L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa

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L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa

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Storia e Società

Rosamaria Loretelli

L’invenzione del romanzo Dall’oralità alla lettura silenziosa

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9388-6

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Ettore, Mario e Susanna, in allegria, a Nadia, con riconoscenza

Questo libro segue due percorsi, facendoli confluire. Delinea dall’antica Grecia al Settecento la storia della lettura, delle modalità del leggere, e vi intreccia una storia delle forme narrative a partire dall’epica classica. Sul Settecento si sofferma: fu allora che la lettura si diffuse come la conosciamo oggi, cioè silenziosa e interiore, una pratica assolutamente dematerializzata. Nel Settecento apparve il romanzo, un genere letterario la cui novità consiste, secondo la tesi qui sostenuta, nel far assumere alle sole parole stampate tutto il carico di significato e di emozioni che prima la lettura sonorizzata affidava anche all’espressività della voce, dei gesti, delle pause. Così trasformata, la narrativa maturava una nuova grana temporale, una dimensione storica in cui si costituiva il soggetto umano settecentesco. Al quale noi, oggi, ancora assomigliamo, anche se forse non per molto.



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I Leggere Le giornate passate da Proust a leggere durante la sua infanzia1 ci rammentano le nostre. Almeno di quelli di noi che appartengo­ no a una generazione non proprio recentissima. Ore infinite spese in camera buttati sul letto o in poltrona sen­ za alzare gli occhi dalla pagina del romanzo. I rumori, i suoni, gli odori della casa e delle stagioni, le voci che ci chiamano: tutti chiusi fuori dalla finestra e dalla porta, tutti al margine dell’atten­ zione, anche se vagamente presenti alla consapevolezza, tutti, nel ricordo, fusi con le storie lette. Cosicché i luoghi, i personaggi, i dialoghi, le parole che silenziosamente risuonavano nel libro da­ vanti a noi, ora, nel ricordo, fanno tutt’uno con il fascio di luce fitto di granelli di polvere che illuminava la pagina, con il battito dei tappeti, con l’odore del lesso che bolliva. E la furia di riprendere a leggere dopo le interruzioni del pranzo e della merenda; l’impazienza, quando nel salotto, in cui stava una pendola dal ritmo incantatorio, gli altri della famiglia entravano a chiacchierare o preparare la tavola. Allora di corsa nello studio con gli scaffali da terra a soffitto, dove il nonno aveva raccolto una biblioteca da far venire l’acquolina in bocca. A me, per la verità, l’acquolina in bocca veniva anche perché mentre leggevo mangiavo la cioccolata o rosicchiavo il formaggio. Con la bocca così impegnata, e il gusto che si beava del lento ca­ lare dei sapori in gola, gli occhi divoravano le storie di Natascha e di Goriot, di Julien Sorel e di Fabrizio del Dongo; si immergevano nel mondo aspro di Renato Fucini e in quello decadente di Nicco­ demi, estasiati anche per Sem Benelli e Shakespeare, per George Eliot e Ibsen, tutti in un fascio, come li trovavo appunto nella

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biblioteca del nonno. Le sorelle Materassi sapevano di formaggio, e un effluvio di cioccolata emanava dal Piccolo Mondo Antico e da Ettore Fieramosca. La bocca non mi serviva ad altro: non per pronunciare parole, non per dare suono a quello che gli occhi decifravano sulla pagina del libro. Così, avendola libera, la potevo impiegare altrimenti. Le parole scorrevano veloci nella mia testa, e la voce rimaneva sepolta. Proust, per rispondere alla cuoca ciarliera che entrava nella stanza dove lui stava leggendo, doveva «ricondurre di lontano la voce»; questa non gli usciva subito di bocca, poiché era rimasta inutilizzata per tutto il tempo della lettura. Nel Novecento raramente la voce ha accompagnato la lettura, raramente ne è stata lo strumento. Oggi, i bambini stessi leggono per poco ad alta voce, e sono ben presto i loro occhi a ingaggiare una corsa sfrenata sulla pagina, a gara con il pensiero, più o meno alla stessa velocità. Diamo per scontato che così si debba fare e che così si sia sempre fatto. Ogni altro modo risulta impensabile. Leggiamo ad alta voce solo ai piccolissimi che ancora non hanno iniziato le scuole; oppure occasionalmente leggono a noi gli attori, a teatro o in televisione. Ma la lettura ad alta voce è un fatto in­ solito, appunto un’eccezione; pratica comune è invece scorrere la pagina stampata in silenzio, velocemente e utilizzando solo il sen­ so della vista. La lettura, oggi, è un atto decisamente solitario. Eppure non fu sempre così. Anche se lo abbiamo dimenticato, come spesso accade con le pratiche che arredano la nostra vita. Le azioni consuete penetrano l’inconscio corporeo e psichico, facen­ dosi percepire quali gesti naturali, assoluti, obbligati e uguali in tutti i tempi. Le abitudini acquisite inducono a dimenticare presto che generazioni precedenti facevano in tutt’altro modo e ripeteva­ no altre mosse, che pure credevano eterne e immutabili. Dimentichiamo, insomma, che anche le pratiche hanno una storia; e occorre un grande sforzo mentale, oggi, per immaginar­ ci una società senza scrittura, dove le informazioni si ascoltano soltanto; dove la memoria storica è necessariamente demandata a quella labile degli individui, perché non esiste un luogo per con­ servare e trasmettere la conoscenza da una generazione all’altra. È difficile pure figurarsi una popolazione per la maggior parte analfabeta e non raggiungibile dalla parola scritta; o rappresentar­ si persone che non leggano per conto loro ma che per sapere ciò

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che sta in un libro debbano riunirsi in gruppo – magari nei giorni di festa, con la necessaria attesa e la dovuta preparazione – attor­ no a un individuo che legge ad alta voce per tutti. Eppure questo fatto accadeva non molto tempo fa nelle nostre campagne: forse ancora a memoria di vecchio. Né, certo, riesce agevole oggi pensare che sia esistita gente che per leggere anche solo a se stessa dovesse sillabare le parole, o borbottarle come sant’Agostino si aspettava facesse il suo maestro sant’Ambrogio, meravigliandosi nello scoprire che questi invece guardava il testo in silenzio. Oggi, la nostra vita è fittamente abitata dalla parola stampata, che vediamo da quando apriamo gli occhi la mattina a quando la sera li chiudiamo per dormire, magari dopo aver conciliato il sonno leggendo alcune pagine di un libro. La parola scritta occu­ pa stabilmente il nostro inconscio, vi ha depositato la sua logica e le sue modalità d’ordine; noi, oggi, agiamo come essa ci guida ad agire e pensiamo come ci ha insegnato a pensare. E già nuove forme di comunicazione ci stanno modellando, con la loro pletora tecnologica di canali. Mondi travasati nel tem­ po lentamente l’uno nell’altro; ma con momenti e svolte determi­ nanti, in cui la corrente prende velocità, forma cataratte e supera balzi di non ritorno. Uno di questi momenti fu il Settecento. Allora in Occidente si superò quello spartiacque al di là del quale, in una parte consi­ stente della popolazione, la lettura divenne quale essa è oggi, cioè veloce e silenziosa, interamente demandata alla vista. Un cambiamento che toccò le profondità dell’essere, perché riguardava una pratica costitutiva, quella dell’espressione lingui­ stica che ci caratterizza in quanto esseri umani. Ogni trasforma­ zione radicale in questo ambito è, insieme, anche un intervento sulla forma mentis. Una modifica del canale che quotidianamente porge a uomini e donne le informazioni essenziali per la vita in­ dividuale e collettiva non può infatti non avere conseguenze sui modi stessi del conoscere, sul senso di sé e della realtà. Quando, come vedremo nel prossimo capitolo, la comunicazio­ ne, dopo essere transitata diffusamente da bocca a orecchio, sem­ pre più spesso si fa icona silenziosa davanti agli occhi, il rapporto tra i sensi viene rivoluzionato. Al tempo della voce si sostituisce quello più veloce dello sguardo; al suono che pervade lo spazio

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tutto attorno all’individuo, che lo raggiunge e lo penetra attraverso organi situati ai due lati della testa, subentra quanto gli occhi pos­ sono vedere su di un solo fronte. Il suono tocca il corpo, ne penetra i pori, si insinua e ci sommerge, contattando subito le nostre emo­ zioni. La vista invece, per poter percepire il proprio oggetto, deve tenerlo staccato dal corpo. La vista è un organo che distanzia2. In quel processo di separazione della parola dall’emissione fonica, che costituisce buona parte della storia della lettura, il Settecento è il secolo della «catastrofe», come avrebbe detto il matematico ed epistemologo René Thom3. È, cioè, il secolo in cui l’incremento delle trasformazioni quantitative supera la soglia di non ritorno che dà origine al salto di qualità. In quei cento anni, la diffusione della lettura silenziosa e solitaria raggiunge in Oc­ cidente il livello critico, mentre si determina una trasformazione dell’ordine del discorso e del modo stesso di dire il mondo. Allo­ ra il romanzo trasforma radicalmente le connessioni tra fatti e la temporalità narrativa stessa. Nessuna sorpresa che sia la narrazione a registrare più vistosa­ mente il trasformarsi delle pratiche di lettura. È nel racconto che affiora l’inconscio; è raccontando agli altri e a noi stessi nel chiuso della mente che diamo ordine all’esperienza, che unifichiamo me­ morie e anticipazioni, cause ed esiti. Le narrazioni sono costruite con i mattoni della nostra parola interiore e cambiano con il cam­ biare della nostra psiche. Noi siamo le storie che raccontiamo4. Le società e le epoche sono le storie che raccontano; e significativo è il modo in cui le raccontano: il senso della temporalità, appunto, della causalità e dell’io che vi immettono. Ma proprio questi ‘contenuti’ sono con­ sistentemente influenzati dalla materialità del canale della comu­ nicazione che li trasmette. Quindi, anche dal modo di leggere5. Basti un solo esempio: la lettura a voce alta è più lenta di quella silenziosa. La voce deve pronunciare tutte le sillabe se vuole farsi intendere da chi ascolta, laddove la vista registra la parola stampa­ ta in blocco, anzi registra più di una parola contemporaneamente. La temporalità della percezione di quanto viene narrato è perciò diversa, come diverso è il rapporto con la memoria. David Hume sembra essere consapevole della rilevanza che hanno i modi della comunicazione per le forme del narrare, e in un passo della Enquiry Concerning Human Understanding6 (1748)

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accenna ad istituire un’equazione di tipo nuovo tra leggere e pen­ sare. Siamo in pieno Settecento, e la ‘rivoluzione’ della lettura, quella che l’ha portata a essere come l’hanno praticata tutto l’Ot­ tocento e tutto il Novecento, cioè silenziosa e veloce, si sta oramai compiutamente determinando. La lettura è pensiero guidato, lascia capire Hume. Di conse­ guenza, conviene che gli scrittori organizzino le loro narrazioni sulla base delle stesse relazioni che connettono le idee nella mente. È così che i lettori saranno indotti a percepirle come dotate di un’unità ‘naturale’, che li porterà a leggere con interesse sotto la spinta della curiosità e di altre emozioni. Questo scrive il filosofo, illustrando in un angolo della sua filosofia proprio quel sentimen­ to che sarà chiamato passione della lettura e che consiste in una maniera di accostarsi al libro che ne decreta il potere e si consegna al testo, abdicando a ogni altra volontà. Rispetto alla passione della lettura, in Occidente il Settecento fu un momento di svolta. Per un numero sempre crescente di per­ sone, il pensiero nato spontaneo nella mente e quello guidato dal discorso scritto giunsero allora a incontrarsi nel medesimo luogo: l’interiorità. Fu allora che l’atto della lettura divenne qualcosa di naturale e di meccanico, come mangiare e come camminare, come aprire una porta e cogliere un fiore. Divenne un gesto trasparen­ te, come i tanti che compiamo nella vita quotidiana senza che la nostra attenzione vi si soffermi, senza che ci si renda conto che li stiamo compiendo. Prima, i sensi di chi leggeva erano coinvolti diversamente; e così pure il corpo, che non ha partecipato alla lettura sempre allo stesso modo in tutte le epoche. Nell’antichità greca e romana i lettori leggevano da rotoli e da tavolette; decifravano per stra­ da le iscrizioni incise su edifici e monumenti, con il corpo che si acconciava ad assumere le posizioni più adatte per tali azio­ ni, senz’altro più faticose delle corrispondenti odierne. In epoca tardolatina, nel Medioevo, nel Rinascimento, nel Seicento, nel Settecento e fino a oggi, le posture assunte durante l’atto della lettura sono andate sempre cambiando. Leggere borbottando per se stessi, co­me facevano i monaci medievali, non comportava le stesse posture e gli stessi gesti della lettura a voce alta per un udi­ torio; e questa a sua volta era diversa dallo scorrere in silenzio una pagina stampata. La lettura ha tenuto in esercizio muscoli volta

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a volta differenti, richiedendo una varietà di sforzi e inducendo alle posizioni più diverse. La sua storia, dunque, è pure storia dei corpi che leggono. Camminando oggi per strada siamo costretti, anche non volen­ do, a vedere le immense scritte che risaltano sui cartelloni pub­ blicitari e nelle insegne dei negozi, che adesso contengono parole mentre in un passato neppure tanto lontano erano composte solo da immagini e da simboli. Leggiamo per ottenere le informazio­ ni indispensabili al vivere quotidiano, leggiamo per lavoro e, tra i nostri piaceri, includiamo anche la lettura, principalmente di giornali e di romanzi. Da un libro, da internet o da un ebook. Leggere oggi è anche un’attività che si può esercitare per minuti, intromettendola nelle altre di tutti i giorni. Afferriamo il giornale salendo sulla metro, e quando scendiamo lo buttiamo. Scorriamo i titoli e le notizie al bar, mentre prendiamo il caffè... La pagina stampata ci sta tutto il tempo davanti agli occhi durante i viaggi in aereo e in treno, nelle sale d’aspetto e sul­ le spiagge. Ovunque siamo soli e abbiamo tempo a disposizione tendiamo a immergerci nella lettura. Leggiamo in luoghi dove gli altri parlano; ma noi, leggendo, tacciamo. Nulla si frappone tra i nostri occhi e la parola scritta: non la voce di un altro e neppure la nostra. Il testo è direttamente accessibile, immediata la sua presa sulla nostra mente. «Il testo è un oggetto feticcio – scriveva Roland Barthes – e questo feticcio mi desidera. Il testo mi sceglie»7. Siamo passivi da­ vanti a questo testo che ci desidera, come se non fossimo noi a compiere l’azione di leggere; come se non fosse nostra la scelta. Oggi è così, ma non era certo questa l’esperienza di lettura dello studente medievale che perdeva la vista per decifrare le parole di un manoscritto. Oggi, specie quando è un racconto a starci di fronte, entriamo in uno stato di abbandono e diventiamo succubi della volontà del testo. Perché l’atto della lettura ci risulta talmente agevole che non lo percepiamo più come un’azione, che implicherebbe scelta e sforzo, bensì piuttosto come una pratica incisa nella nostra stessa natura. È per questo che il testo ci può catturare. La lettu­ ra, divenuta gesto automatico, un’estensione dei nostri organi, fa scorrere in noi i racconti lisci come il pensiero, consentendo loro

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di afferrarci mente e corpo, attivando emozioni e trascinandoci anche nostro malgrado. La lettura ad alta voce non consentiva nel passato un tale ab­ bandono e una tale inconsapevolezza. Comportava l’allertarsi dell’attenzione sul gesto e uno sforzo fisico. Leggere era tassati­ vamente proibito agli ammalati e i medici lo sconsigliavano alle persone deboli e a tutti dopo i pasti, quando l’energia corporea è impegnata nella digestione. Oggigiorno dopo i pasti leggiamo per riposare; la lettura silenziosa non comporta dispendio di energia fisica e non richiede un impegno attivo da parte del corpo. Non c’è medico, oggi, che la sconsigli. La parola stampata parla da sola ai lettori odierni; è lei ad agire, assegnando loro l’unico compito di lasciarla dire. E se capita che dalla lettura qualcuno passi al sonno, non sempre è perché tro­ va brutto o noioso quanto sta leggendo, ma perché il corpo può rilassarsi mentre legge, come preparandosi al riposo. I muscoli cedono, la mente si annebbia. C’è un libro (romanzo?) di Italo Calvino interamente dedicato alla lettura dei romanzi, che significativamente inizia con le varie posizioni corporee assunte da un lettore odierno per leggere. Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. [...] Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pan­ cia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull’amaca, se hai un’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. [...] Bene, cosa aspetti? Distendi le gambe, allunga pure i piedi su un cuscino, su due cuscini, sui braccioli del divano, sugli orecchioni della poltrona, sul tavolino da tè, sulla scrivania, sul pianoforte, sul mappamondo. [...] Regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fallo adesso, perché appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti.

Atteggiamenti rilassati, da assumersi in ambienti comodi, quel­ li che prendiamo per leggere il giornale, i romanzi o altri scritti. Tra le posizioni possibili, Calvino non menziona lo stare in piedi davanti a un leggio in una sala fredda con le volte a crociera, come accadeva nel Medioevo; né menziona il rivolgersi ad alta voce a

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un gruppo, come si faceva in un passato neppure lontanissimo. Le posture di cui dice Calvino, più che a una vigilanza critica, in­ ducono a un’adesione partecipe, all’introiezione subliminale dei messaggi, che facilmente penetrano nel profondo quando il corpo si abbandona torpido. Certo, chi studia, legge in altro modo; quando il testo propo­ ne concetti e ragionamenti complessi, noi lettori ci tiriamo su, in posizione di all’erta, e affiliamo la mente all’attenzione. Ma quan­ do leggiamo storie attiviamo invece il pensiero corporeo, quello che smuove le emozioni passive, le passioni appunto, e che sfiora l’inconscio. Se è vero che anche di fronte a un racconto è possibile assume­ re un atteggiamento vigile, penna in mano, valutativo e razionale, è anche vero che questa non è la fruizione più naturale e immedia­ ta, e di sicuro non è quella prevista dagli autori. L’atteggiamento critico, valutativo e razionalmente attento non sorge spontaneo, ma è semmai frutto di una decisione, e in certo qual modo limita il godimento. Interviene lì un atto della nostra volontà che contrasta la volontà del testo; ci opponiamo con sforzo al suo desiderio di cattura. Non è insomma la condizione naturale di lettura di un racconto, non è quel sentimento che Henry James definì «confor­ tevole e bonario che un romanzo è un romanzo come un budino è un budino e che non si può far altro che inghiottirlo»8. Però, affinché la narrazione scivoli nella mente come in gola un budino, occorre che essa sia costruita in modo da sortire quell’ef­ fetto al tipo di lettura che viene stabilmente affermandosi nel Settecento. Fin dalle sue origini, il romanzo (nel senso moderno, quello che l’inglese denomina novel) è stato creato per scorrere silenziosamente attraverso gli occhi fin nelle profondità dell’es­ sere, come in un alveo naturale dove l’acqua passando infinite volte ha rimosso, limandola, ogni asperità. Il racconto, sostiene David Hume in quel passo di cui si diceva sopra, quando prende la forma di un pensiero guidato dalle emozioni scorre fluido nella mente come un atto di natura. Le emozioni, si è detto. Ve ne sono molte implicate nel processo di lettura. Le ravvisiamo quando si mostrano incarnate nei perso­ naggi, le riconosciamo perché c’è in noi il ricordo, o un seme, di quelle stesse emozioni, perché abbiamo potenzialità che il testo sa farci riconoscere. Ma non si tratta solo di questo. Scrive Nadia Fusi­

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ni: «Non ci sarebbe lettura se non ci fosse incontro delle parole che leggo con un’attesa che esse sanno creare, un’illusione che mi ingan­ na e mi tiene sospesa all’immaginazione che lì, in quel luogo irreale qualcosa accade – ed è evento che mi riguarda, perché si incontra in un qualche punto con un significato depositato al fondo della mia stessa vita, per quanto possa apparire a prima vista estraneo»9. Ecco: sentiamo che il testo ci sfiora in punti vitali e li risveglia. Ma a che cosa? A un’aspettativa che esso suscita in noi e che rico­ nosciamo come familiare; a un passato che si carica di futuro; alla memoria, forse, di un’emozione primaria vissuta da ogni essere umano e che le parole, ora, sanno ricreare. Ci risveglia a quello stato affettivo, temporalmente orientato al futuro, che è l’attesa, con il suo nucleo di angoscia. Un effetto potente; una ‘scoperta’ – fenomenale – del Sette­ cento. Il discorso scritto impara allora a suscitare nei suoi lettori un’emozione che li induce a proseguire nella lettura fino a quando l’attesa non sarà soddisfatta, placando la tensione verso il futuro. Il testo si appropria così del lettore, che cade in sua balìa e conti­ nua a chiedersi: «E poi? Poi cosa accade?». Non è, questo tipo di lettura, un agire, bensì un patire; l’assog­ gettarsi, appunto, al volere del testo. È la passione della lettura, che tale diviene quando questa pratica si fa silenziosa e individuale. La passione della lettura Condizione preliminare per il divampare della passione del­ la lettura è un preciso modo di leggere: veloce e senza sforzo. Ma non basta. Non basta che il lettore sia in grado di seguire agevolmente in silenzio, con gli occhi, la lunga fila di parole di cui un testo si compone, e che magari è stampata sui fogli di un libro maneggevole, da leggersi in posizione comoda e con il cor­ po rilassato. Affinché sorga l’emozione dell’attesa che induce il desiderio di leggere sempre oltre, occorre anche che il racconto sia predisposto per ottenere un simile effetto. Occorre insomma un’impalcatura narrativa adeguata, perché non tutti i racconti su­ scitano attesa in chi li legga come si legge oggi. Per esempio non lo fa la narrativa antica, che prevedeva un altro tipo di fruizione, con l’ausilio della voce, del gesto, della musica.

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A partire dal Settecento, il racconto si dota di meccanismi esclusivamente verbali in grado di indurre nei lettori proprio quel desiderio di leggere che così spesso viene indicato con il termine gastronomico di ‘divorare’. Una semplice fila di parole – segni neri impressi su fogli – sarà da allora in poi capace di catturare il lettore. Solo quei segni, e nient’altro, lo manterranno avvinto al testo. Nessun contributo verrà dalla situazione di lettura, ora non più resa emotivamente empatica dalla presenza di un gruppo di ascoltatori; nulla nei toni o nelle pause di una voce che legge, poiché non c’è più alcuna voce che legge. Tutto deve essere pro­ dotto dal discorso scritto: interesse, emozioni, curiosità, voglia di sapere come prosegue una storia. L’effetto scaturirà per intero dalle parole. Tre elementi servono dunque a far esplodere il fenomeno della passione della lettura: lettori perfettamente padroni della prati­ ca; supporti materiali amichevoli, che non facciano inciampare lo sguardo in grafie faticose; e una determinata struttura narrativa. Quando leggiamo le Etiopiche di Eliodoro in un’odierna edi­ zione a stampa, dai caratteri chiari e magari in traduzione, il lungo racconto di uno dei primi secoli della nostra èra non ha su di noi un grande effetto trascinante. Lo stesso accade se scorriamo un lai medievale, o il Lazarillo de Tormes o un qualsiasi libro picaresco spagnolo di epoca barocca. Nessuno tra questi testi suscita in noi quella curiosità e quella tensione dell’attesa di cui si diceva più sopra. Per quanto il supporto materiale consenta una lettura scor­ revole, quei racconti non attivano l’emozione perché non sono stati costruiti per ottenerla con una lettura di tipo odierno. Ogni opera è scritta per un supporto materiale preciso; eppu­ re, quando leggiamo, raramente pensiamo alla forma materiale che aveva il testo di fronte a noi la prima volta che fu reso pubbli­ co. Chi pensa oggi, mentre legge la Divina Commedia o i Racconti di Canterbury, che all’inizio essi circolarono manoscritti? O che l’Odissea a lungo non fu neppure segnata su un supporto perma­ nente ed era pura voce recitante, canto orale? Di rado ci viene in mente che nel mondo occidentale per molto tempo i libri veniva­ no letti ad alta voce e che questo modo di fruirne ne determinava la composizione stessa. Non ci viene in mente, mentre li leggiamo oggi, che le Metamorfosi di Apuleio o i romans di Madame de La Fayette quando comparvero non erano letti in case calde e bene

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illuminate come le nostre, con poltrone e divani sui cui braccioli ampi e comodi poggiamo tutto il peso di libri in cui le parole stampate risaltano, facendosi decifrare anche a occhi socchiusi. Minori erano le possibilità di isolarsi in casa, rispetto a come sarà nell’Ottocento e a come è oggi. La vita privata scorreva su altri binari. L’interiorità stessa era diversa. Ancora nel Seicento, leggere sui mezzi di trasporto risultava difficoltoso quasi quanto dormire a cavallo. Se Gengis Khan aveva dormito a cavallo secoli prima, questo non vuol dire che fosse per tutti pratica di agevole esecuzione. Le carrozze sballottavano i passeggeri per strade mel­ mose, guadi, campagne, scaricandoli nelle rumorose locande di posta, dove magari li aspettavano camere da condividere con altre persone. Secondo i nostri parametri, non era certo l’ideale per concentrarsi in silenzio su un libro. È dunque comprensibile che chi leggeva in tali condizioni avesse mediamente una percezione del testo diversa da quella odierna, che maturasse un differente grado di attenzione e differenti emozioni. I romanzieri del Settecento si resero conto di avere a che fa­ re con un tipo di lettore nuovo e sperimentarono una varietà di modi narrativi per catturarlo. Quando a metà Settecento Henry Fielding enunciò nel primo capitolo del primo libro del Tom Jones di voler rendere il suo lettore «bramoso di leggere all’infinito», è evidente che pensava a una lettura personale e intima, perché solo chi legge in questo modo può provare il desiderio di andare avanti all’infinito. Il testo gli parlerà infatti con immediatezza, e l’atto della lettura per lui sarà facile e trasparente, dimentico della materialità delle parole per farsi prendere dalle cose di cui parla. Non più avvertita come un’azione che richiede sforzo, bensì come una percezione fra le altre, immediata quale osservare un panorama, la lettura, liberata dalla necessità di prestare attenzio­ ne alle singole parole da decifrare, le attraverserà come vetro per raggiungerne subito il senso. Allora e solo allora diverrà scontato pensare: «leggo una storia», e non «leggo le parole che narra­ no una storia». Allora il testo, se sarà adeguato allo scopo, potrà catturare il lettore, incantarlo, tenerlo avvinto a sé fino alla sua conclusione, al suo ultimo rigo. Soprattutto ora il testo non rivela più subito al lettore l’intero suo significato. Non vi sono episodi in sé conchiusi e autosufficienti che consentano, senza grande perdita, di interrompere la lettura

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alla fine di ognuno. Il romanzo è un progetto complesso, che non cresce per regolare accumulo ma si rivela per epifanie. Le varie storie che lo compongono procedono tenendo memoria del loro passato, proprio mentre avanzano verso il futuro, in una dinamica temporale dove bene si orienta il lettore veloce e silenzioso. Il romanzo è un grande progetto di seduzione, che emoziona, inganna, fuorvia e accresce la curiosità, per soddisfarla poi, dopo l’acme, con lo scioglimento finale. Fa attendere il suo lettore, pro­ teso verso il futuro in un desiderio di sapere che lo rende vorace e non gli consente di smettere finché non è arrivato alla fine. Una volta giuntovi, questo lettore dovrà sentire la storia che ha letto come consumata, un prodotto da non poter riutilizzare. Non a caso il Settecento è l’epoca in cui gli intellettuali si professiona­ lizzano e il mercato editoriale si espande prepotentemente, sosti­ tuendosi ai patroni e ai mecenati. I lettori sono i nuovi committenti e gli autori dovranno convin­ cerli a comprare sempre più libri. Si sviluppa l’industria libraria; si diffonde la pubblicità dei libri; si perfezionano le leggi che regola­ mentano la stampa e che tutelano i diritti d’autore. Ecco il terreno di coltura del romanzo, ecco a cosa servirà quella sua forma che cattura il lettore, lo appassiona e lo rende temporaneamente suo schiavo. «Un romanzo non si rilegge» Più tempo si passa a leggere e più velocemente lo si fa, prima si finisce il libro, pronti per nuove letture e nuovi acquisti. «On ne relit point un roman», affermava con spirito adeguatamente consumista Vauvenargues nel 174510. Si riferiva a quel tipo di racconto che stava allora acquistando forma compiuta: una forma capace di spalancare davanti al lettore un grande quadro fitto di indizi, capace di tessere una tela con una trama che corre a raggiera come le ragnatele in una soffitta. Tutto viene a intrecciarsi in un romanzo: si moltiplicano i contatti diretti e indiretti, in una densità causale e temporale che fa sì che ogni pre­ sente narrativo contenga una qualche memoria del passato narrato e un’anticipazione del futuro. Nulla, nel quadro delineato da un romanzo, potrà essere tolto senza che l’insieme ne risenta.

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Esiste un’architettura testuale per cui l’autore deve, come scri­ veva Samuel Johnson, «aver cura che il suo edificio sia non solo bello ma anche solido, e nulla vi rimanga tanto isolato o indi­ pendente da poter essere eliminato senza far danno al resto, ma che dalle fondamenta alla cima le parti poggino tutte solidamente l’una sull’altra»11. Nelle parole del grande poligrafo è già comparsa quella me­ tafora dell’edificio che un secolo più tardi Henry James ergerà a poetica, e che rivela l’intento di dare solidità e compattezza al racconto. L’idea è che il romanzo sia un insieme dotato di un tipo di unità secondo la quale nessuna sua parte, appunto, può essere eliminata o spostata, pena la distruzione dell’insieme. I romanzi sono racconti in cui gli eventi si addensano, organi­ camente connessi fra loro. Ma alcune condizioni ambientali sono necessarie per la loro creazione, alcuni supporti materiali, alcune situazioni comunicative. Certo non possono produrre romanzi i cantori orali che improvvisano davanti a un pubblico. E neppure chi detta a uno scriba o verga faticosamente le parole su suppor­ ti materiali che scarseggiano e costano cari, perché in quei casi l’autore non può tornare indietro per modificare mano a mano fatti e personaggi in modo da annodare tutte le fila dell’intreccio. Chi scrive romanzi ha bisogno di rileggere e correggere quanto ha composto: è quasi impossibile pianificare una volta per tutte un tipo di racconto dotato di una unità così complessa e interre­ lata. L’autore deve poter modificare liberamente il manoscritto, sapendo che i lettori leggeranno l’opera su fogli a stampa, dove ogni correzione sarà scomparsa. A fine Settecento sono ormai avvenuti tutti quei cambiamenti nelle condizioni di composizione e di fruizione, nonché nelle forme materiali dei libri che consentirono di creare il nuovo tipo di rac­ conto. La narrazione può così diventare un grande affresco in grado di accogliere i contenuti più vari e dissonanti, di presentare con gesto sincretico punti di vista diversi, una polifonia di voci. Questo è il senso della metafora che si diffuse a partire dalla seconda metà di quel secolo per indicare sia il romanzo che il mondo che esso si propone di raffigurare. La metafora è web: rete e ragnatela, fili che si intrecciano e si dipanano; si uniscono in un nodo, per separarsi subito con un distacco però mai definitivo, perché il nodo rattiene e a ogni mossa di un filo l’insieme intero vibra.

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Questo significa la ragnatela; ed è quanto il romanzo comunica anche semplicemente mediante la sua forma. Non solo nel Sette­ cento ma in epoca più recente. Perfino in Virginia Woolf, che, nonostante i suoi «momenti di essere» intensissimi e puntiformi, vuole «stringere da vicino la materia» e «racchiudere tutto, tut­ to»12. O in scrittori contemporanei come Lia Levi, che pur con­ densa l’essenza di situazioni e di persone in metafore che si ergono quali picchi d’onda sulla serena trasparenza del linguaggio. «La vita è una fitta tessitura di fili di colore diverso che s’intrecciano a formare un eterno labirinto» fa dire alla protagonista di uno dei suoi romanzi, usando proprio la metafora che George Eliot aveva impiegato intercambiabilmente per la vita e per il romanzo. «Cer­ ti conducono da qualche parte e tornano a intrecciarsi ancora e ancora. Altri restano a formare lo sfondo. Ma questo è il mistero: non si può sapere prima quale filo sarà portante per l’insieme di tante esistenze»13. All’idea di racconto come serie di anelli in una catena di epi­ sodi narrati velocemente, ciascuno dei quali è collegato solo con il precedente e con il successivo, subentra nel Settecento una con­ cezione che le metafore della rete e della ragnatela ben rappresen­ tano, con i loro fili tutti direttamente o indirettamente collegati tra loro. Cause e concause, cambiamenti minuti e progressivi, rac­ cordi tra situazioni, individui, realtà complesse. Nessun filo della trama può essere toccato senza che l’insieme cambi o si sgretoli: in questo è implicito un preciso senso del cambiamento e della temporalità. Nel sedicesimo capitolo del Don Chisciotte (1605; 1615), per esempio, Sancho Panza spiega a una locandiera che cosa sia un ca­ valiere di ventura. Questi, le dice, è persona «che da un momento all’altro si può vedere bastonato o imperatore; oggi è la più disgra­ ziata e la più bisognosa creatura del mondo, e domani avrà due o tre corone di regni da dare al suo scudiero»14. Senza rendersene conto, Sancho applica alla vita la temporalità accelerata dei libri di cavalleria. Nella sua decodifica, determinata dalla mente stravolta del padrone, la realtà procede per subitanei e radicali cambiamenti, senza alcuna preparazione, senza volontà che li costruiscano per gra­ di, senza esiti di lungo termine. Ma questa è semplicemente la forma narrativa dei libri di cavalleria, dove tutto si fa e si disfa in un attimo; questo è il suo modo di organizzare temporalmente gli eventi.

I.  Leggere

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O meglio: è l’effetto che i libri di cavalleria e la narrativa arcai­ ca in genere fanno su quei lettori che li leggano da soli, in silenzio e velocemente; che cioè non si servano della voce e dei gesti per rallentare la comunicazione e accrescerne lo spessore di signifi­ cato. Con mossa geniale, Cervantes anticipa così la sensazione che la lettura di un testo arcaico sortirà correntemente sui lettori dal Settecento in poi. A loro, i racconti del passato sembreranno tradire la temporalità della vita. Sempre nel Don Chisciotte, un altro commento implicito sul tempo narrativo dei libri di cavalleria appare quando il protago­ nista esalta la dedizione amatoria di Amadigi di Gaula, il quale si era isolato dal mondo per provare alla dama la sua passione: «non so se per otto anni o otto mesi, non ricordo bene»15, afferma tran­ quillamente il cavaliere mancego. Ora, «otto mesi» e «otto anni» non sono certo equivalenti nella vita, ma possono essere così per­ cepiti da un lettore se la narrazione che ne parla impiega per dirli lo stesso numero di parole. Il tempo richiesto al lettore per leggere i sintagmi «otto mesi» e «otto anni» è il medesimo, dunque questi si può confondere. Insomma, se un testo comunica il passare del tempo nel modo sintetico in cui lo fa la narrativa arcaica, può capitare a chi legge in silenzio e velocemente di scambiare mesi per anni. Se gli otto anni sono semplicemente enunciati e non marcati narrativamente, i lettori non percepiscono il trascorrere temporale. Qualcosa deve essere collocato all’interno del racconto per far imprimere nella mente del destinatario l’informazione che è passato del tempo. Se il contesto dell’enunciazione è quello di una lettura ad alta voce per un gruppo di persone, il tempo può essere segnalato da elementi extraverbali: gesti, pause della voce, interruzioni della lettura, ecc. Ma se la lettura è individuale e si­ lenziosa, questo effetto dovrà essere preso in carico dalle parole, pena una percezione della temporalità come quella che esprime Sancho Panza. Insomma, il senso del trascorrere temporale può essere dato, in una narrazione, da fattori che questo tempo lo agiscono, lo ren­ dono reale, lo ricreano, servendosi di canali della comunicazione aggiuntivi rispetto alla parola. Tuttavia, se questi altri canali non sono attivi, come nel caso della lettura individuale, veloce e silen­ ziosa (quella che, da antesignano, praticava il personaggio Don

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Chisciotte), l’effetto è di un trascorrere temporale accelerato, che non distingue tra «otto mesi» e «otto anni». Prendiamo un altro esempio ancora, ma di tipo opposto. Nel Robinson Crusoe (1719) il protagonista trascorre su un’isola ven­ totto anni della sua vita, durante i quali accadono ben pochi av­ venimenti di rilievo. Nessun lettore, anche se distratto, può scam­ biare quei ventotto anni con ventotto mesi, perché sente questo tempo lungo che passa lentamente; lo percepisce in quanto ne sta facendo almeno parziale esperienza. La forma narrativa ha costru­ ito fisicamente la durata. L’esperienza temporale del personaggio Robinson Crusoe si trasferisce così al lettore, non come semplice enunciato, ma proprio come esperienza. E questo, come vedremo nel quarto capitolo del presente libro, senza l’ausilio di altri canali della comunicazione, oltre le parole stampate. Stiamo già assistendo all’incontro, nel concreto della lettura, tra mondi dei testi e mondi dei lettori, i quali non sono entità pu­ ramente mentali e disincarnate, bensì oggetti e soggetti concreti, dotati di una materialità fisica e storica che incide su questo incon­ tro, e dunque sull’interpretazione stessa. È materialità la pagina di un libro, un rotolo manoscritto, la voce, il gesto, il corpo negli ambienti e nella mobilia che lo accolgono mentre legge. Effetti e significati dei testi sono il risultato di una pluralità di variabili tra cui, non ultime, appunto quelle sensoriali. Anch’esse storiche. La lettura, lo ripetiamo, non è un atto puramente astrat­ to e sempre identico nei secoli: la lettura è una pratica che ha una sua storia.

II La lettura ha una storia In uno degli splendidi affreschi di poco antecedenti la nascita di Cristo che coprivano la sala tricliniare dell’antica Villa Far­ nesina, poi trasferiti nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme, appare la figura di un uomo che legge. Su­ bito sopra la zona mediana della stanza, dove affiorano paesaggi eseguiti con paletta dai colori tenui, si distende un lungo fregio narrativo che contiene figure a tinte vivaci su sfondo nero; in un angolo del fregio, un uomo in veste corta e cappello – un vian­ dante, parrebbe – siede reggendo in mano una tavoletta. La sua postura appare scomoda e precaria: il piede un po’ sollevato la renderebbe instabile anche se sotto vi fosse un invisibile supporto. In quella posizione un individuo non può immergersi nella lettu­ ra; non può lasciarsi andare, corpo e mente, all’incanto del testo. Eppure allora era una posizione più rilassata e comoda di molte altre che si dovevano assumere per leggere. Fino al II-III secolo d.C. quasi sempre lo scritto stava su un rotolo che veniva tenuto aperto con la mano destra e svolto pro­ gressivamente con la sinistra1, mentre le braccia erano sollevate per mantenere la superficie scritta alla giusta altezza e a un’appro­ priata distanza dagli occhi. Leggere, in epoca sia greca sia romana, era un’attività fisica di un certo impegno, che richiedeva al corpo uno sforzo non indifferente. Ben diversa è la scena di lettura che appare in un quadro di Giovanni Boldini, dove un uomo siede rilassato a gambe accaval­ late su una comoda sedia imbottita, dallo schienale appena recli­ nato all’indietro. Accanto su un tavolino sono poggiati alcuni libri e un giornale spiegazzato, mentre sulle ginocchia è un volume

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aperto, esile e dalle pagine grandi. Probabilmente una di quelle edizioni in cui nell’Ottocento apparvero i romanzi di Alexandre Dumas padre e figlio, di émile Zola, di George Sand, di Emilio Salgari. Un dito nel libro, come se stesse per voltare pagina ma si fosse improvvisamente fermato, l’uomo del quadro, occhiali sul naso, ha un atteggiamento sospeso: forse sta seguendo un pensie­ ro che il libro lì davanti gli ha suscitato, o forse guarda qualcuno che è entrato improvvisamente nella stanza. È questa un’immagine che riconosciamo facilmente, e il qua­ dro si intitola Interno con figura2, senza bisogno di menzionare l’attività che vi si svolge. Nel 1866 la lettura è divenuta talmente abituale da non richiedere specificazioni. Tre decenni dopo, il pittore livornese Vittorio Matteo Corcos dipingeva un’altra scena di lettura. In un quadro intitolato Sogni3 descriveva e al tempo stesso commentava questa pratica, mostran­ do una bella ragazza vestita da passeggio con scarpe di lacchetta nera, seduta su una panchina in posa aggraziata. La ragazza ha lo sguardo rivolto nella direzione di chi osserva il quadro e sembra non vedere nulla. Le palpebre sono semichiuse e la sua attenzione pare essersi ritirata dal mondo, come sottratta alle cose per rivolgersi ai pensieri. Ai sogni, appunto. La ragazza sta sognando a occhi aperti con accanto, sulla panchina, tre volu­ mi la cui copertina di leggera carta gialla fa pensare a una collana dell’allora ‘rinomata’ casa editrice Treves di Milano, che significa­ tivamente si intitolava «Biblioteca Amena». Inaugurata nel 1875, la collana comprendeva solo romanzi. Ne ho un esemplare tra le mani, più tardo, del 1917, trova­ to nella biblioteca di famiglia. Il libro è Le illusioni perdute di «Onorato di Balzac», a quella data giunto al «terzo migliaio» di copie. Nelle ultime pagine del volume leggo le informazioni sulla collana: Non vi mancano i romanzieri da appendici e a gran sensazione e i romanzi giudiziari, ma vi sono anche quelli che all’interesse dramma­ tico aggiungono i pregi letterari. La Biblioteca Amena è stata la prima a far conoscere al pubblico italiano il Daudet, il Flaubert, lo Zola, il Bourget, il Maupassant, il Rod, nonché i classici Goethe e Balzac, e i romanzieri russi (Tolstoi, Dostojewski, Turghenieff, Gorki) e altri tedeschi ed inglesi.

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Nell’elenco dei titoli troviamo Charles Dickens e Charlotte Brönte, Wilkie Collins e William Thackeray, insieme a molti altri, anche italiani, di tutti i livelli e di tutte le capacità. Non c’era che l’imbarazzo della scelta: a solo una lira a volume. I sogni di cui parla il titolo del quadro di Corcos sono stati dunque suscitati dalla lettura di un romanzo, e non necessaria­ mente dei più modesti. La ragazza, sola sulla panchina, si è la­ sciata ammaliare dal testo, che l’ha catturata seducendola alle sue fantasie. Il quadro è indubbiamente un commento alla lettura dei romanzi; e il giudizio sui loro effetti non sembrerebbe proprio po­ sitivo. State attenti al loro potere sulla mente dei giovani, sembra voler dire, specie se donne! Tre figure diverse per una medesima attività, la quale è anda­ ta cambiando nel tempo. Il viandante che legge o scrive scomo­ do nella Roma del I secolo a.C., l’intellettuale che siede rilassato nell’interno ottocentesco, la fanciulla espropriata della realtà dai romanzi che la accompagnano nelle sue passeggiate solitarie ci dicono che in quell’ampio arco di secoli la pratica della lettura ha sperimentato svariate modalità: si è esercitata su supporti materia­ li diversi, ha richiesto mutati atteggiamenti del corpo e una messa in gioco ineguale dei vari ambiti del sensorio. Un processo di trasformazione lungo e lento, contemporaneo al variare delle tecnologie della produzione e della diffusione dei testi, nonché della mentalità stessa. La voce nella scrittura Il mondo greco, quando nel corso del IX secolo a.C. vi compar­ ve la scrittura alfabetica4, aveva già raggiunto uno stadio avanzato di civiltà. Prosperavano Stati con organizzazioni politico-ammi­ nistrative efficienti, con fiorenti attività agricole, manifatturiere e commerciali; mentre l’espansione coloniale aveva interessato l’Asia Minore e stava prendendo la direzione della Macedonia e del Mar Nero. Era una civiltà con una lunga tradizione alle spalle, come mostrano i poemi omerici che trattano di fatti e ambienti antecedenti di circa tre secoli. Eppure l’espansione, la prosperi­ tà, i commerci e le istituzioni statali non avevano avuto bisogno della scrittura alfabetica5 per esistere. Altre tecniche scrittorie,

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è vero, erano conosciute, ma venivano utilizzate solo a scopi di contabilità. Fino all’VIII secolo a.C., insomma, la civiltà greca fu sostan­ zialmente orale, e nonostante ciò era potente e ben organizzata, non solo al proprio interno ma anche nei rapporti con il mondo esterno. Con la scrittura alfabetica poco o nulla cambiò, all’inizio. La cultura orale non si trasformò immediatamente e le informazioni continuarono per un po’ a transitare con le modalità precedenti. Anzi, la parola parlata seguitò a detenere tutto il prestigio, men­ tre la scrittura le venne asservita con ruolo ancillare. Eco afona e dimessa, essa chiamava i passanti dalle iscrizioni funerarie, pre­ gandoli di prestarle voce per farla rivivere; senza questa, la parola scritta non esisteva, perché nessuno era in grado di comprenderla senza prima averla letta ad alta voce e restituita al mondo del suono6. Un secolo dopo, la scrittura già svolgeva il compito di fissare memoria della legge e della storia; anche se ciò non le conferiva maggior prestigio, ma semplicemente ampliava l’ambito del suo intervento. La lettura era ritenuta un’occupazione da schiavi, ‘bas­ sa’ e da affidare a chi veniva considerato un semplice strumento dotato di voce. Questo atteggiamento e questo sentire durarono a lungo, e ancora molto tempo dopo, la lettura di un testo scritto da altri poteva essere considerata un gesto tutt’altro che neutro, ad­ dirittura un atto di sottomissione percepibile come pederastico7. Era tuttavia in moto, già allora, quel processo di diffusione della scrittura che sarà al centro di tutta la nostra storia e che incontrerà una sola, lunga, battuta d’arresto e una temporanea inversione della tendenza con la fine dell’Impero Romano d’Occidente. Nel VI secolo a.C. la parola scritta trovava molti impieghi, tra cui il principale era forse quello politico. Fin dai suoi esordi infatti la democrazia ateniese la usò per informare i cittadini e per estendere la partecipazione alla cosa pubblica; ma si trattava ancora di testi brevi, e solo verso la fine del V secolo apparvero opere di una certa lunghezza destinate a una lettura disinteressata e ‘letteraria’8. L’epoca di Platone rappresentò indubbiamente lo spartiacque tra una civiltà fondata sulla trasmissione orale del sapere e una fondata sulla scrittura. Si scollinò, e cambiò il panorama. Ma ciò

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non fu subito evidente, come mostra l’atteggiamento ambiguo del filosofo nei confronti del nuovo canale della comunicazione. Platone, pur servendosi della scrittura, senza la quale almeno una parte della sua filosofia non sarebbe potuta esistere, le muove infatti critiche consistenti9. Nel Fedro, come è noto, il Socrate pla­ tonico racconta una storia in cui l’antico dio egizio Theuth pre­ senta al re Thamus l’alfabeto da lui inventato, decantandogliene le virtù, e Thamus gli risponde che l’alfabeto ha molti difetti, perché «ingenera oblio nelle anime di quelli che lo impareranno» ed «essi cesseranno di esercitare la loro memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei». Conclude perciò il re: «ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla [...]» (275a). Della sapienza, questi scolari faranno solo mostra. Per Platone, la conoscenza che dà accesso alla verità non è consegui­ bile tramite la scrittura, ma solo nel rapporto umano diretto tra discepolo e maestro. La memoria di cui Platone paventa la perdita è infatti la mnämh: non la capacità di immagazzinare dati (up ™ ómnhsiv) per la quale la scrittura anzi è utilissima, bensì qualcosa di più profondo e impor­ tante per la saggezza dell’uomo. Mnämh è la riattivazione interiore della conoscenza delle realtà con cui l’anima è stata in precedenza in contatto10. Le parole scritte «non possono insegnare in modo sufficiente il vero» (276c); mentre possono invece farlo quelle por­ tate dalla voce, che crea un contatto tra persone, uno scambio fra interlocutori. È così che la verità può essere intuita: mediante la «dialettica e prendendo un’anima congeniale» (276e). Proseguendo la disamina della scrittura, Socrate afferma che essa è «una strana condizione simile veramente a quella della pit­ tura. I prodotti della pittura ci stanno davanti come se vivessero, ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifesta­ no una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in

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iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’inten­ de tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no» (275d-e). La scrittura, insomma, essendo fissa, non può adattarsi all’uditorio e quindi rischia di venire fraintesa, o comunque di non riuscire a dare forza alle tesi che espone. L’«altra specie di discorso», invece, «fratello di questo scritto, [...] ma migliore e più efficace», cioè il discorso orale, si inscrive «con la scienza nell’anima di chi impara: questo può difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere» (276a). Chi pratica la parola parlata, dunque, può essere chiamato «amico della sapienza» (278d-e). Socrate conclude consigliando all’oratore Lisia di non mettere i suoi discorsi per iscritto, sia perché perderebbero la loro preci­ sione e la loro forza argomentativa, sia perché si trasformerebbero in affermazioni perentorie e prepotenti. L’orazione comunica nel giusto modo solo se viene pronunciata e mentre viene pronuncia­ ta: a trascriverla, la si distrugge. Sono, queste, considerazioni11 che a noi oggi suonano estranee. La nostra mentalità dà per scontata l’importanza della scrittura, tanto che gode di prestigio chi scrive bene e, d’altro canto, nessu­ no che sia autorevole può mostrarsene incapace. Certo, sappiamo che ogni lettore intende a modo suo quello che legge, sappiamo che le idee colte dal destinatario in un libro non sono mai esatta­ mente quelle che l’autore voleva esprimere, ma preferiamo rinun­ ciare alla precisione nel comunicare a fronte dei vantaggi che la scrittura offre. Ci piace proprio quel fissare la parola che dava noia al Socrate platonico, e in questo siamo più vicini allo Shakespeare dei Sonetti, che al suo giovane amico prometteva sopravvivenza in «versi eterni». Scritti, appunto. Perché la scrittura sconfigge il tempo e la morte: «Finché uomini respireranno o occhi vedranno, / fin tanto vivrà questa poesia, e questa darà vita a te»12. A noi interessa quella fissità che consente alla parola di durare nel tempo e di diffondersi nello spazio. Se il discorso scritto non verrà magari letto mai dai vicini di casa o dagli amici di chi l’ha creato, se non innescherà un dialogo con chi potrebbe essere rag­ giunto anche dalla voce, esso ha però le potenzialità per conqui­ stare gente sconosciuta, un pubblico molto più vasto, nel tempo e nello spazio. Alla saggezza e alla memoria interiore siamo disposti a rinunciare.

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Dopo Platone la scrittura andò ricoprendo un ruolo sempre più preminente nella società, sia per lo studio che per l’intratte­ nimento. Così, al sopraggiungere dell’età romano-imperiale, essa aveva oramai acquisito notevole visibilità e appariva diffusamente in epigrafi, graffiti, cartelli, libelli, lettere, ecc.13. Circolavano pure testi lunghi: un’ampia letteratura di vario genere, di cui faceva parte anche la narrativa, mirata a un pubblico vasto e non neces­ sariamente colto, e che doveva essere di una certa consistenza, almeno a giudicare dall’ingente numero di papiri ritrovati14. A partire dal III-IV secolo d.C., però, l’Europa occidentale assistette a un’inversione di questa tendenza all’espansione del­ la parola scritta, la cui presenza nella società si cominciò invece a diradare. Le profonde trasformazioni che accompagnarono la caduta dell’Impero Romano d’Occidente provocarono una ridu­ zione del numero degli alfabetizzati e contrassero le occasioni di impiego della scrittura, attenuandone la visibilità. Non scomparve tuttavia, ma si ritrasse in luoghi segregati per sopravvivere soprat­ tutto nel chiuso dei monasteri. Era passato così più di un millennio dall’introduzione dell’al­ fabeto, un lungo periodo denso di cambiamenti non solo nella quantità e nel tipo di testi in circolazione, ma anche nelle forme grafiche e nei supporti materiali che assicuravano agli scritti frui­ bilità e sopravvivenza15. E questi supporti materiali avevano, come sempre, un impatto sull’esercizio della pratica. All’inizio si leggeva comunemente dal rotolo, il volumen16, che poteva essere di papiro o di cartapecora e che richiedeva lo sforzo, come si è detto, di entrambe le braccia per tenerlo aperto e alla giusta distanza dagli occhi, mentre una mano svolgeva la parte da leggere e l’altra riavvolgeva quella già letta. Solo interrompendo la lettura era possibile recuperare l’uso di una mano, con l’altra che tra le dita univa le due parti del rotolo senza perdere il se­ gno. L’esercizio muscolare si attenuò quando comparve un tipo di leggio che, come mostrano fonti iconografiche di tarda epoca romana, serviva a sostenere il peso del volumen e consentiva di tenerlo aperto con una sola mano, in modo da liberare l’altra per quei gesti declamatori indispensabili alla lettura sonorizzata17. A partire dal II secolo d.C., tuttavia, l’uso del rotolo cominciò a decadere e progressivamente si intensificò l’impiego del codex, libro a pagine, meno costoso e, almeno all’inizio, più maneggevo­

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le. Bastava una sola mano per tenerlo in posizione di lettura, an­ che senza l’aiuto del leggio, consentendo così di scrivere contem­ poraneamente, magari sugli spazi bianchi ai margini della pagina. I cristiani adottarono in massa il nuovo tipo di supporto testuale, che già nel V secolo d.C. era divenuto di gran lunga prevalente su tutti gli altri, mentre le sue dimensioni crescevano per acco­ gliere al proprio interno un numero sempre maggiore di opere diverse. Ecco l’oggetto imponente che troveremo nei monasteri medievali. Nei secoli tra l’introduzione dell’alfabeto presso i Greci e la fine dell’Impero Romano d’Occidente, anche la grafia cambiò forma. Alle sue origini, la scrittura greca si era servita dell’alfabeto fenicio, che non possedeva simboli per le vocali e perciò costrin­ geva a una lettura molto lenta e a una ricostruzione faticosa del senso, necessariamente sonorizzando le parole. Presto, tuttavia, i Greci introdussero i simboli vocalici, sciogliendo così gli agglo­ merati consonantici e facilitando la comprensione del significato, il quale però venne poi a trovarsi nuovamente ostacolato dalla quasi contemporanea eliminazione di quegli altri ausili alla lettura che la scrittura fenicia invece possedeva, e cioè la separazione tra parole effettuata mediante un punto, oppure, proprio come oggi, mediante uno spazio vuoto. Questa staffetta tra i due dispositivi, che ebbe luogo in tutto il mondo mediterraneo antico, apparirebbe contraddittoria se non si tenesse presente che l’antichità assegnava ai testi una funzione ben diversa da quella attuale. La lettura veloce non era lo scopo da conseguire e la scrittura non serviva a fissare un discorso che le persone poi avrebbero letto, ma mirava piuttosto a tenere me­ moria di un testo che pochi singoli lettori subito reintroducevano nel mondo della parola parlata, raccontandolo a voce e modifi­ candolo senza remore. Gli antichi, d’altronde, non amavano il ruolo di lettore, e forse fu proprio per questo che, quando vennero introdotte le vocali, eliminarono gli interpuncta e la scrittura continua rimase in auge a lungo18. Conviene a questo punto interrompere momentaneamente il nostro excursus, per soffermarci a commentare il panorama che abbiamo appena intravisto. La scrittura e la lettura non hanno trionfato subito, un po’ a causa dei supporti materiali tutt’altro che

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facilitanti, un po’ per questioni di mentalità. Se leggere e scrivere sono oggi per noi pratiche fondamentali e costitutive della nostra stessa vita individuale e collettiva, tanto essenziali da rendere im­ pensabile un mondo che ne sia privo, evidentemente in passato non era così. La loro storia tanto ondivaga ci sorprende e in un certo senso risulta estranea al nostro modo di pensare. Ma proprio per questo è prezioso ricostruirla: perché, almeno in quella frazio­ ne di tempo in cui tentiamo di comprenderla, ci impone di uscire dalle abitudini mentali che fanno equiparare la natura al naturale e predispongono a inconsapevoli ripulse e respingimenti. Vedere nel concreto quanto profondamente le abitudini percettive siano cambiate nella natura storica del nostro mondo occidentale, quan­ to il sentire quotidiano dei nostri stessi antenati ci sia divenuto qua­ si inaccessibile, impone uno sforzo mentale che, ne sono convinta, apre ad un confronto accettante con la diversità in genere. La storia della lettura ha pochi decenni di vita e si compone di un intreccio di altre storie: da quella dei lettori reali e della diffusione del libro, a quella della scrittura e delle forme materiali dei testi. Comprende pure la storia dei corpi che leggono, dell’ar­ chitettura e della mobilia adatte a quei corpi. È storia dell’alfabe­ tizzazione, seppure meno di quanto non si possa pensare, perché esistono vari livelli di alfabetizzazione, ed essere capaci di firmare documenti non significa sapere anche leggere libri e leggerli real­ mente. Oltretutto, in passato lettura e scrittura erano competenze che non si sommavano per forza nelle medesime persone. Questo fascio di storie ha mostrato nel suo insieme che la let­ tura, lungi dall’essere una capacità già predisposta negli individui nei modi in cui l’acquisiamo oggi durante l’infanzia, è essa stessa frutto di un processo storico. Tutt’altro che gesto immutabile, compiuto nei secoli sempre uguale e con i medesimi obiettivi, questa pratica è andata cambiando anche proprio in quegli aspetti che a noi parrebbero più vicini alla natura, sia fisica sia psichica. Ha toccato diversamente il corpo e i sensi, ha influito sulla perce­ zione e sul pensiero. Nel tempo, alla scrittura e alla lettura sono state avanzate ri­ chieste differenti: funzionali, utilitarie e simboliche19. «La storia dei segni grafici non è quella di una tecnica, ma di ruoli differen­ ti»20 affidati a una tecnica, e la loro diffusione non sempre è stata considerata un traguardo da raggiungere.

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Questo significa che l’attuale prestigio dell’uomo grafico-ti­ pografico potrebbe essere solo un punto sfuggente nella storia. Internet non è una semplice aggiunta funzionale al nostro baga­ glio di alfabetizzati, ma sta già comportando un’altra rivoluzione della scrittura e della lettura, con la perdita di alcune capacità che avevamo in passato e l’acquisizione di nuove; con forme testuali, spazi fisici e atteggiamenti del corpo differenti, e anche un diffe­ rente contenuto simbolico. L’ipertesto elettronico si è aggiunto al libro. Lo sostituirà? E, comunque, quali saranno i suoi effetti sulla mente umana? C’è chi si chiede questo con la stessa preoccupazione che tradiva Platone più di duemila anni fa nei confronti di quella tecnologia che per noi, oggi, significa la tradizione e la continuità. L’ipertesto potrà incantare come un romanzo dell’Ottocento? Si domanda qualcu­ no (pochi, oramai) cui esso dà le vertigini. E già a molti i romanzi dell’Ottocento conciliano il sonno a tutte le ore. È piena di meandri la storia della lettura: senza accorgercene, continuamente perdiamo e acquisiamo competenze. Chi più, og­ gi, sa comprendere senza sforzo una scrittura a mano appena un po’ personale? E quanti leggono più facilmente dal computer che da un libro? Non procede in un’unica direzione, questa storia. E se siamo portati a credere che sia così è perché da bambini abbia­ mo imparato a leggere e a scrivere in modo lineare e progressivo, guidati dall’abilità didattica dei nostri insegnanti. L’umanità occidentale non ha preso familiarità con queste tecnologie della parola nello stesso modo in cui lo fanno oggi i bambini che, pur avendo testi predisposti a facilitarne l’appren­ dimento graduale tramite caratteri grandi e un lessico semplifica­ to, imparano comunque fin dall’inizio le medesime forme grafi­ che dei libri per adulti. Non si è svolta così la storia della lettura dall’VIII secolo a.C. fino ai nostri giorni: ha proceduto piuttosto per meandri, con ritorni, salti e rivoluzioni. In più, ogni epoca ha riportato le opere del passato sul sup­ porto tecnologico di più recente invenzione, determinando una peculiare convivenza tra scritti creati per supporti differenti e fa­ cendo dimenticare il tipo di comunicazione originaria. Eppure gli autori furono sempre attenti al canale di comunicazione che li metteva in contatto con i loro destinatari: accadde con l’Odissea, ma anche con la Divina Commedia, Il paradiso perduto, Robinson

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Crusoe, opere certo non modellate per i supporti materiali che oggi li diffondono assieme ai romanzi di Don DeLillo. Noi questo lo sappiamo, ovviamente, ma è facile scordarsene. I testi non sono oggetti astratti, non sono agglomerati di pa­ role concepite da una mente universale e assoluta, libera da ogni materialità. Sono piuttosto il prodotto di corpi e di menti in si­ tuazione, che usano strumenti materiali e canali materiali, i quali li fanno entrare in contatto con altre menti e altri corpi, anch’essi in situazioni concrete. La lettura da un rotolo non poteva avere sulla mente e sul corpo di chi leggeva lo stesso impatto che hanno i libri leggeri e maneg­ gevoli che oggi leggiamo sprofondati in poltrona. Una tavoletta cerata decifrata con sforzo non poteva dare la stessa esperienza di un paperback scorso con gli occhi socchiusi su una spiaggia assola­ ta. La ricostruzione del significato di un testo in scrittura continua non era certo equivalente allo sguardo gettato sulla schermata di un computer per scegliere i percorsi ipertestuali. Della materialità dei due poli della comunicazione, dell’incon­ tro non astratto ma concretissimo tra mondo del lettore e mondo del testo dà conto la storia della lettura. Non ancora però quella letteraria; o meglio: non per l’intero suo arco. Molti anni fa questa storia aveva cominciato a scriverla Marshall McLuhan, mettendo in rapporto, nella Galassia Gutenberg, l’aspetto linguistico e sti­ listico di testi di vari secoli con le loro condizioni di produzione e di fruizione21. Furono una manciata di lucidissime tessere di mosaico, sparse alla rinfusa e in parte rimaneggiate da Walter J. Ong22, per le quali esiste oggi un tavolo su cui riordinarle: appun­ to la storia della lettura. La comunicazione verbale è un’azione che non coinvolge i sen­ si sempre nella stessa maniera: per esempio la lettura ad alta voce ad un pubblico attiva una parte più ampia del sensorio umano rispetto a quella silenziosa, che demanda tutto alla vista. Quando un modo di leggere prende diffusamente il sopravvento, vengo­ no a crearsi abitudini psicomotorie che modellano le strutture cognitive degli individui. La lingua è un fenomeno globale, che coinvolge mente e corpo, perché i suoi canali hanno sempre una materialità; e ciò che vale per la lingua, vale anche per la lettera­ tura, che è un sistema simbolico secondario, costruito a partire da quello linguistico23.

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Ogni cambiamento nelle tecnologie della parola, dunque, modi­ ficando il rapporto tra corpo e simbolo verbale, non può non avere un forte impatto sulla totalità della persona. È un fatto che oggi pre­ occupa molti, che pensano ai videogame, a internet, agli sms, agli iPhone. Ma al passato di solito non si pensa in questi termini. Per esempio, non ci chiediamo comunemente che cosa accadde nella mente umana al radicarsi dei vari tipi di scrittura e poi di stampa. Leggiamo beatamente l’Odissea senza pensare a come i modi della sua comunicazione avessero formato la mente degli aedi e del loro pubblico. Leggiamo in silenzio e basta. E in silenzio leggiamo La chanson de Roland e Perceval ed Eliduc, sempre dimentichi che un tempo la voce era loro parte essenziale, ineliminabile. Nel mondo greco-romano di solito si leggeva a voce alta: testi brevi, all’inizio, poi sempre più lunghi. Verso la metà del V secolo questa pratica doveva essere già sufficientemente diffusa da con­ sentire al poeta Callia di comporre, sicuro di venir compreso, lo Spettacolo dell’alfabeto, un’opera che fin dal titolo esibisce il senso della visibilità del linguaggio, non più solo flusso sonoro indivisi­ bile, ma insieme di singoli segni collocati in uno spazio24. Datano dalla fine del V secolo i primi consistenti indizi di una lettura silenziosa. Sono almeno due le testimonianze letterarie: una scena dell’Ippolito (428 a.C.) di Euripide e un passo dei Cavalieri (424 a.C.) di Aristofane. Nella prima, Teseo si accorge che la moglie morta ha una tavoletta scritta che le pende da una mano; la pren­ de e la guarda tacendo, mentre interviene il coro con commenti e presagi di sciagure. Poi l’eroe lancia un grido: «Che male viene ad aggiungersi, intollerabile, indicibile!» (vv. 874-875), mostrando di aver letto in silenzio la lettera e di averla compresa. Nella scena dei Cavalieri, invece, Nicia consegna a Demostene un responso oraco­ lare scritto, che questi guarda rimanendone colpito. Il suo stupo­ re suscita la curiosità di Nicia, che vorrebbe saperne di più. Così, quando Demostene gli ordina: «Dammi da bere» (v. 118), egli cre­ de che questi stia leggendo ad alta voce il contenuto del responso. La situazione comica che si viene a creare su tale fraintendimento fa pensare che nel 424 a.C. la lettura silenziosa fosse una pratica suf­ ficientemente diffusa da venire riconosciuta dal pubblico a teatro, ma non tanto da rendere incredibile l’errore del servo. Gli scritti che Teseo e Demostene leggono in silenzio, tuttavia, sono brevi, mentre all’epoca quelli lunghi continuavano ad essere

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sonorizzati anche quando si leggeva solo per se stessi. La lettu­ ra silenziosa rimase infatti un fenomeno marginale durante tutta l’antichità classica. Ma chi leggeva? Nella Roma dei primi secoli, leggevano quasi esclusivamente gli schiavi e i sacerdoti; non per piacere (voluptas) ma per utilità (utilitas). Solo verso la fine dell’epoca repubblicana la lettura colta si diffuse in una cerchia più ampia di uomini agiati, che la eserci­ tavano in privato. Fu infatti tra il II e il I secolo a.C. che nacquero le prime biblioteche private, in cui si praticava l’otium letterario e l’incontro sociale, la lettura finalizzata allo studio e quella intesa al piacere. Cicerone testimonia l’esistenza di individui di livello intellettuale modesto, che leggevano o ascoltavano opere di historia e per puro piacere25. L’età imperiale assistette a un incremento dell’alfabetismo e alla diffusione della lettura in ambiti sociali sempre più vasti, tanto che furono istituite biblioteche pubbliche aperte a tutti, anche se poi chi le frequentava erano in realtà solo gli eruditi. Quanto alla produzione dei libri, dapprima essa si sviluppò nelle dimore ari­ stocratiche, dove erano copiati a uso di pochi lettori, e poi si estese alle tabernae librariae, cioè alle botteghe dove i libri venivano an­ che venduti e dove i lettori potevano incontrarsi per discuterne26. Già nei primi secoli dell’impero, a leggere non erano più sol­ tanto i letterati, i funzionari civili e i maestri di scuola, ma anche le donne e un pubblico sempre più differenziato, sia per esigenze sia per livello culturale. Proprio allora si diffuse una letteratura di intrattenimento e di consumo, costituita principalmente da testi narrativi quali Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, Dafni e Cloe di Longo sofista e le Etiopiche di Eliodoro. Scene di lettura sono tutt’altro che infrequenti negli affreschi romani di quei secoli. Vi compaiono individui che declamano al loro uditorio, lettori solitari, viaggiatori che leggono su un carro, banchettanti che scorrono un rotolo, fanciulle in piedi o sotto un porticato con in mano le tavolette, e anche cacciatori che leggono mentre attendono la preda27. La lettura doveva essere una pratica diffusa, ma questo non significa che fosse silenziosa: anche chi leggeva solo per sé non lo faceva nel chiuso della mente, ma pro­ nunciava le parole ad alta voce per comprenderne il senso. Nel mondo romano, il discorso scritto veniva infatti sonorizza­ to, come mostrano i trattati grammaticali, i manuali di retorica, i

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libri di filosofia e le note a margine delle opere letterarie (scoli)28, che indicano in quale modo si dovesse usare la voce per capire e per comunicare. La sonorizzazione sezionava la scriptura continua in unità di significato, assegnava gli accenti alle parole (che, a seconda di dove cadessero gli accenti, potevano avere significati diversi) e le intonazioni esclamative e interrogative delle frasi per cui mancavano i segni grafici. Leggere un testo declamandolo rispondeva a un’esigenza er­ meneutica. Serviva ad agevolarne la comprensione, come mostra Quintiliano, per il quale un giovinetto che impari a leggere deve apprendere «dove trattenere il fiato, in che punto dividere il ri­ go con una pausa, dove si conclude il senso e donde cominci, quando sia da alzare e quando da abbassare la voce, con quale inflessione si debba articolare con la voce ciascun elemento, che cosa con più lentezza o con più rapidità, con più impegno o con più dolcezza»29. All’autore stesso si richiedeva un’attenzione specifica alla resa sonora, per cui doveva «comporre sempre allo stesso modo in cui si dovrà dare voce allo scritto»30. C’era un vero e proprio apprez­ zamento estetico del suono. Ma non solo: gli antichi ben sapevano quanto il pronunciare le parole ad alta voce fosse utile alla memoria. E lo stesso Quintiliano invitava l’allievo a tornare più volte sullo stesso passo «allo scopo di rafforzare duplicemente la memoria del parlare e dell’udire». Il testo, letto ripetutamente seppur «con voce sommessa come un bisbiglio», veniva un po’ per volta memorizzato e le letture successive erano rese così sempre più veloci31. A differenza che nel mondo moderno, nessuna delle funzioni che l’antichità assegnava alla scrittura e alla lettura veniva impedi­ ta dalla sonorizzazione, tutt’altro. Agli antichi non interessava una lettura scorrevole, perché non esistevano quelle condizioni che ce la fanno apprezzare oggi. La possibilità di cercare informazioni in modo rapido e di leggere velocemente un gran numero di testi esercitava ben scarsa attrattiva in un’epoca in cui i libri disponibili erano complessivamente pochi32. E questo spiega anche perché l’eliminazione degli spazi e dei punti (interpuncta) tra le parole, quando avvenne, non fu affatto percepita come un ostacolo alla lettura. Lo stesso Seneca33 considerava la scrittura con i punti in­ tercalari una semplice variante di stile e non una forma grafica più soddisfacente di quella continua.

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Teniamo anche presente che, come sostiene Paul Saenger, l’idea che la maggior parte della popolazione dovesse essere in grado di leggere in modo autonomo e sotto la spinta di un interesse intellet­ tuale personale era del tutto estranea alla mentalità elitaria del mondo antico. Le difficoltà di accesso lessicale derivanti dalla scrittura conti­ nua non accendevano nell’alfabetizzato il desiderio di rendere il testo scritto più facile da decifrare, ma avevano invece come risultato la delega della maggior parte della fatica di leggere e scrivere a schiavi esperti, che operavano come lettori e scribi professionisti34.

Con la crisi dell’Impero Romano, la diffusione dell’alfabeti­ smo subisce una battuta d’arresto; e tra il III e il IV secolo d.C. prende avvio un processo che muove nella direzione opposta35. La società nel suo insieme va dimenticando la lettura e la scrittura, che finiscono per sopravvivere solo in luoghi e ambienti ristretti. Nel VI secolo il panorama appare oramai mutato. La competenza è rimasta in mano a poche persone, differenti da quelle di prima e che leggono diversamente, per altri scopi e su libri che hanno cambiato aspetto. I re non sapevano scrivere. Teodorico, che morì nel 526, era analfabeta e nei suoi dieci anni di regno non riuscì a imparare nemmeno le quattro lettere necessarie a sottoscrivere un edit­ to. «Perciò aveva una sagoma d’oro traforata che conteneva le quattro lettere del re e, se voleva firmare qualcosa, posava la sagoma sopra la carta e vi faceva passare la sua penna, in modo che apparisse solo la sottoscrizione». Per quanto fosse uomo dotato di virtù politiche e tutt’altro che ignorante, nessuno con­ siderava strano che si servisse di una sagoma traforata per «di­ segnare» il suo monogramma. Scrivere, a quel tempo, era ancora un’attività da schiavi. Così anche per Liutprando, nel cui elogio funebre del 744 Paolo Diacono scrisse che «Fu uomo di grande sapienza, acuto nel dare consigli [...] tuttavia analfabeta, anche se da affiancare ai filosofi, benefattore dell’umanità, promotore di leggi»36. Lo stesso Carlo Magno – uomo di grande cultura, come scrive il suo biografo Eginardo, e che conosceva bene il latino e capiva il greco – non sapeva scrivere, anche se teneva tavolette cerate sotto il cuscino con l’intenzione di imparare, cosa che però mai

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gli riuscì. Nell’Alto Medioevo cultura e analfabetismo non erano inconciliabili nella società laica. La lettura prese sede nei monasteri, dove se ne praticavano di diversi tipi37. Quella sonorizzata per un pubblico di ascoltatori, come insegna nel VII secolo il De ecclesiasticis officiis di Isidoro di Siviglia, che doveva essere esercitata modulando la voce per accompagnare il senso, per «[...] impegnare intelletto e sentimenti di tutti nella comprensione, distinguendo fra i tipi di comuni­ cazione ed esprimendo i sentimenti della sententia: ora col tono dell’esposizione, ora alla maniera di uno che soffre, ora come chi rimprovera, o ammonisce, o secondo i modi dell’espressione di voce più appropriata»38. Si leggeva così anche in chiesa, cercando di convincere e coinvolgere il pubblico con tecniche simili a quelle degli oratori delle epoche precedenti, ma ora su testi religiosi. È comunque sempre l’arte oratoria a venire in aiuto, insegnan­ do come interpretare i passi e modulare la voce, come far uso del gesto e degli atteggiamenti del corpo39. Non è un caso che proprio in chiesa, e proprio a partire dalla lettura dei testi liturgici, in tutta Europa un po’ prima dell’anno Mille rinasca il teatro, che sposterà successivamente le sue scene sul sagrato e nelle piazze, per trovare infine, in epoca rinascimentale, le proprie sedi specifiche. Nei monasteri si praticava anche la lettura individuale, che pe­ rò ovviamente non era finalizzata al divertimento come in epoca imperiale, bensì al conseguimento della saggezza. I monaci ma­ neggiavano sempre gli stessi testi, che ripetevano e memorizzava­ no per penetrarne i significati più reconditi. Erano le auctoritates del passato, parole autorevoli che si riteneva portassero a Dio, istituendo con Lui un dialogo. La lettura procedeva lenta, tornava ripetutamente sui medesimi passi, ed era praticata esclusivamente per se stessi. Ma non in silenzio. Via della sapienza, nutrimento dell’anima, questa lettura insi­ steva sulle medesime parole pronunciate ad alta voce, sugli stes­ si suoni come fossero dei mantra. Disponeva alla meditazione, la guidava e le dava sostegno: era eseguita borbottando, a volte anche con l’accompagnamento di movimenti ritmici. Il monaco medievale «comprende le righe seguendone il tempo, le ricorda ritrovandone il ritmo e le pensa come cose che si mettono in bocca e si masticano». Così, i monasteri sembravano «dimore di gente che non fa che borbottare e sgranocchiare»; tanto che «il mona­

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co che legge-medita viene spesso paragonato a una mucca che rimastica il suo bolo»40. Nell’Alto Medioevo, i monasteri erano luoghi rumorosi, dove si leggeva e si meditava guidati da un libro e cantilenando all’infinito le medesime parole. Tuttavia il libro vi svolgeva anche un altro ruolo: era icona del­ la sapienza e prendeva parte ai rituali della comunità, esercitando una funzione simbolica. Nel ventottesimo capitolo delle norme del monastero di San Vittore viene menzionata la «cerimonia del libro», che sveglia i monaci per la preghiera notturna. Il codice – imponente, largo, pesante – fa il suo ingresso nei dormitori pre­ ceduto da due ceri e sorretto da un monaco che, con rispettosa dignità, ne tiene poggiato sul petto il bordo superiore. La piccola processione che segue canta «Benedicamus Domino»41, mentre chi viene svegliato risponde «Deo gratias». I monaci si riunisco­ no poi in chiesa, dove il libro viene posto su un leggio in mezzo alla navata, di fronte a una candela accesa che non serve tanto a illuminare la scrittura quanto a rammentare agli astanti che Cri­ sto è luce emanante dal Libro. Il codice, in questo caso, più che contenitore di un testo è una presenza da onorare, oggetto di per sé dotato di autorità. Oltre alla lettura ‘recitata’ e a quella borbottante, certamente le più diffuse, nel Medioevo si praticava anche la lettura silen­ ziosa, alla quale invita per esempio la Regola di San Benedetto42 perché consente di non disturbare gli altri. Pochi però la sapevano esercitare, e comunque almeno un minimo di sonorizzazione, ma­ gari un bisbiglio, era indispensabile affinché la scrittura risultasse comprensibile. La grafia poco chiara, l’organizzazione testuale confusa e soprattutto la scriptura continua, che rimase in uso a lungo, prolungavano la durata dell’attività cognitiva necessaria alla lettura e suscitavano, appunto, reazioni fisiologiche di tipo vocale o subvocale43. Nel tempo, tuttavia, ricomparvero quegli spazi bianchi tra pa­ role che erano stati aboliti con l’introduzione delle vocali. Avvenne quando il parlato perse contatto con la lingua scritta, che rimase il latino anche mentre nelle varie parti d’Europa si parlava oramai correntemente il volgare. Questo scollamento tra le due lingue cre­ ava problemi agli scribi, non tanto nelle zone in cui si parlavano le lingue romanze, più vicine al latino, quanto piuttosto nelle altre, dove i testi latini che gli amanuensi dovevano trascrivere risulta­

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vano loro quasi incomprensibili se vergati in scriptura continua. Proprio quegli scribi – irlandesi e anglosassoni – produssero inno­ vazioni grafiche che entrarono nella pratica corrente, facilitando a tutti l’accesso alla pagina scritta e rendendo più immediata la ricostruzione del senso. Non solo essi reinserirono gli spazi tra le parole, ma ridussero anche il numero delle varianti di una stessa lettera, fino a giungere quasi alle litterae absolutae, vale a dire a un tipo di scrittura minuscola nella quale ciascun segno sonoro si pre­ senta in un’unica forma grafica. In più, fissarono la punteggiatura, agevolando ulteriormente la ricostruzione del senso44. Tra le varie innovazioni, l’impatto maggiore lo ebbe però senz’altro l’abbandono della scriptura continua, che fu un pro­ cesso lento e giunto a compimento solo nel XII secolo, ma che comportò una vera e propria rivoluzione cognitiva45, creando i presupposti per una lettura veloce e per una comprensione im­ mediata. Si liberavano così nei lettori quelle energie intellettuali che prima avevano dovuto impegnare nella ricostruzione faticosa del senso tramite successive letture sonorizzate. Di conseguenza, anche i lettori di modeste capacità intellettuali po­ tevano leggere più velocemente e comprendere un numero crescente di testi intrinsecamente difficili. La separazione tra parole rese anche possibile una lettura oralizzata, che dava accesso immediato al senso senza più bisogno di sottostare al faticoso processo della praelectio. La separazione tra parole, alterando il processo neurofisiologico della lettura, ne semplificava l’atto, mettendo il lettore in grado di ricevere silenziosamente e simultaneamente il testo con l’informazione codifi­ catavi, e facilitando al tempo stesso sia l’esecuzione orale che la com­ prensione46.

La lingua venne così a essere tradotta quasi per intero in forma visiva, con il senso guidato principalmente dalla punteggiatura e dagli spazi bianchi, mentre prima a farlo erano i toni di voce e le pause. Fu allora che la parola diventò pensabile – pensabile, se non altro – come un segno che manda alla mente messaggi diretti, senza più transitare per il suono e per l’udito. Il processo di inclusione nel discorso scritto delle sfumature di quello orale durò secoli: iniziato con il latino, continuò poi con le

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lingue volgari (dette anche naturali47), che intrattennero rapporti con l’oralità anche molto dopo che il latino li aveva rescissi. Nel XII secolo divennero di uso corrente tutta una serie di innovazioni grafiche. Apparvero gli indici dei nomi e dei con­ tenuti, la titolazione dei libri e dei capitoli, l’impaginazione e la segnalazione dei confini di proposizioni e paragrafi, nonché la scrittura corsiva, già nota agli antichi e tornata ora in uso dopo un lungo oblio. I codici venivano così ad assumere un ordine e una chiarezza che consentivano l’accelerazione della lettura: non a caso in tutta Europa aumentò la produzione delle copie dei te­ sti, facilitata anche dalla diffusione dell’inchiostro a mordente e della carta48 in sostituzione dei vari tipi di pergamena, faticosi da produrre, limitati nella quantità e costosi. Ecco allora che «dopo secoli di lettura cristiana, improvvisamente la pagina si trasformò, da partitura per pii borbottanti, in testo organizzato otticamente a uso di pensatori logici»49. Per un verso conseguenza e per un altro condizione delle av­ venute scoperte tecniche, al libro cominciarono a essere rivolte richieste differenti che in passato: si aprì così il periodo della sco­ lastica e mutò la lettura stessa. Se nell’Alto Medioevo a leggere erano stati soprattutto i mo­ naci, che lo facevano per conseguire la sapientia e per entrare in contatto con Dio, nel XII secolo la lettura uscì dai monasteri ed entrò nelle scuole50. Prima si leggevano e rileggevano sempre i medesimi testi, che finivano per essere conosciuti in profondità e memorizzati mediante la ripetizione borbottante e l’attivazione della memoria aurale e muscolare, poi la lettura diventò esercizio scolastico e universitario, svolgendo la nuova funzione di accu­ mulare sapere. Prima era meditazione, poi fu utile apprendimento. Prima po­ teva bastare un solo libro per attingervi saggezza durante tutta una vita, poi si cercò di consultare il maggior numero possibile di scritti, in modo rapido e necessariamente meno approfondito. Ne conseguì il bisogno di accrescere la produzione libraria, sia delle opere del passato che di quelle nuove, e aumentò così il numero dei volumi in circolazione (codici miscellanei, per la maggior par­ te), mentre le loro dimensioni si riducevano progressivamente. La disponibilità di codici non fu però subito all’altezza dell’in­ cremento della domanda, perché il lavoro di trascrizione conti­

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nuava a essere costoso, e la professione di copista poco attraente, vissuta come disonorevole e servile51. Nell’immediato, si ovviò alla discrepanza tra domanda e offer­ ta con un nuovo tipo di libro, destinato a rimanere in auge fino a ben dentro l’epoca umanistica, e cioè il ‘florilegio’, raccolta di brani selezionati da vari testi per consentire l’accesso, anche se frammentario, al maggior numero possibile di opere. Il florile­ gio godette di grande fortuna, e furono le gerarchie ecclesiastiche stesse a incoraggiarlo, perché consentiva di elidere brani, frasi o singole parole ritenuti pericolosi e passibili di eresia. Così la let­ tura smise almeno in parte di esercitarsi direttamente sulle opere intere e i copisti assunsero il potere di indirizzarla, scegliendo i testi da trascrivere e da raccogliere. Intanto si stava producendo un altro rilevante cambiamento. La semplificazione della scrittura e della lettura che ebbe luogo tra l’VIII e il XIII secolo rese meno imperativa la necessità di com­ porre dettando a uno scriba52. Scrivere, nel senso di comporre, fu così sempre meno associato alla dettatura e gli autori progressiva­ mente divennero anche scrittori dei propri testi. Nel XIII secolo, Bonaventura da Bagnoregio precisava, nel proemio al Commentarium in libris sententiarum, i diversi ruoli di chi partecipava alla produzione dei libri: Ci sono quattro modi di fare un libro. Alcuni scrivono parole altrui, senza aggiungere o cambiare alcunché, e chi fa questo è uno scriba (scriptor). Altri scrivono parole altrui e aggiungono qualcosa, però non di proprio. Chi fa questo è un compilatore (compilator). Poi ci so­ no quelli che scrivono sia cose altrui sia proprie, ma il materiale altrui predomina e quello proprio è aggiunto come un allegato a scopo di chiarimento. Chi fa questo si definisce commentatore (commentator). Chi invece scrive cose che vengono da lui, e il materiale altrui serve a confermare il proprio, questi è da chiamare autore (auctor)53.

Presto si diffuse la figura dell’autore che era anche scrittore del­ le proprie opere; e, se lo scriba non scomparve, egli tuttavia divenne un amanuense il cui lavoro consisteva nella copiatura dei mano­ scritti. Fu allora che i termini scrittore e autore divennero sinonimi. Sul piano cognitivo, le conseguenze furono rilevanti. Si instau­ rò una relazione più stretta tra autore e manoscritto, favorendo

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l’espressione dell’interiorità. Inoltre, poiché la composizione non era più determinata dai tempi della dettatura, ma cominciava a seguire i ritmi personali dell’autore e della sua creatività, si ve­ rificarono alcuni cambiamenti tutt’altro che secondari nell’ordi­ ne del discorso, nel lessico e nello stile. Potendo infatti rileggere quanto scritto in precedenza, l’autore veniva ora messo in grado di costruire una serie di riferimenti interni che creavano raccordi e recuperavano antecedenti logici. Poteva perfino modificare in corso d’opera il suo stesso piano iniziale. Quanto alla lettura, anch’essa andava cambiando. Nel XIV secolo, almeno una parte dei lettori scorreva oramai i testi in silen­ zio e con una certa velocità; la comprensione era abbastanza im­ mediata e l’accesso alla scrittura delegato alla vista, che mandava segnali diretti alla mente senza più il tramite della verbalizzazione sonora54. Fu allora che le biblioteche, luoghi in precedenza rumorosi dove si dettava e si leggeva ad alta voce, vennero improvvisamen­ te sommerse dal silenzio: gli studiosi avevano ciascuno un libro davanti a sé e potevano consultare stando in piedi gli imponenti volumi incatenati ai leggii. Il corpo però non si rilassava nella let­ tura, e la tensione si faceva sentire nell’impegno della muscolatura di gambe e spalle. Tuttavia qualcosa di clamoroso stava accadendo all’essere umano e al suo pensiero: la scrittura e la lettura entravano nella segretezza, ed era divenuto possibile non far sapere agli altri che cosa si scrivesse e che cosa si leggesse. Fu così che trovarono dif­ fusione scritta le culture laiche ed eretiche; e fu così che si confi­ gurarono le condizioni di possibilità per un pensiero autonomo e per una coscienza critica. Unità testuale, senso di intimità e di segretezza non misero radici però con sincronica immediatezza in tutti i tipi di scritti: furono piuttosto l’esito di processi che si svolsero secondo tempi e forme diverse, fino a tracimare e a divenire stabili nell’epoca della stampa. Tutto ciò riguardava le comunità cristiane e il latino. Diverso fu il caso delle società laiche e delle letterature in volgare, il cui distacco dalle forme della comunicazione orale fu più lento. È vero che già all’alba del XIII secolo san Francesco componeva un testo poetico in lingua italiana, mostrando come il vernacolo

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si preparasse ad accogliere tutto quanto veniva detto e pensato55, ma per gli autori in genere non fu subito scontato esprimere per iscritto nella lingua madre il loro sentire più segreto. Poesia e prosa vernacolari continuavano ad essere concepite come indirizzate non a dei lettori ma a degli ascoltatori56, destina­ tari di una lettura sonorizzata o di una ripetizione solo in parte let­ terale. Gli stessi sovrani e i nobili di rado leggevano da soli prima della metà del XV secolo; piuttosto, ascoltavano chi raccontava o leggeva loro le cronache, le chansons de geste, le storie di caval­ leria, le poesie dei trovatori, opere concepite per trasformarsi in suono, a volte dettate, all’atto della loro composizione, da autori che non erano ancora divenuti scrittori. La stampa e la moltiplicazione dei libri Una situazione decisamente mutata inaugura il Cinquecento. Lorenzo il Magnifico e Carlo V leggevano da soli; e la sonorizza­ zione delle parole non era più molto consueta nella lettura indi­ viduale, anche se gli umanisti continuavano a prestare attenzione alle qualità sonore dei testi, perché queste favorivano l’apprendi­ mento mnemonico. Metrica, allitterazioni, combinazioni memo­ rabili erano elementi identificativi che l’umanista incontrava in silenzio e nell’intimo, pur rivolgendone «ancora sensualmente i suoni fra le labbra»57. L’epoca rinascimentale si volse all’antichità classica e intro­ dusse un nuovo canone, proponendo ai lettori anche nuove forme di organizzazione testuale, diverse da quelle medievali, che non piacevano agli umanisti. Le raccolte di auctoritates, nel Medioevo allestite dagli «stazio­ nari» delle città universitarie, sviluppavano il testo su due colonne per pagina, occupandone uno spazio centrale relativamente ridot­ to, mentre intorno apparivano le glosse, cioè dei commenti vergati in grafia minuta e poco visibile. Non solo per i loro contenuti, ma anche per la loro stessa forma visiva, questi libri rappresentavano un modello culturale che gli umanisti respingevano58. Essi preferi­ rono adottare un tipo di scrittura più chiaro e più facile da leggere, vergato su libri di differenti dimensioni, dai grandi in-folio per gli apparati della ricerca filologica, ai più agili in-quarto e in-ottavo,

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quali quelli stampati da Aldo Manuzio: libri piccoli e manegge­ voli, privi di glosse e di commenti. Libri, questi ultimi, da portare fuori casa, da leggere nei giardini e per strada59. Quanto al rapporto con i classici, se è vero che gli umanisti ne instaurarono uno mediamente più diretto di quello medievale, è anche vero però che le forme in cui lo fecero non garantivano una fedeltà assoluta agli antichi. Nonostante sostenessero il contrario, in realtà non operarono un recupero storicamente corretto, ma in­ ventarono qualcosa di nuovo, una commistione tra elementi classi­ci applicati a nuovi fini e forme medievali presentate come classiche. Nessuno si meravigliava di vedere storie latine illustrate con mi­ niature che utilizzavano decorazioni medievali, o che presentavano personaggi in abiti da cavaliere. Il sentire umanistico e l’esigenza di ricostruire i testi in modo filologicamente corretto coesistevano tranquillamente con il protrarsi delle convenzioni medievali, che peraltro apparivano classiche agli occhi dei lettori rinascimentali. In tutta l’Europa cinquecentesca, d’altronde, i giovani non in­ contravano gli antichi immergendosi senza guida nei loro libri: c’era sempre un umanista esperto che sceglieva per loro brani semplici, che li organizzava e li rielaborava. Ecco perché si molti­ plicarono le antologie, i materiali di lavoro, gli scritti che raccon­ tavano in sintesi i miti classici, sollevando gli studenti dal peso di andarli a cercare nelle fonti. Gli stessi commentari ai testi classici che erano stati in uso nel Medioevo non furono eliminati subito, ma vennero semplicemente sostituiti con altri più moderni. Gli umanisti, insomma, non si aspettavano che i classici giungessero sulla loro scrivania integri e senza neppure una glossa60. Quanto alle modalità di lettura, se ne praticavano di diverse a seconda del tipo di testo e di quanto in quel momento gli si ri­ chiedeva. Quando Machiavelli scriveva Il Principe, di pomeriggio leggeva nel suo studio i filosofi e gli storici che gli servivano per il lavoro; mentre la mattina passeggiava con in mano un’opera di Dante, di Petrarca o di Ovidio, interrompendone la lettura per conversare con chi incontrava61. Nello studio, egli leggeva con tut­ ta probabilità servendosi di commentari; fuori, si portava dietro edizioni tascabili prive di glosse. L’umanista poteva leggere i classici e i moderni anche in modo casuale e creativo, ma quando lo faceva per studio, teneva la pen­ na in mano, glossando o magari trascrivendo l’intero testo, fosse

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anche da un libro a stampa. Lo copiava per averlo nella propria bi­ blioteca, oppure con l’idea che questa azione gli servisse a padro­ neggiarne meglio i contenuti. Ancora una volta, però, ciò non si­ gnificava che i tratti aurali dei testi non avessero per lui alcun peso e che egli trascurasse la funzione mnemonica del suono e del ritmo. Intorno alla metà del Quattrocento era apparsa la stampa a ca­ ratteri mobili62, un evento dall’impatto strepitoso, che influì sulla diffusione del libro, sui contenuti e la loro organizzazione, sulle modalità di lettura e di scrittura, oltre che sull’alfabetizzazione e sulla stessa forma mentis degli scrittori e dei lettori. Fu il lancio di un sasso che increspò le acque fin negli angoli più riposti della coscienza umana. Tuttavia, nell’immediato non ebbe un effetto tanto dirompen­ te, e impiegò del tempo a scavare nelle abitudini e nel pensiero umano. Da subito però si ridussero i costi della produzione libra­ ria e aumentò il numero dei testi in circolazione, un fenomeno favorito anche dalla sopravvenuta maggiore disponibilità di carta. Così capitò che «un uomo nato nel 1453, anno della caduta di Co­ stantinopoli, a cinquant’anni vedesse dietro di sé una vita durante la quale erano stati stampati circa otto milioni di libri, forse più di quanto avevano prodotto tutti gli amanuensi d’Europa da quando Costantino aveva fondato la sua città nel 330 d.C.»63. Quanto ai supporti materiali dei testi, la stampa all’inizio non fece altro che portare avanti le innovazioni introdotte nei mano­ scritti dei secoli precedenti. Il titolo, i paragrafi, le pagine ordinate con gli appropriati margini, esistevano già in epoca tardomedie­ vale: la stampa semplicemente li diffuse in tutta la produzione libraria. Dapprima non cambiò neppure il modo di leggere e di scri­ vere: avevano sbagliato Aldo Manuzio e altri nella sua epoca a credere che la stampa avrebbe trasformato subito la lettura dal­ le fondamenta. Solo in seguito si innescarono quei processi di perfezionamento tecnologico che resero il libro accessibile a un maggior numero di persone, più facilmente leggibile e indipen­ dente, per la decodifica e per l’effetto emotivo, dal contesto della sua enunciazione64. Le trasformazioni procedettero con lentezza, ma inesorabil­ mente e senza sosta, provocando alla lunga effetti dirompenti in tutto l’ambito del sensorio umano e della vita associata. Perme­

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arono l’esperienza individuale e collettiva; penetrarono l’essere umano fino alle sue radici psichiche più profonde. Per cominciare, l’avvento della stampa favorì la Riforma pro­ testante, di cui diffuse le idee e ospitò le controversie. Lutero comprese subito le sue potenzialità e la chiamò il più grande tra i doni di Dio, salvo poi ritirare l’invito che aveva fatto ai fedeli a leggere da soli la Bibbia65. Il Libro, che allora veniva stampato in un gran numero di copie e a prezzi accessibili, entrò così in molte case, divenendo oggetto sia di una lettura collettiva ad alta voce che cementava l’unione familiare, sia di una lettura silenziosa che attivava negli individui il pensiero autoriflesso. Ne conseguì, so­ prattutto nella Germania pietista e nella Gran Bretagna puritana, dove tali pratiche venivano sollecitate, una familiarità diffusa con la scrittura in genere, anche non religiosa. Inoltre, nelle coscienze si sviluppò l’addestramento all’interpretazione e l’abitudine allo sforzo ermeneutico66, che si combinarono in un atteggiamento introverso e nel senso di un punto di vista soggettivo con l’io al suo centro. Diversamente accadde nei paesi cattolici, dove le autorità ec­ clesiastiche frenarono il processo di diffusione del libro stampato, esercitando sulle letture dei fedeli e dello stesso clero un control­ lo occhiuto, che mirava a dissuaderli dal maneggiare troppo la parola scritta67. Se è vero che la consapevolezza del potere della stampa, sorta presto ovunque, suscitò ovunque forme di censura sui libri, è però altrettanto vero che in ambito cattolico questa cen­ sura fu particolarmente rigida. Se ne incaricarono l’Inquisizione, che impose freni efficaci come l’Index librorum prohibitorum, e i tribunali, che infliggevano pene a volte tremende a chi stampava e a chi deteneva libri proibiti68. Fu così che, rispetto alla consuetudine di leggere, si aprì un divario profondo tra comunità protestanti, che in alcuni casi già a fine Seicento sperimentarono una vera e propria mania della lettura, e comunità cattoliche, dove questa pratica si diffuse con molta maggiore lentezza, ostacolata dai controlli inquisitoriali ancora ben dentro al Settecento69. Tutto ciò non fu senza conse­ guenze sull’origine del romanzo e sulla forma mentis che ad esso si accompagna. Nel Seicento la pagina stampata è una presenza ben visibile in tutta Europa, anche presso gli strati più poveri della popolazione.

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Le ballate vengono incollate come decorazioni alle pareti delle case; gli opuscoli di soggetti vari circolano tra la gente, offerti alla lettura individuale e collettiva nelle abitazioni, nei caffè, nelle taverne70. Compare in questo periodo, nell’Europa occidentale, un pro­ dotto a stampa mirato ad un mercato che oggi chiameremmo po­ polare, con testi appositamente adattati, prezzi bassi e una distri­ buzione capillare, in città e nelle campagne, tramite le botteghe dei librai e gli ambulanti. Se fino al tardo Cinquecento tutti avevano praticato la lettura più o meno sui medesimi libri, e le persone si differenziavano socialmente non tanto per quello che leggevano quanto per il mo­ do di leggere e per il numero di testi letti71, nel Seicento alcuni stampatori si specializzarono in libri per un’utenza popolare poco alfabetizzata, pubblicando ballate, almanacchi72, scritti di magia, versioni semplificate dei libri picareschi e di cavalleria, storie trat­ te dalla tradizione orale e fatti di cronaca. Erano, questi, dei testi principalmente da ascoltare, raccolti dalla viva voce di chi li leggeva davanti a un gruppo, come mo­ strano formule di apertura quali: «Comme vous allez l’entendre»; o «comme cy après pourrez ouyr»73. Nelle campagne soprattutto, ma anche in città e d’inverno, diverse famiglie si riunivano la sera attorno a un libro – «a veglia»74 – e, mentre le donne filavano e gli uomini riparavano gli utensili, il più abile leggeva per tutti, al lume della fiamma del focolare o di una candela o di una lampada a petrolio. Occasionels, venivano chiamati in Francia questi liber­ coli; chapbooks, in Gran Bretagna; pliegos sueltos in Spagna e plecs nella Catalogna. Formati da quattro, otto oppure dodici pagine, questi opuscoli costavano poco ed erano perciò accessibili anche ai meno abbienti. Il loro pubblico dovette essere piuttosto consistente, almeno in Gran Bretagna, vista l’ampiezza della rete distributiva affidata soprattutto ai venditori ambulanti; vista la fortuna economica di cui godettero gli editori specializzati75 e vista l’accesa battaglia editoriale per la conquista del mercato di cui furono campo76. Che il numero fosse in assoluto ingente, d’altronde, è testimonia­ to anche dalla quantità di opuscoli giunti ai giorni nostri ancora passabilmente integri, sebbene la carta povera, la mancanza di rilegatura e i contenuti li facessero ritenere particolarmente adatti

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«ai cuochi e ai tabaccai, per essere distesi sotto untuosi sformati, messi a tappo dei barattoli di mostarda e per incartare tabacco o, al meglio, usati nei bauli e nelle cappelliere», come è scritto in un testo del 167177. La Rivoluzione inglese del 1642-49, come quella francese un secolo e mezzo più tardi78, conferì un forte impulso all’apprendi­ mento della lettura e della scrittura, facendo esplodere la guerra dei pamphlets e dei fogli volanti, importanti strumenti di inter­ vento politico e di dibattito religioso, nei quali veniva catturata l’immediatezza del parlato. Insomma, nel Seicento l’eco della parola parlata risuonava an­ cora forte in molti settori della comunicazione scritta; e non solo tra la gente povera e illetterata: lo scambio da voce a orecchio continuava ad avere un ruolo importante in ambiti da noi oggi scontatamente affidati al rapporto individuale e silenzioso con lo scritto a stampa. Certo, un numero sempre maggiore di persone stava passando da una lettura ad alta voce a una lettura silenziosa ed esclusivamente demandata alla vista, tuttavia anche gente colta seguitava a intrattenere un rapporto con il libro in cui la voce, il gruppo, la ‘conversazione’ giocavano un ruolo fondamentale. La società italiana, tendenzialmente ostile ai libri e alla lettura, continuò a utilizzare la voce e il canto massicciamente e a lungo79. Nella Spagna dei secoli d’oro80, la fruizione silenziosa e solitaria si accompagnava ancora correntemente a quella sonora e di gruppo. In Inghilterra, le locande, le taverne, i caffè81 esibivano giornali e opuscoli che potevano venire letti silenziosamente dai singoli av­ ventori, ma non di rado erano oggetto di una lettura ad alta voce di fronte a tutti. Rilassarsi nell’ascolto era insomma un’abitudine anche per chi sapeva leggere bene82. Samuel Pepys, rampante funzionario statale, lettore appassio­ nato e onnivoro in balìa di una vera e propria frenesia del libro, leggeva spesso da solo, in silenzio, velocemente e ovunque. A casa, preferibilmente, magari sdraiato sul letto, anche se era pericoloso perché, dato il sistema di illuminazione con candele e lumi a olio, le coperte potevano prendere fuoco. Leggeva nella sala da pranzo e nello studio83; in ufficio, in carrozza, in battello; camminando per strada e nei giardini (30 maggio 1662, 5 febbraio 1664, 26 ottobre 1664, 14 maggio 1665, 29 gennaio 1666, 29 apile 1666). Leggeva nelle botteghe dei librai, dove trascorreva parecchie ore

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del suo tempo; leggeva in chiesa, e non solo passi della Bibbia ma anche libri profani che si portava da casa: «In chiesa nel pomerig­ gio – scrive un giorno – uno sconosciuto ha tenuto una predica modesta; così ho letto tutto il libro della storia di Toby» (5 feb­ braio 1660). In un’altra occasione, «Dopo cena, in carrozza alla chiesa [...] e di quando in quando leggevo il mio libro di teatro latino» (5 luglio 1663). Leggeva di tutto e a tutte le ore, anche diversi libri in una sola giornata (2 novembre 1666). Era per lui una sorta di droga, tanto che cadde nella disperazione più cupa quando la sua vista peggiorò: «[...] i miei occhi sono in condizioni pessime, e non so proprio come fare ad astenermi dal leggere» (18 marzo 1668). Ebbene, nonostante fosse un tale appassionato della lettura, Pepys amava anche ascoltare gli altri che leggevano ad alta voce. A volte era la moglie a farlo; a volte gli amici, un servitore; oppure persone incontrate casualmente (5 novembre 1665 e 14 giugno 1667), come quando, viaggiando un giorno in diligenza, convinse una signora a leggergli il libro che ella aveva con sé: «[...] c’era un gruppo formato da un uomo e due donne, gente ordinaria; e poi una signora sola piuttosto avvenente e dalla parola gradevole, con la quale presi molto gusto a conversare e che convinsi a leggere ad alta voce da un libro che aveva con sé nella carrozza e conteneva i pensieri del Re» (26 maggio 1668). Il fatto è che nel Seicento la lettura era una pratica ancora parzialmente collettiva, collegata con lo scambio verbale, il con­ tatto, la presenza umana. Nessun gruppo sociale si sottraeva a queste abitudini, neppure l’aristocrazia, tra cui per esempio la narrativa aveva una presenza vigorosa e tuttavia condivisa. «Non una fruizione solipsistica, non è il mondo di un singolo lettore che si incontra con quello del testo, ma una società che, insieme, conversa con il romanzo»84. Anne-Marie-Louise d’Orléans, duchessa di Montpensier, amava appassionatamente, come testimonia l’abate e intellettuale Pierre-Daniel Huet, «le storie e soprattutto i romans, come si è soliti chiamarli. Mentre le sue cameriere la pettinavano voleva che le leggessi qualcosa, e non vi era argomento su cui non avesse mille domande da porre»85. Naturalmente, come appare in un quadro di François de Troy, spesso si leggeva nei salotti, magari con le dame in ammirazione

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attorno al lettore, pronte a interloquire86. Insomma, lettura silen­ ziosa e lettura ad alta voce convivevano felicemente, nel Seicento, e se certamente la prima andava scalzando l’altra, fu comunque un processo più lento di quanto di solito non si creda. La stessa lettura individuale e silenziosa, per una parte del se­ colo, fu spesso come legna secca per tenere acceso il fuoco della conversazione87; di certo meno solipsistica di quella odierna. Era una forma di piacere leggere stando in una stanza con altre per­ sone. Pepys e la moglie passavano serate intere, seduti vicini, cia­ scuno con in mano un libro differente. Lei, figlia di un ugonotto in esilio e pratica della lingua francese, divorava in silenzio Le Grand Cyrus di Madeleine de Scudéry o qualche altro lunghissimo roman francese dell’epoca88; il marito le sedeva accanto immerso in una delle tante e diversissime letture cui la sua voracità non sapeva resistere (7 dicembre 1660). E si rattristava, Samuel, se lo lasciavano solo in casa a dialogare con un libro, nonostante ado­ rasse questa attività: «Così, a casa prima del solito e, dopo cena, a leggere melanconicamente solo, e poi a letto» (26 agosto 1665). Oltretutto, la vita quotidiana non presentava allora quelle co­ modità che oggi favoriscono l’abbandono a una lettura concen­ trata, dimentica del contesto in cui si svolge. Alcuni viaggiatori erano capaci di leggere in carrozza; ma quanto agevole poteva essere leggere in portantina o in barca su un fiume? Certo, era possibile leggere nelle chiese più recenti, poiché gli archi­ tetti protestanti insistevano molto sulla possibilità di vedere nei loro edifici, ma questa possibilità probabilmente non esisteva nelle soprav­ vissute chiese medievali. La lettura a letto sembra fosse considerata antisociale e a rischio di incendio. Leggere camminando pare fosse comune [...]. Sfogliare i libri dai librai era pratica corrente, e compen­ sava della notevole carenza di biblioteche pubbliche89.

Evidentemente la lettura non comportava allora quell’immer­ sione totale in un mondo altro, quella perdita di contatto con la realtà circostante che è (o, dobbiamo dire, è stata?) nella nostra esperienza. Il XVII secolo non leggeva nel modo che dice Proust, e la presenza del contesto esterno era sentita come tutt’altro che disturbante. Il piacere del testo, insomma, non risiedeva ancora per intero nelle capacità evocative del discorso.

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Detto altrimenti: anche se era passato tanto tempo dall’intro­ duzione della stampa a caratteri mobili, questa non era ancora stata del tutto interiorizzata90. L’individuo secentesco era ‘tipo­ grafico’ solo a metà: le sue abitudini, la sua forma mentis, il suo inconscio non erano ancora impregnati di quella tecnologia che aveva cominciato le sue operazioni di conquista due secoli prima. Ma perché tanta lentezza? Le ragioni probabilmente sono varie, e forse ancora non del tutto chiare. Di certo importante fu il fatto che la stampa non occupava, nel Seicento, la vita della gente fin nei cantucci più riposti, e la scrittura manoscritta era ancora una presenza insistita nella vita quotidiana. Fu solo un secolo più tardi che si diffusero le locandine stampate, i biglietti teatrali, le etichette; e che il numero dei giornali crebbe a dismisura. Gli stessi libri, nel Seicento, erano ancora in parte manoscritti. Alcuni circolavano così prima di accedere alla stampa ed erano letti e discussi tra amici o presso le botteghe degli stampatori; altri non venivano mai stampati, proprio per scelta degli autori. Pubblicare, nel Seicento, non era sinonimo di stampare. La Rochefoucauld compose le sue Massime stimolato dalla conversa­ zione in un salotto, dove poi le presentò, senza alcuna intenzione di ‘pubblicarle’ in modo diverso91. Il conte di Rochester scriveva a mano per un piccolo gruppo di amici, e non voleva che i suoi libri venissero stampati92. Non era scontato che la stampa fosse il miglior sistema per far circolare i propri scritti, e una parte degli autori del Seicento le cui opere troviamo oggi in libreria non com­ pose per quel mezzo di diffusione, perché a loro interessava un pubblico limitato e colto con cui dialogare direttamente. Inoltre, alcuni preferivano diffondere manoscritte le loro opere per poter­ le offrire, dopo aver premesso a ciascuna copia una dedica diver­ sa, a più gentiluomini di cui volevano sollecitare l’appoggio. Per vari aspetti, il Seicento fu ancora un secolo legato all’orali­ tà e alla presenza, che provava un forte bisogno di contatto diretto e immediato. La scrittura stessa era un atto meno solipsistico di come lo viviamo noi oggi. I libri nascevano da conversazioni, da giochi di salotto, da scambi verbali. Le Lettres portuguaises trasse­ ro origine da un dibattito che ebbe luogo nel salotto di Madame de Sablé su un quesito posto dalla contessa di Brégy a proposito di due tipi d’amore, quello cosiddetto «d’elezione» e quello «d’in­

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clinazione». L’intento iniziale non era di stampare queste lettere, anche se poi ciò avvenne nel 166993. In più, per le donne la stampa era ancora un tabù. Pubbli­ care le proprie opere era considerato sconveniente, addirittura una dimostrazione di pazzia. Nelle lettere al fidanzato, la giovane Dorothy Osborne echeggia i commenti dell’epoca, tacciando di ridicola follia il desiderio di Margaret Cavendish di vedere pub­ blicate a stampa le proprie poesie. Nella Scuola delle mogli (1662), il protagonista Arnolfo dà ad Agnese un elenco dei «doveri della donna maritata», tra cui: «Per la tua dote, se c’è qualche guaio, / non ti abbisogna carta o ca­ lamaio: / in una casa in cui ben si sappia vivere / scrive il marito quel che c’è da scrivere»94. Con le prescrizioni che gli mette in bocca, Molière connota indubbiamente come ridicolo e retrogra­ do il personaggio maschile, ma la sua stessa presenza dimostra che era un individuo riconoscibile all’epoca, e non tanto inattuale da svuotare la satira. La mentalità corrente accettava che le donne scrivessero a ma­ no, ma non che pubblicassero a stampa. Aphra Behn, forse la prima a mantenersi con i proventi della sua penna, non preservò indenne la reputazione95. Se scrivere per la stampa non era un’attività da donne, neppu­ re era però un’attività da aristocratici. Per un gentiluomo, assu­ mere ufficialmente la paternità di un libro equivaleva a degradarsi socialmente: scrivere poteva essere l’impegno dei momenti d’ozio, non una professione96. Così, i frutti dell’ingegno aristocratico cir­ colavano soprattutto manoscritti. Nel tempo però a vincere fu la stampa, e la pubblicazione ma­ noscritta venne defenestrata. Ma non prima della fine del Sei­ cento: per tutto questo secolo, infatti, lavorarono ancora gli ama­ nuensi, una categoria professionale che significativamente non era scomparsa subito dopo l’introduzione della stampa a caratteri mobili. Alcuni scriptoria funzionavano ancora nel Seicento a pie­ no ritmo97, producendo per le medesime botteghe che vendevano i libri stampati. Copiavano, oltre ai testi di cui abbiamo detto, libri proibiti per clienti facoltosi98 e lettere circolari con informazioni di interesse generale, che continuarono manoscritte anche svariati decenni dopo l’avvento dei giornali99. Il testo stampato non faceva

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parte della quotidianità di tutti, e l’interiorizzazione della stampa procedeva ancora con lentezza. C’erano delle ragioni per così dire tecniche, come l’incompleta standardizzazione dei titoli100, dell’impaginazione e dei caratteri tipografici, che costringevano a uno sforzo di attenzione, anche se ridotto rispetto al passato. Decifrarli stancava la vista, e la lettura probabilmente non era ancora sentita come un accesso diretto al significato testuale101. Solo nella seconda metà del Settecento la pagina acquisirà la configurazione odierna, con il trionfo degli spazi bianchi e la moltiplicazione dei paragrafi, a mostrare con immediatezza visiva l’articolazione intellettuale del discorso. Lento fu dunque il passaggio da una tecnologia all’altra, e an­ che la mentalità corrente a lungo non percepì la stampa come un’alternativa radicale alla scrittura manoscritta. Lo dimostra l’uso intercambiabile di liber, volumen, codex sia per i manoscritti che per i libri a stampa, nonché di litterae antiquae, litterae formatae e litterae modernae per la forma delle lettere su entrambi i tipi di supporti102. Nel Seicento permaneva l’idea che manoscritti e libri stampati fossero tutto sommato equivalenti, tant’è vero che venivano rile­ gati assieme; una pratica di cui si è poi persa memoria, perché i bibliotecari di epoche successive – loro sì mossi dal senso di una radicale diversità tra i due tipi di produzione libraria – li smem­ brarono, raggruppandoli separatamente103. Inoltre, nelle pagine dei libri erano ancora presenti tracce di scrittura. Prima del Seicento si era trattato delle iniziali dei capi­ toli che, proprio come nei manoscritti, potevano essere disegnate a penna e decorate; oppure di parole greche, per le quali non esistevano i tipi. Poi furono solo le aggiunte e le correzioni a pen­ na che lo stampatore invitava ciascun singolo lettore ad apporre sulla propria copia104. Dovrà passare ancora del tempo prima di poter trovare assolutamente uguali tutti i libri di un’edizione: ogni singola copia infatti era il prodotto di un solo artigiano, e inevi­ tabili differenze comparivano dunque tra l’una e l’altra. A volte mancavano pagine o interi fascicoli, che magari venivano copiati a mano prima di essere portati a rilegare assieme a quelli stampati; spesso comparivano sbavature d’inchiostro, o fogli con le pieghe, oppure bianchi, stampati male, illeggibili105. Ecco perché

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è fuorviante parlare di una transizione dal manoscritto alla stampa co­me se fosse un processo dai limiti precisi, addirittura ordinato e tutto in una direzione [...] la stessa rivoluzione tipografica [...] non comportò un cambiamento istantaneo. Fu in parte sì tecnologica, ma in parte anche bibliografica e sociale. Fu di tempi lunghi e, come mol­ te rivoluzioni, procedette in modo irregolare, con effetti variabili e perfino erratici106. Invero, l’assunto comune che lo sviluppo della stampa a caratteri mobili fosse in qualche modo portato a perfezione nei primi cinquanta o cento anni, contribuisce a oscurare ciò che invece fu vero per secoli, e cioè che al lettore si chiedeva di restare parte del continuum – non puramente mentale, ma anche fisico – tra autore, lettore, interpretazio­ ne e comprensione. Dal quindicesimo al diciottesimo secolo, autori, librai e stampatori insieme chiedevano ai lettori di correggere a penna quanto era stato approntato tipograficamente107.

La richiesta di collaborazione era del tutto esplicita e spesso affidata a foglietti che venivano inseriti nei fascicoli o tra le prime pagine del libro, come troviamo per esempio ancora nella prima edizione, del 1749, del Tom Jones di Henry Fielding108. Per questo, «quando nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo si diceva che un libro era pronto per la vendita, si intendeva qualcosa di molto differente che nei secoli dal quindicesimo al diciottesimo»109. Leggere perciò, ancora nel Seicento, non era una pratica che consentisse una totale distensione. Occorreva assumere un atteg­ giamento vigile e attivo per correggere le imprecisioni e gli errori grafici. Così, lo sguardo non poteva attraversare le parole senza vederle, immergendosi subito nel loro significato, ma doveva sof­ fermarsi sulla loro materialità. I racconti non raggiungevano la mente in quel placido abbandono che si permette chi, davanti alla pagina, non ha altro compito da eseguire se non – nelle parole di Henry James – inghiottirne i contenuti come budini, che scendo­ no morbidi in gola e ci rendono dipendenti dal loro gusto. Sul tavolo della prima colazione Nel corso del Settecento tutta una serie di cambiamenti inter­ vennero a rendere il libro quale è oggi. Tecnologicamente non fu­

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rono di particolare rilievo, ma si rivelarono tuttavia fondamentali per il loro effetto sulla lettura. Per prima cosa, nei paesi più avanzati da questo punto di vista, gli stampatori cominciarono a investire in più linotipi, consenten­ do così di tenere fermo un set per tutto il tempo necessario a far correggere accuratamente le bozze dagli autori stessi, i quali si impegnavano in questa operazione più di prima, poiché era stato istituito il copyright, che dava loro la proprietà dell’opera, prima riservata invece agli stampatori110. In secondo luogo, la pagina stampata fu resa più chiara con la sparizione delle ‘s’ in forma grafica allungata, delle lettere gotiche e di quelle capitali interne alle frasi, che vennero abbandonate del tutto verso la metà del secolo111. Negli anni Settanta intervennero anche dei miglioramenti tecnologici che fecero diminuire il nume­ ro degli errori, semplificando i movimenti che il compositore do­ veva compiere per approntare un libro112. Da allora, le correzioni a penna da parte del lettore non furono più necessarie. Alla fine del secolo, il processo di standardizzazione era stato completato e il libro appariva come un oggetto friendly, un amico che non creava problemi e con cui ci si poteva rilassare. Comuni­ cava ora con il lettore in modo immediato e facile. A rendere possibile ciò avevano contribuito anche l’unificazio­ ne sia della grafia che della punteggiatura, promosse in Inghilterra e in Scozia a fini non solo tipografici ma anche educativi. Uno de­ gli scopi dichiarati del Dictionary di Samuel Johnson, annunciato nel Piano redatto nel 1747 e poi ripetuto nella prefazione al di­ zionario stesso, era infatti di «fissare la lingua inglese», che allora stava «nei dizionari come un’accozzaglia slegata di parole senza ordine» e di «aggiustare» l’ortografia rimasta ancora «indefinita e accidentale»113. Johnson non fu l’unico a impegnarsi in tal senso, e le ultime quattro decadi del Settecento assistettero a una varietà di tentati­ vi e di proposte per uniformare il rapporto tra l’inglese scritto e la sua pronuncia114. Con questo intento, il filosofo James Beattie includeva per esempio una breve storia della stampa nel suo The Theory of Language, pubblicato nel 1783115 e ristampato nel 1788. Il perfezionamento della tecnologia, la protezione del ruolo autoriale e l’attenzione per la lingua furono i tre fattori che deter­ minarono la definitiva standardizzazione del libro e fecero cadere

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tutti gli impedimenti a una lettura celere e rilassata. Al lettore era assegnato ora un ruolo passivo: gli veniva regalata la possibilità di abbandonarsi totalmente alla lettura. Cresceva nella popolazione la dimestichezza con il libro e con la stampa. Aumentava il materiale stampato in circolazione, che incontrava ora capillarmente i cittadini con una presenza abituale e scontata, almeno nelle città. A stampa apparvero i manifesti, le locandine, i biglietti teatrali, le etichette, i volantini, i certificati di matrimonio, le ricevute116, nonché un numero crescente di gior­ nali. Si moltiplicarono inoltre le botteghe tipografiche: se nel 1723 nell’intera Gran Bretagna erano attivi circa ottanta tipografi, nel 1764 se ne contavano tra i centocinquanta e i duecento nella sola Londra117. In più, a diffondere ulteriormente la dimestichezza con il li­ bro intervenne la rilegatura da parte degli stampatori stessi, un compito cui prima dovevano provvedere gli stessi acquirenti. Nel Seicento i lettori non potevano passare in libreria, afferrare un libro dal titolo accattivante e mettersi immediatamente a leggerlo, perché il libraio consegnava loro solo fascicoli sciolti, che dove­ vano essere prima mandati a rilegare. Ancora alla fine del secolo, e per una parte di quello successivo, i libri non uscivano dalle botteghe già pronti118; e per esempio un amante della lettura come Samuel Pepys era costretto a passare molte ore della sua vita in un andirivieni tra librai e rilegatori. «Sono andato dal mio rilegatore – scrive nel diario del 31 gennaio 1668 – e vi sono rimasto fino a tarda notte per la rilegatura della seconda parte della mia Relazio­ ne da Tangeri, osservando tutto il tempo con grande piacere il suo lavoro e il metodo di doratura dei libri. Poi, a casa». Far rilegare i libri era prima di tutto una necessità, altrimenti si rischiava di perderne i fogli prima di riuscire a leggerli tutti; ma poteva anche essere un piacere, il soddisfacimento del proprio gusto estetico e un simbolo di classe e di successo sociale. Cer­ te rilegature erano molto preziose, e magari nel tempo venivano cambiate per rendere uniforme il colpo d’occhio di una biblioteca privata. Pepys, che negli anni coperti dal suo diario fece una ful­ minea scalata sociale, registra: «Dal libraio, e poi a dare istruzioni precise sulla nuova rilegatura di moltissimi miei vecchi libri, per rendere tutto uguale lo studio con le medesime rilegature» (18 gennaio 1665). Più tardi: «A Paul’s Church-yard, per trattare con

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il rilegatore che deve venire a dorare le costole di tutti i miei libri, in modo da renderli belli prima di metterli nei nuovi armadi» (13 agosto 1666). L’operazione era complessa e non veniva eseguita per intero dai rilegatori, ma vi contribuivano anche gli applicatori di borchie e fibbie, che abbellivano i volumi e ne preservavano integre le pagine. Ovviamente Pepys neppure alle borchie rinunciava, e tra le mete del suo frenetico andirivieni c’erano anche gli artigiani che le applicavano. Nel diario dell’8 luglio del 1664 racconta di essersi appunto recato in una bottega «per far mettere le fibbie e le borchie». In breve, fino a tutto il Seicento era quasi impossibile met­ tersi a leggere un libro appena acquistato, e la curiosità doveva soprassedere. Ma durante il Settecento fu inventata la copertina, e il rapporto con il libro si semplificò. Rimase la rilegatura come vezzo, ma non fu più un’esigenza, perché i libri uscivano dalle tipografie già rilegati e si presentavano nelle botteghe con i titoli in bella mostra per allettare i compratori. «Mai vi fu un’epoca in cui l’impresa del frontespizio venne portata con tanta cura allo stato di scienza come è oggi. Chi pos­ siede un diritto di stampa molto giudiziosamente farà notare che questa è una parte del libro che vedono cinquecento persone per una sola che procede oltre e vi guarda dentro», afferma, consa­ pevole della funzione commerciale dei titoli, l’arguto intellettuale e poligrafo John Hill nel suo periodico «The Inspector» (n. 2, 1751). Se i frontespizi erano divenuti una convenzione stabile già a metà Seicento – con l’intento di presentare i contenuti del libro e di attrarre i lettori119, tanto da venire affissi in giro come manifesti pubblicitari120 – il loro impatto commerciale crebbe di molto nel Settecento, quando, resi graficamente più essenziali, comparvero sulle copertine a far da soglia ai volumi rilegati. Molti fattori contribuirono allora a rendere più visibile il pro­ dotto stampato e ad agevolarne l’accesso, imponendo una svolta alla lettura. Leggere divenne una pratica quotidiana per molti abitanti delle città; divenne un’abitudine in cui si perdeva il senso della materialità grafica delle parole, percepite trasparenti come vetri. Leggere divenne un gesto naturale, compiuto in modo im­ mediato e inconsapevole, come si aprono gli occhi la mattina o si deglutisce il cibo masticato.

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La scrittura si distaccava intanto dall’affettività del contesto e faceva sempre meno affidamento sull’ambiente esterno per susci­ tare emozioni nei suoi fruitori. Non contava più sulla presenza di altri esseri umani, dei corpi, delle voci; non contava sui gesti e sui silenzi. I testi impararono ad esercitare sui loro lettori un impatto affettivo affidandosi solo ai segni grafici delle pagine a stampa. E si cominciò a leggere come facciamo noi oggi: per lavoro, per piacere, per essere informati, per comunicare e per organizzare la propria vita di relazione. Il più delle volte in silenzio. L’atti­ vità vocale non serviva più121, anzi era controproducente perché rallentava il flusso del discorso, che la vista coglieva invece con un colpo d’occhio. La chiarezza dei caratteri favoriva lo sguardo, consentendogli di abbracciare parecchie parole contemporanea­ mente e accelerare la lettura122. L’attenzione scivolava sul discorso per raggiungerne imme­ diatamente il senso: per ‘vedere’ le cose e non più le parole, per seguire i fatti narrati e partecipare alle vicende dei personaggi, per indurre empatia e immedesimazione. Divenne allora meno gradito e meno consueto leggere passeggiando, perché il corpo desiderava rilassarsi insieme alla mente che ora assumeva una po­ stura inerme, aperta e accogliente. Paglia su paglia, veniva così ad approntarsi il nido per il ro­ manzo moderno, per il novel, appunto. Queste furono le sue con­ dizioni di possibilità. La ‘rivoluzione’ della lettura scoppiò nel Settecento in buo­ na parte dell’Europa occidentale123, ma l’Inghilterra fu in questo all’avanguardia, come notò anche Luigi Angiolini, che la visitò nella seconda metà del secolo. In nessun paese, scrisse, la stampa è ritenuta tanto preziosa e l’uso di lei tanto portato avanti e rivolto al pubblico benefizio, quan­ to in Inghilterra. Tutto si stampa e per tutto, e si stampa bene e cor­ rettamente. È incredibile a quante e a quali piccole transazioni sociali è estesa la stampa. È oggetto non indifferente il tempo che fa guada­ gnare agli uomini negli affari; e del tempo si fa gran caso in Inghilter­ ra, perché si sa che farne. Tal metodo favorisce anche gli affari stessi rendendoli più chiari, più alla portata di tutti, più facili. Così viene di nuovo per un altro mezzo ad essere istrumento della pubblica edu­ cazione. Raramente s’incontra persona in Inghilterra che non sappia

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leggere e scrivere; e quello che è più da sorprendere è che si legge bene, e con tutta la difficoltà dell’Ortografia della lingua, si scrive con una esattezza che non si conosce in verun Paese. Forse converrete meco che la stampa contribuisce a questo non poco124.

Alcuni decenni prima un altro abate, il francese Jean Bernard Le Blanc, aveva notato che nel Regno Unito il mercato librario era il più fiorente d’Europa e produceva circa 1.500 libri l’anno, senza contare i giornali. «Eppure», aggiungeva, «nonostante que­ sta grande fertilità degli scrittori inglesi, i buoni libri non sono da loro più comuni che altrove»125. Il secolo dei lettori era stato simbolicamente inaugurato il 12 marzo 1711, davanti a un tavolo della prima colazione. Quel gior­ no era uscito il numero 10 dello «Spectator», giornale fondato da Joseph Addison e Richard Steele. Vi si legge: «Vorrei racco­ mandare queste mie considerazioni in modo particolare a tutte le famiglie ben regolate che riservano un’ora ogni mattina per il tè e il pane e burro; e per il loro bene consiglierei caldamente di far servire questo quotidiano come parte del servizio da tè». Ecco il target: non solo lettori aristocratici, non solo intellettuali o fun­ zionari dello Stato, ma una famiglia borghese qualsiasi. Le tante famiglie della classe media e di media cultura; e tutti in quelle famiglie: genitori, figli e figlie, che ora sono in grado di leggere ve­ locemente e in silenzio. Lo «Spectator», il cui stesso titolo indica un atteggiamento preciso nei confronti del mondo, saprà parlare un linguaggio semplice ma senza banalità. Ogni copia, si dice in quel numero del giornale, viene letta da circa venti persone: ven­ ti, per le 3.000 copie giornalmente vendute, fa un bel numero di lettori se teniamo conto dell’epoca. Ecco: il pubblico del romanzo è già tutto lì. Presto anche i domestici delle famiglie benestanti faranno par­ te di questo pubblico, abitando in case dove possono trovare libri e avendo tempo a disposizione mentre attendono che i padroni richiedano i loro servizi. In una farsa anonima del 1789, intitolata Half an Hour after Supper, un romanzo in diversi volumi viene seguito nel suo peregrinare per tutte le stanze di una casa: parte dai piani nobili e sale a quelli della servitù, per poi ridiscendere nei seminterrati, dove anche gli stallieri lo leggono con bramo­ sia126. Non pochi artigiani, d’altronde, leggevano in Inghilterra, e

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una parte di loro acquistava anche i libri: dapprima quasi esclu­ sivamente quelli religiosi, poi le opere di consultazione e di au­ toapprendimento; infine, a partire dagli anni Settanta del secolo, anche i romanzi127. Libri e giornali circolavano ovunque: i giovani leggevano ap­ passionatamente e le donne si immergevano nella lettura128, susci­ tando sentimenti ambigui e reazioni contrastanti. La donna che leggeva in quell’epoca non era solo una realtà storica, ma anche un simbolo che racchiudeva un’ampia gamma di significati relativi a diversi ambiti: dall’autorità all’economia, dalla sessualità al consu­ mo. Simbolo a volte negativo a volte positivo, la lettura femminile era considerata un passatempo, in alcuni casi ‘sedizioso’, in altri giusto e ‘razionale’. Si temeva che la donna leggesse, perché avrebbe potuto cono­ scere troppe cose e aprirsi al mondo: avrebbe potuto pensare e ragionare, sognare e fantasticare. Tuttavia la si invitava a leggere, perché così sarebbe rimasta in casa e la lettura avrebbe fatto una sana concorrenza alle visite, alle amiche leggere e ai corteggiatori insistenti. Gli atteggiamenti che il Settecento prende nei confron­ ti della lettura femminile sono dunque ambigui e contraddittori: continuamente incontriamo incentivi che incorporano timori, li­ mitazioni e melliflui baluardi. Prendiamo le eroine dei romanzi: tutte leggono, ma mai che tale loro attività sia mostrata in primo piano. Per queste giova­ ni è piuttosto un impegno che sta sullo sfondo, rappresentato in modo nebbioso e con una vaghezza senza entusiasmo. Serve a indicare che sono quiete e non si espongono al mondo, che sono pacatamente razionali e non hanno grilli per la testa. La lettura femminile nei romanzi del Settecento è un’occupazione il cui fine parrebbe quello di venire interrotta: la fanciulla ripone il libro senza recriminare, e subito si volge alle cure cui è stata chiamata. Viene da chiedersi come abbiano fatto le protagoniste di quei ro­ manzi ad acquisire le conoscenze che occasionalmente mostrano di avere. Avranno pur letto intensamente, in qualche momento della loro vita, ma certo non lo si dice nei racconti che le mostrano in azione. In qualche raro caso effettivamente il narratore ficca il naso nei libri delle giovani, ma è per rivelare come esse fraintendano, come interpretino in modo errato il senso dei libri, come se ne

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facciano trascinare e ingannare. Isabella Fermore, protagonista di The Female Quixote (1752) di Charlotte Lennox, si è nutrita dei romanzi francesi del Seicento e per questo crede che il mondo sia popolato di cavalieri morenti d’amore per le dame, le qua­ li li lasciano languire fino al momento in cui graziosamente non ordinano loro di vivere. Ella è, appunto, un Don Chisciotte al femminile. Catherine, invece, protagonista di Northanger Abbey (1817) di Jane Austen, è appassionata di romanzi gotici e ovunque immagina misteri, insidie ed enigmi da risolvere, creando una se­ rie di fraintesi e contrattempi. Il pericolo che la lettura femminile costituirebbe è all’epoca un luogo comune, che le due scrittrici trattano in modo ironicamente didattico, ma al quale aderirono invece con tutta convinzione grandi intellettuali quali David Hu­ me, Edward Gibbon, Samuel Johnson e James Boswell. Il giudizio sulla lettura cambiava radicalmente a seconda del sesso di chi leggeva: Mentre la lettura maschile era vista come un’azione che facilitava lo sviluppo intellettuale, quella delle donne tendeva a essere ubicata nel corpo e rappresentata come un atto fisico, non intellettuale. Di conseguenza, si credeva che avesse un effetto diretto non soltanto sulla morale delle donne ma anche sul loro corpo; e le ragazze erano solleci­ tate a limitare le letture, perché nemiche «della salute e della bellezza», passibili di «danneggiare la vista» o «sciupare la figura». Una lettura smodata poteva causare svenimenti e perfino pericolose alterazioni del ritmo cardiaco129.

Localizzando i pericoli nella salute – e in questo i medici non lesinavano il loro contributo – il controllo camuffava il suo ca­ rattere autoritario ammantandosi di oggettività. Ma in effetti la paura non era tanto per la salute quanto per la morale: le donne, leggendo, avrebbero potuto sviluppare desideri non realistici, aspirazioni eccessive e fantasie130. Si sapeva che la lettura trasfor­ ma qualsiasi lettore, sia maschio che femmina, e che può anche esercitare un’influenza negativa, ma il timore forte prendeva solo se a leggere erano le donne. Lo dimostrano i commenti dell’epoca, che da una parte incoraggiano le ragazze virtuose a dedicarsi alla lettura e dall’altra tradiscono una preoccupazione maggiore per quelle che leggono i libri sbagliati piuttosto che per quelle che non leggono affatto.

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La lettura femminile era perfino rappresentata come un atto sessuale, insidiosa perché dava piacere. Alle donne si richiedeva di stare attente a leggere i libri giusti, nel modo appropriato, nel posto adatto e con l’opportuna compagnia. La lettura solitaria veniva considerata pericolosa: meglio se non erano sole quando leggevano, per non rischiare quello che una parte dell’iconografia fin troppo esplicitamente mostra. Fondamentale era dunque la postura131. Ma mentre vediamo gli uomini che leggono raffigurati in uno studio, in posizione eret­ ta e davanti a un tavolo, le donne appaiono in atteggiamenti di abbandono, su letti e divani, pigre e sciatte. «Quando le donne si stendono sul sofa, la loro lettura supina, erotica, diventa una forma di sensualità piuttosto che di intellettualità: qualsiasi lettura ricreativa solitaria delle donne tendeva ad essere associata con la pigrizia e con l’egoismo»132. Erotismo, pigrizia, egoismo sono i pericoli che incombono sul­ la donna che legge in silenzio e in solitudine. Dovrebbe piuttosto partecipare alla lettura in comune, che rafforza i legami domestici e contribuisce all’esercizio dei doveri: «La narrativa contempora­ nea, i diari e le lettere sono pieni di scene domestiche dove la lettu­ ra collettiva rivela l’unità del gruppo familiare»133. Naturalmente il ruolo della donna anche in questi casi era passivo e subordinato: poteva solo ascoltare un uomo della famiglia che leggeva ad alta voce libri da lui scelti134. Queste paure, questi atteggiamenti ambigui e contraddittori nei confronti della lettura femminile, da una parte tradiscono cer­ tamente dei pregiudizi, ma dall’altra mostrano anche la consape­ volezza di un dato di fatto da non sottovalutare. Testimoniano in­ fatti che nel testo narrativo si era verificata una trasformazione che gli aveva attribuito un potere incantatorio subliminale. Il modo di leggere imputato alle donne era in realtà proprio quello voluto dalla nuova forma-romanzo; era quanto gli autori si aspettavano dai loro lettori. Da tutti i lettori, donne e uomini. È perché la letteratura ha maturato i mezzi per raggiungere l’animo di chi legge in un rapporto individuale, esclusivamente tramite le parole stampate, che il Settecento tradisce inquietudine per l’effetto dei testi, specie se narrativi, sulle persone ritenute più fragili e condizionabili. E a volte sono le stesse donne a preoc­ cuparsi del nuovo potere acquisito dal libro sulla mente umana.

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Lo fanno a ragione, temendo la forza «troppo seducente, troppo futile, troppo pericolosa» dei romanzi e «lo stimolo, la spaventosa eccitazione»135 della loro lettura. I romanzi mettono in moto emo­ zioni che le espropriano della loro volontà e del pensiero raziona­ le, per modellarle in una superficialità che rischia di mantenerle sotto il giogo maschile136. È la posizione di Mary Astell ad inizio secolo e di Mary Wollstonecraft alla fine: due intellettuali brillanti e coraggiose, costantemente denigrate dalla cultura maschile137. Ecco dunque che tutta quella serie di cambiamenti che ab­ biamo visto intervenire nella forma materiale dei libri e nelle modalità di ricezione si intrecciano con la creazione di un tipo di narrativa che per suscitare interesse ed emozione nei propri fruitori non fa più alcun affidamento sul contesto esterno. Questo è il romanzo che viene ‘inventato’ e che consiste in un lungo testo dalla forma narrativa adeguata al nuovo contesto di enunciazione. Vale a dire, a una situazione in cui il fruitore si trova solo di fronte alla pagina stampata, che scorre con gli occhi a una velocità sin­ tonizzata con l’andamento del suo pensiero e delle sue emozioni. Così il romanzo saprà attrarre i suoi lettori e catturarli con mezzi esclusivamente verbali, con quella semplice fila di parole stese su un foglio bianco e scorse a perdifiato. Non dobbiamo dimenticare che la rivoluzione della lettura fu un fatto non solo quantitativo ma anche qualitativo, e giunse all’acme proprio quando i testi impararono appieno a far svolge­ re esclusivamente alle parole quella funzione emotiva che prima era stata soprattutto del contesto dell’enunciazione. Mentre que­ sto contesto si andava modificando, cambiava anche l’enunciato narrativo. Lettura passiva, è stato chiamato questo nuovo modo di legge­ re, fisicamente e mentalmente rilassato: l’io vi si depotenzia, non valuta non filtra ma accoglie; si arrende alle emozioni piuttosto che allertare l’intelletto. Esplose nel corso del Settecento e fu de­ finita emotiva, empatica, che favorisce l’immedesimazione, che fa patire assieme ai personaggi e gioire con loro. Questa lettura ten­ de a consumare velocemente i suoi oggetti: ecco il senso dell’affer­ mazione di Vauvenargues «non si legge due volte un romanzo»138. È un furore che nel Settecento scoppia in tutta l’Europa oc­ cidentale. A fine secolo, a Parigi «leggono tutti [...]. Chiunque [...] ha un libro in tasca. Si legge in vettura, a passeggio, a te­

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atro nelle pause, al caffè, al bagno. Nei negozi leggono donne, bambini, lavoranti, apprendisti. La domenica leggono gli uomini seduti sulla porta delle proprie case, i lacché sui loro strapunti­ ni, i cocchieri a cassetta, i soldati che montano la guardia»139. In Germania, «lettori e lettrici, si alzano e si coricano con un libro in mano, ci si siedono a tavola, lo tengono accanto a sé sul po­ sto di lavoro, lo portano a passeggio, e non sanno più separarsi dalla lettura, una volta incominciata, finché non l’hanno termi­ nata. Non hanno ancora trangugiato l’ultima pagina di un libro, che già si guardano intorno avidamente, dove è possibile pro­ curarsene un altro; e se su una toilette, su un leggio o altrove ne intravedono qualcuno che riguardi il loro campo o che si pre­ senti leggibile per loro, lo afferrano e lo divorano con una sorta di bulimia. Nessun patito del tabacco, del caffè, del vino o del gioco può essere così attaccato alla sua pipa, alla bottiglia, al ta­ volo da caffè o da gioco, come alcuni affamati di libri alle loro continue letture»140. Forse le pennellate di questi quadri sono un po’ marcate, ma certo era avvenuto un grande cambiamento141. Di tali bulimici è piena la Gran Bretagna, il paese nel Settecen­ to forse più all’avanguardia per la lettura. James Boswell racconta che un giorno prima di cena, il Dottor Johnson si impadronì dell’Account of the Late Revolution in Sweden del Signor Charles Sheridan e lo si vide leggerlo con voracità, come a divorarlo, il che evidentemente era il suo modo di studiare: «Egli sa meglio di chiunque altro come leggere (disse la Signora Knowles), afferra immediatamente la sostanza di un libro, ne strappa via il cuore». Lo tenne in grembo avvolto nella tovaglia duran­ te tutto il pasto, per l’avidità di avere un divertimento pronto quando fosse finito l’altro, assomigliando (se mi è permesso di usare una simi­ litudine così rozza) a un cane che tiene tra le zampe un osso di riserva, mentre mangia qualcos’altro che gli è stato gettato142.

I paesi cattolici invece resistono ancora un po’ alla diffusione della lettura, soprattutto quella dei romanzi. Se la paura del potere manipolatorio della narrativa serpeggia dovunque in Europa143, la cultura cattolica si consocia in Italia con il classicismo per elevare solidi baluardi: la classe dei letterati, in parte composta proprio da uomini di Chiesa, si mostra restia ad accettare infrazioni alle ‘regole’ pseudoaristoteliche e fortemente timorosa per la morale.

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Il romanzo viene sentito come un pericolo, proprio in quanto ha il potere di soggiogare il lettore e di produrre uno stato di ecci­ tazione ritenuto opposto al costume intellettuale, che si propone come sobrio e lucido, dell’uomo di lettere144. Il risultato fu che in Italia il romanzo non riuscì a imporsi145, e dopo un trentennio di tensione tra un mercato che chiedeva quel tipo di narrativa e una critica preoccupata e aggressiva, le porte vennero sbattute in faccia al nuovo genere letterario146. A quell’epoca, negli Stati italiani di romanzo non si parlava o, se se ne parlava, lo si denigrava, come fece Carlo Gozzi a proposito degli scritti di Pietro Chiari, che chiamò «rabbioso scrittore su­ perbo» di «opere snaturate e bestiali»147. Eppure si leggeva velocemente anche in Italia: l’avvenuta stan­ dardizzazione del libro anche lì aveva semplificato la lettura, abi­ tuando a far scorrere lo sguardo sulla pagina. Su una copia delle Memorie del Barone di Trenck (1784) appare un’annotazione a penna che indica i tempi di lettura del suo anonimo proprietario: «Letto dal principio fino alla pag 105 in Venezia la sera de’ 14 ott[obre] nella locanda della Tromba», è scritto, e «Letto nella famosa osteria di Posta di Loiano la sera de’ 24 ott[obre] 1755 dalla pag 105 sino alla pag 179 e viaggiando verso Firenze in cor­ riera»; e ancora: «Letto il rimanente in Firenze la sera de’ 25 nella Locanda dell’Aquila Nera»148. Cento pagine, pur brevi, non sono poche in una serata, e mostrano che anche da noi esisteva un pub­ blico pronto per il romanzo; che, anzi, i romanzi già li leggeva. Ma erano quelli inglesi e francesi149. In sintesi, tutta l’Europa occidentale, anche se con intensità diversa da paese a paese, assistette nel Settecento a un incremento notevolissimo della lettura individuale di libri e di giornali. Certo, sopravvivevano anche altre abitudini, e la lettura ad alta voce per un gruppo di persone non terminò di colpo; ma fu tuttavia la nuo­ va modalità di rapportarsi al testo scritto a consolidarsi progres­ sivamente nell’arco del secolo. Questa lettura veloce e silenziosa, che consentiva di concentrarsi subito sui contenuti, costruiva una relazione con l’interiorità e faceva sentire al lettore il rapporto con l’opera e il suo autore come qualcosa di assolutamente privato e intimo150. Di più: «L’insorgere della lettura silenziosa costituì uno svilup­ po radicale non solo nella storia della lettura e dell’alfabetizzazio­

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ne, ma anche in quella della privacy»151. Cambiava l’architettura abitativa, adattandosi al bisogno di isolamento che il nuovo modo di leggere richiedeva. Se prima del Seicento non era facile stare soli continuativamente in una casa, nel Settecento le abitazioni si dividevano in stanze più piccole e più numerose: salottini, vani per pregare o per leggere, opportunamente separati da porte152. A metà Seicento anche le famiglie non molto abbienti avevano le camere da letto; e tra la fine del secolo e l’inizio di quello succes­ sivo fu introdotto il corridoio, che permetteva l’accesso diretto a ciascuna stanza senza dover passare per le altre. Nelle case dei ricchi, la specializzazione degli spazi domesti­ ci  non escludeva i salotti e le stanze per la socialità, ma molti­ plicava comunque i luoghi intesi all’isolamento, all’intimità, alla lettura e al pensiero autoriflesso. L’arredo nel frattempo andava sostituendo le rigide sedie a braccioli con le più comode bergères, poltrone imbottite dallo schienale diritto e dai braccioli chiusi da stoffa, e con le duchesses, divanetti componibili che consentivano di leggere stando semisdraiati. Le sarte facevano le liseuses, che erano dei vestiti sciolti e dei golfetti larghi da camera, atti a coprire e tenere caldi pur consentendo di mantenere a lungo posizioni rilassate153. I libri migrarono dalle zone in comune della casa ai vani priva­ ti, dove si preferiva ritirarsi per leggere in solitudine154, un’attività ora facilitata anche dall’ampliamento delle finestre e dalla diffu­ sione di un tipo di vetro più trasparente. A partire dalla metà del Settecento, prima le case nobiliari e poi quelle borghesi ebbero tutte una stanza adibita a biblioteca, simbolo della superiore ra­ zionalità maschile e usata all’inizio solo dagli uomini, ma aperta successivamente anche alle donne155. Le lettrici si servivano inoltre delle biblioteche circolanti a pa­ gamento, alcune delle quali richiedevano iscrizioni annuali, altre semestrali, trimestrali o perfino giornaliere, e solo per il periodo in cui si teneva il libro. Vi si trovavano soprattutto romanzi, che do­ vevano essere molto richiesti, se nel 1800 nella sola città di Londra queste biblioteche erano ben centododici e duecentosessantotto nelle città di provincia156. Dato l’alto prezzo dei libri, tali istituzioni svolsero un ruo­ lo essenziale nel consentire la lettura ai meno abbienti, uomini e donne insieme. Molti le usavano, anche se non godevano di

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buona fama ed erano accusate di incoraggiare un basso livello culturale e morale, facendo circolare libri (ovvio: i romanzi) che inducevano a comportamenti moralmente riprovevoli, come fug­ gire con l’amante o scegliere come mariti uomini poco adatti al matrimonio. Per contrastare il successo delle biblioteche circolanti, sorsero allora le società e i circoli di lettura, le biblioteche civiche e le prime biblioteche pubbliche. Tutto partì da gruppi di privati, che all’inizio mettevano assieme un po’ di soldi per comprare dei libri in comune. Da lì nacquero istituzioni anche importanti, tra cui la London Library Society, fondata nel 1785 proprio per contrastare l’influenza ritenuta deleteria delle biblioteche circolanti157 e alla quale non mancò il successo, che tuttavia non sottrasse alle altre. Per concludere, torniamo agli inizi del secolo e a quel numero dello «Spectator» che abbiamo lasciato sul tavolo della prima co­ lazione di una famiglia borghese. Che scopo si prefiggeva Addison facendolo arrivare fin lì? Naturalmente quello di venderlo; ma che altro? Quali risultati culturali si attendeva dalla sua diffusione? In quel numero, lo scrittore afferma di voler aiutare le persone a conoscere se stesse. Il giornale – dice Addison, anche se non proprio in questi termini – non vuole essere ancillare all’azione; non vuole presentare individui memorabili da emulare, magari in politica; ma cerca invece di rendere i lettori più consapevoli del proprio io e dei suoi moti interiori. Non l’azione nel mondo esterno, ma la conoscenza di sé nel privato: questo è lo scopo dello «Spectator»; tale la conoscenza che intende promuovere. Ecco: nel Settecento si radica un diverso atteggiamento nei confronti dell’interiorità. Si verifica quella che è stata definita «una delle principali svolte dell’umanità»158, vale a dire un ribal­ tamento assiologico nei confronti del segreto e dell’io privato. L’io privato e i suoi segreti, che nel passato erano oggetto di sospetto e di sorveglianza da parte delle autorità religiose e politi­ che, diventano ora concetti dapprima neutri e poi positivi159. Il ve­ ro sé di un individuo non sarà più rappresentato totalmente dalle sue azioni e da quanto di lui tutti possono vedere, ma si depositerà soprattutto nel privato e nell’interiorità. Sarà composto dalle sue intenzioni, dai suoi desideri, dai pensieri, dai sentimenti, dai dub­ bi. La diffidenza nei confronti della solitudine si ribalta nella sua valorizzazione, nella cura dello spazio psicologico. Nascondersi,

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ritrarsi dalla vista degli altri, non avrà più l’aura del tradimento, ma quella della vita personale e della sensibilità160. Il Settecento, insomma, mentre assiste a un cambiamento dif­ fuso delle abitudini di lettura, divenuta gesto solitario che con un colpo d’occhio apre silenziosamente all’individuo il senso di una pagina; mentre assiste alla diffusione di una socialità sempre più mediata dalla stampa; assiste anche alla separazione tra sfera pubblica e sfera privata, allo sviluppo del senso della privacy e alla valorizzazione dell’interiorità. Il sé è ora radicato negli eventi interiori piuttosto che in quelli esterni. «Rientro in me e trovo un mondo», dice Werther; e la frase potrebbe essere presa a simbolo di un sentire che la lettura silenziosa aveva quantomeno contribuito consistentemente a de­ terminare. Mondo del testo e mondo del lettore durante la lettura si fon­ dono nell’interiorità. Leggere e pensare sembrano ora la stessa co­ sa; e non solo perché la lettura stimola il pensiero, come si era sem­ pre pensato, ma piuttosto perché procede al ritmo del pensiero. Leggere e pensare condividono adesso la medesima temporalità.

III I racconti e la voce L’epica orale Nel primo libro dell’Odissea, la dea Atena giunge a Itaca nelle vesti di Mente, il capo dei Tafi, e trova i pretendenti di Penelope che giocano davanti all’ingresso del palazzo in attesa del banchet­ to. Vedendo l’uomo sulla soglia, Telemaco gli muove incontro: non ha riconosciuto la dea, e tributa a colui che crede solo un viandante di rango gli onori dovuti agli ospiti. Lo invita a sedere su un seggio coperto da un panno di lino ricamato, con uno sga­ bello per i piedi; gli fa versare da una brocca d’oro l’acqua sulle mani e porre innanzi una mensa pulita con pane, vino e molte vivande. Il figlio di Ulisse ha condotto l’ospite in un luogo appartato della sala, affinché egli «disgustato dal chiasso, / non s’annoiasse del pranzo, a stare tra gente villana, / e anche per chiedere del padre lontano». I pretendenti «superbi» (questo è l’epiteto che li accompagna nel testo omerico) infatti ora mangiano e schiamazza­ no. Poi, sazi, «altro piacque loro nel cuore, / musica e danza: essi sono ornamento del banchetto. / Pose l’araldo la cetra bellissima in mano / a Femio, il quale cantava per i pretendenti, costretto. / Dunque, tentando le corde, principiò bel cantare; / e intanto parlava Telemaco ad Atena occhio azzurro, / avvicinando la te­ sta perché non sentissero gli altri»1. Mentre Telemaco parla con l’ospite, risuona nella sala il chiasso dei pretendenti e poi si leva la voce di Femio, l’aedo fedele a Ulisse costretto a cantare per loro. Altri cantori sono presenti ai quattro banchetti nei primi otto libri dell’Odissea: durante uno di questi Telemaco è al palazzo

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di Menelao, dove trova un «divino» cantore che suona la cetra mentre due acrobati roteano nel mezzo della stanza; in un altro Ulisse è da Alcinóo presso i Feaci e il canto accompagna «giovani nel primo fiore», esperti di danza, che battono «coi piedi il ritmo divino»2. Ma che cosa erano quei canti che non risuonavano nei teatri ma si intersecavano con la vita quotidiana, senza interromperla? Erano, si sa, racconti epici proprio come l’Odissea, creati all’atto stesso della loro esecuzione davanti a un pubblico. Fu una pratica molto più diffusa e longeva di quanto non si pensi, tanto che l’antropologo John M. Foley poté assistere nel 1973 a uno di questi eventi a Tršic´, un villaggio della Serbia con alti tassi di analfabetismo. Era stato avvertito che un determinato giorno lì sarebbe stato eseguito un canto e vi si era recato per registrarlo, trovando il guslar (cantore epico) seduto su un tavolo sotto un olmo. Attorniato da circa due dozzine di spettatori, egli cantava di una battaglia degli inizi del Ventesimo secolo combat­ tuta dai Serbi con grande valore e si accompagnava con il gusle, strumento a una sola corda dalla melodia lamentosa, quasi urlan­ do la sua poesia che narrava di gesta grandiose di eroi e di cavalli al ritmo del pentametro, con ripetizioni e formule. La sua era una vera e propria recitazione, che impiegava al massimo l’espressività della voce e del corpo. Il pubblico assi­ steva comportandosi nei modi più diversi: c’era chi gironzolava senza apparentemente prestare attenzione, chi ascoltava intento, chi si mostrava addirittura rapito. Qualcuno proponeva versi in alternativa; qualcuno commentava i fatti; qualcuno, preso dall’en­ tusiasmo, si faceva egli stesso attore della performance, come quel vecchio che a un certo punto del canto esibì con uno strattone il bavero della giacca, mostrando orgoglioso le medaglie al coraggio da lui guadagnate in guerra3. I canti degli aedi nell’Odissea erano simili a questo e a quelli degli altri guslar di cui parla Foley4. Simili erano le modalità del­ la loro composizione e trasmissione: racconti epici, tutti quanti, composti all’atto della comunicazione orale, proprio come l’Odissea appunto, che prima di venire fissata nella scrittura fu traman­ data per secoli solo dai cantori. La storia degli studi che hanno fatto conoscere i modi della composizione e della trasmissione orale inizia negli anni Venti del

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Novecento con le tesi di master e di dottorato del giovane classi­ cista Milman Parry. L’argomento erano i poemi omerici, allora al centro di una ‘questione omerica’ giunta a un punto morto, con il campo diviso tra gli ‘analisti’, cioè quegli studiosi che affermavano che l’Iliade e l’Odissea erano opere di uno o più compilatori i quali avevano radunato e fuso parti composte da altri; e gli ‘unitari’, che sostenevano invece l’esistenza di un unico e geniale autore. Parry non accettò né l’una né l’altra tesi, convinto che i poemi omerici fossero in realtà creazioni stratificate, lascito collettivo di genera­ zioni di poeti. Già a quello stadio della sua ricerca egli mostrava che in quei poemi erano presenti dei moduli fissi, dei sintagmi ripetuti, che definì «formule», senza però ancora metterle in rela­ zione con la trasmissione orale dei poemi. Questo fu solo l’inizio. Ben presto cominciò a parlare di ora­ lità, e lo fece dopo aver messo a confronto le sue ricerche sui poemi omerici con i risultati di altre ricerche effettuate nell’Asia centrale e nei Balcani: proprio quelle caratteristiche strutturali che egli aveva notato nei testi omerici erano tipiche anche della poesia orale contemporanea di quelle zone. La nebbia attorno alla creazione dell’Iliade e dell’Odissea si cominciava così a diradare, e proprio grazie a quanto era stato osservato sulla composizione dei poemi orali dell’Est europeo. Occorreva però una verifica, e Parry la fece tra il 1933 e il 1935, percorrendo con il suo allievo Albert Lord e con un guslar che ser­ viva da interprete alcune zone di quella che allora era la Jugoslavia e registrando centinaia di canti epici, in base ai quali poté preci­ sare la sua teoria. Questi canti costituiscono il nucleo originario della Milman Parry Collection of Oral Literature dell’Università di Harvard, su cui hanno lavorato e tuttora lavorano centinaia di studiosi. Ne conseguì una precisa definizione dell’epica orale come di un «racconto in poesia che si è andato trasformando attraverso molte generazioni di cantori che non sapevano scrivere»5 e che si caratterizza per il ruolo fondamentale giocato dal contesto dell’enunciazione e dalla memoria del cantore, nonché per la con­ comitanza temporale tra composizione e trasmissione, che rende impossibile apportare correzioni tornando indietro. Questi sono i fattori che determinano la superficie linguistica e l’organizzazione narrativa dell’epica orale.

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Il primo, il contesto dell’enunciazione, gioca un ruolo immen­ so. Mittente e destinatario sono compresenti in una situazione interattiva, partecipata e ‘calda’, che consente al cantore di mo­ dificare il racconto a seconda degli umori percepiti nell’uditorio, espandendolo o abbreviandolo per non perdere ascoltatori e per attirarne di nuovi. Di fronte ha sempre individui reali, che interagiscono sia con lui che tra di loro: sono, insomma, attori essi stessi dell’evento. «Nella concreta realtà del canto, l’uditorio svolgeva in ogni successivo momento un ruolo molto più ampio e determinante di quanto non immaginassi prima»6, scopre Foley a Tršic´, ­osservando il pub­ blico che interloquiva con il guslar, che lo incitava e ne indirizzava il canto. Una parte di questo pubblico, tuttavia, era distratta o ascoltava in modo intermittente, perché tali canti si inseriscono comunque nella vita quotidiana indaffarata, che non può essere sospesa del tutto e alla quale chi narra strappa il suo uditorio. A differenza degli odierni spettacoli teatrali, l’epica orale rara­ mente aveva spazi e tempi suoi propri. Mentre Femio canta, i Pro­ ci mangiano e Telemaco conversa con il suo ospite; gli ascoltatori vanno e vengono sotto l’albero a Tršic´; la gente prende accordi e fa affari nella taverna in Jugoslavia che Albert Lord usa per una sua indagine7. Se i cantori sono bravi, riusciranno ad attirare l’at­ tenzione di quel pubblico intermittente, lo sottrarranno, seppur temporaneamente, alle altre incombenze e lo tratterranno presso di sé, attento e partecipe. Ma non vige una regola del luogo, non c’è l’impegno tacito che ci si assume entrando in un teatro: tutto dipende dall’abilità di chi canta e dalla sua capacità di ammaliare. D’altronde, attirare l’attenzione di un pubblico potenziale e incatenarlo alla propria opera non è forse quanto ogni artista de­ sidera? E quanto anche i romanzieri ricercano? Solo che il cantore ha delle frecce al suo arco che non stanno nella faretra del roman­ ziere: per comunicare, suscitare interesse e coinvolgere, egli non dispone unicamente del linguaggio verbale. Se fondamentali sono infatti il tipo di storia che racconta, la scelta dei termini, la pre­ sentazione dei personaggi, l’ordine degli episodi; essenziali forse ancor più sono i suoi gesti, le espressioni del volto, i toni della vo­ ce, il suono e i silenzi; eventualmente i costumi e la danza8. Conta pure il tipo di uditorio di quella particolare esecuzione, in sé unica come lo sono tutte, con l’atmosfera che vi si crea e con le emozioni

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che corrono tra i presenti. Insomma, a differenza del romanziere, il cantore per avvincere il suo pubblico ha la possibilità di servirsi appunto del contesto vivo in cui comunica il suo racconto. Questo significa che la forma puramente verbale del suo enun­ ciato può essere più scarna ed essenziale di quella di un raccon­ to scritto per una ricezione silenziosa; può essere più asciutta, proprio perché il contesto dell’enunciazione offre al significato e all’effetto una pluralità di canali. Sappiamo che la psicodinamica dell’udito è per vari aspetti diversa da quella della vista. La vista funziona tenendo il suo og­ getto a una certa distanza dal corpo, e lo percepisce in modo se­ quenziale, un pezzo alla volta, una serie di parole dopo l’altra. Il suono, percepito mediante l’udito, ha invece un impatto globale; è più empatico e coinvolgente, entra in contatto con il corpo e lo permea. E però, mentre la parola scritta permane nello spazio di un supporto duraturo, il suono è di per sé evanescente. La parola parlata sopravvive solo nella memoria di chi l’ascolta; e questa memoria, essendo umana, può resistere tutt’al più il tempo di una vita. Ecco il significato delle disperate parole pronunciate qualche decennio fa dall’etnologo, linguista e poeta nativo del Mali, Ama­ dou Hampâté Bâ, a una riunione dell’Unesco: «In Africa, ogni vecchio che muore è una biblioteca che brucia!». La narrativa orale ha questa evanescenza: dove non si hanno mezzi per registrarla, nient’altro che la memoria umana le consen­ te di sopravvivere. Deve dunque favorire questa memoria, assu­ mendo una forma che faciliti il ricordo e che, con dei passaggi a staffetta, le faccia travalicare le singole vite. Se la memoria svolge un ruolo essenziale anche nei racconti scritti e stampati, non è però a questo scopo, né con tale intensità. E neppure negli stessi modi, come vedremo più avanti. Nel mondo dell’oralità tutti finiscono per memorizzare le sto­ rie che odono e che fanno parte della tradizione, quel grande ser­ batoio di racconti e personaggi che rappresenta la cultura della collettività ed è la rete che la tiene unita. Gran parte del pubblico che assiste a una determinata esecuzione già conosce molti, se non tutti, episodi che gli vengono narrati, come ben si rese conto Foley a Tršic´, dove gli ascoltatori interloquivano con il guslar anche per ‘correggere’ le storie che andava cantando.

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A questo punto sorge spontaneo chiedersi: come fanno i can­ tori orali non solo a imparare tanti racconti, ma anche a saperli ripetere con precisione di particolari? Come fanno a non perdersi al momento dell’esecuzione? Per capirlo, dobbiamo intendere che cosa significhi memoriz­ zare nel mondo dell’oralità. Per noi, sapere un testo a memoria significa qualcosa di molto preciso, e cioè essere in grado di ripe­ terlo parola per parola. Ma così non era invece per quelle comu­ nità analfabete o a bassa alfabetizzazione dove Milman Parry e Albert Lord eseguirono le loro ricerche, come mostra un episodio narrato dallo stesso Lord in The Singer of Tales (1960)9. Egli stava cercando di capire, con Parry, come i cantori im­ parassero nuove storie, e a tal fine tentò un esperimento con un guslar di nome Avdo, il migliore che i due avessero mai incontrato. Lo portarono, senza attirare la sua attenzione, dove un altro guslar stava cantando una storia a lui sconosciuta, e quando questi ebbe finito gli chiesero se se la sentisse di ripetere quanto aveva appena udito. Avdo rispose di sì: non solo poteva ripeterla, ma l’avrebbe fatto meglio dell’altro guslar. Che cosa intendeva dire? Che cosa significava per lui ‘ripetere meglio’? I ricercatori lo capirono quando egli cominciò a cantare: «Era un canto lungo di svariate migliaia di versi – scrive Lord – Avdo cominciò, e mentre cantava il canto si allungava, accumulando ornamenti e intensità. I tocchi di umanità dei personaggi, quei tocchi che distinguevano Avdo dagli altri cantori, emanavano una profondità di sentimento che era mancata alla versione dell’al­ tro»10. Che cosa aveva fatto Avdo? Per comprendere se avesse veramente ripetuto quella storia o l’avesse trasformata, dato che la sua versione era più lunga e senza dubbio migliore dell’altra, occorre fare un passo indietro e vedere come si diventa cantori nel mondo dell’oralità. Parry e Lord scoprirono che i guslar (e presumibilmente anche gli aedi della Grecia antica e i cantori medievali) imparavano il mestiere ascoltando un maestro, che accompagnavano dovunque egli andasse a eseguire i suoi canti. Non ‘studiavano’, dunque, ma apprendevano osservando e ascoltando un maestro. Memorizzavano così, per lo più inconsapevolmente, storie, sin­tagmi, temi, interi brani narrativi, che tutti assieme andavano a dar corpo al loro futuro repertorio. Terminato l’apprendistato,

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il giovane cantore aveva nella memoria tanti pezzi di bricolage11, da adattare e combinare in modo diverso a ogni sua esecuzione. Nel corso della vita quel repertorio veniva ampliato e modificato, ed egli maturava un linguaggio personale, un proprio stile e una modalità individuale di organizzare i racconti, di porgere le de­ scrizioni e i particolari. In occasione dell’esperimento fatto con Avdo a sua insaputa, era accaduto che egli, come è usuale per ogni cantore, aveva già memorizzato tempo prima e una volta per tutte una serie di frasi, di brani descrittivi, di tratti di carattere, che gli servivano per i suoi canti e che aveva utilizzato anche in questo caso per ‘ripetere’ e migliorare il racconto. Egli dunque aveva in realtà attinto al suo proprio repertorio verbale e non alle parole udite distrattamente una volta sola, e che certo non poteva ricordare. Quanto alla storia, l’aveva sem­ plicemente riconosciuta – riconosciuta, si badi bene – individuan­ do gli episodi che la componevano e che gli erano già noti per­ ché, come tutti gli episodi dei racconti orali, facevano parte della tradizione. Il suo intervento era perciò consistito semplicemente nel selezionare e combinare questi episodi in base alla nuova sto­ ria. La stessa cosa era avvenuta per i temi, che nell’epica orale sono anch’essi fissi e noti a coloro che condividono la medesima tradizione. La personale abilità creativa di Avdo si era manifestata in quel momento solo nel ripetere quanto in realtà faceva già parte del suo proprio repertorio costruito negli anni: non si era manifestata nelle storie, dunque, bensì nei particolari, nelle ambientazioni, nei tratti del carattere, negli «ornamenti»12, per dirla nella termino­ logia dei cantori. Egli, insomma, in quella particolare esecuzione aveva sostanzialmente attinto tutto il tempo a quel suo serbatoio, dove convivevano quanto della tradizione egli aveva appreso dal suo maestro e da altri guslar e quanto nel tempo, senza troppo badarvi, vi aveva aggiunto di suo. Come definiremmo a questo punto l’atto compiuto da Avdo? Aveva ‘composto’ e ‘creato’, o aveva ‘ripetuto’? Una domanda che il mondo dell’oralità non si pone neppure: il pubblico, infatti, an­ che in quell’occasione era convinto che egli avesse semplicemente ripetuto la storia meglio del cantore che lo aveva preceduto. Un paradossale controsenso per noi, ma non per il mondo dell’ora­

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lità, dove ripetere non significa dire le medesime parole: queste non sono, né mai potrebbero essere, esattamente le stesse in due esecuzioni diverse del medesimo canto. Insisto: non esiste neppure l’idea di quello che noi intendiamo per «imparare a memoria», cioè memorizzare parola per parola13. Questo concetto apparve (e neppure subito) con la scrittura, la quale consente di rileggere un testo fino a quando non lo si è appreso alla lettera, e di verificare se le parole sono state ripetute con esattezza o meno. Nel nostro caso, che Avdo non avesse pro­ nunciato le medesime parole dell’altro cantore e che avesse perfi­ no cambiato l’ordine degli episodi fu notato solo dai ricercatori, i quali avevano registrato le due esecuzioni: per gli spettatori, si trattò invece di due canti uguali, di cui uno però era stato migliore dell’altro. Dove mancano la scrittura o altri mezzi per fissare le parole, questa affermazione non è affatto contraddittoria. ‘Ripetere’, per l’individuo orale non significa dire le medesime parole, né conservare il medesimo ordine degli eventi, e quindi nulla distingue il ripetere dal comporre e dal creare. Ripetere e comporre-creare sono per tale individuo un’azione unica, che si fonde con il comunicare e che viene intesa come ripe­ tizione di elementi della tradizione, la quale viene concepita come un contenitore per niente rigido, che assorbe indifferenziatamente quanto per noi sarebbe ripetizione e quanto invece è innovazione. Il nostro concetto di testo ‘originario’ è assolutamente privo di senso per l’individuo orale e addirittura impensabile l’idea di un antigrafo e delle sue varianti14. Ecco dunque che cosa significava memorizzare per Avdo e per il suo pubblico. La nostra mente ha difficoltà a sintonizzarsi su questa concezione, tanto essa dista dalla mentalità odierna. Non che non sappiamo che il concetto di memoria è andato cambiando nell’arco delle epoche15, ma un tale senso della memoria e un tale senso del rapporto tra creatività e tradizione ci risultano tanto estranei quanto inquietanti. È un aspetto oggi quasi inattingibile della percezione che i no­ stri antenati avevano della temporalità, al limite del pensabile. Ma non possiamo rinunciare, se non altro, al tentativo di rifigurarcelo: il sentimento del tempo fonda l’esperienza umana stessa e, poiché è nel racconto che si sedimenta, proprio lì dobbiamo cercare le sue tracce passate.

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La creazione di storie è un processo mnemonico. Ma non solo: abbraccia tutto l’arco della temporalità, anche il tempo futuro. Noi esseri umani costruiamo continuamente dei racconti, e tra­ mite questi si configura il processo stesso del nostro pensiero. Le storie ci aiutano a riconoscere situazioni somiglianti per risolvere i problemi e per organizzare le azioni future: la rifigurazione nar­ rativa, insomma, è l’essenza stessa dell’intelligenza16. Ecco allora che non possiamo non interessarci alle forme che le diverse epoche e le diverse culture hanno dato ai loro racconti. Forme, si badi, che sono simboliche dell’agire temporale. Chiediamoci dunque in questo caso specifico quali aspetti dell’epica orale siano da mettere in relazione con il senso della memoria espresso da Avdo e dal suo pubblico. Alla memoria, lo abbiamo detto, l’epica orale affida la sua so­ pravvivenza. È per questo che si organizza come il rimbalzare di un’eco, ed esalta la ripetizione a tutti i livelli del discorso: dal lessi­ co ai temi, agli episodi. La ripetizione («ripasso»), si sa, è l’elemen­ to fondativo della memoria; è quanto fa passare il ricordo dalla memoria a breve a quella a lungo termine, «immagazzinandolo» per consentirne il successivo recupero17. L’epica orale favorisce il ‘ripasso’ mediante tre precisi elementi testuali: le formule, i temi fissi e gli schemi narrativi. Su questi va­ le la pena soffermarsi ora, perché sono proprio le caratteristiche delle quali la narrativa si è progressivamente liberata nei secoli, mano a mano che la voce (anche di una lettura sonorizzata) ab­ bandonava la comunicazione testuale. Le formule sono sintagmi che associano sempre le medesime parole e ricorrono non solo in un canto specifico, ma in tutto il repertorio di un cantore, nonché spesso nell’insieme della tradi­ zione. Sono, secondo la definizione di Milman Parry, «gruppi di parole, impiegati sempre nelle medesime situazioni metriche per esprimere determinate idee essenziali»18 e facilitano la composi­ zione all’impronta, cioè all’atto stesso dell’esecuzione orale. For­ mule sono per esempio i sintagmi «cantore divino», «pretendenti superbi» e «Atena occhio azzurro», che abbiamo trovato nel bra­ no citato all’inizio di questo capitolo; oppure, sempre nell’Odissea, «Odisseo luminoso», «Proteo vecchio verace» e tante altre. Pezzi da incastro pronti per essere utilizzati velocemente, le formule entrano in un repertorio «nel corso del tempo e di molta

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pratica», quando «l’esigenza di una particolare locuzione compa­ re più e più volte. Che sia un ricordo di altri cantori o che l’abbia creata lui stesso, una locuzione si stabilizza nella mente del poeta ed egli la usa regolarmente». La creazione di formule è un pro­ cesso sempre in atto: «nuove formule vengono create immettendo parole nuove in vecchi schemi»19. Le formule sono il materiale base e le tessere costitutive di quel mosaico che è l’epica orale. L’Odissea è costituita per un buon 90% da formule ed espressioni formulaiche20; il Beowulf, poema epico anglosassone pervenutoci in un codice dell’anno Mille ma probabilmente trascritto dall’oralità nei secoli tra il VII e l’VIII, ne contiene circa un 74%21. E la loro presenza, scrive Lord, è im­ ponente anche nell’epica orale della ex Jugoslavia meridionale. La funzione mnemonica delle formule non si esaurisce nel contributo che danno a facilitare la composizione all’impronta, ma si estende anche alla tradizione, ai cui contenuti esse riman­ dano come link di una pagina web, sintetizzando un’informazione più ampia e aprendosi quali ‘finestre’ sul suo insieme22. Nell’ome­ rico Inno a Ermes, per esempio, il dio appena nato viene chiamato «potente uccisore di Argo», anche se evidentemente in quel mo­ mento non poteva averlo già ucciso. La formula si riferisce in re­ altà alla piena identità del dio, rimandando a un altro canto della tradizione, dove appunto si narra di quell’uccisione23. Nell’Iliade, Achille non è sempre in movimento, eppure viene definito fin dall’inizio con la formula di «pié veloce»; mentre a Ulisse, che nell’Iliade o nel Filottete è tutt’altro che «molto sofferente», viene spesso attribuito quell’epiteto. L’uso di una formula che non ha attinenza con lo specifico canto, ma si riferisce ad altre storie della tradizione, produce l’effetto di richiamare quelle medesime sto­ rie sinteticamente alla memoria, inglobandole così nel particolare racconto che contiene quella formula. In più, le formule posseggono un «potere incantatorio e sacra­ le» conferito loro proprio dalla ripetitività dei suoni, la quale crea uno stato mentale di armonia che favoriva la spiritualità. È anche per questo che, dovunque, «prima di diventare un ‘artista’, il po­ eta fu mago e veggente»24. Le radici della narrativa orale non sono infatti artistiche, ma religiose. La parola del cantore, nell’antica Grecia, a Roma e nella Jugoslavia di Albert Lord, s’iscrive «nel rapporto che gli uomini intrattengono con gli dèi e che, come il

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sacrificio, definisce la loro identità di uomini civilizzati»25. Questa possibilità evidentemente si perde quando la parola abbandona il mondo del suono. I temi e gli schemi narrativi sono altri elementi che nell’epica orale attivano il ripasso mnestico. I temi furono definiti da Parry e da Lord «gruppi di idee usati ricorrentemente nei racconti in stile formulaico dei canti tradizionali»26 e consistono in intere scene, che Foley chiamò «repertori di scene tipiche che variano entro limiti determinati»27. Esempio di un tema molto comune nelle epiche orali è il banchetto-concilio-assemblea, che può essere di dèi, come all’inizio dell’Odissea, o di popoli, come quello cui partecipa Ulisse presso i Feaci, oppure di condottieri, come i tanti che si svolgono nell’Iliade28. O, ancora, il banchetto durante il quale Beowulf, nel poema omonimo, incontra Hrothgar e i suoi cavalieri, offrendosi di combattere il mostro Grendel (VI-X); e anche il concilio (cunseill) di re Marsilio, che apre la Chanson de Roland (II-V); nonché i tanti altri che Albert Lord rinvenne nei racconti epici jugoslavi. Temi sono la vestizione delle armi da parte dell’eroe; il suo arrivo dal mare29, che prevede alcune sequenze fisse come l’anco­ raggio della nave e il saluto da parte di chi è a terra; il lamento per la morte, che nella sola Iliade compare sei volte; e le scene di festa che nell’Odissea sono ben trentadue30. I temi hanno carattere fisso, nel senso che si compongono di sequenze tendenti a ripetersi da esecuzione a esecuzione e da sto­ ria a storia con solo lievi modifiche. Varianti dell’assemblea sono l’adunata dell’esercito e la festa delle nozze31; mentre il viaggio per mare serve da calco per il funerale in mare, per esempio quello di Scyld all’inizio del Beowulf. Anche i temi svolgono dunque una funzione mnemonica; e si potrebbero definire pezzi di bricolage più estesi delle formule, byte di memoria che danno respiro al cantore al momento della composizione. Lo stesso può dirsi degli schemi narrativi, che consistono in raggruppamenti di temi tra loro associati sempre allo stesso modo per seguire disegni narrativi precisi, soddisfacendo regole di or­ dine e di equilibro32. Il matrimonio, la liberazione, la cattura delle città, il ritorno dell’eroe sono tutti schemi narrativi che organizza­ no il procedere delle azioni in interi poemi. La cattura delle città, per esempio, costituisce l’impianto dell’Iliade; mentre il ritorno dell’eroe, quello dell’Odissea.

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Quest’ultimo schema, in particolare, fu molto diffuso e costituì l’impalcatura anche di centinaia di racconti di una vasta zona che va dall’Asia centrale all’Europa occidentale, dai Balcani e dalla Russia alla Turchia e all’Asia Minore. In tale schema, un giovane eroe viene improvvisamente richiamato per prendere parte a una grande spedizione militare. Lascia la moglie (incinta o con il figlio appena nato) o la fidanzata, e raggiunge un’armata composita. A seguito della guerra, egli è trattenuto per molti anni, prigioniero di un possente nemico, fino a che un’altrettanto potente figura femminile non intercede. Questa, o la sua controparte maschile, riesce a liberarlo, e l’eroe inizia un viaggio verso casa eccezionalmente difficile, durante il quale è attaccato o minacciato da varie figure nemiche33.

A questo punto, nello schema del ritorno si aprono due possi­ bilità: una prevede che «dopo che l’eroe ha finalmente raggiunto la sua comunità d’origine in un travestimento impenetrabile», egli proceda «a mettere alla prova la lealtà della sua famiglia, dei ser­ vitori e degli amici, comunicando la falsa notizia della sua morte e valutando le loro reazioni. Intraprenda anche una gara atletica contro i pretendenti della sua donna [...] e li sconfigga tutti»; l’altra, che l’eroe venga ucciso dall’amante della moglie. Nelle due versioni riconosciamo facilmente le vicende di Ulisse e Penelope da una parte, e di Agamennone e Clitemnestra dall’altra34. Questo tipo di schema prevede un inizio in medias res, proprio come l’Odissea, con l’eroe in cattività e un successivo flashback che spiega come sia giunto a trovarsi in quella situazione35. Gli schemi narrativi, come anche le formule e i temi, sono riscontrabili sia nei poemi omerici, sia nei primi poemi epici nelle lingue volgari (tra cui, come abbiamo visto, il Beowulf e la Chanson de Roland), sia nell’epica dell’Europa balcanica studiata da Parry e da Lord. Si può dunque concludere che le esigenze della memorizza­ zione determinano la forma narrativa di tutta l’epica orale, in cui il ripasso mnestico è attivato appunto dalla ripetitività dei diver­ si livelli del discorso. In più, la memoria svolge in queste ope­ re anche un ruolo simbolico e sacrale: «l’epopea greca arcaica mette gli uomini in relazione con Mnemosine, la Memoria divina del mondo, nel quadro rituale del banchetto sacrificale, cui fa

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da intermediario l’aedo, cantore d’epopea, suonatore di cetra e sacerdote delle Muse». Il sapere al quale gli uomini in tal modo accedono non è umano ma divino; non è l’elenco delle mercanzie di un magazziniere di Pylos, ma è «un sapere effimero e musicale, accessibile agli uomini solo in un banchetto rituale. Non lo si può tesorizzare»36. Non a caso Mnemosine è la dea che presiede al rito della nar­ razione e l’aedo ne è l’officiante: insieme regalano all’uomo il con­ tatto con il senso del mondo, con quegli eventi e quei personaggi della tradizione che si ritiene guidino il presente. Tuttavia, un tale senso non esiste al di fuori dell’esecuzione orale del canto: non bastano le parole nella loro ripetitività incantatoria, ma serve la voce dell’aedo, il suo corpo, la musica, i costumi, la danza, il banchetto rituale. È così che l’epica orale tiene il rapporto con il divino e con le virtù più alte dell’umanità. La scrittura esiste nel mondo che essa presiede, però le viene assegnato solo un ruolo pratico, di gestione del sapere e del ricordo materiale. Non è suo il prestigio. Questo rilevarono Parry, Lord e molti altri antropologi in differenti zone della terra: dove esiste l’epica orale, la scrittura non è sconosciuta, ma il suo impiego si limita ad ambiti della vita considerati di scarso rilievo37. «Se la cultura omerica è orale e unicamente orale, la ragione non sta nella mancanza di scrittura, ma nel ruolo assegnato allora alla scrittura, un ruolo profano ed economico (a differenza dei geroglifici egizi, che sono una lingua sacra); ecco perché il rapporto con gli dèi, in Grecia, passa per la voce»38. Un aspetto, questo, della mentalità del passato che ci appare oggi estraneo e quasi incomprensibile. La tecnologia della parola, che noi consideriamo fondamentale e di cui incentiviamo l’ap­ prendimento, nel mondo dell’epica orale non godeva di alcun prestigio e la sua conoscenza veniva lasciata agli strati più bassi della società. Ecco allora che si capisce la lentezza della sua diffusione e il ritardo nel fissare per iscritto i racconti della tradizione orale, che furono infatti tramandati per molto tempo tramite la sola voce e che, dopo essere stati trascritti, non cessarono subito di circolare oralmente, continuando per un po’ a transitare intercambiabil­ mente da un canale all’altro.

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Tutto questo fu notato da Albert Lord, quando cercava di ri­ costruire le modalità della trascrizione del testo orale in Jugosla­ via, proprio per tentare di comprendere quello che poteva essere accaduto con i poemi omerici. Egli provò dapprima a trascrivere il testo durante un’esecuzio­ ne orale, ma la velocità del canto non consentiva di fissarlo tutto in una volta. D’altronde, era impossibile anche farlo assistendo a varie esecuzioni dello stesso canto, perché mai due di esse risul­ tavano identiche. Lord chiese allora ai guslar di cantare appositamente per la tra­ scrizione, in un contesto quindi diverso dal solito, senza pubblico, interrompendosi spesso e ripetendo per consentire di riportare tutte le parole su carta. I testi ottenuti furono da lui giudicati sod­ disfacenti – se non altro delle buone approssimazioni di quanto veniva cantato durante l’esecuzione pubblica – e ne concluse che così dovettero essere avvenute anche le trascrizioni dei poemi del lontano passato, che fissarono l’epica greca e altomedievale come noi oggi le conosciamo. La scrittura con tutto il suo mistero raggiunse il popolo che ascol­ tava i cantori, e alla fine qualcuno andò da uno di loro e gli chiese di raccontare il canto in modo da consentirgli di fissarne le parole per iscritto. In un certo senso quella fu solo una esecuzione in più per il cantore, una in più di una lunga serie. E tuttavia era la più strana esecu­ zione che avesse mai fatto. Non c’erano né musica né canto, nulla che lo aiutasse a tenere la regolarità del ritmo, salvo l’eco interiore di canti precedenti e la consuetudine che questi avevano impresso nella sua mente [...]. Il tempo della composizione del canto era differente [...]. Di solito il cantore poteva avanzare velocemente passando da un’idea all’altra, da un tema all’altro, ma ora doveva fermarsi molto spesso per consentire allo scriba di scrivere ciò che stava dicendo ... Così avvenne la trascrizione del canto. Registrava una esecuzione speciale, a coman­ do e in circostanze insolite [...]. Tuttavia, forse non intenzionalmente, istituì un testo fisso. Proteo fu fotografato, e non importa in quante altre forme esso potesse riapparire in futuro [...] questo sarebbe sta­ to l’«originale». Ovviamente ciò non ebbe alcun effetto sul cantore: assieme ai suoi confratelli egli continuò a comporre e cantare come aveva sempre fatto e come loro avevano sempre fatto. La tradizione permase invariata, e non ne risentì neppure il pubblico che, come il cantore, pensava in termini di multiformità. Ma c’era un altro mondo,

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quello di chi sapeva leggere e scrivere, di coloro che consideravano il testo scritto non come trascrizione di un momento della tradizione, ma come il canto39.

Pur mancando prove sicure su come erano avvenute le trascri­ zioni nel lontano passato, Lord credette almeno di intravedere qualcosa che risultava tutto sommato credibile. I testi omerici che conosciamo, concluse, non possono che essere stati dettati: «è quanto di più simile a una esecuzione pubblica si può ottenere senza l’uso del registratore». «Nelle mani di un buon cantore e di uno scriba competente, questo metodo produce un testo più lungo e tecnicamente migliore della vera e propria esecuzione [...] Mi pare sia logico collocare qui i poemi omerici: sono testi che furono dettati oralmente»40. La trascrizione dell’epopea orale quasi sicuramente non av­ venne una volta per tutte, ma per un certo lasso di tempo se ne continuò ad avere una circolazione sia orale sia su supporti dure­ voli, finché l’attuale organizzazione formale non venne raggiunta impiegando la vista non meno che l’udito41. A un certo punto, tuttavia, il testo fu definitivamente fissato. Qualcosa si perse in questa operazione? Qualcosa scompariva o si trasformava ogni volta che un racconto nato nell’oralità veniva trascritto? Sono domande che dobbiamo porci fin da subito, se vogliamo individuare tutto l’arco delle trasformazioni della nar­ rativa che, a partire proprio da qui ma con tempi diversi per le varie caratteristiche, delineano il suo percorso dall’epica orale al romanzo, quel genere letterario programmaticamente creato per una lettura individuale, silenziosa e veloce. Che cosa andava perduto dunque? Evidentemente si perdeva quella parte del significato e dell’effetto che l’esecuzione veicolava tramite i suoi molti elementi extraverbali: un po’ come la differen­ za tra leggere un copione da soli e in silenzio, rispetto a una sua messa in scena a teatro. «La performance è parte del significato»42, afferma Foley basandosi sulla sua esperienza non solo dell’epica slava ma anche dell’immanent art, una forma contemporanea di creazione artistica orale, che negli ultimi tempi si è andata diffon­ dendo soprattutto negli Stati Uniti. L’esecuzione di un canto è un evento che di per sé comunica si­ gnificato e produce un effetto sul pubblico: le parole stesse in quel

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contesto si schiudono a una pienezza di senso proprio in quanto sono accompagnate da gesti, da espressioni del volto e da costumi (che possono svolgere anche una funzione rituale e incantatoria); in quanto sono accompagnate dalla musica (che di solito segnala le varie fasi del racconto), dall’intonazione della voce, dalle va­ riazioni di volume, da pause, silenzi, ritmi dell’enunciazione (che possono dare enfasi e creare suspense). La trascrizione riporta invece solo le parole pronunciate, com­ portando con ciò una perdita netta: ecco perché, leggendo oggi opere nate nell’oralità o comunque scritte per essere pronunciate ad alta voce, abbiamo spesso il senso di trovarci di fronte a testi scarnificati e quasi ingenui. È un’impressione che il regista Eric Ro­ hmer ha saputo rendere cinematograficamente in modo magistra­ le nel suo Perceval le gallois (1978), dove i personaggi si muovono in ambienti rarefatti, come disegnati dalla matita di un bambino. Il film fa sentire gli spettatori come se a guidarli fosse un narratore arcaico, cui è stata sottratta l’espressività dei gesti, dei toni di voce e del contesto stesso dell’esecuzione orale e che non sa ancora come rimpiazzarli con le sole parole per dar vita al mondo di cui narra. Nel tempo, il discorso scritto assumerà tutte le funzioni prima svolte dai vari aspetti del contesto fisico e concreto. Come affer­ ma David R. Olson, «la storia dell’alfabetismo [...] è storia dello sforzo per recuperare quanto si perse con la trascrizione delle sole parole dell’esecuzione orale»43. Fu un processo per tappe, non una trasformazione unica e repentina. Questo perché la comunicazione narrativa non passò direttamente da un canale tutto sonoro a uno esclusivamente vi­ sivo, ma attraversò forme di commistione, in cui nel tempo quote sempre più ampie di significato venivano prese in carico dalla parola scritta. L’atto della trascrizione dell’epopea orale già produceva un testo verbale diverso da quello della performance davanti a un pubblico. Fu lo stesso Albert Lord a notarlo, quando assistette alle esecuzioni dei cantori finalizzate alla trascrizione. Dovendo tenere un ritmo più lento per dare ai copisti il tempo di scrivere, i cantori aggiustavano il racconto in un modo che mai sarebbe stato possibile nella fretta della performance. Accadeva inoltre, come vide pure Foley con l’immanent art44, che le parti forte­ mente recursive subivano da subito una riduzione. I refrains, per

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esempio, fin dalla prima versione scritta presentavano un numero di occorrenze inferiore rispetto a quella orale45, a testimonianza dell’immediata eliminazione di una caratteristica fortemente lega­ ta al contesto dell’esecuzione orale. Però, non tutte le caratteristiche connesse con l’oralità scom­ parvero così presto. Un po’ perché, come sempre quando le pra­ tiche della comunicazione cambiano, nelle prime fasi le abitudini linguistiche e di pensiero agiscono da freno; ma soprattutto per­ ché la voce e la presenza rimasero implicate nella comunicazione scritta ancora per molto tempo46. Subito diminuirono, e presto sparirono, le formule; poi toccò alle sentenze e ai proverbi; poi ai temi fissi e infine alla struttura per episodi, quello stile che Milman Parry aveva chiamato «additivo» e che Lord considerò la grammatica poetica dell’epica orale47. I temi fissi e la struttura per episodi sono presenti ancora ben dentro l’età della stampa. Se Cervantes nel Don Chisciotte men­ ziona le «donzelle [...] che andavano con frusta e palafreno, e col peso di tutta la loro verginità, di monte in monte, e di valle in valle; e [...] ve ne fu qualcuna nei tempi passati che, giunta a ottanta anni senza aver dormito una sola volta sotto un tetto, andò sottoterra intatta come l’aveva fatta sua madre»48, non è forse perché prende in giro quel tema narrativo della fanciulla perseguitata che non era ancora scomparso dalla narrativa della sua epoca?49 E se, un secolo e mezzo più tardi, Henry Fielding presenta nel suo The History of the Life of the Late Mr Jonathan Wild The Great (1743) la giovane bellissima e buonissima Mrs Heartfree (il cui nome è tutto un programma), che viene sballottata da un pirata all’altro fino al suo ritorno intatta a casa del marito, non è perché figure simili avevano continuato a circolare in letteratura fino a poco tempo prima? Nell’arco del Settecento, tuttavia, anche i te­ mi fissi scompaiono, o meglio: vengono relegati in una letteratura consolatoria e popolare. L’ultima caratteristica dell’epica orale a recedere dalla narrati­ va occidentale sarà la struttura per episodi. Per chiarire che cosa si intenda per tale struttura, torniamo brevemente ad Avdo e alla sua ‘ripetizione’ della storia udita una sola volta. I ricercatori, abbiamo detto, si erano accorti che egli non aveva ripetuto letteralmente il canto dell’altro guslar, mentre invece il suo pubblico e lui stesso erano convinti che si fosse trattato di

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una vera e propria ripetizione. In altre parole, la cultura cui Avdo apparteneva non percepiva quelle modifiche come cambiamenti. Per fare un esempio, tratto dalla nostra epoca, qualcosa come quando noi diciamo che sono uguali due scritti composti dalle medesime parole, anche se vergati in grafie differenti. Che cosa può dunque mutare nell’epica orale senza che sia sentito come una trasformazione, un reale cambiamento? Per la nostra mentalità, Avdo aveva cambiato molte cose: ave­ va prima di tutto spostato l’ordine degli eventi; poi aveva espanso parti della storia, aggiungendovi degli «ornamenti»50, cioè dettagli descrittivi e altri temi fissi. Eppure, tutto questo al suo pubblico era sembrato una semplice ‘ripetizione’. Potere delle pratiche e plasticità culturale della mente umana! Prendiamo un altro esempio, più preciso in quanto tratto da un testo oggi rinvenibile a stampa, il Beowulf. L’inizio del poema racconta del coraggio di Scyld, delle sue gesta e del figlio che ebbe, comprendendo un notevole arco di tempo in poche frasi. Circa lo stesso numero di parole viene usato subito dopo per narrare la sola sepoltura in mare dello stesso Scyld. È evidente qui la scelta di espandere, tramite un ‘ornamento’, il tema della cerimonia funebre invece di un qualsiasi altro, quale avrebbe potuto essere per esempio un’avventura di Scyld o del figlio. Ebbene, questo tipo di espansio­ ne non veniva percepita dagli ascoltatori dell’epica orale come un cambiamento. Che il cantore semplicemente menzionasse il funera­ le o che vi si dilungasse, in entrambi i casi per l’uditorio si trattava della stessa cosa: episodi, indipendentemente dalla loro lunghezza, dalla quantità di parole impiegate per dirli. Sempre ‘ripetizioni’. Lo stesso accade con lo spostamento di questi episodi o dei te­ mi51. Avdo ne aveva cambiato l’ordine, ma il suo pubblico non se ne era accorto. L’epica orale, insomma, si compone di tanti pezzi di bricolage che possono essere spostati nelle diverse esecuzioni, senza che ciò comporti la percezione di una reale differenza. Que­ sto perché, «benché i temi conducano naturalmente l’uno all’altro per formare un canto che nella mente del cantore esiste come un tutto con inizio, centro e fine aristotelici, le parti di questo intero, vale a dire i temi, hanno una loro vita semiindipendente»52. Non c’è un filo narrativo che non possa essere abbandonato; e dunque ne deriva che lo stile dell’epica orale «consente tranquillamente le digressioni»53.

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Le digressioni, appunto. Ecco un argomento che più avan­ ti dovremo affrontare di petto, perché proprio su tale operatore narrativo si eserciterà ampiamente la riflessione critica tra Sei e Settecento. Sarà l’ultima caratteristica legata all’oralità/auralità a scomparire. Considerata a lungo, insieme agli episodi, il solo modo per inserire la varietà in un testo narrativo, da un certo momento in poi verrà criticata per l’interruzione che provoca nel filo del racconto ed eliminata infine proprio quando fu inventato il romanzo54. L’epica orale ha un’impalcatura che, proprio per la maniera in cui viene composta, non può essere uguale a quella del roman­ zo; e l’unità che possiede non è la medesima. Vi gioca un ruolo essenziale l’elemento sonoro che accompagna il tratto verbale: la recursività fonica che organizza il canto possiede, insieme all’into­ nazione, una funzione strutturante, annunciando e introducendo le diverse parti, «intrecciandole in un tessuto aurale», in modo che «versi ricorrenti risuonino per tutta la lunghezza acustica del poema [...]. Mentre la performance procede, queste locuzioni fon­ dono la presentazione in un insieme»55. L’elemento sonoro crea legami tra parti, tra interi versi e gruppi di versi: «Il cantore ha un forte senso dell’equilibrio, come mostrano i sistemi di allitterazio­ ne e assonanza, nonché i parallelismi»56. Anche la tradizione svolge nell’epica orale una funzione strut­ turante, essendo un immenso serbatoio di storie conosciute da tutti, dal quale vengono estratti i singoli canti, che mai se ne di­ staccano completamente e sempre ad esso rimandano come link di un ipertesto. Quanto costitutivamente diverso sarà il romanzo! Dovrà pre­ sentare storie sempre nuove, sconosciute al lettore, inattese, per suscitare curiosità, stimolare ipotesi e la voglia di ‘sapere come va a finire’. Le storie che compongono un romanzo non possono rimandare alla tradizione; esso non può ‘ripetere’ come fa l’epica orale. Ciò che racconta è ‘unico’ in un duplice senso: è unitario, coeso, senza pezzi spostabili quali gli episodi e le digressioni; ed è nuovo, creato dal suo autore come un unicum, che vale (in quanto narrazione, si badi bene, non in quanto oggetto artistico) fintanto che non è conosciuto in tutto il suo svolgimento, fintanto che il suo ‘consumatore’, il lettore silenzioso, non l’ha finito di leggere, esaurendolo.

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«Romanzi» greci e latini: le «Etiopiche» Storie composte «per il piacere dell’ascolto», le definiva Plu­ tarco; e Macrobio (IV-V secolo) ricordava quale godimento fosse­ ro per l’orecchio57: l’orecchio, si noti. Parlavano entrambi di quei racconti greci e latini che oggi capita di trovare scontatamente inseriti nella rubrica ‘romanzi’ e assimilati a un genere letterario che comunica transitando in silenzio per la vista58. Le culture greche e romane antiche erano pervase dalla voce, che Aristotele definì «la più mimetica delle facoltà umane»59 e che fu usata intensivamente fino a tarda epoca per ogni tipo di lettura, anche quella privata e di testi non drammatici, come indicano i trattati di retorica e di grammatica, nonché le scritte in margine alle opere (scoli), che spesso danno consigli al lettore su come utilizzare la voce e i gesti. La lettura veniva equiparata alla recitazione, ed è significativo che i termini up ™ ókrisiv (recitazione) e a n¬ ágnwsiv (lettura) fossero allora impiegati intercambiabilmente60. Nella più antica grammatica pervenutaci, quella di Dioni­ sio Trace (seconda metà del II secolo a.C.), la lettura è definita «enunciazione senza errore di testi in poesia e in prosa», e si esorta a «leggere rendendo il testo attraverso la declamazione»61. Voce e corpo erano dunque ritenuti essenziali per comunicare quanto si trovava in forma scritta. La voce serviva in prima istanza a chi leggeva per consentirgli di comprendere adeguatamente il testo, per fargli sentire, di fronte alla scriptura continua, dove terminava una parola e ne cominciava un’altra, come scorreva il senso di una frase e se questa fosse interrogativa, esclamativa o ironica62. Ma la voce, questa volta insieme ai gesti, serviva anche, come mostra appunto la precettistica, per comunicare con il pubblico di ascoltatori, presso i quali, oltre alla funzione ermeneutica, ne svolgeva una espressiva e affettiva, favorendo il coinvolgimento. Il più antico tra i ‘romanzi’ greci e latini è, per quanto ne sap­ piamo, il Romanzo di Nino (greco; I-II secolo a.C.); seguito dal Satyricon di Petronio, più recente di circa un secolo e mezzo, e da Cherea e Calliroe di Caritone (greco; 125 d.C. circa)63. Al II secolo d.C. appartengono le Metamorfosi (L’asino d’oro) (circa 180 d.C.) di Apuleio, un testo, a differenza di altri, giuntoci integralmente e che consiste in una raccolta di favole milesie il cui unico, pe­

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raltro lasco, filo conduttore è il personaggio Lucio trasformato in asino. L’inizio – che suona: «E ora intreccerò per te in un solo rac­ conto alcune novelle del genere milesio, e se mi presterai il tuo benevolo orecchio te lo accarezzerò col divertente mormorio della mia storia, purché tu non disdegni di dare un’occhiata a questo papiro egizio, vergato con l’arguzia di una penna nilotica»64 – allu­ de a una situazione enunciativa in cui il lettore sonorizza le parole, impegnando contemporaneamente vista, voce e udito. Ma poiché la voce sussurra appena, si può pensare che questo lettore non intenda comunicare ad altri quanto sta leggendo, e sonorizzi le parole semplicemente per comprenderle. Legge dunque L’asino d’oro ad alta voce per decodificarne la scrittura e per trasmetterlo successivamente a un pubblico di ascoltatori, ma senza più leggerlo65: testo per pochi lettori, che lo memorizzavano per poi reimmetterlo nell’oralità, raccontandolo a un uditorio. Nato nell’oralità e costituito da favole raccolte dalla viva voce, che Apuleio avrebbe riunito e fissato temporaneamen­ te, nell’antichità L’asino d’oro ogni volta faceva ritorno nel mondo del suono e della comunicazione da bocca a orecchio. Insomma, era probabilmente una sorta di manuale ad uso dei cantori66. Se è esatta questa ipotesi, sostenuta da Florence Dupont, «il libro di Apuleio serve da raccordo tra due oralità, non è un monumentum, un capolavoro della cultura destinata a immorta­ lare il nome del suo autore»67. Non un monumentum, bensì un testo sempre in trasformazione, che traversava continuamente il mondo del suono per tornare più e più volte, variato, nella scrittura. Nella Roma antica si praticava anche la lettura ad alta voce ad un pubblico, applicata ad altri tipi di scritti, tra cui l’epica68. Era la cosiddetta recitatio, un rituale che aveva proprie regole e condizioni di enunciazione, e che rappresentava una sorta di ri­ to identitario dell’aristocrazia romana, un momento importante della vita associata, in cui si realizzavano i valori dell’aristocrazia, creando una socialità basata su rapporti assolutamente reciproci. L’incontro era tra simili, che facevano dono della loro attenzione, dell’insegnamento e della cura69. La recitatio, divenuta corrente a partire dall’epoca di Augu­ sto, consisteva nella lettura di un testo da parte del suo autore di

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fronte a un uditorio scelto, di amici e di ‘clienti’, essi stessi autori potenziali, che partecipavano in modo attivo, dando consigli per quella che sarebbe poi stata la stesura definitiva. Fatto per noi paradossale, però, una volta che questi testi erano stati fissati nella scrittura, di solito non venivano più letti. Se L’asino d’oro era uno scritto collocato tra due oralità, la recitatio era invece una performance orale intrappolata tra due scritture. La coesistenza, nella Roma antica, di queste due diverse forme di comunicazione è contraddittoria solo in apparenza, perché una medesima mentalità le anima entrambe. Ciò che conta è sempre e solo la parola orale70, che appare capace di significare meglio, di commuovere e convincere nell’incontro diretto con l’interlocuto­ re. Nella Grecia e nella Roma antiche i valori e il sapere condiviso non venivano trasmessi con la scrittura, ma per mezzo della voce e del gesto71. I compiti assegnati nell’antichità alla comunicazione sia nel caso di opere tipo l’Asino d’oro sia in quello della recitatio non trovano corrispondenza nella pratica odierna, a dimostrazione di una distanza tra mentalità che non possiamo ignorare quando ci volgiamo oggi al racconto antico. Quanto alla loro forma narrat­ tiva, osserviamola nelle Etiopiche72, il romanzo greco dalla fortuna più longeva. ‘Riscoperta’ in epoca rinascimentale e stampata a Basilea nel 1534, questa opera di Eliodoro fu presto tradotta dal greco in diverse lingue europee e cominciò subito a esercitare un’influenza incisiva sulla narrativa. Colpita da nemesi dopo l’‘invenzione’ del romanzo, apparve poi noiosa, infinitamente ingenua e primitiva. Vent’anni fa Pietro Janni notava: «ben pochi sono disposti a scommettere su un ritorno dei romanzi greci alla condizione di let­ tura apprezzata per sé, oggi o in un prevedibile futuro», e questo perché essi mancano «delle qualità cui ci ha abituato la moderna arte del narrare [...]». Concludeva poi definendo il loro successo «uno di quegli episodi enigmatici nella storia dei gusti»73. Oggi indubbiamente le Etiopiche non riscuotono il consenso del grande pubblico, per questo il loro passato successo a qualcu­ no può apparire inspiegabile. Ma è perché si dimentica che non venivano fruite nel modo in cui adesso le leggiamo. Ribaltiamo la situazione e proviamo a figurarci che cosa pen­ serebbe un lettore coevo di Eliodoro di fronte alle «qualità della

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moderna arte del narrare». Crediamo veramente che la riconosce­ rebbe superiore? O il suo atteggiamento cognitivo e la sua men­ talità non gli farebbero piuttosto sentire come estranea questa forma narrativa? Abituato a racconti fitti di eventi, costruiti per una decodifica lenta a partire dalla scrittura continua contenuta in rotoli, da cui qualcuno legge ad alta voce con tutto l’apparato oratorio a di­ sposizione, che cosa penserebbe di quegli eventi dilatati, di quel soffermarsi sui pensieri e sul sentire dei personaggi che troviamo nei romanzi? Opere che sarebbe costretto a leggere da solo, forse senza neppure avere una completa padronanza della pratica? Insomma, nel giudicare il valore della narrativa antica non possiamo fidarci delle nostre reazioni immediate, perché il gusto è condizionato dall’abitudine a pratiche comunicative completa­ mente diverse. Molte sono le differenze formali attribuibili a questa diversità. La narrativa greca antica non assomiglia al romanzo per una se­ rie di ragioni tra loro interrelate, che riguardano l’esercizio della lettura e i supporti materiali dei testi. Se delle Etiopiche oggi c’è chi dice che ci ricordano «i nostri ‘romanzi rosa’ o i più puerili racconti di avventura, o il cinema di infimo ordine, colla sostan­ ziale differenza di un’ambizione artistica molto maggiore, se non necessariamente feconda di migliori risultati»74, è perché furono scritte per supporti materiali diversi da quelli odierni, per una differente fruizione e con un diverso valore attribuito alla pratica della lettura75. Osserviamo da vicino le marche linguistico-discorsive di que­ ste differenze. Le Etiopiche iniziano in medias res: è l’alba, e la scena di un massacro si rivela agli occhi di un piccolo gruppo di briganti egizi appena giunti su una spiaggia. In riva al mare giacciono i cadaveri di tanti giovani, in mezzo ai quali, apparentemente unico essere vivente, una fanciulla di grande bellezza china su un giovane a terra altrettanto bello. Ella piange e si lamenta, ma prima che i briganti osino parlarle, compaiono in gran numero i loro nemici, mettendoli in fuga. Il capo dei nuovi arrivati è Tiami, che poco oltre scopriremo essere figlio di Calasiri e sacerdote divenuto fuorilegge quando il fratello minore gli aveva sottratto con la forza la dignità sacerdo­

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tale (1.19/2.26). Sapremo anche che la fanciulla si chiama Cariclea e il giovane a terra, che non è morto ma ferito, Teagene. Molto più avanti verrà detto che, quando Tiami aveva fatto irruzione nel luogo del massacro, suo padre, che era il mentore dei due giovani, se ne era appena allontanato (5.32). Già questi primi accenni all’intreccio mostrano come il testo sia pieno di rimandi a sezioni testuali lontane tra loro. Le Etiopiche sono in effetti un racconto fittissimo di storie che si interseca­ no, di personaggi che occasionalmente riappaiono, di digressioni che spiegano fatti antecedenti e vi collegano nuovi personaggi: il filo della storia non segue un ordine lineare, ma procede per con­ crezioni. Un’impalcatura così elaborata non può certo essere sta­ ta creata durante un’esecuzione orale, ma è sicuramente il frutto della scrittura. Quale che sia l’Eliodoro autore dell’opera, egli l’ha composta avendo occasione di rileggere man mano il racconto per riprenderne le fila. Proseguiamo nel riassunto. Fatti prigionieri da Tiami, Teagene e Cariclea sono portati all’accampamento dei briganti, dove tro­ vano un altro prigioniero, un greco di nome Cnemone, il quale comincia a raccontare loro la propria storia (1.9-1.17). Non passa molto tempo e sopraggiungono altri nemici, che disperdono i bri­ ganti di Tiami. Cnemone riprenderà il racconto poco oltre, ma an­ cora nuovi rivolgimenti saranno nel frattempo accaduti (2.8-2.9). Strutturalmente più complessa dell’Odissea, l’organizzazio­ ne narrativa delle Etiopiche ricorda comunque il testo omerico, che inizia appunto in medias res con l’abbandono dell’isola di Ogigia da parte di Ulisse e termina a Itaca dopo l’uccisione dei Proci, mentre quanto è accaduto in precedenza è contenuto nei flashback. La differenza tra i due è che nell’«epica in prosa» – co­ sì, ancora nel Seicento, venivano chiamate le Etiopiche e gli altri romanzi greci76 – al centro del racconto non sono sempre solo i protagonisti, ma anche altri personaggi che questi vanno man mano incontrando e che raccontano le loro storie, una dentro l’altra come scatole cinesi. Il primo racconto intercalato è quello che Cnemone fa a Tea­ gene e a Cariclea; poi toccherà a Calasiri, a Caricle e a Sisimithres. Il racconto di Calasiri conterrà quello di Caricle, che riporterà al proprio interno la storia narratagli precedentemente da Sisimi­ thres (da 2.22 a 5.33).

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A forza di racconti nei racconti si verrà a sapere che la regina di Etiopia aveva affidato a Caricle la propria figlia Cariclea, poiché era nata bianca, mentre lei e il marito erano invece neri. Attonita per il prodigio e timorosa di destare i sospetti del marito, la regina aveva chiesto a Caricle di portar via la neonata, nascondendole per sempre la sua origine. Il racconto di Cnemone verte invece su tutt’altra storia: la ma­ trigna si era infatuata di lui e aveva cercato di sedurlo, ma quan­ do egli l’aveva respinta, si era vendicata calunniandolo presso il padre (1.10.2). Un po’ per volta le digressioni narrative si vanno intrecciando tra loro e confluiscono a spiegare la scena dell’incipit e a informare su quanto l’aveva preceduta. A quel punto sarà nota l’origine dei due, come si sono innamorati (3.5.4) e le loro vicissitudini prima dell’inizio del racconto. Contemporaneamente, la storia avrà rag­ giunto, tra sorprese, colpi di scena e ritardi, la sua felice conclu­ sione. Qualcosa avrà raccontato un narratore onnisciente; molto, i tre personaggi-narratori. Due agnizioni hanno luogo verso la fine. La prima mostra il ritrovamento dei figli da parte di Calasiri, che fa riconoscere a Tiami il diritto alla carica sacerdotale, mentre Teagene e Cariclea, «i giovani così belli e amabili», si ritrovano «contro ogni aspetta­ tiva» (7.8.2) e Calasiri muore subito dopo. La seconda riguarda invece Cariclea e i suoi genitori (10.12.2), da cui riuscirà a farsi riconoscere. Il racconto termina con il matrimonio tra i due e la loro consacrazione al culto del Sole e della Luna. Le Etiopiche, come si è detto, furono certamente composte per iscritto, ma senza rescindere, nel comunicarle, i legami con il suono. La loro forma non prevede né il tacere della voce né l’immobilità del corpo, né l’abbandono di tutte quante le caratte­ ristiche dell’oralità. Più di un tratto lo dimostra. Per prima cosa, l’eccezionale ampiezza dei periodi (a volte superano le quindici righe a stampa), che doveva imporre a chi leggeva una pre-lettura e poi una lettura ad alta voce per consen­ tire al significato di emergere77. In secondo luogo, la presenza di temi fissi, mutuati sia dalla tradizione cui attingono anche gli altri racconti greci antichi, sia direttamente da vari autori, tra cui soprattutto Senofonte, Giamblico, Omero, Euripide78. Trovia­ mo  spesso, ad esempio, i banchetti in cui i personaggi racconta­

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no la loro vita passata; troviamo i sogni, i rapimenti, i miracoli, i prodigi79. Inoltre, l’uso della voce è reso necessario dallo stesso fluire degli eventi, che necessita della temporalità della voce, dei gesti, delle pause per tenere l’uditorio in sospeso e suscitare emozione. Nelle Etiopiche sono presenti, come è stato notato, una serie di indicazioni metanarrative che mostrano quale fosse la risposta che il testo intendeva suscitare nei propri ascoltatori; cioè a quale mo­ dello di fruitore si rivolgesse80. Un esempio è la reazione di Teagene e di Cariclea al racconto di Cnemone che, interrompendosi sul più bello, li tiene con il fiato sospeso. Più oltre, tra il secondo e il terzo libro, è la volta di Cnemone che ascolta quanto gli narra Calasiri e lo incalza impaziente con frequenti domande che lo costringono a digressioni che ritardano la conclusione della storia. Più volte troviamo un «ma come questo accadde lo sentirete un’altra volta» (1.14), che crea ritardo sia rispetto all’ascoltatore interno al testo – il personaggio che in quel momento sta ascoltando il racconto – sia rispetto a quelli che erano gli ascoltatori reali. A volte troviamo: «arrestiamoci [...]» (5.1); o anche: «voleva raccontare la sua storia, ma fu impedito da [...]» (6.4), che creano dei ritardi narrativi su cui gli storici della letteratura hanno com­ mentato non poco81. Teagene e Cariclea nel primo caso, e Cnemone nel secondo, rappresentano un modello di ascoltatore che risponde alle strate­ gie dei rispettivi narratori come Eliodoro desiderava rispondesse­ ro i destinatari della propria opera. E così probabilmente reagiva il pubblico delle Etiopiche, quando queste venivano lette ad alta voce. Oggi è diverso. Quando leggiamo quest’opera dalle pagine stampate di un libro, non proviamo le emozioni che sono rappre­ sentate negli ascoltatori interni al testo. Abbiamo la sensazione che gli eventi scorrano a un ritmo troppo celere, senza quei tempi morti che consentono alle nostre emozioni di maturare e alla me­ moria di costruire sul già detto, trasformandolo man mano che la narrazione avanza. I fatti si allineano così nella nostra mente gli uni dopo gli altri in successione ravvicinata, dandoci proprio quell’impressione di una mancanza di spessore e di qualità di cui parlava Janni. Ma se provassimo a servirci di quei canali sonori e gestuali del significato che la comunicazione scritta oggi non prevede più, se

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reinserissimo delle pause, per esempio, l’effetto sarebbe diverso. Nell’arco dei tanti secoli che ci separano da quando le Etiopiche furono composte, il contesto esterno dell’enunciazione si è andato impoverendo, mentre contemporaneamente si arricchiva quello interno dell’enunciato, di cui il racconto di Eliodoro è invece in parte sguarnito. In altri termini, nel tempo un numero crescente di funzioni è stato progressivamente assunto dalla componente verbale dei racconti, che ha finito per arredare da sola le scene e dare spessore ai fatti, un processo completatosi solo nel Settecen­ to con il romanzo, in cui tutto il significato e tutto l’effetto sono presi in carico dalle parole. Ecco perché non convince quella parte della critica che so­ stiene che le Etiopiche suscitano realmente suspense in noi lettori moderni. Gerald N. Sandy scrive che «Eliodoro procede essen­ zialmente rilasciando le informazioni poco alla volta e da diversi punti di vista. Il risultato è la creazione di incertezza e suspense»82. Ma già prima lo aveva affermato Erwin L. Rohde, seppur con tono poco convinto. Aveva scritto: lo spostamento delle parti [...] raggiunge comunque l’effetto di provo­ care una certa tensione. [...] I personaggi hanno all’inizio una segreta attrattiva che ci spinge inavvertitamente a continuare nella lettura del racconto: la splendida fanciulla ellenica vestita ed armata come Arte­ mide, finita con un prestante giovane fra ceffi barbarici, audace e as­ sennata in tutte le difficoltà; il capo dei predoni, dall’aria solennemen­ te grave; il loro singolare nascondiglio nella palude e nel canneto; le battaglie, gli incendi, le uccisioni: tutto questo, all’inizio, ha un effetto tutt’altro che infelice nel suscitare le attese83.

«Una certa» tensione; un effetto «tutt’altro che infelice»; un’attrattiva che i personaggi eserciterebbero «all’inizio» (cioè nella prima scena) e che spingerebbe a continuare a leggere. Af­ fermazioni blande, vagamente dubbiose, che rivelano un’emozio­ ne decisamente tiepida. Niente a che vedere, mi pare evidente, con la risposta che determina nei lettori un romanzo moderno a suspense, o anche la narrativa di Edgar A. Poe o perfino quella settecentesca di Ann Radcliffe. Le Etiopiche certo non danno subito tutte le informazioni sui protagonisti e sul loro passato, né li conducono immediatamente a

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un felice destino; e tuttavia si strutturano piuttosto sulla reticenza che non sulla suspense. D’altronde, un tale effetto non è prodotto neppure da un’altra caratteristica della loro struttura narrativa, che consiste, come ha rilevato Jack Winkler, in uno «spostamen­ to significativo, che rende necessario l’incidentale e rilevante il fortuito»84. Questa tecnica, presente nel racconto di Eliodoro e impiegata ampiamente anche dal romanzo postsettecentesco, da sola non basta a far provare a chi legge in silenzio e velocemente quell’attesa vagamente angosciata che è il nucleo emotivo della suspense. Eppure è probabile che negli ‘ascoltatori’ delle Etiopiche tale emozione si attivasse realmente. Ma non per le ragioni di cui parla Sandy, il quale oltretutto non distingue tra ascoltatori del passato e lettori moderni. Afferma infatti: «Appare chiaramente che uno degli scopi di Eliodoro è di dischiudere informazioni vitali» me­ diante «un loro rilascio lento e stuzzicante [...] Lo scopo ultimo di tutte le cineserie narrative è senza dubbio quello di generare e di mantenere la suspense». Verso la fine delle Etiopiche, continua Sandy, «... la suspense si è sviluppata oltre il limite di esplosione. Questa tensione è stata prodotta mediante l’aggiunta lenta, spo­ radica e inattesa dei vari pezzi del puzzle fino a che, improvvisa­ mente, incredibilmente, il quadro è infine completo»85. A me pare eccessivo; e comincerò qui a spiegarne la ragio­ ne. Tuttavia la mia argomentazione potrà essere chiara solo nel prossimo capitolo, quando si parlerà del romanzo per come si configura a partire dal Settecento. Sostanzialmente Sandy afferma che le Etiopiche creano suspense in noi lettori moderni quando le leggiamo come oggi leggiamo qualsiasi altro testo. A mio avviso non è così. Sono convinta che potessero attivare quell’emozione in chi ne ascoltava la lettura so­ norizzata, ma non che riescano a farlo in chi legge individualmen­ te, velocemente e in silenzio. Piuttosto che di suspense a mio avviso dovremmo parlare di ritardo. Rohde vi aveva attirato l’attenzione, chiamandolo l’«accorgimento narrativo del ‘ritardare’»86. Ritardo e suspense sono però cose differenti: entrambi gesti­ scono sì narrativamente il futuro, ma lo fanno con tecniche di­ verse e con effetti diversi sui lettori. È vero che sia il ritardo sia la suspense derivano dal modo in cui il racconto (orale, scritto, o visivo che sia) è strutturato; ma la seconda richiede qualcosa in più

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rispetto al primo. Per attivare la suspense, il ritardo da solo non basta – come ciascuno di noi può sperimentare leggendo appunto le Etiopiche. Se le parole che le compongono non sono animate da un con­ testo della comunicazione vivo, dove qualcuno legga a voce al­ ta e, a seconda del momento, rallenti il ritmo, inserisca pause, rammenti anche in modo non verbale il pregresso, la loro lettura lascia freddi. La vera suspense, suscitata nel lettore odierno dalla narrativa dal Settecento in poi, consiste, come mostrerò nel pros­ simo capitolo, in un’ansia da attesa che il racconto di Eliodoro indubbiamente non crea. Ma che cosa intendo per ‘ritardo’, quello sì a mio avviso pre­ sente nelle Etiopiche? Il termine, come è noto, fu impiegato da Viktor Šklovskij per indicare un meccanismo narrativo che consi­ ste nell’ostacolare il soddisfacimento dei desideri dei protagonisti; in altre parole, gli impedimenti e le prove (in senso lato) che essi devono fronteggiare e che, nel loro insieme, compongono il rac­ conto. «Legge fondamentale della peripezia»87, così lo definisce il teorico russo, il ritardo sarebbe presente in tutte le narrazioni di tutte le epoche. Balza subito agli occhi quanto diffusamente le Etiopiche im­ pieghino questo espediente. La loro storia consiste proprio nelle numerose avventure che cospirano a tenere separati i due amanti. Teagene all’inizio è moribondo, poi Tiami si impossessa di Ca­ riclea perché la vuole per sé, e così via... Il testo di Eliodoro, in­ somma, è fitto di eventi e di azioni che divaricano il momento in cui nei personaggi nasce il desiderio (di unirsi) da quello della sua realizzazione, che porrà termine al racconto. C’è un ritardo che si colloca evidentemente nei fatti stessi: ac­ cadono cose che per un po’ di tempo impediscono ai protagonisti di unirsi. È questo il ritardo della fabula, cioè dei fatti in sé e per sé. Esistono però anche altri due tipi di ritardo narrativo, che Šklovskij non distingue dal primo ma che pure sono intrinseca­ mente differenti da quello. Si tratta del ritardo localizzato nell’in­ treccio, cioè nel modo in cui i fatti sono narrativamente ordinati; e di quello che sta nel discorso e consiste in tutto ciò che lo espande senza portare avanti la storia. Anche questi ultimi due tipi di ritardo sono presenti nelle Etiopiche: più consistentemente quello dell’intreccio, in modo più ri­

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dotto quello del discorso. Il primo è rappresentato in quest’opera dai molti racconti intercalati (per esempio le storie di Cnemone e di Calasiri), posti come blocchi narrativi calati compatti in mezzo alla storia principale, che in quei momenti diviene cornice. Šklovskij chiama «a schidionata» questo tipo di organizzazio­ ne narrativa, indicandola come la «tecnica di allineare i racconti l’uno dopo l’altro, facendo raccontare ai personaggi della vicenda la storia successiva, e così all’infinito»88. Troviamo questa forma nelle Mille e una notte, nei romanzi di cavalleria, nella picaresca spagnola e, appunto, nelle Etiopiche. Anche questo tipo di ritardo da solo non basta ad attivare la suspense. Ma perché nelle Etiopiche per come le leggiamo oggi il ritardo non diventa suspense? Perché non diventa quello stato ansioso perdurante che è il suo nucleo emotivo? e perché l’attesa, le fru­ strazioni, i timori dei personaggi non si trasferiscono ai lettori? A mio avviso ciò accade perché il modo in cui l’intreccio e il discorso gestiscono tale ritardo non è in sintonia con la temporalità delle emozioni umane; non lo è, ripetiamolo, nelle attuali condi­ zioni di lettura. Intendo dire che la lettura sonorizzata per la quale furono calibrati sia l’intreccio che il discorso delle Etiopiche po­ teva sì consegnare l’informazione alla mente degli ascoltatori con i ritmi appropriati a quella temporalità, ma che l’attuale lettura veloce tutta demandata alla vista la fa invece sballare. Ecco perché, letta oggi, l’opera di Eliodoro non attiva la suspense. Per innescare quell’emozione, gli attuali supporti materiali dei testi e l’attuale modo di leggere richiedono un’organizzazione diversa del racconto. Come o simile a quella del romanzo. Il ritar­ do da solo, insomma, non suscita suspense: ne è semplicemente una pre-condizione. Su tutto ciò torneremo distesamente dopo, ma qui voglio presentare qualche esempio a sostegno di quanto ho appena affermato. All’inizio, due giovani bellissimi di cui non si conosce il nome si trovano in un campo cosparso di cadaveri. Uno sembra morto, l’altra lo piange china su di lui. Davanti a questa scena il lettore odierno prova indubbiamente un empito di curiosità. Chi sono? Si chiede. Che cosa è successo? Ma non fa in tempo a porsi que­ ste domande che la sua lettura veloce già gli dà le risposte, e la curiosità è soddisfatta prima che si tinga di ansia. I due giovani sono Teagene e Cariclea, e la fanciulla sta piangendo l’amato che

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crede morto. Subito dopo, a ritmo accelerato, si scoprirà che egli è solo ferito. Poco oltre, il bandito Tiami, che ha fatto prigionieri i due gio­ vani e si è innamorato di Cariclea, per non far prendere la fanciulla dai pirati decide di conficcarle una spada in petto dentro la grotta dove l’ha nascosta (1.31.1-2). Nella grotta entra poi Teagene, che inciampa nel cadavere di una donna e piange disperato la morte dell’amata (2.6). Ma non a lungo, per il lettore odierno almeno, il quale, con un colpo d’occhio, vede poche righe a stampa più sotto che non si trattava di Cariclea bensì della schiava Tisbe (2.6). Anche quando ad adottare tecniche dilatorie sono i personaggi che raccontano le loro storie89, e quelli che li ascoltano provano curiosità e ansia, il lettore attuale rimane indifferente. Perché pure in questi casi le risposte gli giungono troppo presto. I racconti antichi impiegavano mezzi non verbali per dilatare il tempo narrativo e adeguarlo al ritmo delle emozioni, ma oggi il supporto materiale che ci consegna tali racconti, cioè le pagine ordinate di un libro a stampa che noi scorriamo con gli occhi, fa sballare questa temporalità. Un altro esempio, apparentemente opposto ma che porta alle medesime conclusioni, è il seguente: «Come è possibile», doman­ da Cariclea parlando della morte di Tisbe, «che una donna greca, come per un colpo di scena, sia stata trasportata dal bel mezzo della Grecia nella distante terra d’Egitto?» (2.8.3). Una domanda che è pure quella che si pongono i lettori, ma la risposta in questo caso non arriverà troppo presto, bensì troppo tardi. Anche così però verrà impedita la suspense (6.3-6.8), perché il lettore nel frat­ tempo ha perso memoria di quanto attendeva e il suo interesse per l’informazione si è estinto. Rispetto al nostro modo di leggere, la forma narrativa delle Etiopiche risulta scollata dalla temporalità delle emozioni, a volte nella direzione di un’eccessiva fretta nel soddisfare la curiosità, a volte in quella opposta di un troppo lungo lasso di tempo tra l’evento che fa sorgere tale curiosità e la risposta. In proposito Šklovskij avanza una considerazione significativa, pur non traendone conseguenze. Dopo aver parlato della forma a schidionata e spiegato che essa consiste nell’allineare un racconto dopo l’altro, conclude: «finché il primo racconto non viene del tutto dimenticato»90. Appunto.

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L’esperienza che il lettore moderno ha delle Etiopiche è di una pluralità di storie che cadono man mano nel baratro della dimen­ ticanza: il presente cancella il passato e non anticipa il futuro, il quale semmai viene introdotto solo in forma di vaticinio91, cioè in blocco e non come costruzione progressiva per indizi e parziali anticipazioni. Quindi non creando suspense, la quale, come vedre­ mo nel prossimo capitolo, induce invece il lettore a protendersi incuriosito verso il futuro testuale92. Nelle Etiopiche gli eventi si susseguono in stretta successio­ ne senza intervalli vuoti, mentre le azioni si legano tra loro per peripéteia (peripezia), per incontri casuali e molto poco per le­ gami causali, indebolendo così ulteriormente nei lettori odierni l’effetto aggregante della memoria. Ecco un altro punto: la memoria. La memoria del lettore. Me­ moria e attesa del destinatario, tempo passato e tempo futuro93 sono i cardini di qualsiasi narrazione, su qualsiasi supporto mate­ riale essa proceda. Ma i supporti materiali, i canali della comuni­ cazione, operano con temporalità diverse. Ecco che cosa scopri­ rono gli scrittori del Settecento quando inventarono il romanzo. Per concludere, anche se solo temporaneamente, vorrei riba­ dire che è il ritardo (non la suspense) a costituire il meccanismo cardine delle Etiopiche, che consistono piuttosto in «un intreccio complesso di storie principali e storie secondarie, nella mescolan­ za di prosa e di versi, di generi (oltre a epica, tragedia, filosofia, storiografia) e di scene tratte dalla storia letteraria. È perciò im­ portante notare che nel solo passo delle Etiopiche in cui esplicita­ mente viene menzionata la loro creazione, se ne parli come di un assemblaggio»94. Un metodo combinatorio che reca chiara l’im­ pronta dell’auralità ed è ancora distante dal romanzo moderno. L’opera di Eliodoro rappresenta tuttavia un parziale distacco dalla voce, ed è significativo che fosse ‘riscoperta’ nel Rinascimen­ to, venendo subito assunta a modello dalla narrativa nelle diverse lingue europee, la quale prese lo slancio proprio imitandola. La narrativa nelle lingue naturali Il Medioevo fu bilingue. Nei monasteri si scriveva e si parlava il latino; nella società, dove l’alfabetismo era crollato con l’avvento

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delle monarchie barbariche, sempre più prevalevano le lingue na­ turali, diverse da luogo a luogo e per lungo tempo prive di forma scritta95. Latino e volgare non erano però indipendenti e del tutto se­ parati, perché gli stessi monaci e i letterati, che pur scrivevano e parlavano correntemente il primo, erano in contatto costante con il secondo, la loro lingua madre, vivendo una diglossia «dinami­ ca», in cui anche i testi scritti giocavano una varietà di ruoli, in parte oggi dimenticati. Il Medioevo assistette a cambiamenti epocali della comunica­ zione: cambiarono le forme materiali dei testi, i modi di leggere, gli stessi atteggiamenti cognitivi; e tuttavia almeno un tratto ac­ comunò in questo ambito l’intero periodo: l’onnipresenza della voce. Il suono era fondamentale nel contribuire al significato e nel determinare l’effetto di un testo sui suoi destinatari. Quanto al comporre, lo si faceva in vari modi. C’erano poeti illetterati che ‘creavano’ all’atto stesso dell’esecuzione del canto davanti a un pubblico, proprio come era avvenuto per l’Odissea e per l’Iliade. Accadde così con il Beowulf, le chansons de geste, i romanceros, il cui stile e la cui struttura sono di tipo aggregativoformulaico e che a un certo punto vennero messi per iscritto da un qualche scriba sotto dettatura di un qualche cantore96. C’erano poi poeti letterati, la maggioranza, che, se in alcuni ca­ si scrivevano loro stessi quanto avevano composto, più spesso det­ tavano invece a degli scribi. La composizione veniva a quell’epoca associata alla dettatura piuttosto che alla scrittura97, e l’idea di cre­ azione letteraria era abbastanza svincolata dall’uso di una penna, appartenendo piuttosto all’ambito del suono. Tuttavia, quando un poeta letterato dettava al proprio scriba, compiva comunque un’operazione diversa da quell’esecuzione che in presenza dello scriba faceva il cantore orale. Non creava la sua opera al momento della dettatura (e neppure la ri-creava, come il cantore orale), ma cercava piuttosto di ricordare qualcosa che egli stesso aveva prodotto e memorizzato in un momento pre­ cedente. Insomma, il poeta letterato medievale seguiva la tecnica degli oratori ed elaborava prima nella mente quanto poi avrebbe dettato98. Anche in tal caso tracce di oralità rimanevano nella grana del testo; e, se queste nel tempo si andarono riducendo, ciò non ac­

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cadde in un attimo. L’espressione poetica tradizionale sopravvisse a lungo dopo che la pratica della composizione orale era scompar­ sa: l’economia espressiva medievale si caratterizza infatti per una continuità di lievi variazioni tra oralità, scrittura, vocalità e maga­ ri altra scrittura, che implicavano sempre una loro commistione. Questo anche nel caso dei poeti più altamente alfabetizzati99: «sem­ pre più spesso viene riconosciuto che un manoscritto medievale è una polifonia di voci trasmesse in una singola forma scritta»100. In Inghilterra, i segni della presenza del suono nella comuni­ cazione narrativa rimangono vistosi almeno per tutto il Trecen­ to. Si pensi per esempio al racconto del mugnaio nei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, che perde totalmente la sua comicità se viene letto in silenzio e senza mimica. La voce che pronuncia i testi medievali «deve essere intesa come azione», ammonisce Paul Zumthor101. La lentezza con cui i segni dell’oralità scomparvero fu certo dovuta a varie ragioni. C’era indubbiamente il fatto che per qual­ che tempo l’unico linguaggio conosciuto e interiorizzato dagli autori era quello della tradizione orale: «Per molti, se non per la maggior parte dei poeti medievali che sono incontestabilmente distanti dalle pratiche di composizione orale davanti a un pubbli­ co, il pensiero poetico e la sua articolazione rimangono tuttavia inestricabilmente legati alla poetica orale». È così che «la poetica orale tradizionale sopravvive alla transizione dal suo uso esclusi­ vo nello spazio pubblico e comune della performance allo spazio creativo molto più privato delle composizioni scritte»102. C’era anche l’orizzonte di attesa dei destinatari a far pressione sui poeti, oltre al fatto che un nuovo linguaggio non era ancora stato trovato: «se i poeti continuano a impiegare strutture tradi­ zionali dopo l’avvento dell’alfabetismo non è per un improprio atteggiamento antiquario o per rinuncia, ma perché anche in un ambiente dove sempre maggiore è la presenza dei testi scritti, il ‘come’ sviluppatosi nelle epoche ancora tiene le chiavi di ingresso per mondi di significato altrimenti inaccessibili»103. Tutto ciò spiega perché alcuni aspetti della poetica orale non scomparvero appena le nuove situazioni comunicative li resero inutili. Le marche testuali della voce durarono ancora a lungo anche per la semplice ragione che questa rimase comunque fon­ damentale durante tutto il Medioevo per consentire l’accesso

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ai testi, specie a quelli narrativi. Quale che fosse il modo in cui era stato composto, un racconto raggiungeva infatti la maggior parte delle persone attraverso l’udito, incarnato nella materialità significante ed espressiva della voce e del corpo. Se per esempio i trovatori componevano e trasmettevano le loro canzoni non solo oralmente ma anche mediante la scrittura, la comunicazione al pubblico avveniva però sempre in un’esecuzione orale. «Cantus gestualis», lo chiamò il normanno Giovanni di Grouchy intorno al 1300104. La diffusione era soprattutto compito dei giullari itineranti, che imparavano le canzoni a memoria per poi ripeterle al loro pubblico105. Illetterati fino a circa il XIV secolo, questi – uomini (e, più raramente, donne) di bassa estrazione sociale – diffondeva­ no luogo per luogo, oltre alle poesie dei trovatori, anche i fabliaux, le vite dei santi, i lais106 e, nei secoli XII e XIII, le chansons de geste, che essi parzialmente riproducevano a memoria e parzialmente ricreavano senza farsi troppi scrupoli107. A memoria i giullari diffondevano occasionalmente, divisi per episodi, pure i romanzi cortesi, un genere composto per iscritto da poeti colti e che non fu mai cantato, ma veniva di solito letto ad alta voce108. Esaminiamone uno qui di seguito, di ambito inglese. Come è noto, il ‘romanzo’ apparve nella lingua naturale dell’In­ ghilterra solo verso la fine del XIII secolo, mentre prima in ambien­ te anglonormanno era fiorito quello in francese. Nascono dunque in ritardo i romance medioinglesi, tra cui il capolavoro Sir Gawain and the Green Knight. Composto nell’ultimo quarto del Trecento in un dialetto del Centro-Nord occidentale, questo poemetto consta di 2.530 versi allitterativi, raccolti in stanze e divisi in quattro parti o fitt. La par­ te iniziale e quella finale si richiamano alla tradizione, ricordando Troia e Felice Bruto che, appunto secondo la tradizione, fondò la Britannia, il cui re «più nobile ‘fu Artù’ – come ho udito», dice il narratore nel testo. La storia vera e propria, però, consiste nella sfida lanciata da un individuo misterioso di statura enorme, il Cavaliere Verde, che compare improvvisamente alla corte di Artù durante un banchet­ to. Il Cavaliere si impegna ad attendere immobile un fendente sul proprio collo nudo, se chi raccoglie la sfida farà altrettanto dopo un anno e un giorno.

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Il nobile Gawain accetta, e con un colpo stacca la testa al Ca­ valiere, il quale però, invece di morire, la raccoglie e si allontana tenendola in mano, mentre rammenta all’altro la promessa. Giun­ to il momento, Gawain parte alla ricerca del Cavaliere Verde, ma quando lo troverà e denuderà il collo per il fendente, non sarà più così immacolato come alla sua partenza dalla corte di Artù. Non è facile distinguere quanto sia tradizione e quanto non lo sia in Sir Gawain. Se la storia fa indubbiamente parte della tradizione ed è presente in leggende e in altri romanzi medievali, l’opera possiede freschezza, vigore e un’originalità tutta sua109. Tradizionali sono i tre nuclei narrativi che creano l’impalca­ tura dell’intero racconto, e cioè il «gioco della decapitazione», «le tentazioni» e «lo scambio delle vincite»110. Tuttavia, il modo in cui il poeta li unifica e dà loro corpo non è affatto tradizionale. Non lo è per esempio l’organizzazione delle scene in base a un sistema di parallelismi e bilanciamenti di tipo binario e terziario, che propongono una serie di ripetizioni leggermente variate. Due sono i Capodanni: durante il primo ha luogo la sfida e il fendente menato da Gawain che stacca la testa al Cavaliere Verde, durante il secondo Gawain parte dal castello di Bertilak alla ricerca del Cavaliere per adempiere al suo impegno. Due sono anche le scene di decapitazione. Tre invece le tentazioni e tre i giorni di caccia; tre gli scambi delle vincite, di cui uno sbilanciato perché Gawain non rispetta il patto di donare al signore del castello quanto ha ottenuto, quanto cioè ha ‘vinto’ nella giornata. Tre saranno, di conseguenza, i colpi d’ascia sul suo collo. Come nei canti composti oralmente, in Sir Gawain sono pre­ senti dei temi fissi: per esempio i banchetti-assemblee (a Came­ lot e al castello di Bertilak), i rituali dell’accoglienza all’ospite, la vestizione delle armi da parte dell’eroe, che avviene in modo simile due volte e che, proprio come Albert Lord rilevò per l’epica orale111, prepara di tutto punto il cavaliere alla battaglia, anche se in quel momento egli non si attende un combattimento ma semplicemente un viaggio. Neppure lo stile di quest’opera si sottrae alla tradizione: i versi allitterativi che la compongono contengono infatti un numero non indifferente di formule fin dalla prima stanza112. Tutto questo materiale tradizionale viene reso al meglio attra­ verso la vivezza delle immagini, il ritmo scattante dell’azione, la

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verosimiglianza delle descrizioni, la precisione di alcuni luoghi e un senso nuovo dell’esperienza umana, vista con ironica ambigui­ tà nella sua instabilità e nelle sue incongruenze. L’autore – scono­ sciuto – è un genio che opera con gli strumenti della tradizione. Sapiente è anche l’organizzazione narrativa, a differenza di The Grene (sic) Knight e di Caradoc, che pur contengono la mede­sima storia113. Nella prima fitt, per esempio, il Cavaliere Verde rimane un individuo misterioso, e quando Gawain lo incontra di nuovo nei panni del signore di Bertilak, nulla viene detto che possa far capire che i due sono la medesima persona. Lo si scoprirà solo verso la fine. Mentre i racconti medievali in genere – il Beowulf, poniamo – danno subito tutte le informazioni necessarie a comprendere ogni situazione114, qui l’ordine dell’intreccio e il punto di vista cambia­ no all’interno del testo in modo da lasciare zone d’ombra. Tut­ to quanto attiene a Camelot e a Gawain segue l’ordine naturale, mentre un ordine artificiale accompagna invece il Cavaliere Ver­ de, di cui solo molto più tardi si racconterà la storia pregressa115. Gli spostamenti del punto di vista giocano un ruolo fonda­ mentale. Al momento della sfida è quello dei cavalieri di Artù; durante il viaggio è quello di Gawain e segue il suo sguardo che scorre sul paesaggio o che osserva il castello di Bertilak, muoven­ dosi dal ponte levatoio alle mura. Così, il castello appare miste­ rioso anche agli ascoltatori: ambiguo, come a Gawain, risulterà il personaggio che lo abita. Ma, se qui il punto di vista è nell’eroe, la cui coscienza risulta trasparente al destinatario, più oltre questa coscienza si opacizza. Quando, alla fine della terza giornata, Gawain mente al signore del castello, il testo non lo dice subito, proprio perché il punto di vista si è improvvisamente spostato nel signore del castello116. Questa narratività sapiente, che offusca il tracciato dell’infor­ mazione, ha fatto parlare di suspense a proposito di Sir Gawain117. E bisogna riconoscere che il tempo narrativo è gestito in modo abile: così risulta, almeno in parte, anche a una lettura veloce e si­ lenziosa, durante la quale comunque il racconto suscita una certa curiosità. Mentre non è così per altri testi medievali, in cui l’attesa dei personaggi è detta ma non ricreata nei lettori. Nella Châtelaine de Vergy, per esempio, un altro capolavoro della seconda metà del XIII secolo, un cavaliere si innamora di

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una castellana, che lo ricambia ma si fa promettere che egli non rivelerà mai a nessuno il loro amore. Del cavaliere si innamora però anche la moglie del duca la quale, da lui respinta, per vendi­ carsi lo accusa presso il marito di aver tentato di sedurla. Il duca chiede spiegazioni e il cavaliere, per provare la sua innocenza, è costretto a rivelargli il suo amore per la castellana, portandolo a un appuntamento con lei. Il duca si tranquillizza e, quando la mo­ glie continua a sollecitarlo alla vendetta, pensando di consolarla le racconta che il cavaliere è innamorato della castellana. La duches­ sa nascostamente se ne adira e vorrebbe subito incontrare la rivale per vendicarsi. La storia a questo punto si trova a un momento cruciale, in cui il personaggio prova grande impazienza e tensione. Il testo dice: «E già molto è impaziente di parlare a colei che odia, dal momento che la sa amica di colui che le fa oltraggio e do­ lore, ella ritiene, in quanto non vuol essere suo amico. Così ferma il suo proposito che se troverà il luogo e il momento opportuno di parlare alla nipote del Duca, essa glielo dirà subito, e non evi­ terà di dir cosa nella quale racchiudere un’ingiuria. Ma non ebbe alcuna occasione prima della Pentecoste, che dopo poco venne, la prima festa in cui il duca tenne corte plenaria»118. Il personaggio deve attendere; ma non così il lettore odierno, che in un batter d’occhio (letteralmente) sa che cosa dirà la duchessa alla castella­ na, perché lo legge nelle parole successive. Diversamente accadeva però con il pubblico medievale di ascoltatori, presso i quali un’abile lettura ad alta voce che gestisse bene le pause, i silenzi e le interruzioni, poteva indurre anche molta emozione e curiosità. Un altro esempio dello stesso tenore possiamo trovarlo in Eliduc, di Maria di Francia. Eliduc e i suoi compagni vincono il ne­ mico, ma quando vorrebbero rientrare nel castello del re, questi non li riconosce e, sospettando un’insidia, ordina che le porte siano chiuse e che i soldati salgano sugli spalti per lanciare pietre e frecce su di loro. «Ma né di pietre né di frecce vi sarà bisogno. Essi avevano inviato innanzi a spron battuto un loro scudiero»119. La situazione avrebbe avuto una potenzialità di suspense che le parole del testo però non sfruttano. Sicuramente la suspense si realizzava però ad una comunicazione sonorizzata del racconto120. A questo proposito Sir Gawain si presenta invece più moderno, proprio perché la sua gestione del tempo narrativo parzialmente

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intriga anche il lettore attuale: chi legge percepisce un rallenta­ mento della temporalità quando si verificano le tentazioni e lo scambio dei doni, cioè quando una trappola viene tesa a Gawain. La curiosità di sapere come egli riuscirà a evitare o a sopravvivere al fendente del Cavaliere Verde tiene il lettore per un po’ in uno stato di leggera suspense. Ciò detto, però, dobbiamo anche aggiungere che Sir Gawain ha la lunghezza di una novella, non quella di un romanzo, e noi lo possiamo leggere tutto in una volta, in due ore circa. Questo signi­ fica che in quell’arco di tempo la nostra curiosità sarà soddisfatta e che dunque la nostra memoria non avrà bisogno di ripassi. Ma come ne fruivano gli ascoltatori medievali? Che cosa rivela il testo in proposito? Il poema contiene vari riferimenti alla situazione enunciativa. Nella seconda stanza, per esempio, la voce narrante avverte: Così una vera avventura vi voglio mostrare: la penseranno alcuni strana a vedere, certo tra le meraviglie di Artù la più straordinaria avventura. Se questo canto vorrete ascoltar per un poco, lo dirò subito come l’ho udito in città, con parole: così com’è fissato in una storia audace e forte, con lettere vere legato, a lungo è stato in questa terra. (vv. 27-37)121

Sir Gawain and the Green Knight è dunque un ‘canto’, che sarà ascoltato e che il narratore ripeterà «come l’ha udito», nella sonorità del verso allitterativo. E tuttavia questo canto non ha dimora solo nel mondo evanescente del suono, perché è «legato» con lettere (letteres loken), e dunque da qualche parte è scritto. La situazione enunciativa è comunque quella di un’esecuzione orale, dove al pubblico si chiede silenzio e attenzione, e per attrar­ lo si decanta il carattere straordinario dell’avventura. Più oltre, all’inizio della seconda fitt, troviamo versi che infor­ mano l’uditorio – magari i nuovi venuti, oppure dopo un’interru­ zione – riassumendo quanto già raccontato e anticipando il futuro:

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Nel giovane anno ebbe Artù in dono questa avventura. Che parole di sfida voleva sentire. Mancate le storie quando s’eran seduti, ora l’opera è seria, piene le mani. Gawain era lieto di iniziare quei giochi a castello; se la fine è triste non vi stupite, allegra è la gente quando beve forte, presto passa un anno e mai ripete le cose, di rado l’inizio è uguale alla fine. Passa questo Natale e poi l’anno dopo, ogni stagione s’accalca sull’altra. (vv. 491-502)

Questo brano, oltre a dire del passaggio del tempo, sembre­ rebbe anche indicare uno stacco nella comunicazione, la ripresa appunto dopo una pausa e un’interruzione del canto. Altrove, nel poema, gli appelli al pubblico hanno una funzio­ ne puramente fàtica, di socialità e di mantenimento del contatto, come per esempio ai versi 130-131, dove la voce narrante enuncia: «Ora più nulla dirò del loro banchetto: può credere ognuno che nulla mancasse»122. Troviamo anche una richiesta di silenzio in un momento che potrebbe essere pregno di tensione123. La terza fitt si chiude, infatti, con Gawain a letto durante la sua ultima notte al castello di Berti­ lak. La mattina dopo dovrà partire alla ricerca del Cavaliere Verde: Con servi e con lumi fu condotto al suo letto E lì coricato per prendere riposo. Se dormisse profondo dire non oso Ché molti aveva per il mattino seguente Pensieri. Lasciamo che giaccia in silenzio, quel che cerca ha quasi raggiunto. Se quieti un poco sarete, vi dirò ciò che fecero. (vv. 1989-1997)

Sono indicatori di stacchi temporali, di sospensioni della co­ municazione orale, di pause, di tempi frapposti per fare altro e per suscitare nel pubblico una qualche forma di attesa.

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Ma, a proposito, come potevano i destinatari medievali prova­ re curiosità per quei racconti che erano in gran parte tradizionali? per quelle storie e quei personaggi che molti già conoscevano? Come le storie e i personaggi della tradizione greca antica, infatti, quelli del Medioevo appartengono al grande ipertesto della tradi­ zione, cui i singoli racconti si collegano. Chi ascoltava conosceva dunque già quanto gli veniva narrato. E allora: come poteva susci­ tare curiosità il singolo autore o il singolo giullare? La suscitava, mi pare evidente, non sulla base di possibili esiti ignoti delle storie, come accade per la narrativa odierna, ma piut­ tosto rispetto al modo di porgerle, che faceva leva sul piacere della ripetizione e del confronto tra ripetizioni. Un po’ come vedere a teatro l’interpretazione di un testo che già si conosce. O come la ripetizione delle favole, sempre le stesse, che recano piacere se ascoltate da una voce recitante. Non si rileggono i romanzi; e nep­ pure le favole si rileggono, ma si possono riascoltare, perché in que­ sto caso è l’interpretazione che conta, l’uso dell’espressività vocale e delle potenzialità significanti ed emotive del corpo. Corporeità e fisicità di una comunicazione in cui il tempo narrativo è gestito dalla voce (e dai silenzi), dal gesto che occupa lo spazio e lo anima. Gli esseri umani comunicano con tutto il loro corpo e si re­ lazionano al mondo per mezzo di tutti i loro sensi. La narrativa del lontano passato dimorava in questa pienezza significante, che poi si andò perdendo con la lettura silenziosa e solitaria. Dovet­ te allora trovare dei sostituti puramente verbali di quel contesto dell’enunciazione che si stava facendo sempre più asettico ed eva­ nescente. Alla fine, tutto fu demandato alle sole parole, che lo sguardo scorreva velocemente sulla pagina stampata, attivando immagini mentali costruite e decostruite dalla lettura. Questo lavorio di sostituzione fu in parte, anche se non del tutto, inconsapevole; e, come vedremo, si concluse nel Settecento con l’invenzione del romanzo. Fare a meno della voce Per quanto molti siano i romanzi, «non ho visto nessuno che ne abbia scritto». Così Giambattista Giraldi Cinthio inizia il suo Discorso intorno al comporre dei romanzi (1543)124.

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Egli è il primo a farlo, afferma, e seguita definendo «roman­ zo» un «Poema et composizione di Cavalieri forti» (p. 5), che «presso di noi» ha sostituito le «composizioni» eroiche dei greci e dei romani (pp. 5-6), trattando di «finte materie di Cavalieri i quali essi chiamano erranti». «Questa sorte di Poesia» ha avuto «il primo suo principio da Francesi da i quali ha forse anco havuto il nome», assumendolo però dal greco. «Da Francesi poi è passata questa maniera di poeteggiare agli spagnoli (sic per le iniziali), et ultimamente è stata accettata dagli Italiani: i migliori autori dei quali, non come le altre nationi, hanno scritto questi componi­ menti [non] in prosa, ma in verso». La parola ‘romanzo’ significava questo nel Cinquecento. Ro­ manzi erano l’Amadis de Gaula (p. 37), l’Orlando furioso (p. 23), La Gerusalemme liberata; e Cinthio nel parlarne affronta subi­ to una tematica che terrà il centro del dibattito sulla narrativa nei due secoli successivi. Parte da una similitudine con il corpo umano: «mi par che si possano assimigliare i corpi de i Poemi alla compositura del corpo humano». Il soggetto sono le ossa che sostengono tutte le parti dell’uomo ma, come queste sono tenute bene assieme nel corpo, così il poema ha bisogno «dell’ordine delle parti, et de i legamenti che le tengano congiunte» (p. 16). Dunque deve possedere unità. Ecco il primo punto della questione: l’unità narrativa. Natural­ mente è in Aristotele che viene cercata la regola, ma solo inizialmen­ te. Esaurita infatti abbastanza presto l’auctoritas, Cinthio procede spedito a una messa a confronto delle opinioni e delle pratiche con­ crete di epoche a lui più prossime. In sostanza le posizioni sono due: per alcuni il ‘romanzo’ deve raccontare una sola azione; per altri, è meglio che ne tratti molte. Quanto a lui, egli preferisce «appigliarsi a molte attioni d’un huomo, che ad una sola. Perché mi pare che più sia atto questo modo al comporre in forma di Romanzi, che una sola attione. Però che porta questa diversità delle attioni con esso lei la varietà, la quale è di condimento del diletto, et si da largo campo lo Scrittore di fare Episodij, cio è digressioni grate [...]» (p. 25). Unità e ‘varietà’: ecco i due poli del dibattito che terrà campo fino a Settecento avanzato, fino all’‘invenzione’, appunto, del ro­ manzo moderno. La struttura narrativa per episodi e digressioni, una delle ca­ ratteristiche dell’epica orale, si era mostrata anche la più longeva,

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sopravvivendo a lungo senza fare problema. Ma all’epoca di Cin­ thio non era più così. Questa forma a bricolage, che consentiva spostamenti di pezzi della trama, diviene, nell’età della stampa, protagonista di un discorso che la mette a contrasto con l’unità. Episodi e digressioni – la «diversità delle attioni», nelle parole di Cinthio – erano sì gli operatori narrativi della varietà, ma al tempo stesso frazionavano e interrompevano il filo del racconto. Cinthio critica il Trissino per avere introdotto una digressio­ ne, in quanto, dice, le digressioni «rompono la continuatione e fanno vitiosa la favola, onde sono maravigliosamente biasimate da Aristotele» (p. 54). Egli non le rifiuta tout court però, ma a suo avviso «deve in queste digressioni essere molto avveduto il Poeta in trattarle di modo, che una dipenda dall’altra, et siano bene aggiunte con le parti della materia, che si ha preso a dire con continuo filo et con continua catena, et che portino cõ esso loro il verosimile». Riconosce il rischio, dunque, ma poiché le digres­ sioni portano anche la varietà creando diletto, consiglia di usarle, sebbene monitorizzandole. Cinthio è dalla parte della ‘varietà’, altri saranno da quella dell’unità; e le due posizioni si fronteggeranno all’interno di uno schema di ragionamento i cui termini rimarranno a lungo inva­ riati. La questione verterà su come far convivere narrativamente varietà e unità; come dare equilibrio, ordine e legame alle parti di un racconto che presenti diverse azioni, compiute da più di un individuo. In altri termini, raccontare la varietà dei casi, delle storie, dei personaggi, cioè del mondo, senza che questa cancelli la continuità tra i fatti, che è quanto costituisce la verosimiglianza. In gioco c’è proprio la verosimiglianza, nonché quella che in termini moderni potremmo chiamare la spiegazione mediante narrazione. Cinthio si augura che gli autori «portino [...] nella disposizione e nelle altre parti tanto del verosimile, che non ri­ manga priva di fede, e che una parte così dall’altra dipenda, che o necessariamente o verosimilmente l’una venga dietro l’altra» (p. 54). «Vogliono adunque le parti e gli Episodi hauere o necessaria o verisimile dipendenza una dall’altra». Tutti gli autori questo se lo augurano, e su entrambi i fronti; ma le due categorie non sembrano essere facilmente conciliabili. Concluso l’argomento della «forma», come la chiama Cinthio, egli passa all’«elocuzione», avanzando considerazioni che vale

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la pena di riportare, poiché rivelano come egli intenda la lettura come ancora strettamente vincolata alla voce e al corpo. Scrive infatti: «Per che (sic) la voce, tosto che è mandata fuori, se ne muore, & non sta sotto il giudicio, se non in quanto ella è udita; & essendo aiutata dallo spirito, dalla gratia, & dall’attione del dicitore, molte volte nõ lascia, che si veggano i difetti suoi. Ma la scrittura sempre rimane sotto gli occhi, & sotto il giudicio di chi legge, priva de gli aiuti, c’ha la voce, quando si manda fuori. Onde non ha cosa alcuna esteriore, che le possa dar loda, s’ella con esso lei non la si porta» (p. 86). Questa messa a confronto di voce e scrittura, proprio parlando dei ‘romanzi’ dell’epoca, mostra che la pagina a stampa non era il canale scontato della narrativa, la quale evidentemente non aveva ancora sussunto nella scrittura tutte le funzioni significanti e affettive della presenza umana. Lo stesso libro di Cinthio sembrerebbe dipendere da una let­ tura a voce alta, come mostrano la punteggiatura e l’impostazione grafica, con paragrafi che spezzano gli argomenti in un modo che oggi appare anomalo e incongruo; e che rende quasi indispensa­ bili, per seguire il senso, l’intonazione e le pause. D’altronde, che cosa può avere in mente Cinthio se non la sonorizzazione del testo quando trae spunto dall’oratoria per parlare dei ‘romanzi’ e dell’effetto che questi devono suscitare? Scrive ancora: Ora tornando a proposito, è da sapere, che questa parte, che noi anima chiamiamo, appresso agli oratori tutta si da (sic) alla pronuntia, & all’attione, la quale è tutta quella parte, che si appertiene non pure alla voce, ma alla gratia, & alla dignità dei movimenti del capo, del volto, degli occhi, delle mani e di tutto il corpo, mentre l’Orator dice & vogliono, che ella sia quella, che dia lo spirito, & la vita a tutta l’orat­ tione et questa parte fu detta dal padre della lingua Latina eloquenza del corpo. Laquale (sic) anchora (sic) che possa essere quella istessa nel Poeta; & spetialmente in questa maniera di Poesia, che dal cantare alla presenza di gran maestri [...] ha dato alle sue parti nome di canto: non dimeno a me pare, che da altro luoco, che dalla pronuntia, sia da cercare questa anima del Poema, che non è altro, per hora, che quella forza, & quella virtù dell’oratione onde entrino gli affetti nel core, a chi legge, come se fusse una viva voce, che parlasse, accioche (sic) non pure quando si canterà (se forse averrà [sic] mai ch’egli si canti) paia vivo questo corpo, ma quando ancor sarà letto da altrui.

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Et questo mi pare, che possa avenire dalle voci significantissime e così atte a spiegare i concetti, che gli imprimano ne gli animi di chi legge con tanta efficacia, & con tanta vehementia, che si sentano fare manifesta forza, & commovere in guisa, che partecipino di quelle pas­ sioni che, sotto il vello delle parole si contengono, ne i versi del Poeta. Et questa è l’Energia, la quale [...] sta [...] nel porre chiaramente, ef­ ficacemente la cosa sotto gli occhi di chi legge, et nell’orecchie di chi ascolta (pp. 160-161).

L’oratoria è evidentemente considerata il punto di riferimento della poetica del racconto scritto; e tuttavia compare qui, seppur velata, una domanda che abiterà la riflessione sulla narrativa dei due secoli successivi. Cinthio sembra chiedersi: come si possono far eseguire al solo enunciato le funzioni tradizionalmente svolte dal contesto dell’enunciazione? Come far sì che il discorso scritto e letto individualmente produca quegli effetti che gli oratori atti­ vano mediante la voce e il corpo? Questo problema, come vedremo, è tutt’altro che scollegato da quello del rapporto tra unità e varietà; e vedremo anche che il Settecento e il romanzo moderno lo risolveranno con una piroetta logica, cambiando di livello ai suoi elementi e spostandoli in un sistema concettuale diverso125. Poste su base nuova, unità e varietà allora finalmente risulteranno accordabili; ma nel secolo e mezzo precedente, i termini della questione erano rimasti quelli proposti da Giraldi Cinthio. Non tutti ovviamente la pensavano come lui, ma il ragiona­ mento polarizzava sempre le due caratteristiche, e chi voleva più dell’una doveva essere disposto a rinunciare a un po’ dell’altra. Torquato Tasso, nei Discorsi del poema eroico, sostiene il ­valore dell’unità: è vero che la varietà reca piacere, scrive, ma essa è «lo­ devole fino a quel termine che non passi in confusione»126. Troppe azioni in un poema eroico creano confusione (pp. 223-229), e le digressioni è meglio non usarle. La varietà, insomma, nel poema eroico si deve conciliare con l’unità, perché «così accade nel co­ smo». Questo egli tenta di fare nella Gerusalemme liberata, opera sempre in tensione tra i due princìpi e in cui l’unità assume i tratti di una forza che teleologicamente direziona la storia verso il fina­ le, la conquista appunto di Gerusalemme. Tuttavia, anche per il Tasso queste due categorie, che sono

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a un tempo formali e conoscitive, si contrappongono in modo dicotomico e difficilmente conciliabile, se non in una vicendevole ceduta di campo. Né va dimenticato che pure lui pensa a una lettura sonorizzata e recitata, tant’è vero che, parlando della narrativa scritta, specifi­ ca che «gli strumenti dell’imitazione sono il parlare, l’armonia, il ritmo», e quest’ultimo è uguale alla «misura de’ movimenti e de’ gesti che fanno gli istrioni» (p. 197). È evidente che non si tratta in questi casi di attribuire al pro­ prio pubblico una scarsa padronanza della pratica della lettura silenziosa, ma del permanere nella cultura dell’epoca di conven­ zioni e abitudini che associano la lettura alla voce, alla declamazio­ ne e all’ascolto. Non è vero, d’altronde, che almeno in una parte dell’Europa occidentale leggere e udire, vedere e ascoltare erano in quell’epoca considerati quasi sinonimi?127 Nel frattempo c’era stata la ‘riscoperta’128 delle Etiopiche, por­ tate in Occidente da un soldato che ne aveva venduto il manoscrit­ to a Vincentius Odsopoens, il quale nel 1534 le aveva stampate a Basilea. Nel frattempo erano anche cominciate le condanne dei romanzi di cavalleria, di cui si criticavano due aspetti tutt’altro che scollegati: da una parte la struttura narrativa a catena di epi­ sodi privi di direzione, e dall’altra la visione del mondo e la morale incarnate nel vagabondaggio senza scopo dei protagonisti. La struttura per episodi e digressioni era il modo in cui l’epica orale e i ‘romanzi’ medievali avevano organizzato le azioni, per cui la sua condanna rivela un distanziarsi del gusto dalla comunica­ zione sonorizzata. Ma questa condanna significa anche qualcosa di più, e cioè che, assieme alla trasformazione delle pratiche co­ municative e del gusto, andava cambiando un modo di pensare, di sentire la causalità e la connessione dei fatti. Siamo, insomma, a metà di un guado, da cui la cultura occidentale non uscirà del tutto se non nel Settecento. Lo conferma, sull’altro versante, il successo di cui godettero le Etiopiche, la cui struttura rappresenta, come abbiamo visto, un parziale – parziale, si badi bene – distacco dall’oralità. Tra la fine del Cinquecento e per tutto il Seicento, il racconto di Eliodoro ebbe una grande voga e costituì sia un punto di riferimento per il dibattito, sia un modello concreto per la narrativa. Sembrò che conciliassero la varietà con l’unità, in una «ingénieuse liaison de

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son conte», come scrive Jacques Amyot nell’introduzione alla sua bella traduzione francese del 1547129, che ebbe numerosissime ri­ stampe e contribuì non poco alla diffusione dell’opera, essendo usata per versioni in altre lingue, tra cui il castigliano130. Non molto dopo la pubblicazione della prima traduzione italiana, del 1556131, Giulio C. Scaligero assimilava le Etiopiche all’Eneide e le indicava come esempio di intreccio ben riuscito. La prima regola, scriveva, è di non seguire l’ordine naturale, men­ tre la seconda, evidentemente collegata alla prima, è di tenere l’ascoltatore in sospeso. Le Etiopiche in tutto ciò sono ammirevoli: «Hanc disponendi rationem splendidissimam habes in Æthiopica historia Heliodori»132. Anche il Tasso riteneva che il testo di Eliodoro fosse da pren­ dere a modello per la costruzione degli intrecci, e pure lui lo pa­ ragonava all’Eneide. In una lettera del 1575 a Scipione Gonzaga afferma che la capacità di tenere in sospeso l’ascoltatore, mentre procede dalla confusione alla chiarezza e dall’universale al par­ ticolare è arte durevole di Virgilio ed è una delle ragioni per cui Eliodoro dà piacere133. Lodi piovono da tante parti: da Baltasar Gracián y Morales, da Lope de Vega, Cervantes, Calderón de la Barca, Philip Sidney, che nella Apologie for Poetrie134 paragona anch’egli le Etiopiche all’Eneide, imitandole nella seconda stesura dell’Arcadia (1590)135. Ne scrive pure Alfonso López Pinciano nella sua Philosophia antigua poetica (1596), dove afferma che «la storia di Eliodoro è epica, ma se la si esamina attentamente si scopre che stringe per tutto il tempo il nodo della complicazione e mai lo scioglie fino alla fine. Lo dico poiché non c’è contraddizione tra l’epica e lo stringere un singolo nodo sempre più forte per tutta l’opera»136. Che sottoscriviamo o no questa opinione, va riconosciuto che le sue parole rivelano attenzione alla struttura del racconto e all’uni­ tà narrativa. Onori e ammirazione furono tributati a lungo alle Etiopiche. E, se dapprima le lodi – quelle, poniamo, di un Fozio nell’antichità – vertevano sull’interesse intellettuale, sulla dolcezza, sul decorum, sugli eventi sensazionali e le liberazioni a sorpresa137; ora si insi­ ste piuttosto sull’intreccio, sulla capacità di accorpare la varietà facendo confluire nella storia principale i racconti intercalati e conducendoli tutti ad un finale unitario.

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Fu per questi aspetti che l’opera di Eliodoro rappresentò un modello forte per la narrativa europea, non solo nel Cinquecento ma anche durante quasi tutto il secolo successivo. Fu un modello per il romanzo barocco, prima di tutto. Anche se questo ecce­ dette, portando spesso al parossismo la procedura a incastro dei racconti intercalati138, come per l’Italia vediamo nelle opere di un Biondi139 e di un Brusoni140 che con la loro ipertrofica fioritura di episodi danno l’impressione di una estrema frammentarietà e disunità compositiva. Tuttavia è in Francia che le Etiopiche ebbero il maggior seguito e conseguirono i migliori risultati141. Charles Sorel sostiene, nel Berger extravagant (1627-28), che tutti i racconti della sua epoca le hanno prese a modello142. Mentre Marin Le Roy de Gomber­ ville le loda nella Cythérée (1642) e le imita anche nel Polexandre (1619), la cui versione del 1637 consiste in volumi di digressioni e storie intercalate che costituiscono ben il 59,2% dell’insieme, percorrendo diverse linee narrative, ciascuna delle quali sembra muoversi autonomamente. L’impressione che ne deriva è, anche in questo caso, quella di un mucchio di avventure scorrelate143. In Artamene, ou Le grand Cyrus (1649), Madeleine de Scudéry riconosce come suoi maestri «l’immortale Eliodoro» insieme al «grande» d’Urfé, il quale, peraltro, aveva, nell’Astrée (1607-27), imitato egli stesso Eliodoro144. Anche nella prefazione a Ibrahim ou l’illustre Bassa (1641) troviamo lodi alle Etiopiche, e proprio laddove si parla dell’unità di azione145. Tutti i romanzi eroici, d’altronde, non solo il Grand Cyrus ma pure Cléopâtre (1647-58) e Cassandre (1642-60) di Gauthier de Costes de La Calprenède146, si basano sul racconto di Eliodoro, componendosi di una quantità di fatti e di racconti intercalati che procrastinano all’infinito il soddisfacimento dei desideri dei protagonisti, e dunque il finale. In epoca barocca si verificò dunque una strana contraddizio­ ne: le Etiopiche sembrarono presentare un modello narrativo che conciliava varietà e unità, ma spesso chi si rifaceva a loro creò dei racconti tutt’altro che unitari. Prevalsero, in realtà, il gusto per la varietà e la visione del mondo che questa rappresentava. La mancanza di unità attirò critiche a non finire al romanzo barocco, mentre l’opera di Eliodoro continuava invece a mietere lodi. Pierre-Daniel Huet, per esempio, la cui idea di roman era

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quella di un insieme narrativo composto di parti proporzionate e distinte, nel Traité de l’origine des romans (1670) le elogia di­ cendo che prima di Eliodoro «non si era visto niente di meglio concepito e compiuto nell’arte Romanzesca [...]. Gli avvenimenti si susseguono numerosi, insoliti, verosimili, ben coordinati, ben dipanati. Lo scioglimento è ammirevole; è naturale, implicato nell’argomento, e non c’è nulla di più avvincente e patetico»147. Di contro, egli critica invece i romans francesi e italiani, perché secondo lui questi hanno moltiplicato le azioni, giustapponen­ dole tra loro senza nessi (p. 32). A proposito degli italiani, nota che «scuotono un poco lo spirito, ma ricominciando tante volte da capo, non lo infiammano» (p. 33). Quanto alle descrizioni, commenta: «una cosa è descrivere da Romanziere, in relazione al soggetto e senza perdere di vista l’azione principale, [...] un’altra è descrivere da architetto» (p. 34). Notiamo come l’attenzione di Huet vada principalmente al let­ tore e alla ricezione del testo. Sarà proprio da una tale ottica, volta appunto all’aspetto comunicativo nei suoi risvolti psicologici e cognitivi, che scaturirà la soluzione del problema dell’unità. Ma questo accadrà successivamente, con la narrativa settecentesca. Seguitando, Huet invita ad evitare le digressioni e le descrizio­ ni «vane», cioè che non si connettano strettamente con la materia del racconto, mostrando così un gusto ben diverso da quello dei teorici della prima metà del secolo, come per esempio Jean-Pierre Camus, che aveva ritenuto che una storia fosse tanto più gradevo­ le quanto maggiore fosse il numero di «incidenti» contenuti. Insomma, nella seconda metà del Seicento il fronte del gusto in Francia si compatta sul rifiuto delle «lunghe storie», di «av­ venture straordinarie» infarcite di digressioni148. Sia Segrais nelle Nouvelles françaises (1656-57)149 sia Sorel attuano da questo pun­ to di vista un rinnovamento della poetica narrativa150. Il Berger extravagant, che in ciò anticipa il gusto, contiene una critica espli­ cita ai racconti le cui storie siano collegate tra loro in modo lasco e costruite difettosamente come – vi si dice – l’Orlando furioso, in cui di continuo «una storia si inserisce in un’altra storia»151. Ma Sorel fu più critico che costruttivo, e sarà piuttosto la poe­ tica delle nouvelles historiques che si assumerà il compito di ovvia­ re ai difetti strutturali della narrativa precedente, anche se lo farà ammantando le storie di verità «nobili ed elette»152.

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Paradossalmente, fu Madeleine de Scudéry, anch’essa da sem­ pre ammiratrice delle Etiopiche153 e che non a torto Boileau aveva accusato di portare all’eccesso la lunghezza e le stravaganze del romanzo eroico, a formulare a un certo punto le nuove esigenze del gusto, esprimendo – anche in un dialogo della Clélie – una concezione del roman più moderna di quanto le sue stesse opere non rappresentassero154. La nuova inclinazione del gusto, però, si incarnò al meglio nelle opere di Madame de La Fayette, dove il racconto si asciuga e si abbrevia, acquistando al tempo stesso tutto lo spessore dell’in­ teriorità. I contemporanei vi videro l’affermarsi di un nuovo ge­ nere narrativo, e le discussioni che ne seguirono fecero emergere i principi della nuova arte155. Vi parteciparono in molti. Nicolas de Montfaucon de Villars notava come i romanzi eroici non rispondessero più al gusto con­ temporaneo e definiva la Princesse de Montpensier «un piccolo capolavoro»156. Una Lettre sur la Princesse de Clève, apparsa nel maggio del 1678 sul «Mercure Galant» e attribuita a Fontenel­ le157, metteva in particolare rilievo l’arte con cui nell’opera sono rappresentate «la nascita e il progresso della passione», sostenen­ do implicitamente che tutti i romans dovrebbero essere imperniati come questo su una vicenda unitaria, portata avanti con il ritmo appropriato. L’unica critica mossa è, non a caso, la presenza di racconti intercalati che interrompono la vicenda principale: «Il lettore si interessa talmente a Monsieur de Nemour e a Madame de Clève che vorrebbe vederli sempre entrambi. Gli pare che gli si faccia violenza spostandogli lo sguardo altrove; e mi ha indispetti­ to terribilmente la morte di Madame de Touron. Ecco la disgrazia di queste azioni principali che sono così belle. Non si vorrebbero affatto degli episodi»158. Il commento più incisivo sulla narrativa di Madame de La Fa­ yette fu quello di Valincour nelle Lettres à Madame la Marquise xx sur le sujèt de la princesse de Clèves (1678), che sostiene la necessi­ tà che tutte le storie siano legate al «soggetto» del racconto, cioè all’azione principale. Questo, insiste, per una ragione precisa, e cioè che lo spirito del lettore non sopporta di essere distolto dalla conclusione verso la quale si volge il suo interesse, cosa che avvie­ ne invece nei «grandi romanzi» in cui, «con il pretesto di narrare la storia di un principe», si raccontano invece quelle di una gran

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quantità di personaggi. Un’opera eccellente, conclude Valincour, non deve contenere nulla di «assolutamente inutile» rispetto alla storia centrale; e pertanto non si giustifica la presenza di episodi separati e di digressioni159. Nel suo insieme, la nuova poetica narrativa è discussa soprat­ tutto nel saggio di Du Plaisir, Sentiments sur les Lettres et sur l’Histoire, avec des scrupules sur le stile, del 1683, dove l’autore constata che le «petites Histoires», chiamate anche «nouvelles», sono migliori dei romans (cioè i romanzi eroici) sia dal punto di vista strutturale che psicologico. Un autore a suo avviso deve non tanto mettere in campo grandi avvenimenti o grandi personaggi, quanto piuttosto mostrare le cause e i progressi delle passioni. L’interesse di Du Plaisir va dunque alla psicologia dei personag­ gi, ma non fine a se stessa bensì allo scopo evidente di suscitare emozione nei lettori, e in questa ottica egli valuta gli effetti della narrazione. Rileva – per ora lo si noti soltanto, poi vi torneremo più a lungo – la temporalità delle ‘passioni’ (termine che all’epoca abbracciava ogni tipo di emozione) le quali, egli sottolinea, hanno un’origine, uno sviluppo e un esito. Per questo consiglia agli autori di tenerne conto, rendendo il racconto «sempre più precipitoso» man mano che una storia avanza verso la conclusione, per assecondare in chi legge il ritmo della curiosità e dell’impazienza. Attenzione però a non interrompere con le digressioni, av­ verte, perché «la mescolanza di storie particolari con la storia principale va contro la volontà del lettore. [...] I lettori si disgu­ stano e si irritano a vedersi interrompere con i particolari delle avventure di persone alle quali poco sono interessati [...]. Il nu­ mero ridotto di attori evita una grande confusione nello spirito e nella memoria»160. Siamo vicini al volger del secolo, e il saggio di Du Plaisir adotta proprio quell’ottica che consentirà ai britannici ‘padri’ (come si suol dire, ma ci furono anche delle madri) del romanzo moderno di creare la nuova forma narrativa. Questo scritto di Du Plaisir, d’altronde, non fu sconosciuto oltremanica, perché Mary Manley, autrice di non eccelso talento ma ben consapevole delle esigenze della narrativa contemporanea, lo riportò in inglese (senza dirne la provenienza) nella prefazione alla sua opera The Secret History of Queen Zarah (1705)161.

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Il dibattito sulla forma narrativa fu centrale anche nella di­ sputa tra antichi e moderni che, assieme a questioni di etica e di costume, trattò di tecniche retoriche, difendendo o attaccando gli autori dell’antichità, e soprattutto Omero162. Nel Siècle de Louis le Grand (1687), Charles Perrault critica­ va Omero per la lunghezza e l’inopportunità delle digressioni, avanzando un’opinione condivisa da Houdar de la Motte, da De­ smarets de Saint-Sorlin, da Jean Terrasson. I ‘moderni’ cercava­ no di dimostrare che i poemi omerici erano il risultato di casuali assemblaggi di canti tra loro staccati; e François Hédelin, Abbé d’Aubignac, finì per sostenere che Omero non era mai esistito, es­ sendo l’Iliade e l’Odissea raccolte mal strutturate di «rapsodie» di vari autori. Giambattista Vico riteneva invece che i poemi omerici fossero la creazione di un popolo intero163. Su questioni strutturali si pronunciava anche Fontenelle, di­ chiarando la versificazione di Virgilio la più bella del mondo, ma «per ciò che riguarda l’ordine del poema in generale, il modo di condurre gli avvenimenti, di introdurvi delle sorprese piacevoli, la nobiltà dei caratteri, la varietà degli avvenimenti, non sarei molto stupito se si andasse al di là di Virgilio, e i nostri romanzi, che sono dei poemi in prosa, ce ne fanno vedere la possibilità»164. Sull’altro fronte, Boileau contestava un’affermazione di Per­ rault, che nei Parallèle des anciens et des modernes sosteneva di riportare un passo di Eliano dove si diceva che Omero aveva com­ posto l’Iliade e l’Odissea per brani, nel calore dell’immaginazione, senza ordine e senza unità di disegno165. Si inaugurava così quella ‘questione omerica’ di cui abbiamo parlato più sopra e che con­ dusse un secolo e mezzo dopo alle ricerche di Milman Parry. Boileau respingeva l’idea che l’Iliade e l’Odissea mancassero di unità e cercava, assieme a Madame Dacier, di dimostrare il contrario. Per i sostenitori degli antichi, la grandezza di Omero consisteva nel dare simmetria, regolarità e ordine alle sue opere come, a detta sempre di Boileau, avrebbe ampiamente provato Le Bossu nel suo Traité du poème épique (1674). D’altro canto, Jean Terrasson, nella Dissertation critique sur l’Iliade d’Homère (1715), biasimava proprio Le Bossu perché, se è vero che gli antichi non potevano prevedere ciò che sarebbe apparso dopo di loro, lui che aveva «il vantaggio di vederlo, se ne sarebbe dovuto servire per dimostrare la possibilità di fare dei poemi caratterizzati da un

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intreccio più complicato, da un numero maggiore di situazioni, di costumi, di rappresentazioni di eventi umani, cose che non sono negli antichi poemi»166. Polemiche a parte, quel che ci preme notare qui è che sia i sostenitori dei moderni che quelli degli antichi, sia i detrattori di Omero che i suoi ammiratori, condividevano evidentemente tutti un medesimo valore estetico (ma è poi solo estetico?), e cioè l’unità narrativa. Per entrambe le parti, un racconto era da con­ siderarsi soddisfacente solo se la possedeva. Che poi alcuni non la riscontrassero nei poemi greci, mentre altri sì, non cambia il fatto che per tutti essa fosse un pregio. L’unità e la varietà erano dunque in ballo anche in questo dibattito. È importante: nella disputa antichi-moderni entrambe le parti assegnavano scontatamente valore a quell’unità che consentiva di tenere assieme la varietà. Possibile che ciò non significhi nulla? Se la varietà unificata stava diventando un presupposto del valore artistico, un tratto considerato indiscutibile, questo non indica forse che mutava la percezione stessa dei testi? Di più: non significa che la varietà unificata non solo incarnava esigenze penetrate nel linguaggio ma segnalava anche una forma mentis condivisa? Tornando a Le Bossu, Terrasson era però ingiusto nei suoi confronti quando gli rivolgeva quelle critiche. In realtà, se il Traité167 non parla esplicitamente della narrativa contemporanea, sembra averla però ben presente tutto il tempo. Non a caso esso sarà uno dei testi di riferimento per critici e scrittori fino al Set­ tecento inoltrato, con un susseguirsi di ristampe e di commenti. Henry Fielding, per esempio, ne teneva una copia in biblioteca, e più volte menziona con ammirazione l’autore, affiancandolo ad Aristotele, Orazio e Longino168. Ma quale era, per l’epoca, il merito di questo trattato? Era, a mio avviso, che teneva sempre presente il problema di come strutturare un racconto. Infatti, anche quando affronta questio­ ni etiche il Traité lo fa pensando al loro ruolo nell’impalcatura narrativa e al contributo che possono dare all’unità del raccon­ to. L’intero trattato verte su questo, su come conciliare la varietà con l’unità, a entrambe le quali Le Bossu non vuole rinunciare. Avanza così una miriade di osservazioni concrete, che potremmo addirittura chiamare narratologiche, incentrate – nonostante gli

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esempi siano presi dall’epica – su questioni che facevano proble­ ma alla narrativa contemporanea169. Dopo vari capitoli in cui illustra gli errori solitamente com­ messi nella strutturazione dei racconti, l’autore esamina una serie di possibilità per l’accorpamento delle storie170. Ciò che unifi­ ca la Favola (Fable), sintetizza in un capitolo centrale intitolato «Dell’inizio, del mezzo e della fine dell’Azione», sono i motivi del­ le azioni, le loro cause, e cioè gli stati d’animo, i caratteri, gli inte­ ressi, i fini, i contrasti fra intenti divergenti dei diversi personaggi, ecc. (p. 227). Prima aveva affermato che le abitudini e il carattere dei personaggi hanno una funzione strutturante in quanto con­ sentono a chi legge o a chi ascolta di prevedere i comportamenti futuri, unificando con ciò i fatti che il testo presenta in un dato momento con quelli di cui tratterà nelle pagine successive (p. 54). Al centro del trattato, un capitolo intitolato «Nodo (Noeud)» sostiene che il nodo di un racconto consiste nelle difficoltà create­ si quando si scontrano intenti divergenti; esso «dura fintanto che lo spirito del lettore è sospeso sull’accadimento di questi sforzi contrastanti» (p. 228). Il capitolo finale reca un titolo significati­ vo, «Continuità» (da p. 369 alla fine), e riassume quello che ap­ punto era stato il tema principale dell’opera. Non ci possiamo dilungare, in questa sede, sui particolari e sulle varie ramificazioni argomentative del trattato, ma il suo nu­ cleo tematico è quello che abbiamo appena evidenziato. Un punto ancora occorre sottolineare, e riguarda i modi della comunicazio­ ne narrativa. Nel Traité, i termini ascoltatore e lettore (auditeur e lecteur) sono usati intercambiabilmente, soprattutto nella parte dedicata all’effetto che un testo può esercitare sul suo ­pubblico. Ogni personaggio, scrive Le Bossu, deve mostrare interessi suoi propri e limitati, diversi da quelli degli altri, perché il piacere «dell’ascoltatore» si riduce se la quantità di tali interessi è eccessi­ va, in quanto «ingombrano lo spirito dell’Ascoltatore (Auditeur), ne sovraccaricano la Memoria; e lo rendono meno suscettibile dei moti interiori da cui si vuole sia toccato. Più cose differenti ci sono da conoscere e da rammentare, più occorre essere tranquilli e at­ tenti, per non perdere nulla di necessario; e quando qualche cosa ci è sfuggita, non ci fa piacere udire ciò che non comprendiamo più» (pp. 318-319). Notiamo che qui del destinatario si parla come di un ascoltato­

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re; notiamo pure che di tale ascoltatore viene nominata la facoltà della memoria e come questa interagisca con la narrazione. Tutta­ via più oltre, nel capitolo «Delle passioni», che pure è impostato nell’ottica della ricezione, si afferma che il racconto deve essere «commovente e appassionato» e trascinare «lo spirito del Lettore (Lecteur), sia che gli dia gioia sia che lo getti nel terrore» (p. 346). Poi Le Bossu, ancora una volta attento alla temporalità narrativa, rileva che il «Lecteur» va condotto a poco a poco alla passione che si vuole suscitare in lui (p. 354). Si noti dunque come i termini ‘lettore’ e ‘ascoltatore’ siano usati in modo assolutamente intercambiabile, a testimonianza – a mio avviso – che il guado tra lettura sonorizzata e lettura silenziosa non è stato ancora del tutto attraversato. Oltre a ciò, notiamo però come in una parte del trattato si prenda in considerazione il rapporto tra impalcatura del racconto e mente del destinatario: questo sarà il fulcro della riflessione settecentesca sulla narrativa, la quale però non guarderà più all’ascoltatore, bensì esclusivamente al lettore, proponendo soluzioni in grado di sollecitarne la memoria e di atti­ varne gli affetti all’atto di una lettura veloce, silenziosa e solitaria. Cresceva intanto il numero di chi metteva in dubbio l’utilità di quella che era stata la più longeva tra le caratteristiche dell’epi­ ca orale, e cioè la digressione. Ancora presente nella narrativa di fine Seicento171, stava maturando però sempre più l’esigenza di liberarsene, anche se pareva non esistesse un modo per sostituirla nella sua funzione di operatore per eccellenza della varietà. La si continuava dunque a tenere, seppur di malagrazia. Solo il Settecento inoltrato riuscirà a cancellarla senza dover rinunciare a rappresentare la molteplicità e la diversità delle cose, degli esseri umani e del mondo. Questa soluzione giungerà da un ribaltamento dell’ottica, dall’immettere in un differente contesto il problema dell’unificazione della varietà. Già agli inizi del Settecento, tuttavia, nessuno difendeva più la digressione, anche nei casi – limitati, peraltro – in cui se ne faceva un qualche parco uso. E a metà secolo, in Inghilterra, paese in cui si sta creando il romanzo, sono un’infinità gli autori che la rifiutano esplicitamente172. Se quei raffinati dissacratori che fu­ rono Laurence Sterne e Denis Diderot la rendono vessillo della loro scrittura, rispettivamente nel Tristram Shandy e in Jacques le fataliste173, non è perché pensano di rendere così le loro storie

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meglio accette al pubblico, ma per ragioni tutte filosofiche da far valere. Con loro, comunque, questo operatore testuale emetterà il suo canto del cigno. Intanto però si stavano trovando i modi per rimpiazzarne la funzione. Samuel Richardson critica anch’egli la «vecchia arida narrativa, in cui il novellatore avanza sempre con il solito pas­ so stanco fino al termine del capitolo e del libro, intrecciando inopportune digressioni»174, e tenta poi di risolvere il problema in Clarissa, mediante lo scambio di lettere tra più corrispondenti, che introducono vari punti di vista. La sua idea in proposito Samuel Johnson la dice nel numero 122 del giornale «The Rambler» (1751), dove scrive: Tra i vari tipi di discorso, scritto e parlato, che rispondono a ne­ cessità o promuovono piacere, nessuno appare così spontaneo e facile come la semplice narrazione; infatti che cosa dovrebbe rendere chi conosce l’ordine e l’intero sviluppo di un fatto incapace di raccon­ tarlo? Eppure incontriamo costantemente simili tentativi di divertire e di istruire per mezzo di racconti che invece annebbiano i fatti che intendono illustrare, perdendosi con chi li ascolta nella selva delle di­ gressioni o nei labirinti della confusione175.

Quando Johnson scriveva queste parole, la situazione di stallo che un paio di decenni prima il problema dell’unificazione della varietà sembrava aver raggiunto cominciava a trovare delle vie d’uscita. Prima di tutto perché la riflessione sulla narrativa aveva cambiato ottica, smettendo di occuparsi del testo in sé con ri­ chieste di equilibrio e simmetria in un ordine ritenuto oggettivo, e concentrandosi invece piuttosto sul suo rapporto con il lettore. Ci si era resi oramai ben conto che la digressione, operatore della varietà, non riusciva a esercitare sulla mente del nuovo tipo di lettore quell’effetto che lo inducesse a proseguire con interesse nella lettura. Sempre nel numero 122 del «Rambler», Johnson commenta sulla «difficoltà di rendere coerente (consistent) la varietà»; ma, continua, vale la pena di tentare l’impresa perché è preziosa quell’opera in cui «una meravigliosa molteplicità di eventi è tanto abilmente organizzata e così precisamente spiegata che ciascuno facilita la comprensione del successivo», e in cui «gli eventi collaterali sono intessuti nella tela della storia prin­

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cipale con tanta abilità da non poter essere tolti senza lasciarla strappata e lacera»176. Johnson sta qui evidentemente pensando a una lettura individuale e veloce, che comprende gli eventi narrati quasi scivolando dall’uno all’altro; e la sua attenzione si concen­ tra sull’effetto che la varietà unificata in un determinato modo – resa coerente, sono le sue parole – produce sulla mente del let­ tore. La «comprensione degli eventi», inoltre, sarebbe facilitata da un’organizzazione narrativa che li intessa tra di loro in modo tanto stretto quanto lo sono i fili in una tela. L’unità narrativa fa comprendere gli eventi. Se Johnson diverge dagli autori dei secoli precedenti nell’adot­ tare un’ottica che pone al centro il destinatario, egli tuttavia fa come loro nel mettere in relazione l’unità narrativa con la cono­ scenza. Anche secondo lui questa unità è solo apparentemente formale e non va considerata un guscio vuoto. Ma non è più un elemento oggettivo del testo, non è una caratteristica che esso possiede in sé, ma l’esito di un rapporto: appunto tra il testo e la mente e le emozioni di un individuo che legge nel modo che la rivoluzione settecentesca della lettura ha diffuso. È opportuno – questa volta è John Hawksworth a parlare nel numero 4 di «The Adventurer» (1752), il giornale da lui fonda­ to su incoraggiamento e con la collaborazione di Johnson –, è opportuno che l’attenzione del lettore sia «impegnata o la sua curiosità gratificata. I racconti più piacevoli sono quelli che non soltanto eccitano e gratificano la curiosità, ma anche impegnano le passioni»177. Questa affermazione riguarda l’unità narrativa più da vicino di quanto non possa sembrare a prima vista. Nelle parole di Johnson e di Hawksworth è facile riconoscere il linguaggio e le idee della filosofia e della psicologia associazioniste; e proprio da lì la ‘nar­ ratologia’ settecentesca attinge la soluzione del problema di come accorpare la varietà. Ragionando ora in termini di relazione tra testo e lettore, l’idea sarà da una parte di comunicare al lettore la «prodigiosa varietà»178 della natura umana e dall’altra di indurlo a leggere con interesse fino alla conclusione della storia. L’unità adesso è intesa come un effetto che il testo produce sul suo destinatario. Jane Austen lo mostra bene in Northanger Abbey, opera il cui tema è la lettura dei romanzi e che presenta una serie di lettori esemplari, tra cui delle ragazze imbambolate a furia

III.  I racconti e la voce

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di leggere narrativa e un giovane intellettuale che legge di filoso­ fia, di politica, di storia, ma che legge anche romanzi. È Tilney, il quale, racconta la sorella, quando iniziò la lettura di The Mysteries of Udolpho di Ann Radcliffe non riuscì più a staccarsene finché non l’ebbe finito. Ne ha letti così a centinaia, aggiunge la fanciulla, descrivendolo in preda a una evidente frenetica curiosità. Questo è il lettore che il romanzo prefigura e al tempo stesso costruisce con il suo discorso narrativo: è un individuo catturato dal raccon­ to, che non riesce più a staccarsene. Può essere una ragazzina, oppure un giovane intellettuale, una cameriera alfabetizzata, una moglie borghese: chiunque sappia leggere correntemente può en­ trare a far parte del vasto pubblico dei romanzi, i quali ora sanno come funziona la mente umana e utilizzano questo sapere per incantare il lettore. Non c’è bisogno di essere in partenza «sem­ plici e ingenui»: le strategie narrative stesse trasformano tutti in lettori semplici e ingenui, arrendevoli alla volontà del testo. Ecco perché le digressioni sono ritenute assolutamente improponibili: ora che la lettura è individuale e silenziosa, esse interrompono il flusso facile e naturale degli eventi, impedendo l’incanto e sma­ scherando la finzione. Ma quali sono in concreto queste strategie narrative? A lungo, la riflessione settecentesca continua a essere percorsa da una do­ manda implicita: come può un racconto suscitare e trattenere la curiosità dei destinatari senza altri ausilii che una fila di parole a stampa stese sulle pagine di un libro? Quando il secolo giungerà agli ultimi decenni, ad Ann Radcliffe, a Jane Austen, a Goethe, la soluzione sarà stata trovata. Di mezzo c’era stata appunto la scoperta del nuovo tipo di unità.

IV Il romanzo inventato Nelle Affinità elettive compaiono due scene di lettura ad alta voce. Una si apre con alcune considerazioni sul modo di leggere del protagonista maschile, che amava farlo davanti ai familiari e agli amici riuniti nell’ascolto: «Aveva una voce armoniosa e pro­ fonda, e già si era fatto conoscere e apprezzare, in altri tempi, per la dizione animata e sensibile di testi poetici e di discorsi. [...] Una sua particolarità era di non sopportare che, quando leggeva, gli guardassero nel libro. Prima, quando leggeva poesie, commedie, racconti, ciò era in rapporto col desiderio, intenso e peculiare ad ogni dicitore – come al poeta stesso, al commediografo, al nar­ ratore – di sorprendere, di aprire intervalli, di creare un senso di attesa: simili effetti, voluti ad arte, restano infatti gravemente impediti, se qualcuno precede con lo sguardo chi legge»1. Leggendo ad alta voce a chi non aveva il libro di fronte, Eduar­ do poteva sorprendere con fatti inaspettati, creare attesa con pau­ se, suscitare emozioni. Poteva insomma gestire l’effetto del testo utilizzando il contesto vivo dell’enunciazione, dove tutti i sensi del pubblico sono stimolati: le persone siedono vicine, si possono toccare, sentono il fiato, il calore dei corpi, gli odori. La vista di chi ascolta è attiva ma non polarizzata su una pagina e lo sguardo può dunque volgersi attorno; attivo è pure l’udito, che assieme alle parole coglie i significati dei toni e delle sospensioni. I gesti rammentano tutto il tempo che lo spazio è concreto e non dema­ terializzato. È un potere, in fondo, quello di chi legge ad alta voce a un uditorio: un potere che possiede finché è l’unico ad avere di fronte il libro. Per questo Eduardo mal sopportava che altri seguissero

IV.  Il romanzo inventato

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con gli occhi le parole, mentre leggeva. Ma i membri della sua fa­ miglia avevano contratto una tale abitudine alla pratica individua­ le, avevano così profondamente interiorizzato la stampa da non poter godere nell’ascolto e da aver bisogno di ancorare sempre lo sguardo alla pagina. Una sera Eduardo si accorge che Carlotta gli guarda nel libro da dietro le spalle e se ne adira. La chiama una sgarberia: «Quan­ do mi leggono nel libro mi sento come se mi facessero in pezzi»2, dice. Al momento in cui sarà Ottilia a compiere il medesimo gesto, anch’essa individuo ‘tipografico’ che non sa rinunciare a vedere la parola, la pazienza che le mostra Eduardo sarà prova del suo inna­ moramento. Un giorno «Ottilia stava alla destra di Eduardo, e ver­ so la medesima direzione costui spingeva la luce, quando leggeva: Ottilia si spostava allora più vicino, per leggere nel libro, giacché anche lei si fidava più dei propri occhi che delle labbra altrui; e Eduardo pure s’accostava, per metterla a suo agio, e spesso ad­ dirittura faceva, recitando, delle pause piuttosto lunghe, per non dovere voltar pagina prima che lei ne avesse terminato la lettura»3. Ecco: «Si fidava più dei propri occhi che delle labbra altrui». Poco più di cento anni prima, neppure un lettore frenetico e on­ nivoro come Samuel Pepys aveva simili reazioni; anzi, accoglieva con gioia quella socialità che pur lo relegava a un ruolo passivo. La sua mente e la sua percezione non erano ancora state modellate appieno dalla stampa. Ottilia è il nuovo tipo di lettore, formatosi nell’arco del Sette­ cento: è una lettrice solitaria e appassionata. Che sia una lettrice appassionata lo mostra un’altra scena del romanzo, che si chiuderà in tragedia con la morte del figlio di Carlotta e di Eduardo, cui Ottilia sta badando mentre è immersa nella lettura e dimentica della realtà. «Il libro era di quelli che attraggono un animo delica­ to e non lasciano più. Ottilia perse ogni nozione di tempo, senza considerare che per rientrare l’attendeva ancora un bel tratto sino al padiglione. Stava immersa nel suo libro, in se medesima [...]»4. Siamo nel primo decennio dell’Ottocento e il libro sa oramai catturare il proprio lettore, sa sorprendere, creare pause e un senso di attesa con le sole parole stampate che lo compongono. Eduardo vorrebbe invece continuare a usare la voce per creare emozione, vorrebbe assumere il potere che deriva dal farsi attore e dalla comunicazione corporea, quella che Carlo Sini ha chia­

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mato «la scrittura originaria dell’esperienza»5. Ma non è così che sentono Carlotta e Ottilia. Non possono sentire così: sono parte di un’umanità diversa, trasformata da una pratica comunicativa in cui il rapporto tra i sensi si è modificato e privilegia ora la vista rispetto all’udito. Il testo le incanta solo se fluisce in loro attraverso gli occhi, e prin­ cipalmente nel silenzio della privacy. Quando Goethe scrisse le Affinità elettive, il linguaggio a stampa era oramai una forma di comunicazione interiorizzata e divenuta come una seconda natura6 in buona parte della popola­ zione dei principali paesi europei. A quell’epoca, in Inghilterra il novel esisteva già da qualche decennio, calibrato per catturare il lettore in un modo tutto privato, senza più alcun ausilio da parte del contesto. La sua forma, come abbiamo visto, era maturata in Europa con lentezza nei secoli, subendo però una sorta di messa a punto finale proprio in Inghilterra, dove gli scrittori si erano posti alla ricerca di un nuovo modo di narrare, convinti anche di averlo trovato. In una lettera del 1741 ad Aaron Hill, Samuel Richardson si era dichiarato l’inventore, con Pamela, or Virtue Rewarded, di «a new species of writing» e poi, in una postfazione a Clarissa, aveva affermato di essersi risolto «a tentare qualcosa che non era ancora stato fatto»7. Nella prefazione a The History of the Adventures of Joseph Andrews, Henry Fielding aveva detto di aver trovato «un tipo di scrittura [...] che finora, a quel che ricordo, non è mai stato tentato nella nostra lingua»; ribadendolo nel primo capitolo del secondo libro del Tom Jones: «poiché essendo io, in realtà, il fondatore di una nuova provincia dello scrivere, sono libero di dettare le leggi che più mi aggradano». Qualche anno dopo, a fare una simile affermazione sarà Ho­ race Walpole, il fondatore di quel genere cosiddetto ‘gotico’, che la critica ha difficoltà a collocare nello scenario dell’origine del romanzo e che perciò indica, a mio avviso a torto, come un ritor­ no al passato. Walpole condivide con Fielding e Richardson la convinzione di aver inventato una forma narrativa nuova, e nella prefazione alla seconda edizione di The Castle of Otranto (1764) scrive: «Avrei potuto sostenere che, essendo io il creatore di una nuova specie di romance, avevo la libertà di stabilire le regole che ritenevo più adatte alla sua conduzione».

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Significativa in proposito è anche l’insoddisfazione degli auto­ ri per la terminologia esistente, che nelle principali lingue europee attraverserà un periodo di turbolenza semantica. Molti saranno i termini impiegati prima di giungere a quelli definitivi, che oggi usiamo scontatamente. E questo soprattutto – anche se non solo8 – in Gran Bretagna, dove Aphra Behn aveva chiamato true history il suo Oroonoko, or The Royal Slave (1688); Richardson faceva lo stesso con Clarissa (1747-48) e Sir Charles Grandison (175354); mentre Mary Manley definiva secret history la sua opera più importante, appunto The Secret History of Queen Zarah (1705), e Daniel Defoe private history il suo Moll Flanders (1722). Molti preferiranno history tout court, come fa Fielding sia per il Joseph Andrews (1742) che per il Tom Jones (1749). Richardson chiama Pamela (1741) semplicemente a narrative, e Tobias Smollett memoirs il suo Roderick Random (1748). Nei titoli troviamo anche life, adventures (quando non life and adventures insieme) e progress. Alla fine del primo decennio d’oro della sperimentazione romanzesca, in un famoso saggio del «Rambler» (numero 4, 1750), definito in epoca recente «la prima seria trattazione critica ricevuta dal romanzo in un periodico a un solo saggio» e «uno dei più influenti enunciati sull’argomento di tutto il diciottesimo secolo»9, Samuel Johnson parla di «opere di finzione (works of fiction)» con le quali – aggiunge – «l’attuale generazione sembra deliziarsi in modo particolare». Relation of events è invece il termine che compare nell’influente saggio di John Hawksworth sull’«Adventurer» del 18 novembre 1752. Ci fu pure chi riuscì a trattare del romanzo senza dargli un nome, come fece il proteiforme e bizzarro John Hill, giornalista e letterato, uomo di cultura giuridica e medica10, che pur dedicò al nuovo genere letterario tutto l’editoriale del 3 febbraio 1752 del suo quotidiano «The London Daily Advertiser». La prima occorrenza del termine novel nell’accezione di ro­ manzo moderno11 si trova nella prefazione a The Adventures of Ferdinand Count Fathom, del 1753, dove Tobias Smollett scrive: Un romanzo è un grande affresco che comprende i personaggi del­ la vita reale disposti in gruppi diversi ed esibiti in vari atteggiamenti, secondo gli intenti di un disegno uniforme e di un evento generale, a cui ogni figura individuale è assoggettata. Ma questo disegno non

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si può mandare a effetto con decoro, probabilità o successo, senza un personaggio principale che attiri l’attenzione, unifichi gli incidenti, dipani il bandolo del labirinto e alla fine chiuda la scena in virtù della sua importanza12.

Notiamo la menzione del «grande affresco» e del «disegno uni­ forme», che si riferiscono in tutta evidenza alla varietà e all’unità del racconto. E notiamo anche la necessità espressa di attirare l’attenzione del lettore contemporaneo. Passarono tuttavia altri due decenni prima che il termine ‘no­ vel’ si affermasse definitivamente; ma intanto sempre più scontato era che il romanzo dovesse apparire come una narrazione forte­ mente accorpata. Dopo la metà del secolo, questa unità narrativa si configura come un tratto che ogni racconto deve possedere, sia esso di finzione che storico. Qualcosa su cui si dibatteva già da secoli, trova ora la sua appropriata attuazione e diviene conditio sine qua non di ogni romanzo ben fatto13. Per esempio Tobias Smollett si premura, in una recensione delle Memoirs of a Coxcomb (1751) di John Cleland apparsa sulla «Monthly Review», di garantire che «la storia è ben connessa, e cresce di importanza dall’inizio alla fine»14. Mentre The Adventures of Miss Beverly viene recensita negativamente, per quanto su ben tre pagine della «Critical Review» del 1768, poiché «assomi­ glia alle parti separate di un polipo. Infatti, anche se tutte vanno strisciando nei paraggi, non possono essere condotte a formare un intero. Non presentano alcun ordine, né alcuna coerenza»15. Invece, una recensione del 1794 estremamente positiva di The Mysteries of Udolpho di Ann Radcliffe, apparsa su dieci pagine della «Critical Review», ne loda diffusamente l’«unità del pro­ getto» assieme alla varietà «di un contrasto ben organizzato»16. A fine secolo, l’unità narrativa è oramai considerata un elemento assolutamente imprescindibile del romanzo. Ma lo è, non nella sua forma tradizionale, bensì in una nuova. Unità percepita Che l’unità sia ora concepita in modo diverso da prima lo mo­ strano con tutta evidenza due articoli, rispettivamente di Samuel

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Johnson e di John Hawsworth, che per la loro vena divulgativa esercitarono una notevole influenza sul gusto. Nel numero 139 del «Rambler» (16 luglio 1751), Johnson af­ ferma che in una narrazione «i passaggi intermedi devono unire l’effetto finale con la prima causa, attraverso una concatenazione regolare e ininterrotta; nulla deve perciò essere inserito che non ap­ paia sorgere da qualcosa di precedente e dar luogo in modo chiaro a qualcosa che consegue». Perciò, l’autore di una «well constituted Fable» deve far sì che nessuna parte di un racconto possa essere staccata senza danneggiare il resto, ma che «dalle fondamenta ai pinnacoli le parti poggino saldamente l’una sull’altra». Nel numero 4 di «The Adventurer» (1752) appare la seguente affermazione: «È sempre necessario che i fatti abbiano l’aria di ve­ nir generati in serie regolari e connesse, in modo da susseguirsi con rapida successione; e tuttavia essi debbono essere presentati con circostanze che li differenzino. Se non hanno connessione evidente e necessaria, le idee che suscitano si cancellano l’una con l’altra, e la mente viene ingannata da un’apparizione fuggevole e imperfetta di innumerevoli oggetti che, appena spuntati, subito svaniscono». Ora si parla di rapporti causali che creano l’effetto di concate­ nazioni ininterrotte di fatti, i quali appunto «devono aver l’aria» di derivare l’uno dall’altro affinché le idee non si cancellino l’una con l’altra. L’osservatorio è evidentemente posto nella mente del lettore, di cui si osservano i processi cognitivi, descrivendoli nel linguaggio dell’associazionismo filosofico e psicologico. Gli articoli del «Rambler» e dell’«Adventurer», seppur influen­ ti, non dicevano in realtà nulla che non fosse già presente in un passo della Ricerca sull’intelletto umano di David Hume17. Sof­ fermiamoci dunque su questo brano, che mi pare sia stato finora trascurato da filosofi e letterati. Che Hume fosse interessato a comunicare in modo efficace è cosa nota. Egli «concepì sempre la sua filosofia in termini letterari [...] desiderando assicurare a un vasto pubblico che aveva ragione e che essi potevano tranquillamente condividere la sua fiducia». Così scrive John Richetti18 in un libro che ben mostra come la mo­ dalità comunicativa sia centrale per il pensiero humiano, il quale proprio mediante l’aspetto formale del discorso mette in scena l’incertezza e mina la perentorietà della filosofia della conoscenza imperante all’epoca19.

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La comunicazione è per Hume anche un elemento essenziale della stessa vita umana, in quanto egli ritiene che una mente chiu­ sa in sé non possa conseguire la felicità, che invece trova solo se comunica con gli altri20. È dunque sulla base di queste esigenze che si spiega l’attenzio­ ne humiana per il linguaggio e per la risposta dei destinatari, tra cui il pubblico dei lettori, come si vede molto bene anche in My Own Life, l’autobiografia intellettuale che il filosofo scrisse a ri­ dosso della morte21. Inoltre, Hume testimoniò il suo interesse per le forme del comunicare pure in vari saggi, da «Of Eloquence» a «Of Simplicity and Refinement in Writing», da «On Essay Wri­ ting» a «On Tragedy»; oltre che nelle tante osservazioni sparse nelle opere più importanti, specialmente nel Trattato. È indubbio, dunque, che egli fosse molto attento alla comunicazione; e il più delle volte si tratta di quella scritta. Dopo Cartesio, d’altronde, la disputa filosofica pubblica era quasi scomparsa in filosofia, e si era sviluppato un senso inten­ so dell’origine privata e intima del pensiero filosofico, significa­ tivamente chiamato meditazione, saggio, trattato22. La filosofia moderna stava infatti emergendo all’interno di generi discorsivi diversi da quelli precedenti, che dapprima assunsero toni deli­ beratamente antiprofessionali, professionalizzandosi poi a partire da Kant23. Il passo della Ricerca sull’intelletto umano cui accennavamo più sopra, e nel quale a mio avviso Hume dà importanti indica­ zioni su come scrivere in forma di racconto, esamina il rapporto tra testo e mente del lettore. È un passo che le edizioni odierne non contengono, salvo ov­ viamente quelle critiche che portano in nota le varianti, ma che era invece presente in tutte le edizioni a partire dalla prima – stampata per Andrew Millar nell’aprile del 1748 con il titolo di Philosophical Essays Concerning Human Understanding24 – fino all’ultima, apparsa quando Hume era ancora in vita. Scomparve invece nell’edizione postuma del 1777, che il filosofo stesso aveva approntato prima di morire. Il brano25 era collocato alla fine della terza sezione, quella in­ titolata «Of the Association of Ideas». Nell’edizione del 1777 – e dunque in quelle ora in circolazione, che si basano su tale edi­ zione – la sezione è molto breve e termina con la frase: «Quanti

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più casi esamineremo e con quanta maggior cura, tante più ga­ ranzie avremo che la sintesi che formeremo da quel tutto è intera e completa». Quelle precedenti seguitavano invece così: «Piuttosto che en­ trare in tali dettagli [...] prenderemo in cosiderazione alcuni degli effetti che questa connessione ha sulle passioni e sull’immagina­ zione; dove possiamo aprire un campo di riflessione più diverten­ te e forse più istruttivo dell’altro». Seguivano alcune pagine che illustravano tali affermazioni. Queste esamineremo qui di seguito, perché riguardano proprio il tema del presente libro26. Nella terza sezione della Ricerca, Hume afferma, come è ­noto, che la mente umana funziona associando le idee sulla base dei ‘princìpi’ di contiguità, somiglianza e causa-effetto, ciascuno dei quali egli illustra con degli esempi. Quelli che troviamo nelle edi­ zioni odierne, basate appunto sull’edizione del 1777, sono tratti dall’esperienza quotidiana e riguardano la mente lasciata a se stes­ sa o stimolata da oggetti e fatti esterni. Nelle pagine eliminate, tut­ tavia, il bacino degli esempi era più ampio e includeva il pensiero guidato da un testo narrativo. In altre parole, nel brano oggetto della nostra attenzione Hume mostra come funzioni il rapporto tra testo e mente del lettore quando si tratti di comunicazione narrativa, sia di finzione che storiografica. Egli mette a fuoco gli effetti del racconto scritto sull’immaginazione e sulle «passioni» del lettore. Per dirla in termini moderni, le diverse pagine che chiudevano tutte le edizioni della prima Ricerca precedenti a quella del 1777 trattano dell’atto della lettura. È significativo che il filosofo inserisse proprio qui delle consi­ derazioni sulla comunicazione scritta; che le inserisse, cioè, dove parla dei modi del pensiero. È significativo perché indica che per lui il processo della lettura è simile a quello del pensiero: avanza in base alla medesima combinatoria associativa e intrattiene rapporti analoghi con l’immaginazione e le passioni, condividendone la temporalità27. Hume si riferisce scontatamente, direi, alla lettura silenziosa, assimilandola al pensiero. La pagina stampata transita veloce per la vista e giunge alla mente già sotto forma di significato e di im­ magini, indistinguibili dal pensiero lasciato a se stesso. Rispetto a questo modo di leggere, il brano propone una retorica del rac­

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conto e una forma narrativa modellate sulla «scienza della natura umana». Vale la pena di seguirne passo passo l’argomentazione, in cui non è difficile cogliere l’origine delle considerazioni di Samuel Johnson e di John Hawksworth che abbiamo esposto più sopra. L’essere umano, afferma Hume, è alla continua ricerca della felicità, che spera di conseguire gratificando una qualche passione o un qualche affetto. Perciò raramente agisce, parla o pensa senza un’intenzione e senza aver presente uno scopo. Essendo tale la na­ tura umana, quando gli autori si accingono a scrivere devono ave­ re in mente un piano e seguirlo il più possibile fino in fondo: «Una produzione senza progetto assomiglierebbe alle farneticazioni di un pazzo, piuttosto che agli sforzi sensati del genio e dell’erudizio­ ne». Dunque, «poiché questa regola non ammette eccezioni, ne consegue che nelle composizioni narrative gli eventi o azioni che lo scrittore racconta debbono essere tra loro connessi da qualche legame o vincolo: debbono essere collegati l’uno all’altro nell’im­ maginazione e formare un tipo di Unità che possa immetterli tutti in una medesima prospettiva»28. È perciò indispensabile che ogni genere di racconto – anche quello storiografico, come Hume dirà subito dopo – sia dotato di unità. È evidente che l’unità cui il filosofo qui allude non è la me­ desima di cui parlavano Giraldi Cinthio e Scudéry. Non è il ri­ specchiamento di un dato esterno, di un ordine che sarebbe già presente nelle cose; e non è neppure un elemento che risiede nel testo in sé, come per esempio la simmetria o l’equilibrio delle parti, ma è piuttosto un evento che accade nell’immaginazione del lettore all’atto della lettura. È qualcosa che si produce nel luogo dell’attività mentale del lettore al suo incontro con il testo. Questa unità sorge nella comunicazione, nel rapporto tra sog­ getto lettore e oggetto testo. È, insomma, un effetto cognitivo: il testo appare unitario a chi legge. È esperienza di unità; è unità percepita e si verifica nei confronti di quegli scritti in cui i fatti29 sono connessi in base ai meccanismi che regolano i processi mentali. Ecco la differenza rispetto all’idea di unità che avevano i secoli precedenti e che i racconti di quei secoli incarnavano. Ecco la nuova ottica da cui scaturirà il romanzo. A questo punto Hume riprende i ‘princìpi’ di somiglianza, con­ tiguità e causa-effetto da lui illustrati nella prima parte della terza sezione, proponendo un diverso gruppo di esempi. Se in quella

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prima parte questi erano stati tratti dalla vita quotidiana, qui essi attengono tutti alla narrativa. È una differenza dalle implicazioni non trascurabili, perché Hume qui non prende in considerazione i ‘contenuti’ della narrativa – gesta di eroi o vita quotidiana di bor­ ghesi, naufragi e avventure – ma il modo di configurare gli intrecci e collegare i fatti, anche nella loro dimensione temporale. Contiguità e somiglianza, scrive qui il filosofo, uniscono in modo decisamente più lasco del rapporto di causa ed effetto, che perciò è quanto accorpa più di frequente tutti i tipi di racconto. Lo storico, per esempio, che prende a tema una certa porzione di quella grande catena di eventi che compone la storia dell’umanità; deve cercare, nella sua narrazione, di toccare ogni maglia di questa catena. A volte un’inevitabile ignoranza rende vani tutti i suoi tentativi; a volte egli supplisce con congetture alla mancanza di conoscenza; e sempre egli è consapevole che quanto più ininterrotta è la catena che presenta ai suoi lettori tanto più perfetta è la sua produzione. Egli vede che la conoscenza delle cause non è solo la più soddisfacente, in quanto questo rapporto o connessione è il più forte di tutti; ma è anche la più istruttiva, perché mediante questa sola conoscenza noi siamo messi in grado di controllare e indirizzare il futuro30.

Fin qui Hume sembrerebbe riferirsi esclusivamente all’atto della scrittura e alla mente dell’autore; poi però egli fa incontrare l’autore con il suo lettore, affermando che la catena delle connes­ sioni verrà percepita da quest’ultimo come unità del racconto. Va subito notato come l’idea humiana di unità non si ponga come un tratto puramente formale, ma subito apra all’idea di co­ noscenza. Come avevano fatto gli autori del Cinque e del Seicen­ to, che pur concepivano l’unità in modo diverso, anche Hume la colloca su due livelli: uno formale e l’altro filosofico, in stretta relazione reciproca. Più oltre nel brano che stiamo scorrendo, Hume afferma che un’unità come quella indicata è indispensabile in ogni narrazione: biografica, storica o epica (termine, quest’ultimo, che all’epoca comprendeva qualsiasi racconto di finzione) che sia. L’unità nar­ rativa fa sì che «gli attori (di una narrazione scritta, appunto) si affrettino verso un qualche momento ragguardevole, che soddisfa

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la curiosità del lettore. [...] L’immaginazione, dello scrittore e del lettore a un tempo, è [...] ravvivata, e le passioni [...] infiammate [...]». Poi seguita: «consideriamo ora l’effetto di queste due circo­ stanze, una immaginazione ravvivata e delle passioni infiammate [...] ed esaminiamo la ragione per cui esse richiedono un’unità più forte e stretta della favola»31. In sintesi (e disambiguando alcuni passaggi), Hume sostie­ ne che l’unità percepita dal lettore, cioè quella prodotta nella sua mente da una narrativa che imiti i meccanismi mentali di associazione delle idee, serve a far scorrere la narrazione verso un’agnizione (finale o temporanea) nella quale la curiosità del lettore, che è quanto lo ha spinto ad affrettarsi nella lettura, viene finalmente soddisfatta. Il naturale protendersi della mente verso il futuro32 e la connessione dei fatti serviranno a creare una sorta di pedana su cui scorrerà la lettura sotto la spinta della curiosità. Durante il percorso, l’immaginazione si ravviverà e si infiammeranno le passioni. Della «curiosity» Hume aveva più volte parlato nel Trattato, specie nella decima sezione del secondo libro, terza parte, ad essa specificatamente dedicata; e in un’altra intitolata «Of the Causes of the Violent Passions», dove aveva affermato che le passioni si rafforzano tra loro vicendevolmente. La curiosità rinvigorisce la passione cui si aggiunge, portandola a volte fino alla frenesia. Scrive: È artificio comune dei politici, quando vogliano colpire fortemente una persona qualsiasi con un fatto di cui intendono informarlo, susci­ tarne dapprima la curiosità, rimandarne il più possibile la soddisfazio­ ne e in quel modo accrescerne al massimo l’ansia e l’impazienza, prima di dargli un panorama completo della questione. Essi sanno che la curiosità lo precipiterà nella passione che essi intendono suscitare33.

Ripete la stessa idea nel saggio «Of Tragedy»: Se tu avessi intenzione di intenerire una persona al massimo con la narrazione di un qualsiasi evento, il metodo migliore per accrescerne l’effetto sarebbe di ritardare di proposito ad informarlo ed eccitare la sua curiosità e la sua impazienza prima di dargli accesso al segreto. Questo è l’artificio praticato da Jago nella famosa scena di Shakespea­ re; ogni spettatore è consapevole che la gelosia di Otello acquista forza

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aggiuntiva dalla sua precedente impazienza, e che questa passione su­ bordinata qui presto si trasforma in quella predominante34.

Il metodo consiste dunque nel suscitare dapprima la curiosità, per poi farla diventare impazienza ritardando la notizia che la soddisferà. In termini moderni, potremmo dire che Hume nota che l’attesa35, la quale è uno stato affettivo orientato verso il futu­ ro, amplifica le emozioni su cui si innesta e genera quel senso di tensione e di ansia che, almeno da Freud in poi, sappiamo esserne il nucleo emotivo. Per tornare alla fraseologia humiana pur rimanendo anco­ ra per un po’ fuori dal brano che stiamo esaminando, il ritardo nell’ottenere l’informazione desiderata induce incertezza – uncertainty – e questa provoca l’ambiguo sentimento di uneasiness, che è appunto una sorta di ansia che si somma alla passione principale e la soffonde del suo proprio tono. Otello attende di sapere se la sua gelosia abbia o meno ragione di essere, e questa si intensifica e diviene spasmodica quando il ritardo si prolunga. Perché, riba­ disce Hume, «le difficoltà accrescono ogni tipo di passione e, ri­ svegliando la nostra attenzione ed eccitando le nostre potenzialità di azione, producono un’emozione che nutre quella prevalente». La difficoltà nel soddisfare una curiosità o un desiderio allerta le persone nell’attesa e ne suscita l’ansia, la quale rafforza lo stato affettivo principale, cioè quello che ha destato la curiosità o il desiderio. Il ritardo, dice ancora Hume, serve ad accrescere non solo le passioni sgradevoli ma pure quelle gradevoli: «l’assenza è una grande fonte di rammarico presso chi ama, e crea la più grande inquietudine. Tuttavia nulla è più favorevole alla mutua passione dei brevi intervalli di quel tipo»36, che rendono trepida l’attesa e forniscono linfa all’amore. Ma la separazione non potrà durare a lungo: il tempo dell’attesa dovrà essere, come leggiamo sopra, breve. Se è così che opera l’attesa nella vita, non diversamente sarà per quella suscitata dalla lettura. Come, precisamente? In que­ sto è implicata la sympathy, l’empatia, la propensione dell’essere umano a «recepire, tramite la comunicazione, le inclinazioni e i sentimenti» degli altri37, immedesimandosi in loro e superando i confini della propria soggettività, con l’assumere su di sé il pa­

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timento o la gioia altrui38. È questo un fenomeno così notevole, dice Hume nell’undicesima sezione della prima parte del secondo libro del Trattato, che merita tutta la nostra attenzione: Quando un qualsiasi affetto è infuso per simpatia, all’inizio viene conosciuto solo mediante i suoi effetti e mediante quei segni ester­ ni nell’espressione del viso e nella conversazione che ne trasmettono un’idea. Questa idea è subito convertita in un’impressione e acquisisce un tal grado di forza e di vivacità da diventare la passione stessa e da produrre un’emozione uguale a qualsiasi stato affettivo originario39.

La posizione di Hume sull’empatia (sympathy) è nota e molto studiata; in questo contesto a noi interessa solo far notare che per il filosofo occorre del tempo affinché essa attivi un’emozione. La sympathy sorge nella vita nei confronti di altri esseri umani e anche nei confronti dei personaggi di cui leggiamo le storie e nei quali ci immedesimiamo, condividendone le emozioni. Insom­ ma, degli individui rappresentati in un racconto possono destare sympathy in individui reali. I lettori la proveranno infatti di fronte a personaggi con i quali il testo li avrà fatti entrare in consonanza, e avvertiranno in se stessi le passioni che agitano quelli, facendo propria ogni loro incertezza e ansia. Ma come avviene secondo Hume questo passaggio simpateti­ co in letteratura, visto che la situazione in cui un individuo legge è ben diversa da quella che innesca la sympathy nella vita reale? Per il filosofo il passaggio non è – appunto – mai immediato e richiede sempre un lasso di tempo, anche se breve. Questo avverrà a maggior ragione di fronte a un testo, per cui non basterà trovar nominate le passioni dei personaggi per sentirsele sorgere durante la lettura. Non basterà, poniamo, leggere che un personaggio è minacciato da un pericolo per provare la paura e l’angoscia di quel personaggio. Nessuna incertezza, nessuna curiosità, nessuna an­ sia compariranno a queste condizioni nell’animo del lettore. Egli avrà semplicemente la fredda idea di quell’ansia, di quel terrore o di qualsiasi altra emozione. Mostrare un personaggio in preda alle passioni, oppure nello spasimo dell’attesa non è sufficiente, insisto, a generare passione e attesa in chi legge: occorre ben altro perché si apra il canale della sympathy. Occorrono delle modalità comunicative adeguate.

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Questo Hume mostra proprio nelle pagine che stiamo scorren­ do, dove dà suggerimenti agli scrittori su come attivare nei lettori le emozioni mediante il racconto scritto. Per prima cosa, dice, è necessario presentare situazioni il più possibile concrete. È im­ portante che di un personaggio o di un evento si mostrino i tratti specifici, i particolari, le minute circostanze. È la prossimità con l’oggetto a creare il giusto ambiente per le passioni40. La narrativa di finzione, quando è ben fatta, ci accosta infatti agli oggetti, getta su di loro una luce più forte e delinea più distintamente quelle minute circostanze che [...] servono in modo potente a dar vita alle immagini mentali e a gratificare la fantasia. Anche se non serve infor­ mare, come fa l’Iliade, ogni volta che l’eroe chiude la fibbia delle scar­ pe o si aggancia le giarrettiere, tuttavia sarà forse opportuno entrare in maggiori dettagli di quanto non faccia l’henriade, dove gli eventi scorrono con tale rapidità, che a malapena abbiamo l’agio di essere messi a conoscenza di una scena o di un’azione41.

Questo perché le idee generali hanno un rapporto scadente con l’immaginazione e con le passioni, laddove sono invece quelle particolari a dare loro vita. Mentre il panorama si distende davanti agli occhi del lettore; mentre il ritmo narrativo indugia su eventi che non sono intesi a portare avanti l’azione bensì ad arredare la scena con precisione e varietà di particolari; mentre, insomma, i fatti sono mostrati fin nei dettagli e non invece come se li ve­ dessimo da una carrozza in corsa – per ripetere la metafora con la quale Henry Home Lord Kames critica anch’egli l’Henriade voltairriano, e per la medesima ragione del cugino Hume42 – l’im­ maginazione si attiva al meglio ed emozioni e sympathy assumono forza. Il lettore si immedesima nei personaggi e in breve tempo è portato a viverne le passioni. Si incuriosisce allora sul loro destino e ogni ritardo che li riguardi fa sorgere in lui l’ansia, l’uneasiness dell’attesa, con la voglia di porvi termine al più presto. Ciò lo spinge a leggere sempre oltre, fino a che la sua curiosità sul loro destino non sia soddisfatta. Detto questo, il problema per Hume non è però ancora risolto del tutto. C’è un ulteriore tratto da percorrere, qualcosa da chia­ rire che nel brano rimane implicito, anche se non privo di tracce. L’atto della lettura mette in gioco l’immaginazione e le passioni. È possibile sollecitarle entrambe contemporaneamente?

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Nel Trattato, Hume aveva affermato che tra immaginazione e passioni c’è consonanza43, salvo che per un aspetto fondamentale nel quale esse si contrastano, tanto che quel che dà vita all’una può raffreddare le altre. Leggiamo, sempre nel Trattato: se prendiamo in considerazione la mente umana, noteremo che, rispet­ to alle passioni, non è come uno strumento musicale a fiato che nel passare da una nota all’altra immediatamente perde il suono quando cessa il fiato; ma piuttosto assomiglia a uno strumento a corde, nel quale, dopo ogni tocco, le vibrazioni continuano a mantenere qualche suono che svanisce gradualmente e insensibilmente. L’immaginazione è estremamente svelta e pronta; ma le passioni al confronto sono lente e restie. Per questo, quando viene presentato un qualsiasi oggetto che offra una varietà di vedute all’una e di emozioni alle altre, benché la fantasia possa cambiare le sue vedute con grande celerità, ogni tocco non produrrà una nota di passione chiara e distinta, ma una passione sarà sempre mescolata e confusa con l’altra44.

Immaginazione e passioni non procedono all’unisono perché la loro natura si nutre di differenti temporalità. La prima è veloce e si attiva istantaneamente; le seconde sono più lente e lievitano soffermandosi sull’oggetto. L’una ama la varietà e si annoia nel­ la lentezza, le altre rimangono gelate con i cambiamenti troppo veloci. Insomma: immaginazione e passioni abitano dimensioni temporali diverse. Come conciliarle allora? È qui che entra in gioco quel tipo di unità che abbiamo incon­ trato più sopra e che serve proprio, dice sostanzialmente Hume nel brano che stiamo esaminando, a conciliare la temporalità delle passioni con quella dell’immaginazione: È evidente che in una composizione ben fatta tutte le emozioni eccitate dai diversi eventi, descritti e rappresentati, si danno forza l’una con l’altra e mentre [...] ciascuna azione è strettamente connessa con l’intero, l’interesse viene tenuto sempre desto e le passioni tran­ sitano facilmente da un oggetto all’altro. La stretta connessione tra eventi, mentre facilita il passaggio del pensiero o dell’immaginazione dall’uno all’altro, facilita anche la trasfusione delle passioni e mantiene le emozioni sempre nel medesimo canale e nella stessa direzione. [...] L’emozione è mantenuta quasi integra nella transizione, e la mente coglie subito il nuovo oggetto in quanto fortemente collegato a quello che aveva impegnato la sua attenzione in precedenza45.

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Ecco perché le digressioni sono deleterie in una narrazione: esse interrompono lo scorrere nel lettore delle emozioni. Detto questo, il filosofo torna a riferirsi alla funzione dell’unità rispetto alla curiosità e all’interesse del lettore: «Gli eventi seguono rapi­ damente e in strettissima connessione. L’interesse è mantenuto vi­ vo e, a causa della prossimità del rapporto tra oggetti, cresce con­ tinuamente dall’inizio alla fine della narrazione». Questo interesse non deve essere deviato da scene disgiunte e separate dal resto. Ciò interrompe il corso delle passioni e impedisce quella comunicazio­ ne delle diverse emozioni, per cui una scena aggiunge forza all’altra e trasfonde la pietà e il terrore che eccita su ciascuna scena susse­ guente, fino a che l’intero non produce quella rapidità di movimento che è propria del teatro. Come deve spegnere questo calore affettivo l’essere intrattenuti, improvvisamente, con una nuova azione e nuovi personaggi che non hanno alcun rapporto con i precedenti: trovare un’interruzione o un vuoto così vistosi nel corso delle passioni a causa di questa interruzione nella connessione delle idee46.

Le frasi successive, che chiudono il brano espunto dalle edizio­ ni post 1777, rivelano l’importanza attribuita dal filosofo al nodo di temi appena trattati, i quali si intersecano con questioni centrali del suo pensiero come il belief, l’identità personale e, appunto, la sympathy47. Così, rispetto alla narrativa di finzione e storica emerge con chiarezza una nuova prospettiva, che riguarda proprio la questio­ ne dell’unità, sul piano sia formale che epistemologico. Da questa nuova prospettiva emergeranno, nella prassi concreta della scrittu­ ra romanzesca, la risposta alla domanda che abbiamo visto aleggia­ re a lungo, e cioè come far assumere alla pagina stampata e letta in modo individuale nel chiuso della mente tutte le funzioni signifi­ canti ed emotive che in precedenza erano state svolte dal contesto vivace e animato della comunicazione corporea e sonora. Letture ed emozioni Per i suoi contenuti e per la sua stessa collocazione nella sezio­ ne della Ricerca sull’intelletto umano che tratta dei processi men­

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tali, il brano humiano evidenzia dunque un’idea di lettura come pratica interiore, in cui il contatto con il testo non è sentito come un rapporto con l’esterno. Tutto sembra svolgersi nell’interiorità, nel campo di forze dell’immaginazione e delle passioni. La lettu­ ra è intesa come pensiero guidato, un pensiero di cui condivide l’andamento associativo e la temporalità. Il tempo balza così al centro della riflessione. Esso d’altronde è costitutivo di qualsivoglia anche brevissima porzione narrativa, che per essere tale deve contenere almeno un verbo. L’esperienza temporale si articola sempre narrativamente e, a fronte, il raccon­ to disegna sempre un’esperienza temporale. Tuttavia, storicamente il rapporto tra tempo e lettura non è sempre stato quello delineato da Hume. Nell’antichità, la forma grafica dei testi costringeva i lettori a effettuarne una prelettura, anteriore a quella vera e propria in cui lentamente si dischiudeva il senso. Chi poi leggeva a un uditorio si doveva aiutare con la memoria non meno che con lo sguardo, per mantenere il ritmo appropriato a tenere vivo l’interesse48. La lettura era un’azione impegnativa, d’altronde, anche in epo­ che meno distanti, quando la pagina a stampa non aveva ancora acquisito l’ordine e la standardizzazione che la caratterizzano dal Settecento in poi. Gli spazi ristretti tra le lettere e i confini par­ zialmente offuscati tra parole non consentivano la messa a fuoco di un campo visivo ampio e imponevano numerose regressioni oculari, che prolungavano l’attività cognitiva e ne rallentavano il ritmo. Lettura e pensiero non potevano allora essere sentiti come sincroni. Dopo il Settecento, invece, l’impaginazione agevolò la deco­ difica, consentendo un sempre più facile riconoscimento globale delle parole e del senso. Nello scorrere della lettura lo sguardo poteva allora cogliere i contorni di più parole e la mente interio­ rizzava subito le informazioni49. Così leggeva Werther ad esempio; e per questo la sua reazione poteva essere tanto sensibile e simpatetica da spaventarlo. «Non voglio essere guidato, incoraggiato, infiammato», scrive nella let­ tera del 13 maggio, parlando di libri50. Un lettore su cui il testo può fare un simile effetto è evidente che decodifica le parole velocemente, registrandone il senso già in forma di immagini, che lo colpiscono e lo commuovono, renden­

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dolo empaticamente partecipe. Werther incontra alla sua epoca un tipo di stampa e possiede quei presupposti di competenza che consentono ai testi di catturare i propri lettori. Naturalmente, se sono costruiti per esercitare un tale potere. Ecco perché il giovane non vuole leggere gli scritti contempo­ ranei: «Questo mio cuore divampa già abbastanza da se stesso», «ho bisogno piuttosto di una ninnananna e questa l’ho trovata pienamente nel mio Omero». Un’affermazione per noi interes­ sante. Werther legge il suo Omero, cioè legge il poema epico da un libro stampato, probabilmente piccolo e maneggevole tanto da fargliene sentire il contenuto come suo personale, qualcosa di privato e di intimo. Lo legge, ovviamente, in silenzio e da solo. Il personaggio goethiano non fruisce dell’epica omerica come aveva fatto il pubblico per cui era stata composta e che sicuramente aveva provato emozione mentre gli aedi gliela cantavano. Egli ne fruisce in un modo che dobbiamo definire improprio, se lo con­ frontiamo con quello previsto da chi la componeva nel passato. Solo per questo Werther si può sentire acquietato da Omero. Gli ascoltatori dell’epica orale, infatti, mostravano un’eccita­ zione estroversa, nata dal gruppo e lì condivisa51. Se Omero fa invece a Werther l’effetto di una ninnananna, non è dunque certo perché quell’epica fosse calibrata per avere una funzione acquie­ tante, ma perché egli la legge e non l’ascolta; e in più la legge in si­ lenzio, nella solitudine della sua stanza. Senza gli elementi affettivi del contesto originario, Omero non attiva le emozioni originarie; ma neppure può indurre quelle dei testi creati apposta per una lettura individuale e privata. È così che un lettore dell’epoca di Werther può sentire i poemi omerici come una tranquillizzante ninnananna. In Occidente, alla fine del Settecento la lettura silenziosa è oramai il modo abituale di leggere, e la stampa, pienamente inte­ riorizzata, ha impresso negli individui la sua forma mentis. Così non era ancora, invece, durante i primi decenni del secolo, che avevano fatto solo i tre quarti del percorso. Lo mostra anche un libro di didattica che il prelato e noto poligrafo Isaac Watts scrisse per i figli di Sir Thomas Abney, di cui fu istitutore. The Art of Reading and Writing english: or, The Chief Principles and Rules of Pronouncing our Mother-Tongue, both in Prose and Verse; with a Variety of Instructions for True Spelling52 inizia con la domanda:

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What is reading? E prosegue, rispondendo: «Leggere è esprimere le parole scritte (o stampate) mediante i loro propri suoni». Scritto nel secondo decennio del Settecento, anche se pub­ blicato un po’ dopo, questo libro intende ancora la lettura come suono. Il testo lo ribadisce più volte, anche in modo implicito. Per esempio, nel capitolo intitolato «Of the Notes and Points Used in Writing and Printing», i paragrafi sono descritti non come unità di significato, ma come insiemi sonori separati da pause: «Alla fine di un paragrafo, o alla fine di una sezione, il lettore dovrebbe fare un’interruzione – una pausa – un po’ più lunga di quella che segue un normale punto». Due capitoli del libro, il quattordicesi­ mo e il quindicesimo, sono interamente dedicati ai toni di voce da usare per dar significato alla lettura. Si parla di enfasi, di cadenza, di pausa, ecc.; e la lettura silenziosa non è neppure nominata. In più, il libro dedica diverse pagine alla trattazione di figure tipografiche che definirei ‘della presenza’, nel senso che segnalano ciò che la voce deve fare a una lettura oralizzata. Alcune di queste figure sono oggi totalmente scomparse dai libri a stampa, mentre altre appaiono in numero molto ridotto. The Art of Reading spie­ ga, per esempio, la funzione di una serie di trattini diversificati per lunghezza, indicandoli come marche della reticenza, delle pause, di una soppressione di lettere o di parole. Illustra anche il senso di una manina (index or hand) come marchio grafico dell’importanza di un passo e della necessità di dare enfasi da parte di chi lo legge. Sono segnali che testimoniano l’attardarsi della voce nelle pa­ gine a stampa ancora durante i primi decenni del Settecento53, mostrando come la lettura ancora non rinunciasse completamente al suono e come però, contemporaneamente, il testo fosse alla ricerca dei modi per sostituirlo. Per questo sono indicati grafi­ camente i luoghi dove esso giocava (o aveva giocato) un ruolo fondamentale nella determinazione del significato e dell’effetto. Insomma, il testo stampato allora non aveva trovato ancora tutti i modi per rimpiazzare la voce, e proponeva perciò degli ibridi. Proprio questo faranno – e lo stiamo per vedere – alcuni scrittori ancora due decenni dopo. Solo nella seconda metà del Settecen­ to si compie infatti l’ultimo passo verso l’interiorizzazione della stampa, un fatto cognitivo e allo stesso tempo culturale. Il linguaggio humiano si riverbera presto nelle teorie narrative di vari autori, che ne condividono il sottofondo della «scienza

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della natura umana», utilizzata per rendere efficace la comunica­ zione scritta. I Philosophical Essays Concerning Human Understanding, il pri­ mo titolo sotto cui era apparsa la Research on Human Understanding, furono pubblicati nell’aprile del 1748 per Andrew Millar. Ora, Millar era anche l’editore54 per cui Henry Fielding proprio in quel periodo stava scrivendo il Tom Jones55 e che nel settembre del 1748 ne pubblicherà i primi tre volumi, mentre l’autore con­ tinuava a scrivere gli altri56. Tenendo conto delle successive e rav­ vicinate edizioni della Ricerca, sempre per lo stesso editore, Hu­ me e Fielding devono aver frequentato lo stampatore-libraio nel medesimo, lungo, periodo. Questo fatto può interessarci, perché era consuetudine all’epoca che gli autori si incontrassero presso la bottega del loro editore per discutere di quanto stavano scriven­ do; e, anche se si può dubitare che Hume lo facesse regolarmente, Fielding, dato il carattere e le abitudini, quasi di certo seguì questa pratica. Non gli deve essere dunque mancata l’occasione di legge­ re il libro del filosofo anche prima che uscisse; e, d’altronde, la sua biblioteca conteneva una copia proprio di quella prima edizione dell’aprile del 174857. Questo potrebbe significare che, mentre Fielding stava componendo il Tom Jones con tutte le osservazio­ ni di teoria narrativa che contiene, mentre affermava di essere il fondatore di una «nuova provincia dello scrivere»58, egli aveva per le mani proprio l’opera che conteneva il brano sulla narrativa che abbiamo appena finito di esaminare. Il Tom Jones rappresenta indubbiamente un lungo passo in avanti nella storia della narrativa. Anche se non siamo tra coloro che sostengono che sia romanzo nella sua forma compiutamente moderna, come sono invece, poniamo, le opere di Jane Austen, tuttavia la falcata di Fielding in quella direzione è notevolmente lunga. Vale dunque la pena di osservare il Tom Jones per un po’ da vicino. Un interlocutore vi è sempre presente: il lettore, con il quale il narratore intrattiene un dialogo costante: lo chiama learned reader, judicious reader, reader!, sagacious reader, our reader, my reader, my worthy friend, my young readers, ecc. Il narratore fieldinghiano ha sempre questo nome in bocca. Non ci sono ascoltatori, ma c’è un lettore, il quale, d’altronde, è esplicitamente anche comprato­ re: «L’interesse dei lettori è la grande regola della mia scrittura»,

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troviamo; e l’augurio, espresso fin dal capitolo iniziale è che questi «sia reso desideroso di continuare a leggere all’infinito»59. A lui viene chiesto di cooperare. «Il lettore è pregato di ricor­ dare»: così inizia il primo capitolo del terzo libro, che sollecita chi legge ad esercitare la propria «sagacia», colmando con induzioni le lacune lasciate dal testo. Anche il primo capitolo del decimo libro comincia rivolgendosi al lettore. Con un vocativo, questa volta: «Lettore [...] ti ammoniamo di non condannare troppo affrettatamente nessuno degli incidenti della nostra storia come superfluo ed estraneo al nostro disegno centrale, perché tu an­ cora non sai in qual modo quell’incidente è connesso con questo disegno». E poi: «che un miserabile rettile di critico pretendesse trovare errata una parte qualsiasi senza sapere com’è (connesso) tutto l’insieme e prima di essere arrivato alla catastrofe finale». È evidente il riferimento all’unità narrativa, che qui viene indi­ cata come l’elemento essenziale dell’opera e a cui spesso il narra­ tore nel Tom Jones si richiama. La lettura procederà trainata dalla curiosità, che indurrà ad avanzare congetture fino a che tutte le parti della storia non appariranno collegate tra loro. Anche altre affermazioni si collocano in questa prospettiva. Per esempio, nel nono capitolo dell’undicesimo libro c’è ancora un’allusione alle congetture: «t’inganni ben bene se credi che noi intendessimo, quando cominciammo questa grande opera, non lasciar nulla da fare alla tua intelligenza». Ed è nello scenario dell’interesse da suscitare nel lettore che si richiama l’importanza dei particolari – le «tante circostanze troppo spesso omesse dallo storico disavveduto» – e di una corretta gestione della temporali­ tà narrativa, la quale inciderebbe proprio su questo interesse. Si critica dunque il ritmo troppo veloce (IV, 1) e ci si chiede come il tempo dell’enunciazione narrativa possa tenere il passo con il tempo rappresentato narrativamente (II, 1). Nel Joseph Andrews, che Fielding aveva scritto circa sei anni prima, c’era molto poco di tutto ciò, anche se la spinta a speri­ mentare lì pure era forte. In quel caso, il suo referente era però Cervantes: «Written in Imitation of the Manner of Cervantes», reca infatti il frontespizio. Nel Tom Jones, invece, anche se il lin­ guaggio non è quello dell’associazionismo filosofico, i problemi cui si vuole dare soluzione e l’ottica orientata al lettore entro la quale si cerca tale soluzione sono gli stessi del brano di Hume. È

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per questo che qui il Don Chisciotte non può più essere un punto di riferimento. Le idee del filosofo scozzese sulla comunicazione narrativa, rese più chiare e contemporaneamente un po’ semplificate, ap­ parvero anche in un importante libro del cugino Henry Home Lord Kames, eminente filosofo egli stesso, magistrato, storico e giurista. Nel 1762 egli dava alle stampe gli Elements of Criticism, accolti molto favorevolmente dapprima in Scozia e in Inghilterra, poi in Germania e in Nord America60. Scopo dichiarato del libro è «mostrare, forse più distintamente di quanto finora non si sia fatto, che le regole genuine della critica derivano tutte dal cuore umano». La teoria della conoscenza humiana è qui messa al ser­ vizio di un’estetica da intendersi come i modi della percezione e del nostro sentire di fronte a un oggetto artistico. Partendo dalle emozioni e dalle passioni suscitate dalla realtà, Kames trasferisce poi l’osservatorio nella letteratura, che esamina da questo pun­ to di vista in un capitolo significativamente intitolato «Emotions caused by Fiction», il quale inizia proprio affermando che «le nostre passioni, lo sanno tutti, sono mosse dalle storie di fantasia così come dalla realtà»61. Ecco allora che occorre vedere che cosa possa suscitare le emo­ zioni nel lettore di fronte a un racconto; ed è a questo proposito che al centro del capitolo viene posta l’idea della loro temporalità. Scrive Kames: «È estremamente difficile che un singolo pensiero o una singola espressione producano compiutamente quell’emo­ zione. Il suo sorgere deve essere graduale e il risultato di reiterate impressioni. L’effetto di una singola espressione non può che es­ sere momentaneo, e se uno improvvisamente sente qualcosa come un’espansione o un’esaltazione della mente, l’emozione svanisce appena provata»62. Segue poi una trattazione dell’esperienza tem­ porale umana in termini di memoria e di attesa, nella quale ri­ troviamo il discorso humiano, corredato anche dall’idea di unità percepita, che Kames battezza «organic unity». Siamo giunti a un punto di svolta nella nostra argomentazione. Nelle pagine precedenti ho voluto attirare l’attenzione su alcuni autori che hanno avanzato teorie del racconto nelle quali coglia­ mo l’intento di dar soluzione ai problemi posti alla narrativa dalla diffusione della lettura individuale, silenziosa e veloce. Anche altri avrei potuto menzionare, ma sarebbe stato solo un ripetermi63,

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senza alcuna aggiunta sostanziale a quanto detto fin qui. Il mio intento non era un’esaustività numerica, ma una completezza ar­ gomentativa: intendevo mostrare come gli scrittori fossero consa­ pevoli di quello che oggi chiameremmo l’aspetto cognitivo della comunicazione. Non in termini storici, certo: non dicevano che la narrativa doveva cambiare perché c’era stata una rivoluzione della lettura e la nuova società dell’informazione64 la esercitava ora come un’attività privata e tutta individuale. Questo no, ma si rendevano però conto che le precedenti forme del racconto non soddisfacevano cognitivamente i lettori e che la temporalità da loro sviluppata non si sincronizzava più con l’esercizio della pra­ tica. Si rendevano conto, insomma, che leggendo in silenzio e con il ritmo con cui si leggeva all’epoca, la narrativa del passato non attivava la memoria e l’attesa dei destinatari nel modo appropriato a suscitare il loro interesse e le loro emozioni. Naturalmente, oltre alle teorie c’erano anche le sperimenta­ zioni narrative. E a mio avviso il romanzo moderno nacque da un continuo andirivieni tra proposte ‘narratologiche’ e prassi narra­ tiva, entrambe attivate dai nuovi problemi posti dalla rivoluzio­ ne settecentesca della lettura. Prima ancora del bisogno di dare voce ad ambienti sociali e a tipi umani in precedenza inesistenti o sottorappresentati, l’‘invenzione’ del romanzo rispose infatti a un’esigenza cognitiva che si stava determinando a seguito del radicarsi dell’alfabetizzazione in un numero sempre maggiore di persone, a seguito della standardizzazione delle lingue e a seguito dei perfezionamenti tecnologici che abbiamo visto accumularsi ancora all’altezza della seconda metà del secolo. Ciò evidentemente non prescindeva dalle esigenze del mer­ cato: tutt’altro. Con la possibilità offerta dalla tecnologia di pro­ durre libri sempre più facilmente, esso a sua volta era indotto a sollecitare la domanda dei nuovi lettori, che ora poteva ben sod­ disfare65. Chiedeva perciò dei modelli narrativi che inducessero a consumare il prodotto libro sempre più rapidamente, perdendo il desiderio di rileggerlo. Occorreva che il lettore leggesse veloce­ mente fino in fondo, per poi comprare altri libri. E gli scrittori settecenteschi accontentarono questo merca­ to, usando nella loro sperimentazione le conoscenze sulla mente umana. Quando Sainte-Beuve sosteneva che «il grande vantaggio del

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romanzo è precisamente quello di essere sfuggito fino ad ora a qua­ lunque teoria e a qualunque regola»66, diceva solo una mezza verità. Certo, il romanzo non seguiva le regole pseudoaristoteliche, ma non era vero che non ne seguisse alcuna. Seguiva appunto quelle della mente umana. Se Fielding scriveva: «non mi considero responsa­ bile verso alcun tribunale di giurisdizione critica, poiché sono io in realtà il fondatore di una nuova provincia delle lettere e quindi libero di farci le leggi che voglio»67, all’atto pratico era però atten­ tissimo proprio alle «leggi della natura umana». Conosceva dunque già la risposta Laurence Sterne, quando si chiedeva: «È l’uomo che deve seguire le regole, o sono le regole che devono seguire lui?»68. Temporalità e ornamenti grafici Il romanzo è quella forma narrativa in cui giunge a completa­ mento il processo di assegnazione di tutte le funzioni significanti ed emotive all’elemento puramente verbale, cioè alle sole parole stampate sulle pagine di un libro. Prima che ciò avvenga, tuttavia, la narrativa attraversa una breve fase di sperimentazioni grafiche69. Gli storici della letteratura hanno finora prestato scarsa atten­ zione alle forme grafiche delle prime edizioni dei romanzi set­ tecenteschi, salvo che nel caso del Tristram Shandy di Laurence Sterne, che anche nelle edizioni odierne ne mantiene i giochi, seppur con una vistosità stemperata rispetto al Settecento. È sta­ ta piuttosto la storia del libro ad attirare di recente l’attenzione su questo tratto della materialità testuale, fornendo informazioni che mi paiono preziose e sulle quali intendo qui soffermarmi. Nel 2003 usciva Graphic Design, Print Culture, and the EighteenthCentury Novel di Janine Barchas, che tratta con grande percet­ tività dell’aspetto grafico delle prime edizioni di alcuni romanzi inglesi del Settecento, con l’intento di mostrare l’aspetto visivo di «quel genere letterario in quanto libro stampato [...] l’impagina­ zione, le prefazioni elogiative, le pagine finali, la sua grafica, [...] la punteggiatura e l’ornamentazione». Questi, sostiene l’autrice, erano in quelle edizioni tutt’altro che accidentali e privi di signi­ ficato, come per tanto tempo invece si è creduto. Il romanzo del Settecento non è solo frutto di una sperimentazione linguistica e strutturale, ma è anche il risultato di una serie di tentativi grafici,

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tanto che «gli effetti letterari dei primi romanzi dipendono non poco dal loro aspetto grafico di libri stampati»70. È ipotizzabile che la sperimentazione narrativa avvenisse an­ che sul piano della materialità della stampa, perché nel Seicento e nel Settecento l’arte dello scrivere e il mestiere di stampatore-li­ braio non erano poi così distanti71. Basti pensare, sempre in ambi­ to britannico, a Richard Head, Francis Kirkman, John Dunton72, Samuel Richardson, Edmund Curll73, tutti scrittori e stampatori a un tempo. Ma anche molti che furono esclusivamente scrittori fecero un ampio uso di elementi grafici. Per esempio Delarivier Manley, Eliza Haywood, Frances Burney e Henry Fielding, che pure si era opposto alle gincane grafiche della sorella Sarah74. Perché si fece ricorso a mezzi tipografici per la sperimenta­ zione narrativa? Intanto, scrive Barchas, va detto che le forme visive molto diverse fra loro in cui si presentavano i primi romanzi fanno pensare che inizialmente mancasse la consapevolezza che si trattava di un medesimo genere letterario, e che questa consape­ volezza divenisse operativa anche sul piano grafico con una certa gradualità75. Per esempio, la narrativa di Daniel Defoe procedeva tutta difilato, con frasi lunghissime e senza l’interruzione dei capi­ toli; mentre quella di Fielding presentava divisioni in capitoli con titoli elaborati, anche in funzione ironica e straniante. In più, il Tristram Shandy non intervenne, come spesso ancora si sostiene, a scardinare con le sue stranezze un genere letterario già stabil­ mente codificato, ma sul piano grafico semplicemente accentuò quanto avevano fatto altri scrittori fin dal secolo precedente. Nel Settecento, due erano in pratica le funzioni assegnate all’apparato non verbale dei testi. Una di marketing, per attirare compratori di quello stesso libro e di altri del medesimo stampa­ tore-libraio che vi erano reclamizzati; e l’altra comunicativa, per suscitare emozione nei lettori. È questa funzione che ci interessa illustrare ora. Per quanto poco noto, è un dato di fatto che Samuel Ri­ chardson facesse un uso tutt’altro che parco degli sperimenta­ lismi grafici, soprattutto in Clarissa. Se la storia della letteratura questo non lo ha registrato, è perché gli elementi grafici vennero fatti scomparire dopo l’ultima edizione sulla quale il romanzie­ re intervenne direttamente, cioè quella del 1759. Dopo di allora,

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«svanì dal romanzo lo spartito musicale disegnato appositamente – e svanì pure la dimensione temporale e psicologica racchiusa nell’ornamentazione originaria dell’opera»76. Questo è un aspetto interessante e va esaminato da vicino. Nella lettera IX, alla pagina 50 del secondo volume della prima edizione di Clarissa. Or, The History of A Young Lady: Comprehending The Most Important Concerns of Private Life77, edizione sulla quale ho lavorato per la stesura del presente libro, troviamo uno spartito musicale piegato a metà e attaccato tra le pagine. Doveva essere una sorpresa per il lettore di allora, ma non tanto quanto lo è per quello odierno. Un gioco con la materialità della stampa? Così lo interpreta Janine Barchas, ma a mio avviso si trat­ ta di qualcosa di più di un gioco. Era, secondo me, un tentativo di mimare quel contesto dell’enunciazione che la lettura silenziosa aveva spazzato via. Nei primi romanzi, molte delle eroine sanno suonare e cantare: tutte quelle di Richardson, per esempio; quelle di Jane Austen, e altre78. Era d’altronde un fatto comune, all’epoca, che le ragazze di buona famiglia praticassero la musica; e Richardson inserisce uno spartito tra le pagine del romanzo come un invito a chi leggeva a trasformare in musica quelle note, e ad attualizzare l’esperienza musicale che le parole potevano invece solo menzionare fredda­ mente. Facendo di nuovo vibrare in suono quei segni, le giovani, che basta scorrere l’epistolario dello scrittore per vedere quanta importanza avessero tra il suo pubblico, avrebbero ricreato nella realtà un po’ del mondo rappresentato dal romanzo. Inserendo quella pagina, l’autore delega così al lettore l’atto di ricreare un contesto, riportando lo spartito a suono proprio come la lettura ad alta voce nei salotti riportava a suono le parole. E, in questi salotti, ogni tanto si faceva anche musica. È dunque un gesto mimetico quello che compie Richardson con questo sparti­ to, un tentativo appunto di riprodurre l’atmosfera musicale, non rappresentandola simbolicamente o ricreandone l’effetto con altri mezzi, come avverrà in tutto il romanzo successivo, ma facendo scivolare delle note musicali pari pari tra le parole del testo stam­ pato, in attesa della loro attualizzazione nel contesto reale. Un tentativo che rivela il desiderio di risarcire la narrazione della perdita del suono e del contatto tra chi legge e chi ascol­ ta. Un tentativo che risultò ingenuo e fallimentare, proprio come

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quelli analoghi di inserire spazi bianchi oppure segni grafici per riprodurre l’esperienza del tempo che passa, come Richardson fa in Pamela e ancora in Clarissa. Mentre avveniva il definitivo abbandono del canale sonoro per riservare l’insieme intero della comunicazione al discorso stampato traversato dallo sguardo di ogni singolo lettore, il romanzo sperimentava le ultime traduzioni mimetiche del contesto reale nel testo. Fino ad allora, la comuni­ cazione narrativa aveva continuato a servirsi di una commistione di codici; poi, ci saranno solo un codice e un canale. Ma perché fallì il tentativo di tradurre graficamente la musica e il tempo che passa? Per rispondere, dobbiamo continuare a os­ servare il romanzo di Richardson, facendoci guidare ancora per un po’ da Janine Barchas. Il quinto capitolo di Graphic Design, intitolato «Lo spazio del­ la temporalità: grafica e distorsione temporale», parla appunto di Clarissa. Richardson, scrive Barchas, vuole evocare – e non sem­ plicemente descrivere – l’impatto che le situazioni esterne possono avere sulla scrittura epistolare. L’intento è suscitare emozione in chi legge, ed è per questo che egli inserisce nella sua opera pen­ sieri istantanei e dialoghi drammatici. D’altronde, come è noto, la sua preferenza per il romanzo epistolare era determinata dalla convinzione che il racconto di fatti che si presume accadano nel momento in cui sono raccontati avrebbe attivato le emozioni dei lettori. È tuttavia altrettanto noto che egli vi riuscì solo fino a un certo punto. E per una ragione precisa: la temporalità. Richardson se ne rende conto, anche se solo in parte, quando scrive una lette­ ra ad Aaron Hill in cui parla della stesura di Clarissa: La lunghezza è la mia principale preoccupazione al momento. Ep­ pure ho accorciato molto di più di quanto non abbia allungato [...]. Temo di far fare troppo ai corrispondenti in questo lasso di tempo. Se a giudicare fossero le signore pigre, vale a dire le signore che non amano scrivere, la penserebbero così, specialmente se non sono mattiniere79.

Seppur vagamente, lo scrittore rileva che il problema sta nella temporalità della fruizione. I «corrispondenti» che «fanno troppo» sono i personaggi del romanzo che si scrivono reciprocamente le lettere, mentre le «signore pigre» sono le lettrici reali, i cui tempi non combaciano con quelli dei personaggi. È per risolvere la di­

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screpanza tra le due temporalità, continua Barchas, che lo scrittore inserisce nel romanzo quel ricco apparato grafico che vi troviamo. Gli storici della letteratura di questo non si sono accorti, e han­ no perciò liquidato la grafica di Clarissa come qualcosa di esterno e del tutto accidentale, mentre invece Richardson l’aveva inserita per segnalare le interruzioni temporali, usandola in modo da arti­ colare visivamente il tempo80. Trattini, asterischi e altri ‘ornamen­ ti’ indicano le sospensioni nella stesura delle lettere da parte dei personaggi, a volte per interruzioni banali quali i pasti e le attività quotidiane, ma più spesso per il sopraggiungere di altri personag­ gi che creano situazioni ansiogene o per l’irrompere nell’animo di emozioni che ostacolano l’articolarsi lucido del pensiero. Ecco allora che «in più di duecento interruzioni, il tempo in Clarissa è così segnalato non da un’assenza di testo come in Pamela, ma da una sua presenza – un nuovo legame visivo, sulla pagina, tra due diversi momenti»81. Le marche grafiche del tempo sono costituite da vari tipi di trattini e da vari tipi di ornamenti floreali82, che all’inizio possono segnalare il trascorrere di un tempo neutro, indifferente e quieto, e poi sempre più spesso marcano invece una temporalità carica di tensione. Per esempio, nella lettera in cui Lovelace informa l’amico di aver violato Clarissa, compare un’interruzione che è indicata da una costellazione di asterischi, i quali rappresentano la lunga risata amara di chi sa di aver compiuto un’azione tragica e irreparabile83. Spesso sono marche visive della suspense. Clarissa sta scri­ vendo: Sarebbe pesante se io, che ho resistito così tenacemente a mio pa­ dre e agli zii, non — Ma lui è al cancello — Mi ero sbagliata – Quanti rumori insoliti mentono alle nostre pau­ re! – Perché il mio stupido cuore palpita così! — Mi affretto a depositare questa84.

Il timore che Lovelace le faccia visita e l’ansia dell’attesa la inducono a confondere i suoni85 e a sospendere la stesura della

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lettera, cosa che il testo segnala con degli ornamenti floreali che rappresentano un tempo carico di emozione. Tempo, appunto, della suspense. In Clarissa, «la funzione temporale attribuibile all’ornamentazione del tipografo evolve in simbolo di realismo emotivo: il segno grafico ora segnala pause temporali indicative di autenticità psicologica»86. La funzione che Richardson intendeva far svolgere a queste marche grafiche è dunque di rappresentare una temporalità carica di emozione. Ma, poiché ogni personaggio ha un suo carattere, le emozioni sono riprodotte graficamente con segni differenti per ciascuno di loro. Troviamo così tutta una varietà di fiori stilizzati e, per Lovelace, una sorta di stelo con tre foglie87. Ben inteso, Richardson non è l’unico a servirsi dell’apparato grafico in funzione significante ed emotiva. Per esempio ci sono – ma verranno più tardi – le intemperanze grafiche del Tristram Shandy, che svolgono un’ampia gamma di funzioni. Sterne «usa sia la grafica che il paratesto per saggiare i confini dell’emergente genere letterario, disponendo diversamente gli ingredienti con­ venzionali di un libro settecentesco allo scopo di sfidare le aspet­ tative dei lettori»88. Egli si serve di trattini e linee di varia lunghez­ za per rappresentare le pause89; di asterischi per la reticenza, per le interruzioni90, per la lentezza nel parlare91 e per i bisbigli. Le sospensioni della lettura sono segnalate con il segno grafico [,,,], che significa anche scambio di sguardi92. Tutta una riga di aste­ rischi sta a un certo punto a significare che uno è morto facendo l’amore: simboleggia cioè l’energia spesa e la durata93. La pagina abbrunita rappresenta invece il tempo del dolore; quella bianca, il silenzio. La riga stampata in caratteri gotici indica che la lettura deve avere un tono aulico; quella scritta a penna, che sarà faticosa come da un manoscritto94. Le manine significano un’accentuazio­ ne del tono: attenzione, non distraetevi!, dicono a chi legge. Osserviamo qualche esempio del carattere mimetico che Ster­ ne impone all’apparato grafico: Lo zio Toby scorreva la lettera canticchiando ———— ———— ———— ————

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Qui i trattini stanno ovviamente per il tempo passato da Toby a osservare una lettera canticchiando tra sé e sé95, e il lettore do­ vrebbe scorrerne i trattini uno ad uno per sentire questo tempo che passa nel silenzio di un’attenzione rivolta altrove rispetto a chi gli era attorno. Più avanti saranno invece asterischi in gran nume­ ro a indicare una lunga lettura silenziosa96. Poi seguirà un pezzo di scrittura in diretta: «Fate questo trattino——’ è......»; e dialoghi con battute distanziate da una riga, come per esempio l’inizio del ventisettesimo capitolo nel quarto volume, che comincia così: ACCIDENTI! ——— — —— ——— – — —— ——— A——ti!97

Richardson e Sterne non sono gli unici autori ad usare con generosità l’apparato grafico in questi decenni. Pure le prime edizioni di altri romanzi dell’epoca presentano un’abbondanza di asterischi e di trattini. La punteggiatura originaria del David Simple di Sarah Fielding, ad esempio, «convoglia l’informazione attraverso mezzi grafici piuttosto che verbali»98, anche se succes­ sivamente una revisione del libro da parte del fratello Henry li fece quasi sparire99. Significavano pause, reticenze, il rifiuto in­ tenzionale di completare un’idea, comunicazioni non verbali tra personaggi, pensieri che si inceppano per l’emozione, esitazioni e veri e propri silenzi. E poi ancora sguardi, cambiamenti di into­ nazione, gesti, in un accumulo grafico che si intensificava con il procedere della storia100. Nonostante fosse intervenuto così decisamente sul libro della sorella, la prima edizione del Tom Jones101 presenta anch’essa dei lunghi trattini nelle scene emotive, dove si possono presumere esclamazioni, pause della conversazione o silenzi di meraviglia102. In tal senso vanno interpretate pure le note considerazioni dello scrittore sulla funzione della divisione del suo romanzo in libri e in capitoli: vanno a tutto vantaggio del lettore, egli afferma, perché anzitutto quei piccoli spazi fra i nostri capitoli possono essere considerati alla stregua di locande o centri di sosta. [...] Quanto a quel­ le pagine bianche che si trovano fra un libro e l’altro, esse si devono considerare come quei luoghi ove, nei viaggi più lunghi, il viaggiatore sosta per qualche tempo a riposarsi, e a meditare su quanto ha veduto

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nelle parti che ha già attraversato: meditazione ch’io mi prendo la li­ bertà di raccomandare un poco al lettore: per quanto ben deste siano le sue facoltà, non lo consiglierei di compiere troppo velocemente il suo viaggio su queste pagine. [...] Un volume privo di questi luoghi di tappa somiglia alla distesa delle lande selvagge o dei mari, che stancano gli occhi e affaticano lo spirito quando vi si entra103.

Dopo aver dunque insistito sulla presenza di un ingente ap­ parato grafico nelle prime edizioni dei romanzi inglesi di metà Settecento e averne segnalata la funzione di rappresentare il tem­ po e intensificare la risposta emotiva dei lettori, Janine Barchas conclude che il nuovo genere letterario nella sua fase sperimentale sperimenta anche con la grafica, almeno fino agli anni Cinquanta del Settecento, spogliandosene poi lentamente, per rimanere a fine secolo in forma solo verbale. Su tale osservazione si conclude Graphic Design. A questo punto dovremmo però chiederci perché il romanzo rinunciò all’apparato non verbale. Fu perché non volle più dare quel senso di una temporalità carica di emozione che era la fun­ zione principale dell’abbondanza grafica; oppure perché trovò un altro modo per darlo? Barchas non procede oltre, ma la risposta a mio avviso si trova all’interno dello scenario che il nostro libro ha progressivamente costruito. I segni grafici furono l’ultima, brevissima, tappa della pro­ gressiva scomparsa del contesto dall’atto della lettura. Quei segni rappresentavano graficamente qualcosa che la lettura ad alta voce invece agiva, cioè comunicava attraverso la parola parlata, i gesti e i silenzi. Quei segni furono insomma un tentativo di traduzione del contesto; e se l’esperimento in quella direzione venne abban­ donato, fu perché ci si rese conto che non dava i risultati attesi. La lettura dai testi a stampa stava diventando una pratica talmente interiorizzata, un gesto sentito come così naturale, che chi legge­ va in silenzio non percepiva le parole o i segni nella loro fisicità, ma li accoglieva subito nella mente già come immagini e come storie. La materialità del canale scompariva insomma dal fuoco dell’attenzione, sostituita nella mente dei lettori da un susseguirsi di immagini costituite. Dal fuoco dell’attenzione scompariva dunque anche l’apparato grafico, che non riusciva perciò a svolgere la funzione assegnatagli

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di dare il senso di una temporalità dilatata. Non riusciva a crea­ re pause o rallentamenti nel flusso delle informazioni, perché lo sguardo del lettore saltava veloce i trattini, gli ornamenti, gli spazi vuoti e qualsiasi altro segno quasi senza percepirli. Insomma, non si riproduceva l’esperienza della durata temporale e delle emozio­ ni che vi risiedono. Per questa ragione, a mio avviso, l’apparato grafico presto scomparve. Significativo, tuttavia, fu il tentativo che esso rappresenta e l’esigenza che tradisce. Un’esigenza che il romanzo riuscirà a soddisfare, ma con altri mezzi. Ricapitolando: la funzione assegnata ai trattini, agli asterischi, agli ornamenti floreali, alle pagine bianche, alla pagina abbrunita, ecc. era soprattutto di segnalare discontinuità temporali – inter­ ruzioni, pause, reticenze, silenzi – collegate con la tensione emo­ tiva e l’ansia dei personaggi; di segnalare, insomma, la dimensio­ ne temporale di alcune loro emozioni nell’intento di trasferirle ai ­lettori, facendo loro sentire qualcosa di quelle stesse emozioni. La temporalità nella quale sorgeva lo stato affettivo dei personag­ gi si sarebbe dovuta tradurre, mediante la grafica, in temporali­ tà dell’esperienza dei lettori, dando loro accesso a quelle stesse emozioni. Ciò non accadde. Il limite dei segni grafici era appunto che questa traduzione non poteva realizzarsi proprio perché ciascun lettore aveva davanti a sé il libro da cui leggeva direttamente, fa­ cendo sì che tra esperienza dei personaggi ed esperienza dei let­ tori si verificasse un’assoluta discrepanza temporale. Sempre, evidentemente, c’è una qualche discrepanza tra la temporalità vissuta e quella narrata, altrimenti i racconti assu­ merebbero dimensioni abnormi. Tuttavia, nel romanzo per co­ me si configurerà compiutamente a partire dalla seconda metà del Settecento, tale discrepanza non sarà più qualitativa, ma solo quantitativa. Se infatti qualsiasi storia ha il tempo nella sua stessa grana e non si dà storia senza che contenga almeno un breve segmento temporale, ciò non significa che tutti quei segmenti consentano ugualmente a chi legge di provare emozione. Ciascuna emozione ha una sua propria temporalità e se il testo non vi si confà, esso non la suscita. Ne abbiamo cominciato a parlare nel capitolo sulle Etiopiche di Eliodoro, ed è giunto ora il momento di riprendere il discorso.

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Quando un racconto riferisce i fatti in modo sommario e ve­ loce, il tempo, anche se vissuto dai personaggi con tutto il suo portato emotivo, viene esperito dal lettore in modo neutro, senza alcuna intensità. Il racconto sommario ‘dice’ il tempo, ma non ne comunica l’esperienza. Non lo traduce, insomma, in un’esperien­ za temporale qualitativamente analoga a quella dei personaggi. Ben altrimenti è invece quando le scene si costruiscono gra­ dualmente, portando discontinuità significative che non si ricom­ pongono immediatamente e per un po’ lasciano in sospeso gli esiti. Questo diceva anche Hume nel brano che abbiamo visto. Questo, a mio avviso, è il tempo emozionalmente carico che l’ap­ parato grafico nel Settecento tentò inutilmente di mimare e che prima invece la lettura a voce alta riusciva bene a riprodurre nel concreto della situazione enunciativa. I racconti orali-aurali dell’antichità greco-romana e del Medio­ evo per mantenere la discontinuità temporale potevano utilizzare il tempo reale: bastava che il cantore si interrompesse sul più bel­ lo, che rallentasse l’enunciazione e usasse la gestualità come riem­ pitivo. Questo però poteva farlo perché era lui a gestire il flusso della comunicazione, in un contesto di compresenza con il suo pubblico104. Nel tempo, il contesto dell’enunciazione si era fatto sempre più esangue, finché nel Settecento i lettori diffusamente rimasero soli di fronte al libro che leggevano, e le pareti del loro campo visivo divennero il solipsistico contesto in cui si instaurava un rapporto solitario con la parola stampata. La sperimentazione grafica dei primi romanzi fu un tentativo, compiuto nella fase finale di questo processo, per ritrasformare le parole del testo in esseri viventi, come quando c’era chi le pro­ nunciava mimando gesti, toni di voce e il trascorrere temporale nella sua concretezza. I trattini, gli asterischi e gli altri segni gra­ fici dicevano al lettore: arresta qui la tua lettura, fermati per un po’ perché in questo tempo intermedio il personaggio vive la sua emozione! Il personaggio sta attendendo qualcosa di importante e l’angoscia lo sovrasta! Avvertivano il lettore, ma senza esito. Chi è abituato a scorrere velocemente con gli occhi un ben ordinato testo a stampa, anche volendo non può fare quelle interruzioni, perché il suo campo visivo è comunque più ampio e salta automa­ ticamente la costruzione grafica per raggiungere subito le parole successive. La «Madam», lettrice modello che Laurence Sterne

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spesso apostrofa nel Tristram Shandy, non poteva dunque seguire i suoi consigli quando egli la invitava a interrompere la lettura e ad aspettare! Ecco perché i segni grafici dei primi romanzi non riuscirono a costituirsi come traduzione testuale del tempo reale, e vennero perciò abbandonati. L’esperienza temporale non è facile da trasportare da un me­ dium all’altro, perché ciascun medium ha una diversa temporalità di enunciazione e questa temporalità la impone anche ai destina­ tari. Tuttavia, a un certo punto la narrativa stampata compì real­ mente questo passo: con il romanzo. In Clarissa non furono i segni grafici a trasferire ai lettori il senso della temporalità e delle emo­ zioni, ma piuttosto l’andamento temporale delle parole cariche di emozione che venivano prima e dopo l’ornamento grafico. Queste trasferivano l’emozione al lettore. Ma non ancora con l’intensità con cui lo faranno i romanzi da fine secolo in poi. La traduzione di tutto il significato e di tutto l’effetto nelle sole parole stampate sarà un evento fondamentale non solo nella storia del discorso scritto, ma in quella del pensiero stesso. Con la lettura silenziosa, l’enunciazione perse il sostegno del tempo reale dell’agire, del gesto, del suono, e conservò solo quello della lettura spedita, tutta interiore. All’atto di questo nuovo tipo di lettura il romanzo riuscì a fare assumere l’esperienza del tempo vissuto. Non tramite i disegni grafici, ma mediante quanto aveva scoperto attraverso le altre sue sperimentazioni. Da lì giunsero i risultati. Le altre sperimentazioni puntavano sulle parole, affidando lo­ ro per intero il compito di organizzare la temporalità del racconto in rapporto alla durata della lettura. Le sole parole istituirono quel ritardo che serviva a tener viva la curiosità di chi leggeva, in tensio­ ne verso il futuro narrativo. Non è il tempo narrato a contare, non è la quantità di anni che la storia racchiude a determinare l’effetto della lettura, ma il tempo dell’enunciazione narrativa. Non sono gli otto mesi o otto anni che Don Chisciotte dice che Amadigi di Gaula ha passato in solitudine a contare rispetto alle emozioni dei lettori, ma il tempo che questi impiegano per leggere quegli enunciati. Nel Cinquecento, la comunicazione sonorizzata dei ro­ manzi cavallereschi poteva agire la durata; la lettura individuale settecentesca, non più. È questo forse il problema più intricato che la comunicazio­ ne narrativa settecentesca dovette affrontare. Per poter operare

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sulle emozioni dei lettori, per suscitare pietà, empatia, interesse, gli scrittori dovettero far loro percepire – percepire, è la parola – delle temporalità differenziate. Come vi riuscirono? Lo fecero articolando la triplice temporalità, cioè modulando passato e futuro sul presente della narrazione. Vediamo prima il futuro. Tempo futuro: attesa Il Settecento nomina spesso la suspense, ma senza intenderla come quella caratteristica cui pensiamo noi oggi a proposito del genere poliziesco o dell’orrore. La suspense per gli scrittori set­ tecenteschi era uno stato d’animo che tutti i racconti avrebbero dovuto suscitare nei loro lettori. Alla parola veniva assegnato un significato molto più ampio: stava per un atteggiamento psichico che induce il lettore a leggere un testo fino in fondo. Sinonimo di interesse, dunque, e di una generica curiosità. Insomma, quella che il Settecento chiamava suspense non era la tensione spasmo­ dica che intendiamo noi, bensì ciò che spinge a leggere oltre ed è la condizione di possibilità fondamentale di ogni narrativa ben fatta. È l’innesco della seduzione della lettura: di quella silenziosa, ovviamente. In uno dei numeri dello «Spectator» (420, 1712) dedicati all’immaginazione, Joseph Addison afferma: «Ci piace vedere l’argomento svolgersi per giusti gradi, disvelandosi a noi insen­ sibilmente, in modo tale da poterci tenere piacevolmente sospesi (in a pleasing Suspense) perché ci venga dato il tempo di formulare auspicî (to raise our Expectations) e schierarci da questa o da quel­ la parte di cui si tratta nell’esposizione dei fatti»105. Si noti l’indicazione: un racconto deve svilupparsi in modo graduale per dar tempo al lettore di entrare in quella piega men­ tale che lo proietta verso il futuro e gli consente di schierarsi em­ paticamente con un personaggio. Addison mostra di essere consa­ pevole di un aspetto fondamentale dell’atteggiamento umano nei confronti di ogni racconto: quello appunto che lo orienta verso il futuro. Sicuramente egli attingeva alla retorica del discorso orale, dove queste affermazioni erano piuttosto ricorrenti, ma la applica­ va però alla narrativa scritta, letta individualmente e in silenzio.

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Nel corso del secolo simili affermazioni si andarono molti­ plicando, tanto che presto divennero verità scontate, luoghi co­ muni. Mary Davys sosteneva infatti, nel 1725, che il principale vantaggio, del racconto di finzione rispetto a quello storico ri­ siede «nell’invenzione, che ci consente di ordinare i fatti meglio di quanto la fortuna non si dia cura di fare; influendo così sulle passioni del lettore, tenendolo a volte in sospeso tra paura e spe­ ranza, e congedandolo infine soddisfatto»106. Una recensione al romanzo di Henry Fielding Amelia, pubblicata sulla «Monthly Review» nel dicembre del 1752 e scritta da John Cleland, lodava quest’opera di Fielding perché aveva «intrecciato situazioni così naturali e rappresentato sofferenze anch’esse prese dalla natura in modo tale da mantenere costantemente sveglia l’attenzione e da far sì che l’attrattiva di una curiosità suscitata ad arte porti a seguire l’eroina in tutte le sue avventure, impazienti di sapere»107. Nel numero di «The Adventurer» (1752), da cui abbiamo più volte citato in questo libro, troviamo: «una complicazione di cir­ costanze tale da tenere la mente in una sospensione ansiosa e al tempo stesso piacevole, mentre si sviluppano per gradi, arrivando a produrre un qualche evento importante e imprevisto; [...] una serie di fatti che continuamente variano la scena e gratificano la fantasia con nuove scene di vita». Ecco solo pochi esempi che mostrano, mi pare adeguatamen­ te, il significato che il Settecento assegnava al termine suspense. Diverso da quello odierno non qualitativamente, ma per intensità. La riflessione settecentesca inglese sulla narrativa definiva suspense tutte le emozioni suscitate dai racconti e orientate al futuro. Prima di addentrarci nell’ambito strettamente letterario, conviene osservare l’esperienza di questa emozione nella vita. Rispetto al tempo vissuto, il futuro è attesa, una condotta tem­ porale che ha precise determinazioni psicologiche. L’attesa ha una durata: non è immediata come la sorpresa, ma esiste in quel lasso di tempo che separa il sorgere di un desiderio (o di un timo­ re) dalla sua soddisfazione o dalla definitiva frustrazione. Questo periodo mediano di incertezza è il tempo in cui l’individuo si pro­ tende verso il futuro, attendendolo. E lo attende con ansia. L’ansia è infatti il portato affettivo dell’attesa. Sono in ansia mentre attendo di sapere qualcosa di importante per la mia vita. Per esempio, se la persona di cui sono innamorata mi ricambia;

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oppure se mi hanno assunto per un lavoro che mi interessa; o se mi farà male il dentista nella cui sala d’attesa sto aspettando; e così via. Se il futuro verso il quale mi protendo è incerto, entrerò appunto in uno stato di attesa inquieta, meno intensa ma qualita­ tivamente non diversa da quella suspense che proverei se vedessi un uomo armato che sta per entrarmi in camera. Nell’esperienza vissuta, l’attesa ha sempre un contenuto di ansia, quando non di angoscia. Nella lezione 25 sulla psicanalisi, Sigmund Freud distingue tra angoscia nevrotica e angoscia reale, affermando che quest’ultima è qualcosa «di assai razionale e com­ prensibile. Di essa affermeremo che è la reazione alla percezione di un pericolo esterno, cioè di un danno atteso, previsto [...]»108. L’attesa in genere accentua la vigilanza (se non arriva all’ango­ scia parossistica)109, ma, comunque, per quell’incertezza ansiosa che provoca, ha sempre un fondo spiacevole che induce chi la prova a cercare, magari inconsapevolmente, di farla terminare al più presto. Per abbreviare il tempo dell’attesa e dell’angoscia, a volte andiamo incontro al pericolo, a volte invece scappiamo. In entrambi i casi abbiamo trasformato l’attesa in azione. Uno stato di per sé passivo, in cui il futuro è sentito come una massa potente che ci piomba addosso nella nostra inermità, è stato trasformato in una condizione attiva di intervento sul mondo. Naturalmente, af­ frontare il pericolo non significa solo andare incontro a un nemico che attende con il coltello alzato, ma anche, per esempio, accor­ ciare i tempi di una risposta. E fuggire non è solo il gesto materiale della fuga gambe in spalla, ma è anche il distrarci con un giornale dal dentista mentre aspettiamo che ci riceva per l’estrazione di un dente, e dunque dimenticando ciò che stiamo attendendo. La nostra psiche non regge a lungo l’emozione dell’attesa, e sanamente trova i diversivi. Anche quando aspettiamo qualcosa di bello (che però è incerto), c’è sempre un margine di inquietu­ dine in questa condizione temporale; il che può indurci a volerla terminare al più presto. L’attesa comporta un superinvestimento energetico110 che si carica sulle altre emozioni, accentuandole. Se temo, il timore aumenta; se ho paura, questa diviene terrore; se gioisco, la gioia sale; e così via111. Questa è l’esperienza del futuro che si fa nella vita. Ma tale esperienza può essere attivata anche dalla lettura. Non si dà in­ fatti racconto che possa interessare se questo non ricrea – per

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quanto in modo più blando e mediato – una tale esperienza in chi legge112. Allora: se l’attesa è una condotta temporale di una certa dura­ ta, con un portato di ansia che induce chi la prova a tentare anche inconsapevolmente di porvi termine, accelerando i tempi della risposta oppure dimenticando l’oggetto dell’attesa, per tenere qualcuno in uno stato di attesa, sono necessarie due operazioni in contemporanea: da una parte sottrargli per un po’ ciò che attende e dall’altra ricordargli tutto il tempo l’oggetto della sua attesa. Questo è proprio quanto la narrativa del Settecento imparerà a fare, servendosi delle sole parole stampate sulle pagine di un libro. Nella lettura sonorizzata, le pause, i gesti, le interruzioni da parte di chi legge possono indurre uno stato di attesa negli ascol­ tatori, perché questi non hanno davanti agli occhi le parole che comunicano le informazioni, e chi legge può gestirne l’erogazione. Nel caso invece della lettura individuale e veloce, il ritardo che su­ scita attesa è più difficile da attuare. Spinto dal desiderio di sapere ‘come va a finire una storia’, il lettore certo non si ferma davanti agli asterischi o alla pagina bianca per mettere se stesso in uno stato di attesa. Li salta immediatamente con lo sguardo e soddisfa subito la sua voglia di sapere. Anzi, poiché la pagina è di fronte a lui, soddisferà il desiderio quasi ancor prima che sorga. Nessu­ na suspense nascerà in una tale situazione, nessuna attesa, nessu­ na emozione, perché queste richiedono del tempo per attivarsi. La narrativa del Settecento si rese conto di dover creare degli ostacoli al flusso del racconto, in modo da dar tempo all’attesa di installarsi nel lettore individuale. Da qui gli esperimenti con l’apparato grafico, che avrebbero dovuto rallentare tale flusso ma che non funzionarono proprio perché lo sguardo del lettore li sal­ tava. Non gestendo adeguatamente il tempo della comunicazione, l’apparato grafico non produceva quella durata indispensabile a far protendere con inquietudine il lettore verso il futuro testuale. D’altra parte, secoli di esperienza con le digressioni avevano mo­ strato che neppure quelle andavano bene, nel loro caso perché inducevano per così dire il lettore alla fuga, cioè gli facevano di­ menticare l’oggetto dell’attesa. La soluzione fu trovata a poco a poco; e Horace Walpole mo­ stra di averla in mente quando, nel 1765, scrive la prefazione alla

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seconda edizione di The Castle of Otranto. Così giustifica infatti la presenza di dialoghi apparentemente inutili: «l’impazienza stessa che il lettore prova mentre le rozze spiritosaggini di attori plebei ritardano la conoscenza dell’importante catastrofe che attende, accresce forse il suo interesse per l’evento atteso e certo dimostra che esso è stato suscitato ad arte»113. La soluzione venne dunque da tanti brevi ostacoli verbali in­ seriti nella storia. Parole non essenziali per il suo sviluppo, ma che lo sguardo del lettore non può saltare perché i loro contenuti e la loro importanza gli sono ignoti. Queste parole costruiscono barriere al flusso dell’informazione, centellinandola. All’atto pratico, il romanzo di Walpole non riuscì molto bene a suscitare quella che egli chiama l’impazienza del lettore (o al­ meno non la suscita in noi oggi) e che in terminologia moderna abbiamo definito ansia da attesa. Lo fece solo parzialmente, per lasciare poi la fiaccola ad Ann Radcliffe114, che percorse fino in fondo una via peraltro tentativamente intrapresa in Inghilterra già da Aphra Behn115 a fine Seicento, e poi da Henry Fielding, da Samuel Richardson (che non si era limitato agli espedienti grafici), da Tobias Smollett e da altri intorno alla metà del Settecento. La storia della letteratura assegna The Italian, pubblicato dalla Radcliffe nel 1797, al genere cosiddetto ‘gotico’, che ebbe alcuni decenni di enorme successo, pur presentando temi e immagini non di rado convenzionali e scontati. Ma non è nei temi che risie­ de il valore di questo genere letterario o il suo apporto innovati­ vo. Quei temi e quelle immagini ebbero vita limitata, per come li impiegò il gotico, ma la sua gestione narrativa del tempo futuro divenne un’acquisizione definitiva di tutto il romanzo come gene­ re letterario116. Suscitare attesa nel lettore fu da allora – a partire, cioè, da The Misteries of Udolpho e The Italian della Radcliffe – un impegno imprescindibile di tutti i romanzi, e non solo di quelli che saranno i gialli, i polizieschi, dell’orrore et similia, i quali pro­ grammaticamente tengono i lettori in uno stato di attesa spasmo­ dica. Una qualche attesa è l’effetto che produce sul proprio lettore qualsiasi romanzo, perfino uno come La montagna incantata di Thomas Mann, perché sempre si tratta di organizzare quella parte dell’esperienza del leggere che è temporalmente orientata verso il futuro testuale e che induce a continuare la lettura sotto la spinta di quanto Frank Kermode ha definito «il senso della fine»117.

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Su questo vogliamo insistere: il significato stesso che il termine suspense aveva nel Settecento era quello di una gestione narrativa del tempo futuro che induce il lettore a proseguire nella lettura fi­ no alla fine della storia. Per esempio: se noi oggi non definiremmo la Clarissa di Richardson un vero e proprio romanzo a suspense, Fielding, in una recensione del 1748 sul «Jacobite’s Journal», la lodava, oltre che «per la sua affascinante semplicità, la pittura dei costumi, la profonda penetrazione nella natura», anche per «la sua capacità di suscitare e mettere in allarme le passioni e di creare un’insostenibile suspense»118. Suspense significava semplicemen­ te capacità di emozionare, di rendere partecipe chi leggeva della sorte dei personaggi, suscitando empatia e curiosità per il loro futuro. Chiamavano suspense, dunque, la condizione di possibilità dell’immedesimazione, quella sympathy su cui non poco si stava­ no interrogando la filosofia e lo stesso pensiero comune. La messa in stato di attesa del lettore – che, in quanto essere umano, è in grado di provare empatia – costituisce perciò la pre­ condizione per il suo coinvolgimento e, dopo la Radcliffe, lo ripe­ tiamo, sarà una caratteristica presente in tutti i tipi di romanzo. Ma che cosa viene fatto in concreto nella materialità verbale dei testi per produrre questo effetto? Vediamolo osservando da vicino il lessico e l’organizzazione narrativa di The Italian. Il libro inizia presentando una scena pacifica: alcuni viaggiatori inglesi stanno visitando una chiesa nei dintorni di Napoli e l’atmo­ sfera è quella un po’ ovattata dei luoghi di preghiera. Ma già nel secondo paragrafo si spalanca un enigma. Nell’ombra del portico i viaggiatori intravedono un individuo che passeggia nervosamen­ te a braccia conserte, immerso in pensieri. Sobbalza quando si ac­ corge dei visitatori, e scompare silenziosamente dietro una porta. «C’era qualcosa di troppo straordinario nella figura di quest’uo­ mo e troppo singolare era il suo comportamento per passare inos­ servato dai visitatori» – continua il terzo paragrafo. L’uomo ha la parte bassa del viso nascosta da un mantello, ma si intravedono dei lineamenti duri: abbastanza per creare nei visitatori una curiosità appena un po’ allarmata. E questa si trasferisce anche ai lettori. Chi è la persona? Che cosa fa in quel luogo sacro? L’incon­ gruenza tra quella che con termine tecnico ma di uso oramai ab­ bastanza corrente chiameremmo il copione (script) chiesa, e la presenza di un individuo come questo crea l’enigma. La mente

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del lettore si pone automaticamente alla ricerca della risposta che risolverebbe l’enigma, e dunque procede nella lettura. La risposta però non arriva subito, e nei tre paragrafi successivi un frate guida i visitatori nella chiesa, mostrandone i tesori. A che serve tutto ciò? Serve, è ovvio, a postporre l’informazio­ ne attesa e a rallentare il ritmo narrativo. Sempre proteso verso il futuro testuale, il lettore legge così la descrizione della chiesa, che oltretutto non viene più percepita come un pezzo di periegetica digressiva come accadeva nei testi precedenti al Settecento, ma diventa parte ‘naturale’ della narrazione. Il lettore continua a leggere perché vuole sapere presto chi sia l’uomo misterioso e dove sia andato. Quando egli riappare, i viaggiatori pongono al frate la domanda e questi, dopo una breve esitazione, risponde: «È un assassino». L’informazione non risolve l’enigma, ma anzi serve a prolungarlo, mentre cresce la curiosità del lettore. Segue un’altra, più lunga, porzione testuale in cui tra il frate, i viaggiatori inglesi e un viaggiatore italiano si svolge un dialogo sulla possibilità che i criminali hanno in Italia di chiedere asilo in chiesa o in convento, dove la giustizia non può raggiungerli. Poi l’italiano si rammenta di un fatto avvenuto proprio lì qualche anno prima: «ve lo comunicherò quando tornerete in albergo», dice. Sono parole ritardanti per i personaggi e che inaugurano un ritardo anche per il lettore. Non perché vi si menzioni un lasso di tempo reale che dovrà passare prima dell’informazione, bensì perché queste parole sono seguite da altre parole, e cioè da una pagina di dialogo in cui l’italia­ no spiega che quello che i personaggi vogliono sapere è contenuto in un manoscritto sulla cui origine per un po’ si dilunga. Ho usato qui il termine ritardo: lo stesso, si ricorderà, da me impiegato per i meccanismi procrastinanti incontrati nelle Etiopiche. Ma si tratta ora di qualcosa di diverso: di un’attuazione nuova del ritardo, calibrata per suscitare attesa in chi legge da solo e in silenzio. Se il ritardo nella narrativa prima del Settecento veniva messo in atto mediante digressioni ed episodi intercalati, confi­ gurandosi come un differimento per deviazione dal filo narrativo, ora è invece prodotto da qualcosa che rimane tutta interna a quel filo. In tal modo, mantiene viva l’attesa del lettore, rammentando­ gliene continuamente l’oggetto. È una differenza non da poco, quanto all’effetto sulla mente di chi legge. Nel primo caso essa viene distolta dalla storia seguita fino

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a quel momento, facendo cadere l’interesse per i suoi esiti; mentre nel secondo, questo interesse vieppiù si rafforza mano a mano che la narrazione procede, avanzando nella direzione di una prospettiva che rimane sempre presente, ma indistinta come fosse ovattata in una nebbia. Le informazioni che risolverebbero l’enigma e fareb­ bero terminare l’attesa del lettore, soddisfacendola, sono di volta in volta sottratte, ma senza mai uscire dal filo narrativo, senza abban­ donare gli eventi e i personaggi che hanno suscitato la curiosità. Poco oltre inizia il racconto contenuto nel manoscritto. Eccolo: in una chiesa di Napoli, Vincentio di Vivaldi scorge una ragazza il cui portamento lo affascina. Riesce a conoscerla, intervenendo in aiuto dell’anziana signora che è con lei e che scivola su un gradino. Egli può così accompagnare la giovane, che è bellissima, fino a Villa Altieri, dove abita e che è un luogo piuttosto modesto ma di gusto signorile, immerso in un lussureggiante giardino. Vincentio torna poi al palazzo nobiliare dove vive con i genitori e dove la madre, donna dal temperamento forte e pronta a ogni inganno, vedendolo pensieroso subito sospetta. Il giorno seguente egli va nuovamente a Villa Altieri, ma non riesce a vedere Ellena – que­ sto il nome della fanciulla – venendo ricevuto con molto riserbo dall’anziana signora, che egli ha scoperto esserne la zia. Sempre più interessato, cerca allora di procurarsi informazioni sulla fami­ glia di lei e il romanzo riporta in una pagina tutto quanto egli ha saputo insieme a ciò di cui «è rimasto all’oscuro». Così la narrazione, mentre ritarda la soddisfazione del deside­ rio di Vincentio, fornisce una serie di informazioni che saranno utili per comprendere vari momenti successivi del romanzo. Al tempo stesso, un ricco scenario sta arredando i fatti con sempre maggiore precisione, preparando l’animo del lettore a quell’em­ patia che lo renderà partecipe delle emozioni dei protagonisti. Le Etiopiche e la narrativa barocca avrebbero dato tutte queste notizie mediante delle digressioni, magari facendo comparire un personaggio che racconta il suo passato e dice di aver già incontra­ to i protagonisti. Nel romanzo della Radcliffe, invece, le informa­ zioni – le medesime informazioni, si noti – vengono fatte scaturire tutte dall’interno della storia principale, e quando appaiono risul­ tano dunque già perfettamente inglobate. Tutto converge nell’im­ buto della prospettiva di un qualche personaggio. Qui si tratta del punto di vista di Vincentio, il quale ha effettuato l’indagine.

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Che cosa comporta tutto ciò rispetto al lettore? Comporta, ovviamente, che la descrizione si tinge delle emozioni del perso­ naggio e non consente perciò a chi legge di dimenticare quanto questi sta attendendo. Sei pagine dopo l’inizio del manoscritto, quando il racconto è oramai impostato e l’ambientazione messa a fuoco, Vincentio decide di tornare a Villa Altieri; ma non riesce a lasciare il palazzo perché la madre ha organizzato un concerto. Dopo questo ritar­ do, frustrante per il personaggio ma tutto sommato breve per il lettore, il quale lo supera leggendo le poche righe di testo che lo enunciano, a sera tarda si incammina. Appena poté allontanarsi inosservato, egli lasciò il consesso e, celandosi nel mantello, si affrettò verso Villa Altieri, situata a breve di­ stanza verso la parte ovest della città. La raggiunse senza essere notato e, ansante per l’impazienza, entrò nel giardino [...]. La notte era molto avanzata e non appariva alcuna luce in casa [...]. Era circa mezzanotte, e l’immobilità che regnava era cullata piut­ tosto che interrotta dal quieto sciabordio delle acque nella baia sot­ tostante e dai sordi mormorii del Vesuvio che a intervalli sputava improvvise fiammate sull’orizzonte, lasciandolo poi alle tenebre. La solennità della scena si accordava con lo stato della sua mente, ed egli ascoltava con profonda attenzione, in attesa che tornasse quel suono che nell’orecchio irrompeva dalle nuvole in un brontolio atono come di tuono distante. Le pause di silenzio che seguivano a ogni gemito della montagna, quando l’attesa tendeva l’orecchio al crescere del suo­ no, colpiva ora l’immaginazione di Vivaldi con particolare timore [...]. L’aria era calma e saliva fresca dalla baia come balsamo tonificante119.

Anche se a prima vista non sembra, qui viene presentato un enigma e qui sono giustapposti due copioni tra loro incongruenti. Una scena di quiete notturna si apre davanti al lettore, il quale però, nonostante l’aria odorosa e calma e il monotono sciabordio del mare, coglie un che di conturbante. Chi legge velocemente non si sofferma a chiedersi da dove gli derivi quell’impressione, ma inconsciamente la registra. In realtà non c’è nulla di pericoloso in questa scena e nulla mi­ naccia l’ordine; neppure il Vesuvio, che è lontano. Tutto è quiete. Allora, da dove deriva quest’impressione? Sta in qualcosa che ri­ siede nel lessico impiegato. Nel discorso che spalanca lo scenario

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di una quieta notte estiva appaiono termini che rimandano a un copione ansiogeno, a una situazione instabile e a un pericolo sco­ nosciuto. E questi termini sono collocati in posizioni periferiche del discorso, dove l’attenzione non si sofferma120. Il lettore coglie l’incongruenza, per così dire con la coda dell’occhio, e in margine alla sua consapevolezza gli si configura la domanda: che significa tutto ciò? Entra così automaticamente in uno stato di attesa. Anche questo enigma ha dunque la conformazione dell’altro, con due copioni inconciliabili che si intersecano. È così che The Italian crea curiosità nei suoi lettori e suscita in loro l’attesa. L’enigma è disgiunzione di possibilità: quale sceneggiatura sa­ rà a prevalere, si domanda – anche inconsapevolmente – chi legge. In quale delle due si concretizzerà il proseguimento della storia? Il lettore si incuriosisce e avanza congetture. L’esperienza dell’attesa nella vita deriva in fondo da una di­ sgiunzione di possibilità: supererò o no l’esame? Il dentista mi fa­ rà male, oppure no? E il lettore di The Italian fa questa esperienza. Dapprima per semplice curiosità, poi sempre più intensamente per il susseguirsi degli enigmi e per il sentimento di empatia che matura nei confronti dei personaggi in cui si immedesima. Enigmi e capacità di far immedesimare i lettori nei personaggi mediante le sole parole che appaiono sulla pagina stampata sono due aspetti che, a partire dal Settecento, caratterizzano tutto il romanzo in quanto genere letterario. E fondamentale è sempre la questione della durata temporale delle emozioni, tra cui l’ansia da attesa, che rafforza le altre. L’oratoria conosceva bene questo aspetto e non si peritava a servirsene nel gestire la temporalità dell’enunciazione. Ma questa temporalità è importante non solo per gli enuncia­ ti orali, ma anche per quelli scritti. Affinché l’attesa del lettore prenda corpo è necessario che un lasso di tempo si distenda tra il momento in cui sorge la curiosità empatica e quello del suo sod­ disfacimento. Gli enigmi non si devono susseguire a troppo breve distanza121, e occorre che il testo scritto crei del ritardo mediante impedimenti fatti di sole parole. Perché non basta dire l’attesa di un personaggio per attivarla anche nel lettore122. Come scrive­ va Goethe, «Il romanzo deve procedere lentamente. Le idee del protagonista debbono ritardare [...] il troppo rapido svolgimento dell’azione»123. Si tratta di ritardare il soddisfacimento dell’attesa, senza consentire al lettore di dimenticarne l’oggetto.

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Questo è proprio ciò che fa Ann Radcliffe nei suoi romanzi, e il brano da noi riportato poco sopra ce ne mostra almeno uno dei modi. Lì le descrizioni sono state assorbite dalle azioni, calando nei loro pori a dar turgore. Se nell’epica orale e fino a parte del Settecento le descrizioni si inserivano in un testo come blocchi a sé stanti, separati dal racconto delle azioni, ora invece si fondono con queste rallentando il flusso narrativo. La visione della Napoli notturna che il testo presenta al lettore passa per lo sguardo del personaggio che la osserva dall’alto. Si tinge dunque di emozione ed è parziale. In questo modo il bra­ no riesce a svolgere diverse funzioni. Prima di tutto crea subli­ minalmente l’enigma giustapponendo due copioni contrastanti; poi caratterizza il personaggio rivelando il suo stato d’animo; e, infine, mostra al lettore una porzione di paesaggio, contribuen­ do ad arredare la scena con quella precisione che ha indotto gli storici della letteratura settecentesca a insistere tanto sull’avvento del ‘realismo’. La descrizione, essendo tutto sommato breve, da una parte non costituisce una vera e propria interruzione della storia ma semplicemente ne decelera il flusso, e dall’altra consente che vi vengano successivamente aggiunte altre pennellate, con un’opera­ zione che, come vedremo, fornisce un aiuto decisivo alla memoria del lettore. Dal punto di vista dell’effetto narrativo, il risultato è una riduzione, in un medesimo spazio di discorso, della quanti­ tà di notizie che portano avanti la storia. Questo significa che si riduce proporzionalmente il divario tra tempo narrato e tempo della lettura. Ecco uno, solo uno, degli elementi che fanno «procedere len­ tamente» il romanzo, come Goethe suggeriva. Ve ne sono anche altri, che vediamo continuando a scorrere The Italian. La scena appena osservata prosegue con i pensieri di Vincen­ tio e con le preghiere che egli ode prima che il silenzio e l’ombra calino sulla casa. Sono pensieri, sentimenti, dubbi ed esitazioni il cui racconto rallenta ulteriormente il flusso narrativo e la conse­ gna al lettore delle informazioni che sta attendendo. Al contempo, la situazione viene precisata, e questo ancor più fa crescere la cu­ riosità del lettore pur senza soddisfarla, in un gioco quasi sadico in cui il testo prende potere su chi lo sta leggendo. L’atmosfera, a questo punto di The Italian, continua a es­

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sere apparentemente di pace, come se gli elementi paurogeni vi fluttuassero senza appiglio. Esercitano perciò sul lettore un impatto più forte: proprio perché mentre legge velocemente non è del tutto consapevole dell’inquietudine che prova e della sua fonte. Sulla strada che Vincentio sta percorrendo compare all’improvviso la figura di un monaco incappucciato che lo av­ verte: «Signore! Le vostre mosse sono spiate; non tornate a Villa Altieri!». Nuovi dubbi e nuove fonti di agitazione si susseguono, senza consentire mai al lettore di dimenticare gli oggetti della sua attesa. Nella scena successiva, Vincentio ha l’intenzione di chiedere la mano di Ellena, ma l’incontro con il frate gli ha fatto sorgere il sospetto che esista un rivale. Se esaminiamo questa scena nei termini delle componenti dell’azione124, vediamo che il coattore (un amico) consiglia al giovane di cantare una serenata; seguono le sue obiezioni, ma comunque i sentimenti lo portano ad accet­ tare il consiglio. Questi sentimenti sono dunque mostrati come la causa dell’azione. I due si incamminano allora verso Villa Altieri, e durante il percorso riappare la stessa figura del monaco, che nella scena rappresenta l’antagonista, cioè colui che vuole impe­ dire l’esecuzione del progetto. A questo punto l’amico consiglia di recedere dall’azione, perché si è convinto che Vincentio abbia realmente un rivale. Si fermano e cala la notte, che ancora una volta viene descritta seguendo lo sguardo dei due giovani: vedono i fuochi d’artificio in lontananza e odono un misterioso scalpiccio sulle foglie. Rinascono allora i dubbi e si riprospetta la necessità di tornare indietro, ma i due decidono infine di continuare e Vin­ centio esegue la sua serenata. Che cosa ha fatto Ann Radcliffe in questa scena per far cre­ scere l’attesa del lettore? Ha, ancora una volta, rallentato il ritmo narrativo pur senza uscire dall’azione rappresentata. Qui però lo ha fatto adottando un espediente diverso da quello di rendere tur­ gidi i fatti inglobandovi le descrizioni. Ha, piuttosto, scomposto le azioni nei loro elementi costitutivi, mostrando distesamente le intenzioni e le cause; il coattore oltre all’attore e all’antagonista; e poi gli impedimenti, compresi quelli psicologici. Così il tempo narrativo si è fatto lento, dilazionando le informazioni che per­ sonaggio e lettore (entrambi in questo caso di fronte a un ritar­ do) stanno attendendo. Al tempo stesso, di ogni azione vengono

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mostrate le origini e le conseguenze, legando il tutto con vincoli causali. Anche qui al lettore non viene consentito di dimenticare quan­ to sta attendendo. La difficoltà di decifrare l’enigma da parte del personaggio che detiene il punto di vista, oltre a costituire un impedimento alla soddisfazione dell’attesa del lettore, serve pu­ re a rammentarne continuamente l’oggetto125. A differenza che nelle Etiopiche e nel romanzo barocco, in The Italian la porzione testuale ritardante conserva sempre memoria di ciò che ha susci­ tato l’attesa, tenendo viva la relativa emozione. È così che Ann Radcliffe gestisce il tempo narrativo nei suoi romanzi, attivando e tenendo vive le emozioni a una lettura veloce, individuale e tutta interna alla mente. Un romanzo, però, è evidente, non può fondarsi per intero su una sola attesa, per quanto abilmente procrastinata. E la scrittri­ ce, come abbiamo detto, intreccia infatti diversi enigmi, tra loro collegati ma che si sviluppano e conchiudono in tempi differenti, cosicché il lettore ha sempre qualcosa da attendere fino al climax e alla conclusione del romanzo. Il climax in The Italian si colloca in un processo dell’Inquisizione che, per quanto storicamente incre­ dibile, esercita un impatto emotivo sui lettori, assomigliando mol­ to alle riunioni convocate da Poirot alla fine delle sue inchieste. Riassumendo: Ann Radcliffe gestisce il tempo futuro confor­ mando la sua narrativa alla psicologia dell’attesa per una lettura tutta interiorizzata. Così, mediante le sole parole stampate, ella in­ duce il desiderio di conoscere il futuro testuale, e per non soddisfar­ lo troppo presto né farlo dimenticare dilata le maglie del racconto, metabolizzando le descrizioni, scomponendo i fatti e intersecando tra loro attese diverse, di modo che quando una viene soddisfatta ce ne sia sempre almeno un’altra in piedi fino alla fine. Il racconto così non appare più diviso in episodi, ma risulta un tutto che scorre verso la conclusione come un fiume nel quale confluiscono vari affluenti, dando a chi legge quel senso di conti­ nuità e di unità che abbiamo definito unità percepita. La quale non è una caratteristica solo dei romanzi di Ann Radcliffe o di quelli cosiddetti a suspense, ma sarà il tratto fondamentale di tutto il romanzo in quanto genere letterario. A questo punto, immagino sia già risultato evidente come, nell’attivazione narrativa dell’attesa, la memoria giochi un ruolo

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importante. Passato e futuro, d’altronde, si intersecano sempre, nella vita come nella lettura. Tanto più quella di un romanzo, che immerge in una temporalità piena, saturando tutti gli istanti. Tempo passato: memoria    L’attesa contribuisce anche a radicare i fatti nella memoria. Quanto più intensamente si attende un fatto e di quanta più emo­ zione lo si carica, tanto più vi si concentrerà l’attenzione e più facilmente esso entrerà nella memoria duratura126. La memoria, d’altronde, anche in quanto facoltà mentale, non può fare a meno delle storie, vale a dire degli insiemi di fatti; pro­ prio come le storie non possono fare a meno della memoria. Storia e memoria sono in un certo senso sinonimi: gli esseri umani quasi sempre ricordano in termini di storie, e quasi sempre in termini di storie organizzano il loro pensiero e il loro stesso agire. Per questo possiamo dire che noi siamo raccolte di storie, che raccontiamo gli uni agli altri o che raccontiamo a noi stessi127. Se ciò è vero, se c’è un’interpenetrazione tra racconto e questa facoltà mentale, è altrettanto vero che nei secoli la narrativa ha rivolto alla memoria dei suoi destinatari richieste sempre diverse, che cambiavano mano a mano che si rarefaceva il contesto della comunicazione e i lettori sempre più si immergevano da soli nel mondo del testo, chiudendo, come faceva Proust, i loro sensi a tutto quanto li circondava. A partire dal Settecento, anche in relazione alla memoria la narrativa si mette in grado di fare affidamento solo sul discorso scritto, sulle pagine che i lettori attraversano velocemente con lo sguardo. È così che il romanzo costruisce il senso del trascorrere temporale configurandolo come una serie di momenti presenti che si protendono verso il futuro e contemporaneamente si ca­ ricano di rimandi al passato. Le pagine che seguono intendono chiarire queste affermazioni. La narrativa – qualsiasi tipo di narrativa – intrattiene un rap­ porto duplice con la memoria e con il tempo: quello degli eventi e delle azioni che si sviluppano nel racconto; e quello della loro comunicazione agli ascoltatori o ai lettori. Evidentemente, queste due temporalità non sono né omogenee né equivalenti: una è il

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‘contenuto’ del racconto, mentre l’altra è il tempo vissuto dagli ascoltatori o dai lettori nella fruizione dello stesso. Una può essere estesa o contratta quasi a piacimento, mentre l’altra è sottoposta ai vincoli temporali della comunicazione. All’incrocio di queste due temporalità si realizza nel destinatario l’attribuzione di senso, che richiede appunto l’esercizio della me­ moria. Man mano che il racconto avanza, i lettori (o gli ascoltatori) producono sintesi memoriali, interpretando quanto è stato loro comunicato e preparandosi ad accogliere quanto sopraggiungerà. Ecco la ragione per cui la memoria non viene attivata nello stesso modo da tutti i tipi di racconto: ciascun canale della comu­ nicazione, infatti, ha una temporalità sua propria. Un film, tanto per fare un esempio limite e in un certo senso ovvio, intrattiene con la memoria e con la temporalità un rapporto ben diverso da quello di un racconto letto ad alta voce, e ancor più diverso da quello di un racconto letto individualmente e in silenzio128. Pari­ menti, gli innumerevoli passaggi che nei secoli hanno progressiva­ mente allontanato il corpo dalla scena della comunicazione hanno modificato la temporalità controllabile della voce e dei gesti di un lettore che si rivolge a un uditorio, sostituendola con il tempo veloce e non controllabile dall’emittente della visione diretta della pagina da parte di persone pienamente alfabetizzate. Per adeguarsi alla temporalità della fruizione impostasi nel Settecento con la lettura silenziosa, la narrativa procedette a un cambiamento della sua forma. Questo non fu, beninteso, un even­ to improvviso ma l’ulteriore passo di un processo secolare e di grande complessità che seguì il progressivo impoverimento del contesto vivo della comunicazione. Fu il tocco finale di quella traduzione su pagina dei toni di voce e dei gesti, che era iniziata con la trascrizione dell’epica orale. Nei secoli, il discorso narrativo era dunque andato cambian­ do, appunto in sincronia – seppur non immediatamente e in modo avvertito – con le trasformazioni del canale della comuni­ cazione. Non solo il puro suono rispetto alla scrittura, ma anche il tipo di scrittura, di libro, di stampa e di lettura incisero sul suo rapporto con la memoria. C’è, infatti, parola e parola; e non tutte si equivalgono, indipendentemente dal supporto materiale che le ospita. Il racconto è perciò un enunciato che conserva traccia della

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sua enunciazione originaria, anche nelle richieste rivolte alla me­ moria dei destinatari. Ma come funziona la memoria umana? Funziona principalmente in base al ripasso (rehearsal), che sposta le informazioni dalla memoria a breve a quella a lungo termine. Quando vogliamo ricordare una storia o un argomento, di solito lo ripetiamo. Già i primi studi di approccio scientifico scoprirono però che questa ripetizione consiste quasi sempre in una rielaborazione o «ricordo costruttivo», come lo definì Fre­ derick Ch. Bartlett nel 1932, notandone il carattere soggettivo e inconsapevole. Egli si accorse anche che spesso erano dettagli isolati e precisi a rimanere in mente, che avevano una relazione con precedenti esperienze dei soggetti129. Nel capitolo dedicato all’epica orale abbiamo visto il modo in cui la memoria entrava in gioco nella trasmissione dei racconti, quando la loro stessa sopravvivenza era affidata esclusivamente a tale facoltà. Laddove la parola è puro suono e non c’è un luogo dove ritrovarla, essa si conserva infatti solo se memorizzata dai singoli individui, che non apprendono però alla lettera, ma attua­ no appunto il ‘ricordo costruttivo’. Così producevano il ripasso i racconti orali, la cui struttura narrativa era calibrata per la me­ morizzazione130 mediante una ridondanza interna, che consisteva nella ripetizione dei medesimi temi e delle stesse sequenze lessicali e foniche131. Naturalmente, pure gli elementi non verbali – i co­ stumi, la musica, i gesti, i toni di voce – contribuivano a rendere memorabili le parole, i personaggi e il contesto stesso dell’enun­ ciazione. Davano tutti man forte alla memoria. Con i cambiamenti storici del contesto della comunicazione, la narrativa dovette sempre rinegoziare i sistemi per attivare la memoria dei suoi destinatari. Nel caso della lettura medievale da manoscritti, la memoria si esercitava mediante le ripetute letture che i supporti tutt’altro che amichevoli rendevano necessarie per la comprensione stessa dei testi. In questo senso, la memoria ser­ viva anche per far tenere, a chi leggeva di fronte ad un pubblico, la velocità appropriata ad ottenere l’effetto ottimale di un testo. Ancora più tardi e per tutto il tempo in cui la lettura ad alta voce fu una pratica corrente e i racconti mantennero la loro relazione con il suono e con il contesto dell’enunciazione, la memoria continuò a essere attivata anche dagli elementi extra­ verbali legati alle situazioni comunicative. Inoltre, in quel lungo

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periodo il rapporto degli individui con la narrativa non fu di tipo ‘estensivo’, ma ‘intensivo’. I lettori non leggevano velocemente e una volta sola delle storie per poi volgersi ad altre storie, ma tornavano ripetutamente sulle medesime, leggendo e rileggendo gli stessi libri anche per tutta la vita132. Li leggevano e li rileg­ gevano, oppure li ascoltavano e li riascoltavano dalla voce di qualcuno che leggeva per tutti. Così, la memoria era aiutata dalla ripetizione letterale. In più, finché durò la lettura sonorizzata a un uditorio, so­ pravvissero i personaggi tipizzati, che venivano ricordati più fa­ cilmente, soprattutto all’ascolto. Lo stesso vale per le situazioni convenzionali, che potevano essere senza difficoltà riconosciute e ricordate133. Le tante fanciulle perseguitate di cui si fanno gio­ co Cervantes, Fielding e Voltaire appartengono a una di queste situazioni fisse, la cui funzione è legata appunto alla memoriz­ zazione. Infine, la lettura ad alta voce continuò a sollecitare a lungo un tipo di struttura narrativa basata sugli episodi, che ben si possono adattare a dei tempi di enunciazione non troppo dilatabili e che sono autoconsistenti, nel senso che possono es­ sere compresi anche da parte di ascoltatori i quali, avendo perso qualche ‘puntata’, non abbiano memoria della parte pregressa della storia. Con l’interiorizzazione della lettura cambiarono le esigenze di memorizzazione, e fu allora che si dissolsero gli episodi e le digres­ sioni che, nella nuova situazione comunicativa, creavano «grande confusione nello spirito e nella memoria»134. La risposta concreta data dal Settecento alle esigenze della memoria nella lettura silen­ ziosa del testo narrativo, fu il romanzo moderno. Quale rapporto instaurò questo con la memoria? Per rispon­ dere alla domanda dobbiamo tornare prima brevemente al discor­ so generale sulla facoltà della memoria, arricchendone un po’ il modello. Il ‘ripasso’, abbiamo detto, è l’elemento essenziale della me­ morizzazione in genere. Tuttavia, ripassare un argomento non si­ gnifica solo ripeterlo, vuoi alla lettera vuoi sotto forma di ‘ricordo costruttivo’: la memoria ha una struttura complessa, che opera anche quando non pensiamo che stiamo memorizzando. Intanto, memorizzare una storia significa averla prima capita; e noi capiamo le storie nello stesso modo in cui capiamo le nostre

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esperienze: la mente le scompone in moduli, assegnando a cia­ scuno un indice (index), che viene immagazzinato nella memoria per mezzo di un codice di archiviazione (label). Quanto meglio si esegue tale operazione, tanto più congruamente si recuperano al momento opportuno le informazioni archiviate135. Ecco il nu­ cleo del comportamento intelligente, che ci consente di risolvere i problemi facendo un uso adeguato (non necessariamente consa­ pevole) delle nostre esperienze pregresse e che è evidentemente in stretta relazione con la memoria. Noi trasferiamo continuamente descrizioni di nuovi avveni­ menti in codici di archiviazione che ne consentono il successivo recupero (retrival): compiamo questa operazione in modo veloce e inconsapevole grazie agli scripts (copione, schema), cioè a degli insiemi di «aspettative relative a quanto accadrà in una situazione ben conosciuta»136. Entriamo per esempio in un ristorante dove non siamo mai stati e si attiva in noi lo script relativo, per cui ci aspettiamo di trovarvi del cibo, di essere serviti a tavola dopo che ci è stata presentata la carta delle pietanze, ecc. Questo perché abbiamo archiviato in precedenza gli indici ristorante in modo pertinente, cioè individuando quanto rende tale un ristorante (non, poniamo, la forma delle sedie o delle finestre, ma il fatto che vi si mangi, di solito serviti, ecc.) e li abbiamo recuperati in modo altrettanto pertinente. Dalla definizione risulta chiaro che gli scripts sono sostan­ zialmente delle storie, sebbene sintetiche («aspettative relative a quanto accadrà»), e sono strutture di memoria che, in base alle capacità che ha la mente umana di ricategorizzare le esperienze passate137, ci dicono «come agire senza che ci rendiamo conto che li stiamo usando»138. Gli scripts, insomma, consentono di comprendere le nuove esperienze alla luce di quelle già fatte. Sono quindi – notiamolo – anch’essi delle ripetizioni, benché non consapevoli. Ogni volta che, in base a una corretta assegnazione di indici e a una corretta archiviazione, individuiamo la situazione presente come simile a una o più già vissute, succede che nella mente si verifica un ripasso. Quando entro in un qualsiasi ristorante, mi si rammenta lo script ristorante e sempre più tale esperienza si radica nella mia memoria a lungo termine. Con queste precisazioni possiamo ora comprendere il nuovo

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rapporto che a partire dal Settecento la narrativa instaura con la memoria. Rispetto al racconto orale, la differenza sta indubbia­ mente nel tipo di ripasso. Non più la partecipazione alle tante performances con il riascolto di ciò che viene inteso come uguale139; e non più indici estratti da vari ambiti di segni, quali i costumi, la musica, i gesti, i toni di voce, il silenzio; ma segni di un unico tipo, cioè le parole stampate su pagine standardizzate e percepite esclusivamente mediante la vista. Il romanzo, che per significare e colpire emotivamente il suo pubblico non dispone dell’ausilio del contesto vivo della performance; che non prevede il riascolto o la rilettura dell’identico; che per suo statuto è novel, cioè racconta storie nuove e sconosciute ai lettori; inventa un nuovo tipo di ripasso. Ma a che serve il ripasso per il romanzo, visto che non risiede nel suono evanescente ed è invece fissato su pagine a stampa, che di per sé ne assicurano la sopravvivenza? Serve, non alla sua sopravvivenza ma alla sua comprensione. Il romanzo è un testo lungo, in cui si intrecciano diverse storie e che può essere capito per intero solo dopo la sua conclusione. Ha dunque bisogno di far presa sulla memoria dei lettori almeno fin tanto che non lo hanno terminato. Essi devono avere presente il pregresso testuale tutto il tempo, e proprio ai fini della compren­ sione. I lettori devono poter serbare memoria di quanto leggono mano a mano che la lettura avanza: pena, appunto, l’incompren­ sibilità stessa. Perciò, se Du Plaisir respinge l’uso della digressione è proprio perché essa ostacola la memoria del pregresso testuale, di quanto è stato narrato fino a quel momento e che serve alla decodifica del presente e del futuro testuali. I romanzi, inoltre, in quanto storie lunghe, di rado possono venir letti senza interruzioni, senza che le incombenze della vita quotidiana si intromettano facendo sospendere la lettura per ore, o magari per giorni. D’altra parte, neppure possono offrire ai loro lettori quelle forme di ripasso che erano proprie dell’auralità e della lettura a voce alta. E non possono ripetersi. Devono perciò presentare altre forme di ripasso, adatte alla nuova situazione co­ municativa. Come fanno? La risposta non è banale, perché riguarda un’operazione cui la storia letteraria ha dato sempre molto rilievo,

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ma mai nei termini e per gli scopi che stiamo per vedere. Si tratta di quello che è stato chiamato il realismo narrativo, il cui insorgere in letteratura è stato attribuito a una varietà di cause sociali, ma mai, a quel che mi consta, alle esigenze della memoria in funzione delle nuove modalità di lettura. Il realismo comporta un arricchimento degli scripts. Gli scripts sono storie, ma sono anche strutture di memoria140: quanto più ampie e precise queste si presentano, tanto maggiore è il numero di ganci che offrono per la memorizzazione. Così, il romanzo introduce ambientazioni accurate, atteggiamenti, dilemmi, in­ decisioni, previsioni, pensieri, che forniscono molte sedi alla memoria e fanno ricordare la storia perché la collegano a un maggior numero di esperienze già in memoria, apprese da altri testi o dalla vita stessa. «Quante più informazioni abbiamo su una determinata situazione» – scrive Roger C. Schank – «tanti più luoghi esistono dove collocarla nella memoria e tanti più modi possediamo per metterla a confronto con altri casi, sempre in memoria»141. Così i fatti, i personaggi, le scene, dimoreranno per più tempo nella mente di chi sta leggendo, e di conseguenza entreranno nella sua memoria a lungo termine. I vari elementi di queste scene e di queste descrizioni costituiranno gli indici per la loro archiviazio­ ne; e svariati ripassi avranno già luogo in tale maniera142. Naturalmente, molti sono i modi per ampliare le scene e le descrizioni al fine di concentrare a lungo su di loro l’attenzione di chi legge, prolungandone i tempi di lettura. Il capitolo prece­ dente ne ha già mostrati alcuni mentre illustrava l’organizzazione del futuro narrativo; e, poiché negli intrecci romanzeschi futuro e passato si combinano, quelle tecniche che per alcuni aspetti ser­ vono all’uno, per altri versi sono funzionali all’altro. Abbiamo visto come il rallentamento del ritmo narrativo, mediante l’inserimento dei pensieri di un personaggio o di de­ scrizioni che seguono il suo sguardo, serva a mantenere viva l’attesa del lettore. E lo stesso effetto sappiamo essere prodotto dal distendersi del racconto sulle componenti delle azioni. Ora possiamo aggiungere che questi elementi contribuiscono anche a far memorizzare gli eventi e le azioni, proprio fornendo loro molti indici e molte caselle nella memoria. Approfondiamo que­ sta affermazione.

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Ogni intreccio è intreccio di fatti, ma il loro dosaggio all’inter­ no dei racconti non è uguale in tutti i tempi. Se classifichiamo, co­ me fece Jan Mukarˇovský, le azioni umane in base al loro grado di spontaneità143, vediamo che alcune sono totalmente meccaniche, altre abituali, altre ancora scaturiscono dall’iniziativa dei soggetti. Quelle del primo tipo – la digestione, la circolazione sanguigna e altre del genere – sono determinate per intero dalla natura e ven­ gono eseguite dal soggetto in modo inconsapevole; quelle del se­ condo tipo sono guidate da consuetudini e compiute spesso senza che impegnino l’attenzione; mentre le ultime sono determinate dal soggetto stesso. Le azioni meccaniche non costituiscono oggetto di racconto; quelle abituali possono o meno parteciparvi, ma senza produrre effetti subitanei sulla traiettoria della storia; e solo le azioni sca­ turite dall’iniziativa dei soggetti sono veramente indispensabili a tutti i tipi di narrativa. Senza di loro non si dà racconto. Le azioni che creano l’intreccio sono perciò comunque sempre quelle che scaturiscono dalle iniziative dei soggetti. Ciò vale per la narrativa di qualsiasi epoca; e tuttavia i tre tipi di azione appaiono epocalmente in dosaggi diversi. Il loro rapporto interno infatti non è stato sempre uguale144; e una caratteristica precipua del romanzo fin dai suoi esordi è che assegnò alle azioni abituali uno spazio che prima non avevano mai avuto. Ecco la ragione per cui la narrativa precedente al Settecento dà ai lettori di epoche successive – abituati appunto ai romanzi – quel senso di accelerazione, di un ritmo galoppante dei fatti che è stato così spesso notato e criticato. Per questo il lettore odierno più facilmente dimentica i rivolgimenti che accadono nei racconti arcaici, piuttosto che quelli che si trovano nei romanzi. Il nuovo genere narrativo di origine settecentesca, inserendo delle azioni abituali in mezzo a quelle che portano avanti la storia, da una parte rallenta il ritmo della narrazione favorendo con ciò la tensione dell’attesa in chi legge; e dall’altra offre un numero maggiore di ganci alla sua memoria, più indici dove appendere i ricordi. Dimorando così più a lungo nella mente, i fatti passano nella memoria duratura e sono ricordati meglio. Detto altrimenti, il romanzo induce la mente del lettore a sof­ fermarsi sulle azioni che scaturiscono dall’iniziativa del soggetto, perché queste giungono condite con altre azioni che, pur non

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attirando su di sé l’attenzione in quanto sono abituali, tuttavia per un po’ la trattengono nell’area delle prime. È dunque evidente che il rallentamento del ritmo narrativo consiste in realtà nel rallentamento delle azioni che scaturiscono dall’iniziativa dei soggetti. Il romanzo opera perciò sulla memoria del lettore, prolungando la durata delle scene con mezzi pura­ mente verbali. Un tale, più lungo, dimorare dei fatti nella mente durante la lettura costituisce una forma di ripasso che contribui­ sce a trasferire i fatti nella memoria a lungo termine. Ma questo non è tutto. In altri modi ancora il romanzo attua il ripasso. Vediamone uno, in un brano di The Italian poco suc­ cessivo a quello citato nella parte sull’attesa. È, tutto sommato, un pezzo qualsiasi, esemplificativo di tutto il genere letterario. Eccolo: Perciò il giorno dopo egli tornò con accresciuta impazienza a Villa Altieri per conoscere i risultati dell’ulteriore colloquio tra la signo­ ra Bianchi e sua nipote, oltre alla data in cui il matrimonio avrebbe potuto essere celebrato. Durante il tragitto, il pensiero di Ellena lo occupava totalmente ed egli procedeva in modo meccanico senza os­ servare i luoghi, finché l’ombra che il noto arco gettava sulla strada non gli rammentò dove si trovava e una voce non attrasse in un attimo la sua attenzione. Era la voce del Monaco, la cui figura gli passò ancora una volta davanti. «Non andare a Villa Altieri» – disse in tono grave – «perché la morte è nella casa». [...] Prima che Vivaldi si potesse riprendere dallo sconcerto nel quale lo aveva gettato l’inaspettata inti­ mazione e l’improvvisa comparsa, lo straniero era sparito. Era fuggito nell’oscurità del luogo e parve essersi ritirato nel buio dal quale era emerso tanto repentinamente, poiché non fu visto allontarsi dal pas­ saggio sotto l’arco145.

Se osserviamo questo brano attentamente, notiamo che la sua temporalità non si incentra per intero sul presente narrato (espresso con il tempo verbale presente, oppure con il perfetto), ma si addensa anche verso il futuro e verso il passato testuali. La protensione verso il futuro narrativo avviene anche qui nei modi che abbiamo mostrato nel capitolo sull’attesa; quanto al passa­ to, esso è presente quasi in ogni parola. Il lettore non potrebbe comprendere il brano se non conoscesse una serie di antefatti che il romanzo ha già trattato in varie sue parti: l’impegno preso

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dalla signora Bianchi, il desiderio di Vivaldi di sposare Ellena e l’opposizione dei genitori, l’arco lungo la strada dove era apparsa e poi si era nascosta in precedenza la figura incappucciata; quindi il sospetto che questi possa essere il consigliere della madre di Vi­ valdi, quello Schedoni che il giovane aveva incontrato da lei poco tempo prima e che lo aveva colpito negativamente. È necessario conoscere diversi passati intradiegetici per deco­ dificare correttamente questo breve passo. E siamo solo all’inizio del romanzo: man mano che la storia avanzerà, la rete dei passati testuali si farà sempre più fitta. A differenza della narrativa antica e, seppur in misura minore, di quella cinque-secentesca, questo brano, mentre porta avanti la storia, induce anche il recupero mnestico di tutta una serie di informazioni pregresse, mediante il riferimento a indici di archiviazione relativi a fatti che il romanzo ha precedentemente narrato. Tutto ciò serve alla comprensione del brano stesso, ma ha an­ che una funzione di ‘ripasso’ che, attuato ripetutamente nel cor­ so dell’opera, consentirà al lettore di giungere alla fine del libro conservando memoria di quanto vi è stato narrato e di provare nei confronti del finale quel «senso della fine», di cui si è detto più sopra. Già in questa scena, appunto, c’è una profondità temporale e tutto un paradigma dei precedenti accadimenti che hanno con­ dotto alla situazione presente. Ciò significa che il tempo che il lettore percepisce non è semplicemente diviso tra un presente che occasionalmente rimanda a un unico passato e un unico futuro come era per esempio nelle Etiopiche, ma viene richiamato invece contemporaneamente su una pluralità di livelli, i quali corrispon­ dono ai diversi stadi del tempo pregresso. Così le scene – ora, oltretutto, arredate con maggior dovizia di particolari di prima –, mentre portano avanti la storia, recuperano al tempo stesso alla memoria di chi legge tutti i passati che hanno condotto a ciascuna di esse. Insomma, la medesima porzione te­ stuale svolgerà sul piano temporale molteplici funzioni. Ciò, si badi, avviene non solo nel corso del romanzo che stia­ mo qui esaminando, ma in tutti i romanzi dalla seconda metà del Settecento in poi: è una caratteristica di questo genere letterario in quanto tale. Per radicare ancor più nel concreto e contemporaneamente

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portare avanti le precedenti affermazioni, esaminiamo un’altra porzione testuale, presa a caso da uno dei capolavori di Jane Au­ sten. All’inizio del trentaquattresimo capitolo di Pride and Prejudice troviamo: Quando gli altri furono usciti, Elizabeth, quasi volesse esasperare al massimo la propria irritazione contro Mr Darcy, decise di dedicarsi all’esame di tutte le lettere che Jane le aveva scritto da quando si trova­ va nel Kent. Non contenevano alcuna lamentela, nessun rimpianto di avvenimenti passati, nulla che dicesse le sue attuali sofferenze. Ma ogni lettera, ogni rigo si può dire, tradiva l’assenza di quel brio che aveva sempre caratterizzato il suo stile, e che, traendo origine da uno spirito sereno e in pace con se stesso, oltre che ben disposto verso tutti, ben di rado si lasciava abbattere146.

Quanti passati intertestuali è necessario conoscere per com­ prendere le parole di questo brano! Subito prima, a Elizabeth era venuto mal di testa per una notizia molto sgradevole che aveva raggiunto il suo orecchio. A causa di quel mal di testa non era andata con i cugini a visitare Lady Catherine, rimanendo a casa da sola e ricominciando a pensare alla sgradevole notizia. Aveva saputo che Darcy aveva brigato per allontanare dalla sorella Jane l’uomo di cui lei era innamorata e che la ricambiava. Elizabeth prende le lettere della sorella e le rilegge, trovando conferma che la sua corrispondente era da tempo sconsolata e infelice. Il lettore si convince così della sincerità dell’amore di Jane, oltre che del suo carattere schivo, capace di sopportare il dolore in silenzio. E nella sua mente queste informazioni si aggiungono a quanto già sapeva di lei (nonché di Elizabeth), fungendo sia da ripasso mnestico sia da approfondimento e conferma di quanto aveva potuto intuire precedentemente. C’è però anche una parte di informazione nuo­ va: Jane era di temperamento allegro, e lo aveva manifestato fino a quel momento. Questa scena sarebbe incomprensibile al lettore se non co­ noscesse la parte pregressa del romanzo; come pure risulterebbe incomprensibile la frase: «quasi volesse esasperare al massimo la propria irritazione contro Darcy». Lì serve il ricordo di altre parti dell’opera, quelle che riguardano il rapporto tra Darcy ed Eliza­ beth: per esempio le parole offensive pronunciate dall’uomo al

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primo ballo, l’ambiguità nel ricercarla e l’idea che la ragazza, forse sbagliando, si era fatta di lui. Insomma, per capire per intero la situazione e i sentimenti che questo corto brano presenta, è necessario conoscere tutto il pregresso testuale. D’altro canto, leggendo il brano il lettore rammenterà situazioni precedenti, riagganciandosi ad aspetti del carattere dei personaggi, ad azioni e a eventi disseminati nell’inte­ ro arco dell’opera. Così, nella sua mente si produrrà una sorta di ripasso che non interrompe lo svolgersi del presente, non intralcia l’avanzare della storia; non produce, insomma, una cesura come facevano invece le digressioni. Gli esempi di ripasso fin qui osservati hanno mostrato, mi pare in modo evidente, come si configuri il rapporto che la nar­ rativa postsettecentesca intrattiene con la memoria, un rapporto sconosciuto all’epica orale. La ripetizione, procedura base della memoria, non consiste nel romanzo in una riproposizione pura e semplice dell’uguale. Personaggi e situazioni non tornano identici sulla scena dopo un certo numero di pagine, ma si ripresentano modificati dal tempo e dagli eventi intercorsi. Il brano citato, per esempio, mentre rimanda ai sentimenti del personaggio che il te­ sto aveva precedentemente mostrato, e così facendo li rammenta al lettore, al tempo stesso ne espone il cambiamento a seguito di quanto nel frattempo è accaduto. Insomma, nel lettore non viene attivato un ripasso dell’iden­ tico, ma un ripasso di elaborazione147, che presenta le trasforma­ zioni che il tempo ha inciso nei motivi, nei fini, negli agenti, nelle connessioni causali, e così via. Le informazioni pertinenti sono riportate alla memoria di chi legge, attirando l’attenzione su por­ zioni di storia e su scripts trascorsi, ma mai mediante la ripetizione dell’uguale e il ripasso alla lettera. In tal modo il passato non solo non viene lasciato cadere nell’oblio ma, nel rammentarlo, se ne mostrano i legami con il presente, con l’avanzare della storia che tiene il lettore in sospeso fino alla conclusione148. Tutto ciò accade in ogni romanzo; anzi è, rispetto alla prece­ dente narrativa di finzione, il tratto fondamentale e caratterizzan­ te di questo genere letterario. La messa in intreccio che esso com­ pie della temporalità è diversa da quella delle epoche precedenti: scorre tenendo memoria del passato mentre si protende verso il futuro, producendo una disposizione fissa e immodificabile delle

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scene, dei personaggi e delle azioni. Anche solo un piccolo spo­ stamento significherebbe trasformarne il significato e l’effetto nel suo insieme. È quella caratteristica che abbiamo chiamato ‘coe­ sione narrativa’; ed essa, come vedremo nel prossimo capitolo, è ben più che un dato meramente formale.

V Forma simbolica Intersoggettività incarnata Percorrendo in questo libro la storia della comunicazione nar­ rativa, abbiamo assistito a una progressiva riduzione nei secoli della presenza del corpo, fino a quando, nel Settecento, il discorso verbale non assunse tutte le funzioni relative al significato e all’at­ tivazione empatica. Se nell’epica orale e fintanto che la lettura dif­ fusamente avveniva ad alta voce queste erano state affidate anche ai gesti, alle intonazioni, ai silenzi e al contesto dell’enunciazione, a partire dal Settecento tutto fu preso in carico dalla parola stam­ pata, letta in silenzio e individualmente. La materialità del corpo e dei supporti dei testi finì allora per non essere più percepita da chi leggeva, e la pratica venne da quel momento in poi sentita come un accesso diretto a un’interiorità assolutamente demate­ rializzata. Ciò comportò un cambiamento rilevante nella forma narra­ tiva, che si configurò in modo da farsi percepire – percepire è la parola – a una lettura silenziosa e scorrevole come dotata di uni­ tà. Questo impianto testuale, che abbiamo denominato ‘coesione narrativa’ e che accorpa le storie mediante un fitto andirivieni tra futuro e passato, dal Settecento in poi sarà sentito come l’unico modo possibile e ‘naturale’ di narrare. Potere delle pratiche, che formano l’umanità che le ha create! La formano anche fisicamente. Come afferma, per quel che riguarda proprio la pratica della lettura, la neuroscienziata Mar­ yanne Wolf, la quale scrive: «L’invenzione della lettura ha portato con sé una parziale riorganizzazione del nostro cervello», che è

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capace di essere modellato dall’esperienza. Si sono così stabiliti nuovi collegamenti tra strutture e circuiti «originariamente pre­ posti ad altri più basilari processi cerebrali [...] come la vista e la lingua parlata». E nuovi collegamenti, aggiunge, si apriranno probabilmente in futuro assieme alle nuove trasformazioni della capacità umana di comunicare1. Ma se è come afferma Maryanne Wolf, dobbiamo anche te­ ner presente che l’umanità non ha appreso a leggere nei modi in cui oggi lo fanno i nostri figli, e ha seguito invece un percorso molto meno lineare. Diverse trasformazioni nei collegamenti tra strutture e circuiti neurali devono dunque essersi susseguite da quando la comunicazione narrativa prevedeva l’intervento deter­ minante del corpo di chi leggeva ad alta voce e del contesto stesso dell’enunciazione, fino a quando il destinatario non percepì più alcuna materialità e tutto fu affidato a segni su pagine a stampa, scorsi con gli occhi velocemente in solipsistico silenzio. In que­ sto processo di trasformazione delle modalità di lettura, le forme verbali dei testi si andarono modificando proprio per conservare le loro potenzialità semantiche ed emotive. Si verificò, insomma, una graduale ‘traduzione’, nel discorso narrativo, dei significati e degli effetti prima veicolati dal corpo. David Hume – attento all’efficacia comunicativa e all’empatia (sympathy), che nella sua filosofia detiene un rilievo non di po­ co conto – scrive che gli esseri umani percepiscono l’emozione degli altri «mediante i suoi effetti e mediante quei segni esterni nell’espressione del viso e nella conversazione che ne trasmettono un’idea. Questa idea – seguita – è subito convertita in un’impres­ sione e acquisisce un tal grado di forza e di vivacità da diventare la passione stessa e da produrre un’emozione uguale a qualsiasi stato affettivo originario»2. Secondo lui tale forma di intersoggettività, fondamentale nella vita di tutti, sarebbe dapprima un fatto men­ tale, che solo successivamente volge in emozione, in «passione» per usare la sua terminologia. Oggi però sappiamo che non avviene esattamente così e che almeno una prima condivisione empatica ha luogo in modo più immediato. Le neuroscienze hanno scoperto che si attiva in noi una forma diretta di comprensione dell’azione, consentita da una classe di neuroni del sistema motorio che sono stati chia­ mati «neuroni specchio» e che scaricano sia quando compiamo

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azioni, sia quando vediamo altri che le compiono. Questi neuroni attivano quindi un contatto prementale con gli altri, in quanto «simulano» in noi le azioni che vediamo compiere, consentendoci di comprendere «come l’altro si senta»3. Ecco allora che qualcosa di rilevante deve essere avvenuto in questa intelligenza incarnata e prementale durante tutto l’arco dei cambiamenti della comunicazione narrativa, da quando i raccon­ ti giungevano ai destinatari conditi con movimenti imitativi, con gesti significanti, con il suono, a quando questi supporti scompar­ vero e i messaggi destinati a durare rimasero solo in veste di nude parole stampate su libri e lette individualmente. Ancora più di recente è stato scoperto che i neuroni specchio si possono attivare anche quando le azioni sono dette invece che mostrate ostensivamente4. Varrebbe allora la pena di porsi di nuo­ vo – ora in questa ottica – quella domanda che ha costantemente percorso il nostro libro: perché la nostra esperienza ci mostra che alcuni tipi di narrazione suscitano in noi immedesimazione em­ patica e altri no? Nei capitoli precedenti abbiamo dato una risposta sulla base della psicologia generale, sostenendo che quasi tutto dipende dal­ la temporalità della comunicazione, la quale deve conformarsi con quella delle emozioni umane. Abbiamo mostrato come il discorso narrativo scritto abbia imparato proprio nel Settecento a suscitarle con le sole parole, lette velocemente e in silenzio, perché gli scrit­ tori si resero conto allora che non basta menzionare le azioni, ma che occorre ‘evocarle’. Il che significa che la loro comunicazione deve impiegare un lasso di tempo adeguato appunto alla tempo­ ralità delle emozioni, consentendo loro di attivarsi. Perso del tutto l’ausilio del contesto vivo della comunicazione, che consentiva di gestire la temporalità mediante interruzioni o rallentamenti della lettura, il Settecento dovette ‘inventare’ una struttura narrativa che producesse quel medesimo effetto su chi aveva di fronte il libro, che poteva scorrere direttamente con lo sguardo. Ecco perché quando oggi leggiamo da soli la narrativa pre­ settecentesca, in noi non si attiva alcun effetto empatico; mentre ciò avviene con quella più tarda, che modula la durata temporale mediante le sole parole. La prima, per suscitare emozione aveva bisogno dei gesti, della voce e del tempo reale; mentre la seconda ha incorporato tutto nel discorso narrativo.

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La temporalità dell’enunciazione è fondamentale. Il tempo ri­ siede nella grana stessa delle azioni, nella loro essenza costitutiva: è il verbo che dice l’azione, è il tempo verbale che la colloca. E le azioni – nella vita reale come nei racconti – hanno una durata, la quale, finché il corpo è stato implicato nella comunicazione nar­ rativa, veniva agita direttamente, e in tal modo dava agli astanti un’esperienza della temporalità. Poi le parole trovarono espedienti per prendere in carico tutto, sostituendo la molteplicità dei canali anche nel dare il senso di una durata lunga e procrastinata. Però non si trattò di qualcosa di assolutamente identico. Come tutte le ‘traduzioni’, anche questa comportò perdite e acquisizio­ ni. Qualcosa di diverso entrava nel racconto e questo, riproposto tante volte, penetrava nella profondità del sentire umano, fino a essere percepito come ovvio, scontato e naturale, l’unico modo possibile di strutturare i fatti. Ed era un modo che, come abbiamo visto, li accorpava strettamente, calandoli in una temporalità den­ sa, che conteneva, implicito, un forte senso della causalità. Fatti così, tutti i racconti scivolavano in gola al nuovo tipo di lettori fa­ cili come budini; e fatti così i racconti potevano attivare l’empatia, l’immedesimazione nei personaggi, le emozioni. Coesione narrativa Vale la pena di volgere momentaneamente lo sguardo a Tempo e racconto di Paul Ricoeur, che tratta, come è noto, del rapporto tra temporalità e intreccio. Sanando la discontinuità temporale tra presente, passato e futuro; e raccogliendo questa triplice temporalità in un intreccio che unifica azioni ed eventi, il racconto, scrive il grande filosofo, svolge una funzione refe­ renziale relativa alla nostra esperienza temporale, che altrimenti sarebbe «confusa, informe e, al limite, muta». Attraverso il rac­ conto – di finzione e storico, continua – noi abbiamo il senso della temporalità: esso è «forma simbolica» il cui referente ulti­ mo è «l’esperienza umana del tempo», ovvero le «strutture della temporalità»5. Ecco il rapporto tra racconto e tempo. Il racconto, appunto, non è un vestito che copre un corpo preformato, ma piuttosto ciò che si crea e si sagoma assieme a questo corpo. Il racconto è forma

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simbolica6 della temporalità: un sentire il tempo, più che un pen­ sarlo. Ricoeur lo definisce «storia che si fa seguire». E spiega: Seguire una storia vuol dire avanzare in mezzo a contingenze e peripezie sotto la guida di una attesa che trova il suo compimento nella conclusione. Questa conclusione non è logicamente implicata in talune premesse anteriori. Essa conferisce alla storia un «punto finale», il quale, a sua volta, fornisce il punto di vista dal quale la storia può esse­ re colta come formante un tutto. Comprendere la storia vuol dire com­ prendere come e perché gli episodi successivi hanno condotto a questa conclusione, la quale, lungi dall’essere prevedibile, deve essere congrua con gli episodi raccolti [...]. Leggendo la fine nell’inizio e l’inizio nella fine, noi impariamo a leggere anche il tempo cominciando dalla fine7.

Questo, per il filosofo, è il racconto in senso assoluto, forma simbolica di un’esperienza umana universale del tempo. Però, se il presente libro è riuscito nel suo intento, esso ha mostrato che i racconti del lontano passato avevano forma diver­ sa; e non vi si poteva leggere la fine nell’inizio e l’inizio nella fine. Mentre invece la descrizione di Ricoeur si attaglia perfettamen­ te alla narrativa dal Settecento in poi, dotata di quella che noi abbiamo chiamato appunto coesione narrativa, la quale esprime un’attitudine temporale per cui ogni presente narrato contiene anticipazioni del futuro e recuperi del passato. Se così è, e sono convinta che lo sia, questo significa che Ri­ coeur descrive una forma storica di racconto e non la sua for­ ma universale. Tale forma storica è perciò forma simbolica non dell’esperienza della temporalità, ma di un’esperienza – storica­ mente determinata – della temporalità. Se così stanno le cose, se le modalità del raccontare – capaci di dare sagoma e alloggio al nostro sentire temporale – modificano negli anni quella loro strut­ tura formale che, in quanto forma simbolica, si configura assieme al nostro esperire la temporalità, come non leggere in ciò gli indizi di uno dei modi in cui l’esperienza temporale dell’essere umano è stata soggetta a cambiamenti lungo il susseguirsi delle epoche? L’intelligenza degli esseri umani, rammentiamolo, è narrativa. È intelligenza di azioni. Ci spieghiamo il mondo e interpretiamo le esperienze mediante l’elaborazione – il più delle volte inconscia – delle storie che conosciamo. Sono loro a guidarci all’azione, in

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quel processo continuo che è la nostra vita8. Noi siamo le storie che raccontiamo agli altri e a noi stessi. E queste storie raccontano qualcosa di noi. Siamo da sempre immersi nella pratica del narra­ re, cui abbiamo dato forma e che ha dato forma a noi. Ma se è così, allora la forma che ciascuna epoca presenta nei propri prodotti narrativi espliciti non può non rintracciarsi anche nella nostra ‘lettura’ di quei prodotti narrativi impliciti che sono le nostre esistenze e le nostre intellezioni del mondo. Potrebbe in­ fatti mai esistere una differenza radicale tra le storie che l’umanità di una certa epoca esplicitamente narra e quelle che, rimanendo sepolte nella mente degli individui, li guidano all’interpretazione del mondo e all’azione? Potremmo mai lasciarci convincere dagli elementi formali di un racconto – dall’insieme delle connessioni causali e temporali che lo strutturano – senza che essi vadano a coincidere con quelli del nostro sentire in generale, del nostro interpretare gli eventi, della nostra esperienza della temporalità? Senza che questo sia il nostro stesso sentire di come accadono le cose nel mondo e della temporalità che le sostiene? Se le storie cambiano al ritmo delle epoche e se la nostra intel­ ligenza è conformata in modo che noi siamo le storie che raccontiamo, anche le epoche sono le storie che raccontano. È scontato che lo siano nei loro contenuti di superficie, che mutano in tempi relativamente brevi. Ma esse non possono non esserlo anche in quegli aspetti di forma e di relazione che riguardano le forme simboliche delle esperienze temporali, le quali abitano la lunga durata e le strutture profonde. Paul Ricoeur, lo ripetiamo, presenta a mio avviso un’astrazio­ ne non del racconto, ma di un tipo storico di racconto, quello la cui forma, configurandosi compiutamente nel Settecento, rimane in sostanza uguale fino ad oggi. Quella unità narrativa fondata su una temporalità forte che è alla base della sua descrizione è pene­ trata tanto a fondo nel nostro inconscio culturale da non farcela riconoscere come dato storico, ingannandoci su una sua supposta universalità. E chissà se il fatto che oggi possiamo distanziarcene quel po’ che ci consente di vederla come storica, non sia perché le nostre narrazioni stanno cambiando assieme alla nostra sensibilità temporale. La coesione narrativa è la forma che abita ancora prevalente­ mente gli intrecci moderni e che configura l’esperienza tempo­

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rale di un’epoca che è (è stata?) indubbiamente lunga, ma con tutta probabilità non sarà eterna. Incarnandosi nel romanzo, essa produce un salto nella storia letteraria, che non riguarda tanto le immediate determinazioni contenutistiche – ambientazioni bor­ ghesi, poniamo, oppure la presentazione di eventi che possano realmente accadere, su cui a mio avviso si è troppo insistito – quanto piuttosto quei rapporti e processi che concernono la for­ ma simbolica della temporalità. Futuro passato9 Per illustrare questa sensibilità temporale, lasciamo ora la pa­ rola a Samuel Johnson, che la esprime nel linguaggio del senso comune. Il numero 2 del «Rambler» (24 marzo 1750) tratta dell’incapa­ cità degli esseri umani di vivere nel presente. Viene spesso fatto notare, scrive il grande poligrafo, che la mente non trova soddi­ sfazione in ciò che ha a portata di mano, e continuamente fugge dal presente per progettare una felicità futura. Capita così che gli esseri umani sprechino il loro tempo alla ricerca di qualcosa che forse non otterranno mai. È fin troppo facile, continua, per uno scrittore mostrare quan­ to sia sciocca questa pratica: deriderla vuol dire però camminare su una strada battuta per brillare senza sforzo e conquistare l’udi­ torio senza competizione. È facile, appunto, ridere di chi vive nel mondo dei sogni e rifiuta i piaceri di cui potrebbe godere subito per dei successi futuri, lasciando in tal modo scorrere via la vita fino all’ultimo minuto. Ma lo scrittore dovrebbe fare altrimenti, e invece di continuare a percorrere alla cieca una strada già tanto praticata, dovrebbe piuttosto chiedersi se realmente questa critica conduca a verità. È vero infatti che il crogiolarsi nelle emozioni del successo prima di averlo conseguito può far dimenticare di intraprendere quelle iniziative che lo renderebbero possibile, facendo perdere magari definitivamente l’occasione. Ma è altrettanto vero che ben poche imprese impegnative e rischiose verrebbero iniziate se non ci proiettassimo nel futuro, prevedendo i vantaggi che ne verran­ no. D’altra parte, neppure saremmo capaci di attuare progetti a

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lungo termine, se non gettassimo di frequente uno sguardo alla meta. Questo è un aspetto del nostro stare al mondo: Questa caratteristica di guardare avanti nel futuro appare la con­ dizione inevitabile di un essere i cui moti e la cui vita sono graduali. Avendo potenzialità limitate, deve trovare il modo di raggiungere i propri scopi, stabilendo prima quello che compirà poi. Infatti, poiché egli avanza incessantemente a partire dal primo stadio dell’esistenza, l’orizzonte delle sue aspettative varia di continuo e deve perciò sem­ pre scoprire nuovi motivi di azione, nuove inquietudini della paura, e nuovi allettamenti del desiderio10.

In mezzo a consigli di saggezza quotidiana, queste parole espri­ mono, senza enfasi né risalto, l’idea che Johnson e il Settecento hanno del tempo umano. Un’esperienza temporale ben diversa da quella che manifesta la letteratura dei secoli precedenti. Il senso della temporalità proprio dell’individuo rinascimen­ tale era bene esemplificato dalla metafora della barca che scivola su un fiume: chi vi è sopra deve rimanere vigile per afferrare al passaggio ciò che gli fluttua accanto o che sta sulle sponde quan­ do egli vi passa vicino, perché la barca non tornerà due volte nel medesimo punto. Le occasioni sono irripetibili e vengono perse per sempre se non si afferrano quando il tempo è maturo. Le azio­ ni umane hanno un momento appropriato per essere compiute: passato questo momento, se l’attimo non viene colto, il tempo continua inesorabile come lo scorrere dell’acqua del fiume, che non ti porterà mai più accanto alla stessa sponda, né ti farà scivo­ lare vicino lo stesso oggetto11. Invece, l’idea di Johnson è evidentemente molto diversa e più tranquillizzante. Il tempo è continuo e scorre lento. I successi si preparano guardando prima al futuro e poi al passato. Egli non accentua tanto la necessità di porre attenzione al presente, quanto piuttosto quella di protendersi verso il futuro, un futuro di cui il passato è componente fondamentale. Nel numero 69 di «The Adventurer» (3 luglio 1753), egli per l’appunto usa la metafora della barca sul fiume, ma con una va­ lenza molto diversa da quella rinascimentale. Dice che è sbagliato il comportamento di chi «galleggia pigramente giù per il fiume, all’inseguimento di qualcosa che è portato dalla medesima corren­

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te», perché «troverà che procede sì, ma a meno che non dia mano al remo e aumenti la velocita con il proprio sforzo, sarà sempre alla medesima distanza da ciò che sta inseguendo»12. Qui l’idea non è quella di un individuo che scorre con la cor­ rente della vita, la quale per caso gli può fare incontrare il suo proprio bene e lui (sempre un lui, ovviamente) deve essere vigile per coglierlo al volo. L’idea è invece che questi si propone degli obiettivi incontro ai quali deve necessariamente remare se vuole raggiungerli, e remare con sforzo. L’individuo cioè non può af­ ferrare la sorte al passaggio, ma deve pianificare il suo proprio futuro. D’altra parte, «tanto esigua è la nostra attuale dotazione di felicità, che in molte situazioni la vita potrebbe a malapena essere sopportata se alla speranza non fosse concesso di alleviare l’ora presente con piaceri presi in prestito dal futuro»13. È un atteggiamento giusto e che va adottato, scrive Johnson, perché, avendo poteri limitati, gli esseri umani devono cercare i mezzi con i quali ottenere i loro fini: dovranno perciò immaginare prima quello che faranno poi. In ogni momento presente si proiet­ teranno verso il futuro: un futuro implicitamente mostrato come lontano, perché i moti umani per Johnson non sono repentini e intramezzati da stasi, come pensavano i sostenitori della necessità di cogliere l’attimo, ma sono graduali. La vita è progressive. Gli individui si protenderanno così verso un futuro distan­ te, cui si avvicineranno con lentezza. Gestione umana del tem­ po, protensione verso il futuro, moto graduale, a piccoli passi, silenzioso e impercettibile: questa è l’esperienza settecentesca del tempo, il quale è ora un po’ meno nemico che nel Rinascimento. È meno inesorabile la perdita dell’attimo, dell’occasione, perché tale gradualità e lentezza, tale scorrere progressivo del tempo con­ sentono all’individuo di perdere, se capita, una battuta. Basta che sia determinato e continui a guardare nella medesima direzione, perché certo recupererà. Questo moto graduale è direzionato fin dall’inizio della vita. La parola ‘avanzamento’ contiene un’idea di progressione, di mi­ glioramento e insieme di una impossibilità di ritorno sui propri passi. Potrebbe essere qualcosa di simile alla barca sul fiume, per quel che riguarda il fatto che non si transita due volte sullo stesso punto, ma in realtà è molto diverso. Il senso di tragicità e di ango­ scia è diminuito: lo scorrere del tempo non è più inappellabile.

V.  Forma simbolica

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Al tempo umano rinascimentale, una volta distolto lo sguardo dal suo sfociare nell’eternità, non restava che il percorso dei singoli verso la morte. Anche se all’individuo erano offerte grandi oppor­ tunità, egli doveva saperle cogliere; se non lo faceva, le occasioni non gli si offrivano due volte. E intanto la sua barca scorreva sul fiume della vita verso una vecchiaia che era perdita: della bellezza, dell’amore, delle capacità, degli onori. In fondo al percorso, la fine di tutto: la morte. Da qui l’angoscia: il tempo era imposto all’indi­ viduo, egli non governava la barca ed era in balìa della corrente. Il tempo settecentesco, invece, favorisce gli esseri umani, perché sono loro a dargli la direzione. I moti graduali e la vita «progressive» sono quelli appunto dell’umanità, e l’individuo può agire al loro interno. Questo tempo amico procede lento e pieno: concede agio alle decisioni umane; consente di valutare con calma prima di decidere. Il tempo è progressive comunque, indipendentemente dalle scelte di ciascun individuo, perché è l’umanità nel suo insieme a muoversi. Il tempo individuale si inserisce, confluisce in questo moto collettivo, e gode dell’inevitabilità di una progressione che è accumulo. Ma, si noti perché è importante, in Johnson e nel­ la sua epoca, l’accumulo è prevalentemente in positivo, è quello che è stato chiamato il senso del progresso. Successivamente e in altri momenti meno ottimisti l’accumulo potrà essere anche in negativo, ma sarà comunque sempre un tempo pieno, denso di quell’intreccio tra futuro e passato di cui ha detto Reinhart Kosel­ leck e di cui nel presente libro abbiamo visto il lento configurarsi linguistico-narrativo. Questo senso della temporalità e dell’agire umano non solo giu­ stifica, ma addirittura rende necessario e indispensabile quell’at­ teggiamento di protensione verso il futuro che Johnson diceva es­ sere la condizione inevitabile dell’essere umano: pianificazione del futuro, potremmo chiamarla, del cui valore egli era consapevole. Il tempo johnsoniano settecentesco è differente da quello rina­ scimentale anche per un altro aspetto. Mentre la filosofia del cogli l’attimo contiene il senso di una temporalità fratta, di una stasi con occasionali balzi; il tempo settecentesco è continuo. Di «continui avanzamenti dal primo stadio della sua esistenza» parla Johnson a proposito dei graduali moti dell’individuo. Del Settecento è il senso della continuità temporale.

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Mentre in una visione dell’agire umano come quella rinasci­ mentale, in cui l’individuo doveva tendersi a cogliere l’attimo, l’esigenza era l’attenzione – si deve essere attenti al presente per cogliere l’occasione propizia – qui l’individuo divide la sua atten­ zione più distesamente tra presente e futuro, perché il presente è nulla, è pura superficialità, se vissuto senza progetto, senza cioè proiettarsi nel futuro prevedendolo nell’anticipare gli esiti delle azioni. L’individuo è in movimento, un movimento lento, graduale e continuo. Varia così l’orizzonte che gli si offre allo sguardo, e cambia anche, sempre gradualmente e lentamente, la direzione verso cui egli tende. Ma la spinta all’azione, cioè quel gesto che lo colloca nella dimensione temporale, proviene da lui stesso: sa­ ranno l’eccitazione della paura e gli allettamenti del desiderio gli elementi propulsori. Il brano del «Rambler» continua: «Perciò, il fine che attual­ mente ispira i nostri sforzi, una volta conquistato si scoprirà che è solo uno dei mezzi per qualche altro fine più remoto. La mente, per natura, non vola da un piacere all’altro, bensì da una speranza all’altra»14. La progettualità non solo è considerata positiva, ma è anche un gesto che l’individuo ripete all’infinito, una costante che fa parte della condizione umana. Lo sguardo si allunga sempre nella direzione del futuro, e ciò che per un tratto è il fine, quando viene raggiunto si rivela mezzo per un fine più lontano, e così via. Ogni successiva meta è dunque sintesi di tutto quanto l’ha pre­ ceduta: intenzioni, fini, mezzi ed esiti; e di tutto ciò reca memoria. La memoria è una presenza, protagonista implicita del saggio da cui stiamo citando. La gradualità, la progressione e soprattutto la continuità presuppongono, sì, la capacità di anticipare, ma anche quella di ricordare e di far uso della propria memoria. Il futuro può essere progettato con successo solo utilizzando il passato. Altrove Johnson lo dice esplicitamente. Per esempio nel nu­ mero 137 (26 febbraio 1754) di «The Adventurer»: egli [l’individuo] può provvedere al futuro soltanto riflettendo sul pas­ sato e, poiché è solamente nel futuro che risiede il suo vero interesse, dovrebbe con molta diligenza far uso dell’unico modo mediante il quale può essere messo in grado di goderselo, e spesso volgersi agli

V.  Forma simbolica

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esperimenti sulla vita fatti precedentemente, per acquisire saggezza dagli errori e cautela dagli insuccessi15.

Lo stacco con la sensibilità rinascimentale non potrebbe essere più marcato. Ora il tempo cumula i suoi esiti; accumula, appunto. E la sede prima dell’accumulo è ovviamente la memoria umana. Una memoria, si badi però, non fotografica, non statica, ma che trasforma e si trasforma, che elabora, direzionata dalla paura e dal desiderio. «The Rambler»: È piacevole osservare un manufatto crescere gradualmente dal suo primo misero stato attraverso lo sforzo ininterrotto di innumerevoli menti [...] (n. 9). Lo sforzo, se continuato con vigore, raramente man­ ca di ricompensare [...] (n. 25). La parte maggiore della vita è invero composta di piccoli eventi e modeste occorrenze [...]. Il filo della vita intrecciato con la catena di cause [...] (n. 68)16.

Leggiamo, nelle parole di Johnson, una traduzione in senti­ re quotidiano di quanto noi abbiamo tentato di guardare nella controluce di un’analisi del discorso narrativo. L’individuo deve essere in grado di prevedere gli effetti, anche remoti, delle proprie azioni, e di inserire il passato in questa medesima catena causale. Ecco l’esperienza temporale di cui la coesione narrativa è forma simbolica. Ecco il senso del mondo, dell’individuo e della tem­ poralità che essa crea, alberga, esprime, comunica e diffonde in modo subliminale. La coesione narrativa, per come l’abbiamo vista emergere dal­ l’investigazione semiotica, è questo futuro passato e questo passato futuro, forma simbolica di una esperienza del tempo storicamente (antropologicamente) determinata. L’indagine che abbiamo porta­ to avanti in questo nostro libro, e che ci accingiamo a sospendere senza peraltro voler abbandonare, ci ha guidati attraverso di lei, nell’unico modo in cui si riesce a rendere oggetto di osservazione qualcosa che è dentro i nostri stessi occhi. Aspetti del sentire che hanno albergo nel profondo di noi, inconsapevoli ospiti del loro maturarci dentro. Aspetti del sentire che nel contempo ci circonda­ no, come ci circonda la cultura dell’epoca che ci dà vita. Non pos­ siamo uscirne, trasportarne campioni in laboratorio, e ci ritroviamo a studiare virtuosamente le gocce del mare nel quale nuotiamo.

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L’invenzione del romanzo

All’improvviso, ne vediamo dei segnali, ci accorgiamo della loro esistenza, ce li troviamo nell’inconscio fisico e psichico in­ sieme. E allora ci paiono di natura; mentre invece si sono formati e sono cresciuti attraverso il nostro fare, attraverso il fare delle epoche, attraverso il fare dei nostri simili che guardiamo agire e i cui gesti si imprimono nel nostro corpo come se fossimo noi stessi a compierli. Le tecnologie della parola, intese nel senso più ampio, non si limitano a immagazzinare ciò che già abbiamo conosciuto per altra via. Piuttosto, sono esse medesime a modellarlo, in un mo­ do spesso inaccessibile alla coscienza. Crediamo di apprendere e di comunicare solamente dei contenuti, mentre invece andiamo apprendendo e comunicando, insieme, anche delle forme. Forme costitutive di noi stessi, forme del nostro pensiero, modi del pen­ sare e del sentire. Nell’intreccio – e qui sta bene prendere in prestito la parola – delle pratiche che costituiscono le nostre esistenze, prime fra tutte le pratiche linguistiche, il soggetto si costituisce di epoca in epoca. Individuare quella mutevole grana narrativa che, ancora di epoca in epoca, ha informato di sé le esperienze temporali dell’umano sentire vuol dire rintracciare uno – uno, se non altro – dei luoghi della loro costituzione. Il romanzo è allora una delle determina­ zioni storiche di questo luogo originario.

Note Capitolo I Marcel Proust, Giornate di lettura (1905), Einaudi, Torino 2003. Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Il Mulino, Bologna 1992; Carlo Sini, Le pratiche, gli abiti, i saperi, Jaca Book, Milano 1996. 3 René Thom, Stabilità strutturale e morfogenesi: saggio di una teoria generale dei modelli (1972), Einaudi, Torino 1984. 4 Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence, Northwestern University Press, Evanston (Illinois) 2000. 5 Sul rapporto contenuti/materialità del canale della comunicazione, oramai immensa è la bibliografia, che come è noto parte da Marshall McLuhan e Walter J. Ong. Per il rapporto tra modalità di lettura e forme del discorso si può vedere, di Roger Chartier, Forms and Meanings: Texts, Performances, and Audiences from Codex to Computer, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1995 e Communautés des lecteurs, in Culture écrite et société. L’ordre des livres (XIVeXVIIIe siècle), Bibliothèque Albin Michel, Paris 1996, pp. 133-154. 6 Su questo brano di Hume tornerò più oltre nel presente libro (pp. 129-137). 7 Roland Barthes, Il piacere del testo (1973), Einaudi, Torino 1975, p. 26 (il corsivo è nell’originale). 8 Henry James, L’Arte del romanzo (1884), a cura di Agostino Lombardo, C.M. Lerici editore, Milano 1959. 9 Nadia Fusini, Viaggio mentale nel tempo senza doni, in «il manifesto», 12 dicembre 1985. 10 Luc de Clapiers Marquis de Vauvenargues, Réflexions sur divers sujets (1745), in Œuvres complètes, préface et notes de Henry Bonnier, tome I, Hachette, Paris 1968, p. 256. 11 Samuel Johnson, «The Rambler», 139, 16 luglio 1751, in Mona Wilson (a cura di), Johnson: Prose and Poetry, Rupert Hart-Davis, London 1970, p. 235 (la traduzione è mia). 12 Lettera di lunedì 26 gennaio 1920, in Virginia Woolf, Diario di una scrittrice (1953), traduzione di Giuliana De Carlo, prefazione di Ali Smith, Introdu­ zione di Leonard Woolf, minimum fax, Roma 2005, pp. 52-53. 13 Lia Levi, L’amore mio non può, edizioni e/o, Roma 2006, p. 27. Su questa metafora in George Eliot, si può vedere il mio Middlemarch, Santa Teresa e la tela del ragno, in Anita Weston e John McRae (a cura di), Middlemarch: il romanzo, Loffredo, Napoli 1987, pp. 129-139. 14 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancha (1605), Garzanti, Mi­ lano 1977, p. 106. 15 Ivi, p. 104. 1 2

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Note

Capitolo II Per la parte sul mondo greco-latino mi sono servita principalmente dei seguenti saggi: Luciano Canfora, Libri e biblioteche (pp. 11-94) e Guglielmo Cavallo, I fondamenti culturali della trasmissione dei testi antichi a Bisanzio (pp. 265-306), in Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina (a cura di), Lo spazio letterario della Grecia antica, vol. II, La ricezione e l’attualizzazione del testo, Salerno Editrice, Roma 1992; Guglielmo Cavallo, Testo, libro, lettura, in Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, vol. II, La circolazione del testo, Salerno Editrice, Roma 1989, pp. 329 sgg.; Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica (1988), La­ terza, Roma-Bari 1991; Eric G. Turner, I libri nell’Atene del V e IV secolo a.C., in Guglielmo Cavallo (a cura di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1992; Luciano Canfora e Diego Lanza, La produzione e la circolazione del testo, vol. I, La polis, Salerno Editrice, Roma 1992; Guglielmo Cavallo, Tra «volumen» e «codex». La lettura nel mondo romano, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 37-69; nuova ed. 2009. Per sommi capi anche a A History of Reading di Steven R. Fisher (Reaktion Books, Lon­ don 2003), che dedica tuttavia qualche pagina all’antico Egitto e agli Etruschi. 2 Conservato a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contem­ poranea. 3 Anch’esso conservato a Roma nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea. 4 Horst Blanck, Il libro nel mondo antico (1992), a cura di Rosa Otranto, De­ dalo, Bari 2008, cap. II. Per l’effetto della scrittura (anche non alfabetica) sulla società – soprattutto nell’antica Mesopotamia, nell’antico Egitto e nell’Africa odierna – si veda Jack Goody, La logica della scrittura e l’organizzazione della società (1986), Einaudi, Torino 1988. 5 Per la scrittura prima di quella alfabetica, si veda l’importante libro di Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura (1988), Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 9-46, cui farò riferimento più volte nelle note al presente capitolo. 6 Jesper Svenbro, Storia della lettura nella Grecia antica cit., cap. I. 7 Ivi, cap. X e Florence Dupont, L’érotisme masculin dans la Rome antique, Thierry Éloi Belin, Paris 2001, pp. 163 sgg. 8 Florence Dupont, L’invention de la littérature. De l’ivresse grecque au livre latin, Edition la découverte, Paris 1994. 9 Un sapiente, anche se necessariamente più che sintetico, accenno alle inter­ pretazioni moderne della questione della scrittura nel Fedro e al dibattito sulle dottrine non scritte di Platone è nell’introduzione di Bruno Centrone (estensore anche delle note) a Platone, Fedro, traduzione di Piero Pucci, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. xxix sgg. Mi sono servita anche di Franco Trabattoni, Scrivere nell’anima. Verità, dialettica e persuasione in Platone, La Nuova Italia, Firenze 1944 e di Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio (2000), Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, pp. 199-204. Il Fedro è stato commentato, come è noto, anche da Jacques Derrida in La farmacia di Platone (1972), Jaca Book, Milano 1985. 10 Nota 255 di Bruno Centrone a Platone, Fedro cit., p. 169. Michel Fou­ cault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France 1982-1983 (1983), Feltrinelli, Milano 2009, pp. 311-321. 1

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11 Platone non era l’unico della sua epoca a muoverle: cfr. Centrone, Intro­ duzione a Platone, Fedro cit., pp. xlii sgg. Anche a Roma l’oratio, ridotta a puro enunciato scritto, è sentita come un discorso socialmente morto. Cfr. Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., p. 256. 12 «So long as men can breathe or eyes can see, / So long lives this and this gives life to thee» (sonetto 18). La traduzione che riporto è in William Shakespeare, Sonetti, a cura di Alessandro Serpieri, Rizzoli, Milano 1991, p. 103. 13 Armando Petrucci, Breve storia della scrittura latina, Bagatto, Roma 1992. Ottima sintesi in Guglielmo Cavallo, Testo libro lettura (in Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli, Andrea Giardina, a cura di, Lo spazio letterario di Roma antica cit., vol. II, pp. 307-341), che parla della produzione del testo dalla prima stesura, autografa o meno, su tavolette cerate, alle correzioni, al trasferimento su sup­ porti duraturi e, infine, alla lettura. 14 Quintino Cataudella (a cura di), Il romanzo classico, Casini, Roma 1958. Anche: Tomas Hägg, The Novel in Antiquity, Blackwell, Oxford 1983, cap. III; Ewen L. Bowie, Les lecteurs du roman grec, in Marie-Françoise Baslez, Philippe Hoffmann e Monique Trédé (a cura di), Le monde du roman grec. Actes du colloque international tenu à l’École normale supérieure (Paris 17-19 décembre 1987), Presses de l’École Normale Supérieure, Paris 1992; Catherine Salles, Lire à Rome, Belles Lettres, Paris 1992; Guy Achard, La Communication à Rome, Belles Lettres, Paris 1991; Rosalind Thomas, Literacy in Ancient Greece: Functional Literacy, Oral Education, and the Development of a Literate Environment, in David R. Olson e Nancy Torrance (a cura di), The Making of Literate Societies, Blackwell, Oxford 2001. 15 L’idea stessa di testo, come insieme di parole separate dal loro suppor­ to materiale, sembra che storicamente appaia solo intorno al XII secolo. Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Raffaello Cortina Edi­ tore, Milano 1994, pp. 4-5. 16 Per i supporti, cfr. Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., pp. 47-56. 17 Tra gli altri, Bruno Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Laterza, Roma-Bari 1984, cap. I; Rosalind Thomas, Literacy and Orality in Ancient Greece, Cambridge University Press, Cambridge 1992; Gioia M. Rispoli, L’ironia della voce. Per una pragmatica dei testi letterari nella Grecia antica, D’Auria, Napoli 1992. 18 Paul Saenger, Space Between Words. The Origin of Silent Reading, Stan­ ford University Press, Stanford (California) 1997; Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., pp. 17 e 236 sgg. 19 Ivi, pp. 8-9. 20 Ibid. 21 Marshall McLuhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico (1962), Armando, Roma 1976. Sul rapporto tra supporti materiali dei testi e loro forma linguistica in epoca moderna, un altro antesignano è Donald F. McKen­ zie, di cui si vedano in italiano Bibliografia e sociologia dei testi (1986), postfazio­ ni di Renato Pasta e Roger Chartier, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2001, e Stampatori della mente (1969), Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2003. 22 Tutti i libri di Walter J. Ong trattano in un modo o nell’altro del rapporto tra tecnologie della parola e forma mentis. In Italia sono usciti, La presenza della parola (1967), introduzione di Renato Barilli, Il Mulino, Bologna 1970; Oralità

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Note

e scrittura: le tecnologie della parola (1982), introduzione di Rosamaria Loretelli, Il Mulino, Bologna 1986 e Interfacce della parola (1977), introduzione di Renato Barilli, Il Mulino, Bologna 1989. 23 Jurij M. Lotman, La struttura del testo poetico (1970), a cura di Eridano Bazzarelli, Mursia, Milano 1976, cap. I. 24 Jesper Svenbro, La Grecia arcaica e classica: l’invenzione della lettura silenziosa, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., p. 33; cfr. p. 21 per i riferimenti successivi all’Ippolito e ai Cavalieri. Si veda naturalmente anche il più ampio Storia della lettura nella Grecia antica cit. 25 Guglielmo Cavallo, Tra «volumen» e «codex» cit., p. 41. Il termine latino «legere» significa «raccogliere»/«estrarre»/«raccogliere con le orecchie», «ascoltare»/«rubare»/«scegliere», «eleggere»/«leggere», «recitare»/«percorrere». 26 Guglielmo Cavallo, Libro e cultura scritta, in AA.VV., Storia di Roma, vol. IV, Caratteri e morfologie, Einaudi, Torino 1989, pp. 693-734. 27 Guglielmo Cavallo, Tra «volumen» e «codex» cit., p. 46. 28 Gioia M. Rispoli, Dal suono all’immagine. Poetiche della voce ed estetica dell’eufonia, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 1995, so­ prattutto i capp. V e VIII. Bernard M.W. Knox sostiene, in Silent Reading in Antiquity («Greek, Roman and Bizantine Studies», IX, 1968, pp. 421-435), che se la forma più corrente di lettura era indubbiamente quella ad alta voce alcuni tipi di lettori, i filosofi per esempio, non potevano che leggere in silenzio (pp. 432-433). 29 Istituzione oratoria, I, 8, 1 (cit. in Guglielmo Cavallo, Tra «volumen» e «codex» cit., p. 48). 30 Ivi, IX, 4, 138 e XI, 2, 33 (cit. in Guglielmo Cavallo, Tra «volumen» e «codex» cit., p. 49). 31 Sempre Quintiliano. Riprendo, questa volta, da Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., p. 41. 32 Paul Saenger, Physiologie de la lecture et séparation des mots, in «Annales ESC», 4, juillet-août 1989, p. 948. 33 Epistole, 40-11. 34 Paul Saenger, Space Between Words cit., p. 11 (la traduzione è mia). 35 Una sintesi precisa e di piacevole lettura del passaggio dalla fine della romanità al Medioevo è in Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., cap. IV, pp. 123 sgg., dove si parla della precaria convivenza fra etnie, costumi e tradizioni diverse; delle ragioni del perdurare in alcuni luoghi del latino nella sua purezza e di come in altri si sia trasformato; della sopravvivenza dei manoscritti e dei percorsi degli scambi; delle forme di scrittura nei differenti scriptoria e delle immagini come forme di comunicazione atte a consentire agli analfabeti di cogliere significati altrimenti per loro inattingibili. 36 La situazione era in realtà piuttosto variegata, evolvendosi diversamente nelle varie regioni a seconda dell’entità dei gruppi di invasori. Piergiuseppe Scardigli, La cultura germanica, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo, vol. I, Il Medioevo latino, t. I, La produzione del testo, Salerno Editrice, Roma 1992, pp. 73-76. 37 Pierre Riché, Éducation et culture dans l’Occident barbare. VIe-VIIIe siècles, Seuil, Paris 1962. Franco Carandini, Alto e basso medioevo, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo

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cit., vol. I, t. I, pp. 121-143. Armando Petrucci, Scrivere e leggere nell’Italia medievale, a cura di Charles M. Radding, Edizioni Sylvestre Bonnard, Milano 2007. 38 Cit. in Malcolm Parkes, Leggere, scrivere, interpretare il testo: pratiche monastiche nell’alto Medioevo, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., p. 74. 39 Isabella Gualandri, L’eredità tardo-antica, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo cit., vol. I, t. I, pp. 15-44. Il bisogno di dare visibilità iconica alla parola doveva essere forte, se esistevano i «rotoli di exultet» che recavano immagini del Vangelo ca­ povolte rispetto al testo scritto, per farle vedere al pubblico in chiesa mentre il prelato lo leggeva dal pulpito. Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., p. 110. 40 Ivi, pp. 51-52. Probabilmente simile all’esperienza acustica di tipo olistico che si attiva nei mantra. A proposito della lettura di testi buddisti, Ann C. Klein (Oral Genre and the Art of Reading in Tibet, in «Oral Tradition», IX, 1994, 2, pp. 281-314) ha scritto: «Gli incontri di solito cominciano con una pratica orale conosciuta con il nome di lung, [...] lung è il testo scritturale stesso presentato oralmente, letto ad alta voce [...]. Dall’importanza attribuita a questa pratica risulta chiaro che, scritto o orale, un testo non è solo parole o significato. I testi includono anche il suono, la potenza e la benedizione [...] il testo sonoro occupa simultaneamente lo spazio interno e lo spazio esterno, ma non necessariamente lo spazio concettuale. Durante il lung il testo viene letto così rapidamente che la comprensione concettuale è minima. Questo è un momento in cui la parola parlata deve essere udita, non necessariamente compresa», cit. in John M. Foley, How to Read an Oral Poem, University of Illinois Press, Urbana-Chicago 2002, p. 72 (la traduzione è mia). È interessante notare con quale parte corporea questa lettura è messa, anche simbolicamente, in relazione. Scrive in proposito Ugo di San Vittore: «E i denti significano meditazione, perché come con i denti mastichiamo il cibo, così con l’esercizio della meditazione possiamo apprezzare in tutte le sue sottigliezze il pane della lettura», cit. in Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., p. 145. Per questa parte del presente capitolo ho usato anche Brian Stock, After Augustine. The Meditative Reader and the Text, University of Penn­ sylvania Press, Philadelphia 2001. 41 Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., pp. 67-68. Un uso simbolico e apotro­ paico del libro si troverà anche in epoche molto successive in ambienti a bassa alfabetizzazione. Cfr. Marina Roggero, Le carte piene di sogni. Testi e lettori in età moderna, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 21 sgg. 42 Malcolm Parkes, Leggere, scrivere, interpretare il testo cit., p. 75. 43 Paul Saenger, Space Between Words cit., p. 5. 44 Malcolm Parkes, Leggere, scrivere, interpretare il testo cit., p. 82. Per il processo di produzione libraria nel Medioevo, cfr. anche Louis Holtz, Autore, copista, anonimo, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo cit., vol. I, t. I, pp. 325-351. 45 Paul Saenger, Space Between Words cit., p. 23; e, dello stesso, Leggere nel tardo Medioevo, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., pp. 117-154. Sulle forme di scrittura, gli strumenti scrittori, la produzione di libri e i loro modelli negli spazi italiani si veda, soprattutto per il periodo medievale, l’importante saggio di Armando Petrucci, Storia e geografia delle culture scritte (dal secolo XI al secolo XVIII),

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Note

in Alberto Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. II, L’età moderna, Einaudi, Torino 1988, pp. 1195-1292. 46 Paul Saenger, Space Between Words cit., p. 13 (la traduzione è mia). 47 Lingua solo parlata, nelle diverse sue forme. Così la descrive il monaco Ot­ tofredo nel IX secolo, all’inizio del suo Liber Evangeliorum: «lingua velut agre­ stis habetur, dum a propriis nec scriptura nec arte aliqua ullis est temporibus expolita» («questa lingua è ritenuta selvatica, perché non è mai stata coltivata dai suoi utenti attraverso un uso scritto o una qualsiasi disciplina»). Il brano di Ottofredo viene citato spesso; qui l’ho trascritto da Piergiuseppe Scardigli, La cultura germanica cit., p. 66. 48 Lucien Febvre e Henri-Jean Martin, La nascita del libro (1958), a cura di Armando Petrucci, Laterza, Roma-Bari 2007, cap. I; Louis Holtz, Autore, copista, anonimo cit. 49 Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., p. 2. Anche per questo alla fine del Medioevo cominciarono a circolare testi eretici e idee critiche. Paul Saenger, Silent Reading: Its Impact on late Medieval Script and Society, in «Viator. Medieval and Renaissance Studies», XIII, 1982, pp. 367-414. 50 Per il rapporto culturale tra forma della pagina e rinnovamento speculati­ vo, cfr. Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., pp. 153 sgg. 51 Scrive un anonimo copista del IX secolo: «chi non conosce l’arte dello scrivere ritiene che non costi fatica alcuna. Quanto travaglio comporta invece: oscura gli occhi, spezza le reni e fiacca tutte le membra. Tre sole dita scrivono, ma tutto il corpo sta male». Le fonti iconografiche più attendibili mostrano, fino al XII secolo, «scribi al lavoro con la testa curva, atteggiamento intento, dorso fortemente inclinato (le costole quasi si infiggono nel ventre)» che «ben rispondono alle condizioni così spesso lamentate dai copisti» (Donatella Frioli, Gli strumenti dello scriba, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Me­ nestò, a cura di, Lo spazio letterario del Medioevo cit., vol. I, t. I, p. 293). 52 Paul Saenger, La lettura e la scrittura dei codici nel basso Medioevo, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo, vol. II, Il Medioevo volgare, t. II, La circolazione del testo, Salerno Editrice, Roma 2002, pp. 307-339; Michael T. Clancy, From Memory to Written Record: England 1066-1307, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1979, pp. 125-126, 170-172. 53 Cit. in Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., pp. 108-109. Questo testo è citato anche in Armando Petrucci, Dalla minuta al manoscritto d’autore, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo cit., vol. I, t. I, pp. 361-362. Per l’uso delle tavolette cerate per fissare la dettatura, si veda Joseph J. Duggan, Modalità della cultura orale, in Piero Boitani, Mario Mancini e Alberto Varvaro (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo, vol. II, Il Medioevo volgare, t. I, La produzione del testo, Salerno Editrice, Roma 1999, pp. 151 sgg. La questione della produzione del testo nel Medioevo è un tema enorme, il cui approfondimento esula dagli intenti del presente libro. Si vedano comunque almeno Alberto Varvaro, Il testo letterario e Paul Zumthor, Una cultura della voce, ivi rispettivamente alle pp. 387-422 e 137-138. Nonché, sempre di Varvaro, Élaboration des textes et modalités du récit dans la littérature française médiévale, in «Romania», 119, 2001, pp. 135-209. 54 Per la preghiera silenziosa e la preghiera ad alta voce di fronte a un libro tra i secoli XIV e XV, cfr. Paul Saenger, Books of Hours and the Reading Habitus

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of the Later Middle Ages, in Roger Chartier (a cura di), The Culture of Print: Power and the Uses of Print in Early Modern Europe, Polity Press, Cambridge 1989, pp. 141-173. 55 Ivan Illich, Nella vigna del testo cit., p. 72. Quanto all’alfabetizzazione «nel senso di capacità di leggere il latino, essa era comune in molti settori della socie­ tà, anche se non necessariamente nella classe cavalleresca, mentre i generi orali di letteratura continuavano a prosperare. La rappresentazione in testi letterari della trasmissione di messaggi (più volte un nobile si rivolge a subordinati per­ ché decodifichino lettere o perché è analfabeta o perché il ruolo di chi legge non gli si addice) è un indizio delle complesse relazioni tra oralità e scrittura» (Jac­ ques Merceron, Le message et sa fiction, University of California press, Berkeley 1998, cit. in Joseph J. Duggan, Modalità della cultura orale cit., pp. 148-149). 56 Come è noto, nel Medioevo una tradizione classificava la poesia come musica, e comunque in molti trattati i concetti di immaginazione, di poesia e di prosa si presentano come legati all’oralità. Douglas Kelly, The Arts of Poetry and Prose, Institut d’Études Médiévales, Brepols, Luovain 1991, pp. 54-75 e da p. 147 alla fine. 57 Anthony Grafton, L’umanità come lettore, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., p. 223. Geor­ ge Puttenham, nel suo The Art of English Poesy, del 1586, parla tutto il tempo della poesia come di suoni che «scivolano sulla lingua dell’emittente per colpire l’orecchio dell’ascoltatore» (la traduzione è mia). Si veda anche Michele Stanco, Art and Beauty. Linguistic versus Psychological Aesthetic Theories, in «Ranam. Recherches anglaises et nord-américaines», 36, 2003, pp. 47-68. 58 Anthony Grafton, L’umanista come lettore cit., p. 204. 59 Per i supporti materiali dello scritto dal Quattrocento fino al Settecento, cfr. anche Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., cap. VII; Ema­ nuele Casamassima (a cura di), Trattati di scrittura del Cinquecento, il Polifilo, Milano 1966. Sulla tipologia e le finalità dei trattati di scrittura, cfr. Armando Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, in Id. (a cura di), Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 137-156 e Per una strategia della mediazione grafica nel Cinquecento italiano, in «Archivio Storico Italiano», CXLIV, 1986, 1, pp. 97-112. Sugli usi della lingua italiana importante è Paolo Trovato, Il primo Cinquecento, Il Mulino, Bologna 1994. 60 Anthony Grafton, L’umanista come lettore cit., pp. 225-226. 61 Ivi, p. 199. 62 Per quanto è qui trattato solo in modo estremamente sommario, si veda il recente Lodovica Braida, Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo (Laterza, Roma-Bari 20097), che dà un quadro fortemente unitario delle tra­ sformazioni tecnologiche, assieme agli aspetti sociali e culturali (a vari livelli) della produzione e della circolazione libraria. Sulle condizioni che favorirono la comparsa della stampa a caratteri mobili nell’Europa del Nord, le scoperte minerarie, le pratiche mercantili, i progressi tecnici, oltre che sulla storia di Gutenberg, cfr. Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., cap. V. 63 Elizabeth L. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento (1979), Il Mulino, Bologna 1985, p. 67. Per l’Italia, Brian Richardson, Stampatori, autori e lettori nell’Italia del Rinascimento (1999), Edi­

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zioni Sylvestre Bonnard, Milano 2004; Anna G. Cavagna, Il libro a stampa: valutazioni e idee del Rinascimento italiano, Casati, Firenze 2000. 64 Su Aldo Manuzio, la sua formazione e il suo ambiente intellettuale, cfr. Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento (1979), Il Veltro, Roma 1984. Sulle trasformazioni tecnologiche, Paul Ranger e Michael Heinleim, Incunable Description and its Implications for the Analysis of Fifteenth-Century Reading Habits, in Sandra Hindman (a cura di), Printing the Written Word. The Social History of Books. Circa 1450-1520, Cor­ nell University Press, Ithaca-London 1991, pp. 225-259; Margaret M. Smith, Patterns of Incomplete Rubrication in Incunables and what they Suggest about Working Methods, in Linda L. Brownrigg (a cura di), Medieval Book Production. Assessing the Evidence, Anderson-Lovelace-The Red Gull Press, Los Altos Hills 1990, pp. 133-145. I vari tipi di caratteri a stampa (compresi gli ornamenti) impiegati nei diversi paesi dell’Europa occidentale sono riprodotti in Daniel Berkeley Updike, Caratteri da stampa: storia, forma, uso (1922), Ucep, Torino 1984. Per un quadro d’insieme, inclusi gli aspetti culturali, si veda Lodovica Braida, Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo cit. 65 Jean-François Gilmont, Riforma protestante e lettura, in Guglielmo Caval­ lo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., p. 243, e, a cura dello stesso Gilmont, La Réforme et le livre. L’Europe de l’imprimé (1517-1570), Les éditions du Cerf, Paris 1990. È nota la grande diffusione della Bibbia e le sue tante edizioni a stampa. Si veda anche Roger Chartier, Le pratiche della scrittura, in Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di), La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo (1986), Laterza, Roma-Bari 1987, p. 84. 66 Sulla pratica ermeneutica, la codificazione allegorica e il pensiero purita­ no, si veda l’importante saggio di Roberto De Romanis, Quando morì l’allegoria e nacque il romanzo, in «Fictions. Studi sulla narratività», II, 2003, pp. 13-46. 67 Un esempio tutto interno a una sola località è fornito dalla città di Metz dove, tra il 1645 e il 1672, gli inventari post mortem mostrano che possedeva libri il 70% dei protestanti e solo il 25% dei cattolici (Roger Chartier, Le pratiche della scrittura cit., p. 78). 68 In Inghilterra lo faceva la corporazione degli stampatori e librai, consen­ tendo o meno l’autorizzazione alla stampa, cioè l’iscrizione nello Stationers’ Re­ gister. John Feather, A History of British Publishing, Routledge, London-New York 1988. Per una veloce e utile sintesi della produzione nelle città italiane dal Quattrocento al Novecento, cfr. Marco Santoro, Storia del libro italiano, Editrice Bibliografica, Milano 1994. 69 Per il libro e la censura, Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., pp. 282 sgg. La censura operò in modo diverso in Spagna, in Portogallo e in Italia, concentrandosi su tipi differenti di scritti, con la conseguenza che la letteratura in questi paesi non ebbe un andamento omogeneo. In Italia il sistema editoriale era stato fiorente, prima di essere messo in crisi dall’apparato di regole e interdetti dell’età post-tridentina. Cfr. Marina Roggero, Le carte piene di sogni cit., cap. I; Adriano Prosperi, Censurare le favole. Il protoromanzo e l’Europa cattolica, in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, pp. 71-106, e, dello stesso, l’eccezionale Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996. Per la Spagna, Bartolomé Bennassar (a cura di), Storia dell’Inquisizione Spagnola, Rizzoli, Milano 1980. 70 Tessa Watt, Cheap Print and Popular Piety. 1550-1640, Cambridge Uni­

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versity Press, Cambridge 1991. Per la lettura dei giornali, oltre che per le di­ scussioni politiche nei primi caffè che aprirono a Londra negli anni Cinquanta del Seicento, si vedano Markman Ellis, The Coffee-House. A Cultural History, Phoenix, London 2004, e Steven C.A. Pincus, Coffee Politicians do not Create: Coffeehouses and Restoration Political Culture, in «Journal of Modern History», 67, 1995, pp. 807-834. Per la vita intellettuale e la presenza dei giornali nei caffè, si può vedere il vivace John Brewer, The Pleasures of the Imagination. English Culture in the Eighteenth Century, Harper-Collins, London 1997, pp. 36 sgg. 71 Lori H. Newcomb, Reading Popular Romance in Early Modern England, Columbia University Press, New York 2002. Vale ancora la pena di leggere Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi, Einaudi, Torino 1976: «Menocchio pro­ iettava sulla pagina a stampa elementi tratti dalla tradizione popolare» (ivi, p. 130), e leggeva a spezzoni, per episodi e tornando più volte sulle medesime pagine. Roger Chartier, Letture e lettori «popolari» dal Rinascimento al Settecento, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., pp. 317-335, pp. 319 sgg. Peter Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna (1978), Mondadori, Milano 1980. Roger Chartier, Lecteurs et Lectures «populaires», in Id., Culture écrite et société cit., pp. 205-228. Una precisa disamina fino al 1988 dei principali studi che trattano del rapporto tra cultura bassa e cultura alta tra Cinque e Settecento è in Lodovica Braida, Le guide del tempo. Produzione contenuti e forme degli almanacchi piemontesi del Settecento, Biblioteca di storia italiana recente – Nuova serie vol. XXII, Depu­ tazione subalpina di storia patria, Torino 1989, p. 1, cap. I. 72 Sugli almanacchi inglesi si veda Bernard Capp, Astrology and Popular Press: English Almanacs 1500-1800, Faber and Faber, London 1979. Per il Set­ tecento in Piemonte, Lodovica Braida, Le guide del tempo cit., che nel cap. I presenta anche una rassegna degli studi sugli almanacchi francesi, oltre che di altri Stati italiani. 73 Robert Mandrou, De la culture populaire aux 17e et 18e siècles, Imago, Paris 1999, p. 18. Come è noto, il libro di Mandrou è sulla Bibliothèque bleue di Troyes. Per la Francia, tra gli altri, Geneviève Bollème, Letteratura popolare e commercio ambulante del libro nel XVIII secolo, in Armando Petrucci (a cura di), Libri, editori e pubblico nell’Europa moderna. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 203-247. Per la diffusione europea di questo tipo di lettera­ tura, anche Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., pp. 274-281. 74 «Veillée» in Francia. Si veda Robert Darnton, I contadini raccontano fiabe, in Id., Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese (1984), a cura di Renato Pasta, Adelphi, Milano 1988, p. 29, che rimanda a Noël du Fail, Propos rustiques de Maistre Léon Ladulfi Champenois (1547), cap. V, in Pierre Jourda (a cura di), Conteurs français du XVIe siècle, Gallimard, Paris 1956, pp. 620-621. Darnton parla anche di come potevano essere usati i gesti per mimare le storie di cui si leggeva ad alta voce (pp. 29-30). 75 Per la Gran Bretagna, Margaret Spufford, Small Books and Pleasant Histories. Popular Fiction and its Readership in Seventeenth-Century England, Cam­ bridge University Press, Cambridge 1981, cap. IV. 76 Per la «guerra editoriale» sulla letteratura popolare di argomento crimina­ le, Michael Harris, Trias and Criminal Biographies: a Case Study in Distribution, in Robin Myers e Michael Harris (a cura di), Sale and Distribution of Books from 1700, Oxford Polytechnic Press, Oxford 1982 e, dello stesso, L’omicidio e la stam-

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pa: rappresentazioni del crimine e della legge (1660-1760), in Roberto De Roma­ nis e Rosamaria Loretelli (a cura di), Il delitto narrato al popolo. Immagini di giustizia e stereotipi di criminalità in età moderna, Sellerio, Palermo 1999, pp. 19-35. 77 Nell’epistola dedicatoria all’edizione del 1671 del lungo racconto di Ri­ chard Head e Francis Kirkman, The English Rogue, II parte (Printed for F. Kirkman, London 1671, p. 4), firmata da Francis Kirkman. «Fringe for candle­ sticks» è il riutilizzo per cui li indica Joseph Addison; per foderare pantofole, dice invece Thomas Nashe in The Unfortunate Traveller; come ausilio ai cuochi, rammenta Henry Fielding nel Tom Jones. Questi libretti, d’altronde, non ven­ gono menzionati in corrispondenze o in autobiografie, neppure in quelle degli artigiani (James S. Amelang, The Flight of Icarus. Artisan Autobiography in Early Modern Europe, Stanford University Press, Stanford 1998), né sono presenti nei cataloghi post mortem o in altri approntati per la vendita di biblioteche private. Non venivano infatti catalogati, ma in genere buttati nelle casse alla rinfusa (a parte il caso di alcuni collezionisti quali Antony Wood e Samuel Pepys). 78 Reinhard Wittmann, Una «rivoluzione della lettura» alla fine del XVIII secolo?, in Guglielmo Cavallo e Roger Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale cit., p. 345. Per le percentuali di alfabetizzazione in In­ ghilterra, David Cressy, Literacy and the Social Order. Reading and Writing in Tudor and Stuart England, Cambridge University Press, Cambridge 1980. Sulla stampa, George Kitchin, Sir Roger L’Estrange: A Contribution to the History of the Press in the Seventeenth Century, Augustus M. Kelly, New York 1971. Durante il Protettorato, dei romance francesi apparvero in traduzione e pare fos­ sero fatti tranquillamente circolare come genere letterario di parte realista. Sulla censura durante tale periodo, Linda Levy Peck, Consuming Splendor. Society and Culture in Seventeenth-Century England, Cambridge University Press, Cam­ bridge 2005, pp. 239 sgg.; Annabel M. Patterson, Censorship and Interpretation: The Conditions of Writing and Reading in Early Modern England, University of Wisconsin Press, Madison 1984; Lois Potter, Secret Rites and Secret Writings: Royalist Literature 1641-1660, Cambridge University Press, Cambridge 1989. 79 Marina Roggero, Le carte piene di sogni cit., soprattutto i capp. V, VI e VII. 80 Margit Frenk, Lectores y oidores. La diffusiónoral de la literature en el Siglo de Oro, in Actas del Septimo Congreso de la Asociación International de Hispanistas, a cura di Giuseppe Bellini, Bulzoni, Roma 1982, vol. I, pp. 101-123; Sara T. Nalle, Literacy and Culture in Early Modern Castille, in «Past and Present», CXXV, nov. 1989, pp. 65-96; Maxime Chevalier, El público de las novelas de caballerías, in Lectura y lectores en la España de los siglos XVI y XVII, Ediciones Turner, Madrid 1976, pp. 65-103. 81 Markman Ellis, The Coffee-House cit. 82 Harold Love, The Culture and Commerce of Texts. Scribal Publication in Seventeenth-Century England, University of Massachusetts Press, Amherst 1998, p. 197, e Paul Benhamou, La lecture publique des journeaux, in «Dixhuitième siècle», 24, 1992. Adam Fox e Daniel Woolf (a cura di), The Spoken Word. Oral Culture in Britain: 1500-1800, Manchester University Press, Man­ chester 2002. 83 Diario: 15 ottobre 1660, 6 novembre 1660, 22 dicembre 1662, 5 aprile 1663, 30 maggio 1664, 23 febbraio 1662, 11 febbraio 1660, 26 settembre 1660. Devo la segnalazione della maggior parte delle date del diario riguardanti il

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rapporto di Pepys con i libri alla tesi di Bernardetta Iacono, di cui sono stata relatrice nell’a.a. 2005-06. Altre sono nel saggio di Roger Chartier, Le pratiche della scrittura cit. 84 Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi, Milano 2001, p. 76. Il libro della Craveri mostra più di un’occasione di lettura collettiva, nei salotti e in privato. 85 Cit. ivi, p. 210. 86 François de Troy, intitolato La lettura di Molière (1728 circa). 87 Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione cit., cap. VIII. 88 Le Grand Cyrus era peraltro stato tradotto in inglese (si veda p. 227, nota 145). Su queste letture, anche le lettere di Dorothy Osborne (The Letters to Sir William Temple, introduzione e note di Kenneth Parker, Penguin, London 1987). 89 Harold Love, The Culture and Commerce of Texts cit., pp. 196-197 (la traduzione è mia). 90 Walter J. Ong, Oralità e scrittura cit., capp. V e VI. 91 Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione cit., pp. 174 sgg., 183 sgg. 92 Harold Love, The Culture and Commerce of Texts cit., p. 146, e, sempre dello stesso, Introduzione a Id. (a cura di), The Works of John Wilmot, Earl of Rochester, Oxford University Press, Oxford 1999. Per la dimensione sociale del­ la scrittura e della lettura nel tardo Seicento, si veda anche Dustin Griffin, The Social World of Authorship. 1660-1714, in John Richetti (a cura di), The Cambridge History of English Literature, 1660-1780, Cambridge University Press, Cambridge 2005, pp. 37-60. Secondo Griffin, nella Londra della Restaurazione già sarebbe esistita una «sfera pubblica», dove un dibattito libero e animato rag­ giunse le sue punte massime, sostituita agli inizi del Settecento da una «‘polite sphere’ of cultural consensus building». 93 Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione cit., p. 174. 94 «Dans ses meubles dût-elle en avoir de l’ennui, / Il ne faut écritoire, encre, papier, ni plumes: / le mari doit, dans les bonnes coutumes, / Écrire tout ce qui s’écrit chez loi» (La scuola delle mogli, traduzione e cura di Luigi Lunari, Rcs Libri, Milano 2004, pp. 132-133). 95 Si possono vedere, tra gli altri, Angeline Goreau, Reconstructing Aphra: A Social Biography of Aphra Behn, The Dial Press, New York 1980; Janet Todd, The Secret Life of Aphra Behn, André Deutsch, London 1996; Ead., The Critical Fortune of Aphra Behn, Camden House, Columbia (South Carolina) 1998; Derek Hughes e Janet Todd (a cura di), The Cambridge Companion to Aphra Behn, Cam­ bridge University Press, Cambridge 2004; Annamaria Lamarra e Bernard Dhuicq (a cura di), Aphra Behn in/and Our Time, Les Éditions d’En Face, Paris 2008. 96 Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione cit., p. 188. 97 W.J. Cameron, A Late Seventeenth-century Scriptorium, in «Renaissance and Modern Studies», VII, 1963, pp. 25-52. 98 Harold Love, The Culture and Commerce of Texts cit., pp. 126 sgg. 99 Ivi, p. 12. 100 Per uno sguardo riassuntivo sulla storia del paratesto, Gerard Genette, Soglie. I dintorni del testo (1987), a cura di Camilla M. Cederna, Einaudi, To­ rino 1989. Dal 2004, su questo argomento esiste in Italia anche una rivista, «Il paratesto: rivista internazionale. I dintorni del testo: approcci alle periferie del libro».

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101 David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order. 14501830, Cambridge University Press, Cambridge 2003, cap. IV. 102 Ivi, p. 35. 103 Ivi, pp. 50-51. 104 Per il processo di standardizzazione e per l’insieme delle persone che col­ laboravano in Italia con i tipografi a rendere sempre più accurata la produzione del libro, si veda Paolo Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Il Mulino, Bologna 1991. 105 David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order cit., p. 143. Fin dall’inizio ci si era lamentati che la stampa corrompeva i testi perché, si diceva, per guadagnare di più gli stampatori li mettevano in circolazione in edizioni affrettate e piene di errori. Roger Chartier, Le pratiche della scrittura cit., pp. 88-89. 106 David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order cit., p. 47 (tutte le traduzioni da questo libro sono mie). 107 Ivi, p. 132. 108 Due copie della prima edizione del Tom Jones si trovano presso la British Library di Londra: una, dalla rilegatura più vecchia, non presenta alcuna richie­ sta di questo tipo al lettore, l’altra, invece, dalla rilegatura più nuova probabil­ mente fatta dalla biblioteca stessa, reca prima del frontespizio un foglietto con la scritta: «The Reader is desired to correct the following errata». Immagino che il foglio fosse in origine consegnato ai lettori insieme ai fascicoli sciolti che componevano il libro ancora da rilegare, oppure inserito, sempre come foglio sciolto, tra le pagine del libro. 109 David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order cit., p. 157. 110 Ivi, p. 187. In Inghilterra il copyright fu istituito nel 1747. Si vedano John Feather, A History of British Publishing cit., e Mark Rose, Authors and Owners: The Invention of Copyright, Harvard University Press, Harvard 1993. Per l’inda­ gine su un caso specifico e interessante, quello di Edmund Curll, che tra l’altro pubblicò edizioni pirata delle opere di Alexander Pope e fu perciò con questi in continua contesa, si veda Paul Baine e Pat Rogers, Edmund Curll, Bookseller, Clarendon Press, Oxford 2007. La situazione italiana era invece molto diversa, rispetto sia alla tecnologia del libro che alla legislazione sui diritti d’autore, che giunse solo nel pieno del secolo successivo, lasciando fino ad allora mano libera alla pirateria libraria, che ne approfittò ampiamente. Sui vari aspetti della cultura della stampa nell’Italia settecentesca, si veda Renato Pasta, The History of the Book and Publishing in Eighteenth-Century Italy, in «Journal of Modern Italian Studies», X, 2005, 2, pp. 200-217. 111 Michael Harris, Scratching the Surface: Engravers, Printers and the London Book Trade in the Mid-Eighteenth Century, in Arnold Hunt, Giles Man­ delbrote e Alison Shell (a cura di), Book Trade and its Customers, 1450-1900, St. Paul’s Bibliographies and Oak Knoll Press, Winchester-Newcastle 1997; Richard Wendorf, Abandoning the Capital in Eighteenth-Century London, in Kevin Sharpe e Steven Zwicker (a cura di), Reading, Society and Politics in Early Modern England, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 72-89. Per vedere quanto i caratteri a stampa, almeno delle tipografie italiane, inglesi e francesi, fossero divenuti nel Settecento molto chiari e facilmente leggibili, si apra Campionari di caratteri nella tipografia del Settecento, scelta, introduzione e note di Jeanne Veyrin-Forrer, Cartiera Ventura, Milano 1963.

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112 David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order cit., pp. 180, 190 sgg. 113 Mona Wilson (a cura di), Johnson: Prose and Poetry cit., pp. 302 sgg. (tutte le traduzioni da questo libro sono mie). 114 Gabriella Del Lungo Camiciotti, La nozione di lingua standard nella cultura inglese del Settecento, Olschki, Firenze 1990, e David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order cit., pp. 197-198. Per la normalizzazione dell’ortografia francese, Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., pp. 226-226. 115 James Beattie, cap. VII di The Theory of Language, in Dissertations Moral and Critical, London, printed for W. Straham and T. Cadell, in the Strand, and W. Creech at Edinburgh, MDCCLXXXIII. Alla standardizzazione della scrit­ tura il libro di Beattie dedica il cap. III. Decenni prima, lo stampatore S. Palmer aveva scritto The General History of Printing (London, Printed by the Author, and sold by his widow at his late Printing-House in Bartholomew Close: also by J. Roberts in Warwick-lane, and by most Booksellers in Town and Country, MDCCXXXII), dove mostrava tra l’altro come e perché tanti libri stampati nel Quattrocento fossero scambiati per manoscritti. 116 Terry Belanger, Publishers and Writers in Eighteenth-Century England, in Books and their Readers in Eighteenth-Century England: New Essays, a cura di Isabel Rivers, Continuum, London-New York 2001, pp. 5-25. Già da ben prima esistevano stampe che reclamizzavano il commercio, ma erano pregiate e non intese a una diffusione capillare. Cfr. Linda Levy Peck, Consuming Splendor cit., p. 44 e tutto il cap. I. Larwood Jacob e John Camden (The History of Signboards: from the Earliest Times to the Present Day, Chatto and Windus, London 1900, pp. 30-31) hanno mostrato come nel Settecento le insegne dei negozi con simboli che si riferivano alle attività svoltevi (un ramo d’edera per indicare una taverna, tre palle per un monte di pietà) nel mondo occidentale fossero progres­ sivamente sostituite da insegne scritte. 117 David McKitterick, Print, Manuscript and the Search for Order cit., p. 188. James Raven, Publishing and Bookselling 1660-1780, in John Richetti (a cura di), The Cambridge History of English Literature cit., pp. 13-35. Una mappatura accuratissima del periodo successivo è in William St. Clair, The Reading Nation in the Romantic Period, Cambridge University Press, Cambridge 2004. Per la Francia, Henri-Jean Martin, Storia e potere della scrittura cit., p. 259. 118 Harold Love, The Culture and Commerce of Texts cit. 119 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 21 sgg. Per una ricostruzione del fenomeno commerciale della Pamela di Samuel Richardson si veda il ben documentato Pamela in the Marketplace: Literary Controversy and Print Culture in Eighteenth-Century Britain and Ireland di Thomas Keymer e Peter Sabor (Cambridge University Press, Cambridge 2005). 120 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., p. 60. 121 Harold Love, The Culture and Commerce of Texts cit., p. 141. 122 Mentre invece la stampa a caratteri gotici la rendeva lenta, a causa, come si è detto, degli spazi ridotti tra le parole, che rendono difficoltosa l’attività cognitiva connessa alla lettura. Ricerche recenti hanno dimostrato infatti che l’attenuazione dei limiti tra parole provoca una riduzione del campo visivo, ren­

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dendo necessario un numero maggiore di regressioni oculari, per cui risulta più difficile abbracciare diverse parole con un solo colpo d’occhio e registrarle nella mente già sotto forma di immagini. Cfr. Paul Saenger, Physiologie de la lecture et séparation des mots cit., p. 943, e il più recente Space Between Words cit. 123 Reinhard Wittmann, Una «rivoluzione della lettura» alla fine del XVIII secolo? cit., pp. 337 sgg. Renato Pasta (The History of the Book and Publishing in Eighteenth-Century Italy cit., p. 207) sostiene però che per l’Italia del Settecento non si può parlare di rivoluzione della lettura. 124 Luigi Angiolini, Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia e Olanda, Stampato da Pietro Allegroni, Firenze 1790, vol. I, pp. 26-27. 125 Jean Bernard Le Blanc, Letters on the English and French Nations. Containing Curious and Useful Observations on their Constitution Natural and Political, Smith, Dublin 1747, lettera 67 (la traduzione è mia). 126 Menzionato in Ruth Perry, Novel Relations. The Transformation of Kinship in English Literature and Culture. 1748-1818, Cambridge University Press, Cambridge 2004, p. 25. Robert D. Mayo (The English Novel in the Magazines, Northwestern University Press, Evanston e Oxford University Press, London 1962, pp. 1-10) sostiene che tra il 1740 e il 1815 furono i giornali, ancor più che le biblioteche circolanti, il mezzo che portò il romanzo in provincia e in tutte le classi socio-culturali. 127 Un vivace quadro di sintesi della cultura letteraria britannica del Sette­ cento è in John Brewer, The Pleasures of the Imagination cit., dove un capitolo è specificatamente dedicato al pubblico dei lettori. Adrian Johns (The Nature of the Book: Print and Knowledge in the Making, The University of Chicago Press, Chicago 1998, pp. 382 sgg.) porta esempi di scienziati che ritennero di essere stati danneggiati permanentemente dalla lettura quando erano giovani. 128 Per la circolazione di giornali e libri nelle città: Rosemary Sweet, The English Town: 1680-1840. Government, Society and Culture, Longman, London 1999, pp. 243-249. Per la composizione del pubblico dei lettori di provincia (ma con indicazioni anche generali), si veda Jan Fergus, Provincial Readers in Eighteenth-Century England, Oxford University Press, Oxford 2007. Per la let­ tura dei bambini, a partire dalla fine del Seicento e per tutto il Settecento: Mat­ thew O. Grenby, Before Children’s Literature: Children, Chapbooks and Popular Culture in Early Modern Britain, in Julia Briggs, Dennis Butts e Matthew O. Grenby (a cura di), Popular Children’s Literature in Britain, Ashgate, Aldershot (Hampshire) 2008, pp. 25-46. 129 Cfr. Jacqueline Pearson, Women’s Reading in Britain: 1750-1835. A Dangerous Recreation, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 4 (tutte le traduzioni da questo libro sono mie). Ma già John Tinnon Taylor, Early Opposition to the English Novel, King’s Crown Press, New York 1843; e J. Paul Hunter, Before Novels: The Cultural Context of Eighteenth-Century English Fiction, Nor­ ton & Company, New York-London 1990, pp. 39 sgg. Secondo Samuel Johnson i romanzi attraevano «i giovani, gli ignoranti, gli oziosi» (cit. in Joseph F. Bar­ tolomeo, A New Species of Criticism: Eighteenth-Century Discorse on the Novel, University of Delaware Press-Associated University Presses, London-Toronto 1994, p. 116), ma il suo atteggiamento di condanna in realtà mascherava una profonda ambiguità. Cfr. Eithne Henson, The Fictions of Romantic Chivalry. Samuel Johnson and the Romance, Associated University Presses, CranburyLondon-Mississauga 1992. Per altri commenti negativi sulla lettura dei romanzi

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si veda anche Robert D. Mayo, The English Novel in the Magazines cit., pp. 23 sgg., 51 sgg., 122 e osservazioni sparse un po’ per tutto il libro. Tuttavia, Lorna Weatherill (A Possession of One’s Own: Women and Consumer Behaviour in England, 1660-1740, in «Journal of British Studies», XXV, 1986, 2, pp. 131156) afferma che già all’epoca della Restaurazione «tra i commercianti e i ricchi agricoltori, erano molte più le donne che non gli uomini a possedere libri, oltre che quadri, specchi e biancheria da tavola» (la traduzione è mia). Diversi libri appaiono anche tra i regali ricevuti da Lady Spencer fra il 1610 e il 1613 (Linda Levy Peck, Consuming Splendor cit., p. 70). 130 William B. Warner, Novels on the Market, in John Richetti (a cura di), The Cambridge History of English Literature cit., pp. 95-98. 131 Jacqueline Pearson, Women’s Reading in Britain cit., pp. 87 sgg. 132 Cfr. Ina Ferris, The Achievement of Literary Authority: Gender, History and the Waverley Novels, Cornell University Press, Ithaca 1991, p. 40 (la tra­ duzione è mia). Cfr. anche Tiziana Plebani, Il «genere dei libri». Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed età moderna, Franco Angeli, Milano 2001, e Jacqueline Pearson, Women’s Reading in Britain cit., pp. 87 sgg. 133 Ina Ferris, The Achievement of Literary Authority cit., p. 172. 134 Heidi Brayman Hackel, Boasting of Silence: Women Readers in a Patriarchal State, in Kevin Sharpe e Steven Zwicker (a cura di), Reading, Society and Politics cit., p. 102. 135 Cit. in Jacqueline Pearson, Women’s Reading in Britain cit., p. 82. 136 Ivi, pp. 41 sgg. 137 Mary Astell, in Una seria proposta alle signore (1694) (a cura di Rosama­ ria Loretelli, Lestoille, Roma 1982) invita le donne a leggere la filosofia, non i romanzi; lo stesso fa Mary Wollstonecraft in I diritti delle donne (1790), a cura di Franca Ruggieri, Edizioni Q, Roma 2008. 138 Vedi supra, p. 14 e p. 197, n. 10. 139 Reinhard Wittmann, Una «rivoluzione della lettura» alla fine del XVIII secolo? cit., p. 338. 140 Ibid. 141 Ivi, p. 343. 142 Cit. in Alvin Kernan, Samuel Johnson and the Impact of Print, Princeton University Press, Princeton 1987, pp. 214-215 (la traduzione è mia). Per altri simili momenti, James Boswell, Life of Johnson, 6 voll., Clarendon Press, Oxford 1934-1950, vol. I, p. 48 e vol. III, p. 284. 143 Si coglie una certa apprensione perfino nella voce «roman» dell’Encyclopédie (1765), redatta da Jaucourt, che recita: «tout le monde est capable de lire les romans, presque tout le monde les lit». 144 È questa l’idea di Giambattista Roberti. Cfr. Carlo A. Madrignani, All’origine del romanzo in Italia. Il «celebre abate Chiari», Liguori, Napoli 2000, p. 103. 145 Per le letture dei romanzi cavallereschi, Marina Roggero, Le carte piene di sogni cit., pp. 80 sgg. Un’ampia disamina del romanzo settecentesco italiano e delle sue forme, corredata da un prezioso catalogo delle opere, è nel libro di Tatiana Crivelli, «Né Arturo né Turpino né La tavola rotonda»: romanzi del secondo settecento italiano, Salerno Editrice, Roma 2002. Un’eccellente panora­ mica della produzione, del commercio e della diffusione del libro in Italia con

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qualche accenno anche alla storia della lettura e a quella culturale è in Renato Pasta, Towards a Social History of Ideas: The Book and the Booktrade in Eighteenth-Century Italy, in Hans E. Bödeker (a cura di), Histoires du livre. Nouvelles orientations, Imec Éditions/Éditions de la Maison des sciences de l’homme, Paris 1995, pp. 101-138; e in Id., The History of the Book and Publishing in Eighteenth-Century Italy cit., pp. 200-217. Aiuta a comprendere la situazione italiana, Maria G. Tavoni, Precarietà e fortuna nei mestieri del libro in Italia. Dal secolo dei lumi ai primi decenni della Restaurazione, Pàtron, Bologna 2001. Si vedano, inoltre, Mario Infelise e Paola Marini (a cura di), L’editoria del ’700 e i Remondini. Atti del convegno di Bassano del Grappa, 28-29 settembre 1990, Ghedina e Tassati ed., Bassano del Grappa 1992, specialmente la presentazione di Mario Infelise e i saggi di Brendan Dooley, Lodovica Braida, Renato Pasta, Gilberto Pizzamiglio, Glauco Sanga e Dario Generali, che mostrano la ricchezza della produzione e la vivacità della circolazione del libro, non solo della casa bassanese e a Venezia, ma anche altrove in Italia. Per Firenze e Lucca, Renato Pasta, Editoria e cultura nel Settecento, Olschki, Firenze 1997. Per Napoli e per la Savoia, Anna M. Rao, Introduzione a Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Liguori, Napoli 1998, pp. 3-33; Ead., Le livre à Naples au XVIIIe siècle e Olivier Vernier, Aperçu sur la législation de l’imprimerie et de la presse dans les États de Savoie (XVIIIe-XIXe siècles): de la censure à la liberté surveillée, in Des moulins à papier aux bibliothèques. Le livre dans la France méridionale et l’Europe méditerranéenne (XVIe-XIXe siècles), Actes du colloque tenu les 26 et 27 mars 1999 à l’Université de Montpellier III réunis par Roland Andréa­ ni, Henri Miches et Élie Pélaquier, tome I, avant-propos d’Henri-Jean Martin, conclusions de Frédéric Barbier, Université de Montpellier III, Montpellier 2003, rispettivamente pp. 191-203 e 206-216. Per Torino, Lodovica Braida, Il commercio delle idee. Editoria e circolazione del libro nella Torino del Settecento, Olschki, Firenze 2002. Quanto al giornalismo, fondamentale è ancora il capitolo redatto da Giuseppe Ricuperati, in Carlo Capra, Valerio Castronovo, Giuseppe Ricuperati, La stampa italiana dal ’500 all’800, Laterza, Roma-Bari 1986. Per un quadro sintetico e d’insieme della ricerca recente sui canali della circolazione culturale italiana nel Settecento, il capitolo intitolato Radicamenti. Cultura italiana e pensiero europeo, in Giuseppe Ricuperati, Frontiere e limiti della ragione. Dalla crisi della coscienza europea all’Illuminismo, Utet, Torino 2006. 146 Carlo A. Madrignani, All’origine del romanzo in Italia cit., p. 23. 147 Ivi, p. 13. 148 Ivi, p. 93. 149 Pino Fasano, Il romanzo inesistente, in Rosamaria Loretelli e Ugo Olivieri (a cura di), La riflessione sul romanzo nell’Europa del Settecento, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 61-75; Carlo A. Madrignani, Il romanzo, catechismo per le riforme, ivi, pp. 77-101; Daniela Mangione, Ruoli e funzioni di autore e lettore nel dibattito settecentesco italiano sul romanzo, ivi, pp. 103-117; di quest’ultima si veda anche la prefazione a Francesco Algarotti, Il congresso di Citera, Millen­ nium, Bologna 2003. 150 Questa idea è già in Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), Laterza, Roma-Bari 1977, p. 67. 151 Cecile M. Jagodzinski, Privacy and Print. Reading and Writing in Seventeenth-Century England, University Press of Virginia, Charlottesville-London 1999, p. 25 (la traduzione è mia). Anche Patricia A. Meyer Spacks, Privacy:

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Concealing the Eighteenth-Century Self, University of Chicago Press, Chicago 2003. Su privacy, interiorità e privatizzazione della sessualità, Francis Baker, The Tremulous Private Body: Essays on Subjection, Methuen, London 1994, pp. 9-69. 152 Ivi, pp. 12-15. Anche Alain Callomp, Famiglie. Abitazioni e coabitazioni, in Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di), La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo cit., pp. 393-425. 153 Roger Chartier, Le pratiche della scrittura cit., e Orest Ranum, I rifugi dell’intimità, in Philippe Ariès e Georges Duby (a cura di), La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo cit., rispettivamente alle pp. 104-106 e 176-178. 154 Roger Chartier (Le pratiche della scrittura cit., p. 102) parla di inventari post mortem per la città di Kent, da cui si vede che tra il 1560-1600 e 1601-1640 la quantità di libri presente nella sala, che era la stanza dove si riceveva e la più frequentata della casa, passa dal 48 al 39%, mentre i libri conservati negli spazi privati crescono dal 9 al 23%, con la camera da letto che passa al secondo posto, precedendo addirittura lo studio e il salotto. Per la camera e lo studio, si veda Orest Ranum, I rifugi dell’intimità cit. 155 James Raven, From Promotion to Proscription: Arrangements for Reading and Eighteenth-Century Libraries, in James Raven, Helen Small, Naomi Tadmor (a cura di), The Practice and Representation of Reading in England, Cambridge University Press, Cambridge 1996, p. 188. 156 Paul Kaufmann, The Community Library: a Charter in English Social History, in «Transations of the American Philosophical Society», LVII, 1967, p. 7. Tra il 1740 e il 1815 un gran numero di romanzi brevi e di racconti fu pubblicato nei giornali, a volte anche a puntate, contribuendo così alla diffusione del genere soprattutto in provincia e tra tutte le classi sociali. Cfr. Robert D. Mayo, The English Novel in the Magazines cit., p. 10. 157 Jacqueline Pearson, Women’s Reading in Britain cit., cap. V. 158 Roger Chartier, Le pratiche della scrittura cit., p. 90; Michael Mascuch, Origins of the Individualist Self. Autobiography and Self-Identity in England, 1591-1791, Polity Press, London 1997. 159 Cecile M. Jagodzinski, Privacy and Print cit., p. 24. 160 Nella sfera pubblica invece è l’opposto: il segreto è tenuto in sospetto, mentre sono la discussione aperta e la circolazione delle idee che ci si auspica. Cfr. Michael McKeon, The Secret History of Domesticity. Public, Private and the Division of Knowledge, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2005; Edoardo Tortarolo, Pubblico e segreto, in Gianni Paganini ed Edoardo Torta­ rolo (a cura di), Illuninismo. Un vademecum, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 182-195.

Capitolo III 1 Omero, Odissea, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Mondadori, Milano 1980, pp. 42-43. 2 Sul banchetto omerico e il canto dell’aedo, si veda Florence Dupont, Omero e Dallas, dall’Iliade alla soap-opera. Introduzione ad una critica antropologica (1991), Donzelli, Roma 2006. Per una interpretazione della presenza degli aedi

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nell’Odissea, Margalit Finkelberg, The Birth of Literary Fiction in Ancient Greece, Clarendon Press, Oxford 1998, pp. 51 sgg. 3 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 83. 4 O dei filid dell’Irlanda medievale, la cui preparazione durava dodici anni e che erano anche consiglieri del re. Cfr. William J. McCann, Tradizioni celtiche, in Piero Boitani, Mario Mancini e Alberto Varvaro (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo cit., vol. II, t. I, pp. 261-306, e Piergiuseppe Scardigli, La cultura germanica cit., pp. 60 sgg. Sugli artisti orali e sulla letteratura orale dell’Africa subsahariana, mi pare ottima la sintesi di Isidore Okpewho in Letteratura orale dell’Africa subsahariana, Jaca Book, Milano 1993. 5 Sulla storia delle ricerche di Parry e Lord, si vedano Albert Lord, The Singer of Tales, Harvard University Press, Cambridge 1960, pp. 15 sgg. (trad. it. Il Cantore di storie, Argo, Lecce 2005); cfr. anche John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., pp. 110 sgg. Sono mie tutte le traduzioni dai due libri. 6 Ivi, p. 83. 7 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 16. Sulla psicodinamica orale e ‘vocale’ e il passaggio alla scrittura, la bibliografia è oramai amplissima. Mi piace tuttavia segnalare, tra gli antesignani, Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone (1963), Laterza, Roma-Bari 1983, e La Musa impara a scrivere (1986), Il Mulino, Bologna 1987; Walter J. Ong, La presenza della parola cit., e Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale (1983), Il Mulino, Bologna 1984. 8 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 101. 9 Albert Lord, The Singer of Tales cit., pp. 78 sgg. 10 Ivi, p. 78. 11 Ivi, p. 21. 12 Ivi, p. 88. 13 Quanto trovato da Lord nelle zone balcaniche degli anni Trenta a propo­ sito della memorizzazione nelle culture orali, è confermato nelle ricerche molto più recenti di Jack Goody, effettuate su popolazioni dell’Africa occidentale. Jack Goody, Il suono e i segni: l’interfaccia tra scrittura e oralità (1987), Il Sag­ giatore, Milano 1989, cap. VIII, pp. 167-190. Per la storia di questi studi, si possono vedere David R. Olson, Literate Thought, in Che Kan Leong e Bikkar S. Randhawa (a cura di), Understanding Literacy and Cognition Theory, Research and Application, Plenum Press, New York-London 1989, pp. 3-14; e Jens Brockmeier e David R. Olson, What is a Culture of Literacy?, in Jens Brockme­ ier, Min Wang e David R. Olson (a cura di), Literacy, Narrative and Culture, Cirzon, Richmond (Surrey) 2002, pp. 1-14. 14 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 101. 15 La bibliografia su questo tema è notoriamente sterminata. Mi preme tutta­ via segnalare Jan Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche (1992), Einaudi, Torino 1997; Ricardo J. Quino­ nes, The Renaissance Discovery of Time, Harvard University Press, Cambridge 1972; Georges Poulet, Études sur le temps humain, 4 voll., Plon, Paris 1948-1968 e Reinhart Koselleck, Futuro passato (1959), Marietti, Genova 1986. 16 Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., pp. 115 sgg. e 218 sgg. Riprenderò questo libro nel capitolo dedicato al romanzo del Settecento. 17 I termini inglesi, che alcuni testi italiani non traducono, sono «rehearsal»,

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«to store» e «retrieval». Sul funzionamento della memoria si possono vedere Alan B. Baddeley, La memoria umana (1990), Il Mulino, Bologna 1992, e Sergio Roncato e Gesualdo Zucco, I labirinti della memoria, Il Mulino, Bologna 1993, che discutono anche le tesi di Schank. 18 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 30. 19 Ivi, p. 43. 20 Ivi, p. 142. 21 Francis P. Magoun, The Oral-Formulaic Character of Anglo-Saxon Narrative Poetry, in «Speculum», 28, 1953, pp. 446-467. Paul Zumthor, The Text and the Voice, in «New Literary History», XVI, 1984, 1, p. 84. 22 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., pp. 113 sgg., 134, 220 sgg. 23 Ivi, p. 114, che riprende Albert Lord. 24 La citazione è da Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 67; su questo tema, tuttavia, si veda soprattutto il libro di Margalit Finkelberg, The Birth of Literary Fiction in Ancient Greece cit., in particolare il capitolo III. 25 Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., p. 12 (tutte le traduzio­ ni da questo libro sono mie). 26 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 68. 27 John Miles Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 111. 28 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 146, e Florence Dupont, Omero e Dallas cit. 29 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 135. 30 Ivi, p. 170. 31 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 68. 32 Ivi, p. 112 sgg. Il termine «story pattern», che io qui traduco con schema narrativo, è però di Foley. 33 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 166. 34 L’Odissea contiene in realtà entrambi gli schemi, in quanto la storia di Agamennone e Clitemnestra vi viene raccontata da Menelao a Telemaco. Il viag­ gio di Telemaco alla ricerca del padre, inoltre, possiede diversi tratti dei canti del ritorno dell’eroe. Cfr. Albert Lord, The Singer of Tales cit., pp. 121 sgg. 35 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 167. Questo flashback, nell’Odissea, occupa i libri dal IX al XII. 36 Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., p. 24. 37 Ruth Finnegan, Oral Poetry. Its Nature, Significance and Social Context, Cambridge University Press, Cambridge 1977 e, della stessa, Literacy and Orality, Studies in the Technology of Communication, Balckwell, Oxford 1988 e Jack Goody, Il suono e i segni cit. Goody lo ripete in Dall’oralità alla scrittura. Riflessioni antropologiche sul narrare, in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo cit., pp. 19-46. 38 Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., p. 10. 39 Albert Lord, The Singer of Tales cit., pp. 124-125. 40 Ivi, p. 149 (il corsivo è nell’originale). Questa ipotesi è stata riproposta da John D. Niles, Homo Narrans. The Poetics and Anthropology of Oral Literature, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1999, pp. 89-119, che definisce la collaborazione tra scriba e poeta «oral poetry act». 41 Quello di come la tradizione orale si sia preservata e trasmessa (ed even­ tualmente trasformata) attraverso canali non orali è un problema indubbiamen­ te spinoso e in parte irrisolvibile. Cfr., tra gli altri, Franz Bäulm, Medieval Texts

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and the Two Theories of Oral-Formulaic Composition: A Proposal for a Third Theory, in «New Literary History», XVI, 1984, 1, pp. 31-49; e John M. Foley, Textualization as Mediation. The Case of Traditional Oral Epic (in Raimonda Modiano, Leroy Searle, Peter Shillingsburg, Voice, Text, Hypertext: Emerging Practices in Textual Studies, Walter Chapin Simpson Center for the Humani­ ties, The University of Washington Press, Seattle-London 2004, pp. 101-120) che, sulla base delle sue ricerche sul campo e di un’analisi delle registrazioni di Parry e Lord, invita i ricercatori a porsi le seguenti domande: «What gets recor­ ded? What gets published? What gets received?». Per il Medioevo, Katherine O’Brien O’Keeffe, Visibile Song. Transitional Literacy in Old English Verse, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 41 sgg.; John D. Niles, Homo Narrans cit.; e Mark C. Amodio, Writing the Oral Tradition. Oral Poetics and Literate Culture in Medieval England, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 2004. 42 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., pp. 82 sgg. La performance è un «contesto interpretativo» che può perfino contraddire il significato pura­ mente verbale. Tale contesto non è necessariamente noto a tutto il pubblico, ma solo a chi fa parte di una certa comunità. Gli elementi che simbolicamente staccano la performance dalla vita quotidiana – dove pure essa ha luogo – e che la immettono in una sorta di spazio virtuale, possono essere determinati costumi, il suono di uno strumento o di una nota, un’invocazione alla tradizione, tipo quelle alla Musa nell’incipit dell’Iliade o nella frase iniziale del Beowulf. Può essere inoltre l’uso di codici speciali, come la lingua omerica, che consiste in un insieme di dialetti greci mai parlati e usati solo per comporre esametri. Evi­ dentemente, questa parte del significato si perde senza scampo nelle esecuzioni mirate a consentire la trascrizione. 43 David R. Olson, The Word on Paper. The Conceptual and Cognitive Implications of Writing and Reading, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 111 (la traduzione è mia). 44 John M. Foley, Immanent Art. From Structure to Meaning in Traditional Oral Epic, Indiana University Press, Bloomington 1991. 45 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 101. 46 L’osservazione di partenza è, evidentemente, di Marshall McLuhan («il mezzo è il messaggio»); quanto alla non coincidenza immediata dell’introduzio­ ne di una tecnologia della parola con le trasformazioni formal-contenutistiche mi pare sia un fatto oramai ampiamente acclarato, a partire da Walter J. Ong ed Elizabeth L. Eisenstein, fino al recente libro di Mark C. Amodio sul Medioevo, al quale rimanderemo estesamente nel quarto capitolo. 47 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 65. Sulla paratassi sintattica e sulla causalità nella narrativa antica, si veda Berkley Peabody, The Winged Word. A Study in the Technique of Ancient Greek Oral Composition as Seen Principally through Esiod’s Works and Days, State University of New York Press, Albany 1975. 48 Miguel de Cervantes, Don Chisciotte de la Mancha cit., cap. IX, p. 62. 49 Per il ricorrere di questo tema, si veda D’Arco Silvio Avalle (a cura di), La fanciulla perseguitata, Bompiani, Milano 1977. 50 Albert Lord, The Singer of Tales cit., p. 88. 51 Ivi, pp. 99 sgg.; per i cambiamenti apportati da Avdo, p. 105; per una sintesi, p. 123.

Note al capitolo III

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Ivi, p. 94. Ivi, p. 92. 54 A questo proposito Albert Lord notò che molti studiosi della sua epoca guardavano ai poemi omerici con quello che potremmo chiamare un pregiudizio attivato dai romanzi, nel senso che vi cercavano le medesime caratteristiche cui erano stati abituati dalla narrativa dell’Ottocento. «Abbiamo esercitato la nostra immaginazione e creatività per trovare un tipo di unità, di individualità e origi­ nalità che non sono pertinenti ai poemi omerici [...]. È sulla storia stessa, e ancor più sulla grandiosa dimensione degli ornamenti che ci dobbiamo concentrare, non su un qualche concetto estraneo di unità fortemente accorpata. La storia è là e Omero la narra fino alla fine. La narra completamente e a ritmo disteso, desideroso perfino di soffermarsi a raccontare un’altra storia che gli sovviene. E, se le storie sono appropriate, non è a causa di un’idea preconcetta di unità strutturale elaborata consapevolmente e laboriosamente dal cantore, ma perché quando gli vengono in mente mentre sta raccontando, egli è così preso dal suo argomento che i naturali processi di associazione mentale gli rammentano un racconto pertinente» (ivi, p. 148). 55 John M. Foley, How to Read an Oral Poem cit., p. 101. 56 Albert Lord, The Singer of Tales cit., pp. 55-56. 57 Plutarco (45 ca.-125), Moralia, cit. in Gerald N. Sandy, Heliodorus, Tway­ ne Publishers, Boston 1982, p. 1; e Otto Weinreich, La fortuna di Eliodoro (da Der griechische Liebesroman), in Pietro Janni (a cura di), Il romanzo greco. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 101. Ricordiamo che d’altronde i Greci avevano un concetto di linguaggio come flusso (fonä). 58 Un solo esempio valga per tutti: N.J. Lowe (The Classical Plot and the Invention of Western Narrative, Cambridge University Press, Cambridge 2000) chiama queste opere «Greek novels». I greci non ebbero un nome specifico per questo tipo di composizioni, che a volte chiamarono drâma, a volte diäghma (storia). Cfr. Introduzione di Quintino Cataudella a Il romanzo classico cit. e Luca Graverini, Una visione d’insieme, in Luca Graverini, Wytse Keulen, Ales­ sandro Barchiesi, Il romanzo antico. Forme, testi, problemi, Carocci, Roma 2007, p. 26, dove sono elencate le definizioni date a questa narrativa nell’antichità, diverse delle quali connesse con l’ambito teatrale, con cui, secondo Graverini, questa narrativa è in una specie di osmosi. Lo studioso cita anche un pezzo dalla Storia di Apollonio, dove si dice che Apollonio indossò la veste del cantore e, dopo aver ornato il capo con una corona e preso una lira, entrò nella sala dove iniziò a cantare atteggiandosi ad Apollo. Cfr. p. 43 del medesimo saggio. 59 Aristotele, Retorica, III 1, 1404 a 22. Si veda Gioia M. Rispoli, Dal suono all’immagine cit., cap. VIII, dove esamina la trattatistica di vario tipo e gli scoli di testi sia epici sia drammatici, al fine di trarre indicazioni sul tipo di lettura che prevedevano. Per l’ambito greco, si vedano anche Bruno Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica cit., cap. I; Rosalind Thomas, Oral Tradition and Written Record in Classical Athens, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 34; e, della stessa, Literacy and Orality in Ancient Greece cit. Per l’ambito romano, si vedano Catherine Salles, Lire à Rome cit.; Guy Achard, La communication à Rome cit.; e Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., cap. VI. 60 Gioia M. Rispoli, Dal suono all’immagine cit., p. 221. 61 Cit. ivi, p. 234. 52 53

218 62

tema.

Note Ibid., ed Ead., L’ironia della voce cit., libri entrambi importanti per questo

63 Luca Graverini, Il romanzo greco, in Luca Graverini, Wytse Keulen, Alessandro Barchiesi, Il romanzo antico. Forme, testi, problemi cit., pp. 75-130; Pietro Janni, Introduzione a Il romanzo greco cit., p. xxix, dove si parla anche del tipo dei supporti (se in papiri o codici) e della loro epoca, oltre che delle prime edizioni a stampa. Pierre Grimal, Essai sur la formation du genre romanesque dans l’Antiquité, Ewen L. Bowie, Les lecteurs du roman grec cit., e MarieHenriette Quet, Romans grecs, mosaïques romaines, in Marie-Françoise Baslez, Philippe Hoffmann e Monique Trédé (a cura di), Le monde du roman grec cit., p. 14. Inoltre, La mosaïque gréco-romaine. Actes du IXème Colloque International pour l’étude de la mosaïque antique et médiévale, Ecole Française de Rome, Rome 2005. Il numero dei frammenti rimastici, trovati in diverse città dell’Egit­ to, e la varietà delle versioni hanno fatto pensare a una buona diffusione del romanzo greco nell’antichità (Ben E. Perry, The Ancient Romances. A LiteraryHistorical Account of their Origins, California University Press, Berkeley-Los Angeles 1967, p. 98). Anche Quintino Cataudella, Introduzione a Il romanzo classico cit.; Otto Weinreich, La fortuna di Eliodoro cit., p. 101. Inoltre i recenti The Genre: Novels Proper and the Fringe di Niklas Holzberg, su una discussione sul canone; il magistrale The Rise of the Greek Novel di Consuelo Ruiz-Montero, sulla formazione del genere; The Ancient Readers of the Greek Novels di Ewen L. Bowie, su una ipotesi sui lettori anche in termini numerici, in relazione a chi studiava e Modern Critical Theories and the Ancient Novel di Massimo Fusillo, in Gareth Schmeling (a cura di), The Novel in the Ancient World, E.J. Brill, Leiden-New York-Köln 1996, rispettivamente alle pp. 11-28; 29-85; 87-106 e 277-303. Più di recente, il numero monografico di «Ancient Narrative», intitola­ to Readers and Writers in the Ancient Novel, a cura di Michael Paschalis, Stelios Panayotakis, Gareth Schmeling, Supplemento 12, 2009. 64 «Et ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram, auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam, modo si papyrum Aegyptiam argutia Ni­ lotici calami inscriptam non spreveris inspicere» (Apuleio, Metamorfosi (L’asino d’oro), a cura di Marina Cavalli, Mondadori, Milano 1988, pp. 22-23). 65 È quanto sostiene Florence Dupont in L’invention de la littérature cit., soprattutto a pp. 236 sgg. Su Apuleio, i manoscritti e le prime edizioni a stampa dell’Asino d’oro e per il dibattito critico, è utile S.J. Harrison, Apuleius’ Metamorphoses, in Gareth Schmeling (a cura di), The Novel in the Ancient World cit., pp. 491-516. 66 Potrebbe avvalorare quanto Florence Dupont sostiene sul testo di Apu­ leio l’esistenza di almeno altri due scritti dove appare come protagonista un Lucio-asino, e che non sono uguali a L’asino d’oro di Apuleio. Cfr. Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., p. 247, e Gerald N. Sandy, The Greek World of Apuleius, E.J. Brill, Leiden-New York-Köln 1997. 67 Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., p. 246. 68 Ivi, p. 274. 69 Ivi, p. 260. 70 Rosalind Thomas, Oral Tradition cit., pp. 34 sgg.; Florence Dupont, L’invention de la littérature cit., pp. 246 sgg. Della recitatio parla anche Paolo Fe­ deli, in I sistemi di produzione e diffusione, in Guglielmo Cavallo, Paolo Fedeli,

Note al capitolo III

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Andrea Giardina (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica cit., vol. II, pp. 343-378. 71 Ivi, p. 17. 72 Probabilmente del III-IV secolo d.C. Chi fosse Eliodoro è questione anco­ ra tutta aperta. Per Erwin L. Rohde (Der griechische Roman und seine Vorläufer, Beitkopf u. Härtel, Leipzig 1914, p. 464) non si trattava del vescovo di Tessa­ glia, come sostiene invece un’ipotesi basata su un’affermazione medievale di un tale Socrate. Le Etiopiche, per Rohde, sono troppo impregnate di paganesimo, troppo convintamente pagane per poter essere opera di quell’Eliodoro, anche se le avesse scritte prima della conversione. Per l’attribuzione, si possono vedere anche Gerald N. Sandy, The Greek World of Apuleius cit., pp. 2-5, e John R. Morgan, Heliodorus, in Gareth Schmeling (a cura di), The Novel in the Ancient World cit., pp. 417-456. 73 Pietro Janni, Introduzione a Il romanzo greco cit., pp. xxii, xxiii e xxiv. 74 Ivi, p. xxiii. 75 Non esistono documenti che indichino come venissero lette le Etiopiche intorno all’epoca in cui furono composte, ma verso la metà del IX secolo ab­ biamo una lettera di Fozio al fratello Tarassio, nella quale ne dà un riassunto e parla della loro lettura ad alta voce (Hans Gärtner, Charikleia in Byzanz, in «Antike und Abenland», XV, 1969, pp. 42-69). Sulla lettura del romanzo greco si vedano, tra gli altri, Ewen L. Bowie, The Readership of Greek Novels in the Ancient World, nell’importante James Tatum (a cura di), The Search for the Ancient Novel, Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1994; Fa­ brizio Conca, Scribi e lettori dei romanzi tardo antichi e bizantini, in Metodologie della ricerca sulla tarda antichità. Atti del primo convegno di studi tardoantichi, D’Auria, Napoli 1989, pp. 223-246; John R. Morgan, Reader and Audiences in the Aithiopika of Heliodorus, in «Groningen Colloquia on the Novel», IV, 1991, pp. 84-103; e William A. Johnson, Towards a Sociology of Reading in Classical Antiquity, in «American Journal of Philology», 121, 2000, 593-627. 76 Tomas Hägg, The Novel in Antiquity cit., p. 193. Di Hägg si veda anche Il romanzo greco: modello unico o pluralità di forme?, in Franco Moretti (a cura di), Il romanzo. Storia e geografia, Einaudi, Torino 2002. 77 Gioia M. Rispoli, Dal suono all’immagine cit., cap. VIII; e, tra gli altri, an­ che Aristide Colonna, Introduzione a Le Etiopiche, Utet, Torino 1987, p. xv. Sui legami dei ‘romanzi’ greci con l’auralità, si veda anche Consuelo Ruiz-Montero, El análisis del relato en la novela griega, in Letterature classiche e narratologia. Atti del convegno (1980), Istituto di Filologia Latina dell’Università, Perugia 1981, pp. 311-329, riportato in Pietro Janni (a cura di), Il romanzo greco cit. 78 Erwin L. Rohde, Eliodoro (pagine tratte da Der griechische Roman cit.), in Pietro Janni (a cura di), Il romanzo greco cit., p. 22; dei miti locali parla Bru­ no Lavagnini in un brano dal suo Studi sul romanzo greco (D’Anna, MessinaFirenze 1950), anch’esso riportato in Pietro Janni (a cura di), Il romanzo greco cit., pp. 81 sgg. 79 Quintino Cataudella, Introduzione a Il romanzo classico cit., p. xi; Aristide Calderini, Gli elementi costitutivi del romanzo greco di prosa, in Pietro Janni (a cura di), Il romanzo greco cit., p. 34; Pierre Grimal, Essai sur la formation du genre romanesque dans l’Antiquité cit., p. 17, che come fonte menziona anche le favole milesie e le tradizioni dei paesi d’Oriente. Shadi Bartsch dedica ai temi ricorrenti tre capitoli del suo Decoding the Ancient Novel. The Reader and

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Note

the Role of Description in Heliodorus and Achilles Tatius, Princeton University Press, Princeton 1989. Nel cap. III parla di sogni e previsioni oracolari; nel IV, di descrizioni di spettacoli; nel V, di oggetti artistici. Alle simmetrie linguistiche e tematiche è dedicato invece John R. Morgan, Narrative Doublets in Heliodorus’ «Aithiopika», in Richard Hunter (a cura di), Studies in Heliodorus, The Cambridge Philological Society, Cambridge 1998. 80 Jack Winkler, The Mendacity of Kalasiris and the Narrative Strategy of Heliodoros’ «Aithiopika», in «Yale Classical Studies», 27, 1982, pp. 93-158; Richard Hunter, The «Aithiopika» of Heliodorus: beyond interpretation? (pp. 40-59), e, parzialmente, Philip Hardie, A Reading of Heliodorus, «Aithiopika» 3.4.1-3.5.2 (pp. 19-39), entrambi in Richard Hunter (a cura di), Studies in Heliodorus cit. Non concordo tuttavia con alcune affermazioni di Hunter, come per esempio che l’ordinamento strettamente cronologico delle sequenze di eventi «è un tratto narrativo strettamente associato ai racconti orali e alla narrativa relativamente ‘elementare’» (p. 41); idea che è anche in Massimo Fusillo, Il romanzo antico come paraletteratura? Il topos del racconto di ricapitolazione, in Oronzo Pecere e Antonio Stramaglia (a cura di), La letteratura di consumo nel mondo greco-latino, Università degli Studi di Cassino, Cassino 1996, pp. 49-67. 81 «Gli inganni narrativi, i differimenti e le digressioni sono uno dei suoi tratti più caratteristici». Philip Hardie, A Reading of Heliodorus, «Aithiopika» cit., p. 25 (la traduzione è mia). 82 Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., cap. III, pp. 21 sgg. (la traduzione è mia); Michel Woronoff, L’art de la composition dand les Éthiopiques d’Héliodore, in Marie-Françoise Baslez, Philippe Hoffmann e Monique Trédé (a cura di), Le monde du roman grec cit. Non la pensa così invece George E. Duckworth (Foreshadowing and Suspense in the Epics of Homer, Apollonius, and Virgil, Prin­ ceton University Press, Princeton 1933), il quale afferma che l’epica antica, sia greca che romana, non cerca mai di tenere il lettore (sic) all’oscuro, ma tende a fornirgli anticipazioni di quanto avverrà. Mentre la suspense presente nei testi moderni sorge proprio dall’incertezza del lettore. 83 Erwin L. Rohde, in Pietro Janni (a cura di), Il romanzo greco cit., p. 14. 84 Jack Winkler, The Mendacity of Kalasiris and the Narrative Strategy of Heliodoros’ «Aithiopika» cit., p. 103 (la traduzione è mia). 85 Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., p. 23 (la traduzione è mia). 86 Il ritardo è anche presente sia nel Leucippe e Clitofonte di Tazio – dove i pirati decapitano davanti a Clitofonte una donna che si pensa sia Leucippe, e solo alla fine si scoprirà che era invece una prostituta vestita con i suoi abiti – sia in Cherea e Calliroe di Caritone (giunto a noi in un codice medievale), nella sce­ na del processo, culmine di un effetto drammatico che a me pare maggiore che in qualsiasi punto delle Etiopiche. In tutti i casi, però, futuro e passato stanno ciascuno su un unico piano temporale, senza creare del tutto, con le sole parole, quel movimento temporale bidirezionale che troveremo invece nella narrativa occidentale a partire dal XVIII secolo. 87 Viktor Šklovskij, Una teoria della prosa (1925), Garzanti, Milano 1974, p. 68. 88 Ivi, p. 72. 89 Per le digressioni come elemento ritardante nel racconto di Calasiri (2.24.4-2.32.3), cfr. Philip Hardie, A Reading of Heliodorus, «Aithiopika» cit. 90 Viktor Šklovskij, Una teoria della prosa cit., p. 72.

Note al capitolo III

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91 È noto che il vaticinio come anticipazione è consigliato da Aristotele nella Retorica. 92 Anche per quel che riguarda l’incipit, nelle Etiopiche, la piena spiega­ zione delle circostanze è rimandata a 5.22-23. L’ultima parte delle Etiopiche è quella che più sembra avvicinarsi alla suspense. Teagene e Cariclea passano dalle mani dei soldati del satrapo persiano Oroodante guidati dall’eunuco Bagoa a quelle di un gruppo di etiopi (8.16), che i due giovani seguono di buon grado, convinti di essere destinati a servire il re e ad essere «il più bello degli ornamenti della corte reale». Così, «quegli stranieri incatenati, che poco prima avevano visto la morte sospesa sopra di loro, ora non venivano portati via, ma accompagnati con tutti gli onori, scortati, nella loro condizione di prigionieri, da uomini che ben presto sarebbero stati loro sudditi. Tale era dunque la loro situazione». Ma questa subito si ribalta, e i due, presentati al re degli etiopi Idaspe (padre, ancora ignaro, di Cariclea), vengono designati come vittime sacrificali alla fine della guerra che appunto oppone gli etiopi ai persiani (9.1). La tensione causata nei lettori da questa prospettiva è fatta crescere, sostiene Sandy (Heliodorus cit., p. 22), con il dirigere a questo punto l’attenzione su una descrizione minuziosa dell’assedio della città di Siene e della battaglia, che insieme durano da 9.2 a 9.23. Subito dopo i due giovani rientrano in scena (9.24), e Teagene invita la sua amata a rivelarsi al padre, mentre Cariclea invece indugia. Segue la narrazione del sogno di Idaspe nel quale Cariclea gli appare come figlia, e le disposizioni rispetto agli altri pri­ gionieri; poi gli spostamenti e l’arrivo dei messaggi che annunciano il ritorno dalla regina Persinna (madre, ancora ignara, di Cariclea), i preliminari del sa­ crificio, quelli del riconoscimento e i lunghi dialoghi, per giungere infine all’a ¬nagnårisiv (10.13-17). Rimane però ancora incerta la sorte di Teagene; e qui interviene un ulteriore ritardo, fino a quando (10.40-41) Teagene e Cariclea non sono finalmente dichiarati marito e moglie: «Così ha termine il libro delle vicende etiopiche di Teagene e Cariclea. Lo ha composto un Fenicio di Emisa, della stirpe di Helios, Eliodoro, figlio di Teodosio». Da 9.2 a 10.41, dunque, la sorte dei protagonisti rimane sospesa, e il racconto potrebbe virare verso la suspense. E tuttavia a me pare non la susciti veramente in chi legge come si legge oggi e che non attivi quella tensione che, come abbiamo detto, è il suo nucleo affettivo. Ritengo in effetti che l’atteggiamento di Sandy sia piuttosto assimilabile a quello che denunciava Lord nei ricercatori che volevano trovare a tutti i costi l’unità narrativa nei racconti orali. 93 Sul senso della temporalità nella cultura romana, vale la pena di leggere Maurizio Bettini, Antropologia e cultura romana. Parentela, tempo, immagini dell’anima, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988, parte II. 94 Tim Whitmarsh, The Birth of a Prodigy: Heliodorus anf the Genalogy of Hellenism, in Richard Hunter (a cura di), Studies in Heliodorus cit., p. 96 (la traduzione è mia). 95 Sul ‘bilinguismo’ medievale, ho trovato particolarmente utili: Ivan Illich, Nella vigna del testo cit.; Franco Carandini, Alto e basso medioevo, in Guglielmo Cavallo, Claudio Leonardi, Enrico Menestò (a cura di), Lo spazio letterario del Medioevo cit., vol. I, t. I, pp. 121-143; e Stefano Asperti, Origini romanze. Lingue, testi antichi, letterature, Viella, Roma 2006. Si vedano anche Brian Stock, After Augustine cit.; e Mark C. Amodio, Writing the Oral Tradition cit. Sugli effetti culturali nel Medioevo dell’interazione tra oralità e scrittura, Brian Stock,

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Note

The Implications of Literacy: Written Language and Models of Interpretation in the Eleventh and Twentieth Centuries, Princeton University Press, Princeton 1983. Sul significato di alcune parole, cruciali per il presente libro, si veda Si­ mona Leonardi, «Libro», «leggere», «scrivere» in area linguistica tedesca tra medioevo e prima età moderna. Un’analisi semantica di tre parole chiave, Kümmerle Verlag, Göttingen 2000. 96 Per il Beowulf, si vedano, oltre a Albert Lord, The Singer of Tales cit., anche John M. Foley, Textualization as Mediation. The Case of Traditional oral Epic cit. Di tutt’altro taglio sono invece i saggi raccolti in Robert E. Bjork e John D. Niles (a cura di), A Beowulf Handbook, University of Exeter Press, Exeter 1997, che poco convincentemente osservano il poema dal punto di vista della poetica aristotelica, chiedendosi se fu opera di uno o di più autori. Interessante è, tuttavia, in questo libro, Robert E. Bjork, Digressions and Episodes, pp. 193-212. Sempre sulle digressioni, Adrien Bonjour, The Digressions in Beowulf, Blackwell, Oxford 1950. Per le questioni di esecuzione e ricezione dell’epica in ambito iberico, cfr. il prologo e le note di Alberto Montaner al Cantar de mio Cid, Galaxia Gutenberg, Barcelona 2007. Simona Leonardi mi segnala che un caso interessante di ‘fiume carsico’ dell’oralità è dato dalla materia nibelungica e teodericiana in area tedesca, per la quale c’è la sola attestazione casuale e monca del Canto d’Ildebrando. Poi nel XIIXIII secolo è messo per iscritto il Nibelungenlied, che confluirà, insieme ad altre materie, nei motivi della poesia giullaresca (Spielmannsepik), e nelle diramazioni popolari della Dietrichepik. Cfr. Edward R. Haymes e Susann T. Samples, Heroic Legends of the North: An Introduction to the Nibelung and Dietrich Cycles, Garland, New York 1996; Harald Haferland, Mündlichkeit, Gedächtnis und Medialität – Heldendichtung im deutschen Mittelalter, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2004. Sul tema della trascrizione si può vedere Alger N. Doane e Carol B. Pasternack (a cura di), Vox Intexta. Orality and Textuality in the Middle Ages, The University of Wisconsin Press, Madison-London 1991. Per le chansons de geste e i romanceros, Jean Rychner, La chanson de geste. Éssai sur l’art épique des jongleurs, Droz-Giard, GenèveLille 1955; Ramón Menéndez Pidal, La «Chanson de Roland» et la tradition épique des Francs, Picard, Paris 1960; Id., Romancero híspánico, Espansa Calpe, Madrid 1968; Joseph J. Duggan, The «Cantar de mio Cid»: Poetic Creation in its Economic and Social Contexts, Cambridge University Press, Cambridge 1989. La questione della testualità medievale è enorme e sotten­ de tutto il lavoro della medievistica. Risulta dunque impossibile anche solo accennarvi in poche pagine con una qualche accuratezza. Abbiamo perciò scelto di non toccarla esplicitamente, anche se rimane sempre presente sullo sfondo, rendendoci cauti. Il problema è, come l’ha definito Paul Zumthor, quello di «staccare la ‘letteratura’ medievale dai testi che ce l’hanno conser­ vata» (Una cultura della voce cit., p. 118), operazione molto difficile poiché, con le modalità di comunicazione che il Medioevo mette in atto, c’è anche un atteggiamento per cui «il testo può essere, senza scandalo per nessuno, il risultato di un vero e proprio negoziato tra copista e antigrafo, quando non lo è tra libraio, copista, antigrafo e committente della copia in questione» e poiché «il testo per gli autori è sentito come supporto non immodificabile di infiniti sensi possibili e per gli utenti una base di senso modificabile» (Alberto Varvaro, Il testo letterario cit., p. 421).

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97 Oltre a quanto detto nel cap. II del presente libro, si veda anche Michael T. Clancy, From Memory to Written Record cit., pp. 125-126 e 270-271. 98 Mary Carruthers, The Book of Memory: A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge University Press, Cambridge 1990, pp. 3 sgg. Sulla produ­ zione/lettura nel Medioevo tedesco, Dennis H. Green, Medieval Listening and Reading. The Primary Reception of German Literature 800-1300, Cambridge University Press, Cambridge 1993. Sulla produzione mediante dettatura di testi letterari e non, e sul passaggio a quella autografa dell’autore, Armando Petrucci, Dalla minuta al manoscritto d’autore cit., pp. 353-373; e, del medesimo, La descrizione del manoscritto: storia, problemi, modelli, Carocci, Roma 2001. 99 Mark C. Amodio, Writing the Oral Tradition cit., capp. III, IV, V. In quest’ottica va per esempio visto il cambiamento, in Francia, dalla narrativa in versi a quella in prosa. Per questo, si veda Wlad Godzich e Jeffrey Kittay, The Emergence of Prose, University of Minnesota Press, Minneapolis 1987. 100 Francoise Le Saux, Listening to the Manuscript: Editing Layamon’s Brut, in Herbert Pilch (a cura di), Orality and Literacy in Early Middle English, Gunter Narr Verlag, Tübingen 1996, p. 12 (la traduzione è mia). 101 Paul Zumthor, Una cultura della voce cit., p. 134. 102 Mark C. Amodio, Writing the Oral Tradition cit., p. 34 (tutte le traduzioni da questo libro sono mie). 103 Ivi, p. 30. 104 Joseph J. Duggan, Modalità della cultura orale cit., p. 168. Del saggio di Duggan mi sono servita per la parte che segue. Ma si veda anche Maria L. Me­ neghetti, Il pubblico dei trovatori. La ricezione e il riuso dei testi lirici cortesi fino al XIV secolo, Einaudi, Torino 1992, soprattutto i capp. II e III. 105 Martin De Riquer e Isabel De Riquer, Introduzione a Iid. (a cura di), La poesía de los trovadores, Espansa Calpe, Madrid 2002, pp. xiv-xviii. Per la produzione sia scritta sia orale, Amalia Van Vleck, Memory and Re-Creation in Troubadour Lyric, University of California Press, Berkeley 1991, pp. 43-44. Per l’esecuzione a memoria, il rimando d’obbligo è a Martin De Riquer, Los trovadores, Planeta, Barcelona 1975, vol. I, pp. 322 sgg. Per la gestualità nell’esecuzione dei giullari, si veda Jean-Claude Schmitt, Il gesto nel Medioevo (1990), Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 228 sgg. 106 Paul Zumthor, Una cultura della voce cit., p. 128. I lais erano brevi com­ ponimenti poetici narrativi che venivano in origine cantati dai giullari bretoni con l’accompagnamento di una specie di arpa. 107 Però, scrive Duggan (Modalità della cultura orale cit., p. 172), «La mag­ gior parte delle tracce delle esecuzioni orali sono scomparse dai testi, sia perché gli addetti alla registrazione le ritenevano scontate e non sentivano il bisogno di trascriverle, sia perché la tradizione manoscritta più tarda le eliminò conside­ randole rilevanti solo nel contesto stesso dell’esecuzione». 108 Per il passaggio dall’epos al romanzo si possono vedere Eugène Vinaver, Il tessuto del racconto. Il «romance» nella cultura medievale (1971), Il Mulino, Bologna 1988; Eleazar M. Meletinskij, Introduzione alla poetica storica dell’epos e del romanzo (1986), Il Mulino, Bologna 1993 e, a cura di Maria L. Meneghetti, Il romanzo, Il Mulino, Bologna 1988, specie la bella introduzione della curatrice (pp. 7-85), il saggio di Cesare Segre (I problemi del romanzo medievale, che di­ scute la teoria di Bachtin) e quello di Erich Köler (Forma e struttura del romanzo arturiano), rispettivamente alle pp. 125-145 e 147-169.

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Note

109 Per questa parte ho usato soprattutto Larry D. Benson, Art and Tradition in Sir Gawain and the Green Knight, Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey) 1965, i capp. The Sources e Literary Convention and Characterization. 110 Per le occorrenze di questi temi in altre opere, cfr. Stith Thompson, Motif Index of Folk-Literature: A Classification of Narrative Elements in Folktales, Ballads, Myths, Fables, Medieval Romances, Exempla, Fabliaux, Jest-Books, and Local Legends, Indiana University Press, Bloomington 1955-1958, ora anche sul sito http://www.ruthenia.ru/folklore/thompson. 111 Albert Lord, The Singer of Tales cit., cap. IV. 112 Ronald A. Waldron, Oral Formulaic Technique and Middle-English Allitterative Poetry, in «Speculum», XXXII, 1957, pp. 792-804. 113 Larry D. Benson, Art and Tradition in Sir Gawain and the Green Knight cit., pp. 170 sgg. 114 John A. Burrow, A Reading of Sir Gawain and the Green Knight, Rout­ ledge and Kegan Paul, London 1965, p. 3. 115 Larry D. Benson, Art and Tradition in Sir Gawain and the Green Knight cit., pp. 186 sgg. 116 Ivi, pp. 176 sgg. 117 John A. Burrow, A Reading of Sir Gawain and the Green Knight cit., p. 3. 118 Anonimo, La Castellana di Vergy, a cura di Giovanna Angeli, Salerno Editrice, Roma 1991, p. 103. 119 Maria di Francia, Eliduc, riveduto nel testo con versione a fronte, intro­ duzione e commento a cura di Ezio Levi, Sansoni, Firenze 1949, p. 23. 120 Dove nel testo sia presente una ‘disputa’, allora è però questa a creare ritardo, come per esempio nel Lai de l’ombre di Jean Renart (1217-1219). 121 La traduzione è in Piero Boitani (a cura di), Sir Gawain and the Green Knight, Adelphi, Milano 1986, autore dell’introduzione e delle note, che ho qui utilizzato. In appendice, un saggio di Ananda K. Coomaraswamy. Boitani parla a lungo di Sir Gawain anche nel suo English Medieval Narrative in the 13th and 14th Centuries, Cambridge University Press, Cambridge 1986, pp. 60-70, e, più brevemente, in Letteratura europea e medioevo volgare (Il Mulino, Bologna 2007, pp. 47-51), dove afferma che «se Auerbach avesse impostato il capitolo di Mimesis su Sir Gawain anziché sull’Yvain di Chrétien, avrebbe potuto scrivere le stesse cose. Con un’eccezione, forse. Perché in Sir Gawain è presente, anche, una dimensione che noi tendiamo a dimenticare quando parliamo di questo tipo di romanzo: la storia, il legame con il passato e con il presente, la società». 122 Per altri esempi di appelli al pubblico in altri testi medievali si vedano: Larry D. Benson, Art and Tradition in Sir Gawain and the Green Knight cit., p. 118, e Joseph J. Duggan, Modalità della cultura orale cit., p. 161. 123 La maggior parte degli indicatori verbali del contesto di esecuzione sono stati fatti sparire dai testi medievali, e tuttavia troviamo ancora richieste di si­ lenzio in momenti cruciali della storia pure in altri testi medievali. «Badate che non ci sia rumore, o chiasso o grida», dice per esempio il giullare in Doon de Nanteuil, cit. in Joseph J. Duggan (Modalità della cultura orale cit., p. 162), che rimanda a Paul Meyer, La chanson de «Doon de Nanteuil», fragments inédits, in «Romania», XIII, 1884, p. 12. In Huon de Bordeaux c’è un passo in cui il prota­ gonista è sul punto di svegliare un gigante che dorme e di sfidarlo. La narrazione

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lì si interrompe, e il narratore dichiara che la sera è vicina e che lui è stanco, invi­ tando il pubblico a bere con lui. Se vorranno sentire il seguito dovranno tornare il giorno dopo portando monete di rame: per pagarlo, ovviamente. All’inizio della lassa successiva il narratore dichiara di voler riprendere la narrazione, ma poco dopo, quando è di nuovo a un punto cruciale e ha suscitato curiosità, si interrompe, invoca il silenzio e si lamenta di non aver ricevuto abbastanza dena­ ro dagli ascoltatori. Minaccia quindi scherzosamente di scomunicare tutti quelli che non daranno subito dei soldi a sua moglie. La maggior parte delle marche dell’esecuzione orale è, tuttavia, come si diceva, scomparsa dai testi. Cfr. Joseph J. Duggan, Modalità della cultura orale cit., pp. 163-172. 124 Io ho tuttavia lavorato sull’edizione del 1554: Discorso di M. Giovambattista Giraldi Cinthio nobile Ferrarese, et Segretario dell’Eccellentiss. Duca di Ferrara, intorno al Comporre de Romanzi, A M. Giovambattista Pigna, con Mol­ te Considerazioni, MDLIIII. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione. 125 Proprio come ha luogo la soluzione creativa dei problemi giunti a un impasse. Cfr. Paul Watzlawick, John Weackland, Richard Fisch, Change. Sulla formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio, Roma 1974. 126 Discorsi del poema eroico, libro III (in Torquato Tasso, Scritti sull’arte poetica, Einaudi, Torino 1977, t. II, p. 240. Anche le citazioni successive sono tratte da questa edizione). Stampati tra il 1587 e il 1595, ma composti tra il 1560 e il 1565, circolarono probabilmente manoscritti (si veda l’edizione curata da Luigi Poma, Laterza, Bari 1964 alle pp. 263-270). Sul rapporto varietà-unità nella poetica narrativa del Cinquecento, si può vedere Alban K. Forcione, Cervantes, Tasso, and the Romanzi Polemic, in «Révue de Littérature Comparée», 44, 1970, pp. 433-443. Per il rapporto tra varietà e piacere, cfr. Henry V.S. Ogden, The Principles of Variety and Contrast in Seventeenth-Century Aesthetics, and Milton’s Poetry, in «Journal of the Hisotry of Ideas», X, 1949, 2, pp. 159-182. 127 Margit Frenk, Lectores y oidores. La difusión oral de la literatura en el Siglo de oro, in Giuseppe Bellini (a cura di), Actas del Septimo Congreso de la Asociación International de Hispanistas cit., pp. 101-123. 128 Per il romanzo greco nella civiltà bizantina, si può vedere Jean-Pierre Ar­ rignon e Jean-François Duneau, Le roman bizantin: permanence et changements, in Marie-Françoise Baslez, Philippe Hoffmann e Monique Trédé (a cura di), Le monde du roman grec cit., pp. 283-290. Per quanto qui segue sulla riscoper­ ta delle Etiopiche in epoca rinascimentale, mi sono basata, ove non altrimenti specificato, su Otto Weinreich, La fortuna di Eliodoro cit.; su Tomas Hägg, The Novel in Antiquity cit., cap. VIII; e su Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., cap. VII. 129 L’Histoire Aethiopique de Heliodorus, contenant dix liures, traitant des loyales et pudiques amours de Theagenes, thenalieu & Chariclea Aethiopienne, Imprimé à Paris par Estienne Groulleau, demourant en la rue Neuue nostre Dame, 1547. 130 Historia ethiopica de Heliodoro. Trasladada de frances en vulgar castellano, por un secreto amigo de su patria, y corrigida segun el Griego por el mismo, Martin Nuyts, Anuers 1554. Del 1569 è la traduzione inglese, meno fedele di quella di Amyot ma altrettanto bella. Fu eseguita da Thomas Underdowne a partire dalla versione latina del 1552. Per quanto vi siano prove della sua esistenza, non pare siano rimaste copie di questa prima edizione inglese; ve ne sono invece della seconda e della terza, rispettivamente del 1587 e del 1588 (Samuel L. Wolff,

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The Greek Romances in Elizabethan Prose Fiction, Columbia University Press, New York 1912, pp. 376 sgg.). 131 Historia de Eliodoro delle cose ethiopiche. Nella quale fra diuersi, compassionevoli auenimenti di due amanti, si contengono abbattimenti, discrittioni di paesi, etc, Giolito de Ferrari, Gabriele & Fratelli, Venetia 1556. Poi, dello stesso stampatore, 1560, 1586, 1588. Sempre a Venezia, per Andrea Baba esce un’edizione nel 1611; e, nel 1636, un’altra per Gerardo Imberti. 132 Julii Caesaris Scaligeri, Poetices libri septem, Apud Antonium Vincen­ tium, 1561, p. 144. 133 Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., p. 100. 134 A Defence of Poesie, titoli di due differenti edizioni, entrambe del 1595. 135 Samuel L. Wolff, The Greek Romances cit., pp. 238-239 e pp. 376 sgg.; Margaret Schlauch, Antecedents of the English Novel. 1400-1600, Polish Scien­ tific Publishers, Warszawa 1963, pp. 174-196; Georges Molinié, Du roman grecque au roman baroque, Presses Universitaires du Midi, Toulouse 1995. Per il debito di Sidney nei confronti delle Etiopiche, oltre a Samuel L. Wolff, The Greek Romances cit., pp. 307-308, anche Rosanna Camerlingo, From the Courtly World to the Infinite Universe. Sir Philip Sidney’s Two Arcadias, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1993, specialmente alle pp. 56-64. 136 Cit. in Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., p. 100 (la traduzione è mia). 137 Brani della lettera di Fozio sono riportati in Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., p. 95. 138 Il termine è preso da Tzvetan Todorov, Les catégories du récit littéraire, in «Communications», VIII, 1966, p. 14. 139 Nei romanzi di Gian Francesco Biondi, attorno alle vicende principali corre una trama di narrazioni parallele in cui altri cavalieri sono protagonisti di racconti tutti simili, spesso narrati da un personaggio che ad un certo punto compare nella trama. A volte l’autore si serve anche del trucco delle storie pa­ rallele, facendo per esempio separare due personaggi, di cui vengono seguite individualmente le vicende. Il Biondi nacque nel 1572 in un’isola dell’arcipe­ lago veneto e visse prima a Parigi, poi presso Giacomo I a Londra, svolgendo attività diplomatica per conto della Repubblica di San Marco. Tornò varie volte a Londra fino al 1640, quando la Rivoluzione lo fece fuggire definitivamente dall’Inghilterra. La sua fortuna in Italia fu notevole. L’Eromena, del 1624, ebbe sette ristampe. La donzella desterrada (1627) e Il Coralbo (1632) vennero tradot­ te anche in inglese. Morì nel 1644. Per le informazioni sulla vita e sulla fortuna letteraria, si veda Marco Fantuzzi, Meccanismi narrativi nel romanzo barocco, Antenore, Padova 1985. 140 Girolamo Brusoni (1614-1686) appartenne alla coterie di Ferrante Palla­ vicino ed entrò nell’Accademia degli Incogniti. Durante la sua avventurosissima vita scrisse novelle e romanzi. Sua è la trilogia di Glisomiro (La gondola a tre remi, 1657; Il carrozzino alla moda, 1658; La peota smarrita, 1662, messi all’In­ dice nel 1665 e nel 1669). I suoi ‘romanzi’ mancano di una vicenda centrale e le numerose parti secondarie risultano perciò scollegate, configurandosi piuttosto come pezzi di mosaico che comprendono, oltre alle storie, anche analisi di co­ stume e considerazioni filosofiche e politiche. Il racconto scorre molto veloce, senza variazioni di ritmo; mentre il tentativo, che pur c’è, di lasciare ‘in sospeso’ l’uditorio si attua in anticipazioni che il narratore esplicitamente annuncia con espressioni quali: «vedrete effetti miserabili...» (sul Brusoni, ancora Marco Fan­

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tuzzi, Meccanismi narrativi nel romanzo barocco cit., pp. 239 sgg.). Per l’influen­ za delle Etiopiche negli Stati italiani, si veda Alberto Sana, Eliodoro nel Seicento italiano. I. Il «Teagene» di Gio. Battista Basile, in «Studi secenteschi», XXXVII, 1996, pp. 29-108; Id., Eliodoro nel Seicento italiano. II. «La Cariclea» di Ettore Pignatelli, ivi, XXXVIII, 1997, pp. 107-183; e Clotilde Bertoni e Massimo Fu­ sillo, Heliodorus parthenopaeus: The Aithiopika in Baroque Naples, in Richard Hunter (a cura di), Studies in Heliodorus cit. 141 Didier Souiller, La littérature baroque en Europe, Puf, Paris 1988, pp. 277 sgg., che tratta anche della Spagna; e Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., cap. VII. 142 Ivi, p. 114. Per una biografia intellettuale di Sorel, si veda Mariassunta Picardi, Le libertà del sapere. Filosofia e «scienza universale» in Charles Sorel, prefazione di Cesare Vasoli, Liguori, Napoli 2007. 143 Alcuni sostengono, a mio avviso un po’ forzatamente e indotti da una mentalità per cui nessun racconto può essere esteticamente accettabile se non lo percepiamo oggi come dotato di unità, che esse posseggono un ordine tutto esterno di rapporti «of harmony, dissonace, counterpoint and fugue» (Edward B. Turk, Baroque Fiction-Making. A Study of Gomberville’s Polexandre, North Carolina Studies in the Romance Languages and Literatures, Chapel Hill 1978, p. 20). 144 Gerald N. Sandy, Heliodorus cit., pp. 113-114. André Le Breton, Le roman au dix-septième siècle, Slatkine reprints, Genève 1970. 145 Ibrahim, ou L’Illustre Bassa, à Paris chez Antoine de Sommerville, au Palais dans la Galleriérie des Merciers, 1641, vol. I, p. 1. 146 Il romanzo eroico francese era ben conosciuto in Gran Bretagna, do­ ve veniva letto sia nella lingua originale sia in traduzione. Cassandre di de La Calprenède fu tradotta parzialmente nel 1652, poi per intero da Sir Charles Cotterell nel 1667, e successivamente rivista nel 1703. Cléopâtre ebbe diverse traduzioni ad opera di Sir Robert Loveday e altri tra il 1652 e il 1659. Nel 1662 e nel 1667 si abbero due versioni del Pharamon, rispettivamente di John Davis e di John Philips. Ibrahim di Madeleine de Scudéry fu volto in inglese da Henry Cogan nel 1652 e nel 1674; mentre il Grand Cyrus e Clélie vennero tradotti da John Davis e da Georges Mayers dal 1655 al 1661 (cfr. Albert C. Baugh, a cura di, A Literary History of England, Routledge and Kegan Paul, London 1948). Questi libri erano letti evidentemente anche da chi poi cercherà nuove vie per la narrativa, come ad esempio lo stesso Henry Fielding, la cui biblioteca conteneva Astrée, Clélie, Cassandre, Le Grand Cyrus e altri (per questo, si veda il catalogo della biblioteca di Fielding fatto redigere dal fratello subito dopo la sua morte e ora pubblicato in Frederick G. Ribble e Anne G. Ribble, Fielding’s Catalogue. An Annotated Catalogue, The Bibliographical Society of the University of Virginia, Charlottesville 1996). Quanto alle traduzioni italiane, L’Artamene, ovvero Ciro il Grande, tradotto dal Marchese Maiolino Bisaccioni, ebbe, prima del Settecento, a Venezia «per Francesco Storti» prima, e «per gli eredi Storti» poi, ristampe almeno nel 1651, 1653, 1654, 1655, 1656, 1658, 1661, 1662, 1663, 1664, 1667, 1669. Ibrahim fu stampato in italiano da Francesco Storti a Venezia nel 1651 e a Roma nel 1652. Anche La Cleopatra fu tradotta da Maiolino Bisac­ cioni e stampata a Venezia da vari stampatori (tra cui sempre «gli eredi Storti», nel 1659, nel 1663, nel 1672, nel 1697). Mentre La Cassandra, oltre a Maiolino

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Bisaccioni (Venezia 1660, 1698) ebbe un altro traduttore, cioè Giuseppe Ronchi (Bologna 1652; Venezia 1660 e 1680). 147 Pierre-Daniel Huet, Trattato sull’origine dei romanzi, a cura di Ruggero Campagnoli e Yves Hersant, Einaudi, Torino 1977, p. 24. Anche le citazioni successive sono tratte da questa edizione. 148 Arnaldo Pizzorusso, Teorie letterarie in Francia, Nistri-Lischi, Pisa 1968, pp. 157-159. 149 Ivi, pp. 65-72. 150 Ivi, p. 33. 151 Ivi, pp. 39-42. 152 Ivi, p. 55. 153 Lettera a Huet del 1670, cit. in Arnaldo Pizzorusso, Teorie letterarie in Francia cit., p. 65. Per alcune messe in scena francesi della storia di Teagene e Cariclea, si veda Bernadette Béarez-Caravaggi, Introduction à Théagène et Cariclée, in «Il confronto letterario», XLVIII, 2008, 2, pp. 335-360. 154 Arnaldo Pizzorusso, Teorie letterarie in Francia cit., p. 56. 155 Ivi, pp. 99 sgg. 156 In De la delicatesse (1671), cit. in Arnaldo Pizzorusso, Teorie letterarie in Francia cit., p. 74. 157 Ivi, p. 106. 158 Cit. ivi, p. 108 (la traduzione è mia). 159 Ivi, p. 122. 160 Sentiments sur les Lettres et sur l’Historie, avec des scrupules sur le stile, a Paris, chez C. Blageart MDCLXXXIII, p. 4. Il testo è presente per intero nell’antologia Poétiques du roman. Scudéry, Huet, Du Plaisir et autres textes théoriques et critiques du XVIIe siècle sur le genre romanesque (a cura di Camille Esmein, Champion, Paris 2004), che contiene anche, della Esmein, un’ottima introduzione generale e altre brevi introduzioni alle sezioni della raccolta (la traduzione è mia). 161 John Sutton, The Source of Mrs Manley’s Preface to Queen Zarah, in «Mo­ dern Philology», 82, 1984, pp. 167-172. 162 Per questa parte ho seguito principalmente Maria T. Marcialis (a cura di), La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni, Principato, Milano 1970; Arnaldo Pizzorusso, Teorie letterarie in Francia cit., cap. VII; e Luigi Ferreri, La questione omerica dal Cinquecento al Settecento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007. 163 Robert Wood (1717-1771), diplomatico, archeologo e collezionista ingle­ se, fu forse il primo a ipotizzare quanto Parry poi dimostrò, e cioè che Omero era analfabeta e che la sua memoria giocò un ruolo importante nella composizione epica. Walter J. Ong, Oralità e scrittura cit., pp. 41-42. 164 Bernard Le Bovier de Fontenelle, Digression sur les Anciens et les Modernes, in appendice al Discours sur l’Eglogue (1688), cit. in Maria T. Marcialis (a cura di), La disputa sei-settecentesca sugli antichi e sui moderni cit., p. 109. 165 Ivi, p. 76. 166 Ivi, p. 177. 167 Traité du poème épique, par le P.R. Le Bossu, Chanoine Régulier de Sainte Geneviève, a Paris, Chez Michel le Petit ruë S. Jacques, à la Toison d’or, 1674, avec privilège du Roi (le traduzioni sono mie). Le citazioni sono da questa edi­ zione, che è la prima. L’errore di Terrasson lo compie anche Henry Home Lord

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Kames quando, in The Elements of Criticism (Edinburgh, Printed for A. Millar, London; and A. Kincaid & J. Bell, Edinburgh 1762, vol. I, p. 175: le traduzioni da questo testo sono mie), accusa Le Bossu di guardare solo al passato, prescri­ vendo regole basate sui classici. 168 Per la biblioteca di Henry Fielding, si vedano Frederick G. Ribble e Anne G. Ribble, Fielding’s Library. An Annotated Catalogue cit. 169 Questo fatto non deve meravigliare più di tanto, poiché i romans erano considerati i fratelli minori dell’epopea, proprio come le Etiopiche, quando fu­ rono scritte e quando furono riscoperte. Non è certo un caso che Fielding, uno dei grandi che nel Settecento sperimentarono nuove forme narrative, decida di chiamare alcune sue opere «comic-epic-poems-in-prose». 170 Il Traité inizia affermando che, poiché molti hanno scritto del «poème et de la versification», occorre ora invece trattare «ampiamente della Favola, essendo essa la parte essenziale dell’Epopea» (p. 20). In altri termini, occorre trattare dell’organizzazione dei fatti in racconto. In tal senso si sviluppa l’intero scritto. C’è un capitolo intitolato Della moltiplicazione errata delle Favole e uno invece Della moltiplicazione regolare delle Favole; diversi capitoli dedicati alle digressioni e agli episodi, che – vi si dice – non possono essere del tutto scollegati tra loro: «Questa irregolarità si ravvisa quando è possibile togliere un Episodio intero senza mettere nulla al suo posto, in modo che tale soppressione non lasci alcun vuoto né alcun difetto nel Poema» (p. 167). 171 Riassumiamo la storia di questo operatore discorsivo della varietà, am­ piamente presente, assieme alla struttura per episodi, nella narrativa orale e in quella fruita e diffusa mediante l’auralità. La presenza della varietà fu teorizza­ ta dall’oratoria, dove l’immissione di argomenti diversi rispetto all’oggetto del discorso veniva definita, in ambito latino, digressivo o excursus, consistendo di narrazioni (gli exempla, per esempio), oppure di descrizioni (evidentia), oppure di argomentazioni (enthymema, similitudo). L’uso della digressione era però già stato teorizzato all’epoca di Corace il quale, fissando le cinque parti del discorso oratorio, l’aveva collocata dopo l’esordio, la narrazione dei fatti, l’ar­ gomentazione o prova, e prima dell’epilogo (Roland Barthes, La retorica antica [1970], Bompiani, Milano 1972, pp. 13-14). La retorica aristotelica, che è arte del ragionamento, della prova e della verità, la mise al servizio dell’argomenta­ zione e della persuasione. Il distacco dall’oggetto del discorso, scrive Aristotele nella Retorica, sono «l’esempio» e «l’entimema». La digressione sotto forma di entimema è più incisiva e vigorosa; ha carattere generale e funziona per dedu­ zione, partecipando della forza del sillogismo. Gli esempi sono invece più dolci e occultamente suasivi; cause ed esiti sono iscritti nel concreto dei fatti di quel caso singolo: per induzione il pubblico scopre l’analogia con il caso oggetto del discorso oratorio e si lascia convincere (II,B,20). La verità affiora in un certo senso da sola. Nella pratica ciceroniana, la digressione rafforza il suo compi­ to di introdurre nuovo materiale e non le viene più assegnata una posizione precisa. Dovunque c’è posto per la digressione (per es. la lode della Sicilia e il ratto di Proserpina nelle orazioni contro Verre – II,2; IV,106). In Quintiliano, fondamentali rimangono l’entimema e l’exemplum, ma importanti sono anche le digressioni amplificative (Istituzione oratoria, IV,3). Quintiliano, tuttavia, è già consapevole del rischio che l’apporto di nuovo materiale inserito dalla di­ gressione nel discorso oratorio finisca per frantumarlo. Dal II al IV secolo d.C.,

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Note

nell’oratoria del mondo greco-romano l’impiego di moduli digressivi diventa sempre più libero. 172 Joseph Addison critica la digressione a più riprese nello «Spectator», per esempio in uno dei saggi su Milton («Spectator», 297, 9 febbraio 1712). Pure Daniel Defoe adotta un atteggiamento di rifiuto; implicito, ma molto deciso, bandendo le digressioni dai suoi romanzi, anche a costo di rinunciare, come fece, alla molteplicità dei fili narrativi. Significativo è un passo di Moll Flanders, dove la protagonista, dopo una lunga separazione dal marito «preferito», il «Lancashire husband», lo ritrova e si fa narrare quanto gli è accaduto negli anni in cui non si sono visti. Moll lo ascolta attenta, ma nulla riferisce al lettore perché, afferma, «questa è la mia storia, non la sua». Oppure, quando uno degli uomini che Moll incontra le confida che la moglie lo tradisce e gliene racconta la storia, ella commenta: «egli proseguì narrandomi tutte le circostanze del suo ca­ so, troppo lunghe per poterle raccontare qui» (The Fortunes and Misfortunes of Moll Flanders, J.M. Dent and Sons, London 1975, rispettivamente alle pp. 115 e 183; la traduzione è mia). Al centro dell’interesse di Henry Fielding è la varietà della natura umana, per rappresentare la quale egli fa ancora ricorso a qualche lunga digressione, inserendo occasionalmente nel racconto principale dei veri e propri episodi intercalati, quali sono la storia di Mrs Heartfree nel Jonathan Wild; quelle di Leonora e di Mr Wilson nel Joseph Andrews; quelle di Mrs Fit­ zpatrick e di «The Man of the Hill» nel Tom Jones. Sono delle digressioni anche i capitoli iniziali dei vari libri del Joseph Andrews e del Tom Jones, dove l’autore riflette su temi quali il rapporto tra scrittura storica e scrittura romanzesca, il meraviglioso, alcune questioni di etica e così via. Fielding tuttavia non accetta le digressioni supinamente ed è consapevole dei problemi che comportano. Forse per questo spesso ci gioca. A volte annuncia di sentirsi libero di impiegare le digressioni quando gli pare e piace, come troviamo nel secondo capitolo del primo libro del Tom Jones dove, dopo aver presentato Allworthy e sua sorella, il narratore esclama: «Lettore mio, prima di procedere assieme più oltre mi par giusto avvertirti che intendo fare delle digressioni in tutta questa storia quando mi sembrerà opportuno: e di questo sono io miglior giudice che qualsiasi mi­ serabile critico» (Tom Jones, traduzione di Decio Pettoello, Feltrinelli, Milano 2003, libro I, cap. II, p. 8). Questa affermazione, tuttavia, non è seguita da una vera e propria digressione, bensì piuttosto da brevi osservazioni con le quali il narratore guida il lettore attraverso la trama del romanzo, invitandolo a riflettere su questioni relative alla morale, alla giustizia, all’amore. Si ha insomma l’im­ pressione che qualcosa nella narrativa di Fielding sia sul punto di stabilizzarsi ma non riesca ancora a farlo compiutamente. Si ha l’impressione che quelle che nella narrativa barocca erano digressioni argomentative su temi moraleggianti, ora si siano asciugate, mentre però la trama non riesce ancora a tenere assieme tutti i suoi fili: qualcuno le sfugge e si fa digressione. Quanto sto affermando risulterà chiaro se si confronta la descrizione della villa di Allworthy nel Tom Jones con quella del maniero di Darcy in Pride and Prejudice (1813), dove Jane Austen assicura il legame con la storia principale mediante una narrazione che segue lo sguardo di Elizabeth di fronte alla quale la scena progressivamente si apre e che proprio a partire da quanto sta vedendo cambierà idea sull’uomo. 173 Torna opportuno rimandare per questo tema al libro di Lynn Salkin Sbiroli, Il senso del nonsenso. L’uso del comico in Jacques le Fataliste di Diderot, Lerici, Cosenza 1980.

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174 Clarissa, «Hints», in Samuel Richarson’s Published Commentary on Clarissa (1747-1765), vol. I, introduzione di Jocelyn Harris, a cura di Thomas Keymer, Pickering and Chatto, London 1998, p. 326 (la traduzione è mia). 175 Samuel Johnson, «The Rambler», 122, 18 maggio 1751, in Mona Wilson (a cura di), Johnson: Prose and Poetry cit., p. 230 (la traduzione è mia). 176 Ivi, p. 232. 177 In «The Adventurer», in four volumes, for J. Moore, London 1754, vol. 1, p. 10. Questo periodico fu fondato otto mesi dopo la chiusura del «Rambler». Tutte le traduzioni da «The Rambler» e «The Adventurer» sono mie. 178 Henry Fielding, Tom Jones cit., libro I, cap. I.

Capitolo IV 1 Johann Wolfgang von Goethe, Le affinità elettive (1809), introduzione e traduzione di Giorgio Cusatelli, Garzanti, Milano 1999, parte I, pp. 31-32. 2 Ivi, p. 32. 3 Ivi, p. 64. 4 Ivi, parte II, p. 239. 5 Carlo Sini, Gli abiti, le pratiche, i saperi cit., p. 20. 6 Questo non significa che di colpo in famiglia non si leggesse più, tutti insieme, la sera; ma qualcosa cambiò alla radice anche in quell’abitudine. Cfr. Jacqueline Pearson, Women’s Reading in Britain cit., pp. 196 sgg. a proposito del cambiamento delle abitudini di lettura familiare nell’arco della vita della nonna di Walter Scott. 7 Lettera ad Aaron Hill del 5 gennaio 1746-47, in Samuel Richarson’s Published Commentary on Clarissa (1747-1765) cit., p. 23; Postcript to the Third Edition (April 1751), p. 255. La lettera a Hill è ora anche in Samuel Richardson, Lettere su Clarissa, a cura di Donatella Montini, Sette Città, Viterbo 2009, pp. 114-115. I contemporanei francesi e tedeschi riconoscevano questa primogeni­ tura sia a Richardson che a Fielding. Cfr. Joseph Texte, Jean-Jacques Rousseau et les origines du Cosmopolitisme Littéraire. Étude sur les relations littéraires de la France et de l’Angleterre au XVIIIe siècle, Hachette, Paris 1909, in particolare il libro II, capp. III e V e libro III, J.-J. Rousseau et l’influence anglaise dans la seconde moitié du XVIIIe siècle. 8 Anche in francese, in tedesco, in spagnolo e in catalano, le parole che denotano la narrativa attraversano nel Sei-Settecento un periodo di instabilità semantica. Anche lì si ha il senso della novità e vengono sperimentati termini diversi; alla fine, però, a differenza che nei paesi anglofoni, sarà quello più antico a prevalere. 9 Robert D. Mayo, The English Novel in the Magazines cit., p. 96 (la tradu­ zione è mia). 10 Di cultura anche giuridica e medica. A lui si deve infatti la prima messa in relazione dell’uso del tabacco con il cancro ai polmoni. George S. Rousseau, Introduction to The Letters and papers of John Hill, Ams Press, New York 1982; Lynn Salkin Sbiroli, Libertine o madri illibate, introduzione alla traduzione ita­ liana di John Hill, Lucina sine Concubitu insieme alla risposta anonima al libro di Hill, Concubitus sine Lucina, Marsilio, Venezia 1989. 11 Il termine si lega evidentemente all’area semantica della novità, del nuovo.

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L’Oxford English Dictionary specifica che come aggettivo da sempre significava «nuovo», «recente», «fresco» e, come sostantivo, solo al plurale, «novità», da cui poi il significato di «notizie». Novel traduceva anche il termine italiano no­ vella, cioè un breve racconto di tipo realistico. In un senso diverso lo troviamo però impiegato da William Congreve nel 1692 nella prefazione al suo Incognita: or Love and Duty Reconcil’d, dove scrive: «I romance sono generalmente compo­ sti dell’amore costante e del coraggio invincibile di eroi, eroine, re e regine, mor­ tali di nobile rango e così via, in cui linguaggio elevato, contingenze mirabolanti e imprese impossibili sorprendono il lettore trasportandolo in un vertiginoso godimento [...]. I novel sono di natura ben più familiare: si avvicinano a noi e ci presentano degli intrighi in concreto, ci deliziano con incidenti e strani eventi che non sono però di un genere del tutto inusuale e inaudito, ma, piuttosto, essendo poco distanti da ciò in cui crediamo, consentono anche di collocare il piacere alla nostra portata» (traduzione di Helena Sanson, in Patrizia Nerozzi Bellman, Il romanzo inglese del Settecento, Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 25). È qui evidente che con romance Congreve intende il romanzo eroico france­ se e con novel le nouvelles tipo la Princesse de Clève. Novelist significava invece giornalista, come tra l’altro si può vedere nel numero 178 del maggio 1710 del giornale «The Tatler». 12 «A novel is a large diffuse picture, comprehending the characters of life, disposed in different groups, and exhibited in various attitudes, for the purpose of a uniform plan, and general occurrence, to which avery individual figure is subservient. But this plan cannot be executed with propriety, probability or suc­ cess, without a principal personage to attract the attention, unite the incidents, unwind the clue of the labyrinth, and at last close the scene by virtue of his own importance» (traduzione di Paola Bottalla Nordio, in Sergio Perosa, a cura di, Teorie inglesi del romanzo. 1700-1900, Bompiani, Milano 1983, p. 120). 13 Se nel 1725 Mary Davys si poteva vantare in termini ancora tradizionali – «In ogni racconto ho proposto uno schema o un intreccio completo, e le altre avventure sono solo fatti accessori oppure collaterali. Questa è la grande regola prescritta dai critici non solo per la tragedia e per i poemi eroici, ma anche per la commedia» (prefazione alla raccolta delle sue opere, cit. in Joseph F. Barto­ lomeo, A New Species of Criticism cit., p. 29: la traduzione è mia) – poi l’idea di unità assumerà una torsione diversa, e sarà in questa sua nuova forma che la critica ne riterrà indispensabile la presenza, bollando inappellabilmente perfino nelle recensioni le opere che non la possedevano. 14 Cit. in Robert D. Mayo, The English Novel in the Magazines cit., p. 167. 15 Ivi, p. 199. 16 Ivi, p. 206. 17 Per un’interpretazione del brano più generale di quanto io qui non farò, si può vedere il mio David Hume e il lettore appassionato, in Nadia Boccara e Leti­ zia Gai (a cura di), Il teatro delle passioni. Ragione e sentimento nell’età moderna, Sette Città, Viterbo 2003, pp. 15-35. Per uno sguardo, in quest’ottica, oltre che a Hume anche ad altri autori, cfr., sempre di Loretelli, Estetica dell’empirismo e origini del romanzo inglese, in «Strumenti critici», XIII, settembre 1998, 3, pp. 363-397, ripubblicato come The Aesthetics of Empiricism and the Origin of the Novel, in «The Eigtheenth Century: Theory and Interpretation», 41, Summer 2000, 2, pp. 83-109. 18 John Richetti, Philosophical Writings: Locke, Berkeley, Hume, Harvard

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University Press, Cambridge (Massachusetts)-London 1983, p. 183 (tutte le tra­ duzioni da questo libro sono mie). 19 Ivi, p. 187. Continua Richetti (ivi, p. 189): «date le implicazioni coscien­ temente sovversive del suo pensiero, Hume è interessato a coltivare un tatto speciale nella sua scrittura per evitare che si accresca lo scandalo [...]. Ciò che elabora non è ‘ovvio’, ma risulta naturale solo in virtù della sua scrittura mo­ derata». Sull’importanza del linguaggio e dell’aspetto retorico in Hume, cfr. anche Jerome Christensen, Practising Enlightenment: Hume and the Formation of a Literary Career, The University of Wisconsin Press, Madison-London 1987; Leopold Damrosch, Fictions of Reality in the Age of Hume and Johnson, The University of Wisconsin Press, Madison-London 1989; Mark A. Box, The Suasive Art of David Hume, Princeton University Press, Princeton 1990. Di recente, ancora Richetti (Hume, Religion, Literary Form: Dialogues Concerning Natural Religion, in Alexander Dick e Christina Lupton, a cura di, Theory and Practice in the Eighteenth Century: Writing Between Philosophy and Literature, Pickering & Chatto, London 2008) ha mostrato il gioco retorico-argomentativo in Hume, questa volta relativamente alla presa di posizione del filosofo sul deismo. 20 Nadia Boccara, Felicità e saggezza. Saggio su David Hume, Tipografia Ar­ tigiana Multistampa, Roma 1987, pp. 11-13. 21 Lì scrive che fu preso «molto presto da una passione per la letteratura, che è stata la passione dominante della mia vita, e la grande fonte dei miei piaceri» (David Hume, The Philosophical Works, a cura di Thomas Hill Green e Thomas Hodge Grose, Scientia Verlag Aalen, Darmstadt 1964, vol. III, p. 1; le traduzioni qui di seguito sono mie). Si noti che il termine «letteratura» all’epoca significava tutte le lettere, ed escludeva solo i libri professionali. Hume seguita registrando puntualmente i successi e gli insuccessi dei suoi libri, sia in termini di critica che di diffusione. Per esempio, quando parla del Treatise of Human Nature (del 1738 ma datato 1739) nota che «nacque morto dalla stamperia, senza raggiunge­ re neppure la notorietà sufficiente a suscitare un mormorio tra i fanatici». Men­ tre invece, quando nel 1742 uscirà ad Edinburgo la prima parte degli Essays, osserva che «l’opera fu accolta con favore» (ivi, p. 2). Come è noto, il filosofo attribuì l’insuccesso del Trattato proprio alla sua scarsa capacità comunicativa: «Ho sempre avuto l’idea che la mancanza di successo del Trattato sulla natura umana, al momento sua pubblicazione, procedesse più dal modo che dall’argo­ mento [...]. Perciò riscrissi daccapo la prima parte di quel lavoro, mettendola nella Ricerca sull’intelletto umano» (ivi, p. 3). All’inizio la diffusione fu comun­ que limitata. Successivi altri insuccessi non lo scoraggiarono, scrive, dato il suo temperamento positivo e sanguigno. Il resoconto delle reazioni del pubblico dei lettori continua poi fino ai primi «tollerabili» successi e, dopo il 1775 e la scoper­ ta della malattia, all’affermazione conclusiva: «Da molti sintomi vedo che la mia reputazione letteraria si sta alfine manifestando con accresciuta forza» (ivi, p. 4). 22 Che sostituiscono il commentario medievale con la sua struttura cateche­ tica e interrogativa, la quale è una forma di dialogo. Cfr. John Richetti (Philosophical Writings: Locke, Berkeley, Hume cit., p. 7), che rimanda a Julián Marías, Philosophy as Dramatic Theory, traduzione di James Parson, Pennsylvania State University Press, University Park-London 1971, p. 9. Johan Huizinga dice che gli esempi più antichi di filosofia sono di tipo polemico e agonistico, e que­ sti continuarono anche nel Medioevo (Homo ludens [1950], Einaudi, Torino 1982); mentre dopo il Rinascimento si fa sentire fortemente l’influenza del libro

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stampato come medium filosofico. Questo tema è trattato anche da Walter J. Ong specialmente in Ramus, Method, and the Decay of Dialogue, Harvard Uni­ versity Press, Cambridge (Massachusetts) 1958, e System, Space and Intellect in Renaissance Symbolism, in The Barbarian Within, The Macmillan Company, New York 1962. 23 Albert W. Levi, Philosophy as Social Expression, University of Chicago Press, Chicago 1974. 24 Philosophical Essays Concerning Human Understanding, by the Author of the Essays Moral and Political – London – Printed for A. Millar, opposite Katharine-Street, in the Strand – 1748. 25 Questo passo è trattato brevemente, ma non nella nostra ottica, da Nor­ man Kempe Smith in The Philosophy of David Hume: A Critical Study of its Origins and Central Doctrines, Macmillan, New York-Melbourne-Tornonto 1966. Leo Braudy (Narrativ Form in Hisotry and Fiction, Princeton University Press, Princeton 1970, p. 32) lo menziona solo per mettere in evidenza l’affinità che Hume vede tra racconto storico e racconto di finzione. Invece Olivier Brunet (Philosophie et Esthétique chez David Hume, Nizet, Paris 1965, pp. 510 sgg.), che parla anche dell’idea di unità in Hume, menzionando il brano afferma sem­ plicemente: «L’impression d’unité qui se dégage d’une oeuvre d’art est donc son caractère essentiel». 26 «The more instances we esamine, and the more care we employ, the mo­ re assurance shall we acquire, that the enumeration, which we form from the whole is complete and entire». «Instead of entering into a detail of this kind [...] we shall consider some of the effects of this connexion upon the passions and imagination; where we may open a field of speculation more entertaining, and perhaps more instructive, than the other» (David Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding cit., vol. IV, p. 19; tutte le traduzioni da questo libro sono mie). 27 L’abbinamento pensiero-linguaggio, si sa, non era nuovo (cfr. Aleksandr N. Sokolov, Inner Speech and Thought, A Plenum/Rosetta Edition, New York 1971), ma qui il rapporto è in realtà pensiero-lettura. 28 «A production without a design would resemble more the raving of mad­ man, than the sober efforts of genius and learning». «As this rule admits of no exception, it follows, that in narrative compositions, the events or actions, which the writer relates, must be connected together, by some bond or tye: They must be related to each other in the imagination, and form a kind of Unity which may bring them under one plan or view [...]» (David Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding cit., p. 19). 29 Uso il termine ‘fatti’ nell’accezione di Georg H. von Wright (Norm and Action. A Logical Enquiry, Routledge & Kegan Paul, London 1963), che include sia eventi che azioni. 30 «a certain portion of that great chain of events which compose the history of mankind: Each link in this chain he endeavours to touch in his narration. So­ metimes unavoidable ignorance renders all his attempts fruitless: Sometimes, he supplies by conjecture what is wanting in knowledge: And always, he is sensible, that the more unbroken the chain is, which he presents to his readers, the more perfect is his production. He sees, that the knowledge of causes is not only the most satisfactory; this relation or connection being the strongest of all others; but also the most instructive; since it is by this knowledge alone, we are enabled

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to controul events, and govern futurity» (David Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding cit., p. 20). 31 «the actors hasten to some remarkable period, which satisfies the curiosity of the reader. This conduct of the epic poet depends on that particular situation of the Imagination and of the Passions, which is supposed in that production. The imagination, both of writer and reader, is [...] enlivened, and the passions [...] enflamed [...]. Let us consider the effect of these two circumstances, an enlivened imagination and enflamed passions [...] and let us examine the reason why they require a stricter and closer unity in the fable» (ibid.). 32 Cfr. David Hume, Treatise of Human Nature, a cura di Pall S. Ardal, Fontana/Collins, London 1982, libro II, parte III, sezione VII. 33 «It is a common artifice of politicians, when they would affect any person very much by a matter of fact, of which they intend to inform him, first to excite his curiosity; delay as long as possibile the satisfying it; and by that means raise his anxiety and impatience to the utmost, before they give him a full insight into the business. They know that his curiosity will precipitate him into the passion they design to raise». Questo brano è presente anche in A Dissertation on the Passions, a riprova dell’importanza in Hume di questa idea (tutte le traduzioni dal Trattato sono mie). 34 «Had you any intention to move a person extremely by the narration of any event, the best method of encreasing its effect would be artfully to delay informing him of it, and first excite his curiosity and impatience before you let him into the secret. This is the artifice practiced by Jago in the famous scene of Shakespeare; and every spectator is sensible, that Othello’s jealousy acquires additional force from his preceding impatience, and that this subordinate pas­ sion is here readily transformed into the prodominant one» (David Hume, The Philosophical Works cit., vol. III) (la traduzione è mia). 35 Per questa idea, anche se non per il termine, si veda anche Treatise cit., libro II, parte III, sezione IX. 36 «Difficulties encrease passions of every kind: and by rouzing our atten­ tion, and exciting our active powers, they produce an emotion which nourishes the prevailing affection». «Absence is also a great source of complaint among lovers, and gives them the greatest uneasiness: Yet nothing is more favourable to their mutual passion than short intervals of that kind» (David Hume, Treatise cit., libro II, parte III, sezione IV). 37 David Hume, Treatise cit., libro II, parte I, sezione XI; anche libro II, par­ te III, sezione VI. Sulla sympathy humiana trovo particolarmente convincenti: Nadia Boccara, Felicità e saggezza cit.; e «Il saggio felice» da Descartes a Hume, in Nadia Boccara e Gaetano Platania (a cura di), Il buon senso o la ragione, Sette Città, Viterbo 1997, e John Mullan, Sentiment and Sociability: The Language of Feeling in the Eighteenth Century, Clarendon Press, Oxford 1988. Per la fun­ zione più specificatamente letteraria della sympathy, sebbene non nell’ottica del presente libro, si può vedere il saggio di John Mullan, Sensibility and Literary Criticism, in The Cambridge History of Literary Criticism, vol. IV, a cura di Hugh B. Nisbet e Claude Rawson, Cambridge University Press, Cambridge 1997. 38 Nadia Boccara, Felicità e saggezza cit., p. 50. 39 «When any affection is infused by sympathy, it is at first known only by its effects, and by those external signs in the countenance and conversation which convey an idea of it. This idea is presently converted into an impression,

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and acquires such a degree of force and vivacity, as to become the very passion itself, and produce an equal emotion, as any original affection» (David Hume, Treatise cit., p. 140). 40 Cfr. anche David Hume, Treatise cit., libro II, parte III, sezione IV. Il rap­ porto di questo con il belief, nel Trattato è al libro I, parte III, sezioni VIII-IX. 41 «thows a stronger light upon them, and delineates more distinctly those minute circumstances, which [...] serve mightily to enliven the imagery, and gratify the fancy. If it be not necessary, as in the Iliad, to inform us each time the hero buckles his shoes, and ties his garters, it will be requisite, perhaps, to enter into a greater detail than in the henriade; where the events are run over with such rapidity, that we scarce have leisure to become acquainted with the scene or action» (David Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding cit., p. 20). 42 Henry Home Lord Kames, Elements of Criticism, Edinburgh: printed for A. Millar, London; and A. Kincaid & J. Bell, Edinburgh MDCCLXII, vol. III, p. 178. 43 Of the Influence of the Imagination on the Passions, libro II, parte I, sezio­ ne IV. Vi si dice: «Notiamo che l’immaginazione e gli affetti sono strettamente collegati tra loro; e nulla che colpisca quella che può essere indifferente a questi. Ogniqualvolta le nostre idee di bene e di male acquistano nuova vivacità, le passioni diventano più violente, e tengono il passo con l’immaginazione in tutte le sue varietà» (la traduzione è mia). 44 «if we consider the human mind, we shall observe, that, with regard to the passions, it is not like a wind instrument of music, which, in running over all the notes, immediately loses the sound when the breath ceases; but rather resembles a string-instrument, where, after each stroke, the vibrations still retain some sound, which gradually and insensibly decays. The imagination is extremely quick and agile; but the passions, in comparison, are slow and restive: For which reason, when any object is presented, which affords a variety of views to the one and emotions to the other; though the fancy may change its views with great celerity; each stroke will not produce a clear and distinct note of passion, but the one passion will always be mixed and confounded with the other» (David Hume, Treatise cit., libro II, parte III, sezione IX). 45 «‘Tis evident that in a just composition, all the affections, excited by the different events, described and represented, add mutual force to each other; and that while [...] each action is strongly connected with the whole, the concern is continually awake, and the passions make an easy transition from one object to the other. The strong connection of the events, as it facilitates the passage of the thought or imagination from one to another, facilitates also the transfusion of the passions, and preserves the affections still in the same channel and direction. [...] The affection (in questo caso intende la sympathy, che ha nominato appena più sopra) is preserved almost entire in the transition; and the mind seizes im­ mediately the new object as strongly related to that which formerly engaged its attention» (David Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding cit., p. 21). Il trasferimento di una passione da un oggetto all’altro in rapporto al belief è, nel Treatise, al libro I, parte III, sezione VIII. 46 «The events follow with rapidity, and in a very close connexion. And the concern is preserved alive, and, by means of the near relation of the objects, continually increases from the beginning to the end of the narration [...]»; «must

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not be diverted by any scenes disjoined and separated from the rest. This bre­ aks the course of the passions, and prevents that communication of the several emotions, by which one scene adds force to another, and transfuses the pity and terror, which it excites, upon each succeeding scene, ‘till the whole pro­ duces that rapidity of movement, which is peculiar to the theatre. How must it extinguish this warmth of affection to be entertained, on a sudden, with a new action and new personages, no wise related to the former: to find so sensible a breach or vacuity in the course of the passions, by means of this breach in the connexion of ideas» (ibid.). 47 Il capoverso finale inizia così: «These loose hints I have thrown together, in order to excite the curiosity of philosophers, and beget a suspicion at least, if not a full persuasion, that this subject is very copious» (ibid.). 48 Paul Zumthor, Una cultura della voce cit., p. 139. 49 Paul Saenger, Physiologie de la lecture et séparation des mots cit., p. 944; Insup Taylor e M. Martin Taylor (The Psychology of Reading, Academic Press, New York-London 1983) nel capitolo Eye Movements in Reading affermano che la velocità di lettura è tanto maggiore quanto più si riduce il numero delle regressioni oculari. Si vedano anche: Keith Rayner, Eye Movement in Reading and Information Processing: 20 Years of Research, in «Psychological Bulletin», 124, 1998, pp. 372-422; Jane Ashby, Keith Rayner, Rebecca Treiman e Brett Kessler, Vowel Processing During Silent Reading: Evidence from Eye Movements, in «Journal of Experimental Psychology: Learning, Memory, and Cognition», XXXII, 2006, 2, pp. 416-424. 50 Questa lettura in cui l’individuo si crogiola tutto chiuso in se stesso è mes­ sa in scena in modo sapiente nel saggio di Robert Darnton, I lettori rispondono a Rousseau: la costruzione della sensibilità romantica (in Il grande massacro dei gatti cit., pp. 267-319), dove viene ricostruito il tipo di letture e il modo di leggere di Jean Ranson, un mercante di La Rochelle, che perde i confini tra se stesso e i personaggi. Per analoghe reazioni nei lettori britannici del Settecento si veda Ann J. Van Sant, Eighteenth-Century Sensibility and the Novel. The Senses in Social Context, Cambridge University Press, Cambridge 1993. 51 D’altronde, anche i disturbi psichici dell’individuo orale tendono alla sovreccitazione maniacale, mentre le persone alfabetizzate cadono piuttosto nella depressione introversa. Si vedano le ricerche svolte da Aleksandr Luria in Uzbekistan negli anni Trenta del Novecento e su cui riferisce in La storia sociale dei processi cognitivi, presentazione di Maria S. Veggetti, Giunti Barbera, Firenze 1976. 52 Written at first for Private Use, and now Published for the Benefit of all Persons who desire a better Acquaintace with their Native Language, By I. Watts, London, Printed for John Clark, at the Bible and Crown in the Poultry, near Cheapside; E.M. Matthews, at the Bible in Paternoster Row; and Richard Ford, at the Angel in the Poultry, MDCCXXI. 53 Anche le grammatiche lo rivelano. Portiamo un solo esempio, tratto da A Grammar of the Italian Tongue di John Henley (1719) e riportato nell’eccel­ lente libro di Lucilla Pizzoli (Le grammatiche di italiano per inglesi (1550-1776). Un’analisi linguistica, Accademia della Crusca, Firenze 2004, pp. 186-187). Parlando della musicalità della lingua italiana, l’autore dapprima ne segnala la bellezza e poi aggiunge: «Per quanto alcuni siano dell’opinione che le quasi costanti finali in vocale, benché costituiscano un vantaggio per la musica, sono

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piuttosto un difetto in altre occasioni: stancano l’orecchio, sia nel parlato sia nello scritto, con l’infinito ripetersi dello stesso suono [...]» (la traduzione è mia). Si noti: è detto en passant, come fosse scontato, che alcuni suoni stancano l’orecchio quando vengono letti. D’altronde, nel Robinson Crusoe di Daniel Defoe, anch’esso del 1719, le frasi sono talmente lunghe da richiedere variazioni di tono per estrarne il significato, dividendole. Per sintetizzare, riportiamo due frasi dell’introduzione dell’importante libro di Carey McIntosh, The Evolution of English Prose: 1700-1800. Style, Politeness, and Print Culture, Cambridge University Press, Cambridge 1998, p. vii: «Negli anni tra il 1710 circa e il 1790 [...] la prosa inglese e lo stile inglese sono cambiati in modo considerevole. [...] La maggior parte della prosa inglese dell’ultimo quarto del XVIII secolo è più elegante, più ingentilita, e più scritta rispetto alla prosa dell’inizio del XVIII secolo» (la traduzione è mia). 54 Uso questo termine in modo consapevolmente improprio. È noto che all’epoca le professioni di editore, stampatore e libraio erano diverse da quelle odierne. Cfr., tra gli altri, John Feather, A History of British Publishing cit. 55 Almeno dal novembre del 1747. Si veda Martin C. Battestin e Ruth Batte­ stin, Henry Fielding: A Life, Routledge, London-New York 1989, p. 423. 56 Ivi, p. 441. 57 La biblioteca di Fielding fu catalogata per la vendita subito dopo la sua morte, avvenuta nell’ottobre del 1754, e fu battuta all’asta nel febbraio del 1755. Si può dunque presumere che tutti i libri che conteneva appartenessero allo scrittore, senza nuove acquisizioni da parte dei familiari, i quali per ragioni economiche si affrettarono a disfarsi di tutto. Cfr. Frederick G. Ribble e Anne G. Ribble, Fielding’s Library: An Annotated Catalogne cit. 58 Henry Fielding, Tom Jones cit., libro II, cap. I. 59 Ivi, libro I, cap. I. Per quanto noto, riportiamo ugualmente il passo iniziale che accosta il lettore al cliente di una locanda: «Un autore dovrebbe conside­ rarsi, non come un signore che dà un banchetto privato o di beneficenza, ma piuttosto come uno che tiene un pubblico ristorante. Nel primo caso, si sa, chi offre il banchetto sceglie lui i cibi, e anche se sono poco attraenti o affatto sgradevoli al palato dei commensali questi non debbono trovar nulla da ridire: anzi, la buona creanza impone loro di far mostra d’approvare e lodare tutto quel che viene loro messo dinanza. Il contrario accade col padrone d’un ristorante. La gente che paga quel che mangia esige d’accontentare il proprio palato per quanto delicato e capriccioso esso sia; e se c’è qualcosa che non piace reclama il diritto di criticare, insultare e mandare al diavolo, pranzo ed oste senza com­ plimenti» (Henry Fielding, Tom Jones cit., p. 5). 60 William Ch. Lehmann, Henry Home Lord Kames and the Scottish Enlightenment, Martinus Nishoff, The Hague 1971, pp. 228 sgg. Una recensione sulla stimata rivista «Monthly Review», che ne occupava quasi tre numeri per un totale di 38 pagine, inizia con un’affermazione forte: «nell’ambito della scienza umana non c’è soggetto così inclusivo e interessante come la critica, e tuttavia niente è forse stato trattato in modo così poco esteso e preciso. È stato riservato al dotto e acuto autore dei volumi davanti a noi di risalire ai suoi principi genuini e stabilire le leggi della natura sulle rovine dell’autorità» (la traduzione è mia). Il biografo di Kames Alexander Fraser Tyler (Memoirs of the Life and Writings of the Honourable Henry Home of Kames [1807], introduction and chronology by John V. Price, Routledge, London 1993) lo definì «l’inventore di una scienza,

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intendo dire quella che è stata appropriatamente chiamata Critica Filosofica» (la traduzione è mia). Lia Formigari (L’estetica del gusto nel settecento inglese, Sansoni, Firenze 1962, p. 272) definisce gli Elements of Criticism il più organico tentativo di trattazione sistematica della scienza del gusto compiuto fino ad allora. Si veda anche Arthur E. McGuinness, Henry Home Lord Kames, Twayne Publishers, New York 1970, soprattutto i capp. III e IV. Di recente, Beth In­ nocenti Manolescu, Traditions of Rhetoric, Criticism, and Argument in Kames’s «Elements of Criticism», in «Rhetoric Review», XXII, 2003, 3, pp. 225-242, e Peter Jones, Why Bother with Hume and Kames on Criticism and the Arts?, in Emilio Mazza ed Emanuela Ronchetti (a cura di), Instruction and Amusement. Le ragioni dell’Illuminismo britannico, Il Poligrafo, Milano 2005, pp. 27-44. Il riscontro del pubblico dei lettori fu altrettanto favorevole, come evidenzia il nu­ mero delle ristampe e delle nuove edizioni (circa una quarantina) degli Elements tra il 1762 e il 1883, nonché la loro diffusione nell’America del Nord come testo universitario durante tutto l’Ottocento (Helen Whitcomb Randall, The Critical Theory of Lord Kames, Department of Modern Languages of Smith College, Northampton (Massachusetts) 1944, p. 137, ne dà un elenco, pur incompleto, di trentasette voci). In Germania, per niente trascurabile fu l’influenza sulla storiografia, oltre che, naturalmente, sull’estetica (la traduzione di J.H. Mein­ hard uscì a puntate a partire dal 1763. Per la fortuna di Kames in Germania si veda ancora Randall, e anche Norbert Bachleitner, Die Rezeption von Henry Homes «Elements of Criticism» in Deutchland 1763-1793, in «Arcadia», XX, 1985, 2, pp. 113-133). L’interesse di Lessing, Herder, Schiller e Novalis lo di­ mostra (Bernard Bosanquet, A History of Aesthetics, Allen and Unwin, London 1956; Leroy Shaw, Henry Home of Kames: Precursor of Herder, in «Germanic Review», XXXV, 1960, 1, pp. 16-27; R. Masson, De Henry Home, Lord Kames, à Schiller, in «Études Germaniques», XXXV, 1980, pp. 267-289; Nicholas Saul, Novalis’s «Geistige Gegenwart» and his Essay «Die Christenheit oder Europa», in «Modern Language Review», LXXVII, 1982, 2, pp. 361-377). 61 «that of evincing, perhaps more distinctly than hitherto has been done, that the genuine rules of criticism are all of them derived from the human heart»; e «Our passions, as all the world knows, are moved by fiction as well as by truth» (Henry Home Lord Kames, Elements of Criticism cit., vol. I, rispettivamente p. 16 e p. 105). 62 «It is extremely difficult by a single thought or expression to produce that emotion in perfection. The rise must be gradual and the result of reiterated impressions. The effect of a single expression can be but momentary; and if one feels suddenly somewhat like a swelling or exaltation of mind, the emotion vanisheth as soon as felt» (ivi, p. 121). 63 Per altri, si veda anche il mio Estetica dell’empirismo e origini del romanzo inglese cit. 64 Riprendo il titolo del libro di Robert Darnton, L’età dell’informazione (2003), Adelphi, Milano 2007. 65 Alvin Kernan, Samuel Johnson and the Impact of Print cit., cap. II. 66 «Le grand avantage du roman est précisément d’avoir échappé jusqu’ici à toute théorie, à toute règle», cit. in Carlo A. Madrignani, All’origine del romanzo in Italia cit., p. 19. 67 «I shall not look on myself as accountable to any court of critical jurisdic­ tion whatever: for as I am, in reality, the founder of a new province of writing so

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I am at liberty to make what laws I please therein» (Henry Fielding, Tom Jones cit., libro II, cap. I. La citazione è a p. 41, vol. I dell’edizione italiana. Ho qui leggermente modificato la traduzione di Pettoello). 68 «Is a man to follow rules, or rules to follow him?», cit. in Joseph F. Barto­ lomeo, A New Species of Criticism cit., p. 104 (la traduzione è mia). 69 La mia ricerca non si è estesa diffusamente alle prime edizioni dei romanzi settecenteschi francesi e tedeschi. Troviamo però un accenno allo sperimen­ talismo grafico in Francia in Roger Chartier, The Text Between the Voice and the Book, in Raimonda Modiano, Leroy Searle, Peter Shillingsburg (a cura di), Voice, Text, Hypertext: Emerging Practices in Textual Studies cit., p. 66. Rispetto ai romanzi italiani, troviamo una funzionalizzazione rilevante di alcuni segni grafici sia in Vera storia di due amanti infelici, ossia Ultime lettere di Iacopo Ortis, del 1799, di Ugo Foscolo e Angelo Sassoli, che nella prima edizione riconosciuta dell’Ortis, del 1802. Su questo cfr. il mio The Space of Time: Fleurons as Temporal Markers in Samuel Richardson’s «Clarissa» and Ugo Foscolo’s «Ortis», in Rosamaria Loretelli e Frank O’Gorman (a cura di), Britain and Italy in the Long Eighteenth Century: Literary and Art Theories, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2010. 70 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., pp. 6, 8 (tutte le traduzioni da questo libro sono mie). 71 Ivi, p. 13. 72 Stephen Park, John Dunton and the English Booktrade: A Study of his Career with a Checklist of his Publications, Garland Publishing, New York-London 1976. 73 Paul Baine e Pat Rogers, Edmund Curll, Bookseller cit. 74 Nella prima edizione del Tom Jones, per esempio, troviamo lunghi trattini che stanno per il silenzio o per una reazione di meraviglia e di emozione. E nel primo capitolo del secondo libro del Joseph Andrews viene menzionata «l’arte di dividere», che significa la divisione in capitoli e la loro funzione come luoghi di sosta per il lettore, proprio come lo sono le locande per i viaggiatori. Su que­ sto, anche Wolfgang Iser, The Implied Reader, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1974. Quanto alle correzioni apportate al David Simple della sorella Sarah, si veda quanto dice Janine Barchas (Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit.) nel cap. VI. 75 Ivi, pp. 11-18. 76 Ivi, pp. 173-174. 77 Published by the Editor of Pamela, London, Printed for S. Richardson: and sold by A. Millar. [...] J & JA Rivington [...] John Osborn [...] J. Leake, MDCCXLVIII. 78 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., pp. 92-93. 79 «Length is my principal disgust, at present. Yet I have shorten’d much more than I have lengthen’d [...] I am afraid I make the Writers do too much in the Time. If Lazy Ladies that is to say, Ladies, who love not Writing, were to be Judges, they would think so: especially if not Early Risers». Questa lettera, del 20 gennaio 1746, è antologizzata, con traduzione italiana a fronte, in Lettere su «Clarissa». Scrittura privata e romanzo nell’Epistolario di Samuel Richardson, introduzione, traduzione e note di Donatella Montini, Sette Città, Viterbo 2009, pp. 82-83.

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80 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., pp. 119-132. 81 Ivi, p. 129. 82 Pamela usa degli elementi grafici meno raffinati, tipo i trattini di varie lunghezza, oppure una riga vuota. Ivi, p. 125. Va notato che anche in alcune let­ tere della Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau troviamo molti asterischi a segnalare le frasi spezzate dall’emozione. Questi sono rimasti nelle edizioni moderne; non ho esaminato le prime edizioni per vedere se in quelle la presenza dell’apparato grafico fosse più consistente. 83 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., pp. 138-142. 84 «It would be hard, if I, who have held it out so sturdily to my Father and Uncles, should not — But he is at the garden-door —

I was mistaken! — How many noises un-like, be made lie to what one fears! – Why flutters the fool so! — I will hasten to deposit this», cit. in Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., p. 129. 85 Cit. in Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the EighteenthCentury Novel cit., p. 129. C’è inoltre un «mad paper» dove Clarissa scrive di traverso sui margini. Oppure «la firma in corsivo di Clarissa nella sua ultima lettera ad Anna e nel suo testamento». «In ognuno di questi momenti – scrive Barchas a p. 131 – il romanzo rompe la regolarità tipografica in funzione della mimesi». L’intento di Richardson è di creare pathos, come egli scrisse in una lettera a Jane Collier (ivi, p. 132). 86 Ivi, p. 137. 87 Questo vale per le edizioni londinesi (nel primo libro della prima edizione londinese, in realtà, questi segni grafici non vengono differenziati. Però lo sono in quelli successivi), ma non per almeno la prima edizione di Dublino, che fu approntata contemporaneamente alla prima londinese (Clarissa or the History of a Young Lady: Comprehending The Most Important Concerns of Private Life, vol. I, Printed by Gorge Faulkner in Essex Street, Dublin M,DCC,XLVIII) e dove l’apparato grafico risulta con le medesime occorrenze ma senza la varietà dei segni di quelle di Londra. Richardson racconta la storia dell’edizione dublinese, dicendo che egli mandava in Irlanda i volumi di Clarissa, man mano che aveva finito di usare i manoscritti a Londra e prima ancora della loro pubblicazione in questa città, affinché fossero subito stampati contemporaneamente a Dublino (The case of Samuel Richardson, of London, Printer; with regard to the Invasion of his Property in The History of Sir Charles Grandison, Before Publication, By Certain Booksellers in Dublin – Foglio volante, catalogato alla British Library 813.m.12/53). 88 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., pp. 15-16. 89 Ad esempio vol. I, cap. XII, pp. 62-63. Per questa parte ho utilizzato l’edizione in dodicesimo della British Library (catalogata: C.70.aa.28): The

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Life and opinions of Tristram Shandy, Gentleman, vol. I, 1760 (senza il nome dello stampatore sul frontespizio). Il vol. II reca lo stesso frontespizio; men­ tre il III riporta il nome dello stampatore: Printed for R. and J. Dodsley in Pall-Mall, M.DCC.LXI; il IV ha un frontespizio uguale al II, salvo che per un’incisione che rappresenta il battesimo di Tristram; il V reca la scritta: Lon­ don, Printed for T. Becket and P.A. Dehondt, in the Strand. MDCCLXII. 90 Ivi, vol. I, p. 66; vol. III, p. 54. 91 Ivi, vol. III, cap. III, pp. 21-22. 92 Si veda per esempio ivi, vol. II, cap. XVIII, p. 31. 93 Ivi, vol. V, cap. IV, p. 36. La pagina marmorizzata, che nel Settecento era parte della rilegatura, Sterne la inserisce invece al centro del libro, dove peral­ tro si trova anche la prefazione. Una campionatura delle pagine marmorizzate (erano eseguite una per una a mano) delle prime edizioni, si può trovare al sito diretto da Patrizia Nerozzi Bellman e curato da Pao­ la Carbone. Di quest’ultima, sul Tristram Shandy, si può vedere il volume La lanterna magica di Tristram Shandy. Visualità e informazione, ordine e entropia, paradossi e trompe-l’œil nel romanzo di Laurence Sterne, Ombre Corte, Verona 2008. 94 Laurence Sterne, Tristram Shandy cit., p. 169. 95 «Uncle Toby hummed over a letter» (ivi, libro V, cap. II: la traduzione è mia). 96 Ivi, libro V, cap. XXVII. 97 «zounds!» (ivi, vol. IV, cap. XXVII). 98 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., p. 154. 99 Ivi, pp. 164 sgg. Si veda anche Janine Barchas, Sarah Fielding’s Dashing Style and Eighteenth-century Print Culture, in «ELH», LXIII, 1996, 3, pp. 633656. David McKitterick (Print, Manuscript and the Search for Order cit., p. 202) riporta gli attacchi che Vigesimus Knox mosse all’abuso dei trattini nel suo Essay on Novel Reading. 100 Janine Barchas, Graphic Design, Print Culture, and the Eighteenth-Century Novel cit., pp. 159-164. 101 Printed for Andrew Millar, London 1749. 102 Per esempio ivi, libro XI, cap. II, p. 106. In Ann Radcliffe, i trattini sono oramai quasi spariti, e tuttavia se ne trovano di più nella prima edizione di The Castles of Athlin and Dunbayne: A Highland Story (Printed for T. Hookhamn New Bond-Street, London), che è del 1789, piuttosto che nella prima edizione di The Italian (Printed for T. Cadell Jun. And W. Davies in the Strand), che è del 1797. In entrambe le opere la loro funzione è comunque quella di segnalare una pausa. 103 «for first, those little spaces between our chapters may be looked upon as an inn or resting-place [...] As to those vacant pages which are placed between our books, they are to be regarded as those stages, where, in long journeys, the traveller stays some time to repose himself, and consider of what he hath seen in the parts he hath already past through; a consideration which I take the liberty to recommend a little to the reader: for however swift his capacity may be, I would not advise him to travel through these pages too fast [...]. A volume without any such resting places resembles the opening of wilds or seas, which tires the eye

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and fatigues the spirit when entered upon» (Henry Fielding, Joseph Andrews, a cura di Giorgio Melchiori, Garzanti, Milano 2000, p. 96). 104 Poteva rallentare il racconto in tutti questi modi, ma ovviamente anche mediante elementi verbali. Scrive Albert Lord: «Quando un poeta narra, gli piace inserire ornamenti e indugiare»; «La qualità di una tradizione epica orale dipende in misura tutt’altro che irrilevante dall’abilità del cantore di descrivere cavalli, armature e castelli. Queste descrizioni arrestano il procedere del raccon­ to, mentre l’ascoltatore siede in ammirazione di fronte alle scene presentate» (The Singer of Tales cit., rispettivamente alle pp. 148 e 86). Il cantore faceva delle digressioni senza che queste scoraggiassero gli ascoltatori dal continuare a seguirlo. Proprio perché la comunicazione avveniva nel calore di una presenza comune, l’interruzione di un filo narrativo non comportava quella caduta di interesse di cui la riflessione sei-settecentesca sulla narrativa incolpava la di­ gressione. 105 La traduzione italiana è di Goffredo Maglietta, I piaceri dell’immaginazione di Joseph Addison, introduzione e cura di Giuseppe Sertoli, Aesthetica Edizioni, Palermo 2002, p. 63. 106 Cit. in Joseph F. Bartolomeo, A New Species of Criticism cit., p. 28 (la traduzione è mia). 107 Cit. in Robert D. Mayo, The English Novel in the Magazines cit., p. 196. 108 Prefazione a Works (1725), p. v. Sigmund Freud, Lezione 25 (1915-1917), in Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Torino 1981, p. 355. Specificata­ mente sull’attesa segnalo: Paul Fraisse e Francine Orsini, Etude expérimentale des conduites temporelles, II: L’attente, in «Année psychologique», 55, 1955, pp. 27-38; i capitoli sul tempo futuro in Eugene Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino 1971 e Paola Reale, La psicologia del tempo, Boringhieri, Torino 1982. Inoltre, Peter Hartocollis, Il tempo come dimensione degli affetti, in Andrea Sabbadini (a cura di), Il tempo in psicanalisi, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 240-254 e Gaspare Vella, Gli stati d’ansia, in Aggiornamenti clinico-terapeutici, vol. V, n. 6 (Edizioni Minerva Medica, Torino 1964). Su Freud, l’attesa e Il perturbante, si può vedere il mio La dimensione temporale dell’inquietante, in «Quaderni del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’università di Salerno», 4, Esi, Napoli 1990, pp. 207-220, succes­ sivamente parzialmente antologizzato assieme al testo freudiano e ad altri saggi su questo in Sigmund Freud, L’inquietante estraneità, introduzione e cura di Pina Gorgoni, Lucarini, Roma 1992. 109 Per come l’attesa induca una maggiore attenzione e accentui le emozioni, si veda Donald A. Norman, Memoria e attenzione (1977), Franco Angeli, Milano 1981, pp. 26-46. 110 Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere (1920), Newton Com­ pton, Roma 1976, p. 27. 111 Una indicazione che il Settecento di questo fosse tutt’altro che ignaro è nell’Appendice (intitolata Concerning the Methods which Nature hath Afforded for Computing Time and Space) alla parte V del vol. I di Henry Home Lord Kames, Elements of Criticism cit., pp. 200-217. 112 Tra i moltissimi articoli che trattano delle risposte emotive alla lettura, segnalo solo i seguenti sia per la loro buona bibliografia di base, sia perché hanno una collocazione in riviste dove vengono trattati i temi specifici che ci interessano. Si vedano dunque, tra gli altri, Juan A. Prieto-Pablos, The paradox

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of suspense, in «Poetics», 26, 1998, pp. 99-113; Hans Hoeken e Mario van Vliet, Suspense, Curiosity, and Surprise: How Discourse Structure Influences the Affective and Cognitive Processing of a Story, in «Poetics», 26, 2000, pp. 277-286; David S. Miall e Don Kuiken, A Feeling for Fiction: Becoming what we Behold, in «Poetics», 30, 2002, pp. 221-241; Maria C. Levorato e Aldo Nemesio, Readers’ Responses while Reading a Narrative Text, in «Empirical Studies of the Arts», XXIII, 2005, 1, pp. 19-31. Si possono vedere anche Robert G. Crowder e Richard K. Wagner, Psicologia della lettura (1982), Il Mulino, Bologna 1998; Maria C. Levorato, Le emozioni della lettura, Il Mulino, Bologna 2000. Questi studi, tuttavia, non prendono in considerazione la lettura in chiave storica, come noi invece facciamo, si spera credibilmente, nel presente libro, per cui l’effetto dei testi sui lettori odierni viene implicitamente presentato come una costante di tutte le epoche. 113 «The very impatience which the reader feels, while delayed by the coarse pleasantries of vulgar actors from arriving at the knowledge of the important catastrophe he expects, perhaps heightens, certainly proves that he had been artfully interested in, the depending events» (The Castle of Otranto, A Story Translated by William Marshal gent From the Original Italian of Onuphrio Murialto, Canon of the Church of St Nicholas at Otranto, London 1765, p. 44: la traduzione è mia). Come si vede, il romanzo inizialmente non recava il nome di Walpole come autore. 114 Si ricordi che la Radcliffe in The Castles of Athlin and Dunbayne. A Highland Story, che è del 1789, usa ancora i trattini allungati per segnalare le pause nei dialoghi. 115 Rosamaria Loretelli, Approaching the Novel. Aphra Behn and the Emplotting of Future Time, in Annamaria Lamarra e Bernard Dhuicq (a cura di), Aphra Behn in/and Our Time cit., pp. 11-24. 116 È quasi sempre invece sui temi che la critica e la storia letteraria si sof­ fermano quando trattano del romanzo gotico. Qui perciò concordo con Joyce M.S. Thomkins (The Popular Novel in England. 1770-1800, Constable & Co., London 1932, cap. VII), che invece dà rilievo all’aspetto dell’organizzazione narrativa e secondo la quale dobbiamo al gotico l’introduzione della suspense e della struttura accorpata nella narrativa. Una simile ottica è anche in Terry Castle, The Gothic Novel, in John Richetti (a cura di), The Cambridge History of English Literature cit., pp. 673-706. 117 Frank Kermode, The Sense of an Ending, Oxford University Press, Ox­ ford 1966. 118 «for its compelling simplicity, its picture of manners, its deep penetration into nature, its Power to raise and alarm the Passions and to create overpowering suspense» (Robert D. Mayo, The English Novel in the Magazines cit., p. 100). 119 «The moment he could depart unobserved, he quitted the assembly, and muffling himself in his cloak, hastened to the villa Altieri, which lay at a short distance to the west of the city. He reached it unobserved, and, breathless with impatience, traversed the boundary of the garden; [...]. The night was far advanced, and, no light appearing from the house [...]. It was nearly midnight, and the stillness that reigned was rather soothed than interrupted by the gentle dashing of the waters of the bay below, and by the hollow murmurs of Vesuvius, which threw up, at intervals in sudden flame on the horizon, and then left it to darkness. The solemnity of the scene accorded with the temper of his mind, and

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he listened in deep attention for the returning sound, which broke upon the ear like distant thunder muttering imperfectly from the clouds. The pauses of silen­ ce, that succeeded each groan of the mountain, when expectation listened for the rising sound, affected the imagination of Vivaldi at this time with particular awe [...]. The air was calm, and rose from the bay with most balmy and refreshing coolness» (Ann Radcliffe, The Italian, Penguin, Harmondsworth 2000, pp. 1415) (la traduzione e i corsivi sono miei). 120 Ho esaminato questo brano dal punto di vista dell’attesa che suscita nel lettore in «The Italian» di Ann Radcliffe. Aspetti di retorica dell’attesa, in Atti del V congresso nazionale dell’Associazione Italiana di Anglistica, Clueb, Bologna 1983, pp. 75-82. Sull’attesa, in questo romanzo, anche Raffaella Sforza, «Agressi sunt mare tenebrarum, quid in eo esset exploraturi». Attesa e suspense in «The Italian» e «The Monk», in «Il confronto letterario», X, 1988, pp. 399-416. 121 Partendo dalla nota teoria di William F. Brewer ed Edward H. Lichten­ stein (Stories are to Entertain. A Structural-Effect Theory of Stories, in «Journal of Pragmatics», VI, 1982, pp. 473-483), secondo la quale «risposte emotive diverse possono essere evocate manipolando l’ordine in cui gli eventi di una storia vengono marrati» (la traduzione è mia), Hans Hoeken e Mario van Vliet (Suspense, Curiosity, and Surprise cit.) hanno portato avanti, su un campione di 91 studenti universitari, un esperimento che ha dato come risultato non solo che la suspense viene suscitata a seguito di una «incertezza circa gli esiti», come già altre ricerche avevano mostrato, ma che poteva crearsi anche se i lettori questi esiti già li conoscevano. D’accordo, ma non basta manipolare l’ordine degli eventi per ottenere la suspense, altrimenti anche l’Odissea, le Etiopiche e tutti i racconti che iniziano in medias res sarebbero a suspense. A mio avviso ci vuole dell’altro: oltre all’attivazione della curiosità è necessaria anche una certa du­ rata. Cfr. William F. Brewer ed Edward H. Lichtenstein, Event Schemas, Story Schemas, and Story Grammars, in John B. Long e Alan B. Baddeley (a cura di), Attention and Performance, Erlbaum, Hillsdale (New Jersey) 1981, vol. IX, pp. 363-379; e, sempre di Brewer e Lichtenstein, Stories are to Entertain cit. 122 Non mi convincono Hans Hoeken e Mario van Vliet (Suspense, Curiosity, and Surprise cit.), che ipotizzano che si creerebbe nei lettori uno spazio mentale nuovo, in cui l’informazione precedentemente acquisita verrebbe cancellata. 123 Cit. in György Lukács e Michail Bachtin, Problemi di teoria del romanzo. Metodologia letteraria e dialettica storica, Einaudi, Torino 1978, p. 138. 124 La scena, nell’edizione utilizzata, è a p. 18. Sulle componenti dell’azio­ ne si vedano Paul Ricoeur, La semantica dell’azione (1977), Jaca Book, Milano 1986; dello stesso, Tempo e racconto, vol. I (1983), capp. II e III, Jaca Book, Mi­ lano (1986) 1991; Georg H. von Wright, Causality and Determinism, Columbia University Press, New York-London 1974; dello stesso, Norm and Action. A Logical Enquiry cit. 125 In questo romanzo, tale funzione assegnata ai pensieri e ai sentimenti dei personaggi è molto evidente alle pp. 53-54; alle pp. 157-160 e a p. 233. 126 Donald A. Norman, Memoria e attenzione cit., pp. 26-46. 127 Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., pp. 219 sgg. Nicholas Dames (The Physiology of the Novel. Reading, Neural Science, and the Form of Victorian Fiction, Oxford University Press, Oxford 2007), pur proponendosi di farlo, a mio avviso non riesce a trattare veramente del rapporto tra lettura e forme narrative.

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128 Mi ha aiutato a pensare a quest’ambito di questioni il limpidissimo arti­ colo di Alessandro Portelli, «The Time of My Life»: Functions of Time in Oral History, in «International Journal of Oral History», II, 1981, 3, pp. 162-180. 129 Frederick Ch. Bartlett, Remembering. A Study in Experimental and Social Psychology, Cambridge University Press, Cambridge 1932, pp. 200 sgg. Per una recente messa a punto di questo ambito di questioni, si veda Herre Van Oosten­ dorp e Susan R. Goldman (a cura di), The Construction of Mental Representations during Reading, Lawrence Erlbaum Associates Publishers, London 1999. 130 La forma per episodi, oltre a potersi calibrare sui tempi di ciascuna ese­ cuzione orale, rendeva anche le storie più facilmente «immagazzinabili» nella memoria, come ha mostrato Jack Goody per il mito dei Bagre (Jack Goody, The Interface Between the Written and the Oral cit., p. 177). 131 Soprattutto per l’utilizzo a tal fine dell’esametro, si veda di Berkley Pea­ body, The Winged Word cit. 132 Concordo sia con Rolf Engelsing, che ha proposto la definizione e la diffe­ renziazione, sia con Roger Chartier, che l’ha ribadita nell’introduzione a Inscrire et effacer. Culture écrite et littérature (XIe-XVIIIe siècle), Gallimard-Seuil, Paris 2005. 133 Eric A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura cit., parte I; Walter J. Ong, Oralità e scrittura cit. 134 Du Plaisir, Sentimens sur les lettres, et sur l’histoire, avec des scrupules sur le stile, C. Blageart, Paris 1683, p. 5. Il brano è citato nel presente libro a p. 116. 135 Cfr. Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., p. 218. Sulle teorie di Schank si vedano almeno Alan B. Baddeley, La memoria umana cit., pp. 382 sgg.; Sergio Roncato e Gesualdo Zucco, I labirinti della memoria cit., pp. 97 sgg. Mi sembra utile segnalare in questa sede una rivista in lingua italiana che si occupa dei vari tipi di narratività. È «Fictions. Studi sulla narratività», nata nel 2002 e diretta da Alba Graziano. 136 Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., p. 35 (tutte le traduzioni da questo libro sono mie). 137 Gerald M. Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana (2006), Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 55. 138 Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., p. 8. 139 Si ricordino anche le funzioni mnemoniche della formula, che è un sin­ tagma fisso memorizzato parola per parola attraverso un certo numero di ripassi identici. Formule, temi e schemi narrativi sono in fondo degli scripts fissi, che tornano uguali in molte storie diverse. Il racconto orale, insomma, non riserva sorprese ai destinatari, poiché il ripasso che propone consiste nel ripercorrere innumerevoli volte gli stessi segmenti linguistici, vale a dire le formule, e i me­ desimi scripts, cioè gli episodi, i temi e gli schemi narrativi. 140 In genere si parla di due tipi di memoria, quella semantica e quella per episodi. La prima non è basata su storie ma si organizza in modo gerarchico. Se, per esempio, so che tutti i pesci hanno le scaglie, quando mi diranno il nome di un pesce che non conosco immaginerò che abbia le scaglie. Schank, questo tipo di memoria preferisce chiamarlo «generalized event-based memory», e lo descrive come un aggiornamento continuo dei vari scripts già immagazzinati. «In questo modo costruiamo generalizzazioni del mondo», egli scrive, «e ciò comporta la capacità di frammentare le nostre esperienze dividendole nelle loro componenti. È questo un fatto molto importante, altrimenti non impareremmo

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mai nulla da un contesto all’altro» (Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., p. 122). 141 Ivi, p. 11. 142 Questo in realtà lo dice già Henry Home Lord Kames in Elements of Criticism cit., vol. I, pp. 113 sgg. 143 Jan Mukarˇovský, Analisi semantica di un’opera poetica, in «Strumenti critici», 45, giugno 1981. 144 Oltre a non esserlo sulla base delle preferenze e della personalità stilistica dei vari autori. Nell’Ulisse (1922) di James Joyce e nei romanzi di Virginia Wo­ olf, per esempio, gli eventi che trasformano la vita dei personaggi rimangono sullo sfondo, sono spesso già accaduti quando si svolge la scena che viene ripor­ tata, perché ciò che conta è il pensiero, è l’effetto di quegli eventi sul sentire del soggetto, o è il ricordo. In presa diretta, il romanzo di Joyce e quelli della Woolf presentano quasi esclusivamente le azioni consuetudinarie, durante le quali pur tuttavia il pensiero lavora e le emozioni scavano. Serve pensare in questa chiave anche romanzi come la Montagna incantata di Thomas Mann oppure, per esem­ pio, La jalousie (1957) di Alain Robbe-Grillet. 145 «He returned, therefore, on the following day to the villa Altieri, with en­ creased impatience to learn the result of Signora Bianchi’s further conversation with her niece, and the day on which the nuptials might be solemnized. On the way thither, his thoughts were wholly occupied by Ellena, and he proceeded mechanically, and without observing where he was, till the shade which the well-known arch threw over the road recalled him to local circumstances, and a voice instantly arrested his attention. It was the voice of the monk, whose figure again passed before him. ‘Go not to the villa Altieri’, he said solemnly, ‘for death is in the house’ [...]. Before Vivaldi could recover from the dismay into which his abrupt assertion and sudden appearance had thrown him, the stranger was gone. He had escaped in the gloom of the place, and seemed to have retired into the obscurity, from which he had so suddenly emerged, for he was not seen to depart from under the archway» (Ann Radcliffe, The Italian cit., p. 50) (la traduzione è mia). 146 «When they were gone, Elizabeth, as if intending to exasperate herself as much as possible against Mr Darcy, chose for her employment the examination of all the letters which Jane had written to her since her being in Kent. They contained no actual complaint, nor was there any revival of past occurrences, or any communication of present suffering. But in all, and in almost every line of each, there was a want of that cheerfulness which had been used to charac­ terize her style, and which, proceeding from the serenity of a mind at ease with itself, and kindly disposed towards every one, had been scarcely ever clouded» (Jane Austen, Pride and Prejudice, Garzanti, Milano 1975, p. 220: la traduzione italiana, a parte una mia lieve modifica, è di Isa Maranesi). 147 Per questo tipo di ripasso, si veda Alan B. Baddeley, La memoria umana cit., pp. 187 sgg. 148 Walter J. Ong, in Oralità e scrittura cit., cap. VI, mette in relazione quell’esigenza di una fine, «chiusura ben fatta» di ciascun romanzo, con l’asset­ to mentale prodotto subliminalmente dalla forma materiale del libro nell’epoca della stampa matura.

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Capitolo V 1 Maryanne Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge (2007), Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 9-10. 2 David Hume, Treatise cit., libro II, parte I, sezione XI, p. 140, cit. a p. 136 del presente libro. 3 Vittorio Gallese, Intentional Attunement: A Neurophysiological Perspective on Social Cognition and Its Disruption in Autism, in «Cognitive Brain Research», 1079, 2006, pp. 15-24; e, dello stesso, Simulazione incarnata, intersoggettività e linguaggio, in Giuseppe Moccia e Luigi Solano (a cura di), Psicoanalisi e neuroscienze, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 174-206; nonché l’intervento al con­ vegno Naturalismo/naturalismi, organizzato dal Dipartimento di Filosofia della «Sapienza» Università di Roma e che si è tenuto a Roma, Villa Mirafiori, il giorno 12 febbraio 2010. In Psicoanali e neuroscienze, altri due begli articoli trattano il tema dell’intersoggettività: Tiziana Bastianini, Conoscenza mimetica e comunicazione inconscia. Riflessioni preliminari a un possibile dialogo tra psicoanalisi e neuroscienze, e Maria A. Ficacci, Momenti di simmetria: un’ipotesi, rispetti­ vamente alle pp. 207-221 e 222-228. Probabilmente il primo libro a divulgare in Italia questa ricerca è quello di Giacomo Rizzolatti (che dirige il gruppo di ricerca) e Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006; seguito da quello di un altro neuroscienziato, Marco Iacoboni, intitolato I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Non sono pochi oramai i libri sugli argomenti più disparati che menzionano le ricerche sui neuroni specchio, tra cui il bel volume di storia culturale di Maria L. Cantoni, La comunicazione non verbale nella Grecia antica, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 4 Per le considerazioni in proposito da parte di un importante linguista, si veda Vittorio Gallese e George Lakoff, The Brain’s Concepts: The Role of the Sensory-motor System in Conceptual Knowledge, in «Cognitive Neuropsycholo­ gy», 21, 2005, http://www.tandf.co.uk/journals/pp/02643294.html. 5 Paul Ricoeur, Tempo e racconto cit., vol. I, p. 10. Ricoeur ovviamente non nega – non nei tre volumi di Tempo e racconto e neppure in La memoria, la storia, l’oblio cit. – la differenza tra storiografia e racconto di finzione per quel che riguarda i referenti immediati e tutto l’ambito del rapporto che schematizzando chiamerò della verità. Su questi temi di epistemologia storica si vedano i saggi di Giuseppe Ricuperati raccolti in Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia (Laterza, Roma-Bari 2005), che nel prendere posizione fornisce anche un quadro delle opinioni in campo. In questo capitolo uso i termini ‘racconto’ e ‘storia’ intercambiabilmente nel senso di for­ me narrative strutturate da un intreccio; nei casi in cui mi riferisco alla scrittura storica impiego invece il termine ‘storiografia’. 6 Uso qui il termine ‘simbolico’ nel senso in cui lo troviamo impiegato, oltre che in Tempo e racconto di Ricoeur, anche nella Filosofia delle forme simboliche (1923) di Ernst Cassirer (La Nuova Italia, Firenze 1976, 3 voll.). 7 Paul Ricoeur, Tempo e racconto cit., vol. I, pp. 112 e 113 (il corsivo è nell’originale). Ripetuto quasi con le stesse parole nel vol. II (Jaca Book, Milano 1994, cap. I, p. 22). 8 Roger C. Schank, Tell Me a Story. Narrative and Intelligence cit., p. 89. 9 Questo titolo – sarà già balzato agli occhi – rimanda a Futuro passato. Per

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una semantica dei tempi storici (1979) di Reinhart Koselleck (Marietti, Casa­ le Monferrato 1986; ristampato da Clueb, Bologna 2007). Lo fa volutamente, perché quel tipo di sensibilità temporale che Koselleck riscontra e descrive sul piano storico-filosofico è la stessa che, per la medesima epoca, emerge anche sul piano linguistico-narratologico (che non prevede necessariamente consape­ volezza da parte degli scriventi). 10 «This quality of looking forward into futurity seems the unavoidable con­ dition of a being, whose motions are gradual, and whose life is progressive: as his powers are limited, he must use means for the attainment of his ends, and intend first what he performs last; as, by continual advances from his first stage of existence, he is perpetually varying the horizon of his prospects, he must al­ ways discover new motives of action, new excitements of fear, and allurements of desire» (Samuel Johnson, The Rambler, a cura di Walter J. Bate e Albrecht B. Strass, Yale University Press, New Haven-London 1969, vol. III, pp. 9-10) (la traduzione è mia). Si sarà notato che anche la parte precedente, non virgolettata, echeggia il linguaggio johnsoniano. Ho infatti voluto mantenerlo, traducendo quasi alla lettera, ma proprio per quel ‘quasi’ non ho virgolettato le frasi. 11 Benvenuto Cellini nella sua autobiografia esprime in continuazione que­ sto senso della temporalità, che notoriamente troviamo espressa anche in tanti altri autori, non solo italiani. Spesso pure in William Shakespeare (basti, tra le tante frasi che dai drammi e dai sonetti si ricordano, «I feel the future in the instant»: Macbeth I, V, 58) e John Donne («Catch a Falling Star»). Tra i molti studi su questo tema, per il Rinascimento vale ancora la pena di vedere Ricardo J. Quinones, The Renaissance Discovery of Time cit., e Ágnes Heller, L’uomo del Rinascimento (1967), La Nuova Italia, Firenze 1977, cap. III; per le varie epoche, Georges Poulet, Étude sur le temps humain cit. 12 «floats lazily down the stream, in pursuit of something borne along by the same current», perché «he will find himself move forward; but unless he lays his hand to the oar, and increases his speed by his own labour, must be always at the same distance from that which he is following» (in Mona Wilson, a cura di, Johnson: Prose and Poetry cit., p. 275). Le traduzioni qui da «The Adventurer» e da «The Rambler» sono mie. 13 «so scanty is our present allowance of happiness, that in many situations life could scarcely be supported, if hope were not allowed to relieve the present hour by pleasures borrowed from futurity» (ibid.). 14 «The end therefore which at present calls forth our efforts will be found, when it is once gained, to be only one of the means to some remoter end. The natural flights of the human mind are not from pleasure to pleasure, but from hope to hope» (ibid.). 15 «he can provide for the future only by considering the past; and as futurity is all in which he has any real interest, he ought very diligently to use the only means by which he can be enabled to enjoy it, and frequently to revolve to ex­ periments which he has hitherto made upon life, that he may gain wisdom from his mistakes and caution from his miscarriages» (ivi, p. 287). 16 «It is pleasing to contemplate a Manufacture rising gradually from its first mean State by the successive Labours of innumerable Minds [...] (n. 9). Labour, vigorously continued, has not often failed of its reward [...] (n. 25). The Main of Life is, indeed, composed of small Incidents, and petty Occurrences [...] Thre­ ads of Life entwisted with the Chain of Causes [...] (n. 68)» (in Mona Wilson, a cura di, Johnson: Prose and Poetry cit., pp. 177, 188, 208).

Ringraziamenti Per questo libro ho alcuni debiti di riconoscenza. Con Giuseppe Sertoli, maturati negli anni attraverso un carteggio non fitto ma co­ stante. A lui ho scritto le mie ultime vere e proprie lettere, prima di perderne la capacità componendo solo e-mail. Ho un debito con Carlo Borghero, Anna Giulia Cavagna, Bernar­ detta Iacono, Ann Rae e John Rae, che mi hanno chiarito alcune singo­ le questioni. Fabio Castriota mi ha fatto conoscere tre anni fa la ricerca sui neuroni specchio, e con lui ne ho occasionalmente discusso. Stefano Telve, Lucilla Pizzoli, Laura Minervini e Simona Leonardi hanno letto parti del manoscritto e fornito indicazioni preziose. Maria Luisa Iori ha letto il manoscritto per intero, dandomi suggerimenti sul suo insieme. Con Giuseppe Ricuperati, ai cui libri debbo molto, ne ho discusso anche l’impianto generale.

Indice dei nomi Abney, Thomas, 141. Achard, Guy, 199, 217. Achille Tazio, 31, 220. Addison, Joseph, 56, 64, 158, 206, 230. Agostino, santo, 5. Algarotti, Francesco, 212. Amadou Hampâté Bâ, 70. Ambrogio, santo, 5. Amelang, James S., 206. Amodio, Mark C., 216, 221, 223. Amyot, Jacques, 112, 225. Andréani, Roland, 212. Angeli, Giovanna, 224. Angiolini, Luigi, 55, 210. Apollonio Rodio, 217. Apuleio, 12, 85-86, 218. Ardal, Pall S., 235. Ariès, Philippe, 204, 213. Aristofane, 30. Aristotele, 85, 107-8, 118, 217, 221, 229. Arrignon, Jean-Pierre, 225. Ashby, Jane, 237. Asor Rosa, Alberto, 202. Asperti, Stefano, 221. Assmann, Jan, 214. Astell, Mary, 60, 211. Auerbach, Erich, 60, 211, 224. Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottavia­ no, 86. Austen, Jane, 58, 122-3, 143, 149, 181, 230, 247. Avalle, D’Arco S., 216. Avdo, 71-74, 82-83, 216. Bachleitner, Norbert, 239.

Bachtin, Michail, 223, 245. Baddeley, Alan B., 215, 245-47. Baine, Paul, 208, 240. Baker, Francis, 213. Balzac, Honoré de, 20. Barbier, Frédéric, 212. Barchas, Janine, 147-51, 154, 209, 240-42. Barchiesi, Alessandro, 217-18. Barilli, Renato, 199-200. Barthes, Roland, 8, 197, 229. Bartlett, Frederick Ch., 173, 246. Bartolomeo, Joseph F., 210, 232, 240, 243. Bartsch, Shadi, 219. Baslez, Marie-Françoise, 199, 218, 220, 225. Bastianini, Tiziana, 248. Bate, Walter J., 249. Battestin, Martin C., 238. Battestin, Ruth, 238. Bäulm, Franz, 215. Bazzarelli, Eridano, 200. Béarez-Caravaggi, Bernadette, 228. Beattie, James, 52, 209. Behn, Aphra, 49, 127, 162. Belanger, Terry, 209. Bellini, Giuseppe, 206, 225. Benelli, Sem, 3. Benhamou, Paul, 206. Bennassar, Bartolomé, 204. Benson, Larry D., 224. Berkeley Updike, Daniel, 204. Bertoni, Clotilde, 227. Bettini, Maurizio, 221. Biondi, Gian Francesco, 113, 226. Bjork, Robert E., 222.

­254 Blanck, Horst, 198. Boccara, Nadia, 232-33, 235. Bödeker, Hans E., 212. Boileau-Despréaux, Nicolas, 115, 117. Boitani, Piero, 202, 214, 224. Boldini, Giovanni, 19. Bollème, Geneviève, 205. Bologna, Corrado, 197. Bonaventura da Bagnoregio, santo, 38. Bonjour, Adrien, 222. Bonnier, Henry, 197. Borghero, Carlo, 251. Bosanquet, Bernard, 239. Boswell, James, 58, 61, 211. Bowie, Ewen L., 199, 218-19. Box, Mark A., 233. Braida, Lodovica, 203-5, 212. Braudy, Leo, 234. Brayman Hackel, Heidi, 211. Brégy, Charlotte de Saumaise de Cha­ zan contessa di, 48. Brewer, John, 205, 210. Brewer, William F., 245. Briggs, Julia, 210. Brockmeier, Jens, 214. Brönte, Charlotte, 21. Brownrigg, Linda L., 204. Brunet, Olivier, 234. Brusoni, Girolamo, 113, 226. Burke, Peter, 205. Burney, Frances, 148. Burrow, John A., 224. Butts, Dennis, 210. Calderini, Aristide, 219. Calderón de la Barca, Pedro, 112. Callia, 30. Callomp, Alain, 213. Calvino, Italo, 9-10. Camden, John, 209. Camerlingo, Rosanna, 226. Cameron, W.J., 207. Campagnoli, Ruggero, 228. Camus, Jean-Pierre, 114. Canfora, Luciano, 198. Cantoni, Maria L., 248. Capp, Bernard, 205. Capra, Carlo, 212. Carandini, Franco, 200, 221.

Indice dei nomi Carbone, Paola, 242. Caritone, 85, 220. Carlo I, re dei Franchi, dei Longobardi e imperatore del Sacro Romano Impero, detto Magno, 33. Carlo V d’Asburgo, imperatore, 40. Carruthers, Mary, 223. Cartesio, Renato, 130. Casamassima, Emanuele, 203. Cassirer, Ernst, 248. Castle, Terry, 244. Castriota, Fabio, 251. Castronovo, Valerio, 212. Cataudella, Quintino, 199, 217-19. Cavagna, Anna G., 204, 251. Cavalli, Marina, 218. Cavallo, Guglielmo, 198-206, 218, 221. Cavendish, Margaret, 49. Cederna, Camilla M., 207. Centrone, Bruno, 198-99. Cervantes Saavedra, Miguel de, 17, 82, 112, 144, 174, 197, 216. Chartier, Roger, 197-201, 203-8, 213, 240, 246. Chaucer, Geoffrey, 99. Chevalier, Maxime, 206. Chiari, Pietro, 62. Chrétien de Troyes, 224. Christensen, Jerome, 233. Cicerone, Marco Tullio, 31. Clancy, Michael T., 202, 223. Cleland, John, 128, 159. Cogan, Henry, 227. Collier, Jane, 241. Collins, Wilkie, 21. Colonna, Aristide, 219. Conca, Fabrizio, 219. Congreve, William, 232. Coomaraswamy, Ananda K., 224. Corcos, Vittorio M., 20-21. Cotterell, Charles, 227. Craveri, Benedetta, 207. Cressy, David, 206. Crivelli, Tatiana, 211. Crowder, Robert G., 244. Curll, Edmund, 148, 208. Cusatelli, Giorgio, 231.

Indice dei nomi Dames, Nicholas, 245. Damrosch, Leopold, 233. Dante Alighieri, 41. Darnton, Robert, 205, 237, 239. Davis, John, 227. Davys, Mary, 159, 232. Defoe, Daniel, 127, 148, 230, 238. DeLillo, Don, 29. Del Lungo Camiciotti, Gabriella, 209. De Riquer, Isabel, 223. De Riquer, Martin, 223. De Romanis, Roberto, 204, 206. Derrida, Jacques, 198. Desmarets de Saint-Sorlin, Jean, 117. Dhuicq, Bernard, 207, 244. Diacono, Paolo, 33. Dick, Alexander, 233. Dickens, Charles, 21. Diderot, Denis, 120. Dionisio Trace, 85. Doane, Alger N., 222. Donne, John, 249. Dooley, Brendan, 212. Dostoevskij, Fëdor M., 20. Duby, Georges, 204, 213. Duckworth, George E., 220. du Fail, Noël, 205. Duggan, Joseph J., 202-3, 222-25. Dumas, Alexandre, 20. Duneau, Jean-François, 225. Dunton, John, 148. Du Plaisir, 116, 176, 246. Dupont, Florence, 86, 198-99, 213, 215, 217-18. Edelman, Gerald M., 246. Eginardo, 33. Eisenstein, Elizabeth L., 203, 216. Eliano, 117. Eliodoro di Emesa, 12, 31, 87, 89, 9195, 97, 111-14, 155, 219, 221. Eliot, George, 3, 16, 197. Ellis, Markman, 205-6. Engelsing, Rolf, 246. Esmein, Camille, 228. Euripide, 30, 90. Fantuzzi, Marco, 226-27. Fasano, Pino, 212.

255 Feather, John, 204, 208, 238. Febvre, Lucien, 202. Fedeli, Paolo, 198-99, 218. Fergus, Jan, 210. Ferreri, Luigi, 228. Ferris, Ina, 211. Ficacci, Maria A., 248. Fielding, Henry, 13, 51, 82, 118, 12627, 143-44, 147-48, 159, 162-63, 174, 206, 227, 229-31, 238, 240, 243. Fielding, Sarah, 148, 153, 240. Finkelberg, Margalit, 214-15. Finnegan, Ruth, 215. Fisch, Richard, 225. Fisher, Steven R., 198. Foley, John M., 67, 69-70, 76, 80-81, 201, 214-17, 222. Fontenelle, Bernard Le Bovier de, 115, 117, 228. Forcione, Alban K., 225. Formigari, Lia, 239. Foscolo, Ugo, 240. Foucault, Michel, 198. Fox, Adam, 206. Fozio, 112, 219, 226. Fraisse, Paul, 243. Francesco d’Assisi, santo, 39. Fraser Tyler, Alexander, 238. Frenk, Margit, 206, 225. Freud, Sigmund, 135, 160, 243. Frioli, Donatella, 202. Fucini, Renato, 3. Fusillo, Massimo, 218, 220, 227. Fusini, Nadia, 10-11, 197. Gai, Letizia, 232. Gallese, Vittorio, 248. Gärtner, Hans, 219. Generali, Dario, 212. Genette, Gerard, 207. Gengis Khan (Genghiz Khan), 13. Gentili, Bruno, 199, 217. Giacomo I, re d’Inghilterra, 226. Giamblico, 90. Giardina, Andrea, 198-99, 219. Gibbon, Edward, 58. Gilmont, Jean-François, 204. Ginzburg, Carlo, 205.

­256 Giovanni di Grouchy, 100. Giraldi, Giambattista, detto anche Cinzio o Cinthio Giraldi, 106-10, 132. Godzich, Wlad, 223. Goethe, Johann Wolfgang von, 20, 123, 126, 167-68, 231. Goldman, Susan R., 246. Gomberville, Marin Le Roy de, 113. Gonzaga, Scipione, 112. Goody, Jack, 198, 214-15, 246. Goreau, Angeline, 207. Gorgoni, Pina, 243. Gor’kij, Maksim, pseud. di Aleksej Maksimovicˇ Peškov, 20. Gozzi, Carlo, 62. Gracián y Morales, Baltasar, 112. Grafton, Anthony, 203. Graziano, Alba, 246. Graverini, Luca, 217-18. Green, Dennis H., 223. Grenby, Matthew O., 210. Griffin, Dustin, 207. Grimal, Pierre, 218-19. Gualandri, Isabella, 201. Gutenberg, Johann, 203. Habermas, Jürgen, 212. Haferland, Harald, 222. Hägg, Tomas, 199, 219, 225. Hardie, Philip, 220. Harris, Jocelyn, 231. Harris, Michael, 205, 208. Harrison, S.J., 218. Hartocollis, Peter, 243. Havelock, Eric A., 214, 246. Hawksworth, John, 122, 127, 132. Haymes, Edward R., 222. Haywood, Eliza, 148. Head, Richard, 148, 206. Hédelin, François, 117. Heinleim, Michael, 204. Heller, ágnes, 249. Henley, John, 237. Henson, Eithne, 210. Herder, Johann G. von, 239. Hersant, Yves, 228. Hill, Aaron, 126, 150, 231. Hill, John, 54, 127, 231.

Indice dei nomi Hill Green, Thomas, 233. Hindman, Sandra, 204. Hodge Grose, Thomas, 233. Hoeken, Hans, 244-45. Hoffmann, Philippe, 199, 218, 220, 225. Holtz, Louis, 201-2. Holzberg, Niklas, 218. Home, Henry, Lord Kames, 137, 145, 228-29, 236, 238-39, 243, 247. Houdar de la Motte, Antoine, vedi La Motte-Houdar, Antoine. Huet, Pierre-Daniel, 46, 113-14, 228. Hughes, Derek, 207. Huizinga, Johan, 233. Hume, David, 6-7, 10, 58, 129-38, 140, 143-44, 156, 185, 197, 232-36, 248. Hunt, Arnold, 208. Hunter, J. Paul, 210. Hunter, Richard, 220-21, 227. Iacoboni, Marco, 248. Iacono, Bernardetta, 207, 251. Ibsen, Henrik, 3. Illich, Ivan, 199-203, 221. Infelise, Mario, 212. Innocenti Manolescu, Beth, 239. Iori, Maria L., 251. Iser, Wolfgang, 240. Isidoro di Siviglia, santo, 34. Jacob, Larwood, 209. Jagodzinski, Cecile M., 212-13. James, Henry, 10, 15, 51, 197. Janni, Pietro, 87, 91, 217-20. Jaucourt, Louis de, 211. Johns, Adrian, 210. Johnson, Samuel, 15, 52, 58, 121-22, 127-29, 132, 190-94, 197, 210, 231, 249. Johnson, William A., 219. Jourda, Pierre, 205. Joyce, James, 247. Kant, Immanuel, 130. Kaufmann, Paul, 213. Kelly, Douglas, 203. Kempe Smith, Norman, 234.

Indice dei nomi Kermode, Frank, 162, 244. Kernan, Alvin, 211, 239. Kessler, Brett, 237. Keulen, Wytse, 217-18. Keymer, Thomas, 209, 231. Kirkman, Francis, 148, 206. Kittay, Jeffrey, 223. Kitchin, George, 206. Klein, Ann C., 201. Knox, Bernard M.W., 200. Knox, Vigesimus, 242. Köler, Erich, 223. Koselleck, Reinhart, 193, 214, 249. Kuiken, Don, 244. La Calprenède, Gauthier de Costes de, 113, 227. La Fayette, Marie-Madeleine Pioche de la Vergne contessa di, 12, 115. Lakoff, George, 248. Lamarra, Annamaria, 207, 244. La Motte-Houdar, Antoine, 117. Lanza, Diego, 198. Lavagnini, Bruno, 219. Le Blanc, Jean Bernard, 56, 210. Le Bossu, René, 117-20, 229. Le Breton, André, 227. Le Fèvre Dacier, Anne, 117. Lehmann, William Ch., 238. Lennox, Charlotte, 58. Leonardi, Claudio, 200-2, 221. Leonardi, Simona, 222, 251. Leong, Che Kan, 214. Le Saux, Francoise, 223. Lessing, Gotthold E., 239. Levi, Albert W., 234. Levi, Ezio, 224. Levi, Lia, 16, 197. Levorato, Maria C., 244. Levy Peck, Linda, 206, 209, 211. Lichtenstein, Edward H., 245. Liutprando, re dei Longobardi, 33. Lombardo, Agostino, 197. Long, John B., 245. Longino, Cassio, 118. Longo sofista, 31. López, Alfonso, detto Pinciano, 112. Lord, Albert, 68-69, 71, 75-82, 101, 214-17, 221-22, 224, 243.

257 Loretelli, Rosamaria, 200, 206, 21112, 232, 240, 244. Lotman, Jurij M., 200. Love, Harold, 206-7, 209. Lowe, N.J., 217. Lowry, Martin, 204. Lukács, György, 245. Lunari, Luigi, 207. Lupton, Christina, 233. Luria, Aleksandr, 237. Machiavelli, Niccolò, 41. Macrobio, 85. Madrignani, Carlo A., 211-12, 239. Magoun, Francis P., 215. Mancini, Mario, 202, 214. Mandelbrote, Giles, 208. Mandrou, Robert, 205. Mangione, Daniela, 212. Manley, Delarivier, 148. Manley, Mary, 116, 127. Mann, Thomas, 162, 247. Manuzio, Aldo, 41-42, 204. Marcialis, Maria T., 228. Maria di Francia, 103, 224. Marías, Julián, 233. Marini, Paola, 212. Martin, Henri-Jean, 198-200, 202-5, 209, 212. Mascuch, Michael, 213. Masson, R., 239. Mayers, Georges, 227. Mayo, Robert D., 210-11, 213, 23132, 243-44. Mazza, Emilio, 239. McCann, William J., 214. McGuinness, Arthur E., 239. McIntosh, Carey, 238. McKenzie, Donald F., 199. McKeon, Michael, 213. McKitterick, David, 208-9, 242. McLuhan, Marshall, 29, 197, 199, 216. McRae, John, 197. Medici, Lorenzo de’, detto il Magni­ fico, 40. Melchiori, Giorgio, 243. Meletinskij, Eleazar M., 223. Meneghetti, Maria L., 223.

­258 Menéndez Pidal, Ramón, 222. Menestò, Enrico, 200-2, 221. Merceron, Jacques, 203. Meyer, Paul, 224. Meyer Spacks, Patricia A., 212. Miall, David S., 244. Miches, Henri, 212. Millar, Andrew, 130, 143. Milton, John, 230. Minervini, Laura, 251. Minkowski, Eugene, 243. Moccia, Giuseppe, 248. Modiano, Raimonda, 216, 240. Molière, Jean-Baptiste Poquelin det­ to, 49. Molinié, Georges, 226. Montaner, Alberto, 222. Montini, Donatella, 231, 240. Montpensier, Anne-Marie-Louise d’Or­­ lé­ans duchessa di, 46. Moretti, Franco, 204, 215, 219. Morgan, John R., 219-20. Mukarˇovsky´, Jan, 178, 247. Mullan, John, 235. Myers, Robin, 205. Nalle, Sara T., 206. Nashe, Thomas, 206. Nemesio, Aldo, 244. Nerozzi Bellman, Patrizia, 232, 242. Newcomb, Lori H., 205. Niccodemi, Dario, 3. Niles, John D., 215-16, 222. Nisbet, Hugh B., 235. Norman, Donald A., 243, 245. Novalis, pseud. di Friedrich Leopold von Hardenberg, 239. O’Brien O’Keeffe, Katherine, 216. Odsopoens, Vincentius, 111. Ogden, Henry V.S., 225. O’Gorman, Frank, 240. Okpewho, Isidore, 214. Olivieri, Ugo, 212. Olson, David R., 81, 199, 214, 216. Omero, 90, 117-18, 141, 213, 217, 228. Ong, Walter J., 29, 197, 199, 207, 214, 216, 228, 234, 246-47.

Indice dei nomi Orazio Flacco, Quinto, 118. Orsini, Francine, 243. Osborne, Dorothy, 49, 207. Otranto, Rosa, 198. Ottofredo, 202. Ovidio Nasone, Publio, 41. Paganini, Gianni, 213. Pallavicino, Ferrante, 226. Palmer, S., 209. Panayotakis, Stelios, 218. Park, Stephen, 240. Parker, Kenneth, 207. Parkes, Malcolm, 201. Parry, Milman, 68, 71, 74, 76-78, 82, 117, 214, 216, 228. Paschalis, Michael, 218. Pasta, Renato, 199, 205, 208, 210, 212. Pasternack, Carol B., 222. Patterson, Annabel M., 206. Peabody, Berkley, 216, 246. Pearson, Jacqueline, 210-11, 213, 231. Pecere, Oronzo, 220. Pélaquier, élie, 212. Pepys, Samuel, 45-47, 53-54, 125, 206-7. Perosa, Sergio, 232. Perrault, Charles, 117. Perry, Ben E., 218. Perry, Ruth, 210. Petrarca, Francesco, 41. Petronio, 85. Petrucci, Armando, 199, 201-3, 205, 223. Philips, John, 227. Picardi, Mariassunta, 227. Pilch, Herbert, 223. Pincus, Steven C.A., 205. Pizzamiglio, Gilberto, 212. Pizzoli, Lucilla, 237, 251. Pizzorusso, Arnaldo, 228. Platania, Gaetano, 235. Platone, 22-23, 25, 28, 198-99. Plebani, Tiziana, 211. Plutarco, 85, 217. Poe, Edgar A., 92. Poma, Luigi, 225.

Indice dei nomi Pope, Alexander, 208. Portelli, Alessandro, 246. Potter, Lois, 206. Poulet, Georges, 214, 249. Price, John V., 238. Prieto-Pablos, Juan A., 243. Prosperi, Adriano, 204. Proust, Marcel, 3-4, 47, 171, 197. Puttenham, George, 203. Quet, Marie-Henriette, 218. Quinones, Ricardo J., 214, 249. Quintiliano, Marco Fabio, 32, 200, 229. Radcliffe, Ann, 92, 123, 128, 162-63, 165, 168-70, 242, 244-45, 247. Radding, Charles M., 201. Rae, Ann, 251. Rae, John, 251. Randhawa, Bikkar S., 214. Ranger, Paul, 204. Ranson, Jean, 237. Ranum, Orest, 213. Rao, Anna M., 212. Raven, James, 209, 213. Rawson, Claude, 235. Rayner, Keith, 237. Reale, Paola, 243. Renart, Jean, 224. Ribble, Anne G., 227, 229, 238. Ribble, Frederick G., 227, 229, 238. Richardson, Brian, 203. Richardson, Samuel, 121, 126-27, 148-53, 162-63, 209, 231, 241. Riché, Pierre, 200. Richetti, John, 129, 207, 209, 211, 232-33, 244. Ricoeur, Paul, 187-89, 198, 245, 248. Ricuperati, Giuseppe, 212, 248, 251. Rispoli, Gioia M., 199-200, 217, 219. Rivers, Isabel, 209. Rizzolatti, Giacomo, 248. Robbe-Grillet, Alain, 247. Roberti, Giambattista, 211. Rochester, John W. conte di, 48. Rogers, Pat, 208, 240. Roggero, Marina, 201, 204, 206, 211. Rohde, Erwin L., 92-93, 219-20.

259 Roncato, Sergio, 215, 246. Ronchetti, Emanuela, 239. Ronchi, Giuseppe, 228. Rousseau, George S., 231. Rousseau, Jean-Jacques, 241. Ruggieri, Franca, 211. Ruiz-Montero, Consuelo, 218-19. Rychner, Jean, 222. Sabbadini, Andrea, 243. Sablé, Madeleine de Souvreé marche­ sa di, 48. Sabor, Peter, 209. Saenger, Paul, 33, 199-202, 210, 237. Sainte-Beuve, Charles-Augustin, 146. Salgari, Emilio, 20. Salkin Sbiroli, Lynn, 230-31. Salles, Catherine, 199, 217. Samples, Susann T., 222. Sana, Alberto, 227. Sand, George, pseud. di Aurore Du­ pin, 20. Sandy, Gerald N., 92-93, 217-21, 22527. Sanga, Glauco, 212. Santoro, Marco, 204. Sassoli, Angelo, 240. Saul, Nicholas, 239. Scaligero, Giulio C., 112, 226. Scardigli, Piergiuseppe, 200, 202, 214. Schank, Roger C., 177, 197, 214-15, 245-48. Schiller, Johann Ch.F., 239. Schlauch, Margaret, 226. Schmeling, Gareth, 218-19. Schmitt, Jean-Claude, 223. Scott, Walter, 231. Scudéry, Madeleine de, 47, 113, 115, 132, 227. Searle, Leroy, 216, 240. Segrais, Jean Regnault de, 114. Segre, Cesare, 223. Seneca, Lucio Anneo, 32. Senofonte, 90. Serpieri, Alessandro, 199. Sertoli, Giuseppe, 243, 251. Sforza, Raffaella, 245.

­260 Shakespeare, William, 3, 24, 134, 199, 235, 249. Sharpe, Kevin, 208, 211. Shaw, Leroy, 239. Shell, Alison, 208. Shillingsburg, Peter, 216, 240. Sidney, Philip, 112, 226. Sini, Carlo, 125, 197, 231. Sinigaglia, Corrado, 248. Šklovskij, Viktor, 94-96, 220. Small, Helen, 213. Smith, Ali, 197. Smith, Margaret M., 204. Smollett, Tobias, 127-28, 162. Socrate, 23-24, 219. Sokolov, Aleksandr N., 234. Solano, Luigi, 248. Sorel, Charles, 113-14, 227. Souiller, Didier, 227. Spencer, Margaret, 211. Spufford, Margaret, 205. Stanco, Michele, 203. St. Clair, William, 209. Steele, Richard, 56. Sterne, Laurence, 120, 147, 152-53, 156, 242. Stock, Brian, 201, 221. Stramaglia, Antonio, 220. Strass, Albrecht B., 249. Sutton, John, 228. Svenbro, Jesper, 198, 200. Sweet, Rosemary, 210. Tadmor, Naomi, 213. Tarassio, 219. Tasso, Torquato, 110, 112, 225. Tatum, James, 219. Tavoni, Maria G., 212. Taylor, Insup, 237. Taylor, M. Martin, 237. Telve, Stefano, 251. Teodorico, re degli Ostrogoti, 33. Teodosio, padre di Eliodoro di Eme­ sa, 221. Terrasson, Jean, 117-18, 228. Texte, Joseph, 231. Thackeray, William, 21. Thom, René, 6, 197. Thomas, Rosalind, 199, 217-18.

Indice dei nomi Thomkins, Joyce M.S., 244. Thompson, Stith, 224. Tinnon Taylor, John, 210. Todd, Janet, 207. Todorov, Tzvetan, 226. Tolstoj, Lev N., 20. Torrance, Nancy, 199. Tortarolo, Edoardo, 213. Trabattoni, Franco, 198. Trédé, Monique, 199, 218, 220, 225. Treiman, Rebecca, 237. Trissino, Gian Giorgio, 108. Trovato, Paolo, 203, 208. Troy, François de, 46, 207. Turgenev, Ivan S., 20. Turk, Edward B., 227. Turner, Eric G., 198. Ugo di San Vittore, 201. Underdowne, Thomas, 225. Valincour, Jean-Baptiste-Henri de, 115-16. Van Oostendorp, Herre, 246. Van Sant, Ann J., 237. Van Vleck, Amalia, 223. van Vliet, Mario, 244-45. Varvaro, Alberto, 202, 214, 222. Vasoli, Cesare, 227. Vauvenargues, Luc de Clapiers mar­ chese di, 14, 60, 197. Vega Carpio, Félix Lope de, 112. Veggetti, Maria S., 237. Vella, Gaspare, 243. Vernier, Olivier, 212. Verre, Gaio, 229. Veyrin-Forrer, Jeanne, 208. Vico, Giambattista, 117. Villars, Nicolas de Montfaucon abbé de, 115. Vinaver, Eugène, 223. Virgilio Marone, Publio, 112, 117. Voltaire, François-Marie Arouet det­ to, 174. von Wright, Georg H., 234, 245. Wagner, Richard K., 244. Waldron, Ronald A., 224. Walpole, Horace, 126, 161-62, 244.

261

Indice dei nomi Wang, Min, 214. Warner, William B., 211. Watt, Tessa, 204. Watts, Isaac, 141, 237. Watzlawick, Paul, 225. Weackland, John, 225. Weatherill, Lorna, 211. Weinreich, Otto, 217-18, 225. Wendorf, Richard, 208. Weston, Anita, 197. Whitcomb Randall, Helen, 239. Whitmarsh, Tim, 221. Wilson, Mona, 197, 209, 231, 249. Winkler, Jack, 93, 220. Wittmann, Reinhard, 206, 210-11.

Wolf, Maryanne, 184-85, 248. Wolff, Samuel L., 225-26. Wollstonecraft, Mary, 60, 211. Wood, Antony, 206. Wood, Robert, 228. Woolf, Daniel, 206. Woolf, Leonard, 197. Woolf, Virginia, 16, 197, 247. Woronoff, Michel, 220. Zola, émile, 20. Zucco, Gesualdo, 215, 246. Zumthor, Paul, 99, 202, 214-15, 22223, 237. Zwicker, Steven, 208, 211.

Indice del volume

I.

Leggere

3

La passione della lettura, p. 11 - «Un romanzo non si rilegge», p. 14

II.

La lettura ha una storia

19

La voce nella scrittura, p. 21 - La stampa e la moltiplicazione dei libri, p. 40 - Sul tavolo della prima colazione, p. 51

III. I racconti e la voce

66

L’epica orale, p. 66 - «Romanzi» greci e latini: le «Etiopiche», p. 85 - La narrativa nelle lingue naturali, p. 97 - Fare a meno della voce, p. 106

IV. Il romanzo inventato

124

Unità percepita, p. 128 - Letture ed emozioni, p. 139 - Tempo­ ralità e ornamenti grafici, p. 147 - Tempo futuro: attesa, p. 158 - Tempo passato: memoria, p. 171

V.

Forma simbolica

184

Intersoggettività incarnata, p. 184 - Coesione narrativa, p. 187 Futuro passato, p. 190



Note

197



Ringraziamenti

251



Indice dei nomi

253