Metodo di lettura pianistica. Introduzione pratica alla lettura della musica

Il fascino del pianoforte consiste nel racchiudere i registri di un’intera orchestra nei suoi tasti. Anche per questa ra

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Metodo di lettura pianistica. Introduzione pratica alla lettura della musica

Table of contents :
Breve introduzione
Curriculum di studio dell’autore
1.1 I punti di fissità dell’occhio
1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto
1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma
1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi
1.5 Terza associazione: praticare le associazioni precedenti
1.6 Introduzione pratica al ritmo musicale
1.7. La messa in pratica: l’origine delle maggiori difficoltà
2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo
2.2 Introduzione pratica alla lettura degli accordi
2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi
2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni
2.5 Metodo per agevolare la lettura di trìadi e settime
2.6 Introduzione alla composizione delle scale
2.7 Introduzione pratica alla melodia
2.8 L’ambiguità della tastiera
2.9 Intervalli consonanti e dissonanti
2.10 Una cattiva abitudine: leggere sempre nota per nota
3.1 Introduzione pratica all’armonia
3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore
3.3 Concatenare trìadi in stato fondamentale
4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro
4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra
5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori
5.2 Postura fondamentale del tronco e degli arti superiori
5.3 Introduzione pratica al tocco
5.4 I tasti neri: gli unici riferimenti puramente tattili
5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo
5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità
5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte
5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica
6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio
6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento
6.3 Seconda fase della ripetizione: l’intero
6.4 Introduzione pratica allo studio delle scale
6.5 La posizione fondamentale della mano nelle scale
6.6 Schematizzare le acquisizioni discorsive nelle scale
6.7 Mettere in pratica il circolo delle quinte nelle scale
6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano
6.9 Concepire armonicamente le scale
6.10 Ridurre il margine di errore nelle scale
7.1 Introduzione pratica allo studio degli intervalli armonici
7.2 Lo studio degli accordi: Czernyana, Volume I
7.3 Introduzione pratica allo studio degli intervalli melodici
7.4 Introduzione pratica allo studio dei rivolti di arpeggio
8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza
8.2 Introduzione pratica all’articolazione
8.3 Introduzione pratica all’appoggio
8.4 Introduzione pratica all’uguaglianza
8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte
INDICE DEI CONCETTI
BIBLIOGRAFIA

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Matteo Malafronte

Metodo di lettura pianistica Introduzione pratica alla lettura della musica

Titolo originale: Metodo di lettura pianistica. Introduzione pratica alla lettura della musica. A cura di Rebecca Gentile Proprietà letteraria riservata. Sono vietate la copia e la duplicazione, anche solo parziali, dei presenti contenuti. L'autore è disponibile per collaborazioni e ulteriori informazioni al seguente indirizzo: [email protected] © Matteo Malafronte 2020

La musica avrà anche compiuto grandi progressi fino ai giorni nostri, ma quanto più si è andata affinando la sensibilità per i suoi meravigliosi effetti uditivi, tanto più è andato scemando l'interesse intellettuale per i suoi autentici principi. Jean-Philippe Rameau , Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels.

INDICE PREMESSA Breve introduzione Curriculum di studio dell’autore CAPITOLO I 1.1 I punti di fissità dell’occhio 1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto 1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma 1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi 1.5 Terza associazione: praticare le associazioni precedenti 1.6 Introduzione pratica al ritmo musicale 1.7. La messa in pratica: l’origine delle maggiori difficoltà CAPITOLO II 2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo 2.2 Introduzione pratica alla lettura degli accordi 2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi 2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni 2.5 Metodo per agevolare la lettura di trìadi e settime 2.6 Introduzione alla composizione delle scale 2.7 Introduzione pratica alla melodia 2.8 L’ambiguità della tastiera 2.9 Intervalli consonanti e dissonanti 2.10 Una cattiva abitudine: leggere sempre nota per nota CAPITOLO III 3.1 Introduzione pratica all’armonia

3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore 3.3 Concatenare trìadi in stato fondamentale CAPITOLO IV 4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro 4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra CAPITOLO V 5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori 5.2 Postura fondamentale del tronco e degli arti superiori 5.3 Introduzione pratica al tocco 5.4 I tasti neri: gli unici riferimenti puramente tattili 5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo 5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità 5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte 5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica CAPITOLO VI 6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio 6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento 6.3 Seconda fase della ripetizione: l’intero 6.4 Introduzione pratica allo studio delle scale 6.5 La posizione fondamentale della mano nelle scale 6.6 Schematizzare le acquisizioni discorsive nelle scale 6.7 Mettere in pratica il circolo delle quinte nelle scale 6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano 6.9 Concepire armonicamente le scale 6.10 Ridurre il margine di errore nelle scale CAPITOLO VII

7.1 Introduzione pratica allo studio degli intervalli armonici 7.2 Lo studio degli accordi: Czernyana, Volume I 7.3 Introduzione pratica allo studio degli intervalli melodici 7.4 Introduzione pratica allo studio dei rivolti di arpeggio CAPITOLO VIII 8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza 8.2 Introduzione pratica all’articolazione 8.3 Introduzione pratica all’appoggio 8.4 Introduzione pratica all’uguaglianza 8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte INDICE DEI CONCETTI BIBLIOGRAFIA

PREMESSA Breve introduzione Questo manuale ha un preciso intento didattico: quello di rappresentare un compendio d’indicazioni propedeutiche atte a orientare il lettore nei suoi primi studi musicali. È stato scritto con passione e umiltà da uno studente di pianoforte che per quattro anni si è impegnato nel ridurre le sue scoperte e i suoi pensieri a quelle che reputa le nozioni essenziali da afferrare per iniziare a costruire su basi solide l'edificio della propria formazione musicale. Questo per due motivi: in primo luogo, perché in passato avrebbe voluto poter leggere certe indicazioni da qualche parte, prima di commettere gravi sviste; in secondo luogo, per permettere di capire in maniera lampante che lo studio del pianoforte richiede di predisporsi a un ragionamento che non sia distaccato dall’emotività,

unica componente con la quale si può costruire un percorso di studi metodico: non c'è bisogno di nascere con uno smisurato talento per poter iniziare a lavorare sulle proprie conoscenze musicali. Ciò detto, l'autore sottolinea l'importanza di considerare questo libro alla stregua di una indicazione propedeutica assolutamente insostituibile alla scelta di un Maestro, di cui questo volume, al limite, si occuperà di mostrare l'importanza. Curriculum di studio dell’autore Matteo Malafronte, classe 1996, s'iscrive all'età di otto anni presso la scuola di musica Massimo Isidori. Una volta ricevuti i rudimenti musicali e sostenuto a nove anni un primo recital di pianoforte presso il Castello Orsini, lascia l'associazione per tornare in Piemonte e, appassionatosi nel contempo a vari strumenti tra i quali la chitarra, inizia a dedicarsi interamente allo studio del pianoforte. Riceve privatamente la sua prima formazione pianistica come allievo della concertista giapponese Kaori Matsui, vincitrice del trofeo "KAWAI" come "miglior esecuzione di musica del XX secolo". Successivamente viene ammesso al Conservatorio Guido Cantelli di Novara come studente di pianoforte del Maestro Giuseppe Andaloro, premio Busoni. Prosegue gli studi nello stesso conservatorio con la concertista, musicologa e teologa Chiara Bertoglio, la più giovane diplomata all'Accademia S. Cecilia di Roma. Nel 2018 entra nel coro da camera del suo conservatorio, partecipando poi come corista a un "Didone ed Enea" presso il Teatro Civico di Biella, esperienza incoraggiata dagli scopi formativi di un'attività corale che lo impegnerà nella incisione di un disco (CENTORIO, Marco Antonio; HEREDIA, Pietro. Mottetti, Inni e Antifone . Londra: Elegia, 2019) come cantore del Coro dell’Arcidiocesi di Vercelli, diretto dal Maestro Mons. Denis Silano. Nello stesso anno inizia una collaborazione con il Teatro Civico di Vercelli per il celebre Festival Viotti. Tra il 2019 e il 2020 entra nel corso propedeutico di composizione e direzione corale del suo conservatorio, che tutt'ora frequenta sotto la guida del Maestro Giulio Monaco. Dal 2018 studia pianoforte sotto la guida del Maestro Alessandro Marangoni, allievo della leggendaria pianista napoletana Maria Tipo.

CAPITOLO I

1.1 I punti di fissità dell’occhio Anche se non si è mai preso in mano uno spartito musicale, bisogna sapere sin dal principio che, per aumentare confidenza e velocità di lettura, è necessario ridurre al minimo il tempo in cui il cervello interpreta e risolve le problematiche che gli vengono proposte dalla musica scritta. Leggere la musica non significa avere un occhio veloce, ma saper cogliere ciò che è scritto sulla partitura . È il cervello che deve essere “allenato” e non i muscoli dell’occhio. Per lasciare il minor tempo possibile l’occhio fermo su un elemento o su un gruppo di elementi musicali, si deve iniziare dalla comprensione di ciò che è scritto sulla carta. Nel fare questo, non bisogna prendere troppo alla lettera gli insegnamenti di alcune scuole. Talvolta nelle accademie s’insegna che “è fondamentale abituare l’occhio a guardare sempre più avanti rispetto a ciò che si sta leggendo”; o ancora che “l’occhio leggendo non deve mai fissarsi o tornare indietro”. Ora, è pur sempre il cervello a governare l’occhio , e se a quello viene chiesto di fermarsi o di tornare indietro non è abituandolo meccanicamente a guardare solo avanti che si acquisisce confidenza con la lettura. Anche iniziare a leggere più di un nome di nota per volta è fondamentale per avere orientamento nella lettura della musica, esattamente come in queste parole si sta leggendo più di una lettera per volta trasformando le associazioni che posizioni e forme delle lettere stabiliscono tra loro in parole ricche di significato. Questa capacità di sintetizzare a colpo d’occhio più elementi si ottiene attraverso la concentrazione e la comprensione, non attraverso soluzioni meccaniche: questo manuale intende favorire l’acquisizione di tale capacità. Entro certi limiti, il percorso qui proposto prescinde dall’età di chi lo intraprende. Questo a patto che si leggano e si chiosino tutti i paragrafi seguenti nel loro ordine. 1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto

La scala fondamentale è semplicemente quell’insieme di sette nomi di note che si conosce sin da piccoli, quindi do-re-mi-fa-sol-la-si ; può essere considerata una scala fondamentale anche re-mi-fa-solla-si-do , fatto dal quale si capisce che questa viene definita indipendentemente dal punto in cui la si inizi a leggere. L’aspetto circolare della scala fondamentale , per cui si può proseguire nella sua lettura partendo da un dato nome di nota fino a rincontrarlo, sarà chiarito tra poco. Definendo la scala fondamentale si è fatto riferimento ai nomi delle note: ciò non è un caso, perché non ci si sta riferendo ancora ai suoni , fatto che in un certo senso al momento semplifica il lavoro. Al momento ci si soffermerà sui soli nomi delle note , non sui suoni a cui verranno associati questi nomi . Prima di proseguire nella lettura di questo manuale, è fondamentale praticare la pronuncia a voce dei nomi delle note . Si potrebbe dire per esempio, per il momento senza cantare [1] , solo parlando, do re mi fa sol la si, concentrandosi e assimilando i nomi delle note una per una, per poi ripetere la scala fondamentale al contrario, quindi si la sol fa mi re do, partendo poi una volta dal re , per tornare al re inferiore e poi a quello superiore, una volta dal mi facendo la stessa operazione, e così via per ogni nome nella scala fondamentale , facendo attenzione a non pronunciare più nomi del dovuto. Nei capitoli successivi si comprenderà perché questo esercizio sulla sola pronuncia dei nomi delle note sia necessario e consigliato dai più autorevoli trattati [2] . Nessuno o pochi manuali, pochissimi tra i più autorevoli, si soffermano così a lungo su questo aspetto che in realtà rappresenta l’unica base didattica, e non divulgativa, per costruire solidamente l’edificio dei propri studi sulla lettura musicale al pianoforte. I sette nomi delle note che compongono la scala fondamentale sono presupposti a qualsiasi ambito della nostra musica . Sono presupposti alle composizioni più semplici, ma anche a quelle più complesse, in altre parole non ci sono più di sette nomi di note nell’intero ambito dei nostri studi . Con il termine nostra musica o nostri studi ci si riferirà da questo momento alle composizioni del periodo tonale , ossia quel periodo storico che va dal Settecento al Novecento [3] e che rappresenta un

importante punto di partenza per la musica che si ascolta oggi: nel corso di questi pochi secoli, è stato scritto pressoché ognuno degli studi pianistici elementari tutt'ora adottati dalla maggior parte dei Maestri per le prime esercitazioni dei propri allievi [4] . I nostri sette nomi di nota valgono indipendentemente dalla difficoltà e dall’articolazione della composizione : stando al loro aspetto nominale , e come già detto non acustico [5] , i nomi delle note saranno sempre sette, ai quali si aggiungeranno quando necessario degli attributi detti accidenti o segni di alterazione [6] (a esempio: sol diesis ). In questa fase non ci si occuperà degli accidenti, poiché non fanno parte della scala fondamentale : si approfondirà per il momento la necessità di effettuare tre importanti associazioni con questa sequenza di nomi delle note , alla quale si aggiungeranno in un secondo momento degli attributi . Delle prime due associazioni, che sono le più importanti se si desidera avere solide basi di lettura musicale, si tratterà approfonditamente in questo manuale; s’introdurrà poi il lettore alla terza associazione, da trattarsi con un Maestro, poiché rappresenta una fase più avanzata di studio. Ecco riassunte le tre associazioni di cui ci si occuperà nei paragrafi seguenti: 1)

Associazione dei sette nomi delle note (detti scala fondamentale ) con la loro posizione sul pentagramma.

2)

Associazione dei sette nomi delle note (detti scala fondamentale ) con la loro posizione sui tasti bianchi del pianoforte.

3)

Una volta approfondite queste prime due fasi di associazione, queste dovranno essere a loro volta associate tra loro . Si spiegherà in seguito come, anche se questa terza fase rappresenta l’inizio dello studio vero e proprio allo strumento, un momento delicato e personale che dovrà essere seguito da un Maestro.

1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma La prima delle tre fasi di associazione è quella tra la scala fondamentale e le posizioni delle righe e degli spazi che compongono il pentagramma (fig. 1).

Figura 1

Il pentagramma rappresenta ormai simbolicamente, insieme alla chiave di violino (fig. 3), di cui ci si occuperà a breve, la musica in tutti i suoi aspetti. Ma se come simbolo rappresenta l’ambito musicale e la cultura musicale in genere, all’atto pratico, come segno , rappresenta tecnicamente una schematizzazione della scala fondamentale . Questo vuol dire che a partire da un qualsiasi punto del pentagramma è possibile sempre attraversare, salire, percorrere la scala fondamentale e, a seconda della direzione, anche scenderla: se si procede verso l’alto, sul pentagramma , si sta salendo la scala fondamentale , viceversa la si sta scendendo. Il pentagramma ha cinque righe e quattro spazi (fig. 1): è possibile associare a una qualsiasi di queste righe un nome della scala fondamentale (per esempio sol ). Così facendo, a partire dalla riga che si è associata arbitrariamente al sol , e andando verso l’alto contando tutte le righe e tutti gli spazi si salirà sulla scala fondamentale . Quindi se quella riga era il sol , lo spazio immediatamente più sopra è il la , la riga immediatamente più sopra sarà il si , poi s’incontrerà do, re, mi, fa, sol … Finché la scala fondamentale ricomincerà da capo. Attenzione, il fatto che la scala fondamentale ricominci da capo, non sta a significare che si debba ricominciare a considerare anche il pentagramma dal punto di partenza: si vedrà tra poco perché. Da questo si capisce che, in virtù del fatto che la scala fondamentale si ripete più volte, si troverà su altezze diverse del pentagramma uno stesso nome di nota associato a più righe o a più spazi. Esemplificando: se ho stabilito che una riga

è il do , contando righe e spazi del pentagramma posso attraversare la scala fondamentale fino a rincontrare una riga o uno spazio che si chiamerà di nuovo do . Le righe e gli spazi del pentagramma infatti superano il numero dei sette nomi delle note che compongono la scala fondamentale . Ora, per quanto riguarda il pianoforte, sul pentagramma la scelta di un nome di nota da associare a una determinata riga o a un determinato spazio non è casuale come nell’esempio appena preso in esame. Ogni riga e ogni spazio del pentagramma hanno, di volta in volta, dei precisi nomi di nota a loro associati. Questo perché si rifanno tutti a un unico punto di riferimento, detto chiave musicale . Il segno mostrato qui di seguito è una chiave musicale, chiamata in senso generico chiave di sol (fig. 2):

Figura 2

In senso specifico questo stesso segno può prendere, tra gli altri, il nome di chiave di violino (fig. 3):

Figura 3

Nelle due immagini (fig. 2 e 3) è possibile notare alcune differenze. La prima immagine rappresenta, in senso generico , la chiave di sol (fig. 2) in quanto tale segno è rappresentato a prescindere dal pentagramma (fig. 1). In entrambi i casi, questo segno indica sempre il nome sol , ma per indicarlo sul pentagramma deve essere scritto a

partire da una determinata riga. La seconda immagine (fig. 3) rappresenta lo stesso segno che, scritto sulla seconda riga [7] , assume un valore in senso specifico e viene detto chiave di violino . Se fosse stato scritto a partire dalla prima riga del pentagramma si sarebbe parlato di chiave di violino francese, che è pur sempre una chiave di sol , dato che indica come punto di riferimento il sol e il suo segno grafico è lo stesso. Niente paura, nella musica scritta per pianoforte la chiave di violino francese , antica e caduta in disuso, non s’incontra. Si è voluto introdurla solo per fare chiarezza sul fatto che le chiavi rappresentano [8] dei veri e propri punti di partenza per l’associazione della scala fondamentale al pentagramma , dal momento che ne determinano la “ inquadratura ”, per usare una metafora cinematografica. La scrittura che definisce una partitura strettamente pianistica è sempre la seguente (fig. 4):

Figura 4

Si tratta di un doppio pentagramma (fig. 4), formato dall’unione, attraverso una parentesi graffa, di due pentagrammi , sui quali vengono poste rispettivamente due chiavi : in alto, la chiave di violino (fig. 3), in basso la chiave di basso (fig. 6) che ha come nome generico chiave di fa (fig. 5):

Figura 5

La stessa chiave viene poi detta in senso specifico chiave di basso (fig. 6) poiché indica che quel fa è da associarsi alla quarta riga del pentagramma .

Figura 6

In altre parole, quando si scrive una chiave di sol (fig. 2) a partire dalla seconda riga del pentagramma superiore, si dà a quella riga il nome sol . Nello stesso tempo la chiave di sol, in virtù del fatto che in questo modo risulta contestualizzata in una precisa posizione poiché è scritta sulla seconda riga e non sulla terza o sulla quarta e così via - prende il nome specifico di chiave di violino ( fig. 3 ) . Lo stesso discorso vale per la chiave di basso (fig. 6 ) , chiamata in questo modo perché indica che la quarta riga del pentagramma può contenere solo dei fa, nonostante il suo segno, chiamato in senso generico chiave di fa (fig. 5), possa prendere diversi nomi specifici : oltre a quello di chiave di basso (fig. 6), anche quello di chiave di baritono qualora dovesse essere scritto nel contesto della terza riga del pentagramma . Come si è già precisato, non occorre preoccuparsi: al pianoforte si troverà sempre e solo una chiave di violino (fig. 3) sul pentagramma superiore e una chiave di basso (fig. 6) su quello inferiore. Non è necessario ricordare i nomi specifici di tutte le altre chiavi introdotte, perché queste non sono impiegate nella lettura strettamente pianistica. A esempio, nell’immagine qui di seguito, a sinistra della chiave di fa baritono , si trova un terzo e ultimo segno di chiave , quello che identifica in senso generico la chiave di do e che in questo contesto prende il nome di chiave di do baritono (fig. 7).

Figura 7

Il fatto che il nome generico della chiave non cambi in base alla riga sulla quale posta è facilmente deducibile con questo esperimento: si osservi l’immagine delle due chiavi di do e fa baritono qui in alto [9] . Partendo dalla riga sulla quale è posta la chiave di fa , e proseguendo verso l’alto, contando tutte le righe e tutti gli spazi si finirà per incontrare la chiave di do proprio sulla riga del do . Dato che la musica non è nata con il pianoforte, e che questo rappresenta solo uno dei tanti strumenti attraverso i quali è possibile leggere la musica, quelle che al momento sembrano informazioni superflue sono in realtà dei “bocconi” che si aiuterà a “digerire” gradualmente nel corso del manuale: sono fondamentali sul piano didattico, perché permetteranno di comprendere i motivi che stanno dietro la scelta di adottare determinate convenzioni di lettura per questo strumento. Molti manuali partono con la premessa di una visione rigida delle due chiavi e del pentagramma : in questo modo molto spesso la chiave posta in alto viene concepita in senso astratto da quella posta in basso, oppure ci si concentra esclusivamente sul problema di associare le due chiavi al pentagramma , problema che in realtà, come si dimostrerà tra poco, non sussiste. Fatte queste premesse, forse inizialmente ostiche, sulla “inquadratura” del pentagramma coi tre segni di chiave esistenti, dei quali i nomi generici sono rispettivamente di fa do e sol , verrà enormemente semplificato l’imminente processo di apprendimento della lettura. Fortunatamente

per quanto riguarda le composizioni pianistiche, all’atto pratico, la questione è molto semplice: si legge su un doppio pentagramma che presenta in alto una chiave di violino e in basso una chiave di basso . Si può dire che non ci siano varianti a questa configurazione. Provo allora a partire da uno di questi due punti di riferimento, dalla chiave di violino (fig. 3), e a procedere verso l’alto fino a rincontrare una riga o uno spazio del pentagramma che abbia nuovamente il nome sol (fig. 8).

Figura 8

Nell’esempio (fig. 8) si procede dalla seconda riga del pentagramma , sulla quale si trova la chiave di violino , contando ogni riga e ogni spazio, salendo sulla scala fondamentale e ottenendo sol-la-si-do-remi-fa-sol . Ora che so che il nome di nota più in alto degli altri è sol , posso pensare di iniziare a contare da quello per scendere sulla scala fondamentale fino a rincontrare il sol della chiave, ottenendo sol-fa-mi-re-do-si-la-sol (fig. 9):

Figura 9

Questi segni che uso per indicare una riga o uno spazio del pentagramma hanno un preciso nome, ossia figure ritmiche . Se ne riparlerà dettagliatamente in seguito. Tornando all’esempio: procedendo come spiegato, si è incontrato di nuovo uno spazio con nome sol senza dover andare oltre l’estensione del pentagramma . Tuttavia, l’estensione del pentagramma si può superare: è sufficiente aggiungere delle righe “in più”; queste permettono di raggiungere altezze del pentagramma che altrimenti non si potrebbero considerare. Tali righe addizionali vengono chiamate tagli addizionali (fig. 10):

Figura 10

Si possono porre, come mostra l’esempio, verso l’alto o verso il basso rispetto al pentagramma . Naturalmente estendendo le righe del pentagramma se ne estenderanno anche gli spazi. In altre

parole, potrò scrivere un nome di nota su una riga del taglio addizionale (fig. 11):

Figura 11

Oppure su un suo spazio (fig. 12):

Figura 12

Si può usare un numero indefinito di tagli addizionali , a seconda della necessità. Chiaramente, non bisogna mai scrivere più di quelli necessari a indicare un determinato nome di nota . Quando si inizia a leggere la musica non se ne incontrano generalmente più di tre verso l’alto o verso il basso per ciascun pentagramma . La questione dei tagli addizionali sembra aver complicato ulteriormente la lettura della musica, e generalmente quando qualcuno sente che il pentagramma si può estendere a piacimento pensa che non imparerà mai a leggere la musica. In realtà si esporrà a breve una tecnica, sistematizzata dall’autore, estremamente valida per non doversi preoccupare affatto dei tagli addizionali e memorizzare in pochi minuti le posizioni dei nomi delle note sul pentagramma . Prima di trattare di questa tecnica, è necessaria un’ulteriore considerazione. La musica per pianoforte, come si è detto, si legge su un doppio pentagramma , quindi su due pentagrammi , che impiegano rispettivamente chiave di violino , nel pentagramma superiore, e chiave di basso , nel pentagramma inferiore. Deve

essere subito chiaro, quindi, che un pianista potrà incontrare dei tagli addizionali in chiave di basso così come in chiave di violino (fig. 13).

Figura 13

Ci si sofferma ora su questo ultimo esempio (fig. 13). Partendo dalla riga del fa indicata dalla chiave di basso , ossia la quarta riga del pentagramma inferiore, e andando verso l’alto, s’incontra il do sul primo taglio addizionale (fig. 14):

Figura 14

Si può incontrare lo stesso do anche procedendo verso il basso a partire dalla riga del sol indicata dalla chiave di violino , ossia dalla seconda riga del pentagramma superiore (fig. 15):

Figura 15

Si comprende che le due chiavi hanno qualcosa in comune (fig. 16).

Figura 16

Quei due nomi di nota cerchiati (fig. 16) sono lo stesso nome di nota scritto in modo diverso, ossia, rispettivamente, una volta partendo dalla chiave di basso e una volta partendo dalla chiave di violino . Ciò è dimostrato dal fatto che se da quel punto comune, cerchiato

nell’esempio, si continuasse a scendere dalla chiave di violino , si otterrebbe un si dentro uno spazio esattamente come accadrebbe se si scendesse in chiave di basso (fig. 17):

Figura 17

Viceversa, se si salisse da quel punto, si troverebbe in chiave di basso un re dentro uno spazio, esattamente come accadrebbe in chiave di violino (fig. 18 ) :

Figura 18

E da quel punto in avanti, verso l’alto o verso il basso, tutte le righe e gli spazi sarebbero sovrapponibili [10] . Questo significa che, potendo usare un illimitato numero di tagli addizionali , tutti i nomi di note posti in chiave di basso potrebbero essere scritti in chiave di violino e viceversa. Per esempio, se volessi scrivere il fa associato dalla chiave di basso alla quarta riga del pentagramma inferiore impiegando però la chiave di violino , potrei farlo in questo modo in virtù della struttura del doppio pentagramma (fig. 19):

Figura 19

Viceversa, impiegando invece la chiave di basso per indicare il sol associato dalla chiave di violino alla seconda riga del pentagramma superiore, si otterrebbe questo (fig. 20):

Figura 20

Lo stesso ragionamento si può fare per la chiave di do , a cui si è fatto riferimento per completezza, dato che rappresenta l’unico altro segno di chiave riscontrabile nella nostra musica . La chiave di do indica che tutti i nomi di nota posti in corrispondenza della riga sulla quale viene scritta sono dei do ; si potrebbe allora idealmente immaginarla proprio al centro di queste due chiavi . Una volta ottenuta un’immagine chiara della posizione di questo segno di chiave , è possibile immaginarlo a piacimento su una riga qualsiasi del pentagramma singolo: a cambiare sarà solo la differente inquadratura del pentagramma . Avendo sempre in mente il doppio pentagramma che si usa per leggere la musica al pianoforte è possibile in questo modo iniziare a leggere in qualsiasi chiave , dal momento che, come si è visto, i segni di chiave hanno solo tre nomi generici che non cambiano a seconda della loro posizione, mentre acquistano un nome specifico solo in base all'inquadratura che fanno del doppio pentagramma . Pertanto, la necessità di prendere una confidenza assoluta con le due chiavi di violino e basso è palese. Infatti, partendo da queste due, e avendo perciò sempre in mente il doppio pentagramma , è possibile leggere la scala fondamentale associata al pentagramma in qualsiasi altra chiave e in qualsiasi altra partitura che non sia per pianoforte. Considerando per esempio una chiave di fa baritono , ossia una chiave di fa scritta sulla terza riga anziché sulla quarta, notiamo come questa si occupi di inquadrare una porzione diversa di doppio pentagramma . In tale

considerazione, è il pentagramma a spostarsi sul doppio pentagramma , e non la chiave , che indica sempre lo stesso nome di nota in virtù del suo segno. Questo concetto, adesso forse non pienamente “digeribile”, sarà naturalmente chiarito una volta acquisita familiarità con la lettura. Per padroneggiarla, si esporrà dunque una tecnica di associazione sistematizzata dall’autore che risulta essere inedita. Come si è detto, il pentagramma , che abbia chiave di violino o di basso , non va comunque oltre i tre tagli addizionali nella maggior parte dei casi che si incontrano nelle prime fasi di studio. Il motivo risiede nell’estensione dei tipi vocali , di cui si tratterà nei prossimi capitoli. Se gli sconfinamenti oltre i tre tagli addizionali sono più rari in questo primo momento degli studi, va da sé che ci si debba concentrare su un fatto importante: entro tre tagli addizionali , verso l’alto o verso il basso, non si incontra più di tre volte lo stesso nome associato a una riga o a uno spazio del pentagramma . A esempio, il sol , rimanendo nell’orizzonte dei tre tagli addizionali verso l’alto o verso il basso, si incontra in questi tre casi (fig. 21):

Figura 21

Questi sono i tre sol che si possono incontrare in chiave di violino , rimanendo entro l’estensione dei tre tagli addizionali . Facendo un semplice calcolo, se i nomi delle note sono sette, va da sé che le righe e gli spazi del pentagramma risultano essere così tanti per il semplice motivo che devono contenere su altezze diverse tre volte i

sette nomi di nota della scala fondamentale . Ecco un altro esempio con il nome di nota si (fig. 22):

Figura 22

Se i nomi delle note si ripetono tre volte, è necessario ragionare su quanto segue: se si riuscisse a stabilire una sola associazione per questi gruppi da tre, non si dovrebbero memorizzare più di sette elementi per ogni chiave . I nomi delle note sono infatti pur sempre sette, anche se ciascuno di essi si ripete tre volte all’interno di questa estensione di pentagramma presa in considerazione. Ecco il metodo proposto: si prendano in considerazione le posizioni del si (fig. 23).

Figura 23



In un primo momento, si deve immaginare il si che sta al centro come un naso, e i si ai lati come le due orecchie del pentagramma , di cui i tagli addizionali sono la sagoma del viso dal quale sporge l’orecchio;



In un secondo momento, si deve immaginare il più vividamente possibile che questa buffa faccina fatta da un naso e due orecchie si scuota su e giù come a dire “sì”, così forte che le sue due orecchie si muovono.

Ecco memorizzate in un attimo le tre posizioni del nome di nota si . Come questa, è necessario stabilire altre sei associazioni: una per ogni nome delle note che compongono la scala fondamentale . Vediamo anche il caso del sol , dato che prima è stato preso in esempio (fig. 24):

Figura 24



Riguardo il sol al centro, quello scritto in corrispondenza della seconda riga del pentagramma , non è necessario sforzarsi per costruire un’associazione, poiché è indicato chiaramente dalla chiave ;



A partire da quello, si può pensare al sol come a un sole al tramonto, dato che i due termini suonano molto simili ( sol sole), e immaginare quello in basso come lo stesso sole

riflesso sull’acqua oltre la quale sta tramontando: i due tagli addizionali ne rappresentano appunto i riflessi sull’acqua; ●

Il sol in alto invece, dato che sta sopra a tutte le righe e tutti gli spazi del pentagramma , potrebbe essere un bagliore nel cielo, come quei riflessi che molto spesso si trovano nelle fotografie.

Naturalmente ognuno deve trovare le proprie associazioni , e non è necessario immaginare forzatamente ciò che si sta suggerendo. Quello che bisogna sapere è che, in questa maniera, sono state memorizzate già due posizioni su sette, in altre parole si è quasi a metà del lavoro per quanto riguarda il pentagramma sul quale è scritta la chiave di violino . Non bisogna dimenticare infatti che le sette associazioni costruite per quanto riguarda la chiave di violino devono essere stabilite anche per la chiave di basso , per un totale di quattordici associazioni complessive. Al fine di ottenere risultati efficaci , bisogna attuare delle differenze tra le associazioni stabilite per la chiave di basso e quelle stabilite per la chiave di violino : a esempio si potrebbero prediligere immagini cupe e scure, e invece associare alla chiave di violino solo immagini radianti e luminose. In questo modo non si potranno confondere le associazioni per immagini fatte tra le due chiavi e il lavoro di memorizzazione di queste posizioni, che sembra per molti uno scoglio insormontabile, richiederà non più di un pomeriggio. Una volta effettuato questo lavoro, non sarà più necessario ragionare in modo macchinoso su quale sia la posizione di un determinato nome di nota, partendo a contare di volta in volta dal riferimento della chiave . La prima fase d’associazione sarà in questo modo completa. Si tratterà poi solo di leggere, leggere e leggere, rievocando nella propria mente queste immagini fin quando non sarà più necessario risalire all’associazione per ricavare il nome della nota (a esempio pensare al sole per risalire al sol ) poiché questa avverrà immediatamente, senza più passare dalle immagini . Ecco uno schema utile ad applicare questa tecnica in entrambe le chiavi pianistiche, con i nomi delle note associati a

precise posizioni sui due pentagrammi , ordinate secondo il metodo proposto (fig. 25):

Figura 25

1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi La seconda delle tre fasi di associazione prevede che sulla tastiera di un pianoforte a ottantotto tasti si debbano far coincidere i tasti bianchi a quella che si è chiamata scala fondamentale (fig. 26).

Figura 26

Fin dal principio, bisogna comprendere che per stabilire questa associazione non ci si può basare, come comunemente si pensa, direttamente sui tasti bianchi. Infatti, occorre prima fare riferimento ai tasti neri, perché sono disposti lungo la tastiera in due serie nettamente separate da uno spazio. Queste serie di tasti si ripetono in sequenza, una da due tasti neri e una da tre tasti neri (fig. 26). I tasti bianchi invece sono disposti in un’unica serie, anonima sia da un punto di vista tattile che visivo. Non possono quindi rappresentare un punto di riferimento efficace per il presente lavoro di associazione. Pensando ai tasti neri per risalire a quelli bianchi, e non soltanto ai tasti bianchi, si trova immediatamente la posizione di ogni componente della scala fondamentale . La capacità di individuare immediatamente un tasto bianco senza basarsi sui tasti bianchi che ha vicino è fondamentale, perché durante un'esecuzione al pianoforte non si suona soltanto su tasti che si susseguono. Al contrario, potrebbe manifestarsi la necessità di leggere e individuare sulla tastiera un do immediatamente seguito da un sol che quindi non gli è adiacente nella scala fondamentale , oppure di dover fare un grande salto con la mano da un estremo all’altro dello strumento. Dato che i tasti bianchi sono disposti in un’unica serie, se davvero ci si volesse basare solo su questi, si dovrebbe partire ogni volta calcolando macchinosamente da un unico punto di riferimento e non semplicemente pensando alla relazione che un determinato tasto bianco ha con i suoi vicini tasti neri. È facile capire che questo non sia corretto. Invece, avendo come riferimento i tasti neri, è possibile individuare la posizione di ogni nome delle note immediatamente e semplicemente pensando alla relazione che un determinato tasto bianco ha coi tasti neri adiacenti . Quest’ultima considerazione da sola non basta e lo si dimostrerà con il seguente esempio: nel caso del sol non è scontato sapere quale dei suoi due vicini tasti neri si debba effettivamente prendere in considerazione per risalire al suo relativo tasto bianco, dal momento che gli sono vicini allo stesso modo. Lo stesso accade con il la e con il re . Anche in questo caso, si esporrà il metodo di studio sistematizzato dall’autore per procedere con il presente lavoro di associazione.

Si metta in pratica quanto scritto di seguito toccando la tastiera a occhi chiusi, partendo dai rispettivi estremi destro e sinistro delle due serie dei tasti neri (fig. 27):

Figura 27

Il motivo teorico dietro la scelta di questo punto di partenza si dedurrà in seguito, nel paragrafo sulla messa in pratica del circolo delle quinte (par. 6 - Cap. II): non è ancora il momento di introdurre argomenti così complessi, si invita quindi a proseguire la lettura se lo si vuole comprendere fino in fondo. Il motivo pratico è invece già deducibile: il do, preso in considerazione come tasto bianco, ha un solo tasto nero adiacente; lo stesso accade per gli altri tasti presi in considerazione (il mi , il fa e il si ). Questo primo insieme di tasti bianchi appartiene alla zona del pianoforte più semplice da individuare da un punto di vista tattile, ossia allo spazio che intercorre tra le due serie dei tasti neri. Non sono tuttavia i tasti più semplici da abbassare poiché, stando alle considerazioni fatte finora, presentano delle caratteristiche comuni: infatti i tasti del do e del fa hanno un tasto nero alla loro destra e i tasti del mi e del si hanno un tasto nero alla loro sinistra. Oltre a questo, si aggiunge il fatto che gli stessi tasti possono essere abbassati da una qualsiasi delle dita d’una mano. Abbassando, a esempio, il do col mignolo ed estendendo le altre dita a mano ferma verso i tasti neri, non sarà possibile capire cosa c'è alla sinistra di questo tasto : questo sarà facilmente confondibile con re , fa , sol e la . La confusione sarà ancora maggiore se invece di orientarsi con i tasti neri lo si fa con

quelli bianchi, ossia quello spazio che sta tra le due serie di tasti neri, dato che questo spazio non è da considerarsi come “uno spazio formato da due tasti bianchi”, ma al contrario come una precisa distanza tra le due serie di tasti neri o, al limite, come un’assenza degli stessi dalla quale ricavare i due tasti bianchi. È necessaria allora una sensibilità diversa, che parte dal modo in cui le serie dei tasti neri vengono a trovarsi rispetto alla serie dei tasti bianchi. Si osservi nuovamente a occhi aperti la tastiera , facendo caso stavolta alle differenti distanze con cui i tasti neri si distribuiscono sugli adiacenti tasti bianchi nelle due direzioni (fig. 28):

Figura 28

Com’è evidenziato da questo schema (fig. 28), tutte le dieci distanze sono a volte più piccole, a volte più grandi. Si osservi scrupolosamente la tastiera : queste distanze non sono tutte uguali. Dal momento che un dito non può procedere in entrambe le direzioni della tastiera contemporaneamente , è estremamente

utile evidenziare quanto segue: queste dieci distanze, se divise in due gruppi (uno ascendente e uno discendente) da cinque, sono tutte uniche tra loro nei due sensi. Procedendo verso destra, nessuna distanza tra un tasto bianco e il successivo tasto nero è uguale; lo stesso accade procedendo nell’altro verso della tastiera . L’unico riferimento tattile a cui ci si affiderà da questo momento in avanti sarà, quindi, quello delle distanze dei tasti neri rispetto ai loro rispettivi due tasti bianchi adiacenti. Sarà necessario ora sviluppare una sensibilità del tutto particolare per questo tipo di distanza, praticando, attraverso il solo tatto, l’individuazione dei tasti bianchi attraverso la sensazione dei tasti neri: durante questa pratica non si dovrà guardare la tastiera ma la parte superiore del pianoforte, dove normalmente si troverebbe lo spartito . Ai fini della lettura, si sconsiglia di eseguire questo esercizio a occhi chiusi: si dovrà guardare in un primo momento il punto in cui normalmente si troverebbe lo spartito, e poi ripetere l’esercizio guardando punti differenti della stanza in cui ci si trova [11] , in ogni caso mai la tastiera o le proprie mani . Si inizierà individuando i tasti presi in esame finora, quindi il do , il mi , il fa e il si proseguendo poi con re , sol e la . In seguito, si potrà rilevare che le distanze prese in esame sono simmetriche a partire dai centri delle due serie di tasti neri (fig. 29). Quest’ultima considerazione sarà ripresa e approfondita in seguito (par. 10 - Cap. VI) dimostrandone la fondamentale importanza tecnica.

Figura 29

Per capire pienamente le considerazioni fatte fino a questo punto, è importante riconoscere che c’è un’enorme differenza tra un pianista e un neofita della lettura. Per un pianista, le considerazioni fatte finora risultano troppo marginali, mentre per un neofita sarà necessario seguirle alla lettera. Occorre iniziare a costruire con umiltà a partire dalle piccole forme, riconoscendo in altre parole che non si può apprendere soltanto per imitazione . Se così fosse, basterebbe guardare la ripresa del concerto di un grande pianista per imparare a suonare come lui. Ma apprendere in questo modo sarebbe come tentare di correre i cento metri solo guardando un atleta. Per quanto gli si possa chiedere di correre a rilento per studiare in dettaglio la struttura dei suoi movimenti, ognuna delle sue mosse è il frutto di una dura preparazione e di un costante allenamento. Così come l’allenamento preparatorio a cui l’atleta si sottopone non può essere chiaro per uno spettatore al momento della corsa, lo stesso è per un neofita che, guardando un pianista, si accorge che lui guarda le cose da una differente prospettiva e ha bisogno d’insistere su altri argomenti che non siano quello della

lettura. Pertanto, se questa ed altre considerazioni successive non avranno un riscontro diretto del lettore nelle registrazioni dei grandi pianisti, ciò non sarà a causa del fatto che il presente manuale o i pianisti in questione sbagliano: sarà così poiché le metodologie qui proposte sono da contestualizzarsi di volta in volta, in virtù del loro preciso scopo didattico. La maggior parte di queste metodologie servono a costruire le fasi di lettura che seguiranno, non già a essere praticate in un’esibizione concertistica. Ricapitolando quanto detto finora si ottiene quanto segue: partendo da un nome di nota e andando verso destra, sui tasti bianchi, si proseguirà sulla scala fondamentale ; andando verso sinistra si proseguirà sempre sulla scala fondamentale , ma all’inverso. Si troveranno quindi, a partire per esempio dal do , do re mi fa sol la si andando verso destra e do si la sol fa mi re andando verso sinistra. Da questo momento in poi si consiglia di non dimenticare che, qualsiasi sia il tasto bianco nominato nel presente manuale, questo sarà sempre da considerarsi nella sua relazione (destra o sinistra) e distanza (maggiore o minore, nei due versi) rispetto ai tasti neri. Con il tempo questo procedimento diverrà naturale e spontaneo. 1.5 Terza associazione: praticare le associazioni precedenti L’ultima delle tre fasi di associazione (riassunte alla fine del par. 2 Cap. I) consiste nel mettere in relazione i nomi delle note associate alle posizioni sul pentagramma con i nomi delle note associate ai tasti bianchi, quindi mettere in relazione il pentagramma alla tastiera .

Figura 30

Questo tipo di associazione può diventare scorrevole soltanto nella pratica della tecnica allo strumento [12] , ossia nel tempo passato a leggere, studiare in modo consapevole e ragionato la musica al

pianoforte. S’introdurrà il lettore allo studio approfondito della tecnica nei capitoli VI, VII e VIII. Il punto di partenza di questa terza fase d’associazione saranno sempre le due chiavi musicali del doppio pentagramma . La chiave di violino, infatti, indica che sulla seconda riga del pentagramma si trova un preciso sol e nessun altro , ossia quello che sulla tastiera corrisponde al quarto che s’incontra a partire da sinistra su un pianoforte a ottantotto tasti (fig. 31):

Figura 31

La chiave di basso , che è situata sulla quarta riga del pentagramma , indica invece il terzo fa che s’incontra contando da sinistra su un pianoforte a ottantotto tasti (fig. 32).

Figura 32

È evidente quindi che nonostante le due chiavi si leggano in modo diverso tra loro, in realtà fanno parte entrambe di un’estensione comune rappresentata dalla tastiera e dal doppio pentagramma . Lo si è visto in modo ancora più chiaro quando si è trattato della prima fase di associazione: tutti i nomi di nota scritti in chiave di violino possono essere scritti anche in chiave di basso e viceversa, impiegando dei tagli addizionali . Quel punto in cui il do della chiave di basso si incontra col do della chiave di violino viene chiamato do centrale , non per la sua posizione nella tastiera ma perché si trova al centro dell’estensione delle due chiavi di violino e basso .

Figura 33 [13]

1.6 Introduzione pratica al ritmo musicale Come si è visto nei paragrafi precedenti, i nomi di nota che compongono la scala fondamentale si associano solitamente al pentagramma attraverso dei precisi segni che vengono definiti segni ritmici . Lo si era già osservato da uno dei primi esempi, riportato di seguito come promemoria (fig. 34):

Figura 34

Perciò, quella che più avanti nel manuale si chiamerà nota , e non più soltanto nome di nota , sarà un insieme di tre componenti:

● ●

Una figurazione ritmica , per esempio ; Una precisa posizione sul pentagramma , quindi la precisa associazione con un nome (che eventualmente presenterà un attributo , di cui si tratterà nel par. 6 del Cap. II); ● Una precisa altezza sonora, ossia un suono , di cui si tratterà a seguire (par. 6 - Cap. II). Molti dei più autorevoli manuali d’introduzione alla teoria musicale non attuano una distinzione tra i costituenti di ciò che viene chiamato nota , ma iniziano a trattare direttamente delle note stesse e della loro componente sonora o ritmica. In questo libro invece verranno gradualmente distinti i singoli aspetti che definiscono ciò che nella nostra musica viene chiamato nota , così che il lettore possa assicurarsi di star prestando la stessa attenzione a ognuno di essi. [14] Nei paragrafi precedenti si è trattato della scala fondamentale e dei nomi delle note di cui è composta: in questo paragrafo si tratterà invece del ritmo . Di tale componente si può trattare approfonditamente con un Maestro di Teoria e Solfeggio, al momento tuttavia non si tratterà di questa materia : se ne vorrebbe far comprendere piuttosto, rispettando i fini di questo manuale, l’enorme importanza, così da introdurre la trattazione dei capitoli seguenti. S'indicheranno precisamente solo alcuni importanti suggerimenti per intraprendere il percorso sul significato ritmico della nostra musica , ma non si vorranno formulare né considerazioni complete sulla teoria musicale né sul Solfeggio, anche perché esistono già molti manuali che trattano in modo esaustivo di queste materie. Nelle considerazioni a seguire saranno introdotti molti termini tecnici: il loro unico scopo sarà quello di fornire i mezzi per comprendere che lo studio sul ritmo è imprescindibile, essendo una delle componenti più importanti della scrittura musicale . Per non complicarne l’apprendimento, ci si limiterà ora agli elementi ritmici di base, preponderanti nelle prime letture. Per scrivere le indicazioni ritmiche nella nostra musica si usano dei segni chiamati segni ritmici , distinti in due categorie: le figure ritmiche e le pause ritmiche . A queste due categorie si posso

accompagnare dei segni di prolungamento ritmico , come il punto di valore o la legatura di valore , di cui si tratterà in seguito [15] . Le figure ritmiche più usate nella nostra musica sono le sette seguenti (fig. 35):

Figura 35

Queste figure ritmiche indicano nel solfeggio parlato la durata della pronuncia del nome di nota alla quale sono associate, e nella pratica pianistica quella del suono associato al nome . Scritte in questo modo, tuttavia, non sono associate a nulla, dato che al pentagramma manca la chiave . Quest’ultima è l’unico riferimento per i nomi della scala fondamentale e anche per la precisa altezza dei suoni , poiché a partire dalla chiave si possono far corrispondere le righe e gli spazi del pentagramma ai tasti del pianoforte (fig. 33). Nell’esempio a seguire (fig. 35), le figure ritmiche sono state scritte tutte sul primo spazio del pentagramma . Tuttavia, può accadere di trovarle scritte su qualsiasi posizione (riga o spazio) del medesimo, dal momento che indicano, oltre al ritmo , anche il nome di nota che di volta in volta si associa alla loro posizione. In molti casi, quando le figure ritmiche provviste di un gambo - quella linea verticale che parte dalla loro testa e termina talvolta con una o più code - vengono scritte al di sopra della riga centrale del pentagramma , hanno il gambo rivolto in giù; viceversa, se vengono scritte al di sotto della riga centrale del pentagramma, lo hanno rivolto in su. Si è voluto presentarle in quest’ordine per rispettare gli scopi del presente manuale, ossia quelli di effettuare una trattazione graduale: all’inizio degli studi, vi saranno infatti maggiori occasioni di incontrare le figure ritmiche dai valori più grandi, ossia le prime nell’esempio (fig. 35). Queste figure hanno un valore assoluto , e

non - come a volte si dice - “relativo” [16] . Non valgono “un tot di secondi” o “un tot di minuti”, ma conservano indipendentemente dal contesto in cui si trovano un valore matematico ben preciso: rispettivamente, da sinistra a destra dell'immagine qui in alto, 4/4, 2/4, 1/4, 1/8, 1/16, 1/32, 1/64. Pertanto, la durata di queste figure non ha valore cronometrico, ma soltanto musicale e matematico. Si è detto che ognuna di queste figure vale la metà della figura ritmica che si trova alla sua sinistra. Lo stesso principio matematico vale per i segni ritmici che indicano la durata del silenzio, chiamati pause ritmiche (fig. 36):

Figura 36

A differenza delle sette figure ritmiche , le sette pause ritmiche sono generalmente scritte in una posizione fissa del pentagramma - quella mostrata qui sopra - indipendentemente dalla chiave scritta sul medesimo, proprio perché non si riferiscono direttamente a un suono ma al silenzio . L’unico altro modo in cui è possibile trovare scritta una pausa ritmica in una posizione differente rispetto a quella mostrata è indicato nell’esempio successivo (fig. 37). In un paragrafo a seguire sui differenti tipi vocali (par. 4 - Cap. II), si vedrà che - in un contesto particolare - la pausa ritmica può occupare una qualsiasi posizione del pentagramma , non solo quella mostrata nel prossimo esempio. Questo contesto è momentaneamente trascurabile: solo per completezza, se ne mostra anticipatamente uno dei possibili casi nell’immagine qui di seguito:

Figura 37

Un’altra differenza tra le figure ritmiche e le pause ritmiche è che le prime hanno dei nomi propri, a partire da sinistra dello schema riportato in precedenza (fig. 35): semibreve , minima , semiminima , croma , semicroma , biscroma , semibiscroma . Le pause ritmiche (fig. 36) invece, dato che condividono il valore matematico delle figure ritmiche , prendono il nome in riferimento a queste ultime (per esempio: pausa di semibreve , pausa di minima eccetera.). Tutti i segni ritmici mostrati finora fanno capo di volta in volta non soltanto a questo insieme generale che ne rappresenta i quattordici più usati, ma anche a insiemi più specifici, detti misure . Per esempio, sul pentagramma di una qualsiasi composizione si potrebbe trovare subito dopo la chiave questo insieme di due numeri (fig. 38):

Figura 38

Questa è la cosiddetta indicazione di misura e si legge “quattro quarti”. Ha valore, salvo indicazioni, lungo tutto il pentagramma che la contiene, motivo per cui è stata scritta sia sul pentagramma superiore che su quello inferiore. L’ indicazione di misura serve a conoscere anticipatamente la struttura ritmica di ciò che la segue. Molto spesso nei primi esercizi per pianoforte tale indicazione non cambia lungo l’intero brano: si capisce quindi che è fondamentale saperla interpretare per avere a mente, prima ancora di iniziare a leggere ciò che la segue, una struttura ritmica da seguire. Per poterlo fare, è necessaria la massima concentrazione nella comprensione di quanto segue. Nel caso dell’esempio (fig. 38), la misura sarà costituita da quattro figure ritmiche dal valore di un quarto ciascuna (si veda il prossimo esempio).

Figura 39

In questo caso - come si vedrà accade solo in casi specifici che saranno distinti tra breve - che le figure ritmiche della misura siano quattro lo dice il numero superiore, mentre che non possano valere più di 1/ 4 ciascuna lo dice il numero inferiore. Misura è sinonimo di un altro termine che potrebbe suonare familiare, ossia battuta : il primo termine si riferisce più spesso a considerazioni di natura teorica, mentre il secondo alla rappresentazione grafica della misura stessa sul pentagramma . Tale rappresentazione grafica corrisponde, nella maggior parte dei casi pianistici, a ciò che è scritto entro le due barre verticali che

delimitano la battuta stessa. Si osservi l’esempio (fig. 39): queste barre verticali che identificano le battute si chiamano stanghette [17] . La prima stanghetta , che segna l’inizio della battuta , è quella che si trova prima delle chiavi , immediatamente accanto alla parentesi graffa che lega i due pentagrammi tra loro; la seconda, che segna la fine della battuta , è quella posta dopo le quattro figure ritmiche dal valore di un quarto ciascuna. Dopo una prima battuta se ne trovano generalmente molte altre, poiché il concetto di misura si ripete lungo il corso del brano. Il valore della misura potrebbe subire ulteriori variazioni, sempre indicate preventivamente da una nuova indicazione di misura che va a sostituire la precedente, a partire dal punto del brano dalla quale viene scritta. Il termine misura non è da confondere con il termine tempo , che rappresenta invece le unità nelle quali la misura stessa viene divisa . La misura è infatti composta da tempi . Una misura in 3 /4 è composta da tre tempi poiché per definirla si deve contare con regolarità fino a tre. Ecco il caso in esempio (fig. 40):

Figura 40

Contando con regolarità fino a tre , come indicato dal numero in alto nella indicazione di misura , si sarà scandito il numero di tempi della misura , ossia tre .

A seconda del numero dei tempi di cui una misura è costituita, questa può essere classificata come: ● ● ●

Binaria , due tempi ; Ternaria , tre tempi ; Quaternaria , quattro tempi .

Ci sarebbero altre classificazioni basate sul numero dei tempi , ma non è necessario trattarle per i fini di questo manuale [18] . Ognuno di questi tempi ha poi delle precise caratteristiche: nel caso dell’esempio (fig. 40), il primo tempo sarà più incisivo degli altri, il secondo più debole del primo, il terzo più debole di tutti. Ecco perché si distingue tra tempo e misura : i tempi stabiliscono il carattere vero e proprio della misura che li contiene. Per esempio, in uno spartito recante come indicazione di misura 4/4, il primo tempo è più forte degli altri, il secondo tempo è più debole del primo, il terzo tempo è più forte del secondo ma più debole del primo e il quarto tempo è il più debole di tutti. Questa convenzione ha delle ragioni molto semplici: si prenda un qualsiasi valzer e s’immagini l’ultimo tempo di ogni sua misura come il tempo più incisivo. O peggio ancora, si tolga l’incisività dal primo dei suoi tempi . Il valzer non è più un valzer, perde completamente il suo carattere . È sufficiente quindi sapere che, convenzionalmente: 1)

Le misure binarie prevedono teoricamente il primo tempo come più forte e il secondo come più debole; 2) Le misure ternarie prevedono teoricamente il primo tempo come il più forte, mentre il secondo tempo più debole del primo e il terzo tempo più debole degli altri due; 3) Le misure quaternarie prevedono teoricamente il primo tempo come il più forte, il secondo tempo come più debole del primo, il terzo tempo come più forte del secondo e il quarto tempo come il più debole di tutti.

I tempi non cambiano, nel numero o nella quantità, a seconda dei segni ritmici che vengono disposti all’interno della misura . Si osservi questo esempio (fig. 41):

Figura 41

Il numero di tempi che compongono la misura non è cambiato. Sono pur sempre sottintesi quattro tempi dal valore di 1/4 ciascuno all’interno della battuta . Dato che il primo tempo è considerato il più forte, le prime due figure ritmiche da 1/8 che vi rientrano saranno più incisive delle altre. La figura da 1/4 sarà più debole delle due da 1/8, mentre la figura da 1/2, trovandosi a cavallo tra il terzo e il quarto tempo, manterrà il carattere del terzo tempo nel momento in cui viene suonata, fino a diventare più debole avvicinandosi al quarto tempo . La “forza” dei tempi è determinata dalla loro intensità dinamica [19] , ossia dall’intensità con la quale vengono resi in termini di volume. È questo che s’intende con accento metrico , nettamente distinto dall’ accento di articolazione, di cui si tratterà prossimamente (par. 5 Cap. VIII). Nel pianoforte, l’espressività è limitata dal fatto che, una volta abbassato un tasto , questo non può più modificare l’intensità di volume prodotto dalla corda , volume che inesorabilmente va affievolendosi. Ciò non avviene per il violino, poiché si può far crescere e diminuire una nota mentre la si sta suonando, esattamente come accade nella voce umana e in molti altri strumenti. Nel caso preso in esempio non vi è alcun problema di resa pianistica dal momento che il suono , affievolendosi naturalmente nel nostro strumento in seguito alla percussione della corda, può restituire senza problemi l’effetto richiesto.

I tempi di cui una misura è costituita sono suddivisibili in ulteriori segni ritmici . Per esempio: in 3/4, se il valore di ogni tempo è rispettivamente 1/4, è possibile suddividere ulteriormente quella unità di tempo dando luogo a una suddivisione . Ricapitolando quindi: 1)

Dividendo una misura in tempi, se ne ottiene la scansione ( binaria , ternaria o quaternaria ).

2)

Sud dividendo un tempo appartenente a una misura, se ne ottiene la suddivisione .

A seconda del risultato che si ottiene suddividendo un tempo , l’intera misura dalla quale era tratto prende il nome di semplice o composta. Se la suddivisione avviene in due segni ritmici , la misura si definisce semplice ; se invece la suddivisione avviene in tre segni ritmici , questa viene definita composta . Con un esempio sarà tutto più chiaro:

Figura 42

Figura 43

La suddivisione del tempo può avvenire in due segni ritmici : la misura viene definita semplice (fig. 42 - fig. 43).

Figura 44

Figura 45

La suddivisione del tempo non può avvenire impiegando due soli segni ritmici : ne servono tre. La misura viene definita composta (fig. 44 - fig. 45). Per quanto riguarda le misure composte, le indicazioni di misura sono scritte in modo che il numero di tempi in cui si articola la misura non si possa immediatamente ricavare dal numero più alto della indicazione stessa: si deve infatti dividere quel numero per tre. Il motivo è semplice: se non si fosse usata una convenzione diversa da quella delle misure semplici , non si sarebbe evidenziata la differenza tra i due tipi di misura e si sarebbero dovuti introdurre dei confusionari numeri decimali al denominatore. Ecco un esempio di misura composta (fig. 46):

Figura 46

La misura è in 6/8. In questo caso il tempo vale 1/4 più un punto di valore . Il punto di valore , che è quel puntino che si trova a destra della figura ritmica , prolunga la durata del segno ritmico accanto alla quale viene posto della metà del valore del segno ritmico stesso . Il punto di valore è caratteristico dei tempi che costituiscono le misure composte , ma si può trovare anche all’interno di una misura semplice su un qualsiasi livello di suddivisione del tempo . Nel caso preso in esame (fig. 46) la metà del valore di 1/4 è 1/8. La suddivisione del tempo sarà realizzabile solo usando tre segni ritmici , in particolare da 1/8 ciascuno. Infatti, per utilizzarne solo due occorrerebbe un immaginario segno ritmico del valore di 3/16, che nell’ambito della nostra musica non esiste. Dividendo per tre il numero sei che si trova in alto nell’ indicazione di misura , si ottiene due. Da questo si ricava che la misura è composta di due tempi : si tratta quindi di una misura binaria . Anche il numero che sta più in basso non ha un significato immediato, questo si riferisce alla suddivisione che si può attuare del tempo . Ecco perché queste misure si dicono composte : a differenza delle misure semplici , hanno dei tempi che si possono suddividere in tre segni ritmici, fatto impossibile nelle misure semplici. Dovendo impiegare per la suddivisione solo i sette valori dei quattordici segni ritmici

indicati più sopra, i tempi di queste ultime misure potranno essere suddivisi ciascuno solo in due. Ecco un esempio (fig. 47 - fig. 48):

Figura 47

Figura 48

Si è detto finora che i tempi di una misura prevedono una precisa organizzazione dei loro accenti metrici , che sono a volte più forti, a volte più deboli. Anche i tempi , tuttavia, hanno una gerarchia metrica interna: ogni tempo ha infatti una tesi e un’ arsi , ossia un battere e un levare, sul primo e sul secondo segno ritmico della loro rispettiva suddivisione. Si potrebbe riassumere e integrare quanto

detto finora nel seguente schema, completo di alcune essenziali aggiunte: 1)

Gli accenti metrici più forti sono chiamati battere (o tesi ), gli accenti metrici più deboli sono chiamati levare (o arsi ). Quello che generalmente viene definito il battere o il levare di una misura corrisponde rispettivamente al tempo metricamente più forte o più debole di quella misura , ma è possibile trovare battere e levare , ossia tipi diversi di accento metrico , anche all’interno delle suddivisioni dei tempi .

2)

Il ritmo di una composizione o di un frammento di essa può essere definito tetico , anacrusico o acefalo. Tetico , da tesi , se inizia sul primo tempo della misura , che in tutte le misure è metricamente il più forte . Anacrusico , quando al contrario inizia su di un levare . Il ritmo acefalo è simile a quello tetico perché inizia allo stesso modo su un battere , ma con una pausa ritmica .

3)

Il ritmo di una composizione o di un frammento di essa può poi terminare su una tesi ( tronco ) , o su un’arsi ( piano ) .

Quanto detto finora ha il solo scopo di introdurre le considerazioni a seguire; benché inizialmente possa risultare difficile, la comprensione delle nozioni presentate viene ampliata e resa naturale dalla pratica costante del Solfeggio, col quale si può anche sviluppare l’orecchio e imprimere nella propria mente i suoni . Ecco dunque alcuni importanti suggerimenti per intraprendere lo studio di questa materia. Prima di tutto, osservando lo schema dei valori dei segni ritmici mostrato in questo paragrafo (fig. 35 - fig. 36), si capisce che essendo le misure prevalentemente binarie , ternarie o quaternarie , il tempo avrà nella maggior parte dei casi un valore tra queste intermedio. In altre parole, il segno ritmico che

rappresenta il tempo sarà nella maggior parte dei casi legati ai primi studi 1/2, 1/4 o 1/8, segno al quale si aggiungerà il punto di valore nel caso delle misure composte, per determinare a livello ritmico la corretta quantità del tempo . Impiegando queste figure ritmiche associate al tempo , è possibile contare regolarmente fino a tre per determinare la quantità di una misura ternaria semplice , ma anche contare fino a sei e stabilire le suddivisioni dei tre tempi di tale misura (fig. 49):

Figura 49

Applicando infatti l’esempio a una misura da tre quarti, si conterà “ uno, du-e, tre-e ” suddividendo in due ogni tempo , con la stessa regolarità con la quale si contava fino a tre senza suddivisione ; questo procedimento dà luogo a sei segni ritmici dal valore di 1/8 ciascuno. Se ne può avere riscontro pratico anche nell’esempio qui in alto: questi segni ritmici sono a loro volta suddivisibili in dodici segni ritmici dal valore di 1/16 ciascuno, a loro volta suddivisibili in ventiquattro segni ritmici da 1/32 ciascuno, a loro volta suddivisibili in quarantotto segni ritmici da 1/64 ciascuno. Oltre questo punto quasi sempre non si va, poiché la convenzione vuole che il valore più piccolo comunemente impiegato per un segno ritmico sia quello da 1/64. Ciò che può sembrare un freddo calcolo matematico, in realtà fa capire una questione di fondamentale importanza: ogni tempo delle misure nelle quali è scritta la nostra musica generalmente non

sarà suddiviso all’interno di un brano più di tre o quattro volte . Se quindi si studierà il ritmo partendo da questa assunzione, il lavoro sarà infinitamente più chiaro. Ecco perché: s’immagini di prendere una misura e di dividerla in tre tempi , stavolta senza pronunciare i tre numeri con cui la si scandisce. Muovendo la mano lentamente, ma con regolarità, in tre punti diversi dello spazio e poi pronunciando un “ ta ” in corrispondenza di ognuno di questi movimenti, si pronunceranno tre “ ta ”. Pronunciando invece alla stessa frequenza due “ ta ” per ciascuno di questi movimenti, che devono avvenire con lentezza e regolarità, si pronunceranno sei “ ta ”. In questo modo si sarà attuata la suddivisione dei tempi . Adesso si dica quattro volte “ ta ” per ogni movimento della mano, e infine lo si dica otto volte per ogni movimento della mano, il tutto senza mai mutare la velocità e regolarità della scansione dei tre movimenti nello spazio. Questo procedimento è applicabile a tutte le misure [20] e rappresenta la solida base ritmica da cui partire per intraprendere i nostri studi : il lettore dovrà sempre confrontare queste variazioni sulla misura , di volta in volta proposte nelle composizioni , con l’ unità di tempo e con il numero di suddivisioni che in quest’ultima si riconosce essere stato operato. Quanto si è appena detto sarà ancora più chiaro con un esempio: volendo studiare ritmicamente una misura in tre quarti , si dovranno sempre avere in mente il numero di figure ritmiche associate ai tempi e il loro valore. In questo caso quindi, si considereranno tre figure ritmiche dal valore di 1/4 ciascuna, cercando di volta in volta di capire come il tempo sia stato modificato, a quale livello di suddivisione ci si trovi, eccetera, ma sempre rapportando ciò che si legge al numero e al valore dei tempi che compongono la misura . Esemplificando (fig. 50):

Figura 50

Si dovrà subito avere in mente tre tempi dal valore di 1/4, ciascuno, che in questo modo sono a un secondo livello di suddivisione , poiché si trovano quattro figure ritmiche per ogni tempo, e non soltanto due, come avviene a un primo livello di suddivisione (fig. 43). In questo l’editoria musicale aiuta, poiché la maggior parte dei brani editi per la stampa presenta le figure ritmiche sempre raggruppate per unità di tempo . Le figure scritte qui sopra, infatti, potrebbero essere scritte anche in questo modo (fig. 51):

Figura 51

Queste figure generalmente vengono raggruppate dall’editoria (fig. 50) per facilitarne la lettura e l’interpretazione, a partire dalle unità di tempo della misura , che si dovranno sempre tenere a mente nel loro

numero e nel loro valore. Raggruppando le figure ritmiche si vanno chiaramente di conseguenza a ordinare in punti precisi della misura anche eventuali pause ritmiche . 1.7. La messa in pratica: l’origine delle maggiori difficoltà Da questo momento in avanti ci si dovrà necessariamente esercitare a toccare, senza ancora suonare , i tasti del pianoforte in corrispondenza di ciò che si legge sui primissimi esercizi riportati da manuali di esercizi pianistici elementari, come a esempio il Beyer [21] . Il nome di nota e la sua posizione sul pentagramma ricondurranno alla posizione di un unico preciso tasto sul pianoforte. In questa fase ci si dovrà esercitare molto a toccare i tasti senza guardare la tastiera , con gli occhi sulla partitura . Certo, il primo riferimento per avere idea di dove ci si trovi si può prendere anche guardando la tastiera , ma proseguendo a leggere si dovrebbe cercare di orientarsi con i tasti neri e solo in un secondo momento, una volta toccato il tasto che pensiamo essere quello giusto, verificare con gli occhi se si è sul punto esatto della tastiera . Niente paura, col tempo avverrà esattamente ciò che avviene per la tastiera di un computer [22] , sulla quale ormai molti sono abituati a scrivere in velocità. Lì non ci si concentra su questo o quel tasto dicendone ogni volta il nome per premerlo, ma piuttosto sull’immagine mentale della parola che si deve scrivere, nel suo insieme. Se si ha confidenza con la tastiera di un computer, per scrivere in velocità “musica” non si premono i tasti con le dita dicendo, guardando o pensando sempre singolarmente a ogni tasto , a ogni lettera di questa parola, ma si risale direttamente alla posizione delle lettere sulla tastiera : in modo simile deve accadere al pianoforte, ma come ho già detto il procedimento non è meccanico. È necessaria molta sensibilità e concentrazione per lavorare su questa prima fase. In seguito s’inizieranno a riunire più nomi di note in gruppi di significato, cosa che in questo momento degli studi non è ancora possibile e di cui ci si occuperà in capitoli più avanzati di questo manuale. In questo momento si è come qualcuno che sta imparando a scrivere le lettere

dell’alfabeto, e che certamente non può ancora comprendere come queste, legandosi tra loro, determinino il fascino di un romanzo. Stando così le cose, si possono iniziare ad attuare, con umiltà e senza fretta, dei piccoli accorgimenti per approfondire e sveltire il processo di apprendimento: piuttosto che al nome della nota potrò iniziare a pensare al tasto cui avrò associato una determinata altezza nel pentagramma , alla sua posizione all’interno del pianoforte. Sul pianoforte infatti manca qualsiasi indicazione relativa alla funzione di un tasto . A differenza di una tastiera da computer che presenta lettere scritte sui propri tasti, la tastiera di un pianoforte non presenta nomi di note scritti sui propri tasti , perciò inizialmente bisognerà aggirare questa mancanza associando mentalmente un preciso do a un unico preciso tasto bianco [23] . I nomi delle note infatti si ripetono ad altezze diverse sul pentagramma , ma corrispondono tutti a una frequenza del suono diversa, associata a un preciso tasto del pianoforte . Quando si parlerà di suono ci si riferirà da qui in avanti sempre a un fenomeno acustico associato a uno solo degli ottantotto tasti del pianoforte: all’unico tasto che, se abbassato, sia in grado di produrre il preciso suono attraverso la meccanica (di cui si tratterà nel paragrafo 7 del capitolo V) dello strumento stesso. È evidente quindi che enorme differenza ci sia tra un nome di nota e un suono : il primo si trova associato a più ottave dei tasti bianchi, per esempio il do s’incontra in più punti della tastiera; il secondo corrisponde a un solo, unico, insostituibile tasto , che come si vedrà non è necessariamente un tasto bianco. Per iniziare a esercitarsi in questa prima fase, come regola estremamente generale si deve iniziare a leggere dal basso verso l’alto. Solitamente si scelgono esercizi ritmicamente semplici, ossia comprensibili alla luce di quanto detto finora: questa fase di studio è importante solo per prendere confidenza con la tastiera e con le posizioni dei nomi delle note presi singolarmente, senza suonare. Non bisogna fermarsi troppo su questo punto: una volta presa un’ottima confidenza con i nomi delle note e le loro posizioni sul pentagramma e sulla tastiera si dovrebbe proseguire nella

lettura del presente manuale, poiché leggere i nomi delle note presi singolarmente può rivelarsi pericolosamente controproducente se preso come un’abitudine. Potrebbe impedire per sempre lo sviluppo di una lettura scorrevole. Nei paragrafi successivi sarà chiarito in che rapporto sta la lettura dei nomi delle note presi singolarmente con il presente studio, e quando è doveroso evitarla. CAPITOLO II 2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo S’inizia a uscire dall’orizzonte dei nomi delle note presi singolarmente con l’introduzione degli intervalli , che sono per così dire “le sillabe” della musica. Questi rappresentano delle precise distanze: in primo luogo quelle che intercorrono numericamente tra i nomi di nota che si trovano sul pentagramma . Sul manuale Armonia di Walter Piston si trova la seguente definizione per la classificazione di qualsiasi intervallo : Il nome di un intervallo è diviso in due parti [...]. La prima parte del nome (potremmo dire il “nome generico”) di un intervallo si trova contando le linee e gli spazi che separano le due [i due nomi di [24] ] note sul rigo. [25] Ecco un esempio di quanto detto fino a questo momento:

Figura 52

Ci si soffermerà ora proprio su questa prima parte del nome di un intervallo , la più importante per un primo approccio alla lettura: per sapere se l’ intervallo che sto leggendo sia di “terza” oppure di

“quinta” è sufficiente contare le righe e gli spazi che separano la componente più bassa di tale intervallo da quella che sta più in alto [26] . Ciò significa che per il momento anche la conoscenza, la presenza o l’assenza degli accidenti - diesis bemolli o doppi - è un fatto secondario, che perciò sarà trattato in seguito, quando si parlerà della seconda parte del nome di un intervallo (par.6 - Cap. II). Pertanto, lo scopo primario della lettura sarà quello di rendere il calcolo di questa distanza tra i punti del pentagramma il più rapido possibile, per poi stabilire un’associazione tra determinate combinazioni di distanze. Si elencano di seguito alcune tecniche ritenute valide dall’autore per sveltire questo processo. Negli esempi che seguono (fig. 53 e 54) si trovano, accanto alle figure ritmiche , dei segni per il momento incomprensibili. Sono stati scritti appositamente per questo motivo: non per confondere, ma per dimostrare che qualsiasi altro elemento si aggiunga al pentagramma , anche se nuovo o incomprensibile, non cambia la validità di queste tecniche. Primo suggerimento : se il componente inferiore dell’ intervallo si trova su uno spazio, e quello superiore su una riga o viceversa, l’ intervallo sarà espresso da un ordinale pari, in altre parole: seconda, quarta, sesta, ottava (fig. 53).

Figura 53

Secondo suggerimento : se sia il componente inferiore dell’ intervallo che quello superiore si trovano su righe o su spazi, il nome generico del medesimo sarà espresso da un ordinale dispari: oltre all’unisono, terza, quinta, settima e nona (fig. 54).

Figura 54

Per applicare queste due regole alla lettura, si proceda in questo modo: 1.

In primo luogo, si legga la posizione (riga o spazio) della componente inferiore ; 2. In secondo luogo, la si confronti con quella della componente superiore (riga o spazio). Si anticipa che quei segni al momento incomprensibili posti prima delle figure ritmiche sono segni di alterazione , altrimenti detti accidenti . Al momento non è necessario sapere cosa siano, sono stati posti in questi esempi al solo fine di dimostrare che la numerazione degli intervalli rimane costante. Sarà un prezioso suggerimento, e questo esempio verrà ripreso una volta compresa l’enorme importanza dei segni di alterazione , dei quali si tratterà in seguito (par. 6 - Cap. II). In ogni caso, sovente non è necessario considerare intervalli più ampi di quelli mostrati. Qualora invece lo sia, per ottenere il nome generico di un intervallo che superi l’ottava è sufficiente, a partire dai due nomi di nota di cui è composto, applicare le due regole indicate qui sopra basandosi sui casi indicati dal seguente modello [27] : Se l’ampiezza di un intervallo non supera l’ottava, esso viene definito “ intervallo semplice ”, se tale ampiezza è maggiore di un’ottava si tratta di un “ intervallo composto ”. In genere quando si parla di

un intervallo composto ci si riferisce ad esso come se fosse semplice . Per ottenere questa riduzione si deve sottrarre l’ottava dall’intervallo composto, sottraendo dal numero dell’intervallo la cifra 7 (così per esempio, una dodicesima diventa una quinta) [28] . Alcuni intervalli composti come a esempio la nona, sono comunque caratteristici della struttura di certi accordi e di solito vengono definiti con il numero più grande. [29] In questo ultimo modello si è nominato l’ accordo : esso corrisponde musicalmente a ciò che in morfologia è una parola. Dal momento che è formato da note, presenta un preciso nome , dei precisi valori ritmici e un preciso suono . Si anticipa fin da subito che, esattamente come di questo testo si leggono prima le parole e in seguito si stabilisce un’associazione mentale per determinarne il significato, così accadrà nella musica per quanto riguarda gli accordi . Nella nostra musica, tutti i nomi delle note presi singolarmente dovranno essere ricondotti, nel modo in cui si sta per mostrare, ai tipi di accordo che le contengono. Così come in questo testo si stanno distinguendo le parole in virtù dell’assoluta confidenza con la lettura delle singole lettere e delle sillabe, lo stesso dovrà accadere in musica. Inizialmente si dovrà prendere un’assoluta confidenza con la scala fondamentale e coi nomi generici degli intervalli , ossia con i nomi delle “lettere” e con il ruolo numerico che rivestono i medesimi nel comporre le varie “sillabe” della nostra musica ; solo in un secondo momento si potrà iniziare a distinguerne le “parole”, ossia gli accordi . Per il momento è bene occuparsi dei “tipi di parola”, così come nella grammatica si distingue un aggettivo da un sostantivo . Da un punto di vista intervallare il tipo di accordo più importante e più piccolo che si possa trovare nella nostra musica è la trìade . La sovrapposizione di due intervalli di terza, detti anche più brevemente “terze”, dà luogo a un accordo di trìade (fig. 55).

Figura 55

Gli esempi precedenti (fig. 53 - 54) riportano solo intervalli armonici : essendo composti da elementi ritmicamente simultanei, questi sono scritti verticalmente uno sopra l’altro; la lettura di questi intervalli sarà quindi verticale (dal basso verso l’alto) . Gli intervalli melodici sono invece composti da elementi che si susseguono e che pertanto sono scritti l’uno accanto all’altro: la lettura di questi intervalli sarà dunque orizzontale (da sinistra verso destra). È fondamentale capire che la lettura verticale e quella orizzontale sono un tutt’uno nella musica [30] , ma soprattutto che , nella maggior parte dei casi, ciò che è scritto orizzontalmente può essere letto verticalmente . Si prenda per esempio un arpeggio , che è strutturalmente un accordo le cui note sono eseguite in modo non simultaneo , quindi una dopo l’altra (fig. 56):

Figura 56

Da questo esempio si può comprendere la ragione per cui, nel primo capitolo di questo manuale si è precisato che l’alfabeto di lettura nella nostra musica , ossia i nomi della scala fondamentale, deve essere raggruppato nei “tipi di parole della musica”. In questo caso infatti (fig. 56), leggere le note prese singolarmente non serve a nulla, leggerle orizzontalmente ancor meno. Per individuare a colpo d’occhio che le sei note scritte qui sopra sono una trìade ripetuta due volte si deve, oltre ad aver compreso quanto detto finora, saper guardare l’aspetto numerico del pentagramma , ossia i nomi generici degli intervalli . I tre nomi di nota che compongono il primo arpeggio sono infatti tutti scritti sulle righe. La distanza che intercorre tra un nome di nota e l’altro non è comunque grande come quella di una quinta, né piccola come quella di una seconda, anche perché in quest’ultimo caso, trattandosi di un intervallo pari, i nomi di nota non sarebbero scritti tutti sulle righe, ma in modo diverso: alcuni sulle righe e alcuni sugli spazi. Da ciò si evince che, se non si fosse saputo distinguere questo “tipo di parola” della musica, ossia l’ accordo e quindi l’ arpeggio , non si sarebbe potuta cogliere la metodologia più consona per leggere il passaggio in esempio. Per riassumere, i tre intervalli melodici così trovati possono essere ricondotti proprio alla trìade di partenza (fig. 57):

Figura 57

Nello sperimentare le tecniche via via proposte in questo manuale, si consiglia di non consultare partiture troppo complesse, o si finirà solo per scoraggiarsi inutilmente. Quando non si conosce nessuna lingua, per imparare a leggere si comincia da frasi semplici. Lo stesso deve avvenire in musica. Un’altra questione fondamentale è

quella dell’immaginazione di elementi astratti. Infatti, per ricostruire nella mente un determinato intervallo preso singolarmente tra due nomi di nota , conviene sempre scegliere un punto di riferimento sul pentagramma , che potrebbe essere il do centrale se ci si trova scomodi sui tagli addizionali , quindi il primo taglio addizionale in chiave di violino , oppure il do sul secondo spazio in chiave di basso , in modo da non costruire formule teoriche a partire da un punto casuale del pentagramma . Per esempio, se si deve capire quale sia il nome della nota che forma una quinta con il do , si può immaginare il do centrale e spostarsi mentalmente sulla seconda riga del pentagramma in chiave di violino. Applicando le tecniche di lettura indicate finora si otterrà che i due nomi di nota sono stati associati entrambi a delle righe, ciò dovrebbe suggerire immediatamente un intervallo dispari - precisamente a una distanza di quinta - dal momento che tra loro, oltre agli spazi, si trova solo un’altra riga (fig. 58).

Figura 58

Lo stesso vale per gli altri nomi di nota che fanno parte della scala fondamentale : questi saranno desunti sempre a partire da quel do centrale di riferimento, scelto in questo caso anche per rispettare la convenzione, presente nelle armature di chiave, di non sconfinare nei tagli addizionali . Che cosa sia un’ armatura di chiave sarà presto chiarito (par. 6 - Cap. II). 2.2 Introduzione pratica alla lettura degli accordi

Nel repertorio del periodo tonale , le forme accordali più utilizzate sono trìadi , settime e none : queste ultime andranno affrontate in un secondo tempo, dal momento che tra i tipi di accordo nominati sono le più rare da incontrare all’inizio degli studi. Queste tre forme accordali si definiscono dal numero di sovrapposizioni che gli intervalli di terza, o terze, determinano tra loro . Sovrapponendo due terze si ottiene una trìade ; sovrapponendo tre terze, una settima [31] ; sovrapponendo quattro terze, una nona . In un primo momento non è fondamentale saper distinguere cosa sia un accordo maggiore , minore , eccedente o diminuito : ai fini della lettura, è importante saper distinguere a livello numerico e intervallare le tipologie di accordo , ossia il loro nome generico . Occorre in altre parole saper distinguere una trìade da una settima e queste due, per esclusione, da una nona . Una volta effettuato questo primo riconoscimento, sarà possibile distinguere immediatamente il punto sul quale si struttura l’ accordo e stabilirne infine il nome specifico introducendo nuove forme con cui è possibile scrivere lo stesso tipo di accordo . Finora infatti gli intervalli sono stati trattati solo da un punto di vista numerico - come “sillabe” della musica - non prendendo in esame quali siano effettivamente le “lettere”, ossia le note , di cui tali intervalli sono composti: se ne è contato solamente il numero. Si consideri quanto segue: se non si sapessero distinguere numericamente le due lettere che compongono la sillaba “ca”, allora non si riuscirebbe neppure a comprendere di quali lettere dell’alfabeto singolarmente si tratti . Per capire che sono due lettere, occorre comprendere in che modo si formano le spaziature che le separano, motivo per cui generalmente s’inizia a far leggere i bambini in stampatello e non in corsivo. Lo stesso accade metaforicamente in musica: l’aspetto numerico degli intervalli definisce le distanze tra i nomi di nota associati al pentagramma attraverso la chiave . Passata questa prima fase, s’inizierà a distinguere le varie “lettere della musica”, e quindi a “ pronunciarle ” foneticamente . Si ricordi che per il momento se ne è pronunciato solo il nome . La differenza tra la pronuncia letterale e quella fonetica è la stessa che c’è tra la descrizione di un oggetto e l’oggetto stesso.

Si prenda un esempio riguardante i nomi delle note della scala fondamentale : il fatto che vogliano degli attributi ( do diesis , do bemolle ecc.) non indica che debbano essere accomunati anche da un punto di vista fonetico, ossia acustico , alla scala fondamentale stessa. Si è detto infatti più volte che questa è composta dai soli nomi delle note, non dai suoni associati alle medesime. Ciò nonostante, la musica non è fatta soltanto di nomi delle note , ma anche di suoni associati a quei nomi e di ritmi associati a quei suoni . Si può essere bravissimi a distinguere le varie posizioni dei nomi delle note sul pentagramma , ma se non li si saprà associare al loro corrispondente suono , e quest’ultimo al corrispondente ritmo , non si riuscirà a comprenderne il significato . Non sono dunque i suoni a volere gli attributi di cui si è parlato, bensì i nomi associati ai medesimi. Come si chiarirà più avanti (par. 6 Cap. II), do diesis sarà quindi il nome che verrà dato a un suono ben preciso, esattamente come si descrive una natura viva riferendosi a qualcosa di ben preciso e una natura morta riferendosi a qualcosa di completamente diverso. Se li si considera per il loro suono, do e do diesis , o do bemolle, o do doppio diesis eccetera non sono neppure parenti alla lontana . Si può quindi riassumere il discorso fatto finora usando la seguente metafora: ●

Scala fondamentale : contiene i nomi delle “lettere dell’alfabeto scritto musicale” (e non il modo in cui suonano). ● Nomi generici degli intervalli : contengono le quantità delle “sillabe musicali” (e non il modo in cui suonano). ● Nomi dei tipi di accordo : contengono i “ tipi di parole della nostra musica ” (e non il modo in cui suonano). ● Nomi degli accidenti : contengono gli “ attributi ai nomi delle lettere dell’alfabeto musicale” (e non il modo in cui suonano). 2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi Le trìadi , in quanto sovrapposizioni di due intervalli di terza, sono accordi formati da tre nomi di note ; le settime invece, essendo il

frutto della sovrapposizione di tre intervalli di terza - o di tre terze, che dir si voglia - hanno una struttura formata da quattro nomi di note ( quadrìade ). Nella materia musicale dell’ Armonia [32] , si può distinguere i tipi di accordi numerando gli intervalli di cui sono composti a partire dal basso . Nei paragrafi a seguire, si spiegherà approfonditamente come operare questa distinzione. Per esempio, leggendo a partire dal basso do - mi - sol , si numererà l’ accordo con un 3 e un 5, riducendo eventuali intervalli composti a intervalli semplici ; in seguito quel 3 verrà sottinteso, dal momento che senza un’altra terza è impossibile formare un qualsiasi accordo : quel tipo di accordo sarà quindi definito esclusivamente da un 5. Tuttavia, può capitare di trovare i nomi delle note dell’ accordo disposte diversamente (per esempio, trovando il mi come nome di nota più basso); di queste variabili, molto semplici da distinguere, si tratterà nel paragrafo successivo. 2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni Dal momento che una trìade, formata dai nomi di nota do - mi - sol, può essere scritta, e quindi letta, anche come mi - do - sol (cambiamento di stato , o rivolto ), o ancora do - sol - mi (cambiamento di posizione ), i nomi di nota di un accordo sono stati associati a dei numeri ordinali ( terza, quinta ecc. [33] ); questi numeri si riferiscono tra le altre cose al nome generico dell’ intervallo che i nomi delle note formano con la fondamentale dell’accordo (fig. 59), in modo da poter essere distinti nella loro collocazione in tutti gli stati e posizioni .

Figura 59

Si capisce quindi che il nome della fondamentale è il nome della nota sul quale si fonda l’accordo ( fondamentale ), ossia quello dal quale si parte numericamente per costruirlo, disponendo un intervallo di terza e poi sovrapponendone un secondo. Tale nome di nota dà anche in parte o in tutto un nome generico all’accordo [34] . Pertanto, un accordo detto in stato fondamentale avrà come nome di nota più basso quello associato alla sua nota fondamentale . Per ciò che concerne la trìade , questa si può trovare in altri due stati oltre a quello fondamentale : in stato di primo rivolto e in stato di secondo rivolto . Un accordo in stato di primo rivolto (fig. 60) avrà come nome di nota più basso quello assegnato alla terza , mentre un accordo in stato di secondo rivolto (fig. 61) avrà come nota più basso quello assegnato alla quinta .

Figura 60

Figura 61

Da questi esempi s’intuisce che terza, quinta e settima vengono attribuite a partire dallo stato fondamentale , ma mantengono il loro

ruolo indipendentemente dal posto che occupano nell’ accordo . Questa distinzione è essenziale, perché nella numerazione dei rivolti ci si potrebbe facilmente confondere . A esempio, l’unico altro modo di chiamare il secondo rivolto è quello di nominarlo in base agli intervalli di cui si compone a partire dal nome di nota più basso, che non è quello associato alla fondamentale (si guardi l’esempio qui in alto): si chiamerà quindi trìade in quarta e sesta . In questo preciso rivolto, l’ intervallo di quarta sarà quindi quello che si forma con il nome di nota più basso dell’ accordo , e non con la fondamentale : lo stesso discorso vale per l’ intervallo di sesta. in questi due intervalli , i nomi di nota scritti più in alto, con i loro eventuali attributi (par. 6 - Cap. II), saranno poi associati alla quarta e alla sesta dell’ accordo . Ora, limitandosi alle trìadi e alle settime , che sono gli accordi da cui generalmente inizia il percorso di lettura, i rivolti sono facilmente riconoscibili perché sono contraddistinti da numeri ordinali ( primo rivolto , secondo rivolto e, per quanto riguarda gli accordi di settima , terzo rivolto …): inoltre, come si è già detto, sono caratterizzati dal fatto di avere rispettivamente come nome di nota più basso la terza , la quinta o la settima . Da ciò si evince l’importanza di leggere dal basso verso l’alto ( lettura verticale ). Si guardi nuovamente gli esempi proposti, stavolta facendo caso a quale sia la componente più bassa dell’ accordo .

Inoltre, si osservi che i nomi di nota disposti negli esempi appena proposti nascondono una invisibile ripartizione (fi. 63) in precisi ambiti del pentagramma : quando si dice “il nome di nota più basso” dell’ accordo , molto spesso ci si sta riferendo a quello assegnato al basso , che è un preciso tipo vocale . All’interno del pentagramma infatti , è convenzionalmente stabilito un intervallo di nomi di note entro cui le differenti categorie di voci ( basso , tenore , contralto e soprano ) si muovono; questo intervallo corrisponde a una data estensione numerica del tipo vocale. L’intervallo entro il quale un nome di nota viene definito come “assegnato” al basso è generalmente il seguente (fig. 62):

Figura 62

Alla luce delle considerazioni precedenti, si riporta di seguito lo schema numerico-intervallare dei quattro tipi vocali (fig. 63) [35] :

Figura 63

Da questa invisibile ripartizione attuata nella nostra musica tra i quattro tipi vocali prende il nome lo spartito . Attenzione, c’è una differenza tra una persona che fa la professione di cantante e viene definita soprano e il tipo vocale del soprano . In questo manuale voce e tipo vocale sono usati in alcuni contesti come sinonimi, benché il tipo vocale indichi, come precedentemente evidenziato, solamente un intervallo numerico all’interno del pentagramma entro il quale si trovano i più frequenti [36] nomi di nota che un cantante appartenente a quella determinata categoria (basso, tenore, contralto, soprano, ecc.) dovrà prendere in considerazione (mentre con il termine voce ci si riferisce di solito già alla nota assegnata a un determinato tipo vocale ). Si tenga presente che l’estensione vocale di un cantante non coincide con l’estensione numerico-intervallare dei tipi vocali . Si prenda in esame, per esempio, l’estensione vocale del leggendario soprano Maria Callas, desunta dalle sue sole registrazioni in studio (fig. 64):

Figura 64

Ecco come procedere per esaminarla: 1)

Per leggere tale intervallo (fig. 64) non ci si può basare soltanto sulle righe e sugli spazi del pentagramma (par. 1 Cap II). Tale metodo di lettura dovrebbe essere riservato in un primo momento a distanze che non eccedono quella di un intervallo numerico di nona.

2)

Per leggere il rapporto numerico che intercorre tra due nomi di nota che superano la nona, molto spesso è più conveniente considerare che la struttura numerica del pentagramma è stata associata alla scala fondamentale (par. 3 - Cap. I). Per questo motivo, è sufficiente leggere che il nome di nota più basso è fa , mentre quello più alto è mi , per avere ben chiaro che la distanza tra i nomi di nota fa e mi è sempre, riducendo l’ intervallo alla sua forma semplice , una settima. Gli intervalli composti , come si è già visto (par. 1 - Cap. II), sono da prendere in considerazione solo se la musica suggerisce un particolare tipo di accordo ( none , o undicesime e tredicesime di cui al momento non ci si deve occupare), fatto assolutamente inconsueto nel corso dei primi studi. Da questo calcolo si può poi notare a occhio che tra un nome di nota e l’altro intercorrono circa tre ottave. Moltiplicando quindi il numero 7 per tre, si ottiene che numericamente questo è un intervallo di ventunesima.

Si comprenda adesso che questa estensione vocale ha due caratteristiche: 3)

È numericamente molto più ampia di quella presa in considerazione per il tipo vocale del soprano . Da ciò si evince che le estensioni dei tipi vocali hanno natura e rapporto puramente compositivi con l’estensione vocale e quindi sonora di un cantante soprano.

4)

Presenta un segno di alterazione , chiaro indice di una componente acustica e di un attributo al nome di nota, che nel presente paragrafo non è ancora preso in considerazione (se ne tratterà nel par. 6 - Cap. II).

Naturalmente, essendo presenti quattro tipi vocali all’interno della partitura - che indicano gli intervalli numerici entro i quali si trovano i nomi di nota comunemente presi in considerazione dai rispettivi cantanti di cui tali tipi vocali condividono il nome nulla vieta di far leggere a quattro diversi cantanti ciò che è scritto nei loro rispettivi intervalli vocali . È quel che accade nella musica corale. Si potrebbe anche pensare di far leggere a più di un soprano la parte di spartito che comprende i nomi di nota assegnati al tipo vocale del soprano : ciò in effetti può accadere all’interno di un grande coro. Da questo si può facilmente capire, riprendendo l'esempio precedente, che alcuni di questi cantanti potrebbero trovare una pausa ritmica riservata soltanto a loro. Per questa ragione, le pause ritmiche possono trovarsi secondo la disposizione, già precedentemente mostrata, che figura nell’esempio a seguire (fig. 65):

Figura 65

Una pausa scritta come in esempio si riferisce a un solo e determinato tipo vocale . Per un neofita che non abbia nozioni di lettura, è molto difficile arrivare a dedurlo, poiché i quattro tipi vocali sono sottintesi allo spartito nella nostra musica , e anche al tipo di

scrittura di molti altri ambiti musicali che a quest’ultima si sono ispirati. Anche la posizione delle chiavi tiene conto di questi quattro tipi vocali . A esempio, la chiave antica di do soprano è scritta sulla riga del pentagramma proprio per lasciare spazio verso l’alto al tipo vocale del soprano , in virtù della sua estensione numericointervallare (fig. 66):

Figura 66

La stessa chiave di basso pianistica rispetta questo principio, poiché viene scritta in modo da far impiegare il minor numero di tagli addizionali possibili al tipo vocale del basso (fig. 67):

Figura 67

In questa estensione, per indicare il suono associato alla nota che sta più in basso si impiegherebbero sette tagli addizionali utilizzando una chiave di violino . Pertanto, in virtù della struttura sottintesa alla partitura , dal momento che la trìade è formata da tre nomi di nota ma rappresenta la base armonica della nostra musica che è scritta

per quattro tipi vocali , si aggiunge convenzionalmente un quarto nome di nota (il cosiddetto raddoppio ), che rappresenta tra le altre cose anche la ripetizione su un’ottava differente di un nome di nota dell’ accordo [37] (fig. 68). Nel caso delle settime invece, che sono già formate da quattro nomi di nota , questo problema non sussiste. Per gli accordi formati da cinque o più nomi di nota , come le none , si cerca in genere di omettere alcune componenti dell’ accordo per tornare alla configurazione dei quattro tipi vocali . Si veda di seguito uno schema che riassume tutte le possibili forme, rivolti compresi, di trìadi e settime con la loro relativa numerazione armonica intervallare. Si noti anche a questo punto che quello che inizialmente si era considerato semplicemente il “il nome di nota più basso dell’ accordo ”, adesso corrisponde al nome di nota assegnato al tipo vocale del basso . In altre parole, il rivolto di una trìade si distingue più tecnicamente da quale sia il nome di nota assegnato al tipo vocale del basso . Se la terza è assegnata al basso , si tratta di un primo rivolto ; se la quinta è assegnata al basso si tratta di un secondo rivolto ; invece, nel caso degli accordi di settima , se la settima è assegnata al basso si tratta di un terzo rivolto . Nel paragrafo successivo, si tratterà sinteticamente del metodo per distinguere velocemente le forme tra poco mostrate. Questo schema (fig. 68 - fig. 69), dal momento che riguarda esclusivamente il nome generico degli intervalli di cui gli accordi sono composti , avrà valore in qualsiasi ambito del nostro studio . Nella prima battuta si trovano le trìadi e i loro rivolti ; la stessa schematizzazione è proposta in una battuta differente per le settime . Si ricordi che il nome della nota fondamentale di un qualsiasi accordo in rivolto è quello più alto dell’ intervallo pari più piccolo che si viene a formare con il basso . Per esempio: mi-soldo , tra mi e do c’è una sesta, quindi la fondamentale dell’accordo è do . Questo è utile per individuare sul pentagramma le posizioni più solite del nome della nota fondamentale , dato che si dovrebbe iniziare a interpretare armonicamente l’ accordo proprio a partire da quel nome di nota . Questo può essere utile per individuare graficamente, sul pentagramma , le posizioni più solite del nome

della nota fondamentale , dato che per avere una rapida capacità di analisi estemporanea bisogna imparare a leggere partendo da quel nome di nota [38] .

Figura 68

Figura 69

Alcuni numeri associati a determinati intervalli non vengono scritti (per esempio il tre e il cinque nello stato fondamentale di una settima ) e sono dati come sottintesi perché non rappresentano una peculiarità nella struttura accordale rispetto alle altre forme qui mostrate. Inoltre si noti che questo schema è scritto a parti strette [39] , ossia rispettando la distanza di un’ottava tra le tre voci superiori rispetto al basso [40] , che da quest’ultimo, verso l’alto, prendono il nome di tenore , contralto e soprano . Come si può facilmente notare, in questo tipo di scrittura - molto frequente al pianoforte in virtù delle possibilità offerte dalla struttura della tastiera - è facile che tutti gli intervalli caratteristici dell’ accordo siano presenti nei nomi di nota assegnati ai tre tipi vocali superiori. Proseguendo il discorso sulle forme degli accordi : una trattazione a parte meritano invece le posizioni , da distinguere sin da subito dai rivolti o stati degli accordi . Ecco le tre posizioni in cui è possibile trovare una trìade in stato fondamentale (fig. 70).

Figura 70

A partire da sinistra, le posizioni mostrate nell’esempio vengono definite posizione di terza , posizione di quinta e posizione di ottava. Il termine posizione verrà poi sottinteso, motivo per cui alla fine tali posizioni verranno definite soltanto di terza , di quinta e di ottava . Vengono chiamate così per un motivo simile a quello dei rivolti : se al soprano si trova la terza, si tratta di una posizione di terza ; se vi si trova la quinta, si tratta di una posizione di quinta ; se vi si trova l’ottava, si tratta di una posizione di ottava . Il tipo vocale del soprano si distingue perché le note assegnategli vengono generalmente scritte all’interno dell’ intervallo mostrato nello schema dei quattro tipi vocali qui in alto. Il basso nell’esempio (fig. 70) infatti resta fermo: questo suggerisce che si tratta in tutti e tre i tempi di un accordo in stato fondamentale . 2.5 Metodo per agevolare la lettura di trìadi e settime Lo schema visto in precedenza (fig. 71) riassume i tipi accordali e le loro posizioni : per le prime letture bisognerebbe scegliere esercizi la cui complessità non vada oltre quello schema. Lo si ripropone di seguito:

Figura 71

Figura 72

Rimanendo nell'orizzonte di trìadi e settime , per analizzare gli accordi e distinguerne la tipologia, è sufficiente trovare il modo di applicare lo schema mostrato precedentemente (fig. 71 e 72). Questo può essere utile, per esempio, nei primi volumi di esercizi elementari per pianoforte Czernyana [41] . Ecco come fare: si inizi numerando come nell’esempio (fig. 71 e 72) gli intervalli che il nome di nota più basso dell’ accordo - il quale non è necessariamente associato alla nota fondamentale - forma, rispettivamente, con ciascuna di quelli che ha più in alto. Per numerare questi intervalli , non bisogna di volta in volta contare righe e spazi, e neppure utilizzare il metodo sulla numerazione mostrato nei paragrafi precedenti. Ora che si è compresa la struttura numerica del

pentagramma , sarà sufficiente leggere i nomi delle note che compongono un accordo : come si è visto, questi presuppongono una struttura intervallare ben precisa, data dalla scala fondamentale come successione universale di intervalli di seconda . Si consideri perciò quanto segue: una trìade è formata dalla sovrapposizione di due terze; queste ultime, sul pentagramma , corrispondono a precise posizioni sulla scala fondamentale , quindi a precisi valori numerici. Per questa ragione le trìadi origineranno sempre, a partire dalla loro rispettiva nota fondamentale , soltanto le sette combinazioni di nomi di nota a seguire: DO-MI-SOL RE-FA-LA MI-SOL-SI FA-LA-DO SOL-SI-RE LA-DO-MI SI-RE-FA Imparando queste sette combinazioni per i nomi delle note si comprenderà la struttura nominale e numerico-intervallare su cui si basano gli stati fondamentali e i rivolti di tutte le trìadi della nostra musica. Per esempio, trovando un accordo scritto a partire dal basso mi - do - sol , sarà facile ricondurlo a do - mi - sol (stato fondamentale) semplicemente riordinandone i nomi di nota a mente: così facendo, si comprende che tale accordo ha la terza al basso; si tratta quindi di un primo rivolto di trìade . In relazione alle sette combinazioni viste in precedenza, si noti che gli accordi di settima mantengono la prima parte della struttura invariata, con l’ulteriore aggiunta di un intervallo di terza: RE-FA-LA- DO MI-SOL-SI- RE FA-LA-DO- MI SOL-SI-RE- FA LA-DO-MI- SOL

SI-RE-FA- LA DO-MI-SOL- SI Quindi, trovando nei primi studi un accordo scritto come si - do - mi , non si penserà a una trìade , bensì, per esclusione, a un accordo di settima , in quanto si e do formano un intervallo di seconda sulla scala fondamentale . L’ intervallo di seconda è una peculiarità dell’ accordo di settima e sarà quasi sempre presente in tutti i suoi rivolti , essendo formato dalla settima dell’ accordo e dalla sua fondamentale , i due componenti più caratteristici di questo tipo accordale [42] . Sul pentagramma , un intervallo riga-riga identificherà sempre una terza, a prescindere dalla chiave . Lo stesso vale per spazio-spazio, e così via per tutti i principi già enunciati. Ciò significa che, nella sovrapposizione di due o più terze, a variare potrà essere esclusivamente il nome della nota fondamentale dell’ accordo , non i rapporti che intercorrono tra le note superiori rispetto alla scala fondamentale : per ciò che concerne tutte le possibilità di tale variazione nell’ambito delle trìadi , le si può riassumere nello schema a seguire (fig. 71.1):

Figura 71.1

Questo specchietto considera tutti i rapporti che due intervalli di terza, sovrapponendosi, possono instaurare con i vari nomi di note della scala fondamentale : rappresenta dunque lo scheletro numerico delle trìadi . Lo schema si limita alla porzione di pentagramma già presa in esame (fig. 25). Come esercizio di lettura, si nominino tutti i nomi di nota a partire dal basso e procedendo da sinistra verso destra scegliendo tra chiave di violino o chiave di basso , che sono le due impiegate per la scrittura pianistica. In chiave di violino , si direbbe così: fa-la-do , sol-si-re , la-do-mi , eccetera. La stessa operazione va effettuata al contrario e poi

partendo da un punto sempre diverso dell’esercizio. Questo metodo serve a comprendere che la scala fondamentale è presupposta alla struttura sequenziale del pentagramma , che guadagna un orizzonte all’interno della porzione udibile dei suoni esclusivamente attraverso la chiave . Nonostante questo, una terza ascendente con il do come nome della nota fondamentale dell’ intervallo sarà sempre do-mi , non sono la chiave o altri elementi a conferire questa struttura numerica al pentagramma, bensì soltanto la scala fondamentale . Per tale ragione, da questo momento si dovrebbe cercare di instaurare una stretta relazione tra i nomi delle note e i numeri legati al loro intervallo , come esemplifica molto chiaramente Jean-Philippe Rameau nel suo Trattato di Armonia [43] : per praticare la lettura della scala fondamentale è infatti essenziale una disposizione per trìadi , poiché la trìade è l’elemento fondamentale dell’ Armonia (e non solo), ossia dei canoni ai quali ci si rifà, trasgredendoli o meno, per scrivere - e leggere - la maggior parte della musica. È possibile praticare questo esercizio con l’aggiunta del nome di nota che si trova a un intervallo di settima da quello sul quale si fonda l’ accordo . Vi è un motivo fondamentale per cui bisogna praticare fin dall’inizio anche su una sequenza di quattro nomi di nota : Jean-Philippe Rameau ne tratta nel primo paragrafo del suo Trattato di Armonia [44] . Il motivo è che gli intervalli di settima rientrano tra gli intervalli più importanti della nostra musica : questi sono infatti terze, quinte e settime. Gli intervalli appena nominati andrebbero conosciuti alla perfezione: a partire da un nome di nota qualunque si dovrebbe subito capire quale sia la terza, la quinta o la settima a esso associata; gli intervalli rimanenti (quelli di seconda, quarta e sesta) sono derivati per rivolto dai tre intervalli fondamentali di terza, quinta e settima. Nel suo trattato, Jean-Philippe Rameau propone una tabella in cui gli intervalli sono schematizzati come una serie di sequenze numeriche ; l’autore ritiene tuttavia che sia più funzionale apprenderli associando già ogni intervallo a una precisa sequenza di quattro nomi di note , sebbene queste non abbiano ancora un significato acustico , ma solo nominale . La seconda fase dell’esercizio sopra proposto consiste nel cercare di desumere

, e non più leggere direttamente , i nomi delle note superiori leggendo soltanto quello posto più in basso : quest’ultimo è un esercizio d’immaginazione imprescindibile per la lettura. Molto utile in questo senso è anche leggere al contrario, ossia partire dal nome di nota più alto verso quello più basso, o da destra verso sinistra. Successivamente si dovrà eseguire l’esercizio a occhi chiusi, immaginando a memoria ogni intervallo , fin quando lo si saprà portare a termine mentalmente in brevissimo tempo. Questo esercizio e quello sulla pronuncia della scala fondamentale sono essenziali per proseguire nella lettura di questo manuale, si devono perciò obbligatoriamente studiare: si leggerà spesso, dopo aver preso grande confidenza coi principi esposti, solo il nome di nota più basso dell’ accordo ricavando il rapporto che esso costituisce con la scala fondamentale . Per il momento occorre soltanto avere chiaro lo scopo dei prossimi paragrafi: quello di avere in mente, a partire dalla lettura del solo nome di nota più basso di un accordo in stato fondamentale , un’idea sulla possibile struttura di tale accordo . Per fare questo non ci si servirà solo di elementi strettamente legati alla scrittura del brano, ma anche di elementi relativi ad altri contesti: per esempio, la sua periodizzazione storica. In una ballata rinascimentale, una volta compresi i paradigmi dell’epoca, generalmente non ci si aspetterà una sovrapposizione di più di tre terze: sarà più comodo quindi, leggendo do come nome di nota più basso, avere automaticamente nella mente do-mi-sol , al limite con l’aggiunta della settima ; infine si confronterà l’esito di questo tentativo di previsione con ciò che effettivamente è scritto sopra il nome di nota più basso. Con molta pratica non sarà necessario controllare sempre i tentativi di previsione fatti per ciascun nomi di nota , uno per uno: dato che si partirà con un’ipotesi nella mente, per confermarla o smentirla basterà, leggendo prima attentamente il solo nome di nota più basso, un eventuale colpo d’occhio al rapporto numerico che i nomi di nota superiori instaurano con quest’ultimo . Si tratterà approfonditamente di questo argomento in un paragrafo successivo, una volta introdotte una serie di nozioni fondamentali per la sua comprensione, come il concetto di tonalità o

quello di armonia pratica . S’invita pertanto a leggere questo manuale in ordine, secondo la disposizione che l’autore ha scelto per i suoi paragrafi. 2.6 Introduzione alla composizione delle scale In questo paragrafo saranno inizialmente introdotte e definite le scale della nostra musica ; in un secondo momento si spiegherà come contestualizzare l’ intervallo nell’ambito sonoro, soprattutto in quanto componente accordale, ossia come elemento costitutivo degli accordi e dei loro suoni . Finora, infatti, gli intervalli sono stati trattati solo per il loro aspetto nominale e numerico, quindi per il loro nome generico , che sarà comunque sempre valido e applicabile a tutti gli ambiti della nostra musica : in questo paragrafo, tuttavia, se ne introdurrà il nome specifico e quindi una precisa relazione con l’ambito sonoro. Le scale sono composte dalla successione di sette suoni [45] , e non più soltanto da nomi o numeri : tali suoni sono disposti per intervalli melodici [46] di seconda, come avveniva per la scala fondamentale . Quest’ultima, tuttavia, non rientra direttamente tra le nostre scale, perché di queste costituisce solo il fondamento numerico . Infatti, le nostre scale rappresentano in questo manuale il primo momento in cui l’aspetto numerico della scrittura musicale si associa indissolubilmente all’ambito dei suoni . I “mattoni” teorici con cui si distinguono le varie strutture delle scale sono toni e i semitoni, due tipi di intervallo la cui definizione può essere compresa solo studiando l’uso che ne farà nei paragrafi seguenti [47] . Toni e semitoni non si distinguono solo da distanze numeriche, ma anche da precise qualità acustiche , che si vedranno in seguito. Attraverso l’introduzione delle scale proposta in questo paragrafo, si avrà un primo confronto con le associazioni di nomi di nota e segni ritmici a un suono : si inizierà quindi a parlare delle note e non più soltanto dei nomi di nota . Il suono , nei primi studi, potrebbe essere emesso

dal pianoforte, ma anche dalla propria voce (solfeggio cantato [48] ) o da strumenti differenti dal pianoforte. Come si è detto, se per determinare il nome generico di un intervallo - la prima parte del suo nome che ne indica il valore numerico - è sufficiente contare le righe e gli spazi che separano i due punti del pentagramma sui quali si struttura quell’ intervallo , si comprende che per formare qualsiasi scala , dato che questa è una successione di intervalli di seconda , occorre procedere nel modo seguente: 1.

In un primo momento, si concatenerà sul pentagramma una sequenza di sei intervalli di seconda a partire da un nome di nota tratto dalla scala fondamentale . A questa sequenza, che rappresenta lo scheletro di qualsiasi scala , si aggiungerà un settimo [49] intervallo di seconda che servirà a comprendere più facilmente le considerazioni successive. Si ricaverà così, tra le altre cose, la prima parte del nome della scala che si sta costruendo (di quest’ultimo si tratterà più avanti).

2.

In un secondo momento, si applicheranno alla scala fondamentale le formule teoriche atte a determinare la struttura della scala che si intende costruire.

Le nostre scale infatti, chiamate diatoniche , vengono costruite tutte a partire da quella definita scala fondamentale [50] . Da questa differiscono perché gli intervalli componenti le scale diatoniche hanno anche un nome specifico , e non solo uno generico o numerico come nella scala fondamentale . Stavolta, a differenza di quanto accadeva per la chiave musicale (par. 3 - Cap. I), non è la posizione di un intervallo , sul pentagramma in sé, a definirne il nome specifico . È necessaria allora qualche premessa per capire quale contesto effettivamente definisca il nome di un intervallo . Si provi nel frattempo, prendendo un foglio pentagrammato e una penna, a

mettere per iscritto quanto detto finora. Procedendo a scrivere i nomi di nota attraverso precise figure ritmiche su righe e spazi del pentagramma (fig. 73) si termini la sequenza aggiungendo il nome di nota dalla quale si è iniziato a costruire la scala . Questo nome di nota , ripetuto un’ottava più in alto, fa da promemoria per la circolarità della scala fondamentale e darà un senso musicalmente conclusivo alla scala che si sta costruendo (per motivi che saranno trattati nel par. 7 - Cap. II). L’importante è ricordarsi che tale nome di nota non è indispensabile per la struttura della scala (fig. 73).

Figura 73

È necessario ricordare che, in questo momento, si è ancora solo a metà dell’opera nella composizione di una scala diatonica poiché, rimanendo al solo aspetto numerico, non si sta componendo nulla di diverso da una scala fondamentale . Questa prima fase del procedimento di composizione, che consiste semplicemente nello scrivere la scala fondamentale , può essere attuata anche in senso discendente, oltre che in senso ascendente: infatti, per determinare il nome generico di un intervallo melodico o armonico (il suo aspetto numerico) si inizia a contare dal nome di nota che sta più in basso, indipendentemente dalla direzione ascendente o discendente. Per la costruzione di una scala si potrà sempre partire da un punto qualsiasi del pentagramma in chiave . Questo punto-cardine può

essere rappresentato in ogni chiave e da qualsiasi riga o spazio . La nostra musica, detta musica tonale, si chiama in questo modo - e dà il nome al periodo tonale di cui si è già trattato - perché i suoi suoni si organizzano secondo una gerarchia chiamata tonalità : vi è infatti un suono centrale, chiamato tonica , attorno al quale orbitano tutti gli altri suoni della determinata nostra scala che è costruita a partire da quel suono . Tuttavia, il suono fondamentale di una scala prende questo nome solo quando viene trattato dal punto di vista della tonalità : in questo ambito, tutti i suoni della scala prendono il nome della loro rispettiva funzione tonale . Ogni suono della scala, infatti, ne possiede una precisa: essendo la tonica la nota fondamentale della scala (corrispondente al I grado ), i nomi delle altre funzioni tonali saranno indicate a seguire, in senso ascendente: sopratonica (corrispondente al II grado ), mediante (detta anche caratteristica o modale , corrispondente al III grado ), sottodominante (corrispondente al IV grado ), dominante (corrispondente al V grado ), sopradominante (corrispondente al VI grado ) e in ultimo sensibile o sottotonica (corrispondente al VII grado ) [51] . Niente paura: basterà al momento sapere che la tonica rappresenta la funzione armonica fondamentale per leggere sulla partitura le altre note della scala , che si potranno facilmente individuare a partire dalla loro relazione numerico-intervallare con la tonica stessa. Questo sarà chiarito tra poco. La tonalità si basa sulle scale e su queste si costruisce. Per tale ragione, le scale non sono ancora delle tonalità fin quando non le si guarda dal punto di vista della tonalità stessa. Ciò si comprende anche dal fatto che le scale possiedono una classificazione propria: si distinguono infatti in due categorie, chiamate modi (un modo maggiore e uno minore ). Questi due modi non sono distinguibili tramite il solo nome generico di un intervallo , perché il loro aspetto numerico è il medesimo, dal momento che, essendo insiemi di scale , si strutturano come mostrato (fig. 73) entrambi sulla scala fondamentale (formata numericamente da un’implicita successione intervallare di seconde). Quello che distingue modo maggiore e modo minore è il nome specifico degli intervalli di cui sono

composti. Cosa significa allora dire che un brano è, per esempio, in do diesis maggiore ? Numericamente, la posizione del nome di nota do sul pentagramma non è cambiata, è pur sempre un do . Ma si è aggiunto un aggettivo (o attributo ), ossia quel diesis , che ha una profonda valenza acustica . Do e do diesis da un punto di vista acustico non sono simili, non sono parenti, neppure cugini alla lontana. Sono due suoni completamente diversi. Tuttavia, da un punto di vista numerico, la distanza che intercorre sul pentagramma - ossia sulla scala fondamentale - tra do diesis e mi è la stessa che intercorre tra do e mi , poiché sono i nomi di nota della scala fondamentale ad associarsi al pentagramma , non gli attributi di tali nomi di nota ( diesis , bemolle ecc.), che si associano solo ai nomi di nota stessi [52] . Per rinfrescare la memoria, si riporta l’esempio già preso in esame nel paragrafo sugli intervalli (fig. 74 - fig. 75):

Figura 74

Figura 75

Questi due schemi (fig. 74 - fig. 75) vanno studiati attentamente, memorizzando le distanze che intercorrono tra tali intervalli secondo il metodo mostrato (par. 1 - Cap. II). I segni che si trovano a sinistra delle teste delle figure ritmiche si chiamano accidenti e servono a modificare l’altezza (sonora) dei suoni a cui le rispettive figure ritmiche sono associate. Da un punto di vista nominale , e non acustico, rappresentano l’attributo o aggettivo legato a un nome di nota (per esempio: la bemolle ). Si riportano di seguito i loro precisi nomi, a partire da sinistra: diesis , doppio diesis , bemolle , doppio bemolle e bequadro ( fig. 76).

Figura 76

Diesis e doppio diesis (il primo e il secondo segno in figura) sono accidenti ascendenti, perché modificano l’altezza del suono a cui si riferiscono di un semitono , rendendola più acuta ; bemolle e doppio bemolle (il terzo e quarto segno in figura) sono invece accidenti discendenti, perché modificano l’altezza del suono di un semitono , rendendola più grave . Il bequadro (il quinto segno in figura) invece, nonostante sia anch'esso un segno di alterazione , non rientra in queste due categorie perché ha il ruolo di annullare l'effetto degli altri accidenti , sia ascendenti che discendenti. È facile ascoltare l'effetto degli accidenti ascendenti e discendenti perché, all'atto pratico, i tasti bianchi del pianoforte che ricevono tali segni di alterazione fanno corrispondere il proprio nome di nota a uno dei loro tasti adiacenti. Si considerino i seguenti esempi: do diesis corrisponde al tasto nero immediatamente a destra del tasto bianco do . Fa bemolle corrisponde al tasto bianco immediatamente a sinistra del tasto bianco fa . A quei tasti adiacenti corrisponderanno suoni diversi rispetto a quello del tasto bianco a cui è stato assegnato in partenza l’ accidente . Per la precisione, andando

verso la destra della tastiera si otterranno suoni più acuti e andando verso la sua sinistra suoni più gravi. In altre parole, dove non c'è un tasto nero che sia adiacente al tasto di partenza rispetto alla direzione di alterazione [53] (ascendente= verso destra ; discendente= verso sinistra ) si dovrà procedere sul tasto bianco; se invece il tasto nero è presente, si procederà su quel tasto . A esempio: mi diesis corrisponde al tasto bianco immediatamente alla destra del mi , mentre fa diesis corrisponde al tasto nero immediatamente alla destra del fa . Stessa cosa per il do bemolle , che corrisponde al tasto bianco immediatamente alla sinistra del do , e per il sol bemolle , che corrisponde al tasto nero immediatamente alla sinistra del sol . Si ricordi che, sostituendo un diesis , doppio diesis , bemolle o doppio bemolle con un bequadro , segno che annulla l’effetto degli accidenti ascendenti e discendenti, si tornerà sempre a un tasto bianco. Leggendo un segno di alterazione , chi studia il pianoforte non terrà per sempre nella mente, mentre suona , il pensiero che un determinato tasto bianco sia il riferimento dal quale applicare l’ accidente . Questo pensiero è certamente un valido punto di partenza per attuare le prime associazioni tra i segni di alterazione che accompagnano i nomi delle note e la tastiera : tuttavia molti manuali che trattano dei nostri studi , per tradurlo in pratica, forniscono al lettore uno schema con sopra indicati i nomi di nota subito associati ai loro possibili attributi ( accidenti ) e a tutte le loro possibili posizioni su pentagramma e tastiera . In questo modo non si fa chiarezza sul fatto che la comprensione del processo di alterazione espresso dagli accidenti non può avvenire se prima di presentare tale schema non si introduce almeno il concetto di tonalità . Pertanto, è vero che il processo di associazione tra gli accidenti e la tastiera avrà luogo soltanto quando si riuscirà a trovare immediatamente, senza cioè prima pensare alla teoria, la posizione di un determinato tasto sul pianoforte anche se il nome di nota a cui questo si associa è accompagnato da un attributo : tuttavia, il lettore deve poter sapere sin da subito che in questo caso l’associazione tra teoria e pratica, in virtù dell’ ambiguità della tastiera (par. 8 - Cap. II)

non avviene con diretti esercizi tattili o visivi come quelli proposti nel primo capitolo [54] , ma deve essere gradualmente attuata attraverso precisi studi sulla tecnica pianistica che verranno introdotti nel capitolo VI [55] . Da un punto di vista teorico, gli accidenti hanno una funzione strettamente legata a tutto ciò che viene costruito a partire dalla scala fondamentale . Pertanto, la loro funzione appartiene all’ambito delle scale e a quello delle loro associate tonalità: anteposti a una determinata nota , gli accidenti ne modificano l'altezza sonora determinando l’attributo del nome della stessa , ossia l’aggettivo diesis , bemolle , bequadro , doppio diesis o doppio bemolle , rendendo tale nome definito e inequivocabile. Nell’ambito dei nostri studi gli accidenti non sono mai posti senza criterio, ma seguono schemi ben precisi che bisogna conoscere, poiché si possono trovare come: 1.

Accidenti d’impianto o costanti , di cui si tratterà a breve introducendo il concetto di armatura di chiave. Questi accidenti vengono posti immediatamente dopo la chiave e hanno valore, su tutte le ottave, per l’intera durata della composizione (o comunque fino a un cambio di tonalità [56] ).

2. Accidenti transitori [57] , di cui si tratterà a breve in relazione alle scale minori . Come detto in precedenza, durante la prima fase di lettura di uno spartito che sia per esempio in do maggiore (nella tonalità di do maggiore ), si avranno come punti di riferimento proprio i do che si trovano sul pentagramma ; in seguito, da quelli si ricaverà la posizione degli altri elementi della scala, nel modo numericointervallare già esposto. Questo, per quanto utile, non basta a saper leggere e suonare le note scritte sul pentagramma , in quanto i possibili accidenti posti su questo o quel nome di nota non sono ancora stati considerati. Al fine di rassicurare il lettore, si ricordi che

gli accidenti sono sempre posti con criterio: questi infatti vengono disposti nei due modi , maggiore e minore, quindi all’interno di tutte le scale , secondo uno schema ben preciso, chiamato circolo delle quinte [58] . Quest’ultimo riassume le alterazioni presenti in tutte le nostre scale , quelle chiamate diatoniche , ordinate per intervalli di quinta o quarta (fig. 77):

Figura 77

In questo schema i nomi delle note (e i loro attributi: diesis, bemolle, ecc.) che si trovano esternamente o internamente al cerchio rappresentano le fondamentali di ogni scala a esse associate.

Quindi, anche se nel circolo c’è scritto semplicemente fa , si sta intendendo scala di fa . I nomi delle note si trovano all’interno e all’esterno del circolo : quelli scritti fuori dal cerchio rappresentano le scale maggiori (se si trova un fa si leggerà scala di fa maggiore ); quelli scritti all’interno del cerchio rappresentano le scale minori (se si trova un fa si leggerà scala di fa minore ). Le alterazioni indicate su questo circolo si riferiscono all’ armatura di chiave , ossia quell’insieme di accidenti posto subito dopo la chiave (fig. 78 - 79):

Figura 78

Figura 79

È importante ora capire a cosa serve e come si scrive un’ armatura di chiave , visto che il circolo delle quinte rappresenta una

schematizzazione di tutte le armature di chiave usate nella nostra musica . L’ armatura di chiave non è composta da più di sette elementi, quanti sono i componenti della scala fondamentale . Quest’ultima considerazione è essenziale per capire che non si incontreranno più di sette accidenti nell' armatura di chiave . Questo accade perché gli accidenti che costituiscono l’armatura di chiave devono essere applicati alle sette componenti della scala fondamentale ( do re mi fa sol la si) . Il fatto che questi accidenti siano posti immediatamente dopo la chiave , indica che avranno valore per tutta la durata del brano, salvo successive indicazioni. La loro disposizione non è casuale: esattamente come le chiavi musicali , gli accidenti dell’ armatura di chiave si collocano su una determinata riga o un determinato spazio del pentagramma , modificando l’altezza del suono che a quella riga o a quello spazio era stato associato attraverso la chiave che sul quel pentagramma era stata posta [59] . Quest’ultima infatti assegna un nome a ogni riga del pentagramma , permettendo in questo modo la distinzione di tutti gli altri nomi di nota assegnati alle altre righe o agli altri spazi del medesimo. La chiave assegna inoltre una precisa altezza acustica alla riga sulla quale è stata scritta: come si è visto nel paragrafo sull’associazione della scala fondamentale ai tasti bianchi (par. 4 Cap. I), il sol indicato a esempio dalla chiave di violino è un preciso sol , ossia il quarto che si incontra procedendo da sinistra su un pianoforte a ottantotto tasti . Quel preciso sol ha un’ altezza (del suono ) dalla quale è possibile ricavare, proseguendo verso destra o sinistra sulla tastiera del pianoforte, le altezze sonore di tutte le altre note associate al pentagramma . L’armatura di chiave ha quindi una funzione ben precisa: quella di definire quali siano gli accidenti che differenziano le scale tra loro . Una scala di re maggiore (due diesis in armatura di chiave) differisce da una di fa maggiore (un bemolle in armatura di chiave ) così come una scala di do minore (tre bemolli in armatura di chiave ) da una di la maggiore (tre diesis in armatura di chiave ). In sintesi, l’ armatura di chiave permette di comprendere la struttura di tutte le nostre scale . Si confronti quanto si sta per dire con l’immagine del

circolo delle quinte (fig. 77): all’interno del circolo, procedendo verso destra rispetto al do che rappresenta la scala di do maggiore, si aggiungerà di volta in volta un diesis all’ armatura di chiave di ogni scala incontrata. Questi diesis andranno disposti sul pentagramma sempre seguendo il circolo delle quinte, in senso orario, a partire dal fa e senza impiegare tagli addizionali . Eccone la disposizione completa: fa , do , sol , re , la , mi e si (fig. 80).

Figura 80

Invece, procedendo verso sinistra rispetto al do che rappresenta la scala di do maggiore , si aggiungerà di volta in volta un bemolle in armatura di chiave. Questo accidente andrà sempre disposto sul pentagramma secondo il circolo delle quinte , seguendolo in senso antiorario, a partire dal si . Eccone la disposizione completa: si , mi , la , re , sol , do e fa (fig. 81).

Figura 81

Riassumendo, l’utilità del circolo delle quinte può essere compresa mediante un esempio pratico: s’immagini di voler conoscere la struttura della scala di re maggiore . La ricerca partirà rimanendo nella parte esterna del circolo , perché è lì che si trovano le scale appartenenti al modo maggiore . Lì si vedrà che il re presenta due diesis , indicati nella parte interna dello schema, accanto alla relativa scala nel modo minore , che viene detta così perché ha la stessa armatura di chiave (si veda fig. 82).

Figura 82

Dallo schema risulta quindi evidente che il tipo e la quantità degli accidenti appartenenti alla scala di re maggiore sono comodamente indicati (fig. 82), ma questi si potrebbero ricavare anche senza andare a cercare direttamente il re , semplicemente partendo dalla scala di do maggiore (fig. 83):

Figura 83

Procedendo infatti in senso orario, per arrivare al re , e aggiungendo un diesis di volta in volta, si otterrà che re maggiore presenta due accidenti in chiave . A questo punto è sufficiente chiedersi quali siano le note della scala fondamentale sulle quali sono stati posti questi accidenti che determinano la struttura peculiare della scala diatonica di re maggiore . La risposta è: sul fa e sul do . L’ armatura di chiave sarà pertanto la seguente (fig. 84):

Figura 84

È importante tenere a mente che, nei primi momenti di pratica della lettura, al fine di considerare facilmente gli accidenti delle armature di chiave associate alle varie scale, non si dovranno tenere a mente più di tre accidenti per ogni scala . Per esempio: nel caso della scala di si maggiore , bisognerà tenere a mente che il mi non è alterato , ossia non ha accidenti anteposti (il si naturale , ossia senza accidenti , che dà il nome alla scala è sottinteso), e non viceversa tenere a mente che fa , do , sol , re e la sono alterate ; occorre fare lo stesso per quanto concerne la scala maggiore costruita sul mi naturale , in cui sarà meglio tenere a mente che si , mi (sottinteso) e la non sono alterate . Per praticare questa esclusione , quanto detto finora si può riassumere in tal modo: ●

Per le scale con più di tre diesis in armatura di chiave, si dovranno escludere le note a cui si associano i primi tre accidenti delle scale con bemolli (tutte o solo alcune tra si , mi e la ); ● Per le scale con più di tre bemolli si dovranno invece escludere le note a cui si associano i primi tre accidenti delle scale con i diesis (tutte o solo alcune tra fa , do e sol ).

In tal senso, vi è un ulteriore elemento fondamentale per la preparazione della lettura pianistica: leggendo una scala costruita su un grado già alterato , per rispettare la struttura intervallare relativa al tipo di scala presa in esame, bisogna porre automaticamente la stessa alterazione, ossia gli stessi accidenti, su tutti gli altri suoi gradi . Ci si potrebbe chiedere perché le scale necessitino degli accidenti per essere determinate nella loro struttura: per comprendere questo, bisogna saper analizzare gli intervalli di cui sono composte da un punto di vista specifico . Infatti, nel contesto di questo paragrafo gli intervalli non sono più considerati esclusivamente per il loro aspetto numerico, ma anche per quello acustico. Si precisa che le regole e le tecniche sulla lettura dell’aspetto numerico degli intervalli non cambiano neppure a questo punto, e non cambieranno mai nel corso dei nostri studi . Per comprendere a fondo l’uso degli accidenti e la ragione per cui questi definiscano le differenze tra le varie scale e siano scritti in determinate posizioni - schematizzabili nel circolo delle quinte - bisogna sapere che i modi , a loro volta (in particolare il modo minore ), prevedono una ulteriore distinzione in sottocategorie. Anche se potrebbe non risultare immediatamente chiaro, lo schema seguente (fig. 85) serve a concepire teoricamente qualsiasi scala . Questo schema andrà integrato in un secondo momento con il successivo schema sulla distinzione di un nome specifico dell’ intervallo : solo in tal modo, ricostruendo le scale , confrontandole e comprendendone la struttura, si arriverà a capire la definizione di tono e semitono , che non si può concepire prescindendo dalle scale stesse. Non ci si spaventi quindi se nelle due pagine successive non si comprenderà ogni concetto in maniera chiara: ciò accadrà perché queste ultime dovranno essere confrontate con quelle immediatamente successive, relative alla trattazione del nome specifico di un intervallo . Una volta colta la differenza tra i “mattoni” [60] teorici che ne permettono una precisa definizione, ossia toni e semitoni , tutte le scale diatoniche non saranno più un segreto. Al fine di rassicurare il lettore, si precisa che queste articolate acquisizioni troveranno una successiva schematizzazione in un

paragrafo loro dedicato (par. 6 - Cap. VI), che ne permetterà la messa in pratica senza sforzo. a. Come già accennato, gli intervalli non hanno solo un nome

generico , ma anche uno specifico . Se ogni intervallo di seconda maggiore è definito tono ( T ) e ogni intervallo di seconda minore è definito semitono ( s ), tutte le scale maggiori si possono inscrivere in questa sequenza: T-T-s-TT-T-s (fig. 85). Va da sé che tutte le scale maggiori naturali [61] presentino una terza maggiore , una sesta maggiore e una sensibile (ci si riferirà d’ora in poi all’ intervallo che parte dalla nota fondamentale della scala ).

Figura 85

b. Tutte le scale minori presentano una terza minore , ma non

tutte una sesta minore o una sottotonica . Perciò quello che autenticamente fa distinguere su un piano teorico una scala maggiore da una minore è solo la terza minore . Più avanti si dimostrerà che, dal punto di vista pratico, si possono trovare altri modi per distinguere le scale maggiori da quelle minori e viceversa. Ciò avverrà a seconda del contesto, che nella pratica si arricchirà di particolari variegati senza andare contro quest’acquisizione teorica di fondo relativa alla terza della scala , che resterà sempre valida.

c. Una scala minore armonica (o moderna ) differisce dalla

scala maggiore perché ha la sesta minore e la sensibile (oltre che la sottintesa terza minore ). d. Una scala minore melodica (o antica ) ascendente

differisce dalla scala minore armonica perché ha la sesta maggiore. e. Una scala minore melodica (o antica ) discendente

differisce dalla scala minore armonica perché presenta la sottotonica . Data la struttura della scala (sopra citata), gli intervalli della scala minore melodica discendente sono ovviamente da considerarsi allo stesso modo di quelli della ascendente, ossia a partire dalla nota più bassa: a esempio, un intervallo melodico di seconda maggiore discendente ( tono discendente) tra sol e fa è da considerarsi a partire dal fa , nonostante seguendo l’ordine di lettura il sol sia scritto per primo. Infatti, considerando in modo errato lo stesso intervallo dal sol , si otterrebbe, sbagliando , un intervallo minore . È pertanto forse più semplice e chiaro costruire una scala melodica discendente disponendola dapprima in senso ascendente e poi, una volta che ne si è determinata la struttura attraverso gli accidenti , invertire la direzione delle sue note . Per mantenere lo stesso nome di nota fondamentale della scala ma cambiare l’esempio, la scala di do minore armonica (o moderna ) avrà questa configurazione (fig. 86):

Figura 86

La scala di sol diesis minore melodica ascendente avrà invece quest’altra configurazione: la terza minore , la sesta maggiore e la sensibile (fig. 87).

Figura 87

Dalla struttura di queste scale diatoniche si ricava che il IV e il V grado delle medesime rappresentano sempre la nota più alta di una quarta o quinta giusta [62] (considerando il I come nota più bassa dell’ intervallo ). Questa considerazione sarà fondamentale per i capitoli successivi: se si deve pensare a quale sia la quinta nota della scala di do maggiore (associata alla funzione armonica di dominante o meno) non si conterà do (I) , re (II) , mi (III) e fa (IV), ma si penserà sul pentagramma a una distanza di tre righe o tre spazi (a seconda dell’altezza o della chiave in cui si sta leggendo), partendo da quella della nota precedente: su quella riga o su quello spazio si trova il sol . Dal momento che tale principio vale anche per quanto riguarda le scale che hanno la tonica alterata rispetto alla scala fondamentale (per esempio mi bemolle maggiore ), sarà sufficiente pensare al quarto o al quinto grado con la stessa alterazione del primo grado che ha come nota più bassa. A coronamento di quanto si è detto, le precise definizioni del manuale di Armonia di W. Piston [63] permetteranno di comprendere quali differenze ci siano tra i nomi specifici degli intervalli : La seconda parte del nome [di un intervallo [64] ], ossia il nome specifico (quale tipo di terza, settima ecc .), può essere determinata mediante un confronto con la scala maggiore formata a partire dalla più grave delle due note . Se la nota superiore coincide con una nota della scala, l’intervallo è maggiore (oppure giusto se si tratta di ottave, quinte, quarte o unisoni). Se la

nota superiore non coincide con una nota della scala, si devono applicare i seguenti criteri: a. La differenza [il termine è inteso in senso matematico [65] ] tra un intervallo maggiore e l’intervallo minore con lo stesso nome generico è di un semitono. b. Ampliando di un semitono un intervallo maggiore o giusto, questo diventa eccedente. c. Riducendo di un semitono un intervallo minore o giusto questo diventa diminuito. […] Nel caso in cui la nota inferiore sia alterata conviene forse considerare l’intervallo dapprima come se tale nota fosse naturale e solo in un secondo tempo derivare il nome dell’intervallo confrontando l’effetto dell’alterazione con le regole precedenti.

Le scale utili per il riconoscimento di qualsiasi nome specifico di un intervallo sono quindi soltanto sette, quelle maggiori naturali costruite sui sette nomi della scala fondamentale (tutte su tasti bianchi), che non presenta accidenti : do, re, mi, fa, sol, la e si , oppure, volendo seguire il circolo delle quinte : fa, do, sol, re, la, mi e si . È fondamentale, prima di proseguire con la lettura di questo capitolo, avere confidenza con queste sette scale maggiori naturali , conoscerle a memoria e successivamente saper dire correttamente quale siano la prima e seconda parte del nome di qualsiasi intervallo attraverso queste scale servendosi delle regole succitate. Per imparare queste sette scale occorre lavorare prima di tutto sulla loro lettura scomponendole, per esempio, in intervalli di seconda, una volta in chiave di basso e una volta in chiave di violino : dapprima pronunciando attentamente più volte righe e spazi a gruppi di due (per esempio sol - la , la - si , si-do , ecc.); in seguito pronunciando righe e spazi a gruppi di tre ( do-re-mi , mi-fa-sol , solla-si eccetera); poi pronunciando a gruppi di quattro, poi a gruppi di cinque e di sei fino ad arrivare a un unico gruppo da sette note , scegliendo la velocità di ripetizione in base alla propria confidenza. Per questo studio bisogna tenere sempre bene a mente un’immagine di quelle note ed evitarne la ripetizione meccanica . Si parta sempre da un punto diverso della scala fondamentale,

aggiungendo di volta in volta gli accidenti delle armature di chiave di ognuna delle sette scale (sia in senso ascendente che discendente). Il motivo per cui le scale sono fatte in un determinato modo , il perché si impieghino determinati accidenti in precise posizioni ossia su precise note delle medesime - è quindi finalmente deducibile : tuttavia questo motivo, per essere afferrato, richiede un ragionamento. Tutte le scale si costruiscono, come si è mostrato, partendo da un punto della scala fondamentale e sovrapponendo un preciso numero di intervalli melodici di seconda; questo punto si sceglie nella prima delle due fasi di composizione di una scala (fig. 73) e si può decidere solo attraverso la chiave che, stabilendo un orientamento per i nomi delle note sul pentagramma , permette di riconoscere anche i punti sui quali la scala fondamentale inizia, termina e si ripete. Se due scale sono costruite a partire dallo stesso punto della scala fondamentale , gli accidenti hanno un preciso ruolo distintivo : a esempio, una scala di do diesis minore sarà costruita a partire da un punto comune della scala fondamentale , ossia dal do , ma avrà ovviamente un’ armatura di chiave differente rispetto a una scala di do minore o do diesis minore . Dato che la scala fondamentale è associata fermamente al pentagramma attraverso la chiave - perché le sue righe e i suoi spazi hanno sempre la stessa relazione numerica, a prescindere dalle scale che sopra vi si costruiscono - ci si accorgerà di quanto segue: se lo si potesse guardare da un punto di vista diatonico , il pentagramma associato ai nomi della scala fondamentale avrebbe sempre due semitoni , ossia due intervalli di seconda minore , rispettivamente tra mi e fa e tra si e do : dato che non lo si può guardare in tal modo, perché come si è detto rimane un semplice insieme di nomi di note e non di suoni , si devono considerare le scale che prevedono una disposizione di toni e semitoni che non necessita di accidenti in armatura di chiave per essere espressa sul pentagramma (fig. 83), e da quelle ricavare la posizione di toni e semitoni sul pentagramma privo di armatura di chiave : quello che si ricava è l’ armatura di chiave fondamentale . Si noterà altresì che, nonostante questa struttura intervallare si ripeta rimanendo valida per tutte le scale maggiori , queste ultime vengono costruite sempre da un punto diverso della scala fondamentale ,

perciò il pentagramma in armatura di chiave fondamentale prevederà un semitono tra il mi e il fa e tra il si e il do che si troverà sempre su un punto diverso di tali scale . Proprio per questo diventa essenziale porre degli accidenti su determinate note , al fine di adattare la nuova posizione dei semitoni richiesta dalla struttura delle scale alla armatura di chiave fondamentale associata al pentagramma (come si è detto precedentemente, la configurazione di tutte le scale maggiori è sempre, indipendentemente dalla riga o dallo spazio in cui esse prendono origine , la seguente: T-T-s-TT-T-s ), dal momento che non tutte le scale , nella loro struttura, possono avere un semitono tra il mi e il fa e tra il si e il do . Si prenda un esempio: il settimo grado di re maggiore è do diesis ; se fosse naturale , quindi senza accidenti , sarebbe distante un tono intero, e non un semitono , dal re ; da qui l’esigenza, procedendo a partire dal re sulla scala fondamentale ( re mi fa sol la si do ), di porre un diesis sulla settima nota incontrata, ossia il do , detto appunto per questo settimo grado della scala . Quando la distanza tra il settimo e il primo grado d’una scala è pari a un semitono , il settimo grado prende la funzione tonale di sensibile ; se la distanza è invece quella di un tono intero, come capita in un caso cui si parlerà a breve, il settimo grado prende la funzione tonale di sottotonica . Ora che si è compreso perché le scale siano distinte tra loro, si può facilmente comprendere l’importanza, a fini analitici, di divenire agili nella determinazione nel nome specifico di un intervallo , che oltre a determinare le differenze nella struttura delle scale determina anche il nome specifico delle trìadi . A riguardo di queste ultime, Walter Piston scrive nel suo manuale di Armonia [66] : A partire da una fondamentale data, notiamo che: ●

Una terza minore su una terza maggiore dà origine a una trìade maggiore; ● Una terza maggiore su una terza minore dà origine a una trìade minore;



Due terze maggiori sovrapposte formano una trìade eccedente; ● Due terze minori sovrapposte formano una trìade diminuita. Nelle trìadi maggiori e minori, l’intervallo tra la fondamentale e la quinta è una quinta giusta; nelle trìadi eccedenti, tale intervallo è una quinta eccedente; nelle trìadi diminuite, una quinta diminuita.

Figura 68-2

Per quanto riguarda la pratica allo strumento, di grande aiuto per la memorizzazione, si incontrerà più avanti un capitolo interamente riservato allo studio pratico delle scale e alla messa in pratica del circolo delle quinte (Cap. V), che faciliterà l’acquisizione e la messa in pratica e di tutti i princìpi enunciati in questo paragrafo. 2.7 Introduzione pratica alla melodia In un paragrafo precedente (par. 6 - Cap. I) si è chiarito che nel processo di lettura di una nota è necessario decodificare: 1) 2)

Una figura ritmica ; Una posizione del pentagramma (al quale è associata la scala fondamentale attraverso la chiave , da cui si ricava il nome della nota che può presentare o meno un attributo ); 3) Un’ altezza sonora, ossia un suono .

Nello scorso paragrafo (par. 6 - Cap. II) si è poi introdotto il concetto di funzione armonica : questa non fa parte dell’elenco appena citato poiché non è una caratteristica costitutiva di ciò che viene chiamato nota . Tuttavia a questa si associa . L’autore propone di seguito uno schema logico sul quale è necessario soffermarsi per capire perché al concetto di nota si associ quello di funzione armonica : 1)

Qualsiasi nota della nostra musica può essere messa in relazione a una scala dalla quale è tratta;

2)

Le scale a loro volta contengono i suoni che compongono gli intervalli ;

3)

Gli intervalli , a loro volta, sono i componenti degli accordi ;

4)

Gli accordi , a loro volta, si costruiscono su una nota fondamentale ;

5)

Una nota si definisce solo se sono presenti tutti i suoi elementi costitutivi, tra i quali i suoni adoperati per la nostra musica ;

6)

I suoni della scala sono gerarchizzati secondo il concetto di tonalità , per il quale uno di essi è considerato il suono centrale, ossia la tonica, attorno al quale orbitano su livelli diversi gli altri suoni della scala a cui il concetto di tonalità si applica;

7)

Il ruolo che riveste un accordo all’interno della tonalità viene definito dalla nota della scala sulla quale viene costruito ( nota fondamentale della scala ), che dal punto di vista della tonalità prende il nome di funzione armonica .

Ripercorrendo questo elenco a ritroso si potrà notare in quale relazione diretta si trovino note e funzioni armoniche . Questo elenco

evidenzia anche che ogni nota , seppur presa singolarmente, potrà sempre essere considerata in relazione a un preciso accordo e alla sua relativa armonia , ossia con l’effetto prodotto dalla simultaneità delle sue componenti (che sono le voci [67] , di cui si è trattato in precedenza nel par. 6 del Cap. II). Con il termine melodia s’intende un qualsiasi gruppo di note avvertito come una successione coerente [68] . Dal punto di vista della tonalità, le note di cui le scale sono composte possono essere viste come funzioni armoniche associate alle note della scala : tonica , sopratonica , mediante , sottodominante , dominante , sopradominante , sensibile o sottotonica . Si parla di funzione armonica proprio perché su ognuno dei gradi della scala può essere costruito un accordo , ossia un’ armonia [69] . Quando le note delle scale vengono considerate dal punto di vista dell’ Armonia e della tonalità alla quale sono associate, vengono schematizzate con dei numeri romani. Per esempio, in do maggiore il mi rappresenta il terzo grado oppure semplicemente III . Sovrapponendo su tutti i gradi delle scale maggiori due intervalli di terza si ottengono le seguenti trìadi :

Figura 71-1

Di queste trìadi che si ottengono, quelle costruite a partire dal I, IV e V grado definiscono il modo più caratteristicamente rispetto alle altre poiché contengono da sole tutti i gradi del modo maggiore

. Infatti, riordinandone le note scritte qui di seguito in grassetto, si capisce che sono quelle della scala di do maggiore (do-re-mi-fa-solla-si): I: DO - MI - SOL IV: FA - LA -DO V: SOL- SI - RE Per questo motivo I, IV e V grado prendono il nome di gradi caratteristici (o forti ). Si provi a fare lo stesso sui gradi forti della scala di re maggiore aiutandosi per il momento con lo schema sul circolo delle quinte (fig. 77): I: RE - FA(♯) - LA IV: SOL - SI -RE V: LA- DO(♯) - MI Si sono ottenute anche in questo caso, logicamente, tutte le note della scala di re maggiore (re-mi-fa ♯ -sol-la-si-do ♯ ). Due note non sono state scritte in grassetto perché si ripetono: ce ne si occuperà a breve e si riveleranno particolarmente utili. Gli accordi precedenti possono anche essere scritti in questo modo:

Figura 71-2

In questo esempio, volutamente antimusicale e puramente didattico , il soprano getta le basi di una linea melodica ben chiara, composta da note che fanno parte degli accordi. Le note del soprano sono quindi armonizzate , ossia l’ armonia a cui si riferiscono è stata esplicitata . L’esempio ha il solo scopo di far capire che melodia e armonia procedono di pari passo nella nostra musica e non sono mai da concepirsi in modo separato: dell’arte di combinare melodia e armonia si occupa soprattutto la materia chiamata contrappunto . In questo paragrafo non ci si occuperà di questa materia, ma di capire che per armonizzare una melodia è necessario in primo luogo trovare accordi che contengano le note di quella melodia . Ci si soffermi infatti sulle sole trìadi : questo stesso abbozzo di melodia (fig. 71-2) si sarebbe potuto armonizzare impiegando i soli gradi forti , poiché questi da soli contengono tutte le note della scala e, conseguentemente, di qualsiasi melodia venga costruita sulla scala stessa. Si aggiunga allora una nota dal senso conclusivo [70] alla fine dell’esempio precedente (fig. 71-2) e si osservi la seguente dimostrazione didattica:

Figura 71-3

Nonostante in questo modo (fig. 71-3) sia stata definita con successo una melodia per il soprano e la si sia armonizzata impiegando i soli gradi forti , il risultato di questa operazione è ancora antimusicale. Questo non dipende dal fatto che l’operazione di armonizzare le sette note della scala con i soli gradi forti sia sbagliata, ma dal fatto che questi gradi forti siano stati impiegati

esclusivamente in stato fondamentale . Se invece si fossero impiegati dei rivolti , la stessa armonizzazione sarebbe potuta avvenire in questo modo:

Figura 71-4

L’esempio qui sopra (fig. 71-4) mostra un efficace, anche se non particolarmente musicale, esercizio di armonizzazione [71] . Questo esercizio permetterà di connettere in breve la melodia all’ armonia , e di prendere una prima confidenza con la successione delle trìadi costruite sui gradi forti (i più frequenti da incontrare nelle prime letture). Si proceda nel modo seguente: 1)

Si scelga una tonalità maggiore ( do maggiore , re maggiore, eccetera. L’autore consiglia di seguire l’ordine del circolo delle quinte );

2)

Si suoni la trìade in stato fondamentale costruita sul primo grado per armonizzare la prima nota della scala ;

3)

Tenendo una nota ferma nei vari accordi , si ricostruiscano mentalmente le strutture delle trìadi costruite sui gradi forti (I, IV o V) di quella scala e si suoni quella che contiene la nota della melodia (che è rappresentata dalla scala che si è scelta). Per esempio: se si è scelta la tonalità di do maggiore , e si legge nella melodia il sol della scala , si può pensare a do -mi-sol oppure a sol -si-re e suonare uno di questi due accordi per armonizzare la nota della melodia .

Infine si rifletta, sperimentando, su quanto segue: le uniche due note della melodia sulle quali si possono avere due scelte per l’ armonizzazione , rimanendo al solo utilizzo delle trìadi costruite sui gradi forti , sono la prima nota della scala e la quinta nota della scala . In questi due casi infatti l’ armonizzazione può essere scelta come nell’esempio seguente:

Figura 71-5

La scelta tra queste due opzioni di armonizzazione avverrà secondo il gusto personale. L’autore consiglia di eseguire questo esercizio in tutte le scale maggiori seguendo l’ordine proposto dal circolo delle quinte (fig. 77) : se ne trarrà enorme giovamento per la capacità di lettura. In seguito (par. 5 - Cap. VII) si affronterà lo stesso esercizio per le trìadi costruite sui gradi forti del modo minore , di cui fino a quel punto non ci si dovrà occupare. Nei capitoli VI e VII si troverà una guida pratica per studiare senza sforzo i componenti di questo esercizio, evitandone in tal modo la ripetizione meccanica. All’interno di una melodia possono succedersi anche note che non fanno parte dell’ armonia dell’ accordo . Le prime due battute dell’esercizio proposto in precedenza (fig. 71-4) possono essere scritte in questo modo:

In questo caso, alcune note della melodia (per esempio il fa ) non fanno strettamente parte dell’ accordo ( armonia ) a cui ritmicamente si associano. È facile riconoscerle, poiché hanno carattere dissonante rispetto all’ armonia stessa, ossia sviluppano tensione armonica verso una consonanza . L’ Armonia infatti si può dividere in due grandi famiglie: 1)

Armonia consonante;

2)

Armonia dissonante.

Limitandosi alla considerazione dei tipi di accordo finora menzionati, all’ armonia consonante appartengono le trìadi , mentre all’ armonia dissonante le settime e le none [72] . Da questo si capisce che molto spesso una nota della melodia può essere analizzata come un elemento di armonia dissonante , ma non bisogna dimenticare che l’analisi melodica è un procedimento differente rispetto a quello dell’analisi armonica nonostante questi due aspetti, armonia e melodia , siano inseparabili nella nostra musica. Ci si può chiedere da una parte che valore abbia una nota all’interno del contesto armonico , e dall’altra che valore abbia la medesima nel contesto melodico , per poi integrare le due prospettive tra loro. Un elemento della melodia molto importante da conoscere nel corso dei primi studi è la nota di passaggio : questa viene considerata una nota

estranea all’armonia e s’interpone tra due note reali , ossia appartenenti all’ armonia . Solitamente questa interposizione avviene per grado congiunto , sia in senso ascendente che discendente. Spesso queste note hanno valore breve, anche se si potrebbero trovare esempi illustri in cui la nota di passaggio occupa una lunga durata. Nelle scale della nostra musica , l’orecchio non percepisce come note reali che quelle di partenza e quelle di arrivo [73] . Oltre alla nota di passaggio esistono molti altri tipi di note estranee all’armonia . Dato che questi altri tipi saranno più rari nel corso delle prime letture, se ne riporta in seguito solo una possibile categorizzazione in due grandi famiglie [74] : Prima famiglia di note estranee all’armonia: 1) 2)

Note di passaggio; Fioriture.

Seconda famiglia di note estranee all’armonia: 1) 2) 3)

Anticipazioni; Appoggiature; Note sfuggite.

2.8 L’ambiguità della tastiera Nelle prime fasi di studio, è importante capire che in molti casi è sbagliato pensare prima alla tastiera , ossia alla pratica, e poi allo spartito , ossia alla teoria. Uno di questi casi è quello già introdotto in un capitolo precedente del manuale (par. 6 - Cap. II), secondo il quale i tasti del pianoforte possono avere molteplici significati: a esempio, il tasto nero del re bemolle è anche quello del do diesis , del si doppio diesis, eccetera. Tuttavia vi è un caso che ha una particolare rilevanza: esattamente come quando, pensando alle parole che si scrivono, non ci si riferisce mentalmente ai gesti che la mano deve compiere per tramutarle in segni grafici, ma piuttosto a

concetti astratti, allo stesso modo quando si concepisce mentalmente una semplice scala vi è sempre un pensiero musicale alla sua base. Se fosse il contrario, sarebbe come se per parlare non si pensasse a cosa si deve dire ma ai movimenti che l’apparato fonatorio deve compiere per emettere una determinata parola. Il lavoro sulla pratica presuppone e integra una concezione teorica, che deve essere sempre ben chiara, esattamente quanto quella pratica. 2.9 Intervalli consonanti e dissonanti Si aggiunge per completezza che in alcuni casi è possibile riconoscere se un intervallo sia consonante o dissonante dal solo nome delle note di cui è composto. Gli intervalli di terza e sesta sono definiti consonanti in entrambi i modi . Quelli di seconda , settima e nona sono definiti dissonanti . Gli intervalli di seconda e settima sono stati evidenziati in grassetto perché nel paragone tra i due tipi accordali di trìade e settima erano risultati identificativi per questo secondo tipo di accordo . L’ intervallo di seconda comprende in realtà sia quello di settima che quello di nona, in quanto questi due ne rappresentano i rivolti in senso ascendente e discendente. Si scriva infatti una settima tra do e si : rivoltando il do, ossia mettendo il si in basso, si ottiene una seconda. Lo stesso accade per una nona tra do e re : il motivo è da ricercarsi nel già citato schema di Walter Piston relativo all’interpretazione degli intervalli composti (par. 3 - Cap. II). Questa caratteristica degli intervalli è fondamentale per la capacità di previsione nella lettura, poiché può aiutare l’orecchio. A riguardo, Walter Piston nel suo manuale di Armonia scrive quanto segue: Un intervallo è consonante quando la sua sonorità risulta stabile e in sé compiuta. Un intervallo dissonante risuona invece come instabile e tende a risolvere su un intervallo consonante. Senza dubbio questa distinzione può essere influenzata da interpretazioni

personali e soggettive; è comunque indubbio che, nella pratica della composizione, è valida la seguente classificazione: -

-

Consonanti : gli intervalli giusti [unisono, quarta quando sotto alla sua nota più grave si trova una terza o una quinta giusta, quinta e ottava]; quelli di terza e sesta (maggiori e minori); Dissonanti : gli intervalli eccedenti e diminuiti; quelli di seconda , [e di quarta quando sotto alla loro nota più grave non si trova un intervallo di terza o una quinta giusta] gli intervalli di settima e di nona (maggiori e minori). [75]

2.10 Una cattiva abitudine: leggere sempre nota per nota Leggere una composizione soltanto nota per nota è come tentare di leggere questo manuale lettera per lettera: il senso sparisce e il tempo necessario per arrivare all’ultima pagina aumenta esponenzialmente. Quando si legge un testo letterario compiuto conoscendone la lingua, si tende solitamente a connettere gli elementi tra loro facendo riferimento dentro di sé a quanto riconosciuto perché già integrato e noto, almeno a una prima lettura. Questi modelli interiori sono forme che si riconoscono come corrette o consolidate, utili a non dover leggere ogni volta lettera per lettera o sillaba per sillaba parole che già si conoscono. Infatti, per leggere con una certa velocità è sufficiente riconoscere pochi elementi: la lunghezza della parola, la lettera con cui inizia, quella con cui finisce [76] e l’associazione che le forme e le posizioni delle lettere stabiliscono tra loro. In tal modo, nella maggior parte dei casi, eventuali errori o elementi insoliti saltano all’occhio spontaneamente, senza che sia sempre necessario svolgere un ruolo attivo nel compitare ognuna delle lettere che compongono quella parola. Viceversa, quando si legge un testo letterario compiuto non conoscendone la lingua, solitamente si parte dalle singole lettere, ossia dall’alfabeto e dai fonemi a esso associati. Non è un caso se questi rappresentano alcuni dei primi rudimenti insegnati durante

l’apprendimento del linguaggio: la lettura e la pronuncia delle lettere prese singolarmente è fondamentale, perché senza conoscere ogni singola lettera non si potrebbero conoscere le parole scritte di cui non si possiede ancora un’immagine di riferimento da integrare nel proprio vocabolario. Attribuendo la stessa importanza a specificazione e generalizzazione, si comprende che in alcuni casi leggere per scomposizioni può non essere sbagliato, bensì rappresentare una prospettiva obbligata. Lo stesso vale per quanto riguarda il leggere per sintesi: tutto sta nel non escludere una di queste due prospettive, ma nell’integrarle in una prassi che dia loro pari importanza. Per farlo, bisogna seguire queste fasi [77] : 1. Fase di lettura per scomposizione; 2. Fase di lettura per sintesi. Nella prima fase rientra la lettura degli elementi presi singolarmente. Questo tipo di lettura è da riservare alla tecnica , ossia ai singoli elementi che compongono l’ armonia , o che costituiscono cellule “grammaticali” del discorso musicale come le note , o addirittura solo le figure ritmiche che compongono delle scale , degli arpeggi , degli accordi , eccetera. In questo caso è fondamentale leggere intervallo per intervallo , in un primissimo momento persino nota per nota , per essere sicuri di non commettere gravi sviste, oltre che individuare e memorizzare eventuali schemi che si ripetono [78] . Tuttavia, dopo aver associato una determinata forma accordale a un concetto armonico , per esempio alla trìade , le note do-mi-sol non dovranno più saltare all’occhio come tre elementi presi singolarmente, ma come un solo elemento chiamato, a esempio, trìade di tonica in stato fondamentale . Questo momento in cui dal particolare si risale al generale, in cui i singoli elementi diventano parte di un disegno più articolato, rientra nella seconda fase di lettura . Questa prepara l’esecuzione ed è il momento in cui gli elementi ricavati dalla prima fase di lettura devono essere connessi tra loro attraverso uno sguardo che stia più in alto . Da ciò si può facilmente capire che la

prima fase di lettura non sarà sempre necessaria, e sarà sempre meno necessaria man mano che la si metterà al servizio della seconda . Per riassumere, nella prima fase si dovrà creare un’immagine chiara di quanto scomposto e letto per elementi singoli e slegati tra loro; infine si dovranno mettere in relazione immagini appartenenti a uno stesso insieme per formare una nuova cellula elementare più complessa . Del modo in cui si pratichino le capacità di scomposizione e sintesi si tratterà nei capitoli successivi di questo manuale (par 2 e 3 - Cap. VI). Per ora è sufficiente che sia chiaro lo scopo di questa fase di studio: associare immagini semplici a un’immagine più complessa , esattamente come fa il pittore dentro la sua tela incorniciata, quando inizia col disegnare una mela, poi un vaso che la contiene, e così via. Nel comporre la sua opera, anche lui segue precisi criteri disegnando prima ciò che va dipinto per primo, in seguito ciò che va dipinto per ultimo, pena errori gravi. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri elementi che non siano il nome delle note , come le figure ritmiche o gli accidenti : se si sta preparando un brano da eseguire, occorre evitare di concentrarsi su un elemento tecnico per volta, al fine di ricercare attivamente un preciso senso che leghi uno o più elementi al successivo o ai successivi, senza procedere un elemento per volta. [79] Scomposizioni simili, del tipo “nota-per-nota”, sono riservate al solo studio di elementi che appaiono nuovi perché devono essere ancora integrati in un determinato orizzonte e compresi come elementi unitari, per quanto articolati siano [80] . Fondamentale sarà nei prossimi paragrafi introdurre il discorso sull’ Armonia pratica intesa come materia di studio, che rappresenta per un musicista il mezzo sintetico per eccellenza attraverso il quale è possibile uscire dai particolarismi di una lettura per così dire nota per nota . Si può leggere infatti sul Piston e su molti altri manuali di Armonia : Lo studio dell’armonia parte dal presupposto che durante il periodo tonale i compositori fossero così legati mentalmente all’accordo da scrivere soltanto melodie strettamente collegate all’armonia. Questo non significa che ogni nota melodica faccia

parte di un accordo; possiamo determinare con facilità quali note siano parte dell’armonia e quali siano estranee. La comprensione della melodia in termini armonici è il punto di vista che raccomandiamo a chi intraprende lo studio di questo libro, lasciando gli aspetti più lineari allo studio del contrappunto e dell’analisi melodica. Questo consiglio pedagogico, tuttavia, è nello stesso tempo un avvertimento. Né l’armonia né il contrappunto possono da soli descrivere o spiegare le realizzazioni dei compositori. [81] CAPITOLO III 3.1 Introduzione pratica all’armonia Le basi della teoria dei rivolti e dei gradi armonici di cui si è trattato finora furono poste dal compositore e teorico francese Jean-Philippe Rameau [82] , la cui concezione si scontrava tuttavia con quella empirista della scuola del basso continuo [83] . Occorre sottolineare l’importanza di entrambe le scuole al fine di integrarle in un unico orizzonte di studio: -

la prima rappresenta il mezzo essenziale per conferire significato e intenzione alla musica che si esegue: ne rappresenta il fondamento interpretativo , con tutti i vantaggi che la propria capacità di lettura trae dalla possibilità d’interpretare il significato di ciò che è scritto;

-

la seconda rappresenta una prassi che avvicina le mani del musicista alla tastiera vera e propria, e in seconda istanza alla penna e alla pratica dello scrivere adottando determinate formule sul pentagramma : conferisce velocità di lettura nell’ambito del repertorio tonale , esattamente come, in qualsiasi lingua che sia scritta e parlata, scrivere aiuta a saper leggere meglio e molto spesso a individuare le formule più ricorrenti attraverso le quali gli elementi della scrittura vengono disposti sulla carta.

Dal momento che le regole della prassi del basso continuo si integrano oggi con i principi dell’ Armonia , questi due argomenti saranno trattati in seguito da un punto di vista pratico. 3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore Il periodo che va dal 1700 al 1900 circa viene definito storicamente periodo tonale [84] . Rimanendo in questo ambito, che è quello dei nostri studi , si osserverà quanto segue: nella maggior parte dei casi, la musica composta per strumenti a tastiera (come il pianoforte) allude alla scrittura a quattro parti , ossia quella che impiega i quattro tipi vocali di cui si è trattato in precedenza (fig. 88). Anche la musica composta per gli ensembles cameristici (definita musica da camera ) allude a questo tipo di scrittura, nonostante la sua specifica scrittura possa presentare un numero variabile di parti: per esempio, quella per un trio violino viola e violoncello è generalmente a tre parti ; quella per una formazione arpa-fagotto è solitamente a due parti e così via. Il numero di parti varia quindi anche in funzione dell’ organico strumentale, ossia il numero degli strumenti che suonano una determinata musica.

Figura 88

In partiture più ampie, che presentano quindi un organico strumentale rilevante (a esempio le partiture per orchestra in cui, dato il gran numero di strumenti, l’organico viene definito orchestrale ) tolti i raddoppi (par. 4 - Cap. II), risulta evidente come, anche in

questo caso, la partitura sia concepita essenzialmente per quattro tipi vocali . I raddoppi vengono impiegati infatti perché l’ accordo basilare dell’ Armonia tonale è formato da tre voci ( trìade ); a queste se ne deve aggiungere una quarta, che viene appunto ottenuta per raddoppio , ossia generalmente, per quanto riguarda le trìadi in stato fondamentale , attraverso la ripetizione della nota fondamentale dell’ accordo all’ottava superiore . Il raddoppio della fondamentale non è tuttavia l’unico possibile: si tratterà approfonditamente di questo, a partire da esempi pratici (fig. 93); per ciò che concerne i raddoppi , specialmente per quanto riguarda i rivolti , esistono infatti importanti eccezioni. Questa concezione è fondamentale per la realizzazione dei primi bassi numerati in stile severo [85] , chiamato così perché segue pedissequamente determinate regole. Queste potranno essere trasgredite dopo aver acquisito una certa maestria. Ci si servirà ora delle prescrizioni indicate dal Trattato di Armonia teorica e pratica di Théodore Dubois [86] per la realizzazione del seguente basso dato [87] , tratto dalla Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia di Paolo Delachi. Ci si procuri un foglio pentagrammato, una matita, una gomma e una penna. Quello di seguito è un primo esercizio sul basso dato . Questo esercizio serve a comprendere le ragioni per cui i primi esercizi di lettura siano stati composti in un determinato modo. Si uscirà per un momento dalla prospettiva dell’esecutore per entrare in quella del compositore. Ecco come procedere:

Figura 89 [88]

-

S’identifichi la tonalità di questo esercizio (fig. 89): l’ armatura di chiave è priva di accidenti . Ciò indica che si tratta, secondo il circolo delle quinte , della tonalità di do

maggiore o di la minore . Si deve sapere che la scala armonica minore , così come quella minore melodica ascendente, presenta sensibile : perciò se si trattasse di una tonalità di la minore armonica o melodica ascendente si troverebbe un diesis sul sol , che tuttavia qui non è presente. Si può inoltre notare che, nel caso della scala minore melodica discendente , che è l’unica alternativa rimasta al do maggiore per quanto concerne le nostre scale , la tonica è un la ; tuttavia qui il la viene toccato in un solo punto e per di più su un tempo debole della primissima battuta . Invece il brano inizia con un do e termina con un altro do , tra l’altro passando da un quinto grado ( sol ), ciò che determina una inequivocabile cadenza perfetta , ossia il concatenamento di V e I grado nelle ultime battute. Ciò conferma con sicurezza che ci si trova in do maggiore . -

Una volta determinata la tonalità del brano, che si può spesso ricavare anche senza sapere come quel determinato brano suoni [89] , è possibile iniziare ad analizzarlo armonicamente . Per eseguire l’ analisi armonica di un basso dato che preveda il solo uso di accordi in stato fondamentale , come quello dell’esempio (fig. 89), è sufficiente scrivere sotto alle sue note il grado della scala associata alla tonalità a cui esse appartengono, con un numero romano. Per esempio: se trovo un do , e mi trovo in do maggiore , scriverò sotto a tale nota I, se trovo fa scriverò IV, e così via. Questo perché la nota più bassa in uno stato fondamentale sarà sempre anche la fondamentale dell’ accordo , ma com’è facile intuire non sarà sempre così. In un rivolto la nota più bassa dell’ accordo non corrisponde mai al grado della scala dal quale si è partiti per costruire l’ accordo stesso.

-

Per scrivere rapidamente il numero ordinale associato alla funzione armonica di una determinata nota al basso ci si può

servire delle tecniche di lettura proposte nei capitoli precedenti di questo manuale. Proseguendo l’esempio, in do maggiore si saprà che a partire dal do , ossia dalla tonica I della tonalità (il secondo spazio del pentagramma in chiave di basso ), formando un intervallo di terza (spazio superiore) si otterrà il terzo grado ; con un intervallo di quinta (due spazi superiori) si otterrà il quinto grado , eccetera. -

Una volta effettuata quest’analisi, si noterà - soprattutto per quanto riguarda quegli esercizi che non richiedono una disposizione per stati fondamentali - che non sempre il grado armonico del basso rispetto alla tonalità corrisponde a quello della fondamentale dell’ accordo vero e proprio. Di questo si tratterà in seguito.

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L’unica notazione insolita che compare in questo basso dato è il numero 8 posto tra parentesi al di sopra del do sul battere della prima battuta : questo sta ad indicare semplicemente che, come già accennato, si dovranno impiegare dei raddoppi dello stato fondamentale di una trìade . I numeri arabi indicheranno infatti l’ intervallo che il basso dovrà effettuare con le note nei tipi vocali superiori. Come introdotto nel capitolo sulla loro lettura, gli intervalli che indicano una trìade in stato fondamentale a partire dalla sua nota più bassa sono terza e quinta , a prescindere dalla disposizione nelle ottave superiori delle due note più alte (si considera sempre l’ intervallo nella sua forma semplice ).

-

Il compito è quindi ora quello di disporre un accordo sulla partitura , rispettando questi intervalli a partire da una nota più bassa che non sempre sarà la fondamentale dell’ accordo , anche se in questo caso, trattandosi di soli accordi in stato fondamentale, lo sarà necessariamente. Questa nota più bassa viene già indicata sulla partitura come assegnata al tipo vocale del basso . All’atto pratico, sarà

bene copiare in penna su una partitura vuota l’intero basso dato indicato, analizzarlo e completarlo poi a matita. -

Per una maggiore precisione nei primi esercizi di scrittura, si consiglia di non disegnare subito la testa della figura ritmica per intero, ma di dividerla in due archi, che partiranno sempre da una riga del pentagramma . Per ciò che concerne le note poste su una riga, conviene sempre che il punto più alto della testa non vada oltre la metà dello spazio, per evitare sovrapposizioni. Tutto questo è esemplificabile nel seguente modo (fig. 90):

Figura 90

-

Dopo aver copiato il basso dato a parte, ed aver trascritto su di esso l’analisi armonica , è il momento di analizzarne le cadenze [90] . Quelle da indicare al momento sono tre: perfetta , imperfetta e inganno . Per ciò che concerne la cadenza imperfetta , questa è rappresentata dalla successione V-III. La cadenza d’inganno è invece identificabile come una qualsiasi successione V-VI. È preferibile quindi in questo contesto, per evitare errori, segnare il V in grande o in modo che si possa notare rispetto agli altri gradi armonici , poiché questi tre tipi di cadenza (VI, V-III e V-VI) si identificano tutti a partire dal quinto grado (fig. 91).

Figura 91

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Per quanto riguarda le note che rimangono, esistono come si è già visto nei paragrafi precedenti due modi di scriverle per assegnarle: a parti strette o a parti late . Si ricordi inoltre la differenza tra i due tipi di scrittura: a parti strette, la distanza tra le tre parti superiori è sempre compresa nell’ottava; a parti late, la distanza tra le stesse parti [91] supera l’ottava [92] . I gambi delle figure ritmiche associate alle note del basso sono stati trascritti tutti all’ingiù perché, per la realizzazione di questi esercizi, ci si servirà di una scrittura a parti strette strumentale. Questa forma prevede la scrittura delle tre parti superiori sul pentagramma superiore e col gambo all’insù. Si completi ora il primo accordo a matita (fig. 92):

Figura 92

-

Per ciò che concerne il primo accordo non si incontrano particolari problematiche, dal momento che si tratta solo di disporre le note che mancano rispetto al basso in modo coerente con quanto indicato dal numero arabo e senza superare l’estensione di un’ottava per i tipi vocali superiori. A partire dal secondo accordo però, si deve seguire un metodo ben preciso. Prima di tutto, si devono considerare le note comuni che il nuovo accordo ha col precedente: nel primo caso si aveva do - mi - sol , nel secondo la - do - mi , quindi due note comuni . Solitamente s’inizia a ragionare proprio da queste note comuni, poiché andranno spesso legate di valore allo stesso tipo vocale nel nuovo accordo , così (fig. 93):

Figura 93

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A questa scrittura (fig. 93) manca tuttavia il raddoppio prescritto dal numero arabo 8 scritto tra parentesi. Del raddoppio si occupa dettagliatamente Walter Piston nel suo manuale di Armonia:

Se si vuole ottenere una quarta nota per una scrittura a quattro parti, nelle trìadi in stato fondamentale si raddoppia solitamente la fondamentale. Questa utile regola non viene però applicata sempre [a esempio [93] ] per le trìadi in primo rivolto. [...] Nella maggior parte dei casi la scelta si basa sulla posizione della nota raddoppiata nell’ambito della tonalità. In altre parole si raddoppiano le note importanti per la solidità tonale [i gradi forti o talvolta il II] [94] . [95] -

Si consideri ora che, trattandosi di un esercizio riservato alle trìadi in stato fondamentale , l’unica nota che si può effettivamente raddoppiare in questo caso è il la , poiché raddoppiando il mi o il do non si rispetterebbero i principi della scrittura a parti strette , sconfinando l’estensione di

un’ottava per le voci superiori . Prima di assegnare una nota a un determinato tipo vocale , anche se in questo caso è inevitabile che il la debba essere assegnato al contralto , occorre accertarsi mentalmente che quel tipo vocale non si muova in modo errato rispetto alla nota assegnata nell’ accordo precedente. Le regole per il movimento sono molteplici e complesse: per fare in modo che non diventino un peso per la memoria, vanno trattate gradualmente con un Maestro. Per i fini propedeutici del presente manuale, basterà sapere che posizionare quel la sul secondo spazio del pentagramma non dà luogo a nessun errore di movimento delle parti . -

Si prosegua a completare il resto degli accordi come esposto, cercando sempre di assegnare il raddoppio alle tre voci superiori, in modo da rimanere nella stessa ottava delle altre due voci e senza effettuare scavalcamenti tra le parti .

Per verificare che non si stia effettuando uno scavalcamento tra le parti , basta conoscere due semplici principi: 1.

Per verificare se si è effettuato uno scavalcamento di voci bisogna considerare la voce superiore se si sta salendo , viceversa quella inferiore.

2.

È consentito scendere alla stessa altezza della nota assegnata alla voce inferiore e viceversa.

Ciò che si è detto finora è sintetizzato nelle due regole pratiche che riporta il manuale Armonia di W. Piston per effettuare un collegamento lineare nel moto delle parti tra gli accordi e rispettare la massima economia nel movimento delle voci : • Prima regola pratica

Se due trìadi hanno una o più note in comune, queste note comuni saranno ripetute dalle stesse voci: le altre voci andranno alle note rimanenti dell’accordo, compiendo il minore spostamento possibile . • Eccezione alla prima regola pratica Nella successione II-V, quando la terza del II (ossia il quarto grado) è data al soprano , generalmente non si ripete la nota comune, ma si fanno scendere le tre voci superiori fino alla prima posizione disponibile (questo movimento discendente è possibile, ma non necessario, quando il quarto grado è dato al contralto o al tenore). • Seconda regola pratica Se due trìadi non hanno note in comune, le tre voci superiori si muovono nella direzione opposta a quella del basso , sempre compiendo il minimo spostamento possibile. • Eccezione alla seconda regola pratica Nella successione V-VI [N.d.A: in alcuni casi la successione V-VI è una cadenza d’inganno, vedi paragrafo sulle cadenze] la sensibile sale alla tonica, mentre le altre due voci scendono alla posizione più vicina dell’accordo. Nella trìade di VI si raddoppia la terza invece della fondamentale . Questa eccezione è sempre applicata quando nella trìade di V la sensibile è data al soprano; se la sensibile è in una parte interna, si possono applicare sia la seconda regola pratica sia la sua eccezione. [96]

Nell’applicazione di queste due regole pratiche, si devono tuttavia considerare altre precise prescrizioni che vengono trattate nelle prime pagine di molti manuali di Armonia, come quello di Théodore Dubois [97] . Ai fini del presente manuale sarà più importante evidenziare che esiste uno schema ricorrente nella successione di stati fondamentali e rivolti , a seconda del grado armonico associato alla nota del basso . Il manuale di Paolo Delachi [98] riporta uno schema che, sebbene possa apparire rigido in un basso continuo “su carta”, risulta invece molto semplice e valido per un approccio pianistico che dovrà necessariamente essere, almeno inizialmente, il più possibile schematico. Tale schema può essere ampliato a seconda delle proprie acquisizioni, attraverso la pratica costante. Lo si riporta di seguito, e va integrato con i principi trattati nel secondo capitolo (par. 4 - Cap II). I gradi che l’elenco a seguire prende in esame si riferiscono al grado che la sola nota del basso assume rispetto alla

tonalità di cui fa parte. In altre parole, i gradi indicati nello schema non si riferiscono agli accordi di cui le note del basso fanno parte, ma alla sola nota del basso, a prescindere dalle altre note che compongono la trìade . A esempio: se si è in do maggiore e si trova al basso un re , secondo lo schema seguente lo si numererà II, anche se quel re farà parte di un accordo di dominante (V grado ) in secondo rivolto . Il grado del basso viene considerato in relazione a un ipotetico accordo precedente o seguente. Questo schema riassume pertanto le forme più frequenti di successioni tra trìadi in stato fondamentale e rivolto : PER L’ARMONIA SENZA NUMERI I: La tonica essendo un punto di riposo prende l’accordo perfetto: può prendere anche quello di “quarta e sesta” se preceduto e seguito dall’accordo perfetto sul medesimo grado. II: Il secondo grado se procede per moto congiunto prende “l’accordo di sesta” o quello di “quarta e sesta”: se procede per moto disgiunto prende preferibilmente l’accordo perfetto se nel modo maggiore, diminuito se nel modo minore. III: Il terzo grado prende più spesso l’accordo di sesta. IV: Il quarto grado prende l’accordo perfetto o quello di sesta: preferibilmente quello perfetto se procede per moto disgiunto. V: La dominante prende l’accordo perfetto: può prendere anche quello di “quarta e sesta” se seguito da quello perfetto sul medesimo grado. VI: Il sesto grado prende l’accordo perfetto o quello di sesta: preferibilmente quello perfetto se procede per moto disgiunto. VII: La sensibile prende l’accordo di sesta: raramente quello di quinta diminuita. N.B. Si darà la preferenza, se si avrà la scelta fra diversi accordi, a quelli che avranno fra loro delle note in comune. [99] 3.3 Concatenare trìadi in stato fondamentale

[100]

Si enunceranno ora altre regole pratiche riguardanti il periodo tonale , iniziando da quelle più generali e frequenti. Si inizierà dunque da un pratico schema indispensabile per poter concatenare, e quindi anche leggere e interpretare al pianoforte, le trìadi in stato fondamentale . Questo schema si basa sull’osservazione della nota posta al basso , la più grave, indipendentemente dallo stato o dalla posizione in cui si trova l’ accordo : rappresenta il fondamento della prassi del cosiddetto basso continuo . Oggi tutti sanno quanta importanza abbia la nota posta al basso , anche chi compone musica di tutt’altro genere non può prescindere da questo elemento per ragioni non solo armoniche ma anche acustiche [101] . SECONDA ( TONO O SEMITONO ) Quando il basso si muove per tono o semitono (ascendente o discendente), le trìadi perfette [102] non avranno note comuni e si realizzeranno con moto contrario rispetto al basso . TERZA Quando il basso si muove per intervalli di terza ( minore o maggiore , ascendente o discendente) gli accordi avranno due note comuni nelle stesse parti. QUARTA Quando il basso si muove per intervalli di quarta (ascendente o discendente) gli accordi avranno una nota comune nello stesso tipo vocale altrimenti detto parte . QUINTA Quando il basso si muove per intervalli di quinta (ascendente o discendente) gli accordi avranno una nota comune nella stessa parte . SESTA Quando il basso si muove per intervalli di sesta (minore o maggiore, ascendente o discendente) gli accordi avranno due note comuni

nelle stesse parti . A seguire le uniche due eccezioni a questo schema: MOVIMENTO DEL BASSO DAL QUINTO GRADO DI UNA TONALITÀ AL SESTO GRADO DELLA STESSA TONALITÀ (QUESTO MOVIMENTO SI CHIAMA “ CADENZA D’INGANNO ”) Nel caso della cosiddetta “ cadenza d’inganno ” (V-VI [103] ), non si può procedere con il movimento contrario di tutte le parti , come da regola generale, poiché la sensibile posta sul V grado deve necessariamente risolvere alla tonica . Dunque, in presenza del movimento del basso V-VI, la sensibile sale, le altre parti scendono. MOVIMENTO DEL BASSO NEL MODO MINORE DAL SECONDO GRADO DI UNA TONALITÀ AL QUINTO GRADO DELLA STESSA TONALITÀ Quando il basso si sposta dal II al V grado nel modo minore , l’ accordo sul V grado verrà realizzato con il moto contrario delle parti, senza alcuna nota comune. Walter Piston riporta sul proprio manuale la seguente tavola delle successioni armoniche abituali dei compositori per il modo maggiore . Questa tavola riguarda il grado della nota sulla quale si fonda l’accordo (che non è in tutti i casi quella posta al basso ): Tavola delle successioni armoniche abituali [104] I principi che seguono sono basati sullo studio delle abitudini dei compositori durante il periodo tonale. Essi non devono quindi essere considerati come un insieme di regole da osservare rigorosamente. Il I è seguito dal IV o dal V , a volte dal VI, meno sovente dal II o dal III.

Il II è seguito dal V , a volte dal IV o dal VI, meno sovente dal I o dal III. Il III è seguito dal VI , a volte dal IV, meno sovente dal I, dal II o dal V. Il IV è seguito dal V , a volte dal I o dal II, meno sovente dal III o dal VI. Il V è seguito dal I , a volte dal IV o dal VI, meno sovente dal II o dal III. Il VI è seguito dal II o dal V , a volte dal III o dal IV, meno sovente dal I. Il VII è seguito dal I o dal III , a volte dal VI meno sovente dal II, dal IV o dal V. Si deve iniziare a prendere confidenza con gli effetti sonori di queste successioni. In questo può aiutare molto lo studio della materia del solfeggio cantato , dell’ Armonia e del basso continuo [105] , e in generale l’attenzione sull’ascolto attivo del proprio strumento. Non si dimentichi che lo scopo di un musicista è anche quello di produrre suoni , e che questi ultimi sono molto spesso oggetti importanti del nostro studio. La seguente [106] tavola è invece riservata al modo minore e completa la precedente: La tavola delle successioni armoniche abituali […] vale anche per il modo minore, con queste differenze: il [107] I può anche essere seguito dalla trìade maggiore del VII; la trìade maggiore del III può anche essere seguita dalla trìade maggiore del VII; la trìade maggiore del VII è seguita dal III, a volte dal VI, più raramente dal IV; la trìade diminuita del VII è seguita dal I. Queste due tavole danno una prospettiva sommaria sul modo in cui le funzioni armoniche si succedono abitualmente. Ciò significa che

servono a sapere, per esempio, quanto segue: all’interno di un qualsiasi modo maggiore, a un accordo costruito sul V grado nella maggior parte dei casi seguirà uno costruito sul I grado dello stesso modo . È chiaro come sia impossibile prevedere l’intera struttura delle successioni armoniche in un brano, ma avere un’idea della direzione di una funzione armonica è uno degli elementi che contribuiscono a sviluppare una buona lettura in tal senso. Per esempio, leggere un settimo grado in una tonalità maggiore e aspettarsi che vada al terzo certamente sarà, nella maggior parte dei casi, una scelta sbagliata. CAPITOLO IV 4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro Il leggendario pianista di origine russa Vladimir Horowitz rilasciò un’intervista [108] dove parlò del suo modo di ascoltare il suono del pianoforte. La si riporta a seguire: In searching for tone-quality—the second of the most difficult factors in playing—it is helpful to think of the instruments of the orchestra. Some people say, "A piano is only a piano." But I do not feel it so. I think forte, and think "orchestra." I think of many instruments when I play. I do not mean that one should try to imitate, for the timbre of the piano is not the timbre of the violin nor the bassoon nor the flute. But if one thinks of the quality or the sonority of the various instruments, one is helped to play more beautifully. We have, in the piano, all registers—flute, oboe, violin, viola, clarinet, 'cello, bassoon, double bass. If, when I play from Beethoven Sonata Op. 10 No. 3...

Figura 94 [109]

… I think "double bass," then the color is better. This idea was often dwelt upon by Rubinstein—so my teacher, Blumenfeld told me. "Do not try to imitate, but think of color. Traduzione: Per cercare la qualità del suono, il fattore secondo per importanza quando si suona, è utile pensare agli strumenti dell'orchestra. Alcuni dicono che "un pianoforte è poi solo un pianoforte". Ma io non sono d'accordo. Penso "pianoforte" e mi viene in mente "orchestra". Tengo presente tanti strumenti ogni volta che suono. Non voglio dire che bisogna imitarli, perché il timbro del pianoforte non è quello del violino, e neppure quello del fagotto e neanche del flauto. Ma se s'immagina la qualità o la sonorità dei vari strumenti, ci si aiuta a suonare con un bel suono. Nel pianoforte troviamo tutti i registri - il flauto, l'oboe, il violino, la viola, il clarinetto, il violoncello, il fagotto, il contrabbasso. Se quando suono la sonata di Beethoven op. 10 numero 3 immagino il "contrabbasso", allora il colore risulta migliore. Questa idea è stata espressa più volte da Rubinstein, così mi ha detto il mio maestro Blumenfeld. "Non cercare di imitare, ma pensa alle dinamiche". [110]

Tutto questo ha dato all’autore un prezioso suggerimento. Il pianoforte non avrà mai il timbro [111] degli altri strumenti dell’ orchestra , potrà solo alludervi, ma sicuramente contiene l’estensione di tutti loro. Quando si parla di estensione vocale, o di estensione del tipo vocale, o di estensione dello strumento, si può parlare più tecnicamente di registro . In altre parole, il pianoforte contiene una “rappresentazione” degli strumenti dell’orchestra, dal momento che può toccare il loro registro ma non il loro timbro . Questo è tutto ciò che è possibile ottenere su un pianoforte moderno, come disse il leggendario pianista Josef Hofmann, “ senza fare a gara con l’orchestra [112] ” . Occorre sempre sapere quindi

quale strumento si vuole rappresentare (e non imitare). In tal senso, la tabella a seguire (fig. 95), che mostra quale porzione della tastiera comprenda il registro dei principali strumenti dell’orchestra [113] , sarà di grande aiuto:

Figura 95

4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra La legatura di portamento è un segno di articolazione (par. 5 - Cap. VIII) arcuato che unisce più note di diversa altezza, per indicarne l'esecuzione senza far avvertire quanto più è possibile lo stacco fra l'una e l'altra (fig. 96). [114]

Figura 96

Questo segno non riguarda solo la nota di inizio e quella di arrivo, ma anche tutto ciò che sta tra quelle due note . Su un piano pratico, questo solitamente corrisponde a un’unica emissione di fiato: gli strumenti ad arco per esempio possono effettuare una legatura in modo molto simile a quello degli strumenti a fiato e della voce umana , ma soprattutto nella musica tonale (sulla quale s’insiste per i motivi esposti nel par. 2 - Cap. I) è spesso evidente come i primi s’ispirino in realtà a quest’ultima. In media, l'arco di un violino può continuare a farne vibrare le corde per un tempo nettamente superiore rispetto a quello in cui molti strumenti a fiato suonano con una singola espirazione. Questo non spiega tuttavia la ragione per cui la maggior parte delle frasi musicali (par. 2 - Cap. VI) legate non sfruttino questa possibilità del violino. Ciò non avviene

semplicemente perché quelle stesse frasi , suonate troppo a lungo, risulterebbero innaturali rispetto alla voce umana . Lo stesso discorso vale sul pianoforte e sugli altri strumenti in cui ciò che viene chiamato legato può essere prolungato per un tempo enormemente superiore rispetto a quello che, per esempio, sul flauto corrisponde a una singola emissione di fiato; ma dal momento che ogni legatura sottostà generalmente ad un determinato tipo di fraseggio (par. 2 Cap. VI) , questo principio viene sfruttato solo quando si vuole ottenere un effetto particolare. Può anzi essere un riferimento indiretto sulla partitura alla ricerca di un timbro che non sia quello della voce umana - in cui fare una legatura per esempio da tre minuti potrebbe risultare innaturale - oppure un chiaro suggerimento per la scelta della velocità d'esecuzione. Infatti, se in un canto scritto esplicitamente per la voce umana si incontra una legatura che deve protrarsi per un lasso di tempo esagerato, si può pensare di star sbagliando la propria concezione della velocità di quel brano e di dover quindi accelerare un po' l’andamento con cui si è stabilito di eseguirlo, per far “bastare il fiato”. A tal proposito, nonostante la capacità di emissione di fiato possa essere allenata e portata a livelli estremi, in questo primo momento degli studi ci si può fidare della propria voce e cantare una legatura quando lo si ritiene necessario, per capire se la velocità scelta sia adatta; o se lo strumento in questione non sia per esempio un timpano , in cui l’effetto del rullato potrebbe protrarsi per dieci minuti: in quel caso non si potrebbe fare riferimento alla voce umana . In media questa possiede precisi limiti di registro : non si potrebbe pensare al do posto sulla seconda ottava incontrato sconfinando verso il basso l’estensione tradizionale del tipo vocale del basso come un concreto riferimento alla voce umana , dal momento che probabilmente nessuno riesce a cantare quella nota . Come si vedrà più avanti (par. 5 - Cap. VIII), i segni di articolazione non si limitano alla legatura di portamento . Il lettore dovrà perciò avere chiaro sin da questo momento che ognuno di questi segni dovrà trovare il tipo di corrispondenza mostrato in ogni strumento dell’orchestra e nella voce umana. Questo tipo di esercizio è necessario al fine di comprendere nella propria mente, prima ancora

di suonare, quale timbro si sta cercando di rappresentare attraverso il pianoforte. CAPITOLO V 5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori La postura di un pianista non è regolata solo dalla ricerca di una comodità, che seppur necessaria è un fattore del tutto personale, ma anche dal modo in cui le leve del corpo umano devono essere fisicamente sfruttate nello scarico del peso (par. 7 - Cap. V). Ogni anatomia è soggettiva, ma i corretti angoli geometrici formati dalle articolazioni ossee in una corretta postura rimangono gli stessi indipendentemente dalle proporzioni anatomiche di chi si siede al pianoforte, perché seguono principi fisici. Lo sgabello del pianoforte è quasi sempre regolabile proprio perché ognuno ha una proporzione diversa per i propri elementi anatomici : se si considera questo, si comprende che la regolazione stessa della seduta segue precisi principi geometrici, atti ad avvicinare il più possibile, sebbene con una eventuale approssimazione, l’anatomia del pianista alla corretta postura determinata dalla angolazione delle sue articolazioni ossee. Questo primi due paragrafi del capitolo V avranno carattere marcatamente scientifico, poiché si occuperanno dello studio, teorico e pratico, degli angoli geometrici delle articolazioni ossee, in relazione alla corretta postura pianistica. In una corretta postura degli arti inferiori, la pianta del piede poggia nella scarpa (ben allacciata o comunque ben aderente alla struttura del piede) su tutta la superficie interna della suola anteriore e del tacco: quest'ultimo poggia esternamente a terra e fa da perno in quel punto per il movimento semi-circolatorio verso destra e verso sinistra dell'intero asse longitudinale del piede, in modo che la superficie della suola anteriore esterna si trovi saldamente poggiata talvolta sui pedali , talvolta a terra, a seconda delle esigenze. L'articolazione del ginocchio è al vertice di un angolo α che misura indicativamente tra i 90 e i 110°; tale angolo ha come lati l'asse longitudinale della gamba e quello della coscia (fig. 97-1).

Figura 97-1

Oltre i limiti di ampiezza appena indicati, α assume una configurazione geometricamente scorretta, che sul piano pratico determina i seguenti svantaggi: 1)

Con α > 110°, la distanza dell'articolazione della spalla (geometricamente il vertice di un angolo avente come lati l'asse longitudinale del braccio e quello del tronco, quindi sul piano pratico il punto di attaccatura al tronco del braccio) dall'asse perpendicolare a quella longitudinale della superficie della tastiera diventa eccessiva: gli arti inferiori sono infatti notoriamente più lunghi di quelli superiori, sicché per mantenere l'angolazione fondamentale delle parti negli arti superiori e nel busto in questa posizione si è costretti a un allontanamento immotivato dello sgabello dall'asse perpendicolare alla tastiera .

2)

Con α < 90°, sull'asse longitudinale del tronco non agisce perpendicolarmente una forza di valore - sia esso positivo o negativo - tale da sostenere efficientemente sul piano pratico

l'asse longitudinale del tronco a formare un angolo nullo con l'asse perpendicolare alla sua base d'appoggio. 5.2 Postura fondamentale del tronco e degli arti superiori La postura del tronco dev'essere tale da permettere a entrambi gli elevatori delle scapole di rilassarsi senza determinare, per quanto possibile, la contrazione di altri gruppi muscolari. Il braccio deve essere sollevato dal deltoide allo scopo di sostenere a mezz'aria il gomito (il che aiuterà in un momento successivo il sostegno del peso dell'arto e/o del tronco da parte delle dita): questo a patto che l'asse longitudinale del tronco e quello perpendicolare alla sua base di appoggio siano in modo rispettivo i lati di un angolo α indicativamente nullo. Se così non fosse, la somma delle misure di questo angolo e dell'altro di 30° (di cui i lati sono rispettivamente l'asse longitudinale del braccio e quello del tronco) determinerebbe una configurazione geometrica tale da obbligare concretamente i bicipiti e/o altri gruppi muscolari del dorso, del torace e/o dell'addome al sostegno forzato dell'avambraccio, quindi del polso e della mano. Ciò avverrebbe nel tentativo di aggiustare l’inclinazione sbagliata dell'asse longitudinale del tronco, agendo su quella degli assi longitudinali (rispettivamente del braccio e dell'avambraccio) al fine di trovare uno scomodissimo compromesso che porti il palmo della mano il più possibile parallelo alla superficie della tastiera , come dovrebbe essere. Pertanto, si riassume di seguito il corretto approccio posturale allo strumento: ●

Il tronco deve trovarsi in posizione eretta, il suo asse longitudinale e quello perpendicolare alla sua base d'appoggio sono in modo rispettivo i lati di un angolo indicativamente nullo;



L'asse longitudinale del braccio e quello del tronco sono i lati di un angolo che indicativamente misura 30° e ha come vertice l'articolazione della spalla;



L'asse longitudinale del braccio e quello dell'avambraccio sono i lati di un angolo che indicativamente misura 100° e ha come vertice l'articolazione del gomito;



L'asse longitudinale dell'avambraccio e quello della mano (a esclusione delle dita, il cui ruolo nella postura fondamentale sarà definito nel par. 3 - Cap. V) sono i lati di un angolo che indicativamente misura 160° e ha come vertice l'articolazione del polso.

Figura 97-2

Questi valori sono indicativi perché variano col variare delle caratteristiche anatomiche di ciascuno studente. Tale variazione deve avvenire nei rispetti di questa regola: l'asse longitudinale della mano dev'essere il più possibile perpendicolare all'asse longitudinale della superficie della tastiera . Sulla base di tutte queste premesse si stabilisce come debba essere regolata l’altezza dello sgabello. 5.3 Introduzione pratica al tocco Ecco cosa dice Vladimir Horowitz a riguardo del tocco [115] :

The early classics were not written for the grand piano, but for a piano with a much lighter action. Therefore the technic of the fingers was all-important. The contrapuntal devices in which the middle voices were so prominent required the sensitive, active finger. There is always an intimate connection between brain and finger tip! Traduzione: I primi grandi classici non sono stati scritti per il pianoforte a gran coda, ma per uno strumento più "leggero", perciò la tecnica della diteggiatura era di fondamentale importanza. Le tecniche di contrappunto, dove le voci di mezzo erano così importanti, richiedevano dita sensibilissime, attive. C'è sempre un collegamento molto stretto tra il cervello e la punta delle dita. [116] Lo stesso Josef Hofmann, nel suo libro-intervista [117] sulla tecnica pianistica, ricorda che il mignolo dovrebbe suonare sempre con la sua punta e mai di lato. Tutto ciò ha persuaso l’autore a pensare che sia importante prestare attenzione al modo in cui il polpastrello di ogni dito tocca il tasto per abbassarlo. Per ciò che concerne la punta di ogni dito, la parte del polpastrello più vicina all’unghia tocca e abbassa il tasto a partire dal suo centro. La seguente fotografia (fig. 97), scattata a un clavicembalo Urbano Petroselli del Conservatorio Guido Cantelli di Novara, riporta delle curiose decorazioni a bande bianche proprio nel punto di cui si sta parlando:

[118]

Figura 97-3

Bisogna cercare di toccare il meno possibile i tasti con le unghie delle dita, e ciò vale anche per il pollice, che si deve mantenere più o meno ricurvo verso l’interno della mano. Quest’ultimo abbassa i tasti con la parte destra o sinistra, a seconda della mano, della parte di polpastrello più vicina alla sua unghia. Occorre far somigliare il più possibile il tocco di questo dito a quello delle altre quattro dita. I tasti vanno abbassati fino in fondo, qualsiasi sia la dinamica ( forte , piano, ecc.) che si desidera ottenere. Sentire in questo modo il centro di ogni tasto significa quanto segue: -

Nel caso di un tasto nero, si avrà la sensazione dal centro del polpastrello (indipendentemente dal suo angolo) di un’equidistanza dai margini estremi di tale tasto , oltre i quali il dito precipiterebbe;

-

Nel caso del tasto bianco, si avrà la sensazione di non avvertire in nessun modo sul polpastrello la presenza dei tasti adiacenti o delle fessure tra i tasti .

Laddove questo tipo di approccio non sia effettuabile, si tenti di avvicinarvisi il più possibile : per esempio, in una progressione di note legate che distano molto l'una dall'altra, non sarà possibile toccare il preciso centro di ogni tasto , ma si dovrà ugualmente

mirare a quello e avvicinarvisi il più possibile. La chiarezza che hanno una scala o un accordo sulla carta stampata, la loro precisa scansione tra le righe e gli spazi del pentagramma , deve essere simulata nella sensibilità delle proprie dita. È fondamentale che ogni dito tocchi il tasto e lo abbassi a partire dal suo centro perfetto, poiché questo è il punto in cui è concessa l’area maggiore di “errore” (si veda par. 10 - Cap. VI), e soprattutto è il punto in cui la leva è più vantaggiosa, fatto che non sussisterebbe se il tasto venisse abbassato da uno dei suoi bordi, poiché la spinta verso il basso avrebbe vettore trasversale e non perpendicolare alla superficie del tasto . Sui tasti neri è più facile capire se si sta abbassando un tasto dal suo centro, poiché i suoi estremi sono percepibili; a essi l’area del polpastrello infatti si avvicina molto, e in alcuni casi li tocca entrambi (in base alla conformazione della mano del pianista). Si aggiunge che abbassare il tasto in questo modo garantisce due ulteriori vantaggi. Il primo è quello di evitare qualsiasi sbavatura dovuta al sollevamento involontario di martelletti o smorzatori . Di questi due componenti si tratterà a breve (par. 7 - Cap. V), in un paragrafo dedicato alla struttura generale del pianoforte e della sua meccanica . Il secondo è che in tal modo la precisione del tocco aumenta esponenzialmente, poiché gli si conferisce uguaglianza nello sfruttare la leva di ogni tasto sempre dalla stessa angolazione. 5.4 I tasti neri: gli unici riferimenti puramente tattili Bisognerà da qui in avanti immaginare e ricostruire mentalmente, senza guardare direttamente, la struttura tattile di porzioni di tastiera più ampie possibili, soprattutto per quanto riguarda i tasti neri, che sono disposti in due serie distinte, a differenza dei tasti bianchi. Questo è da tenere a mente soprattutto quando si sta suonando un tasto bianco: è sempre meglio metterlo in relazione ai tasti neri che ha vicino piuttosto che pensarlo nell’insieme dei vicini tasti bianchi (par. 4 - Cap. I); ciò è fondamentale, specialmente nello studio di un passaggio che prevede un salto . Con questo termine, scritto in corsivo e distinto per questo da un intervallo che sia più grande di un grado congiunto , ossia di una seconda, ci si riferisce da questo

momento in poi all’esecuzione di un qualsiasi passaggio che preveda uno spostamento della mano dalla posizione fondamentale della medesima . Di cosa sia una posizione fondamentale della mano si tratterà nel paragrafo a seguire. 5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo Quanto detto finora potrebbe far erroneamente pensare ai tasti ciascuno come il bersaglio preciso e isolato di un nostro singolo dito, che mira al loro centro per farli abbassare: questo è vero solo in casi specifici [119] , perché non bisogna dimenticare che, oltre a un ruolo attivo , le dita di una stessa mano possono rivestire un ruolo passivo . Quelle che rivestono un ruolo attivo sono quelle che effettivamente abbassano uno o più tasti , Viceversa, quelle con ruolo passivo non abbassano alcun tasto . Tuttavia, le dita aventi un ruolo passivo sono pur sempre parte della stessa mano e si muovono insieme al polso, all’avambraccio e al resto dell’apparato, esattamente come fanno le dita che rivestono ruolo attivo . Molto spesso, quando alcune dita della mano rivestono un ruolo passivo , queste traggono dalla loro sensibilità delle precise coordinate in senso verticale e orizzontale sulla tastiera . A partire dagli estremi destro e sinistro della mano, le dita passive [120] dovrebbero infatti mirare quando possibile ai tasti , senza abbassarli, ma solo posizionandosi al centro di questi ultimi. Ciò è fondamentale all’inizio degli studi, ma si rivelerà utile anche in seguito. Per esempio, se si mira con il quarto dito attivo a un si bemolle , dai due estremi destro e sinistro della mano le dita passive dovranno posizionarsi al centro dei tasti più adatti: questo darà maggiore stabilità e precisione al dito attivo sul si bemolle , perché gli conferirà coordinate ulteriori in senso verticale e orizzontale. Esattamente come un tavolo a quattro gambe risulta più stabile di uno con tre, due o addirittura una sola gamba. Per fare un esempio pratico riguardante il si bemolle sopra citato: se ci si trova in fa maggiore e si deve abbassare quel si bemolle col quarto dito attivo , occorre posizionare prima il pollice passivo al centro del fa e il mignolo passivo al centro del do senza

abbassarli; e una frazione di secondo dopo si posizionerà il quarto dito attivo al centro del si bemolle per abbassarlo in tutta sicurezza; questo principio vale anche e soprattutto per le esecuzioni che prevedono un salto , giacché questo è uno spostamento in senso orizzontale (molto spesso anche verticale) sulla tastiera , e in quanto tale va preparato su precise coordinate. Si applichi quanto detto sin ora agli esercizi proposti nella raccolta di pubblico dominio del pianista e pedagogo Alberto Jonás Master school of modern piano playing & virtuosity . In questa raccolta, e precisamente nel secondo dei suoi volumi, si trova una graduale sezione riservata alla accuratezza , e quindi anche alle coordinate necessarie a poter abbassare senza fare errori un tasto [121] . Nell’ambito degli studi sulle cinque dita , il posizionamento di queste ultime su altrettanti tasti , senza necessariamente abbassarli, viene a volte definito “posizione fondamentale” della mano, anche se molto spesso non se ne evidenzia l’importanza. Raramente si chiarisce il ruolo passivo che potrebbero rivestire alcune dita, e soprattutto non si insiste sul fatto che queste debbano posizionarsi all’esatto centro dei tasti corrispondenti. In questo manuale, con la locuzione posizione fondamentale della mano - sempre in corsivo a seguire - ci si riferirà a qualcosa di radicalmente diverso e ben più preciso, ossia il posizionamento delle dita attive e passive al centro di quei tasti che conviene di volta in volta prendere in considerazione per ottenere il maggior numero di coordinate possibili, in senso verticale e orizzontale. La maggior parte del repertorio della musica tonale consiste in uno spostamento tra posizioni fondamentali della mano : le stesse scale , come si vedrà in un apposito paragrafo (par. 8 cap. VI), sono costituite dall’alternarsi di due tra queste posizioni. Molti dei primi esercizi tecnici per pianoforte, definiti appunto cinque dita , si studiano a partire da una prestabilita posizione fondamentale della mano , che in tal modo può essere interiorizzata e memorizzata. L’importanza di questi esercizi è quindi evidente. Dal momento che per suonare una successione melodica molto spesso si può pensare a una sola posizione fondamentale della mano per due, tre, quattro o persino cinque note consecutive, l'autore

annovera tra i fondamenti della tecnica pianistica l’esercizio sull’abbassamento del tasto da parte delle singole dita in posizione fondamentale della mano , così concepito ed esposto. 5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità Un pulsante è un dispositivo con una sola posizione di riposo che, attraverso uno scatto, ossia un meccanismo destinato a funzionare attraverso lo scarico di una molla [122] , torna alla posizione di partenza quando viene rilasciato. I tasti del pianoforte non sono pulsanti ma aste di leve , perciò vanno abbassati e non premuti [123] . Soprattutto, non hanno un solo punto di riposo e per questa ragione possono essere abbassati in diversi modi: a metà, rilasciati a due terzi della loro corsa e poi subito riabbassati, eccetera. Questo è uno dei motivi principali per cui il pianoforte non è così meccanico e rigido nella sua risposta come potrebbe sembrare a un esame superficiale . Lo strumento restituisce infatti un suono di volta in volta diverso a seconda della fonte di abbassamento dei suoi tasti : un pianista, un oggetto, un gatto che cammina sui tasti , eccetera. Proprio perché sono leve, i tasti del pianoforte sono inclinati verso l’interno del pianoforte rispetto all’asse longitudinale dell’avambraccio con la quale un pianista seduto in postura fondamentale si trova a suonare. Ciò è facilmente osservabile impiegando una livella o semplicemente poggiando la testa sul bordo esterno della tastiera e osservando l’inclinazione dei tasti [124] : da questo si può intendere l’importanza del ruolo della prensilità della mano [125] . Questo termine, che si riferisce alla capacità dei polpastrelli di aderire ai tasti deve essere ricondotto anche all’inclinazione di questi ultimi. Constatando quanto detto si comprende quanto sia importante per un pianista conoscere la struttura del pianoforte. Pertanto, di seguito verrà presentata la classificazione delle componenti meccaniche di un pianoforte a coda: lo schema che segue (fig. 98) avrà fondamentale importanza nella comprensione dei paragrafi successivi.

Figura 98

1. Tasto

7. Cucchiaio

2. Pilota

8. Smorzatore

3. Spingitore

9. Corda

4. Rullino

10. Bottone dello scappamento

5. Martello (o martelletto)

11. Leva di ripetizione

6. Paramartello

12. Cavalletto

5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte

La meccanica , in un pianoforte, rappresenta la serie di congegni che trasmettono al corpo vibrante l'impulso dato [126] dall'esecutore . Questo sistema, che si trova nel cuore dello strumento, inizia ad agire quando i tasti vengono abbassati dal pianista attraverso una forza che può essere quella muscolare o quella di gravità [127] . In un pianoforte a coda, il tasto è un’asta di legno che poggia come una leva [128] attorno a un fulcro metallico, [129] che si trova all’interno dello strumento (fig. 99).

Figura 99

A partire da questo fulcro, la leva si articola in:



Un segmento esterno dell’asta, quello a partire dal fulcro indicato nell’immagine (fig. 99) verso la tastiera ;



Un segmento interno dell’asta, quello a partire dallo stesso fulcro verso il cuore del pianoforte.

Quando questa leva è a riposo, il suo segmento esterno è sollevato e pronto a essere abbassato; viceversa, quando la leva non è a riposo - e quindi si dice che il tasto è abbassato o, impropriamente, “premuto” - il segmento interno della leva è quello che sta più in alto. Ecco cosa succede quando si abbassa un tasto : 1. All’incirca [130] nel primo terzo della corsa del tasto , il cavalletto viene sollevato come una catapulta di cui lo spingitore è la cucchiaia e il rullino il proiettile [131] : lanciando verso l’alto il rullino attraverso lo spingitore , verrà contemporaneamente lanciata verso l’alto tutta la meccanica relativa al martello (o martelletto ). In questa prima fase il rullino non è stato ancora propriamente lanciato. Il fatto che il rullino , e quindi il martello , debba essere lanciato e non spinto fino all’ultimo pone al primo posto l’importanza della velocità nel movimento del martello , motivo per cui non importa quanto massiccio sia l’oggetto che si pone sulla tastiera : se non avrà l’accelerazione necessaria, non riuscirà a lanciare il martello così in alto da fargli suonare la corda . 2. All’incirca nel secondo terzo della corsa del tasto , la punta del suo segmento interno - prima che il rullino possa abbandonare lo spingitore per essere lanciato verso l’alto con la meccanica del martelletto - solleva lo smorzatore toccando e spingendo una parte (in legno o in metallo) [132] della meccanica di quest’ultimo, che viene chiamata cucchiaio . In altre parole, si sta sollevando dalla corda quella componente che le impedisce, in parte o in tutto, di vibrare e quindi suonare, che è appunto lo smorzatore . 3. All’incirca nell’ultimo terzo della corsa del tasto , il rullino viene lanciato e lo spingitore deve spostarsi dalla traiettoria della sua

ricaduta imminente [133] per permettere al martello , che è stato lanciato contro la corda insieme a tutto il suo meccanismo (a partire dal rullino ), di non rimanere schiacciato dallo spingitore verso la corda stessa, impedendole di vibrare. Perché il martello possa scappare dalla corda, ogni pianoforte è dotato di uno scappamento , che ha appunto la funzione di permettere al rullino di ricadere, a causa della forza elastica e di quella di gravità, più in basso rispetto alla posizione dello spingitore . Questo fa quindi “scappare” tutta la meccanica relativa al martello in direzione contraria alla corda, ossia verso il basso: in questo modo il rullino non rimane schiacciato verso la corda dallo spingitore , che si sposta verso la tastiera e lascia libera la traiettoria di caduta al rullino verso la leva di ripetizione , sulla quale infine poggerà quest’ultimo. La leva di ripetizione viene chiamata in tal modo perché permette la ripetizione della spinta a partire da una posizione intermedia del tasto , senza che ci sia il bisogno di rilasciarlo del tutto. Questo non soltanto perché lo spingitore torna in posizione sul rullino , pronto a lanciare nuovamente il martelletto verso la corda - molto prima che il tasto venga rilasciato del tutto [134] - ma anche grazie alla particolare posizione del bottone dello scappamento , un piccolo cilindro di legno protetto da un feltro, contro il quale va a fare leva il lato più corto della “L” formata dalla leva dello spingitore e quella dello scappamento . Infatti, anche se il martelletto non è ricaduto completamente verso la sua posizione iniziale [135] e lo spingitore non è di nuovo allineato con il rullino pronto a lanciarlo, la sola leva di ripetizione è in grado di lanciare nuovamente il martello verso le corde : questo meccanismo è chiamato doppio scappamento . Sui pianoforti che non sono dotati di questo meccanismo, per lanciare nuovamente il rullino e quindi il martello verso la corda , bisogna rilasciare il tasto finché lo spingitore non torna in una posizione tale da permettere un nuovo lancio del rullino . Naturalmente quando si usa il doppio scappamento il lancio richiederà una forza maggiore, poiché la leva di ripetizione nel lancio non ha la stessa efficacia dello spingitore : per questo è importante saper distinguere al tatto rispettivamente quando si sta lanciando il rullino a partire dalla leva

di ripetizione e quando lo si sta lanciando a partire dallo spingitore . Il termine doppio scappamento potrebbe confondere le idee. In realtà il ruolo dello scappamento , come si è detto, è quello di far scappare il martello dalla corda , impedendogli di rimanere attaccato a essa: [136] gli permette di scappare, ma non ha ruolo attivo nella sua fuga dalla corda . Gli libera, per così dire, solo la strada per il ritorno verso il paramartello , che sarebbe altrimenti preclusa dallo spingitore rimasto in posizione. Dal momento che, quando un tasto non è ancora del tutto stato rilasciato, lo scappamento è nella sua posizione di azione (ossia tocca il bottone dello scappamento spostando lo spingitore dalla traiettoria del rullino ), si può dire che in questo modo lo scappamento sia sempre attivo , e non soltanto “due volte”, come potrebbe erroneamente suggerire il nome di doppio scappamento . Questo perché non importa quante volte si sfrutti questo meccanismo, lanciando il rullino verso l’alto, nonostante il lancio sia meno efficiente rispetto a quello effettuato dallo spingitore : la strada di ritorno del martello è sempre libera, poiché lo scappamento è già entrato in azione e sta mantenendo lo spingitore verso il tasto . Quando il tasto viene rilasciato, accadono tre fatti importanti: 1)

Lo smorzatore torna sulla corda , rallentandone bruscamente l’eventuale vibrazione fino a fermarla;

2)

Lo spingitore torna in posizione, pronto a lanciare il rullino, perché la leva del doppio scappamento non tocca più il bottone di scappamento, e il paramartello , che generalmente è attaccato al segmento interno del tasto , torna alla sua inclinazione di partenza consentendo la discesa del martello ;

3)

Il rullino si riposiziona sulla leva di ripetizione , pronto per essere lanciato dallo spingitore.

Un tasto può essere rilasciato rapidamente o lentamente, in due modi: in modo secco, sfruttando la forza elastica della meccanica; con dolcezza, accompagnandolo verso la sua posizione iniziale. Inoltre, un tasto può essere rilasciato del tutto, o in parte: dietro al rilascio del tasto c’è una vera e propria arte che si incentra sulla componente dello smorzatore , la cui discesa sulle corde produce un’ampia gamma di sonorità essenziali. Ciò che propriamente abbassa lo smorzatore sulle corde, nel caso di un pianoforte a coda, è soltanto la forza di gravità: tuttavia il meccanismo di sollevamento dello smorzatore è veicolato non soltanto dal tasto , ma anche dal pedale di risonanza e dal pedale di Rendano , che prende il nome del suo inventore, il pianista e compositore Alfonso Rendano. Ecco di seguito una classificazione dei pedali presenti nella maggioranza dei pianoforti a coda: Pedale di risonanza Questo pedale è quello situato più a destra nei pianoforti a coda . Una volta abbassato, solleva contemporaneamente tutti gli smorzatori dalle corde . Azionare questo pedale permette alle corde di vibrare liberamente, ossia senza che al rilascio di un tasto lo smorzatore ricada. Oltre ad essere essenziale in molti casi per effettuare una legatura , può modificare il timbro e il volume del suono emesso poiché permette alle corde simpatiche [137] di risuonare. Sullo spartito , il segno che si riferisce a questo pedale è: Tale segno indica il momento in cui il pedale deve essere abbassato. Lo si manterrà abbassato fino a incontrare quest’altro segno: , che ne prescrive il rilascio. Il pedale di risonanza, essendo legato alla meccanica dello smorzatore , ha su quest’ultimo la stessa funzione del rilascio di un tasto . Un altro segno che generalmente indica i punti di abbassamento e rilascio del pedale , coincidenti nella

maggior parte dei casi con i cambi di armonia negli accordi , è il seguente:

Movimento deciso Il pedale va abbassato e rilasciato in corrispondenza rispettivamente della prima e della seconda barra verticale, in modo secco e deciso. Movimento dolce Il pedale va abbassato e rilasciato in corrispondenza rispettivamente della prima e della seconda barra obliqua, in modo dolce e graduale. Movimento combinato Rappresentato dall’alternarsi di un movimento deciso a uno dolce o viceversa.

Movimento a scomparsa Il pedale va rilasciato nel modo più graduale possibile fino a sollevarsi del tutto. Cambio spezzato

L’alternarsi di due segni di movimento graficamente separati determina che il piede si sollevi del tutto dal pedale. Cambio sincopato Questa grafia determina che il cambio avvenga senza far perdere al piede il suo contatto col pedale.

Il cambio di pedale sincopato è il più frequente nel repertorio pianistico, e determina che il pedale di risonanza venga generalmente sollevato una frazione di secondo dopo il cambio di armonia degli accordi . È importante anche considerare che, a partire dal sesto tasto bianco fa che si incontra contando dalla sinistra della tastiera , non sono presenti smorzatori , dal momento che quelle corde per ragioni armoniche e acustiche possono risuonare liberamente senza “sporcare” l’esecuzione con marcate cacofonie, cosa che invece accade per le corde della regione bassa del pianoforte, essendo queste ultime molto lunghe e spesse. Pedale di Rendano Questo pedale non è impiegato nei primi studi elementari e si trova raramente indicato in partitura poiché è stato brevettato dal suo inventore solo nel 1919. La sua funzione è però decisamente interessante: è simile a quella del pedale di risonanza , ma ha efficacia solo se il pedale viene azionato a seguito dell’abbassamento del tasto interessato (e mentre quest’ultimo è ancora abbassato). In altre parole, attraverso questo pedale , situato solitamente al centro della pedaliera , si può “scegliere” quali note debbano effettivamente rimanere libere dagli smorzatori .

Pedale “una corda” Questo pedale sposta la martelliera [138] verso la destra dell'esecutore [139] : dato che, come si è visto, la parte di meccanica legata ai martelli poggia attraverso il pilota sull’asse dei tasti , questo pedale determina anche lo spostamento dell'intera tastiera . Per comprendere l'effetto di questo pedale è importante distinguere tre porzioni della tastiera , partendo dalla sinistra di quest’ultima: 1)

Corde singole: Fino al primo tasto bianco sol , non compreso, sul pianoforte vi è una corda per ogni tasto ;

2)

Corde doppie: A partire dal primo tasto bianco sol (compreso) fino al terzo tasto bianco do (compreso) ci sono due corde accordate con lo stesso suono ( unisono ) per ogni tasto ;

3)

Corde triple: A partire dal terzo tasto bianco do , si trovano tre corde accordate con lo stesso suono ( unisono ) per ogni tasto .

Spostando la martelliera leggermente verso destra, si ottengono effetti diversi a seconda del numero delle corde coinvolte nella percussione del martello : 1)

Corde singole: il martello agisce percuotendo una sola corda , ma da un’angolazione diversa. Essendo questo ricoperto da feltro, ciò determinerà un timbro diverso nel suono . Il motivo è semplice: nel tempo, martellando la corda sempre nello stesso punto, la porzione di feltro del martello interessata nella percussione si comprime (e usura). Questa compressione determina che la superficie percossa dalla corda sia sempre più dura e che il suono risulti sempre più

secco. Una leggera compressione del feltro è normale, ed anzi può determinare un bel timbro sonoro. Una compressione pronunciata necessita generalmente di un’ [140] intonazione dello strumento. Un’esagerata compressione del feltro ne determina la definitiva usura e può portare la martelliera a dover essere sottoposta a rasatura [141] . Abbassando il pedale “una corda” si agisce sul timbro prodotto dalla percussione del martello sulla corda , poiché la testa del martello percuoterà la corda in un punto diverso e soprattutto con un punto diverso del proprio feltro , la cui consistenza in questo punto è differente dalla precedente. Da queste considerazioni si deduce anche che l’effetto di questo pedale può essere regolato, dal momento che, man mano che lo si abbassa, la martelliera si sposta gradualmente verso destra (fino a tornare in posizione al rilascio del pedale stesso). 2)

Corde doppie e triple: a tutte le considerazioni precedenti bisogna aggiungere che, nel caso delle corde doppie e triple, il pedale permette di percuotere solamente una o due corde delle tre che sono associate a ogni tasto . Questo determina, oltre a un’ulteriore variazione timbrica, una diminuzione del volume sonoro.

Talvolta questo pedale è indicato sulla partitura con la dicitura una corda . In alcuni casi può essere indicato con delle abbreviazioni, come 1 c. per il suo abbassamento e 3 c. per il suo rilascio.

5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica Per ciò che concerne un’esecuzione musicale, si definisce dinamica il complesso dei rapporti d'intensità sonora che si produce all'interno

del discorso musicale (par. 2 - Cap. VI) . [142] Sulla partitura, i segni relativi alla dinamica hanno un valore relativo, non si indica quindi con precisione matematica quanto volume debba essere emesso dallo strumento, ma soltanto una prescrizione relativa alla gestione dell’intensità sonora . Per esempio, su una partitura si potrebbero incontrare questi due segni, che prescrivono una dinamica piano e una forte [143] :

Tali lettere,

e

, prese in astratto, stabiliscono un’indicazione

molto spesso ispirata dalla voce umana. L’indicazione corrisponderebbe a un canto sussurrato, mentre l’indicazione a un canto ad alta voce: questa similitudine va applicata al volume sonoro del pianoforte. Tuttavia, non esistono solo questi due segni di espressione. La ripetizione dei segni succitati corrisponde alla variazione dell’intensità di questi ultimi. Infatti, due ( ) indicano il pianissimo , che non corrisponde più al sussurro, ma a un bisbiglio vero e proprio. Due

(

) indicano il fortissimo e

corrispondono all’atto di cantare con grande volume. Tuttavia, tali indicazioni, come si è detto, hanno una valenza relativa all’ambito in cui sono inserite. Per capire perché si considera la loro indicazione relativa, si prenda in considerazione il seguente esempio: il primo segmento di una composizione (o di periodo, frase, semifrase ecc.) richiede di essere suonato con una determinata dinamica , il secondo segmento di quella composizione richiede di essere suonato più piano e il terzo ancora più piano del secondo. Il compositore potrebbe scegliere di prescrivere questa necessità attraverso la successione di tali segni: Primo segmento

Secondo segmento

Terzo segmento

La stessa necessità potrebbe però essere prescritta anche nel modo seguente:

Primo segmento

Secondo segmento

Terzo segmento

Questi sono solo due fra gli innumerevoli esempi plausibili. Il compositore potrebbe inoltre desiderare di non passare direttamente da una dinamica forte a una piano , ma di passare gradualmente tra le due indicazioni. Al fine di ottenere una variazione modulare della dinamica, impiegherà i segni o , che indicano rispettivamente il moderatamente forte e il moderatamente piano, corrispondenti alle sfumature di un volume intermedio, come quello di una tranquilla conversazione:

Primo segmento

Secondo segmento

Terzo segmento

/ Tra le tre parti della composizione avverrà quindi una modulare diminuzione della espressività dinamica . Questo fenomeno può essere improvviso e spezzato: nel primo caso, si parla di cambiamento di dinamica improvviso (o sùbito ); nell’altro, si definisce progressivo, allorché rappresenta un cambiamento di dinamica graduale (che prende il nome di crescendo o diminuendo , a seconda che la dinamica cresca o diminuisca gradualmente). Il modo in cui si passa da una dinamica all’altra può quindi essere indicato da precisi segni sulla partitura . I compositori indicano più spesso i segni relativi a un cambiamento di dinamica progressivo , sottintendendo il cambiamento improvviso del carattere dinamico quando tali segni dinamici progressivi non sono indicati. Talvolta invece il compositore indica con precisione la sigla “ sub .” a indicare il sùbito di una prescrizione dinamica (per esempio, sub. ). I segni dinamici progressivi sono indicati sulla partitura per iscritto, per esempio “ crescendo ” o “ diminuendo ” (talvolta abbreviati in cresc . e dim .), ma possono trovarsi anche come forcelle :

Crescendo

Diminuendo

Tali forcelle molto spesso sottintendono una dinamica di partenza e una di arrivo [144] . Ciò detto, si consideri che una delle caratteristiche più importanti del pianoforte moderno è la sua impressionante capacità sonora in termini di volume: occorre chiarire fin dall’inizio che questa capacità non dipende solo dalla elevata tensione a cui le corde sono

sottoposte, o da altre novità costruttive rispetto al suo antenato fortepiano , ma anche e soprattutto dalla bravura di chi suona. Nel paragrafo sulla meccanica del pianoforte si è osservato che non basta mettere una massa di mille chilogrammi sulla tastiera per far uscire dal pianoforte un suono forte : è necessario che questa massa abbia anche una precisa ed elevata accelerazione . In questo paragrafo verranno illustrate ulteriori nozioni tecniche al fine di ottenere il massimo e il minimo volume dal pianoforte: questo poiché, comprese le tecniche per toccare questi due estremi, si potrà lavorare in autonomia sulle loro sfumature intermedie. Se si deve suonare al massimo volume possibile [145] una nota non ribattuta, quest’accelerazione deve essere conferita nel momento in cui lo spingitore [146] lancia il martello verso la corda , e non nel momento finale della corsa del tasto , quando il martello è ormai già sul paramartello , privo di contatto con le corde . Pertanto è fondamentale che l’accelerazione conferita al tasto nei primi momenti della sua corsa sia sostenuta dalla massa (della mano, del braccio, ecc.) di chi suona [147] . Quando si impiega molto peso mentre si suona a una velocità esigua, si stanno sprecando energie preziose; la massa del corpo andrebbe sostenuta verso l’alto dalla muscolatura (e non più scaricata verso il basso) nel preciso momento in cui il tasto termina la sua corsa verso il basso, e non scaricata fino alla fine e oltre, qualsiasi sia la dinamica richiesta. A coloro che iniziano a suonare il pianoforte senza conoscerne la struttura meccanica , sovente potrebbe accadere che, malgrado la forza conferita sul tasto sia quasi al limite della propria capacità di sostegno muscolare, il suono risulti disomogeneo, talvolta debole, talvolta forte. Può accadere altresì di non riuscire a ottenere lo stesso volume sonoro in due momenti diversi di un’esecuzione, benché si stia suonando al massimo della propria capacità muscolare. In questi casi, forse si sta trascurando proprio l’importanza dell’accelerazione, così come il punto della corsa del tasto in cui quest’accelerazione diventa concretamente rilevante. Probabilmente a volte la propria forza muscolare non è sfruttata in modo propriamente esplosivo , e, nonostante la fatica sia la

stessa, il suono risulta differente. Altre volte invece ci si concentra più sulla parte finale della corsa del tasto , motivo per cui si può credere di aver suonato forte e velocemente quando in realtà nella prima fase della corsa, quella dove l’accelerazione e il sostegno contano davvero, si suona piuttosto lentamente, senza restituire una giusta forza al tasto . Ecco perché non conta la statura del pianista quando si deve suonare al massimo volume: occorre solamente conferire sufficiente accelerazione alla massa di cui ci si serve per controbilanciare la resistenza del tasto nel momento giusto della sua corsa. Tale resistenza è considerevole solo quando è richiesta una grande velocità in breve tempo [148] , altrimenti ammonta a pochi grammi. Alcune automobili vengono progettate adeguatamente per raggiungere velocità di centinaia di chilometri orari in pochi secondi; altre sono progettate per viaggiare lentamente ma avere una grande forza di traino. Lo stesso si può dire sul pianoforte: se lo scopo è quello di far abbassare un tasto fermo a velocità vertiginosa nel lasso di una frazione di secondo, non si può procedere come quando si sta suonando piano o pianissimo . A questo punto, è bene menzionare l’esistenza di una tradizione, molto spesso errata, sulle cosiddette cadute . La caduta è un movimento del corpo che consente al pianista di sfruttare la forza di gravità oltre che la propria forza muscolare. Questo movimento si articola in tre fasi [149] : 1)

Prima fase : la prima fase consiste nel sollevamento delle dita, della mano e dell’avambraccio (che si dispone verso l’alto sollevato dai muscoli bicipiti), che a loro volta vengono leggermente sollevati dai deltoidi e dai dorsali. Il tutto non avviene simultaneamente ma in modo sequenziale: dalla parte superiore del braccio verso le dita, che si solleveranno per ultime.

2)

Seconda fase : la seconda fase consiste in una caduta vera e propria di tutto l’apparato che si è sollevato, che si rilassa simultaneamente.

3)

Terza fase : la terza fase è rappresentata dall’impatto con la tastiera , per il quale diventa necessario un momentaneo sostegno da parte della muscolatura nel coadiuvare le articolazioni ossee a sostenere, solo per il tempo necessario, il peso (si ricordi quanto detto riguardo l’ultima fase della corsa del tasto nel par. 7 - Cap. V).

Questa tradizione non tiene conto, nella maggior parte dei casi, del fatto che è inutile ed anzi dannoso far precipitare le dita sulla tastiera fino alla fine della corsa del tasto , come a farle schiantare. I tendini dell’avambraccio non sono fatti per sopportare questo sforzo di sostegno nelle dita, ed è inutile scaricare quella energia nel punto in cui la corsa del tasto termina, dal momento che non è lì che viene effettuata la spinta del martello , come approfondito in precedenza (par. 7 - Cap. V). In quel momento il martello è invece distanziato e privo di contatto rispetto alla corda . Senza mettersi a criticare le scuole superate da un pezzo , come molti le apostrofano ingiustamente, è meglio forse in questo caso integrare le scoperte del passato con quelle che rappresentano importanti riflessioni sulla meccanica , senza pretendere di dire qualcosa di nuovo o di non superato . La prima importante riflessione è che quando il braccio cade sulla tastiera deve comportarsi come quello di un pugile, che non ha il solo scopo di scaricare una massa sul corpo dell’avversario, ma anche quello di conferirgli la più alta accelerazione possibile per guadagnare una forza elastica in grado di permettere una rapida ripresa del colpo da parte della muscolatura, fino alla posizione in cui si può tornare alla guardia o a sferrare un nuovo colpo. Per fare questo sul pianoforte non basta l’azione dei muscoli della mano, né quella del braccio, ma occorre quella dell’intero apparato che, a partire dalle spalle, deve funzionare come una molla avente come

punto di contatto e scarico della forza la sensibilità delle dita [150] . Il punto esatto in cui chi suona può capire attraverso la sensibilità delle dita se il peso sia stato scaricato efficacemente è il fondo del tasto , che rappresenta un punto di comunicazione importante - su cui non si deve indugiare con il peso [151] del corpo - per ricavare le informazioni tattili sulle risposte della meccanica dello strumento. Quando si suona il pianoforte e si sente una pesantezza sulle dita, come se fossero queste ultime a sostenere il peso , è soprattutto perché non si sta usando la muscolatura delle spalle , che dovrebbe sostenere le braccia e le mani senza irrigidirsi . Tale pesantezza non si avverte in una corretta postura poiché le mani si occupano solo dei movimenti necessari ad agire con sensibilità sui componenti della tastiera . Inoltre si deve osservare che, anatomicamente, la forza esplosiva dei muscoli delle spalle e di quelli del petto non è paragonabile neppure lontanamente a quella che hanno i tendini che muovono le braccia e dita, che non sono fatti assolutamente per questo scopo. Per questa ragione, quando si ricerca volume, bisogna sempre preferire i primi - esattamente come fanno i pugili - agli ultimi, che hanno esclusivo ruolo di sostegno. Quando si ricerca un grande volume, dovendo impiegare una velocità considerevole per raggiungere il termine della corsa del tasto , può capitare di dover scivolare leggermente verso l’esterno della tastiera , in direzione del proprio corpo, per evitare di indugiare troppo sul fondo del tasto : questo è uno dei principi della prensilità . Il braccio e la mano durante la discesa sui tasti devono essere rilassati, la forma di quest’ultima già pronta a suonare quando è ancora in aria, per irrigidirsi solo al momento del contatto coi tasti : così facendo la massa dell’intero apparato potrà essere scagliata alla massima velocità. Un’altra componente essenziale per ottenere volume è il pedale di risonanza , quello più a destra: in termini di volume, esso permette di aggiungere al suono della corda percossa tutto l’aiuto derivante dalla vibrazione simpatica ; ciò risulta ancor di più se le corde armoniche a quella percossa sono state già percosse precedentemente, o messe in vibrazione dal sollevamento degli smorzatori . Da queste considerazioni si ricava ancora un’importante

regola: se si cerca volume, bisogna mettersi in condizione, quando la musica lo permette, di lasciare le corde armoniche libere dagli smorzatori . Per ciò che concerne invece una nota ribattuta, ossia suonata più volte in un breve lasso di tempo, la faccenda è più complessa. Ciò che verrà descritto a breve è un modo attraverso cui è possibile ottenere il massimo volume dalle corde del pianoforte ed è la principale causa di rottura delle medesime, anche se non l’unica. Come esposto in precedenza (par. 7 - Cap. V), esistono due fonti di spinta del martelletto verso le corde : lo spingitore e la barra di ripetizione , che è posta più o meno allo stesso livello, rispetto al rullino , dello spingitore a riposo. Si è detto altresì che lo spingitore lancia il martelletto verso le corde tramite il rullino , fatto che permette al martelletto stesso di percuotere la corda anche senza che il tasto dalla parte di chi suona sia stato abbassato del tutto. Se non si abbassa del tutto il tasto , è possibile mantenere lo spingitore in posizione di massima estensione verso l’alto e non far partecipare al lancio la leva dello scappamento . In questo modo il rullino si trova a ricadere non sulla leva di ripetizione o sul paramartello , ma di nuovo sullo spingitore o sulla leva di ripetizione . Se si riesce a coordinare questo movimento (sono necessari un po’ di velocità e un po’ di tempismo, in altre parole coordinazione) con un rapido e leggero ritrarsi dello spingitore prima che il martelletto finisca sul paramartello o con il suo rullino sulla leva di ripetizione - senza però far interrompere del tutto la vibrazione della corda dallo smorzatore è possibile in un secondo momento rilanciare con forza elastica il martello verso la corda , a una forza quindi esponenzialmente maggiore rispetto a quella del primo lancio, e verso una corda che ha già superato la sua soglia di inerzia [152] . Quest’ultima considerazione sullo smorzatore fa capire che realizzare questa tecnica con lo smorzatore tenuto alzato da un pedale è più semplice. Tradurre questo apparentemente complesso ragionamento in termini tecnici, ossia pianistici, non è semplice: una volta abbassato il tasto e fatta suonare una corda , lo si deve, a una breve distanza temporale dalla percussione precedente, riabbassare alla massima

velocità possibile; se non si sta impiegando il pedale , la corsa del tasto non deve superare i tre quarti della sua lunghezza (almeno non per troppo tempo, a seconda del timbro che si vuole ottenere). In caso contrario la corda smetterebbe in parte o in tutto di vibrare - e se smettesse del tutto la tecnica sarebbe errata - in quanto rilasciare il tasto completamente significherebbe far abbassare lo smorzatore sulla corda . In entrambi i casi, se si cerca un volume molto importante - anche se si sta impiegando il pedale - è sempre buona regola non rilasciare del tutto il tasto (dalla prima percussione alla seconda dovrebbe passare il minor tempo possibile, una frazione di secondo). Il mero timbro , quindi non il volume , caratteristico di questa tecnica, ossia il “brillare” della corda , è ottenibile anche semplicemente ripercuotendo una corda già percossa precedentemente e ancora in vibrazione. Riassumendo, combinare questa tecnica con le possibilità dei suoni armonici e delle relative corde simpatiche significa ottenere il massimo volume dal pianoforte. Al contrario, per ottenere il minimo volume dal pianoforte, bisogna studiare la soglia entro la quale la velocità di discesa del tasto permette l'emissione del suono attraverso la meccanica (in altre parole, la velocità minima alla quale avviene la percussione della corda da parte del martello ). La massa posta sul tasto che sopra vi si scarica - che sia il dito, l’intera mano o l’intero braccio attraverso quel dito, eccetera - non ha nessun valore in questo procedimento se non la si mette in relazione alla sua velocità di movimento verso il basso. Per attuare lo studio di tale velocità, bisogna considerare che l’unica risposta proveniente dal tasto è quella data dal suo fondo. In quel punto, la mano riceve una risposta tattile concreta dalla quale il pianista può determinare: 1) 2) 3)

La velocità alla quale il tasto è stato abbassato; La quantità di massa che è stata scaricata su quel tasto ; La natura della forza impiegata per imprimere l’accelerazione al tasto (se si è impiegata la forza della gravità o quella dei muscoli).

Queste informazioni si ricavano dal tocco . Per suonare più piano possibile bisogna quindi iniziare a capire che i tasti vanno sempre abbassati fino in fondo, e che ciò che determina il mutamento dinamico è soltanto la velocità di corsa del tasto . Il termine dinamica , di cui si è trattato finora sia da un punto di vista teorico che tecnico, potrebbe erroneamente suggerire un’idea di movimento. In questo senso, non va confuso con il termine agogica . La distinzione tra i due termini che opera l’enciclopedia Treccani è inequivocabile, la si riporta in seguito [153] : “Si dicono indicazioni agogiche i diversi andamenti, dal Grave al Presto la cui velocità, da Ludwig van Beethoven in poi è indicata da battiti del metronomo , ma che in realtà può essere diversamente interpretata a seconda delle epoche (la velocità di un Adagio di una composizione barocca è molto diversa da quella di un Adagio romantico). Queste indicazioni sono spesso modificate attraverso l’aggiunta di comparativi di maggioranza o minoranza (per esempio Poco Allegro ), di superlativi e diminutivi (per esempio Prest issimo ) o con ulteriori espressioni che chiariscano meglio il carattere del brano in questione (per esempio energico , appassionato ). Appartengono a questa categoria anche indicazioni di carattere espressivo come Affettuoso , Appassionato , Cantabile , Dolce eccetera [...]. Si dicono modificazioni agogiche le varie sfumature di andamento scritte (per esempio accelerando , trattenendo , ad libitum ) o improvvisate. Di solito per entrambi i tipi di indicazione l’italiano era la lingua internazionalmente riconosciuta, ma alcuni compositori (Ludwig van Beethoven, Richard Strauss e gli autori contemporanei) le hanno espresse anche nella propria lingua. L’ agogica musicale va, quindi, distinta dalla dinamica , che consiste nelle variazioni di intensità sonora”. CAPITOLO VI 6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio

Ogni volta che si deve portare a termine un esercizio o migliorarlo, sia esso di lettura o pratico, accade di doverlo ripetere al fine di osservarlo nelle sue infinite prospettive. Ripetendolo dieci volte in modo scorretto, quell’esercizio non migliora e al contrario peggiora. Questo è uno dei tanti esempi che dimostra come la ripetizione passiva o meccanica, in uno qualsiasi degli orizzonti di studio di questo manuale, è da evitarsi. Esattamente come la lettura, anche la ripetizione procede dal particolare al generale. Di seguito verranno illustrate le due fasi che la compongono. Queste sono da concepire in ordine e in successione: non si dovrebbe considerare la seconda senza aver sufficientemente approfondito la prima. In linea generale, per ciò che concerne entrambe le fasi della ripetizione: 1.

Si prosegue nella lettura o nella sua messa in pratica solo dopo aver compreso ciò che si è letto, e non per tentativi; per tale ragione, l’occhio dovrebbe leggere sempre più avanti rispetto a ciò che ha di fronte (par. 1 - Cap. I).

2.

Quando si ripete un esercizio, occorre scegliere una velocità coerente con l’ indicazione di andamento [154] scelta per lo studio, che deve essere unica : non si deve studiare lentamente un passaggio che risulta difficile e a grande velocità quello che risulta facile. Questo anche allo scopo di distribuire equamente le proprie energie nello studio. Se infatti dopo un tempo limitato di studio si saprà leggere o eseguire bene l’incipit di un brano e non la sua fine, si avrà solo perso tempo. Il primo obiettivo, che ha priorità assoluta, è quello di arrivare a saper suonare fino alla fine un brano in coerenza con una determinata indicazione di andamento scelta per lo studio - anche se molto lenta - in modo che tutte le parti dello studio siano più o meno sullo stesso livello.

3.

Si usi il metronomo solo come indicazione, non è sempre necessario tenerlo acceso durante ogni ripetizione; in alcuni casi, farlo può essere dannoso per la implicita concezione agogica di molte frasi musicali.

4.

Non è necessario studiare sempre partendo dall’inizio. Al contrario, lo studio intelligente parte dalla considerazione dei punti in cui si ha maggiore difficoltà, che andrebbero evidenziati e trattati con attenzione. Studiando in questo modo, ossia senza seguire la direzione di lettura, si parta possibilmente dall’inizio di un passaggio che risulta più difficile per correlarlo poi a ciò che lo precede e lo segue.

5.

Si usi un qualsiasi contatore per tenere memoria delle ripetizioni eseguite, che non dovranno mai essere passive o meccaniche . Se nel contesto di una data ripetizione si è riusciti a evitare un approccio passivo, si definisca tale ripetizione corretta [155] e si aggiunga un punto al proprio contatore. Questa operazione va fatta fisicamente, perché può essere un gesto utile al fine di rilassare mente e corpo tra una ripetizione e l’altra. Al contrario, se non si è riusciti ad evitare un approccio puramente meccanico, si definisca la ripetizione sbagliata e si azzeri il proprio contatore. Durante la prima lettura di un brano, si passerà al successivo lavoro di ripetizione quando il contatore raggiunge la soglia che di volta in volta, facendo una media dei propri miglioramenti e del numero di ripetizioni necessarie per conseguirli, si sceglie.

6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento La prima fase della ripetizione è un procedimento basato sul presupposto che nella partitura sia avvenuta un’opera di costruzione: da due frammenti si è composto un intero , da due interi un nuovo intero più grande, di cui quei due interi di partenza sono diventati i frammenti costitutivi, e così via. Si può immaginare questa prima

fase come l’attenta analisi di un oggetto sconosciuto: esaminandolo attraverso prospettive differenti (capovolgendolo, avvicinandolo agli occhi, sollevandolo, ecc.), se ne svelano caratteristiche che altrimenti sarebbero state analizzate superficialmente o addirittura dimenticate. Tutte queste caratteristiche, la cui unione compone l’oggetto, ossia l’ intero più grande, prese una per una sono ciò che è stato definito frammento ; sommando invece tutte queste caratteristiche tra loro, e relazionandole, si otterrà un intero fatto di caratteristiche comuni. In musica, le scomposizioni di ciò che si legge avvengono secondo criteri ben precisi. Come accade per un testo in prosa, che presenta una struttura coerente e coesa, formata da periodi organizzati secondo una specifica punteggiatura, così accade per il linguaggio musicale: ogni partitura, dalla più semplice alla più complessa, rispetta una struttura prestabilita. Queste strutture, e le forme retoriche [156] in esse riscontrabili, vengono studiate mediante l’ analisi delle forme. La conoscenza delle strutture sopracitate è indispensabile per studiare un brano ed eseguirlo in modo corretto. Di seguito si introdurranno brevemente alcuni concetti basilari relativi alla struttura formale di una partitura. L’ inciso è la particella più piccola del periodo musicale . Non supera la lunghezza di una battuta , ma può trovarsi a cavallo di due battute . L’unione di due incisi dà luogo alla semifrase . Due semifrasi danno luogo a una frase , che è composta mediamente da 2+2 (4) battute ed esprime un concetto melodico che viene solitamente, almeno in parte, ribadito o variato nella frase a seguire. Due frasi determinano il periodo musicale , della durata di 4+4 (8) battute . L’insieme dei periodi musicali darà poi luogo alla composizione . Da queste considerazioni si può trarre una considerazione a margine: quella che nel paragrafo 2 del capitolo IV si è chiamata legatura non corrisponde a una frase . Non è detto quindi che una legatura abbia lo stesso inizio e la stessa fine della frase di cui fa parte: una legatura di portamento potrebbe, per esempio, comprendere solamente una semifrase o persino un solo inciso. Ecco un esempio di periodo musicale, desunto analizzando l’esercizio sulle cinque dita numero 11 dell’opus 599 [157] , un

insieme di composizioni didattiche per pianoforte composte dal maestro di Franz Liszt, nonché allievo di Ludwig van Beethoven, Carl Czerny (fig. 100):

Figura 100

Una volta compreso quale sia il livello di scomposizione più adatto allo studio, ripetendo in modo corretto , ossia confrontando tale frammento con l’ intero di riferimento, si scopriranno le sue diverse caratteristiche e il modo corretto di ripeterlo nel suo complesso sarà chiaro quando i suoi elementi si sommeranno in una visione più ampia che li comprende tutti. 6.3 Seconda fase della ripetizione: l’intero Il pianista non è condannato alla ripetizione in eterno: dentro di sé, passando dallo studio del frammento più piccolo a quello dell’ intero più grande di una composizione , riempie metaforicamente dei cassetti con tutti gli utensili che “fabbrica” attraverso il proprio studio, per cui molto spesso non è necessario doverli “rifabbricare” da zero. Per fare un esempio, ripetendo dieci volte ciascuno due frammenti di una composizione e ritrovando caratteristiche di questi in altri brani, si avrà probabilmente bisogno di ripetere entrambi non più dieci volte ma, a titolo esemplificativo, cinque volte. È importante dire che se si ripetono meccanicamente dieci volte tali frammenti, senza vederli in prospettiva né cercando di capire se questi possano essere ridotti a frammenti ancora più piccoli (e se quindi siano essi stessi anche degli interi dell’ intero più grande ) non si progredirà affatto e non si preparerà alcun “utensile”. In questa seconda fase della ripetizione si devono stabilire tutte le connessioni possibili tra le scomposizioni fatte precedentemente, al fine di “disegnare” la sagoma definitiva dell’ intero più grande . A differenza della fase di ripetizione precedente, questa consiste nel “posizionare” tutti i frammenti in modo da poter lavorare sull’ intero compiuto. In altre parole, rappresenta il lavoro che un pianista deve fare per preparare l’esecuzione vera e propria di ciò che sta studiando. Si riporta di seguito uno dei possibili [158] esempi pratici di studio, tratto da un segmento della prima sonata dell’opus 118 di Robert Schumann (fig. 101) [159] :

Figura 101



FASE 1: ripetizione (errata) del frammento Se non si conoscessero le convenzioni della retorica musicale mostrate precedentemente (fig. 100), si potrebbe tentare di frammentare questa prima battuta, all’atto pratico, capendo quali note debbano essere suonate con la mano destra e quali con la mano sinistra, per poi studiare “una mano per volta” ( frammento ).



Confronto con la ripetizione dell’ intero Tuttavia, al momento di unire le mani ( intero ) sarebbe controproducente leggere singolarmente tutte le volte la progressione della mano sinistra, mentre la destra fa qualcos’altro, o viceversa, concependo la composizione come divisa tra le due mani. Nel presente caso (fig. 101), la frammentazione attuata nella prima fase non è particolarmente utile, poiché è molto difficile mantenere la concentrazione su tutte queste note se vengono studiate esclusivamente a mani separate. Prima o poi infatti precisamente nella seconda fase della ripetizione - sarà necessario unire i due frammenti in un intero : tenendo conto

di questo (mettendo cioè in relazione il frammento con l’ intero ), si comprende che la prima fase di ripetizione , impostata in tal modo, non sarà particolarmente efficace per l’esecuzione. Questo non sarebbe stato evidente se frammento e intero non fossero stati distinti e messi in relazione. Si provi ora ad attuare una frammentazione secondo la convenzione della retorica musicale, si otterrà quanto segue: ●

Correzione sulla ripetizione del frammento Si può notare che, a partire dal re nel basso, la mano destra sale insieme alla sinistra fino al mi ( frammento 1 e 2, ossia di mano destra e sinistra), per poi riscendere sul do ( frammento 3 e 4); a partire dal re successivo, le voci si muovono in direzioni contrarie (si parla in questo caso di moto contrario , frammento 4 e 5), per finire di nuovo con le due mani che salgono contemporaneamente ( frammento 6 e 7). Nonostante queste quattro coppie di frammenti prese singolarmente non abbiano un significato musicale compiuto, occorre metterle in relazione per costruire un intero , il che risulterebbe assai difficile ragionando esclusivamente in termini di “mani separate”.



FASE 2: ripetizione dell’ intero È in questa fase che si deve cercare di connettere tra loro i frammenti ottenuti cercando il più possibile di relazionarli musicalmente e ridurre al minimo la quantità di scomposizioni che si sono attuate nella corretta ripetizione del frammento . Ridurre al minimo le scomposizioni non significa ripetere senza prestare attenzione ai dettagli della partitura , bensì allenare l’occhio a coglierne un numero sempre maggiore, sussumendo i medesimi in dettagli “più grandi”. Durante la ripetizione, l’occhio non dovrebbe rimanere “pigro” mentre le mani suonano meccanicamente, o peggio ancora si affidano alla memoria muscolare, ma al contrario dovrebbe leggere con fermezza i punti che

possono essere presi come riferimento della lettura negli interi ricomposti. A esempio, frammento 1 e 2 si potranno suonare con entrambe le mani, in modo che diventino un solo frammento . Lo stesso vale per i frammenti successivi. In questa seconda fase di ripetizione , oltre a connettere tra loro i vari frammenti , esplorandoli stavolta dall’alto, come elementi costitutivi di un intero più grande, si opera il consolidamento dei frammenti stessi. Un errore assai diffuso è quello di ripetere gli interi quando sono chiari in tutti i loro frammenti , per poi fermarsi. In realtà, è proprio in questo momento che la ripetizione deve farsi serrata, perché la corretta forma di studio, dedotta attraverso questo lungo procedimento, deve consolidarsi. La ricerca del miglior modo in cui analizzare una partitura , al fine di studiarne ogni dettaglio, dovrà diventare una semplice operazione di spostamento della propria concentrazione sui frammenti e sull’ intero che compongono. L’ultima caratteristica menzionata del metodo di ripetizione esposto permette di risparmiare energie preziose nello studi o . Per esempio, si prendano in esame elementi come gli abbellimenti , che rappresentano l’inserzione in un brano musicale di note ausiliarie con funzione esornativa, dette note ornamentali , come nella fioritura o nel melisma . [160] La principale difficoltà incontrata nello studio è quella di capire in che momento e per quanto tempo gli abbellimenti vadano effettivamente eseguiti. Si suonerà prima quindi la nota reale dell’ abbellimento, come se quest’ultimo non fosse scritto. Si veda il seguente esempio (fig. 102), dove la notazione tr seguita da una serpentina indica l’ abbellimento del trillo [161] :

Figura 102

Si suonerà quindi un ottavo di re ; in seguito, a questa base ritmica si aggiungerà l’ abbellimento . 6.4 Introduzione pratica allo studio delle scale La scala è una successione di intervalli melodici per grado congiunto, disciplinati a livello pratico da un particolare tipo di diteggiatura , ossia precise indicazioni su quale dito debba abbassare un determinato tasto . Queste sono riportate in forma numerica (numeri arabi) al di sopra o al di sotto della notazione. I numeri relativi alla diteggiatura fanno dunque riferimento alla progressione ordinata delle dita, a partire dal pollice ( 1 =pollice; 2 =indice; 3 =medio; 4 =anulare; 5 =mignolo). La numerazione vale allo stesso modo per entrambe le mani. Per esempio, il quarto dito della mano, indicato con 4 , sarà l’anulare sia nel caso della diteggiatura per mano sinistra che di quella della mano destra. I numeri arabi della diteggiatura non si devono confondere con quelli del basso continuo , che indicano la struttura degli accordi : sono due indicazioni completamente diverse, che risultano facilmente distinguibili in base al contesto. Un ottimo testo per lo studio delle scale è il manuale Il pianista virtuoso del compositore francese Charles-Louis Hanon, [162] che riporta le scale in tutte le tonalità e su quattro ottave , come richieste dai primi esami di conservatorio, già

diteggiate dalle edizioni più moderne: è su queste che ora si dovrebbe concentrare il proprio studio. Una volta padroneggiate le scale , queste si possono usare per leggere qualsiasi successione di intervalli melodici per grado congiunto : è evidente quindi la loro importanza nello studio del pianoforte. Le scale rappresentano uno strumento essenziale per la lettura della maggior parte del repertorio tonale : averne padronanza è fondamentale anche per lo studio della diteggiatura , dal momento che possono essere il modello di molte diteggiature di successioni melodiche . Se si deve scrivere una diteggiatura , ossia scegliere quali dita debbano abbassare i tasti , si può considerare come regola generale per qualsiasi melodia che procede per grado congiunto quella di partire sempre dal riferimento della diteggiatura impiegata per le scale . Lo studio approfondito delle scale rappresenta inoltre la prima possibilità di ampliamento dei propri orizzonti di comprensione musicale, migliorando le proprie capacità di sintesi, metaforicamente intesa come l’acquisizione di “nuovi lemmi per il proprio vocabolario musicale”. I paragrafi seguenti, disposti in ordine di studio , tratteranno di un metodo elaborato dall’autore per la pratica delle scale al pianoforte: poiché sono disposti secondo un ordine ben preciso, i paragrafi a seguire andranno inizialmente messi in pratica dal primo all’ultimo. Nessuno di questi andrà pertanto praticato singolarmente (l’ultimo senza il primo, o il terzo senza il secondo, ecc.) . In un secondo momento, dopo aver approfondito ed integrato ogni fase descritta nei paragrafi, l’uso di un singolo paragrafo potrà essere considerato ammissibile, al fine di superare una data difficoltà esecutiva. 6.5 La posizione fondamentale della mano nelle scale Dopo aver effettuato uno studio delle dita in modo simultaneo (par. 5 - Cap. V), bisogna studiare il succedersi delle note della scala a partire da una data posizione fondamentale della mano , applicando a quest’ultima lo studio sulle cinque dita . Nell’effettuare questa applicazione, occorre comprendere se effettivamente tutte le dita stiano abbassando i tasti fino in fondo, attraverso il peso (par. 7 -

Cap. V). La posizione fondamentale della mano non prevederà necessariamente l’uso simultaneo di tutte le dita. Nell’attuare qualsiasi studio che alterni due posizioni fondamentali della mano , la posizione fondamentale della mano deve essere preparata mentalmente e in anticipo rispetto al momento in cui si giunge sui tasti a essa relativi. È infatti controproducente preparare la mano nel momento in cui le dita arrivano ai tasti , effettuando solo in seguito gli aggiustamenti necessari (movimenti orizzontali delle dita, ecc.). Un efficace esercizio per praticare l’immaginazione dei tasti e anticipare nella mente le varie posizioni fondamentali che la mano dovrà assumere sui medesimi è quello di pensare a due posizioni fondamentali della mano in forma di note “scritte” sul pentagramma. Nei paragrafi successivi verranno forniti esempi melodici e accordali per attuare questo esercizio in differenti contesti. Successivamente, si dovranno immaginare tali posizioni sulla tastiera del pianoforte, ossia pensare a quali tasti siano riferite le due posizioni fondamentali della mano , facendo corrispondere le note “scritte” ai tasti. Ciò permetterà di aprire la mano anticipatamente, prima di toccare la tastiera , in corrispondenza dei tasti che si sono immaginati. Soltanto alla fine sarà possibile porre la propria mano sulla tastiera del pianoforte, per verificare se la posizione fondamentale della mano immaginata mentalmente corrisponda nei fatti alla forma richiesta dalla tastiera . Nel fare questo, occorre mantenere un alto livello di attenzione tanto durante l’apertura delle dita quanto durante la loro chiusura. Per esempio, in una scala melodica di do maggiore naturale si alternano due posizioni fondamentali della mano : in questo caso, bisogna anticipare mentalmente la disposizione della mano sulla serie da quattro tasti bianchi mentre ci si trova ancora sulla serie da tre, pensando a come la propria mano dovrà cadere su di essi prima che vi giunga sopra. 6.6 Schematizzare le acquisizioni discorsive nelle scale Per uno studio pratico di quanto si è detto, si dovrà procedere in due distinte fasi. In un primo momento, occorre schematizzare la struttura teorica e discorsiva della scala , al fine di avere un rapido

riferimento quando si sta suonando; la schematizzazione delle acquisizioni teorico-discorsive è fondamentale durante la pratica della tecnica. Ecco come attuarla: ●

Nel paragrafo sul circolo delle quinte si è detto che per ogni tonalità non si devono tenere a mente più di tre alterazioni per ogni armatura di chiave . Lo stesso principio vale anche per le note che, rispetto alla scala maggiore, devono essere ricordate al fine di costruire le relative minori armonica e melodica ascendente o discendente ; sono infatti tre anche queste note , e procedono per grado congiunto : sesto, settimo e primo grado della scala. Conviene quindi concepirle da subito in ordine decrescente (per esempio: la sol - fa ) ponendo di volta in volta gli accidenti necessari ( diesis o bequadri ), senza tenere a mente tutte le note della scala minore . In linea generale, tutte le scale minori devono essere considerate in relazione alle scale maggiori , dal momento che la loro armatura di chiave è la stessa;



La scala minore armonica ha il settimo grado alterato per dare luogo alla sensibile sia nell’ascendere che nel discendere, perché gli intervalli melodici si considerano sempre a partire dalla nota più grave, indipendentemente dalla loro direzione ascendente o discendente. La scala minore melodica ascendente ha settimo e sesto grado alterati , per dare luogo alla sesta maggiore , mentre ha un bequadro rispettivamente sul sesto e settimo grado in fase discendente , oppure, se non si sta arrivando da una scala melodica ascendente, nessun nuovo accidente rispetto all’ armatura di chiave della relativa scala maggiore , per dare luogo di conseguenza alle necessarie sesta minore e sottotonica ;



A questo punto, occorre memorizzare e ripetere a mente, immaginando la partitura e non la tastiera , quali note sono effettivamente alterate per non considerare mentalmente i

tasti che non fanno parte della scala . Sarà difficile confondersi se si seguiranno i suggerimenti di cui sopra, ma è bene non dimenticare che, per fare un esempio tra tutti, il sol diesis associato a un preciso tasto nella scala di la minore armonica non dovrà essere confuso con un la bemolle (par. 8 - Cap. II). Una volta schematizzate le acquisizioni discorsive si può procedere alla seconda fase, quella applicativa: ●

Per la pratica delle scale si scelga inizialmente un andamento il più possibile lento: questo per impedire alle mani di acquisire prematuramente automatismi di esecuzione che dovranno essere integrati solo dopo aver chiarito i componenti musicali della scala ;



Si studi in un primo momento con gli occhi sulla partitura , sempre leggendo e ragionando sullo schema di cui sopra prima di suonare, senza mai procedere per tentativi casuali. Così com’è possibile rivolgere il proprio grado di concentrazione verso gli occhi e le loro sensazioni per concentrarsi sulla lettura, allo stesso modo si può prestare il massimo grado di attenzione al modo in cui le proprie mani mettono in pratica quanto si è letto mentalmente o sulla carta.

6.7 Mettere in pratica il circolo delle quinte nelle scale Dal momento che ogni scala minore è da considerarsi in relazione alla sua relativa maggiore , è fondamentale conoscere alla perfezione il complesso delle armature di chiave : per farlo, è necessaria una schematizzazione pratica del circolo delle quinte . Sul pianoforte è facile vedere quali caratteristiche comuni abbiano le due direzioni rispettivamente oraria e antioraria del circolo delle quinte :

-

In senso orario si ottiene che gli accidenti in chiave (a partire dal fa verso il mi ) iniziano da due tasti bianchi che vengono sostituiti da due tasti neri (seguendo l’ordine: il fa naturale che viene sostituito dal tasto nero fa diesis, e il do naturale che viene sostituito dal tasto nero do diesis ); le ultime alterazioni si incontrano invece rispettivamente su due tasti bianchi che vengono sostituiti da altrettanti tasti bianchi (sul mi naturale, che viene sostituito dal tasto bianco mi diesis, e sul si naturale, che viene sostituito dal tasto bianco si diesis ). Bisognerà quindi considerare prima di tutto la porzione sinistra dei tasti bianchi sulle due serie distinte di due e tre tasti neri. Negli esempi a seguire sono state rispettivamente evidenziate le prime e barrate le ultime due note alterate dall’ armatura di chiave che si ottiene procedendo in senso orario sul circolo delle quinte (fig. 103).

Figura 103

-

In senso antiorario invece, si ottiene che gli accidenti in armatura di chiave (a partire dal si verso il do ) iniziano da due tasti bianchi che vengono sostituiti da due tasti neri , (in ordine: il si naturale, che viene sostituito dal tasto nero si bemolle , e il mi naturale , che viene sostituito dal tasto nero mi bemolle ); le ultime alterazioni si incontrano invece rispettivamente su due tasti bianchi che vengono sostituiti da altrettanti tasti bianchi (sul do , che viene sostituito dal tasto bianco do bemolle , e sul fa , che viene sostituito dal tasto

bianco fa bemolle ). Bisognerà quindi considerare prima di tutto la porzione destra dei tasti bianchi sulle due serie distinte di due e tre tasti neri (fig. 104).

Figura 104

Da questi due esempi è facile notare come il fulcro dell’ armatura di chiave parta sempre dagli estremi destro o sinistro della serie da tre tasti neri. 6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano Dopo aver approfondito lo studio sulle cinque dita applicato alle scale , si deve prestare particolare attenzione al passaggio del pollice, ossia allo studio della correlazione tra due posizioni fondamentali della mano . Per agevolarlo, è fondamentale che la mano si muova lateralmente da sinistra verso destra, o da destra verso sinistra, tirando leggermente verso se stessa [163] il polso [164] , così da preparare il pollice sul tasto da suonare con il medesimo. Questo movimento del polso va praticato soffermandosi sul dito che suona prima del pollice e contemporaneamente preparando quest’ultimo sul tasto che dovrà suonare. Gli esercizi seguenti, trascritti in forma sintetica dal manuale tecnico di C. L. Hanon [165] , sono particolarmente efficaci per lo studio del passaggio del pollice sotto il secondo, terzo, quarto o quinto dito (fig. 105, fig. 106, fig. 107, fig. 108):

Figura 105

Figura 106

g

Figura 107

Figura 107

Figura 108

Figura 108

6.9 Concepire armonicamente le scale Una volta chiariti gli elementi delle scale , è necessario ridurre in “segmenti” le quattro ottave di ogni scala , a partire dallo spostamento che la mano deve compiere in due posizioni fondamentali della mano (per fare passare il pollice o per passare sopra al pollice), in modo da operare un cambio di prospettiva: passare dal particolare ( nota per nota ) al generale ( Armonia ). La segmentazione, da un punto di vista armonico , viene effettuata mediante due cluster , gli accordi mostrati nell’esempio a seguire (fig. 109), che in questo caso rappresentano le note della scala suonate simultaneamente. È chiaro quindi che l’ Armonia sia fondamentale anche per comprendere elementi apparentemente lontani da essa (par. 7 - Cap. II), dal momento che le composizioni del periodo tonale sono state concepite come un insieme di elementi armonici , gli accordi, fulcri del significato melodico . Nell’operare tale segmentazione durante la fase di studio, è fondamentale preparare anticipatamente la posizione della mano e studiarne il collegamento, a fini pratici e mnemonici. Si osservi l’esempio a seguire (fig. 109):

Figura 109

In alcuni casi, per attuare questa scomposizione, le prime note della scala sono da considerarsi come note di arrivo, ossia come se si

fosse già suonata un’ottava prima di arrivare a loro. A esempio, nella scala di si bemolle maggiore la diteggiatura prevede generalmente 2-1-2-3 per la mano destra: in questo caso il 2 (sul si bemolle ) non si prenderà in considerazione, poiché suonare il primo cluster comprendendo il si bemolle significherebbe cambiare la diteggiatura prevista per la scala ; i cluster assegnati alle due posizioni fondamentali della mano saranno rispettivamente composti da do = 1 - re = 2 - mi ( bemolle )= 3 e fa = 1 - sol = 2 - la = 3 - si(bemolle) =4 . Si ricordi inoltre che l’esempio in figura (fig. 109) ha natura accordale: per essere studiato devono quindi essere applicati i principi dello studio sul passaggio tra posizioni fondamentali della mano visti nel relativo paragrafo (par. 8 - Cap. VI) e soprattutto quelli sullo studio degli accordi che saranno trattati a breve (par. 1 - Cap. VII). 6.10 Ridurre il margine di errore nelle scale Nello studiare le scale bisogna tenere a mente che i tasti neri lasciano al dito un margine d’errore, talvolta spostato verso destra, talvolta verso sinistra, in virtù della loro disposizione. Questa prevede, suonando in senso ascendente o discendente, una distanza variabile dal centro del tasto nero a quello del tasto bianco adiacente (par. 4 - Cap. I). Tuttavia, da un punto di vista pratico si potrebbe dire quanto segue: in generale, rispetto al centro dei gruppi da due e tre tasti neri reperibili sul pianoforte, questi sono disposti a “ventaglio”; i tasti neri disposti esternamente rispetto a questo centro ideale danno un margine di errore variabile a seconda della loro collocazione. In altre parole, il tasto nero più a sinistra di questo centro ideale avrà sempre una maggior superficie verso sinistra rispetto al centro del tasto bianco che lo precede o che lo segue; al contrario, il tasto collocato più a destra di questo centro ideale avrà una maggior superficie verso destra. Nel caso della serie da due tasti neri (par. 4 - Cap. I), si può dire che il centro ideale di questo “ventaglio” coincida con un punto dell’asse immaginario che divide in due longitudinalmente il tasto bianco re . Ne si ripropone di seguito

lo schema riassuntivo (par. 4 - Cap. I), così che sia integrato con queste ultime considerazioni di natura pratica (fig. 110):

Figura 110

CAPITOLO VII 7.1 Introduzione pratica allo studio degli intervalli armonici Per quanto concerne lo studio degli accordi , prima di passare a indicazioni pratiche ben precise, è bene fare delle premesse sul metodo di studio da adottarsi. Riguardo allo studio pratico [166] di intervalli armonici e accordi , vale la pena di concentrarsi sulle singole note , anche su quelle che non hanno particolare significato armonico . Per esempio, se mignolo e pollice devono suonare due note che due accordi o due intervalli armonici non hanno in comune, bisogna prendere quelle singole

note e studiarne lo spostamento tra mignolo e mignolo, o tra pollice e pollice, o tra medio e medio e così via. Questo fortifica la sicurezza per lo spostamento di ogni dito, e aiuta a comprendere quali siano le note perno dello spostamento tra i due accordi . In un primo momento lo studio di tale spostamento non deve avvenire in modo pendolare , ma il movimento deve essere spezzato in due: il dito deve scattare sul tasto ed essere pronto anticipatamente per abbassarlo, senza tuttavia farlo, se non al momento richiesto dalla musica [167] . Occorre prestare attenzione al fatto che questa divisione del movimento in due fasi non influenzi il momento ritmico entro il quale si deve sentire il suono della nota , che deve essere sempre rispettato: l’intera mano deve essere in posizione per suonare l’intero accordo , anche quando si suona effettivamente una sola nota di questo. In tal senso è solo la preparazione del dito sul tasto che deve essere anticipata, non il momento in cui esso viene abbassato. Non bisogna pensare che sia una forzatura studiare dapprima come singole note i passaggi di accordi e intervalli che non si conoscono. Perciò, in molti casi, non c’è differenza tra studio melodico o armonico , fatto che suggerisce la possibilità di applicare anche in questi casi gli studi che riguardano l’ uguaglianza , di cui si tratterà in seguito (Cap. VIII). La differenza tra studio melodico e armonico risiede nella fase successiva. Nella maggioranza dei casi riguardanti gli accordi , si dovranno studiare dapprima gli intervalli esterni (quelli che la nota più grave forma con la nota più acuta) suonando in contemporanea le due note , per passare poi agli intervalli interni. Per lo studio degli accordi si userà una piccola spinta del polso, per non sforzare la muscolatura dell’avambraccio. Negli accordi , è bene ricordare che vi saranno sempre una nota o un gruppo di note da evidenziare durante l’esecuzione per conferire chiarezza armonica : solitamente, per far emergere una nota all’interno di un accordo, è sufficiente inclinare lievemente il polso verso destra o verso sinistra, in direzione di tale nota , e conferire una leggera spinta a partire dalle dita interessate. Quando due accordi in rapida successione prevedono una mano molto interna alla tastiera , con dita che abbassano i tasti bianchi a partire dal lato

dei tasti neri, in molti casi (per esempio in un fortissimo ) è meglio non sfruttare il peso e, al contrario, chiudere la mano a ragno per abbassare quei tasti . Se infatti si alzasse la mano per guadagnare un po’ di rincorsa e di forza peso, questa, cadendo, rischierà facilmente di perdere la mira e abbassare il tasto nero adiacente al tasto bianco, fatto evitabile se non le si fa guadagnare rincorsa. Fatte proprie queste dovute premesse sul metodo di studio pratico, bisognerà applicarle allo studio degli accordi in tutte le posizioni e in tutti i rivolti : non bisogna spaventarsi, non è necessario ed anzi è sbagliato studiarli tutti come le tabelline della matematica. Nei paragrafi a seguire verrà esposto il metodo per uno studio efficace di essi. Si inizierà dalla tonalità di do maggiore e poi, seguendo il circolo delle quinte, si esploreranno tutti gli accordi possibili all’interno delle tonalità maggiori e minori : solo in queste ultime ci si curerà di esplorare anche la possibilità del sesto e settimo grado della scala alterati. Ecco infatti tutte le possibilità offerte dai gradi delle scale minori per ciò che concerne le trìadi (fig. 111):

Figura 111

Il primo grado , dal momento che non contiene né il sesto né il settimo grado della scala , è il più semplice da studiare. Per quanto riguarda gli altri gradi , ci si soffermi inizialmente su quelli forti e li si pratichi secondo l’esercizio proposto nella figura 85-5. Questo lavoro sembra inizialmente insormontabile e spaventoso: in realtà bisogna considerare che molte trìadi , in virtù dell’ambiguità della tastiera di cui si è trattato in un paragrafo precedente (par. 8 - Cap. II), sono trìadi enarmoniche di altre, ossia corrispondono, nell’accordatura del pianoforte (quella del temperamento equabile [168] ), agli stessi suoni scritti in maniera diversa. Esse, in determinati casi, corrispondono a posture delle dita identiche: a esempio, la trìade di tonica in sol bemolle maggiore scritta come sol ♭ -si ♭ -re ♭ prevede una identica

postura della mano e delle dita rispetto a una trìade di sopratonica in do diesis minore, con il la diesis caratteristico della scala minore melodica ascendente e scritta come re ♯ - fa ♯ - la ♯ . Molte trìadi costruite sulle varie tonalità si ritrovano poi identiche, anche se la loro funzione armonica è differente, in altre tonalità : si trasporti [169] l’esempio fatto in precedenza della trìade di sol bemolle maggiore nella tonalità enarmonica di fa diesis maggiore e si capirà che in questa tonalità l’ accordo costruito sul secondo grado di do diesis minore con il la diesis alterato è lo stesso, da un punto di vista della postura delle dita e della mano, rispetto al primo. 7.2 Lo studio degli accordi: Czernyana, Volume I Leggendo le premesse precedenti si potrebbe pensare che, per studiare la postura assunta dalla mano sui vari accordi, sia possibile partire anche da qualcosa di poco musicale, ossia dallo studio di una tabella di accordi . In realtà, la maggior parte dei Maestri non fa iniziare da una fredda tabella di accordi , ma consiglia lo studio dei dieci fascicoli di Alessandro Longo, chiamati Czernyana [170] . Il motivo è che, a parere dell’autore, risulta assolutamente alienante iniziare con uno studio decontestualizzato delle cellule grammaticali della musica. Lo studio di tutti gli accordi può essere integrato allo studio di questi testi, facendo due progressi in una volta: quello sulla musicalità e quello sulla capacità di lettura ed esecuzione, questioni che dovrebbero sempre procedere di pari passo. Per ciò che concerne il primo volume della raccolta presa in esame, leggendo gli accordi che sono scritti per lo più a parti strette , e tralasciandone i raddoppi , si deve tenere sempre presente che, nella scrittura di un primo rivolto di trìade adottata in questo volume, la nota in alto rispetto alla sesta è quella che dà il nome all’ accordo . Per rendere proficua questa prima fase di studio, tra le altre cose, in un secondo rivolto bisogna guardare la nota che sta più in alto nella quarta , ossia quella al centro nella trìade quando questa, come capita spesso in questo volume, è scritta in forma completa, senza note omesse . Se si terrà a mente questo, si sapranno facilmente

riconoscere le altre note che compongono l’ accordo in virtù degli esercizi di lettura, e associare rapidamente una certa posizione della mano all’aspetto della trìade . In alcuni casi sarà più difficile riconoscere la fondamentale dell’ accordo , ma questo lavoro di analisi andrà sempre allenato, fin dal principio. In seguito, si potrà appuntare una sorta di propria tabella empirica, in cui si ordineranno le idee per ciò che concerne i vari rivolti e posizioni che si incontreranno nei brani: questo svilupperà anche la capacità analitica. Non bisogna assolutamente sottostimare l’importanza e la portata di uno studio condotto in questo modo: la lettura deve passare prima o poi su un piano pratico, e da un punto di vista pratico conta molto l’abilità delle dita, la capacità della mano di prendere istantaneamente la forma dell’ accordo . Nella pratica, non si suona un accordo nominandone le note una per una: quell’ accordo deve essere già “nel vocabolario” di chi suona come una precisa postura della mano. Solo in questo modo si potrà progredire nella lettura pratica, atta a suonare, non soltanto ad analizzare, e quindi anche nella lettura a prima vista . Non solo: i benefici delle acquisizioni pratiche si rifletteranno nelle acquisizioni teoriche, rendendo l’immaginazione più vivida, e viceversa per quanto concerne le acquisizioni teoriche. I due aspetti si integreranno con il tempo, ma solo in alcuni punti. Molti aspetti di queste due facce della stessa medaglia devono restare ben distinti. Per esempio: per suonare, non è sufficiente sapere che “una trìade di tonica in do maggiore e in posizione di ottava abbia come note do - mi - sol col raddoppio del do al soprano ”: bisogna anche banalmente saper usare le proprie mani e suonarla, per averla nel bagaglio pratico; altrimenti, rimarrà sempre e solo in quello teorico. Nel primo volume della raccolta Czernyana [171] succitata, ogni tanto vengono impiegati degli accordi di settima di dominante : li si riconosca pensando, al momento, che si presentano come una trìade di dominante con l’aggiunta di un intervallo di settima maggiore a partire dalla fondamentale , ossia di una ulteriore terza, che risolve nella maggior parte dei casi in modo alquanto obbligato, scendendo di grado e conferendo in questo modo un aspetto ancora

più tensivo verso la tonica rispetto alla trìade costruita sulla dominante senza la settima . L’ accordo di settima s’incontrerà più spesso sul V delle scale maggiori e minori (che risolverà marcatamente sul I in entrambi i modi ) e sul II grado delle scale maggiori o IV delle minori : quest’ultimo tipo risolve generalmente sul V o sul VII grado per quanto riguarda la scala maggiore e sul V grado per quanto riguarda quella minore . L’approfondimento degli accordi di settima come tipi accordali avrà luogo in fasi più avanzate dello studio, dal momento che non esistono soltanto queste due applicazioni di tale tipo di accordo [172] . 7.3 Introduzione pratica allo studio degli intervalli melodici Le premesse teoriche dei primi paragrafi di questo capitolo e i primi cenni di natura pratica sono fondamentali per lo studio della tecnica e della letteratura pianistica: rappresentano una premessa indispensabile per i paragrafi che seguiranno, nei quali si tratterà dello studio di queste forme da un punto di vista tecnico. Si ricordi che la tecnica è definita come l’applicazione di rigorosi procedimenti, ma che la Musica non rappresenta solo una fredda applicazione di formule matematiche. La Musica è tale quando non è soltanto matematica : questo principio vale soprattutto per gli studi sulla tecnica che seguiranno, coi quali si può perfezionare forme già consolidate, ricercandovi il proprio gusto. Per studiare un arpeggio è necessario esplicitarne l’ armonia . Con armonia non s’intende qui solo la componente verticale dell’intero brano , ma anche e soprattutto quella di un determinato segmento del brano stesso. Nel caso di un arpeggio, s’intende l’ accordo preso in esame per lo studio dell’ arpeggio . Lo si precisa al fine di non confondere il termine armonia con il termine Armonia , che si riferisce tradizionalmente alla concezione e alla disciplina fondamentale della teoria della Composizione [173] . L’ arpeggio non è tuttavia sempre scritto in forma esplicita . Per esempio: una trìade di tonica in do maggiore arpeggiata non è

sempre scritta do - mi - sol . Potrebbe essere scritta in quest’altro modo: do -( re )- mi -( fa )- sol ; alcune di queste note sono tra parentesi perché non fanno effettivamente parte dell’ accordo che si sta arpeggiando . Quelle note sono definite estranee all’armonia , in quanto non fanno parte dell’ accordo stesso. La ragione per cui queste note sono impiegate verrà chiarita in seguito. Walter Piston, nel suo manuale Armonia , precisa che, in senso letterale, non esistono note estranee all’ armonia, in quanto questa viene creata da tutte le note che sono emesse simultaneamente. Tuttavia, non tutte le note sono essenziali per la definizione di un elemento dell’ Armonia , vale a dire che esistono “impalcature” di accordi, essenzialmente armonici, sopra alle quali “si poggia” qualcosa di più strettamente melodico, che non può stare a fondamento di una teoria dell’ Armonia . “L’intelaiatura” di fondo può essere data, a esempio, da una trìade senza note estranee all’armonia, poiché questa sarebbe un elemento armonicamente valido in sé; il contrario non è possibile. In altre parole, durante il periodo tonale i compositori erano così legati mentalmente all’accordo da scrivere soltanto melodie strettamente collegate all’ armonia , ma questo non significa che ogni nota melodica faccia parte di un accordo . 7.4 Introduzione pratica allo studio dei rivolti di arpeggio Lo studio dei rivolti di arpeggio rappresenta la chiave per uscire definitivamente dai particolarismi di una lettura “nota-per-nota”. Nello studio di questo tipo di arpeggio si dovranno suonare singolarmente e in successione tutte le note che compongono un arpeggio nei suoi rivolti , ma leggendo queste ultime in modo verticale (par. 1 – Cap. II), cioè come un unico accordo : in questo modo ne sarà chiarita inequivocabilmente la struttura (par. 5 – Cap. II). I rivolti di arpeggio si trovano in molti manuali di tecnica pianistica, per esempio nelle ultime pagine de Il pianista virtuoso di Charles-Louis Hanon [174] . Dato che il problema più grande di questo studio sta nella

diteggiatura che viene impiegata per ogni singolo rivolto di arpeggio , se ne espone a seguire uno schema pratico, valido in tutte le tonalità Nell’arpeggio in stato di rivolto, la diteggiatura 1, 2 e 5 può essere sempre applicata a tre delle quattro note della trìade raddoppiata . A variare è la scelta per la nota rimanente, in cui si sceglierà, rispettivamente, la diteggiatura 3 o 4 nel caso in cui la nota in questione si trovi a un intervallo di quarta o di terza con la nota che la segue o che la precede, a seconda che si consideri la mano destra o quella sinistra. Con una nota corrispondente a un tasto nero, la mano destra avrà diteggiatura 1 sulla nota che segue quella corrispondente al tasto nero (per esempio, in primo rivolto la mano destra inizierà l’ arpeggio con il dito 2 sulla nota corrispondente al tasto nero, e con il dito 1 sulla nota seguente); la mano sinistra avrà la stessa diteggiatura per la nota che precede il tasto nero. Con due note corrispondenti ad altrettanti tasti neri, la diteggiatura è comunque obbligata a queste regole dalla funzione del pollice. CAPITOLO VIII 8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza Articolazione , appoggio e uguaglianza sono i tre più importanti elementi che concorrono alla corretta tecnica di studio. Con articolazione , da non confondere con quella riguardante l’anatomia (l’articolazione ossea), si definisce l’azione necessaria dei muscoli per disporre l’articolazione ossea a farsi carico del peso che occorre al fine di compiere determinati movimenti (l’abbassamento di un tasto in qualsiasi dinamica, il sollevamento delle dita dalla tastiera o la loro distensione per suonare un accordo , ecc.): questo al fine di evitare il sovraccarico della muscolatura. Con appoggio ci si riferirà all’efficacia con la quale il peso viene scaricato in senso verticale sulla tastiera, coadiuvando il più possibile l’azione sufficiente dei muscoli al fine di abbassare il tasto fino in fondo, ricordando che spesso non è una buona idea indugiare troppo tempo con il peso sul fondo estremo del tasto (si veda in merito par. 7 - Cap. V). Con

uguaglianza s’intende la capacità di distribuire il peso in senso orizzontale sulla tastiera passando attraverso ogni dito, in modo da ottenere un suono il più possibile controllato, ciò che corrisponde alla emissione costante di fiato in alcuni strumenti: questa qualità è fondamentale per ottenere una legatura in qualsiasi dinamica . Negli strumenti a fiato o nella stessa voce umana , per legare bisogna emettere in modo continuativo del fiato, che fa da base e da appoggio per la vibrazione delle corde vocali, per l’innalzamento o l’abbassamento della glottide, per il ritrarsi o il protrarsi della lingua, eccetera. In questo senso, per legare al pianoforte è utile immaginare un flauto o una voce umana (si veda par. 2 - Cap. IV). 8.2 Introduzione pratica all’articolazione Lo studio dell’ articolazione è da praticarsi in un primo momento a scatto : con questo termine s’intende lo sfruttamento dell’azione del muscolo antagonista e che si possa rilasciare a grande velocità, appunto a scatto , rilassando il muscolo agonista. Ciò permette di creare un’energia “potenziale” maggiore di quella che avrebbe un muscolo agonista a riposo. Questo deve essere effettuato sempre tenendo il dito in posizione arcuata (a uncino) mentre si immagina, a partire dall’articolazione ossea della nocca, il movimento necessario a al rilascio del tasto da parte del dito, così velocemente da rendere appena visibile il suo spostamento verso l’alto. Si tratta di un esercizio di coordinazione, quindi assolutamente non culturistico , nonostante per far agire contemporaneamente muscolo agonista e antagonista sia necessario un momentaneo lieve irrigidimento del dito. Tale coordinazione deve essere perfezionata studiando i due momenti dell’ articolazione fondamentale : 1) Dopo aver abbassato un tasto attraverso il corretto appoggio del peso… (fig. 112)

Figura 112

… l’ articolazione porterà le falangi a formare il seguente angolo con l’articolazione ossea della nocca (fig. 112):

Figura 113

Per formare questo preciso angolo, si agisca nel modo seguente: mentre il dito si solleva a partire dall’articolazione ossea della nocca, la prima falange si avvicinerà alla mano (le altre falangi devono rimanere rilassate), senza sforzarne l’ articolazione . Lo scopo di questo movimento è quello di sfruttare una leva corta, per quanto possibile. Se il dito venisse sollevato in modo disteso, o non del tutto incurvato, la leva lunga farebbe gravare un peso eccessivo sui

piccoli muscoli deputati al sollevamento, che in questo modo non agirebbero a scatto . Per questo motivo non è corretto studiare o praticare lo scatto con le dita distese, che risultano lente e inadatte a passaggi che richiedono una rapidità fulminea: non si ricorderà mai abbastanza che i muscoli necessari a suonare il pianoforte vanno coordinati e non allenati in modo culturistico . 2) Contemporaneamente ai movimenti precedenti, l’ultima falange del dito, quella più lontana dalla mano, si avvicinerà leggermente a questa nell’ultimo momento della salita. Dal momento che il dito, dopo una certa altezza, sporgerà inevitabilmente un poco in fuori, in virtù della sua anatomia, si dovrebbe evitare che lo faccia, il più possibile, come mostra l’immagine (fig. 114):

Figura 114

La punta delle dita deve essere sempre il più possibile rivolta verso la superficie dei tasti , pronta ad abbassarli. Lo stesso vale per l’ articolazione del pollice, che è tuttavia dotata di due sole falangi: il dito si solleverà prima dalla tastiera , poi si piegherà leggermente in dentro, a partire dalla seconda falange, se dovrà effettuare un passaggio del pollice, aiutato in tutto dal movimento orizzontale del polso che lancia l’intera mano. L’utilizzo della muscolatura si potrà avvertire soprattutto a partire dai gomiti, che dovranno essere

quanto più possibile pendenti . Da tutto ciò è evidente che la forza del muscolo ha un ruolo marginale nella determinazione della velocità con la quale si solleva il dito dal tasto : bisogna piuttosto insistere sulla perfetta coordinazione di questi momenti [175] . L’esercizio dei due momenti dell’ articolazione fondamentale è da praticarsi come segue: -

Prima, sollevando contemporaneamente tutte le dita a scatto e alla maggior velocità possibile, con un’azione muscolare di tipo esplosivo;

-

Poi sollevando solo alcune dita fino a ottenere l’effetto desiderato sul sollevamento di un singolo dito.

Anche lo staccato dipende dalla velocità con la quale si sollevano le dita dalla tastiera . Si è definito articolazione fondamentale il complesso di movimenti che bisogna impiegare per il sollevamento delle dita dalla tastiera . Il momento finale di questi tre movimenti, in cui il dito è in posizione pronto ad abbassare il tasto , è quello a cui si deve prestare maggiore attenzione per l’esecuzione di uno staccato . Non è tuttavia l’unico modo possibile di sollevare le dita dalla tastiera . Per esempio, osservando molte registrazioni di Vladimir Horowitz si può notare che questo leggendario pianista suona in queste con una mano quasi completamente distesa, il cui sollevamento delle dita sfrutta in questo modo una leva più lunga. Tuttavia, al fatto che come già detto le registrazioni dei “giganti” del pianoforte non possono rappresentare un riferimento assoluto per il proprio studio tecnico (par. 4 – Cap. I) si aggiunge che i casi in cui la musica richiede una espressività così particolare da dover suonare a dita distese sono rari nel repertorio tonale più elementare . Per questo motivo varrebbe la pena di studiarli solo dopo aver approfondito lo studio sull’ articolazione fondamentale , ben più frequente . Molte delle altre possibili articolazioni , che sono per il pianista come i vari tipi di pennello per un pittore, hanno come principio proprio l’ultimo momento dell’

articolazione fondamentale (fig. 114). Per esempio, l’ articolazione da impiegarsi per un veloce staccato di dita [176] prevede il ripiegamento interno del dito a partire dalla prima falange, quella più vicina alla mano, ciò che causa il ripiegamento interno delle altre due falangi. Il resto opera come nell’ articolazione fondamentale: l’ultima falange si ripiega leggermente in dentro per permettere al dito di risollevarsi direttamente in articolazione fondamentale , con le altre due falangi già in posizione. Naturalmente, in uno staccato a grande velocità, le dita devono piegarsi in dentro impiegando quest’ articolazione su una sola posizione fondamentale della mano, sollevandosi tutte insieme soltanto una volta terminata la successione di note staccate , impiegando per questo sollevamento il primo momento dell’ articolazione fondamentale . Può capitare, soprattutto nel repertorio concepito per fortepiano e clavicembalo, di dover suonare frequentemente staccato , talvolta per tutta la durata del brano. La tecnica atta a risparmiare aperture e chiusure delle dita e spostamenti della mano superflui (par. 1 - Cap. VII) preparerà correttamente anche allo studio dello staccato . Nel frammento mostrato nel prossimo esempio (fig. 115) è evidente che alcune delle note melodiche nella mano destra possano essere preparate posizionando la mano per una trìade in primo rivolto di fa maggiore . Ridotto lo spostamento della mano e ridotte altresì l’apertura e chiusura delle dita - che dovranno disporsi pronte a suonare l’ accordo - in posizione fondamentale della mano, si avrà restituito precisione allo staccato melodico , che sarà effettuato nella maggior parte dei casi coadiuvando l’ articolazione del polso: anche se non è l’unico tipo di staccato possibile, questo è certamente è il più frequente. Per dare una generalissima indicazione, si possono isolare determinate componenti muscolari in particolari esigenze: per esempio, si potrà eseguire uno staccato che preveda la sola articolazione delle dita in un passaggio estremamente veloce. I diversi approcci possono comunque essere coordinati tra loro per funzioni ed effetti ancora differenti. Bisognerà comunque in tutti i casi ridurre al minimo se non evitare la rigidità muscolare, e sfruttare i muscoli solo per coadiuvare il sostegno delle articolazioni ossee

(par. 7 - Cap. V). Arrivati a questo punto non resta che studiare ciò che sta tra un’ armonia e la successiva, esattamente come succedeva per le scale , curandosi di coordinare ogni spostamento, concependolo in senso melodico . Nello studio legato , la sensibilità della “nota precedente” può dare precise informazioni tattili sulla posizione della “nota successiva” o viceversa. Nello staccato invece, il dito molto spesso deve “staccarsi dalla tastiera ”, e perdere questi riferimenti. Per questo è fondamentale avere, ove possibile, una concezione armonica di fondo per preparare la posizione che avranno le dita; ciò avverrà con minore approssimazione di quanto accadrebbe senza la conoscenza di basi armoniche . 8.3 Introduzione pratica all’appoggio Tutte le dita devono poter spingere il resto della mano e del braccio, anche solo leggermente o quando non è necessario, verso una direzione voluta. Quest’ultima può essere: -

Verso la parte alta della tastiera , dove ci sono i tasti neri; Verso il lato destro della tastiera , per esempio in una scala ascendente legata ; Verso il lato sinistro, per esempio in un arpeggio discendente; Verso l’esterno della tastiera , dove ci sono i tasti bianchi.

Naturalmente, in questo le dita devono sempre essere coadiuvate dal braccio, che non deve lasciarsi trascinare dalle medesime a peso morto, ma deve accompagnarsi a loro, acconsentendo per così dire al movimento. Quest’ultimo deve tuttavia sempre partire dalla punta delle dita stesse: per questo motivo, oltre al passaggio del pollice, è fondamentale praticare lo scambio del peso tra le dita, in modo da sviluppare la coordinazione muscolare in senso orizzontale, e non solo verticale. Ciò non solo aumenterà esponenzialmente la velocità di esecuzione, ma soprattutto conferirà precisione al tocco . Perché questo avvenga, il tasto deve essere abbassato fino in fondo ,

anche se la dinamica è piano, e indipendentemente dalla velocità di esecuzione, in modo che il dito possa farvi presa, senza scivolare. Questo avviene scaricando opportunamente il peso, o il movimento diventerà confusionario e finirà col togliere precisione, piuttosto che conferirne. Se infatti il peso è scaricato per metà, o per un quarto, rispetto al necessario, il dito, dovendo chiamare a sé l’avambraccio (senza trascinarlo a peso morto), tenderà a scivolare o a fare questa operazione rimanendo sospeso a mezz’aria o a mezzo tasto abbassato; ciò sarà causa di un irrigidimento generale atto a sostenere l’inutile movimento prodotto: questa è la causa più frequente di un cattivo appoggio . Ecco un esempio metaforico che mostra l’importanza di questa concezione: quando si cammina, nonostante sia la gamba a portare avanti il piede, è sempre il piede il mezzo attraverso il quale si verifica bene l’appoggio al suolo per compiere il passo successivo, non certamente la gamba. Lo stesso avviene sulla tastiera : se il braccio o la mano si muovono prima che la punta del dito abbia “tastato il terreno” e convalidato che si possa proseguire, si rischierà sempre di fare un passo falso. Quanto detto finora deve essere letto alla luce delle considerazioni fatte in precedenza, nel par. 7 - Cap. V: in quel paragrafo, si è spiegato che indugiare con tutto il peso a fondo tasto è sempre una scelta sbagliata. L’ appoggio , quindi, si attua correttamente rispondendo alla sensazione del termine della corsa del dito sul fondo del tasto . Una volta attuata questa risposta, che consiste nel sentire attivamente quale sia il punto in cui la corsa del tasto termina verso il basso e la quantità di velocità con la quale lo si è raggiunto, diventa possibile comprendere il fondamentale ruolo di quest’ultima nel determinare la dinamica del suono. La dinamica sonora potrebbe valere anche zero: in questo caso il tasto è stato abbassato molto lentamente. Da ciò si evince l’importanza cruciale dell’ appoggio nell’evitare gli errori dovuti alle cosiddette, in gergo, note fantasma . Un pianista che, tentando un pianissimo estremo non ottiene nessun volume dal proprio strumento sbaglia soltanto a quantificare la velocità con la quale far giungere il tasto al suo fondo. 8.4 Introduzione pratica all’uguaglianza

Tutti i passaggi che prevedono velocità di esecuzione, in una successione di singole note legate , prevedono anche e sempre l’alternarsi di uno o più gruppi da due tasti all’interno di una o più posizioni fondamentali della mano , dei quali uno viene rilasciato mentre l’altro viene abbassato. Naturalmente, nei casi in cui si alternino due posizioni fondamentale della mano , si dovrà studiare il passaggio tra quelle posizioni (per il corretto studio di questo passaggio si consulti par. 5 - Cap. V). Questa considerazione fa capire che la velocità di esecuzione non dipende dal movimento di caduta del dito, né in senso muscolare, né in senso di forza peso: dipende al contrario dal movimento di sollevamento di questo ultimo . Ciò è facilmente dimostrabile: la massima velocità che si può raggiungere tra due tasti che vengono abbassati in legato è ovviamente il momento in cui questi vengono abbassati contemporaneamente ; in questo modo la distanza temporale tra l’evento fisico A (in cui viene abbassato il primo tasto ) e l’evento B (in cui viene abbassato il secondo) è minima, persino azzerata in casi di rara precisione fisica e matematica. Siccome a questo punto degli studi chiunque saprebbe abbassare due tasti contemporaneamente e con due dita differenti, la velocità massima è già raggiunta: la difficoltà di “aumentare la velocità” sta quindi nella maggior parte dei casi nel ridurre l’intervallo tra i due eventi . In altre parole: a partire dalla conoscenza dell’evento C corrispondente al momento in cui i due tasti sono stati appena abbassati del tutto e contemporaneamente, ossia il momento di maggior velocità raggiungibile, occorre ridurre il più possibile la distanza acustica tra l’evento A e l’evento B , in modo da rendere questi ultimi due acusticamente distinguibili dall’evento C . Gli eventi A e B i possono essere distanziati in due modi: 1)

Se vengono distanziati di poco, l’esecuzione che se ne avrà risulterà quasi essere un mordente ;

2)

Se vengono distanziati molto, la loro esecuzione risulterà “avere un maggior respiro” .

Questo processo sarà agevolato, in un primo momento, dalla rotazione dell’avambraccio; secondariamente, dal leggero abbassarsi e sollevarsi del polso; in seguito dalla quasi impercettibile rotazione dell’articolazione ossea della spalla, e così via. Tutto deve concorrere, seppur in piccoli movimenti, alla distinzione dei due eventi A e B . A questo punto non resta che studiare la connessione tra le varie note , raggruppandole sempre (per due, poi per tre, ecc.) fino a raggiungere un gesto che le comprenda tutte. Dato che, al fine di distanziare gli eventi A e B impiegando la sola rotazione dell’avambraccio, le dita acquistano una certa, seppur minima, rigidità, è evidente che queste abbiano un ruolo attivo nell’ articolazione . Il loro sollevarsi è ciò che realizza il lavoro di articolazione vera e propria, sfruttando questo meccanismo di rotazione dell’avambraccio per distribuire il peso sulle singole note, rilasciandone altre per realizzare una legatura . Una volta iniziato a suonare un passaggio legato, le dita non devono assolutamente sollevarsi dai tasti più di pochi millimetri, quelli necessari ad ottenere alcuni effetti (per esempio, nel caso di un forte ). In un pianissimo ai limiti della delicatezza, con molta probabilità le dita non perderanno contatto con il tasto , sollevandosi solo il necessario. Ciò detto, risulta evidente che non è necessario dedicare troppo tempo allo studio di questa tecnica, eseguendo, a esempio, le scale in modo legato centinaia di volte a gran velocità: integrate queste nuove conoscenze, ci si può pienamente concentrare sui collegamenti tra le varie posizioni fondamentali della mano (par. 8 - Cap. VI) richieste dalle scale stesse. 8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte La tecnica pianistica è un insieme di cui le tre componenti di articolazione , appoggio e uguaglianza rappresentano gli elementi più importanti: se non si è letto questo manuale nella sua interezza, non si può comprendere quante premesse, pratiche e

teoriche, siano necessarie prima di affermare questa precisa distinzione , e quanto la tecnica pianistica sia qualcosa di assolutamente non meccanico . Al contrario, questa prevede una esatta concezione teorica, una diretta connessione con il proprio strumento, un ragionamento che non può partire dalla sola pratica, esattamente come la sola concezione teorica non può definire la tecnica pianistica. Nulla di quanto si è detto finora è trascurabile nella lettura di questo paragrafo. I tre componenti della tecnica pianistica devono essere sempre ben distinti nel loro ruolo, perché, nel momento in cui si suona, questi si ritrovano persino nei più piccoli gesti. Per imparare a distinguerli, bisogna iniziare a lavorare con due fondamentali strumenti di studio: 1) Le variazioni ritmiche; 2) Le variazioni sui segni di articolazione. Ognuno di questi due ambiti tecnici andrà trattato musicalmente, e non meccanicamente: per esempio, dando un senso unitario a ogni frase , oppure dinamicamente crescendo o diminuendo nei punti in cui la musicalità lo richiede. Le più comuni variazioni sul ritmo sono le seguenti (fig. 116):

Figura 116

In queste variazioni, l’ articolazione è stata lasciata alla libera interpretazione. Effettivamente può capitare in diverse partiture, specialmente nel repertorio barocco , che la lettura non sia chiara per via della mancanza di segni di articolazione . Con questo termine s’intendono dei precisi segni semiografici, da non confondersi con l’ articolazione pratica, scritta in corsivo e trattata precedentemente (par. 1 e 2 - Cap. VIII). Dato che, all’atto pratico, tutto ciò che si suona al pianoforte prevede un’ articolazione , è sempre bene inserire con criterio le indicazioni a essa relative, in matita leggera all’interno della partitura, soprattutto laddove non fossero esplicitamente indicate. La precisazione per quanto riguarda l’uso della matita è fondamentale, perché la scelta dell’ articolazione , così come quella della diteggiatura - se non indicata dal compositore - è molto spesso una questione di gusto e d’interpretazione. Questa potrebbe perciò dover essere ritoccata e modificata nel tempo, a seconda della propria prospettiva interpretativa. I segni di articolazione più usati nella tecnica pianistica sono i seguenti: Accento Di questo segno di articolazione si è già parlato indirettamente (par. 6 - Cap. I) . L’ accento (fig. 117) serve a far capire che la nota sulla quale è posto dev’essere evidenziata. Questo non significa necessariamente che quel suono debba essere suonato più forte degli altri; per esempio, si può mettere in evidenza un suono anche facendo una impercettibile pausa prima del suono stesso. Questo secondo tipo di resa è tuttavia riservato a una mano esperta, in quanto molto spesso necessita, oltre che di una variazione sull’ articolazione, anche di un intervento sulla durata dei segni ritmici e sull’ andamento , ossia sull’ agogica musicale.

Figura 117

Tenuto Il tenuto (fig. 117-1) è molto simile a un accento , ma differisce da quest’ultimo perché la nota sulla quale è posto riceve un’enfasi che può prolungarsi modificando l’effettivo ruolo ritmico della nota (questo procedimento, in agogica , si chiama rubato ).

Figura 117-1

Legatura Anche se si è già parlato della legatura in un paragrafo precedente (par. 2 - Cap. IV) , bisogna all’atto pratico distinguere tra due tipi ben diversi di legatura : ●

Figura 118

Legatura di espressione (fig. 118), già trattata, che prevede un’esecuzione che faccia percepire il meno possibile il distacco tra due o più note , in base all’indicazione data dal suo segno [177] .



Legatura di valore (fig. 119), che come segno serve a sommare la durata di due segni ritmici posti sulla stessa altezza .

Figura 119

Staccato Lo staccato (fig. 120) serve a distinguere nettamente una o più note dalle altre; a differenza dell’ accento però, non ha nulla a che vedere con la dinamica . Suonare una nota in modo più forte delle altre non la rende staccata . Suonare una nota staccata può aiutare a prepararne una accentata , in quanto lo staccato prevede una pausa ritmica che accorci drasticamente la durata della nota , pur non modificandone il ruolo ritmico . A esempio, l’esecuzione di un passaggio simile potrebbe essere quella a seguire:

Figura 120

Figura 121

Non-legato Esiste una forma più tenue dello staccato , chiamata non-legato (fig. 122) , o portato. In questa forma l’esecuzione vista per lo staccato sarebbe più simile alla seguente:

Figura 122

Disponendo questi segni di articolazione in modo da formare delle variazioni, esattamente com’è successo per quanto riguarda le variazioni ritmiche , si potrebbero ottenere dei risultati simili (fig. 123):

Figura 123

Entrambi i tipi di variazione mostrati finora sono da studiarsi prestando attenzione in particolar modo al fatto che le note abbiano tra loro un’intensità dinamica coerente. Le indicazioni ritmiche di terzina, sestina, eccetera non devono spaventare: in questo contesto hanno il solo scopo di consentire a uno studente di applicare con rapidità determinate variazioni ritmiche a determinati gruppi di coerenza che si ritroveranno in composizioni scritte impiegando cellule ritmiche simili. Terzine e sestine appartengono ai gruppi ritmici irregolari , un argomento avanzato del Solfeggio che va trattato con un Maestro [178] . Le variazioni ritmiche vere e proprie hanno un senso astratto che prescinde dalle figurazioni ritmiche di partenza. Le possibilità di variazione ritmica sono molte, ma nello stilarne uno schema riassuntivo che possa avere utilità strettamente pianistica bisogna comprendere la funzione e l’utilità di ciascuna di queste singole variazioni . Se così non si facesse, si sarebbe obbligati ogni volta ad applicarle tutte al proprio studio, da capo a fondo. Individuando invece il problema di un determinato passaggio al quale si sente l’esigenza di applicare una determinata variazione , e conoscendo l’utilità pratica della gamma di variazioni ritmiche che si hanno a disposizione, è possibile lavorare più rapidamente

applicando solo le variazioni necessarie a un determinato caso. Metaforicamente, il vantaggio è lo stesso che ne ricava chi, avendo una corda del pianoforte rotta, si prodigasse nel sostituire solo quella, piuttosto che nel ricostruire l’intero strumento. A esempio, si potrebbe trovare sulla partitura una figurazione ritmica simile a una di queste due (fig. 124):

Figura 124

Queste figure sono state scritte sul “rigo” degli strumenti a percussione. Molti di questi strumenti, avendo un’intonazione invariabile - ossia potendo riprodurre una sola nota in virtù della loro propria struttura - prevedono questo tipo di scrittura. Sarebbe inutile impiegare un pentagramma, proprio perché si indicherebbe sempre la stessa nota , sottintesa all’uso dello strumento. In questo “rigo” sono comunque concesse piccole variazioni sull’altezza, di cui però ora non ci si occupa. Basti sapere che le figure qui in alto, nel contesto di questo esempio, non rappresentano una particolare nota ma soltanto una precisa indicazione ritmica. Si potrebbe pensare di modificare questa cellula ritmica, che si trova spesso come componente di molte melodie , per insistere di volta in volta su aspetti diversi del proprio studio. Ecco un primo esempio di variazione ritmica (fig. 125):

Figura 125

Di per sé, questa variazione ritmica ha il solo scopo di indicare una distinzione per l’alternarsi di un singolo dito a quello che dovrà suonare immediatamente dopo . Questo perché alla variazione ritmica non è stata accompagnata l’indicazione sull’ articolazione . Ciò non è un errore, la scelta è stata semplicemente affidata all’esecutore. Occorre ora comprendere che esistono molti altri segni di articolazione oltre quelli mostrati, e che la conoscenza di quelli trattati sarà sufficiente ai fini del presente capitolo. Come si è detto, una legatura di espressione differisce fortemente come segno da una legatura di valore, dal momento che riguarda note disposte su altezze diverse. Si torni allora al pentagramma e si provi a sperimentare con questo segno di articolazione , cercando di capire di volta in volta quale funzione di studio possa avere all’interno della variazione ritmica presa prima in esame. Per usare una metafora concreta, i segni di articolazione rappresentano per uno studente di musica ciò che rappresenta il martello per un fabbro, la chiave inglese per un idraulico: sono gli strumenti attraverso i quali studiare e affinare, da un punto di vista tecnico, tutto ciò che si è trattato nel corso del presente manuale. Eccone una prova pratica: si aggiunga una legatura di espressione tra una cellula e l’altra della variazione presa prima in esempio. Dato che questa prevede altezze diverse, si immagini per un momento che la melodia originale sulla quale si è impiegata la variazione ritmica sia la seguente (fig. 126):

Figura 126

Vi si applichi ora la seguente variazione (fig. 127) :

Figura 127

Si otterrà questo (fig. 128):

Figura 128

Si aggiunga ora la legatura di espressione (fig. 129):

Figura 129

In questo modo, la variazione ritmica acquista una precisa efficacia nel lavoro sull’ uguaglianza, perché può essere usata per scomporre singolarmente i movimenti di distribuzione del peso tra tutte le dita. Infatti, la configurazione ritmica aiuta a “respirare” con il polso, oltre che ad articolare bene le dita a coppie di due , ossia prendendo in considerazione il passaggio di ogni dito verso il successivo. La

legatura di espressione coinvolge invece un dito e quello successivo , due dita per volta: la distribuzione del peso, data la posizione nella misura , viene convogliata verso la croma che ha il punto di valore ; una volta raggiunta, questa rappresenterà il momento di riposo della mano. In altre parole, la funzione della variazione sul segno di articolazione è quella di mettere in pratica l’indicazione della variazione ritmica . Si potrebbe infatti tornare ritmicamente al frammento originale, suonandolo, per esempio, solo in modo accentato (fig. 130):

Figura 130

Musicalmente, l’ accento presuppone una concentrazione sul suono che deve avvertirsi in modo pulito e distinto. Questo uso dell’ accento , dato che presuppone un gran controllo dell’ articolazione delle dita, serve anche a impostare la coordinazione muscolare per l’ appoggio , ossia per sostenere in posizione le articolazioni ossee delle dita, del polso, del gomito, eccetera. Questo può essere utile, laddove un dito abbassi scorrettamente un tasto : per esempio, nel caso in cui la terza falange del quarto dito si pieghi in fuori in un fortissimo o in un rapido abbellimento , o qualora il polso fosse rigido. È fondamentale per l’ articolazione delle dita. Sulle note della melodia riportata in precedenza (fig. 130) si possono esercitare i cinque aggiustamenti sulla postura proposti dall’allievo del leggendario pianista Béla Bartók, György Sándor, nel suo manuale dal titolo Come si suona il pianoforte [179] .

Lo studio accentato va sempre effettuato con il peso (par. 7 - Cap. V), mai attraverso l’esclusivo sforzo muscolare, avvicinandosi quanto più possibile alla musicalità del tratto di brano originale sul quale lo si sta applicando. Una melodia della quale tutte le note sono state accentate può essere eseguita in modo legato o sciolto , dal momento che accento , staccato e legatura sono tre tipi di articolazione ben differenti tra loro. Il primo caso è semplice da spiegare: suonare tutto accentato e legato significa dover rendere ogni suono ben distinto, ossia indugiare sul tasto perché il suono decada introducendo l’accento successivo, e preparare nel frattempo l’articolazione del polso a uno scarico del peso dall’alto verso il basso. Nella tecnica della sintesi vocale , quella impiegata per esempio durante la lettura delle partenze e degli arrivi nelle stazioni dei treni, l’ accento nel tentativo d’imitare la voce umana è determinato da una breve, quasi impercettibile pausa che si effettua prima della sillaba accentata, e non tanto da un mutamento di velocità o d’intensità: questa prerogativa è fondamentale per ottenere un accento che sia musicale e non meccanico. Nel caso dello staccato e accentato invece, il polso si troverà a dover operare come una molla muscolare, per imprimere il peso sulla tastiera: dapprima ancora dall’alto verso il basso; in seguito, per trasformarlo in resistenza e spinta contraria, dal basso verso l’alto, in modo da far abbassare il più efficacemente possibile lo smorzatore della corda lasciando il tasto : tuttavia il polso non dovrà mai essere il solo a partecipare al movimento. Si può dire quindi che la differenza tra un’ articolazione accentata e legata e una accentata e staccata è la seguente: nella prima è maggiormente interessata l’ articolazione dei muscoli estensori dell’avambraccio, oltre che ovviamente della spalla e dei pettorali; nella seconda, quella dei muscoli flessori e dei bicipiti, fin quando l’intero apparato viene sollevato simultaneamente per forza elastica. Lo scopo è sempre il minor dispendio di energia possibile, e non il rilassamento assoluto. I tasti hanno una loro elasticità, che un movimento rapido può sfruttare, ossia conferiscono alla mano un contraccolpo che deve essere impiegato per non dover sollevare la medesima sempre a

partire dai muscoli estensori. Il modo in cui questo tipo di articolazione funziona si può comprendere solo leggendo questo manuale per intero, ma è importante tenere a mente che nel repertorio pianistico questi due elementi dell’ articolazione coinvolgono nella maggior parte dei casi la flessibilità del polso, in senso perpendicolare rispetto al tasto . Nell’esempio a seguire non vengono introdotti segni ritmici , variazioni ritmiche o combinazioni di questi differenti rispetto alla precedente (fig. 131).

Figura 131

L’ accento tuttavia acquisisce un significato più strettamente ritmico: posto in questo modo, il segno concentra il lavoro dell’ accento sul battere di tutti i tempi ; assume quindi lo scopo, tra le altre cose, di evidenziare i fondamenti ritmici del brano, tanto dal punto di vista tecnico che da quello sonoro, e non meramente teorico, giacché non bisogna dimenticare che queste variazioni prevedono un’applicazione a casi musicali concreti.

Figura 132

Il respiro (fig. 132) tra due legature distinte è un tipo di variazione sui segni di articolazione riguardante il polso: per eseguirlo, quest’ultimo dovrà necessariamente sollevarsi, portando con sé la mano per lasciar respirare la musica, esattamente come fa un cantante o un flautista tra una frase e un’altra. Quanto agli altri elementi, una legatura così lunga, dal levare , e note così ritmicamente piccole concorrono a dilatare i tempi di scarico del peso in senso orizzontale: la muscolatura viene coinvolta per una maggiore durata perché non ha tempo di rilassarsi. Nell’altro caso, il periodo in cui il dito indugia sul tasto abbassato consente di rilassare completamente la muscolatura che si è coordinata per abbassarlo, prima di passare al tasto successivo. Allo stesso tempo, questo procedimento avvicina il significato della variazione il più possibile al frammento di partenza (quello al quale si è applicata tale variazione), costituito in questo caso da una battuta in due tempi suddivisi due volte (secondo livello di suddivisione ) e raggruppati rispettivamente in quattro semicrome ciascuno.

Figura 133

L’uso dell’ accento sul battere e del punto di staccato sul levare di ogni tempo servono a studiare l’ articolazione del polso in senso rotatorio. Si può dire che questo tipo di scrittura riguardi l’avambraccio, in cui avviene la sovrapposizione di ulna e radio: il polso in sé, infatti, non può ruotare su sé stesso senza l’ausilio dell’avambraccio. Accento e punto di staccato sono entrambi segni di articolazione che, alternandosi, prevedono uno scambio di peso: nel primo, questo viene impiegato per far scendere il tasto , quindi a partire

dall’alto; nel secondo, questo viene combinato a una leggera azione muscolare al fine di creare una molla che attraverso l’ articolazione del polso faccia sollevare le dita dal tasto , quindi a partire dal basso. In questo caso il peso del polso e in parte dell’avambraccio cade sulla prima nota per determinare l’ accento e si distribuisce gradualmente, venendo recuperato leggermente dalla muscolatura, verso il punto di staccato che prevede necessariamente un distacco della mano a partire dalla tastiera . Uno staccato eseguito solo con le dita sarebbe inefficace in questo caso, perché non preparerebbe la mano a servirsi nuovamente del peso per accentare la nota : lo staccato è proprio il punto di slancio, il respiro che prepara la caduta , e influenza in quanto tale l’ampiezza e la durata della caduta stessa [180] . La tendenza più sbagliata dopo aver suonato un accento è quella di precipitare sulla nota successiva: l’ accento dovrebbe essere in realtà suonato con un ampio respiro o, dove non sia possibile, mediante un abbassamento dinamico musicale, e non meccanico, prima e dopo la nota sulla quale è posto. Come si sarà capito, comunque, le possibilità di combinazione tra le due tipologie di variazione proposte sono numerosissime. Bisogna tuttavia sperimentare con queste variazioni per capire concretamente che ruolo abbia ciascuna di loro all’interno del nostro studio , aggiungendo o togliendo, a seconda del contesto. Per concludere, si cerchi ora di applicare quanto detto a un caso tecnico concreto. In una scala , i principali motivi per un accento fuori posto che genera disuguaglianza nel suono sono due: il primo è un passaggio del pollice eseguito troppo tardi (il pollice deve trovarsi sempre pronto sul tasto da abbassare prima che sia il momento di farlo); il secondo è lo spostamento in ritardo della mano sopra il pollice, dal momento che quest’ultimo fa da perno in entrambi i casi presi in esame. Questi accenti indesiderati si possono rimuovere lavorando sul dito in senso verticale , ossia su come il medesimo agisce verticalmente sul tasto per abbassarlo, oppure in senso orizzontale , ossia su come il dito - coadiuvato da polso, braccio eccetera - si

muova verso la parte acuta o grave della tastiera. In entrambi i casi, come si è visto precedentemente (par. 7 - Cap. V) la velocità alla quale il corpo si muove ha un ruolo decisivo per il suono che ne deriva. La muscolatura che muove il dito dovrà avere un ruolo attivo nel sollevarlo , e un ruolo il più possibile passivo nel coordinare l’articolazione ossea per permetterle il momentaneo (par. 7 - Cap. V) sostegno del peso. Da un punto di vista pratico, la riduzione dello studio musicale alla mera lettura e rilettura di ciò che è scritto risulta presto controproducente, perché equivale a limitare il proprio studio alla ripetizione meccanica, di cui il presente manuale si è occupato di mostrare i profondi limiti.

INDICE DEI CONCETTI

CAPITOLO I

1.2 La scala fondamentale, ossia l’alfabeto Scala fondamentale Nome di nota Nostra musica Nostri studi Periodo tonale 1.3 Prima associazione: scala fondamentale e pentagramma Pentagramma Chiave musicale Chiave di sol Chiave di violino Doppio pentagramma Nome specifico della chiave Nome generico della chiave Chiave di basso Chiave di fa

Chiave di do Taglio addizionale 1.4 Seconda associazione: scala fondamentale e tasti bianchi Tastiera 1.6. Introduzione pratica al ritmo musicale Segno ritmico Nota Figura ritmica Pausa ritmica Gambo Coda Silenzio Semibreve Minima Semiminima Croma Semicroma Biscroma Semibiscroma Misura Battuta Stanghetta Tempo Accento metrico Suddivisione Divisione Ritmo

CAPITOLO II

2.1 La chiave di volta: il nome generico di un intervallo Intervallo Nome generico di un intervallo Accordo Trìade Arpeggio

2.3 Gli intervalli sono i componenti degli accordi Quadrìade 2.4 Introduzione pratica a stati fondamentali, rivolti e posizioni Cambiamento di stato di un accordo Cambiamento di posizione di un accordo Nome della fondamentale dell’accordo Nota fondamentale dell’accordo Nome generico di un accordo Tipo vocale Parte Voce Basso Tenore Contralto Soprano Spartito 2.6 Introduzione alla composizione delle scale Scala Suono Intervallo melodico Nome generico di un accordo Tono Semitono Tonalità Funzione armonica Grado Tonica Sopratonica Mediante Sottodominante Dominante Sopradominante Sottotonica Sensibile Accidenti (o segni di alterazione) Diesis Doppio diesis Bemolle

Doppio bemolle Bequadro Modo Armatura di chiave Circolo delle quinte 2.7 Introduzione pratica alla melodia Melodia

CAPITOLO III

3.1 Introduzione pratica all’armonia Armonia Basso continuo

3.2 Trìadi con note comuni nel modo maggiore Basso dato Stile severo Stile libero Organico strumentale Orchestra Raddoppio

CAPITOLO IV

4.1 Introduzione pratica al timbro e al registro Timbro Registro 4.2 L’articolazione negli strumenti dell’orchestra

Legatura di espressione Fraseggio

CAPITOLO V

5.1 Postura fondamentale degli arti inferiori Postura 5.3 Introduzione pratica al tocco Tocco 5.5 Revisione degli studi sulle cinque dita e del loro scopo Ruolo attivo Ruolo passivo Cinque dita Posizione fondamentale della mano 5.6 Differenza tra pulsante e tasto: la prensilità Tasto Prensilità Pilota Spingitore Rullino Martello Paramartello Cucchiaio Smorzatore Corda Bottone dello scappamento Leva di ripetizione 5.7 Introduzione pratica alla meccanica del pianoforte Pedale 5.8 Introduzione pratica alla dinamica e all’agogica

Dinamica Piano Forte Moderatamente piano Moderatamente forte Pianissimo Fortissimo Sùbito Crescendo Diminuendo Forcella CAPITOLO VI

6.1 Il ruolo della ripetizione nello studio Indicazione di andamento Metronomo Contatore Ripetizione 6.2 Prima fase della ripetizione: il frammento Frammento Intero Inciso Semifrase Frase Periodo Composizione 6.4. Introduzione pratica allo studio delle scale Diteggiatura 6.8 Passaggio tra posizioni fondamentali della mano Passaggio del pollice 6.9 Concepire armonicamente le scale Cluster

CAPITOLO VIII

8.1 Definizione di articolazione, appoggio e uguaglianza Articolazione Appoggio Uguaglianza 8.2 Introduzione pratica all’articolazione Articolazione fondamentale 8.5 Introduzione pratica allo studio del pianoforte Legatura di valore Variazione ritmica Variazione di articolazione

BIBLIOGRAFIA

BEYER, Ferdinand. Vorschule im Klavierspiel . Op.101 . Mainz: Schott, 1850 (rivista da Giuseppe Piccoli in BEYER, Ferdinand. Scuola preparatoria allo studio del pianoforte. Milano: Edizione CURCI, 1975). CZERNY, Carl. Erster Wiener Lehrmeister im Pianoforte-Spiel . Parigi: Schlesinger, 1839 (a cura di Ettore Pozzoli in CZERNY, Carl. Il primo maestro di pianoforte , opus 599. Milano: RICORDI, 1949). DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano: Carisch, S.A., 1946.

DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer: L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis. The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900). HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered . Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920. HOROWITZ, Vladimir. Technic the Outgrowth of Musical Thought , Florence Leonard. Philadelphia: T. Presser Co. ©1922-1948, Marzo 1932, pp. 163-164, disponibile su: http://nettheim.com/horowitz/horowitz32.html (versione web revisionata il 22 maggio 2001). Lingua originale della conferenza: Tedesco. JONÁS, Alberto. Master school of modern piano playing & virtuosity . New York: C. Fischer, 1922-1929. LONGO, Achille. T rentadue lezioni pratiche sull'armonizzazione del canto dato . Milano: RICORDI, 1938. LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951. NYEGAUZ Genrich. Ob iskusstvo fortep'yannoy igry . Mosca: VAAP, 1982 (traduzione di Annelise Alleva in NEUHAUS, Heinrich. L’arte del pianoforte . Milano: RUSCONI, 1985). PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019) RUGGERI, Marco. Manuale di Armonia pratica. Milano: RICORDI, 2012.

SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York: Schirmer Books, 1981. SCHUMANN, Robert. Drei Klaviersonaten fur die Jugend , Opus 118. Amburgo: Schuberth & Co., 1853.

[1] [Dei suoni si tratterà in seguito (par. 6 - Cap. II), una volta introdotto il

concetto di tonalità .] [2] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019). [3] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [4] [ Per questo motivo, rispettando i fini propedeutici del presente manuale, nei prossimi capitoli si tratterà a più riprese della musica tonale .] [5] “Tradizionalmente considerata come la scienza che studia il suono, le sue proprietà, il suo meccanismo di formazione, propagazione e ricezione, estende oggi il suo campo di interesse a tutti i fenomeni vibratori della materia e a tutte le frequenze.” Acustica. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/acustica/. [6] [Nel presente manuale, il primo termine è riferito ai segni grafici , mentre il secondo all’effetto acustico prodotto sul suono da tali segni . Per questo i due termini saranno impiegati come sinonimi solo in precisi contesti.] [7] [ Le righe e gli spazi del pentagramma si contano dal basso verso l’alto.] [8] [9] [Per rispettare gli scopi del presente manuale, cioè quelli di introdurre il

lettore ai rudimenti più importanti della lettura pianistica senza rendere la trattazione confusa e dispersiva, non vengono trattate singolarmente tutte le

posizioni del pentagramma in cui potrebbe trovarsi il segno di chiave do : queste diverse posizioni concorrono, insieme a quelle già mostrate, a determinare il setticlavio , cioè l’insieme delle posizioni di chiave più diffuse nell’ambito della nostra musica . Le si enuncia per completezza in una nota a parte: tenore , contralto , mezzosoprano , soprano .] [10] [ Attenzione, non speculari.] [11] HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered . Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920. [12] [S’introdurrà in seguito a questo tipo di associazione (par. 6 - Cap. II).] [13] [Dato che le chiavi impiegate per la scrittura pianistica sono due e indicano due punti differenti della tastiera , può nascere l’errata concezione che la mano destra sia riservata alla chiave di violino mentre la mano sinistra a quella di basso . Molto presto si capirà quanto questa concezione sia errata.] [14] [In tal modo si potrà anche comprendere, qualora necessario, in quale ambito la propria capacità di lettura sia carente.] [15] [A questi due segni viene talvolta aggiunta erroneamente la corona , segno che indica un “ segno ritmico lungo a piacimento”. Tuttavia quest’ultima rappresenta una prescrizione agogica (par. 8 - Cap V), poiché non indica una precisa durata ritmica e la sua esecuzione può essere valutata solo dal contesto del brano in cui si trova.] [16] [ Fatta eccezione per i casi dei gruppi ritmici irregolari , di cui si può trattare con un Maestro e che saranno introdotti nel capitolo VII.] [17] [Le stanghette di battuta più frequenti sono singole , doppie , di fine , di ritornello . Quelle singole indicano, come già detto, l’inizio e la fine di una battuta . Quelle doppie possono indicare la fine di un discorso musicale compiuto (par. 2 - Cap. VI). Quelle di ritornello , accompagnate prima o dopo da due punti, indicano che una determinata sezione di brano deve ripetersi (se non sono presenti ulteriori specificazioni, si sottintende che quella sezione inclusa tra due stanghette di ripetizione deve essere ripetuta una volta). Al termine della ripetizione, salvo indicazioni, si deve proseguire suonando normalmente quello che è scritto oltre la stanghetta di ritornello .] [18] [ A esempio le misure miste , composte generalmente dall'unione di una misura semplice e una misura composta , o un tempo di misura semplice e un tempo di misura composta (si parla prevalentemente di misure quinarie e settenarie , per esempio 5/4 o 7/2). L’autore invita a non preoccuparsi, in un

primo momento, di questo tipo di misura , poiché non s’incontrerà durante gli studi elementari.] [19] [Della dinamica si tratterà nel par. 8 del Cap. V. Basti ora conoscere la definizione che segue: “Complesso dei rapporti d'intensità sonora che si produce all'interno del discorso musicale [...] ”. Dinamica musicale. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/dinamica-musicale/.] [20] [Nell’esempio ci si è riferiti a una misura semplice , ma si può fare lo stesso esperimento suddividendo per tre i movimenti della mano associati ai tempi .] [21] BEYER, Ferdinand. Vorschule im Klavierspiel . Op.101 . Mainz: Schott, 1850 (rivista da Giuseppe Piccoli in BEYER, Ferdinand. Scuola preparatoria allo studio del pianoforte. Milano: Edizione CURCI, 1975). [22] [Si tratterà nel par. 7 - Cap. 5 della differenza tra la tastiera di un pianoforte e quella di computer.] [23] [ Si ricordi in questo senso la considerazione sui tasti neri come unico riferimento tattile fatta nel par. 4 - Cap. I.] [24] [N.d. A .] [25] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [26] [Matematicamente è indifferente da quale punto dell’ intervallo si consideri questo calcolo, ma qui si parte dalla componente più grave perché la lettura del pentagramma procede, come regola generale, dal basso verso l’alto.] [27] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [28] [ Naturalmente questa sottrazione non deve avvenire matematicamente, ma solo immaginando il nome di nota superiore o inferiore come posto sulla stessa ottava dell’altro. Per esempio leggendo un intervallo di nona tra do e re , non si deve individuare prima l’ intervallo di nona e poi sottrarvi il numero 7, ma prendere la il nome di nota posto in alto (il re ) e considerarlo nella stessa ottava del do . In questo modo, dato che gli intervalli composti sono da considerarsi nei casi indicati dal modello come semplici , si ottiene un intervallo di seconda.]

[29] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,

1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [30] [Tutto ciò che sulla partitura è concepito verticalmente (un elemento sopra l’altro) accade simultaneamente; tutto ciò che è concepito orizzontalmente, accade in successione.] [31] [Si noti che lo scheletro di tutti i tipi accordali più comuni è l’ intervallo di terza.] [32] [“L a pratica e la teoria della formazione e concatenazione degli accordi e l'organizzazione dei suoni, per rapporti di altezza, in funzione dell'ordine unitario della tonalità ”. Armonia. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000. Dell’importanza del concetto di tonalità si tratterà in seguito, basti al momento intuirla dal fatto che la nostra musica è interamente quella del periodo storico che da essa prende il nome, ossia il periodo tonale .] [33] [Scritte in corsivo all’interno di questo manuale per essere distinte da un intervallo generico.] [34] [Se una trìade è costruita su un nome di nota privo di attributo ( diesis , bemolle ecc.), tale nome di nota rappresenterà il nome generico dell’ accordo . Se invece è costruita su un nome di nota accompagnato da un attributo , tale attributo dovrà essere incluso nel nome generico dell’ accordo (per esempio: trìade di do diesis ). Della seconda parte del nome di un accordo , ossia del suo nome specifico , si tratterà in seguito (par. 6 - Cap. II).] [35] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014).PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [36] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [37] [E dei suoi eventuali attributi . Per comprendere più approfonditamente il processo del raddoppio si consulti anche par. 2 - Cap. III.] [38] [Si ricorda che il nome di nota posto in chiave di basso fa parte della verticalità dell’ accordo e va perciò considerato come parte dell’ accordo stesso. ]

[39] [ L’alternativa sarebbe stata quella di scrivere lo schema a parti late , con

una distanza tra tenore e soprano maggiore di un’ottava. In termini di ottave, a cambiare è solo la distanza delle voci , non la loro disposizione.] [40] [Il nome di nota assegnato al basso può trovarsi a una qualsiasi distanza, in termini di ottave, dai tre tipi vocali superiori (a patto che non sconfini l’estensione assegnatagli).] [41] LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951. [42] [In teoria, come si è visto (fig. 72), l’ intervallo di seconda è sempre presente negli accordi di settima . Ma nella pratica, alcune note di un accordo possono essere omesse , ossia non scritte e quindi non suonate. Nel caso in esempio, l’omissione di una di queste due note è rara per le ragioni esposte.] [43] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019). [44] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019). [45] [Il suono è uno dei componenti che concorrono a definire il concetto di nota (di tali componenti si è trattato nel paragrafo 6 del capitolo I)]. [46] [Gli elementi che compongono un intervallo melodico si succedono, a differenza di quelli che compongono un intervallo armonico . Agli intervalli melodici si applicano tuttavia le stesse regole e tecniche viste per gli intervalli armonici .] [47] [Per far comprendere l’importanza di questi elementi, si anticipa, per quanto riguarda la struttura della tastiera del pianoforte, articolata in ottave, quanto segue: “[...] a partire dalla fine del secolo XVII, l’ottava è stata divisa in dodici semitoni uguali che danno luogo alla scala cromatica .” Semitono. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937.] [48] [Al solfeggio cantato , che presuppone il solfeggio parlato , vengono di solito affiancati il dettato ritmico e quello melodico , che sviluppano l’orecchio musicale, indispensabile per un pianista.]

[49] [Questo determina che il nome di nota sul quale si è iniziato a costruire la

scala sia ripetuto all’ottava superiore. Quell’elemento non fa ovviamente parte della struttura della scala , ma sarà utile per le considerazioni a seguire.] [50] [ Ossia da un “alfabeto” che presuppone un aspetto numerico nella sua implicita concatenazione di intervalli melodici di seconda.] [51] [Fatta questa considerazione, si può comprendere perché non sia necessario terminare la costruzione dello “scheletro” di una scala con il nome di nota dal quale si è iniziato a costruire tale “intelaiatura”: se i gradi della scala sono sette, e la scala fondamentale ha un aspetto circolare, qualsiasi considerazione numerica fatta tra il primo e il settimo grado (o viceversa) non richiede l’aggiunta di un “ottavo grado ”.] [52] [A loro volta indicati con precisione dalla chiave e associati a suoni la cui durata è espressa dalla loro figura ritmica (par. 6 - Cap. I).] [53] [Con il termine accidenti (o segni di alterazione) ci si riferisce ai segni che vengono convenzionalmente impiegati per prescrivere un’ alterazione , che è invece il preciso esito acustico o sonoro di tale prescrizione.] [54] [Per tale motivo questo processo di associazione è stato distinto dai precedenti (Cap. I).] [55] [Purché questi vengano integrati e messi in relazione con l’ambito della armonia pratica , introdotto a partire dal capitolo III.] [56] [Un cambio di tonalità avviene all’interno di un brano attraverso il processo di modulazione . La modulazione non è da confondersi con la tonicizzazione , in quest’ultimo caso non c’è un vero e proprio cambio di tonalità . Di questi argomenti, decisamente avanzati, si può trattare con un Maestro di Armonia .] [57] [Per completezza, si definisce qui, in una nota a parte, che le alterazioni transitorie valgono dal punto in cui vengono poste (compreso) fino alla fine della battuta in cui sono contenute e non, come accadeva per le alterazioni costanti , fino a indicazione contraria per tutta la durata della composizione . Le alterazioni transitorie valgono per tutte le note poste sulla medesima ottava ( non su tutte le ottave). Nel caso in cui l'ultima nota della battuta venga alterata e legata di valore alla prima nota della battuta seguente - tramite un apposito segno che indica all’esecutore che il valore ritmico della prima nota debba essere sommato a quello della seconda - l’effetto dell’ alterazione transitoria vale ancora per quella nota e smette di valere subito dopo la medesima. Si ricorda inoltre che talvolta un’ alterazione può essere indicata

ripetutamente nella partitura solo per facilitarne il riconoscimento: in generale questo tipo di indicazione avviene tra parentesi e ha il solo scopo di facilitare il riconoscimento di quell’ alterazione da parte dell’esecutore, che potrebbe trovarsi a dover leggere frequenti cambi di tonalità con rischio di confusione.] [58] [Nella nostra musica , l‘alternativa è che un accidente debba essere ricondotto alla scala cromatica , di cui si tratterà in seguito. Si parla a esempio di semitono diatonico o semitono cromatico .] [59] [Aggiungendo un attributo al nome di nota , non modificano tuttavia tale nome di nota . A esempio: mettendo un diesis sul nome di nota do questo non diventa un altro nome di nota ma resta do con attributo diesis .] [60] [Questo termine è da legare strettamente al significato della parola che lo segue; si tratta di “ mattoni-teorici”: toni e semitoni nella teoria della nostra musica non esisterebbero senza le scale dalle quali sono tratti i suoni che li compongono.] [61] [Ossia quelle a cui si riferisce il circolo delle quinte .] [62] [Unisoni, quarte, quinte e ottave vengono definiti intervalli giusti, poiché non hanno alternativa di maggiore o minore . L'alternativa di maggiore o minore per un intervallo si ottiene, quando possibile, rivoltandolo : per esempio, il rivolto di una terza maggiore è una sesta minore , il rivolto di una seconda minore , è una settima maggiore… e così via. Il rivolto di una quarta giusta , invece, a esempio, è una quinta che non ha mutato il proprio nome specifico (quinta giusta ). Lo stesso vale per unisoni che si rivoltano in ottave, e per quinte che si rivoltano in quarte.] [63] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [64] [ N.d.A.] [65] [N.d.A.] [66] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [67] [ Si noti che in questo contesto il termine voci ha un significato differente rispetto a tipi vocali , poiché si riferisce già a una nota ascritta a un determinato tipo vocale .]

[68] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc.,

1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [69] [Attenzione a non confondere questo termine, scritto in minuscolo, con quello scritto in maiuscolo ( Armonia ) che si riferisce non alla consonanza delle voci in relazione a un accordo ma alla materia di studio.] [70] [La nota che è stata aggiunta, e che corrisponde quella associata al I grado della tonalità , ha senso conclusivo poiché la sensibile , che nelle scale maggiori corrisponde al VII grado , ha carattere di forte tensione verso la tonica sulla quale quasi sempre risolve questa propria tensione armonica .] [71] LONGO, Achille. T rentadue lezioni pratiche sull'armonizzazione del canto dato . Milano: RICORDI, 1938. [72] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [73] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [74] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [75] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [76] [ L’esercizio sulla pronuncia della scala fondamentale (par. 2 - Cap. I) rappresenta un primo passo in tal senso, poiché permette di non leggere singolarmente tutti i componenti di una melodia per grado congiunto : se ne leggerà solo il punto più alto o quello più basso, a seconda della direzione , applicando le scale che si sono studiate alle note rimanenti, senza doverle leggerle una per una. Gli accidenti forniranno tutte le informazioni necessarie a procedere in tal senso.] [77] [Queste due fasi vanno viste in ordine. La seconda presuppone la prima, che ne è prerogativa necessaria.] [78] [Come quelli dei diesis e dei bequadri nelle scale minori armoniche o melodiche , che riguardano sempre il VI o il VII grado : di questo si tratterà dettagliatamente più avanti (par. 6 - Cap VI).] [79] [Per farlo, è bene non sfociare in un approccio troppo personale, ma basarsi piuttosto sulle regole dell’ Armonia e del basso continuo , senza le

quali verranno a mancare gli strumenti interpretativi per comprendere il significato delle scelte di un compositore.] [80] [La sintesi consente infatti uno sguardo dall’alto. Se prima la trìade di tonica in do maggiore era do-mi-sol , dopo la sintesi diventa un singolo elemento con un preciso nome.] [81] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [82] RAMEAU, Jean-Philippe. Traité de l'harmonie réduite à ses principes naturels . Paris: J. B. C. Ballard, 1722 (edizione e traduzione di Mauro Formaggio in RAMEAU, Jean-Philippe. Trattato di armonia ridotta ai suoi principi naturali. Torrazza Piemonte: KDP, 2019). [83] Parte strumentale, formata dai bassi delle varie armonie succedentisi lungo il discorso musicale, che specialmente nella pratica dei sec. XVII e XVIII si notava sotto le parti costitutive della composizione quale guida utile a colui che doveva improvvisare un elaborato accompagnamento. Il basso continuo si chiama basso numerato quando sulle note (tutte o meno) della parte di basso d’armonia sono indicati in cifre gli intervalli caratteristici degli accordi previsti per accompagnare una monodìa o una polifonia. Basso. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/basso/. [84] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [85] [Che è lo stile preponderante nella scuola rinascimentale , anche se non rappresenta l’unico stile esistente. È generalmente considerato l’opposto dello stile libero , più diffuso dal XIX secolo in avanti, dove molte prescrizioni dello stile severo non vengono adottate.] [86] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [87] [Con basso dato ci si riferisce a una linea del basso che viene per l’appunto “data” già pronta (fig. 89) per essere impiegata nelle prime esercitazioni propedeutiche di cui si tratterà nel presente paragrafo] [88] DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano: Carisch, S.A., 1946.

[89] [Nonostante sia fondamentale associare sempre le proprie esperienze di

studio all’ascolto.] [90] [Queste si trovano, molto spesso, al termine di una frase o della stessa composizione (per la definizione di questi due termini, si veda: par. 2 - Cap. VI) e rappresentano la “punteggiatura” del discorso musicale.] [91] [Quindi tra tenore e soprano , poiché una scrittura che prevede uno scavalcamento delle parti è riservata solo a particolari eccezioni. Da questo si trae un importante suggerimento: quello che viene considerato il nome di nota (o la pausa ritmica associata a un preciso tipo vocale ) scritto più in basso nella partitura coincide, nella maggior parte dei casi, con quella assegnata al tipo vocale del basso , poiché quest’ultimo dei quattro tipi vocali occupa la posizione più bassa del doppio pentagramma .] [92] [A parti late , la lettura dello spartito dovrà basarsi ancora più marcatamente sui nomi di nota , in quanto questi, nel definire numericamente un tipo accordale, restano gli stessi a prescindere dalla loro distanza. I tasti del pianoforte sono infatti disposti su più ottave, che sebbene si associno a esiti acustici diversi, vanno considerate da un punto di vista tattile come segmenti di tastiera ben precisi entro i quali i sette nomi di nota possono di volta in volta ascriversi. Per esempio: trovando sulla partitura i nomi di nota do e sol , ma su due ottave molto distanti della tastiera , ottave che si definiscono soprattutto attraverso la tonalità di ciò che si sta suonando, li si dovrà ricondurre al riferimento di un unico schema di ottava, immaginando il do come se appartenesse alla stessa ottava del sol .] [93] [N.d.A.] [94] [N.d.A.] [95] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [96] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [97] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [98] DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano: Carisch, S.A., 1946.

[99] DELACHI, Paolo. Raccolta di bassi per lo studio dell’Armonia. Milano:

Carisch, S.A., 1946. [100] RUGGERI, Marco. Manuale di Armonia pratica. Milano: RICORDI, 2012. [101] DUBOIS, Théodore. Traité d'harmonie théorique et pratique . Paris: J. B. C. Ballard, 1722. [102] “L’accordo formato da una nota con la sua terza e la sua quinta” Perfètto. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/vocabolario/perfetto/.] [103] [Nella prassi del basso continuo , i gradi della scala ai quali è associata la nota al basso sono indicati con dei numeri romani (I, II, III, IV, V, VI o VII.] [104] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [105] [Si consulti il seguente manuale d’introduzione allo studio dell’ armonia

pratica e del basso continuo : RUGGERI, Marco. Manuale di Armonia pratica. Milano: RICORDI, 2012.] [106] PISTON, Walter. Harmony . New York: W. W. Norton & Company Inc., 1941 (edizione e traduzione di Gilberto Bosco, Giovanni Gioanola, Gianfranco Vinay in PISTON, Walter. Armonia. Torino: EDT, 2014). [107] [Le proposizioni hanno iniziale minuscola probabilmente per differenziare il modo minore da quello maggiore .] [108] HOROWITZ, Vladimir. Technic the Outgrowth of Musical Thought , Florence Leonard. Philadelphia: T. Presser Co. ©1922-1948, Marzo 1932, pp. 163-164, disponibile su: http://nettheim.com/horowitz/horowitz32.html (versione web revisionata il 22 maggio 2001). Lingua originale della conferenza: Tedesco. [109] [L’esempio riportato qui fedelmente dall’articolo in questione è ritmicamente incompleto poiché rappresenta un frammento di brano, non ci si spaventi quindi se si legge 6/8 come indicazione di misura e si trova che le battute sono incomplete e addirittura diverse tra loro: il frammento rappresenta un dettaglio che contiene ciò che originariamente occupa il secondo tempo della prima battuta e parte del primo tempo della seconda. Nel frammento è inoltre presente una indicazione di dinamica (la doppia lettera “ f ”), di cui si tratterà nel par. 8 - Cap. VII.]

[110] [Traduzione gentilmente offerta dalla professoressa Ornella Gangi.] [111] [ Il timbro è rappresentato dalla qualità del suono , determinata dagli

armonici che accompagnano un suono fondamentale . La teoria acustica dei suoni armonici andrebbe approfondita sin da questo momento con un Maestro, poiché aiuta a comprendere, tra le altre cose, la grande ricchezza timbrica del pianoforte.] [112] HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered . Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920. [113] Da questa immagine non si deve tuttavia ricavare che il pianoforte comprende tutti i suoni possibili , poiché ne comprende soltanto una porzione di quelli udibili all’orecchio umano, accuratamente selezionata secondo rapporti acustici che risalgono ai primi studi del matematico e filosofo Pitagora, nato nella prima metà del VI secolo a.C. a Samo, un’isola della Grecia. [114] Legatura. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000. [115] HOROWITZ, Vladimir. Technic the Outgrowth of Musical Thought ,

Florence Leonard. Philadelphia: T. Presser Co. ©1922-1948, Marzo 1932, pp. 163-164, disponibile su: http://nettheim.com/horowitz/horowitz32.html (versione web revisionata il 22 maggio 2001). Lingua originale della conferenza: Tedesco. [116] [Traduzione gentilmente offerta dalla professoressa Ornella Gangi]. [117] HOFMANN, Józef. Piano Playing with Piano Questions Answered . Philadelphia: Theodore Presser Co., 1920. [118] [Fotografia scattata dall’autore alla tastiera di un clavicembalo Urbano Petroselli , con questo curioso aspetto.] [119] [Se s’intendesse la mano come il mero e rigido sostegno delle dita, ciò non sarebbe vero in nessun caso: questa visione robotica della posizione della mano, in cui sarebbero solo le dita a lavorare, è assolutamente inadatta a suonare un pianoforte moderno.] [120] [Si definirà attivo un dito che abbassa o abbasserà un tasto , e passivo un dito che non abbassa o non abbasserà un tasto .] [121] JONÁS, Alberto. Master school of modern piano playing & virtuosity . New York: C. Fischer, 1922-1929.

[122] Scatto. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua

italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000. [123] [Si tratterà dettagliatamente di quanta importanza abbia questa distinzione, apparentemente superflua, nel paragrafo successivo (par. 7 - Cap. V), quando sarà mostrato il ruolo della velocità nella meccanica del pianoforte.] [124] [Ecco perché si parla di prensilità : la mano dovrà sempre leggermente chiudersi.] [125] NYEGAUZ Genrich. Ob iskusstvo fortep'yannoy igry . Mosca: VAAP, 1982 (traduzione di Annelise Alleva in NEUHAUS, Heinrich. L’arte del pianoforte . Milano: RUSCONI, 1985). [126] Meccanica . In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000. [127] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York: Schirmer Books, 1981. [128] [Questa leva, con il tasto a riposo, non è in condizione di equilibrio.] [129] [Il tasto , in corrispondenza del fulcro metallico, è rivestito sui lati destro e sinistro del foro di incastro da un feltro colorato - solitamente rosso o verde che riduce l’attrito del tasto di legno con il perno in metallo. Questo feltro si usura facilmente e va periodicamente sostituito. Muovere troppo i tasti verso destra e sinistra, come fanno alcuni pianisti che simulano un movimento che ricorda quello impiegato per effettuare un vibrato sugli strumenti a corda , potrebbe portare a un’usura precoce di questa componente. I feltri sono facilmente visibili rimuovendo il coperchio anteriore del pianoforte e seguendo l’asta del tasto fino a trovare il piccolo fulcro in metallo, operazione che tuttavia va effettuata con estrema cautela e inizialmente sotto la supervisione di un esperto, onde evitare possibili danni allo strumento.] [130] [Non è possibile inquadrare con precisione matematica queste frazioni perché possono variare a seconda del pianoforte, dell’umidità esterna, della sensibilità di chi suona, eccetera.] [131] [Questo sollevamento viene sostenuto interamente dal pilota , un perno in metallo.] [132] [In una meccanica Renner può essere in metallo, mentre in una Steinway può essere in legno, come semplice prolungamento dalla leva dello smorzo . A volte il materiale varia anche semplicemente da un modello all’altro della

stessa casa di costruzione, o in base all’anno di produzione di un determinato pianoforte eccetera.] [133] [Il rullino è destinato a ricadere per forza elastica e per forza di gravità, dal momento che il lancio non avviene con un proiettile libero ma con una componente attaccata a un fulcro e obbligata nel suo movimento.] [134] [Su questo c’è un’importante considerazione da fare: lo spingitore rimane sospeso fino a quando il tasto non viene parzialmente rilasciato, e se quest’ultimo non torna in posizione pronto a lanciare nuovamente il rullino , il tasto viene abbassato a vuoto. Motivo per cui nei moderni pianoforti si è introdotto agli inizi del XIX secolo il doppio scappamento . Nei pianoforti che non sono dotati di doppio scappamento , bisogna prestare particolare attenzione al momento in cui si rilascia un tasto , lasciando un margine ampio allo spingitore per tornare alla sua posizione di lancio.] [135] [A tasto abbassato il martello si muove liberamente a partire dal paramartello e non dalla sua posizione iniziale]. [136] [Più precisamente, impedisce allo spingitore di rimanere attaccato al rullino , il che di conseguenza si risolve in una caduta del martello dalla corda , dal momento che il rullino è attaccato all’asta del martello .] [137] [Le corde simpatiche sono quelle associate a suoni che si producono per risonanza di altri suoni . Per comprendere questa definizione, si provi a effettuare questo esperimento: si abbassi un tasto lentamente e fino in fondo, senza farlo suonare. In seguito, si abbassi il tasto che si trova un’ottava più in alto rispetto a questo, stavolta facendolo suonare. Rilasciando quest’ultimo, ci si accorgerà che, in corrispondenza del primo, quello che non viene rilasciato lungo tutto l’esperimento, si è prodotto un suono ben distinto. La base della teoria sulle corde simpatiche si può approfondire studiando i rapporti acustici dei cosiddetti suoni armonici .] [138] [La martelliera è l’insieme dei martelli e la loro relativa parte di meccanica . Della martelliera non fanno parte le corde .] [139] [E attenzione, solo la martelliera . Le corde rimangono ferme.] [140] [Questa operazione è effettuata da un tecnico, che varia tra le altre cose la distribuzione e l'apertura delle fibre del feltro, definendo come quest'ultimo percuoterà le corde . In questo modo, il timbro sonoro del pianoforte viene modificato.] [141] [Questa operazione è effettuata da un tecnico e consiste nella levigatura della porzione di feltro usurata. Questo procedimento non può essere

effettuato all’infinito, poiché rimuovere lo strato di feltro interessato significa assottigliare il rivestimento del martello : dopo qualche rasatura , la martelliera andrà sostituita.] [142] Dinamica musicale. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/dinamica-musicale/. [143] [Questi due segni, tra l’altro, danno il nome al pianoforte .] [144] [Per completezza, l’autore indica in una nota a parte che esistono altri segni di prescrizione dinamica , tra i quali lo sforzando , il rinforzando , il sotto voce , il mezza voce , il poco forte , oltre a segni che impiegano più di due p o due f , per esempio il più piano possibile indicato da tre p . Tali segni tuttavia, nell’orizzonte dei primi studi, non sono da considerarsi.] [145] [Fatto comunque molto spesso privo di gusto, che viene citato solo per fare chiarezza su quali siano i fondamenti tecnici da considerare in vista del raggiungimento del massimo volume.] [146] [Il ragionamento si potrebbe fare anche per la leva di ripetizione , quando agisce attraverso lo scappamento come una sorta di spingitore ; tuttavia risulta essere la leva più svantaggiosa.] [147] [Ecco perché molto spesso il pianista che ricerca volume suona sfruttando anche il peso del proprio corpo.] [148] [In altre parole, senza una elevata velocità è controproducente sfruttare eccessivamente la massa del proprio corpo .] [149] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York: Schirmer Books, 1981. [150] [Non bisogna dimenticare che suonare con il massimo volume non deve significare suonare male né tantomeno ricercare un brutto suono.] [151] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York: Schirmer Books, 1981. [152] [Per un semplice motivo fisico, se una corda è in movimento significa che ha già ricevuto l’energia necessaria al superamento della soglia di resistenza fisica legata alla sua inerzia. Alcune corde potrebbero mettersi in moto già per il semplice sollevamento degli smorzatori , anche se questo dipende molto da come è stata regolata la parte di meccanica relativa allo smorzatore stesso, motivo per cui se si abbassa il pedale di risonanza rapidamente e fino in fondo si sente quel suono caratteristico. In questo caso la corda è messa già ampiamente in moto dal martello .]

[153] Agogica. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto

dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/agogica/. [154] [Ecco alcuni esempi di indicazioni di andamento : adagio , moderato , andante , allegro , vivace , presto , prestissimo eccetera. Di queste si può trattare con un Maestro di Solfeggio.] [155] [Il termine corretto , scritto in corsivo, si riferisce alla ripetizione e ha questo preciso significato all’interno del presente manuale.] [156] “[...] secondo una logica affermatasi verso la metà del Settecento ed esemplata sul modello oratorio o retorico [...].” Musica. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 19291937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/musica/. [157] CZERNY, Carl. Erster Wiener Lehrmeister im Pianoforte-Spiel . Parigi: Schlesinger, 1839 (a cura di Ettore Pozzoli in CZERNY, Carl. Il primo maestro di pianoforte , opus 599. Milano: RICORDI, 1949). [158] [Non è possibile dare un esempio pratico assoluto poiché l’esperienza di studio è intimamente soggettiva.] [159] SCHUMANN, Robert. Drei Klaviersonaten fur die Jugend , Opus 118. Amburgo: Schuberth & Co., 1853. [160] Abbellimento. In: DEVOTO, Giacomo. OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000. [161] In musica, abbellimento formato dal rapido alternarsi della nota reale con la nota a distanza di seconda superiore o inferiore (maggiore o minore), che nella scrittura musicale ha come simbolo le lettere tr (sole o seguite da una serpentina orizzontale) sovrapposte alla nota reale. Trillo. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 19291937. Disponibile su: http://www.treccani.it/vocabolario/trillo/. [162] HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer:

L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis. The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900). [163] [Riguardo questa “spinta” si tratterà nel paragrafo riservato all’ appoggio (par. 3 - Cap. VIII).] [164] [ Mai in senso rotatorio o ondulatorio alto-basso.] [165] HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer: L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis.

The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900). [166] [Ossia non più teorico-compositivo, ma pianistico.] [167] [Attenzione, questo non si traduce in un movimento spasmodico della

muscolatura: il punto in cui lo spostamento terminerà, cioè quello in cui avviene la preparazione vera e propria sul tasto , deve essere sempre ben chiaro nella propria mente prima ancora di compiere tale spostamento.] [168] “ Nella terminologia musicale, la sistematica accordatura degli strumenti a suono determinato (organo, pianoforte ecc.), praticata suddividendo l’ottava in 12 semitoni posti a uguale rapporto di frequenza l’uno dall’altro e ottenendo così, per es., l’identificazione di do diesis con re bemolle. Storicamente il t. si rese necessario per una serie di ragioni: dalla necessità di non moltiplicare il numero di tasti corrispondenti ai suoni dell’ottava (che dovrebbero essere in teoria 35, seguendo l’accordatura naturale) all’esigenza di sfruttare completamente i processi modulanti eccetera. Praticato in maniera empirica nel corso del 16° e 17° sec., si impose grazie agli studi di A. Werckmeister che nel trattato Temperamento musicale (1691) ne propose una forma rigorosa (t. equabile) dividendo l’ottava in 12 intervalli di semitoni. Tra i primi musicisti a intuire la portata rivoluzionaria del nuovo tipo di accordatura fu J.S. Bach che contribuì a diffonderla con la raccolta di 24 preludi e fughe in tutte le tonalità, intitolata, significativamente, Clavicembalo ben temperato (1722-44) ” Temperamento. In: TRECCANI. Enciclopedia Italiana Treccani. Roma: Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929-1937. Disponibile su: http://www.treccani.it/enciclopedia/temperamento/. [169] “ In musica, la notazione o l'esecuzione di un brano in una tonalità diversa dall'originaria, per lo più effettuata nella musica vocale allo scopo di adattare il brano alla reale estensione della voce di un esecutore; detto anche trasposizione.” Trasporto. In: DEVOTO, Giacomo; OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000. [170] LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951. [171] LONGO, Alessandro. Czernyana . Milano: CURCI, 1951. [172] [A seconda del grado da cui si parte per costruirli o del modo che si impiega per farlo, gli accordi di settima vengono classificati in sette specie . Più precisamente, sono le relazioni intervallari che si vengono a formare disponendo le terze a partire da un grado sempre diverso delle scale a determinare questa classificazione. Di questo argomento si può trattare con un Maestro di Armonia .]

[173] [ Per completezza, il termine armonico , come attributo, può riferirsi sia

all’ Armonia che all’ armonia , e non c’è in questo contesto differenza tra l’uno o l’altro perché significa “ Rispondente alle leggi o concernente le leggi dell'armonia ” Armonico. In: DEVOTO, Giacomo; OLI, Gian Carlo. Il dizionario della lingua italiana . Firenze: Felice Le Monnier S.p.A., 2000 . Questo poiché tutto quello che viene scritto per la nostra musica risponde, salvo eccezioni, a queste leggi.] [174] HANON, Charles-Louis. Le Pianiste virtuose . Boulogne sur Mer: L'auteur, 1873-75 (traduzione di Theodore Baker in HANON, Charles-Louis. The virtuoso pianist . New York: G. Schirmer, 1900). [175] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York: Schirmer Books, 1981. [176] [Lo staccato di dita è impiegato principalmente per passaggi veloci. Ne esistono altri tipi, che si chiamano in base a quale sia la parte del corpo maggiormente coinvolta nell’ articolazione : staccato di polso , staccato di avambraccio eccetera.] [177] [Dal momento che sul pianoforte, come si è visto, il suono decade naturalmente a seguito della percussione della corda da parte del martelletto (par. 8 - Cap. V), la legatura di espressione più efficace da eseguire in questo strumento è quella in diminuendo .] [178] [ Un gruppo ritmico irregolare è un gruppo di segni ritmici il cui tipo di

suddivisione non corrisponde a quello dell' unità di tempo associata alla misura in cui si trovano. In altre parole, è un gruppo di segni ritmici di natura composta all’interno di un contesto ritmico semplice, o viceversa. I gruppi ritmici irregolari si distinguono infatti in due categorie: i gruppi ritmici irregolari per eccesso e quelli irregolari per diminuzione . Entrambi vengono rappresentati da una parentesi quadra (talvolta sottintesa) che unisce i segni ritmici che ne fanno parte, divisa in due parti o accompagnata da un numero che ne indica il raggruppamento (2= duina , 3=terzina, ecc.). Questo argomento richiede una conoscenza avanzata del Solfeggio e andrebbe trattato con un Maestro.] [179] SÁNDOR, György. On piano playing: its art and application. New York: Schirmer Books, 1981. [180] [Di come concepire correttamente la caduta si è trattato nel paragrafo 8 del capitolo V.]