Lineamenti introduttivi alla storia del cinema-Il nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders 8879993518, 9788879993517

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Lineamenti introduttivi alla storia del cinema-Il nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders
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Giovanni Spagnoletti

Lineamenti introduttivi alla

STORIA DEL CINEMA Il nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders

a cura di

Fabrizio Natalini

Copyright © MMIV ARACNE editrice S.r.l.

www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice .it via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma 06 93781065 - telefax 72672233 ISBN

88-7999-351-8

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell ’Editore.

I edizione: febbraio 2004

Indice Capitolo 1

Lineamenti introduttivi alla storia del cinema 1. 2. 3. 4.

Cos’è la Storia del cinema?...................................................... Cinema d’autore o cinema di genere? Alcune precisazioni ...

La crisi della Hollywood classica............................................ La nascita del cinema moderno................................................

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Capitolo 2

Il nuovo cinema tedesco: Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders 1. La situazione della RTF (e il problema delle due Germanie) in un lungo dopoguerra: 1949-1962 .................................. 41 2. Il Manifesto di Oberhausen e le sue conseguenze .................. 3. Lo stacco dello 'Munger Deutscher Film”................................ 4. Tre autori di prima grandezza: Alexander Kluge, Edgar Reitz, Werner Herzog................ 60 5. Dallo Junger Deutscher Film al Neuer Deutscher Film.......... 6. Rainer Werner Fassbinder........................................................ 7. Wim Wenders ..........................................................................

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Capitolo 3

Appendice al primo modulo 1. Nascita di una nuova avanguardia, la camera-stilo di A lexandre A struc............................................................ 2. Il cinema francese muore sotto le false leggende di Francois Truffaut..........................................................

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Indice

Capitolo 4

Appendice al secondo modulo 1. Narrare storie, menzogne indispensabili di Wim Wenders.................................................................. 2. Le soufflé de l’ange di Wim Wenders.................................................................. 3. Tempo e spazio nel cinema postmoderno di David Harvey................................................................

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Premessa Le presenti dispense sono il risultato di una sommaria riscrittu­ ra delle lezioni per i due moduli tenuti nell’anno accademico 2001-2002, il primo dedicato ai “Lineamenti introduttivi della Storia del Cinema” e il secondo invece al “Nuovo Cinema Tede­ sco” con al centro le figure di Rainer Werner Fassbinder e Wim Wenders. Esse vanno quindi intese come un mero strumento didat­ tico, come una memoria per chi non ha potuto seguire i corsi. I film scritti in corsivo sono quelli della distribuzione italiana, men­ tre se si trovano in tondo sono una traduzione letterale dell’origi­ nale. (G. Sp.)

Capitolo 1

Lineamenti introduttivi alla storia del cinema

1. Cos’è la Storia del cinema?

Si potrebbe iniziare dalle parole di Gian Piero Brunetta che, di recente, ha scritto nell’introduzione ad una nuova monumentale storia del cinema: “Il salvataggio del cinema del passato, fino alle soglie degli anni ottanta, di fatto non rientra nell’habitat mentale di nessuno, né dei critici né degli storici per cui in generale il territorio di conoscenza o le fonti di lavoro erano congruenti con la propria memoria dei film visti o la biblioteca personale: era abbastanza scontato che chiunque scrivesse mia storia del cinema la costruis­ se con materiali di seconda mano, sulla propria memoria e sulle proprie idiosincrasie, riprendendo bibliografie e filmografie altrui, senza curarsi di verificarle, senza porsi il problema della plurimità delle fonti e della necessità di non considerare le fonti filmiche come le uniche su cui lavorare. I saggi di storia del cine­ ma del passato sono per lo più scritti in “assenza” delle opere stesse, sono saggi di storici e critici per lo più ciechi e sordi che lavoravano sui fosfeni della propria memoria cinematografica e che nella ricerca non riuscivano a spingersi oltre l’orizzonte della propria biblioteca. Più che di storiografia — aveva notato con intelligenza Leonardo Sciascia — per le storie del cinema si deve parlare di autografie” (').

Partendo da queste fondamentali acquisizioni, domandiamoci sinteticamente come finora è stata fatta storia del cinema. Rispetto C) Gian Piero Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. 1, Einaudi, Tori­ no 1999, pag. XXVI.

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Capitolo 1

alle altre arti tradizionali, non-tecnologiche, la nascita del cinema non si perde nella notte dei tempi, in un’epoca preistorica: essa ha una data di nascita relativamente precisa (diciamo relativamente e vedremo subito il perché). Questo dato di fatto ha un’importanza notevole, perché ha fatto sì che, quasi immediatamente, superato il primo impatto dello “stupore” provocato dalla nuova scoperta, ci si è cominciati a domandare che cosa fosse questo strano fenomeno comunicativo-estetico-industriale-popolare, questo inedito connu­ bio tra commercio, intelletto, informazione e divertimento. Detto en passant tale situazione peculiare del cinema si conserva ancor oggi, anche nella nostra attuale civiltà dell’immagine spettacolarizzata, ma, guarda caso, è rimasta un caso unico. La televisione, infatti, che è oggi il medium concorrente e vincente dal punto di vista del consumo e dell’intrattenimento di massa, non si è posto, ai suoi esordi, il problema di essere qualcosa di diverso da un elettrodome­ stico casalingo e comunque una vera estetica o poetica della televi­ sione malgrado ormai molti anni di prassi, a quanto ci risulta, stenta a codificarsi. Il fatto che il cinema sia nato da un tempo relativa­ mente breve, rispetto a tutte le altre arti, lo ha posto in una situazio­ ne avvantaggiata e svantaggiata allo stesso tempo, obbligandolo a bruciare le tappe della propria esistenza molto rapidamente e, al contempo, di confrontarsi con metodologie elaborate in secoli e secoli di storia, sia per quel che riguarda la propria essenza, sia per quel che riguarda per esempio la conservazione (il problema del restauro con l’inevitabile paragone con le arti plastiche). Il primo enorme problema storiografico del cinema inizia para­ dossalmente proprio con la sua presunta data di nascita: quella mitica proiezione del 28 dicembre 1895, ore 18, al numero 14 di Boulevard des Capucines, nel Salon Indien du Grand Café, di Parigi, quando Auguste e Louis Lumière presentarono per la prima volta in pubblico, per la precisione a 33 spettatori, la loro rivolu­ zionaria invenzione. Ma forse come ormai sappiamo benissimo — ed è la conclusione a cui sono pervenuti tutti gli studiosi moderni — l’evento del Salon Indien di Parigi non è stato altro che la punta di un iceberg, di un lungo processo creativo-tecnologico che ha dato vita ad un sogno che risale, questo sì, alla notte dei tempi, quello che fa riferimento al mito platonico della caverna, tanto per

Lineamenti introduttivi alia storia del cinema

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ripetere una banalità puntualmente ricorrente in ogni trattazione sul cinema, al sogno, cioè, di realizzare delle immagini in movi­ mento. Tale sogno che Laurent Mannoni in un monumentale libro sull’argomento La grande arte delia luce e deU’ombra (Ed. Lin­ dau, 2000) ha definito con una metafora poetica “un occhio, le cui palpebre si alzino lentamente dopo secoli, e chi si apra compietamente sul mondo”. Tale sogno, si diceva, è l’oggetto delle ricerche del cosiddetto “precinema”, argomento che ha conosciuto dei grandi risultati proprio in ambito accademico. Alla fine di un lun­ ghissimo periodo d’incubazione, l’utopia delle “immagini in movi­ mento” si è, alla fine, concretizzata alla fine dell’ottocento. Con la caratteristica che il cinema nasce contemporaneamente alla psicoanalisi (da cui le similitudini tra queste due diverse disci­ pline, che sono state spesso ricordate) e come risultato di una curiosa gara intemazionale (l’invenzione del cinema era “nell’a­ ria” per così dire). Così a questa storica realizzazione ogni nazione ha dato il suo contributo: per esempio il 1 novembre 1895 (quindi due mesi prima della proiezione dei fratelli Lumière a Parigi) al “Wintergarten” di Berlino, altri due fratelli, Emil e Max Skladanowsky, i pionieri tedeschi del fenomeno cinema, tennero davanti a 1500 spettatori paganti una proiezione di 8 scene di 15 min. complessive, con un apparecchio, il “Bioskop”, che, però, si rivelò assai meno efficiente dei macchinari approntati dai Lumière (da ciò il fatto, per esempio, che in epoca nazista i tedeschi rivendica­ rono a loro la paternità del cinema). Gli americani a loro volta attribuiscono la nascita della settima Arte a Thomas Alva Edison (1847-1931), sostenendo con una certa ragione che egli aveva già inventato tutto quanto i Lumière avevano assemblato successiva­ mente. In verità il suo “kinetoscopio ”, con cui si vedeva un film cronofotografico in 35 mm, risale al 1888 e venne commercializ­ zato nel 1894 per scopi commerciali ma mancava di un anello fon­ damentale: la proiezione, dato che si trattava di un sistema cineti­ co basato sulla visione individuale. Gli inglesi rivendicano, a loro volta, a William Friese Greene il primato dell’invenzione del cine­ ma, mentre noi italiani, invece, possiamo esibire il brevetto del­ l’attestato di privativa industriale a Filoteo Alberini. Sono, tutte queste, disquisizioni che oggi vengono considerate di lana capri­

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Capitolo 1

na, valide o meglio giustificabili forse in epoche di nazionalismi esasperati, ma che attualmente passano in secondo piano, rivesten­ do al massimo un mero valore di curiosità informativo-documentaria, della stessa importanza del riuscire a scoprire, per esempio, chi, in effetti, fu. il primo ad elaborare il collage Dada. Su tali pro­ blemi, che, oggi, lo ripetiamo, paiono un po’ ridicoli o se non altro di interesse statistico, si sono in passato versati fiumi di inchiostro e su di essi si è concentrata una spropositata attenzione della ricer­ ca, lasciando viceversa in ombra problemi storici e metodologici ben più importanti. Proseguiamo, non potendo qui approfondire quel lungo proces­ so evolutivo-tecnologico costituito dal “pre-cinema”, che parte dalle “ombre cinesi”, passa per le lanterne magiche e i vari mar­ chingegni per realizzare giochi di luci ed ombre e arriva al feno­ meno del cinema digitale come lo conosciamo oggi. Aggiungiamo invece soltanto alcune banali informazioni di base: dal 1910 circa, a livello intemazionale, il cinema cessa di essere un fenomeno da baraccone, un’appendice della fiera e dell’illusionismo e comincia ad attrezzarsi con strutture industriali fisse: le sale. Contempora­ neamente, in seguito a lunghissimi dibattiti tra gli intellettuali (soprattutto in Francia e in Germania), a partire dagli anni dieci (Das Kinobuch di Kurt Pinthus è del 1914), comincia lentamente ad affermarsi l’idea che esso è o potrebbe essere un’arte. Nasce così in Germania VAutorenfilm, dove, con questo termine, si defi­ nisce un cinema d’autore realizzato da letterati. Le disquisizioni e i dibattiti sulla natura del cinema in quel periodo, ovvero dei suoi rapporti con le altre arti, in particolare il teatro — lo scrittore Alfred Dòblin, l’autore, tanto per intenderci di Berlin Alexanderplatz, per esempio, lo definiva il “teatro della povera gente” — hanno avuto comunque il merito, malgrado le ingenuità delle argomentazioni, di portare ad una trattazione teori­ co-storiografica. A differenza delle prime teorie o poetiche del cinema che iniziano già negli anni dieci (2), oppure quelle del

(2) Tra le principali: le riflessioni di Gyòrgy Lukàcs del 1913, il notevole libro dello psicologo tedesco-americano Hugo Miinsterberg del 1916, The Fotoplay: A Psichological Study, il manifesto futurista.

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decennio successivo (il grande rigoglio della scuola formalista russa, Der sichtbare Mensch (L’uomo visibile, 1924) il primo libro dello studioso ungherese-tedesco Béla Balàzc, le elaborazio­ ni di Louis Delluc o dei surrealisti francesi), in generale si può dire che le prime sistemazioni storiche del cinema sia a livello di storie universali sia di quelle nazionali ancorché approssimative e frutto delle ricerche personali di singoli studiosi sulla base di documentazioni talvolta non di primissima mano, iniziano soltan­ to negli anni Trenta. I pochi esempi che troviamo invece prece­ dentemente durante il periodo del muto negli anni Venti sono, senza eccezioni, raccolte di materiali (spesso oggi ancora abba­ stanza utili) o peggio di aneddoti che mancano però ancora di qua­ lunque struttura che ambisca a diventare una vera prospettiva sto­ riografica scientifica. Evidentemente, sino da allora, il cinema sentiva il bisogno di una propria teoria, ma probabilmente si con­ siderava ancora troppo giovane per poter scrivere la sua storia che comunque vantava già perlomeno tre decenni piuttosto tumultuosi di attività. Le prime storie generali o nazionali del cinema - in Ita­ lia: Ettore Maria Margadonna Cinema ieri e oggi (1932) e France­ sco Pasinetti Storia del cinema dalle origini ad oggi (1939); in Francia: Maurice Bardéche/Robert Brasillach, Histoire du cinéma (1935) e Cari Vincent Histore de Part cinématographique (Bru­ xelles, 1939); in Inghilterra: Paul Rotha, The Film Till Now (1930); negli Stati Uniti: Lewis Jacobs: The Rise of the American Film (1939); in Germania: Oskar Kalbus Vom Werden deutscher Filmkunst (1935, che poi è , all’origine, un album da riempire con le foto trovate nei pacchetti di sigarette!) per citare solo le più note — queste storie, dicevamo, conservano ancor oggi un certo valore documentario (e lo ebbero comunque all’epoca, se non altro per consolidare lo status del cinema all’ interno delle arti tradizionali). Ma è dopo la 11° guerra mondiale che si assiste ad un rigoglio di studi che superano questi primi approcci abbastanza inge­ nuo-descrittivi: è l’epoca della grande storia enciclopedica di René Jeanne e Charles Ford, ma, soprattutto, della monumentale Storia generale del cinema di Georges Sadoul (1946-1975, pub­ blicata in Italia da Einaudi) che rimane, a tutt’oggi, insieme forse a quella più recente di Jean Mitry (Histoire du cinéma. Art et indù­

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Capitolo 1

strie, 1968-1980) il tentativo più vasto compiuto da un solo stu­ dioso di abbracciare una problematica generale. Il modello omni­ comprensivo di Sadoul ha avuto massima fortuna negli anni Cin­ quanta, durante i quali sono fiorite, magari da punti di vista diversi ideologicamente, analoghi tentativi che però con la timida ecce­ zione del polacco Jerzy Toeplitz, non rimettevano in discussione una prospettiva storiografica umanistico-organica. A questo modello ha assestato un primo colpo, per esempio, la storia com­ parata di Jacques Deslandes (Histoire comparée du cinema, in due tomi, 1966-68) che ha contestato, per quel che riguarda il “preci­ nema” e il cosiddetto cinema primitivo, le fonti, i documenti (e di conseguenza l’interpretazione) di Sadoul. Su questa scia, negli anni Sessanta, comunque, si assiste ad una piccola rivoluzione copernicana nel settore, con il deciso abbandono delle grandi sin­ tesi (anche se brillanti e documentate alla Sadoul), a favore di ana­ lisi più puntuali, meno idealistiche (tipo: cosa è o non è arte, da trattare perciò in una storia generale o parziale del cinema), più fondate sull’uso delle fonti e della rivisitazione degli archivi (a ciò in Italia, terra per eccellenza dell’improvvisazione e della mancan­ za di strutture, hanno contribuito per esempio il proliferare dei Festival cinematografici e della “cultura dell’effimero”). Sono cre­ sciute a dismisura le monografie su singoli autori (tipo la collana de “Il Castoro”, che ha già superato i 200 titoli, oppure, sempre in Italia, la collana de “Le Mani”), ci si è occupati dei generi (terreno privilegiato della storiografia di matrice americana), dei B-Movie, ecc. Per dirla in breve, la metodologia della storia del cinema ha ripercorso, bruciando le tappe, il cammino delle scienze storiogra­ fiche vere e proprie, dalla cosiddetta macrostoria (idealistica, materialistica o di altro impianto filosofico), alle microstorie setto­ riali, dal lavoro del singolo studioso a quello d’équipe. Tuttavia questa direzione di ricerca, forse voleva, ma non ha potuto, abolire l’esigenza critico-informativa, di formazione manualistica. Non mancano tentativi generali d’analisi (per esempio qui da noi in Ita­ lia: La storia del cinema italiano di Gian Piero Brunetta, che com­ bina ed interseca modi d’analisi complessi o La storia del cinema inglese di Manuela Martini) ma diciamo che, per tutti gli anni Settanta-Ottanta, si è diventati molto più cauti riguardo ai manuali

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generalisti, se ne è riconosciuta la necessità, ma si è rimasti, come impotenti, rispetto ad un discorso complessivo che riguarda insie­ me l’estetica, le poetiche, la produzione, ecc. — per citare solo alcuni, di tutti i variegati problemi che pone l’oggetto cinema. Per parafrasare lo studioso francese Pierre Sorlin, la verità è che non esiste un cinema, ma molti cinema e che ognuno, forse, abbisogna di una propria metodologia, che scaturisca anche da un’analisi di tipo antropologico. Inoltre non è da sottovalutare l’influenza del­ l’evoluzione della teoria, per una non ingenua considerazione sto­ rico-critica, che non voglia ridursi ad aneddoti e pettegolezzi o alla raccolta grezza di materiale. Il che vale soprattutto, per esem­ pio, per una ricognizione storiografica sul cinema moderno, quello segnato dalla cosiddetta “politique des auteurs”. A voler ricapitolare: l’epoca delle grandi imprese individuali, enciclopediche si è definitivamente chiuso — ma una lettura del buon vecchio Sadoul, è sempre consigliabile, se fatta con cogni­ zione di causa — quello esclusivo delle “microanalisi” segmentali esaurisce (o ha esaurito) solo parzialmente il problema, il presente sembra ricominciare dalle grandi sintesi generali: grazie alla recente moda editoriale, soprattutto italiana, della manualistica e dei repertori (sulla sceneggiatura, o su singoli generi, ecc.). Alla fine del 1998 sono state pubblicate solo nel nostro paese ben tre storie generali del cinema (tra cui La Storia del cinema e dei film di David Bordwell e Kristin Thompson), mentre a partire dal 1999 l’Einaudi, per la cura del già citato Gian Piero Brunetta, ha realiz­ zato un’imponente Storia del cinema mondiale. Senza poter entra­ re nei dettagli di questi ultimi lavori, accenniamo solo al lavoro di sintesi di David Bordwell e Kristin Thompson, che ha suscitato, a suo tempo, una certa polemica pubblicistica e che, comunque, si distingue in maniera netta dai modelli europei. La Storia del cine­ ma e dei film (in originale Film History: An Introduction, Editrice Il castoro, 2 voli.) si impone per vari aspetti non solo “esteriori”, quali un’introduzione metodologica sul compito della ricerca sto­ rica, l’equilibrata misura, il ricco corredo fotografico, gli ampi apparati bibliografici. Quella dei due studiosi americani (che già avevano firmato assieme un affermato studio sul “classicismo” hollywoodiano, mentre Bordwell da solo è noto per un libro del

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1985 sulla “Narrazione” che, pionieristicamente, applicava al cinema i modelli della psicologia cognitiva) è una Storia di conce­ zione diversa da quelle usuali, articolata, come scrivono i due autori, su tre domande di “ampia portata”, con cui si vuole limita­ re il campo di indagine: “com’è cambiato o si è normalizzato l’uso del mezzo cinematografico nel corso del tempo? Le condizioni di produzione, distribuzione e proiezione dei film come hanno influi­ to sugli usi del mezzo cinematografico? Come sono emerse ten­ denze internazionali nell’uso del mezzo cinematografico e nel mercato?” (3). Il lavoro dei due storici americani si caratterizza per almeno tre motivi: 1) per la non comune attenzione agli aspetti formali e stili­ stici del cinema, con molte pagine, più critico-analitiche che vera­ mente storiche, e con dettagliate letture anche di singole sequenze; 2) per la revisione dei valori e dei “pesi” tradizionali, con autori o tendenze gratificati di una considerazione impensabile prima di certe recenti riscoperte, mentre alcuni “classici” vengono ampia­ mente ridimensionati (un caso clamoroso, quello di David W. Griffith, di cui si riconsidera l’importanza assoluta e, a torto o a ragione, la si relativizza); 3) per i suoi “approfondimenti”, che vanno al di là di una pur aggiornata divulgazione e sono essi stessi momenti della nuova ricerca, facendo dell’opera qualcosa da cui tutti, anche gli specialisti, hanno qualcosa da imparare. Certo, l’essere Uptodate, è frutto spesso (in negativo) di mode culturali e/o (in positivo) delle frequentazioni dei Festival e delle manifestazioni specializzate (per esempio Pordenone o Bologna), che da vent’anni costituiscono il metodo migliore per (ri)leggere la Storia del Cinema. Proprio a partire da ciò, i due studiosi che sono soprattutto degli specialisti-appassionati del Muto, hanno dato il loro meglio nel primo volume. Esso dunque, anche grazie ai capitoli sui diversi Studio-System non solo hollywoodiani, ri­ sulta decisamente più solido e originale del secondo, che tratta una materia certo più vasta e dispersa ma che gli autori maneggiano con molta minore competenza (per esempio ad autori del calibro (3) David Bordwell e Kristin Thompson, La Storia del cinema e dei film, Il Castoro, Milano 1998, voi. l,pag. 16.

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di Bresson o Antonioni è riservata un’attenzione assai inferiore a quella che sarebbe lecito aspettarci).

2. Cinema d’autore o cinema di genere? Alcune precisazioni

Secondo Martin Scorsese, nel suo straordinario documentario A Personal Journey Through the American Movies (che è anche uscito anche sotto forma di volume), i generi più interessanti del cinema americano sono quelli “autoctoni”, nati all’interno del cinema americano stesso: il western innanzitutto, il poliziesco (cioè il gangster-movie) e il musical. Ma cerchiamo, prima, di chiarire qualche informazione generale sull’argomento. Noi sap­ piamo che soprattutto il cinema americano (ma anche quello giap­ ponese e molto più parzialmente quello di alcune nazionali euro­ pee soprattutto nel periodo classico: l’Ufa in Germania, la Gau­ mont in Francia), funziona da sempre in una strutturazione produttivo-linguistica per generi e ciò, soprattutto, per ragioni di capita­ lizzazione industriale (la struttura delle Majors Companies). L’af­ fermazione è ovvia, ma ad un esame più approfondito vediamo che le cose non sono così semplici come potrebbero apparire ad un primo approccio. Nel suo volume (4), Jaqueline Nacache affer­ ma che il concetto di genere non ha la stessa vastità che ha in reto­ rica e poi in letteratura, e che si avvicina piuttosto alle classifica­ zioni praticate nella letteratura popolare (poliziesco, sentimentale, fantastico, storico, ecc.). Il che non ci deve stupire dato che il cinema tende, inizialmente, ad imitare il feuilleton e la narrativa popolare ottocentesc,a avendo la stessa vocazione a rivolgersi al grande pubblico. Il genere si definisce tramite “l’obbligatorio e il proibito” (Marc Vemet citato da Nacache), cioè tramite una sorta di legge non scritta che è, insieme, inclusiva ed esclusiva: alcuni elementi devono essere necessariamente presenti (il “cappellone” nel western, ad esempio, o altri oggetti scenici caratteristici; l’ambientazione: il selvaggio west, lo spazio per la fantascienza, la metropoli per il film noir, ecc.), altri invece devono esservi assenti (4 )

Jaqueline Nacache, Il cinema classico Hollywoodiano, Le Mani, Genova, pag. 21.

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(nella commedia musicale non possono esserci morti violente, ecc.). Inoltre la serialità, la ripetizione dei cliché, cioè la ricorrenza di determinanti elementi e ingredienti, produce e consolida di film in film il verosimile (5), cioè quell’effetto di realtà — tipico e indi­ spensabile nel cinema — che ci permette di credere a determinati stereotipi, così che, ad esempio, nel western il codice d’onore dell’Eroe e il comportamento “selvaggio” degli indiani sono, almeno per tutto un periodo, fissi, immutabili e ricorrono, in maniera rituale, di film in film. Ovviamente, tali convenzioni di genere valgono sempre all’interno del genere stesso e non funzionano per altri (per esempio in una commedia è quasi impossibile che un personaggio ridicolizzato da un altro lo uccida, mentre tutto ciò è ovvio e scontato in un rissoso saloon del west). Il verosimile, quindi, diventa un elemento di forte coesione per il genere stesso e non è detto che tale verosimile rimanga immutato nel tempo che, viceversa, porta a mutare certi stereotipi (da ciò, quindi, l’evolver­ si o la sparizione dei generi stessi). Visto sulla carta, dunque, il problema sembrerebbe semplice e risolto, in effetti, però, ci accorgiamo subito che la distinzione dei generi, purtroppo, non è mai “pura” e come tale si ritrova, semmai, solo all’inizio della storia del cinema e non tiene conto né dell’evo­ luzione del genere stesso (che in fondo sarebbe il problema mino­ re), né, soprattutto, del fenomeno della “ contaminazione”. E que­ sto non solo oggi, ma anche nel passato: Duel in the Sun (Duello al sole, 1949) di King Vidor, è sì nell’ambientazione un western ma, in realtà, è soprattutto un grande melodramma; My Darling Cle­ mentine (Sfida infernale, 1946) di John Ford, ha degli inserti comici-shekeasperiani, e che dire, poi, de Heller in Pink Things (Il dia­ volo in calzolcini rosa), l’unico western nella carriera di George Cukor, ma siamo già nel 1960, con attori stranieri come Sophia Loren e prodotto dall’italiano Carlo Ponti per la Paramount. Con l’avvento del “cinema moderno”, a partire dagli anni Ses­ santa, si mettono in forse tante di quelle convenzioni (e cliché), (5) Cfr. Jacques Aumont/Alain Bergala/Michel Marie/Marc Fernet, Estetica del film, Lindau, Torino 1999, p. 102.

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che degli elementi costitutivi del genere non resta che l’ambienta­ zione e allora si arriva al cinema di oggi, dove i generi sono dei “simulacri” che non esistono in più, non hanno più regole, dato che non esiste una ragione produttiva, né quel complesso di regole e di comportamenti che lo giustificavano. I generi oggi “si cita­ no”, sono oggetto di nostalgia e di rivisitazione, hanno sì ancora una funzione di orientamento del pubblico, ma hanno perso quella loro funzione-guida (economico, linguistico-strutturale) che ave­ vano in passato, nel cinema classico. E probabile che la problema­ tica seriale sia passata armi e bagagli nella fiction tv (serial, soap opera, ecc.), ma questo è un problema che non possiamo trattare in questa sede. Se poi dal contenuto (la trama del film), passiamo alla forma, anche qui il problema del genere non si risolve: inquadrature spa­ ziose non costituiscono la caratteristica solo del western ma anche, per esempio, dei film in costume o d’azione, così come l’ambientazione chiusa e metropolitana non è appannaggio assolu­ to del poliziesco e del noir. Certo ci sono alcuni luoghi e spazi ben precisi che funzionano da indicatori assoluti: la Monument Valley per i film di John Ford, una certa New York metropolita, notturna e piovosa per il cinema gangster e il film noir, ecc. Tuttavia sono eccezioni. Secondo la Nacache, ma non ne siano completamente convinti, il metodo più sicuro “per identificare un genere consiste indubbiamente nell’analisi degli inizi del film” (dal logo della Major, ai titoli di testa, all’ambientazione, alla scaletta dei piani, ecc.): “Il metodo più sicuro per identificare il genere consiste indub­ biamente nell’analisi degli inizi dei fihn. Momento solenne in cui lo spettatore entra nel film, l’insieme dei titoli di testa e dei primi minuti della narrazione costituisce un luogo privilegiato per tutti gli indicatori di genere (6). Confrontiamo cinque film di generi molto diversi, per esempio Scandalo a Filadelfia (commedia sofisticata), Vertigine (film noir), Spettacolo di varietà (comme­ dia musicale), Spartacus (film storico), Un dollaro d’onore (we­ stern). Per alcuni, il riconoscimento comincia dal logo dello stu­ dio; in seguito le informazioni, aggiungendosi le ime alle altre, (6) Per un bilancio teorico molto completo sui titoli di testa, v. Nicole de Mourgue, Le Générique de film, Méridiens-Klincksieck, Paris 1994.

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ridurranno progressivamente il campo delle possibilità. Vi parte­ cipano la grafia dei caratteri dei titoli di testa, lo sfondo visivo scelto per questi ultimi e il loro accompagnamento musicale, l’ambientazione, la scaletta dei piani e il regime narrativo della prima scena (che è spesso una sorta di piccolo film muto), la pre­ senza o l’assenza di una voce fuori campo, ecc. La raccolta un po’ rigida di tutti questi indicatori è sorprendente per come attira potentemente l’attenzione dello spettatore sul dispositivo cinema­ tografico. In seguito, l’obiettivo consisterà viceversa nel far per­ dere allo spettatore ogni coscienza di tale dispositivo, grazie a quella fluidità narrativa che sfocia nella trasparenza hollywoodia­ na” (7).

Tuttavia, anche questi “indicatori” iniziali non ci risolvono il problema e bisognerà concludere che, in ogni caso, il concetto di genere è molto labile, anche se conserva una fondamentale impor­ tanza euristica, sia da un punto di vista storico, sia estetico. Tudor ha coniato una definizione che può servire a descrivere questa condizione di “terrain vague”: “il genere è ciò che collettivamente crediamo tale” (8). Infatti si impara moltissimo confrontando tutto un corpus di opere che si basano su un stesso codice o su un assie­ me di codici, elementi retorici e stilistici simili — cosi che noi ad esempio possiamo immediatamente valutare l’importanza innova­ tiva per il western di un film come Johnny Guitar di N. Ray, oppure conoscendo bene gli stereotipi dei film-noir abbiamo la possibilità di valutare nella loro solitaria bellezza grandi capolavo­ ri come The Maltese Falcon (Il mistero del falco, John Huston, 1941), Double Indemnity (La fiamma del peccato, Billy Wilder, 1944) o Lady in the Window (La donna del ritratto, Fritz Lang, 1944). Insomma anche con tutti i limiti che qui vi ho elencato, l’anali­ si per generi resta il “massimo comune denominatore” per studiare (ed apprezzare) la Hollywood classica, mentre si potrebbe affer­ mare che praticamente la quasi totalità dei film girati a Hollywood appartengono ai generi e che tramite i generi si è creata quello che molti studiosi (soprattutto francesi) definiscono con un macroter(7 ) (8 )

Jacqueline Nacache, op. cit., pag. 23. Citato in Lucilla Albano, La caverna dei giganti, Pratiche, Milano 1992, pag. 46.

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mine la “grande forma”. A cui fanno riferimento tutti i generi da quelli più riconoscibili per luoghi e codici (fantascienza, western, peplum, cappa e spada, ecc.) a quelli che hanno delle ramificazio­ ni molto vaste e tante sottoclassificazioni come la commedia, divi­ sa nella Hollywood classica in due sottogeneri principe: la screwball-comedy detta anche sophystiched-comedy e la slapstik-comedy; il melodramma infine costituisce un caso particolarmente complesso e a sé stante nelle sue ramificazioni (9). Come si è accennato, il sistema linguistico dei generi o quanto meno delle categorie assimilabili a questo concetto si fonda sulla premessa economica della fabbricazione del cinema a partire dal doppio registro della standardizzazione/differenziazione secondo la regola fondamentale del marketing (non sconvolgere troppo il consumatore), per dargli qualcosa di sempre diverso, ma al tempo stesso sempre uguale (e cosa c’è di meglio di offrire un genere che mantiene fissi determinati cliché e varia solo alcuni aspetti). Ricordiamo che il sistema produttivo americano, il cosiddetto Stu­ dio-System, si basava su un pugno di ditte di fabbricazioni: le cosiddette Big Five (Paramount, MGM, 20111 Century Fox, Warner Bros, e RKO acronimo di Radio Keith-Orpheum) e le Little Three (United Artists, Universal, Columbia), a cui si aggiungeva poi la Walt Disney. La principale differenza trai due gruppi stava soprat­ tutto nel fatto che le Big Five possedevano una catena di sale, le altre no. Il sistema delle Majors non era però totale: abbiamo ancora delle case di produzioni minori, “indipendenti”, specializ­ zate in film a low budget, gli studi della Poverty Row (Strada della miseria) come la Monogram (quella a cui Godard dedica A bout de souffle) oppure la Republic. Inoltre c’erano dei grandissimi produttori che possedevano un loro proprio Studio (e poi si appog­ giavano alla Major per la distribuzione) come David Selznik — Gone with the Wind, 1939, il film-simbolo per antonomasia di Hollywood è una produzione indipendente! — oppure Samuel Goldwyn che finanziavano da soli i loro film. Accanto a questi grandi “tycoon”, troviamo dei produttori minori come Walter (’) Cfr. sull’argomento: Giovanni Spagnoletti (a cura di) Lo specchio della vita, Lin­ dau, Milano 1999.

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Wanger o Hal Wallis che curavano i loro progetti dentro le Majors, oppure delle società di produzione fondate singolarmente o in gruppo da attori e/o registi (Capra, Wyler, Bogart, Ford, ecc.) per poter tutelare meglio le proprie possibilità espressive dentro la macchina hollywoodiana. Insomma il sistema era inesorabile ma possedeva dei margini di manovra. A partire dalla fine degli anni Cinquanta il sistema americano classico entra in crisi e oggi tutti gli Studios, le sigle di produzione e/o distribuzione sono parti più o meno grandi di multinazionali, molte delle quali — con grande scorno degli americani — stranie­ re (giapponesi o francesi). La Paramount, ad esempio, che nel 1966 venne acquistata dalle Gulf-Western Industries (petrolio), negli anni Novanta faceva parte della holding Viacom Entertainement (hotel, tv, videogiochi, locali notturni), mentre la Warner Brothers è parte del gruppo Time-Wamer (tv, multimedia, giorna­ li, ecc.) ma ha conservato tra tutte una struttura vecchio stampo ed aveva come socio di minoranza Clint Eastwood. Il più piccolo e specializzato dei vecchi studi, la Disney, è oggi una superpotenza multimediale che comprende la Buena Vista, la Touchstone (la divisione per gli adulti) e la Hollywood Pictures mentre ha attirato nella sua orbita la maggiore delle società indipendenti, la new­ yorkese Miramax dei fratelli Weinstein. La 20th Centhury Fox fa parte dell’impero del magnate australiano Rupert Murdoch ed è in corso un’alleanza con una nuova potenza, la “Dreamworks” una società che fa capo a Spielberg, alcuni ex-dirigenti della Disney e la Microsoft di Bill Gates. La Columbia, a cui è associato il mar­ chio Tristar, appartiene alla Sony mentre la Universal acquistata nel 1959 dalla MCA (inizialmente un’agenzia di talent-scout e di produzione di telefilm poi diventata una holding con interessi nel campo della musica, della stampa, della Coca Cola, ecc.), è stata prima ceduta ad un gruppo giapponese e poi, dopo il fallimento del piano di ristrutturazione è stata acquisita da Edgar Bronfman jr., un industriale del whisky canadese. Oggi la Major, in cui alcu­ ni potenti registi americani (Zemeckis, Pollack, Badham e Reit­ man) avevano delle importanti quote di partecipazione, appartiene alla francese Vivendi, attualmente la superpotenza mondiale nel campo dell’intrattenimento multimediale e delle tv digitali. Infine

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la MGM che è stata la più sfortunata di tutte le vecchie Compa­ nies: prima è stata rovinata dal finanziere bancarottiere italiano Parretti, poi è passata nelle mani della banca francese Credit Lionese a cui è stato affidato un risanamento mai realizzato. Le ulti­ me due Majors classiche, infine, la RKO era già fallita negli anni Cinquanta (per la precisione nel ’53 lo Studio interrompe la pro­ duzione mentre nel ’56 viene messa in liquidazione) mentre la United Artists che nel 1967 era stata inglobata dalla Transamerica Corporation (assicurazioni) ha vissuto una profonda crisi nel 1978 (quando si scinde un gruppo di manager che andranno a fon­ dare il marchio Orion) ed ha cessato di esistere dopo il clamoroso flop dei Heaven’s Gate (I cancelli dei cielo, 1980) di Micheal Cimino. Nel 1982 è stata assorbita dalla MGM, una società dal passato glorioso ma dal futuro assai incerto. Come capite da queste rapide informazioni di tipo giornalistico che rischiano di essere già superate, la situazione è in continua evoluzione e ha mutato in maniera radicale la fabbrica dei sogni hollywoodiana. Non che in passato non si fossero vissute delle crisi anche profonde — ogni Major ne ha avuta anche di devastan­ ti — ma esse venivano risolte “in casa”, con l’acquisizione di nuovi Tycoons e/o il riassetto della produzione. Dal 1959, invece, con il caso dell’Universal inizia quel processo vorticoso di assor­ bimento e di cessioni a delle holding finanziarie delle Case di pro­ duzione americane che perdono quindi quel carattere di potenti aziende familiari per trasformarsi in sigle dietro cui produrre cine­ ma (e di cui lo sfruttamento nelle sale è il business meno impor­ tante). E un cambiamento sostanziale che influisce in maniera profonda non solo sul modo di produzione ma anche sui prodotti stessi, i film. Possiamo dire a questo punto pregiudizialmente che la prima e fondamentale differenza tra l’epoca classica ed oggi è, fondamentalmente, il grande tasso di rischio della produzione — questo fattore e non quello estetico-linguistico, ha rappresentato la modernità dentro il meccanismo americano! Ma il discorso ci porterebbe molto lontano. Torniamo al nostro tema principale: il sistema e la divisione in grandi Case di produ­ zioni concorrenti ha dato vita alla specializzazione degli Studi di Hollywood anche se poi, come sappiamo, tutti hanno fatto tutto.

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Ciò nonostante, a parte il caso specifico di una Major sui generis come la Walt Disney, una volta produttrice solo di cartoni animati, la Warner si era specializzata nel film sociali e di gangster, l’Universal neH’horror, la MGM nei musical e nel dramma psicologico (i film con la Garbo, ad esempio). In un sistema all’apparenza monolitico, quasi staliniano. Possiamo, però notare ancora delle ulteriori specializzazioni all’interno degli stessi Studi con l’emer­ gere di singole personalità di producer, ognuno dei quali all’inter­ no dello Studio curava i propri progetti: per esempio Val Lewton alla RKO è l’artefice (un po’ come Selzinik per Via col vento) della serie degli undici B-movie di fantasy, a partire dal celebre e rivoluzionario Cat People (Il bacio della pantera, 1942) di Jac­ ques Toumer; oppure i musical supervisionati da Arthur Freed alla MGM e diretti da Vincent Minnelli con la coppia Gene Kelly/Stanley Donen come Meet me in S. Louis', Il pirata, Singing in the Rain, ecc.. Le distinzioni di budget (in film di serie A e i B-movie destinati alla “doppia programmazione”, tipica dell’età classica) tocca, ma solo marginalmente, i generi, anche perché c’erano delle differenze all’intemo delle stesse Major. Sempre la Jacqueline Nacache ci ricorda una battuta secondo cui un B-mo­ vie alla MGM equivaleva a un film di grosso budget in altre case “indipendenti” (e non parliamo solo di quelle della Poverty Row). Alcuni generi erano già definiti dal budget: i musical erano sem­ pre film molto costosi a causa delle imponenti scenografie mentre in ogni caso i noir erano di per sé dei B-movie, perché richiedeva­ no pochi sforzi economici (da ciò il fatto che erano spesso terreno di sperimentazione, per esempio con gli emigrati europei negli anni Quaranta): il western, infine, poteva essere di tutti i tipi. La distinzione per generi tocca ovviamente anche il personale artisti­ co — ci sono alcuni attori specializzati che si identificano, anzi possono essere considerati dei veri e propri indicatori di genere: John Wayne nel western, Humphrey Bogart o Dan Duryea nel noir, Gene Kelly nel musical, ecc. Il che vale anche per i grandi registi: Ford non ha girato solo western, ma è universalmente con­ siderato il maestro di questo genere, lo stesso vale per Billy Wil­ der re della commedia (ma ricordiamo anche i suoi film importan­ ti noir e drammatici, come La fiamma del peccato, Viale del tra­

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monto, L’asso nella manica). Haward Hawks o Fritz Lang hanno girato di tutto e soprattutto il primo ha dato il meglio di sé in generi molto diversi (commedia, western, avventura, guerra), il secondo un po’ meno, anzi decisamente di meno, perché ha lavo­ rato in produzioni minori. La crisi degli Studi, come sappiamo, con la fine della doppia programmazione {double feature), ha dato un colpo molto forte al sistema industriale dei generi (alcuni generi sono scomparsi o quasi come il musical o sono in coma profondo come il western). Ci sono poi tutta una serie di altri motivi, diciamo così extraeco­ nomici, di natura psicosociologica: ad esempio l’influenza del cinema europeo nell’esperanto del cinema hollywoodiano (e degli autori emigrati che a loro tempo avevano profondamente connota­ to il noir)\ una presunta maggiore tendenza al “realismo” del cine­ ma di oggi (cosa su cui si potrebbe discutere, vista l’importanza del fantasy nel cinema americano contemporaneo); o ancora l’im­ portanza della parodia o del metacinema “che strania lo sguardo dello spettatore al punto che questi non può più recuperare la sua ingenua adesione ai codice del genere” (10). Oggi, a parte una piccola e minoritaria corrente di pubblico affetta da cinefilia nostalgica, la situazione è che la teoria dei generi continua, rispetto al passato, a mantenere una sua logica narrativa e di identificazione per il grande pubblico (molto meno sotto l’aspetto economico), mentre gli autori e i registi americani, come si diceva, rivisitano di regola i generi (il fenomeno del metacinema). Alcuni di questi generi sono scomparsi, altri si sono tra­ sformati, altri sono diventati centrali e hanno un posto nell’empi­ reo del cinema una volta impensabile (l’horror, ad esempio, a par­ tire dal 1968). La fantascienza (o il fantahorror) hanno sostituito il western, l’ex genere par excellence del cinema americano. Se con­ sideriamo lo spazio intergalattico come il west ignoto dell’Otto­ cento, allora capirete cosa voglio dire. Che differenza c’è con il passato? La lotta tra Al Pacino e Bob De Niro per esempio in Heat (La sfida, 1995) di Michael Mann, risulta essere quella consueta

(10) Jacqueline Nacache, op. cit., pag. 32.

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di un buon vecchio western, mentre Body Heat {Brivido caldo, 1981) di Lawrence Kasdan o The Usual Suspect (I soliti sospetti, 1995) di Brian Singer sono delle rivisitazioni esplicite del noir, così come L.A. confidential di Curtis Hanson, sulla scia di China­ town di Polanski, è un altro esempio di “neonoir” (ma anche il recente film dei Fratelli Coen The man who wasn ’t there/L ’uomo che non c’era con Billy Bob Thornton il nuovo Humphrey Bogard). E poi quando in Indipendence Day il presidente degli U.S. alias Bill Pullman guida personalmente la carica degli aerei contro gli alieni cattivi, non è questa forse una riedizione tecnolo­ gicamente aggiornata del buon John Wayne che comanda la carica della leggendaria cavalleria yankie contro gli indiani?

3. La crisi della Hollywood classica

All’inizio degli anni Sessanta si attua in tutto il mondo o quasi, un generalizzato cambiamento del modo di far cinema. Esso si manifesta soprattutto con la crisi del modello hollywoodiano sim­ boleggiato dalla catastrofe economica di Cleopatra (Id., 1963, regia di Joseph L. Mankiewicz) costato 37 milioni di dollari — all’epoca una fortuna — che mandò quasi in rovina la Fox, e la quasi contemporanea nascita dei movimenti dei “nuovi cinema” nazionali: la “nova vlnà” in Cecoslovacchia, “Cinema Novo” in Brasile, lo “Junger Deutscher Film” nella RFT e negli Stati Uniti il cosidetto “New American Cinema” (che comunque, per la sua componente sperimentale e antinarrativa, può essere assimilato piuttosto ad una neoavanguardia - mentre poi molto più tardi nasce il fenomeno degli “Indipendenti” alla Scorsese, De Palma, Coppola, ecc., influenzati dall’esperienza europea). Viceversa la nostra situazione risulta molto diversa da quella di altre nazioni europee, perché l’Italia la sua rivoluzione l’aveva già fatta con il “neorealismo”. Questo mutamento generalizzato è il risultato di spinte diverse e contraddittorie, ma soprattutto di un diverso consumo cinemato­ grafico che, a sua volta — nel classico movimento ciclico della domanda e dell’offerta — promuove nuovi prodotti come un cane

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che si morde la coda: sparisce così o meglio va, piano piano, spa­ rendo, quello che gli americani chiamano il pubblico dei movie­ goers, mentre entra in crisi per motivazioni diverse il cosiddetto consumo “familiare” ed automatico del cinema a favore di una scelta selettiva (tanto per intenderci: si sceglie un film e non si va più genericamente al “cinema”, come si faceva sino agli Anni Cin­ quanta). Nell’evolversi di tale fenomeno ha un fondamentale ruolo - almeno nella stragrande maggioranza dei paesi europei — il sucesso di massa della televisione e la concorrenza che essa fa al cinema nel consumo del tempo libero. Negli USA la concorrenza tv aveva già provocato, come vedremo, dei mutamenti tecnologici all’inizio degli anni Cinquanta: il cinemascope o la fugace intro­ duzione della 3-D, per esempio, con il conseguente aumento di spettacolarità e ovviamente il lievitare alle stelle dei costi di pro­ duzione; in Europa, invece, si attua il passaggio generalizzato al colore, con via via lo sparire del bianco e nero, considerato “pove­ ro”. La concorrenza tv, così, rovina il cinema commerciale, per esempio in Germania e in Inghilterra, mentre il processo è molto più lento nei paesi latini: perciò in Italia la vera crisi del cinema inizierà alla metà degli anni Settanta, in concomitanza con la libe­ ralizzazione delle televisoni “private”. Questo processo epocale di trasformazione investe non solo il prodotto cinematografico, ma anche il luogo fisico in cui si cele­ bra il rito collettivo della fruizione filmica: la sala — il “tempio moderno a cui sacrifichiamo le immagini”, per riprendere un’e­ spressione poetica di Jean Rouch — avviando quel processo di diffusione capillare del prodotto cinema che arriva oggi alla videocassetta, a DVD e al film interattivo, in uno sviluppo tecno­ logico inarrestabile di cui è difficile oggi provvedere la portata. E adesso cerchiamo di vedere molto schematicamente, per capire questa svolta epocale che è insieme economica, estetica e teorica, di indagarne per prime le radici economiche. I motivi profondi di tale cambiamento stanno, sostanzialmente, nella crisi del più grande modello economico mondiale, cioè della Hol­ lywood classica, e con essa della sua appendice estetica, la cosi­ detta “grande forma” hollywoodiana. Il primo colpo decisivo allo Studio-System si ha alla fine degli

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anni Quaranta, quando nel 1948 (inizio della guerra fredda), una decisa azione anti-trust obbliga le Majors a separare la produzio­ ne-distribuzione dall’esercizio. In effetti, l’azione del Dipartimen­ to di Giustizia federale sembrerebbe solo un piccolezza: a parte la Columbia e l’Universal che non possedevano una propria catena di sale e quindi erano le più deboli delle case madri hollywoodia­ ne, il resto delle Majors possedevano nel complesso solo il 17% dei cinema statunitensi, ma questo 17% rappresentava però il 70% delle sale di prima visione in 92 città capozona degli States. Il che garantiva un’uscita automatica a tutti i film prodotti e quindi assi­ curava alle Majors una posizione di forza assoluta, semimonopoli­ stica, che venne profondamente intaccata dal decreto anti-trust. A questo mutamento econonomico e strutturale di non poco conto se ne aggiunge un secondo, ancora più fondamentale: la concorrenza della tv. Qui è necessario fare una rapida parentesi, dandovi qualche dato sulla storia della televisione americana. Già negli anni venti si danno delle trasmissioni e degli esperimenti di trasmissioni tv, che nel decennio successivo si intensificarono, ma nel 1939 la Federai Communications Commission (FCC) bloccò, sostanzial­ mente, l’ascesa del nuovo medium, per difendere l’allora potentis­ sima industria cinematografica, rallentando lo sviluppo della tv, che d’altronde doveva combattere con una tecnologia ancora agli esordi (negli anni Trenta la RCA aveva sviluppato un tubo catodi­ co relativamente affidabile) e una estrema rozzezza di programmi. Ciò nonostante, tre società la CBS, la NBC e la DuMont ingaggia­ rono una loro personale battaglia per lo sviluppo del medium. Dopo la fine della guerra, nel 1946, la Commissione abolì i suoi vincoli restrittivi e gli apparecchi tv entrarono in produzione di massa: il milione di apparecchi già attivi nel 1949 divennero, due anni, dopo 10 milioni. Il primo ostacolo al decollo del medium era stato superato nel 1947, con una decisione della FCC: l’alternativa b./n. o colore si concluse con la vittoria (temporanea) del bianco e nero (anche perché oggettivamente il colore era di qualità molto bassa). In realtà non si trattava tanto di uno scontro estetico, bensì di una guerra economica tra i due giganti del settore: la NBC — cioè la RCA — era a favore del bianco e nero (e, avendo fatto forti

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investimenti nell’affare, non si voleva trovare tecnologicamente arretrata rispetto alla concorrenza), mentre la CBS preferiva il colore. In ogni caso il boom della tv è inarrestabile: nel 1955 quasi 2/3 delle famiglie americane avevano un apparecchio tv, mentre alla fine del decennio (1959) si era raggiunta secondo stime della FCC un indice di saturazione del mercato dell’ 85,8%. Come ha reagito il cinema americano a quest’irresistibile ascesa? Inizialmente con altezzosità e disinteresse (così come in Italia vent’anni dopo, negli anni Sessanta-Settanta); poi, dopo una prima contrapposizione frontale senza quartiere, l’industria cine­ matografica capisce che, per sopravvivere, deve partecipare al business. Da una parte allora imposta una strategia “difensiva”, di aumento di spettacolarità del cinema, dall’altra viene a patti con la tv, sia producendo (dal 1955 in poi) in maniera generalizzata tv-movie, sia vendendo le proprie library alle catene televisive. Questo doppio movimento ha delle conseguenze incalcolabili per l’evoluzione del medium cinema e per la struttura produttiva hol­ lywoodiana. Innanzitutto c’è da segnalare il fatto simbolico fonda­ mentale che ogni Casa di produzione, alienando il proprio magaz­ zino e la propria storia (un processo già iniziato con la separazione delle sale dove un pubblico identificava un certo prodotto), vende in qualche maniera la propria “anima”, rinunziando alla gestione diretta del patrimonio della propria tradizione. Quando tutto ciò avviene, subentra, automaticamente, una crisi d’identità. A ciò si aggiunge la scoperta di un secondo mercato, quello dell’elettrodo­ mestico tv, che si pone in alternativa alla Sala, la cui importanza tende a diminuire sempre più come mercato dell’audiovisivo. Abbiamo più volte accennato al problema dell’aumento di spettacolarità: il cinema cerca di rendersi attraente dal punto di vista deH’impatto visivo, ricorrendo a tutta una serie di innova­ zioni tecnologiche. Da qui il tentativo di lanciare il cinerama (subito abbandonato per i costi stratosferici malgrado il successo), poi il 3 D ed infine il cinemascope (e in generale i formati larghi, cosiddetti wide). Solo un cenno brevissimo sul 3 D, che ha una storia sorprendentemente lunga (come il sonoro). Già nel 1926 si ha, a Los Angeles, una dimostrazione pubblica di un sistema ste­ reoscopico con un doppio schermo, che però al test risultò inac­

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cettabile per il pubblico. Contemporaneamente veniva scoperto il sistema “anaglifo” che, con degli occhialetti rossi e verdi, permet­ teva la ricomposizione tridimensionale dell’immagine: con esso si sperimentò a lungo negli anni Trenta, ma senza troppo successo, anche se era intervenuta la potente Polaroid a sviluppare un pro­ prio sistema combinato. Tutto ciò sarebbe rimasto nell’oblio della storia, se, come sempre in un’industria conservatrice com’è quella del cinema, non fosse intervenuta la crisi indotta dalla tv a stimo­ lare il cambiamento. Agli inizi degli anni Cinquanta un curioso personaggio, un semisconosciuto giornalista, misto tra inventore e sognatore, Milton Gunzman, aiutato dal fratello Julian, oftalmolo­ go, si getta anima e corpo nell’impresa di dimostrare che il siste­ ma Polaroid poteva avere un futuro. In breve, facendo debiti, rac­ cogliendo soldi in famiglia, ipotecando la casa della moglie e comprando dei brevetti, riesce a mettere a punto con la sua società Naturai Vision Corporation una cinepresa adatta all’uopo e realiz­ zare, per la regia di un cineasta indipendente e di non grande talento, Arch Oboler, uno scadente film d’avventure africane a basso costo, Bwana Devii. Il prodotto ebbe un incredibile succes­ so di pubblico e il giorno dopo Jack Warner chiamò gli inventori per mettere a punto la produzione del primo importante film a 3 D, House of Wax (La maschera di cera, 1953) per la regia del marito di Veronika Lake, il regista André De Toth. Tutta Hol­ lywood si gettò sull’affare ed anche Hitchcock girò (ma non venne commercializzata) una versione in 3 dimensioni di Dial M for Murder (Delitto perfetto, 1954). Tuttavia, malgrado la scoperta che stimolava a produrre i peggiori effettacci possibili, all’inizio del 1953 l’industria cinematografica americana lasciò cadere l’in­ venzione che, per di più, aveva diversi inconvenienti tecnici (diffi­ coltà di proiezione, l’uso degli occhialetti, ecc.). Il vero motivo risiede però, come sempre, in una questione economica: non si era disposti a dipendere dalla Polaroid e dal contratto in esclusiva di Gunzman. E così la Fox fece un atto di coraggio, investendo milioni di dollari in un’invenzione già conosciuta da parecchi anni, e malgrado le proteste degli esercenti introdusse il sistema “anamorfico” del cinemascope. Il pubblico rispose con un entu­ siasmo incredibile all’introduzione del primo wide screen, mentre

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il più complesso 3 D venne archiviato, come un fenomeno da baraccone. Malgrado l’antipatia per il cinemascope di Fritz Lang, che lo aveva definito con disprezzo il “formato per i serpenti”, e di molti altri registi americani, l’introduzione dello scope (e degli altri for­ mati “panoramici”) ha avuto degli importantissimi sviluppi nell’e­ stetica del cinema, forse non paragonabili a quella del sonoro, ma certo di fondamentale importanza. L’uso dello scope spostava l’in­ teresse drammatico dal volto (il close-up), allo spazio circostante e, tendenzialmente, indeboliva l’importanza del dialogo e del par­ lato, riducendo poi i movimenti della mdp e semplificando il mon­ taggio. Da qui l’importanza di sontuose scenografie e delle grandi masse di comparse a scapito dell’intensità del testo, da ciò il gene­ re per eccellenza nato dalla rivoluzione dello scope, il peplum. Non dobbiamo quindi stupirci che il primo film realizzato nel nuovo formato fosse The Robe (La tunica, 1953) di Henry Koster. Questa tendenza ad una sempre maggiore spettacolarità (che si accompagna ad un — più o meno conscio — ritorno a un cinema/spettacolo da baraccone come quello delle origini e forse anche ad una dimensione infantile dell’immaginario), naturalmen­ te faceva lievitare paurosamente i costi: il numero dei film dimi­ nuì, mentre l’impegno produttivo aumentava (con annesso rischio economico), tanto che il peplum fu il responsabile dell’affonda­ mento dell’industria classica hollywooodiana all’inizio degli anni Sessanta. C’è da aggiungere, poi, che l’influenza e il peso sempre maggiore della tv porterà a sovvertire quest’estetica “spettacolaristica”, degli anni Cinquanta, tanto che, alla fine del decennio suc­ cessivo, s’imporrà, invece, una tendenza “paratelevisiva”, anche se sempre contenuta. Martin Scorsese ha paragonato, con una metafora tra il poetico e il nostalgico, la fine dei pepla ultraspetta­ colari a cavallo degli anni Cinquanta con l’estinzione dei dinosau­ ri che sparirono in attesa di una nuova Era. La prima conseguenza della “rivoluzione dei formati” fu la dismissione della produzione di B-movie all’interno delle Majors, per riapparire presto sulla scena, sotto forma di telefilm — non a caso la Monogram si trasformò in una ditta di produzione tv negli anni Sessanta.

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Nella ricerca di riconquistare un proprio pubblico, il cinema americano degli anni Cinquanta virò verso la ricerca di forti sen­ sazioni (sesso, droga e violenza), forzando così contenuti e costu­ mi consacrati dal cosiddetto “Production Code” (il codice di auto­ regolamentazione dell’industria cinematografica nato negli anni Trenta), detto anche Codice Hays dal nome personaggio politico repubblicano William Harrinson Hays che diresse con implacabile fermezza sino alla sua morte nel 1954 l’ufficio preposto a questo scopo. Il primo grande colpo al codice di autocensura dell’indu­ stria americana lo diede “il tedesco di Hollywood”, Otto Premin­ ger, prima facendo uscire The Moon is blue (La vergine sul tetto, 1953) senza visto di censura e poi parlando apertamente di droga nel successivo The Man with the Golden Arm (L’uomo dal braccio d’oro, 1955). Il tabù del sesso — altro caposaldo del Codice Hays — venne apertamente infranto nel 1959, con la trascrizione cine­ matografica del celebre dramma di Tennessee Williams Suddently, Last Summer (Improvvisamente l’estate scorsa) ad opera di Joseph L. Mankiewicz. Questi film diedero il definitivo colpo di grazia al sistema del “Production Code”, che venne abrogato da lì a poco, nella seconda metà degli ani Sessanta.

4. La nascita del cinema moderno

Ed adesso per chiudere il cerchio, dopo aver affrontato la crisi economico-estetica degli anni Cinquanta, dobbiamo affrontare il retroterra teorico da cui nasce il cosiddetto “cinema moderno”, quello delle “Nouvelle vague”. Per capire a fondo la crisi del cine­ ma classico e in particolare quello americano, dobbiamo accenna­ re alle teorie del realismo e in particolare soffermarci sull’opera del critico francese André Bazin (n. 1918 e morto prematuramente nel 1958), in assoluto uno dei più fertili teorici del cinema. Se è vero (com’è vero) che “un’arte non è mai diventata grande arte senza teoria”, come afferma il teorico ungherese Béla Balàzc, ciò vale a maggior ragione per il cinema moderno e la “Nouvelle vague” che è stato il più radicale dei movimenti che hanno dato una spallata al modello classico.

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Secondo Francesco Casetti, nel suo fondamentale volume Teo­ rie del cinema 1945 1990, il 1945, cioè la fine della 11° guerra mondiale, segna anche la conclusione di un’epoca e da allora si data la rottura epistemologica delle teorie del realismo. Facciamo a questo punto un salto indietro accennando, in una rapidissima sintesi, i problemi teorici prima del 1945: per le teorie classiche, quelle dette “purovisibiliste” o per i teorici del montaggio e dell’a­ vanguardia durante il muto, il problema stava — per riuscire a sta­ tuire il cinema come Arte — di allontanarlo dalla riproduzione della realtà tramite la stilizzazione e/o il montaggio simbolico o delle attrazioni. Quando, però, avviene la rivoluzione del sonoro, la parola toma di necessità a rafforzare in maniera decisiva l’illu­ sione realistica, mettendo in crisi profonda il linguaggio metafori­ co delle immagini formatosi nel muto. Perché allora questa data, il 1945? Secondo Casetti si prende il ’45 come momento di cesura nella storia delle teoriche sul cinema perché, in questa data, si avverano tre precondizioni: “l’accettazione del cinema come fatto di cultura, la specializzazione degli interventi [che significa: nasci­ ta di varie discipline come la filmologia e la conseguente specia­ lizzazione del sapere con la conseguenza caduta della figura dell’artista-teorico] e l’internazionalizzazione del dibattito” (n) Per Barbera/Turigliatto, poi, l’esperienza della guerra segna, da una parte l’emergere della tv (nata negli anni Trenta ma il cui sviluppo tecnologico e diffusione vennero ritardate, come sappiamo, sino alla fine della 11° guerra mondiale) e dall’altra dalla riqualificazio­ ne di modelli nazionali, pur rimanendo l’egemonia del modello di produzione cosmopolita di Hollywood (12). Volendo quindi fare una prima grande semplificazione, la storia del cinema è caratterizzata da due movimenti antagonisti: quello delle cinematografie nazionali europee che si caratterizza come un modello implosivo e d’autore, e quello cosmopolita di Hollywood che è esplosivo, diretto verso l’esterno e di massa (o “imperiali­ sta” a seconda dei punti di vista). Il prototipo della prima tendenza è il neorealismo italiano, che aprirà la strada prima al Free Cine(“) Francesco Casetti, Teorie del cinema 1945-90, Bompiani, Milano 1993, pag. 11. (12) Cfr. Alberto Barbera/Roberto Turigliatto, Leggere il cinema, Mondadori, Milano 1978, p. 280.

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ma inglese e poi subito dopo alla “Nouvelle vague” francese e di conseguenza a tutti i vari movimenti che seguiranno. Semplificando al massimo, diciamo che, in consonanza con l’e­ mergere della scuola italiana neorealistica, si assiste ad una ripresa degli interessi teorici in direzione del realismo, tanto è vero che diversi spunti André Bazin li muterà proprio dalla sua analisi delle opere del neorealismo, un terreno, questo, su cui i suoi “allievi” della rivista “Cahiers du Cinéma” lo seguiranno poco, perché molto più attratti dal cinema americano - il solo Roberto Rosselli­ ni rimarrà un maestro indiscusso per i “giovani turchi” dei CdC. Sono dunque i grandi film del neorealismo — da Roma città aper­ ta, Paisà, La terra trema in poi — a sollecitare tale riflessione. Con l’avvertenza che il neorealismo, benché nato a stretto contatto con gli intellettuali della rivista “Cinema” (Antonioni, De Santis, Pietrangeli, Lizzani, ecc.), e quindi da critici passati alla regia, darà vita a delle teorie solo dopo e non prima la pratica cinemato­ grafica a differenza della “Nouvelle vague” sorta, invece, da una costruzione teorica precedente. Dobbiamo però aggiungere una precisazione. Ovviamente le teorie del realismo nel cinema non nascono d’amblé alla metà degli anni Quaranta con le opere del neorealismo, già sussistevano dai tempi del muto, ma esse, proprio a partire dal 1945, non riguardano più una questione di stile (il realismo = uno stile diver­ so, antitetico per esempio all’espressionismo) ma aderiscono, ven­ gono messe in diretto contatto con il medium cinema in sé, con la sua base fotografica. Immediatamente connessa a questa intuizio­ ne, ne consegue una seconda e cioè che la dimensione riproduttiva diventa allora un momento forte di argomentazione teorica: il cinema non deve più occultare, nascondere la sua base realistica tramite l’intervento, idealisticamente inteso, del creatore (l’Arti­ sta) bensì la deve evidenziare. Si rovescia allora proprio l’impo­ stazione tipica degli anni Trenta che aveva, sulla scia delle teorie dell’avanguardia o purovisibiliste del muto, teso a evidenziare la distanza tra cinema e realtà (cinema = arte non-naturalistica). Viceversa in tutte le varianti dell’impostazione realistica nel dopoguerra si parte proprio dalla riacquisizione della base fotografica-realistica del cinema. Il che vale tanto per il neorealismo ita­

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liano (nella doppia versione: quella “utopistica” di Cesare Zavattini con la celeberrima “estetica del pedinamento”, sia quella di Gui­ do Aristarco derivata da suggestioni lukacsiane, “la poetica della ricostruzione” costruita sull’opera di Luchino Visconti), tanto per il tedesco Siegfried Kracauer (Ritorno alla realtà filmica), che per stesso André Bazin. A tutte queste nuove teorie “realistiche” è comune, lo ripetiamo, l’accentuazione del carattere riproduttivo (e non solo creativo) del cinema, la sua base fotografica. La rottura epistemologica del 1945 parte, dunque, da una con­ testazione profonda delle teorie “generaliste” e “totalizzanti” ela­ borate durante il periodo del muto e che poi negli anni Trenta si erano pigramente adattate al sonoro, senza voler riconoscere che la riconquista del suono e della parola poneva il cinema in una condizione completamente nuova. Perciò il maggior teorico dello “specifico filmico”, Rudolf Amheim, l’autore del Film als Kunst (Il film come arte, 1932) nega qualunque sviluppo tecnologico al cinema, dato che l’arte è astrazione formale e qualunque perfezio­ namento nell’imitazione meccanica costituisce — sono sue parole — “una resa alla realtà quotidiana”. Viceversa, dal 1945 in poi, le teorie realiste non si riferiscono più ad un momento formale, di stile, ma aderiscono, in quanto tali, al medium cinema, alla sua base fotografica come si diceva. Intrinsecamente connessa a questa intuizione ne consegue che la dimensione riproduttiva del film diventa, allora, un momento forte di argomentazione teorica: il cinema non deve più occultare, nascondere la sua base realistico-fotografica bensì la deve eviden­ ziare. Si capovolge allora l’impostazione precedente che, sulla scia delle teorie dell’avanguardia e “purovisibiliste”, aveva teso a evidenziare la distanza tra cinema e realtà. A questo totale capovolgimento di ottica (cinema = arte della realtà) si aggiunge in André Bazin una mutazione di campo teori­ co, che lo allontana ancora di più dalle teorie classiche “generali­ ste”. In linea con la cultura fenomenologica a lui contemporanea (l’insegnamento di Husserl e Merleau-Ponty ma anche, in parte, quelle dell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre), Bazin non vuole partire da un’idea normativa del cinema, bensì mira ad un progetto teorico che descriva ed interpreti ciò che è il cinema, perché, come

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afferma “l’esistenza del cinema precede la sua essenza”. Il vantag­ gio delle teoria ontologica di Bazin è quella di essere interna (come la stilistica di Leo Spitzer nella teoria letteraria) al suo oggetto: il cinema si spiega a partire dal cinema. Dunque il grande merito del critico francese e della sua “rivoluzione copernicana” —come l’ha definita un suo grande allievo, il futuro cineasta Eric Rohmer — consiste nell’aver intuito, per primo, la non-normatività delle teorie desunte dal muto (e quindi, per esempio, di aver totalmente accantonato il problema dello specifico fìlmico), per rivolgersi direttamente al medium e alle sue sollecitazioni nei con­ fronti della realtà, anticipando quindi quel bisogno di realtà di cui si parlato. Senza poter approfondire più di tanto le teoria di Bazin, citiamo Casetti: “Basterà ricordare da un lato l’influenza su Bazin di un certo cattolicesimo inquieto francese (da Legaut a Esprit), la sua distanza daW engagement sartriano (con il rifiuto di un’arte “utile”, e utile soprattutto per i suoi contenuti: in particolare con­ tro Sadoul) e la sua prossimità alla fenomenologia (ad esempio nella versione proposta da Maurice Merleau-Ponty). Dall’altro lato, basterà citare l’attività di animazione e di promozione con­ dotta lungo tutta la vita che lo porta a partecipare al movimento dei cineclub, a non risparmiarsi nell’attività di scrittura e a pro­ muovere i Cainers du cinéma con cui “alleva” ima nuova genera­ zione di critici e di cineasti. Ma al di là di questi dati, peraltro utili per capire il quadro in cui Bazin si muove, resta appunto un’idea di fondo che si riaffaccia ad ogni occasione: l’idea cioè che il cinema, prima ancora di rappresentare la realtà, vi parteci­ pa al punto da riproporne tutto lo spessore e la consistenza? da liberarne il senso nascosto, da mostrarne gli interni trasalimenti, in una parola da esibirne l’essenza. Il realismo ontologico di Bazin consiste proprio in questo sogno di “comunione” e insieme di “verità”. Teoria straordinaria nel cogliere alcuni dei meccanismi fondamentali del cinema, o alcuni dei suoi motivi di fascino: l’intima persuasività di molte delle sue iimnagini, l’immediatezza e la pregnanza di quanto appare sullo schermo, l’adesione spontanea a ciò che appare alla vista. Teoria che esercita un’influenza determinante su tutto il pensiero cinematografico del dopoguerra. Teoria infine che parte da esperienze marginali o anomale per segnalare un bisogno ricorrente che di li a poco riemergerà con prepotenza.

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Chiariamo questo punto, per concludere. Bazin, cercando degli esempi a quanto andava dicendo in opere marginali rispetto al cinema dominante (il neorealismo, ma anche film etnografici, per ragazzi, scientifici ecc., oltre ai capolavori di Renoir-, De Sica, Wyler, Welles, riletti però in modo spesso volutamente parziale) parlava di qualcosa che al limite non esisteva se non come ten­ denza necessaria ma sotterranea, o come ipotesi ancora tutta da sfruttare. Il suo sogno insomma coglieva bene l’essenza del cine­ ma, ma non trovava troppi riscontri nei film concretamente pro­ dotti. Situazione ricorrente nella teoria del dopoguerra, come abbiamo detto. Eppure questo qualcosa cui Bazin guardava esplo­ derà di lì a poco, nelle esperienze del cinema verità, nell’impiego delle tecniche “leggere” come 1’8 o il 16 mm, nel video, e più in generale, in tutti quei momenti, tipici degli ultimi decenni, che hanno cercato di sorprendere la realtà più da vicino, che hanno cercato di coglierla “sul fatto”. Dunque uno sguardo preveggente, o una sensibilità rabdomantica: in pieno cinema classico Bazin ne vede i punti incande­ scenti e insieme i sintomi di un imminente rinnovamento; e si prepara cosi all’appuntamento con ciò che la morte prematura gli avrebbe impedito di incontrare, quel bisogno di sciogliersi nel flusso della vita che è uno dei tratti forti del cinema moder­ no’^13).

Se dunque, per Bazin, il cinema è una “finestra aperta sul mondo” (frase pronunziata a proposito di Roberto Rossellini), allora “il cinema non mostra o dimostra bensì rivela”, per ricorda­ re un’altra sua celebre affermazione. Cosa vuol dire? Certo il ter­ mine “rivelazione” è abbastanza ambiguo e di sicuro era connota­ to dal critico francese — viste le sue origini culturali — in senso spiritualista come gli è stato spesso rimproverato da parte marxista (dal grande storico francese Georges Sadoul, ad esempio), ma è necessario intendere tale termine nella sua accezione più estensi­ va, e cioè in una chiave fotografico-chimica: la realtà ci fa vedere i suoi significati latenti e molteplici, “ambigui” nel senso semanti­ co della parola e la macchina da presa nel riprendere meccanicamente lo spettacolo esibisce allora un quid in più. Questo è un primo punto fondamentale, a cui ne segue un secondo: Bazin con­ clude Ontologia dell’immagine fotografica, un suo fondamentale (*’) Francesco Casetti, op. cit., pp. 37-38.

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saggio del 1945, profondamente influenzato dall’insegnamento di Henri Bergson oltre che dalla fenomenologia, con una frase ina­ spettata e lapidaria affermando seccamente e senza spiegazioni: “D’altra parte il cinema è un linguaggio”. Ciò significa che se il cinema è un linguaggio e non solo una meccanica “finestra sul mondo”, una Ontologia, allora sarà necessario accordare la sog­ gettività, lo stile dell’artista alle esigenze ontologiche del mezzo. Ciò fa sì, come è stato scritto, che il cinema “permette di vedere ciò che lo spettatore non può distinguere ad occhio nudo [...] per­ ché il suo spirito preseleziona la propria visione nella situazione data” (14). La “mise en scéne”, per Bazin “consiste in un esercizio dello sguardo conforme alla vocazione del cinema, alla sua specificità, all’intenzione e al sogno che hanno presieduto alla sua invenzio­ ne” (15). Da ciò l’antipatia di Bazin per i trucchi, per il montaggio sovietico o per la sceneggiatura psicologizzante della tradizione francese. Lo scarto tra il momento soggettivo dell’artista e la rive­ lazione dell’intima natura del medium cinema, che talvolta è stato inteso come una contraddizione nel pensiero baziniano, permette che l’analisi puntuale dei grandi momenti della storia del cinema accompagna il riconoscimento oggettivo “ontologico” della fun­ zione stessa del medium. Il cinema si scopre nel suo divenire e si attrezza al nuovo con “l’ascesa dei mezzi” (la mdp che va in stra­ da e l’attore non-professionista nel neorealismo; profondità di campo e piano sequenza nel cinema americano; le innovazioni tecnologiche “leggere” negli anni Cinquanta, ecc.). Bazin avvierà allora una proficua lettura della storia del cinema, per ritrovare quei momenti utili con una lettura “tagliata”, atta a confortare le sue intuizioni teoriche. Da qui la battaglia per un “cinema impuro” che, a differenza di quanto si pensava in epoca classica, ricerchi proficui rapporti di scambio con la letteratura e il teatro, e poi le varie analisi del decoupage classico hollywoodiano, con la distin­ zione tra registi dell’immagine e quelli della realtà (Murnau, Stroheim, Dreyer), e la valorizzazione di nuovi strumenti visivi (14) Joèl Magny, Dalla “earnera-stylo ” alla Nouvelle vague in Roberto Turigliatto (a cura di), Nouvelle vague, Lindau, Torino 1995, p. 24. (15) Ivi.

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quali la profondità di campo e il piano sequenza (le sue analisi a proposito di Orson Welles e William Wyler). Coerentemente con tutta quest’impostazione, che abbiamo rias­ sunto in pillole, tramite la sua “rivoluzione copernicana”, André Bazin sviluppa allora l’idea che il cinema non è tanto un medium, bensì uno strumento di conoscenza che non gradisce qualsivoglia analisi aprioristica sul mondo. Da un complesso d’intuizioni nate non in modo sistematico, deriva che l’idea di realismo di Bazin non è affatto ingenua o documentaria, né tanto meno statica, visto che il cinema (con i suoi autori) trova al suo interno la capacità di rinnovarsi. Il realismo allora non si scopre semplicemente per strada (neanche nel senso letterale), ma va costruito e decostruito un po’ come facevano una volta le estetiche avanguardistiche del formalismo russo. Accanto al ritorno al realismo, l’altro puntello fondamentale del cinema moderno è stato la “politica degli autori” — termine oggi molto logoro, ma che negli anni Cinquanta aveva una fonda­ mentale importanza di battaglia teorica. Il primo testo in cui si ritrova una compiuta, ma ancora acerba formulazione della “poli­ tica degli autori” è quello di Alexander Astruc Nascita di una nuova avanguardia: la camera-stylo (1948), un testo (16) che rac­ coglie e condensa le idee dell’epoca comuni a molti giovani critici e cinefili, i quali trovavano nel cinema americano una linfa di ispi­ razione. Esso ruota intorno a due nozioni fondamentali che si irra­ diano sino oggi: e cioè, non soltanto la nozione di “autore-regi­ sta”, e l’idea di “cinema-scrittura”, ma anche l’intuizione della moltiplicazione dei cinema (non esiste più un solo cinema!) e la constatazione dell’emergere delle tecniche leggere (16 mm e tv) — insomma sono qui condensate in nuce tutte le idee principali del cinema moderno e della “Nouvelle vague”. Il secondo, fondamentale testo teorico che fonda la “politica degli autori” è il pamphlet di Francois Truffaut: Una certa tenden­ za del cinema francese pubblicato dopo una lunga gestazione sul n. 3Idei “Cahiers du Cinéma”, (gennaio 1954), un testo per l’epo­ ca di “lesa maestà”. Apparentemente qui il futuro regista compie (16)

In appendice, pag. 123.

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un attacco personale a due sceneggiatori, Jean Aurenche e Pierre Bost, ma il suo scopo non è quello di un attacco personale. In realtà, come già chiarisce il titolo del saggio, si vuole mirare più in alto, per dichiarare l’impossibilità di una “coesistenza pacifica” tra cinema d’autore e tradizione di qualità, partendo dall’idea che esiste un altro, diverso modo di far cinema rispetto alla tradizione e che questo modo preveda una strettissima unione di compiti, per cui regista e sceneggiatore sono un tutt’uno, nella figura dell’Autore. La definitiva e compiuta consacrazione delle idee portate avan­ ti dai “giovani turchi” sui “Cahiers du Cinéma” la possiamo trova­ re in un altro testo fondamentale di Truffaut II cinema francese muore sotto le false leggende (su “Arts” maggio 1957) che riassu­ me in modo esemplare le idee sul cinema d’autore — articolo tal­ mente importante per i rivoluzionari dei CdC che Godard ce lo mostra in uno dei suoi primi cm, il terzo per l’esattezza, Tout le garcons s’appellent Patrick (1957). Qui (17) si affrontano il problema della regia, della produzione, dell’attore, del low budget, della recitazione, in un conglomerato che è ormai diventato un tutto coerente: è il nuovo cinema. L’intervento di Truffaut è, dunque, a tutto campo e costituirà la base pratica delle idee su cui si formeranno le prime produzioni della “Nouvelle vague”, dopo di cui ognuno dei giovani registi svilupperà una propria poetica personale. E questo patrimonio rap­ presenterà rispetto al passato un modo assolutamente diverso di fare cinema che oggi sembra scontato, ma all’epoca, invece, non lo era affatto. Esso si basa, tra l’altro, su una serie di punti che potremmo riassumere in: autorialità, gusto per l’imperfezione, amore per la verità, cinefilia e uno stretto rapporto tra arte e vita, tutti aspetti decisivi del cinema moderno (18), di quella “rivoluzio-

(17) In appendice, pag. 128. (18) Sarà comunque necessario ricordare che il cinema è di per sé moderno e che il concetto di moderno non è tanto e solo una distinzione storico-cronologica ma è soprat­ tutto formale: il moderno, cioè, è esistito in tutte le epoche, basta scoprirlo. Cfr. su tutta questa problematica: Giorgio de Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Milano 1993 (in particolare i primi tre capitoli).

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ne copernicana” dove si passa, per usare un efficace slogan, “dal set come mondo, al mondo come set”. La trasformazione del cinema moderno ha trovato nella “Nouvelle vague” francese un primo grande momento di realizzazione, che poi nel Nuovo Cinema Tedesco e in altri movimenti si svilup­ perà ulteriormente. Si tratta di un fenomeno complessivo, totaliz­ zante in cui possiamo identificare per lo meno tre ambiti distinti ma interdipendenti: 1) un aspetto teorico e di interpretazione del cinema (la teoria del “cinema d’autore” per esempio); 2) un aspet­ to produttivo dovuto all’uso di troupe leggere, del 16 mm e legato all’introduzione di alcune innovazioni tecnologiche (il registratore Nagra che ha consentito il suono in presa diretta, quasi impossibi­ le per esempio ai tempi del neoralismo ecc.); 3) un aspetto “esteti­ co” che crea nuovi modi di professionalità e che implica un diver­ so modo di affrontare la sceneggiatura, la luce, il suono e la recita­ zione. E con ciò parliamo solo del cinema di finzione. Ma se allunghiamo il tiro a tutto il complesso della pellicola impressio­ nabile, dovremmo aggiungere che il cinema-diretto, il cinema-ve­ rità e il cinema etnografico, hanno degli strettissimi legami con l’emergere del cinema moderno e dei movimenti legati all’esem­ pio della “Nouvelle vague”. Ma approfondire il discorso, ci porte­ rebbe troppo in là e quindi chiudiamo qui questa nostra prima parte introduttivo-didattica.

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Il nuovo cinema tedesco 1. La situazione della RFT (e il problema delle due Germa­ nie) in un lungo dopoguerra: 1949-1962

Oggi è quasi sorprendente constatare con quale velocità, a partire dalla riforma monetaria del 1948, si realizzò nella Germania occi­ dentale il miracolo economico, si ricostruirono le città distrutte e si integrarono gli otto milioni di profughi dai territori orientali. Ma tutto ciò venne pagato a caro prezzo: con l’abbandono di ogni seria “denazzificazione”, l’impostazione del problema della riuni­ ficazione soltanto in termini revanscisti, il riarmo e una marcata politica di guerra fredda. Così non appena vinte le elezioni nel 1949 il cancelliere cristiano-democratico Konrad Adenauer pote­ va dichiarare che la RFT con allora 45 milioni di abitanti era “l’u­ nica organizzazione statale legittima del popolo tedesco”. I “tristi” anni Cinquanta si caratterizzano, dunque, come un periodo dove la parola libertà è sinonimo di tenore di vita, dove l’elaborazione del passato nazista si trasforma nella sua rimozione, è l’epoca insom­ ma di quegli interni dignitosi ma squallidi, di quell’ignavia morale così ben fotografata da Rainer Werner Fassbinder parecchi anni dopo. La velocità con cui si propaga l’entusiasmo da miracolo economico è pari solo a quella con cui il cinema tedesco-federale si ristruttura, quasi cancellando con un tratto di penna quel poco di nuovo che aveva espresso nei Trummerjahre, negli “anni delle macerie”. Così le problematiche vagamente impegnate e uno stile vagamente “neorealista” elaborato nell’immediato dopoguerra saranno ripresi con ancora minor forza e coraggio dai cosiddetti Problemfilme degli anni Cinquanta, spesso ricorrendo alla forma cabarettistica, l’unico luogo istituzionale per lungo tempo nella RFT a poter svolgere critica o sperimentazione. La produzione del 1949 (59 titoli), già triplicatasi rispetto ai 22 dell’annata precedente, segnala una sintomatica inversione di

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tendenza tra drammi d’attualità e film d’intrattenimento e cre­ scerà esponenzialmente, per raggiungere la cifra record di 128 film nel 1955 (ma anche calare lentamente a 94 alla fine del decennio). Sono dunque anni di “vacche grasse” per l’industria cinematografica della RFT che, con la sua merce, occupava una quota di mercato mai inferiore al 47% (USA circa 30%). Tuttavia la produzione soffriva del fenomeno della segmentazione e della scarsezza di capitali, malgrado le privatizzazioni (i beni dell’Ufa restati in occidente) e gli interventi governativi, e ciò la spingeva non solo dal punto di vista ideologico a sposare un atteggiamento intrinsecamente conservatore, a basarsi su prodotti “sicuri” e ultracollaudati (ciò chiarisce, ad esempio, la ferrea codificazione in generi popolari e l’abbondanza estrema di remake dei successi del passato). In più era un cinema fatto, senza quasi ricambio generazionale, dai cineasti degli anni Trenta, tra cui si ritrovano poi parecchi personaggi compromessi con il regime nazista. Per questo e tanti altri motivi il momento d’oro, economicamente parlando, della cinematografia tedesco-federale verrà a coincide­ re con il suo punto più basso, sia da un punto di vista progettuale che artistico. Tra tutti i generi popolari frequentati dal cinema dell’Era Ade­ nauer (melodrammi, film di medici, di guerra, commedie, ecc.) l’Heimatfìlm ne rappresenta il fenomeno più originale (nel senso dell’unicità) e tipico. Letterariamente esso affonda le radici nella tradizione strapaesana e popolare di fine Ottocento, spaziante dal “Volkstheater” ad Anzengruber, da scrittori meridional-montagnardi come Ganghofer (una vera miniera: filmato non meno di 33 volte), alla corrente reazionaria della cosiddetta “Heimatkunst”; dal punto di vista cinematografico, invece, i modelli vengono presi a prestito dal melodramma e, per i paesaggi, dal Bergfìlm d’età weimariana, altro genere specificamente tedesco. Gli intrecci variano all’infinito la storia di un bracconiere convertito dall’amo­ re di una donna, ovvero della sua tragica fine; di un’eredità conte­ stata; di un figlio illegittimo, infine riconosciuto dalla famiglia; di un povero orfano che fa fortuna; di una bella e giovane ragazza che ama il figlio del contadino ricco; di un cittadino che arriva in paese, ecc. I film sono ambientati il più delle volte in Baviera e in

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paesaggi alpini ma anche nella Foresta Nera, in Renania o nella brughiera del nord. Il via a questi fotoromanzi cinematografici (più di 1/5 della produzione complessiva) viene con Bergkristall {Caino!, Austria/RFT, 1949) di Harald Reinl, ma la moda conta­ giosa si scatena e raggiunge il culmine nella stagione 1951-52, mentre alla metà degli anni Cinquanta cominciano a mostrarsi i primi segnali di rigetto nel pur paziente pubblico della RFT, che culmineranno poi, con l’improvviso decesso dell’Heimatfìlm alla fine del decennio. Anche le inevitabili e piatte riduzioni di opere letterarie (da Thomas Mann, Gerhard Hauptmann e Erich Kastner in primis), pensate per una borghesia “colta” che viceversa disprezzava il cinema, furono la foglia di fico di una cinematografia che sembra­ va essersi presa una “vacanza dalla Storia” o era semiparalizzata da un profondo conformismo. A quest’atmosfera di imbambolamento si reagiva con pochi tentativi di raccontare la storia recente: da Canaris {id., 1954) di Alfred Weidemann a Der 20. Juli {Ope­ razione Walkiria, 1955) di Falk Hamack (n. 1913) e Es geschah am 20. Juli {Accadde il 20 luglio, 1955) di Georg Wilhelm Pabst — entrambi sull’attentato di Stauffenberg a Hitler — da Der letzte Akt {L’ultimo atto, 1955) sempre di Pabst a Des Teufels General {Il generale del diavolo, 1955, con Curd Jiirgens), di Kàutner. Anche a non accettare la “ personalizzazione” biografica della Storia, secondo una linea molto amata dalla tradizione del cinema tedesco, tutti i film citati, e in particolare II generale del diavolo, sembrano conservare, ad anni di distanza, una loro validità cine­ matografica, se non altro per il buono standard produttivo ed inter­ pretativo, quello di una “tradizione di qualità” che affondava le radici in un lontano passato. I pregi (pochi) e i difetti (molti) del cinema d’autore dell’era Adenauer, risaltano anche nelle singole carriere dei maggiori regi­ sti dell’epoca: Helmut Kàutner e Wolfgang Staudte. L’indubbio talento del primo si evolve nel dopoguerra, in una poliedrica ma discontinua carriera, verso un umanitarismo astratto e un po’ lezioso, particolarmente evidente quando il regista si deve con­ frontare con tematiche politiche. A Staudte, invece, dopo una serie di opere ragguardevoli realizzate nella RDT, non giova il passag­

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gio, nel 1956, in occidente. Costretto a barcamenarsi tra esigenze commerciali ed impegno civile, il “regista delle due Germanie” riprendendo ancora una volta il tema dell’opportunismo dei propri connazionali, riuscirà a realizzare a fine decennio, oltre a diverse prove minori, due film degni di nota: Rosen fiir den Staatsanwalt (Rose per il procuratore, 1959) e Kirmes (Storia dì un disertore, 1960). Un capitolo a parte è costituito, poi, dal ritorno in patria dall’e­ migrazione forzata di tutta una serie d’importanti attori e registi già attivi nel cinema tedesco prima dell’avvento di Hitler. Il senso di disagio di chi rientrava in patria dopo il “dodicennio nero”, venendo accolto con indifferenza se non con ostilità, venne espresso da un film autobiografico scritto e interpretato da Fritz Kortner, Der Ruf (Il grido, 1949 regia di Josef von Baky). Ma la più bella e violenta resa di conti con tale condizione la compie due anni dopo, in moduli espressionistici, l’attore Peter Lorre, con l’u­ nica sua prova dietro la macchina da presa, Der Verlorene (L’uo­ mo perduto, 1951). Nella parabola di un assassino psicopatico da lui stesso interpretato, che alla fine troverà la forza di eliminare chi lo ha condotto a quella situazione, si può leggere non soltanto la ripresa di echi del capolavoro langhiano M (id., 1931) ma anche una personale riflessione, ricca di fini notazioni psicologiche, sul destino di una generazione stretta tra omicidio e suicidio — un film profetico, ma già “inattuale” quando esce con scarso successo nella RFT. Mentre Billy Wilder, allora astro in ascesa nel cinema america­ no, toltasi la divisa dell’esercito USA, continuò a lavorare a Hol­ lywood, diverso è il caso di due autori come Robert Siodmak e Fritz Lang, in qualche maniera “bruciati” oltreoceano. Il primo, come ha scritto nelle proprie memorie, è orgoglioso di soli due film, fra quelli realizzati nella terza fase della sua carriera: Die Ratten (I topi, 1955, dal dramma di Gerhard Hauptmann) e Nachts, wenn der Teufel kam (Ordine segreto del III Reich, 1957), forse il più forte dei Problemfilme dell’epoca, un giallo a sfondo politico dove si toma a gustare il tocco del maestro del “noir”. Lang, invece, che diventerà una figura di culto per i futuri cineasti dello “Junger Deutscher Film” (Giovane Cinema Tedesco, JDF)

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girerà per il “CCC-Film” di Arthur Brauner tre interessanti, ma poco apprezzati film di genere, con cui tornava alle origini del suo cinema: il dittico Der Tiger von Eschnapur/Das indische Grabmal {La tigre di Eschnapur e II sepolcro indiano, 1958/59; remake del­ l’opera di Joe May, da lui sceneggiata nel 1921), e la terza parte della saga del Dottor Mabuse, Die Tausend Augen des Dr. Mabuse {Il diabolico Dottor Mabuse, 1960), profetico e cifrato canto del cigno rivolto all’incombere dell’era televisiva. Ma a parte questi casi, o quello dell’ultimo Pabst o del Max Ophuls dello splendido Lola Montès {Id., 1955, realizzato in coproduzione con la Fran­ cia), riguardo alla qualità del lavoro degli altri numerosi registi reimmigrati sarà meglio stendere un velo di silenzio. Una delle maggiori colpe del cinema commerciale dell’Era Adenuaer è quella di non aver prodotto, al suo interno, quel ricam­ bio generazionale che sarebbe stato necessario. Le poche eccezio­ ni confermano la regola. Del 1959 è un film di guerra caratterizza­ to da un asciutto pathos nella messa in scena, Die Briìcke {Il ponte), che rompe con i cliché conciliatori in voga all’epoca. A dirigere quest’opera seconda troviamo un attore/regista, svizzero ma formatosi a Vienna e Berlino, Bernhard Wicki, che con questo film contribuirà a rilanciare intemazionalmente l’immagine della RFT e in patria quella di un cinema giovane e indipendente. Forse la carriera successiva di Wicki, come quella di altri potenziali autori come Georg Tressler, sarebbe stata diversa da un onesto lavoro in televisione, se l’industria cinematografica tedesco-occi­ dentale non avesse intrapreso alla fine degli anni Cinquanta una lenta ma suicida politica di “autoaffondamento”. Salutare sarà quindi la vigorosa spallata di una nuova generazione di outsiders, che porteranno un vento nuovo, e inizieranno un tipo di cinema completamente diverso da quello commerciale. Ma a parte le novità segnalate da II ponte e da pochissimo altro, all’inizio degli anni Sessanta il cinema tedesco comincia a entrare drammaticamente in crisi, non solo dal punto di vista qua­ litativo ma anche da quello economico. Infatti a partire da quella data si moltiplicano i segnali di una profonda crisi dell’industria cinematografica tedesco-federale, per l’effetto concomitante della concorrenza televisiva e della graduale disaffezione del pubblico

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ai generi di successo del decennio precedente. Ciò si accompagna ad un sempre più pronunziato scadimento della qualità-media del cinema commerciale, che ricerca dei nuovi filoni da sfruttare, ma ciò non riesce ad impedire il tracollo economico, sintetizzabile in queste nude cifre: il numero degli spettatori scende dai 604 milio­ ni del 1960 ai 160 del 1970, l’esercizio si dimezza passando da 6950 a 3446 sale. Per cercare di tamponare questa debacle l’indu­ stria tedesca si lancerà nello sfruttamento di due nuovi generi emergenti: il giallo e il “western alla tedesca” chiamato anche “krauti-westem”. Nei centocinquanta volumi scritti dall’infaticabile Edgar Walla­ ce (1875-1932) il cinema commerciale tedesco trova una tempo­ ranea ancora di salvezza, producendo non meno di una trentina di film tratti dalla ricca e ripetitiva fantasia dello scrittore inglese. La serie inizia nel 1959 con Der Frosch mit der Maske (La maschera che uccide, RFT/ Danimarca, 1959), diretto da Harald Reinl che era stato già l’iniziatore dell’Heimatfilm. Alla guida di questi modesti “B-movie”, che hanno costituito il modello delle succes­ sive serie gialle per la tv celebri in tutta Europa, si alternano, oltre a “specialisti” tedeschi come Alfred Vohrer, Harald Reinl, Jurgen Roland ed altri, registi stranieri come Freddie Francis e Jesus Franco Manera, oppure gli italiani Riccardo Freda, Massimo Dallamano e Umberto Lenzi. Nel caso del giallo alla tedesca, il “cri­ mine paga” al botteghino: per i più di trecento assassini cinemato­ grafici prodotti dalla Rialto Film di Horst Wendlandt entrano, sino al 1970 nella casse della produzione, 140 milioni di marchi. A completare il quadro, non mancano sei, assai disgraziati, prosegui­ menti del Dottor Mabuse, nonché una pletora di sottoprodotti di minore importanza. Di sicuro più interessante — e non soltanto perché ha costituito un po’ il modello per lo spaghetti — western di Sergio Leone & Co. — è la serie tratta da romanzi e personaggi dello scrittore Karl May (1842-1912), una sorta di Emilio Salgari tedesco. Come nel caso dell’Heimatfilm e del giallo alla tedesca, a fare da battistrada al nuovo genere viene chiamato il regista Harald Reinl, al cui indubbio talento artigianale sono ascritte le migliori operazioni nel campo del cosiddetto crauti-western. I due tycoons dell’epoca,

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Atze Brauner e Horst Wendlandt (a cui si deve l’idea di filmare Karl May) si associano per coprodurre, insieme a Francia e Jugo­ slavia, Der Schatz im Silbersee (Il tesoro del lago d’argento, 1962) di Reinl. Il film, costato molto caro per l’epoca (3,5 milioni di marchi), sfonda, però, sul mercato, dando ragione al fiuto dei suoi produttori, che si affrettano a sfruttare la vena d’oro appena scoperta (e comunque presto esauritasi con l’avvento del western all’italiana). Interpretati da attori stranieri — il francese Pierre Brice nei panni di Winnetou e gli americani Lex Barker e Stewart Granger, rispettivamente in quelli di Old Shatterhand e Old Surehand — i film da Karl May sono sì ricchi di azioni spettacola­ ri e molto accurati nella ricostruzione etnografica, ma tradiscono una certa letterarietà (e morale) ottocentesca tipica dello scrittore d’avventure tedesco. Mancano insomma di quell’aura ironica o violentemente aggressiva che contraddistingue, invece, l’opera appena successiva di un Sergio Leone o di un Corbucci. Tuttavia, malgrado questi sporadici successi di cassetta, già alla metà degli anni Sessanta, l’industria cinematografica tedesca sarebbe entrata in coma, se ad allungarne l’agonia, non fosse intervenuto l’allargamento delle frontiere della morale, che apre la strada al sofì-pomo, e la legge-quadro sul cinema del 1967 che con il sistema dei ristorni automatici toma a premiare contro lo JDF, il cinema di pura cassetta. Così, la produzione, calata alla cifra record negativa di 56 film nel 1965, risale rapidamente sino alle 110 unità del 1969, di cui l’esatta metà è ormai costituita dai “film-sexy”. In questo business, la vecchia industria cinematogra­ fica costruirà l’ultima fragile e inadeguata diga contro la travol­ gente concorrenza americana. Con la conseguenza di indurre la produzione commerciale ad un definitivo ed irreversibile imba­ stardimento, da cui non sono esenti neanche i più stimati registi degli anni Cinquanta, incapaci di abbandonare le consuetudini (stilistiche ed economiche) di un’industria in piena senescenza. Il fatto, poi, che il cinema commerciale tedesco si rifiuterà di inte­ grare nel proprio seno le aspirazioni e le idee di una nuova genera­ zione emergente (com’è, invece, avvenuto, almeno parzialmente in Francia con la “Nouvelle vague”) porterà in breve ad una diva­ ricazione estrema, con pochi eguali in Europa, fra un cinema di

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basso livello commerciale ed un cinema “alto” d’autore, sovven­ zionato dallo stato, ma senza un pubblico nazionale che in qualche modo lo abbia amato e sostenuto. Tale forbice si allargherà in modo progressivo, finendo per creare negli anni Settanta due distinti circuiti cinematografici, assolutamente non comunicanti tra loro, salvo rarissime eccezioni. Con la grave conseguenza che, in patria, il cinema d’autore dello “Junger Deutscher Film” e ancor meno successivamente negli anni Settanta il “Neuer Deut­ scher Film” (Nuovo Cinema Tedesco, NDF) non diventerà mai, istituzionalmente e per il pubblico di massa, il cinema tedesco della contemporaneità, anche se, di fatto, tale è stato considerato all’estero. Rispetto alla totale cecità dello showbusiness, molto più intelligente e dinamica è risultata, viceversa, la politica seguita dalla televisione che, come negli Usa o in Inghilterra, diventa il bacino di raccolta, la fucina di una serie di giovani, scoraggiati dalle deprimenti condizioni in cui versava l’industria cinematogra­ fia del proprio paese: Peter Lilienthal, Hans W. Geissendòrfer, Hans Jtirgen Syberberg o Reinhard Hauff si affinano la mano all’interno delle varie emittenti televisive prima di debuttare sul grande schermo.

2.

Il Manifesto di Oberhausen e le sue conseguenze

Preceduto dal fallimento dell’UFA nel gennaio 1962, che viene accolto dalla nuova generazione quasi fosse il segno divino della chiusura di un’epoca, il “Manifesto di Oberhausen” del febbraio 1962 innesta quella dinamica che porterà in qualche anno alla nascita dello Junger Deutscher Film. Ecco il sintetico testo: “La bancarotta del cinema convenzionale tedesco distrugge finalmente il supporto economico di ima mentalità che respingia­ mo; in questo modo il nuovo cinema acquista la possibilità di vivere. Cortometraggi tedeschi di giovani autori, registi e produt­ tori hanno ricevuto negli ultimi anni un gran ninnerò di premi nei festival intemazionali e ottenuto il riconoscimento della critica intemazionale. Queste opere e il loro successo dimostrano che il futuro del cinema tedesco è in chi ha mostrato di parlare un

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nuovo linguaggio cinematografico. Anche in Germania come in altri paesi, il cortometraggio è diventato la scuola e il campo di sperimentazione del film a soggetto. Noi dichiariamo la nostra ambizione di creare il nuovo film tedesco a soggetto. Questo cinema ha bisogno di nuove libertà: deve essere liberato dalle convenzioni abituali dell’industria cinematografica, da qualunque tentativo di commercializzazione, da ogni tutela finanziaria. Nei riguardi della produzione del nuovo cinema tedesco, abbiamo delle idee concrete sul piano intellettuale, estetico ed economico. Insieme siamo pronti ad assumere i rischi economici. Il vecchio cinema è morto, crediamo in quello nuovo. F.to: Bodo Bluthner, Boris von Boneshohn, Christian Doermer, Bernhard Dòrries, Heinz Furchner, Rob Houwer, Ferdinand Khittl, Alexander Kluge, Pitt Koch, Walter Kriittner, Dieter Leinmel, Hans Loeper, Ronald Martini, Hansjurgen Pohland, Raimond Ruehl, Edgar Reitz, Peter Schamoni, Detten Schleiermacher, Fritz Schwennicke, Haro Senft, Franz-Josef Spieeker, Hans Rolf Strobel, Heinz Tiehawsky, Wolfang Urchs, Herbert Vesely, Wolf Wirth”.

Questa dichiarazione, passata alla storia come il “Manifesto di Oberhausen”, viene letta in un’affollata conferenza stampa il 28 febbraio 1962 da Ferdinand Khittl, durante l’VIII0 Festival del cortometraggio di Oberhausen, una delle poche istituzioni pro­ gressiste in una RFT ancora pregna dello spirito dell’era Ade­ nauer. Il portavoce del gruppo - che come presto vedremo gruppo omogeneo non era - si rivela subito Alexander Kluge, alla cui atti­ vità politico culturale (nonché teorica), connessa alla sua forma­ zione giuridica, sono da ascrivere le principali mosse strategiche del nuovo movimento. I firmatari del Manifesto avevano inoltre stampato un adesivo verde con su scritto “Papa Kino ist tot” (Il cinema di papà è morto), la loro parola d’ordine mutuata dalla “Nouvelle vague”. Come è poi successivamente risultato (’), il Manifesto è il frutto di rapporti d’amicizia e di discussioni avve­ nute nei caffè e nei ristoranti di Schwabing, il quartiere bohème di Monaco; diversi firmatari poi facevano già parte di un’associazio­ ne, la “Doc 59”. Pochi tra i firmatari erano conosciuti come pro-(*) (*) Dal volume di interviste, per altro abbastanza contraddittorie, curato da Rainer Lewandowski in occassione del ventennale dell’avvenimento: Die Oberhausener, Regie Verlag, Diekholzen 1982.

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fessionisti del cinema: tra le parziali eccezioni Bodo Bluthner (soggetto e sceneggiatura), Ronald Martini (fotografia), Ferdinand Khittl (regia), avevano terminato le riprese di Die Parallelstrasse (La strada parallela, 1961-64), film sperimentale — vera rarità nella RFT di allora — di un certo interesse; e Herbert Vesely, forse la personalità più nota del gruppo, aveva appena ultimato Das Brot der friihen Jahre (Il pane degli anni verdi, 1961), inter­ pretato da Christian Doermer, prodotto da Hansjurgen Pohland e fotografato da Wolf Wirth, e scelto, a sorpresa, a rappresentare la RFT al Festival di Cannes del 1962. Da non trascurare la presen­ za, comunque, di alcuni documentaristi come Hans Rolf Strobel e Heinz Tichawsky, né di chi aveva già lavorato nel documentario industriale e pubblicitario, come Edgar Reitz. Unico tratto comune del gruppo dei firmatari del Manifesto, la gran parte dei quali o sparirà o avrà un’influenza minima sul futuro dello Junger Deut­ scher Film, era solo la frequentazione, per un qualche motivo, del Festival di Oberhausen, che quindi appare come la culla naturale della dichiarazione. A rileggerlo oggi, il Manifesto si presenta tanto genericamente palingenetico nelle linee generali, quanto concreto su almeno due punti: 1) l’importanza del cortometraggio quale “scuola e il campo di sperimentazione del film a soggetto” come lo era stato per il “Free Cinema” inglese — per questo motivo il cortometraggio, soprat­ tutto di non-fiction, resterà una costante strutturale di molti autori dello Junger Deutscher Film; 2) le annunziate “idee concrete sul piano intellettuale, estetico ed economico”, che si erano precisate già in una proposta nata la sera prima della conferenza stampa del 28/2: quella di girare 10 film a soggetto con l’aiuto di un’apposita fondazione, finanziata dallo stato. Questi due punti sono sintomatici dell’esistenza di un, sia pur ancora approssimativo, progetto a lungo termine: quello di un cinema relativamente a low-budget, non commerciale, sostenuto dallo stato e nuovo per forme e contenuti. Per capirci, tracciamo un sintetico identikit della nuova genera­ zione dei ribelli, un identikit ideale, ovviamente, che, più che per i singoli, serve ad identificare nel suo complesso lo “spirito” rivolu­

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zionario dell’epoca. Partendo da un odio generalizzato per il coevo cinema commerciale tedesco e politicamente per le tremen­ de responsabilità dei padri, responsabili, agli occhi dei giovani, del nazismo, dell’olocausto e della guerra, la “filosofia”degli auto­ ri usciti da “Oberhausen” si nutre di spinte e suggestioni variega­ te: le nuove esperienze in campo architettonico e musicale (la musica colta elettronica), l’influenza della letteratura postbellica (Heinrich Boll e il “Gruppo 47”), la filosofia esistenzialistica e Sartre, la fiducia negli insegnamenti della “teoria critica della società” della Scuola di Francoforte e/o nel marxismo brechtiano, che li faceva schierare contro l’era Adenauer agli sgoccioli e l’i­ stupidimento collettivo provocato dal boom economico. Sul piano cinematografico i modelli d’obbligo sono, invece, costituiti — ma preparati da una nuova generazione di critici raccolta, dal 1957, attorno alla rivista “Filmkritik” influenzata dall’insegnamento di Siegfried Kracauer e da quella “concorrente” “Film” — dalle sug­ gestioni del neorealismo italiano e soprattutto dalla recentissima e dirompente esperienza pratica del “Nouvelle vague” francese. Non mancano nostalgie per la grande tradizione dell’età weimariana, incarnata nella figura vicaria di Fritz Lang, eletto ad autore di culto della Germania migliore. A questo bagaglio, generoso ed utopico, attingono in varia misura i giovani autori tedeschi che ini­ zieranno a produrre i loro primi lungometraggi alla metà del decennio, tramite le sovvenzioni del “Kuratorium Junger Deut­ scher Film”. Nei loro film, anche tramite la riduzione di scrittori contemporanei non frequentati dal cinema commerciale, come Heinrich Boll, Gunther Grass o Robert Musil, ritroviamo le inquietudini della prima generazione post-nazista; perciò abbon­ dano i problemi legati al rapporto di coppia (e ai figli), la grande questione del “superamento del passato”, con annesso odio edipi­ co per i padri, le paure per l’inserimento nell’affluente e beota società dei consumi. I riferimenti stilistici del gruppo di Oberhuasen sono quelli, d’obbligo, del contemporaneo cinema francese (più V engagement di un Alain Resnais, che non la scanzonata vena vague di Truffaut o Godard comunque), del cinema dell’ansia borghese di Antonioni e più in generale del neorealismo italiano; mentre per il gruppo dei

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“sensibilisti” monacensi di cui avremo poi modo di riparlare (Thome, Lemke, il primo Wenders, ecc.), il riferimento è al cine­ ma americano, riveduto e corretto tramite gli insegnamenti cinefili dei redattori dei “Cahiers du Cinéma”. Accolto con una certa simpatia da alcuni, con disprezzo e suffi­ cienza dalla maggioranza (soprattutto dall’industria del cinema), il “Manifesto” non va sopravvalutato. La sua importanza sta soprat­ tutto nell’essere il primo gesto esplicito di una volontà di rinnova­ mento che era nell’aria. Dopo la “sortita” di Oberhausen, tra par­ ziali successi e pieni insuccessi, dopo un lungo lavoro di lobbing, dovranno comunque passare tre anni perché — soprattutto per gli sforzi del giurista e scrittore Alexander Kluge — nasca uno stru­ mento legislativo, il “Kuratorium Junger Deutscher Film”, con cui si realizzeranno in pieno le aspirazioni cinematografiche di una nuova generazione. Dunque sino alla metà degli anni Sessanta (con un certo ritardo quindi rispetto alle altre esperienze del nuovo cinema intemazio­ nale), i prodotti dello JDF si riducono a pochissimi lungometraggi ed alcuni cortometraggi o documentari. Inoltre, nel valutarli, biso­ gnerà essere in qualche modo lungimiranti e partigiani del nuovo: le acerbità e i difetti che vi si possono riscontrare passano in secondo piano rispetto ai pregi e agli elementi innovativi, sia a livello formale che tematico. Potremmo cominciare da un breve documentario di 12’, Brutalitat in Stein (Brutalità nella pietra, 1960, noto anche con il titolo di Ewigkeit von gestern), cofirmato da Alexander Kluge alla sua opera prima e da Peter Schamoni che aveva alle spalle una, sia pur minima, esperienza documentaristi­ ca. Presentato al Festival di Oberhausen nel 1961, un anno prima dunque della proclamazione del “Manifesto” Brutalitat in Stein mostra quanto resta delle rovine di edifici nazisti a Norimberga, la città simbolo del nazismo: le immagini sono commentato da alcu­ ne testimonianze come le memorie di Rudolf Hòss, con i partico­ lari delle tecniche adottate nell’annientamento degli ebrei o i piani di Hitler per la trasformazione delle città tedesche. Montato velo­ cemente, e dal tono molto freddo e tagliente, il documentario è una prima testimonianza di una generazione, incolpevole dei cri­

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mini del nazismo, che vuole ricordare ai padri le loro colpe. D’al­ tronde il tema delle rovine come “negativo dell’architettura”, come cartina al tornasole dello spirito di un’epoca, ricorre sovente nella produzione di cortometraggi dei giovani filmmakers di allo­ ra, per esempio in Schicksal einer Oper (Destino di Un’Opera, 1957-58) o Yucatan (id., 1961) di Edgar Reitz, anch’esso presen­ tato nella stessa occasione ad Oberhausen. Se Brutalitàt in Stein è più che altro interessante da un punto di vista contenutistico, Geschwindigkeit (Velocità, 1962) lo è soprattutto da quello forma­ le. Reitz, che si era già fatto un nome nel cinema industriale, visualizza qui un tema astratto — il concetto di velocità — ricor­ rendo ad un montaggio basato sui principi della musica moderna e realizzando cosi una sorta di bellissimo videoclip ante litteram. Sempre nello stesso anno, il 1962, esce a Cannes — come si accennava — Il pane degli anni verdi, il primo vero lungometrag­ gio dello JDF. Il viennese Herbert Vesely aveva tra l’altro collabo­ rato, come consulente alla regia, a Jonas (id., 1957) di Ottmar Domnick (n. 1907), un’opera sperimentale di sapore esistenziali­ stico, con testi e commento di Hans Magnus Enzensberger, che insieme a pochissime altre prepara negli anni Cinquanta il futuro rinnovamento del cinema tedesco. Riguardo a II pane degli anni verdi, innanzitutto va sottolineata la scelta di ridurre per lo scher­ mo un autore come Heinrich Boll, il cui nome ricorrerà spesso nello JDF. Ciò, crediamo, per due ordini di motivi, uno per così dire, tecnico: la “cinematograficità” di molti suoi libri (dissolven­ ze, cesure, flash-back) che ne facilita la trasposizione; e un secon­ do, molto più importante, di ordine morale: l’essere Boll — come ha scritto il grande germanista italiano Leo Mittner — il “solertis­ simo cronista delle varie fasi del dopoguerra tedesco”, la coscien­ za critica dell’Era Adenauer. Questo atteggiamento morale si incontra con quello della nuova generazione che, nel voler fare i conti con il passato nazista, doveva farli anche con l’ignavia degli anni Cinquanta e con quella dei padri. In tale atteggiamento e clima rientra, pienamente, Il pane degli anni verdi, accolto da giu­ dizi assai contrastanti al Festival di Cannes, perché lo si accusa di imitare lo stile di Alain Resnais. Molto più importante, comunque, del film del regista austriaco, è il debutto, con Machorka-Muff

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(id., 1962) (2), del francese Jean-Marie Straub (fuggito dalla patria, essendo renitente alla leva in quanto pacifista e radicale avversario della guerra d’Algeria), la cui opera complessiva, pur appartenendo ad un contesto non solo tedesco, è qui trattata per la sua decisiva importanza nello sviluppo dello Junger Deutscher Film. Presentato al solito al Festival del cortometraggio di Oberhausen nel 1963, si tratta di un’altra riduzione letteraria di un testo di Boll, Hauptstàdtisches Journal (La gazzetta della capita­ le), che denunzia in modo satirico il riarmo tedesco e il problema della “memoria militare”: il progetto di “Accademia della Memo­ ria Militare” portato avanti in spregio della democrazia dal prota­ gonista. Ma oltre che dal punto di vista critico-contenutistico, è interessante notare come Straub e Danièle Huillet sviluppino qui, in nuce, in questo primo cortometraggio, i canoni del loro sistema “anticulinario”: lettura del testo nel suo totale rispetto filologico, uso in prevalenza di attori non professionisti (qui è lo scrittore e giornalista Erich Kuby che interpreta la figura del generale Machorka-Muff), suono in presa diretta, pause di meditazione otte­ nute tramite alcune interruzioni di pellicola nera, musicalità del testo e delle immagini. Si apre così la porta a quella lezione di rigore estetico-morale che lo Jdf apprende dal cinema di Straub-Huillet, così come di due altri stranieri, gli antesignani del moderno cinema “apolide”, di cui purtroppo non avremo modo per ragioni di tempo di parlare: lo jugoslavo Vlado Kristl e l’ame­ ricano George Moorse. Sempre in questi primissimi anni Sessanta inizia la sua attività in modo ancora molto “sotterraneo” Werner Herzog, uno dei regi­ sti più enigmatici ed affascinanti del Nuovo Cinema Tedesco. A vent’anni gira Herakles (Ercole, 1962-1964) dodici minuti di body-building inframmezzati da cartelli suoi compiti di Ercole, la prima espressione visionario-mitico-ironica della curiosità di questo grande filmaker per quanto supera, va al di là della norma-

(2) La sceneggiatura del film è pubblicato in italiano in Jean-Marie Straub/Daniélle Huillet, Testi cinematografici, a cura di Adriano Apra, Editori Riuniti, Roma 1992 (il volume comprende anche i testi dei seguenti film di cui poi parleremo: Non riconciliati, Cronaca di Anna Magdalena Bach e II fidanzato, l’attrice e il ruffiano).

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lità. Oggi Herakles come il successivo Spiel im Sand (Gioco nella sabbia) del 1964 — un saggio sulla violenza di 4 bambini croati che uccidono in un climax di violenza un gallo dentro un scatola di cartone — sono praticamente invisibili e lo stesso autore tende a nasconderli come fossero un parte “malata” del proprio Io, ma quelle stesse pulsioni risorgeranno ciclicamente nel suo successi­ vo cinema. Oltre a queste prime esperienze nel campo del cortometraggio, alla nascita dello JDF ha contribuito, in modo decisivo, il contem­ poraneo, potente processo di rinnovamento intervenuto in campo documentario. Esso si riverbererà anche sulla produzione di fic­ tion dei giovani cineasti tedesco-occidentali, basti pensare che, per esempio, all’opera di Kluge, Herzog o Syberberg che sono stati, anche, documentaristi non occasionali, ognuno a suo modo naturalmente. Due dei firmatari del Manifesto di Oberhausen, Hans Rolf Strobel e Heinrich Tichawsky, realizzano agli inizi degli anni Sessanta Notizen aus dem Altmiihltal (Notizie dalla Altmuhltal, 1961) e Notabene Mezzogiorno (1962), quest’ultimo girato in Sud Italia, salutati dalla rivista “Filmkritik” come pro fon­ damente innovativi. Mentre Klaus Wildenhahn importa nella RFT il cinéma-vérité, con un reportage televisivo di 18’, Parteitag ’64 (Congresso ’64), sul Congresso del partito socialdemocratico del 1964, Peter Nestler, invece, si contraddistingue per un approccio stilisticamente rigoroso simile a quello di Jean-Marie Straub, con piani fissi estremamente studiati e un commento off letto (o meglio “citato”) il più delle volte dallo stesso autore con tono distaccato. Lo stile raggelato della sua ricerca, unita ad un forte impegno politico, ha fatto di Nestler un outsider ammirato da lon­ tano: dopo una serie di opere — tra cui Miihlheim Ruhr (1964) o Von Griechenland (Dalla Grecia, 1965) -— lascerà la RFT per tra­ sferirsi in Svezia alla locale televisione. A questi nomi e a quello, per esempio, di Hans Jiirgen Syberberg, che nel 1965 debutta con uno splendido documentario teatrale Fiinfter Akt, Siebte Szene. Fritz Kortner probt Kabale und Liebe (V° Atto, settima scena, Fritz Kortner prova “Kabale und Liebe”), si lega un profondo rin­ novamento nel campo della non-fiction, ormai definitivamente affrancatasi dalla tradizione e dallo stile degli anni Trenta.

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3. Lo stacco dello “Junger deutscher Film ” Finalmente negli anni 1965-67 cessa il momento di incubazione e vengono a maturazione le spinte culturali e gli sforzi politici dei giovani della “Neue Welle”, culminati nella fondazione alla fine del 1964 del “Kuratorium Junger Deutscher Film” da parte del ministro democristiano degli Interni, Hermann Hòcherl. A guardar­ la oggi, la nascita del Kuratorium per finanziare i progetti di lungometraggio di debuttanti (opere prime e seconde), si rivela un con­ tentino dato alla nuova generazione. Infatti la legge-quadro sulla cinematografia — varata dopo molte discussioni e polemiche nel dicembre 1967 — in cui si istituisce la “Filmfòrderungsanstalt” (FFA, Ente per il sostegno al cinema), riconosce sì, come obiettivo, “un incremento sensibile della qualità del cinema tedesco”, ma poi lo vanifica quando sancisce un sistema di ristorni automatici ai film già premiati dal box-office. In ogni caso i 5 milioni di marchi messi a disposizione dal governo federale (dal 1968 il Kuratorium verrà finanziato dai vari Lànder componenti la RFT) permettono la realizzazione (almeno parziale e a low budget) della prima grande infornata di opere dello JDF: Abschied von Gestern (noto come “La ragazza senza storia”, 1965-66) di Alexander Kluge, Mahlzeiten (noto come “L’insaziabile”, 1966) di Edgar Reitz, Der Brief (La lettera, 1966) di Vlado Kristi, Katz und Maus (Gatto e topo, 1966, dall’omonimo romanzo di Giinther Grass) del regista e produttore Hansjiirgen Pohland, Chronik der Anna Magdalena Bach (Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967) di Straub-Huillet, Der sanfte Lauf (Il corso tranquillo, 1967, con protagonista un giovanissimo Bruno Ganz) di Haro Senft, Tàtowiemng (Il tatuaggio, 1967) di Johannes Schaaf, Lebenszeichen (Segni di vita, 1967) di Werner Herzog, Die Ehe (Il matrimonio, 1968) del duo di documentaristi Strobel-Tichawsky ed infine Jagdszenen aus Niederbayern (Scene di caccia in Bassa Baviera, 1968) di Peter Fleischmann. Le opere importanti della “nuova onda” tedesca si susseguono, allora, l’una dopo l’altra. Il primo avvenimento degno di nota, nel 1965, è il rifiuto da parte della Commissione di selezione del Festival di Oberhausen di presentare nel programma principale il bel cortometraggio di debutto di Rudolf Thome, Die Versòhnung

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(La conciliazione, 1964-65), totalmente influenzato dal coevo cinema di Godard e dalla “Nouvelle vague”. La protesta che ne segue rivela all’opinione pubblica l’esistenza di un secondo grup­ po di aspiranti filmmakers monacensi che comprende, oltre a Thome, Eckhart Schmidt, Klaus Lemke e lo sceneggiatore Max Zihlmann, un gruppo anch’esso eterogeneo, ma in aspra polemica con “razionalisti” di Oberhausen. Critici cinematografici, cinefili incalliti, amanti del cinema americano e di quello francese/vague, sono gli iniziatori della cosiddetta scuola del “sensibilismo” mona­ cense, che si pone sotto l’ala protettrice di Jean-Marie Straub e Peter Nestler e che influenzerà l’opera del primo Wim Wenders. Qualche mese dopo Oberhausen, nel luglio 1965, passa al Festival di Berlino, in una sezione collaterale, il primo (semi) lun­ gometraggio di Straub-Huillet, Nicht versòhnt {Non riconciliati, 1964-65) sempre da un’opera di Heinrich Boll, Billiard um halb zehn {Biliardo alle nove e mezza') che suscita un vespaio di pole­ miche tra fautori e detrattori dell’opera (e una violenta protesta da parte dello scrittore). A settembre comincia la lavorazione di Abschied von gestern di Alexander Kluge (poi Leone d’argento alla Mostra di Venezia del 1966); Volker Schlòndorff, rientrato dalla Francia dove, tra gli altri, era stato assistente di Alan Resnais, gira Derjunge Tòrless {I turbamenti del giovane Tòrless, premio FIPRESCI al Festival di Cannes 1966), un adattamento interessante ma abbastanza infedele del romanzo di Musil in cui il giovane filmaker, come ha felicemente scritto un critico, ha decli­ nato le “secondarie di Musil in frasi principali”. Nel 1965, infine, oltre a Syberberg, debutta anche Rainer Werner Fassbinder con il cortometraggio Der Stadtstreicher (Il vagabondo), insieme un visionario omaggio al Rohmer di Le signe du Léon e al gangster-film americano. L’anno successivo, il 1966, è altrettanto denso di avvenimenti: Mahlzeiten di Edgar Reitz (Leone d’argento alla Biennale del 1967), la bella satira del mondo della pubblicità firmata da Spiecker Wilder Reiter GmbH (Cavaliere selvaggio srl) e ancora un cortometraggio di Werner Herzog, che torna, dopo due anni di interruzione ,dietro la mdp con Die Beispiellose Verteidigung der Festung Deutschkreutz (L’esemplare difesa della fortezza Deut-

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schkreutz), la prova generale per il successivo lungometraggio di debutto Lebenszeichen (Orso d’argento alla Berlinale del 1968). Nel 1967, quando già i prodotti dello Junger Deutscher Film rappresentano più di un quarto della produzione complessiva (il 27% per la precisione), oltre a film d’autore come Cronaca di Anna Magdalena Bach di Straub-Huillet o II tatuaggio di Schaaf (Orso d’argento al Festival di Berlino), viene allo scoperto la scuola dei “sensibilisti” monacensi. Klaus Lemke, su sceneggiatu­ re di Max Zihlmann, gira uno dopo l’altro 48 Stunden bis Acapul­ co (48 ore sino ad Acapulco; in bianco e nero) e Negresco*** Eine tòdliche Affare (Una donna tutta nuda', a colori violenti); mentre il neostudente della HFF, Wim Wenders, presenta al Festi­ val di Mannheim il cortometraggio Same Player Shoots Again. I due gialli di Lemke ci appaiono oggi più interessanti dal punto di vista teorico, per il tipo di cinema che vorrebbero proporre, che per i reali risultati conseguiti. Rappresentano, più che altro, una somma di citazioni colte dal cinema americano classico, trasudano una cinefilia cerebrale, sintetica (diversa, ci sembra, da quella di un Wenders o Fassbinder), ma anche un grande ingenuo desiderio di piacere schermico e spettacolare. Ciò li rende in qualche modo simpatici, quando si palesa chiaramente il progetto che vi è alle spalle. Altrimenti le vistose donne e le belle macchine di Lemke, i suoi gangster stereotipati, rischiano di confondersi con quelli dei film commerciali di allora. Tutto sommato a questo livello, nel campo dei nuovi impulsi dati al genere del giallo, preferiamo allo­ ra un thriller ala Melville come Mord und Totschlag (Vivi ma non uccidere, 1967), una delle prove più riuscite nella carriera dell’e­ clettico talento di Volker Schlòndorff. A volere tirare un bilancio del primo triennio di nuovo cinema, esso risulta piuttosto positivo: il meccanismo economico innestato dal Kuratorium, quando non si trasforma nella formula dell’auto­ produzione, alletta qualche produttore, tipo Franz Seitz, legato al vecchio cinema, oppure aiuta un gruppetto di giovani produttori come Houwer, Adloff o Pohland; il cinema tedesco miete successi ai festival internazionali come mai prima (diversi li abbiamo segnalati); i film tedeschi hanno un generale, discreto successo di pubblico in patria con delle punte in Es, Wilder Reiter GmbH e

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Zur Sache, Schàtzchen\ nasce una casa di distribuzione, la Constantin-Film, che si impegna nella promozione dei nuovi talenti. Tematicamente lo Junger Deutscher Film, oltre a filmare opere di Boll, Musil e Grass, si impegna, soprattutto, nel captare le inquie­ tudini della prima generazione postnazista; abbondano quindi, come si accennava, i problemi connessi al rapporto di coppia (e ai figli), al superamento del passato, all’odio edipico per i padri, all’inserimento nella ricca e beota società dei consumi. I modelli stilistici sono quello, d’obbligo, della “Nouvelle vague”, il cinema dell’ansia borghese di Michelangelo Antonioni e, più in generale, il neorealismo italiano; mentre per i “sensibilisti” il riferimento è al cinema americano riveduto e corretto tramite i “Cahiers du Cinéma”. Si gira, in prevalenza, con un montaggio fortemente ellittico e con la presa diretta, quando non intervengono censure e problemi di produzione. Si mostra una Germania sino ad allora sconosciuta al cinema: Amburgo, Francoforte, Dusseldorf, Mona­ co, Berlino vengono fotografate con un occhio sociologicamente attento; mentre deserti, quasi banditi, rimangono i teatri di posa (vecchio cinema e poi troppo costosi) e, salvo qualche rara ecce­ zione, è di rigore un nitido bianco e nero (sempre per questioni di costi). Le “sgrammaticature” cinematografiche, frutto di inespe­ rienza o di volontà trasgressivo-espressiva, lasciano presto il posto ad uno stile personale o a prodotti di sicura professionalità — è il caso, per esempio, di Schonzeit fiir Fiichse di Peter Scha­ moni, dove si recupera addirittura una vecchia star dell’Ufa come Willy Birgel. Per diversi registi di questa prima onda, i film di debutto resteranno i migliori: ciò vale per Peter Schamoni (Schon­ zeit fiir Fiichse) e il fratello Ulrich (Es), per Schaaf (Il tatuaggio) o per Spiecker (Wilder Reiter GmbH).

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4. Tre autori di prima grandezza: Alexander Kluge, Edgar Reitz, Werner Herzog

La personalità più rilevante del primo periodo di stacco dello JDF è, insieme a Jean-Marie Straub, Alexander Kluge, il “cervel­ lo” del gruppo di Oberhausen e non soltanto per l’impegno da lui profuso nella nascita delle condizioni materiali che hanno consen­ tito il fenomeno del Nuovo cinema tedesco. Nativo di Halberstadt dove è nato nel 1932, Kluge si laurea nel 1956 in giurisprudenza, ma due anni dopo lo ritroviamo alla CCC-Film di Berlino, come volontario durante la lavorazione del Sepolcro indiano di Fritz Lang. Del 1961, come sappiamo è il suo primo cortometraggio, Brutalitàt in Stein, mentre l’anno dopo pubblica un libro di rac­ conti brevi Lebensldufe {Biografie), dopo essere stato a capo del gruppo dei ribelli di Oberhausen. C’è un testo del 1966 che riassu­ me in maniera esemplare le idee sul cinema di Kluge: “Il film prende forma nella testa dello spettatore, non è un’o­ pera d’arte che vive autonomamente sullo schermo. Per questo il film deve lavorare con quelle associazioni che, nella misura in cui si possono calcolare e rappresentare, l’autore suscita nello spettatore. E ciò richiede un metodo indiretto in base al quale ciò che dopo dovrebbe prendere forma nella testa dello spettatore, non viene mai raffigurato direttamente. [...] Una volta Adorno ha detto, ironicamente, che nel cinema in realtà lo disturbava solo l’immagine. Intendeva dire che la continua concretizzazione uccide la fantasia piuttosto che stimolarla, se non ci sono delle cesine in cui la fantasia possa inserirsi. Il cinema deve lasciale alla fantasia uno spazio in cui muoversi, e tuttavia deve comuni­ care qualcosa con le immagini. [...] Oggi so precisamente perché mi interessa il cinema e perché mi interessa più della letteratura. Il cinema lavora sempre con foime espressive concrete. L’imma­ gine è sempre concreta, si può fare quello che si vuole. Con il montaggio, però, si al tempo stesso costruire dei concetti, dunque delle somme di concretizzazioni” (3).

In queste dichiarazioni è contenuto tutto il nocciolo teorico — (3) In Giovanni Spagnoletti (a cura di) Junger Deutscher Film (1960-1970), Ubulibri, Milano 1985, p. 15.

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in gran parte derivato dalle teorie estetiche della scuola di Fran­ coforte (nonché da reminiscenze ejzenstejniane) — del cinema “antinaturalistico”, a “collage” di Alexander Kluge. E a tale assun­ to egli si è mantenuto fedele per vent’anni, da quell’ormai mitico Abschied von Gestern (1965-66) che a trentaquattro anni segna il suo fulminante debutto nel lungometraggio, sino al 1985, anno in cui ha abbandonato il cinema per continuare la sua battaglia autoriale all’interno della televisione. Al pari, ma in maniera diversa, da altri alfieri del moderno cinema d’autore come Godard o Straub-Huillet, Kluge ha fatto tesoro degli insegnamenti di Bertolt Brecht: perciò tanta importanza riveste nella sua opera il momento dell’interruzione della fiction, la pausa di riflessione ottenuta con cartelli, il commento fuori campo, lo scontro-incontro di materiali eterogenei, il montaggio duro, gli inserti documentari e di altri film, la musica straniante, e l’arma di un’ironia sempre e mai fine a se stessa. Da tale complesso nasce la teoria e la prassi che il film non si risolve tanto sul set, quanto al tavolo di montaggio. Tratto da uno dei racconti della sua prima opera letteraria, Lebenslàufe, Abschied von Gestern — storia dell’odissea di Anita G., una ragaz­ za di origine ebrea emigrata dalla RDT nella Repubblica Federale — rappresenta, in forma caleidoscopica, un duro “redde rationem” con le leggi e la mentalità della società del benessere tedesco occi­ dentale. Rispetto a quest’opera “aperta”, libera nell’ispirazione, negli accadimenti, nelle situazioni e ricca di felicissimi momenti di buon cinema, il successivo Artisten in der Zirkuskuppel : ratios (Artisti sotto la tenda del circo: perplessi 1968), con cui si consoli­ derà il successo internazionale di Kluge, tradisce, invece (per esempio nella preponderanza del commento-ofl), tutto il peso del progetto letterario che è alle spalle. Si deve convenire con Pier Paolo Pasolini quando, nell’introdurre la pubblicazione italiana della sceneggiatura, ne parla come di un “revival dell’avanguardia classica: della neoavanguardia mancano la fatuità e la mancanza di costruzione mentre quest’opera è profondamente seria e ostinatamente costruita” (4); tuttavia sono intenti, questi, che tendono a (4) Pier Paolo Pasolini, La mancanza di ogni perplessità in Alexander Kluge, Artisti sotto la tenda del circo: perplessi, Garzanti, Milano 1970, p. Vili.

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rimanere sulla carta, più che a vivere sullo schermo o nella testa dello spettatore, anch’esso un po’ perplesso. Interessante più che bello, l’utopia del “circo riformato” di Leni Peickert — un’eviden­ te metafora dell’artista “perplesso” nei meandri del sistema capita­ listico (crf. anche il coevo Cardillac dell’amico Edgar Reitz) - si conclude con la triste constatazione della necessità di una politica riformista dei “piccoli passi” e preconizza l’avvento di un’era tele­ visiva totale. Paradossalmente, nella figura di questa seconda eroi­ na klughiana, oggi si può leggere, a posteriori, la svolta della suc­ cessiva carriera del filmaker di Halberstadt: da alfiere dell’utopia a partigiano combattente infiltrato nei meandri del sistema televisivo globale. In ogni caso Artisten in der Zirkuskuppel: ratios segna il punto di definitiva maturità stilistica del ferreo sistema klughiano, di cui qui compaiono molte ossessioni e tutte i principali stilemi: il mondo dello spettacolo, l’Opera italiana, la battaglia di Stalingra­ do, l’amore per il cinema (in particolare quello muto, Ejzenstejn e Lang). E, a questo sistema che ha conosciuto degli aggiustamenti ma mai dei veri cambiamenti, s’uniformerà la sua successiva car­ riera, terminata, come si diceva, a livello di cinema alla metà degli anni Ottanta, ma che nell’etere continua sino al giorno d’oggi. Tal­ volta diseguali nei risultati, anche se tutti di grande fascino ed este­ ticamente densi, i film di Alexander Kluge non devono essere valu­ tati soltanto all’interno di una prospettiva strettamente cinemato­ grafica, ma quali organici frammenti di una testimonianza intellet­ tuale - che è insieme letteraria, filosofica, estetologica, ideologica, politico-culturale, ecc. — tra le più lucide e intense della cultura tedesca contemporanea. Mentre la formazione di Kluge affonda le radici nella letteratu­ ra e nella teoria critica della società, quella di Edgar Reitz — che con Kluge ha lungamente collaborato ed persino hanno firmato due film in comune (5) — è più tecnica, essendosi forgiata a gio­ vanili esperienze teatrali e ad un’intensa frequentazione del docu(5) Sia il semidocumentario In Gefahr und gròsster Not bringt der Mittelweg den Tod (Quando un grave pericolo è alle porte, le vie di mezzo portano alla morte, 1974) sia la simpatica commedia Reise nach Wien (Viaggio a Vienna, 1973) sono cofìrmati da entrambi gli autori ma il primo è pienamente klughiano, il secondo altrettanto in pieno di Edgar- Reitz.

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mentano industriale e del cinema pubblicitario. Apparentemente il più “klughiano” dei film di Reitz appare il suo lungometraggio di debutto, Mahlzeiten (1966) — tragica storia di un’infelicità coniu­ gale girata immediatamente dopo che il regista dell’Hunsruck aveva lavorato in qualità di direttore della fotografia a Abschied von Gestern — ma solo all’apparenza. Già in questo primo film, malgrado rimpianto didattico-intellettuale, si rivelano le straordi­ narie doti di narratore di Reitz, riconfermate nel successivo Cardillac (1969) che, pur tradendo una certa discontinuità, non sfigu­ ra affatto rispetto a Artisten in der Zirkuskuppel: ratios, di cui con­ divide la tematica del disagio dell’artista nella società e la Stimmung, l’atmosfera d’insieme, malinconicamente rabbiosa. Al cine­ ma del‘68 Reitz, ancora più dell’amico Kluge, darà un suo origi­ nale contributo con due prodotti sperimentali: una parodica sara­ banda lungo i generi della storia del cinema, i 23 episodi di Geschichten vom Kiibelkind (Storie della ragazza del bidone, 1969-70; coregia: Ula Stòckl) pensati per una distribuzione fuori dalle sale e Das goldene Ding (La cosa d’oro, 1971-72) realizzato e firmato in collettivo. Ma la sua autentica strada ed ispirazione il regista la troverà in Die Reise nach Wien, una delle migliori com­ medie tedesche del dopoguerra, ottimamente interpretato da Elke Sommer e Hannelore Elsner — un film sfortunato e troppo antici­ patore rispetto ai tempi di cui non si comprese lo spirito: quello di trattare l’epoca nazista e la guerra sotto una luce umoristica e con un’espressa simpatia per le protagoniste, due piccolo-borghesi di provincia in viaggio di piacere e di scoperta del gran mondo. Ed è comunque la prima tappa di avvicinamento verso l’epos di Heimat (id., 1980-84) non solo perché contiene temi, personaggi e ambientazioni ripresi poi da questo grande capolavoro, una delle poche grandi opere prodotte dalla cinematografia della RFT negli anni Ottanta. Originale incontro tra cinema e televisione, questo “requiem europeo della piccola gente”, in 11 puntate e 15 ore e mezzo di durata, ricostruisce sessantatré anni di storia contemporanea tede­ sca, nell’ottica periferica di un immaginario villaggio della regio­ ne natale del regista. Saga familiare di trascinante potenza espres­ siva, felice sintesi di ricerca cinematografica applicata alla struttu­

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ra dello sceneggiato televisivo, Heimat sembra far leva su un pro­ getto narrativo di grandiosità fassbinderiana (Berlin Alexanderplatz), ma è poi, quanto a risultati, il trionfo di una narratività ordinatrice, che razionalizza e connette le grandi trame della realtà sociopolitica e quelle sottili dei destini individuali, la macrostoria della società e la microstoria degli uomini, nell’indissolubile com­ plementarità che può fare di un villaggio dell’Hunsruck uno spec­ chio planetario. Un disegno che poi Reitz continuerà con successo nel “sequel” che però in effetti sequel non è, Die zweite Heimat-Chronik einer Jugend, (Heimat 2-Cronaca di una giovinezza, 1992) una lunga e straordinaria carrellata negli anni Sessanta mo­ nacensi di 1532 minuti (e 13 puntate). Attualmente il filmaker tedesco ha iniziato la terza parte di questa sua incredibile impresa. E concludiamo queste nostro rapido excursus con Werner Her­ zog, che ha fatto della ricerca di una “seconda natura” al di là della nostra ridotta percezione umana, della caccia spasmodica ad immagini incontaminate, non viste, il segno più tangibile di un cinema al cui centro troviamo sempre un universo di diversi che, però, in qualche modo “vedono” di più. Da ciò, come è stato giu­ stamente notato, l’idea herzoghiana che “tutti gli spettatori sono dei sordo-ciechi che vanno sollecitati a sperimentare di nuovo un esercizio profondo dei loro sensi feriti dall’ abitudine” (Fabrizio Grosoli); da ciò la polisemia di significati delle sue visioni, le sue “illuminazioni profane”, fatte di immagini chiave-ricorrenti quasi fossero dei leitmotiv musicali — il cerchio, la gallina, la risata satanica di Hombre per esempio in Auch Zwerge haben klein angefangen (Anche i nani hanno cominciato da piccoli, 1969-70) — in una tendenziale disarticolazione della fiction e nella tenden­ ziale preminenza dell’aspetto documentario. Regista “erratico” al pari ma in modo diverso da Wim Wenders, Werner Herzog è stato il più enigmatico fra i debuttanti dello “JDF”, anche perché, per lui, filmare somiglia più ad un’avventura pericolosa che costa uno sforzo fisico, piuttosto che il risultato del lavoro realizzato in un Teatro di posa. Nel suo cinema, più che mai restio ad una definizione, ad una classificazione, alla individuazio­ ne di precise influenze e derivazioni, le connessioni con la Storia o con l’attualità sembrano essere del tutto casuali. In esso documen-

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tarismo e finzione si fondono, in un tutt’unico senza soluzione di continuità. E un cinema che varia all’infinito una ricerca ossessio­ nata e ossessionante delle “immagini non viste”, in un disperato tentativo di sottrarsi al realismo quotidiano della moderna civiltà industriale dell’occidente. Anche i suoi eroi dimessi e tranquilli rientrano in una sola categoria, quella dell’irriducibile diversità rispetto all’uomo medio borghese: trovatelli, reietti, aborigeni (australiani), nani, muti, sordo-ciechi, avventurieri, ecc., sempre osservati con un occhio di estrema simpatia e complicità — a dimostrare, per l’ennesima volta, quanto sia radicato nella tradizio­ ne europea, a differenza di quell’americana, l’identificazione con il “looser”, con l’insuccesso. A differenza di tanti altri colleghi “stan­ ziali” e molto “teutonici” come Alexander Kluge o Hans-Jiirgen Syberberg, la macchina da presa di Werner Herzog è sempre pun­ tata Sull’Africa o sulla giungla sudamericana oppure crea immagi­ ni-simbolo per esempio i mulini a vento di Lebenszeichen (1967), le sequenze oniriche di Jederfur sich imd Gott gegen alle (L’enig­ ma di Kaspar Hauser, 1974) — che disvelano una mitica e incon­ taminata purezza al fondo dell’uomo. Filmare la natura come una storia, come un personaggio, sembra essere il principale compito del suo cinema, il quale conserva sempre qualcosa di religio­ so-magico e serba intatto il fascino della scoperta e lo sforzo fisico per intraprendere l’avventura filmica: tipica sotto quest’aspetto la scelta per le riprese di Fitzcarraldo (id., 1982) di costruire davvero una gigantesca barca e farle valicare sul serio una montagna, quan­ do un qualunque altro regista si sarebbe accontentato di un sempli­ ce modellino. Un pazzo? No di certo. Un neoromantico? Forse, comunque quest’autodidatta monacense cresciuto sulle montagne bavaresi — quelle stesse alle quali ha dedicato un inimitabile monumento nel suo film più estremo, Herz aus Glass (Cuore di vetro, 1975-76) — ci ha regalato alcune tra le opere più belle e importanti del cinema tedesco degli anni Settanta. Dopo i suoi primi cortometraggi a cui abbiamo accennato, la prima tappa importante delle esplorazioni herzoghiane in territori sconosciuti della geografia e dell’anima inizia, nel 1967, sull’isola greca di Kos, con Lebenszeichen, un film di maturità stilistico— ideologico sorprendente, dove la storia della progressiva follia di

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un soldato tedesco, Stroszek (un nome che più volte ricorrerà nel suo cinema), viene narrata come una parabola polisemica, come uno studio sull’isolamento dai gruppi, senza prestare alcuna atten­ zione ai dettagli realistici o all’ambientazione storica (il film dovrebbe svolgersi durante la seconda guerra mondiale). Momen­ to metafisico e critica dei guasti dell’industrialismo si sovrappon­ gono continuamente nel primo dei due film africani di Herzog, lo splendido Fata Morgana (id., 1968-70), realizzato in difficilissi­ me condizioni nel deserto del Sahara. In questa fiaba divisa in tre capitoli (creazione, paradiso, età dell’oro), dove Herzog dimostra la sua abilità — combinando totali, panoramiche e carrelli - nell’animare oggetti e personaggi trasformandoli quasi in veri e pro­ pri personaggi (il contrario, quindi, di un’analisi etnografica). Apparentemente, ma solo apparentemente, le cose si semplificano in Anche i nani hanno cominciato da piccoli. La rivolta di un gruppo di nani sull’isola di Lanzarote nelle Canarie, però assume ben presto altre valenze di quelle di una sessantottesca protesta antiautoritaria dato che il regista continuamente dissemina il film di inquietanti metafore (il cerchio, la gallina, ecc.) e, liquidate quasi immediatamente le ragioni della rivolta, passa a far mimare ai suoi lillipuziani le convenzioni della vita quotidiana in un gioco surreale. E dopo un altro straordinario documentario Land des Schweigens und der Dunkelheit (Ilpaese del silenzio e dell’oscu­ rità, 1970-71), poetico studio sull’emarginazione dei sordo-ciechi e sulla comunicazione umana, arriviamo ad Aguirre, der Zorn Gottes (Aguirre, furore di Dio, 1972), con cui il regista non solo scopre il suo attore-feticcio, Klaus Kinski, che diventerà il simbo­ lo del suo cinema (6), ma ottiene anche un primo successo di stima internazionale, rielaborando il tema del rapporto uomo-natura cosi come già lo si conosceva da Lebenszeichen. L’ambientazione storica più precisa, un esotismo più spettacolare e l’interpretazione allucinata di Kinski hanno contribuito a rendere meno astratta la (6) A questo straordinario attore morto nel 1991 che ha prestato un decisivo apporto al cinema herzoghiano in cinque film, il regista monacense ha, di recente, consacrato un documentario-seduta psicanalitica, Mein Liebster Feind (Kinski, il mio nemico più caro, 1999) in cui ricostruisce sulla scorta di materiale inedito il suo tormentato rapporto di amore-odio con Kinski, il “folle”.

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parabola di un folle conquistatore spagnolo votato alla sconfitta nella conquista di un mitico Eldorado. E il primo di una lunga serie di successi che porterà Herzog a diventare uno dei registi più acclamati del periodo con un serie di opere di fiction, tra cui vor­ remmo ricordare, per lo meno: L’enigma di Kaspar Hauser (Pre­ mio speciale della giuria di Cannes nel 1975), Cuore di vetro o Nosferatu, Phantom der Nacht {Nosferatu, il principe della notte, 1978), il remake del celebre classico di Mumau, un film amato sino all’ossessione da Herzog; ma non da meno sono anche due documentari veramente fuori dal comune: Die grosse Ekstase des Bildschnitzers Steiner {La grande estasi dell’intagliatore Steiner, 1974) oppure La Soufrière (Id., 1976) realizzato, secondo il suo stile, in prossimità di un vulcano sul punto di esplodere. Sino ad oggi il culmine del cinema herzoghiano è stato rappresentato dalla sua impresa più estrema Fitzcarraldo (1982), sempre per l’inter­ pretazione di Klaus Kinski, più volte interrottosi per difficoltà di lavorazione, che rappresenta un proseguimento molto più convin­ cente e senza le ruvidezze narrative di Aguirre, un film di compo­ sta gestione della follia. A partire da quel momento sino ad oggi Herzog non è mai più riuscito a superare o almeno eguagliare se stesso se non forse, lontano dalla fiction, in Lektionen in Finsternis {Apocalisse nel deserto, 1991), sulle catastrofiche conseguenze ecologiche della Guerra del Golfo viste come science-fiction dove riprende ed approfondisce il discorso ecologico poetico-polemico di Fata Morgana.

5. Dallo Junger Deutscher Film al Neuer Deutscher Film Ma torniamo indietro, alla fine degli anni Sessanta: la congiun­ tura favorevole, le chance dello JDF vengono messe in forse dal­ l’approvazione, nel dicembre 1967, di una nuova legge-quadro sulla cinematografia che, mentre si pone come obiettivo “un incre­ mento sensibile della qualità del cinema tedesco”, contemporanea­ mente lo vanifica privilegiando un sistema di ristorni automatici ai film già premiati dalla cassetta. Malgrado alcuni successi iniziali di pubblico e la messe di premi vinti nei grandi Festival intemazio­

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nali, i giovani cineasti si vedono esposti alla dura legge del merca­ to, mentre l’improvviso esplodere della rivolta giovanile con la sua palingenetica radicalità “bruciano” e fanno apparire invecchiato di colpo l’impegno e le prospettive espresse appena uno o due anni prima dai cineasti dello Junger Deutscher Film (che a quel pubbli­ co giovanile si rivolgeva). E possibile immaginare, per esempio, con quale imbarazzo e sentimenti contrastanti abbia potuto riceve­ re Alexander Kluge il Leone d’oro per Artisten in der Zirkuskuppel: ratios — massimo riconoscimento intemazionale ad un film tedesco dai lontani tempi di Der Kaiser von Kalifornien (L’impe­ ratore della California, 1936) di Luis Trenker — in una Mostra di Venezia come quella del ‘68 sconvolta dalla contestazione studen­ tesca. Fra l’altro proprio questo film trova divisa la critica tedesca che sino a quel momento aveva sostenuto incondizionatamente la “Neue Welle”: sulla rivista “Filmkritik” l’autorevole critico Enno Patalas, recensendo insieme Artisten..., Eine Ehe (Un matrimonio, 1968) di Strobel/Tichawsky e Bis zum Happy End (Sino all’happy-end, 1968) di Theodor Kotulla afferma che gli occhi dei loro registi “sono morti”. Oltre ai collettivi di cinema militante, formatisi nelle varie Scuole di cinema di Berlino e Ulm, o alla contestazione sessantot­ tesca dei Festival di Oberhausen e Berlino, lo spirito del ‘68 si esprime per esempio nel primo film femminista tedesco, Neuen Leben hat die Katze (Il gatto ha nove vite, 1968) di Ula Stòckl, ma l’aura dei tempi è evidente anche in un’opera di crisi come Cardi!lac di Edgar Reitz, dove la problematica dell’autoritarismo del regista e la rivolta della troupe entrano a far parte del tessuto del film; Volker Schlòndorff, invece, attualizza Michael Kohlhaas (La spietata legge del ribelle, 1969) tratto dal celebre racconto di von Kleist, premettendo, ai titoli di testa, materiale documentario sulla rivolta studentesca. Ma le tracce del ‘68 si ritrovano inaspettata­ mente persino in autori come Werner Herzog (che comunque aveva contestato l’Orso d’argento assegnatogli per Lebenszeichen al Festival di Berlino): Anche i nani hanno cominciato da piccoli può essere letto (non solo, ma anche) come una parabola del rivoluzionarismo di allora. Il cinema dell’ultimo biennio degli anni Sessanta si pone, dun-

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que, sotto il segno di una riflessione crisi-nuovo inizio per molti, mentre si accavallano i debutti, nel lungometraggio di finzione, di una serie di altri autori non più immediatamente legati all’espe­ rienza di Oberhausen e dintorni. La palla passa di mano: Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, prima di abbandonare la RFT per trasferirsi a Roma nel 1969, girano ancora II fidanzato, l’attrice e il ruffiano 1968) e regalano ad un giovane regista tea­ trale, Rainer Werner Fassbinder, una lunga sequenza sulla Lansbergerstrasse che egli inserirà nel suo primo lungometraggio Liebe ist kàlter als der Tod (L’amore è più freddo della morte, 1969). Insieme a lui debuttano ancora sul grande schermo: Syberberg, Fleishmann, Geissendorfer, Lilienthal Hauff, Robert van Ackeren e Wenders. Lo “Junger Deutscher Film” lascia il posto al “Neuer Deutscher Film” che dominerà la scena intemazionale degli anni Settanta. Accenniamo, infine, alle conseguenze del modello di sviluppo impostato dal “Kuratorium”, che valgono per il primigenio gruppo di Oberhausen, come per chi se ne tiene da parte (Herzog, per esempio) e anche per chi vi polemizza (Straub e i “sensibilisti” di Monaco). Quando sorge l’idea che il cinema d’autore, per poter vivere, deve essere sovvenzionato da finanziamenti pubblici, si adotta prevalentemente anche la soluzione secondo cui il regista, oltre che regista-sceneggiatore, è anche produttore di se stesso, cosa avvenuta anche in Francia per parecchi autori della “Nouvelle vague”. Ciò comporta un’ulteriore polverizzazione della produ­ zione, in tantissime imprese familiari-artigianali, in concorrenza l’una con l’altra per attingere alle sovvenzioni, e quella caratteri­ stica dialettica tra un individualismo estremo di singoli e una generalizzata solidarietà quando si tratta di interessi comuni. Per dirla, insomma, con il titolo originale del Kaspar Hauser di Wer­ ner Herzog: Jeder fur sich und Gott gegen alle, Ognuno per sé e Dio contro tutti. Come dalle premesse anche la successiva storia del nuovo cinema tedesco sarà quella d’isolate personalità o mini­ gruppi e clan, che si uniscono poi nei momenti di necessità. Alla svolta del decennio, lo Junger Deutscher Film, ormai adul­ to, presenta tutte le caratteristiche che successivamente gli confe­ riranno notorietà e prestigio internazionale. Il fatto che abbia

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seguito strade diverse dalla “Nouvelle vague” e che non ne abbia forse eguagliato la sfolgorante bellezza, non ci autorizza ad indul­ gere ad una sua radicale svalutazione come oggi sembra di moda tra alcuni giovani critici. Anche se avesse ragione Thomas Elsaesser quando, in un saggio per altro molto fine, conclude che “il valore e il piacere dello Junger Deutscher Film sono sicuramente accidentali” (7), noi continuiamo ad apprezzarne la varietà di pro­ poste e il coraggio delle scelte. Anche a contestare la qualità dei primi film di Kluge, Reitz, Herzog, ecc. — qualità che, malgrado tutto, anche a distanza ci sembra innegabile —- non è possibile ignorare che le dinamiche innestate dallo Junger Deutscher Film dal 1965 in poi produrranno un modello di cinema di lunga durata con delle vette di sorprendente levatura. Se poi questo modello sia quello ideale, se i risultati piacciano o meno, è questione di gusti e materia di contesa.

6. Rainer Werner Fassbinder Quando nel 1982 Rainer Werner Fassbinder (RWF) muore a Monaco a soli 37 anni, la sua filmografia conta, oltre a quattro tra corto e mediometraggi e un documentario teatrale, 38 opere di lungometraggio cine-televisive, tra cui un serial tv in cinque pun­ tate, Acht Stunden sind kein Tag (8 ore non fanno un giorno, 1972), e il mastodontico sceneggiato Berlin Alexanderplatz (id., 1979-80), in 14 puntate per la durata complessiva di 933 minuti pari a 15 ore e 55’, la più costosa produzione della tv tedesca sino a quel momento (e forse sino ad oggi). Si tratta, quindi, di un’ope­ ra sterminata e tra le più significative del cinema moderno (a cui dovrebbe essere aggiunta l’attività parallela, ma altrettanto fonda­ mentale, di regista e di autore teatrale iniziata nel 1967 con il gruppo dell’’’action-theater”) che sembra non conoscere dei punti veramente bassi e spazia per argomenti e generi diversi, ma che ha, nella riconsiderazione critica del melodramma, il suo punto (7 ) Thomas Elsaesser, Dal cinema degli autori alla piccola Hollywood in Giovanni Spagnoletti (a cura di), Junger Deutscher Film, cit. p. 26.

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archimedico. Tuttavia l’importanza dell’qpi/s fassbinderiano non sta, banalmente, solo nella sua incredibile mole e diversificazione, quanto nei continui impulsi produttivi che ha saputo fornire alla cinematografia tedesco-federale, di cui è stato una delle maggiori personalità in assoluto. Se, dunque, molto schematicamente, il teorico Alexander Kluge ha rappresentato il cervello dello Junger Deutscher Film, Herzog il viaggiatore, Wenders lo stilista, Fas­ sbinder, invece, ne ha costituito la pompa propulsiva, il cuore. Cuore anche perché l’appello ai sentimenti, alla vita ha costituito una costante preoccupazione del regista bavarese — e ciò in una nazione dove questa parola, il “sentimento” sembra quasi assume­ re un contenuto spregiativo. In diverse occasioni, poi, — ed è stato un traguardo raggiunto da nessun altro dei suoi colleghi — il cinema fassbinderiano è riuscito a collegare espressione e comuni­ cazione, qualità e pubblico, senza notevoli compromessi (com’è avvenuto con il successo de Die Ehe der Maria Braun (Il matri­ monio di Maria Braun, 1979) che lo ha fatto conoscere intemazio­ nalmente. Oppure, quando non ha sposato cause libertarie — i suoi film contro il terrorismo della RAF o dello Stato -, ha vivifi­ cato un genere tipico della tradizione tedesca post-bellica (ma incanaglito dalla banalità illustrativa), come la trascrizione di opere letterarie: si vedano ad esempio gli splendidi Fontane-Effi Briest (Effi Briest, 1972-74, da Theodor Fontane) o Berlin Alexanderplatz (dall’omonimo romanzo di Alfred Dòblin). Per tutto ciò, comunque, non basta dire che a Fassbinder spetta un posto di rilievo in un ideale Pantheon del cinema postbellico. La sua opera, infatti, rappresenta, come vedremo, una delle vette di un progetto di cinema moderno che non può prescindere e si lega strettamente a quello classico. Pur incrociando, nelle prime prove, lo stile e i nuovi stereotipi della “Nouvelle vague”, Fas­ sbinder sceglie un percorso originalissimo che, dall’impossibilità accertata di restituire lo splendore del classicismo cinematografi­ co, approda ad un modello che si delinea quale uno standard spet­ tacolare, determinato e influenzato dai mutamenti sopravvenuti negli anni Sessanta europei (una strada che per altri versi e con altre coordinate ha compiuto, per esempio, Bernardo Bertolucci). Un modello, quindi, storicamente moderno ma che si nutre della

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classicità, combinando l’archeologia mitica con immagini in pro­ gress. Già i suoi primi due cortometraggi indicano, molto esplici­ tamente, la sintesi provvisoria tentata agli inizi di una breve, ma intensissima carriera. Da un lato Der Stadtstreicher (Il vagabondo, 1965) rivela le affinità elettive e i debiti con Rohmer nell’attenzio­ ne alla ricognizione fenomenologica del personaggio e all’atten­ zione documentaria per gli spazi; dall’altro Das kleine Chaos (Il piccolo caos, 1966) è affascinato dai moduli polizieschi hollywoo­ diani. Si tratta di una doppia identità, una doppia anima, ma, soprattutto, di due facce di una stessa medaglia; e in questa dop­ piezza si manifesta lo strabismo della contaminazione su cui si basa il cinema di RWF. Ma prima di proseguire una rapida scheda biografica:

Rainer Werner Fassbinder nasce a Bad Wòrishofen (Baviera), il 31 maggio 1945 (e non già come scritto da qualche parte nel 1946), dal medico Hellmuth Fassbinder e dalla traduttrice Liselot­ te Eder. Dopo il divorzio dei genitori nel 1951, vive con la madre, che in seguito apparirà in numerosi suoi film come Lilo Pempeit, oppure con il suo vero nome di Liselotte Eder. Frequenta la “Rudolf-Steiner- Schule” e diversi licei ad Augusta e Monaco prima di abbandonare la scuola, nel 1964, senza aver conseguito la maturità. Dal 1964 al 1966 prende lezioni di recitazione al “Fridl-Leonardo-Studio” di Monaco, dove incontra la sua futura “star” Hanna Schygulla e, contemporaneamente, lavora nell’archi­ vio del quotidiano “Suddeutsche Zeitung” e come comparsa ai “Munchener Kammerspiele”. Nel 1965/66 gira due cortometraggi e fa domanda di iscrizione alla “Accademia di cinema e televisio­ ne” di Berlino, dove però non viene ammesso. Nel 1967 entra a far parte dell’Action-Theater, con cui l’anno successivo rappre­ senta la sua pièce teatrale Katzelmacher (’), poi diventato il suo

(8 ) I testi teatrali di Fassbinder sono ora disponibili anche in italiano: Rainer Werner Fassbinder, I rifiuti, la città e la morte e altri testi a cura di Roberto Menin, Ubulibri, Milano 1992 (comprende oltre zi rifiuti.., Sangue sul collo del gatto e Le lacrime amare di Petra von Kant)', Rainer Werner Fassbinder, Antiteatro II a cura di Roberto Menin, Ubulibri, Milano 2002 (comprende: Per un pezzo di pane. Come gocce su pietre roventi, Kazelmacher, Il soldato americano e Libertà a Brema).

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secondo film nel 1969 (e suo primo successo di critica). Nel mag­ gio 1968 il teatro viene chiuso dalla polizia e Fassbinder fonda, insieme a una decina di ex-membri (tra cui alcuni suoi storici col­ laboratori: l’attrice Hanna Schygulla, il musicista Peer Raben e Kurt Raab, attore, scenografo e regista), il collettivo dell’antiteater. Sino al 1971 svolge un’intensa attività teatrale (oltre che a Monaco anche a Brema e Bochum), mettendo in scena una venti­ na di pièce mentre prosegue il lavoro di regista cinematografico (iniziato nel 1969) e radiofonico. Pur essendo omossessuale, nel 1970 sposa l’attrice e cantante Ingrid Caven, da cui divorzierà due anni dopo. Nel 1971 fonda la sua casa di produzione, il “Tango-Film”, e aderisce alla cooperativa di distribuzione collet­ tiva “Filmverlag der Autoren”, da cui si staccherà nel 1977. Nel 1974 — l’anno in cui ottiene il suo primo successo cinematografi­ co di pubblico con Effie Briest — a Fassbinder viene affidata la direzione del “Theater am Turin” (TAT) di Francoforte, ma dopo un anno di attività si ritira per dedicarsi ormai quasi esclusivamen­ te al cinema. Nel 1976 viene accusato di antisemitismo per la pièce Der Miill, der Stadi und der Tod (I rifiuti, la città e la morte), che per le proteste non verrà messa in scena solo dieci anni dopo, nel 1985, post mortem, ma che viene filmata per la regia di Daniel Schmid con il titolo Schatten der Engel (L’ombra degli angeli, 1976). Amareggiato dalle polemiche e dalla mancata realizzazioni di alcuni progetti (le trasposizioni del romanzo di Gerhard Zwerenz Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond e di Soli undHaben di Gustav Freytag), dichiara l’intenzione di lascia­ re la RFT per trasferirsi negli USA proposito che però non attua. Dopo aver girato nel 1977 il suo primo film ad alto budget con un cast internazione, Despair, nel 1979 coglierà un successo mondia­ le con la prima parte della sua trilogia sulle origini della RFT: Il matrimonio di Maria Braun in cui Hanna Schygulla, dopo una lunga pausa di 5 anni, è di nuovo la protagonista. Ormai compietamente affermatosi, vince nel 1982 l’Orso d’oro al Festival di Ber­ lino per Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss). Qual­ che mese dopo, appena concluse la lavorazione di Querelle (Que­ relle de Brest), muore nel suo appartamento di Monaco il 10 di giugno.

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Come si vede da questa tumultuosa vita, la sperimentazione di Rainer Werner Fassbinder si consuma d’ambiè alla fine degli anni Sessanta, in un apprendistato fulminante: prima, nel 1967-69, una frenetica attività teatrale, poi, nel biennio 1969-71, 11 regie cine-televisive. Godard, Melville, Straub, il gangster-film ma anche Brecht e il proprio stesso teatro popolar-bavarese continua­ no a tornare, come sintesi provvisorie in via di decantazione, lungo l’arco di brevi, tumultuosi anni di cinema. Il gusto della citazione e il piacere metatestuale, tipico della modernità (e che poi diventeranno la cifra fissa del Postmodern), progressivamente vengono integrati, nell’universo narrativo fassbinderiano, assieme a Hollywood e alle ipercodificazioni del melodramma; e sono da subito utilizzati come depositi, tralicci, puzzle nei quali iscrivere e scoprire le strategie dei sentimenti. Tuttavia quasi sempre i suoi film, anche i più affollati, i più intasati di spunti narrativi e di per­ sonaggi, si riducono ad un modello basato sulla frizione, l’interse­ zione, lo scambio a due, che ritorna ossessivamente nell’opera di Fassbinder. E uno scambio intorno al quale proliferano gelosie, amori inespressi, delusioni, consapevolezze d’impossibilità, e intorno al quale si strutturano tutte le dissonanze dell’infelicità dovute alla Storia con la Esse maiuscola, alla società, ai lutti per­ sonali, all’incapacità di controllare il proprio destino. Le eroine femminili in primis (’), e poi i deboli, gli emarginati, gli omosessuali, — tutti i protagonisti del suo cinema — sono i corpi sui quali, meglio che su altri, controllare gli effetti dell’op­ pressione, far risultare la dialettica vittima/camefice che costitui­ sce la molla primaria della sua Weltanschauung pessimista. L’in­ contro decisivo con Detlef Sierck/Douglas Sirk, come meglio vedremo, convince Fassbinder dell’opportunità di costruire melo(’) Ha detto Fassbinder: “Io critico le donne, esattamente come gli uomini. Ma ciò che accade, ciò che voglio dire sulla società, posso meglio dirlo quando prendo delle donne come figure centrali. Le donne sono più interessanti perché da una parte sono tal­ mente oppresse e dall’altra non del tutto, ma utilizzano la loro oppressione anche come un terrorismo molto efficace. [...] È anche molto più divertente lavorare con le donne perché si possono fare con esse delle cose molto più folli. Gli uomini sono sempre emi­ nentemente razionali e un tantino primitivi nei loro modi di espressione. Con le donne si può piangere, ridere, gridare, e far fare loro un mucchio di cose, invece con gli uomini tutto diventa presto noioso..

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drammi hollywoodiani senza Hollywood, ovvero di realizzare film intersecandoli alla cultura e alla storia del proprio paese e dell’Europa, e calandoli nella realtà sociale dei diseredati e dei diversi. Tale scoperta consente, allora, al regista bavarese una ricostruzione tra l’archeologia e la memoria, tra il passato e il pre­ sente della Storia e della società tedesca, osservata, quasi spiata, da un buco della serratura, negli effetti che produce all’interno dello scambio di amore e morte. Da tale pulsione primaria nasce una filmografia frenetica, conclusasi a meno di quarant’anni. Ormai diventato un mito del cinema moderno per la sua velo­ cità di realizzazione, per l’assolutamente straordinaria intensità creativa (ai suoi lavori per il cinema, vanno aggiunti: 19 film d’al­ tri registi interpretati, 4 sceneggiature per film altrui, 4 lavori radiofonici, 28 regie teatrali, 10 testi teatrali, ecc.), per l’eccezio­ nale capacità di valorizzare i collaboratori integrati in un “gruppo” (nessuno degli attori da lui abitualmente utilizzati ha mai più eguagliato i risultati con lui raggiunti, a parte il caso di Hanna Schygulla), Fassbinder ha svolto un ruolo storico unico nel suo paese: ha cercato di far uscire il NCT da uno stato di minorità eli­ taria, soprattutto nell’ultima fase del proprio lavoro, a partire da II matrimonio di Maria Braun, per giungere con strumenti tutti euro­ pei all’immediatezza mitica del cinema americano. Con la sua morte nel 1982 (e quella nello stesso anno del maggiore regista dall’altra parte del muro, Konrad Wolff) finirà un’epoca. Cercando adesso di individuare le linee direttive del cinema di Fassbinder nei suoi primi anni di apprendistato cinematografico, potremmo allora enucleare i seguenti punti: 1) I Gangster-film dove, a partire dal suo debutto, Liebe ist kàlter als der Tod o nei successivi Gòtter der Pest (Gli dei della peste, 1969) e Der amerikanische Soldat (II soldato americano, 1970) si raffigura, quasi fosse l’America dei Roaring Twenties, una Monaco stilizzata del crimine e dei bassifondi. Sono opere fotografate in un ruvido ed espressionistico b&n da Dietrich Loh­ mann, trasudano una forte cinefilia, per esempio in Liebe... Ulli Lommel rifà il verso, cita esplicitamente l’Alain Delon di Le samouraì (Frank Costello faccia d’angelo, 1967) di Jean-Pierre Melville — ma la loro “tristezza”, il loro parlare di poveracci per­

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denti, li differenzia, in modo netto, dai coevi gialli dei “sensibilisti” monacensi, molto più marcatamente orientati ai modelli vitalistici di Hollywood. Oltre che dal taglio teatrale (le entrate e uscite di scena, le scenografie scabre ed spoglie, ecc.) sono film molto influenzati dallo stile “scanzonato” e antiaccademico della “Nou­ velle vague”, in particolare da Jean-Luc Godard (il cui Vivre sa vie Fassbinder afferma aver visto 27 volte! (10)), nei lunghi carrelli a scorrere e soprattutto, in una grande essenzialità “spartana”, dall’insegnamento di Jean-Marie Straub come lo stesso Fassbinder ha confessato più volte (“). 2) Filmare pièce teatrali (proprie o di altri), come è il caso del suo secondo film Katzelmacher (Il fabbricante di gattini, 1969), che vengono trasposte per lo schermo (piccolo e grande), inaugu­ rando una pratica che arriverà sino a Frauen in New York (Donne a New York, 1977). Oltre che suo primo successo di critica, Kat­ zelmacher è interessante in quanto costituisce uno dei più riusciti esempi di nuovo “Heimatfilm”, più e meglio dei successivi esperi­ menti: dal tv-movie Pioniere in Ingolstadt (Pionieri a Ingolstadt, 1970), sino a Wildwechsel (Selvaggina di Passo, 1972). A questo riguardo dobbiamo ricordare che per cercare di ancorarsi al pub­ blico, lo Junger Deutscher Film, infatti, tentò verso la fine degli anni Sessanta una delle poche operazioni di “genere” della sua storia. Si voleva compiere una specie di “lunga marcia” dentro un’istituzione cinematografica, cioè dentro l’Heimatfilm, il filone cinematografico prediletto dal pubblico tedesco degli anni Cin­ quanta, per ribaltarne contenuti e ideologie, utilizzando la stessa ambientazione provincial-contadina, compiendo una diversione a 180 gradi in un giovane cinema sino ad allora solo e prettamente (10 ) Cfr. l’intervista di Wilfried Wiegand, Voglio fare un 'Hollywood tedesca in Enrico Magrelli/Giovanni Spagnoletti, op. cit. pag. 26. All’epoca (1974) Fassbinder considera­ va questo film, insieme a Viridiana di Bunuel, “il film più importante della mia vita”. (n) “L’esperienza che feci allora con Straub, quella sua serietà un po’ comica di lavo­ rare e di rapportarsi agli altri, è stata veramente affascinante. Ci faceva recitare e poi ci chiedeva: “Come vi sembra di aver recitato?”, e era giustissimo fare così, cioè abituarsi ad un certo atteggiamento: quello di osservarsi mentre si recita; è lui ad aver messo a punto questa tecnica che impedisce un’identificazione totale tra il ruolo e l’attore.” (Ivi., pag. 27). Come sappiamo Straub “regalò” a Fassbinder per Liebe... una variante della sua lunga sequenza sulla Landsberger Strasse.

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urbano. L’operazione è preparata dal lavoro coevo di alcuni com­ mediografi popolari bavaresi, come Martin Sperr o Franz Xaver Kroetz (ma anche dallo stesso Fassbinder autore di testi teatrali), che, a loro volta, riprendevano la tradizione social-critica, anni Venti, del “Volkstheater” di una Marieluise Fleisser o di un Òdon von Horvath. Apre il ciclo un film forte (ma molto sopravvaluta­ to), Scene di caccia in Bassa Baviera (1968, da Sperr) di Peter Fleischmann, si prosegue con la Spietata legge del ribelle di Volker Schlòndorff (da Kleist) e si arriva, nel 1970-71, al boom del genere con quattro opere: Der plòtzliche Reichtum der armen Lente von Kombach (L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach) sempre di Schlòndorff, il televisivo Mathias Kneissl (id., su sceneggiatura di Martin Sperr) di Reinhard Hauff, Jaider der einsame Jager (Jaider - il cacciatore solitario) di Volker Vogeler e Ich liebe dich, ich tote dich (Io ti amo, io ti uccido) di Uwe Brandner; oltre ai tre contributi fassbinderiani già ricordati: Katzelmacher (1969), Pioniere in Ingolstadt (1970, dall’omonimo, celebre testo di Marieluise Fleisser) e Selvaggina di passo (1972), “infedele” adattamento della pièce di Kroetz con cui Fassbinder ingaggiò una aspra polemica (12). Anche se il pubblico non onorò questa cervellotica “trappola” tesagli dai giovani cineasti, VHeimatfilm critico, che a volte si era contaminato con elementi western, ha avuto il merito di far scoprire ed acquisire allo Junger Deutscher Film nuovi ambienti, nuove storie e soprattutto l’uso del dialetto. E un’esperienza che poi proseguirà, sotterraneamente, in varie opere isolate di alcuni autori tra cui, ad esempio, nel Wer­ ner Herzog di Cuore di Vetro o in Edgar Reitz dell’epos di Heimat. Tornando a Katzelmacher nel suo secondo film, Fassbinder non esibisce, come in Liebe..., un sincretico repertorio stilistico persi­ no troppo variegato, ma si affida ad una narrazione molto semplice e netta. Essa si basa sulla cruda essenzialità del proprio testo tea­ trale, che è un’aspra denunzia del razzismo e dell’intolleranza poi ripresa con molta maggiore efficacia in Angst essen Seele auf, (La Paura mangia TAnima noto anche con il titolo Tutti gli altri si (12) Cfr. La “pepata” lettera di Fassbinder a Franz Xaver Kroetz in I film liberano la testa a pag. 109-110.

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chiamano Alì, 1973). Il film vive proprio di questo afflato dimo­ strativo, dello studio di quelle premesse e condizioni (apatia, disoccupazione, invidia sessuale) che conducono all’odio, e mostra con concretezza le cause che poi portano all’intolleranza. Questa “urgenza” di engagement sociale si riverbera in maniera totale su una messa in scena rapsodica, fatta di piani fissi e carrelli a scorre­ re, montati in maniera “dura”e senza orpelli, in un jump-cut che Wenders stigmatizzerà in una violenta stroncatura del film: “la cosa orrenda di questo film è il senso di apatia che lo pervade fin nel minimo dettaglio. I tagli di montaggio fanno l’effetto di quan­ do, il sabato sera, si cambia svogliatamente dal primo al secondo programma, e ogni passaggio di canale rende lo spettatore ancora più rabbioso e sconsolato” (13). In Katzelmacher si sviluppa, per la prima volta in modo compiuto, un tema fondamentale dell’opera fassbinderiana, quello dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della dinamica dei gruppi, già anticipata nel suo film di debutto. 3) Un intensissimo lavoro per la televisione, particolarmente intenso agli esordi, ma che è continuato per tutta la sua carriera e che è stato guidato almeno a detta del suo autore da una cosiddetta “estetica della speranza”: “Nei miei film ho lavorato secondo l’e­ stetica del pessimismo mentre in televisione secondo un’estetica della speranza. Ed è questa la fondamentale differenza trai i due “media”. La forma cambia quando si vuole raggiungere un mag­ gior numero di persone. Si possono utilizzare più primi piani in televisione che nel cinema e lo zoom è molto frequente in tv men­ tre può dar noia nel cinema dove si preferisce la carrellata. In tele­ visione si lavora più direttamente con i sentimenti e i loro effetti, con la vera risata, mentre un film dipende soprattutto dall’atmo­ sfera” (14). Anche se questa distinzione ha un valore molto relati(B) Agenda (“Filmkritik” dicembre 1969) ora in Wim Wenders, Stanotte vorrei par­ lare con l'angelo. Scritti 1968-1988 a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Tòteberg, Ubulibri Milano 1989, pag. 41. Wenders così conclude la sua impetosa critica: “In que­ sto film di morti, solo Hanna Schygulla sprizza tanta vitalità che si ha quasi l’impressio­ ne di vederla a colori”. (14) In Giuseppe Ghigi, Rainer Werner Fassbinder, Venezia, Circuito cinema n. 2, 1982, pag. 8 (la citazione è tratta da Christian Braad Thomsen, Quattro colloqui con Rainer Werner Fassbinder in “Positif ’ nn. 183-184, luglio-agosto 1976, ora tradotti in “Solchi” anno V, nr. 1-3, settembre 2001, pp. 53-60).

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vo, nell’opera del regista tedesco, e non serve a spiegare più di tanto una linea di confine difficile da tirare, essa però ci può servi­ re a ribadire quanto sia stato stretto in Fassbinder il nesso inestri­ cabile tra cinema, teatro e televisione, in un orizzonte sostanzial­ mente unitario, quello che sempre filmaker ha definito “la costru­ zione di un edificio con materiali diversi”. In esso la televisione è stato, al pari del teatro, un fondamentale campo di sperimentazio­ ne e assai fertile. Da ciò la varietà del suo approccio e del suo lavoro, articolatosi in una serie molto varia di interventi a carattere televisivo. Oltre a diversi tv-movie, tra cui Rio Das Mortes (1970), Martha (Id., 1973) o Ich will doch nur, dass ihr mich liebt (Voglio solo che mi amiate, 1976), ricordiamo le riduzioni di pro­ pri lavori teatrali in elettronica: Das Kaffehaus (La Bottega del caffè, 1970, dalla commedia di Goldoni), Bremer Freiheit (La libertà di Brema, 1972, dal proprio testo), Nora Helmer (1973, da Casa di bambole di Ibsen), oppure quelli in pellicola: il già citato Pioniere in Ingolstadt. Ma non sono mancati neanche degli inte­ ressanti e non sporadici interventi su generi specificatamente tele­ visivi: dal serial familiare (ma operaio!) Acht Stunden sind kein Tag (Otto ore non fanno un giorno, in 5 puntate), allo show Wie ein Vogel auf dem Draht (Come un uccello sul filo, 1974) a soprat­ tutto lo sceneggiato: per esempio Bolwieser (1977, in due parti) o uno dei suoi massimi capolavori: Berlin Alexanderplatz (1980).

Infine con Warming vor einer heiligen Natte (Attenzione alla puttana santa, 1970), il decimo lavoro di RWF a conclusione del tumultuoso biennio 69/70, arriviamo ad un primo, grande spartiac­ que nella sua produzione, dato che qui si conclude la fase “comuni­ taria” dell’opera fassbinderiana, contraddistinta dall’illusione nel lavoro di gruppo e del collettivo creativo. Tutto ciò si esplica con gli strumenti dell’analisi (il plot che narra la lavorazione di un film “rivoluzionario” e autogestito Patria o muerte, un film “contro la violenza” come si dice nel finale) e dell’autoanalisi (la riflessione sugli avvenimenti della disastrosa lavorazione del precedente Whity, 1970). In un continuo gioco di specchi e di rimandi, Fassbinder si è “estraniato” per la prima volta dagli eventi, mettendo in scena un alter ego di stesso, la figura del Dittatore-vampiro, il regista Jeff,

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che viene interpretato da Lou Castel mentre per lui stesso si è rita­ gliato una parte di “commentatore” degli eventi, interpretando il produttore esecutivo Sascha. Forse non bello ma di sicuro importan­ te, Attenzione... rappresenta un cult-movie sotto vari aspetti ed un “film nel film” molto diverso da tanti altri esempi classici hol­ lywoodiani — per esempio Sunset Boulevard (Viale del tramonto, 1949) di Billy Wilder o The Bad and thè Beautiful (Il bruto e la bella, 1952) di Vincente Minelli ed europei — da Le silente est d’or (Il silenzio è d’oro, 1947) di René Clair a Otto e mezzo (1961) di Federico Fellini -, ma anche da esperimenti di nuovo cinema come il quasi coevo La nuit americane (Effetto notte, 1973) di Truffaut o ancora il Wenders del successivo Der Stand der Dinge (Lo stato delle cose, 1982). Si tratta poi dell’ultimo suo gangster-movie (Patria o muerte il film della cui lavorazione si racconta) per il quale Fassbinder, da buon cinefilo, ha chiamato una star del genere, l’attore americano (ma naturalizzato francese) Eddie Constantine, celebre all’epoca per la parte del detective Lemmy Caution, “il paladino della giustizia con la faccia da criminale”. Ma si tratta anche che di un’opera che, in maniera autoreferenziale affronta la complessa, contraddittoria natura del cinema moderno, lo stato del filmaking in Germania e delle sue difficili condizioni di produzione. Wenders approfondirà, come vedremo, questo punto, mentre Fas­ sbinder riprenderà in Veronika Voss, se pur tangenzialmente e guar­ dando indietro all’era dell’Ufa, il tema del “cinema nel cinema”. Dunque da una parte Attenzione... è un film che mette in scena e conclude l’utopia del lavoro di gruppo (quello derivato dai col­ lettivi teatrali prima dell’Action-theater e poi dell’antiteater), ana­ lizza le nevrosi sado-masochiste della lavorazione e la figura di un “dittatore dolce” senza particolari indulgenze, dall’altra è anche il primo lavoro completamente “professionale” di RWF con un attore di fama intemazionale e realizzato in coproduzione con l’Italia. Insomma cinefilia e confessione privata, analisi e autoana­ lisi spietata dei meccanismi mediatici in un’opera dove, come ha ben scritto Wolfgang Limmer, Fassbinder riesca a “pensare nei film, non soltanto ai film” (15)- Una dimostrazione geometrica che (15)

Giovanni Spagnoletti, op. cit., pag. 217.

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si chiude con una dichiarazione di poetica sull’eterna ambiguità tra arte e vita, citando il Tonio Kroger di Thomas Mann: “Sono stanco di rappresentare l’Umano senza potervi prendere parte”. A partire da questo film Fassbinder abbraccerà come suo gene­ re privilegiato il melodramma sociale e realizzerà uno di seguito all’altro Der Handler der vier Jahreszeiten (Il mercante di quattro stagioni, 1971) e Die bitteren Trànnen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant), che, insieme alla conoscenza dell’opera di Douglas Sirk, costituirà tutto il fondamento del suo successivo lavoro. Ma prima di fare un passo avanti, facciamone due indietro, ricordando come la rinascita del melodramma di cui Fassbinder è stato uno dei massimi promotori nel cinema moderno, avviene quando questo genere, che aveva conosciuto il suo momento di fulgido splendore negli anni Quaranta-Cinquanta, era ormai estin­ to al cinema ed era trasmigrato in tv sotto forma di soap-opera. Tale rinascita è sostanzialmente introdotta verso la fine degli anni Sessanta dalla riscoperta del regista tedesco-hollywoodiano, Dou­ glas Sirk/Detlef Sierck che, sino ad allora, era ancora un perfetto sconosciuto e veniva considerato un anonimo mestierante. Negli anni Settanta il repechage di questo autore avviene un po’ in tutta Europa (inizia al Festival di Edimburgo nel 1972) e buon ultima arriva anche in Italia (a Roma nel 1979 viene fatta la prima retro­ spettiva di Sirk). Il fatto che il melodramma classico, i cosiddetti “weepies”, i film strappalacrime, siano cominciati ad essere stu­ diati solo in epoca relativamente recente, a partire dagli anni Set­ tanta, è dovuto soprattutto alla cattiva nomea di questo genere consideratodagli intellettuali, sino a quel momento, una pratica bassa e indegna d’attenzione, quasi come la pornografia. A questa prima, aggiungiamo una seconda premessa: quando il melodramma cinematografico rinascerà a partire dagli anni Set­ tanta, non ubbidisce più a delle regole precise, bensì diventa una scelta autonoma di ogni singolo autore che istituisce allora una sua propria strategia compositiva. In Europa e nel cinema d’autore “vague” comincerà allora a nascere un nuovo orientamento, men­ tre ad Hollywood alcuni film isolati continueranno in qualche modo a proseguire il genere, per quanto in molti casi essi saranno

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diretti da registi dalla forte personalità (per esempio Scorsese o Coppola). In particolare in Europa si andrà sviluppando quel che è stato chiamato da una parte il melodramma “critico” e dall’altra “l’ipermelodramma” o “melodramma sintetico”. Entrambe queste strade sono legate a scelte di regia fortemente autonome, meno condizionate dalla struttura del genere e più dalle suggestioni autoriali del nuovo cinema, ed è perciò più facile trovarne vari esempi nelle cinematografie europee. Entrambe le tendenze sono il risultato di uno sguardo “postmoderno”: considerano il genere come un’esperienza estetica definitivamente conclusasi negli anni Cinquanta, e, nel riproporlo, muovono proprio da questa consape­ volezza storica. L’atteggiamento degli autori contemporanei potrebbe essere, quindi, avvicinato a quello dei Manieristi fioren­ tini del cinquecento verso i grandi maestri della classicità: presup­ pone cioè la coscienza di arrivare “dopo” il completamento di un certo ciclo della storia dell’arte, e comporta l’impotenza, l’impos­ sibilità di creare “dal nulla”, poiché tutto è già stato creato (si ricordi la sintomatica frase di Jeff nel finale di A Menzione... quan­ do afferma, ad un giornalista che lo intervista, che ormai al cine­ ma non c’è più nulla da creare). Tuttavia tra le due tipologie c’è una fondamentale differenza: mentre gli autori che rientrano nella linea “critica” considerano il melodramma come uno strumento ancora utilizzabile, anzi addirit­ tura più efficace di altri, per rappresentare la contemporaneità alla luce di un “Senso”, i fautori deH’”ipermelodramma” muovono da un presupposto nichilista molto più radicale, che al concetto stesso di “rappresentazione” sostituisce quello di “simulazione”: il gene­ re viene cioè inteso come un favoloso repertorio di gesti assolutamente vuoti, forme “pure” ormai prive di ogni significato che si “citano” e si imitano, dei simulacri ormai svuotati di significato. Alla prima linea appartiene Fassbinder (e la prima fase di Almo­ dovar), al secondo la scuola francese di Leo Carax, Luc Besson, ecc. (o gran parte del nuovo cinema spagnolo contemporaneo con Julio Medem in testa). Non potremo occuparci, per mancanza di tempo, dell’ipermelodramma contemporaneo, ma cerchiamo, invece, di dare una prima definizione del melodramma “critico”, ossia di quello che in RWF da adesso chiameremo melodramma

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“sociale”. Definiremo allora melodrammi “critici” quei film che si riallacciano alla tradizione del melò hollywoodiano classico, riproponendone la struttura narrativa forte e le tecniche di messa in scena simbolica, con un atteggiamento allo stesso tempo parte­ cipe e “distanziato”. Non si tratta dunque di un atteggiamento “de-costruttivo”, perché la partecipazione emotiva da parte dello spettatore non è sacrificata ad un approccio squisitamente metalin­ guistico, ma è comunque un approccio storicista, ovverosia consa­ pevole della collocazione del genere nella storia del cinema, della sua funzione, e delle sue strategie di seduzione e mistificazione. Si tratta dunque di opere che, proprio mantenendo intatta la natura essenzialmente epidittico-morale del melodramma, se ne servono per rispecchiare una coscienza tragica della società contempora­ nea, e si collocano sempre “all’opposizione” in termini politici, denunciando le contraddizioni del Sistema. Sono film che rivelano sempre una forte presenza autoriale, contraddicendo così quella natura impersonale, seriale, di genere che era, invece, tipica del melò classico hollywoodiano. Ciò significa una maggiore intro­ spezione psicologica e un forte avvicinamento o addirittura coin­ cidenza con il dramma realista, secondo il dettato primo del Cine­ ma Moderno di mettere in scena il “mondo come set”. Fassbinder scopre Douglas Sirk all’inizio degli anni Settanta, in un momento decisivo della sua carriera, quando, come abbiamo visto, ha già consumato in modo personalissimo l’esperienza della propria “Nouvelle vague”. Questa scoperta è testimoniata da un bel saggio da lui scritto nel 1971 e pubblicato sulla rivista “Femsehen und Film”. (16) Ciò che maggiormente interessava a RWF nel cinema di Sirk, era la sua capacità di rappresentare con estrema chiarezza la crisi dell’individuo nella società capitalista, offrendo allo spettatore medio la possibilità di rispecchiarsi e prendere coscienza della propria condizione. Ciò è possibile, a detta di Fassbinder - secon­ do un’interpretazione che si accorda con le letture coeve dell’ope­ ra sirkiana da parte dei critici anglosassoni — tramite il metodo (16) Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk ora in Rainer Werner Fassbinder, I film liberano la testa, a cura di Giovanni Spagnoletti, Ubulibri Milano 1988, pp. 9-20.

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del “distanziamento”, ottenuto con un complesso lavoro di messa in scena, che permette allo spettatore di riflettere su un dato pro­ blema, senza essere sopraffatto dalle implicazioni emotive che esso comporta. Come scrive a proposito di All That Heaven Allows (Secondo Amore, 1955): “I film di Douglas Sirk sono descrittivi; molto raramente ci sono primi piani. Persino nel campo/controcampo l’interlocutore non viene ripreso tutto in quadro. Le sensazioni profonde dello spettatore non nascono dal processo di identificazioni, bensì dal montaggio e dalla musica. Perciò si esce insoddisfatti dai suoi film: si è visto qualcosa degli altri e quanto ci concerne lo si può conoscere liberamente o comprenderlo ridendo” (17).

È dunque proprio il rifiuto della verosimiglianza - “il cinema della verosimiglianza, ha dichiarato in un intervista, falsa la realtà. Io rifiuto la tautologia. Si rende la gente ancora più stupida se le si mostra la realtà come si pensa che la immagini. Ciò che bisogna fare, è liberare il “senso” della realtà” - quello che permette la presa di coscienza: per “riconoscere” e comprendere ciò che ci fa soffrire, per “liberare la testa”, come dice Fassbinder a conclusio­ ne della trattazione di Written on the Wind (Come le foglie al vento) (18), dobbiamo riuscire a sottrarci alla percezione abituale degli eventi, alla consuetudine dello sguardo. Ci troviamo, allora, nelle vicinanze del principio dello “straneamento” teorizzato da Bertold Brecht per il teatro: si può riuscire a vedere un oggetto solo se ci si colloca ad una certa distanza da esso, quanto basta per consentire la messa a fuoco. Così il “sentimento intenso” che lo spettatore prova di fronte alla rappresentazione non è più il frutto di un’identificazione passiva, ma di una totale comprensione; il patetico del melodramma, lungi dall’essere sacrificato al filtro “critico” della messa in scena, ritrova, proprio grazie ad essa, il suo significato più profondo. (17) Ivi, pag. 11. (18) “Le luci di Sirk sono le più innaturali possibili: la presenza di ombre là dove non dovrebbero esserci, rendono plausibili dei sentimenti che altrimenti considereremmo inverosimili. Anche le inquadrature, quasi esclusivamente oblique e in prevalenza dal basso, sono scelte in modo tale che quanto risulti strano nella storia passi sullo schermo e non nella testa dello spettatore. Il cinema di Douglas Sirk vi libera la testa”. Ivi pag. 14.

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Tornando ai film di RWF, come si diceva, egli realizza uno di seguito all’altro II mercante di quattro stagioni e Le lacrime amare di Petra von Kant (dalla sua pièce teatrale), dove mette in pratica per prima volta (ma già annuziate da Whity) le nuove acquisizioni sul melodramma, per applicarlo al suo Leitmotiv tematico: il vampirismo dei sentimenti nei rapporti umani. Prima produzione della casa di produzione di Fassbinder, Il Tango-Film, Il mercante di quattro stagioni conquistò la critica per la nuda semplicità (“le storie più sono semplici e più sono vere” — ha dichiarato in un’altra intervista) con cui viene messa in scena una parabola di sapore brechtiano: un uomo va in malora, Hans sprofondando lentamente nel mutismo e nell’isolamento per­ ché non è amato dal mondo e in particolare dalle donne della sua vita (la moglie Irm e la madre, mentre il suo “unico amore”, Ingrid Caven non lo ha potuto sposare perché è un uomo di lignaggio inferiore). Insomma, ancora una volta, la storia di un fallimento e di un looser: una persona da cui gli altri si aspettano che diventi qualcuno, mentre lui si rifiuta sistematicamente e caparbiamente di ottemperare a questo compito — e così si suici­ derà, bevendo sino a morire. L’unico che lo difende (e lo capisce), è la sorella Hanna (Schygulla) che è la coscienza critica del film, la vera forza di una famiglia al solito senza padre (come quella di Fassbinder). Raccontato dal punto di vista del protagonista e in un misto atemporale che però è ancorato ai “tristi” anni Cinquanta (è il primo dei film fassbinderiani che indaga l’Era Adenauer), Il mercante... si connota, tra l’altro, per la fotografia molto bella di Dietrich Lohmann che scolpisce i volti. A differenza de II mercante... che rappresenta un ampio affre­ sco sulla dipendenza, Le lacrime amare di Petra von Kant è più teatralmente concentrato su uno spazio unico e su tre personaggi. Tratto daH’omonimo testo teatrale che l’autore aveva messo in scena con scarso successo l’anno prima, Le lacrime... è una dimo­ strazione implacabile e matematica dei rapporti di dipendenza nel micidiale triangolo che si instaura tra Petra, Karin e Marlene, secondo la legge “chi più ama, più soffre”. Il film ,tutto girato in una stanza, è un perfetto Kammerspiel animato dalla mobile mdp di Michael Ballhaus che si insinua tra le tre donne, captandone

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come un termometro gli umori e le isterie, una piccola tragedia greca esaltata dalla grande recitazione, in un duello a distanza, delle due principali eroine del cinema fassbinderiano Hanna Schy­ gulla e Margit Carstensen (che decisamente surclassa la rivale). Tutte le acquisizione di Fassbinder sul genere culminano, però, in La Paura mangia rAnima, “remake” inventivo di Secondo Amore, di Douglas Sirk, che è il film che meglio ci aiuta a com­ prendere, oltre alla “modernità” dell’estetica fassbinderiana, il suo stretto legame col melodramma classico. Il film di Sirk raccontava la storia di una ricca vedova (Jane Wyman) che s’innamora del suo giardiniere (Rock Hudson), più giovane di lei e di estrazione sociale inferiore, trovandosi così costretta a combattere contro i pregiudizi dei propri figli e dell’in­ tera cittadina di provincia in cui la vicenda ambientata. Nel riprendere il tema del razzismo già espresso qualche anno prima in Katzelmacher nei moduli dell’Heimatfilm, RWF compie due notevoli cambiamenti rispetto all’ originale sirkiano: 1) sposta l’ambientazione della storia da una small-town ame­ ricana — tipico spazio del melò classico (19) — alla Monaco con­ temporanea che, ancor più che in II mercante di quattro stagioni, viene ripresa quasi fosse un villaggio e non una grande città, senza alcun elemento turistico e concentrata in uno spazio ridottissimo secondo il principio del Kammerspiel; 2) i due personaggi princi­ pali non sono dei piccolo-borghesi ma degli emarginati: Emmi, la vedova (interpretata molto efficacemente dall’attrice Brigitte Mi­ ra) è una donna cinquantenne proletaria, è di gran lunga meno (”) “Non è casuale che il teatro più battuto di questo melodramma sia la piccola cit­ tadina-questo grande mito statunitense spesso associato con un preciso tipo di etica-vaie a dire il luogo che nel cinema del passato era invece stato privilegiato, indicato ad esem­ pio di un culto dei valori nazionali (si pensi al suo molo ideale e ideologico nel cinema di Frank Capra). Gli stretti legami fra abitanti, il senso di unità che vi vige e che fino a non molti anni prima erano stati additati a purissimo esempio di spirito americano, diventano ora costrizione e invadenza, meschinità e bassezza d’animo. Da Picnic (1955) di Joshua Logan a Secondo amore (1955) di Douglas Sirk, per arrivare al paradigmatico Ipeccatori di Peyton (1957) di Mark Robson, la small town diventa l’abisso di ogni pic­ cola nequizia, la dimora di menti ristrette e persino morbose. Questo melodramma si fa dunque portavoce della demmcia di tanta meschinità” (Franco La Palla, Il melodramma familiare americano anni ‘50 e sue contraddizioni in Giovanni Spagnoletti (a cura di) Lo specchio della vita, Lindau, Milano 1999, pag. 99.

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curata, attraente e ricca di Jane Wyman, essendo la donna delle pulizie in una piccola fabbrica; parimenti il personaggio del boscaiolo, interpretato da Rock Hudson, diventa quello di Ali, un immigrato marocchino che talvolta stenta a farsi capire in tedesco (come nella scena con il commerciante razzista). L’intreccio, però, resta identico: l’amore sincero tra i due è violentemente contrasta­ to dai pregiudizi dell’ambiente e dei figli, e rischia di soccombere di fronte a tanta ostilità. Interpretiamo la sequenza iniziale che è caratteristica della straordinaria capacità narrativa di Fassbinder: la protagonista, Emmi, entra in un bar frequentato da immigrati marocchini; è inquadrata in campo lungo, così come Ali che è in piedi davanti al bancone insieme ad un amico. Con due carrellate a stringere il regista identifica per il pubblico i due protagonisti della storia: con massima sintesi e chiarezza, RWF mette a fuoco fin dall’inizio i due protagonisti ed il legame che li unisce, entrando subito nel cuore del racconto. Poi Ali, sollecitata da una delle astanti nello squallido bar, quasi fosse una sfida, si avvicina ad Emmi, che seduta da sola ad un tavolo, e la invita a ballare: la donna accetta, e si alza. Mentre ballano, i due sono inquadrati in campo lungo: si tratta di un’esplicita “soggettiva” da parte degli altri avventori e della cameriera che poi scopriremo essere stata un’altra amante di Ali, (Barbara Valentin, grande presenza del cinema tedesco). Essi assistono alla scena con grande diffidenza, solidali nel pregiudizio (razziale e di età) che poi sarà il tema centrale di tutto il film e che in questa sequenza diventa una sorta di leitmotiv musicale. Non solo: in questo modo anche lo spettatore — noi che vediamo — viene collocato automaticamente “dietro il bancone”, cioè dalla parte di coloro che osservano la scena in modo “diffidente”. In effetti, per lo meno in questa prima scena, non si può non avverti­ re un certo disagio guardando i due che ballano al suono di una mielosa canzone popolare (“Der schwarze Usard”): Brigitte Mira, bassa, assolutamente ordinaria nell’aspetto, indossa un vestito da grande magazzino di pessimo gusto; E1 Hedi Ben Salem, alto, abbastanza inespressivo, con un fisico molto forte, è rigido e goffo nel ballo, tanto quanto nel dialogo. La scena è molto forte ed interessante perché cambia, a secon­

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da del punto di vista che lo spettatore potrebbe assumere: può apparire grottesca se si pensa al cliché degli innamorati che tanti melodrammi hanno contribuito a fissare nell’immaginario colletti­ vo; invece è struggente se ci convinciamo dalla vera tenerezza che comincia a nascere tra i due protagonisti e che contrasta con lo squallido opportunismo che circonda l’ambiente. Infatti, il razzi­ smo endogeno nei tedeschi, sembra dirci il pessimista Fassbinder nel film, si andrà attenuando solo per ragioni di opportunità, come ci mostrerà in modo estremamente didattico nella seconda parte del film, nella parte del ritorno delle vacanze dove Emmi, per un momento, sembrerà assaporare il coronamento del suo sogno “sociale” e di rispettabilità “piccolo-borghese”. Le luci mezze spente del bar contribuiscono ad isolare la cop­ pia dal contesto circostante; in questo modo Fassbinder compone il primo “tableau” del film, in cui è già contenuto tutto il racconto: la storia di un amore tanto intenso quanto difforme rispetto alla norma, e dunque contrastato. Il bancone del bar, in questa scena, è il primo di una lunga serie di “filtri” ottici, che si frappongono tra lo spettatore e il soggetto inquadrato: un’esplicita forma di raffreddamento dell’azione e di “distanziamento”; quando Emmi ed Ali, subito dopo, entrano nel palazzo dove abita la donna, ed iniziano a salire le scale, vengono inquadrati da dietro una grata: è la soggettiva della portiera, che li spia mentre si avviano verso la porta di casa di Emmi. E ancora, per esempio nella scena successiva, ma ci sono tantissimi altri casi nel film, mentre seduti ad un tavolo bevono insieme in cucina, i due sono ripresi attraverso una porta aperta. A proposito di questi filtri che Fassbinder utilizza in molte altre occasioni, nel corso del film, Katherine Woodward ha scritto: “La principale tecnica di distanziamento ne La Paura mangia 7 ’Anima è rappresentata dalle inquadrature che mostrano persone intente a fissare Emmi e/o Ali e da quelle in cui i protagonisti sono incorniciati da finestre o porte: questi due tipi di inquadratu­ ra sono composti e ripetuti al fine di rendere lo spettatore consa­ pevole della loro natura di immagini cinematiche. [...] Non solo esse collocano lo spettatore al di fuori dell’azione rappresentata, ma la loro ripetizione nel corso del film allude più generahnente

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al voyeurismo della società. Il mondo si intromette sempre, defraudando gli amanti di ogni possibile privacy ed intimità” (20).

C’è un concetto fondamentale nella poetica di Fassbinder, che in tedesco si riassume nel termine “Einstellung”: esso significa sia “inquadratura” in senso cinematografico, sia “posizione”, “atteg­ giamento” nei confronti di qualsiasi fenomeno, cioè “giudizio” in senso anche morale. Come in Rossellini o Godard, dunque, anche per RWF la scelta del punto di ripresa, F’inquadratura” ha un valo­ re etico ed estetico insieme, e ciò testimonia di come, per il regista tedesco, il cinema sia, essenzialmente, uno strumento di espressio­ ne del soggetto-autore: una concezione ancora “classica” del rac­ conto, ereditata dalla letteratura, in particolare dal romanzo moderno, che l’ideologia del Postmodern sarà destinata presto a sconvolgere. Fassbinder è uno degli ultimi grandi moralisti del cinema con­ temporaneo: per quanto segnato da un pessimismo integrale, egli studia gli uomini e la società senza esimersi dal giudicare, alla luce di principi etici, di valori: se da una parte rifiuta (e spesso irride) il manicheismo troppo ingenuo del melodramma, e lo sotto­ pone al trattamento del “distanziamento” derivato da Brecht (21) in modo da rendere lo spettatore più attivo e consapevole -, dal­ l’altra continua fermamente a credere nella funzione originaria del genere, che quella di scongiurare il relativismo morale. Bilancian­ do questi due aspetti, egli ci mostra i meccanismi del Potere dei sentimenti con una semplicità disarmante, quasi sillogistica: la sua grandezza sta nel fatto che essi appaiono tanto più reali e commo­ venti quanto più sono schematici e privi di sfumature. Come scri­ ve ancora la Woodward: “Allontanandosi gradualmente dal mondo di valori melodrammatici che egli stesso ha fondato, Fassbinder (20) Katherine S. Woodward, European Anti-Melodrama: Godard, Truffaut and Fas­ sbinder in “Post Script”, n. 2, inverno 1984. (21) Rispetto al suo “prestito” dal grande drammaturgo di Augusta, Fassbinder tende però a precisare: “hi Brecht vedete delle emozioni e ci riflettete sopra mentre le osserva­ te, ma non le provate mai davvero. Questo è ciò che penso e io credo di essere andato più lontano di lui perché faccio in modo che il pubblico senta e pensi” (Nell’intervista a Norbert Sparrow, I let the Audience Feel and Think, “Cineaste”, a. Vili, nr.2, autunno 1977 citata da Davide Ferrarlo in Rainer Fassbinder, L’Unità/Il castoro, 1995, pag. 6).

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insiste sull’importanza di spiegare il comportamento umano piut­ tosto che cercare oggetti concreti da amare o odiare” (22). Dunque la polarizzazione dei valori è mantenuta, con l’enfasi tipica del melò: l’amore è quello estremo e disperato, che Errimi dichiara ad Ali stringendogli le mani, mentre i due sono seduti nel cortile di una birreria, unici avventori in mezzo a un mare di tavo­ lini e sedie abbandonati (“Ti voglio bene da qui fino al Maroc­ co...”); l’intolleranza è quella più cieca e feroce, rappresentata dalle vicine di Errimi che, al figlio del padrone di casa che sembre­ rebbe difendere la coppia, rispondono: “Che c’entra la felicità qui stiamo parlando di rispettabilità!”. Contemporaneamente — e qui sta la grandezza del filmaker bavarese — egli è sempre pronto a non idealizzare, in questo, come in tante altre opere successive, le sue vittime che quando possono diventano a loro volta dei carnefi­ ci. E il caso di Errimi che, nel sottofinale del film, non solidarizza con la nuova compagna di lavoro jugoslava, un’emarginata come lei, ma preferisce fare comunella con le compagne di lavoro che sin a poco tempo prima l’avevano emarginata per il matrimonio con il “Katzelmacher”. Ma è anche il caso dello stesso Ali che irri­ de in officina, di fronte ai colleghi di lavoro, l’aspetto e l’età della moglie tanto più vecchia di lui, venuta a ricercarlo, dopo una notte fuori di casa. I meccanismi di questa dialettica camefice/vittima vengono esposti dall’autore con una semplicità disarmante, quasi come una dimostrazione pitagorica: la loro credibilità è direttamente proporzionale alla loro apparente (ma solo apparentemente) mancanza di sfumature. Ciò che colpisce ancora oggi, nel cinema di RWF rispetto a tanti altri filmaker “engagée”, è la capacità di essere commovente e didattico al tempo stesso, semplice e effica­ ce, senza perciò, con la mozione degli affetti, ricattare psicologi­ camente lo spettatore. Ma passiamo al finale del film per cercare di trarre delle con­ clusioni. Proprio la chiusa de La paura mangia / ’anima, rispetto a quella tradizionalmente hollywoodiana di Secondo amore, chiari­ sce nel modo migliore la distanza tra le due epoche e tra i due modelli cinematografici. Mentre nella versione di Sirk l’incidente (22)

Katherine S. Woodward, op. cit.

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di cui era vittima Rock Hudson favoriva la riconciliazione tra i protagonisti, ne La Paura mangia l’Anima la malattia di Ali esplo­ de subito dopo la riappacificazione con Emmi, negando in questo modo il lieto fine. Non si tratta tanto di pessimismo rispetto ai colpi avversi del Fato, ma qualcosa di profondamente diverso. Come ha dichiarato il cineasta: “Ci sono un sacco di ragioni per essere pessimisti, ma non considero tali i miei film. Essi si fonda­ no sull’opinione che la rivoluzione non avviene sullo schermo del cinema ma al di fuori, nel mondo. Quando sullo schermo io mostro alla gente il modo per cui le cose peggiorano, il mio scopo è di avvertirli che così andranno se non cambiano la loro esisten­ za. Non importa se un film finisce in modo pessimistico; se espo­ ne abbastanza chiaramente certi meccanismi così da mostrare alla gente come funzionano esattamente, allora l’effetto finale non è pessimistico”. Fassbinder dunque ci lancia un messaggio molto preciso, affer­ mando che i guasti dello sfruttamento sociale (l’ulcera perforata di Ali — come dice il medico ad Emmi — nasce alle condizioni di stress lavorativo a cui sono obbligati gli immigrati) sono più forti delle convenzioni di genere e minacciano irrimediabilmente un amore già sulla carta impossibile. I due film, dunque, si chiudono con un’inquadratura omologa (la donna al capezzale del proprio uomo), ma con un messaggio di segno quasi opposto. Il che dimo­ stra la capacità e la modernità di Fassbinder di far proseguire il melo classico, e in particolare quello siriano, lungo un cammino impossibile nella Hollywood degli anni Cinquanta, ma ormai diventato necessario più di dieci anni dopo in Europa. In questo procedimento di “adattamento” sta la sostanza “politica” della proposta fassbinderiana, a favore di un’arte popolare impegnata che, ormai lontano dalle reticenze e dal linguaggio cifrato degli Studios, potesse parlare la lingua di un melodramma “liberato”. Su questa scommessa e a partire dall’esempio di Douglas Sirk, RWF ha costruito tutta la sua successiva carriera, sino al suo canto del cigno costituito da Querelle de Brest, che lo ha imposto come un fenomeno praticamente unico del cinema moderno. Accanto al melodramma sociale, accenniamo, infine, a tre altri aspetti fondamentali dell’opera di RWF (che comunque talvolta si

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sono sovrapposti l’un l’altro). Il primo è legato agli adattamenti letterari che costituiscono un capitolo a sé stante del lavoro fassbinderiano e che sono stati guidati da un’ipotesi interessante quanto originale: “un film che riflette sulla letteratura e sul linguaggio deve rendere questo rapporto assolutamente chiaro e trasparente, senza trasformare la fantasia propria in fantasia collettiva, e in ogni sua parte deve darsi a riconoscere come ima possibilità di elaborazio­ ne di un’opera d’arte già esistente. Solo così si legittima la tra­ sposizione filmica, con un atteggiamento nettamente interrogati­ vo rispetto alla letteratura e al linguaggio, un atteggiamento di verifica rispetto ai contenuti del poeta, con un approccio all’opera letteraria personale e di fantasia; non certo cercando di realizzare l’immaginario letterario” (23).

A parte i film tratti dalle proprie pièce, la prima opera in cui riesce a realizzare con successo l’intento che, con tanta lucidità, ha successivamente formulato nel testo precedentemente citato, è Effi Brìest (1974), per altro suo primo grande successo di pubblico (in Germania) e primo film, in cui, secondo l’autore, si avvera un desiderio, un “bisogno d’eternità”, al di là del consueto cinema d’usa e getta (24). Nel rendere l’omonimo romanzo di Theodor Fontane, di cui conserva il tono ironico, Fassbinder procede can­ cellando quasi gli eventi che vengono evocati dal dialogo, dal commento-off (il punto di vista del narratore onnisciente, cioè dello stesso Fassbinder-Fontane) e dalle didascalie di commento. La storia viene, allora, ridotta a quella dei due protagonisti, mentre si presta un’attenzione sinora sconosciuta alla messa in scena, con un ardito uso del bianco e nero e delle dissolvenze in bianco, per evocare le immagini, quasi fossero “pescate dalla memoria”. Il tutto ha comportato una lavorazione insolitamente lunga per la leggendaria velocità fassbinderiana sul set, a cui si è aggiunta una (23) Note preliminari a “Querelle de Brest’’(1982) in Ifilm liberano la testa, cit.,pag. 103. (24) “... I miei film sono da vedere e poi da buttar via, sono legati a una determinata situazione e a un fatto particolare, una volta visti si possono dimenticare. Insomma, fino­ ra, non ho mai provato nessun desiderio di eternità” (1974) in Voglio fare un’Hollywood tedesca in Enrico Magrelli/Giovanni Spagnoletti, op. cit., pag. 29.

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lunga pausa di interruzione di un anno dovuta alla malattia del protagonista, ma ne è valsa la pena dato che Effie Briest ha costi­ tuito, anche grazie all’interpretazione di una dolente e “spezzata” Hanna Schygulla, uno delle vette del cinema fassbinderano, così come lo saranno anche altri due adattamenti letterari della matu­ rità: Berlin Alexanderplatz (1980) e Querelle de Brest (1982). Un secondo aspetto fondamentale dell’opera di RWF è quello legato ai suoi cosiddetti film “privati”, quelli cioè in cui la barriera arte-vita viene quasi abbattuta, in cui l’elemento autobiografico prende decisamente il sopravvento sull’astrazione narrativa, sino a diventare predominante. Si comincia con Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte, 1974), dove Fassbinder, mettendosi in scena nella parte di un piccolo gay proletario, dichiara pubblicamente, per la prima volta, la sua omosessualità. Seguiranno poi Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana, 1976) un film sul­ l’ambiguità dell’artista nella società capitalista, l’episodio del film collettivo Deutschland in Herbst (Germania in autunno, 1977/78) ed infine In einem Jahr mit 13 Monden (Un anno con 13 lune, 1978), un film molto doloroso ed angosciante, seguito al suicidio del suo compagno Armin Meier. Sono tutti lavori nati da fortissime “urgenze” autobiografiche, dalla necessità di un’autoconfessione pubblica liberatoria, mentre nell’elaborazione stilistica talvolta sono dei melodrammi sociali, a volte invece delle opere di tipo “realistico”. E questo il caso del breve episodio di Germania in autunno, realizzato a partire dai drammatici avvenimenti nell’au­ tunno del 1977, quando si susseguirono uno dopo l’altro l’assassi­ nio del capo della Confindustria tedesca Martin Schleyer, il dirotta­ mento di Mogadiscio con il suo tragico bagno di sangue e i “suici­ di” nel carcere di massima sicurezza di Stammheim del “nucleo duro” della RAF. Più che sul terrorismo — come farà nella succes­ sivo tragicommedia grottesca Die dritte Generazion (La terza gene­ razione, 1978) — qui Fassbinder riflette in forma dialogica (le discussioni con la madre, i litigi con il suo compagno di vita) sulla natura della democrazia e dei suoi pericoli in situazioni d’emergen­ za, scegliendo il minimo della messa in scena e il massimo della spontaneità a partire dal sentimento della paura. Il tema del terrorismo ci porta, infine, a ricordare quel grandio­

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so progetto di “storiografia popolare”, di filmare in modo autocoscienziale la storia del proprio paese che è da considerare forse il più straordinario lascito di Fassbinder al cinema moderno. Nessu­ no come lui — né prima né dopo di lui — è riuscito a raccontarci con tanta sagacia la Germania moderna, via via dal tardo Ottocen­ to di Effie Briest, alla Repubblica di Weimar, al nazismo, sino ai tristi anni Cinquanta e la contemporaneità. E in particolare agli anni Cinquanta, all’era del Cancelliere Adenauer, ha dedicato una trilogia (poi completata nel 1981 dai film Lola e Veronica Voss) iniziata da quello che è stato il suo maggior successo intemaziona­ le Il matrimonio di Maria Braun, uno film più rifiniti di RWF. “Era realizzato — lo riconosce un grande formalista come Wim Wenders — in maniera insolitamente accurata per i tuoi film, e si capiva che ci avevi lavorato con tutte le tue forze fino alla fi­ ne” (25). La struttura del film rinunzia, infatti, in maniera totale alle ruvidezze avanguardistiche tipiche degli esordi, per assumere una scansione e un ductus più classicamente romanzesco. Il retaggio e gli stilemi melò si colgono anche nei colori caricati della fotogra­ fia di Michael Ballhaus, poi trasferitosi in America e diventato uno degli “occhi” preferiti da Martin Scorsese. Un melò, però, raf­ freddato dall’ambientazione quotidiana di un drammatico dopo­ guerra tedesco, che segna una classicità finalmente raggiunta attraverso una negazione/riappropriazione del cinema classico, così come è stato un po’ il destino di tutti i ribelli che, dalla “Nouvelle Vague” in poi, hanno reinventato il cinema, traghettandolo lentamente nell’era del Postmodern. Ormai lasciato definitivamen­ te alle spalle il gusto dell’infrazione dei codici linguistici, Il matri­ monio di Maria Braun segna, allora, il loro ragionato recupero. Gli stimoli più vari per compiere la vivisezione di un’epopea dove la morte di Maria Braun segna il ritorno all’ordine “maschile”, sono restituiti da Fassbinder con la sua caratteristica irruenza in un’opera corposissima, una delle vette della sua arte. Ma l’ombra della morte sempre presente nel suo cinema, esplode come un sinistro presagio nell’ultimo, scandaloso Querelle de Brest, tratto dall’omonima opera di Jean Genet, involontario testamento spiri(25)

Wim Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano 1992, p. 156.

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tuale del regista nell’apoteosi, tutta apparente, dell’estetica dello Studio System, uno dei film, insieme a Salò (1975) di Pier Paolo Pasolini, più radicali della storia del cinema.

7. Wim Wenders Iniziamo da alcune informazioni biografiche: Wim (diminutivo di Wilhelm) Wenders nasce a Dusseldorf il 14 agosto del 1945, è dunque un coetaneo di Fassbinder. Dopo la maturità ad Oberhausen nel 1963, studia a Monaco, Freiburg e Diisseldorf, dapprima medicina - seguendo le orme paterne - e poi filosofia, ma interrompe gli studi per trasferirsi nel 1966 a Parigi dove prende lezioni di pittura, lavora come incisore in un atelier di Montmartre e cerca inutilmente di studiare alla celebre scuola di cinema l’Idhec; alla Cinémathèque fran^aise della capi­ tale francese avviene la sua prima formazione cinematografica. Ritornato in Germania l’anno dopo s’iscrive a Monaco alla appena fondata “Hochschule fur Film und Femsehen” (HFF, Scuola supe­ riore di Cinema e Televisione), scrive di cinema e musica sulle riviste “Filmkritik” e “Twen” oltre che sul quotidiano “Siiddeutsche Zeitung”. In questo stesso periodo inizia a realizzare i suoi primi cortometraggi e girando Polizeifilm (Film sulla polizia) nel 1969, viene arrestato e condannato per resistenza alla forza pub­ blica. Il primo lungometraggio di Wenders Summer in the City (1970/71) costituisce il saggio finale di regia per la HFF, cui seguirà Angst des Tormanns beim Elfmeter (La paura del portiere prima del calcio di rigore, 1972), la sua prima vera esperienza professionale e il suo primo film a colori, tratto dall’omonimo romanzo dell’amico Peter Handke (2