Lo spazio letterario di Roma antica. L'attualizzazione del testo [Vol. 4] 8884020557, 9788884020550

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Lo spazio letterario di Roma antica. L'attualizzazione del testo [Vol. 4]
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LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina

Volume IV L'ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO

SALERNO EDITRICE

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Nello Spazio letterario di Roma antica al centro dell'interesse è il testo, nei suoi momenti e percorsi: dalla produ­ zione alla circolazione, dalla ricezione all'attualizzazione. Del testo si seguo­ no le vicende lungo la parabola del mondo romano, quindi, oltre il Me­ dioevo e il Rinascimento, fmo alle ri­ prese piu o meno consapevoli o occa­ sionali nell'età contemporanea e nella civiltà dei mass-media. Per testo, inol­ tre, non s'intende soltanto ciò che a noi moderni è giunto in seguito al processo di selezione verificatosi nel­ l'antichità (e quando sia sopravvissuto alle insidie della lunga tradizione me­ dievale) ma anche quella vasta lettera­ tura sommersa, giudicata «minore» e solitamente trascurata perché affidata a forme di tradizione orale o non lega­ ta a forme letterarie nobili. Dei testi considerati però non tanto nell'ottica limitata dei singoli autori, quanto piut­ tosto nella totalità dei generi - vengo­ no ricostruiti gli itinerari culturali, i modelli che agiscono e interagiscono, i caratteri originali e le successive strati­ ficazioni. In questa compiuta rivisita­ zione, ricevono piena luce anche i meccanismi complessi della tecnica al­ lusiva e i fenomeni d'intersezione dei generi stessi e dei modelli. I fattori unificanti della cultura romana si ac­ compagnano, lungo l'arco di una sto­ ria millenaria, a elementi di diversifi­ cazione, e lo spazio letterario di Roma antica può essere anche inteso come un insieme di spazi che interagiscono. Lo Spazio letterario di Roma antica è dunque una proposta originale di ri­ pensamento della cultura romana: in essa, il progetto, la scelta degli autori, l'elaborazione della materia, il coordi­ namento editoriale, sono il frutto di un grande impegno al fine di offrire un'opera di cui sia possibile una frui­ zione al tempo stesso continua e pluri­ dimensionale. Scritta da studiosi tra i migliori di cui oggi l'Italia possa di­ sporre, quest'opera si propone anche come laboratorio di metodologie, di sperimentazioni, di prospettive.

Volume IV L'ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO L'attualizzazione del testo ha segui­ to anzitutto le molteplici vie del classi­ cismo. Il senso di questo orientamento è spesso mutato negli ultimi tre secoli. ' Fino al 700 e agli ultimi decenni del­ l' '8oo, ha scritto Antonio La Penna, es­ so « implicava una teoria dei modelli classici, cioè la scelta di alcuni autori greci e latini come quelli che hanno realizzato in modo insuperabile certi valori » ; dopo l'età romantica esso « implicava per lo meno il concetto di una fase aurea nello sviluppo della let­ teratura e dell'arte, preparata da tenta­ tivi imperfetti di realizzare la pienezza del bello e seguita da svuotamento o da corruzione ». Sappiamo anche che cosa il classicismo ha rappresentato nelle ideologie dei moderni regimi reazionari di massa. Questo fenomeno ha dunque mani­ festato, nel corso dei secoli, una conti­ nuità sorprendente e una straordinaria duttilità. Mentre oggi fatalmente si spegne la sua prospettiva essenziale la scelta di valori esemplari da ripro­ durre -, emergono orientamenti e at­ teggiamenti mentali che di frequente con esso non hanno nulla a che fare: cinema, televisione, fumetti, addirittu­ ra giochi di società, continuano a ri­ proporre le immagini rivisitate del­ l'antico a un pubblico piu vasto ma sempre piu estraneo ai « valori del mondo classico >>. Una delle novità di rilievo del quar­ to volume de Lo spazio letterario di Ro­ ma antica sta proprio nell'analisi d'in­ sieme, qui proposta per la prima volta, delle risonanze e dei riflessi della cul­ tura latina non solo nelle letterature moderne e contemporanee, ma anche nel mondo dei mass-media.

In copertina:

Le tre Grazie. Da Pompei, prima del 79 d.C. Napoli, Museo Archeologico N azionale.

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA

Volume IV L'ATTUALIZZAZI ONE DEL TESTO

LO SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Volume I LA PRODUZIONE DEL TESTO Volume II LA CIRCOLAZIONE DEL TESTO Volume III LA RICEZIONE DEL TESTO Volume IV L'ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO Volume V CRONOLOGIA E BIBLIOGRAFIA DELLA LETTERATURA LATINA

Con il patrocinio della

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L O SPAZIO LETTERARIO DI ROMA ANTICA Direttori: GUGLIELMO CAVALLO, PAOLO FEDELI, ANDREA GIARDINA

Volume IV L'ATTUALIZZAZIONE DEL TESTO

SA LE R N O E D ITRICE ROMA

In redazione:

MARILENA MANIACI

' 1 edizione: marzo 1991

2' edizione: luglio 1993 ISBN

88-8402-055-7

Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 1991 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la ri­ produzione, la traduzione, l'adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfìlm, la me­ morizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

I LA RIVISITAZIONE DEGLI ARCHETI P I

MARZIANO GUGLIELMINETTI

LA TECNICA DELL'ALLUSIONE

r.

IMITARE, E

NON

RUBARE

(PETRARCA A BoccAccro)

Ad introdurre un argomento tanto affascinante quanto sfuggen­ te, per le ragioni che avranno modo dì emergere cammìn facendo, ·può collocarsi una lettera di Petrarca a Boccaccio, alla data del 1359, de imitandi lege (fam. XXII 2) . Hanno in corso, unitamente all'amico comune Francesco Nelli, la revisione del Burolicum carmen, la deci­ ma egloga in specie; e Petrarca si accorge di avere mutuato due espressioni da Virgilio (Aen. vm 178) e da Ovidio (met. vn 167). Su­ bito propone a Boccaccio di correggerli: solioque invitat acerno, memoria virgiliana, diviene e sede verendus acerna,l mentre l'ovidia­ no: Quid enim non carmina possunt? si trasforma in quest'altra inter­ rogazione: Quid enim vim carminis equet?2 La duplice correzione trasforma il furto non voluto in un'allusione, o in qualcosa di simi­ le; ma disgraziatamente per noi manca qualsiasi accenno alla novi­ tà, e meno che mai all'autonomia di simile intervento: è una muta­ tio, affidata per di piu ad altra mano. Il suo compito è quello di pro­ teggere l'autore da un'accusa che non sente di meritare e che, per altro verso, gli antichi sfiorarono senza troppi problemi pratican­ do l'emulazione: l'accusa dì furto. Etsi me non lateat- aggiunge a Boccaccio - quosdam veterum Virgiliumque ante alios versus innumeros non modo e greco in latinum versos, ubi abstulisse cla­ vam Herculi gloriatur, sed, ut erat, ex alienis in suum opus transtulisse, non ignoran­ tia quidem ulla, que in tot tantisque rebus hinc illinc ereptisfingi nequit, nequeJu­ randi quantum intelligitur, sed certandi animo, tamen aut plus illi licentieJuit, aut mens alia; certe ego, si res adigat, alieno sciens uti patiar, non comi.3 . . •

I.

« e lo fa accomodare su un trono d'acero •: « venerabile sul suo seggio d'acero ». « Che cosa non può la poesia? »; « Che cosa potrebbe eguagliare il potere della . ? poesta . ». 3· « Sebbene io sappia che alcuni antichi e sopra gli altri Virgilio (come quando si vanta di aver tolto la clava ad Ercole) non solo tradussero molti versi dal greco al lati­ no ma li trasportarono tali e quali dalle opere altrui nelle loro, non per ignoranza che in tanti e chiari esempi tolti di qua e di là non si può ammettere - né, come si 2.

II

MARZIANO GUGL I E L M I NETTI

Di qui l'intenzione di emendarsi, e la preghiera all'amico di emen­ darlo a sua volta, caso mai non si fosse accorto di qualche altro pre­ stito vistoso. La pretesa non è l'originalità assoluta, ma relativa, compatibile con l'essere i classici i «duci», le guide dell'espressione letteraria, ma non i soffocatori di uno stile diverso, dal momento che del meus stilus si tratta.

Sum quem priorum semitam, sed non semper aliena vestigia sequi iuvet - sostiene autorevolmente Petrarca in questa circostanza; e sog­ gtunge:

sum qui aliorum scriptis nonfortim sed precario uti velim in tempore, sed dum licea� meis malim; sum quem similitudo delecte� non identitas, et similitudo ipsa quoque non nimia, in qua sequads lux ingenii eminea� non cedtas non paupertas 4 . . .

E via di questo passo, temperando un tantino quanto si legge in un'altra familiare al Boccaccio, la XXI 15, di poco posteriore, dove,

prendendo spunto sempre dal comparire versi altrui in cose sue,

definisce tanto il furto quanto l'imitazione due scogli da eludere, specie nella produzione in volgare (in his maxime vulgaribus).5 Petrarca offre pure la spiegazione del come si possa cadere in si­ mili tentazioni di errori, quando distingue, per dir cosi, due classi di scrittori antichi, piu o meno vicini alla memoria di chi scrive in proprio, di chi cerca il proprio« stile».« Legi semel- confessa a Boc­ caccio nella lettera dedicata espressamente all'imitazione -

apud Ennium, apud Plautum, apud Felicem Capellam, apud Apuleium, et legi raptim, propere, nullam nisi u t alienis in finibus moram trahens. Sic pretereunti,

comprende, per volontà di rubare, ma solamente per emulazione, tuttavia diremo che essi avevano o meno scrupoli o mente ben diversa; io per me, se la necessità mi costringe, potrò anche volontariamente valermi della roba altrui, ma non farmene bello � (trad. di E. Bianchi, in F. Petrarca, Opere, intr. di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1975, pp. II42-43). 4· « Io intendo seguire la via dei nostri padr� ma non ricalcare le orme altrui; in­ tendo servirmi dei loro scritri non di nascosto ma pregandoneli, e, quando posso, pre­ ferisco i miei; mi piace l'imitazione, non la copia, e un'imitazione non servile, nella quale splenda l'ingegno dell'imitatore, non la sua cecità o dappocaggine � (trad. di E. Bianchi, in Petrarca, Opere, cit., pp. n42-43). 5· Petrarca, Opere, cit., p. II30.

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LA TECNICA DELL 'ALLUSIONE multa contigit ut viderem, pauca decerperem, paudora reponerem, eaque ut comunia in aperto et in ipso, ut ita dixerim, memorie vestibulo; ita ut quotiens vel audire illa vel proferre contigerit, non mea esse confestim sdam, nec meJallat cuius sint; que ab alio sdlicet, et quod vere sunt, ut aliena possideo. Legi apud Virgilium apud Flaccum apud Severinum apud Tullium; nec semel legi sed milies, nec cucurri sed incubui, et totis ingenii nisibus immoratus sum; mane comedi quod sero digererem, hausi puer quod senior ruminarem. Hec se michi tamJamiliariter ingessere et non modo memo­ rie sed medullis affixa sunt unumque cum ingenioJacta sunt meo, ut etsi per omnem vitam amplius non legantur, ipsa quidem hereant, actis in intima animi parte radici­ bus . . . 6 Se si spoglia quest'ammissione del carattere di pericolosità, che Petrarca vuole assegnarle sul finire, nella parte omessa della cita­ zione, si da dimostrare che è piu facile derubare chi si conosce, pur non volendolo, si è di fronte alla prima formulazione, nella nostra storia letteraria, di una teoria della lettura dei classici che è, nel contempo, il primo tentativo di capire cosa sta accadendo, dopo Dante, in essa letteratura: un confronto, ora aperto, ora celato, ma sempre comunque mediato dalla memoria di letture intense, fra lo

scrittore nuovo e lo scrittore antico.È certamente conclusa l'epoca

in cui è stato possibile a Dante recitare il proprio . E non paia, questo, un caso anomalo, che si sottrae dai termini del problema sinora impostato, in quanto, al termine della sua dedica, Foscolo rileva che « a chi non s'è ancora mostrato . . . degnamente autore, questo mestiere del tradurre frutta dovizia di erudizioni e di frasi, ma gli mortifica nell'ingegno tutte le immaginazioni sue proprie ».60 In altri termini, anche il tradurre fedelmente è avverti­ to come un impaccio al rapporto con il classico che si vuole volga­ rizzare, col risultato, ovvio presso il Foscolo, di un poetare deri­ vando « su l'Itala l grave cetra . . . l . . . le corde eolie », come si leg­ ge nel celebre congedo dell'ode

All'amica risanata.61 È nella tradu­

zione, intesa come cattura dell'ispirazione poetica classica (e non,

vista l'equazione di Cesarotti fra Omero ed Ossian all'insegna del primitivo), che l'allusione perde il suo carattere criptico, e se si rea­ lizza, si fa allusione scoperta. Non diversamente accade, quando, in luogo di cattura, si ha identificazione parziale, o se si preferisce, sovrapposizione che non si spinge fino a far combaciare gli orli della figura reincarnata. Si pensa subito all'Omero del sonetto di

Zacinto e dei Sepolcri,

ovviamente, dove il procedimento allusivo,

perché scoperto, addirittura si rovescia: nel senso che, in entrambi i testi, l'autore

dell'Odissea e dell'Iliade, ovvero > e intende l'Ars amatoria;30 in un passo del De genealogiis si ammette prelimine della città e le feste, in cui trovare piii ricca materia a quella stolta frenesia. Taccio poi di quel suo desiderio infame e vergognoso anche a ripetersi, per quanto espresso da un uomo ormai perduto e senza piii speranza, un desiderio che egli non si vergo­ gnò di far conoscere, attraverso i suoi scritti, a tutta la posterità: osando definire felice chi si strugge nell'atto venereo, ed esaltare una morte in quelle condizioni in cui la vi­ ta è quanto mai spregevole e inutile, invoca per sé dagli déi una morte siffatta, e affer­ ma che questo si addice a lui stesso e alla vita sua. Questa è invece di per se stessa la morte piii infelice, senza dubbio peggiore della morte stessa. Se diversi fossero stati i suoi costumi e diversa la sua anima, conserverebbe una fama piu illustre presso le persone serie, e non sarebbe andato in esilio nel Ponto e nelle solitudini dell'Istro, o l'esilio avrebbe sopportato con piu serenità »): De vita solitaria II XII (in F. Petrarca, Pro­ se, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, pp. 532-33: il testo del De vita solitaria è curato da G. Martellotti, la traduzione è di A. Bufano). 29. Epistole metriche, m 30. 30. Filocolo, lib. 1: « incominciò Racheo a mettere il suo [ufficio] in esecuzione con intera sollecitudine. E loro in brieve termine insegnato a conoscer le lettere, fece loro

I06

LA POESIA D 'AMORE narmente che quell'opera possa fornire non pochi malvagi consi­ gli, ma per negare poi ad essi la capacità di produrre effetti dan­ nosi: perché non v'è ai nostri tempi si sciocco giovincello, né sì ingenua fan­ ciulla, che, eccitato avendo l'ingegno dagli allettamenti amorosi, non sap­ pia usare, per giunger là dove è spinto dalla voglia, industriale molto piu sottili che non sian quelle insegnate da colui che è tenuto universalmente per maestro sommo di tali arti.31 ·

Una simile giustificazione rivela il poeta del Decameron, osservato­ re comprensivo di ciò che è mosso dalla schietta naturalità degli istinti, pronto solo a condannare, attraverso l'arma della beffa e del riso, la stolta malignità e l'ipocrisia. Che Boccaccio avesse familiari i testi di Ovidio e della letteratura ovidiana medievale è documen­ tato dall'ampio spazio che essi occupano nel catalogo delle sue fonti. Si tratta a volte di citazioni dirette (ammaestramento di Ovi­ dio il quale dice: « L'uomo non dee lasciare per durezza della don­ na di non perseverare, perché per continuanza la molle acqua fora la pietra »), a volte di invenzioni, nuove per personaggi e ambienti che si modellano su episodi affini per situazioni (la rappresenta­ zione di Mensola che si dibatte e ripugna tra le braccia di Africo nel Ninfalefiesolano e la ninfa Calisto che resiste a Giove nelle Me­ tamorfosi; o Africo che insegue Mensola e Apollo che insegue Daf­ ne), a volte di allusioni o di rinvii che impreziosivano il dettato e si infittivano nei tratti ove figuravano favole pagane (nel discorso di Venere a Fiammetta, ove la dea adduce esempi di donne e di uo­ mini, che incuranti dei loro legittimi consorti si abbandonarono ad leggere il santo libro d'Ovidio, nel quale il sommo poeta mostra come i santi fuochi di Venere si debbano ne' freddi cuori con sollecitudine accendere » (G. Boccaccio, Deca­ meron Filocolo Ameto Fiammetta, a cura di E. Bianchi, C. Salinari, N. Sapegno, Milano­ Napoli, Ricciardi, 1952, pp. 797-98). 31. De Genealogiis, lib. XIV, cap. XIV: Constat . . . Nasonem Pelignum e/ari, sed lascivientis ingenii poetam, 'Artis amatorie' composuisse librum, in quo, et si multa suadeantur nepharia, nil tamen minus oportunum, cum nemo sit tempestate hac adeo demens iuvenculus aut simplexpuel­ la, que, movente illecebri appetitu ingenium, longe, ut in id veniat quod exoptat, acutiora non no­ verit quam is, qui se talium preceptorem fore precipuum arbitratus est, doceat. (G. Boccaccio, Opere in versi. Corbaccio Trattatello in laude di Dante Prose latine Epistole, a cura di P. Ricci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, p. 1002) .

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MARIO S COTTI

altri amori - Fedra, Pasife, se stessa, Giasone, Biblide, Canace : è un continuo riferirsi a vicende narrate nelle Metamorfosi e nelle He­ roides). -



OVIDIO NELLA LETTERATURA ITALIANA MODERNA

Segno della continuità e della vitalità dell'interesse per l'elegia­ co latino è il moltiplicarsi delle traduzioni, che a partire dalla fine del Duecento si sarebbero succedute lungo il corso di tutti i secoli futuri. Le traduzioni sono in fondo chiavi di lettura e in un certo senso possono, come è stato sostenuto, affiancarsi alla critica: valu­ tarie in rapporto all'originale è un'operazione che non ne esauri­ sce il significato. Esse vanno in primo luogo considerate nel gioco di relazioni che le lega alle tendenze letterarie del proprio tempo, alle forme, al linguaggio, alla tecnica espressiva, al gusto imperanti. D'altro canto in esse si riflette anche l'assenza o il minore o mag­ gior grado di coscienza filologica del loro contesto storico: non stupirà quindi che nelle piu antiche traduzioni ovidiane mancherà questa esigenza di preliminare padronanza del testo madre e che alcune saranno traduzioni di traduzioni, dal francese ad esempio e non dal latino, o verseggeranno volgarizzamenti in prosa.32 Tra la fine del XIII e l'inizio del XV secolo l'Ars amatoria e i Remedia amo­ ris furono tradotti tre volte in toscano: una di queste traduzioni dell'una e dell'altra opera pare possa assegnarsi a quell'Andrea Lancia (1280-I36o),33 che si cimentò anche con Virgilio e con Se­ neca e cui si attribuisce il commento alla Commedia che va sotto la 32. Cfr. E. Bellorini, Note sulle traduzioni italiane delle 'Eroidi' di Ovidio anteriori al Ri­ nascimento, Torino 1990; Id. Note sulle traduzioni italiane dell' 'Ars Amatoria' e dei 'Remedia amoris' di Ovidio anteriori al Rinascimento, Bergamo, Cattaneo, 1892; C. Marchesi, I vol­ garizzamenti dell' 'Ars amatoria' nei secoli XIII e XIV; Milano 1917; LA. Possa, I due volga­ rizzamenti toscani dell"Ars' e dei 'Remedia' in due codici marciani, in « Archivio Veneto », XCI 1932, pp. 1551-92. 33· Cfr. C. De Batines, Andrea Lancia, scrittorefiorentino del Trecento, in « L'Etruria », n 1851, pp. 17-28; L. Bencini, Intorno alle opere di Andrea Lancia, ibid., pp. 140-55. La tradu­ zione dei Remedia amoris fu pubblicata da F. Zambrini, Prato, Guasti, 1850 (in alcuni codici questa traduzione è accompagnata da un ampio commento, che pure fu attri­ buito al Lancia: sulla sua paternità della traduzione furono avanzati alcuni dubbi).

ro8

LA POESIA D 'AMORE denominazione di Ottimo. In prosa Filippo Ceffi tradusse sia dal francese che dal latino le Heroides: su questa traduzione si fondò, seguendola pedissequamente, Domenico Monticchiello per le sue Eroidi in ottava rima,34 lavoro giudicato per solito infelice; laddove incontrarono fortuna le Metamorfosi trasportate in prosa toscana da Arrigo Simintendi da Prato nei primi del Trecento, e in verità è prosa scorrevole e non priva di eleganza.35 Una rassegna sia pur sommaria di tutte le traduzioni non ha qui ragion d'essere: del re­ sto su di esse si posseggono diversi e talora pregevoli studi. Ricor­ deremo soltanto che, dopo le meno numerose traduzioni quattro­ centesche (la cultura umanistica non poteva sentire l'esigenza di tradurre dal latino), fra cui le due anonime - Il libro denominato Ovi­ dio de arte a mandi, senza data ma della fìne del secolo, e le Epistole del famosissimo autore Ovidio in rime per volgare impresse, che videro luce a Brescia nel 1489 -, il Cinquecento ci diede una serie di versioni delle Metamorfosi, che, pur non raggiungendo livelli di poesia, re­ stano pregevoli per decoro letterario e significative per il modo nuovo di far propria la voce del poeta antico. Nel 15II Giovanni Muzzarelli 36 aveva tratto dal poema ovidiano un poemetto mito34. Il volgarizzamento in prosa fu condotto ad istanza di Alisa moglie di Simone Peruzzi; nel proemio veniva attribuita all'opera una finalità morale: « sappi che Ovi­ dio fece queste pistole per ammaesttare li giovani uomini e le giovani donne di savia­ mente amare; e però induce e racconta di molti esempli d'amore onesti e disonesti; e gli onesti perché si seguiscano, li disonesti perché si schifino » : Volgari=amento delle epistole d'Ovidio, Firenze 1919. Domenico da Monticchiello, che fu confuso talora con l'omonimo seguace del Colombini, visse alla corte di Galeazzo II Visconti come uffi­ ciale e poi come vicario del signore a Piacenza: la sua traduzione dà alla epistole l'an­ damento dei cantari popolari e, anche per la costrizione del metro, comporta altera­ zioni e ampliamenti; a molte epistole segue un'ottava di considerazioni morali, che hanno lo scopo di temperare l'effetto delle passioni che quei casi d'amore possono su­ scitare. Su Domenico Monticchiello si veda: E. Levi, Un rimatore senese alla Corte dei Vi­ sconti: messer Domenico da Monticchiello, in Poesia di popolo e poesia di corte nel Trecento, Li­ vorno, Giusti, 1915, pp. 141-86. 35· I primi V libri delle Metamorfosi d'Ovidio volgarizzati da Ser Arrigo Simin­ tendi da Prato, Prato 1846; Cinque altri libri, ecc., ivi, 1848; Gli ultimi cinque libri . . . , ivi, 1850: una scelta nel volume antologico Vo/gari=amenti del Due e Trecento, a cura di C. Segre, Torino, UTET, 1953, pp. 517-64. 36. Su Giovanni Muzzarelli, il letterato mantovano vissuto alla corte di Leone X e ancor giovane finito tragicamente, che l'Ariosto ricorda nel Furioso (xLII 87), si veda V. Cian, Di G. M. e d'una sua operetta inedita, in « GSLI », a. XXI 1893, pp. 358-84, e Id.,

109

MARIO SCOTTI logico in ottava rima; traduzioni integrali sono invece quelle di Nicolò degli Agostini (1537), di Ludovico Dolce (1553), di Giovan­ ni Andrea dell'Anguillare (1561), di Fabio Marretti (1562).J7 L'An­ guillare, che fu autore anche di una traduzione dell'Ars amatoria non pervenutaci, rimaneggiò, ampliandolo, il testo originale: ne sviluppò, ad esempio, episodi appena accennati, innestando su di essi squarci tratti da altre opere del poeta latino. Il risultato incon­ trò critiche e gli venne contrapposto, come piu felice e persuasivo, quello conseguito dal Dolce, contro cui invece insorse, a difesa dell'Anguillare, Girolamo Ruscelli. Comune ai traduttori cinque­ centeschi, di là da ogni differenza, era l'ampio gusto narrativo, che ricalcava i moduli ariosteschi: il Furioso divenne il filtro letterario attraverso cui la poesia di Ovidio fu immessa in circolazione e ade­ guata al gusto del secolo. Le volute ampie e prosastiche del poema cavalleresco, gli indugi descrittivi e il particolareggiato narrare, il tono medio ed eguale preferiti alla concentrazione lirica, alla forza epigrammatica, alla intensità concitata caratterizzavano lo stile in cui veniva trasferita un'opera avvertita consona, sia per un suo ef­ fettivo carattere sia perché letta in questa chiave. Ai poeti roman­ zeschi, del resto, Ovidio era stato caro, si è detto, piu di Virgilio: e si è ricordata la commozione del Baiardo di fronte alle storie di amori teneri e sfortunati ( « Solea spesso pietà bagnarmi il viso l Odendo raccontar caso infelice l Di alcun amante si come si dice l Di Piramo, Leandro e di Narciso » ) .38 D'altro canto la precettistica amorosa ovidiana veniva recuperata alla luce di un nuovo ideale di vita signorile e cavalleresco: si pensi soltanto ai riferimenti molte­ plici ad essa che si incontrano nel Cortegiano, per tacere di quei trat­ tati che l'amore non consideravano piu secondo la sublime mistica platonica, ma aristotelicamente in esso avvertivano la legge di una Ancora di G. M.: la 'Fabula di Narciso' e le 'Canzoni e Sestine amorose', ibid., a. xxxviii 1896, p. 78. 37· Altre traduzioni di Ovidio si ebbero nel Cinquecento: ricorderemo quella dei Rimedi d'Amore di Angiolo Ingegneri, l'amico ed editore del Tasso; quella di alcuni episodi delle Metamorfosi di Gianfrancesco Bellentani (Lafavola di Piti, e quella di Peri­ sfera insieme con quella di Anaxarete, Bologna ISso) ; il Bellentani aveva anche composto un commento a tutte le Metamorfosi, che però non fu pubblicato. 38. Amorum libri LXXXI 1-4.

no

LA POESIA D 'AMORE forza naturale, che la cultura e l'arte illeggiadriscono ma non nega­ no. Non va però passato sotto silenzio - e costituirebbe un altro capitolo non senza importanza del vario modo come fu utilizzata la lezione di questo poeta - che le Jabulae ovidiane furono ritenu­ te suscettibili di esser piegate a Jabulae tragicae, contaminate talora con il modello senecano: a tale ascendenza si legano la Progne di Gregorio Correr39 e la Canace dello Sperone; 40 nell'Ottocento il Foscolo avrebbe vagheggiato, ma non realizzato, una Bibli e Cauno.41 La presenza di segmenti del piu morbido e sensuale Ovidio si coglie in filigrana nella tessitura preziosa e svagata della poesia del Marino. Come era accaduto per le Stanze del Poliziano, in ben di­ versa temperie storica e con ben diverso significato artistico (qui si vuole solo indicare una affinità estrinseca), non una fonte si impo­ ne sulle altre per una corrispondenza profonda di pensiero, di fan­ tasia, di linguaggio con la nuova esperienza poetica. La raffinata sensibilità polizianesca fondeva tessere classiche e moderne (Teo­ crito, Mosco, Virgilio, Orazio, Ovidio, Claudiano, gli stilnovisti, Dante, Petrarca) in un armonico disegno di misurata eleganza; 42 la sensualità inquieta e combattuta di Marino incastona tessere di 39. La Progne vide la luce a Venezia nel 1558. La leggenda di Tereo e Progne, la fo­ sca storia di amore e morte narrata da Ovidio nel sesto libro delle Metamoifosi, è svolta in questa tragedia con colori che richiamano l'atmosfera del Tieste di Seneca. 40. La Canace trae l'argomento dalla XI Heroides, accentuando il senso cupo e one­ roso della vicenda incestuosa. La prima edizione della tragedia appare a Venezia nel 1546: ma già da qualche anno prima era stata letta dallo Speroni, a mano a mano che la componeva, all'Accademia degli Infiammati di Padova. Le polemiche suscitate in­ dussero lo Speroni da un lato a rispondere con irritazione, dall'altro a rivedere il lavo­ ro, di cui un rifacimento apparve postumo nel 1597, che pur correggendo certe men­ de lasciava sostanzialmente immutata la tragedia. 41. Cfr. U. Foscolo, Epistolario, Ed. Naz., vol. m, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1853, passim (Indice dei nomi, ad vocem « Foscolo, Bibli e Cauno ». Nel 1809 fu pubblicata a Milano dalla tipografia di Giambattista Sonzogno la Bibli, tragedia in cinque atti di Antonio Gasparinetti, amico del Foscolo. L'argomento di quest'opera, come di quella progettata dal Foscolo, era tratto dall'episodio ovidiano del 1x libro delle Metamoifosi. 42. Un ricco riscontro di fonti fu adunato dal Carducci, che si avvalse anche dei ri­ sultati del Nannucci: A. Poliziano, Le Stanze, l'Orfeo e le Rime, Firenze, Barbèra, 1863; rist., a cura di G. Mazzoni, Bologna, Zanichelli, 1912. Si veda anche E. Proto, Elementi classici e romanzi nelle 'Stanze' del Poliziano, in « SLI », Napoli 1889, 1 e 2.

III

MARIO SCOTTI matrice diversa in un mosaico cangiante e fonde note, estrapolate dalle loro partiture, in un flautato carezzevole e monotono. Sug­ gestioni e calchi ovidiani, a prescindere dall'Adone, sono ravvisabili nella Sampogna, negli Idillifavolosi, nella Lira: ma questi inserti, en­ trando nelle fantasie erotiche del secentista, hanno perso la sorri­ dente disinvoltura originaria per piu ambigui e moderni effetti.43 Il tono dell'Ovidio settecentesco può emblematicamente as­ sommarsi nel Savioli e nei suoi Amori (il cui stesso titolo ci ricon­ duce agli Amores, che furono il tirocinio del poeta moderno: li tra­ dusse, infatti, da giovane sotto la guida di un maestro, in strofette tetrastiche di settenari sdruccioli e piani alternati). Il Savioli fu po­ sto a confronto col Rolli: questi, si disse, trasse ispirazione da Ti­ bullo, quello da Ovidio e talora da Properzio; il Rolli rinnovò la finzione pastorale, il Savioli l'aboli; l'uno . È superfluo ribadire che dall'Umanesimo in poi l'anti­ chità classica ha segnato una presenza costante nella cultura occi­ dentale, condizionandone i settori piu diversi: la classicità è stata considerata nelle epoche piu lontane fra loro come un punto di ri­ ferimento e un modello con cui confrontarsi. Il « classico », insom­ ma, sia questo gradito o no, continua a condizionare il nostro mo­ do di pensare e di strutturare le idee. In una ricerca che intenda muoversi nell'ambito dello spazio letterario di Roma antica si tratterà, dunque, d'individuare esempi significativi di romanzi che abbiano trovato la loro ambientazione nel mondo romano: romanzi storici, quindi, o che comunque ve2. Per l'influsso di Apuleio sul romanzo picaresco basterà rinviare alle suggestive pagine di M. Bachtin, Estetica e romanzo, trad. it., Torino, Einaudi, 1979, pp. 272-73-

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dano agire quali protagonisti personaggi del mondo romano. Di essi, però, non interesserà tanto esprimere una valutazione esteti­ ca, quanto piuttosto capire quale sia stato il loro modo di rappor­ tarsi al mondo classico, di riviverlo, di presentarlo ai lettor� addi­ rittura di ideologizzarlo. Un'ulteriore delimitazione dell'indagine consisterà nel deciso e consapevole abbandono di qualsiasi intento di un'improbabile e irraggiungibile completezza: esperienze, sia pure notevoli e degne d'attenzione, in questo campo dimostrano che ciò serve a produrre cataloghi di opere con i loro diligenti rias­ sunti o a generare confusi e caotici ammassi piu che a individuare ciò che conta veramente: la presenza, cioè, di filoni narrativi e di linee di tendenza che mostrino una determinante presenza del mondo classico.3 E, infine, sarà opportuno delimitare cronologicamente la mate­ ria: si tratterà, qui, solo di romanzi del XIX e del XX secolo. Ciò, d'altronde, è nei fatti, perché nell'Ottocento si sviluppò una vivace reazione al filellenismo imperante anche nella produzione di ro­ manzi di argomento classico: in tale ambito si erano mossi, infatti, i migliori prodotti del secolo precedente, sin dalle Adventures de Té­ lémaque del Fénelon (1699). Con salda persistenza il mondo greco aveva costituito lo sfondo di opere di valore talora notevole: baste­ rà citare The History ofthe loves ofAntiochus and Stratonice del Lewis (1717), Psaphion ou la courtisane de Smyrne (1747) di Meusnier de Querlon, il Voyage dujeune Anacharsis en Grèce vers le milieu du IVème avant l'ère vulgaire (1757-88) di Barthélemy, Laidion oder die Eleusini­ schen Geheimnisse (1774) di Heinse, Le avventure di Saffo, poetessa di Mitilene (1780-82) e, poi, la Vita di Erostrato (1793-I8I5) del V erri, Hy­ perion oder der Eremit in Griechenland (1797-99) di Holderlin, il Plato­ ne in Italia (1804-6) di Cuoco. A favorire la diffusione del romanzo di argomento classico, dal 3· I lavori piu meritevoli in questo campo sono quelli di F. Della Corte, Cultura e letterature moderne, in Id. (a cura di) , Introduzione allo studio della cultura classica, m, Milano, Marzorati, 1974, pp. 643-743; H. Riikonen, Die Antike im historischen Roman des 1g.]ahrhunderts, Helsinki-Helsingfors 1978 (Commentationes Humanarum, Litte­ rarum, 59); P. Fornaro, Trapassato presente. L'appropriazione psicologica dell'antico attraverso la narrativa moderna, Torino, Editrice Tirrenia Stampatori, 1989. classica

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XVII secolo in poi, fu la diffusa convinzione che esistesse una con­ tinuità ininterrotta col mondo antico e che i valori espressi dalla ci­ viltà greca e da quella latina si integrassero senza difficoltà con quelli delle civiltà moderne. Chi, poi, agi al di fuori di questo sche­ ma, si sforzò di ricostruire figure e periodi della classicità con un accorto vaglio delle fonti e con un notevole scrupolo erudito. Su un altro versante opere come Le génie du Christianisme (1802) e Les Martyrs (1809) di Chateaubriand concorsero ad accentuare il con­ trasto e la contrapposizione fra classicismo pagano e visione cri­ stiana del mondo (di un cristianesimo, dunque, considerato nel suo aspetto di rottura piuttosto che in quello di continuità con la tradizione) , che troverà nei romanzi classici ottocenteschi un luo­ go eletto d'espressione. 2. I « FEUILLETONS »

La nostra analisi ha inizio da prodotti meno nobili e pretenziosi, ma non per questo meno degni di riflessione: quelli appartenenti al genere del « feuilleton » e del romanzo popolare. Emblematica, da questo punto di vista, è l'attività che Eugène Sue dedicò al ro­ manzo storico a partire da 1849, in una massa di opere che consi­ stono per lo piu in una trasposizione nella Gallia romana della Francia imbevuta di romanticismo e di populismo a metà dell'Ot­ tocento. È fatale che in tali prodotti ci si imbatta in un Vercingeto­ rige ed è altrettanto inevitabile che i Romani siano visti nel loro aspetto peggiore: essi appaiono sempre, infatti, come un concen­ trato di avidità, dissolutezza, depravazione, mentre Cesare assume i tratti non propriamente nobili del mercante di schiavi, che per forza di cose è cinico e crudele. In tale panorama l'ideologia cri­ stiana acquista valori libertari e si pone come alternativa a una ci­ viltà ormai logora. In Italia questa tradizione diede le migliori prove nei romanzi popolari di Raffaele Giovagnoli. Costante nelle sue opere è l'inge­ nua intelaiatura dell'insieme, mentre il ritmo, che vorrebbe essere serrato, viene continuamente interrotto da digressioni, da tentativi reiterati di dipingere ritratti a tinte forti di uomini illustri, dal desi!20

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derio di enunciare massime ad effetto. Abbondano le punte popu­ liste e giacobine, ben comprensibili, d'altronde, in chi, come il Giovagnoli, aveva militato fra i garibaldini. Il suo Spartaco, del 1874, nel 1878 era giunto già alla terza edizione: non c'è che dire, i lettori ottocenteschi dovevano avere proprio un bello stomaco, visto che si tratta di due interminabili volumi di complessive 88o pagine. Ma Giovagnoli aveva la vena facile: accanto a una Natalina, « ovvero i drammi del lusso », e a un'Evelina, « romanzo contemporaneo », fi­ gurano nella sua bibliografia un' Opimia ( « scene storiche del sec. VI dell'Era romana »), una Clautilla e un Saturnino (entrambi « rac­ conti storici del sec. VII dell'Era romana »). Terminato lo Spartaco l'autore minaccia già di pubblicare un Publio Clodio, e vi riuscirà qualche anno dopo. All'origine del romanzo è uno scopo nobile: l'autore lo rivela solo a metà strada, in una nota del xm capitolo (p. 9 n. 19) : gioverà dirlo una volta per tutte; la guerra dei gladiatori, che forma il sog­ getto del nostro racconto, dai romani e dai loro storici fu considerata co­ me guerra infame ed obbrobriosa per Roma, e gli storici quindi, in omag­ gio all'orgoglio latino, se ne occupano poco, cercano di scivolar sopra tal punto, come su cosa dolorosa a rammentarsi, e procurano di attenuarne l'importanza e la grandezza: ma loro malgrado, sono stati costretti a dirne tanto che basta a ricoprire di gloria quei poveri gladiatori, e specialmente Spartaco che noi non esitiamo a porre fra Mario e Cesare e di cui lo stesso Lucio Floro, quello &a gli storici che meno può digerire questa guerra e il quale, lungo il suo racconto, non risparmia vilipendii né ai gladiatori, né al loro duce, è costretto a confessare che « Spartaco stesso combattendo nelle prime schiere coraggiosissimamente, sen cadde con luce quasi di valentissimo capitano ».

Anche se la trama è di pura invenzione, Giovagnoli si sforza di suffragarla qua e là con citazioni a pie' di pagina delle sue fonti: da Livio a Dionigi d'Alicamasso, da Plinio a Plutarco a Cicerone ad Appiano a Svetonio; in casi piu rari vengono riportate direttamen­ te nel testo, con abile composizione a mosaico, le parole stesse del­ le fonti. Ma c'è il desiderio di condurre per mano il lettore nel mondo antico, e d'istruirlo: cosi all'improvviso anche la brezza del mattino può fornire l'occasione per uno sfogo di erudizione a buon mercato: 121

PAOLO FEDELI La brezza mattutina, che dai colli del Lazio e del Tusculo soffiava per le vie di Roma, era viva e frizzante. Facile era accorgersene vedendo come molti e molti cittadini si andassero avvolgendo ben bene entro le pieghe e il cappuccio della penula, e altri portassero in capo il petaso, e altri il pileo, e tutti procurassero imbacuccarsi il meglio che loro fosse dato; gli uomini nella abolla e nella toga, le donne nella stola e nella palla.

Subito dopo il circo è descritto minutamente per due pagine in­ tere: ben si capisce, allora, che nell'incapacità di riprendere il ban­ dolo del discorso dopo una tale divagazione, il Giovagnoli si veda costretto a una bizzarra serie d'interrogativi: « Che avveniva adun­ que in quel giorno? . . . Che festa celebravasi? . . . Quale era lo spet­ tacolo che attirava si grande moltitudine al Circo? . . . ». Lo spetta­ colo del circo, a sua volta, fornirà la possibilità di presentare tutti i personaggi della storia, per pagine e pagine. Il desiderio di accumulare particolari eruditi ha il suo influsso anche nel linguaggio: non è, però, una stranezza del Giovagnoli, ma una costante del romanzo storico, il ricorso a una sorta di bilin­ guismo, per cui narratore e personaggi prendono a parlare im­ provvisamente una lingua che è un impasto di italiano e di latino. Sembra proprio che i personaggi si allenino alla traduzione simul­ tanea! Cosi nel v capitolo Catilina grida al tricliniarca: « Fa che frat­ tanto tutto si apparecchi alla prossima exedra (sala di conversazio­ ne) per un'orgia allegra, piacevole, prolungata (comissatio) ». Da parte sua Lutazia, mentre sparecchia il desco, osserva: « Pover'uo­ mo! Ha dimenticato la tavoletta (tabella) dei suoi calcoli e il suo sti­ lo (stylus), poveretto! ». E Artorige grida: « Alt! (Ita consiste.? ». Non mancano, qua e là, arditi tentativi di analisi sociale: come quando Giovagnoli, con spiriti oraziani (cfr. carm. 3 6), vede nella condizione femminile la causa della corruzione dei tempi: ed è a siffatta condizione deplorevole della donna che devesi in parte at­ tribuire la corruttela dei costumi a quei tempi, corruttela resa anche mag­ giore dall'irrompere continuo e ognor crescente del lusso il piu sfrenato, dalle crapule invereconde e dalle orgie lascive dei padri e dei mariti, e so­ prattutto dalla libertà concessa alle impudiche cortigiane, che uguaglia­ vano in ricchezza e in opulenza le matrone, e che sfrontatamente e pub­ blicamente eran oggetto di ammirazione e di affetto per parte dei trosuli, dei cavalieri, dei cittadini.

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IL ROMANZO Ed è in questa triste condizione della donna, nella condizione ancor peggiore in cui la illimitata podestà paterna teneva i figli, nella piaga ognor crescente del celibato, e nella mancanza quindi, ogni di piu deplo­ rata, della famiglia, e nel dilatarsi sempre maggiore della schiaviru, il cui lavoro assiduo, improbo, generale procacciava ozio e miseria ai cittadini; è in tutte queste cause che va ricercata - perché in tutte queste cause è ri­ posta - la sola vera origine della decadenza romana, e lo sfacelo dell'im­ pero colossale che l'onnipotenza assorbente, unitaria, assimilatrice della rozza, guerriera e virtuosa Repubblica avea saputo cosi rapidamente co­ stituire. In compenso nel suo Spartaco non c'è spazio per sentimenti reli­

giosi: Giovagnoli ci ha risparmiato le edificanti delizie del cristia­ nesimo in irresistibile ascesa, non solo perché i tempi di Spartaco non glielo consentivano, ma anche perché, animato da fieri spiriti garibaldini, egli mostra piuttosto un furore da mangiapreti: come si vede, il prete d'allora, come quello di oggi, come quello di tutte le epoche, di tutte le religioni, di tutti i popoli, ministro di ipocrisia e di superstizione, giudicava il fervore religioso delle genti stupide, abbrutite ed ingannate, dalla quantità e qualità dei doni recati al tempio, doni che, in nome del supposto Dio, ingrassavano l'epa insaziabile dei ministri del culto.

A dispetto della notevole mole dell'opera, la trama di base è di un'amena semplicità: la rivolta dei gladiatori, le cui battaglie nel­ l'arena e altrove sono minuziosamente descritte in centinaia di pa­ gine, in realtà è solo lo sfondo in cui può dispiegarsi l'amore di Spartaco per Valeria, la vedova di Silla: un amore che troverà la sua concretizzazione, oltreché negli amplessi, in una bimba paffutella e rosea. Il tutto tra fughe e ritorni, sino all'olocausto conclusivo: in cui, peraltro, Spartaco appare come un valido, e forse piu gagliar­ do, antenato del generale Custer: Solo contro sette od ottocento nemici assiepati contro di lui, tutto coper­ to di ferite, in mezzo a centinaia di cadaveri che gli stavano ammontic­ chiati d'intorno, Spartaco, con gli occhi fiammeggianti, con la voce terri­ bile, roteando con celerità fulminea la formidabile spada, colpiva, feriva, prostrava quanti tentavan piombar su di lui. Alfine un giavellotto, lancia­ togli a dodici passi di distanza, lo colpi gravemente nel femore sinistro, onde cadde su quel ginocchio e, accosciatosi, presentando ai nemici lo 123

PAOLO FEDELI scudo e con la spada operando prodigi di valore fuor dell'umano, a guisa di leon ruggendo e simile per la grandezza dell'animo e per l'atletica posa ad Ercole, accerchiato dai Centauri, trafitto alla perfìne da sette od otto giavellotti lanciatigli a dieci passi nelle reni, cadde rovescioni e mormorò una sola parola: - Va . . . le . . . ria! Et spirò, muti lasciando ed estatici a contemplarlo lungamente tutti i Romani che lo avean veduto dal principio della battaglia fino all'ultimo istante eroicamente combattere, poscia eroicamente morire. È facile intuire che il motivo guida è costituito dall'amore; e, co­ me ogni amore che si rispetti, quello di Spartaco per Valeria è aperto dal coup deJoudre: Valeria transita innocentemente in lettiga, con nonchalance, quand'ecco che sciaguratamente i suoi occhi,

che vagavano senza scopo all'infuori dello sportello della lettiga, si posa­ rono sopra di Spartaco. La matrona provò come una scossa improvvisa, usci dalla sua distrazio­ ne, il suo volto si suffuse di un leggiero rossore, e fissando sul gladiatore i suoi fulminei occhi neri, essa spinse anche alquanto il capo fuori della cortina per continuare a guardarlo, quando la lettiga ebbe oltrepassati i due umili gladiatori.

Alla potenza di amore non si può resistere, specie se si è in letti­ ga: Giovagnoli lo sa bene e si preoccupa di fornire una giustifica­ zione a un amore apparentemente impossibile, « a una follia senza pari, un affetto da pazzo, a l'attuazione del quale si opponevano ostacoli assolutamente insuperabili ». Ma è un problema di forze sconosciute: Un'affinità misteriosa di fluidi - che potrà riescire inesplicabile, ma che non si poté mai negare - correva per certo fra Spartaco e Valeria poi­ ché, per quanto a lei grande riserva imponessero e la condizione sua e la stirpe onde derivava e la miserevole posizione di Spartaco, pur tuttavia anche in lei e a prima giunta erasi sviluppato - come fu veduto - un senti­ mento identico a quello che aveva sconvolta l'anima del gladiatore, dal momento che per la prima volta aveva veduto Valeria.

Quanto, poi, alla concretizzazione dell'amore, l'intimità dei rapporti fra la vedova del dittatore e il gladiatore libertario non è rispettata dall'indiscreto romanziere, che con abile mossa intr odu -

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ce le scene amorose nei momenti cruciali, proprio quando ci at­ tenderemmo da Spartaco una piu intensa concentrazione agonisti­ ca d'altro tipo. Nel cuore del cap. xv Spartaco, dopo una serie di nobili monologhi populisti, riceve la notizia che Valeria, « sorta to­ sto dal letto », l'attende nelle sue stanze. Vi si reca « col cuore palpi­ tante » e la trova « seduta su di un piccolo sofà )) . Qui ha inizio un abbraccio che dura sei pagine - con addii, nuovi abbracci e conclu­ sione scontata - che vale la pena di riferire nei punti di maggiore tensione: gli gettò dessa le braccia al collo, e le labbra dei due amanti, senza proffe­ rir motto, senza emettere un grido, si unirono in un baciio ardente, lun­ go, febbrile; e stretti in quell'amplesso, assorti in quell'estasi di felicità in­ definibile, rapiti in quell'ebbrezza di voluttà senza pari, stettero convul­ samente avviticchiati, muti ed immobili per lungo tempo. Finalmente, con moto quasi simultaneo, si sciolsero ambedue da quel­ l'abbracciamento, e ritrassero indietro la testa a contemplare l'uno le sembianze dell'altro. Ambedue erano pallidi, agitati, commossi.

E poi dopo una trepida esortazione a non partire, tra i singulti di Valeria e la protesta di fedeltà alla giusta causa da parte di Spartaco, in quella lotta disperata, affannosa continuando ambedue, Valeria avvi­ ticchiandosi con sempre maggior forza a Spartaco, questi con dolce vio­ lenza procurando di svincolarsi dai tenaci amplessi di lei, non udivan­ si piu da qualche minuto, nel gabinetto della matrona, che voci rotte e respiri affannosi e baci convulsi e gemiti e preghiere ardenti e simulta­ nee.

Si capisce, però, che il prode guerriero, ligio al suo codice di comportamento, potrà pure avere momenti di erotico sbanda­ mento, ma non sarà mai in grado di abbandonare i commilitoni. Allora Valeria tenta la carta della figlia paffutella e rosea: - Spartaco . . . Spartaco - disse con debolissima voce, e levando supplici le mani verso di lui l'infelicissima donna - te ne supplico . . . per nostra fi­ glia! . . . per nostra fi . . . Ma non poté finire, ché il trace, sollevandola di peso da terra, e strin­ gendosela convulsamente al petto, e affiggendo le sue labbra tremanti sulle gelide labbra di lei, ne interruppe i gemiti e le parole. Stettero i due amanti in quell'amplesso per varii minuti durante i quali 125

PAOLO FEDELI non si udirono nella stanzetta che i due loro respiri affannosi fusi in un solo respiro.

Insomma, i protagonisti del romanzo amano con un trasporto romantico, che era certamente ignoto ai loro modelli latini: Spar­ taco e Valeria sono due amanti ottocenteschi, che per caso si trova­ no a transitare nel mondo romano, e i modelli che hanno alle spal­ le non condizionano affatto il loro modo d'agire. La materia amo­ rosa è sapientemente condita con gli opportuni ingredienti: non manca il riconoscimento da parte di Spartaco della sorella scom­ parsa e, ahimé, traviata (ma si redimerà); non manca il sangue, che anzi scorre abbondante ad ogni occasione di lotta, non manca nep­ pure la lettera anonima del perfido delatore, che denuncia al tiran­ no l'insana passione della moglie per l'oscuro gladiatore. Un romanzo popolare esige, al di là dell'eroe della vicenda, la presenza di una serie di personaggi noti a un vasto pubblico di let­ tori. Che Giovagnoli si sia prefisso questo compito è chiaro sin dall'inizio, dalla scena di parata del circo in cui vengono presentati i personaggi, l'uno dopo l'altro. Ci sono proprio tutti: da Silla a Pompeo a Giulio Cesare a Catilina a Crasso: nella loro presenta­ zione si segue un procedimento elementare di illustrazione dei tratti fisionomici e del carattere; per il primo aspetto sembra pro­ prio che il Giovagnoli si sia ispirato ai busti di generali e di impera­ tori, per il secondo egli rielabora fantasiosamente le fonti classi­ che. In questo mondo di politici c'è spazio, però, anche per i poeti: soprattutto per Lucrezio, che, ancor giovane, ha ormai bell'e com­ posto il suo poema e lo va declamando in ogni dove: nelle strade, nel circo, nelle case di piacere. Si, perché ligio ai dettami epicurei e al finale del IV libro del De rerum natura, egli non se la sente d'im­ barcarsi in avventure serie e preferisce la venere vaga. Bisogna dargli atto, comunque, di un non disprezzabile senso estetico, per­ ché predilige la bella Eutibide, la cortigiana che spasima per Spar­ taco e, soppiantata da Valeria, diventerà una perfida ingannatrice: proprio come nelle migliori telenovele dei giorni nostri. D'altronde Eutibide non era una donna come un'altra: l'intelletto era sempre in lei stato sottoposto all'impeto delle passioni, e queste passioni erano sempre

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IL ROMANZO state smodate, e la ragione, nella sua mente, veniva ognora travolta dai voli turbinosi di una fantasia sfrenata. Dotata di una energia altrettanto piu meravigliosa in quanto che racchiusa in quel suo vezzoso ed elegante corpicciuolo piu di fanciulletta che di donna, la giovine greca che - i let­ tori lo ricorderanno - fin dalla piu tenera età era stata lanciata dalle lussu­ riose voglie di un lascivo patrizio in mezzo alle piu laide ebbrezze di or­ gie oscene e di inverecondi satumali, aveva fin dai piu teneri anni perdu­ te le due piu salde corazze che difendano il cuore della donna; il senti­ mento del pudore e la coscienza del male.

Accanto a lei, Spartaco e Valeria vivono il loro amore senza fu­ turo, anche se con stati d'animo diversi: Spartaco è segnato sin dal­ l'inizio da un destino libertario e, votato com'è alla giusta causa, deve percorrere la sua strada sino in fondo; sa già che lo Spartaco vero è finito male e deve adattarsi, subire il suo destino. Valeria sembra all'oscuro della storia antica, che ora rivive romanticamen­ te due millenni dopo, e cavalca l'illusione. Però, come si muove è una frana, non soltanto metaforica: non fa altro che cadere e sveni­ re, e ogni volta c'è il timore che, franando, distrugga i cristalli ere­ ditati dal tiranno. Se le va bene, nel precipitare le si offre, provvido e compiacente, un sofà; come nella scena madre, quando depone la dignità di matrona romana: - Si, si, si . . . mi ribello, mi ribello . . . ripudio la cittadinanza romana, il mio nome, la mia famiglia . . . non voglio nulla da nessuno . . . andrò a vi­ vere in una villa appartata, mi ritirerò in qualche lontana provincia, o in Tracia, sui monti Rodopei con Spartaco, e voi, tutti voi miei parenti, non udrete piu parlare di me, purché io venga lasciata libera di me stessa, pa­ drona dei miei sentimenti, dei miei affetti, del mio cuore. E Valeria, abbattuta dall'emozione suscitata in lei da quella irruzione di concitati affetti e di parole sdegnose e convulse, si lasciò cadere sul sofà pallida e sfinita.

Spartaco, da parte sua, fa quello che può, e si barcamena fra il truculento e il romantico: ne combinerà di cotte e di crude, in scontri cruenti e spietati duelli, ma resterà sempre fedele a un suo ideale di « malinconica bontà ». Lo stile, anche se si avverte la lezione di Dumas, che fu maestro tutta una generazione di romanzieri, è pervaso da una risorgi-

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mentale magniloquenza, oltreché da nobili spiriti. Non ci sor­ prende, quindi, che Catilina sussurri all'orecchio di Spartaco: - Anch'io sono oppresso dall'odio degli oligarchi, anch'io sono schiavo di questa romana società turpe e corrotta, anch'io sono un gladiatore fra il patriziato, anch'io voglio la libertà . . . e . . . so tutto . . .

Dialoghi e monologhi trascorrono rapidamente dai toni amoro­ si agli accenti tragici alle punte populiste, non senza pretese di classica dignità: cosi, alla cortigiana Eutibide che gli chiede ango­ sciata se l'ami, il giovane Lucrezio non si limita a rispondere « t'a­ mo sempre e con maggiore ardore », tradendo i suoi filosofici pro­ positi, ma le improvvisa una serie di versi dal IV libro del suo poe­ ma. Forse perché disorientata da tanto sfogo di cultura, Eutibide deciderà di passare al piu sportivo gladiatore e, insinuatasi presso di lui con abile travestimento, darà il meglio di sé in una serie di la­ menti da tragedia: - Non fui io una schiava? . . . non vidi fatti schiavi i miei cari? . . . Non perdei la patria? Non fui dalla romana corruttela ridotta alla condizione di vilissima cortigiana? . . .

Di fronte a un simile assalto verbale Spartaco, che è uomo di po­ che parole, se la cava con un « doloroso e lungo sospiro » che pre­ dispone Eutibide a un nuovo monologo: - Ah! - Esclamò con impeto d'ira che non si sarebbe creduto possibile in quella debole fanciulla. - Ah! . . . il Delfico Apollo illumini la sua men­ te! . . . Costui non capisce nulla! . . . Ah! . . . per le Furie ultrici! . . . ti dico che ho da vendicar mio padre, i miei fratelli, la mia patria ridotta in servi­ tU, la mia giovinezza condannata a saziar le libidini sfrenate dei nostri op­ pressori, il mio onore trascinato nel fango, la mia vita destinata ad una perpetua infamia, e tu mi domandi che cosa io possa fare in questo cam­ po? . . .

La vena populista, adatta all'animo e alle aspirazioni del Giova­ gnoli, si esprime con una frequenza tale che c'è solo l'imbarazzo della scelta. Se il manifesto rivoluzionario è nel discorso di Sparta­ co al piu realista Cesare, tutti i personaggi positivi s'ingegnano nel formulare analoghi concetti libertari: anche un vecchio dispensatore prende a discettare con elette parole sulla libertà e sulla schiaviru: 128

IL ROMANZO - Follie! . . . sogni! . . . fisime! . . . Il mondo fu e sarà sempre diviso fra pa­ droni e servi, fra ricchi e poveri, fra nobili e plebei . . . e sempre sarà diviso cosi, checché si faccia . . . Fisime! . . . sogni! . . . follie! . . . per correr dietro alle quali si versa inutilmente un sangue prezioso, quello dei figli no­ stri . . . E per approdare a che poi? . . . Che importa a me - dato che siffatta guerra riesca - ciò che è impossibile - a buon fine - che importa a me che d'ora innanzi gli schiavi siano liberi, quando per conseguire questo scopo m'avranno uccisi i figliuoli? Che me ne farò io della libertà? Me ne servi­ rò per piangere? . . . Oh allora si che io sarò ricco e felice . . . quando sarò padrone di versare lagrime a mio piacimento! . . . E che i miei figli non morissero . . . e che tutto andasse a meraviglia, e che domani io ed essi fossimo liberi! . . . Ebbene? . . . Eppoi? . . . Che ce ne faremo della nostra libertà, poiché nulla possediamo? . . . Ora abbiamo presso la nostra ottima pa­ drona, tutto il bisognevole e piu del bisognevole, abbiamo il superfluo; domani liberi, andremo a lavorar nei campi degli altri, per una tenue mercede, con la quale non ci potremo procurare neppure il necessario . . . Oh, come saremo felici quando saremo liberi . . . di morire di fame! . . . Oh, quanto saremo felici! . . .

Spartaco si spinge sino a proclamare il concetto d'uguaglianza, sottolineando la comune dignità di nascita di tutti gli esseri. Non si può, certo, parlare né di marxismo né di anarchismo: da un lato ne mancano i presupposti e, dall'altro, le tirate libertarie sono troppo vaghe e non si concretizzano in veri e propri attacchi all'organizzazione dello stato. È possibile, però, afferrare il senso dell'operazione compiuta dal Giovagnoli: a un'Italia fresca di uni­ tà, a un'Italia antipapalina e anticlericale dalle sempre piu diffuse aspirazioni libertarie e sociali e dagli ancor freschi ricordi dell'epo­ pea risorgimentale, questo rappresentante della pur minoritaria si­ nistra garibaldina offre un prodotto confezionato su misura e con fini chiaramente propagandistici. La sua, infatti, è una chiara uti­ lizzazione di un episodio del mondo antico, che deve assurgere ad esempio: la vicenda di Spartaco è destinata ad andare al di là del momento in cui si consumò e a divenire il manifesto di un sociali­ smo utopistico alla Saint-Simon.4 4- Su Giovagnoli dr. A.M. Ghisa!berti, in Enciclopedia Italiana, xvn, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, p. 219. 129

PAOLO FEDELI 3· Gu « ALTRI» DAI RoMANI Il mondo « altro » da quello romano non è solo quello greco, contro il quale reagirono i volonterosi autori ottocenteschi di ro­ manzi storici, ma anche quello dei popoli vinti da Roma. La sua rappresentazione sarà tanto piu efficace se essi saranno colti nel momento cruciale in cui il loro antico orgoglio e la loro antica po­ tenza stanno per crollare di fronte agli assalti dei nuovi dominatori del mondo. Il senso di un'incombente tragedia, che segnerà per loro la fine dell'indipendenza e della libertà, resta sullo sfondo di un esempio nobile di tale letteratura, quale fu Salambò di Gustave Flaubert. Quando nel settembre-ottobre 1857 egli cominciò la redazione del romanzo, Madame Bovary aveva già avuto in pochi mesi due tiratu­ re e un successo clamoroso. Nel maggio 1858 Flaubert compi un'e­ scursione a Cartagine e a Bisetta; a partire da quel momento la re­ dazione di Salambò procedette spedita e il romanzo fu completato nel febbraio 1862 {datato 1863, usci in realtà nel novembre 1862). Flaubert era consapevole di non scrivere per il grosso pubblico: in una lettera dell'n luglio 1858 a M.me Leroyer de Chantepin egli scriveva: « La Bovary mi ha nauseato dei costumi borghesi per mol­ to tempo. Per qualche anno vivrò forse in un soggetto splendido e lontano dal mondo moderno, del quale ho piene le tasche. Ciò che intraprendo è insensato e non avrà nessun successo di pubblico. Che importa! Bisogna scrivere anzitutto per sé >> . All'impresa Flaubert si accinse con straordinaria serietà: non so­ lo lesse minuziosamente le Storie di Polibio e i Punica di Silio !tali­ co, per documentarsi in modo adeguato sulla rivolta dei mercenari cartaginesi e sulle guerre puniche, ma studiò con impegno trattati di medicina araba e di strategia militare degli antichi, di cui fece te­ soro nelle ampie descrizioni di scene di battaglia; infine, per con­ ferire alla narrazione il giusto colore ambientale, si decise a com­ piere il suo viaggio in Tunisia. Per quanto riguarda il metodo, ha notato Carlo Bo s che « Flaubert si trovava a dover colmare i vuoti, 5·

Nella prefazione a G. Flaubert, Salambò, trad. it., Milano, Rizzoli, 1981,

130

p. u.

IL ROMANZO grandi e numerosi, della storia scritta, ecco perché è stato costretto a chiamare in aiuto la scienza: archeologia, storia, filosofia. Di fronte a ogni vuoto che pure aveva un nome (guerre, sacrifici, co­ stumi, ecc.) doveva supplire con elementi che soltanto le bibliote­ che e i musei potevano fornirgli. Era dunque un doppio lavoro di applicazione: prima trovare la materia simile, un analogo e poi in­ serirlo nel discorso generale ». L'avvenimento centrale, sul quale s'innesta la vicenda dell'amo­ re di Salambò, la figlia di Amilcare, per Mathos, il capo dei rivolto­ si, è la ribellione dei mercenari cartaginesi. L'amore si configura immediatamente come impossibile, tanto piu che Amilcare non avea voluto ch'ella entrasse nel collegio delle sacerdotesse, e nem­ meno che venisse a conoscere alcunché della Tanit popolare. Probabil­ mente intendeva riservarla a qualche matrimonio che riuscisse utile ai suoi fini politici; onde Salambò viveva sola nel palazzo, sua madre essen­ do morta oramai da gran tempo. Cosi era cresciuta nelle astinenze, nei digiuni e nelle purifìcazioni, sempre attorniata da cose squisite e gravi, il corpo saturo di profumi, l'anima piena di preghiere. Non mai aveva as­ saggiato vino, né mangiato carne, né toccato un animale immondo, né messo piede nella casa d'un morto.

Per di piu, come ha giustamente osservato Pomaro, « quando nel momento sentimentale piu intenso l'eroina e il mercenario so­ no insieme, preda entrambi, in diversa e parimenti assurda forma, dell'eros, non possono davvero dirsi molto, né molto di loro può manifestare o rivelare l'autore che si fa, allora, improvvisamente discreto e procede per linee esterne. E si capisce perché: un fanta­ sma non ha una interiorità come la può avere, per quanto nascosta, un personaggio storico vero o fittizio che sia ».6 Al di là dell'amore c'è la realtà della guerra, descritta in intermi­ nabili scene di battaglie e di assedi, e su tutto domina l'ideologia del sacrificio, con la sconfitta dei mercenari e la morte di Mathos, mentre Salambò muore a sua volta nell'assistere al suo supplizio. La critica non ha mancato di sottolineare un accorto uso del classico a fini di attualizzazione: come osserva Carlo Bo, « nel suo 6. Fomaro, Trapassato presente, cit., p. 120.

IJI

PAOLO FEDELI dare rilievo al giuoco delle masse, nella contrapposizione fra le di­ verse classi, meglio fra il mondo degli sfruttati e quello dei potenti si vorrebbe ravvisare un salto della coscienza politica dello scritto­ re. Interpretazione però non del tutto nuova nel senso che già i primi lettori ufficiali avevano sottolineato certe soluzioni e echi dovuti principalmente alla lezione della rivoluzione francese: co­ munque, si tratta di sovrapposizioni, Flaubert non si basava soltan­ to sulla conoscenza del mondo antico ma si portava dietro nozioni e passioni d'altri tempi, compresi i suoi ».7 Il romanzo fu accolto da una critica sostanzialmente ostile, che si appuntò soprattutto su presunti errori d'interpretazione delle fonti classiche: come se compito dell'autore fosse quello di ripro­ durle fedelmente e non quello di prendere da esse lo spunto per una personale rielaborazione: eppure su tali posizioni si attestaro­ no non solo gli eruditi di mestiere e gli archeologi, come Guillau­ me Frohner, ma anche il Sainte-Beuve, che non nascose la sua irri­ tazione per talune > (e quindi, in qualche modo, a vi­ cende della preistoria di Roma) stesse ad indicare la sopravvivenza dell'esigenza, anche nel nuovo contesto, di un legame, per quanto remoto, coi fatti rappresentati. In realtà, l'impulso a mettersi in scena e a vedersi rispecchiati nelle vicende rappresentate era stata e rimaneva la molla prima del far teatro. Lo dimostra ad oltranza il fatto che i Romani sentirono ben presto la necessità di affiancare alla cothurnata (la tragedia d'abito e argomento greci, cosi detta dal « coturno », l'alto calzare, o stivale, che in Grecia era tipica calzatu­ ra femminile e che i Romani estesero ai personaggi maschili) una (fabula) praetexta, cioè una tragedia d'abito e argomento romani (cosi chiamata dalla toga orlata di porpora usata dai magistrati ro­ mani in momenti sacrali particolarmente solenni). Ma è proprio nella natura e nella sorte di questa tragedia, diciamo cosi, « nazio-

231

GIOACHINO CHIARINI nale » che si avverte la forza dell'esigenza uguale e contraria, che ben conosciamo, di distanziare e controllare la materia rappresen­ tata. Il grammatico Diomede (fine IV secolo d.C.), destreggiandosi nell'intricata problematica delle definizioni dei vari generi e sotto­ generi teatrali, riconobbe nelle preteste dei drammi in abito roma­ no « nei quali si trattavano azioni di condottieri e fatti della comu­ nità e apparivano in scena re e generali romani: opere vicine alle tragedie per la dignità ed elevatezza dei personaggi » (gramm. Lat. I p. 489 Keil). La definizione è centrata e ci aiuta a nostra volta a ri­ conoscere l'appartenenza alla praetexta di quel pochissimo (sempli­ ci titoli o brevi frammenti) che è giunto fino a noi. Alcune preteste riguardavano la storia delle origini, o fondazio­ ne, di Roma: il Romulus di Nevio (che probabilmente fu l'invento­ re del genere) celebrava il leggendario fondatore di Roma e la sua assunzione tra le divinità col nome di Quirino, le Sabinae di Ennio e una pretesta non meglio precisata cui fa cenno Varrone (de lingua Latina VI r8), dedicata all'eclissi di sole che protesse, alle Nonae Ca­ protinae (7 luglio), l'apoteosi di Romolo, dovettero celebrare alcuni aspetti del medesimo soggetto (e ad uno stadio ancora anteriore del mito si sarebbe rivolta la tarda pretesta Aeneas dell'amico di Pli­ nio il Vecchio, Publio Pomponio Secondo: cfr. Carisio, p. !07 P.). Ai fatti della seconda fondazione, quella repubblicana, era dedica­ to il Brutus di Accio (del quale ci son giunti frammenti per ben 25 versi), e a materia ancor piu vicina (la devotio dell'imperatore Publio Decio Mure nella battaglia del 340 a.C. contro i Latini: cfr. Livio, vm 9) l'Aeneades seu Decius del medesimo Accio. In quest'ultimo caso si restava comunque ad una distanza, rag­ guardevole, di circa due secoli dall'epoca di composizione del te­ sto letterario; ma è possibile elencare almeno tre casi di preteste dedicate alla celebrazione di fatti assolutamente contemporanei: il Clastidium di Nevio trattava della vittoria di Marco Claudio Mar­ cello a Casteggio nel 222 a.C. (con uccisione in duello del re nemi­ co Viridomaro e la conquista delle > in un altro luogo ed altra corte: ma il coinvolgimento di alcune gran­ di figure politiche del tempo (lo Sforza, Ferrante di Napoli) era «

«

n.

Cfr. sopra, n. 10. 12. Cfr. Doglio, Teatro in Europa, cit., pp. 396-98. 13. Pubblicata da C. Bragio in « Giornale Ligustico di Archeologia, Storia e Lette­ ratura», a. Il 1884, pp. 50-76 e III-32. 1,

237

GIOACHINO CHIARINI cosi diretto ed esplicito che, nonostante il suo intento smaccata­ mente encomiastico, gli Estensi non se la sentirono di farla mette­ re m scena. Ben diversa fu invece la sorte di due tragedie , quello di Arden ofFevershan, è tratto (forse da Thomas Kyd), intorno al 1592, da un sanguinoso fatto di sangue verificatosi nel Kent ben quaranta anni prima, mentre in

IL TEATRO The Famouse Tragedie ofthe Riche Iewe ofMalta (di Christopher Mar­ lowe, 1592), sebbene sotto il nome e nelle vesti di Barabba si celi la figura storicamente accertata dell'ebreo Davide Passi (« consiglie­ re del Sultano >>), i legami tra la vicenda tragediata e quella reale so­ no pressoché inesistenti o profondamente alterati, e la scena è col­ locata, in ogni caso, nella remota isola, appunto, di Malta. 3· TRAGEDIA E COMMEDIA Se abbiamo tanto insistito sulla « tragedia », destinandole buona parte dell'esposizione, non è stato per rendere omaggio al genere « alto » in se stesso, ma per evidenziarne la centralità nel sistema di generi e sottogeneri elaborato dal teatro ateniese del VI-V secolo a.C. Dal punto di vista della successiva storia del teatro occidenta­ le, tale centralità ebbe infatti un peso incalcolabile, coinvolgendo nella propria orbita di letteratura teatrale interamente scritta varie (e spesso preesistenti!) espressioni del comico e determinandone, oppositivamente, il loro configurarsi nella forma della « comme­ dia ». Riprendendo e approfondendo un ordine di idee appena ab­ bozzato nel primo paragrafo (Distanze), possiamo ora dire che, no­ nostante tragedia e commedia fossero del tutto diverse per genesi e struttura di partenza, la commedia si trovò di fatto a svolgere in ambito comico (e, come abbiamo visto, con personaggi social­ mente piu dimessi o, in caso contrario, opportunamente degrada­ ti) quelle stesse funzioni di rispecchiamento e dibattimento dei problemi della polis che la tragedia svolgeva su di un piano piu ele­ vato e con personaggi « importanti ». Per certi aspetti, anzi, la sfre­ natezza del linguaggio, la sua scoperta « leggerezza » e la ostentata improbabilità (risultante dal contrasto tra l'insignificanza dei per­ sonaggi e la solennità paratragica delle loro parole), assieme alla ri­ sibilità farsesca del costume, consentirono alla commedia, all'in­ circa nel suo primo secolo di vita, incursioni nel « politico », e per­ sino aggressioni di parte, ben piu dirette e consistenti di quelle consentite alla tragedia. Ma neppure alla commedia fu concesso di insistere all'infinito 247

GIOACHINO CHIARINI in questa pressoché totale abolizione d'ogni distanza nel tempo e nello spazio: ancor oggi possiamo constatare come le strabilianti avventure politiche di Diceopoli, di Pistetero e in genere di gran parte degli « eroi » di Aristofane non abbiano ancora trovato veri eredi e continuatori, ma solo, ed eccezionalmente, pallidi imitato­ ri. L'alt imposto dai potenti già all'ultimo Aristofane, se impoveri le possibilità inventive piu audaci e graffianti, legate all'attualità, segnò anche una decisa svolta nell'evoluzione della commedia, decontestualizzandola e avvicinandola (o, se si preferisce, solle­ vandola) rapidamente al linguaggio e soprattutto agli schemi della tragedia, che per parte sua aveva subito, ad opera dell'ultimo dei suoi grandi, Euripide, un equivalente processo di convergenza, se cosi si può dire, verso il « basso ». Non che in antico si realizzasse una reale, completa e consape­ vole confluenza dell'un genere nell'altro: come tra breve vedre­ mo, la tragedia rimase sempre tragedia e la commedia commedia. Quel che avvenne fu una omogeneizzazione sul piano delle trame e dei personaggi: gli schemi dei fatti rappresentati finirono per di­ stinguersi gli uni dagli altri solo per la maggiore o minore gravità o importanza dei fatti stessi e per la maggiore o minore gravità o im­ portanza dei personaggi che vi partecipavano, specializzandosi la commedia in vicende « prematrimoniali » di gente qualunque, la tragedia in vicende « postmatrimoniali » di gente nobile o regale.2 1 Non si trattò naturalmente, in ambito greco-attico, di un'evolu­ zione lineare ed univoca. In ispecie la larga parte tenuta, a lungo, nella commedia posteriore ad Aristofane, dalla ripresa burlesca e deformante di soggetti mitici contribui a rallentare il processo di adeguamento, da parte del comico, agli schemi-base del tragico: un fatto paradossale, a prima vista, dal momento che proprio l'e­ stensione del mito dalla tragedia alla commedia avrebbe dovuto favorire nella seconda l'assimilazione delle strutture della prima; ma la commedia mitologica attica non fu, in sostanza, come invece 2I. Cfr. su ciò, sinteticamente, G. Chiarini, Elena contesa. Riflessioni intorno ad unfor­ tunato modello narrativo, in AA.W., Eredità dell'antico tra scuola e cultura, Padova, Ed. emi Triveneto, 1988, pp. 89-96.

IL TEATRO lo sarebbe stata l'ilarotragedia tarentina, versione comica di sog­ getti tragici, bensi, appunto, rielaborazione, deformante e degra­ dante, di soggetti tragici,22 ciò che comportava ogni volta, di fatto, un modo sempre nuovo e diverso di allontanamento dagli schemi tragici. Si può insomma credere che, ancora all'epoca di Menandro, che pur rappresentò il momento di massima approssimazione alla tra­ gedia di impronta euripidea, il panorama della commedia attica dovesse presentarsi assai vario e articolato. Ad operare la selezione in senso abbastanza univoco su quel ricchissimo e multiforme re­ pertorio fu invece - con decisive conseguenze per la storia del tea­ tro occidentale - il teatro romano « alto », vale a dire in costume greco (cothurnata e palliata), e un'ulteriore selezione fu poi operata dal tempo e dal destino particolare d'ogni singolo autore, dalla so­ pravvivenza dei copioni di Plauto, Terenzio e Seneca - oltre a quelli, si capisce, dell'inimitabile Aristofane da una parte, e dell'i­ mitabilissimo Euripide dall'altra. La linea principale di continuità tra antico e moderno si collocò appunto sull'asse Euripide- teatro latino: come dimostra, ad esempio, il riproporsi dellafabula euripi­ dea dell'Elena e dell Ifigenia Taurica (cosi riassunta da Cesare Que­ sta: « una donna è trattenuta contro la sua volontà in un paese stra­ niero da un uomo che ha su di lei potere coercitivo; questa donna vorrebbe ricongiungersi ad altro uomo, per il quale essa ha parti­ colare affetto, ma lo crede morto o scomparso: la notizia però è falsa e l'uomo proprio in quel momento giunge, i due si riconosco­ no e, grazie ad un inganno escogitato dalla donna, con la quale l'uomo coopera, e con l'aiuto di altra persona (o gruppo di perso­ ne), la donna riesce, con l'uomo desiderato, a sfuggire a colui che ha su di lei potere coercitivo ») prima nel Miles Gloriosus di Plauto, poi, tra i moltissimi altri, nel « Singspiel » mozartiano Il Ratto dal Ser­ raglio (1782) e nel « dramma giocoso » rossiniano l'Italiana in Algeri (r8r3).23 '

22. Cfr. G. Chiarini, Compresenza e conflittualità dei generi nel teatro latino arcaico. Per una rilettura dell"Amphitruo', in « MD », v 1981, pp. 99 sgg. 23. C. Questa, Il ratto dal serraglio. Euripide, Flauto, Mozart, Rossini, Bologna, Pàtron, 1979 (la citazione è da pp. 18 e sg.).

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GIOACHINO CHIARINI Il motivo per cui, in antico, non vi fu mai reale confusione (o mescolanza) tra i generi maggiori sta tutto nella diversa dimensio­ ne sociale in cui si collocavano le vicende: la sostanziale identità dellafabula non avrebbe mai potuto fare dell'Elena qualcosa di di­ verso da una tragedia poiché vi comparivano personaggi « alti » (Menelao re di Sparta ed Elena sua consorte, Teoclimeno re d'E­ gitto), né, viceversa, del Miles qualcosa di diverso da una comme­ dia, poiché vi comparivano personaggi medio-bassi (Pleusicle un giovane libero, Filocomasio una meretrice, Pirgopolinice un sol­ dato di ventura, per non parlare di Palestrione, l'eroe positivo della storia, che era uno schiavo). Il tardo grammatico Diomede (fine IV secolo d.C.) ci riassume bene questo punto di vista: comoedia e tragoedia differt, quod in tragoedia introducuntur heroes duces reges, in co­ moedia humiles atque privatae personae24 (1 488 Keil). Di fatto, la gravità dei personaggi si era specializzata nella trage­ dia traducendosi nella gravità dei fatti: ma dolore e morte, lutto e lamento, omicidi, suicidi e orrori d'ogni genere non comportava­ no la necessità assoluta di una conclusione della vicenda rappre­ sentata altrettanto « drammatica » e orrorosa. È significativo, in proposito, che Aristotele elogiasse in Euripide - l'autore tragico, dei tre greci sopravvissuti, in cui piu frequente ricorre il cosiddetto « lieto fine » - proprio l'aspetto complementare e opposto, che cioè « la maggior parte delle sue tragedie si concludessero con la sventura » (Poetica 1453a) : il lieto fine, che in Euripide troviamo, ol­ tre che nelle citate Elena ed Ifigenia Taurica, anche in Alcesti e Ione e, limitatamente alla sorte di alcuni personaggi, in altre tragedie an­ cora, doveva essere molto piu frequente di quanto non abbiano a lungo creduto i moderni. A ben vedere, la separazione della sfera tragica da quella comica era talmente radicata nella mentalità attica, che persino il Socrate platonico, vigoroso sostenitore della loro inestricabile mescolanza nella realtà extrascenica dell'esistenza (Filebo sob), pur dichiarando 24. « La commedia differisce dalla tragedia in questo, che nella tragedia son messi in scena eroi, condottieri e re, nella commedia invece per­ sonaggi di basso rango e semplici privati ».

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IL TEATRO che la stessa persona doveva saper comporre sia tragedie che com­ medie e che chi era poeta tragico lo era di necessità anche comico (Simposio 223b), non giunse mai a prospettare la possibilità di un terzo genere che le comprendesse entrambe. E tra i latini avevano ribadito e rafforzato l'opposizione sia Cicerone (et in tragoedia comi­ cum vitiosum est et in comoedia turpe tragicum,25 De optimo genere arato­ rum I r) sia, e ancor piu, l'Orazio teorico dell'arte poetica: Versibus exponi tragicis res comica non vult; indignatur item privatis ac prope socco dignis carminibus narrari cena Thyestae. Singula quaeque locum teneant sortita decenter.26 (ars 89-92)

Tuttavia, al riprender vita del teatro in età umanistico-rinascimen­ tale, molti elementi - in parte già antichi, in parte maturati nel frattempo - concorsero ad intaccare questa visione rigida e com­ patta. Il taglio, ad esempio, invariabilmente lugubre e sventuratis­ simo dei finali senecani (in qualche modo confermato dalla netta prevalenza di esiti altrettanto lugubri e sventurati nei tre tragici greci), indusse molti teorici e anche molti autori del rinascente teatro europeo ad esagerare la simpatia aristotelica per il finale « tragico » interpretandolo senz'altro come marchio essenziale e scopo ultimo del genere tragico,27 dimenticando o largamente tra­ scurando l'importanza dell'estrazione sociale dei personaggi tragici. 25. « Il comico nella tragedia non va, come pure ripugna il tragico nella comme­ dia ». 26. « Non si può esprimere un argomento comico in versi tragici; cosi la cena di Tieste sdegna d'esser narrata in tono familiare e conveniente quasi alla commedia. Ogni cosa mantenga il posto che ha sortito opportunamente da natura » (trad. di E. Cetrangolo, in Quinto Orazio Flacco, Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1968, p. 535). 27. Cosi, ad es., Giason Denores, Discorso intorno a que' principii, cause et accrescimenti che la comedia, la tragedia et il poema eroico ricevono dallafilosofia morale e civile etc., del 1586, edito in Trattati di Poetica e retorica del '.5oo, a cura di B. Weinberg, Roma-Bari, Laterza, 1972, p. 380; interessante notare come, in margine a tal principio di base, si sviluppas­ se, quasi a suo corollario, il concetto di « lieto fine senza allegrezza », come si avrebbe allorquando personaggi condannati a morte vengono sottratti all'ultimo, per qualche avventuroso caso, al supplizio estremo: ibid., pp. 381 e sg.; cfr. anche Lorenzo Giaco­ mini nel suo Discorso sulla catarsi tragica (De la purgazione de la tragedia, 1586, in Trattati, cit., pp. 370 e sg.).

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GIOACHINO CHIARINI Portata a tali estreme conseguenze l'opposizione: tragico (= pianto) vs comico (= riso), ne risultava di necessità che una tragedia che terminasse con un lieto fine non poteva essere, semplicemen­ te, una tragedia, bensi una « tragicommediH: una definizione che non aveva bisogno di essere inventata perché si trovava già tal qua­ le in un testo teatrale antico, nel prologo dell Anfitrione di Plauto (al v. 63 ). Li però « tragicommedia )) non indicava affatto una « tra­ gedia a lieto fine )), ma una commedia nella quale, accanto a perso­ naggi « bassi >) come i servi, figuravano anche personaggi « alti )) co­ me « dèi e re )) (vv. 51-63, parla il prologante dio Mercurio) : '

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6o

post argumentum huius eloquar tragoediae. quid contraxistis Jrontem? quia tragoediam dixi Juturam hanc? deus sum, commutavero. eandem hanc, si voltis, Jaciam iam ex tragoedia comoedia ut sit omnibus isdem vorsibus. utrum sit an non voltis? sed ego stultior, quasi nesciam vos velle, qui divos siem, teneo quid animi vostri super hac re siet. Jaciam ut commixta sit tragico comoedia. nam me perpetuo Jacere ut sit comoedia, reges quo veniant e di, non par arbitrar. quid igitur? quoniam hic servos quoque partis habet, Jaciam sit, proinde ut dixi, tragicomoedia.2B

I primi autori moderni a far uso del termine « tragicommedia >) fu­ rono, come s'è visto sopra,29 Carlo e Marcellino Verardi nella Pre­ fazione al loro Ferdinandus servatus (1493) : Potest enim haec nostra, ut Amphitruonem suum Plautus appellat, Tragico­ moedia noncupari, quod personarum dignitas et Regiae maiestatis impia illa viola28. « Quindi vi esporrò il soggetto di questa tragedia. Perché avete corrugato la fronte? Perché ho detto che questa sarà una tragedia? Sono un dio: la cambierò, se vo­ lete, farò che diventi, da tragedia, commedia, senza variarla d'un sol verso. Lo volete o non lo volete? Ma che razza di sciocco sono, come se non sapessi, nella mia qualità di dio, che lo volete. So bene come la pensate intorno a questa faccenda. Farò che sia una commedia mescolata con del tragico. Non mi sembra infatti giusto che sia senz'altro una commedia, dal momento che vi compaiono re e dèi. E dunque? Siccome vi recita anche uno schiavo, farò che sia, come ho detto, una tragi-commedia ». 29. Cfr. par. 2.

IL TEATRO tio ad Tragoediam, iucundus vero exitus rerum ad Comoediam pertinere videan­ tur.30

Affermare che « la dignità dei personaggi e l'empia violazione della maestà sembrano appartenere alla tragedia » poteva ancora passare per plautino, ma aggiungere « mentre il lieto esito degli eventi alla commedia » significava gabellare per autorevole ed an­ tico un modo di pensare del tutto moderno. Piu cauto, il Giraldi Cinzia, mezzo secolo piu tardi, pur ritenen­ do, lui pure, che Plauto avesse voluto designare con > simboleggiava non una voca­ zione tragica, bensi il suo esatto contrario, e la Penthesilea di Kleist (1808) , che col suo sublime, agghiacciante disordine confermava in modo del tutto diverso lo stesso identico processo, vale a dire l'i­ narrestabile allontanamento dalla tragedia classica. « Morte della tragedia » non significò tuttavia, ovviamente, né morte del tragico, che anzi conobbe altri momenti di grandezza nei drammi di Ibsen, Strindberg, Cechov, Pirandello, Beckett e tanti altri,43 né, piu in generale, morte del classico: grandi temi classici continuarono e continuano ad affascinare lo spettatore moderno, non solo nelle piu o meno filologicamente rigorose rap­ presentazioni di testi antichi, ma anche in sempre nuove riscrittu­ re (anche cinematografiche: si pensi al Pasolini dell'Edipo e della Medea) . Tra queste, un posto di primissimo piano occupano, con una presenza che non ha confronti per numero e qualità, le eroine della tragedia (o comunque del mito): basti qui ricordare la piu vi­ tale di tutte, Antigone,44 e, almeno, alcune protagoniste di Girau­ doux: l'amorosa e inaccessibile Alcmène di Amphitryon 38 (1929) , l'arida e cinica Hélène affrontata dalle donne troiane in La guerre de Troie n'aura pas lieu (1935) e l'inquietante Electre 45 del dramma omonimo (1937) . 42· Ibid. 43· Un primo utile orientamento: P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, trad. it. Torino, Einaudi, 1976. 44· Cfr. Molinari, Storia di Antigone, cit. 45· Da non dimenticare, in proposito, l'interessante ripresa psicoanalitica di Euge­

ne O'Neil nella trilogia Mourning Becomes Electra (« Il lutto si addice a Elettra », del 1931). Recentissima è la brillante ricostruzione della fortuna sulle scene del melo­ dramma di un'altra di queste « eroine »: C. Questa, Semiramide redenta. Archetip i, fonti classiche, censure antropologiche nel melodramma, Urbino, Ed. QuattroVenti, 1989. Segnalo infine la Fedra di Marina Cvetaeva, composta nel 1926-27, pubblicata a Parigi nel 1928, ma riscoperta solo dopo la riedizione in Unione Sovietica del 1980 (trad. it. a cura di L. De Nardis, Roma, Bulzoni, 1990).

ROBERTO GUERRINI

L'ARTE FIGURATIVA I. « l VENERATI VOLTI DEGLI ANTICHI ». VIRGILIO E I CICLI UMANISTICI DEGLI UoMINI FAMosi Quisquis ad ista moves Julgentia limina gressus priscorum hic poteris venerandos cernere vultus, hic pacis bellique viros, quos aurea quondam Roma tulit caeloque pares dedit inclita virtus. Grandia si placeant tantorum gesta virorum, pasce tuos inspectu oculos et singula lustra.1

Cosi suonava l'epigramma di Francesco da Fiano (= Anth. Lat. Riese 831) che introduceva alla Sala degli Imperatori {o dei Gigan­ ti) nel Palazzo Trinci a Foligno.z Varcate « le soglie luminose >>, lo spettatore era invitato ad ammirare i « venerati volti degli antichi >>, gli eroi antichi che si susseguivano sulle pareti. In tutto venti « Ro­ mani illustri », da Romolo a Traiano, ciascuno con il suo epigram­ ma {esastici, ma anche versi piu lunghi). Dopo Padova {Sala Viro­ rum Illustrium, Reggia Carraresca), Firenze (Aula Minor, Palazzo Vecchio), Siena {Taddeo di Bartolo, Anticappella del Palazzo Pub­ blico), un altro ciclo di Uomini Famosi, il modulo iconografico piu diffuso nell'arte profana del Quattrocento.3 Fin dall'inizio, a Foligno, l'elemento virgiliano era marcato. I. « Chiunque tu sia che muovi i passi a codeste soglie luminose, qui potrai mirare i venerati volti degli antichi, qui uomini di pace e di guerra, che l'aurea Roma un tem­ po generò e l'inclita virru innalzò al cielo. Se ti piacciono le alte imprese di uomini tanto grandi, pasci i tuoi occhi della vista ed ogni singola cosa scruta ». 2. Sugli epigrammi presi come antichi o tardo-antichi, confluiti nell'Antologia Lati­ na e schedati dal Thesaurus: R. Guerrini, Anthologia Latina 831-55d Riese. Per un'edizione critica degli epigrammi di Francesco da Fiano (Sala degli Imperatori, Palazzo Trinci, Foligno}, in « MD », xx-xxi 1988, pp. 1-14 (con bibliografia: vedi in particolare Bertalot, Salmi, Messini, Billanovich). 3· M.M. Donato, Gli eroi romani tra storia ed exemplum. Iprimi cicli umanistici di Uomini Famosi, in Memoria dell'antico nell'arte italiana, a cura di S. Settis, 11, Torino, Einaudi, 1985, pp. 97-149 (con ampia bibliografia).

ROBERTO GUERRINI Anth.

831: 3-4

VI 781 sgg.:



Aen. Il la incluta Roma l imperium terris, animos aequabit Olympo . 788 s�.: hane aspice gentem R o m a n o ­ s q u e t u o s . Hic Caesar et omnis Iuli l progenies m ag n u m caeli ventura sub axem l hic vir . l Augu­ stus Ca es a r, divi gen us, aurea c o n det l s a ecu­ la qui ru rsus L a tio regn a b i t p e r arva l Sa­ turno quondam. .

.

. .

Anth.

831 6:

hic temp lu m . . . Di do l con d e b a t . . . l a erea cui gra d i b us s u rge b a n t l limina . l . . . lustrat d u m singula . . . videt Iliacas ex o rd i n e p u ­ gnas . . . l s i c a i t animum pictura pascit inani. . .

Anth.

831 6



VIII 618 sgg.:

Aen.

.

a t q u e oculos per singula volvit l miratur l illic res Italas Romanorumque triumphos l . . . . genus omneJuturae l stirpis ab Ascanio pugnataque in ordine bella.4 . . .

Fondamentale il rimando al VI dell'Eneide, in particolare la Gal­ leria degli Eroi. Vero e proprio archetipo per i cicli degli Uomini Famosi, anche se il rilievo appare tutt'altro che chiaro per la co­ scienza critica. s Il visitatore di Palazzo Trinci dovrà porsi nella attitudine di Enea, che vede svolgersi sotto i suoi occhi la successione dei grandi eroi romani. Profonde in questo senso le consonanze con la Galle­ ria che si dispiega sui muri della Sala dei Giganti. Per l'impianto compositivo, la scelta dei personaggi, i modi della visione. I personaggi sono tutti esclusivamente romani. Niente artisti, fi­ losofi, poeti. 4· � la gloriosa Roma uguaglierà il suo dominio alla superficie della terra e il suo spirito all'Olimpo . . . esamina questa gente dei tuoi Romani. Qui è Cesare e tutta la progenie di Iulo che verrà sotto l'ampia volta del cielo. Questo è l'uomo . . . l'Augusto Cesare, figlio del divo, che fonderà di nuovo il secolo d'oro nel Lazio per i campi re­ gnati un tempo da Satumo »; « Qui Didone . . . fondava un tempio . . . a cui sui gradini sorgevano soglie di bronzo . . . mentre osserva tutto . . . vede per ordine le iliache bat­ taglie . . . cosi dice e pasce il cuore della vana pittura »; « . . e percorre tutto con gli oc­ chi, e guarda ammirato . . . qui le gesta italiche e i trionfi dei Romani e tutta la discen­ denza futura del sangue di Ascanio, e in ordine le guerre combattute » (tradd. di L. Canali). 5· R. Guerrini, Dal testo all'immagine. La "pittura di storia nel Rinascimento", in Memoria dell'antico, cit., pp. 43-93 (cfr. p. 73 n. 47). .

L 'ARTE FIGURATIVA Exc u d e n t a/ii sp ira n tia m o llius a era (credo e q u i dem), vivos ducent de m a r m o re v u ltus o ra b u n t causas m e lius caelique m ea tus descri b e n t ra dio et s u rgentia s idera dicen t : tu regere imperio populos, Romane, memento (hae tibi erunt artes) pacisque imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos.6 (Aen. VI 847-53)

Altri (i Greci in primo luogo) raggiungeranno la gloria nell'arte e la scienza, ai Romani spetta il dominio del mondo (la guerra-im­ perio) e l'amministrazione della pace, le leggi e le istituzioni civili (pacis imponere morem). Appunto pacis bellique viros, come scrive Francesco da Fiano nell'epigramma introduttivo. « Armati e toga­ ti », secondo il codice petrarchesco.7 Né le figure si susseguono in ordine cronologico, ma a gruppi. Re, imperatori, consoli. Una serie d'esempi, d'altra parte, la cui simbologia non varia molto da personaggio o gruppo. Pulchra pro libertate (Aen. VI 821), amor patriae laudumque immensa cupido (Aen. VI 822).8 Condottieri, dunque, morti per la difesa della patria, di cui hanno esteso i confini e la civiltà. Accanto ai temi marziali (i trion­ fi) non mancano le motivazioni civili e piu specificatamente mo­ rali. L'assenza di cupidigia, la continenza, la paupertas, lo scrupolo­ so rispetto delle istituzioni, il bene pubblico al di sopra di quello privato. A Foligno, comunque, è soprattutto il carattere militare ad essere posto in primo piano. La guerra, il coraggio, la conquista. Gli exempla, si sa, risultano sequenda aut vitanda, da ammirare o fuggire.9 La « ferza e il freno » di dantesca memoria. Nella serie al6. « Foggeranno altri con maggiore eleganza spirante bronzo, credo di certo, e trarranno dal marmo vivi volti, patrocineranno meglio le cause, e seguiranno con il compasso i percorsi del cielo e prediranno il corso degli astri: tu ricorda, o Romano, di dominare le genti; queste saranno le tue arti, stabilire norme alla pace, risparmiare i sottomessi e dominare i superbi » (trad. di L. Canali). 7· Petrarca, de viris (altri testi in Donato, Gli eroi romani, cit.). 8. « Per la bella libertà . . . (vincerà) l'amore di patria e l'immenso desiderio di glo­ ria » (trad. di L. Canali). 9· K. Alewell, Ueber das rhetorische napaòe1ypa, Leipzig 1913 (con varie definizioni e codificazioni dei retori antichi) ; H. Kornhardt, Exemplum. Bine beduetungsgeschichtliche

ROBERTO GUERRINI lora saranno presenti esempi negativi: Caligola.lO Elementi para­ digmatici e parenetici (Norden) 1 1 confluiscono in un'unica pro­ spettiva. Si realizza un pieno adeguamento tra antico e moderno. Foligno come Roma, la signoria dei Trinci erede dello stato an­ tico. L'influsso virgiliano si riverbera anche sugli aspetti figurativi. Publio Decio (1v = Anth. 836) sulla parete esterna si presenta con le mani giunte, gli occhi rivolti al cielo, la testa cinta da una bianca ben­ da. L'epigramma di Francesco da Fiano al v. 6 suona: ca n d i d a sacrata re liga tus te mp o ra vi t t a .

Virgilio (Aen. VI 66o sgg.) offriva per questo - testo e d immagine insieme - uno spunto preciso. Hic manus ob patriam pugnando vulnera passi quique sacerdotes . . . omnibus his n i v e a cing u n tu r temp o ra v i t t a .12

Il libro VI dell'Eneide appare cosi un punto di riferimento centra­ le per l'iconografia degli Uomini Famosi, nell'integrazione figura/ titulus, la collaborazione artista/poeta. Per la sua Galleria del resto il poeta antico sembra essersi ispirato ad opere figurative.B Di fat­ to gli eroi virgiliani, come potremo constatare anche in altri cicli, hanno una tale forza espressiva da trapassare con estrema facilità dal testo all'immagine e viceversa. Notevoli anche le differenze. L'arco cronologico, ad es., nella Studie, Gottingen I936; R. Guerrini, Studi su Valeria Massimo (con un capitolo sullafortuna nell'iconografia umanistica: Perugino, Beccafumi, Pordenone), Pisa, Giardini, I98I, con biblio­ grafia: cfr. pp. n sgg. Per il Medioevo e Rinascimento (storia, predicazione, letteratu­ ra): C. Bremond-J. Le Goff-J.C. Schmitt, L'exemplum, in Typologie des Sources du Moyen Age Occidental, 40, Turnhout, Brepols, I982; C. Del Corno, Exemplum e Letteratura, Bo­ logna, Il Mulino, I989. 10. L. Bertalot, Humanistiches in der Anthologia Latina, in "Rheinisches Museum", LXVI I9II, p. 73· II. E. Norden, P. Vergilus Maro, Aeneis Buch VI, Stuttgart I957\ pp. 3I2 sgg. I2. « Qui, a schiera, coloro che patirono ferite combattendo per la patria . . . e i sa­ cerdoti . . . a tutti corona le tempie una nivea benda » (trad. di L. Canali). I3. Norden, P. Vergilius Maro, cit. Per una bibliografia aggiornata sulla Galleria de­ gli Eroi cfr. Suerbaum in « ANRW », 11, 3I I I980, pp. 239 sgg.

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' L ARTE F I GURATIVA

Sala dei Giganti va ben al di là di Augusto, spingendosi fino a Traiano (qui si avverte probabilmente la suggestione di Petrarca, de viris illustribus) . Tutt'intorno a Romolo si formava cosi un'ampia sezione « cesarea », che era ben piii funzionale alle istanze della committenza, la signoria dei Trinci.14 Gli eroi di età repubblicana coincidono in gran parte con quelli virgiliani {oltre a Decio: Ca­ millo, Torquato, Scipione, Fabrizio, Marcello ecc.). Ma si avverto­ no vistose eccezioni, come Sceva

(r = Anth. 844), esempio estremo

difortitudo in Valeria Massimo, m 22, campione di esasperata aristia in Lucano, VI

140 sgg.ts La presenza della Farsalia traspare anche in = Anth. 845) e piu in generale si

altri personaggi (vedi Pompeo vm

deve probabilmente a Lucano (e Seneca tragico) il carattere « tru­ ce >), convulso, espressionistico, che si respira in tutta la Sala. Ugualmente significativi i rimandi ai libri I e V I I I dell'Eneide so­

(I 446 sgg. e 618 sgg). Nel primo caso la forte allusività del v. 6 dell'epigramma introduttivo (pasce . . . oculos et singula lustra)

pra indicati

avvicina lo spettatore ad Enea che osserva ogni singola rappresen­ tazione nel tempio della futura Cartagine ( lustrat . . . singula . . . ani­ mum pictura pasdt inani) .16 Nel passaggio a Palazzo Trinci si dissolve il pathos con cui l'eroe antico rivive le tristi vicende della patria (ve­ di la scomparsa di inanis) . Non « vane » e dolenti pitture offre la Sa­ la folignate, ma immagini di un passato che conserva la sua forza e validità. Un'intensa carica allusiva evoca anche il richiamo all'ottavo li­ bro (vv. A en. vm

618 sgg.: oum, Àa:M!oouo' où Àa:Àéov-reç

di Siena. Sulle Sibille nel Rinascimento esiste una bibliografia sterminata (il tutto con ìntegrazioni delle stampe romane 1470-74). Si ricordano: C. De Clercq, in « Bulletin de l'Institut Historique Beige de Rome », XLVIIl-XLIX 1978-79, pp. !05-27; Id., in «Jaar­ bock van het koninklijk Museum voor schoene Kunsten Antwerpen », 1979, pp. 7-65; Id., in « GutenbergJahrbuch &, 1979, pp. 98-n9; S. Settis, Le Sibille di Cortina, in Renais­ sance Studies in Honor of Craig Hugh Smith, 1989, pp. 437-57. A questi lavori si rimanda per ulteriori titoli. I 53· « Abbiamo detto della seconda natività, in cui si mostrò agli uomini nella car­ ne, veniamo a quelle opere mirabili, indizi della virru celeste, per cui i Giudei lo ri­ tennero un mago �. I54· � Facendo tutto con la parola, sanando ogni infermità » {vm 272 - 15 9). 303

ROBERTO GUERRINI MORTUORUM SURREC110 erit et claudorum cursus velox.

Surdus audiet, caeci videbunt, loquentur non loquentes.155

La Sibilla Cumana al centro in primo piano, nel cartiglio che porta intorno alla vita, presenta la scritta MORTUORUM SURREC­ T/0.

Segue in Lattanzio il miracolo della moltiplicazione dei pani a cui ugualmente rinvia il canto della Sibilla (vm 275 sgg. 15 18). �

ÈX o'àp'tWV aj.l.a 1tévn: xaì ix�iioç dvaÀl0\0 " àvopwv XtÀtcioaç ev epfJIJ. 1téne xopéooet XIXÌ 'tà 1tEptoOEUOV't!X Àapwv j.LE't!XXÀcXOj.LIX't!X 1tcXV't(X OWOEXIX 1tÀT)pWOEt xov àTioÀiioet

FLUC{TUS) perambulabit, morbos hominum resolvet.157

Pare evidente che FLUC che si legge nel cartiglio della Persica vada riferito a questa profezia: FLUCTUS perambulabit. Al verso citato si collegano altri due, che probabilmente sono 155. « I morti torneranno in vita e gli zoppi correranno velocemente. Il sordo udi­ rà, i ciechi vedranno, quanti non parlano parleranno ». 156. « Con cinque pani e due pesci, sazierà nel deserto cinquemila uomini, e to­ gliendo i resti di tutte le briciole, riempirà dodici panieri per la speranza di molti ». Il testo greco {vedi Brandt, ad loc.) presenta molte varianti: in età umanistica reca Ì;(iJUEO\ OUOlV. 157. « Camminerà sopra le acque e guarirà le malattie degli uomini ».

304

' L ARTE FIGURATIVA

stati connessi alla Delfica, nel cui cartiglio sembra di poter leggere VIVIFICABIT MORTUOS e non IUDICABIT, come trascritto negli studi sul Perugino e sul Cambio. I due versi infatti suonano: 01:tl0Et 1:EbVT]C)1:(tç, àTCWOE'I:a\ ii:À.yta TCOÀÀ.à: èx òè J.Lti'jç rcilpT]ç &p1:ou x6poç éooe1:at àvòpwv.

VIVIFICABIT MORWOS, arcebit dolores a multis. Ex vivo fonte potus satietas erit viris)58

Anche le Sibille, se si interpretano correttamente le allusioni che derivano dai cartigli,159 rinviano alla Nascita e alla Trasfigura­ zione sulla parete di fondo. FLORESCET della Libica rimanda alla natura umana del Cristo, che nascerà dalla stirpe di David, le altre scritte alla natura divina quale si manifesta attraverso i miracoli. Tutta la decorazione converge, culmina nella figura e l'opera del Cristo. Attraverso Lattanzio è ora possibile capire in modo con­ creto e culturalmente funzionale qual è il filo conduttore che ha ispirato la concezione del programma. Alla fine del terzo libro delle Institutiones lo scrittore cristiano sintetizza sulla base delle argomentazioni svolte come i filosofi an­ tichi non siano stati in grado di raggiungere la verità (neppure So­ crate, che compare nella parete di sinistra fra gli Uomini Famosi dell'Antichità). Solo il Cristo ha rivelato la verità e attuato la giusti­ zia. La Sua è la vera religione, la vera sapienza, la vera giustizia. Deus et homo, la sua venuta e i suoi miracoli sono stati preannuncia­ ti molti secoli prima, dai profeti e le Sibille. La prospettiva che anima il programma del Cambio mi pare ora ben definita. La grande cultura antica, con gli eroi esemplari delle virti:t cardinali, è insufficiente di per sé ad ispirare quella giustizia 158. « Rianimerà i morti, scaccerà i dolori da molti, attingendo ad una viva fonte vi sarà sazietà per gli uomini » (uno fonte, ed. romana 1470-74). Anche qui non esiste pre­ cisa corrispondenza tra testo greco e latino. 159. Non è possibile in questa sede affrontare altri problemi, pure di grande rilievo come il numero e il nome delle varie Sibille con i tituli a loro assegnati, o anche la questione di grande rilievo legata alla traduzione latina dei Carmina Sibillini e alla sua circolazione. Questi ed altri temi saranno esaminati in lavori successivi. Per il mo­ mento ci pare sufficiente aver definito la fonte per questa sezione del programma che assume un'importanza centrale per l'intera decorazione.

ROBERTO GUERRINI che i magistrati devono applicare nella Sala dell'Udienza.160 Tutti, grandi eroi dell'antichità, profeti, sibille, hanno nel Cristo, al cen­ tro della parete di fondo, colui che realizza definitivamente le aspirazioni piu nobili ed alte della Storia. Se come è largamente probabile, fu Maturanzio a dettare il programma della Sala, la con­ clusione che sta emergendo, acquista ancora piu forza. È noto in­ fatti che l'umanista perugino aveva in Lattanzio il suo modello e la sua fonte d'ispirazione.

160. Il tema della giustizia è centrale nell'Udienza del Cambio (Guerrini, Studi su Valerio Massimo, cit.) . Lo stesso tema ricorre insistentemente nel libro IV di Lattanzio. Su Maturanzio come « novello Lattanzio » : G. Zappacosta, Francesco Maturanzio uma­ nista perugino, Bergamo 1970.

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CESARE QUESTA

ROMA NELL'IMMAGINARIO O PE RISTI C O * Roma e la sua storia hanno un posto grandissimo nell'immagina­ rio dell'opera in musica dalla nascita del genere alle soglie del Ro­ manticismo: ma è di ier l'altro l'Attila di Verdi (Venezia, La Feni­ ce, 17 m 1846), che porta in scena Ezio 'ultimo dei Romani'; sono di ieri un Nerone di Mascagni (Milano, Scala, 16 I 1935) e un Giulio Cesare di G.F. Malipiero (Genova, Carlo Felice, 8 n 1936).! Consi­ derata l'immensità del materiale, dunque, si è preferito scegliere cinque testi, esemplari di altrettanti momenti della storia del me­ lodramma, noti o notissimi al pubblico: quattro di essi, in partico­ lare, sono anche capolavori assoluti. I.

L' OPERA VENEZIANA DELLE ORIGINI. 'L'INCORONAZIONE DI PoPPEA' : TESTO DI G.F. BusENELLO (ED ALTRI) PER CL. MoNTEVERDI (ED ALTRI) 2

Nerone, innamorato corrisposto di Poppea Sabina, vuole sposarla ripu­ diando Ottavia, figlia di Claudio e Messalina; di Poppea è però vanamen­ te innamorato anche Ottone, a sua volta amato da Drusilla, una giovane Sono molto grato a Lorenzo Bianconi e Giovanni Morelli per suggerimenti e in­ formazioni bibliografiche tanto preziosi quanto amichevoli; Roberto Danese, Rena­ to Raffaelli, Emilio Sala sono stati dotti e pazienti revisori del dattiloscritto, che se ne è largamente giovato. I. Personaggi della storia romana compaiono anche dove il titolo dell'opera non consentirebbe di supporlo: nell'Arsace e Semira (libr. di G. Rossi, musica di F. Gnecco, Venezia, La Fenice, 1804) è coinvolto, con funzioni di deus ex machina, nientemeno che Pompeo Magno (cfr. C. Questa, Semiramide redenta. Archetipi,fonti classiche e censure antropologiche nel melodramma, Urbino, QuattroVenti, 1989, p. 268 n. 9). Le opere di soggetto romano, anche latamente inteso, dal 18oo ai giorni nostri, sono elencate e studiate da Danielle Porte, Roma diva, Paris, Les Belles Lettres, 1987 (su cui cfr. C. Questa, in « Maia », a. XL 1988, pp. 314-17). 2. Libretto e musica dell'Incoronazione di Poppea presentano complicati problemi di cronologia, tradizione manoscritta e attribuzione (parziale, e persino totale): vedi Appendice. Qui e li tengo presenti, anche dove non esplicitamente richiamati: L. Bianconi, Il Seicento, Torino, EoT/Musica, 1982; P. Fabbri, Monteverdi, Torino, EDTI Musica, 1985; Id., Il secolo cantante, Bologna, Il Mulino, 1990; la prefazione di A. Curtis *

CESARE QUESTA patrizia. Poppea, aiutata dalla nutrice Amalta, usa ogni lusinga amorosa per ottenere da Nerone le nozze e il trono, ma Ottavia non è da meno: con l'aiuto della propria nutrice istiga Ottone ad attentare alla vita di Poppea penetrando nel palazzo di costei travestito da Drusilla. Ma nulla si può opporre al capriccio di Nerone e Poppea: Seneca, dopo un dram­ matico scontro con l'imperatore, è costretto da Nerone a suicidarsi dietro istigazione dell'amante; Ottone e Drusilla vengono scoperti e, confessato l'intrigo dietro minaccia di tortura, sono banditi nel piu remoto angolo dell'impero. Il fallito attentato consente adesso a Nerone di ripudiare Ot­ tavia e farla allontanare su una nave in balia dei venti; Poppea ottiene nozze e corona e, dopo la cerimonia, essa e Nerone celebrano senza rite­ gno la loro passione delittuosa.

Primo melodramma di ambiente storico, L'incoronazione porta in scena personaggi già immortalati, nel bene e nel male, dalle pa­ gine degli Annales di Tacito (11. XIV-XV in particolare), anche se l'i­ potesto 3 di Busenello deve additarsi con sicurezza nell'Octavia dello Pseudoseneca (che certo il letterato veneto credeva autenti­ ca), talora seguita da vicino come nella contesa sticomitica tra Ne­ rone e Seneca (Incor. I 9 Oct. 439-592) e in ogni caso causa effi­ ciente di un nodo strutturale importante quale la presenza delle due nutrici (cfr. Oct. 35 sgg. e 690 sgg.). Ma per l'appunto Seneca e Tacito sono i grandi auctores della cultura retorica e storica del Sei­ cento, largamente messi a frutto nei loro ricchissimi spunti anche negli ambienti dei 'libertini' dell'Accademia degli Incogniti, di cui �

all'edizione critica dello spartito: Cl. Monteverdi, L'Incoronazione di Poppea . . . , text by G.F. Busenello, music attributed to Cl. Monteverdi and F. Sacrati, edited by A.C., . . . , London-Sevenoaks, Novello, 1989, pp. v-xx. (Poiché, come noto, in ogni melodram­ ma libretto stampato e testo musicato piu d'una volta divergono, in questa trattazione citerò di regola il primo giusta l'edizione di volta in volta menzionata, riferendomi invece al secondo con il nome del compositore). 3. Per ipotesto intendo con Genette (Palimpsestes, Paris, Éditions du Seui!, 1982, pp. n-14) il testo sulle cui caratteristiche peculiari un testo successivo basa la propria esi­ stenza, senza farne necessariamente il proprio modello e senza necessariamente par­ lare di esso o citarlo. Per archetipo (o testo archetipale) intendo invece il testo in cui si riconosce l'inizio di una determinata tradizione di contenuti o modi espressivi, come, per es., il monologo di Medea in Seneca (cfr. oltre, p. 340). È quindi evidente che un testo archetipale si presenta come ipotesto, piu o meno 'forte' e decrittabile, nel corso della sua fortuna (del tutto diverso l'uso di 'architesto' in Genette, Introduzione all'ar­ chitesto, trad. it., Parma, Pratiche, 1981, pp. 68-72).

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ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO

Busenello faceva parte (cfr. n. 9 e Appendice). Ciò premesso, oc­ corre dire che il poeta si è mosso nei confronti della tradizione sto­ rica con grande e consapevole libertà. Drusilla, e cosi le due nutri­ ci, sono personaggi inventati e ben poco resta del 'triangolo' Nero­ ne-Ottone-Poppea, di cui ci informano le pur severe pagine di Ta­ cito (hist. I 13 e ann. xm 45-46) : Nerone gli pose fine spedendo si Ottone alla periferia dell'impero, ma sotto le onorevoli specie di legatus Augusti della Lusitania (nel s8 d.C., e non nel 65, anno in cui si devono immaginare svolti gli avvenimenti dell Incoronazione) Ma è soprattutto nei moventi dei personaggi che Busenello ha in­ novato. Nerone e Poppea sono travolti da sensualità irrefrenabile, come si vede dal primo apparire in scena (I 3) alla fine di una not­ te d'amore: '

.

PO. Signor, deh non partire, sostien che queste braccia ti circondino il collo, come le tue bellezze circondano il cor mio. NE. Adorati miei rai, deh restatevi homai. Rimanti, o mia Poppea, cor, vezzo, luce mia. non temer, tu stai meco a tutte l'hore, splendor negli occhi, e deità nel core.

E si veda in quali modi Poppea, poco dopo, sappia rievocare gli stessi eventi, cosi da ottenere piu facilmente da N ero ne la vita di Seneca, reo di opporsi a lei (I ro) : PO. Come dolci, Signor, come soavi riuscirono a te la notte andata di questa bocca i baci? NE. Piu cari e piu mordaci. PO. Di questo seno i pomi? NE. Mertan le mamme tue piu dolci nomi. PO. Di queste braccia mie gli stretti amplessi? NE. Idolo mio, deh in seno ancor t'havessi.

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CESARE QUESTA

Il melodramma (e in particolare l'opera italiana o di stile italiano) risulterà, con il procedere del tempo, sempre piu censurato e ospi­ terà, nel genere serio, solo amori supremi o terribili, ma comun­ que sublimati, a ciò adeguandosi il lessico dei libretti in particolare dopo la 'riforma' di Zeno e Metastasio. Certo è che di testi siffatti non ne incontreremo piu, né piu si darà una musica impregnata di tanto erotismo come quella scritta da Monteverdi qui e altrove in quest'opera. Accanto a Poppea, e a lei contrapposta, Ottavia, di cui la tradizione antica, ivi compresa la tragedia dello Pseudoseneca, fa unanime la vittima innocente del capriccio neroniano aizzato dalla rivale: quasi un'eroina donizettiana ante litteram, si direbbe, e in ogni caso eroina positiva travolta dal gioco crudele di potenti senza scrupoli.4 Busenello invece fa ordire a Ottavia, senza esita­ zione, l'assassinio della rivale; essa si serve di Ottone che minaccia - perfettamente consapevole di quel che sta compiendo - di ca­ lunniare presso Nerone: se tu non m'obbedisci, l t'accuserò a Nerone l ch'abbi voluto usarmi l violenze inhoneste (n 7 Mont. = n 9). Una Fedra dunque, ben rapportata al desolato e cinico universo morale della vicenda,s che dimostra comunque come il melodramma appena nato già stesse dandosi le leggi che lo avrebbero governato per piu di due secoli: fra esse quella secondo cui due eroine compresenti nella medesima vicenda d e v o n o scontrarsi contendendosi un uomo; se qui lo scontro è ancora a distanza, verrà il giorno dello scontro diretto, comunque risolto, tra Norma e Adalgisa, Anna e Jane Seymour, Aida e Amneris (resta però caratteristicadell'Incoro­ nazione la negatività di entrambe le eroine). L'Incoronazione fissa un'altra legge operistica: la vicenda di ambiente storico non solo mescola con libertà personaggi veri e di fantasia, ma il mevente 4· Basti rinviare a Tacito, ann. xm 12 1-2, 16 4, XIV 6o 1-5, 61-64; Suetonio, Nero 35 I3· L'addio di Ottavia a Roma (Incor. m 6) è per certo ispirato da Tacito, ann. XIV 63-64 e può essere additato come esempio di passaggio dalla diegesi alla mimesi (si tenga pre­ sente anche Oct. 877-982, un testo peraltro molto piu debole) : si tratta di uno stupen­ do 'lamento', un genere musicale allora assai in voga, dai netti caratteri monteverdia­ ni e di sicuro fonte di grande successo per la celebre Anna Renzi, prima Ottavia: vedi Curtis, ed. cit., p. 223 n. 1 e, qui, l'Appendice. s. In questo si deve scorgere, con ogni probabilità, un'influenza molto sensibile dell'Accademia degli Incogniti: vedi oltre, n. 9 e l'Appendice.

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che fa agire costoro è la passione amorosa, che quasi non lascia spa­ zio ad altre motivazioni. In tutta la vicenda, infatti, mai Busenello parla della congiura di Pisone né con questa è minimamente posta in relazione la morte di Seneca: Nerone, anzi, celebra in un famo­ so Duetto con Lucano la morte del filosofo (da lui voluta solo per­ ché Seneca è contrario alle sue passioni) e, in una, le bellezze di Poppea (n 5 Mont. n 6).6 Tutto ciò, come naturale, giunge però a compimento solo con la musica e nella musica e con pieno ossequio alle convenzioni del­ l'epoca. Cosi, se Poppea e Ottavia furono interpretate da donne, quella di Nerone sembra parte destinata ad un evirato che avesse, si, una voce piu o meno avvicinabile in estensione a quella del no­ stro soprano l mezzosoprano donna, ma dalle caratteristiche tim­ briche complessive fortemente straniate ed in ogni caso lontanissi­ me da ogni 'verità psicologica' romantica o moderna 7 {anche in questo l'Incoronazione sembra alle origini della convenzione che nell'opera seria, sino alla fìne del Settecento, vuole un evirato, spesso contraltista, ma, se caso, anche sopranista, nella parte dell'e­ roe amoroso: solo che, in seguito, questo eroe sarà positivo in mo­ do esemplare).B La musica comunque (e solo alla musica, come =

6. Nell'edizione a stampa del libretto curata da Busenello stesso (vedi Appendice) la Scena è piu ampia e con Nerone cantano anche Petronio e Tigellino (solo Lucano, però, sembra previsto dal testo musicato). 7· Gli interpreti della prima assoluta ci sono noti solo in parte: sicura la presenza di Anna Renzi come Ottavia, viene ritenuto probabile che Anna Di Valerio cantasse la parte di Poppea e l'evirato Stefano Costa quella di Nerone (ma vedi questa nota, piu oltre). Si aggiunga che, se era uso dell'opera veneziana affidare le parti di nutrice-ruf­ fiana, e in genere quelle buffe, a voci maschili (di tenore), non è però detto che questo avvenisse anche per il personaggio della nutrice di Poppea, Arnalta, cui Monteverdi ha dato un famoso brano ( Oblivion soave . . . : II IO Mont. = II 12) , per il quale sembra già lecito usare il termine di Aria. Quanto alla parte di Nerone, va detto che un'autorità come Nino Pirrotta ha recentemente suggerito (Forse Nerone cantò da tenore, pross. ne­ gli Atti del Convegno Intern. 'Ruoli' e 'parti' nell'opera [Venezia, Fondazione Cini, I012 IX 1990]) che almeno nell'edizione originale potesse essere stata eseguita da un te­ nore (la tessitura va dal Re3 al Sol4), la cui voce, piu timbrata e virile, si sarebbe cosi ben distinta da quella di Ottone, sicuramente voce bianca di contralto; solo in segui­ to, in occasione delle riprese cui risalgono le due partiture superstiti dell'Incoronazione (cfr. Appendice), Nerone avrebbe cambiato registro, cominciata com'era la fanatica ammirazione per i cantori evirati. 8. Come ben noto, fartisi rari e poi scomparsi gli evirati, le parti di eroe amoroso,

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sempre, va ogni merito) avvolge sinuosamente il testo di Busenel­ lo, che in essa 'si scioglie', e dà vita alla vicenda, culminante in quel duetto Pur ti miro l Pur ti godo che - nell'ambito della struttu­ ra sintagmatica in cui consiste ogni testo teatrale - sigilla con colo­ riti shakespeariani il trionfo degli amanti malvagi.9 Un cenno a sé merita il personaggio di Seneca. Busenello non deve aver mancato di notare, in Tacito e in altri testi a lui noti, l'al­ ternanza di luci e di ombre attorno al filosofo e di ciò un'eco si ha nella parlata del Valletto in I 6, dove la caricatura tocca, si, in modi popolareschi i filosofi in generale, ma dove Seneca è pur detto mi­ niator di bei concetti, definizione non infelice quanto ironica del Cordovese e della sua prosa ad effetto.10 Ma è un momento soltan­ to, perché nello scontro con il tirannico Nerone (I 9) Seneca è di . . .

. . .

nell'opera italiana o di stile italiano, passarono a contralti donne 'en travesti', sebbene fosse già iniziata la marcia irresistibile della voce tenorile: si pensi ai rossiniani Tancre­ di, Arsace, Calbo (ma già diverso è ormai il codice vocale del Rossini 'napoletano'). 9. Faccio mie, come si vede, le eccellenti osservazioni del Bianconi, Il Seicento, cit., p. 196. Nello spettacolo, il significato, il senso di una Scena viene determinato dalla collocazione sintagmatica, e ciò tanto piu trattandosi di uno spettacolo dominato dal­ la musica, cioè da un'arte di per sé asemantica: sicché un testo nato per celebrare l'in­ nocente gioia sensuale di due giovani, riconosciuti principi e legittimi sposi (vedi Ap­ pendice), veicola senza difficoltà messaggi sinistri al termine di una vicenda come quella dell'Incoronazione: di per sé nulla osterebbe, da questo punto di vista, a che la musica eseguita alla fine dell'Incoronazione fosse, in ipotesi, quella della prima intona­ zione del Duetto (dovuta, sembra, a Benedetto Ferrari 'della tiorba': vedi Appendi­ ce). L'intreccio dell'Incoronazione può ben essere commentato con le parole che Bian­ coni riserva alla Finta pazza (L. Bianconi, 'Lafinta pazza' ritrovata, in AA.W., Lafinta pazza . . , musica di Francesco Sacrati, Progr. di Sala del Gran Teatro La Fenice, Vene­ zia, s. i. e., 1987, pp. 967-81): « critica libertina contro l'autorità, contro la religione (buona tutt'al piu per tenere a bada la plebe tumultuaria), contro la morale, irrisione del mondo dei valori, cinica scellerataggine e doppia morale s'intrecciano in questo come negli altri libretti d'opera degli Incogniti . . . Il colpo grosso degli Incogniti sarà, di li a due anni (la Fintapazza è del r641], il drammone storico della Poppea: dalla loro parte hanno nientemeno che il maestro di cappella della Repubblica, Claudio Mon­ teverdi • (la cit. da p. 979; sui 'libertini' veneri e gli Incogniti cfr. almeno G. Muresu, Chierico e libertino, in AA.W., Letteratura italiana. v. Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 904 sgg.). L'assenza di motivazioni politiche nell'agire dei personaggi non signifi­ ca affatto che lo spettacolo non veicoli, come grande metafora, precisi messaggi di po­ litica e di costume: questa è, anzi, una costante dello spettacolo operistico di genere serio, ma ritenerlo suo scopo precipuo sarebbe grottesco (e moltiplicherebbe, quod di prohibessint, le regie marxoidi 'alla Luca Ronconi', cioè ispirate a spregio e ignoranza della musica e del canto). 10. Ma ancora piu pungenti sono le critiche a Seneca nel dialogo tra i due Soldati in .

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eccelsa grandezza musicale, che culmina nella irresistibile climax vocale e drammatica la ragione, la ragione regge gli uomini e gli dèi: 11 9' I l

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La morte di Seneca è collocata da Busenello in una villa del filoso­ fo, suggerita certo dalle notizie della tradizione antica, e in partico­ lare di Tacito, circa la sua retraite: 13 Seneca definisce la corte insolenI 2, i quali, rievocata la trascuratezza che Nerone nutre per gli affari di stato (Busenel­ lo utilizza liberamente Tacito, ann. xv 12 e 17; Suetonio, Nero 39 1) , definiscono Serre­ ca, che credono uomo di fiducia del principe, vecchion rapace e volpon sagace e, come non bastasse, empio architetto l che sifa casa sul sepolcro altrui. Busenello, a dir poco, tiene pre­ sente ancora una volta Tacito (ann. xm 42-43) , dove lo storico antico, se cosi può dirsi, ha 'condensato' gran parte delle notizie ostili a Seneca presenti nella tradizione, met­ tendole tuttavia in bocca ad uno spregevole delatore (avrebbero forse lo stesso signi­ ficato, qui, i pettegolezzi di caserma dei due Soldati diBusenello ?) : vedi C. Questa, Stu­ di sullefonti degli 'Anna/es' di Tacito, Roma, Ediz. dell'Ateneo, 19632, pp. 175-207, 224-26. n. Su alcune caratteristiche di questo Duetto vedi anche Curtis, ed. cit., p. 77 n. 1. 12. Secondo quanto diverrà prezioso patrimonio del codice espressivo melodram­ matico, Monteverdi ripete liberamente parole del testo, quelle che due secoli dopo Verdi chiamerà 'parole sceniche': cosi il testo di Busenello (la ragion regge gl'huomini e gli Dei) diventa una volta la ragione, la rag i o n e reggegl'uomini e gli dei (si noti anche l'u­ so della forma piena, musicalmente esaltata dal corrispondere ad una nota di ogni sin­ gola sillaba) e un'altra (hoggi, hoggi Poppea sarà mia moglie) oggi, oggi, oggi Poppea sarà mia moglie, sarà mia moglie (dove noteremo la triplice anafora all'inizio e la ripetizione della frase ostinata di Nerone, messa in rilievo dal ricorrere, alla conclusione, di note di va­ lore maggiore rispetto alle precedenti). 13. Vedi ann. XIV 56 3 e xv 60-64 (che Seneca abbia ricevuto l'ordine di morte men­ tre, di ritorno dalla Campania, sostava quartum apud lapidem suburbano rure è detto chia­ ramente da Tacito, ann. xv 6o 4) . L'elogio del ritiro agreste è anche in Oct. 381 sgg.

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CESARE QUESTA te e superba, cui preferisce la solitudine amata} eremo della mente (n r). La musica delle prime tre Scene del secondo Atto ha caratteri di nobiltà infìnita,14 e i modi che il musicista ha riservato al filosofo possono anche apparire a noi, oggi, la migliore integrazione ideale di quelle estreme parole di Seneca che Tacito dichiara di non aver parafrasato nella sua narrazione perché note a tutti.15 Nessuna eco ha invece in Busenello il 'maraviglioso' dell'appa­ rizione dell'Ombra di Agrippina, brano a grande effetto dell'Oc­ tauia (vv. 593-645). Ma poco dopo le cose andranno diversamente. Niccolò Minato (prima metà del Seicento - dopo il 1698) concepi nel r667 un'opera di soggetto romano in due parti, Prosperità di Elio Seiano e Caduta di Elio Seiano, per la musica di Antonio Sartoria (r62o?-r68r), rappresentata a Venezia nel r667 (Teatro S. Salvatore o Vendramino). La prima parte si chiudeva con un fulmine che, cadendo sull'altare, impediva le nozze di Seiano e Livilla e prece­ deva immediatamente l'apparizione dell'Ombra di Druso minore (assassinato, secondo un rumor che Tacito non nasconde, dall'intri­ go criminale dell'uno e dell'altra: ann. IV ro-n); la seconda parte ri­ prendeva l'azione allo stesso punto con un Coro di sgomento (e poco importa che ragioni pratiche avesero impedito proprio la rappresentazione delle due parti in due serate successive).16 14- A ciò non osta per nulla il fatto che proprio II r sia una Scena che avrebbe alcuni caratteri stilistici non riferibili a Monteverdi: vedi Curtis, ed. cit., p. VII. rs. Cosi Tacito (ann. xv 63 3): et nouissimo quoque momento suppeditante eloquentia aduocatis scriptoribus pleraque tradidit, quae in uulgus edita eius uerbis inuertere supersedeo (« e soccorrendolo l'eloquenza anche al momento della fine, chiamati i segretari, dettò lo­ ro parecchio che, ben noto nella forma originaria, ometto di adattare qui »). Anche queste Scene costituiscono un bell'esempio di passaggio dalla diegesi alla mimesi, do­ ve peraltro - come sempre - il libretto è pretesto e sollecitazione della musica. In par­ ticolare quanto dice Seneca in Incor. II 3 (Itene tutti a prepararmi il bagno, l che se la vita cor­ re l come il rivofluente, l in un tepido rivo l questo sangue innocente io vuo' che vada l a impor­ porarmi del morir la strada) sembra ispirato, 'agudeza' a parte, da Tacito, ann. xv 64 : pos­ tremo stagnum calidae aquae introiit, respergens proximos seruorum addita uoce libare se liquorem illum Ioui liberatori (« alla fine entrò in una grande vasca d'acqua calda, di cui asperse i piu vicini tra gli schiavi aggiungendo che versava quel liquido in onore di Giove libe­ ratore »). r6. Vedi N. Pirrotta, Note su Minato, in AA.VV., L'opera italiana a Vienna prima di Me­ tastasio, Firenze, Olschki, 1990, pp. 141-42 (tutto il contributo è importante per la for­ tuna dei temi romani nell'opera veneziana del Seicento, sui quali fa osservazioni no­ tevoli anche il Fabbri, Il secolo, cit., pp. m sgg.). L'apparizione di trapassati (e anche di-

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ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO 2. L' oPERA BAROCCA. 'Gmuo CESARE IN EGITTo ' : TESTO DI N.F. HAYM (nA G.F. BussANI) PER G.F. HAENDEL 17 Dopo la battaglia di Farsàlo Cesare giunge in Egitto, dove i messi di To­ lomeo gli presentano, per ingraziarselo, il capo reciso di Pompeo, di fronte al quale Cesare inorridisce; Cornelia e Sesto, vedova e figlio di Pompeo, giurano di vendicarsi. Tolomeo e la sorella Cleopatra si conten­ dono il trono e questa si presenta a Cesare sotto la mentita identità di Li­ dia, una damigella di corte che il re, dice, vorrebbe spogliare di avite ric­ chezze: il dittatore, conquistato dalla bellezza della fanciulla, promette che appena sarà nella reggia le farà rendere giustizia. Sempre come Lidia, Cleopatra guida alla corte Sesto e Cornelia e subito Tolomeo concupisce quest'ultima: la fa pertanto chiudere nel serraglio e fa imprigionare Sesto che l'ha provocato. Achilia, ministro di Tolomeo, assicura il re che lo sba­ razzerà anche di Cesare, ma volendo in compenso Cornelia, che desidera senza conoscere le intenzioni del suo sovrano: Tolomeo finge di accon­ discendere. Cleopatra intanto fa in modo che Cesare si incapricci sempre piu di lei e la sua vera identità si scopre solo quando i congiurati, guidati da Achilia, cercano Cesare per ucciderlo: questi si salva gettandosi nel mare sottostante al palazzo reale. Achilia però, cui Tolomeo ha negato Cornelia, passa dalla parte di Cleopatra, le truppe della quale sono scon­ fitte da quelle del re: Cleopatra stessa è prigioniera del fratello e non le resta che compiangere la sua sorte. Scampato ai congiurati, Cesare appro­ da alla spiaggia dove trova Achilia morente dopo la battaglia perduta: questi, per estrema vendetta, gli svela un passaggio segreto che conduce alla reggia di Tolomeo; a Cesare si uniscono Sesto, liberato dagli amici di Cleopatra, e Nireno, fedele confidente di questa. Tutti giungono im­ provvisi nella reggia: Cesare libera Cleopatra e Sesto fa in tempo a difen­ dere la madre dalle concupiscenze di Tolomeo, che uccide. Nell'ultima Scena Cesare incorona Cleopatra regina d'Egitto e il loro Duetto d'amo­ re conclude l'opera.

Come di norma avviene per i libretti delle sue opere londinesi, Haendel ha utilizzato un libretto veneziano del secolo preceden­ te, rivisto - e cioè semplificato rispetto al complicatissimo originavinità ctonie) diverrà uno dei piu visitati foci communes operistici e non solo per la sua intrinseca spettacolarità: sulle 'radici profonde' di tali scene vedi ora R. Raffaelli, Va­ riazioni sul Don Giovanni, Urbino, QuattroVenti, 1990, pp. 30-36, 97-127 (e passim) . 17. Giulio Cesare l in Egitto. l Drama. l Da rappresentarsi l nel Regio Teatro l di Hay­ Market, l per I la Reale Accademia di Musica. l In Londra: l per Tomaso Wood nella Piccola Bretagna. l M.occ.xxiv. Il nome di Haym risulta dalla dedicatoria alla Principessa di

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le - da N.F. Haym (1679-1729), un letterato italiano di origine te­ desca. Nel retractare Bussani ts Haym ha conservato la struttura ge­ nerale, cioè i Recitativi che fanno procedere l'azione, piu volte in­ vece sostituendo il testo delle Arie, che appaiono di stile piu sem­ plice e meno fucato dalle 'acutezze' secentesche di Bussani, e, so­ prattutto, piu adatte al nuovo stile musicale.19 Haym ha conserva­ to, dell'originale, anche l'At;gomento, cui però ha aggiunto il riferi­ mento alle fonti antiche, del tutto taciute dal Bussani: si legge questo fatto ne' Commentalj di Cesare, Libro 3 e 4, in Dione, Li­ bro XLII ed in Plutarco nella Vita di Pompeo e di Cesare. Tutti questi au­ tori certificano che Tolomeo, dopo essere stato vinto da Cesare, morisse nella battaglia, ma non è ben certo come; onde si è trovato si necessario in questo drama che Sesto Pompeo facesse la vendetta del padre, che si è Galles, nel corso della quale si fa anche il nome di Haendel come compositore, e l'o­ pera andò in scena il 20 II I724 con gli eccezionali interpreti di cui poteva disporre Haendel il quel momento: Francesco Bernardi, 'il Senesino': Giulio Cesare; Anastasia Robinson: Cornelia; Margherita Durastanti: Sesto Pompeo; Francesca Cuzzoni: Cleopa­ tra; Gaetano Berenstadt: Tolomeo; Giuseppe Maria Boschi: Achilia; Giuseppe Bigonzi: Nireno. Le caratteristiche della splendida parte di Cleopatra devono molto alla Cuz­ zoni, forse il primo 'soprano sfogato' (cioè, all'incirca, drammatico d'agilità) a noi no­ to: grande cantante, grande interprete, innovatrice della propria arte, fu la Callas dei suoi tempi (se ne raccontavano i capricci e alcune liti tremende con Haendel stesso, il cui carattere non era meno difficile). I8. Giulio Cesare l in Egitto l Drama per musica l nelfamoso Teatro Vendramino l di S. Salvatore. l l'Anno M.DC.LXXVII. l del Bussani l consacrato l a Madamoiselle l Madamoiselle l Grazia Higgons l . . . l in Venetia, M.DC.LXXVII. lper Francesco Nicolini. l con licenza de' Supe­ riori, e Privilegio. L'opera fu intonata da Antonio Sartorio e se ne conosce una ripresa milanese del I685, anch'essa nota ad Haym (cfr. C. Monson, 'Giulio Cesare in Egitto': from Sartorio (1677) to Handel (1724). in « Music and Letters », a. LXVI I985, pp. 313-43). n libretto del Bussani (I64o-dopo I68o) conobbe una lunga fortuna e dimostra l'interes­ se che il pubblico ha sempre riservato al tema Cesare l Antonio e Cleopatra: se ne contano almeno sei intonazioni diverse dal I728 al I770 (cosi U. Rolandi, in Endclope­ dia dello Spettacolo, II, I954, c. I406 s. v.); altre importanti osservazioni in Fabbri, Il secolo, cit., pp. I90 sgg., 283 sgg. I9. Ma alcune Arie hanno testo immutato, come quella di Cleopatra V'adoro pupil­ le . . . (n 4 I677 = n 2 I724). Un esempio famoso dà il Serse, fatto rappresentare da Haen­ del, nello stesso teatro, il I5 IV I738, che deriva da un libretto di N. Minato (Xerse), già intonato nel I654 da F. Cavalli e sfrondato per Londra da un ignoto, non diversamen­ te dal Giulio Cesare: il testo del famoso Larghetto di Serse (Ombra maifu l di vegetabile l cara ed amabile l soave piu) è rimasto invariato (I I Cav. = I I Haen.) e, curiosamente, le due musiche hanno qualcosa di simile, da riportare, certo, soltanto alla presenza del medesimo affetto (che invece Haendel possa aver conosciuto, a suo tempo, qualcosa, di Sartorio, è opinione del Monson cit. a n. I8). 316

ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO fatto ch'egli abbia ucciso Tolomeo, non variandosi l'istoria che nelle cir­ costanze dei fatti seguiti.2o

Il terzo ed il quarto libro dei Commentarii di Cesare sono, si capisce, il m libro del Bellum Civile ed il Bellum Alexandrinum, dai quali tut­ tavia tanto Haym quanto in precedenza Bussani hanno preso assai poco perché ben poco li c'era da prendere (Cesare e il suo conti­ nuatore, per es., parlano di Cleopatra nel modo piu ufficiale e ases­ suato che si possa immaginare, 'et pour cause': Beli. civ. m 103 2, 107 2; Beli. Alex. 33 2). Le vere fonti sono Dione e Plutarco, in particola­ re questi, che in Caes. 48-49 racconta il soggiorno egiziano di Cesa­ re con ampiezza di particolari coloristici, come l'arrivo di Cleopa­ tra negli appartamenti di Cesare nascosta entro tappeti arrotolati e il tuffo in mare del Dittatore per salvarsi. C'è poi, con ogni proba­ bilità, l'influsso taciuto di Lucano, il quale ha consegnato ai posteri un tentativo di raffigurazione tirannica di Tolomeo XIV21 e quel­ la, destinata a ben maggior fortuna, di Cleopatra come donna fata­ le, capace, nuova Elena argiva, di soggiogare il signore del mondo (anche se truccata in modo troppo vistoso,fardée insomma: immo­ diceJormam Jucata nocentem) .22 Dunque, a parte Nireno, personaggi storici coinvolti in una vicenda che rispecchia le fonti molto, ma molto alla lontana e, soprattutto, semplifica i moventi privilegian­ do l'amore (Cesare e Cleopatra), la vendetta (Sesto e Cornelia) o la 20. Ma non va dimenticata, quale 'licenza storica', la permanenza di Cornelia in Egitto e la sua prigionia presso Tolomeo, non meno importanti, nella trama, del desi­ derio di vendetta di Sesto (vedi oltre, nel testo). 21. Vedi per es. v 59, IX 278 1070 sgg. Ma Bussani va molto piu in là, facendo di To­ lomeo, secondo l'immaginario di un veneziano della fine del Seicento, una sorta di li­ bidinoso e crudele 'Gran Turco': Haym in questo non cambia nulla. Nell'ambito del­ l'attualizzazione va sempre ricordato che la Repubblica veneta tendeva fortemente a presentarsi come erede, per virm e potenza, della Repubblica romana e quindi a 'tra­ vestire' i nemici dell'una nei nemici dell'altra e viceversa; di qui il grande favore per soggetti presi dalla storia romana, vuoi come exempla di virm repubblicane, vuoi co­ me exempla antitirannici (e a questo serve bene la storia dell'Impero, vista antifrastica­ mente dal momento che l'Incoronazione di Poppea è l'inizio di una serie: vedi quanto osserva il Bianconi, Il Seicento, cit., pp. 188 sgg.). 22. Vedi Phars. x 137 (« ornando di troppo belletto la sua bellezza malefica •) e la descrizione dell'arrivo di Cleopatra e del banchetto (x 53-171, senza dimenticare i vv. 332 sgg.).

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concupiscenza tirannica (Tolomeo); inoltre Haym, sfrondando l'originale veneziano, spinge il libretto verso la 'pièce à sauvetage': Sesto e i suoi arrivano appena in tempo per salvare Cornelia dalle insistenze erotiche di Tolomeo, che - cosa assai rara nell'opera se­ ria sino alla fine del Settecento - è ucciso, e ucciso in scena.23 Quello che contava, per Haendel e per il suo pubblico, era invece la puntuale presenza di loci communes scenici che permettessero si­ tuazioni, e quindi Arie, animate da ben determinati affetti. Cosi furore o altro affetto 'agitato', di Sesto in I 5 Svegliatevi nel core lfurie d'un'alma offesa . . . oppure in n 6 L'angue offeso mai non posa . . . ; il compianto, di Cornelia in I 4 Priva son d'ogni conforto . . . o di Cleopa­ tra (due esempi sublimi: in I 8 Se pietà di me non senti . . . e in III 3 Piangerò la sorte mia . . .) . Poi Arie di affetto guerriero (Achilia in III I Dalfulgor di questa spada . . .) o che uniscono a un determinato affet­ to (per es. sospetto e cautela) determinate particolarità tecniche, come la presenza del Corno obbligato (Cesare in I 9 Va tacito e na­ scosto . . . , una cosiddetta Aria di caccia); oppure l'Aria con violino obbligato con cui Cesare corteggia Cleopatra (n 2 Se infiorito ameno prato . . .) . Ma Haendel ha sentito anche la maestosa grandezza del personaggio eponimo e l'ha affiancata con sicurezza al còté galante, ben noto anch'esso alle fonti antiche (Suetonio, Iul. 52), nei modi, si capisce, previsti dal linguaggio musicale del suo tempo, fra cui rientra pienissimo iure quella dell'evirato contraltista quale voce eroica e amorosa (la tradizione, del resto, mutatis mutandis, sèguita fino a Rossini: vedi n. 8). Si dà caso infatti che il melodramma, e quello barocco in particolare, consista nell'esaltazione e nella su­ blimazione metaforica dei sentimenti o, come allora si diceva, de­ gli 'affetti'. Questa operazione esclude qualunque rappresentazio­ ne realistica o, peggio, veristica dei moventi dell'agire umano, qua­ lunque 'trascrizione' dell'empirico vissuto. Si spiegano cosi da un lato la futura predilezione romantica per la voce maschile nella 23. In Bussani, invece, Tolomeo è soltanto fatto prigioniero e ammette tristemen­ te le proprie colpe: m 15-16 {ma nell'opera veneziana del Seicento i tiranni talora fini­ vano male: cfr. Fabbri, Il secolo, cit., pp. 199 sgg.). I finali tragici, tanto piu se con ucci­ sioni in scena, cominciano ad affacciarsi intorno al 1780: cfr. Questa, Semiramide, cit., pp. 149 sgg., passim.

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sua naturalità (tenore l baritono) in ruoli eroico-amorosi o anche malvagi (si pensi a Verdi e all'uso delle voci in Rigoletto),24 dall'al­ tro l'esclusione degli stessi timbri (tra l'altro, allora non ancora ben distinti) per gli stessi ruoli nel melodramma serio settecentesco. Orlando e Giulio Cesare, Serse od Orfeo non sono personaggi quotidiani, non si incontrano per la strada e quindi non possono parlare come i comuni mortali. Se nel teatro di parola Cesare od Orfeo devono esprimersi attraverso le maglie del decorum dello sti­ le sublime, nell'opera avranno la voce straniata e confetta, 'subli­ me' insomma, dell'evirato, che esprimerà con un gioco di dolcissi­ me acciaccature i dolori di Orfeo (Guadagni) o con vibranti, rapi­ de roulades di forza lo slancio di Cesare contro i congiurati egiziani

(n 8): Al lampo dell'armi l quest'alma guerriera l vendetta farà (Senesi­ no). Si tratta, in fondo, di una delle tante applicazioni, consapevoli o meno, dei grandi scherni della retorica classica, ma il mondo classico, e in particolare il teatro latino arcaico, suggeriscono altri confronti. In entrambi i tipi di teatro non esiste rapporto fra il ses­ so dell'attore e quello del personaggio: nel teatro latino (e in quel­ lo greco, del resto) tutte le parti erano affidate a uomini (non sap­ piamo se almeno quelle di giovine donna venissero riservati ad at­ tori giovani o a ragazzi, come nel teatro elisabettiano, ma parrebbe di no) e dunque Claudio Esopo fu celebre, ta l'altro, come Andro­ maca, e Sesto Roseio come Ballione e anche come Andromaca; 25 un primattore plautino come Publilio Pellione dobbiamo imma­ ginarcelo quale splendido Pirgopolinice nel Miles, ma anche men­ tre canta la grande Aria 'tragica' di Alcmena nell'Amphitruo (v. 633-

53).

Nel teatro barocco i sessi sono tre (e ancora di tre sessi parla,

un po' maliziosamente, Rossini nel colophon autografo della Petite 24. Il melodramma barocco, e, piu latamente, quello settecentesco non amano neppure troppo la voce di basso: usata splendidamente da Monteverdi (Seneca nel­ l'Incoronazione è basso cantante, Caronte nell' Oifeo la rarissima - oggi - voce di basso profondo), essa perde terreno e Haendel la usò soprattutto quando poté disporre del­ l'eccezionale Giuseppe Maria Boschi, per ìl quale già aveva scritto nel Rinaldo (r7n) un'Aria di incredibile difficoltà (Sibilar l'angui d'Aletto . . .) , che oggi però Samuel Ra­ mey ci ha rifatto sentire in modo stupendo: cfr. R. Celletti, Storia del belcanto, Firenze, La Nuova Italia, 19862, pp. 88-89. 25. Vedi questo repertorio, vol. m, pp. 164 n. 47, 167 n. so.

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CESARE QUESTA Messe), l'interscambiabilità dei quali è molto forte. L'evirato con­ traltista o sopranista,26 certo, è soprattutto legato ai ruoli di eroe amoroso, ma nei teatri che non ammettevano cantanti donne, ese­ guiva 'en travesti' parti di eroina (in genere innamorata): cosi era, per es., a Roma sia ai tempi del vecchio teatro di Tor di Nona sia in quelli piu recenti dell'Argentina (fìno alla Rivoluzione francese); e poteva darsi che un sopranista eseguisse tre quarti di un'opera in abiti maschili, per essere poi 'riconosciuto' donna (le tante Semira­ midi insegnano). D'altro canto il Settecento vede anche cantanti donne impiegate in ruoli maschili (e in questo caso piu d'una volta le locandine delle compagnie le denominano senz'altro 'primo uomo', con totale prevalenza della funzione scenica sul sesso reale dell'esecutore):27 a Napoli nel 1725, in una 'serenata'28 diJ.A. Has­ se, Antonio e Cleopatra, Vittoria Tesi cantò la parte di Antonio e il Farinello, 'divino' fra i 'divini' se mai vi fu, quella di Cleopatra . . . (un altro esempio di fortuna del tema egizio).29 Ma questa prassi esecutiva aveva dei singolari risvolti sul testo dei libretti e delle musiche. Poteva accadere, infatti, che un'Aria di un determinato affetto potesse servire ad esprimere, per es., costanza amorosa di 26. La sua denominazione corrente, certo eufemistica, era 'musico', ma corrispon­ deva anche ad una ben precisa realtà: il cantante evirato, infatti, era sempre dotato di una salda institutio musicale, che comprendeva ottima conoscenza di armonia e com­ posizione (e piu d'un evirato fu in effetti almeno discreto compositore di Arie: il Fari­ nello, per es., o Girolamo Crescentini, che ebbe a Napoli fra i suoi alunni Vincenzo Bellini, influenzandone, sembra, lo stile vocale). Gli altri cantanti, spesso eccezionali virtuosi, sembra che non di rado cantassero a orecchio, non diversamente dai moder­ ni esecutori di musica leggera. 27. È il caso, per es., di Anna Davya de' Bernucci che nel 1791 era 'primo uomo' al San Carlo di Napoli e nel 1792 alla Pergola di Firenze; ciò non le impediva di essere sta­ ta, in precedenza, acclamatissima 'prima donna' buffa e, negli stessi anni, 'prima donna' seria (tra il 1792 e il 1795 la troviamo a Genova quale Semiramide nella Morte di Semira­ mide di Borghi e nel 1792 canta lo stesso personaggio nella Vendetta di Nino di Prati). 28. Per serenata o festa teatrale si intendeva uno spettacolo non troppo lungo, di argomento quasi sempre mitologico, composto per celebrare, spesso allegoricamen­ te, liete ricorrenze della corte e del principe: per es. l'Ascanio in Alba di Mozart, su li­ bretto di Parini, rappresentato a Milano, Teatro Ducale, nel 1771, per le nozze del­ l'Arciduca Ferdinando con la principessa di Modena, Maria Beatrice d'Este (in questo libretto la figura di Venere, cui Parini dà qualche tratto lucreziano, adombra Maria Teresa). 29. Dà la notizia S. Durante, Il cantante, in AA.VV., Storia dell'opera italiana, IV, Tori­ no, EDT/Musica, 1987, p. 387.

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' ROMA NELL IMMAGINARIO O PERISTICO

un'eroina (interpretata da cantante donna) in un certo melodram­ ma, per trasmigrare in un altro ed esprimere lo stesso affetto di un eroe {interpretato da evirato). Cosi, per !imitarci a Haendel, nel Si­ roe re di Persia, melodramma di Metastasio ritoccato dal solito Haym,30 la Francesca Cuzzoni, a noi già nota, cosi cantò quale Laodice nel 1728 (m 12): Torrente cresciuto l per torbida piena se perde il tributo l del gel che si scioglie, fra l'aride sponde l piu l'onda non ha. Ma il fiume che nacque l da limpida vena se privo è dell'acque l che il verno raccoglie, il corso non perde, l piu chiaro si fa.

Ma quando nel 1736 andò in scena la terza versione del Poro (testo di Metastasio ed altri),31 Haendel attribui lo stesso testo, e la stessa musica, ad Alessandro ( n 8), interpretato da Gioacchino Conti, cioè il celebre sopranista Gizziello (o Egizziello). E ancora. Una considerazione di saggezza amorosa D'amor ne' primi istanti facili son gli amanti a farsi lusingar solo per vanità. Del merto lor l'4Jetto credono quell'affetto e il vanto voglion dar piu a sé che alla beltà

può ben trovarsi per Haendel nell'Imeneo3 2 in bocca all'eroe Tirin­ to interpretato dal mezzosoprano evirato Giovanni Battista An­ dreoni (1740) e riapparire nella Deidamia (1741) in bocca alla princi­ pessa Nerea interpretata da Maria Monza (n 3).33 E piace ricordare 30. L'opera andò in scena nel Teatro di Haymarket nel febbraio del 1728 (la Scena a p. 79 del libretto, London, s.i.e., 1728). Di questo e degli altri esempi haendeliani so­ no debitore alla cortese competenza di Franco Piperno. 31. Fu rappresentata al Covent Garden nel dicembre 1736 (libretto edito da Wood, London 1736). 32. Libretto di S. Stampiglia ed altri, edito da Wood. London 1740 (l'opera fu rap­ presentata al Lincoln's Inn Fìelds Theatre nel novembre 1740). 33· Libretto di P. Rolli, edito da Chrichley, London 1741 (la Scena a p. 27) : l'opera 321

CESARE QUESTA

che proprio nella Deidamia Achille era interpretato dalla Edwards Mozeen, la quale, per buona parte della rappresentazione, dove­ va . . . travestirsi da donna.34 Ma si noti che - accanto alla congruità e funzionalità del medesimo affetto a piu vicende sceniche dal momento che amanti saggi o incostanti possono trovarsi dovun­ que - i testi da noi presi in considerazione si distinguono per non recare in sé alcuna marca né di locutore né di destinatario. Que­ st'ultimo, poi, non è supposto né presente né assente: può star li in scena o esserne uscito un istante prima oppure 'essere presente' solo dal punto di vista psicologico. Tutto, insomma, è affidato alla contestualizzazione, alla struttura sintagmatica del continuum sce­ nico (ricordiamo le considerazioni fatte a proposito del Duetto fi­ nale dell'Incoronazione di Poppea). Orbene, fenomeni di questo gefu rappresentata al Lincoln's Inn Fields Theatre nel gennaio 1741. E un incipit di Aria agitata (Tra speme e timore l mi palpita il core) può essere comune ad Oberto in A/cina II 7 (libretto di A. Fanzaglia ed altri, London, Wood, 1735: l'opera fu rappresentata al Co­ vent Garden nell'aprile dello stesso anno e la parte fu cantata da William Savage, allo­ ra fanciullo con voce di soprano, poi basso e compositore assai noto) e, per restare in ambito quasi classico, a Tusnelda, moglie di Arminio, in Arminio III 5 (libretto di A. Salvi ed altri, London, Wood, 1737 [cfr. p. 35]: l'opera apparve al Covent Garden nel gennaio dello stesso anno e interprete della parte fu la celebre Anna Strada del Po, 'la Sttadina'). Anche troppo noto l'uso che Rossini fa di un festosissimo e lietissimo Ron­ dò: la musica serve ad Almaviva nel Barbiere (1816) per narrare la liberazione di Rosina dalle grinfie del tutore (II 10 Cessa di piu resistere . . .) ; nella cantata Le nozze di Teti e di Pe­ leo (1816) per gli auguri della dea Cerere a una coppia principesca (Se. 6 Ah, non potrian resistere . . .) ; nella Cenerentola (1817) per dirci il giubilo della protagonista che sale al trono sposa del principe (Non piu mesta . . . ). Nei primi due casi la musica è quasi iden­ tica, ma eseguita dal tenore nell'opera e da un soprano nella cantata; nel terzo caso i ritocchi sono stati piii sensibili, ma il nucleo principale non muta e Cenerentola ha voce di contralto. In tutte le occorrenze è però fondamentale il momento esecutivo, come ci hanno fatto comprendere, restaurando codici ottocenteschi, per es. le scintil­ lanti acrobazie, quale Almaviva, di un William Matteuzzi. 34· Ma questo è un vero -r61toç operistico, che Hoffmansthal e R. Strauss si sono di­ vertiti a rivisitare nel Rosenkavalier (1911): qui Ottavio, eseguito da mezzosoprano o soprano travestito da uomo, deve travestirsi . . . da donna nel III Atto (è ciò cui vorreb­ bero persuadere Cherubino, nel II Atto delle Nozze di Figaro di Mozart, Susanna e la Contessa: Strauss, come tutti sanno, 'rifà' Mozart). Si tenga a mente, peraltro, che questi ritrovati scenici non appartengono soltanto alla tradizione operistica: oggi si comincia ad aver chiaro il rapporto con il teatro gesuitico (in latino e poi in lingua moderna), terra incognita quanto mai feconda di importanti scoperte. Un acuto bilan­ cio del dare e dell'avere è ora formulato da E. Sala, Di alcuni caratteri del teatro gesuitico nella prima riforma del melodrammafra Sei- e Settecento, in Atti del Convegno 'I Gesuiti a Ve­ nezia' (Venezia, Fondazione Cirri, 2-5 x 1990), in corso di stampa.

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' R O MA N E L L I MMAG I NA R I O O PE R I S T I C O

nere avvenivano già nella prassi esecutiva del teatro romano arcai­ co. In altro volume di questo repertorio35 si è richiamata l'atten­ zione su un'importantissima testimonianza ciceroniana. Essa di­ mostra che un grande histrio come Claudio Esopo poteva estrapo­ lare da una tragedia di Ennio (l'Andromacha) una parte di canticum (vv. 92 sgg. V2) e inserirla nell'Eurysaces di Accio grazie alla presen­ za in essa di un affetto congruo e funzionale al nuovo contesto sce­ nico e, in pari tempo, all'assenza, nel brano prescelto, di ogni pre­ cisa indicazione riguardo al locutore e al destinatario. È il principio ben noto dell"Aria di baule': questa, caratterizzata da un determi­ nato affetto, i virtuosi dei tre sessi la trasportavano nelle opere da loro cantate dove la situazione lo consentiva (talora, anzi, la situa­ zione veniva inventata a bella posta . . .) e ciò perché l'Aria stessa era siffatta, dal punto di vista musicale e vocale, da favorire il mas­ simo successo dell'esecutore (Cicerone, guarda caso, ci attesta che anche Roscio eccelleva nell'eseguire O pat� o patria [de orat. m 102]: nel contesto originale enniano o anche con spregiudicati tra­ pianti?). Tale principio, esemplificato in modo eguale e contrario dai casi haendeliani segnalati piii sopra, rimase in vigore sino agli albori del Romanticismo (ma oggi riappare, in forme peraltro molto discrete e accettabili). La ragione di questa prassi teatrale è da ricercarsi, in ultima analisi, nel fortissimo prevalere del mo­ mento esecutivo, cioè della comunicazione che si deve istituire fra testo e pubblico, in spettacoli che, pur separati da centinaia e centi­ naia di anni e senza alcun tipo di vera continuità culturale o tecni­ ca, fu n z i o n ano tuttavia i n m o d o l a r g a m e n t e c o m p a r a ­ h i l e e in ogni caso sono distinti da un grande privilegio dell' histrio. Posto che il pubblico vuole Claudio Esopo o Quinto Roscio, la Cuzzoni o il Gizziello, il testo - dell'autore è meglio neanche par­ lare . . . - si piega loro, trovando ciò validissimo supporto tecnico nella facoltà, che è tutta e sola dell'histrio, di ricoprire ogni tipo di ruolo. Come Claudio Esopo poteva essere, nel suo tipo di teatro, 35· Vedi vol. m, pp. 167-72; altri dettagli e confronti in C. Questa, Il sesso di Andro­ maca (su un"Aria di baule' di Claudio Esopo), pross. negli Atti del Convegno intem. 'Ruo­ li' e 'parti' nell'opera (Venezia, Fondazione Cini, 10-12 IX 1990). Per il teatro greco è clas­ sico il rinvio a B. Gentili, Lo spettacolo nel mondo antico, Bari, Laterza, 1977, pp. r2 sgg.

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CESARE QUESTA Atreus oppure Andromacha (egli eccelleva nelle parti di tiranno), cosi il Farinello poteva essere Cleopatra a Napoli e Alessandro a Madrid.36 Tornando all'opera haendeliana, occorre dire che il composito­ re ha sentito la collocazione eroica di Cesare soprattutto in due momenti. Il primo è il grande Recitativo strumentato (1 7) Ombra del gran Pompeo . . (dove peraltro Haym trascrive quasi alla lettera il vecchio Bussani), monumento funerario di solennità barocca al­ le ceneri di Pompeo e austera meditazione sul nulla in che si con­ clude la gloria umana.37 L'altro è una lunga Scena (m 4), su cui vale fermarsi un istante di piu. Cesare è immaginato uscire dal mare dove si è gettato e approdare ad una spiaggia vicino al porto di Alessandria.38 Inizia con un Recitativo strumentato (Dall'ondoso periglio l salvo mi porta al lido l il mio propiziofato . . . ), in cui Cesare la­ menta d'essere rimasto senza i suoi soldati; segue un'Aria di affetto tenero (Aure deh per pietà l spirate al petto mio . . .) interrotta, prima del Da capo, da un frammento di altro Recitativo strumentato (Ma d'intorno vegg'io l sparse d'arme e d'estinti l l'infortunate arene . . .).39 Con Recitativo secco entrano poi Sesto e Nireno, che vedono Achilia morente, e il Recitativo secco prosegue sino a che Cesare dichiara di voler correre alla reggia per salvare Cornelia e Cleopatra (o che torrò alla sorte l Cornelia e Cleopatra, o avrò la morte). La Scena è chiusa da una grande Aria agitata di Cesare, con la metafora d'obbligo (Qual torrente che cade dal monte l . . . l tale anch'io . . . ). Chi è abituato .

36. Si ricordi che, ove una coppia di innamorati fosse affidata ad un evirato sopra­ nista come eroe-amante e ad un soprano donna come eroina-amante o viceversa, non c'era pericolo che le due voci si sovrapponessero e quindi mancasse la loro indispen­ sabile dialettica: per unanime testimonianza, il timbro dell'evirato, acuto o grave, si distingueva nettamente per caratteristiche tutte sue dalle voci naturali dello stesso re­ gistro. Giuseppa Grassini e Girolamo Crescentini fecero impazzire le platee negli Orazi e Curiazi di Cimarosa (età napoleonica) l'una cantando la parte di Orazia, l'altro di Curiazio: eppure Crescentini era sopranista. 37· Non è difficile scoprire l'influenza di Lucano, Phars. IX 1032 sgg., depurato di tutte le considerazioni anticesariane. 38. La Scena è già in Bussani (m 6), ma lessico e andamento sono stati assai ritoccati dal Haym. 39· La realizzazione musicale segue molto fedelmente i suggerimenti del libretto (che, ovviamente, distingue solo tra Aria e Recitativo, senza indicare dove questo sia secco o strumentato).

' R O MA NELL I M MAGI NARIO O P E RI ST I C O

alla 'solita forma' dell'opera italiana da Rossini in poi, sarebbe ten­ tato di trovarla, curiosamente, già qui. Giudicando con parametri ottocenteschi, potremmo individuare un Recitarivo strumentato, un Cantabile, un Tempo di mezzo (qui rappresentato, in embrio­ ne, dal brano in Recitarivo secco) e una Cabaletta, con persino l'apparente rispetto delle norme consuete: l'Aria = Cantabile ha infatti struttura metrica e affetto diversi da quelli dell'Aria agitata = Cabaletta; l'affetto di quest'ultima, poi, è determinato da fatti che accadono, come di regola, nel Recitarivo secco = Tempo di mezzo. 3·

L'OPERA DELLA FINE DEL SETTECENTO. 'LA CLEMENZA ' DI TITo : TESTO D I P. METASTASIO E C. MAzzoLA PER W.A. MozART 40

Vitellia, nobildonna romana figlia del defunto imperatore Vitellio, desi­ dera vendicarsi di Tito, di cui è vanamente innamorata, perché le usurpa

40. L'opera fu rappresentata il 6 settembre 1791 al Teatro Nazionale di Praga in oc­ casione dei festeggiamenti per l'incoronazione di Leopoldo II (a noi piu noto come Pietro Leopoldo granduca di Toscana) quale re di Boemia, avvenuta in quel giorno (il teatro era il medesimo che aveva visto la prima praghese delle Nozze di Figaro (1786] e quella assoluta del Don Giovanni [1787]). Personaggi e interpreti: Antonio Baglioni: Tito; Maria Marchetti Fantozzi: Vitellia; signora Antonini: Servilia; Domenico Bedini: Sesto; Carolina Perini: Annio; Gaetano Campi: Publio (inesatte le notizie di M. Mila, in Enddopedia dello Spettacolo, vn, 1960, c. 914). Antonio Bedini era un celebre tenore, per cui Mozart aveva scritto la parte di Don Ottavio nel Don Giovanni (cfr. anche R. Me­ loncelli, in « DBI •, v, 1963, pp. 194-95), secondo l'uso settecentesco e ancora rossinia­ no di affidare, nell'opera seria, a voci tenorili parti di padre e/o sovrano (per es. nell'1domeneo dello stesso Mozart); Maria Marchetti Fantozzi eccelleva in grandi parti tra­ giche dell'opera seria, come Serniramide (notizie in Questa, Semiramide, cit., pp. 183, 224 sgg.) : la parte scritta per lei da Mozart presuppone una grande estensione, dal Sol sotto il rigo al Res, e dunque era voce, si sarebbe detto nel primo Ottocento, di sopra­ no 'sfogato' o drammatico d'agilità; l'evirato Domenico Bedini doveva avere grande agilità e il registro dei nostri mezzosoprani acuti (in tempi moderni la parte è stata in­ fatti appannaggio di Giulietta Simionato e di Marilyn Home) ; per la parte di Annio troviamo un'altta volta un soprano en travesti. Va considerata leggenda tanto vecchia quanto poco attendibile quella secondo cui l'opera sarebbe stata composta in soli di­ ciotto giorni: non è inverosimile che Mozart pensasse alla Clemenza già prima dei fe­ steggiamenti, ma sempre su commissione praghese (cfr. oltre, n. 61). Del pari poco documentato lo scarso apprezzamento che l'opera avrebbe trovato presso la coppia imperiale e l'imperatrice in particolare: Mozart era molto amato e per es. la sera del z settembre al Teatro Nazionale si era dato il Don Giovanni su esplicita richiesta di Leo­ poldo; la sera prima un pranzo solenne, per oltre cento persone, nell'Anticamera del-

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CESARE QUESTA il trono e le preferisce Berenice, regina di Giudea. Spinge quindi Sesto, che l'ama non corrisposto, a congiurare con altri contro Tito, dal quale è annoverato tra i migliori amici. Tito però rinvia Berenice in Oriente e annuncia di voler sposare Servilia, sorella di Sesto e innamorata corrispo­ sta di Annio, il piu caro amico di Sesto. La decisione imperiale acuisce sempre piu il rancore geloso di Vitellia e turba profondamente Annio e Servilia; questa, tuttavia, rivela a Tito quali sono i suoi veri sentimenti: lo sposerà perché tale è il dovere di una suddita obbediente, ma il suo cuore è gia di Annio. Tito le è grato per la sincerità e rinuncia ai suoi propositi, decidendo di far cadere la sua scelta proprio su Vitellia. Ma è troppo tar­ di: Sesto, istigato da Vitellia, ha già messo in moto il complotto, che pre­ vede l'incendio del Campidoglio e l'uccisione di Tito durante la confu­ sione che ne seguirà. Invano Vitellia cerca ora di arrestare gli avvenimen­ ti: il primo Atto si chiude con l'incendio del Campidoglio e l'annuncio della morte di Tito (l'assassino del quale è noto solo a Vitellia). All'inizio del secondo Atto si apprende che Tito in realtà non è morto: nella confu­ sione Sesto aveva colpito un'altra persona; adesso ogni cosa è palese e Ti­ to scopre con orrore di essere stato tradito dall'amico piu fidato. Il Senato si raduna per giudicare i rei, mentre l'imperatore spera ancora che si pos­ sano trovare motivi di discolpa, ma la sentenza è inesorabile: Sesto dovrà essere divorato dalle belve del circo. Tito è combattuto fra la severità e la clemenza verso l'amico di un tempo: lo fa venire davanti a sé e vuole da lui informazioni circa i veri autori della trama; Sesto però è inflessibile nell'accusare se stesso e non fare in alcun modo il nome di Vitellia. Sesto è condotto via (ma Tito ha già deciso, in cuor suo, di risparmiarlo quando dovrà scendere nell'arena), mentre Servilia ed Annio chiedono a Vitellia di intercedere per lui: Tito non può negare nulla alla nuova Augusta. Vi­ tellia medita sulle proprie colpe e sulla lealtà di Sesto che, da lei spinto contro Tito, è giunto a sacrifìcarle la vita difendendola con il silenzio: quando il corteo imperiale giunge al circo e Tito stesso sta per annuncia­ re la grazia ai rei, Vitellia si fa avanti denunciando se stessa come autrice del complotto e istigatrice di Sesto. Tito allora vuol dare ancora piu gran prova di magnanimità e clemenza (n 1 6) : 4 1 l'imperatrice era stato allietato da 'musica da tavola' tratta dal Don Giovanni. Su questi eventi cfr. adesso H.C. Robbins Landon, 1 791, l'ultimo anno di Mozart, trad. it., Milano, Garzanti, 1989, pp. 85-123 e per ciò che concerne l'analisi della musica {ma anche le cir­ costanze della composizione) sia sufficiente, in questa sede, il rinvio a S. Kunze, Il teatro di Mozart, trad. it., Padova, Marsilio, 1990, pp. 640-79, che reagisce efficacemente a in­ veterati giudizi positivistici e ideologici che svalutavano la Clemenza di Tito quale lavo­ ro 'in ritardo', 'che guarda indietro' (e altre sciocchezze col begriffo crociomarxista). 41. Cito da Tutti i libretti di Mozart, a cura di M. Beghelli, Milano, Garzanti, 1990, pp. 661-80; il testo originale in P. Metastasio, Tutte le opere, 1, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1943 = 19532 , pp. 699-750.

ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERI STICO . . . vediamo se piu costante sia l'altrui perfidia o la clemenza mia: . . . sia noto a Roma ch'io son l'istesso e ch'io tutto so, tutti assolvo e tutto oblio.

Un grande Sestetto con Coro chiude solennemente l'azione celebrando la clementia principis.

Scritta nel 1734 e rappresentata in quell'anno con la musica di An­ tonio Caldara in occasione dell'onomastico dell'imperatore Carlo VI (dunque il 4 di novembre) , la Clemenza di Tito aveva conosciu­ to, prima di Mozart, oltre sessanta intonazioni,42 ciò che non stu­ pisce, essendo la vicenda del dramma incentrata sulla virru emble­ matica del sovrano assoluto e illuminato: appunto la clementia.43 Ma dai tempi di Carlo VI l'opera seria aveva mutato, almeno in parte, talune sue strutture: in particolare stava diventando canoni­ ca la divisione in due Atti, anziché quella in tre sempre rispettata da Metastasio,44 in una con lo sviluppo dei pezzi d'assieme come Terzetti e Quartetti (influenza dell'opera buffa) . Inoltre comin­ ciava a richiedersi una conclusione ricca e complessa del I Atto, av42· Tengo presente in modo particolare W. Seidel, Seneca Corneille Mozart. Questio­ ni di storia delle idee nella 'Clemenza di Tito', in AA.VV., Musik in Antike und Neuzeit, hgb. von M. von Albrecht e W. Schubert, Frankfurt a. M.-Bern-New York, P. Lange, 1987, pp. 109-18 (tra breve versione italiana in AA.VV., Mozart, a cura di S. Durante, Bolo­ gna, Il Mulino). Il saggio è ricco di bibliografia e ben informato sulle fonti antiche di Corneille, del quale peraltro considera solo il Ginna (vedi invece qui, piu oltre). 43. Un exemplum di clementia tratto dalla storia romana era particolarmente adatto ad 'ammonire' (e lusingare) coloro che, come Carlo VI e Leopoldo Il, in fin dei conti si intitolavano imperatori romani (sul significato che assumeva un testo come la Cle­ menza sotto Carlo VI vedi J. Joly, Dagli Elisi all'inferno. Il melodramma tra Italia e Francia dal1730 al185o, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 90-94) . Quanto ai temi romani nel­ l'opera, è evidente che ampio spazio dovrebbe essere riservato alle numerosissime intonazioni di drammi metastasiani quali Ezio, Catone in Utica e, inutile dirlo, Didone abbandonata. Si dà caso però che i 'veri' compositori metastasiani (Leo, Vinci, Porpora, Hasse,Jommelli e cosi via) vengano solo adesso riscoperti anche dal pubblico: la scel­ ta della Clemenza mozartiana privilegia questo testo anche per la sua notorietà e facile accessibilità in eccellenti edizioni discografiche (sulla Didone abbandonata vedi Maria Sala, Didone (fortuna musicale), in Enciclopedia Virgiliana, 11, 1985, pp. 60-63) . 44· Cfr. Questa, Semiramide, cit., pp. 151 sgg.

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CESARE QUESTA

viata ormai, sempre per influenza dell'opera buffa, a configurarsi come 'Finale primo', il brano cioè che riunisce i personaggi, spesso in preda ad affetti opposti e con l'intervento piu o meno ampio del Coro, in un momento scenico che è nodo dell'azione e in pari mo­ do intensa climax musicale (si pensi al 'Finale primo' del Don Gio­ vanni, per Mozart e i suoi spettatori, tuttavia, ancora 'dramma gio­ coso'). Tutto ciò spiega gli interventi di Caterina Mazzolà (piu volte studiati), diretti appunto a 'ringiovanire' il dramma riducen­ dolo a due Atti ed inserendo pezzi d'assieme con particolare ri­ guardo alla fine del primo Atto, oltre alla solita riscrittura di Arie.45 Come facile da prevedere, la Clemenza di Tito ha larghi agganci a testi classici, diretti e indiretti. Aggancio indiretto è quello che, at­ traverso il Cinna di Comeille, la ricollega a un passo famoso del De clementia senecano,46 fonte d'ispirazione a tutti nota della stupenda tragedia del poeta francese (la quale ha per sottotitolo La clémence d'Auguste, su cui ritorneremo). Come riconosciuto da molto tem­ po, Metastasio ha infatti nel Cinna un importante ipotesto, per es. dove, nei versi finali del proprio dramma citati sopra, Metastasio riprende quelli finali di Comeille (v 3) Qu'on redouble demain les heureux sacriflces Que nous leur offrirons sous des meilleurs auspices; Et que vos conjurés entendent publier Qu'Auguste a tout appris, et veut tout oublier 45· Mozart stesso ebbe a scrivere che Mazzolà aveva « ridotto a vera opera » un te­ sto la cui organizzazione doveva parere ormai invecchiata e di sicuro inadatta alle nuove esigenze musicali (Mozart voleva, e giustamente, che la poesia fosse ancella obbediente della musica): vedi Robbins Landon, 1791, cit., p. II4 e adesso soprattutto Kunze, Teatro, cit., pp. 650-54. 46. Vedi 1 9-10. Corneille in Ginna v 1 traduce quasi alla lettera Seneca: Prends un siège, Ginna, prends et sur toute chose l Observe exactement la loi queje t'impose: l Prete, sans me troubler, l'oreille à mes discours; l D'aucun mot, d'aucun cri, n'en interromps le cours. E cosi Se­ neca: . . . et Ginnam unum ad se arcessiuit dimissisque omnibus e cubiculo, cum alteram Ginnae poni cathedram iussisset 'hoc� inquit, 'primum a te peto, ne me loquentem interpelles, ne medio sermone meo proclames; dabitur tibi loquendi liberum tempus' (« . . . e fece chiamare a sé Cin­ na da solo e, allontanati tutti gli altri dalla stanza, fatta disporre un'altra seggiola per Cinna, 'questo', disse, 'ti chiedo per prima cosa: non interrompermi mentre parlo e non metterti a gridare a mezzo di quel che sto dicendo; avrai dopo tutto il tempo di parlare' »).

ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO

non senza una variazione significativa.47 Altri particolari impor­ tanti della trama, come il progetto di uccidere Tito in Campido­ glio durante una cerimonia, vengono anch'essi dal Ginna (ma vedi anche n. 56); e non si dice del personaggio di Vitellia, dove si è vi­ sto un forte riflesso dell'implacabile Émilie corneliana che, aman­ te riamata di Cinna, impone tuttavia a quest'ultimo, quasi prova nuziale, di assassinare Augusto, da cui pure è tenuta in luogo di fi­ glia, perché desiderosa di vendicare il padre, vittima delle prescri­ zioni dei triumviri di un tempo. Ma, si è notato, lo statuto di Tito non è quello di un tiranno (quale invece Augusto apparve in passa­ to e ancora appare agli occhi di Cinna e soprattutto di Émilie),48 né, deve aggiungersi, Émilie è innamorata di Augusto, magari con­ tro se stessa. La Vitellia metastasiana, invece, se incita alla congiura e al delitto Sesto che è di lei innamorato, non corrisponde tuttavia a questo amore e, lo voglia o meno, è in realtà innamorata dello stesso Tito (si leggano le scene 1 e 2 del I Atto),49 dal quale si sente respinta sia come donna sia come figlia del defunto imperatore Vi­ tellio, un'ascendenza che le fa vantare diritti al trono (inutile dire che Vitellia è personaggio senza alcun riscontro storico). Verità è che, accanto a Ginna, un'altra tragedia di Corneille - anzi,'comédie hero·ique', come suona il sottotitolo apposto dall'autore stesso - è un importantissimo ipotesto di Metastasio: Tite et Bérénice. I quat­ tro personaggi principali di questo dramma sono tutti storici: non solo Tite e Domitian,so non solo Bérénice,st ma anche Domitie, 47· È un bell'esempio di aemulatio in uertendo: l'Augusto di Corneille sa tutto e di­ mentica tutto; il Tito di Metastasio sa tutto e dimentica tutto, ma prima di dimentica­ re, p e rd o n a . 48. E poi Tito è u n giovane, mentre Augusto al tempo della congiura d i Cinna (4 d.C.) è un vecchio, stanco del potere e della vita stessa, che si avvicina ai settant'anni. Ma nella confessione di Vitellia (n 16) si ha eco sensibile da quella di Emilie (v 2). 49· E anche, naturalmente, I 8-9 e n 14. Vitellia è gelosa prima di Berenice, poi di Servilia; che non ami Sesto fa capire chiaramente in I 9, dove, nel dialogo con questo personaggio, si avvertono bene i modelli di Oreste ed Hermione dell'Andromaque; e si tenga ben presente anche la confessione di colpa in n 16. so. 'Domitian' è la forma usata da Corneille, a preferenza dell'oggi usuale 'Domi­ tien'. SI. Berenice, nata nel 28 d.C. e dunque di oltre dieci anni piu vecchia di Tito (nato nel 39), era pronipote di Erode il Grande e sorella di Agrippa II, tetrarca di una parte della Giudea. Quando conobbe Tito durante la guerra giudaica (67-70 d.C.) aveva al-

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che Corneille stesso qualifica di 'fille de Corbulon'. Si tratta infatti di Domizia Longina, figlia di Domizio Corbulone, il grande gene­ rale di età claudiana e neroniana che aveva vincoli di parentela con la piu alta aristocrazia e con gli stessi Giulio-Claudi: 52 Domizia Longina sposò Domiziano, il futuro imperatore, nel 7o d.C. e poi nel 96 d.C. fu parte importante nella congiura che portò all'assassi­ nio del marito, ormai 'tiranno'.53 Ma la 'comédie héro"ique' di Cor­ neille prescinde da tutto ciò. L'azione si svolge poco dopo l'eru­ zione del Vesuvio (vedi n r e IV r) , cioè dopo il 24 agosto del 79 d.C., e si immagina che Tite debba decidere se sposare Bérénice, che ama riamato ma con l'ostacolo delle leggi romane alle nozze con una regina straniera, oppure Domitie, con cui lo voleva sposo già il padre Vespasiano (morto il 29 giugno dello stesso anno). Do­ mitie, dal canto suo, aveva a suo tempo amato Domitian, ma ora solo l'aperta, confessata ambizione del trono, cui essa si sente de­ stinata per diritto di nascita, la spinge a cercare le nozze con Tite e a scorgere in Bérénice un'aborrita rivale che, piu dell'amore, mi­ naccia di toglierle il trono. Tuttavia Bérénice, proprio quando ogni ostacolo di legge parrebbe superato, rinuncia magnanimale spalle tre matrimoni e si diceva vivesse in consuetudine incestuosa con il fratello, ciò che non impedi a Tito di innamorarsene (vedi per es. Tacito hist. n 2 e 81, che ri­ corda la bellezza della sovrana) e di convivere poi con lei per parecchio tempo dopo la prima visita a Roma di Berenice con il fratello (75 d.C.). Come Agrippa II, anche la regina fece sempre politica fìloromana. 52. Domizio Corbulone, consul suffectus nel 39 d.C. (?), condusse spedizioni vitto­ riose contro i Chauci quando era legato della Germania inferior, proconsole d'Asia sotto Claudio, condusse sotto Nerone importanti campagne contro i Parti, che fecero di nuovo dell'Armenia un protettorato romano; nel 66 d.C., suo genero Annio Vinicia­ no congiurò contro Nerone, il quale richiamò Corbulone in Grecia e lo spinse al sui­ cidio. 53· La passione di Domiziano per Domizia Longina sembra anche attestata da una frase di Suetonio (Dom. 22), il quale in altra circostanza menziona le voci che voleva­ no Tito amante della cognata. Il biografo racconta infatti (Tit. m) che Tito, morendo, affermava di doversi pentire di un solo evento della sua vita, e aggiunge (n 2): id quale fuerit neque ipse tunc prodidit neque cuiquamfacile succurrat. quidam opinantur consuetudinem recordatum quam cum fratris uxore habuerit; sed nullam habuisse persancte Domitia iurabat, haud negatura si qua omninofuisset, immo etiam gloriatura, quod illi promptissimum erat in om­ nibus probris (« di che specie sia stato non lo disse egli allora né potrebbe capitare di scoprirlo facilmente. Taluni credono che si ricordò della relazione che avrebbe avuto con la cognata; ma Domizia giurava nel modo piu solenne di non aver avuto alcuna

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mente all'imperatore; Tite, allora, commosso da questo gesto, per non offendere la regina rinuncia a sua volta a scegliersi altra con­ sorte e Domitie può quindi ritornare all'amore di Domitian, che in effetti sposa.54 Come si vede, lo statuto della Vitellia metastasia­ na è assai piu prossimo a quello di Domitie che non a quello di Émilie: affetto preminente in entrambe è la cupido imperii, che su­ bordina a sé la passione amorosa (invece Émilie odia Augusto tan­ to quanto ama Cinna). Quanto a Sesto, il suo statuto è quello di un essere fragile dominato dalla forza d'animo implacabile di Vitellia: anche in questo caso si deve escludere il paragone con Cinna e meglio si vedrebbe quello con l'Oreste dell'Andro maque raciniana, dominato e spinto al delitto da Hermione, che egli ama non ria­ mato (ma Hermione è figura indimenticabile per la divorante pas­ sione, cui tutto essa sacrifica, fino alla vita sua stessa e a quella del­ l'adorato Pirro). Che Tite et Bérénice sia, accanto a Ginna, l'altro e forse piu importante ipotesto metastasiano, è del resto lasciato in­ tendere da Metastasio stesso al di là della ripresa del s o tto ti t o lo di Ginna (La clémence d'Auguste) , che ora diventa ti t o lo (La clemen­ za di Tito) . L'azione della Clemenza, infatti, si svolge anch'essa poco dopo l'eruzione del Vesuvio, come appare da 1 4, in cui l'imperato­ re, modello di sovrano illuminato, destina al soccorso delle poporelazione con lui: e non lo avrebbe negato se ce ne fosse stata l'ombra, anzi se ne sa­ rebbe vantata, come faceva con la massima disinvoltura per tutti gli scandali »). 54· In Tit. 7 Suetonio racconta che l'opinione pubblica non era ben disposta verso Tito, prima che questi giungesse all'impero, a motivo di voci sulla sua vita privata, che facevano prevedere in lui un altro Nerone connotato dai tria uitia tirannici (saeuitia, luxuria = libido, rapacitas auaritia) : tra l'altro era malvisto il ben noto ( insignis) amore per Berenice, « cui si diceva avesse promesso il matrimonio ». Ma Suetonio aggiunge che tutto svani alla prova dei fatti perché, tra l'altro, Berenicen statim ab urbe dimisit inui­ tus inuitam (« allontanò subito da Roma Berenice, l'uno e l'altro contro la propria vo­ lontà »): statim ( « subito ») deve riferirsi ad un periodo immediatamente successivo al­ la salita al trono da parte di Tito e, dunque, all'estate del 79 d.C. Non possiamo dire, naturalmente, se questo avvenne prima o dopo il 24 agosto, ma sembra almeno chiaro che Racine, nella sua Bérénice, ha preferito una cronologia alta: questo poeta, infatti, non fa menzione alcuna dell'eruzione ed invece presuppone appena conclusi i solen­ ni funerali di Vespasiano (1 4 e s). Sul piano strettamente filologico Racine è forse nel giusto, ma non è questo che si deve chiedere ai poeti, cosi come nessuno gli rimpro­ vererà di aver citato, nella Préface alla tragedia, un testo che, in realtà, risulta dal 'colla­ ge' dei due passi suetoniani: cfr. C. Questa, in « RFIC », a. cv 1977, pp. 97 sgg. E vedi anche oltre, n. 72. =

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CESARE QUESTA

!azioni colpite dalla calamità i tributi con cui il Senato vorrebbe in­ vece erigergli un tempio (oltre, n. 56). Ma c'è di piu: la Clemenza in qualche modo 'continua' Tite et Bérénice e, direi, anche la Bérénice di Racine.ss In 1 2, infatti, Vitellia si esprime in modo sarcastico su Ti­ to, che essa immagina sempre intento a corteggiare la regina stra­ niera. Sesto però le replica che questa è proprio allora tornata in patria per ordine imperiale, ciò che fa rinascere in Vitellia speran­ ze di nozze e trono, non senza un guizzo di femminea ripicca (cfr. già sopra e n. 49): . . . quella superba oh come volentieri udita avrei esclamar contro Tito!

Ma da Annio, amico di Tito quanto di Sesto, apprende subito che la verità è ben diversa: Anzi giammai piu tenera non fu. Part� ma vide che adorata partiva e che al suo caro men che a lei non costava il colpo amaro.

Dunque gli eventi della Clemenza si collocano, idealmente, al mo­ mento in cui, allontanata Berenice, Tito può ancora essere imma­ ginato, con verisimiglianza aristotelica, in grado di disporre di sé: chiede a Servilia, sorella di Sesto, di sposarlo, ma abbiamo visto co­ me questa si comporti; la scelta imperiale cade allora proprio su Vitellia: l'ironia tragica vuole però che Vitellia resti vittima della sua stessa ambizione rancorosa (e qui, mutatis mutandis, si riaffaccia l'Hermione di Andromaque) . La solitudine, del resto, alla fìne irreti­ sce tutti, se facciamo eccezione per Annio e Servilia, amanti tene­ nsstml. Ma la Clemenza di Tito non si riaggancia ai classici solo attraverso 55. Ma di questa tragedia non si avverte molta traccia: 'priva di azione', conflitto d'anime che restano prigioniere della loro solitudine, non giovava ad una vicenda in cui l'intreccio è importantissimo (quanto all'Andromaque, essa è in vario modo presen­ te in Metastasio: vedi E. Paratore, L' 'Andromaque' delRacine e la 'Didone abbandonata' del Metastasio, in Da Petrarca all'A!fieri, Firenze, Olschki, 1975, pp. 357-409 e inoltre Joly, Dagli Elisi, cit., pp. 18-20). 332

' ROMA N E L L IMMAG I NARIO O PE R I S T I C O

i suoi ipotesti francesi: c'è anche un legame diretto, come abbiamo anticipato. In Suetonio l'elenco delle virt:U e delle azioni lodevoli di Tito comincia in Tit. 7 2 e, dopo un cenno sulla temperanza e sulla sagace scelta degli amici, abbiamo la notizia già veduta circa Berenice e, via via, il rifiuto dei piu usuali donativi (7 3), le provvi­ denze in occasioni di calamità, fra le quali, naturalmente, l'eruzio­

(8 3 -4).56 Infine l'orrore di Tito per il sangue dei concittadini (9 1-2) , che si palesò in modo particolare quando ebbe

ne del Vesuvio

le prove che due patrizi congiuravano contro di lui:

Pontificatum maximum ideo se professus acdpere ut puras seruaret manus, fidem­ praestiti� nec auctor posthac cuiusquam neds nec consdus, quamuis interdum ulcis­ cendi causa non deesset, sed periturum se potius quam perditurum adiurans. duos patricii generis conuictos in adfèctatione imperii nihil amplius quam ut desisterent monuit, docens prindpatum fato dari, si quid praeterea desiderarent promittens se tributurum. et corifestim quidem ad alterius matrem quae procul aberat, cursores suos misit, qui anxiae saluumfilium nuntiarent, ceterum ipsos non solumjàmiliari cenae adhibuit, sed et insequenti die gladiatorum spectaculo circa se ex industria conlocatis oblata sibi ferramenta pugnantium inspidenda porrexit. dicitur etiam cognita utriusque genitura imminere ambo bus periculum acifìrmasse, uerum quandoque et ab alio, sicut euenit.57 56. Quaedam sub eo fortuita ac tristia acciderunt, ut conjlagratio Vesuvii montis in Campa­ nia, et incendium Romae per triduum totidemque noctes . . . in iis tot aduersis ac talibus non modo prindpis sollicitudinem sed et parentis a.Jfectum unicum praestitit, nunc consolando per edicta, nunc opitulando quatenus suppeteret Jacultas. curatores restituendae Campaniae e consularium numero sorte duxìt; bona oppressorum in Vesuvio, quorum heredes non exstabant, restitu tioni af­ Jlictarum ciuitatium attribuit (« sotto il suo regno avvennero per sorte avversa alcune ca­

lamità, come l'eruzione del Vesuvio in Campania e un incendio di Roma che durò tre di e altrettante notti . . . In tutte queste disgrazie e fatti del genere non mostrò soltanto premura di sovrano, ma anche un eccezionale affetto di padre, ora con editti che rin­ cuoravano, ora soccorrendo concretamente per quanto se ne dessero i mezzi. Fece sorteggiare fra gli ex consoli una commissione che curasse la ricostruzione della Campania; destinò all'aiuto delle comunità cittadine colpite i beni delle vittime del Vesuvio, di cui non si potevano rintracciare gli eredi •) . È evidente l'uso che Metasta­ sìo ha fatto di quest'insieme di notizie in 1 4, assieme al rifiuto dei donativi ricordato dal biografo poco prima. La menzione dell'incendio deve inoltre aver suggerito l'i­ dea, assente nel Ginna, di far coincidere l'attentato a Tito con un incendio del Campi­ doglio appiccato dai cospiratori stessi (vedi I I 9 e 12). 57· « Avendo dichiarato di accettare il pontificato massimo per conservare incon­ taminate le sue mani, mantenne la parola: da quel giorno infatti non ordinò l'uccisio­ ne di alcuno né vi fu implicato; e benché non gli mancassero ragioni di esercitare ven­ dette, dichiarò solennemente che 'preferiva morire piuttosto che essere causa di mor­ te'. Quanto a due persone di stirpe patrizia, riconosciute colpevoli di aspirare all'im333

CESARE QUESTA

Come si vede, abbiamo qui tutta quanta l'intelaiatura del dramma metastasiano, lieto fìne compreso, la cronologia interna del quale d o p o il rinvio di Berenice e d o p o la calamità vesuviana - può es­ sere stata suggerita anche dal testo suetoniano. Suetonio, come no­ to, procede per species, cioè raccogliendo azioni lodevoli o vitupera­ bili in base alla loro natura (esosità o liberalità, mitezza o ferocia e cosi via) e all'interno delle species rare sono le indicazioni cronolo­ giche (quella relativa a Berenice è una delle eccezioni). Ma una lettura continua e 'libera', quale certo fu quella di Metastasio, può ben ricevere l'impressione, scorrendo questi capitoli suetoniani, di eventi strettamente connessi temporalmente. Questo dunque il ricchissimo retroterra culturale della Clemen­ za, quale giunge nelle mani di Mozart. E prima di tutto l'imperato­ re, protagonista della vicenda come exemplum di virtii sovrane. Mozart ne ha colto l'aspetto emblematico curando che i suoi in­ gressi in scena fossero accompagnati da Cori scanditi e solenni (tre gli ingressi di Tito e tre gli ingressi del Coro, uno dei quali [nr. 15] ottenuto grazie all'intervento di Mazzolà): imponente il primo (nr. 5 Servate, o dèi custodi . . . ); piu raccolto e breve il secondo, dopo l'attentato fallito, intramezzato da una strofetta di Tito stesso; ss monumentale l'ultimo (nr. 24 Che del ciel, che degli dèi . . .), premessa adeguata allo scioglimento che celebra virtii quasi sovrumane. E si noti il rigore cerimoniale della prima scena in cui appare l'impera­ tore (1 4 = nrr. 4-6) : una marcia {cui Mozart ha apposto l'indicazio­ ne Maestoso) , il Coro già citato che ne riprende il tema, il Recitativo in cui Tito destina al soccorso della Campania la somma con la pero, si accontentò di ammonirle a deporre l'intento, insegnando loro che 'l'impero è concesso dal destino' e promettendo di dar loro qualunque altra cosa gli avessero chiesto. E subito mandò i suoi corrieri alla madre di uno di essi, assente e in ansia, per­ ché le annunziassero la salvezza del figlio; poi non solo li trattenne a cena come amici di casa, ma il giorno dopo, in occasione di uno spettacolo di gladiatori, li fece sedere apposta vicino a sé e diede loro in mano, da esaminare, le armi dei gladiatori che gli erano state porte. Si racconta pure che, conosciuto l'oroscopo dell'uno e dell'altro, as­ seri che 'su entrambi incombeva un pericolo, ma in futuro e da parte di altra persona', come avvenne ». 58. L'organico orchestrale non comprende questa volta i timpani, impiegati invece in occasione del nr. 5 e, piu vistosamente, del nr. 24.

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quale il Senato vorrebbe erigergli un tempio; e poi ripetizione del­ la marcia e del Coro, che dopo si ritira. La simmetria contribuisce potentemente a dare all'insieme una tinta quasi liturgica. 59 Si è detto che Tito reagisce agli eventi, ma non agisce né li de­ termina. Ma è appunto quello che il poeta aveva in mente e il compositore ha inteso: Tito è al centro di avvenimenti messi in moto da affetti e da sentimenti che all'inizio neppure sospetta e la sua grandezza di sovrano sta nel dominarli mano a mano che si pa­ lesano e, soprattutto, nel dominare se stesso. Di qui il senso di 'li­ berazione' che dà la sua grande Aria Se all'impero, amici dèi . . . (nr. 20 = n 12) quando egli ha già risolto, dentro di sé, di perdonare Sesto, ma nessuno ancora lo sa.60 È lo slancio gioioso del sovrano benefì­ co e, piu ancora, la luminosa energia del sapiens che ha domato il tumulto di sentimenti, se non ingiustifìcati, certo assai meno nobi­ li. Musicalmente siamo, certo, a un passo dal neoclassicismo e dalla sua irrefrenabile inclinazione per lo statuario solennemente atteg­ giato (ciò che si traduce, nell'opera, anche in Marce e Cori pom­ posi . . .) , ma Wolfgang Amadé non cade nella trappola: lo salva sempre la sua grazia infinita, una dimensione tutta sua, preclusa al­ l'inguaribile aridità di Spontini, Cherubini e loro raggelati conge­ nen. Di fronte a Tito, Vitellia, cioè la passione violenta, l'incapacità di dominare gli eventi e se stessa: dunque il rovescio dell'imperatore. Di qui una vocalità che procede per ampi intervalli, come si vede immediatamente nel primo Duetto con Sesto (nr. I = I I), dove Se­ sto inizia (sulle parole Come ti piace imponi, l regola i moti miei . . .) con una frase musicale che privilegia tranquilli intervalli di terza e gradi contigui, mentre Vitellia, alla I4a battuta, entra con due inter­ valli di quinta (Do4-Fa3-Do4) Prima che il (solj . . . , seguiti da piu 59· Si tenga conto, tuttavia, che la ripetizione del Coro dopo le parole in Recitativo di Tito ( . . . Annio non parta; l ogn'altro s'allontani) sembra prassi esecutiva teatrale, non confermata dall'esame critico delle fonti (cfr. W.A. Mozart, La Clemenza di Tito . . . , hgb. von F. Giegling . . . , Barenreiter, Kassel-Basel-London-New York 1971 = 1988); sicura è invece la ripetizione della Marcia. 6o. Inutile far notare come tutto il Recitativo di Tito che costituisce n n sia trama­ to di spunti e motivi del passo suetoniano riportato ampiamente piu sopra.

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ampia espansione della voce nella frase in cui è tutto il personag­ gio (Sai ch'egli usurpa un regno . . .) : Do4 (ripetuto quattro volte con note di vario valore)-Mi3-Re3. Questa vocalità 'sfogata' ricorre nuovamente all'inizio del grande Terzetto Vengo, aspettate, Sesto . . . (nr. IO = I w), che l'ascoltatore odierno sente già come parte del Fi­ nale primo (formalmente costituito dal Recitativo strumentato Oh dèi, che smania è questa . . [nr. n] e dal Quintetto con Coro Deh, conservate, o dèi . . . [nr. 12] = I n-14) : Vitellia ha dato il via alla congiu­ ra e immediatamente dopo apprende invece che Tito intende farla sua sposa. Anche qui una quinta discendente (Re4- SolJ, b. 2) in apertura sulla parola Vengo; un'altra poco dopo (Sol4- Do4, b. 6) sulla parola Sesto e poi un susseguirsi di seste ascendenti (Sib3Sol4) sulle parole O sdegno (miofunesto), O insano (mioJuror), (Io) gelo, o Dio (bb. 12-16, 21-23). E tutto questo è posto in grande evidenza perché il Terzetto attribuisce le prime ventitré battute alla sola Vi­ tellia e l'entrata di Annio e Publio avviene, e prosegue, su una tes­ situra moderatissima (i due personaggi scambiano per turbamento gioioso l'angoscia della donna). Wolfgang Amadé spinge sempre piu verso l'alto la voce dell'imperiosa principessa, che alla fìne del­ la prima sezione del Terzetto (b. 40) tocca il Si4 su una semibreve (in legatura di valore con una minima) raggiunto con un altro in­ tervallo di sesta (Re4-Sib4, b. 40). La seconda sezione vede, ap­ prossimandosi la conclusione, la voce di Vitellia spinta ancora piu verso i nevai del pentagramma (diceva Eugenio Gara) in un susse­ guirsi di Si4, finché - sulla parola orror - abbiamo (bb. 80-81) l'in­ tervllo Fa3-Sib4 (un'ottava e mezza) subito dopo il quale, in un ar­ peggio, la voce è spinta al Res (io gelo: b. 83). C'è tutto, in questo Terzetto: l'esperto 'maestro di cappella' che sa esigenze e capricci dei cantanti e pure che le voci vanno 'aiutate' nella salita (Faustina Bordoni Hasse gli aveva a suo tempo rivelato i 'segreti' di Haen­ del); l'accorto uomo di teatro che incatena l'attenzione dello spet­ tatore grazie ad una climax musicale e vocale che doveva aiutare a vincere la diffidenza per il pezzo d'assieme, piuttosto 'nuovo' nel­ l'opera seria; il genio drammaturgico che fa risaltare lo stato d'ani­ mo di un personaggio, che cosi si rivolge 'direttamente' al pubbli­ co, grazie alla linea vocale moderata e 'neutra' degli altri due, di cui .

' ROMA NE LL I M MA G I N A R I O O PE R I S T I C O

proprio in tal modo si evidenzia l'estraneità agli affetti del primo. Gli stessi stilemi ricorrono nel celebre Rondò Non piu di fiori . . . (nr. 23 = II 15), in particolare nell'Allegro (b. 44 sgg.), dove la voce, nelle battute 162-65, scende dal Do4 al La2 e al Sol2 per risalire di colpo al Re4 (sempre con valori di semibreve). Si obietterà, con ra­ gione, che almeno questa parte del Rondò è stata scritta p r i m a della Clemenza e faceva parte di un'Aria da concerto per Josepha Duschek: 6 1 ma se Mozart l'ha utilizzata nella Clemenza par chiaro che non soltanto si adattava, e bene, ai mezzi e alle esigenze vocali di un'altra primadonna illustre, ma anche allo stile complessivo della vicenda e agli affetti del personaggio.62 Gli ampi intervalli erano indubbiamente sentiti dal compositore come stilemi aulici e nobili, adatti al genere che Bellini definiva « grande agitato », cioè ai personaggi dell'opera seria e al loro decorum di creature mosse da affetti grandiosi, talora 'terribili', mai comunque domestici e quo­ tidiani.63 Tale è appunto Vitellia, la cui 'terribilità' anche vocale, il cui meditare sulle proprie colpe e accusarsene davanti a tutti la­ sciano intravvedere Norma. 61. Sulla questione, che coinvolge i tempi di composizione della Clemenza, ancora non ben chiariti, vedi adesso Robbins Landon, 1791, cit., pp. 90 sgg. e Kunze, Teatro, cit., pp. 648-so.Josepha Duschek (Dusek} nata Hambacher (1754-1824) era una famo­ sa cantante, amica di Mozart già dal 1777, quando il compositore aveva scritto per lei una bellissima Aria da concerto (K. 276); moglie dell'eccellente pianista F.X. Du­ schek ed essa stessa pianista e compositrice, favori Mozart presso gli ambienti musi­ cali e aristocratici di Praga in occasione delle prima praghese delle Nozze (r786) e di quella assoluta del Don Giovanni (1787). 62. Il Rondò è preceduto da un ampio Recitativo accompagnato (nr. 22) dove Mo­ zart segue con grande fedeltà il testo di Metastasio, che si conclude con le parole D'impero e d'imenei, speranze, addio (Vitellia ha deciso di accusarsi presso Tito}. Ma il te­ sto del Rondò abbandona le due quartine di settenari previste da Metastasio e le sosti­ tuisce con una di quinari piani e tronchi (Non piu difiori l vaghe catene l discenda Imene l ad intrecciar. l Strettafra barbare l aspre ritorte l veggo la morte l vér me avanzar) e un'altra di ottonari piani e tronchi (Infelice! Quale orrore! l Ah, di me che si dirà? l Chi vedesse il mio dolore, lpur avria di me pietà}. La seconda strofa è generica e può trovarsi sulla bocca di qualunque personaggio disperato, uomo o donna, ma la prima sembra davvero un'amplificatio, tipicamente operistica, dell'affetto del Recitativo e, in particolare, del­ l'ultimo verso di esso. Tutto ciò contribuirebbe a suggerire una cronologia 'alta' della Clemenza o, per lo meno, di un importante 'Baustein' di questa. 63. Se ci fosse necessità di riprova, essa giunge e contrario da Cosffan tutte, dove l'A­ ria paratragica Come scoglio . . . (che ha la solenne metafora marina} inizia con ampi in­ tervalli, che portano la voce di Fiordiligi, nello spazio di cinque battute, dal Fa4 al Laz e al Sib4.

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CESARE QUESTA 4 · L' OPERA ROMANTICA ITALIANA. 'NORMA' : TESTO DI RoMANI PER V. BELLINI 64

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Pochi libretti d'opera sono tanto ricchi di rinvii al mondo roma­ no e alla letteratura latina come quello di Norma ed essi, in sé con­ siderati, appaiono di duplice ordine: quelli che Romani trovava già nella tragedia francese da lui ridotta a libretto,65 e quelli che ha in­ trodotto egli stesso, da un uomo di eccellenti lettere quale era e cultore impegnato di antichità classiche. 66 Serva dunque di aaessus 64. Prima rappresentazione alla Scala, il 26 XII 1831, avendo per interpreti Giuditta Pasta: Norma; Giulia Grisi: Adalgisa; Domenico Donzelli: Pollione; V. Negrini: Orove­ so. Cito il libretto nella grafia e interpunzione dell'edizione originale: Norma l tragedia lirica l di Felice Romani l da rappresentarsi l nell'I.R Teatro alla Scala l il carnevale dell'anno 18]1-JZ. l Milano l per G. Truffi e Comp. l cont(rada) del Cappuccio n. 5433· Si trala­ scia di riassumere una vicenda notissima. 65. Come noto, si tratta della Norma di Alexandre Soumet, che cito dall'edizione originale: Norma l tragédie en cinq actes et en vers, l par M. Alexandre Soumet, l de l'Académie Jrançaise. l Représentée pour la premièreJois, sur le Théatre Royal de l l'Odéon, par le Comé­ diens ordinaires du Roi, le 6 avril 1831. l Paris. l J.N. Barba, Libraire, l . . . l 1831. Alexan­ dre Soumet frequentava ambienti musicali e curò l'adattamento francese di libretti di Rossini (per es. la trasformazione di Maometto II in Siège de Corinthe). Si noti la rapidità, peraltro non insolita, con cui la pièce parigina è conosciuta in Italia e poi ridotta a li­ bretto da Romani: Bellini già parla di Norma almeno in una lettera del 23 luglio 1831 (e cfr. oltre, n. 69). A conferma del prevalere del momento esecutivo, si ricordi che il so­ lenne argomento tragico fu scelto perché p r e e s i s t e v a la scrittura di due cantanti appunto la Pasta e Donzelli - che eccellevano nel genere serio: cfr. Pastura, Bellini se­ condo la storia, Parma, Guanda, 1959, pp. 285-86. Su Norma la bibliografia è quasi stermi­ nata: una comoda messa a punto di alcune questioni qui trattate (sebbene da angola­ zione sostanzialmente diversa dalla mia) è proposta daJ.Joly, 'Oltre ogni umana idea': le mythe, la tragédie, l'opéra dans la 'Norma' de Bellini, in Nos ancetres les Gaulois (Actes du Colloque intern., de Clermond-Ferrand recuellis et présentés par P. Viallaneix et J. Ehrard), Paris, Les Belles Lettres, 1982. 66. Romani fece eccellenti studi classici all'Università di Genova, dove fu anche, per un certo tempo, 'supplente' di lettere greche, ed è coautore di un ampio reperto­ rio: Dizionario l d'ogni mitologia l e l antichità, l incominciato l da Girolamo Pozzo/i l sulle tracce del dizionario dellafavola l di Fr. Noel, l continuato ed ampliato l dal l prof Felice Ro­ mani l e l dal Dr. Antonio Peracchi. Sono sei volumi, pubblicati a Milano tra il 1809 e il 1825 presso Batelli e Fanfani Tipografi e Calcografi, ciascuno dei quali comprende al­ meno 500 pagine (il primo) fino a 850 (il sesto); si aggiungono tre volumi di tavole e due volumi, in tre tomi, di Supplimenti. La prefazione al primo volume chiarisce un poco la genesi dell'opera, dove del Pozzoli sembra rimasto poco (nonché della fonte francese), mentre non sembra possibile distinguere quanto si deve al Romani e quan­ to al Peracchi: chi si interessa alla storia degli studi di antichità potrebbe indagare un poco la genesi e la eventuale fortuna di questa 'Realenzyclopaedie' neoclassica (sono grato all'amico Gianni Guastella per queste ed altre notizie sul Dizionario).

' ROMA N E L L I M MAG I NARIO O P E RI S T I C O

al particolare colore di questo libretto il monologo della protago­ nista là dove pensa di uccidere i figli (n r). Norma vuole e disvuole, si tormenta, e infine: Ed io li svenerò? Di che son rei? (silenzio) 67 Di Polli'on son figli: Eao il delitto: essi per me son morti: Mojan per lui: [n'abbia rimorso il crudo, N'abbia rimorso, anche all'amante in bracdo,] E non sia pena che la sua somigli. 6B Feriam . . . (s'incammina verso il letto: alza il pugnale; essa dà un grido inorridita: i figli si svegliano) . . Ah ., no . . . son 1r:tgl1' m t.eJ.., . . . mteJ 1r:tg['t.l

Sia qui sia in precedenza, nella parte del monologo da noi omessa, Romani segue dappresso Soumet (m 2), fino a ricalcarne la dida­ scalia: Quel est leur crime, hélas! . . . leur crime, o trahison! . . . ]e demande leur crime . . . Ils sont à Pollion; Erifans du sacrilège, ils sont à moi . . . qu'ils meurent! On viendrait les saisir sous mes yeux qui les pleurent, Ou bien d'une maratre ils subiraient la loi! Qu'ils meurent de ma main, ils ne sont plus à moi. Que de ce coup sanglant l'ingrat se désespère; Déjà morts pour Norma, qu'ils meurent pour leur père! Ne tardons plus . . . Jureurs, pretez-moi votre appui; L'enfantement du crime est plus affreux que lui. De mon coeur, par leur mort, apaisons la tempete; Frappons-les, frappons-les sans détourner la tète! Oui, ce fer . . .

67. Il libretto stampato reca lo, io li svenerò!. Bellini ha eliminato l'anafora, che forse gli è parsa poco eufonica, e ha trasformato la frase, da asseverativa che era per eco di Soumet (cfr. oltre, nel testo), in interrogativa, piu facile a percepirsi dallo spettatore e ben evidenziata da sei note per gradi contigui ascendenti (La3-Fa4), ritrovando - cer­ to del tutto involontariamente una movenza senecana (cfr. oltre, nel testo). 68. Metto fra parentesi quadre quanto Bellini non ha musicato; tagli vi sono anche in precedenza e piu che giustificati (Romani non si peritava dì definire i fìgli di Nor­ ma in questo sen concetti . . .) : ma vedi anche n. 69.

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CESARE QUESTA (Elle s'avance vers le lit, lève le poignard sur eux, et le jette avec un cri terrible.) Ah! jamais . . . mes enfans . . . mes enfans . . . È inevitabile il ricordo della Médée di Corneille {v 2), da cui Roma­

ni sembra aver preso lo spunto relativo alla rivale in amore, del tutto assente in Soumet ed allontanato da Bellini: 69 . . . immolons avec joie Ceux qu'à me dire adieu Créuse me renvoie. Nature, je le puis sans violer ta loi: Ils viennent de sa part, et ne sont plus à moi. Mais ils sont innocents; aussi l'était mon Jrère: Ils sont trop criminels d'avoir ]ason pour père; Il faut que leur trépas redouble son tourment; Il fout qu'il souffre en père aussi bien qu'en amant.

Romani conosce assai bene la genealogia dei suoi testi e perciò, poco prima, quando fa dire a Norma Muoiano, si. Non posso Avvicinarmi: un gel mi prende, e in fronte Mi si solleva il crin. - I figli uccido! . . .

sostituisce a Soumet (Mes cheveux sur monfront blanchissent de terreur. l]'épuise en un instant dans ce coeur qui segiace, l L'étérnité des maux dont la mort nous menace) l'incombente architesto senecano (Med. 926 sgg.; 950-52): Cor pepulit horror membra torpescunt gelu pectusque tremuit. ira discessit loco materque tota coniuge expulsa redit. egone ut meorum liberum ac prolis meae fundam cruorem? melius, a, demens furori incognitum istud facinus ac dirum nifas a me quoque absit; quod scelus miseri luent? 69. Soumet infatti (vedi nel testo) parla, in modo molto generico, solo di una mara­ tre, spunto conservato da Romani ( . . . schiavi d'una matrigna.? . Parrebbe che in Bellini ci sia stata, almeno qui, una sedimentazione nella memoria del testo francese, e non di quello approntato per lui dal librettista (ma sulla genesi del libretto di Norma la nostra documentazione è lacunosa: n. 65).

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ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO scelus est Iason genitor et maius scelus Medea mater - occidant, non sunt mei; pereant, mei sunt. crimine et culpa acarent, sunt innocentes, Jateor: et Jrater Juit. iam iam meo rapientur auulsi e sinu, jlentes, gementes - osculis pereant patris, periere matrisJO

Nell'ambito di siffatta densità di riferimenti si comprende come la distinzione, sopra suggerita, fra 'tràdito' e 'nuovo' si riveli almeno poco opportuna e resti nell'insieme marginale, fatta salva un'ecce­ zione su cui torneremo. Molto piu utile è rammentare che la Nor­ ma di Soumet risale ad un importante testo archetipale - l' episo­ dio di Velléda nei Martyrs di Chateaubriand - cui d'altro canto è ri­ salito direttamente anche Romani. Chateaubriand a sua volta la­ scia trasparire un ipotesto principale (l'Eneide, come tutti sanno), ma per l'episodio di Velléda a questo se ne affianca un altro piu particolare, formato da un reticolo di passi tacitiani tratti da Ger­ mania, Agricola, Historiae e ricordati dall'autore stesso nelle Remar­ ques apposte ai Martyrs.7 1 Basti qui ricordare come Velléda sia personaggio di nome, e piu che di nome, tacitiano {la celebre veg­ gente ricordata in Germ. 8 2; hist. IV 61 e 65, v 22 e 24), la quale da Tacito desume atteggiamenti e cadenze d'eloquio ricorrendo an­ che al celebre discorso antiromano di Calgaco nell'Agricola (3070. « Ma il mio cuore è artigliato dall'orrore, un gelo m'irrigidisce le membra, il mio petto ttema! L'ira è svanita, la madre ritorna con tutto il suo affetto, scacciando la sposa e la sua folle gelosia. lo spargere il sangue dei miei figli, delle mie creature? Rin­ savisci, o cieca follia: anche a una come me deve restare ignoto un simile delitto, un'empietà cosi attoce: che colpa dovrebbero espiare questi infelici? . . . È una colpa avere Giàsone come padre, e colpa maggiore è avere come madre Medea . . . Muoia­ no, non sono miei; e ancor piu muoiano, perché sono miei. Essi non sono colpevoli, non hanno commesso alcun delitto, sono innocenti: lo riconosco. Ma lo era anche mio fratello! . . . . . . Fra poco me li strapperanno dal seno, piangenti, gementi fra i baci . . . Ah no, muoiano per il padre loro! Per la madre sono già morti! » (trad. di E. Para­ tore). 71. Cito i Martyrs e le Remarques a questi nell'edizione a cura di V. Giraud, Paris, Garnier, s.d. A volte Chateaubriand cade in curiose inesattezze: per es. Tacito men­ zionerebbe una Secovia, sacerdotessa germanica (vedi ed. cit., p. 444, nella nota a un passo del !. vn).

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32).72 Questo complesso e fascinoso intrecciarsi di riferimenti im­ mediati e remoti è ben visibile nelle Scene 3-4 del I Atto di Roma­ ni, che 'presentano' la protagonista al pubblico con l'Aria celeber­ rima Casta diva.73 Il momento scenico - la raccolta del sacro vi­ schio - non è in Soumet (1 3) e Romani l'ha preso direttamente dai Martyrs,74 mentre da Soumet vengono contenuti e cadenze verbali del Recitativo di Norma: Sediziose voci, Voci di guerra avvi chi alzar s'attenta Presso all'ara del Dio? v'ha chi presume Dettar responsi alla veggente Norma, E di Roma affrettar il fato arcano . . . ? Bi non dipende da potere umano. Votre conseil farouche a jusques sur l'autel Ahrégé d'Irminsul l'entretien immortel. Ne vous ai-je pas dit, Pretresse du tonnerre, Que le ciel des soldats, encombré par la guerre, Ne veut plus recevoir vos sanglans députés? Si vous bravez des dieux les hautes volontés, Ne venez pas, au moins quand je les interprète, D'un bruit séditieux insulter leur retraite.

D'altro canto Soumet desume dai Martyrs la tirata antiromana di 72. Vedi Martyrs, ed. cit., pp. 156-58. Di questo passo tacìtiano non è alcuna menzio­ ne in Chateaubriand, che si comporta, in questo, non diversamente da Racine, il qua­ le in Mithridate m 1 riprende quasi alla lettera la sallustiana Epistula Mithridatis (hist. Iv 69 M) e, ancor piu, il rifacimento sallustiano che si leggeva in Trogo (apud Iust. xxxvm 3 10-7 w) senza menzionarli mai nella Priface, dove invece vengono ricordati Floro, Plutarco, Appiano, Cassio Dione (e vedi qui n. 54) . 73· Come naturale, Romani obbedisce alle rigide regole del melodramma italiano dell'epoca, per cui la prima Scena della sua Norma reca un Coro (Ite sul colle, o Druidt} e la seconda la 'presentazione' del protagonista maschile, articolandosi nella 'solita for­ ma' di Recitativo, Cantabile, Tempo di mezzo e Cabaletta; le Scene terza e quarta 'presentano' la protagonista assoluta (il ritardo nell'entrata è, nelle usanze teatrali, ben noto segnale di importanza) con un Coro (Norma viene . . . : Se. 3) e i quattro brani canonici che formano la Se. 4: Recitativo (Sediziose voci. . .) , Cantabile o Aria (Casta di­ va . . .) che Romani intitola 'Preghiera', Tempo di mezzo (Fine al rito . . .) e Cabaletta (Ah! bello a me ritorna . . . ) . 74· Vedi ed. cit., p. 156. Chateaubriand

era fra i pochi romantici apprezzati da Ro­ mani, ammiratore di Monti e non favorevole a Manzoni, le tragedie del quale peral­ tro lasciano echi sensibili nei suoi libretti (vedi oltre, n. 81). 3 42

ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO

Orovèse mettendo a frutto il discorso di Velléda ai Galli sotto la sacra quercia, il brano cioè di fortissima ascendenza tacitiana e, se vogliamo, anche sallustiana (cfr. sopra, n. 72). Ma Romani, per no­ stra fortuna, la riassume in soli cinque versi, cosi concludendola . . . Ornai di Brenna Oziosa non può starsi la spada

e permettendoci quindi di comprendere che il ricordo di Brenno, del tutto assente in Soumet, gli è stato direttamente suggerito dalla lettura di Chateaubriand, sedimentata nella sua memoria.75 Tutto si chiarisce quando il filologo classico, che conosce la via per scen­ dere alle Madri, cita a riferimento il bronzeo ipotesto tacitiano (hist. IV 54 2), anima e sostegno della parte piu solenne e ispirata delle parole sacerdotali: Io nei volumi arcani Leggo del cielo; in pagine di morte Della superba Roma è scritto il nome . . . Ella un giorno morrà; ma non per voi. Morrà per vizi suoi; Qual consunta morrà. L'ora aspettate, L'ora fatai che compia il gran decreto. Pace v'intimo . . . e il sacro vischio io mieto. Sed nihil aeque quam incendium Capitolii, utflnem imperio adesse crederent, im­ pulerat. Captam olim a Gallis urbem, sed integra Iouis sede mansisse imperium:Ja­ tali nunc igne signum caelestis irae datum et possessionem rerum humanarum Transalpinis gentibus portendi superstitione uana Druidae canebant.76 75· La menzione di Brenna è indiretta, ma ben evidente (ed. cit., p. 156): « elle pro­ mena quelque temps ses regards sur ces guerriers représentants d'un peuple qui le premier osa dire aux hommes: 'Malheur aux vaincus!' mot impie retombé mainte­ nant sur sa téte! ». La tirade antiromana di Velléda è invece presente a Soumet in IV 3, quando Norma, sull'altare di Irminsul, spinge i Galli alla ribellione; Romani, rielabo­ rando il tutto in u 7, concede alla sacerdotessa solo uno stupendo tricolon asindetico e allitterante, davvero da oracolo divinamente ispirato: guerra, strage, sterminio. 76. « Ma nulla come l'incendio del Campidoglio li aveva spinti a credere che per l'impero era arrivata la fìne. Una volta i Galli avevano conquistato Roma, ma, salvato­ si il tempio di Giove, l'impero aveva retto: adesso quel fuoco voluto dal destino dava il segnale dell'ira divina e additava il dominio del mondo ai popoli al di là delle Alpi: cosi, con vane credenze, profetavano i Druidi ».

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Quel 'Finale primo' che nella Clemenza di Tito abbiamo visto in forme, per cosi dire, ancora virtuali, era diventato legge severa nel­ l'opera italiana o di stile italiano, e pochi anni prima (r823) il Giove del melodramma, Gioachino Rossini, ne aveva dato un esempio superbo nella piu compatta e costrutta delle sue opere serie: Semi­ ramide.77 Di qui l'esigenza di Romani di ricavare, entro la traccia obbligata di Soumet, una situazione opportuna per almeno un Terzetto, da arricchire con interventi del Coro e collocare, appun­ to, alla fine del I Atto.78 La pièce di Soumet consta per lo piu di dia­ loghi fra due personaggi, ma Romani ha colto bene il momento scenico che consente un allargamento del testo. In I 8 del suo li­ bretto, infatti, egli ha riassunto II 3 di Soumet (la confessione di Adalgisa a N orma) offrendo a Bellini, grazie alle risorse espressive peculiari del teatro musicale, uno spunto eccellente che il compo­ sitore ha sfruttato in modo superbo.79 In 1 9 ha poi riassunto le ulti­ me battute di Soumet nella Se. 3 del II Atto e almeno la prima parte della Se. 4. Però - a differenza del modello - lungi dal far uscire Adalgisa in coincidenza con l'arrivo di Pollione, ha conservato la fanciulla sulla scena, facendola testimone smarrita dei rimorsi e del furore di Norma e oggetto di incerte dichiarazioni d'amore di Pollione. La climax di sentimenti che l'opera esige in siffatta situa­ zione culmina nell'Allegro agitato assai, dove a Norma sono riserva­ te ben ventotto battute prima che 'entrino' Pollione e Adalgisa, tutte occupate dalle due quartine previste dal libretto: Vanne, si: mi lascia, indegno, Figli obblia, promesse, onore . . . 77· Cfr. Questa, Semiramide, cit., pp. 277-86. 78. Una prassi teatrale a lungo invalsa, dovuta a ragioni di messa in scena, divide l'opera in quattro Atti, attribuendo al secondo 1 7-9, al terzo n 1-3 e al quarto tutto il resto: qui non se ne tiene conto assolutamente e del resto la stessa prassi teatrale se ne sta liberando. 79· Romani ha infatti lievemente ampliato il testo dei due 'a parte' già riservati a Norma da Soumet, cui Bellini ha poi dato uno sviluppo melodico sublime (il celebre Oh, rimembranza . . .) , il valore drammatico dei quali è esaltato dal fatto che Norma canta fra sé perduta nel ricordo, mentre Adalgisa continua la sua confessione (e infatti Romani, e non Soumet, fa dire ad Adalgisa: Ma non mi ascolti tu . . . �: è quella contem­ poraneità di affetti e sentimenti diversi che è privilegio del teatro musicale poter esprimere.

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' R O M A N E L L IMMAGI NA R I O O PE R I S T I C O

Maledetto dal mio sdegno Non godrai d'un empio amore. Te sull'onde, te sui venti Seguiran mie furie ardenti, Mia vendetta e notte e giorno Ruggirà d'intorno a te. In Soumet solo un minimo spunto {

. . .

Pars donc, maudit par mon cor­

roux! l Tremble . . .) , mentre l'incipit della seconda strofa del libretto riprende un celebre locus virgiliano (Aen. IV 380-87): . . . neque te teneo neque dieta refello: i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas; spero equidem mediis, si quid pia numina possun� supplicia hausurum scopulis et nomine Dido saepe uocaturum. Sequar atris ignibus absens e� cum frigida mors anima seduxerit artus, omnibus lods umbra adero. Dabis, improbe, poenas; audiam et haec manis ueniet mihi fama sub imos. La situazione scenica, è evidente, doveva risvegliare comunque la memoria poetica di Romani tanta è la vicinanza di questo mo­ mento di Norma con quello dell'Eneide, ma non sfugga che il libret­ tista usa il passo del poeta antico mediato da un'esegesi in sostanza già presente in Servio ad l. Dallo scoliasta infatti viene l'interpreta­ zione di sequar atris ignibus absens (un'espressione tanto bella quanto difficile ad analizzarsi) che permette a Norma di immaginare le

sue Furie ardenti scatenate a perseguitare Pollione a n c h e s u l m a ­

r e , un tratto, questo, del tutto estraneo alla vicenda gallica e invece perfettamente a suo posto nel poema virgiliano, dove il fellone di turno - Enea - vuoi sgattaiolare via grazie alla flotta. Si legga infat­ ti quanto dice Servio:

a/ii Juriarumfacibus' dicunt, hoc est 'invocatas ti­ bi inmittam diras'; alii 'sociorum focibus' dicunt, ut paulo post [594] ferte c i t i fl a m m a s . melius tamen est u t secundum Urbanum accipiamus 'atris ignibus' roga­ Ubus, qui uisi tempestatem significant, ut Aeneae, sicut in quinto [7] legimus, conti­ git. hoc ergo nunc, quodfactura est, dicit, idest occidam me et rogalibus te persequar SEQUAR ATRIS IGNIBUS ABSENS

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CESARE QUESTA flammis 'absens� quasi mortua, ut [rx 213] a bsen ti Jera t inferi as. rogalibus autem, mali ominis, quod 'atris' dixit.so

Può sembrare fuor di luogo ipotizzare un Romani intento a legge­ re l'antico scoliasta e infatti nessuno ci pensa (ma lo studioso di an­ tichità classiche davvero non avrà mai sfogliato, per es., l'edizione di Burman?), però cosi, a scuola o altrove, gli sarà stato spiegato il passo virgiliano e cosi lo ritenne la sua memoria, aiutata certo (e qui si va molto piu sul sicuro) dalla versione di Annibal Caro: va pur, segui l'Italia, acquista i regni che ti dan l'o n de e i ven ti. Ma se i Numi son pietosi, e se ponno, io spero ancora che da' v e n t i e da l'o n de e da gli scogli n'avrai degno castigo; e che piu volte chiamerai Dido, che lontana ancora co ' neri fuochi suoi ti sia presente.

Una Didone, dunque, che pensa già al rogo funebre. E Norma . . . ? È ben noto che, con colpo d'ala mai troppo elogiato, Romani si è sbarazzato del bruttissimo quinto Atto di Soumet, penoso ricalco della Médée corneliana e di altre tragedie del medesimo soggetto, per concludere il libretto con l'estrema preghiera di Norma al pa­ dre in favore dei figli e il rogo degli amanti sacrileghi e redenti. C'è allora da chiedersi se, in ultima analisi, anche il Finale II della no­ stra Norma non sia in qualche modo un'eco virgiliana, dove magari la memoria di Romani abbia agito molto, molto liberamente (et, cum frigida mors anima seduxerit artus, l omnibus umbra locis adero) : 8o. « SEQUAR ATRIS IGNIBus ABSENS: alcuni intendono 'con le faci delle furie', vale a dire 'spingerò contro di te le dee della vendetta da me invocate'; altri intendono 'con le faci dei seguaci', come poco dopo [v. 594] r a p i d i p o r t a te l e fia m m e . È meglio tuttavia, con Urbano, intendere atris ignibus 'con le fiamme del rogo funebre', che , ve­ duti, indicano tempesta, cosi come capita ad Enea, come si legge nel quinto libro [v 7]. Dice dunque adesso quello che farà poi, cioè mi ucciderò e ti perseguiterò con le fiamme del rogo funebre absens, quasi dicesse morta, come [rx 213] p o rti o ffe rte fu n e b r i a chi non c ' è p i u . E poi con le fiamme del rogo funebre, che sono di cattivo augurio, perché ha detto atris » (ater in latino indica infatti il 'nero opaco' e si dice di tutto cio che è ctonio, pauroso, mortifero: donde la dantesca morte . . . subitanea et atra). Urbano è un commentatore di Virgilio piu volte citato da Servio: posteriore a Velio Longo, è stato da alcuni collocato nel IV secolo: cfr. Enciclopedia Virgiliana, v r, 1990, s.v.

ROMA NELL ' IMMAGINARIO OPERISTICO Un nume, un Jato di te piu forte Ci vuole uniti in vita e in morte. Sul rogo istesso che mi divora Sotterra ancora sarò con te.Bl 8r. Cosi l'antiromantico Romani si inseriva perfettamente nel nuovo gusto del pubblico né sfuggirà che, tolto il décor ancora neoclassico, Norma possa configurarsi come una sorta di Monaca di Monza, anche lei infedele a' suoi voti: i Promessi sposi sono del 1827, come, guarda caso, il Pirata di Romani e Bellini, con il 'nuovo' protagonista, eroe byronico e tenore dalla 'voce d'angelo': Rubini (prendendo le mosse anch'egli da questa coincidenza cronologica, G. Lonardi esamina ora in pagine nuove e pro­ banti la presenza metrica e stilistica del Manzoni tragico nel Romani di Pirata, Anna Balena e Beatrice di Tenda, senza dire di Norma e Straniera, allargando l'indagine, con frutto, al Cammarano di Lucia: vedi Ermengarda e il Pirata. Manzoni, dramma epico, melo­ dramma, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 165-83, ma anche pp. 155 sgg.; spunti assai utili anche in E. Mariano, Felice Romani e il melodramma, in « Opera e Libretto », a. 1 1990, pp. 165-209). Il passaggio dal neoclassicismo, ancora intriso di gusto e tematiche sette­ centeschi, al romanticismo, potrebbe essere ben esemplificato anche dalla trasforma­ zione del libretto della Vesta/e. In quella oggi antonomastica {testo diJ.V. Étienne de Jouy, musica di Spontini: Parigi, Opéra, 15 xn 1807) un fulmine divino assicura il lieto fine, quasi sostitutivo del principe illuminato settecentesco che ripara i guai delle . . . monacazioni forzate {si pensi per es. all'Idalide di Ferd. Moretti, tante volte intonata alla fine del Settecento: vd. Questa, Semiramide, cit., pp. 353-61), ma la rielaborazione che ne fece Salvatore Cammarano per Saverio Mercadante {Napoli, San Carlo, IO m 1840) si piega alle nuove esigenze musicali e in piu ha Finale tragico. La vestale colpe­ vole, Emilia, è sepolta viva {si salva invece l'amica Giunia: evidente il ricalco di Nor­ ma e Adalgisa), ma dopo una Scena di Pazzia {m 3) dove Cammarano, secondato am­ modo da Mercadante, non si trattiene davanti al ricordo della sua precedente Lucia di Lammermoor per Donizetti {1835), esempio di romanticismo frenetico {come dice il Divino Anglologo). E infatti in questa Scena Emilia trema, vacilla, impallidisce e sem­ bra che stia per intonare Ardon gli incensi . . . : Ah, mira, gli incensi già fumano intorno Ascolta d'imene i grati concenti Un riso de' numi, un sogno d'amore sarà la mia vita divisa con te.

L'innamorato Decio arriva troppo tardi {nel Settecento, giammai: vedi ancora l' !dali­ de) e si uccide sulla tomba dell'amata in modi che, di nuovo, ricordano Edgardo (poco prima, fuori scena, è morto combattendo con le guardie anche il fido amico Publio) mentre gli astanti inorridiscono con eccezione dell'arciflamine Metello Pio, che vede compiersi la vendetta divina. Rispetto a Étienne de Jouy, la vicenda del quale è del tutto acronica e collocata in una Roma 'qualsiasi', Cammarano, secondo il gusto ro­ mantico, cerca un 'colore storico' piu preciso. Cosi i consoli si chiamano Licinio Mu­ rena e Lucio Silano e potrebbero adombrare Lucio Licinio Murena e Decimo Giunio Silano consoli nel 62 a.C. {ben noti ai lettori di Cicerone); Metello Pio, a sua volta, po­ trebbe essere identificato con il famoso Quinto Cecilio Metello Pio, pontefice massi-

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CESARE QUESTA 5· L' oPERA TARDOROMANTICA E DECADENTISTICA. 'NERONE' : TESTO DI A. BOITO PER LA PROPRIA MUSICA 82 Dopo l'assasinio di Agrippina, da lui ordinato, Nerone è preda di rimorsi e di incubi, cui crede di sottrarsi seppellendo le ceneri della madre lungo la Via Appia, assistito da Tigellino e da Simon Mago, il quale promette di purificarlo. Sulle orme di Nerone è una strana creatura senza pace, Aste­ ria, nerovestita e cinta di serpi che essa sa incantare rendendole innocue: Asteria vorrebbe l'amplesso dell'imperatore, ma quando gli compare da­ vanti anche li, sulla Via Appia, Nerone la crede l'Erinni della madre. Al­ lontanatisi Nerone e i suoi, arriva Rubria, una vestale che si è fatta cristiamo dall'So a.C. e, tra l'altro, capo delle truppe romane inviate in Spagna contro Serto­ rio (Sallustio, come noto, ne faceva nelle Historiae un ritratto spietato: fr. r n6 e fr. u 70 M); se il titolo di 'arciflamine' invece di 'pontefice massimo' sarà colpa della bacchet­ toneria della censura napoletana, resta che il personaggio mori nel 63 a.C. (circa) e co­ munque prima della coppia consolare sopra citata. 82. Prima rappresentazione: Milano, Scala, I v 1924. Personaggi e interpreti princi­ pali: Aureliano Pertile: Nerone; Marcello Journet: Simon Mago; Carlo Galeffi: Fanuèl; Rosa Raisa: Asteria; Luisa Bertana: Rubria; Ezio Pinza: Tigellino. Direttore d'orchestra: Arturo Toscanini; maestro del coro: Vittore Veneziani; direttore della messa in sce­ na: Giovacchino Forzano. Le citazioni vengono da Arrigo Boito l Nerone l tragedia in quattro atti l Milano-Buenos Ayres, G. Ricordi & C., 1924, un testo preparato per la musica dall'autore, ma pubblicato postumo senza il quinto Atto, che Boito non giun­ se a intonare (com'è noto, Boito, morto nel 1919, lavorò a testo e musica del Nerone al­ meno dal r862 e alla sua morte neanche l'orchestrazione dei primi quattro Atti era compiuta: la si deve a A. Smareglia, V. Tommasini e allo stesso Toscanini; della musi­ ca del quinto Atto esistono solo appunti e abbozzi): esso reca peraltro ancora qualcosa in piu e qualche variante (poco significativa) rispetto al testo musicato dello spartito Ricordi. Ma un Nerone 'completo' aveva già pubblicato Boito nel 1901 (Milano, Tre­ ves) e lo si può leggere in A. Boito, Tutti gli scritti, a cura di P. Nardi, Milano, Monda­ dori, 1942, pp. 181-320 (da questa edizione le mie citazioni del quinto Atto). Il successo fu di circostanza e l'opera non ebbe mai vera circolazione, non solo per intrinseche ragioni musicali, ma anche per difficoltà di messa in scena (nel gusto del tempo, e dunque 'stile Coppedé' piu che veramente dannunziani, ma bellissimi, i bozzetti di L. Pogliaghi per scene, costumi e attrezzi) e di compagnia di canto: i sei interpreti sopra elencati erano cantanti di altissimo livello, la cui fama è tuttora ben viva, ma è assai difficile trovare, oggi, un tenore che si carichi della parte di Nerone, gravosissima e 'senza sugo' musicale, e cosi dicasi delle interpreti femminili; quanto a Simon Mago e Fanuèl, si pensi quanto possa essere problematico far convivere nello stesso spettaco­ lo, che non sia affidato a direttore del prestigio e dell'autoritarismo toscaniniano, un grande basso-baritono 'vilain' (Simone) e un grande baritono 'nobile' (Fanuèl) in par­ ti faticose e parimenti 'senza sugo' (ciò che non vuoi significare affatto senza 'roman­ za celebre', da applauso a scena aperta). Sulla messa in scena della prima e su alcune riprese vd. Giorgio Lise, Le scene di Ludovico Pogliaghi per il Nerone di Boito, in Raaolta delle Stampe A. Bertarelli . . . , in « Rassegna di Studi e di Notizie », a. n 3 1975, pp. 243-84.

ROMA NELL ' IMMAGI NARIO O PERISTICO

na senza abbandonare i culti aviti e avendo dietro di sé una cupa vicen­ da . . . Essa recita il Pater nosterpresso l'ingresso di una catacomba, udita so­ lo da Asteria, che si commuove ma poi fugge ancora sulle tracce di Nero­ ne. Giunge Fanuèl, un altro cristiano, di cui Rubria è nascostamente in­ namorata, cosi come nel cuor suo l'ama Fanuèl. Questi vorrebbe lasciare Roma, ma rinuncia al suo progetto dopo essersi imbattuto in Simon Ma­ go che tenta Fanuèl con il miraggio del potere supremo, chiedendogli in cambio la virtii di fare miracoli; Fanuèl lo maledice e Simon Mago si al­ lontana minaccioso (poco prima Asteria gli ha promesso di essere un suo strumento se, con ciò, potrà giungere a Nerone). Tornano Nerone e Ti­ gellino: l'imperatore ha paura che plebe e Senato, saputo del matricidio, lo respingano dall'Urbe; Tigellino, invece, e Simon Mago, anche per sal­ vare se stessi, gli hanno preparato un rientro trionfale. Nerone si rinfran­ ca: mentre sorge il sole, sale sulla lettiga che si muove verso l'Urbe fra le acclamazioni della plebe, dei soldati, dei musici e dei teatranti di Roma. N el secondo Atto, Simon Mago celebra nel suo tempio riti occulti, facen­ do credere ai suoi devoti di essere salito al cielo; in realtà egli e i suoi complici bevono allegramente nella parte del tempio dove i fedeli non li possono vedere. Simone vuole dominare lo spirito di Nerone e ha pro­ messo di fargli apparire una dea che potrà placame i rimorsi: sarà pero Asteria, collocata sull'altare fra luci misteriose, che Nerone vedrà riflessa in uno specchio. Giunge l'imperatore che, poco a poco, lascia di riguarda­ re lo specchio magico e si volge all'altare dove è assisa la donna. Nerone la crede in effetti una dea e la implora di scendere a lui, preso ormai dal desiderio della trasgressione suprema: in passato ha violato la vestale Ru­ bria nel tempio stesso della dea vergine; ora vuole possedere un'immor­ tale. Asteria cede e poco a poco si avvicina a Nerone, che però s'avvede della mortalità della donna al momento del suo bacio. Accortosi della truffa, l'imperatore fa entrare le guardie, impugna una mazza ferrata e si diverte a demolire il tempio, che svela i suoi inganni. Simon Mago e Asteria saranno atrocemente puniti: questa sarà gettata nel vivaio delle serpi (e invano Asteria gli ricorda che non morirà perché è della loro stes­ sa stirpe) e quello, che si vantava di salire al cielo, dovrà volare nel circo come Icaro nei prossimi giochi: peggio per lui se morirà. Simone acetta il patto, purché - dice - nel circo scorra anche sangue cristiano. I Cristiani, e fra essi Fanuèl e Rubria, cantano inni al Signore nei loro hortus quando compare Asteria, sfuggita al vivaio delle serpi: ha udito le minacce di Si­ mon Mago e viene a scongiurare i Cristiani di fuggire, prima di correre nuovamente sulle tracce di Nerone. Rubria vorrebbe lasciare Roma as­ sieme a Fanuèl, che invece le chiede di confessargli quale sia la colpa se­ greta di cui talora essa si accusa . . . In quell'istante arriva Simon Mago

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CESARE QUESTA che, respinto ancora una volta da FanuèL lo fa arrestare dai soldati di Ne­ rone da cui egli stesso è sorvegliato (ma non senza aver fatto in tempo a inviare un suo fido a mettere in moto « la congiura dell'incendio »); Ru­ bria, rimasta sola, pensa a come possa salvare Fanuèl. I giochi del circo hanno inizio, organizzati da Nerone come se fossero uno spettacolo di cui egli sia il regista: i condannati a morte dovranno esibirsi in pantomi­ me 'vere' e pertanto Fanuèl dovrà impersonare il brigante Laureolus cro­ cifisso e sbranato dagli orsi; le donne cristiane saranno Dirci legate ai tori e saettate dagli arcieri; quanto a Simon Mago, sarà Icaro che vola. Tigelli­ no avverte l'imperatore d'aver appreso dai suoi servizi di informazione che i seguaci di Simon Mago vogliono suscitare un incendio per salvare il loro capo, ma Nerone non lo lascia agire: sa già tutto e vuole profittare di un'occasione unica per distruggere Roma e rifarla piu bella; finalmente si rende conto di quanto può osare colui che regna! Entrano i condannati e, al momento in cui passa Fanuèl, si presenta una vestale, velata e coperta del candido abito sacerdotale: vuole usare del suo antichissimo privilegio di salvare il condannato a morte in eu si imbatta. Nerone però le chiede di giurare, secondo la legge di Numa, di non essere giunta li di proposito e allo smarrimento della donna ordina che le sia strappato il velo. È Si­ mon Mago che si slancia e mentre Nerone riconosce la sacerdotessa da lui un tempo violentata, Fanuèl abbraccia la donna che ha sempre amato in segreto svelandola però in pari tempo come cristiana: anche Rubria, allora, è trascinata via tra le Dirci. Simon Mago cerca di ritardare il mo­ mento del suo volo: sa che i suoi sacerdoti - con Asteria, che invece vor­ rebbe aiutare i Cristiani - sono pronti a scatenare l'incendio. Ed è ciò che poco dopo accade, mettendo in pazza fuga la folla del circo, ma non sen­ za che prima sia stata consumata la strage delle donne cristiane. Nell'ulti­ ma scena del dramma Fanuèl e Asteria, mentre rugge l'incendio, cercano insieme Rubria nello spoliarium del circo: Fanuèl l'ha vista cadere colpita dagli arcieri. La trovano, infine, e Rubria muore dolcemente fra le brac­ cia dell'amato, dopo aver confessto la colpa di cui s'angustiava: aveva cer­ cato di unire il puro culto di Ve sta con la nuova fede in Gesu . . . Asteria trova un ultimo scampo per Fanuèl ed essa stessa, dopo aver deposto su Rubria il fiore che questa le aveva dato sulla Via Appia, fugge fra l'imper­ versare dell'incendio, una volta di piu inseguendo Nerone, suo demone scellerato.

La temperie decadentistica del Nerone è ben fissata da Mario Praz, che lo accomuna ad altra produzione italiana del tempo, con particolare riguardo alla figura di Asteria, dove si trovano « orrori 35 0

' R O MA N E L L I M M A G I N A R I O O PE R I ST I C O

d'accatto, cadenze decadenti di riflesso >>.83 Possiamo aggiungere che Asteria rientra nei canoni della bellezza medusea,84 se cosi la descrive Simon Mago nel I Atto: . . . Donna, Strana ed audace, avernalmente bella, Tu sembri al raggio di questa Jacella Medusa, Beate, Sfinge, Eumenide o dimòne.

E Nerone è un 'dilettante di sensazioni' che vuole commettere il sacrilegio piu empio - violare un essere divino - ma, ahimé, la sua precisa connotazione decadentistica, la confusione tra vita e lette­ ratura, lo porta a snocciolare una serie di litanie gnostiche troppo ricalcate su Flaubert 85 e il suo fascino perverso su Asteria è quello di un tiranno sempre in bilico tra sadismo e gioco di messa in sce­ na.86 N el quinto Atto, il cui testo forse soltanto lo Strauss di Salome avrebbe potuto affrontare, i due precipitano nel ridicolo: lui si co­ pre il viso « con una pelle di pardo stesa sul letto » tricliniare 87 e poi lei gli si offre dicendo sbranami tutta,88 ma il pugnale, con cui 83. La carne, la morte e il diavolo, Firenze, Sansoni, 19765, p. 224. 84. Vedi ancora La carne, cit., pp. 31-53. 85. Vedi infatti, nella Tentation de saint Antoine, l'apparizione ad Antonio di Elena e Sìmon Mago (cito dall'ed. de MaynaL Paris, Garnìer, 1968, pp. 122-30) . Piu lunghe le litanie dei fedeli dì Sìmone all'inizio dell'Atto. 86. La memoria di Nerone, come tutti sanno, era « venerata » da Sade e l'imperato­ re era anche uno degli eroi di Flaubert: vedi Praz, La carne, cit., p. 155 n. 174 (dove è, tra l'altro, citazione di un lavoro di E. Renan [Les Dircés chrétiennes] che Boìto in qualche modo deve aver conosciuto: vd. oltre) e pp. 156-61, ricche di testimonianze. Il d'An­ nunzio dell'Intermezzo intitola un sonetto Qualis artifex pereo!, nella seconda strofa del quale è per intero il Nerone dei decadenti con il suo tXJ.I(J.ITJ'tO) sembrava mettere in discus­ sione l'intelligenza politica dello statista e il valore paradigmatico della sua opera. Una delle risposte all'incauto fu quella, indiretta, del filosofo Emilio Bodrero: nel Dittatore bisognava riconoscere « la prima Camicia Nera».127 Volendo passare a temi specifici, dirò anzitutto che non è mio intendimento affrontare in questa sede problemi di grande rile­ vanza come le diatribe sulla filologia o sull'originalità della lettera­ tura latina. Indagini recenti hanno messo in luce quanto sia nell'u­ na 12 8 che nell'altra 129 la scientificità del dibattito fosse inquinata da condizionamenti politici. Mi propongo invece, scegliendo fra i vari altri esempi di « lettu­ re mirate >> che sono stati oggetto di analisi negli ultimi tempi, di accennare a due casi non meno significativi, poiché riguardano i fondamenti stessi delle ideologie reazionarie in Germania e in Ita­ lia: 1) la questione del rapporto fra Antike e Deutschtum; 2) le moda-

126. M.A. Levi, Cesare, Gaio Giulio, in Enciclopedia Italiana, IX, 1931, pp. 867-73 (la ci­ tazione a p. 872) . Sulla faida, nella quale venne coinvolto, da intellettuali frustrati e delatori anonimi, lo stesso Mussolini, cfr., da ultimo, Cagnetta, Antichità classiche, cit. a n. 30, pp. 160-96 (a pp. 186-96 una ricostruzione delle palinodie successive del giovane eretico), e Lepore, Cesare e Augusto, cit. a n. 125, pp. 303-4. 127. E. Bodrero, Umanità di Giulio Cesare, in « Nuova Antologia », settembre-otto­ bre 1933, pp. 161-75 (la citazione a p. 174) . 128. Sul contributo italiano alla turbolenta vicenda, nella quale si distinsero G. Fraccaroli (L'irrazionale nella letteratura, Torino, Bocca, 1903) e E. Romagnoli (Minerva e lo scimmione, Bologna, Zanichelli, 1917) , cfr., da ultimo, La Penna, L'influenza, cit. a n. 73. pp. 260-62; Canfora, Vitelli, cit. a n. 44, pp. 308-9; 315-16; 318-22 = pp. 39-40; 48-49; 52-56; La Penna, Concetto Marchesi, cit. a n. 81, pp. 54-55; Degani, Italia. Lafilologia greca, cit. a n. 69, pp. 1104-8 (Fraccaroli); 1100-4 (Romagnoli); Id., Gli studi di greco, in Giorgio Pasquali, cit. a n. 16, pp. 222-23; M.L. Chirico, Lafondazione della rivista « Atene e Roma » e la filologia classica italiana, in Momenti, cit. a n. 14, pp. 87-104 (in part., pp. 93-94) . 129. « La questione dell'originalità della letteratura latina è chiusa da tempo » e « sarebbe auspicabile che se ne scrivesse una storia, ma il compito, nel suo insieme, è schiacciante »: cfr., da ultimo, La Penna, L'influenza, cit. a n. 73. pp. 267-68; Id., Gli «Scrittifilologici », cit. a n. 97, p. 26 = pp. xx-xxi (donde la citazione); F. Giordano, Ilpro­ blema della originalità della letteratura latina nella cultura classica italianafra Ottocento e Nove­ cento, in Momenti, cit. a n. 14, pp. 69-86; G.F. Gianotti, Per una storia delle storie della lette­ ratura latina, I Parte, in « Aufidus », a. II 1988, 5, pp. 47-81 (passim), II Parte, ibid., a. m 1989, 7, pp. 75-103 (passim).

LE LETTURE MIRATE lità della partecipazione italiana ai Bimillenari degli Anni Trenta (Virgilio, Orazio, Augusto).

5· LA GERMANIA m TACITO DA NoRDEN AL NAZISMO Il fatto che nel sistema educativo della Germania guglielmina il paradigma classico, benché sottoposto a tentativi di ridimensiona­ mento, 130 mantenesse una sua condizione di privilegio, non evitò, da un lato, profonde lacerazioni all'interno dei suoi cultori, dall'al­ tro, la pericolosa concorrenza di modelli diversi. Per quanto concerne il primo aspetto, mi limito a richiamare due fenomeni: la tendenziale prevalenza dell'esempio greco su quello romano (con la ricorrente assimilazione dei Greci ai Tede­ schi) 131 e la contrapposizione, fra i seguaci dell'Hellenentum, di una linea storicistica (riassumibile nel magistero di Wilamowitz) ad una irrazionalistica (da Nietzsche ai « Georgeani » e oltre) .132 Venendo al secondo problema, è da notare che l'affermazione della continuità fra Greci e Tedeschi, ripetuta dalla generazione di Humboldt e Niebuhr133 a quella di Wilamowitz e Meyer134 130. Sul dibattito relativo al « ginnasio umanistico » fra Ottocento e Novecento cfr. Canfora, Ideologie, cit. a n. 23, pp. 32-35, e Id., Wilamowitz und die Schulreform: Das « Grie­ chische Lesebuch », in « AU », a. xxv 1982, 3, pp. 5-19 = in Wilamowitz nach 50]ahren, cit. a n. 15, pp. 632-48 (versione originale, Wilamowitz e la riforma della scuola: il « Griechisches Lesebuch », in Canfora, Le vie, cit. a n. 9, pp. n2-30). 131. Cfr. itifra, nn. 133, 134. 132. Per l'inizio della vicenda: Der Streit um Nietzsches « Geburt der Tragodie », a cura di K. Griinder, Hildesheim-Ziirich-New York, Olms, 1969; Nietzsche, Rohde, Wilamo­ witz, Wagner. La polemica sull'arte tragica, a cura di F. Serpa, Firenze, Sansoni, 1972. Sul « Georgekreis » cfr. supra, n. 59· 133. Una delle prime formulazioni al riguardo è quella di G.B. Niebuhr, secondo cui « la Germania [era] la Grecia dell'età moderna »: E. Schwartz, Gymnasium und Weltkultur [1917], in Gesammelte Schriften, I, Berlin, de Gruyter, 1938, pp. 195-220 {la ci­ tazione a p. 201). Sulle origini del fenomeno cfr. M. Fuhrmann, Die « Querelle des An­ dens et des Modernes », der Nationalismus und die deutsche Klassik, in Classica! Injluences on Western Thought, cit. a n. 20, pp. 107-29 (in part., pp. 120-26); Canfora, Ideologie, cit. n. 23, p. 14, n. 3; p. 34, n. 4; W. Riiegg, Die Antike als Begrundung des deutschen Nationalbewusst­ seins, in Antike in der Moderne, cit. a n. 20, pp. 267-87 (in part., pp. 273-82). 134. Wilamowitz: cfr., ad es., il componimento in versi [1901] pubblicato da A. Ko­ senina, Die Germanisierung des Hellenentums. Ein ungedrucktes Gratulationsgedicht von Ul­ rich von Wilamowitz-MoellendotfJzu Wilhelm Raabes 70. Geburtstag, in « QS », a. XVI 1990,

GINO BANDELLI mentre degli intellettuali non meno prestigiosi come Schwartz e Heinze propugnavano comunque il valore formativo della cultura latina -,135 non metteva il paradigma classico al riparo dagli assalti di quello germanico.13 6 La tensione raggiunse l'apice fra gli Anni Venti e gli Anni Tren­ ta. In alcune pagine del Mein Kampj(1925-1926) AdolfHitler aveva riproposto come base dell'educazione il modello greco e roma­ no,l37 E in sintonia con l'augusto orientamento, ma non senza il recupero di tradizioni diverse, il terzo principio di un « Decalogo >> dei filologi classici, pubblicato nel 1933, suonava in questi termini: « . Sul terreno del Volkstum tedesco hanno ricevuto la loro speci­ fica impronta nazionale le altre due grandi forze storiche che in­ sieme hanno determinato, e ancora oggi determinano, in maniera sostanziale, la formazione e il destino del nostro popolo: la religio­ ne cristiana e l'antichità » ,138 Il conseguimento della difficile sinte. .

31, pp. 121-27 (in part., pp. 122-23), o U. von Wilamowitz-Moellendorff, Griechen und Germanen (1923), in Id., Reden und Vortriige, n, Berlin, Weidmann, 1926\ pp. 95-uo. Meyer: cfr., ad es., A. Momigliano, Premesse per una discussione su Eduard Meyer, in « RSI », a. xcm 1981, pp. 384-98 = Id., Settimo contributo, cit. a n. r, pp. 215-31 (in part., pp. 392-93. 396-97 = pp. 224-25, 228-30). 135. Schwartz: cfr., ad es., Canfora, Ideologie, cit. a n. 23, pp. 32-35. Heinze: cfr. supra, n. 6o. 136. A proposito di questo cfr., da ultimo, M. Mazza, La « Germania » di Tacito: etno­ grafia, storiogra.fia e ideologia nella cultura tedesca dell'Ottocento, in Lafortuna di Tacito, cit. a n. 22, pp. 167-217; L. Canfora, Tacito e la « riscoperta degli antichi Germani »: dal II al III Reich, ibid., pp. 219-54 = Id., Le vie, cit. a n. 9, pp. 30-62; Id., La Germania di Tacito, cit. a n. 30; V. Losemann, Aspekte der nationalsozialistischen Germanenideologie, in Alte Ge­ schichte und Wissenschaftsgeschichte, cit. a n. 6, pp. 256-84; Id., Arminius und Augustus. Die romischgermanische Auseinandersetzung in deutschen Geschichtsbild, in Caesar und Augustus, cit. a n. 13, pp. 129-63. Altra bibliografia in D. Timpe, Zum politischen Charakter der Ger­ manen in der « Germania » des Tacitus, in Alte Geschichte und Wissenschaftsgeschichte, cit. a n. 6, pp. 502-25 (in part., p. 502, n. r). La fortuna recente dei capitoli germanici del Bellum Gallicum è analizzata in E. Mensching, Caesar und die Germanen im 20. Jahrhundert. Be­ merkungen zum Nachleben des Bellum Gallicum in deutschsprachigen Texten, Gottingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1980. Cfr., inoltre, le opere citate a nn. 140 e 141. 137. A. Hitler, Mein Kampf, Miinchen, Zentralverlag der N.S.D.A.P., 193337, pp. 468-70. Cfr. Canfora, La Germania di Tacito, cit. a n. 30, p. 73. e Id., Ideologie, cit. a n. 23, p. 3· Da ultimo: Christ, Romische Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft, cit. a n. 6, p. 198, e Losemann, Aspekte, cit. a n. 136, p. 274 (entrambi gli studiosi riportano anche dichiarazioni, del medesimo tono, presenti nello « Zweites Buch � e nei « Tischge­ sprache » del dittatore). 138. Di questo documento, pubblicato in « Das humanistische Gymnasium », a.

LE LETTURE MIRATE si, per il quale si adoperarono studiosi piu o meno allineati col re­ gime, di formazione tanto laica quanto confessionale,139 venne tuttavia contrastato dalle nuove fortune del mito germanico. Nel­ l'ambito piu generale di una lotta di potere fra Heinrich Himmler e Alfred Rosenberg si colloca la faida che oppose gli archeologi so­ stenuti dal primo (nei quali non mancavano i classicisti come Theodor Wiegand) 140 a quelli protetti dal secondo (che obbediva­ no ad un fanatico del Deutschtum come Hans Reinerth).141 È in tale contesto che dobbiamo inquadrare una delle fasi culminanti della discussione intorno alla Germania di Tacito. L'opera, considerata per oltre quattro secoli da molteplici pro­ spettive 142 - nell'ampio orizzonte dell'esegesi tedesca dell'Otto­ cento compaiono sia letture in chiave « comunista » come quella (1881) di Friedrich Engels, sia letture in chiave reazionaria come quella (1899) di Houston Stewart Chamberlain-,143 fu oggetto, dal 1914 al 1920, del riesame di un grande filologo: Eduard Norden. Le conclusioni raggiunte da questo nel saggio Die germanische Urge­ schichte in Tacitus Germania, concepito dall'autore come un suo trixuv 1933, pp. 209-n, è apparsa una traduzione italiana: Decalogo 1933 de/filologo tedesco, a cura di A. Favuzzi, in « QS », a. v 1979, 9, pp. 263-66 (la citazione a p. 263) . 139. Un bilancio complessivo in Canfora, Ideologie, cit. a n. 23, pp. 133-59. Sull'ap­ porto cattolico e sulla « konservative Revolution » cfr. infra, n. 164. 140. L'attività dell'Istituto di ricerca « Das Ahnenerbe », promosso nel 1935 da Himmler, è analizzata da A. Schnapp, Archéologie et nazisme, [I], in « QS », a. III 1977, 5, pp. 1-26; Losemann, Nationalsozialismus, cit. a n. 32, pp. n8-39, 232-40; Canfora, La Ger­ mania di Tacito, cit. a n. 30, pp. 72-76; A. Schnapp, Archéologie et nazisme, n, in « QS », a. VI 1980, n , pp. 19-33 (in part., pp. 22-24) . 141. Sull'« Amt Vorgeschichte » del Partito nazista, fondato nel 1932, cfr. Schnapp, Archéologie et nazisme, [I], cit. a n. 140, pp. 3-5, e Canfora, La Germania di Tacito, cit. a n. 30, pp. 71-72. Per la continuità di pensiero tra il pangerrnanista G. Kossinna e il suo al­ lievo H. Reinerth cfr. L.S. Klejn, Kossinna im Abstand von vierzigjahren, in «Jahressch­ rift fiir mitteldeutsche Vorgeschichte », a. LVIII 1974, pp. 7-55 (una traduzione france­ se di questo articolo, « adattata e condensata », in J.-P. Millotte, Archéologie, racisme et nationalisme, in « DHA », a. IV 1978, pp. 377-402) , e Schnapp, Archéologie et nazisme, [I], cit. a n. 140, pp. 18-20. Sulla « Hohe Schule » di Alfred Rosenberg, progettata verso il 1937, ma realizzata solo piu tardi, cfr. Losemann, Nationalsozialismus, cit. a n. 32, pp. 139-73. 240-57· 142. Indicazioni al riguardo nelle opere citate a n. 136. 143. Cfr., soprattutto, Canfora, Tacito, cit. a n. 136, pp. 244-48; 223-33; Id., La Germa­ nia di Tacito, cit. a n. 30, pp. 58-63; 15-33; Losemann, Aspekte, cit. a n. 136, p. 263; Id., Ar­ minius, cit. a n. 136, p. 139.

GINO BANDELLI buto alla causa nazionale, furono insigni dal punto di vista scienti­ fico, ma paradossali da quello politico. Affermando la dipendenza dello scritto di Tacito (in particolare del capitolo II sull'« autocto­ nia » dei Germani, del capitolo IV sulla « purezza » della stirpe e dei capitoli VI-VII, XI-XIV sull'istituto del comitatus) da tradizioni etno­ grafiche relative ad altre popolazioni barbariche come gli Sciti e i Celti 144 - cioè non escludendo che le caratteristiche attribuite ai Germani dalla fonte latina, lungi dall'essere autentiche e specifi­ che, risultassero, almeno in parte, dei luoghi comuni -, lo studioso metteva in difficoltà ogni interpretazione « continuistica )) della storia patria, e quanto ne discendeva: la rivendicazione dei territo­ ri occupati originariamente dal Volk, la difesa della sua « purezza )) e il modello di organizzazione politica fondato sul rapporto diret­ to del capo (Kaiser o Fiihrer) con la sua Gifolgschaft. La reazione del­ la cultura tedesca al volume del Norden, estrinsecatasi, dagli anni di Weimar al Terzo Reich, in numerosi tentativi di riaffermare quella autenticità e quella specificità, valorizzate dai piu, 145 critica­ te da qualcuno,146 è un caso emblematico del rapporto fra scienza e politica del quale ci occupiamo.

6. J BIMILLENARI DEL FASCISMO All'inizio degli Anni Venti la polemica sull'originalità della let­ teratura latina sembrava giunta al suo epilogo.147 Dal saggio di Friedrich Leo, intitolato, appunto, Die Originalitat der riimischen Li­ teratur (1904), alle monografie su alcuni dei grandi classici, pubbli144. Norden, Die germanische Urgeschichte, cit. a n. 108, pp. 42-59, 124-27. 145. Cfr. Canfora, Tacito, cit. a n. 136, pp. 235-39, e Id., La Germania di Tacito, cit. a n. 30, pp. 38-44. Altra bibliografia in H.W. Benario, Tacitus' Germania. A Third of Century of Scholarship, in « QS �. a. IX 1983, 17, pp. 209-30 (in part., pp. 216, 219, nrr. 52, 53) . In senso nordenniano va il recente bilancio di G. Peri, Die « Germania » des Tacitus. Histo­ risch-politische Aktualitiit und ethnographische Tradition, in « ACD », a. x1x 1983, pp. 79-89. 146. Un'espressione molto significativa di questa linea minoritaria è costituita da una predica di fine d'anno (31 dicembre 1933) del cardinale monacense Michael von Faulhaber, che denunciava la « barbarie � della Germania precristiana e coloro che in­ tendevano riferirsi a quel modello: a proposito di essa e delle reazioni che suscitò cfr. Losemann, Aspekte, cit. a n. 136, pp. 265-76. 147. Per la bibliografia al riguardo cfr. supra, n. 129.

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LE LETTURE MIRATE cate da Richard Heinze ( Virgils epische Technik, 1903), Giorgio Pa­ squali ( Orazio lirico, 1920) e Eduard Fraenkel (Plautinisches im Plau­ tus, 1922), era emersa una linea interpretativa che, nel fissare i ter­ mini della dipendenza degli autori latini dai rispettivi modelli, metteva in luce, contemporaneamente, quanto di virgiliano ci fos­ se nell'Eneide, quanto di oraziano nelle Odi e quanto di plautino nelle Commedie. Ai livelli piu alti della scienza filologica una po­ sizione come quella ribadita ancora nel 1930 da Ulrich von Wila­ mowitz-Moellendorff, secondo cui gli « Hauptwerke >> dei poeti augustei in tanto valevano, in quanto « sie die klassische griechi­ sche Dichtung nachahmten »,148 avrebbe potuto dirsi ormai supe­ rata. Invece, ai piii irriducibili fra gli studiosi di credo fascista, ma non a Giorgio Pasquali,149 il nuovo orientamento parve un compro­ messo: donde la ricerca puntigliosa di quei tratti fondamentali del « genio della stirpe », che dovevano garantire la superiorità, di fronte a qualsiasi precedente, delle sue manifestazioni lettera­ rie)SO Da siffatte premesse non potevano che discendere conclu­ sioni come questa: > delle celebrazioni virgiliane, 175 essendo > e deglì « istituti » della vita romana. Già questa impostazione permette di comprendere il rilievo primario assegnato al gruppo dei testi d'importanza storica rispetto a quelli d'importanza « puramente artistica » ; i primi dunque hanno il ruo­ lo di far luce sul mondo di Roma repubblicana e sul periodo politi­ camente e socialmente cruciale del passaggio dalla repubblica al­ l'impero, e si tratta di lettere e orazioni ciceroniane, di Livio, di episodi tratti da Cesare, De bello Gallico e De bello civi/i. 19 In secon­ do piano sembra passare l'obiettivo didattico di sviluppare « la ca­ pacità di gustare la poesia latina » , e lo conferma un programma di letture poetiche relativamente ridotto e comunque limitato al solo Virgilio (passi scelti di Bucoliche, Georgiche ed Eneide). Che l'interesse prevalente nel biennio di passaggio costituito dal · ginnasio superiore sia quello di una formazione storica, ed in tale quadro si valorizzi la conoscenza di testi capitali della storiografìa classica, in quanto testi cardine di un curriculum scolastico riservato alla classe dirigente, emerge anche nel programma di Storia antica quale disciplina a sé. Qui infatti, nello studio dell'ampio periodo che va dalle piu antiche civiltà mediterranee alla fine dell'impero d'Occidente, secondo i dettami della pedagogia gentilìana che de­ primeva le sintesi manualistiche a favore di una diretta lettura dei

estetizzante: in una dozzina di righe sì susseguono stucchevolmente espressioni co­ me « vivo senso della bellezza �. « segnalato valore artistico », « ripetuta ammirazione del bello », « capolavoro », « appressarsi alle fonti della bellezza », sino a raggiungere il ridicolo: « E se ne ha inteso la bellezza saprà recitarlo con commozione. L'esaminato­ re, pur tenendo conto della difficoltà che tale stato d'animo si produca al momento dell'esame, cerchi di cogliere questa capacità di sentire » (p. 8). 19. Il testo del programma precisa che di queste opere vanno letti « Episodi a svol­ gimento completo », per sottolineare l'interesse storico, contenutistico da rivolgere a queste letture, evitando forme di approccio meramente grammaticale o formale: la vacuità di un'impostazione didattica di tal genere era già denunciata nelle « Avver­ tenze » relative al programma del ginnasio inferiore, dove la si stigmatizzava come causa di appiattimento tale, « per cui tanto vale studiare una lingua che un'altra, que­ sto libro o quell'altro » (p. 8). 409

MARIELLA CAGNETTA classici, filosofici,20 storici o letterari che fossero, l'accento viene posto non sulle nozioni (« serie di nomi e di date »), e neanche su > (la tradizione evocata e criticata è quella di un inveterato formalismo giuridico dominante soprattutto nello studio della storia romana), bensi sull'esposizio­ ne di letture, in questo caso fatte su traduzioni, scelte a illustrare alcuni momenti-chiave nello sviluppo delle civiltà antiche. Gli esempi indicati sono Tucidide per la guerra del Peloponneso, Ar­ riano e Curzio Rufo per le imprese di Alessandro, Livio per le guerre puniche, Tacito per le spedizioni contro i Germani, mentre non si trascura di consigliare la lettura di tradizioni e leggende, a ulteriore e piu vivido chiarimento della vita e dello spirito di un mondo lontano ma ancora presente nell'immaginario - come si direbbe oggi - del mondo occidentale.



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INTUIZIONE ESTETICA E COMPRENSIONE STORICA

L'interesse estetico nello studio del mondo antico assurge inve­ ce a rango primario, fino a divenire quello pressoché esclusivo, nei tre anni finali del liceo classico, si che le « Avvertenze >> premesse ai relativi programmi di letteratura (e storia dell'arte) presentano quasi il carattere di una breve summa di 'pedagogia dell'estetica' di stampo gentiliano; o meglio crociano - gentiliano. Vediamo. L'esordio di tale prosa è dedicato ad una ripresa del concetto, emerso - come s'è visto - già in precedenti « Avvertenze », della piu ampia lettura possibile delle opere significative, senza la quale « lo studio d'una letteratura si riduce ad un semplice "ammobiglia­ mento della memoria" ». Si chiarisce quindi che la breve storia del20. « Nel libro di testo, nell'esposizione del docente si trova la dottrina bella e fatta, ma nell'opera classica trovi la dottrina stessa in sul farsi; ed è questa che giova vera­ mente allo spirito del discente � (G. Gentile, L'insegnamento dellafilosofia nei licei, Paler­ mo, Sandron, 1900, pp. 205-6). A questo passo Augusto Monti (Scuola classica, cit., pp. 24-25) accostava pieno di ammirazione una riflessione di Carducci, frutto dei suoi an­ ni di insegnamento: « È necessario che i discenti vedano da sé che cosa e in che modo hanno pensato i piu alti intelletti, il cui nome si vien loro citando ogni giorno » (Con­ fessioni e battaglie, Bologna, Zanichelli, 1890, p. 19).

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LE LETTURE CONTROLLATE l'estetica posta a premessa del programma di italiano va intesa co­ me introduttiva a tutte le discipline di natura artistica (letteratura italiana, letteratura latina, letteratura greca, storia dell'arte). Il pro­ gramma di italiano è ripartito in una breve parte storica ed in una lunga parte letteraria costituita unicamente dall'elenco dei princi­ pali autori; per svolgimento di una parte storica tuttavia, ed è note­ vole, si intende soltanto che vengano date alcune nozioni intorno allo sviluppo del pensiero estetico dal medio evo in poi e alle tra­ sformazioni del gusto attraverso le varie epoche. Alla sommità della piramide educativa deve dunque essere chiaro che l'unica ca­ tegoria storica cui l'opera d'arte è rapportabile è quella della storia del gusto; altro legame o, peggio, condizionamento (politico, so­ ciale, economico) con la realtà del suo tempo non può esservi e non v'è, essendo appunto, crocianamente, l'arte somma espressio­ ne di una ideazione-intuizione. « Questo sarà il vero fulcro storico intorno a cui si deve organizzare lo studio delle varie letterature. Le opere d'arte, poi, debbono essere guardate con animo sgombro da ogni preoccupazione che non sia quella del valore estetico, del valore umano dell'opera stessa ». Queste enunciazioni innegabilmente risentono dell'insegna­ mento crociano, ma sono affiancate da altre di natura alquanto di­ versa, in cui paiono piuttosto riecheggiare le argomentazioni svol­ te da chi, come Pasquali, coniugava il buon uso dei classici alle cor­ rette categorie di « filologia e storia ». Con esito dunque alquanto contraddittorio sul piano pedagogico e critico, mentre si esclude ogni preoccupazione che non sia quella estetica nella lettura delle opere letterarie, svalutando pur senza realmente definirle tutte le « minuterie erudite », si lascia la porta aperta all'applicazione di cri­ teri di lettura rigorosamente storici e filologici quando si indicano quali strumenti « utili )) alla comprensione di un testo la conoscen­ za dell'epoca cui appartenne l'autore, dell'insieme della sua pro­ duzione, delle esperienze che contribuirono alla formazione della sua visione del mondo. O meglio, come si legge nel testo del de­ creto, « alla formazione del suo mondo poetico », con una formu­ lazione che parrebbe escludere dallo studio liceale delle varie let­ terature ogni autore che non abbia intenti meramente letterari, il

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MARIELLA CAGNETTA che ovviamente non è {si pensi ai filosofi, agli storici, ai trattatisti: di tali autori latini previsti nel programma si dirà tra poco). Tale incoerenza è forse spia appunto della contraddittorietà di intenti che emerge in questa parte del programma: precisare che l'esami­ natore deve verificare la conoscenza delle notizie « utili » a meglio comprendere un testo quali mezzi dell'interpretazione e .

6. JL MERCATO DEI CLASSICI Muovendo da premesse culturali evidentemente opposte a quelle della Russia sovietica, anche l'editoria italiana si fa promo­ trice di iniziative analoghe a quelle ricordate con apprezzamento da Cantimori nel '37. Ed è, fra gli altri, lo stesso Gentile, non piu nel ruolo ricoperto per breve tempo di esponente del governo, ma in quello piu duraturo e redditizio di consulente ed editore, ad ela­ borare progetti miranti a riportare i classici latini, a lungo confinati negli scaffali delle opere scolastiche, nella moderna biblioteca del­ le persone di cultura: a lui si deve tra l'altro il progetto di una « Collana di classici del mondo », preparato per la casa editrice Treves ma mai realizzato, in cui accanto a classici 'moderni' (i grandi della letteratura italiana, e stranieri come Cervantes, Mo­ lière, Shakespeare, Swift ecc.) figuravano Cicerone e Cesare, Vir­ gilio e Orazio. 44 Tornando all'ambito piu proprio della riforma, quello scolasti­ co, va segnalato il fenomeno di un'esplosione produttiva dell'edi44· Per l'attività editoriale di Gentile cfr. da ultimo G. Pedullà, Il mercato delle idee. Giovanni Gentile e la Casa editrice Sansoni, Bologna, Il Mulino, 1986 (per il progetto di una « Collana di classici del mondo », cfr. in particolare p. 346).

LE LETTURE CONTROLLATE toria, mirante a sfruttare le favorevoli condizioni di mercato create dall'entrata in vigore dei nuovi programmi. Molte edizioni circo­ lanti prima del '23 sono riprese e aggiornate, « giusta le prescrizio­ ni » ministeriali,4S e moltissime ne nascono di nuove, si che il mer­ cato viene inondato di opere talora pregevoli, piu spesso raffazzo­ nate in fretta a scopo di facile lucro. Una rivista specializzata in re­ censioni, che garantisce un'informazione costante anche nel cam­ po dei commenti scolastici, il torinese « Bollettino di Filologia Classica » (diretto da Luigi Valmaggi e poi, dopo la sua morte, da Angelo Taccone con la cooperazione di Luigi Castigliani), parla a piii riprese di « un vero profluvio di libri "in conformità" (e non se ne vede ancora la fine) i piu men che mediocri o addirittura pessi­ mi, pochi discreti e anche buoni »,46 o di « questo tumultuoso e far­ raginoso moltiplicarsi di libri scolastici »,47 sino a dichiarare: