera, continua autobiografia. Noi ridiamo dei loro 758

vizi e difetti, dei loro guai e disastri, perché sono tutti nostri e il riderne finisce per farceli vedere sotto una luce non soltanto accettabile ma per­ sino lusinghiera. Il riso, nel peggiore dei casi, assolve; e la denuncia inorgoglisce. Voi scrivete per esempio una commedia o un film sui fan­ nulloni, i figli di papà, i buoni a nulla e siete ogni tanto colti dal sospet­ to che la satira sarà rifiutata dagli innumerevoli modelli che ve l'hanno suggerita. Scoprite invece che li ha resi fieri , concedendo a essi , se la commedia o il film hanno successo, uno stato civile artistico, un ricono­ scimento di ignobiltà che li solleva dal grigiore dell'ignoto. Nessuna de­ nuncia, quindi, per quanto dura, esorbita dai limiti del nostro teatro co­ mico. L'inferno italiano è popolato di peccatori che al rifiuto del concet­ to di colpa e di peccato uniscono la capacità di ridere per primi del gua­ io in cui si trovano. E poiché il diavolo laggiù incarna il padrone, ne de­ riva la necessità di imbrogliarlo. La nostra commedia è tutta qui. Detto questo, torniamo alla Piovana. La prima impressione è che la regia di Giovanni Poli, estremamente curata, drammatica, ansiosa, ab­ bia aggiunto a tutta la storia quella "letteratura" che il Ruzzante s'era preoccupato di togliervi o di neutralizzare con lo spiegamento dei suoi personaggi favoriti. Vedendo questa commedia ho capito perché nei drammi scespiriani gli intermezzi comici o farseschi non mi hanno mai fatto ridere: trasudavano rispetto per l'autore. Ora niente diventa mate­ riale archeologico più del comico, che evidentemente sulla scena tira i suoi umori dalla vita quotidiana e basa i suoi effetti su una comunione semantica tra pubblico e attori , "quegli" attori e "quel" pubblico. È un riso di parrocchia, direbbe Bergson. E noi non apparteniamo a "quella" parrocchia, riconosciamo però che quelle stesse situazioni oggi muove­ rebbero al riso se gli attori vi esprimessero la comicità propria del nostro tempo: il linguaggio, le deformazioni, il ritmo, insomma la verità che è del nostro tempo e che domani sarà lettera morta e non farà più ridere. La tragedia può essere perfezionata, e lo è sempre, anzi non stento a credere che oggi Sofocle venga rappresentato con maggior efficacia che non ai suoi tempi: perché la tragedia progredisce e acquista un senso più vasto, più distese prospettive, essendo un ritratto del profondo, che è immutabile. Ma Aristofane. .. Oggi il pubblico che si annoia educata­ mente ad Aristofane si sganascia alle riviste satiriche, perché il nostro ritratto quotidiano cambia inesorabilmente. Non ci si fraintenda. Non rimpiangiamo di non aver riso. Lo spetta­ colo era del resto tenuto su un tono (a cominciare dalla bella e corrusca scena di Mischa Scandella) che escludeva il riso. Anzi , molti personaggi piangevano frequentemente. Ed è anche chiaro che il Ruzzante non vo­ leva tanto divertirci quanto comunicarci il senso di un'esistenza atroce e precaria, non passata, ma a lui contemporanea. Garbuio, Daldura, Gar­ binello e Bertevello, i tre famigli e il pescatore della Pzovana, sono ri159

tratti esemplari, espressione, come scrive il Poli , di un sottoproletariato ante litteram, ferocemente attaccati alle loro povere occasioni , alle loro speranze di una vita migliore, "da signori" . ( II bello è che devono anco­ ra vivere in qualche parte del delta paciano, sempre più umiliati e offe­ si.) II veicolo della rappresentazione è però comico, anche se disperato. La forza del Ruzzante è appunto quella di arrivare alla tragedia, alla sconfitta dei suoi poveri eroi attraverso un riso livido ma puntualissimo. Tra gli attori , tutti degni di lode, ricordiamo Sissi Bonacini, Donatella Ceccarello e i "grandi quattro": Gian Campi , Giancarlo Padoan, Anto­ nio Cremonese, Giorgio Marcozzi. 29 settembre 7963

Oblomov di Marcel Cuvelier (da lvan Goncarov) Arrivando a Parigi mi succede sempre di aprire un giornale alla pa­ gina degli spettacoli per vedere che cosa danno al Teatro della rue Hu­ chette. Eccolo qui, c'è ancora, è ormai al suo settimo anno, tra poco alla 2500' rappresentazione: lo "spectacle lonesco", cioè La cantatrice chau­ ve e La leçon , un successo che si avvia a diventare un'istituzione, senza prendere i modi dell'abitudine. Ci vado per conoscere i nuovi attori (ogni tanto qualcuno abbandona o si sposa o va a fare il servizio milita­ re) e per La leçon che, mi dicono, nella nuova interpretazione di Robert Jacquet dura dieci minuti di più della versione Cuvelier. Rue de la Hu­ chette è restata un po' fuori dalle grandi pulizie parigine, è ancora la stessa stradetta nerastra col cabaret arabo e la pasticceria greca, piena di algerini e di gatti. II teatro ha sempre lo stesso bugigattolo che serve da atrio e da botteghino, la sala è sempre quella, nemmeno ripulita, storta come una catacomba, forse un ex magazzino o un ex garage. II conto delle poltrone è presto fatto: sono novanta, compresi gli strapuntini, il palcoscenico è largo forse quattro metri, profondo non più di cinque, non c'è posto per una vera scenografia e il fondale è dipinto sul muro con vernice a olio, sempre quello di sette anni fa. Nell'intervallo, anche se piove, gli spettatori devono uscire sulla strada, il bar è di fronte. Gli attori per raggiungere i camerini devono invece traversare un cortile bu­ io come una fogna, e i camerini sono tutti riuniti sotto una tettoia. Un complesso insomma scomodo, scoraggiante e abbastanza sinistro. Quan­ do, all'inizio dello spettacolo, si spengono le luci nella sala, si è presi dallo sgomento che si tratti di un guasto e che forse non troveremo l'uscita della tana. Eppure in questo teatro riprovo sempre la stessa gioia infantile del teatro: un conforto indicibile per la finzione che si sta preparando, per 160

la vittoria dello spirito e dell'intelligenza sulla debolezza delle circostan­ ze, sul vuoto, sul nulla. Alla fine, quello che poteva sembrare uno spet­ tacolo di volenterosi dilettanti si rivela esemplare proprio nella sostanza, l'esatta valorizzazione del testo, il rigore stilistico della recitazione, la sobrietà dei toni, la semplicità del ritmo. E non ci si meraviglia più che questo miracolo avvenga in un luogo tanto disadatto, anzi si afferra il senso dell'anatopismo, che cioè non è il teatro che fa gli attori , ma è la fede degli attori che fa un teatro. Nell'inverno del '56, quando lo "spet­ tacolo lonesco" fu dato per la prima volta, il pubblico non ci andò, lette­ ralmente. Per quaranta sere le novanta poltrone restarono vuote, ma quegli attori continuarono le loro recite senza saltare una battuta, da­ vanti alla loro triste platea e fu proprio questo disprezzo per il pubblico che alla fine attrasst il pubblico. lonesco deve parte del suo successo alla testardaggine di quei primi attori che credevano nelle sue commedie e si divertivano a recitarle al deserto. Tiri ognuno come può la sua morale da questa storia. lo per me l'ho già tratta ed è questa: scoraggiate il tea­ tro, qualcosa succederà. Quando penso ai nostri bei teatrini abbandonati in attesa della sovvenzione ministeriale! Nella rue de la Huchette ho conosciuto una sera, quattro anni fa, Marcel Cuvelier, allora regista e interprete della Leçon. È un giovane di media statura, pallido, gli occhi penetranti, una specie di Raskolnikof con l'idea fissa del teatro. Parlandogli mi colpiva la sua intelligenza cal­ ma e rassegnata e la sua indifferenza per ogni argomento che non toc­ casse il teatro. Accettò un caffè al bar di fronte, poi volle farmi visitare i camerini, cioè l'unico squallido camerino, mi presentò agli attori, la bra­ vissima Rosette Zucchelli, altri giovani un po' timidi che si stavano struccando. Dopo quella sera lo rividi una sola volta, al Teatro di Montmartre, nella Cimice di Majakovskij. Entrava in scena dalla de­ stra, immobile su un tappeto rotante, usciva dalla sinistra, una sola bat­ tuta, lo si rivedeva al finale confuso tra gli altri attori generici , sempre un po' assorto e stonato: lui, il geniale professore della Leçon, che aveva trasformato le alchimie verbali di Ionesco in una pagina musicale, in una dimostrazione algebrica! N e provai una grande amarezza. Ma quell'anno molti attori erano finiti in altri mestieri, piazzavano anche elettrodomestici o roba del genere e ne conoscevo uno dei più fortunati che tutte le sere alle undici doveva correre in un teatro, vestirsi da uffi­ ciale della marina americana e dire due battute nel terzo atto dell'Am­ mutinamento del Caine, il che gli permetteva di vivere da quasi un an­ no. Oggi ritrovo Marcel Cuvelier a capo di una Compagnia che agisce allo studio del Teatro dei Champs Elysées, regista e interprete di Oblo­ mou, due atti che egli stesso ha tratto dal romanzo di Gon�arov. Lo stu­ dio si trova al quarto piano, nelle soffi tte, e vi salgono un centinaio di spettatori . Tutta la folla che avevo visto sul marciapiedi era invece qui 76 7

per il ritorno di Maurice Chevalier che, a 75 anni, canta giù, nel teatro vero e proprio. Oblomov! Era questo il vero personaggio di Cuvelier, il più ingan­ nevole che si possa pensare di trascinare sulle tavole di un palcoscenico. Il suo dramma è già consumato prima di cominciare. Ecco, si apre il si­ pario e Oblomov è a letto, affranto e pensoso, fissando il pubblico come un naufrago che non chiede soccorsi. Deve scrivere una lettera, la famo­ sa lettera al padrone di casa per evitare lo sfratto, tenta un paio di volte, ma un banale intoppo sintattico lo fa rinunciare, sfinito. Così il tema è enunciato: Oblomov è la vittima di un oscuro desiderio di perfezione, che porta diritto alla rinunzia del possi.b ile. E si capisce che Cuvelier abbia scelto proprio Oblomov: quest'illustre velleitario dev'essere il suo vero tormento, o una grande giustificazione. Certo è che raramente ho visto un attore entrare così nella pelle del suo personaggio, nei suoi si­ lenzi. Per esempio: la prima cosa che viene in mente pensando a Oblo­ mov è che si tratti di un pigro, siamo dunque preparati a vederlo nell'abbandono fiacco dell'ozio, sbadigli, stiramenti di braccia, grattatine, ricerca delle pantofole, eccetera. Cuvelier si è ricordato invece di quel che diceva Vauvenargues, che le persone pigre hanno sempre voglia di fare qualcosa, e il suo Oblomov è un pigro lucido, tormentato dal demo­ ne dell'attività. La ricerca del sonno nel suo grande letto è un combatti­ mento dal quale ogni volta esce vinto, e così la ricerca dell'amore, il mi­ raggio dell'amicizia, dei viaggi , della nuova vita. Egli non rifiuta le cose per inappetenza ma perché le ha già sofferte, amate e giudicate nell'im­ maginazione. C'è una lunga scena nel primo atto, quando l'amico scrit­ tore molto attivo gli racconta le trame delle sue novelle, che è la chiave del dramma, la chiave anche di Goncarov (il quale ci mise dieci anni a scrivere Oblomov, sarà bene ricordarselo, e poi non voleva pubblicarlo) e finisce per essere anche la chiave di Cuvelier. Non ci si accosta a Oblo­ mov senza restarne un po ' contagiati, senza credere almeno per un atti­ mo che la rinunzia è già un lavoro, forse il più faticoso, comunque l'unico possibile nella generale vuota e frenetica attività. Goncarov finì la sua esistenza dominato dall'ombra del personaggio che aveva creato, e anche la commedia subisce la stessa sorte. Vorrei dire che il personaggio alla fine ne modera gli slanci e le cadute drammatiche, forse Cuvelier non cerca più nemmeno gli applausi , perché infine sarebbero bastati po­ chi tocchi di repertorio, appena una compiacenza buffonesca, per andare incontro al pubblico. Niente. Esiste il pubblico ? Cuvelier affonda nelle sabbie mobili del sonno assieme al suo personaggio; ed è per me questa rinunzia oblomovistica a ogni facile effetto che fa grande la sua inter­ pretazione. Dopo la recita volevo andare a salutarlo, a fargli i miei com­ plimenti. Ahimè, Oblomov mi aveva tolto ogni volontà, eccetto quella di tornarmene a letto. 7 3 ottobre 7 963 762

Chi ha paura di Virginia Woolj? di Edward Albee Nella società attuale o, meglio, nella rappresentazione della società attuale, il Marito e la Moglie sono i personaggi principali per la loro tendenza drammatica a respingersi reciprocamente nel tentativo di co­ noscersi meglio. Ma perché poi €onoscersi meglio quando ci si può ren­ dere addirittura estranei ? Perché tentare di amarsi quando l'odio, anzi il disprezzo, lentamente documentato nella vita in comune, ci restituisce a noi stessi, ci "libera" ? Perché insomma vivere insieme se la vita resta egualmente una lunga solitudine ? Queste e altre domande trovano da qualche tempo le loro risposte nei romanzi, nei film, negli studi degli psicanalisti e nel teatro. Scrittori come Jouhandeau, che basano il loro lavoro sull'esame spietato della vita coniugale, hanno già la loro scuola: il cinema poi, con l'evidenza esemplare delle immagini, ha messo il te­ ma alla portata di tutti. Certo, a pensarci bene, da ogni coppia di coniu­ gi emana qualcosa di comico, perché essi lottano attorno a un segreto conosciuto da tutti . La vita attuale, la raggiunta parità dei diritti, alme­ no sul piano teorico, rende anche ridicola la lotta dei sessi e infatti il di­ vertimento si è spostato su un'altra lotta, quella del prestigio. L'uomo è sceso già dal suo seggiolone di patriarca e alla donna, come dice Ador­ no, non resta che esprimere la falsità dell'unione, nella quale d'altra parte essa cerca tutta la verità. Artisticamente il problema è eccitante per la grande varietà di solu­ zioni che sopporta. Si può tentare di risolverlo applicando le formule dell'incomunicabilità; se vi sembra vieux Jeu , con la falsa incomunicabi­ lità, come nello straordinario romanzo di J unichiro Tanizaki, La chia­ ve, dove due coniugi tengono ognuno un diario segreto nella speranza che venga letto di nascosto dall'altro coniuge. Si può fare dello squisito pettegolezzo sulla propria moglie, come appunto Jouhandeau, si può ri­ correre infine all'eccessiva comunicabilità. Questo metodo è consigliabile nelle opere teatrali perché favorisce la spigliatezza e la volgarità del dia­ logo. Lo ha scelto Edward Albee nella sua commedia Chi ha paura di Virgin ia Woolf? e, bisogna dire, con un successo sbalorditivo, che apre la strada (il successo, non la commedia) a un'altra considerazione. Che cioè oggi il matrimonio è una catastrofe temperata dal "dialogo", dalle infinite, sottili torture morali che i coniugi possono infliggersi. Col risul­ tato, sembra, di diventare indispensabili l'uno all'altro. Ed è questo, alla fine, che rende comici i personaggi. (Del resto, quando due attori comici decidono di sfruttare il loro successo che cosa fanno ? Fanno coppia, si­ mulano, cioè, il matrimonio, come Stanlio e Ollio e via dicendo. Ren­ dendosi indispensabi li reciprocamente aumentano la pressione del ridi­ colo.) Ora , a mente calma, depositate le prime im pressioni, dobb iamo con763

fessare di non aver paura di Virginia Woolf. Quel che ci resta di questa commedia è il ricordo di una macchina costruita molto bene in vista del successo più ampio, quindi senza esclusione di colpi bassi, senza nem­ meno l'esclusione di quella "speranza" che sembra inevitabile per rassi­ curare il pubblico dopo averlo, magari, spaventato col catalogo delle sgradevoli verità correnti sul matrimonio e sulla società attuale. Albee è certamente un mostro di bravura, ma un mostro ricapitolativo, che non scopre niente, conosce molto bene i suoi autori, l'umore del suo pubblico e il momento giusto. La sua commedia arriva in perfetto orario. Quando si leva il sipario siamo nel severo living-room dei coniugi Marta e Giorgio, lei 52 anni, lui 46. Tornano da una festa già 'bevuti" , non propriamente ubriachi m a in quello stato d i ebbrezza che favorisce le pungenti verità; e cominciano infatti a dirsele, con un'allegria un po' sinistra. Spettatrice del dialogo è un'altra coppia, questa di giovani, in­ vitati per prolungare la festa. Essi dovrebbero rappresentare l'innocenza (appunto) della gioventù, ma ben presto vediamo che sono fatti della stessa pasta dei loro anziani ospiti e che covano già i sentimenti dell'odio e della diffidenza coniugale. A rapidi colpi, l'onorabile facciata che nasconde il ménage Marta-Giorgio viene frantumata, Giorgio ha fatto la sua brava carriera universitaria (è professore di storia in una università del N ew England) grazie alla moglie che è figlia del rettore: e costei, dopo un periodo di amore per il suo sposo, ne ha scoperto sia le squallide ambizioni di arrivista che l'incapacità di soddisfarla sessual­ mente. Non hanno figli, cioè (attenzione! ) ne hanno uno fittizio, che si sono inventati per popolare la loro solitudine: e su questo figlio immagi­ nario fanno talvolta i loro progetti per consolarsi del fallimento matri­ moniale. Quella sera stessa (tutta l'azione si svolge in poche ore), Marta deci­ de di portare un colpo decisivo alla dignità e all 'orgoglio di suo marito, imponendogli l'umiliazione del tradimento col giovane ospite che, pro­ fessore anche lui della stessa università e allievo-arrivista, sente di non doversi sottrarre agli sgangherati desideri della figlia del suo rettore. Ma il quadro non è completo. Anche la quarta persona, la gracile e pu­ dica Honey, la moglie del giovane, scopre la sua magagna: l'orrore per la maternità che evita ogni volta interrompendo le sue gravidanze. Il giuoco è questo. Conoscete certamente Huis clos di Sartre: qualco­ sa di simile nell'impianto drammatico dei personaggi , nella reiterata violenza delle loro recriminazioni. Sicché l'elegante living-room del pro­ fessore si trasforma in una bolgia per quattro, calda e illuminata bene, dove la pena dei dannati è tutta nello svelamento reciproco delle colpe, delle incapacità, delle bassezze morali. E una volta giunti alla fine si ricomincia, perché questo è l'inferno sartriano, la condanna alla ripeti­ zione. 764

Abbi amo citato Sartre e lo stesso Albee riconosce il suo debito. Vo­ gliamo aggiungere lonesco, presente ogni tanto nell'implacabile follia del dialogo, che non resta però esente da un grave sospetto di petulanza, la petulanza dei misogini ? Vogliamo aggiungere Pirandello? Aggiun­ giamolo. Alla fine il professore, per vendicarsi in qualche modo, decide di "far morire" il figlio fittizio e ne dà notizia alla moglie. Ecco, anche quel sentimentale legame s'è spezzato tra i due. I sogni della ragione malata (conformista, borghese, eccetera) non partoriscono più nemmeno i mostri. E tutto sarebbe perfetto se a questo punto, macchina indietro, Albee non proponesse la "speranza", la sporca speranza, come diceva il suo maestro Sartre. M andiamo a letto il pubblico con un po' di speran­ za, no ? " Chi ha paura di Virginia Woolf? » chiede cantilenando Gior­ gio a Marta sulle rovine della loro unione. « Io, tanta » risponde Marta stringendosi a lui sconfitta. Insomma è da supporre che si metteranno d'accordo, bamboleggiando, come nei vecchi finali di Géraldy. Voler vedere nella commedia di Albee soltanto una diagnosi di un certo ambiente nordamericano sminuirebbe il suo impegno. Essa mira a coinvolgere tutta la società occidentale. Zeffirelli, nella presentazione del programma, riporta a questo proposito una frase di Albee: « Ormai vi­ viamo in un unico mondo e partecipiamo di un'unica pena "· Per aggra­ vare il sospetto, il protagonista della commedia, verso la metà del se­ cond'atto, quando la demistificazione dei personaggi è già a buon punto, si mette a leggere un libro (di autore a me ignoto) e ne cita questo afori­ sma un po' grossolano: " L'Occidente, schiavo di una morale troppo ri­ gida per potersi adattare al rapido mutare degli avvenim e nti (mio Dio, stavo per scrivere accoppiamenti) è destinato a una sicura catastrofe " · · · M a veramente siamo schiavi d i u n a morale troppo rigida ? O, co­ munque: la rivolta non è già in atto e non sfoga persino in eccessi ? Ap­ pena cinquant'anni fa, e anche meno, lo stesso pubblico che oggi ap­ plaude questa commedia fino a spellarsi le mani avrebbe linciato il suo autore. Oggi , è chiaro, il pubblico applaude non soltanto la maestria di Albee e il suo linguaggio abbastanza crudo ma soprattutto applaude il soggetto che ha scelto, la crisi del matrimonio, sia pure come riflesso della crisi personale degli autori , che bisognerà risolvere, altrimenti la nostra società trascorrerà il suo tempo come il Laocoonte, in una lotta che la lascerà soccombente o senza fiato, perlomeno a teatro. Resta a dire dello spettacolo. Ineccepibile la regia di Zeffirelli: come massimo elogio potremmo dire che non si faceva avvertire e traduceva pianamente anche i punti sospetti . Bravissimi gli attori . Enrico Salerno guidava il giuoco con una mi rabi le perfezione e Sarah Ferrati, che era alle prese con il personaggio più complesso, l'ha reso credibi le. Umberto Orsini e Manuela Andrei sono stati eccel lenti . Bene gli altri , cioè il pubblico, che ha fatto del suo megl io. 20 ottobre 7 963 165

In memoria di una signora amica di Giuseppe Patroni Griffi Sto leggendo un libretto, edito dal Teatro Stabile di Genova, su un convegno tenuto a Milano l'inverno scorso, con drammatiche relazioni sulla responsabilità della critica, su quella dell'attore, sulla libertà e i li­ miti della regia, sugli scrittori di teatro d'oggi e sui teatri stabili nel tea­ tro di domani. È una lettura piena di insegnamenti per chi tenta di oc­ cuparsi di teatro. Dovrei citarne la metà, gli aforismi di Guerrieri, le moralità d i Rebora, le certezze di Squarzina: ma perdonino critici, auto­ ri e registi se, dei presenti al convegno, preferisco citare un attore. Dice dunque Achille Millo, rispondendo a un invito di Diego Fabbri (per un repertorio italiano) : lico dei rioni. Gli altri fanno accademia, con il Birignao dell'accademia, cui si aggiunge il Birignao dell'avanspettacolo visto intellettualisticamente. Il risultato è sconcertante e un po' fastidioso. Le parole scurrili e i gesti un po' audaci cadono nella platea senza suscitare quell'eco sbraca­ to e gongolante che solo può giustificarli in un teatro di periferia, dove il pul*>lico non ha la parte meno impegnativa, ma deve anzi pretendere quel linguaggio e quel contegno; dove tutte le allusioni vengono provo­ cate, sottolineate, corrette, completate; dove a un certo punto sulla scena possono piombare in segno di biasimo anche gatti morti e comunque quasi sempre un gatto vivo esce inopinatamente dalle quinte. Il vero avanspettacolo vale dunque nel suo insieme inscindibile, nel dialogo che si stabilisce tra platea e palcoscenico, per la messa in scena sommaria, per la dura esperienza degli attori, per quell'aria di provvisorietà, di breve durata, di anonimo, infine di vera e sana volgarità. Volerlo susci­ tare su un palcoscenico normale, anzi abbastanza pretenzioso come quello del Quirino, con una Compagnia che si è imposta un programma "ad alto livello", Shakespe àre, Brecht, Beckett, porta solo a un risultato di confezione cui viene a mancare la verità, la necessaria sfrontatezza, e che non raggiunge mai il tono giusto. Mi sembra, tutto sommato, uno spettacolo che nasce da una contrad­ dizione. Pasolini dice che il teatro dialettale sì, andrebbe bene per trasfe­ rire Plauto, ma Plauto non è dialettale. Ci si aspetta dunque da lui una traslazione in lingua (accesa come si vuole, ma in lingua) e invece la traduzione è in romanesco, quel particolare romanesco delle borgate che i romani del vecchio centro non si sognano di parlare, un misto di gergo, di italianetto e di contaminazioni furfantesche. In più, tutto questo è in settenari doppi, cioè in versi martelliani, come La partita a scacchi. E ciò « a protezione della aristocraticità sostanziale (del testo), della sua letterarietà ... Vogliamo evocare l'ombra di Molière ? Evochiamola. Nelle canzoni invece si torna al Sor Capanna e agli stornel li accompagnati dalla chitarra. Difficile orientarsi tra tanto entusiasmo. E come si può passare da espressioni gergali a un italiano acconciato in romanesco, senza avverti­ re lo stridore ? Un romano ignora il verbo "cigolare" e non saprà mai che cos'è un "uscio"; ma il servo Palestrione (Glauco Mauri) sentendo che la porta di casa continua ad apri rsi non esita a dire: " Aricigola l'uscio ,., dove la "a" reiterativa romanesca fa Petroli n i a sua insaputa. Ho scelto un piccolo esempio a caso, il copione ne offre di continuo. Su questo copione Franco Enriquez non poteva non contraddirsi an­ che lui, facendo dello spettacolo un divertissement a volte troppo acceso, 185

a volte glaciale. Degli attori non possiamo non lodare Glauco Mauri, che sosteneva la parte più faticosa, sempre in colloquio col pubblico, e Valeria Moriconi piena di un fascinoso e corretto impegno nella parte della Cortigiana. Ricordiamo anche Renato Campese, Sergio Di Stefa­ no, Nivio Sagnotti come i più vicini all'ideale avanspettacolistico, oltre al De Cristofaro e al Riccardini, un "vantone" molto amabile e rasse­ gnato. Pubblico normale e staccato, come dicevo, dall'esperimento. Non se la sentiva di far coro, soffocava a volte le sue risatine nervose, applaudi­ va lo sforzo degli attori , se ne fregava di Plauto e sgombrava senza fare commenti. 72 gen naio 7964

William Shakespeare, Opere complete, traduzione e cura di Gabriele Baldini, ed. Rizzoli Se le feste decembrine non servissero almeno a far uscire dei buoni libri, nella speranza che l'euforia universale ne favorisca lo smercio, sa­ rebbero, penso, eccessive. Ho invece qui sul mio tavolo le Opere comple­ te di Shakespeare « nuovamente tradotte e annotate da Gabriele Baldi­ ni », e debbo dire che sono state il mio conforto natalizio. Sono tre bei volumi editi da Rizzoli , rilegati in pelle, che si lasciano carezzare come i buoni libri di una volta, il taglio di testa dorato, la stampa impeccabile e , dentro, tutto Shakespeare, compresi i Sonetti e i Poemi. E tradotto da un amico! Che si vuole di più ? Mi butto alla lettura dell' Introduzione, una settantina di pagine fitte, e mi accorgo che il professar Baldini resta a tenermi compagnia, lo riconosco già nella sua prosa calma e piena di umore, con impercettibili spiragli di impertinenza, la sua solidissima cultura, l'antica giovialità, un raro buon senso e qualcosa che illumina tutto questo: un profondo amore per Shakespeare, un amore probabil­ mente ricambiato e che fila senza una nube. Dico probabilmente perché oltre all'Introduzione mi sono soffermato solo sull'Amleto e sulle Allegre comari di Windsor, le due opere più legate all'attualità dei teatri roma­ ni. L'Amleto miete ancora successi all'Eliseo e Falstaff al Teatro dell'Opera. Particolare commovente: regia di Franco Zeffirelli in tutti e due i casi . Bene, proprio nell'atrio del Teatro dell'Opera, durante le prove del Falstaff, incontro sere fa il professar Baldini dopo un anno che non lo vedo. Parliamo del suo Shakespeare e mi dice, sorridendo, quasi per scusarsi, che a questa traduzione ha lavorato quindici anni, cioè dal 1 948. Sembra l'altro ieri , il '48. A quell'epoca io e Baldini ci vedevamo 786

quasi tutte le sere per cenare assieme, poi il giovane docente, tornando a casa per i lungotevere deserti cantava arie del Don Giovanni, che sape­ va quasi tutte a memoria. Baldini, quando vuole, sa essere il compagno ideale, di un'arguzia sempre fine e documentata, di una sovrana dispo­ nibilità allo scherzo e al buonumore. Una delle sue bravure giovanili, che m'incantava, era quella di dirigere la musica incisa, cioè i dischi. Si metteva davanti al fonografo e con la bacchetta scandiva il tempo, dava le entrate agli strumenti, portava l'orchestra all'unisono, senza mai sba­ gliare. Il bello era che nemmeno l'orchestra sbagliava. Dove mi sembra che diventasse geniale era nell'imitare l'attore John Barrymore, il bello, tenebroso, fremente John Barrymore, nel monologo dell'Amleto . Non credo di averlo mai sentito recitare meglio. Ma una sera, reduce da Ox­ ford, Baldini doveva superare se stesso tenendo a pochi amici una lezio­ ne in inglese sul V canto dell'Inferno. La ricordo ancora. Egli suppone­ va che l'oratore, un dantista inglese poco preparato ma volonteroso, scambiasse il verbo "scolorocci" ( . . . quella lettura, e scolorocci il vfso . . . ) per un sostantivo; e ormai avviato sulla china dell 'errore fatale, cercasse disperatamente di capire che razza di animaletti fossero mai questi sco­ lorocci. O forse erano soltanto pùstole? Alla fine della sua conferenza mi resi conto di una verità: che i nostri migliori attori li ignoriamo per­ ché prendono altre carriere. Baldini sarebbe stato uno straordinario at­ tor comico, eccolo invece ottimo scrittore e professore d'università. A quei tempi . . . « quand'era paggio del duca di Norfolk », era anche lui, Gabriele, sottile, vago, leggero, gentile ... Ora ha più le arie di un padre nobile, il volto incorniciato da una barba mangiafuoco, ha scritto uno scaffale di libri, insegna alla Sapienza, e ha forse raggiunto e fuso insie­ me i suoi ideali di gioventù, sir John Falstaff e K. G. Chesterton. Infat­ ti, di questi due archetipi, il vitale e il letterario, ha le qualità migliori: il brio, la sicurezza, l'umana tolleranza, una certa scienza gastronomica, la buona memoria, una mostruosa capacità di lavoro e il senso del tem­ po. Per Gabriele Baldini il tempo è una dimensione che lavora per noi e per cui dobb iamo lavorare. Non conosce le angosce e la vanità del tem­ po, né l'inutilità del vivere. Quando ha cominciato a tradurre il suo Shakespeare sapeva che, a una media di due opere ogni anno, se la sa­ rebbe cavata in quindici anni. Chiunque, al suo posto, avrebbe lasciato perdere. Invece, ecco, siamo alla fine del '63 e i tre volumi sono usciti e, d'ora in avanti, faranno testo. Comunque, non si potrà ignorarli, perché sono il risultato di uno studio profondo ed esteso delle varie fonti scespi­ riane, dell'immensa bibliografia scespiriana e nascono, come dicevo, dal grande amore che Baldini cova per il poeta elisabettiano sin dalla sua prima fanciullezza. Tradu rre Shakespeare, come Baldini osserva , non è impresa da af­ frontare senza una minuziosa preparazione; è un viaggio pericoloso dal 187

quale si può anche non tornare. Shakespeare, che in un periodo di vent'anni scrisse tutta la sua opera e poi tacque di colpo, non dava gran peso alla stampa dei suoi "copioni" e non ne curò particolarmente nes­ suno, forse perché egli li giudicava destinati soltanto al palcoscenico. Non esiste dunque un'edizione critica e tutti coloro che intendono tra­ durre Shakespeare (anzi, " non soltanto quelli che traducono, ma più semplicemente quelli che "leggono" ,,) debbono scegliere caso per caso tra le soluzioni proposte e talvolta proporne addirittura di nuove. Si può dire che ognuno traduce e legge il "suo" Shakespeare. Cosicché il pro­ fessor Baldini sottintende in sostanza (sono sue parole) « un suo testo », anche se riconosce l'autorità dei vari commentatori. Shakespeare scrive­ va in versi, ma quale traduttore potrebbe oggi imitarlo e seguirlo su questa strada ? Oggi il traduttore deve dare il senso della poesia del suo autore, non ammannirei la propria. Voltaire che era invece poco convin­ to di questa necessità non si provò forse a tradurre l'Amleto in versi alessandrin i ? . . . « Demeure, il faut choisir, et passer à l 'instant j De la vie à la mort ou de l 'ètre au néant . » Ecco, in poche parole, come vede­ va il To be or not to be. Baldini ha tradotto tutto in prosa, non soltanto ,, perché il verso non veniva »: ma per rendere chiaro il testo nei partico­ lari . Adottando la prosa, Baldini conosceva già i tranelli che essa pre­ senta e la tentazione irresistibile che afferra il teatrante di abbandonarsi a una lingua « spiccia, disinvolta, rapida, colloquiale, semplificata all'estremo » e con indulgenze dialettali . I pericoli di questa tentazione li abbiamo visti, per esempio, nell'ultima traduzione dell'Amleto, di Guer­ rieri , dove la necessità di rendere incisivo e attuale il discorso ha portato poi alla scena dei due becchini che parlano con grave accento napoleta­ no, e ad altre storture (queste di regia) a mio avviso più gravi , come la pazzia di Ofelia risolta in chiave clinica. A Baldini è venuto naturale « muoversi nel seminato del Manzoni », cioè adottare una prosa sostenuta, ricca, civile, ma assolutamente chiara. Una prosa che può apparire a tratti un po' meublée se non si tien conto dell'impostazione barocca dei drammi scespiriani. Io, da modesto lettore, l'ho trovata sempre limpida e affascinante, non ho mai avvertito nel tra­ duttore né la stanchezza dell'impegno né soprattutto il pentimento di averlo accettato. Baldini porta il "suo" stile con maestosa e ironica di­ sinvoltura e, alla fine, di tutte le traduzioni che abbiamo saggiato, la sua ci appare quella più naturale, non un pedantesco servizio al Poeta e nemmeno una disinvolta esemplificazione. È una lettura nuova, l'occa­ sione di un colloquio serio e filato con il Poeta, quella che Baldini ci propone. Francamente, non poteva sedurci meglio. 19 gennaio 1 964 .

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Paolo Paoli di Arthur Adamov Arthur Adamov è, tra gli scrittori che conosco, quello che sta pm nella parte. Quando lo vedo a un tavolo del Café de Flore, o a un tavolo della Brasserie Lipp, nobilmente sperduto nelle sue fantasie, mi sor­ prendo a invidiargli tutto: la sua distrazione, la maniera amabile di sa­ lutare eccessivamente un ammiratore sconosciuto, le sue scomparse im­ provvise. Mi ricorda un po' Bruno Barilli da Aragno, come lui destinato a una solitudine da caffè, la più aristocratica delle solitudini. Non lo ve­ do cioè nella sua casa, tra i suoi libri, allo scrittoio, ma mischiato alla gente e irraggiungibile . . . Solo, coi suoi taccuini che riempie di segni ra­ pidi e chissà come incisivi (oh, il rispetto che ho per i taccuini degli al­ tri , io che non riesco ad averne uno senza riempirlo di sciocchezze), egli mi appare come il depositario di quella intelligenza francese che si è fatta appunto nei caffè, nel commercio q uotidiano delle idee, delle pro­ teste, delle illuminazioni e delle battute. Trasandato e solenne, fisica­ mente Adamov appartiene a quei brutti che emanano una loro luminosa bellezza spirituale: immaginate il fratello buono, anarchico e missionario dell'attore Humphrey Bogart. Le sue opere teatrali sono esattamente il suo ritratto, sconcertano anche per un loro ottimismo scontroso, ma ispi­ rano infine una tenera simpatia. Lo scultore Brancusi disse una volta: « Quando non si è più fanciulli, si è morti "· Ecco, questo potrebbe esse­ re il sunto delle opere di Adamov, una disperata permanenza nella fan­ ciullezza, per non morire. Prendiamo la sua commedia Paolo Paoli, che il quasi omonimo Pao­ lo Poli presenta al Teatro delle Muse in una perfetta elegante edizione. Adamov vi illustra la belle époque del primo anteguerra, quella di Fa­ lières e di Feydeau (ma anche di Proust), con un trucco che si scopre subito: illustrando le azioni un po' ciniche dei personaggi con le canzoni del tempo, quelle canzoni che fanno invece intravedere una vita assolu­ tamente gaia, sincera, libera dalle attuali angosce, sfrenata anzi , e piace­ vole al ricordo, perché sono le canzoni di un mondo che ha trovato l'equilibrio e la felicità. Dal contrasto tra le azioni dei personaggi (un venditore di farfalle, un prete reazionario, un rapace bourgeois e alcune sventate donnine) e la gaiezza delle canzoni dovrebbe nascere il giudizio sulla belle époque: era un tempo in cui « con la scusa dei buoni senti­ menti e delle buone intenzioni, tutto si vendeva e tutto si scambiava "· Non solo: " tra un cantar di dolci melodie cresceva un secolo che, nato all'insegna dell'operetta, cominciò a farsi adulto con la tragedia di una grande guerra ,. Non sarebbe una scoperta difficile a farsi, perché anche oggi è tempo di belle époque e sappiamo bene che cosa si smercia sotto la nostra ap­ parente vitalità . Ma certo il primo Novecento resta esemplare perché la .

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sua farsa prelude le carneficine delle due guerre mondiali, i neo-nazio­ nalismi, gli odi razziali, il soffitto dell'era atomica. Quell'apparente feli­ cità nascondeva dunque ben altro che il cinico commercio di farfalle e di fiori che Adamov prende a simbolo. Nascondeva la mostruosa crisi dell'Occidente, denunciata da profeti e filosofi. I colpi di Adamov arri­ vano un po' in ritardo e mollemente. Tant'è vero che se qualcosa lascia perplessi nella sua commedia è proprio la denuncia; che vorremmo più feroce e attuale, mentre resta cortese, allusiva, galante. I dialoghi tra i personaggi possono apparire dei siparietti introduttivi, talvolta persino didascalici e spesso lunghi. La loro satira non graffia. Così , una volta scoperto il giuoco, e cioè che ogni dialogo dovrà essere fatalmente com­ mentato da una canzone di quei tempi, lo spettatore perde ogni fiducia nell'azione e aspetta le illustrazioni. Paolo Poli è un attore-cantante pieno di estro, le canzoni sono quasi tutte belle e da catalogo, il colpo quindi riesce. Adamov e la sua denun­ cia diventano per fatale ironia il pretesto per uno spettacolo curato col gusto e gli scopi della belle époque, cioè fantastico, bizzarro, dissetante. Si ammirano le graziose scenografie, gli attori che attorniano Poli, Lia Origoni, Claudia Lawrence (che ha anche impostato le coreografie), Graziella Porta, Jole Silvani , Castellaneta, Borioli, Celso. Si resta grati al loro buonumore, alla gentilezza civile della rappresentazione, che è impeccabile. E si spera (tanto siamo irriducibilmente legati all'ottimi­ smo per l'epoca in cui viviamo) che spettacoli come questi trovino un pubblico, una società più vivace. Perché diciamolo purè, questa nostra società non soltanto si annoia, ma è noiosa. 26 gennaio 7 964

Sei personaggi in cerca d'autore di Luigi Pirandello > scriveva da cattivo profeta « nontoccorre rappresentarlo sul­ la scena, anzi occorrerebbe appena raccontarlo, se la nostra immagina­ zione non fosse divenuta impotente a forza di liete fini. » No, la storia del professore e della fioraia non poteva restare nei li­ miti della sua rigorosa ironia. Il mondo la reclamava. Forse si "ricono­ sce" in essa, e certamente vi trova un sapore di lotta perduta, di tempi senza angoscia, di gradevole pulizia. Per questo trovo esattissima, anzi 202

l'unica possibile, la impostazione data allo spettacolo, il tono preciso del­ la scenografia, senza invenzioni ma odorosa di vecchi calendari e di la­ vanda, la musica che non solleva problemi ma soltanto ricordi, lo svilup­ po dato alle scene dell'educazione di Eliza (inesistenti nella commedia) e soprattutto le belle spiritose canzoni che canta Higgins, e che segnano la sua condanna. My fair lady conferma che una certa betise fa lievitare il capolavoro e lo rende mangiabile. Spostatasi ora da Milano a Roma, l'edizione italiana sta conoscendo il più cal.do successo. Farne gli elogi mi sembrerebbe superfluo e persino risibile. Gli attori sono fors'anche stanchi di sentirsi dire che sono bravi. Ma lo sono. Delia Scala, Tina Lattanzi, Cesare Bettarini e Gianrico Tedeschi, più di tutti calato nella parte, sempre scabro, arguto e profon­ damente Higgins. 22

marzo 1964

Galileo di Bertolt Brecht La forza di uno spettacolo come il Galileo è didattico-cerimoniale; e vorrei aggiungere, possibilmente senza ironia: di rito ambrosiano. Assi­ stendovi mi veniva in mente che nel nostro paese due sono i registi che hanno capito lo spettatore e sanno tenerlo a rispettosa distanza: Strehler e la Chiesa. Cioè, hanno capito che la forza di un'idea è in rapporto di­ retto all'irreprensibilità delle cerimonie che la celebrano, alla carica di mistero che vi aggiungono, quell'imponderabile sacralità che emana dal gestire calmo, dalle lunghe pause, dalle improvvise coreografie. Ecco qua il palcoscenico dell'Eliseo chiaro e squadrato come una navata del VI secolo, le triangolazioni pitagoriche delle capriate, il tavolo da lavoro di Galileo, concepito come un lungo altare, un coro di voci bianche . . . tutto insomma ispira alla calma delle grandi occasioni spirituali. L a fi­ ducia di Bertolt Brecht per le dimostrazioni lunghe e diffuse ci spaventa un po', ma speriamo nelle rigorose estasi di Giorgio Strehler. Queste daranno allo spettacolo il tono della scientifica rappresentazione, calcan­ do di un peso inaspettato la semplicità del testo, dandogli quel decoro che piace agli appassionati di divulgazioni artistiche e di enciclopedie, e che inquadra involontariamente il dramma di Brecht nel programma delle celebrazioni galileiane per il quarto centenario della nascita. Non a caso, nell'atrio del teatro, c'è una mostra appunto galileiana, con riproduzioni di manoscritti e disegni, forse per rassicurare il pubbli­ co che il Gali leo che interessa Brecht è anche quello scientifico-popolare del cannocchiale, dei pianeti di Giove e degli studi sulle macchie solari e su Venere. E che a questi argomenti si accennerà spesso durante il cor­ so del dramma. 203

Bertolt Brecht, di cui ammi ro le profonde risorse teatrali, mi lascia

nei dubbi quando comincia a dimostrare qualcosa. Succede che egli par­ te sempre da premesse ideologiche che lo soddisfano pienamente e tratta il tema prescelto in vista del loro trionfo, forzando qua e là, sottolinean­

do col tono cortese, ilare ma fermo del pedagogo. Egli dunque non fa "storia", e nemmeno poesia (questa semmai deve risultare dalle conclu­ sioni o resterd:Oe una futile sovrastruttura), ma interpreta la storia col

sentimento contemporaneo, la rivolge in moralità, la estenua in didasca­ lie, il che in definitiva

è

qualcosa che sta tra la propaganda pensosa e la

persuasione occulta. La forza e i limiti del teatro epico sono · qui, nei personaggi ben campiti del loro colore, come nelle

imageries,

in una co­

stante ricerca della battuta-slogan, in quell'ottimismo casuale che mette a disagio. D'accordo,

è

abolito il naturalismo, il discorso si fa civile, po­

litico, ma serve a convincere soltanto chi

è

già convinto. I buoni sono ot­

timi e i cattivi pessimi. Tutti vivono solo per dire ciò che pensa l'autore. Viene da chiedersi che

cosa

si proponeva Brecht scrivendo la vita di

Galileo. Certo dimostrare le colpe della Chiesa contro la scienza, ma queste sono già state ammesse, anzi la chiesa

è

diventata come la scien­

za, progredisce sui propri errori , provando e riprovando. A Brecht inte­ ressava soprattutto adombrare la lotta di classe nell'antagonismo tra Galileo e la Chiesa. Galileo

è

il campione dell'era nuova, la Chiesa sim­

bolizza e riassume i potenti della Terra. Poiché Brecht allude sempre a una situazione in atto, quel che gli interessava mettere come messaggio in questa sua bottiglia non era un rimbrotto a Galileo, colpevole di abiura, quanto un avvertimento agli in­ tellettuali contemporanei. La situazione si sviluppò sotto i suoi occh i, mentre scriveva il d ramma e del messaggi o dovette darne due versioni. Nella prima, l'abiura di Galileo

è

soltanto una mossa per ingannare

l'Inquisizione. Abiurando, lo scienziato si assicurava la tranquillità per dedicarsi in segreto alle sue ricerche.

È

l'esaltazione della criptoattività,

dedicata a tutti coloro che devono fare i conti con un'autorità temporale detentrice del dogma. Impostata

così

l'equazione, non ci resta che trova­

re quale autorità, nel '38, avrd:Oe potuto essere identificata nell' Inquisi­ zione. Queste "autorità" potevano essere due: il nazismo e un'altra più forte e imperscrutabile, quella che due anni prima aveva ordinato le grandi "purghe" del Partito, eliminando intellettuali di provata fede. Brecht consigliava dunque l'abiura ai suoi stessi compagni di lotta ?

È

probabile. Soltanto visto da questo angolo il suo messaggio ha un senso epico. Nella seconda versione, scritta dopo Hiroshima, quando il mondo si domandava stu pefatto se gli scienziati non stessero lavorando per la scomparsa della specie umana, il messaggi o si fa

eco

di questa angoscia.

Galileo ammette di aver abiurato per paura delle torture fisiche, am­ mette il suo tradimento non solo verso la scienza ma soprattutto verso la

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società, che restava oppressa dai potenti : poiché, arrestando il progresso della scienza si ritarda il progresso e la liberazione delle classi dominate. ( « N on credo ,. dice Galileo " che la scienza possa avere altro scopo che quello di alleviare le fatiche umane. ») In più, Galileo ammonisce gli scienziati futuri a reagire all'intimidazione dei potenti egoisti, a guar­ darsi dall'accumulare " sapere per sapere ». Nella sua invettiva al giova­ ne Sarti profetizza " una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi as­ soldare per qualsiasi scopo ». (l fisici del progetto Manhattan. ) E ag­ giunge: " E quando, con l'andar del tempo, avrete scoperto tutto lo sco­ pribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall'umanità. Tra voi e l'umanità si scaverà un abisso così grande, che a ogni vostro "eureka" risponderà un grido di dolore universale ». Questo messaggio è rimasto valido, politicamente, per una decina d'anni , fin quando (t 2 agosto t 953) anche l'Unione Sovietica ebbe la sua bomba atomica. Dopo perse un po' del suo valore epico, per conservare quello sentimentale e innocuo delle profezie. Tutto considerato, quel che si proponeva Brecht trattando la vita di Galileo brancola tra i due messaggi, e poteva essere costretto in uno spettacolo meno ambizioso e di minor durata. Ma è certo che la diffu­ sione nei particolari (Galileo sulla scena fa anche alcuni esperimenti sui corpi galleggianti , ed è tutto tempo che corre), la dilatazione del ritmo e quel tanto, dicevamo, di funzione ecclesiastica e di onoranze nazionali, tengono gli spettatori fermi nelle loro poltrone per cinque ore. È un successo, questo, che va largamente attribuito a Strehler. Dello stesso parere mi è sembrato Alberto Arbasino. Impressionato anche lui dall'estenuante rigore dello spettacolo: « Ma che vuole Strehler, ,. mi di­ ceva « diventare santo ? ». Certo, Strehler si è posto il Galileo come un problema di fede artistica, di arricchimento sublimante del testo, che ri­ mane spesso scoperto e schiacciato dal servizio, dalla grazia coreografica di molte soluzioni, il ballo in casa Bellarmino, i prelati danzant i , la pre­ sentazione del cannocchiale ai veneziani, la onnai celebre e citatissima vestizione di Papa Urbano, coi campanellini e il via-vai di chierici . Brecht è più scabro, diretto e trasandato, cioè più in confidenza col pub­ blico. Nel Galileo ha fatto un po' di posto anche ai ricordi cinematogra­ fici , di un cinema tra il '30 e il '38. Nella bamboleggiante lezione che Galileo dà al piccolo Sarti non rivediamo forse spuntare Shirley Tem­ pie ? È una situazione tipica, lo scienziato e il bambino. E nel finale non è forse il Laughton dell'En rico VIII quel Galileo svanito che mangia il pollo con le mani ? Amante della buona tavola, plagiario del cannocchia­ le, sempre i n cerca di quattrini, impastato di bonaria semplicità, un po' al limite della caricat ura. Tino Buazzelli fa di Galileo-uomo una crea­ zione amabilissima, che aiuta a ingannare la lunghezza del viaggio. 29

marzo

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La cortigiana di Pietro Aretino Se c'è un aspetto comico nella diffusione della cultura è che tutti vo­ gliono capire tutto. O almeno averne l'aria, le mode bruciano tanto ra­ pidamente che non è il caso di impegnarsi troppo. Per molti è sufficien­ te un minimo d'informazione, un po' di gergo, il conforto di non sba­ gliare. L'avanguardia artistica e letteraria vive su questo nuovo confor­ mismo, che vorrebbe invece combattere. Nei corridoi della Siae due gio­ vani chiedono a un impiegato come si fa a ottenere i diritti di rappre­ sentazione di lonesco e di Beckett. Per quale Compagnia ? Be', per la Compagnia di un teatrino parrocchiale, che loro dirigono. Ecco fatto, lonesco e Beckett riconosciuti dalla parrocchia, tra un paio d'anni reste­ remo in pochi ad amarli e saremo guardati come viaggiatori che hanno sbagliato treno, con pietà e sarcasmo. Sì , amici, l'essenziale è stare sem­ pre sul treno giusto. Una sera alla televisione assistetti a questo dialogo tra un intervistatore e una bionda diva del cinema. Domandava l'inter­ vistatore alla diva qual era il suo autore preferito e costei, un po' vergo­ gnosetta di rivelare la profondità e il peso delle sue letture, rispose: Joy­ ce. Leggeva quasi soltanto Joyce. L'ignaro intervistatore volle sapere di più: quale libro, in particolare, di Joyce preferiva. La risposta fu, pron­ ta: >. No, non mi sarei certo lasciato scappare l'occa­ sione di sapere, magari alla buona, qualcosa su un capolavoro che, per la mia modesta conoscenza dell'inglese, aggravata dalla totale ignoranza del celtico e delle lingue del gruppo gaelico, nonché di tutte le altre lin­ gue che Joyce da poliglotta possedeva, continua a sfuggirmi. Ma, ripeto, l'intervistatore non volle insistere; benché dal tono connivente e pensoso che subito assunse fossi portato a credere che anche lui sapesse tutto su Joyce e su Fin negan 's Wake, e che stimava inutili le solite ovvie spiega­ zioni destinate alla massa. 206

Perché ricordo questa storia ? Non so, frequentando i teatri ci si ac­ corge che le mode hanno una loro magia, che non emana tanto dalla lo­ ro profonda conoscenza ma piuttosto da un sentimento di prestigio che insufflano in chi le segue. Ignorare Finnegan 's Wake sarebbe parso a quella brava ragazza un torto fatto alla sua "contemporaneità", un di­ chiararsi estraniata dai complessi problemi artistici e filosofici che ci tormentano. I quali, troppo spesso, a teatro, vengono evocati senza al­ cun bisogno, per un puro omaggio alla moda. Questa settimana, per esempio, sono stato al Teatro Ateneo, dove gli attori del Centro univer­ sitario teatrale, guidati dal regista Giorgio Bandini, hanno messo in sce­ na La cortigiana dell'Aretino. Francamente, nel mio inguaribile ottimi­ smo, mi aspettavo dai giovani studiosi un'edizione chiarita e sfoltita del­ la commedia. Vedevo già una scena tipo corso Vittorio Emanuele, one­ sta, e dei personaggi vestiti nei panni d'oggi, poiché le storie che si svol­ gono a Roma, dal Satyricon in poi, poggiano su una gamma di caratteri che sono essenzialmente gli stessi, nella loro, un po' oscena, fissità di maschere. Sarebbe stato istruttivo questo lavoro di collazione tra un te­ sto vecchio di quattro secoli e la sua segreta attualità. Chi, meglio dei giovani universitari romani, avrebbe potuto farla, quest'identificazione, operando su una realtà che ad essi non può certamente sfuggire, poiché Roma è lì, a un passo ? E leggono probabilmente i giornali romani, assi­ stono ogni giorno alla commedia di amore e raggiro, di menzogna e sor­ tilegio, di furbi e di sciocchi, che si svolge all'ombra della Cupola. Le mie speranze sono andate presto deluse. Ai giovani del CUT, che non mancano certo di ingegno e di estro, poco importava l'Aretino ' quanto l'omaggio (di moda) a Brecht. E l'hanno fatto questo omaggio, traducendo la commedia in termini brechtiani, intercalando canzoni, cercando in quel lucido labirinto di intrighi e di burle, in quella Roma atroce e accomodante, il messaggio di una "rivolta" che non esiste, spin­ gendo i caratteri , la satira e la recitazione stessa fino all'incomprensibi­ lità totale del testo. Che invece sarebbe stato sufficiente spazzolare per­ ché apparisse lustro e nuovo, toccante di sciagurata verità. La cortigiana è infatti la storia di due burle, l'una giocata ad uno sciocco e ricco senese venuto a Roma per diventare cortigiano e cardina­ le (e cade preda di un bidonista che lo intrappola); l'altra fatta ai danni del giovane Parabolano, innamorato di una gran dama, che viene invece da un altro truffatore (il suo stesso servo) mandato a letto con una com­ piacente comare. Due storie boccaccesche nel senso migliore, cioè della furfanteria accettata senza pregiudizi , per il puro divertimento che pro­ cura lo svolgimento della burla, per l 'azione in sé, non per il senso mo­ rale, il giudizio che potrebbe scaturirne. L'Aretino, buon cinico osserva­ tore dei suoi simili, limita semmai la sua presenza al sarcasmo sul co­ stume "cortigiano", alla elegante documentazione del parlare del volgo, 20 7

ai suoi foschi e affamati interessi. In un certo senso il cinema, quel par­ ticolare cinema dei nostri attori comici , sta seguendo la stessa strada, non giudica, racconta storie di questa società senza complessi e senza coscienza, naturale, viva, astuta. I personaggi dell'Aretino non hanno dubbi e non hanno luce. Sono condannati alla ripetizione degli stessi ge­ sti, delle stesse truffe, condizionati dal disprezzo per tutto ciò che supera la loro immaginazione. Ma farli apparire come una collezione da corte dei miracoli, qui è lo sbaglio. La loro miserabilità non è nel vestire e nel portamento, ma tutta interiore, è la miserabilità di esseri biologicamente cinici e allenati a servire. Per i quali, ogni manifestazione di fede qual­ siasi, ogni aspirazione è semplice "fanatismo", che va punito perché mette in dubbio la loro concezione del mondo. Il Senese e il Parabolano non sono puniti perché "signori", ma perché credono in qualcosa; l'uno nell'amore l'altro nelle scalate sociali. Ora, fare dei loro servi i portatori di un messaggio di rivolta o di palingenesi significa soltanto seguire la moda del giorno e non rendersi conto che quei "servi" sono ancora ri­ masti allo stesso punto. Burle minori non vengono forse fatte da essi an­ che al Pescatore e all'Ebreo ? Colpevoli soltanto di essere l'uno semplice­ mente fiorentino, l'altro semplicemente ebreo, dunque "diversi" ? Non vedete il sorriso, il lampo ottuso di un Alberto Sordi in queste pure esercitazioni contro il prossimo, colpevole di essere differente, disarmato, ingenuo ? Era questa la "novità" che mi aspettavo dai giovani del CUT. Un po' triste, se vogliamo, ma rispettosa. Tutto invece da essi è stato spinto verso una contaminazione alla moda. In q uelle sedie, o chaises che dir si voglia, disseminate in abbondanza sul palcoscenico (e non sa­ premo mai perché) faceva capolino lonesco. B urri occhieggiava nelle scenografie fatte di stracci, Pasolini nell'accento falso-romanesco di qualche personaggio, Eugen Bergman nel barocco degli arredi. E infine, supremamente alla moda, la recitazione rallentata, gridata, tutta sottoli­ neata, in modo da non farci capire niente e da farci respirare di sollievo a quelle poche scene giocate onestamente da Maria Teresa Barbasso (Togna) e Gianfranco Barra (Arcolano). Ricordiamo anche Cosimo Ci­ nieri (un estroso Parabolano) , Nestor Gay (che per aiutarci a non capi­ re si è accollato troppe parti, nientedimeno otto), Antonio Nediani e Perla Peragallo. 5 aprile 7964

Enrico IV di Luigi Pirandello Al Teatro Valle, ripresa dell' Enrico IV di Luigi Pirandello, inter­ prete Salvo Randone. Di quest'attore, diciamolo subito, ammiriamo da tempo la salda modestia, quel suo tenebroso appartarsi dalla vita teatra208

le, senza far parlare di sé, ma intervenendo ogni volta con qualcosa di seriamente preparato: come questo dramma di Pirandello che sembra, ora, scritto per lui, tanto sa renderlo vivo oltre lo schema troppo perfetto e l'apparato dugentesco. Già da come si presenta, infagottato nel suo mantello regale, fingendo una follia ormai soltanto istrionesca, domi­ nando severamente il suo personaggio, si capisce che siamo di fronte a un attore di specie rara, malinconico, inquieto, ma senza trucchi. Nel lungo monologo del primo atto offusca il ricordo di altre interpretazioni e il pubblico lo ripaga calorosamente. Rivedendo l'Enrico IV colpiscono, oltre il valore del dramma, certe causalità della sua ispirazione, che il tempo ha messo in luce. Intanto, l'apparecchio propriamente "storico", troppo rigoroso per non sembrare alla lunga sostanzialmente letterario. Si avverte che l'Autore non ha sa­ puto resistere alle lusinghe del "costume", che l'idea centrale del dram­ ma è germinata su un compiacimento d'ordine antibenelliano, ma l'iro­ nia iniziale che l'Autore fa sul "dramma storico" si diluisce proprio nel­ la lunga giustificazione e poi dal costante riferimento che tutti fanno, in termini addirittura scolastici, alla figura di Enrico IV e ai suoi tempi. C'è qualcosa di professorale che resiste al solvente poetico. Sappiamo che il protagonista, un gentiluomo, mentre prendeva parte a una caval­ cata in costume nei panni di Enrico IV, è caduto da cavallo, ha battuto la testa e, dopo l'incidente, è rimasto fissato nell'idea di essere realmente Enrico IV. La pietà dei parenti lo ha mantenuto in questo innocuo deli­ rio, fornendogli una villa-castello con servi, alabardieri , consiglieri, sala del trono, e tutti gli arredi e attrezzi scenici necessari , affinché egli con­ tinui a credersi imperatore. Tutto ciò per quasi vent'anni, dei quali do­ dici trascorsi dal personaggio nella vera follia e gli ultimi otto nel com­ piacimento della finta follia. Questa implacabilità della finzione continuata così a lungo nel tem­ po, da tutti, offusca non soltanto le probabilità del dramma, che sarebbe poco male, ma rende meno inquietante, meno libera la sua verità uma­ na, direi che lo fissa sulla solennità e la precisione della "rappresenta­ zione" che un folle fa di se stesso, in una corte troppo perfetta per esse­ re adeguatamente folle. La fantasia del poeta è stata forse invischiata da un eccesso di precisione didascalica. A un vero folle non occorre vestirsi da imperatore per sentirsi imperatore, e nemmeno conoscere la storia, preferisce inventarsela; ed era su questa capacità illusoria e inventiva della follia che oggi un regista dovrebbe basare l'impostazione esteriore del dramma, cioè sull'impertinenza, sulla sciagurataggine dell'arreda­ mento, dei costumi, facendo rivivere in tutto il dramma quell'ironia an­ tibenelliana accennata da Pirandello e poi invece sacrificata alla serietà del décor. José Quaglio ha preferito attenersi alla tradizione, al lusso dell'apparato e dei costumi , al tono opera lirica, che in certe scene sotto209

lineano più il compiacimento della trovata pirandelliana che la fo�za e la novità del suo dramma. Questo è tuttora vivo per la stringente in­ chiesta (ogni grande tragedia è un'inchiesta) che il protagonista fa della sua vita reale e illusoria, sino all'azione finale che lo ripiomba definiti­ vamente nella follia. Degli attori ricordiamo Neda Naldi, Mario Chioc­ chio, Tonino Pierfederici e Giuseppe Pertile, quest'ultimo di un misu­ rato umorismo nella parte dello psichiatra. 7 2 aprile 7 964

*

Ogni tanto qualcuno mi rimprovera dolcemente di aver preso sul se­ rio la Salomè messa in scena da Carmelo Bene. Suvvia, come mai , per­ ché, davvero penso che quella roba lì sia teatro, che quel confuso agitar­ si sulla scena sia una prova di recitazione, che quello sventrare un testo famoso sia un esperimento utile ? Ma guardi dunque la critica e il pub­ blico! Lo ignorano, letteralmente, solo la prima sera quei pochi snob, e adesso ci si mette anche lei ? Vuoi brillare ? No, così si fa soltanto confu­ sione, si falsano i valori bollati, si favorisce il dilettante. E Strehler ? E Zeffirelli ? E Pirandello? E la crisi del teatro ? E noi ? Non ho niente da rispondere a chi mi parla così , mi piglia solo una certa tristezza pensando che questo è un paese dove niente si fa sul serio ma guai ad aver l'aria di voler scherzare. Un paese dove la follia, se non è rimunerativa, è considerata con disprezzo. Non trovi più un poeta ine­ dito e disoccupato, un artista che non tiri al successo, che non desideri entrare immediatamente nei ranghi, coi suoi bravi scatti, e tanta arte nel cuore. Tutti sono anticonformisti nel modo giusto, approvato, ma guai a essere anticonformista senza essere conformista (discorso un po' oscuro, ma avrete capito). Per il 1 964 che si porta? I risvolti ai pantaloni, il ci­ nema d'essai, la letteratura sperimentale, il teatro realista-epico; tutto serio, professionale, in coro. Se la scenografia costa poco, ecco che il la­ voro non può essere interessante. Se il teatro è piccolo, il successo può esserci , ma piccolo anche lui. Tira aria di tromba, di tromboni contenti. Dalla provincia arrivano lettere e schede di iscrizioni alle accademie let­ terarie. Perché non si fanno accademie per tutti ? Andiamo pazzi per la "protesta", ma vogliamo che sia sovvenzionata dallo Stato, su basi serie, e che abbia successo. Se avrà successo la porteremo. Detto questo, torniamo alla Salomè. Io ho tentato di darmi una spiegazione critica dello spettacolo, senza abbandonarmi alle lusinghe della cronaca e senza offendere gli attori . Ora, più vado avanti con gli anni e più mi convinco che la colpa maggiore è di non condividere lo 2 70

sdegno che fa più comodo ai direttori generali dell'intelligenza. Il bello è che tra questi direttori ci sono anche persone che si ritengono moderne, spregiudicate e informate, e che io supponevo perlomeno incuriosite dai tentativi di un gruppo di attori senza ingaggio, ma non sprovveduti di letture né di una certa fede nel loro lavoro. No, rifiuto quasi totale, si addita anzi lo "sconcio" all'opinione pubblica (o bei tempi del Mincul­ pop!) e si attendono forse provvedimenti (e questi verranno subito). Un commediografo che ha già scelto il suo pubblico e se lo è affezio­ nato con la salda bontà dei suoi sentimenti, parlo di Giuseppe Patroni Griffi, arriva a risentirsi per « Wilde oltraggiato » (così, con involontario umorismo, ha intitolato una sua nota sul Messaggero), benché poi affer­ mi che la Salomè di Wilde sia una pessima tragedia, il che non è asso­ lutamente vero, la rilegga. Le ragioni di Patroni Griffi sono di vario or­ dine. Prima di tutto, moralistiche: se la prende col pubblico di "malpen­ santi" che va a vedere gli spettacoli di Carmelo Bene nella speranza di assistere a uno scandalo, come se per assistere a uno scandalo, in questo paese, sia indispensabile andare a teatro. Poi , ragioni artistiche e di ca­ tegoria: « .. Proprio mentre un gruppo di [cito a memoria] uomini di teatro sta tentando di risollevare a dignità il teatro italiano in crisi, ecco che . . . eccetera ». Oppure: « . . . All'estero, nei paesi dove hanno teatri di Stato che svolgono intensamente un normale repertorio classico ci si possono permettere tentativi del genere, in Italia no . . . ». Dal che sarem­ mo tentati a dedurre che ogni forma d'arte può svilupparsi in rapporto diretto e percentuale con le forme d'arte riconosciute e sovvenzionate dallo Stato; e che bisogna prima risolvere la crisi del teatro e poi abban­ donarsi ai tentativi e agli esperimenti d'avanguardia. È una maniera di ragionare che non dovrebbe più sorprendermi, eppure ci casco sempre. Risponde forse a un bisogno di reprimere le idee incomode, di mettere al bando chi non aderisce al sistema, chi non si allinea, e preferisce la sua follia alla ragionevolezza generale ? E questo potrei capirlo se Car­ melo Bene deviasse tutto il pubblico dalla sua parte. Macché, solo qual­ che "curiosità" alle prime rappresentazioni e poi il vuoto (ma non è questo il segno che l'esperimento è riuscito ?). No, Patroni Griffi può dormire tranquillo. Noi siamo famosi per la tenacia con la quale respin­ giamo ogni tentativo che abbia un sospetto di nuovo, di originalità, tutti i nostri successi debbo no tornarci da fuori , con l'imprimatur di Parigi o di New York , da Pirandello in poi , per tacere del cinema. E mandiamo lettere anonime ai vincitori di lotterie. Ora Carmelo Bene non minaccia nessuno, eccetto se stesso. Non mi­ naccia i teatri stabili, né gli autori convenzionali, e nemmeno i teatri d'avanguardia sovvenzionati, che debbono ancora esaurire Brecht, Bec­ kett, lonesco, Di.irrenmatt , Frisch e la nuova ondata di off Broadway , e ne avranno ancora per un pezzo. Carmelo Bene limita le sue ricerche a .

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testi indiscutibili, che non temono oltraggi, ma si offrono invece allo stu­ dio proprio per una loro universalmente accettata perfezione. A suo mo­ do, egli riconosce il valore vero, segreto, della tradizione teatrale. Per esempio, in Inghilterra gli esperimenti che Carmelo Bene fa su Marlo­ we vengono eseguiti su Shakespeare dalla Compagnia reale scespiriana, e nessuno si offende, anzi i critici trovano che è un modo di spiegarsi e di approfondire Shakespeare, tornando alle fonti della teatralità elisa­ bettiana. Giorni fa il Times ha dedicato un articolo proprio a Carmelo Bene, riconoscendone l'impegno e la vivacità, la serietà di intenti e lo sforzo, e mi fa dunqtle piacere che siamo almeno in due a pensarla così . Chiedono l'abolizione della censura, ma se uno spettacolo non gli piace sono contenti se la questura interviene e io fa sospendere. Tanto si tratta di sciocchezze, la censura è un'altra cosa, riguarda le "loro" idee. Come se le "sciocchezze" non fossero idee (nostre) che cercano di chia­ rirsi. E come se il teatro non fosse fatto proprio per questo, per chiarire, discutere. Vittime della solita riprovazione sono rimasti la settimana scorsa due giovani, Francesco Aluffi e Ignazio Lidonni, che all'Arlecchi­ no avevano presentato la loro ruggente commedia Passione di uno qual­ siasi. Se adesso difendo anche costoro si dirà che sono incorreggibile, ma io mi conforto con le parole di Voltaire a quel tale che gli aveva manda­ to un manoscritto: >. Morale: i matrimoni riusciti suggeriscono pessimi finali. Chi manca a questo congresso è proprio Quentin. Chi è, che cosa vuole Quentin, qual è il suo problema ? Ed è infine un problema che ci riguarda ? Dopo la Caduta, dopo il Peccato, siamo davvero tutti colpevo­ li, senza innocenza ? Oppure i ricordi di Quentin e le sue recriminazioni sono il riflesso di un sentimento di fastidio verso la vita e le persone con le quali ha avuto commercio ? Questo è il punto e, una volta assodato, si ascolta il dramma con altrettanto fastidio, puntando sulle indiscrezioni dell'ex marito nei confronti di Marilyn Monroe. Quel poco di compas­ sione, di pietà di cui dispone, l'autore lo riserva per se stesso. I genitori, i fratelli, l'amico suicida (era un comunista pentito, ma tuttavia perse­ guitato dai maccartisti) sono visti come aneddoti e riproposti come tali , spesso senza nemmeno cambiare l e battute, durante il corso dell'azione, per creare appunto quell'atmosfera di insistenza che gli scrittori grosso­ lani suppongono lirica. Nel descrivere invece l'attrice famosa, Miller trova miglior giuoco. Tutta la seconda parte del dramma e un buon pez­ zo della prima è la storia dei suoi rapporti con Marilyn. La prepotenza vitale di costei è certo un po' sacrificata alle esigenze del personaggio, ne viene fuori una ragazza bornyesterday nelle prime scene, poi man mano più drammatica, sino al tentativo di chiarire il dramma di una donna che ha deciso di bruciarsi sopra il suo stesso altare. Insomma, un carattere cinematografico, più che una creatura morale e poetica; ma forse, dopo la Caduta, tutti abbiamo perso la nostra innocenza, non escluso l'autore che, con buona tecnica e un certo disinteresse, ci raccon234

ta queste cose per tre ore. Si potrebbe dire di Miller che non sa inventa­ re le sue sofferenze, che queste sono soltanto il ricordo, la perpetuazione di una sofferenza esteriore, ossia di un'insofferenza. Miller è un saggio amministratore del suo talento teatrale, ma è difficile riconoscergli altri meriti. È molto probabile che il successo di questo insuccesso sia dovuto in gran parte alla regia (di Elia Kazan, perfetta) e alla stupenda recitazio­ ne di tutti gli attori; Jason Robards jr. e Hai Holbrook si alternano da parecchi mesi nella parte di Quentin; e ben tre attrici , Barbara Loden, Jennifer West e Lanna Saunders in quella massacrante di Maggie. Io ho potuto ammirare Hai Holbrook e Jennifer West: con attori simili tutto diventa plausibile e anche le mediocri tragedie si vestono di una verità magnetica, l'imitazione della vita essendo spinta al punto da di­ ventare studio e coscienza. I teatri di New York ci riserbano però altre sorprese. 20 settembre 1 964

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Com'è noto, i pesantissimi giornali della domenica a New York sono in vendita dal sabato sera. Anche il lettore pieno di buona volontà vi re­ sta sommerso e dopo poche settimane, se ha conservato le copie, il . pro­ blema che deve affrontare è come liberarsene. Ma a parte ciò, ammettia­ mo che il lettore si dedichi alle sezioni che più gli stanno a cuore, quelle degli spettacoli. La massa di proposte che lo sommerge gli accresce una delle nausee tipiche della vita moderna: la nausea dell'informazione. Siamo un pugno d'uomini indecisi a tutto, dicevamo di noi stessi e dei nostri amici , pochi anni fa. Figuriamoci a che grado sale l'indecisione quando la scelta è tra una ventina di concerti e una quarantina di opere di teatro ognuna delle quali varrebbe la pena di vedere. Apriamo allora Cue, che è una rivistina con un catalogo ragionato degli spettacoli. Le trame vengono elencate con una freddezza che disgusta della fantasia al­ trui. Capisco bene quei librai che si sono dedicati alla lettura di un solo libro e che da quello non si spostano. Allora usciamo, alla ventura, deci­ si a un qualsiasi teatro, il primo i cui biglietti non bisognerà ordinare per posta o attraverso un'agenzia o facendo la fi la. Sia ben chiaro che abb iamo rinunciato a lottare. Fuori Broadway, in una strada del West, se ben ricordo la 78, c'è un teatrino di psicodramma, certamente con po­ chi spettatori , saremo accolti alla buona. La realtà vince le nostre più rosee speranze, eccoci infatti completamente soli in una platea piccola ma vuota . Nella fretta di entrare non abb iamo neanche guardato il pro235

gramma, anzi il programma non c'era nemmeno; e troppo tardi ci · ac­ corgiamo che gli organizzatori di questo spettacolo contano proprio su di noi perché lo spettacolo succeda. Se volessi, potrei salire sul palcosce­ nico e raccontare al vuoto tutto ciò che mi passa per la testa. L'unica domanda alla quale poi dovremmo rispondere è questa: siamo stati a teatro, o no? In un senso assoluto, sì, ci saremmo stati. Se il teatro è una forma d'arte, e l'arte è oggi un modo di vivere, qualcosa che è dappertutto, in noi e fuori di noi , non necessariamente identificabile in un prodotto pensato e compiuto, ma persino in qualcosa che esiste già e che noi iso­ liamo, è chiaro che anche il silenzio di questo teatro, il vuoto della pla­ tea e del palcoscenico è uno spettacolo, sul cui valore drammatico po­ tremmo discutere una settimana, senza trovare un accordo. Guardate che cosa succede nelle arti della visione, dove la critica è diventata più interessante e più difficile dell'arte stessa, e dove una certa arte esiste soltanto perché realizzata dalla critica. Se poi l'arte è diventata qualcosa che abitiamo, un diffuso confort moderno non precisamente isolabile, ma anzi lo stesso sforzo di vivere, di comunicare, di non commettere gaffes, ecco allora che questo teatro, dove non si rappresenta niente, è proprio miele per le nostre orecchie, la certezza che non esistono altri problemi al di fuori di quelli che potremmo porci noi stessi, se ne avessimo voglia. È insomma l'annullamento del teatro, sintomo preciso che la società è perfetta e si è compiutamente realizzata nel vivere quotidiano. Il che, da molti segni , parrebbe vero. Purtroppo, a risvegliarci da questi pensieri, entrano altri spettatori. Dopo mezz'ora, quando è chiaro che data l'ora tarda non arriverà più nessuno e nell'attesa anzi gli spettatori cominciano a sorridersi tra di lo­ ro e a rendersi piccoli servizi, come scambi di posto, di sigarette e di pensieri sul tempo, ecco che appare sul palcoscenico un giovane dai mo­ di distinti che non tardiamo a identificare per il direttore del teatro. La nostra attenzione si sveglia. Il direttore sa che noi siamo maturi per ogni evenienza, ci accontenteremmo anche di un paio di storielle purché ci si tolga dall'incertezza; e si rivela invece un giovane pieno di curiosi­ tà. Con la grazia di un cerimoniere che dovrà tra poco presentarci alla regina e si informa quindi delle nostre persone, vuoi sapere tutto da noi: chi siamo, da dove veniamo. A volte ci guarda sorridendo per capire se stiamo mentendo. Passa allora a domande generali, più facili, se ci è piaciuta la fiera, se ci piace infine New York, e perché. Ogni risposta suscita ondate di infantile ilarità negli altri spettatori che non sono in­ terrogati , anzi che il direttore trascura di proposito. Infine è chiaro che non siamo quindici spettatori, ma quindici attori, pronti a tutto, ognuno con una dramma che è sulla soglia di essere realizzato. Ma è anche 236

chiaro che solo un dramma tra i tanti potrà essere rappresentato stasera e che molti di noi resteranno senza parte. L'inizio promette poco: tre ragazze ora sono sul palcoscenico e si guardano tra di loro non sapendo che fare. Il direttore le ha isolate dal gruppo e se ne sta da parte, aspettando che qualcosa succeda. Sa che il tempo lavora a suo favore e che dopo le prime risatine d'imbarazzo, do­ po le prime battute gettate nel vuoto come una sfida al silenzio, qualco­ sa succederà. Sa che l 'eroe moderno non è più la vittima di una congiu­ ra divina, ma soltanto il frutto delle sue proprie inibizioni. L'Uomo non combatte contro il Fato ma è un povero Laocoonte vittima ironica di serpenti domestici , che lo seguono dappertutto e che non vogliono soffo­ carlo ma soltanto giuocare. E l'Uomo non sa nemmeno se, riuscendo a liberarsi dai serpenti, sarebbe più felice, e se i nvece i serpenti non sono addirittura la sua ragione di vivere. Dopo una mezz'ora di vana attesa (tra parentesi, per arrivare in tempo non abb i amo cenato) una delle ragazze comincia a dar segni "drammatici", si fa più vivace, parla più a lungo delle altre, un'onda di collaborazione e di simpatia si stabilisce tra lei e la platea. In poche pa­ role vuoi raccontarci il suo poco originale dramma di ragazza sedotta che aspetta un bambino e ha visto rapidamente cambiare il volto della società e ha scoperto di vivere in una famiglia che la odia. Per farlo, ha bisogno di altri spettatori che si prestino a rievocare la sua finzione. Po­ co dopo, eccetto noi (ci è valsa come scusa la imperfetta conoscenza della lingua) tutti sono sul palcoscenico e la commedia continua, pur attraver­ so pause mortali di imbarazzo e di noia. Purtroppo, esauriti, non ne ve­ diamo la conclusione, anzi approfittiamo di un momento in cui tutti gri­ dano e sembra stiano sul punto di picchiarsi (la ragazza ha rivelato la sua colpa) per filare nel buio verso l'uscita e il caldo di una strada se­ polta nella notte. Poco dopo, pentiti , rientriamo e troviamo tutti d'accor­ do, non ci sarà nessuna conclusione, quest'embrione di dramma poteva valere soltanto come la negazione stessa di una conclusione, era appena una pietra gettata in uno stagno. Forse la qualità più apprezzabile della rappresentazione era nelle sue parti negative, nei lunghi silenzi prepa­ ratori, nell'assenza dell'autore che vuoi dare una forma al dramma, nell'assenza stessa di una catastrofe, che era stata già annunziata e scontata, e che quindi non serviva nemmeno al regista per i suoi colpi teatrali , per utilizzare questi attori come marionette. Tutto sommato, uno spettacolo del genere, che si ripete tutte le sere, sempre in attesa che il miracolo teatrale avvenga, può valere statisticamente, se lo si con­ sidera nella legge dei grandi numeri. Mille spettacoli simili possono si­ gnificare qualcosa, aiutano certo a stabilire una verità, se non altro quella di una società che cerca un autore. Tutto sommato, spettacoli va­ lidi anche come una tardiva risposta a Pirandello, che dedicò tre delle 23 7

sue opere più famose a questa concezione • del teatro nel teatro ». Nelle recite a soggetto, insomma, che siano fatte per il regista o per lo psica­ nalista, non assistiamo né alla vittoria degli attori né a quella del poeta, ma forse alla sconfitta di tutti , e siccome la sconfitta ci piace, conti­ nuiamo. 27 settembre 1964

Il confidente di Diego Fabbri Poche settimane fa accennavo alle mie esperienze di spettatore di psicodramma in un teatrino di New York. Non mi aspettavo di doverle ripetere, e in un certo senso completare, in un teatro italiano e per ope­ ra di Diego Fabbri. Verso quest'autore nutro da anni sentimenti di sti­ ma e di amicizia, anzi dovrei cogliere l'occasione per parlare di tutta la sua opera teatrale, della quale l'editore Vallecchi ha licenziato da poco il terzo volume, se avessi avuto il tempo di rileggerla. E se il parlarne ora non limitasse il discorso su quest'ultima sua commedia data in pri­ ma assoluta alla Fenice, nel Festival della prosa. Veniamo dunque al Confidente. Si tratta di un « esperimento scenico ,. molto serio che richie­ de con altrettanta serietà un esperimento critico. In poche parole, Fab­ bri ammette di voler riprendere e continuare l'indagine iniziata da Pi­ randello con le sue tre commedie " del teatro nel teatro ,. , principalmente con i Sei personaggi. Qui, com'è noto, sei personaggi rifiutati dal loro autore venivano sul palcoscenico, durante una prova, a chiedere a degli attori di recitare la loro commedia, che proprio sul palcoscenico si rea­ lizzava completamente. Trent'anni dopo, Fabbri dice al pubblico: nessu­ no tra voi vuoi recitare la "sua" commedia ? Insomma, si pone sul pal­ coscenico non più in veste di autore ma come confidente di un pubblico che egli stima ormai abba stanza maturo per intervenire nella creazione di un'opera aperta da tutti i lati e limitata soltanto dal tempo teatrale, diciamo due ore e mezzo. Sul palcoscenico, questo confidente non po­ trebbe in realtà ispirare più confidenza, si tratta dell'attore Romolo Val­ li, il migliore che abbiamo per simili imprese, dove l'analisi dei senti­ menti deve allearsi all'estro, all'umorismo e alla moderazione. Ecco dunque Romolo Valli sulla ribalta del più bel teatro del mondo, corret­ tamente vestito di nero, dichiarare che ogni spettacolo teatrale è la storia di una mistificazione e che egli si appresta a crearne una col concorso della nostra spregiudicatezza, pur ritenendosi egli, in conclusione, il solo responsabile di quello che accadrà. Passa quindi a parlarci di se stesso: in questo momento di incomprensioni, di isolamenti , di reciproci sospet­ ti, in cui si sente ripetere " che non c'è possibilità di capirsi e di amarsi " 238

egli è afflitto dal male contrario: ha un bisogno " sempre crescente ,. de­ gli altri, delle confidenze altrui. In un mondo che non ama più, " sente un'ipertrofia d'amore ,. per il prossimo, ci ama tutti, e se si trova sul palcoscenico è proprio per il bisogno che ha, prepotente, di " intrecciare relazioni ,. col prossimo. Avrebbe , sì , potuto allo stesso scopo fare l'uomo politico, il chiromante, il prete, l'analista, ma si è reso conto che in que­ sti casi avrebbe avuto una clientela prevenuta. Dunque, non gli restava che il teatro, iscriversi a un'accademia di recitazione drammatica, impa­ rare le regole e i trucchi del mestiere, costringersi infine ogni sera con un pubblico libero, "disponibile", chiedere a questo pubblico una vera e propria partecipazione allo spettacolo. Egli vorrebbe che gli spettatori (in un paese che lamenta già la proliferazione dei cantautori) fossero anche autori e attori. Con questa dichiarazione di principio, la commedia sarebbe pratica­ mente finita se l'autore, ben conoscendo i suoi polli e confidando in real­ tà pochissimo sulla buona volontà del pubblico, non tenesse in serbo la vera commedia, o pezzi di ricambio di una commedia dichraratamente psicologica. Perché infatti succede ciò che temevamo: che il pubblico, in­ vece di invadere il palcoscenico, resta seduto in attesa di qualcosa che deve avvenire senza il suo concorso e persino senza la sua simpatia. In questi casi , il pubblico ha un solo vero desiderio: la catastrofe. Fabb r i lo sa e quindi propone subito alcuni esempi sbagliati di intervento del pub­ blico. Peccato che non siano anche esempi divertenti. Sale sul palcosce­ nico un finto spettatore che pretende mostrarci dei giochetti da magi­ cien, poi ne sale un altro che vorrebbe dare al suo discorso una piega politica. No, questi esempi non vanno bene al Confidente. Egli chiede ben altro: anima, più anima, fatti personali, tormenti, un catalogo di esperienze umane, delle persone che vivono e soffrono e sono disposte a raccontarci come. Poiché nessuno si fa avanti non gli resta che aprire la cassetta di pronto soccorso pirandelliano e darci lui qualche esempio possibile. Ma perché sceglierli dalla piccola posta" ? Scoppia infatti un battibecco in platea e vi vedremo implicati le attrici Rossella Falk ed Elsa Albani, nonché Ferruccio De Ceresa e Anna Saia. Siamo ben presto nel vivo della complicazione umana tanto invocata, la storia di un figlio che in realtà non esiste, ma che tre donne reclamano ognuna per sè, accam­ pando diritti morali o semplicemente (nel caso della vera madre) biolo­ gici . Ma il figlio in questione è morto, altrimenti nessun Salomone avrebbe saputo decidere a chi darlo, se non forse all 'autore. Perché, co­ me avrete capito, si tratta di uno di quei figl i "letterari " che vengono messi al mondo per creare un nodo di vi pere e scavare nella coscienza di qualche personaggio. Peccato, lo scavo si rivela quasi sempre poco inte­ ressante, vivendo questa gente in una provincia letteraria che è stata ab"

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bondantemente sondata e non riserba più sorprese. Anzi da personaggi simili emana ormai quel tanfo di chiuso, di dolorismo, infine di tristezza che è proprio di altri tempi e di altre commedie. Le madri doloranti, le mogli chiassone, le nubili vibranti , i mariti ingegneri fanno anche in Pi­ randello un'umanità poco attraente, che ha modesti problemi e prova a darsene di più ambiziosi, ma su una falsariga che scopre la loro essenza confusamente lirica. A questi quattro personaggi in cerca di una commedia se ne aggiun­ gono nel corso dello spettacolo, altri due: una ragazza, anch'essa, trava­ gliata da un problema d'amore, e che pertanto decide di amare "tutti" entrando nel Riarmo Morale, associazione svizzera, se non sbaglio, e un soldato in libera uscita. Costui viene sul palcoscenico per denunciare le deficienze degli esempi portati e quindi (poiché si tratta di una creatura dell'autore) prevenirne le critiche. Si lamenta, il soldato, che gli spetta­ tori che l'hanno preceduto abbiano esposto dei casi-limite, per di più po­ co attuali. Egli ricorda che siamo nell'epoca delle macchine, delle sonde spaziali , dei problemi sociologici più lancinanti: vorrebbe che la gente ne tenesse conto, che i sentimenti si adeguassero al progresso tecnico. Criti­ ca, come si vede, di un qualunquismo che si condanna da sé e libera l'autore da ogni giustificazione. Dopodiché lo spettacolo va verso la con­ clusione, cioè verso nessuna conclusione. « La vita conclude forse ? » do­ manda il Confidente al pubblico. « Troppo facile, troppo comodo » grida a questo punto dalla platea un altro attore della Compagnia, Enzo Ta­ rascw. Dimenticavo: durante le pause e gli intermezzi il maestro Pomeranz suona brani scelti di musica leggera al pianoforte. E ciò ricordava il Prometeo (male incatenato) di Gide (ma chi legge più Gide ?) che negli intervalli della sua conferenza agli uomini distribuiva in platea cartoline pornografiche. Che cosa è mancato a questo Confidente ? Un antagonista serio, un Diffidente che mettesse in dubbio il suo sistema sin dall'inizio e che ve­ nisse sul palcoscenico a ricordare all'autore che il teatro è come quelle locande spagnole del proverbio, dove si trova soltanto ciò che ci si porta, e che nessun aiuto è sperabile dal Caso. Lo psicodramma ha per scopo di curare lo spettatore con la rappresentazione che egli stesso è invitato a fare del suo problema, delle sue angosce. Il dramma di Fabbri non vuoi curare gli spettatori, ha semmai l'ambizione di proporre una cura per il teatro, affidandolo proprio agli spettatori , perché lo facciano a lo­ ro immagine e somiglianza. Fabbri propone degli esempi, sui quali si potrebbe forse accendere la discussione e che dovrebbero forse trascinare altri esempi più freschi e vitali, tratti dalla vita. Bene, accettiamo tutto come un esperimento. È probabile che il teatro, tra gli altri mali, accusi anche questo esprit de démission, questa repugnanza per l'artifizio; e 240

che lo spettacolo debba conoscere il suo periodo ghestaltico, il suo rinno­ vamento attraverso la negazione della teatralità, cioè della cosa prepara­ ta, scritta, prevista, immutabile; che si vada verso un teatro-hasard o un teatro-vérité, dove sera per sera la commedia si arricchirà di nuove me­ ravigliose esperienze. È certo merito di Fabbri avercelo fatto notare; benché sui mezzi adoperati, sulle eccessive spiegazioni e i ripetuti preamboli, e infine sugli esempi proposti manteniamo qualche dubbio. 18 ottobre 1964

La parigina di Henri Becque La filigrana del genio è l'osservazione della verità. Da qualche tempo andiamo a teatro per sentirei dire delle bugie stu­ pide o pietose secondo i casi , soprattutto delle bugie alla moda; poi una sera eccoci alla Cometa, dove il TDN di Maner Lualdi è arrivato da poco con La parigina di Henri Becque, regista Gianni Santuccio, inter­ prete principale Lilla Brignone. Passiamo due ore in perfetta armonia, ascoltando una commedia che ha ottant'anni ed è viva come il primo giorno, non una parola di troppo, risolta in tutte le sue parti, una delle poche commedie che smentisce la necessità di una betise teatrale, anzi che fa del teatro il più rigoroso degli strumenti per misurare una socie­ tà, una epoca. Si racconta, lo racconta Jules Renard, che Henri Becque non resistette alla calunnia, verso la fine della sua vita non amava più il teatro (« Je n'aime que à regarder des poitrines »); e lo credo bene. Se non si concede niente al pubblico, bisogna aspettarsi il suo rancore. La lezione di Becque è appunto questa, era un genio isolato, non la­ vorava per farsi una scuola, eppure ha avuto forse tanti allievi quanti C echov e Ibsen messi insieme, poiché tutti hanno creduto di poter appli­ care le sue formule, che in realtà non esistevano. Avviò al suo destino il teatro naturalistico, ma questo è morto e la sua opera è ancora attuale. Era un artista rigoroso, non diluiva niente; ascoltando La parigina mi sembrava di sfogliare una raccolta di disegni di Forain, quei disegni che fanno disperare gli amministratori (« Ma insomma, poteva riempirlo di più! "), dove il segno dell'artista è un rilievo trigonometrico degli spazi bianchi, mai eccessivo, ma nemmeno reticente, dove quello che c'è da ve­ dere è visto, scelto, regolato con una puntualità che esclude tutto, satira, umorismo, polemica sociale, eppure è anche tutto questo, nello stesso tempo: cioè, è il risultato di una osservazione paziente, e direi scontrosa, della veri tà. Becque ci insegna come si capovolge una situazione e come, dopo averla capovolta, la si riporta al punto di prima senza il mm1mo 24 1

turl:lamento, senza versare una gocci a d'acqua, mentre gli imitatori 'Sen­ timentali e pasticcioni bagnano tutto. La grazia, la disinvoltura che met­

te nell'operazione sono soltanto apparenti, fanno credere alla sua facili­

tà, mentre lo scrittòre si sorveglia sempre in uno sforzo di perfezione che mira alla secchezza classica. Per questo La

parigina,

come i cadave­

ri di certe fanciulle morte in odore di santità, si conserva ancora perfet­ tamente, voglio dire nella sua qualità di personaggio. Che

cosa

non ci ha

ammann ito

dopo di lei il teatro, in fatto di adul­

tere, di amanti, di storie a tre ? Tutto dimenticato. Ora andiamo a vede­ re La

parigina

e ci accorgiamo che Becque non intendeva affatto lancia­

re un genere, ma sotterrarlo, rendeme impossibile l'imitazione appunto perché ne dava un esempio unico e perfetto di stile. Ecco per la prima volta un'amante annoiata, un

amante

che si rende ridicolo come un ma­

rito tradito, un marito tradito che invece è felice e, in fondo, amato: tut­ to

è

capovolto, demistificato, risolto. Tra poco si accenderanno le luci

della belle époque, quello che qui

è

vero diventerà soltanto divertente, o

spiritoso, o servirà a Feydeau per le sue algebriche farse, dove la vita viene vista all'acceleratore. Becque dunque resta isolato. La sua fine sa­ rà amara. Non aveva quel talento dell'industria che diventerà il succes­ so dei seguaci . Lilla Brignone ha dato del carattere della Parigina i riflessi miglio­ ri, l'intelligenza, l'inaffondabilità, la tenerezza, una certa astuta malin­ conia, sempre sorridente e svagata: insomma una

«

proposta



che sareb­

be piaciuta all'autore. Giuseppe Pertile, con la sua calma affettuosa e sommessa ,

è

stato un bravissimo Du Mesnil. Lafont era Aldo Giuffré,

leggermente parodistico

ma

garbato. Carlo Delmi e Giuliana Rivera

completavano bene la distribuzione. Circa la regia di Gianni Santuccio, sensibile alla recitazione, ci

è parso

che concedesse un po' troppo al gu­

sto corrente nella messa in scena e nei costumi. Henri Becque chiama alla mente il grigio e il nero, la severità delle punte secche, può fare a meno, anzi esclude, le leziosaggini e le passamanerie, che sono proprie del nostro teatro televisivo, dove Ibsen e Labiche soggiaciono alle stesse leggi di guardaroba e di magazzinaggio teatrale. Senza contare che il •

divertimento



di Becq ue risalta per contrasto in una cornice che ri­

nunci lei per prima a essere divertente.

1 novembre 7964

Il giorno

della tartaruga

di Garinei e Giovannini

Il Teatro Sistina riapre quest'anno con una commedia musicale di

Garinei e Giovannini ,

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Il giorno della tartaruga,

scritta in collaborazione

con Franciosa e Magni, musiche di Rascel, scene e costumi di Coltellac­ ci. A giudicare dal successo, scrivere una commedia in quattro è un mo­ do di risolvere non solo la crisi del teatro ma anche quella degli autori. Vogliamo dire che i n questa commedia abbonda l'ottimismo di lavora­ zione, ci si sente il divertimento del trucco teatrale portato fino in fondo, il piacere di scrivere bene una storia non famosa ma piena di invenzio­ ni, ci si sente il controllo continuo del palcoscenico e della platea. Tutto fila liscio in quell'equilibrio (futile quanto si vuole ma proprio per que­ sto difficilissimo a raggiungere) tra azione, dialoghi, canti, danze, parate di costumi e sfoggio di intelligenza scenografica. Le musiche di Rascel sono gradevoli. Si aggiunga che cantate male, con quell'understatement vocale degli attori comici che hanno altre frecce nel loro arco, vanno be­ nissimo. Ma dicevamo, tutto lo spettacolo è sotto il segno di un certo ri­ gore, anche di regia, che tiene conto dei gusti mutevoli del pubblico, del­ le sue più recenti acquisizioni, dei suoi idoli e dei suoi tabù. Così in questa commedia, oltre a un piglio implacabile, c'è un ritorno intelli­ gente al gusto dei caratteri, all'imbroglio possibile: c'è più osservazione delle cose che succedono oggi che compiacimento di una trovata, come nelle passate commedie degli stessi autori (se si eccettua Rugantino ) . Non m i par vero, a questo punto, d i poter citare u n passo della prefa­ zione che Mario Soldati ha scritto per l'edizione Cappelli di questa commedia: " In altre loro precedenti commedie e riviste, tutte o quasi tutte pienamente successfull [Garinei e Giovannini] avevano trattato ar­ gomenti "di moda". Questa volta hanno fatto qualcosa di più: hanno trattato, sia pur lievemente, un argomento "moderno" ». Quest'argo­ mento moderno è la vita coniugale, vista come una continua lite. Loren­ zo e Maria, i protagonisti , litigano infatti per tutto il tempo reale della commedia, due ore e mezzo, rinfacciandosi il possibile. La cosa comincia per un mancato regalo che la donna aveva promesso all'uomo per il suo compleanno e continua con altri pretesti. Non è certo la bieca lite di tipo Albee, che forse ha avuto soltanto una funzione ispiratrice. No, qui i co­ niugi sono giovani e, in fondo, ogni motivo di disaccordo li riporta a ri­ cordare momenti abbastanza felici della loro unione: e allora cantano e ballano. Giacché ci siamo, mi sembra che il merito tecnico della comme­ dia sia proprio questo: che i frequenti passi indietro formano la parte coreografica e musicale, senza gravare col peso ben noto dei flash-back sulla pazienza degli spettatori , che di solito quando gli si propone una storia non vorrebbe ro essere distratti da eccessive divagazioni. Qui gli intermezzi , invece di spegnere la lite, le offrono nuovi spunti, fino a che il cerchio si chiude, si torna al primo episodio e si ha uno sciogl imento provvisorio, ma non del tutto rosa. Perché è certo che i due coniugi sono ormai condizionati alla rissa domestica e non potrebbero vivere insieme senza litigare. 243

Ma chi sono, in fondo, questo Lorenzo e q uesta Maria ? Ras éel e Delia Scala, d'accordo, le misure sono state prese bene. Ma più che due esseri reali, i personaggi sono due indicazioni statistiche, cioè fanno pensare a quelle ineffabili creature medie della pubblicità cinematogra­ fica e televisiva, cuorcontenti che si soddisfano di tutto, materassi , maio­ nese, shampoo, birra, margarina, mobili, lacche e ora anche antiquaria­ to: sono due prodotti, insomma, della persuasione palese. Gli autori non li hanno certo visti con raccapriccio, e del resto non era il caso di abban­ donarsi alla satira di una realtà che è già troppo satirica per se stessa. Li hanno accettati così come sono, senza radici letterarie, senza portare a fondo la loro scontentezza, che a guardarci bene dentro è proprio una scontentezza da supermercato. Ci si dice che litigano, ma la ragione profonda non la sapremo mai. Qui forse il loro limite come personaggi , ma anche la chiave del successo, perché le loro avventure si seguono senza angosce. È proprio una commedia per Rascel e per Delia Scala, loro due soli, sempre, fanno ognuno quattro parti, mettendo in rilievo le capacità trasformative, ma senza esagerare, il che è il segno di un solido allenamento. Il ritmo, la precisione dei tempi che impongono al raccon­ to è ammirevole. Il coro e il corpo di ballo non fanno che un commento discreto, tutto a vantaggio della commedia. E le scene. Giulio Coltellacci ha inserito questa storia in una scena di tipo caleidoscopio, che risorge puntualmente dalle proprie rovine, o dalla modificazione di alcuni ele­ menti , o addirittura dal nulla. Nei costumi si è abbandonato un po' ai più recenti ricordi, ma forse questo suo accennare (scena del matrimo­ nio) a Ceci! Beaton o (circolo romagnolo) persino a Fellini nascondeva un intento parodistico. Non si sa mai. Circa le canzoni , abbiamo detto. Ci piacerebbe tanto una commedia musicale senza canzoni, poiché or­ mai viviamo tra le canzoni. Lo so che non è facile, ma bisognerà arri­ varci e con questa commedia un bel passo avanti è stato fatto. Applausi del pubblico. Via, stiamo assistendo a un fenomeno abba­ stanza curioso, che può essere spiegato con un assestamento del benesse­ re. Voglio dire che mentre il teatro di prosa si intrappola persino nella ricerca di tecniche nuove o che sembrano tali ( e Diego Fabbri lascia che il pubblico se la veda da sé e inventi lui quello che l'autore non è più capace di inventare) il teatro leggero diventa ogni giorno più rigoroso. Cioè restringe il bersaglio, sfoltisce l'apparato, ritorna al testo, perlome­ no come esercitazione non presuntuosa. 75 novem bre 7964

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Agamennone di Vittorio Alfieri Sere fa siamo stati invitati da Renzo Giovampietro alla prova gene­ rale dell'Agamennone di Alfieri, messo in scena al Teatro dei Satiri , re­ gia dello stesso attore, scene di Polidori , musiche di Robert Mann. Il Teatro dei Satiri, mi faceva osservare Nicola Chiaromonte, sorge sui luoghi del Teatro di Pompeo (amorevolmente circondato da trattorie), e si potrebbe fare un gentile epigramma su questo teatro italiano che, di crisi in crisi, continua a risorgere o perlomeno ad accamparsi sulle pro­ prie rovine. È un bel teatro, con una sala modestissima, parrocchiale, ma con un atrio da villone campagnolo, molto accogliente, che rende piacevoli gli intervalli. In un altro paese, un teatro con un pedigree ar­ cheologico simile conoscerebbe stagioni trionfali, qui le "anticaglie" gar­ bano poco e seguono lo stesso destino degli alberi che, appena è possibi­ le, si levano di mezzo. C'è di più, che i teatri piccoli non riescono nem­ meno a farsi un pubblico altrettanto piccolo e costante. È ormai convinzione generale che il teatro manchi di Personaggi, e invece quel che manca è soltanto il Pubblico. O è un pubblico di ammi­ ratori , che ha bisogno di tutto per decidersi, il famoso regista, la spesa colossale, la famosa attrice, di tutto insomma fuorché del testo. Mi veni­ va da sorridere pensando a Giovampietro e al suo Alfieri , perché non c'è forse autore più temuto, dal pubblico, dell'Alfieri, per il suo verso stretto e fremente che sa di scioglilingua, per i ricordi scolastici, perché si faceva legare a un tavolino, o che so io. Il suo nome viene dato gene­ ralmente a istituti di istruzione media o a scuole private per studenti bocciati; suscita, insomma, modeste associazioni di idee. Forse, con molti pennacchi, qualche istrione cinematografico, trecento metri di velluto, e altre amenità, mettendo tutto nelle mani di un arredatore (ne abbiamo di ottimi), si potrebbe fare spettacolo anche con l'Alfieri , e sentir poi per un mese la gente rallegrarsi del bell'Alfieri un po' noioso che hanno vi­ sto. Ma Giovampietro, che ama il teatro nella misura in cui i testi che sceglie lo accendono, senza altre considerazioni, che va a ripescare que­ sta tragedia da camera per solo quattro attori e nemmeno un trombettie­ re ? Francamente, la follia calma di certa gente mi incuriosisce. Andiamo dunque a vedere questa prova generale e alla fine ci tro­ viamo a battere le mani per un quarto d'ora assieme agli altri invitati. Ancora una volta Giovampietro ha fatto il suo piccolo miracolo, ha ca­ vato la giusta lezione da una tragedia che, nelle sue pieghe romantiche, nella dolcemente indecisa Clitennestra preannuncia già il melodramma lombardo, e porta il conflitto eschileo sul piano corretto dell 'oratoria e dell'alta conversazione, con una calma che suggerisce silenzi e impone scene concluse con pudore. Da un po' di tempo non provavamo la sen­ sazione alacre e distensiva che il buon teatro dà esattamente come il 245

buon vino, quella sensazione di non esserci "invano", di aver ascoltato un poeta. Poiché la mediazione di Giovampietro è stata proprio questa, di un'onestissima lettura drammatica, di calcolata passione intellettuale, con un senso della misura che è riuscito a comunicare agli altri attori, Marisa Belli , Andrea Bosic e Mariella Furgiuele: tutti bravissimi , ben­ ché le nostre simpatie vadano alla Belli, che era Clitennestra. Il tutto recitato sullo sfondo di una scena che ipotizzava la reggia degli Atridi come un grottone con stalattiti a bugnato, e con delle musiche e suoni tempestivi ed elettronici non fastidiosi , come ormai ci capita di sentire un po' dappertutto. Nessun sfarzo di costume, qualche grembialone per le signore e per Giovampietro (che era Egisto), una corazza per Bosic, che era lo sfortunato Agamennone. Chi è Giovampietro ? Se dovessimo definirlo, non troveremmo niente di meglio che: attore-operaio. Gli occhi chiari , il sorriso timido, un can­ dore che nasconde la dura volontà del privatista che deve saltare tre an­ ni (vedremo in seguito che questa non è soltanto una immagine). Come tutti i giovani avviati a studi sbagliati e che si danno poi al teatro, ha un sincero, appunto perché tardivo, amore per gli autori classici e si sor­ prende di trovarsi quasi solo a continuare una battaglia in cui i rinforzi annunciati non arrivano mai. Ma come ? I classici . . . Diciamo onesta­ mente come stanno le cose. Giovampietro ha un'idea, quella di portare il teatro nelle scuole, cioè di avvicinare i giovani a una forma di spetta­ colo indubbiamente impegnato, di cui però bisogna prendere l'abitudine, o il vizio se più vi garba, nella giusta età, l'età giovanile degli sdegni e delle passioni, dell'amore per la verità e per la giustizia, del gusto per la poesia. Perché il teatro è un metodo per filtrare la vita, o per darle una dimensione assoluta, più nitida e portabile, come gli atlanti che ci danno un'idea della Terra in cui viviamo e la percezione di essere in un punto identificabile di essa. E, giacché ci siamo, vi dirò che non esiste cattivo teatro, perché la rappresentazione anche più sciagurata e scadente si redime per il fatto stesso di essere unica e irripetibile, e può aprire spiragli impensati in noi stessi , deciderci persino a una scelta. Voi che amate i grandi attori, sappiate che io amo anche i più modesti, soprattutto quelli che una vol­ ta giravano per le province con un repertorio qualsiasi e, subito dopo la recita, senza nemmeno levarsi le parrucche, saltavano sull'ultimo treno. Da quegli attori (oh , l'indimenticabile Amleto in cui l'attrice che faceva Ofelia era visibilmente incinta) ho imparato che il teatro è tutto meno forse che spettacolo, è parola, attesa, speranza, un'altra ipotesi di noi stessi. Insomma, un bel guaio. Ma, per tornare al nostro discorso, dicevamo che Giovampietro vor­ rebbe "entrare" nelle scuole (mentre altri attori vorrebbero invece 246

"entrare" nella televisione) , portare il teatro a contatto di giovani che non sanno neanche di che si tratta. Si aggiunga che il ministero della Pubblica Istruzione sembra animato dallo stesso ideale e già da tre anni ha disposto aiuti concreti per quelle Compagnie che intendono darsi a quest'apostolato (scusate l'ampollosità, ma da noi tutto è apostolato, tut­ to fa prevedere, alla fine, il martirio). Il solo a rispondere ogni anno all'appello è stato Giovampietro, ma senza fortuna. Il suo primo spetta­ colo, Un processo per magia , era un buon adattamento scenico dell' Apo ­ logia di Apuleio (autore Francesco Della Corte); il secondo, una scelta dai - Discorsi di Lisia. Trattandosi di autori classici Giovampietro pensa­ va di essere nel giusto. Non ebbe l'approvazione ministeriale, un po' perché gli autori non erano italiani, uno anzi addirittura greco antico, e poi perché gli argomenti trattati non parvero educativi. Ci furono anche polemiche. Quest'anno Giovampietro stimava di essersi messo al sicuro proponendo Agamennone: ha ottenuto addirittura il veto. È probabile che questo sia stato suggerito dal fatto che nella tragedia una donna e il suo amante si accordano per trucidare il marito di lei, che torna dalla guerra. Tutto è possibile. Comunque, niente Alfieri nelle scuole, se vi piacciono i paradossi. Il solo a meravigliarsi della decisione è Giovam­ pietro. Non sa che i rapporti fra teatro e pubblica amministrazione da noi sono stati sempre tesi. 22

novembre 1 964

Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni Mettendo in scena Le baruffe chiozzotte, Giorgio Strehler ha chiari­ to con una certa brusca felicità i suoi rapporti con Goldoni; e bisogna dire che da questo chiarimento tutti e due ne escono migliori , cioè è chiaro che si sono scambiato quanto hanno di meglio: Goldoni la sem­ plice chiarezza Strehler il dubbio di una sana malinconia, col risultato che una commedia di povera gente, scritta duecento anni fa, in un dia­ letto quasi incomprensibile, diventa la commedia umana che rimpian­ giamo, perché non ci appartiene più. Ci sorprendiamo a ridere quasi con sgomento: dunque, siamo ancora sensibili al vero, come diceva Gol­ doni, • perché tutto quello che è vero ha diritto di piacere, e tutto quello che è piacevole, ha il diritto di far ridere "· A Milano ho sentito su questo spettacolo che il Piccolo dà al Lirico un disinvolto giudizio: " Il Galileo in tedesco •, be', un giudizio troppo arguto per essere giusto. Se c'è qualcosa che Strehler ha rifiutato in questa sua ipotesi delle Baruffe è proprio la spavalda sicurezza, il tono da edizione nazionale, lo straordi nario apparato scenico, in una parola 24 7

la didattica del Galileo , tutte cose che ci lasciarono a suo tempo pieni di ammirazione e di sospetti. Nelle Baruffe c'è molto meno e molto di più: diciamolo subito, c'è Strehler che scopre un poeta e accompagna lo spettatore in questa sco­ perta, !asciandogliene quasi il merito. È un Goldoni suonato al violon­ cello, ravvicinato alle nostre canine malinconie di cittadini incalliti. È un Goldoni che avanza senza scosse, senza intrighi o soluzioni da com­ media, ma che a ogni scena si fa più chiaro e profondo, ripensato. Il dialetto... non so dirvi se gli attori parlassero un chiozzotto passabile o una qualche approssimazione veneto-romagnola; ma, così aspro eppure aperto a improvvise dolcezze, ecco che anche il dialetto contribuiva ad aumentare una sensazione di vita misteriosa e definita, come le bellissi­ me, scarne scene di Damiani, come le luci, ora sforacchianti da finestre, ora incerte in una villa disabitata, ora crepuscolari su una laguna au­ tunnale. Negli appunti di regia, pubblicati sul programma che si vende in teatro (ormai i programmi sono talmente pieni di informazioni che, una volta letti , si può anche fare a meno di vedere la commedia, e andare al cinema) , nel programma, dicevo, Strehler arriva lentamente al cuore del problema per questo Goldoni: la recitazione. Che strada scegliere ? Un testo già così difficile per la lingua può anche diventare il pretesto per una sottocommedia sguaiata. « È probabile >> scrive Strehler « che sia ne­ cessario recitare queste Baruffe senza dare corpo compiuto e concluso a ogni atto ma facendole viverè tutte di un fiato, scandito in tempi diversi, umori diversi , con brevi sospensioni . . . con una certa inevitabilità della ripetizione dei gesti e delle parole, o semmai con una certa variazione sul tema degli stessi gesti e delle stesse parole, o quasi, senza timore di essere in fondo monotoni: non troppo straordinari , non troppo diverten­ ti . . . Senza dare troppa importanza drammatica alle cose che avvengono, senza tentare di farle diventare come delle parti a sé, degli effetti a sé: lasciare che avvenga quello che deve e può avvenire, che il riso nasca dove e quando può nascere, per caso . . . » Ho citato questo brano, oltre che per la sua vena anticomica, cioè per le aperture che lascia a una verità più dimessa, insomma a un ten­ tativo di verità, anche per certe forme avverbiali insolite nella prosa di Strehler: è probabile . . . o quasi . . . per caso. . . che ci fanno capire quanto e come l'incertezza, la divina incertezza ignota al Galileo, abbia aiutato il regista per capire un'opera che si presentava di una certezza comica as­ soluta. « N o n ho mai assistito in vita mia a un'esplosione di giubilo come quella cui si è abbandonato il pubblico al vedersi riprodotto con tanta naturalezza » scrive Goethe, sempre sul programma, riferendosi a una rappresentazione delle Baruffe a cui ha assistito a Venezia, nell 'ottobre del 1 786. Non è difficile immaginarselo. Suvvia, le baruffe! Della gente 248

che litiga, dei caratteri comici, dei lunghi interrogatori da pretura (futu­ ro pane dei Ferravilla e dei Giacinto Gallina), eppoi ancora donne che litigano, chiunque non avrebbe esitato nel forzare la comicità, era come sparare a una vacca in un corridoio, non si poteva sbagliare. Ma Streh­ ler ha voluto qualcosa di più e a mio parere l'ha ottenuto: cogliere il senso più segreto (continuo) della commedia, scandire il tempo umano, dilatarlo fino a farne la vita stessa dei personaggi , un giorno che riflette tutta l'esistenza. Perciò quelle pause, quel ritmo lento che aveva inami­ dato il Galileo, qui trovano giustificazione, completano un discorso. So­ no precise certe soluzioni da ex voto, come la chiusa del secondo atto, con quell' Isidoro che indugia a bere, nella scena vuota, e in silenzio. O le donne che si accapigliano senza ira, come in un sogno. O quel pro­ lungarsi della povera festa finale che chiude con un'addio straziante la commedia, e lo svolazzante lsidoro che si leva fuori dal quadro, al quale lui signorina non appartiene. E anzi solo allora si scopre che lsidoro è l'autore, che ha conosciuto la gente "volgare" e la sente più solida, ama­ bile ma estranea. Belle, abbiamo detto, le scene, e non mi pare valido il rimprovero che ho sentito fare a Damiani di ripetersi in quegli estenuanti grigi e alluminii. Non si poteva fare di più, con meno, né ricordare tanta buona pittura senza mai cadere in una identificazione precisa e stucchevole. Nella rosa degli attori, veramente bravi, erano rappresentate tutte le tendenze dello spettacolo: televisiva, sentimentale, cinematografica e persino teatrale. Noi ricordiamo la misurata comicità di Anna Maestri, la grazia severa di Carla Gravina, l'impeto di Donatella Ceccarello, la saldezza di Lina Volonghi , la gentilezza di Ottavia Piccolo; e poi Gian­ ni Garko, Tino Scotti, M ario Valdemarin , Corrado Pani, Elio Crovet­ to . . . Le musiche erano certamente di Fiorenzo Carpi. 24 gen naio 7965

Tiny Alice di Edward Albee Abbiamo una sola serata da passare a New York. Può sembrare fati­ coso (e tutto sommato lo è) dedicarla al nuovo lavoro di Edward Albee , ma è proprio quello che vorremmo fare. Albee è il nuovo astro del teatro americano, e Tiny Alice sta turbando il ceto medio. È necessario andare a vedere di che si tratta. Ci avvisano che non troveremo posto e così po­ tremo metterei l'animo in pace, invece all'ultimo momento salta fuori il biglietto: non c'è via di scampo. Per fortuna, nevica forte e non c'è in gi­ ro un taxi che ci porti al Billy Rose Theatre. Restiamo un po' ciondolo249

ni sul marciapiedi, nel dubbio del dovere, ci stiamo arrendendo volentie­ ri alle circostanze, ed ecco che accanto a noi si ferma una automobile e il distinto signore che la guida ci chiede se siamo nei guai, se deve ac­ compagnarci in qualche posto. Da non credere alle proprie orecchie. Se lo stesso automobilista vi avesse visto steso sul marciapiedi o assalito da un predone avrebbe continuato in fretta la sua strada. Che cosa lo ha indotto a fermarsi ? Forse la certezza che non stiamo correndo nessun pericolo, in questa città si aiutano volentieri le persone che non hanno bisogno di niente. Allora è deciso, andiamo. Salgo e il mistero si chiari­ sce. L'automobilista è di una lega antialcolica, ha un debole per le buo­ ne azioni connesse all'alcool , forse pensa di dovermi redimere. Mi parla della sua vita passata e della gioia che ora prova astenendosi dal bere. Per fortuna siamo presto arrivati, perché questi incontri , specie in un astemio, mettono soltanto una gran voglia di bere. Ed eccoci a Tiny Ali­ ce; della quale, l'avrete capito, la mia piccola avventura vuole essere un'allegoria introduttiva, da usarsi come epigrafe. E se vi sembra un'al­ legoria oscura è segno che non avete visto il lavoro e non sapete a quali tenebre possono adattarsi e proliferare le modeste allegorie di Albee. Poiché, infine, un critico sobrio, che non vuole andare a teatro, vi venga invece condotto da un ex alcolizzato che vuoi convertirlo, be', questo è molto Albee. O perlomeno è molto nella linea di Tiny Alice, della quale adesso parleremo. Chi è Tiny Alice ? Non lo sapremo subito. Apparentemente è una vecchia stravagante signora padrona di una immensa fortuna. Suo am­ ministratore è un sinistro Avvocato, sua guardia del corpo un ilare mag­ giordomo o butler, che si chiama appunto Butler. Essa vive in un castel­ lo, o se vogliamo in una dipendenza del Castello di Kafka, che ha que­ sta particolarità, di contenere nel grande salone un modello esatto del castellQ stesso, che riflette la vita che vi si svolge. Per esempio: scoppia un incendio nella cappella. Lo stesso incendio scoppia nel modellino, nello stesso punto. Sorprendente e metafisico, benché piuttosto elemen­ tare; ma il castello non si chiama forse Wonders of the World, Meravi­ glie del Mondo ? Dunque, che volete ? Se non vi spaventa Virginia Woolf, dovrete pure spaventarvi di Edward Albee, o rifiutarvi di stare al giuoco. All'inizio della commedia assistiamo a un lungo dialogo tra un Cardinale di Santa Romana Chiesa e l'Avvocato, il quale vuole in­ durre la sua cliente Alice a una donazione di cento milioni l'anno, da ri­ petersi per venti anni , alla suddetta Chiesa. Potete immaginarvi se il Cardinale è d'accordo! Volentieri spedirà presso la signora il suo segre­ tario, un prete di nome J ulian (l'attore John Gielgud) col compito di convincerla a questa provvidenziale donazione. Dopo tale prologo, il dramma vero e proprio: Julian entra nel castello, da seduttore diventa 250

sedotto, sposa la signora Alice e viene ucciso. E probabilmente nel salo­ ne New Golghota. Dicevamo cento milioni l'anno. Di che ? Sul piano inclinato dell'al­ legoria, si deludano presto i tesorieri, si tratta con molta probabilità di cento milioni di anime, e tutto dunque lascia credere che Alice sia l'umanità in cerca di un messia. Julian ha la stoffa del messia, è puro di cuore, ama il suo prossimo più di se stesso, con la sua fede saprà cer­ tamente indurre la vecchia signora al grande dono. Ma qui, appunto, le cose si complicano. All'arrivo di Julian nel castello, Tiny Alice getta la maschera e appare quello che è, una signora ancora piacente e disposta a vendere caro le sue ultime vampate erotiche. Gira per casa con un sontuoso abito di merletto nero che lascia indovinare le copiose anatomie dall'attrice lrene Worth. Si spiega così che il prete venuto per turbarla resti turbato e svolga la sua missione con spirito alquanto letterario. Le racconta per esempio la sua vita, e di questa un curioso episodio: temen­ do di aver perso la fede, volle rinchiudersi volontario in un manicomio e qui un giorno gli capitò di incontrare nei viali della clinica una donna. Ne divenne l'amante, rendendola incinta. A questo punto egli è ma­ turo affinché la follia dell'immaginazione si traduca nella "sua" realtà. Tiny Alice ripropone al protagonista la stessa visione, con un personale spogliarello coronato da successo. E J ulian cede alla Bestia trionfante. Che cos'è la vita se non sogno, signor Albee: y los sudios suefio son . Su questo punto fermo cala il sipario del second'atto. Nel terzo atto le alle­ gorie si chiariscono fino alla nausea. Julian (che ora deambula in un completo nero, stavamo per dire tailleur, nel castello) e Miss Alice si so­ no sposati. Il sinistro Avvocato vede frustrata la sua idea della donazio­ ne e, sordo alle allegorie, uccide Julian. Oh penosa scena! Julian muore con le braccia aperte, per significare certamente la crocifissione, benché sia stato ucciso con un colpo di rivoltella, e Miss Alice gli si inginocchia accanto, sorreggendolo tra le braccia, esattamente come nella Pietà di Michelangelo, che si trova ancora nel padiglione del Vaticano alla fiera di New York, e le cui riproduzioni in plastica a mezzo dollaro certa­ mente Albee deve aver visto. È chiaro che questo lavoro di Albee si presta anche ad altre inter­ pretazioni, più modeste, magari di natura psicanalitica e personale. Ma non è nostro compito chiarirle. Ciò che Albee ha fermamente voluto, e in qualche modo ottenuto, è di non annoiare il pubblico, offrendogli una serie di scatti drammatici da velocista che tengono desta l'attenzione, le battute umoristiche del maggiordomo al punto giusto, le mali nconie di Julian magistralmente esposte da John Gielgud , un bellissimo dialogo tra il Cardinale e l'Avvocato nel prim'atto, il mistero di questo castello che ormai è in ci rcolazione e che ricorda un altro padiglione della fiera, quello della Generai Motors. Purtroppo questi scatti drammatici, que25 1

ste trovate, sono appese a un arco che avrebbe chiesto una maggiore ma­ turità teologica o perlomeno un più sincero senso poetico. Albee ha vo­ luto forse il suo jedermann, ma ha cominciato col confondersi le idee al­ lontanandosi da una piana realtà che permettesse un uso più discreto e ragionevole dell'allegoria. Egli ha detto recentemente che uno scrittore deve attingere esclusivamente dal suo inconscio, senza sovrapporvi altro che un controllo formale e un ragionamento intuitivo, ma ecco che si è appunto contraddetto costruendo una specie di dramma sacro uso­ Broadway sulle rovine abbastanza redditizie del suo pessimismo. '' Due Edward Albee per il prezzo di uno '' potrebbe essere il sottotitolo di Tiny Alice, un affare da non lasciarsi scappare, con tutti gli elementi turbolenti di Who 's afraid etcetera , la stessa manti de religiosa Mater et Amorosa, in fondo lo stesso dramma, ma in una chiave troppo ambizio­ sa. Se non ricordo male, Paul Valery diceva che un drammaturgo deve guardarsi « dalle idee indecenti ", cioè allettevoli come Giovanna d'Arco, Gesù, la Vergine Maria: di solito è il diavolo che le suggerisce, un dia­ volo che ha fallito la sua carriera letteraria. Penso tuttavia che a Ed­ ward Albee questo suo nuovo lavoro gioverà per mettersi in testa alla classifica degli autori drammatici americani. Egli è ormai uno scrittore alla moda, la sua disperazione viene presa per buona, è certo più grade­ vole negli sviluppi scenici di quella di un Beckett, più sontuosa e baroc­ ca, niente il regista (che è Alan Schneider) si è vietato per farla appari­ re anche cinematografica, nemmeno il battito del cuore di Julian mo­ rente amplificato dagli altoparlanti. Il pubblico applaude, capisce che è stato fatto il possibile per ripagargli il prezzo del biglietto. Che si vuole di più ? Nell'ultimo numero di Esquire si immaginano degli incontri possibili tra "stelle" di nazioni differenti. Barbra Streisand, che è la ve­ dette di Funny girl (una commedia musicale che qui sta mietendo suc­ cesso), viene ricevuta a Roma da Marcello Mastroianni , mentre Ed­ ward Albee è ricevuto a Parigi da Françoise Sagan . E la gloria. Che cosa promette la Sagan al suo ospite ? « Mi piacerebbe molto incontrarmi con Edward Albee qui a Parigi e fargli da guida . . . mi piacerebbe fargli incontrare Sartre e Genet e persone come queste . . . la notte tardi an­ dremmo al N ew Jimmy's a Montparnasse, ci sono dischi, si balla e si parla molto, pieno di gente divertente . . . verso le quattro è il meglio . . . mi piacerebbe presentargli lo scultore Alberto Giacometti. . . o sederci a parlare di libri , di tutto, per tutta la notte . . . eccetera >>. Insomma, è la gloria. 7 4 febbraio 7 965

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Balls di Paul Foster Up to thursday di Sam Shepard Home free di Landford Wilson Si possono allevare autori dramma tici ? E, una volta cresciuti, si ri­ producono in cattività ? A che età danno il primo atto unico? È preferì­ bile che siano tenuti all'oscuro dell'esistenza del pubblico o bisogna subi­ to fargli vedere la platea ? Con questa e altre domande sono uscito dal Cherry Lane Theatre; dal quale, del resto, cinque anni fa sono venuti fuori Edward Albee e un'altra mezza dozzina di commediografi. Ma i miracoli si ripetono ? Non sempre. C'è una stagione anche per essi, e il Cherry Lane fa quel che può. La sala vera, e propria è quanto c'è di più off-Broadway, piccola e scura con una cert'aria di spregiudicatezza pa­ rigina. Di queste sale ormai se ne trovano dappertutto, con lo stesso tipo di repertorio, gli stessi spettatori convinti, gli stessi autori dilaniati da poche idee, persino gli stessi applausi. Ma nel Cherry Lane Theatre c'è questo da considerare: due produttori e un autore hanno deciso quest'anno di mettere su un allevamento di ingegni drammatici . I pro­ duttori sono Richard Barre e Clinton Wilder, l'autore è proprio Ed­ ward Albee. Hanno scelto dieci lavori in un atto, distribuendoli in tre spettacoli, ognuno dei quali è previsto che resti in piedi tre settimane. Siamo stati al primo di questi spettacoli a vedere i lavori di Paul Foster, Sam Shepard e Lanford Wilson. Era di domenica pomeriggio, le strade del Greenwich Village ancora un po' deserte, con l'aria stupefatta e in riparazione che hanno le automobili parcheggiate la domenica. Questo, fuori. Dentro, un piccolo pubblico disposto a tutto e già solidale con gli autori. È strano come queste dimostrazioni rivoluzionarie si svolgano nella calma familiare delle digestioni. Forse il fatto è che certe rivolu­ zioni, ripetendosi continuamente, non allarmano più nessuno e finiscono per assumere il tono di onesti passatempi. Cambia soltanto la parroc­ chia, ma lo spirito è parrocchiale. In altre parole: " Signor Diavolo, va­ do bene per l ' Inferno ? '"· • Sì , sempre storto. ,. È l ' Inferno un po' surri­ scaldato, spregiudicato, ma quanto meno al coperto. Si finisce col farci l'abitudine, anche i diavoli hanno una mamma e i loro bravi problemi sessuali. Gli autori della prima infornata, Foster, Shepard e Wilson indossa­ no pantaloni di tela, scarpe dell'esercito, maglie pesanti, la divisa dell'anticonformismo. Così si fanno fotografare. I loro lavori non sono nuovi alle scene, essendo già stati presentati l'anno scorso agli amici in­ timi nella sala del Caffè La Mama, uno di quei patetici caffè italiani del Village, dove si trovano ancora i vecchi tavolini di marmo e alle pa­ reti l'iconografia dei caffè italiani di provincia 1 890, Dante che incontra Beatrice, Garibaldi , Amleto nella scena della recita al castello, re Um253

berto. Il primo lavoro si intitola Balls, si tratta proprio di questo: ·due palle bianche, sospese a un filo, dondolanti nel vuoto sullo sfondo di un telone nero. Non appare nient'altro sulla scena, si sentiranno però delle voci. Il programma ci informa che il luogo è un cimitero vicino al mare. L'acqua ha già invaso e dilavate le tombe, ne restano soltanto due e le palle bianche stanno a rappresentare gli ultimi due abitanti di questo ci­ mitero. I discorsi dei superstiti sono abbastanza apocalittici ma soprat­ tutto noiosi. Esempio: « Noi mangiamo la terra, la terra mangia noi e il mare mangia tutto >>. Devono aver perduto ogni speranza, uno dei morti scopre anche che è stato seppellito col nome di un altro, ma che diffe­ renza fa ? Vengono interrotti dal gaio vocio di una gita scolastica (sopra, « la vita continua ») e infine messi in imbarazzo da una coppia di young lovers che proprio tra le due tombe vengono a far l'amore. E non credia­ te che i young lovers se la cavino con qualche allusione. Fanno proprio l'amore, un vero catalogo di lamenti , urla e sospiri , coronati alla fine da un colpo di cannone. Le palle bianche continuano intanto a dondolare, la vista ne soffre e quando l'atto finisce è un vero sollievo. Si va fuori a fumare una sigaretta e si torna per il secondo lavoro, U,b to thursday. Qui siamo in piena pop art, con un elemento tipico del­ la pop art americana, la bandiera a stelle e strisce, che ricopre un altro cadavere, quello di un giovane anticonformista. A vegliare il cadavere vengono due ragazze e due giovani, vestiti a lutto ma abba stanza irri­ spettosi. La loro mimica è imitativa, cioè i giovani fanno quello che ve­ dono fare alle ragazze, e viceversa. Si baciano, si buttano giù dalle sedie, si parlano all 'orecchio, tentano approcci. Sempre nel più assoluto silen­ zio. Alla fine una delle ragazze va a ficcarsi anche lei sotto la bandiera col morto che in realtà è vivo, ed è presumibile che insieme copulino. E due. Se tutto ciò ha un significato, non può essere che all'insaputa dell'autore. A noi sembra di aver capito che questi drammaturghi (com­ preso il terzo, di cui subito parleremo) son spinti a occuparsi di teatro dalla necessità inconscia di affrontare e magari deridere i loro complessi erotici rispetto alla morte (leggi, impotenza) , alla società puritana (leg­ gi, mammà) e persino rispetto alla patria, vista come entità castatrice (leggi , papà). Dalla profanazione delle tombe, elementare, si passa all'uso della bandiera come coperta matrimoniale. È la stessa bandiera che sventola nei finali dei film militari , quella che gli scolaretti devono salutare ogni mattina e che finisce per diventare il simbolo della buona condotta, della legge, dell'american way of !ife. A mettere a posto la famiglia ci pensa il terzo autore: Wilson. Il suo lavoro non a caso si intitola Home free. Deve aver fatto versare lagrime di commozione ad Albee. Si tratta di questo: Lawrence e Joanna vivono insieme in una stanza d'affitto, nel disordine "poetico" di una situazione che ricorderebbe Cocteau, se l'autore l'avesse letto. Ma è probabile che 254

l'autore abbia letto invece un lavoro di Osborne, Under plain cover, do­ ve lo stesso dramma è prospettato con maggiore genialità. Il dramma è questo: i due giovani sono amanti , Joanna aspetta un bambino e teme che non nasca bene perché lei ha il cuore malconformato. Lawrence, da parte sua, è un balbuziente che la vita in comune con Joanna ha par­ zialmente guarito (infatti parla bene) senza però toglierlo dalle sue an­ sie esistenziali. Che cosa fanno i due giovani ? Vivono la vita solita dei ragazzi terribili, abbandonandosi alle fantasie più scadenti, tra giocattoli ai quali prestano significati surreali. Per esempio hanno una giostra, ti­ po ruota del Prater, che fanno girare nei momenti di malumore, una la­ vagna sulla quale disegnano le costellazioni, una gabbia "delle sorpre­ se", dove ognuno mette dei regali per l'altro. Nella stanza c'è anche un letto, e vanno a finirci spesso e volentieri. Altra angoscia che domina i due è di essere cacciati via dalla padrona di casa. Breve, dopo un'ultima lite, la ragazza incinta muore (ha il cuore debole, l'abbiamo detto) e il giovane ripiomba nella sua balbuzie. Ora, la faccenda non sarebbe ecce­ zionale, né degna di fornire argomento a una commedia, se i due giova­ ni non fossero, come nel dramma di Osborne, fratello e sorella. Respi­ riamo. Per un momento c'era venuto il sospetto che si trattasse di una coppia normale. Ci veniva in mente quello scherzo su Tennessee Williams, quell'ipo­ tetica commedia dove nei primi due atti un giovane seduce la sorella, il fratello e persino il padre e la madre e nel terz'atto si uccide venendo a sapere che è soltanto figlio adottivo e che quindi tutto il suo lavoro ico­ noclastico risulta inutile. Questi tre lavoretti vengono presentati per celebrare il quinto anni­ versario del Cherry Lane Theatre, all'insegna del New Playwright Se­ ries. È probabile che non sia riuscito a darvene un'idea sufficiente, né rispettosa. Chiedo scusa. Il pittore Amerigo Bartoli andò una volta a teatro, per certi atti unici di suoi amici giornalisti, lavoretti abbastanza scadenti ma che, per il nome dei loro autori , avevano convocato un pub­ blico scelto. All'uscita Bartoli, profondamente deluso, gettò in terra il programma e disse: " Ma allora, è molto meglio Shakespeare! ,. _ 28 marzo 1965

Le tre sorelle di Anton C echov Negli ultimi due mesi vari spostamenti mi hanno portato a vedere teatro un po' dappertutto. Persino in Canada dove, a trenta sotto zero, ho visto dell 'Anouilh, un autore che non sopporta davvero il freddo. Poi 255

una sera, nella meravigliosa Quebec, ecco che il vento gelato dell'Artico mi spinge in una ben riscaldata baracca dove davano, con garbo da bou­ tique, delle imitazioni di lonesco, altro autore che va gustato a casa sua e che altrove diventa inesplicabile, il classico scherzo fuori posto, perché mancano quegli attori, quella strafottenza, quella necessità letteraria. Insomma, nasce l'impressione che il teatro si stia unificando e che ovun­ que valgono gli stessi schemi di protesta, di ironia, un atteggiamento verso la vita che vorrebbe essere anticonformista ma diventa accademico per rifiuto della realtà, un gusto per la polemica altrui, cioè d'importa­ zione, una rivolta che si placa subito nelle malizie della messa in scena, uguali dappertutto, poverine. Un teatro che muore di sovvenzioni e di intelligenza. Un'altra sera, a Montreal per esempio, annunciano un Klondike, spettacolone che non vogliamo perdere almeno per il ricordo di J ack London. Molta gente sulla scena, ma in realtà le storie che interessava­ no gli autori erano tre e tutte false: quella di un prete che finge di voler salvare le prostitute locali ma vuole soltanto frequentarle; quella di un cercatore d'oro sfortunato che riesce a redimere una delle suddette pro­ stitute e va con essa a cercarsi un lavoro onesto; e la terza infine, la più importante e la più disgustosa, che riguardava due cercatori d'oro omo­ sessuali. Il tutto, lo avrete già capito, epico. E cantavano! Si aveva l'im­ pressione di assistere al matrimonio di Brecht con Rosemarie. Poi a N ew York vidi ciò che fanno gli anziani per giustificarsi da­ vanti ai giovani e ciò che fanno i giovani per giustificarsi davanti ai bambini: una truffa circolare. I nfine, di ritorno a Roma, circa un mese fa, vidi una delle ultime rappresentazioni delle Tre sorelle di C echov. Mi sembrava di rinascere. Sarebbe stato mio dovere scriverne, anche se in ritardo, se non altro per applaudire il magnifico sforzo della Compagnia De Lullo-Falk-Valli­ Albani. La verità è che tornato a casa, quella sera stessa, commisi l'er­ rore di rimettermi a leggere C echov e finii nelle sabbie mobili. Prima Le tre sorelle, poi gli altri drammi , qualche racconto, ripresi Una storia no­ iosa, i Quadern i. Sono stati la mia unica compagnia per un mese. Al contrario di Stendhal , poiché la sera non avevo niente da scrivere, legge­ vo; e questo credo che succeda ormai a pochi , tutti preferiscono scrivere. Ma io leggevo C echov nel tentativo di capire perché mi era impossibile dirne qualcosa, almeno un grazie agli attori. Arrivai alla conclusione che C echov non è morto, è l'unico autore del XIX secolo che non si allontana nel tempo, che non diventa "classi­ co", ma che anzi continua a parlare di noi . Tutto intorno il panorama è cambiato, ma egli si ostina a parlare di noi , perché era arrivato alle ra­ dici del dramma, l'incapacità dell'uomo di vivere nella sua condizione, gli sforzi che farà per uscirne, il crollo che si trascina addosso appena 256

esige di vederci chiaro. Ogni tanto un debole sparo dietro le quinte e il personaggio, che si è fermato, .come Orfeo, a considerare la sua condi­ zione, muore. Gli altri seguitano a vivere nella speranza di andare a Mosca, cioè di ricominciare daccapo. C echov insomma aveva capito che l'uomo vive una brutta copia della sua vita e che la sua condanna è nel doversi continuamente giudicare. Vive nel suo inferno personale ed è il più esigente torturatore di se stesso, per il semplice fatto che si conosce abba stanza. Come si fa a conoscersi e poi a vivere con se stessi ? Gli uni­ ci che se la cavano, nei suoi drammi, sono quei personaggi che si imme­ desimano nella loro "persona" in senso junghiano, che credono cioè di essere o uno scrittore di successo, o un funzionario modello, o addirittu­ ra un sordo. Noi li vediamo per quel che sono, essi si vedono "realizza­ ti" e se la cavano. H anno la sicurezza dei sonnambuli. Gli altri vivono la tragedia moderna, che è appunto quella di non riuscire a realizzarsi, e vanno avanti con un carico di idee sproporzionate alle loro forze. Per lo più sognano il futuro, come ipotesi consolatoria o cercando di spiegar­ si l'inesorabilità del tempo, che cambia le cose, in realtà !asciandole in­ tatte, perché ripropone ad altri personaggi gli stessi problemi. Le nostre città non sono forse diventate un immenso giardino dei ci­ liegi , dove la volgarità produttiva esige continui tagli di ciliegi ? E non aneliamo alla vita semplice, a contatto della natura, per ritrovarci poi tutti nelle stesse villeggiature, più scontenti di prima ? E la stessa lette­ ratura, finita nella confessione autobiografica o nella contemplazione della rinunzia, non è diventata per la maggior parte degli scrittori una terapia ?, un modo di provare che si esiste, che la realizzazione è avve­ nuta ? Chi rimprovera a C echov di aver permesso con la sua opera una ge­ nerazione di cattivi scrittori di teatro, che si sono limitati alle atmosfere, al quotidiano, all'inespresso e persino al silenzio, dimentica che la sem­ plicità del genio ha per effetto di scatenare il manierismo. Come intorno al 1 9 1 0 tutti dipingevano le stesse mele di Cézanne, così gli autori di teatro fecero di C echov la bandiera del dilettantismo. Ma oggi che que­ gli autori sono dimenticati o che è addirittura penoso leggerli, C echov ci appare come un medico, e lo era persino, che con parole semplici abbia intuito e descritto un male futuro. E ciò che, a suo tempo, ai critici , po­ teva sembrare descrizione della società zarista, scontenta e avida di pro­ messe, oggi appare un ritratto eterno della condizione umana, un ritrat­ to che trae la sua tragicità dal tessuto quasi comico della scrittura. Egli sapeva che gli eroi moderni vivono con un piede nella farsa, in gioventù aveva tradotto numerosi vaudevilles francesi e aveva penetrato la tecnica del contrasto, di rendere disperata una situazione sottolineandone il lato comico. C'è nelle Tre sorelle l'indimenticabile addio di Ver�inin a Ma�a, 25 7

quel Versinin pronto a partire e che in attesa di Masa, che ama e che dovrà lasciare per sempre, si abbandona alle sue liriche considerazioni sul futuro migliore, finché si interrompe, guarda l'orologio e quasi a se stesso dice: « Ma io dovrei scappare . . . " · Ecco, è qui C echov, nelle picco­ le continue cadute che i personaggi fanno dai loro piedistalli inesistenti. Così la forza di C echov sta nel suo connettivo dialogico, minutamente osservato, ricordato, da entomologo. Oggi abbiamo l'autore magnetofono, che però non sceglie. C echov sceglieva, incastrava al punto giusto. Le sue notazioni hanno l'aria dimessa, ma si sente che sono frutto di una ricerca della verità momentanea, cioè teatrale. La differenza credo che sia tutta qui: la vita è fatta per gli scrittori , i fessi preferiscono immagi­ narsela e abbellirla. C echov voleva che ai suoi drammi si ridesse, sono arcinoti gli aneddoti su questa sua esigenza, perché la vita non riesce mai a essere seria per i suoi personaggi , anche nei momenti peggiori. Andrej che confida le sue delusioni al sordo Ferapònt fa ridere appunto perché il suo dramma è serio, ma il confidente seguiterà a ignorarlo. Questa scena, efficace appunto per la sua brevità , doveva offrire molti anni dopo lo spunto per una novella a Sherwood Anderson, Adventure (la troverete in Winesburg, Oh io) , che potrebbe darci il senso della mi­ sura, quindi della coscienza artistica di C echov. Perché in Adventure è una ragazza di paese, sessualmente compressa, che una notte esce di ca­ sa decisa a darsi al primo che incontra, e incontra appunto un sordo, che non la capisce e la riaccompagna a casa. Qui il dramma è forzato, inventato; là, in C echov, succede tutti i momenti, e lo riconosciamo per nostro. Una buona rilettura di C echov porta purtroppo a un'altra conclusio­ ne, che siamo dei pessimi spettatori, cioè che diventiamo esigenti. Ora De Lullo e compagni staranno, lo spero, portando in altre città il loro spettacolo, col successo che merita e che il pubblico romano gli ha decre­ tato. Francamente, per la qualità degli attori e della regia, Le tre sorelle mi è parso di gran lunga il miglior spettacolo di quest'annata teatrale. Direte che non era difficile, ma è sempre consolante. Tutti erano perfet­ tamente a posto e non credo che rivedremo facilmente una Masa come Rossella Falk, un Versinin come Romolo Valli, un Andrej come De Lullo, un'Olga come l'Albani, un' Irina come Elena Cotta. Per non par­ lare degli altri, Giuffrè, Tarascio, De Ceresa, Sammataro, Gianna Gia­ chetti. Tutti hanno saputo comunicare ai loro personaggi una dolcezza e una forza davvero troppo rare per non meritare il più sincero ringrazia­ mento. Come pure mi è sembrato che il pubblico ridesse; ed era quello che C echov voleva e che alcuni hanno disapprovato, pensando che fosse irriverente. O semplicità dei dottori ! 7 7 aprile 7965

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La governante di Vitaliano Brancati Si stenta a credere che La governante sia stata vietata dalla censura democristiana per tanti anni, sino a spingere Brancati a pubblicarla as­ sieme a un pamphlet contro la censura. Si tratta infine di un'opera non soltanto morale ma persino un po' inattuale, centrata su un problema drammatico, q uello dell'omosessualità, che era abbastanza vivo negli an­ ni tra le due guerre, fornendo materia a brutte commedie di successo, ti­ po Fior di pisello o Adamo, a romanzi che fecero epoca nei collegi fem­ minili, come Il pozzo della solitudine. Che cosa abbia spinto Brancati a occuparsene, lui che aveva da concludere ben altri problemi, di satira politica e di costume, o di autobiografia, non appare chiaro. Non certo il tema scabroso, sospetto che può essere valido per altri autori. Il deside­ rio di offrire dunque un testo altamente drammatico alla moglie-attrice ? È la spiegazione più accettata e plausibile. Anna Proclemer lo rappresenta oggi con molto amore e ne ricava una delle sue interpretazioni più attente e applaudite. Ma il dramma è venuto fuori viziato dallo scetticismo, quasi dal rifiuto artistico di Bran­ cati per lo stesso problema, e così abbiamo un'opera divertente alla su­ perficie, con caratteri e macchiette piene di umore, e un personaggio, quello proprio della governante, che sembra cascato da un altro dramma e vada cercando l'uscita. Caterina Leher trova quest'uscita impiccando­ si, dopo aver con le sue calunnie fatto licenziare una candida servetta si­ ciliana ch'ella concupiva, e dopo che costei, tornando al suo paese, è morta in un incidente ferroviario. Caterina Leher non resiste al rimor­ so, anzi si rifiuta di esserne liberata ( « . . . vogliono togli ermi il rimorso, il solo bene che ho nella vita . .. »), rifiuta l'assoluzione e il perdono e si uc­ cide. Poco prima era stata sorpresa dal padrone, Leopoldo Platania, in particolare colloquio con la nuova domestica, e la sua verità di perso­ naggio moralistico e ambiguo s'era chiarita, avviandosi a una conclusio­ ne estrema, di drammaticità sospetta. Chi ha una certa dimestichezza con le opere di Brancati sa che egli era propenso a evitare le soluzioni drammatiche nette, preferiva lasciare i suoi personaggi in una specie di purgatorio desolato e ironico dove la tragedia dei sentimenti si temperava nella farsa delle circostanze, dove insomma la tragedia non avrebbe potuto esplodere senza turbare e an­ nullare il divertimento di una ricerca umana fortemente caratterizzata, tutti i suoi personaggi essendo siciliani, pieni di complessi e di voglia di vivere, comici e disperati . Voler vedere nel personaggio della governante una prosecuzione e anzi una conclusione della recherche erotica branca­ tiana mi sembra azzardato. È con Paolo Il Caldo che egl i concl ude. La­ sciandosi alle spalle le scaramucce di Don Gzoua n m m S1cil1a e l'ar­ manciano Brll 'A n to n io, affrontando il tema quasi sulla sua propria pel259

le e ricavandone un risultato di disperazione attuale. Il tema da ironico s'era fatto tragico, ma senza mai proporre la tragedia, !asciandola intui­ re nel comportamento del protagonista, che va a ficcarsi in un labirinto dove l'erotismo non è più materia di riso ma prelude la follia. La colpa e il peccato erano concetti che Brancati rifiutava, artisticamente. Li ac­ cetta per la sua governante, ma ci avverte che si tratta di una "stranie­ ra", di una calvinista, capitata nella sagrestia romana della vita facile, in una famiglia disinvolta dove il solo moralista è proprio il vecchio pa­ drone di casa, che traduce tutto in termini di buon senso e di umorismo. Questo carattere di siciliano emigrato (Gianrico Tedeschi) e la sua famiglia (Fulvia Mammi e Carlo Delmi) sono le cose più riuscite del dramma. Se volete, potete aggiungervi il ritrattino (Giorgio Albertazzi) di uno scrittore alla moda preso dal vero, al quale Brancati affida in parte le sue vendette sulla stupida censura. « Ci censurano i romanzi, che nessuno legge, e le commedie, che nessuno va a vedere, dove noi raccontiamo le cose che essi fanno ogni giorno , dice questo scrittore sca­ tenando l'applauso del pubblico. Per concludere, una commedia dove l'intelligente rappresentazione del Coro, visto dal vero, contrasta col problema e il carattere della governante, accettati sulla parola e avviati alla soluzione forse più teatrale ma anche più immaginata. La regia ci è parsa volenterosa. Realistica nello sviluppo, la comme­ dia richiedeva probabilmente un impianto scenografico che fosse meno elegante, meno da avanspettacolo. Casa Platania sembrava invece ispi­ rata alle portinerie di quei palazzetti medio-signorili che fanno oggi , con vedute di Roma tratte da antiche stampe e ingrandite fotografica­ mente su materiale plastico. Quale perno al movimento degli attori c'era un puff intorno al quale misteriosamente la circolazione era obbli­ gatoria. Poi abbiamo visto che sul palcoscenico, in pianta, erano segnati anche i corridoi dei servizi (doppi , naturalmente) e perciò gli attori che entravano in scena dovevano percorrere un tragitto a baionetta tra mura invisibili, per poi finire attorno al puff. Audacie che sembravano moder­ ne trent'anni fa e che hanno contribuito a respingere il dramma di Ca­ terina nel clima del suo tempo . 9 maggio 1 965

Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta Il progresso della primavera, il caldo che arriva da un giorno all'al­ tro, precipita Roma in quella che è la sua vera stagione, un preludio dell'estate, la stagione dei concorsi ippici e letterari, coi ritorni serali al caffè, cene editoriali con calate lombarde e piemontesi, insomma si ri260

mette in moto il meccanismo di una società che d'ora in avanti si consi­ dererà in una meritata vacanza senza un minuto di riposo. Tra poco avremo Spoleto, poi il teatro all'aperto e tutto il dilemma sarà se convie­ ne cenare prima o dopo. È abb a stanza strano che questa società non ab­ bia trovato sul palcoscenico il suo "poeta di compagnia" che scaricasse una ventina di commedie sui caratteri , addirittura sui tipi riammoder­ nati della nostra antica commedia. In verità, ci sono tutti: le Rosaure, i Florindi, i nobili di passaggio, i Balanzoni che oggi parlano il linguag­ gio tecnologico e sociologico, gli Arlecchini che servono due o tre padro­ ni, gli abatini, le attrici del "teatro alla moda", tutti avviluppati in intri­ ghi abba stanza classici e nei loro sogni di incostanza. La ragione è forse che Roma non ha mai espresso un suo teatro di società, come Venezia o Napoli, o anche Milano dei primi del secolo, e quando ha avuto final­ mente la possibilità di farlo si è riversata nel cinema, ha tirato fuori tre o quattro maschere molto felici ma le ha sottoposte a un lavoro enorme, autodistruttivo. La borghesia non si è fatta stanare dai romanzi, e senza una borghesia che parla non si ha teatro. Forse per questo, nella Gover­ nante di Brancati, il ritrattino di uno scrittore preso dal vero ha riscosso tanta approvazione, come indizio di una direzione che poteva essere se­ guita. Basta, l'altra sera, incerti tra due cene preparatorie di un premio (e immaginate già la commedia Le sman ie per la letteratura, che un Goldoni anche molto minore potrebbe farne) , abbiamo preferito andare al Teatro Parioli, per rivedere il capolavoro di Eduardo Scarpetta, Mi­ seria e nobiltà, nell'edizione della Compagnia di Nino Taranto. Non crediamo di aver perso il nostro tempo, anzi di averne guadagnato, se è vero che si va a teatro non per passare il tempo, ma per ritrovarlo, an­ che in certi modi di spettacolo. L'edizione della Compagnia Taranto è dunque colorita e affettuosa, riporta a trent'anni fa, punta tutto sul va­ lore e la simpatia degli attori, senza porsi grandi problemi di regia. Ni­ no Taranto, non più lustro come in certe sue brillanti fotografie, ma ca­ lato nel personaggio di Don Felice, ci è parso molto più divertente del solito, aveva attorno a sé una schiera di bravi compagni , eccellenti addi­ rittura, come la Palumbo, la Conte e Carlo Taranto. Tutta l'atmosfera, le scene, le luci , i costumi riportavano a certi vecchi teatri di Napoli, senza ancora il rigore, la puntualizzazione di Eduardo De Filippo, ma in un prodigarsi generoso, quasi eroico. Tutti, anche i ragazzi (qui Ciro Giorgio, nella parte di Peppiniello) finivano per strappare i loro ap­ plausi ad un pubblico cordiale che prima del levarsi del sipario aveva dovuto vedersi, chissà perché, un quarto d'ora di pubblicità cinemato­ grafica. Quanto alla commedia, che ha quasi ottant'anni, il solo primo atto basterebbe a garantirne la vitalità e a darci anche la chiave per capire tutto un teatro napoletano che l'ha segu ita, un teatro dove la realtà è 26 1

stata sempre vista come un'esasperazione ironica, struggente, del possi­ bile. Dove le cose non vengono mostrate perché sono vere, ma soltanto perché sono comiche, soprattutto quelle che non ne hanno affatto l'aria. Diciamo il primo atto, perché gli altri due si perdono nei labirinti del vaudeville di Labiche e seguaci, dei quali del resto Scarpetta adattò in napoletano molte opere. Ora, finché le molle del vaudeville, gli scambi di persona, le trovate e le soluzioni non scattano e l'autore ci presenta i suoi personaggi, la commedia che ne cava è di una forza che il tempo non riesce a scalfire. È un atto molto lungo, circa un'ora, ma dove il te­ ma dominante, l'irritazione provocata dalla fame in due famiglie che vi­ vono in uno stesso appartamento, si rinnova a ogni svolta di scena, au­ menta, dilata, diventa una specie di bolero, trova le sue pause e nelle pause nuova forza per ricominciare. Conoscete certamente la situazione. È quella di due famiglie della piccolissima borghesia napoletana, che vi­ vono insieme per risparmiare sul fitto, che del resto non pagano, ma pur vogliono conservare una cert'aria di dignità. I due capifamiglia sono amici, le donne nemiche. Passano il tempo a rinfacciarsi una fame che ognuno attribuisce alla presenza degli altri. Ma è una fame addirittura storica e letteraria, che si direbbe venga diritta da Lazarillo de Tormes e davanti alla quale i due amici sono ormai impotenti, rassegnati, come a una condizione biologica. La conclusione di questo primo atto ha una sua bellezza onirica. Un frivolo ganimede, innamorato di una delle don­ ne affamate, manda alle famiglie un pranzo già pronto. Entrano in sce­ na due cuochi da presepio, con un gran cesto pieno di cibo e di vini; e per un lungo momento che tocca la poesia, mentre i silenziosi cuochi apparecchiano la tavola, gli affamati non osano muoversi, credendo a un'allucinazione, a un miraggio provocato dai loro stessi sgangherati de­ sideri . È un lungo momento che preannunzia già il surrealismo di Cha­ plin, il realismo magico, non più dialettale, di una comicità moderna. Dopo, la commedia si fa più farsesca, ma non si solleva più così felice­ mente dall 'imitazione dei modelli francesi. Ma a pensarci bene è pro­ prio da quel "momento" che la commedia napoletana comincia a vivere. 30 maggio 7965

La lupa di Giovanni Verga Da quanti anni non vedevamo La lupa di Giovanni Verga ? L'ulti­ ma volta fu al cinema. Tutto rifatto, naturalmente, com'è costume del cinema, e arricchito. L'azione non si svolgeva più in Sicilia, ma nelle Puglie, non su un'aia ma in una manifattura di tabacchi e di rifatto 262

c'era anche il naso dell'attrice. Oggi, mercoledì, siamo a Firenze per La Lupa che ci propone Zeffirelli nell'interpretazione di Anna Magnani. Grosso spettacolo nel quadro del Maggio fiorentino e che sarà por­ tato a Zurigo, Vienna, Parigi. Da immaginarsi i consensi. Si tratta an­ che di un clamoroso ritorno, la Magnani non appariva sulle scene dagli anni del dopoguerra, quando la vedemmo in una Carmen , in Maya , e persino in Scampolo. Poi venne il successo del cinema, e Tennessee Williams che l'assume a modello per certe sue creazioni only for export, cioè alquanto convenzionali, impastate di temperamento e di aggressivi­ tà. Si fece una fama di forza della natura. Io non credo alla recitazione dei vulcani, né alle seduzioni dei terremoti , la Magnani restava sempre superiore al personaggio che le avevano destinato, per una sua certa fe­ roce ironia, che temperava gli scoppi , l'afrore e l'ottusità delle passioni ai quali l'obbl igavano, ma ormai il cinema le chiedeva soltanto di ripe­ tersi. Restava una grande attrice, un po' compiaciuta ma sicura di sé, padrona del palcoscenico, capace di rovesciare a suo vantaggio una si­ tuazione pericolosa con qualche sincera invenzione. La ricordo in una rivista musicale, sempre negli anni del dopoguer­ ra, che entrava in scena ogni sera con un cavallo tenuto alla briglia e una bella sera il cavallo prese a fare i suoi bisogni con una certa opulen­ za. Sono gli inconvenienti del naturalismo scenico, d'accordo, ma qual­ siasi attrice avrebbe perso la testa. La Magnani accarezzò il cavallo (che ne sapeva lui di Meyerhold e di Copeau ?) e lo baciò, come avrebbe fatto con un bambino, insomma lo confortò della brutta figura che stava fa­ cendo. Il pubblico romano si mise nei panni del cavallo e applaudì . Del resto, non c'era altro da fare. Grande attesa, ora, per questa Lupa, " scene drammatiche " • come la definì lo stesso autore, un'azione rapida in due atti, più un libretto da melodramma che un dramma, siamo sempre nella fatalità agreste della Cavalleria rusticana , dalle passioni colpevoli scaturisce la tragedia roz­ za, rapida come un fulmine, e la cosa finisce lì , coi carabinieri. Non è più teatro e non è ancora cinema, ma qualcosa che richiama la realtà immobile delle cere e che vive dunque soltanto per un'aderenza totale al verismo scenico, come un immenso e puntiglioso affresco. Nel quale Zeffirelli scenografo non si è certo limitato a suggerire elementi ma li ha addirittura presi dall'uso comune, dalla vita e riuniti sul palcosceni­ co. Qui c'era di tutto: frasche, fascine secche, mazzi di peperoncini, orci e canestri d'ogni specie, carretti , ruote di ricambio, e tutto vero. In più, acq ua potabile, pagl ia e fieno, e ricordi di Michetti e di Palizzi , Voto e Figlia di Iorio, e in più le fotografie dei viaggiatori del Sud intorno al '90. Uno sforzo che, appunto perché chiaramente ostentato come unica soluzione, indicava anche i limiti del testo e fissava infine i limiti della recitazione, q uello che si poteva fare per dare sulla scena, nell'equivoco 263

della lingua toscana, un carattere di aggressività vitale. Diciamo pure, una scommessa; vinta di forza, con le scene d'insieme che sembrava di starei , una zuffa e un ballo sull'aia applauditissimi, con le scene d'amo­ re couchés dans le foin, vero fieno che mandava odore di campagna e polline agli allergici delle prime file, insomma un teatro che non biso­ gna farlo sapere a Chiaromonte, perché sembra appunto la dimostrazio­ ne contraria delle sue teorie sul teatro, che il dramma dev'essere parola e idea, non pretesto di spettacolosità, di trompe-l'oeil, ma semmai sinte­ si, allusione. Gli attori , chi più chi meno, hanno animato la scena come oggetti che dovevano arricchirla di altri elementi veri. Noi ricordiamo più auto­ nomi Annamaria Guarnieri , perfetta nella parte di Mara, Osvaldo Ruggieri, che era l ' Ippolito di quella povera Fedra da villaggio che è la "Lupa", Ave Ninchi e Gianni Mantesi. Quanto ad Anna Magnani, trionfo: applausi al suo ingresso, ovazione alla fine. Il suo senso della misura, l'abilità di certi angosciati silenzi , il tono sommesso della sua provocazione hanno disegnato un personaggio di peso psicologico, nella linea del suo autore, cioè molto più vicino all'intuizione che alla cro­ naca. 6 giugno 1 965

Il giuoco dei potenti di Giorgio Strehler (da William Shakespeare) Uno dei temi della nuova politica del Piccolo Teatro di Milano è quello del "tempo libero", di come offrire cioè ai lavoratori « un conte­ nuto di elevazione spirituale, di presa di conoscenza, di intelligente di­ vertimento ». L 'ultimo spettacolo di Giorgio Strehler sembra aver risolto il problema occupando tutto il tempo libero non solo dei lavoratori ma anche degli oziosi. Diviso in due "giornate", circa sei ore la prima gior­ nata, cinque la seconda, si esce da q uesta affascinante e dura manifesta­ zione con il sospetto che il teatro possa, in un'epoca in cui tutte le altre autorità vacillano, diventare una guida e una minaccia, e comunque che si preoccupi troppo di salvarci, consegnandoci a una vita migliore. Le intenzioni sono chiare. Strehler ha lavorato intensamente sulle tre parti dell'Enrico VI di Shakespeare, abolendo quasi tutta la prima parte ma aggiungendovi brani tolti da altri drammi storici dello stesso autore e creando con questi un personaggio, l'Attore, che ragguaglia, presenta, riassume le puntate precedenti e giuoca al regista con gli altri personag­ gi. Il risultato di questo "libero adattamento" ha per titolo Il giuoco dei potenti ed è una somma di quel che può offrirei il nostro più autorevole 264

regista, intuizioni che strappano l'applauso, estrapolazioni che non lo strappano, esercizi di pura bravura, devozione ai dettagli , una simme­ tria portata allo spasimo, delle estasi da cerimonia dell'incoronazione. Centotrenta attori in costumi sontuosi, un palcoscenico rialzato e ottago­ nale come quello del Globe, personaggi coronati disposti sull'enorme scacchiera, che devono colpire per la loro sola presenza e ricordano figu­ rine da palio, da festa turistica o da museo delle cere. È chiaro che Stre­ hler non vuole la nostra borsa, ma la nostra vita. Del resto, in cambio ci dà la sua. Si assume tutte le responsabilità e il suo coraggio incute am­ miraziOne. Se ha qualche dubbio sul testo, lo risolve in favore dell'azione, come fa il cinema. Esempio illuminante mi sembra la scena dell'assassinio del duca di Gloucester che nel testo, proprio per creare una nuova inquie­ tante tensione drammatica, è dato per avvenuto e risolto con una dida­ scalia (« entrano due o tre sicari che hanno or ora assassinato il Duca »), e qui invece viene descritto coi suoi bravi sicari , naturalmente comici, che intervengono con l'opportunità di un'imitazione della coppia Fran­ chi- Ingrassia, mimando per cinque minuti un'azione inutile. Subito do­ po, altro libero e probabilmente comico adattamento del conte di W ar­ wick che fa le sue induzioni sulla morte violenta del Duca, presente ca­ davere, truccato da medico legale, o coroner, del tempo. Sono due esem­ pi di una pressione che è difficile condividere, a meno di non riaprire la questione dell'autore delle opere di Shakespeare. A Bacone, al conte di Essex e a Marlowe bisognerebbe aggiungere allora Brecht. Essenzialmente brechtiane appaiono le giustificazioni che Strehler premette al suo adattamento. La prima, di ordine storico-morale, è che la vicenda narrata da Shakespeare « ha un'allucinante significazione at­ tuale "· In poche parole, vi è un mondo, l'Inghilterra del XV secolo, do­ minato da due gruppi contrapposti , le famiglie Lancaster e York, che potrebbero menare « un'esistenza ricca e felice » , « tutta disponibile a opere di pace e di progresso o anche al tranquillo godimento delle gioie della vita ». Idillica prospettiva! Ma il loro mondo, come l'attuale in proporzioni maggiori , è fondato >. La troverete nel secondo atto della seconda parte. L'Homunculus ciberneti­ co che il fedele W agner guatava vivere nel suo alambicco è già capace di pensare per noi , scrive dei versi non disprezzabili, dategli il tempo di 284

una generazione, anche mezza, e si dedicherà al teatro. Per ora l'Ho­ munculus lavora per Carmelo Bene, ordina e raccoglie materiale non senza ironia. E il dottor Faust che ci propone (al Teatro dei Satiri) è un giovane falso dottore a cui mancano quindici esami per la laurea, ma è sazio egualmente di sapienza e non desidera neppure esaurire la vita. Prova anche a tirarsi un colpo di rivoltella, ma non ci sono pallottole. Così aspetta fumando e bevendo la conclusione, direi che si affanna sol­ tanto a trasferire sul povero Mefistofele le sue ben note angosce esisten­ ziali. Meglio dir subito che Goethe non c'entra in questo collage nem­ meno per un verso. Ne sono autori lo stesso Carmelo Bene e Franco Cuomo, i personaggi sono ridotti a q uattro; ossia, oltre Faust, uno spau­ rito Wagner (l'attore Vita), un Mefistofele, una Margherita. Ma è chiaro che i nomi servono soltanto a informare lo spettatore, e a non di­ strarlo. Forse proprio con questo Faust Carmelo Bene intende chiudere la serie delle sue discusse contaminazioni. La cosa cominciò due anni fa con Wilde, poi fu la volta di Marlowe, di Collodi, dell'abate Prévost, di Shakespeare e di Laforgue. Ora un Faust in giaccone di pelle, ostinato bevitore di J. & B. e fumatore di sigarette senza filtro, preoccupato e te­ so come quei maghi da varietà di periferia che devono forzare la volontà di una platea carogna e scettica, è sul palcoscenico e balla con una Mar­ gherita più entraineuse che verginale, al ritmo lento di " Un bel dì ve­ dremo » del Maestro Puccini. È un Faust stanco. Non desidera che ciò che gli viene ripetutamente offerto, ciò che già possiede: Margherita e la Noia. Chi invece agogna alla vita, ai piaceri impossibili della media bor­ ghesia è il povero Mefistofele. È travestito da Diabolik, in calzamaglia rossa, mascherina e mefisto, ha tutti i complessi del diavolo meridionale, succubo di Faust e sua controfigura. Spasima di poter ballare anche lui, ma è chiaro che non ce la farà mai. Tutto ciò che riesce a ottenere sono dei gran libri rilegati in testa, che il suo padrone, ormai deciso a ripu­ diare la sapienza, ma per ben altri motivi, gli dà tra una bevuta e l'al­ tra. Anche al bravo Wagner, che ricorda Gabriele Baldini giovinetto in un'imitazione di Leporello, tocca la sua parte di colpi. Il disordine in scena diventa ben presto anticulturale. E il tutto è di frequente sommer­ so da nuvoloni di nebbia profumata che partono dalle quinte e calano in platea. È probabile che si tratti di un prodotto per depurare l'aria, non di vapori infernali. Forse è anche insetticida. Ora, poiché la storia si di­ vide in due tempi , nel primo tempo Carmelo Bene giuoca la sua convin­ cente carta d'attore in un lungo monologo col manichino di Margherita. Quattro ragazze (che in ordine alfabetico si chiamano Anna Angelucci, Manuela Kustermann, Valeria Nardone e Rosaria Vadacca) seggono ben agghi ndate di veli sul proscenio e commentano l'azione, oppure danno sconcertanti ricette di filtri magici per innamorati impotenti o non corrisposti. Forse sbrigano le incombenze del coro angelico e delle 285

streghe, comunque sono tutte belline e non dispiace che siano lì, · come un'orchestra di voci ora celestiali e ora terapeutiche. Nel secondo tempo Faust si tira un po' sul fondo e lascia che Diabolik lavori per lui attorno a Margherita. Costei si rivela dapprima per una turista inglese, per dar modo a Diabolik (che è il bravissimo e divertente M ario Tempesta) di esaurire il suo catalogo di latin !aver molto maldestro, che non rinuncia nemmeno a declamare La pioggia nel pineto. Subito dopo, Margherita è la Lucia dei Promessi sposi (e in questa lunga scena Lydia Mancinelli, che ci era apparsa una bella e autoritaria M argherita, diventa deliziosa­ mente comica). Diabolik è subito naturalmente Renzo, fidanzato respin­ to da Lucia che ha fatto voto di non più sposarsi se il suo uomo scampe­ rà alla peste. A risolvere i dubbi della poverina e a facilitare le nozze in­ terverrà Faust-Fra' Cristoforo. Ma già la noia ha invaso tutti i perso­ naggi , e con voce resa ferma e pensosa dalla certezza di un vita comun­ que inafferabile, perché l'attimo fuggente non si arresta, ed è inutile lo­ darne la bellezza, Faust declama commosso i risultati delle partite di calcio, sempre attesi come l'unica vera speranza settimanale di palinge­ nesi. Quei risultati per i quali , ad azzeccarli , venderemmo l'anima pro­ prio al Diavolo. Forse, raccontato così, il Faust di Bene e Cuomo non può sfuggire all'accusa di pasticcio, e molti sostengono che lo sia. A mio avviso, non lo è, anzi scopre alla fine un suo disegno di moralità leggendaria portata alla "nostre" estreme conseguenze, le conseguenze di tutti i giorni, nella confusione di una vita che si rivela avara di significato e ricca di inter­ pretazioni , e che si finisce per vivere com'è, nelle sue assurde lusinghe di massa. La cultura che finisce nel nozionismo, l'amore nell'erotismo, la gloria nel successo, il « femineo eterno » che non « ci trae più al su per­ no », ma ci tira giù, orizzontali, verso la sistemazione e la nevrosi (per dieci minuti M argherita grida che vuoi sposarsi), e la noia che si allea alla disperazione, i piaceri alla necessità della ripetizione, la fantasia all'eccitazione. Su tutto volano le voci lugubri della sera, televisive e ci­ nematografiche, i rumori, i cartoni animati, le canzoni premiate, i gor­ goglii elettronici , la finale di una partita di calcio, i consigli dello psica­ nalista, i dubbi dell'anima, le parolacce indispensabili, insomma, per dirla con Mefistofele (quello vero), non ci accorgiamo mai di aver a che fare col Diavolo, neppure quando ci tiene per il colletto. Le uniche oasi di vera gioia, durante le quali tutti i personaggi si agitano e credono in qualcosa, anche Faust, vengono dalla memoria di vecchi brani d'opera e di musica sinfonica che gli altoparlanti danno a tutto volume. L'abi lità del collage è certo nell'accostamento un po' malizioso di elementi noti e disparati, Manzoni e D'Annunzio, Puccini e Amado mio, il comico quotidiano e i nostri passatempi monotoni di prigionieri, le voci che ci perseguitano e quelle che crediamo di sentire, ma è anche 286

nella giusta macerazione dell'intruglio, che non permette alla pièce di cadere nella parodia, e nemmeno nella satira, ma resta sempre come in­ terrotta, allusiva e libera, invitante all'immaginazione. Ora che il ciclo delle contaminazioni sembra concluso, si vede che un unico scopo le sug­ geriva all'autore, uno scopo, tutto sommato, di moralista. 27 gen naio 1966

Un milione di Ida Omboni e Paolo Poli (da Sergio Tofano) Dal Teatro di Bonaventura di Sergio Tafano, Ida Omboni e Paolo Poli hanno tratto liberamente Un milione, spettacolo in due tempi che convince per la sua implacabile vivacità, un'eleganza sobria da bambini e le conclusioni a cui porta, mai ripetute abbastanza. È uno spettacolo che sente ancora la suggestione di quell' Adamov dato nel '64 nello stes­ so teatro (Le Muse), quasi dagli stessi attori. Ritroviamo cioè Claudia Lawrence, Jole Silvani, Grazi élla Porta, Lucia Panelatti, Rosalba Mo­ sca e Armando Celso. In più, i nuovi: Lyly Tirinnanzi , Franco Ferrari, Giorgio Bandiera, Silvano Spadaccino e Giancarlo Cajo. Tutti alla fine hanno meritato i loro applausi, per i pezzi di bravura concessi dal testo, e imposti da una regia agile e generosa. Come Adamov si divertiva (ma spesso soltanto lui) a scoprire il rovescio della belle époque demistifican­ done la spensieratezza e l'erotismo con il sospetto di una cieca avidità che avrebbe portato alle macellerie della prima guerra mondiale, così i nostri due autori hanno scelto il Signor Bonaventura e i suoi compagni di pagina per parlare un poco del "nostro" passato, o della nostra brutta epoca; del "ventennio". Cioè dei tempi in cui nasce appunto Bonaventu­ ra fino agli anni che prevedono la conclusione dell'avventura fascista nella guerra e nella disfatta. Bonaventura era una specie di Candide continuamente premiato per il suo ottimismo, con una mancia a quei tempi enorme ma che senza volerlo profetizzava l'inflazione. Dunque, un personaggio filosoficamente utilizzabile. Con lui si parte tuttavia, senza grandi sospetti, per una passeggiata volutamente infantile nel to­ no e nell'abuso di ottonari baciati. Man mano le identificazioni si fanno precise e rilevatrici. Quei pupazzi , bene o male, erano la nostra società. Direi che alla fine il sentimento predominante nello spettatore non più giovane è la tristezza, non la malinconia, la tristezza suscitata dal rievo­ care quegli usi e costumi , quei personaggi , che erano sostenuti soltanto da una volgarità piena di "ideali". Come dice giustamente Poli, quella volgarità affratellava pi ù di una fede perché era di natura piccolo-bor­ ghese, sostenuta dal compiacimento di una grettezza piccolo-borghese, 28 7

oppressa da complessi di inferiorità, da feroci ambivalenze piccolo-bor­ ghesi. Effettivamente, se al periodo fascista non si potessero imputare ben altre colpe, basterebbe quella di averci tolto il piacere di ricordare la giovinezza, vissuta sotto il peso di odi assurdi e di divieti fessi, nell'atte­ sa di una liberazione che esigeva la catastrofe. Il Signor Bonaventura qui è l'ingenuo uomo della strada che ogni giorno comincia daccapo la sua avventura tra baroni e contesse, contrastato da personaggi malvagi, confortato dal suo cane, dominato spiritualmente - qui il suo punto de­ bole - da quel genio della stirpe che è il Bellissimo Cecè, vanesio e se­ duttore, ma infine richiamato alle armi dalla sua stessa follia di gran­ dezza e di eleganza. Quando Cecè parte per la guerra il giuoco è fatto e la storia finisce. L'essenziale era che ci andasse. Poiché gli spettacoli di Poli sono basati sulle canzoni, e a esse egli affida il perfido compito di documentare una realtà, ecco che quella realtà balza vivissima nei versi degli ignoti parolieri del tempo, che la riflettevano senza farlo apposta. E le canzoni sono tante e di così "pessi­ mo" gusto da farci pensare che non il fascismo le esprimesse, ma il con­ trario, che il fascismo sia stato il risultato estremo di una degenerazione canora. Viene così fuori la realtà (basale) del piccolo erotismo casalingo delle bambole, dei tabarin, dei viveur, delle droghe, della geografia amo­ rosa, del cinema luogo di piacere, finché la lezione si fa più incisiva (« incidere sul costume >>) e i simboli del prestigio nazionale vengono in­ dicati nella forza maschia, nella conquista coloniale (tuttavia eroica), nei vantaggi del dopolavoro, nel mare nostrum , nel disprezzo della li­ bertà altrui, nella fonte di soddisfazione infinita della propria " sana e virile ,, volgarità. Le contadine diventano paesanelle e massaie rurali, la fisarmonica conosce un bieco periodo di splendore, il clima guerriero dei vecchi melodrammi si fa rovente nella vita quotidiana, il "vecchio" di Brancati calza i suoi stivali e intanto la borghesia si stordisce ir. anni­ versari e commemorazioni, col cinema dei telefoni bianchi e delle rico­ struzioni storiche. E su tutto plana il simbolo di una patria mammona carica di orpelli e fuori della storia. Si dirà che è altrettanto facile, ser­ vendosi delle stesse fonti, le canzoni, fare un quadro sconfortante dell'Italia d'oggi . Forse. Ma è un quadro che possiamo fare subito, nes­ suno ce lo proibisce, e solo per questo diventa inutile farlo. E probabil­ mente la bontà di un sistema si misura proprio dalla sua stessa possibi­ lità di autogiudicarsi, di mettersi in dubbio, coi documenti che può for­ nire giorno per giorno: cosa che del resto il continuo aumentare dei ca­ baret satirici sta dimostrando. Paolo Poli, questo professore elegantino e malizioso, che potrebbe trovarsi assai bene seguendo la moda corrente della canzone sentimentale, angosciata e milionaria, ama invece darsi conto di quel che è successo, proprio attraverso le vecchie canzoni. Le canzom sono per lui squarci aperti sull'abisso di una stupidità che oc288

corre tenere in continua osservazione e riparazione. Ormai è noto che il suo debole è un certo rigore scolastico, didascalico. Grazie al quale, nel Diavolo , altro spettacolo di pochi mesi fa (e che individuava il Diavolo nella stupidità morale, spirituale e via via sociale e politica di varie epo­ che), si partiva dal fondo del Medioevo per finire ai nostri giorni , senza saltare un secolo. Col Signor Bonaventura, i timori di cominciare dal Dugento non potevano esserci , evidentemente: quindi , una certa tran­ quillità, con largo posto a giuochi e filastrocche non antiche, che hanno deliziato la platea. 6 febbraio 7966

Marat-Sade di Peter Weiss La grossa novità teatrale americana di quest'anno è un dramma scritto da un tedesco e recitato da una Compagnia inglese. Si tratta del Marat-Sade di Peter Weiss, messo in scena da Peter Brook con gli atto­ ri della Royal Shakespeare Company. Il titolo campeggia in tutta la sua voluta prolissità sul frontone del Martin Beck Theatre: The persecution and assassination of Marat as performed by the inmates of the asylum of Charenton under the direction of the Marquis De Sade. È un testo defi­

nitivo del teatro della crudeltà, che ha scosso Broadway e dintorni e im­ merge la platea in un cupo silenzio di approvazione. Weiss è partito da un dato storico per questo suo affascinante breve corso sulla filosofia delle rivoluzioni. Tra il 1 797 e il 1 8 1 1 il direttore del manicomio di Charenton, Coulmier, promosse delle libere rappre­ sentazioni teatrali tra i suoi pazienti. Con un secolo e mezzo di anticipo inventava dunque lo psicodramma e la terapia di gruppo. De Sade era tra gli internati . Ne approfittava per dare anche alcuni suoi lavori , e co­ sì divenne alla moda, per un certo pubblico parigino, frequentare Cha­ renton. La rappresentazione immaginata da Weiss è perciò svolta da "pazzi", con tutte le conseguenze letterarie e drammatiche: improvvisi ritorni di follia, lapsus, battute saltate, un contegno che dalla totale as­ senza schizofrenica passa alla partecipazione più furiosa. Due guardiani e due suore sorvegliano gli "attori" e intervengono a ristabilire l'ordine quando la recita degenera. Da un palchetto, Coulmier interviene invece a tagliare le scene sospette. E la censura, il governo, la realtà, se si vuo­ le, che impone i suoi limiti alla discussione. L'effetto che i due Peter, Weiss e Brook, impongono persuasivamen­ te agli spettatori è di una fatica alienante per tutti " ma con un certo metodo » . E quando alla fi ne i pazzi applaudono il pubblico, e gli im­ pongono addirittura il ritmo degli applausi , o si gettano festosamente 289

nella platea, l'identificazione è raggiunta. Trattandosi di un dramma nel dramma, di una finzione che varca i limiti dell'assurdo senza mai travalicare la verità (come da certe stazioni spaziali partiranno tra qual­ che anno i razzi per la luna, cioè da una regione che pur non essendo terrestre non è perciò meno reale), la sensazione che se ne riceve è già "nostra", ci riguarda da vicino. Questo senza tener conto delle battute che trovano una conferma nell'attualità politica americana. In altre pa­ role, Peter Weiss, che è tedesco, marxista, autore, regista e pittore, e vi­ ve in Svezia da quando il nazismo andò al potere, si pone nel suo dram­ ma il problema della rivoluzione, ossia se le stesse "verità" debbo no va­ lere per i capi e per la massa, se l'uomo non è per sua natura anti rivo­ luzionario, se l'idealismo umanitario non porta fatalmente alla dittatu­ ra, e soprattutto dove possiamo segnare, oggi, i confini tra la ragione e la follia. Protagonista del suo dramma è Marat, idolatrato dal popolo, il teo­ rico idealista che